Programma del CORSO a.a. 2018-19 1) PARTE GENERALE - “Slide del Corso” (sono disponibili sul mio sito) - Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003, Einaudi, pp. 127-303 (si trova su Feltrinelli a 8,99 e in ebook) 2) APPROFONDIMENTO (A SCELTA) DI UNO TRAI SEGUENTI LIBRI: - Alberto Crespi, Storia d'Italia in 15 film, Laterza

- Franco Montini/Vito Zagarrio, Istantanee sul cinema italiano, Rubbettino - Emiliano Morreale Il cinema d'autore degli anni Sessanta, Il castoro - Stefania Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio - Giovanni Spagnoletti/Antonio V. Spera, Risate all'italiana. Il cinema di commedia dal secondo dopoguerra ad oggi, UniversItalia

3) CONOSCENZA DI 14 FILM RIGUARDANTI L’ARGOMENTO DEL CORSO

Sugli autori o gli argomenti portati, possono (non devono) essere fatte delle tesine di circa 10.000 caratteri (spazi esclusi) che vanno consegnate SU CARTA (e non via email) IMPROROGABILMENTE ALMENO UNA SETTIMANA PRIMA DELL’ ESAME Previo accordo con il docente, si possono portare dei testi alternativi rispetto a quelli indicati INDIRIZZO SUL SITO: http://lettere.uniroma2.it/it/insegnamento/storia-del-cinema- italiano-2018-2019-modulo-laurea-triennale

ELENCO DEI FILM PER L’ESAME (1) 1) Novecento (1975) di : Atto primo o Atto secondo (meglio fare uno sforzo e vedere tutte e due le parti – sarà apprezzato) 2) La grande guerra (1959) di o Uomini contro (1970) di 3) Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci o Amarcord (1974) di 4) Roma città aperta (1945) o Paisà (1946) di 5) Una giornata particolare (1977) di o Vincere (2009) di 6) Tutti a casa (1960) di o Mediterraneo (1991), di Gabriele Salvatores 7) La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittorio Taviani (1982) o L’uomo che verrà (2009) di Giorgio Diritti

ELENCO DEI FILM PER L’ESAME (2)

8) La dolce vita (1960) di Federico Fellini o Il sorpasso (1962) di 9) Uccellacci e Uccellini (1964) di Pier Paolo Pasolini o I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio 10 ) Salvatore Giuliano (1961) di Francesco Rosi o Dillinger è morto (1969) di o Nostra Signora dei Turchi (1968) di Carmelo Bene 11) Un vita difficile (1961) di Dino Risi 0 C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola o La meglio gioventù (2003) di 12) Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi o Buongiorno notte (2003) di Marco Bellocchio 13) Il Divo (2008) di o Il caimano (2006) di 14) Gomorra (2008) di o Diaz (2012) di Daniele Vicari.

I FONDAMENTI DEL NEOREALISMO E L’OPERA DI ROBERTO ROSSELLINI (1)

«Sono un regista di film, non un esteta, e non credo che saprei indicare con assoluta precisione che cosa sia il realismo. Posso dire, però, come io lo sento, qual è l’idea che me ne sono fatta. […] Una maggiore curiosità per gli individui. Un bisogno, che è proprio dell’uomo moderno, di dire le cose come sono, di rendersi conto della realtà direi in modo spietatamente concreto, conforme a quell’interesse, tipicamente contemporaneo, per i risultati statistici e scientifici. Una sincera necessità, anche, di vedere con umiltà gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario. Una coscienza di ottenere lo straordinario con la ricerca. Un desiderio, infine, di chiarire se stessi e di non ignorare la realtà, qualunque essa sia. Ecco perché, nei miei film, ho cercato di raggiungere l’intelligenza delle cose, dando loro il valore che hanno […] perché dare il vero valore a una qualsiasi cosa significa averne appreso il senso autentico e universale. I FONDAMENTI DEL NEOREALISMO E L’OPERA DI ROBERTO ROSSELLINI (2)

Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità. Quando

la verità è ricostituita, si raggiunge l’espressione. Oggetto vivo del

film realistico è il mondo, non la storia, non il racconto. Esso non ha tesi precostituite perché nascono da sé. Non ama il superfluo e lo spettacolare, che anzi rifiuta; ma va al sodo. Non si ferma alla superficie, ma cerca i più sottili fili dell’anima. Rifiuta i lenocini e le formule, cerca i motivi che sono dentro ognuno di noi. È, in breve, il film che pone e si pone dei problemi». (Roberto Rossellini, in R.R. e Mario Verdone, Colloquio sul Neorealismo, in «Bianco e Nero», XIII, n.2, 1952, p.5).

Per definire il cinema di Rossellini

Caratteristiche costanti del cinema rosselliniano sono la narrazione corale, la maniera quasi documentaria di osservare e analizzare il reale ma anche il ritorno alla fantasia e alla spinta verso l’immaginazione. Rossellini andava sperimentando un cinema, spesso interpretato da attori non professionisti e senza una sceneggiatura di ferro, contrapposto alla retorica fascista, interessandosi soprattutto dei piccoli fatti quotidiani, degli “anti eroi”, della realtà minuta ma rivelatrice di un comportamento morale. Per Rossellini, semplificando, il Neorealismo significava soprattutto una posizione morale. L’importante per lui non sono le immagini ma le idee, evitando i luoghi comuni, ma penetrando all’interno delle cose con sincerità. Di conseguenza, giacché il film neorealista cerca la verità, non è tanto la sceneggiatura il fulcro della realizzazione filmica, quanto l’ispirazione. Rossellini arriva ad affermare che il plot diventa il suo nemico, quando lo costringe ad usare solo i nessi logici. Perciò egli dichiara di trovarsi più a suo agio nella realizzazione di film ad episodi, in quanto la sua attenzione è interamente concentrata, su episodi conchiusi. Tutta l’opera di Rossellini ruota attorno al tema della solitudine, inteso come sostrato dell’esistenza umana, dal quale tutti gli altri problemi scaturiscono. L’isolamento dell’uomo nella società, i vari gradi e aspetti dell’incomunicabilità, l’incomprensione, sono gli argomenti del suo discorso filmico, che si concentra, più è meglio, su pochi e ricorrenti elementi per portare l’analisi fino alle estreme conseguenze del ragionamento. Gli esordi di ROBERTO ROSSELLINI (1906- 1977)

- Nato nel 1906 a Roma, da un’agiata famiglia borghese (il padre aveva costruito uno dei primi cinematografi della Capitale), Rossellini inizia a frequentare il mondo del cinema in giovanissima età. Rimasto orfano, lavora prima come rumorista, per poi realizzare, sia come montatore che come regista, per l’Istituto LUCE e la Genepesca sei cortometraggi, alcuni dei quali (i primi due) andati perduti: Daphne (1936), Prélude à l’après-midi d’un faune (1937) , La vispa Teresa (1939), Il tacchino prepotente (1939), Fantasia sottomarina (1940), Il ruscello di Ripasottile (1941). - Nel 1938 collabora alla sceneggiatura di Luciano Serra pilota, diretto da Goffredo Alessandrini e due anni dopo è l’assistente di Francesco De Robertis per Uomini sul fondo (1940), il film da cui molti fanno scaturire il Neorealismo.

- La nave bianca (1941), film prodotto per iniziativa della propaganda della Regia Marina, è il lungometraggio di debutto di Rossellini e il primo film della cosiddetta “Trilogia della guerra fascista”, assieme a Un pilota ritorna (1942) e L’uomo dalla croce (1943). Qui la sua visione è insieme documentaria e propagandistica, ma nasce da una Weltanschaung cattolica fortemente orientata alla constatazione delle sofferenze fisiche e morali della guerra.

Roma città aperta (1945)

Con la fine del regime fascista nel 1943, a soli due mesi dalla liberazione di Roma, Rossellini progetta Roma città aperta (1945), da un soggetto di Sergio Amidei. Realizzato con mezzi di fortuna, il film segna l’inizio della nuova epoca, emblema della volontà di rinascita morale e civile dell’Italia. Esso costituisce un preciso segnale circa la direzione in cui si dovrà muovere il nuovo cinema: trarre ispirazione dalla realtà quotidiana, dare la priorità assoluta alla cronaca e alla forza delle reazioni di fronte alla disumanità di una tragedia che non ha risparmiato nessuno. Trama: Roma città aperta prende spunto da vari fatti di cronaca relativi al periodo in cui, caduto il fascismo, Roma, in attesa dell’arrivo delle truppe americane, fu teatro dello scontro tra le forze della resistenza e l’esercito tedesco. Tra queste storie, uno spicco particolare assumono le traversie di un un capo partigiano comunista, Manfredi (Marcello Pagliero), e di un prete di quartiere, don Pietro (Aldo Fabrizi) che, pur da diverse posizioni ideologiche, affrontano un comune destino di morte. Ad essi si aggiunge il tragico destino di una popolana Pina (Anna Magnani) barbaramente uccisa quando cerca di raggiungere il suo uomo rastrellato dai tedeschi. Il film doveva essere un documentario sul sacrificio del sacerdote romano Don Luigi Morosini, durante l’occupazione ma la storia fu ampliata, girando le riprese di alcuni interni nel vecchio teatro Capitani, in via degli Avignonesi, nel centro di Roma.

Paisà (1946) Con Roma città aperta inizia la cosiddetta “Trilogia della guerra antifascista”, il cui secondo titolo è Paisà (1946), girato con attori non-professionisti. Incentrato sulla tragedia dell’Italia del 1944 al passaggio degli eserciti, si vuole raccontare la sofferenza degli abitanti e la violenza spietata degli occupanti. I diversi episodi compongono un affresco a quadri complementari, sembrano quasi affiancati senza un vero nesso logico, con assoluta, apparente noncuranza, il che costituisce la grande novità del linguaggio di R.R. Trama: Il film si compone di sei episodi: una ragazza, durante lo sbarco americano in Sicilia, insegna la strada agli americani, resta con uno di loro e lo vede morire per mano tedesca. A sua volta si ribella ai nazisti e resta uccisa. Ma, poiché nessuno sa quello che è veramente accaduto, i commilitoni che scoprono il morto sono propensi a credere al tradimento della “sporca ragazza italiana”. Il secondo si svolge a Napoli: un bimbo, Alfonsino, cerca di derubare un soldato di colore. Più tardi è ritrovato, condotto per mano dai genitori perché lo puniscano. Ma i genitori, tra gli sfollati delle grotte di Mergellina, non ci sono più, perché sono morti. Il militare fugge, non avendo il coraggio di riferirlo allo sciuscià. Poi due storie, incentrate su incontri tra personaggi diversi, ambientati a Roma e a Firenze. Segue l’episodio del convento, sull’Appennino in Romagna, dove i frati, in refettorio, davanti a tre cappellani americani (uno cattolico, uno protestante, uno israelita) danno prova di ingenua fede francescana nel loro “fioretto” - il digiuno perché i non cattolici possano convertirsi. Infine alle foci del Po, i partigiani combattono contro i tedeschi insieme a un gruppo di militari americani e inglesi, i quali, tutelati dalle leggi di guerra, riescono a sfuggire alla morte a differenza dei combattenti italiani. Il Resto della produzione di Rossellini sino alla fine del neorealismo Il terzo film della Trilogia della guerra è Germania anno zero (1946), girato nel settore francese di Berlino. Nei film successivi, a partire dal 1948, Rossellini prosegue un suo discorso personale sull’uomo accentuando l’indagine sui sentimenti sul comportamento interpersonale, nonostante pare allontanarsi sempre più da quel dibattito politico culturale legato ai temi della resistenza e dell’antifascismo che si andava formando attorno al cinema e alla letteratura del neorealismo. Per l’appunto nei film L’amore, un film in due episodi e La macchina ammazzacattivi, realizzati fra 1948 e 1951, Stromboli, terra di Dio (1949) e Francesco, giullare di Dio (1950), indicano chiaramente i nuovi interessi dell’autore, o meglio mettono in maggior luce quegli elementi della sua poetica che già erano presenti, ma non preminente, nei film precedenti. Ad esempio Francesco, giullare di Dio è liberamente ispirato ai fioretti di San Francesco e composto di episodi scelti, soprattutto per il loro carattere aneddotico. Gli episodi si susseguono sulla traccia di un esile sviluppo cronologico e narrativo, ma sostanzialmente si presentano come autonomi. Nel film la santità di Francesco è sinonimo di sincerità totale, di anticonformismo, di disponibilità verso gli altri, persino di “follia”, la sola capace di superare gli odi e gli egoismi. La posizione di Rossellini e ancora una volta contro gli schemi tradizionali, contro la falsa agiografia, contro il conformismo ideologico ed estetico. Con Stromboli, terra di Dio, Europa 51 (1952) e Viaggio in Italia (1953), Rossellini da vita a una seconda trilogia, questa volta detta “della solitudine”, incentrata sui personaggi femminili, interpretati dalla moglie Ingrid Bergman dove la macchina da presa sembra non accontentarsi più dei dati del visibile e l’autore si interroga sul vuoto esistenziale, sul silenzio di Dio.

Federico Fellini (1920-1993)

- Nasce a Rimini il 20 gennaio 1920, da una famiglia piccolo-borghese. Il padre è un rappresentante di commercio. Frequenta il liceo classico della città e comincia a fare i primi piccoli guadagni come caricaturista. Nel 1938 sviluppa una sorta di collaborazione epistolare con giornali e riviste, come disegnatore di vignette. - Nel 1939 si trasferisce a Roma, frequentando sin dagli inizi l’ambiente del varietà (Aldo Fabrizi, Erminio Macario e Marcello Marchesi) e cominciando a scrivere scenette e gag per loro nonché per la rivista satirica “Marc’ Aurelio”. - Nell’ottobre del 1943 sposa Giulietta Masina, sua compagna di una vita. - Dopo aver collaborato a varie sceneggiature, diventa uno dei protagonisti del Neorealismo, sceneggiando alcune delle opere più importanti di Rossellini come Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), e lavorando soprattutto con e . - Proprio assieme ad Lattuada debutta nella regia dirigendo Luci del varietà (1951), un malinconico viaggio nell’universo dell’avanspettacolo. Già nel successivo Lo sceicco bianco (1952), scritto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, raccontando il mondo del fotoromanzo, Fellini comincia ad allontanarsi dalla tradizione neorealista, delineando personaggi sospesi tra il fantastico e l’ironico.

FEDERICO FELLINI: Gli Esordi

Regista tra i più significativi di tutta la storia del cinema da lui attraversata con tratti di indiscutibile ed esemplare leggerezza, grandissimo orchestratore di immagini anche erotiche, di visioni e di ritmi narrativi, si è rivelato maestro nel dare corpo alla passione di un sogno che invade lo schermo cinematografico, dove i confini dell'immaginazione vanno a coincidere con quelli della realtà senza tuttavia mai essere condizionati da questa. Approdato a Roma a 18 anni dapprima giornalista e disegnatore umoristico sulla rivista satirica “Marc’Aurelio” (1931-1958), poi sceneggiatore soprattutto per Roberto Rossellini e Pietro Germi, esordisce alla regia nel 1950 dirigendo, in collaborazione con Alberto Lattuada, Luci del varietà.

Con Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954) e Il bidone (1955), che gli procurarono un sempre più ampio successo internazionale, Fellini ha dato un suo originale contributo al superamento del neorealismo. Le inedite soluzioni espressive, le suggestioni oniriche e le ossessioni autobiografiche, già ampiamente presenti nei suoi primi film, sono l’annuncio del formarsi di quell'universo immaginifico, destinato a diventare proverbiale e inconfondibile, di cui sarebbero stati eloquente testimonianza tutta la sua opera degli anni Sessanta FEDERICO FELLINI (2) Il periodo d’oro

Seguono Le notti di Cabiria (1957), La dolce vita (1960), cronaca insuperata dell'Italia ruggente dell’inizio degli anni Sessanta, 8 e 1/2 (1963), uno dei massimi prototipi della riflessione sul mestiere del regista e poi: Giulietta degli spiriti (1965), Fellini Satyricon (1969), I clowns (1970), Roma (1972) e Amarcord (1973), forse l'apogeo dell'autobiografismo felliniano. Sono tutti film, molti dei quali degli autentici capolavori non soltanto del cinematografia italiana, nei quali il diffuso e ambiguo erotismo e il gusto del meraviglioso, la persistenza di una quasi ancestrale appartenenza alla provincia e l'attenzione ai cambiamenti della società del periodo, l'inclinazione alla satira e la costante riflessione del cinema su sé stesso, costituiscono gli elementi di una poetica tra le più coerenti e originali del cinema contemporaneo.

I Vitelloni (1953)

Sceneggiato da Ennio Flaiano (1910 – 1972) e Tullio Pinelli (1908 – 2009) sono cinque, in una cittadina romagnola dell'Adriatico (la Rimini autobiografica del regista ma ricreata a Ostia e dintorni), i “vitelloni” (espressione del dialetto di Pescara, patria di Flaiano) non ancora occupati, né ricchi né poveri, irresponsabili perdigiorno e velleitari figli di mamma: sono Moraldo (Franco Interlenghi), Alberto (Alberto Sordi), Fausto Moretti (Franco Fabrizi), Leopoldo (Leopoldo Trieste) e Riccardo (Riccardo Fellini, fratello poeta di Federico). Piccoli divertimenti, piccole miserie, piccoli squallori, noia grande. Soltanto Moraldo (commentato dalla voce off dello stesso Fellini) riuscirà a staccarsi per andare in città. Tra loro campeggia la figura di Alberto, punto di fusione di violenza satirica, grottesco, patetismo. Federico Fellini in questo film anticipa per moltissimi versi la successiva “commedia all’italiana” per esempio nel personaggio interpretato da Alberto Sordi. Al suo terzo film, il regista rende uno scanzonato omaggio, distaccato e insieme partecipe, alla città e alla sua adolescenza che vedrà poi in Amarcord (1974) una sorta di “prequel”. Leone d'argento al Festival di Venezia.

La dolce vita (1960) (1)

Trama: Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) è un aspirante scrittore inquieto che lavora per un giornale scandalistico, stazionando ogni sera di fronte ai locali di via Vittorio Veneto in cerca di qualche pettegolezzo o foto sensazionale sulle frequentazioni di personaggi del mondo dello spettacolo, di ricchi borghesi o di nobili in cerca di eccessi. Nonostante conviva con Emma (Yvonne Furneaux) una persona molto gelosa e depressa, ha frequentazioni con donne di ogni tipo e ogni ambiente. Nel giorno in cui arriva a Roma Sylvia (Anita Ekberg), un'importante attrice svedese, Marcello accompagna la delegazione in un locale all'aperto tra le rovine romane e poi scappa con la donna per il centro di Roma. Seguiranno altri incontri e frequentazioni, per esempio con l’intellettuale Steiner, sino ad un finale sospeso e insondabile. - Palma d’oro al Festival di Cannes, il film fotografa gli anni di inizi del boom economico, la Roma di via Veneto, degli attori hollywoodiani, quella dei preti e del Vaticano descritti con impietosa precisione: entra in scena Marcello Mastroianni, che diverrà l’attore feticcio di Fellini. - A partire da questo film spartiacque, si acuisce l’interesse per un cinema frammentato, non legato alle tradizionali strutture narrative.

La dolce vita (2)

- Film scandaloso e provocatorio per l’epoca, prodotto da dopo che era avvenuta la rottura con , scritto da Fellini, Tullio Pinelli, Ennio Flaiano, Brunello Rondi e tanti altri non accreditati (come ad esempio Pier Paolo Pasolini), ne La dolce vita si palesa una delle caratteristiche “rosselliniane” di Fellini: il copione, provvisorio come spesso accadeva alle sue produzioni, subisce notevoli metamorfosi in corso d'opera, spesso rimodellandosi intorno ai personaggi e alle situazioni. Per esempio due scene, assenti dalla sceneggiatura originale, sono state completamente "improvvisate” come quella del “Miracolo” - Fellini prese molti spunti dai servizi del fotoreporter Tazio Secchiaroli e lo stesso personaggio di Paparazzo è ispirato alla sua figura. - In questa opera allo sguardo ristretto e ravvicinato delle "piccole voci" del neorealismo, si sostituisce la visione allargata del boom economico, con una panoramica che attraversa trasversalmente più classi sociali. - La dolce vita impone un nuovo modo di guardare alla realtà: traccia un quadro più ampio e trasfigurato, capace di tratteggiare il respiro di un'intera epoca, al punto da diventare il paradigma non solo poetico ma soprattutto storico del suo immaginario. Da cui, l’espressione stessa del titolo e l’immediato riferimento ai “ruggenti Anni Sessanta” della Roma d’allora.

Amarcord (1973) Con: Pupella Maggio, Armando Brancia, Magali Noël, Ciccio Ingrassia, Nando Orfei, Luigi Rossi, Bruno Zanin,

Trama: Ambientato all'inizio della primavera del 1933 (riferimento certo dato dalla corsa della VII° edizione dellaMille Miglia), in una Rimini onirica ricostruita a come sempre a Cinecittà, come la ricordava Fellini in sogno, si narra la vita nell'antico borgo (o e' borg, come a Rimini conoscono il quartiere di San Giuliano) e dei suoi più o meno particolari abitanti: le feste paesane, le adunate del fascismo, la scuola, i signori di città, i negozianti, il suonatore cieco, Gradisca donna procace ma un po' attempata alla ricerca di un marito, il venditore ambulante, il matto, l'avvocato, quella che va con tutti, la tabaccaia dalle forme giunoniche, i professori di liceo, i fascisti, gli antifascisti e il magico conte di Lovignano, il misterioso motociclista pazzo ma soprattutto i giovani del paese, adolescenti predi da una prepotente "esplosione sessuale". Tra di loro è messo in particolare risalto il personaggio di Titta Biondi (pseudonimo per Luigi "Titta" Benzi, amico d'infanzia del regista) e tutta la sua famiglia: il padre, la madre, il nonno, il fratello e gli zii, di cui uno matto, chiuso in un manicomio. Attraverso le vicende della sua adolescenza, il giovane Titta inizierà un percorso che lo porterà, piano piano, alla maturità. Il titolo diventato un neologismo della lingua italiana è derivato della frase romagnola "a m'arcord" ("io mi ricordo").

Amarcord (2) Sceneggiato da Tullio Pinelli e F.F., è una delle vette dell’arte del regista riminese. "Molte delle inquadrature di Amarcord sembrano l'edizione per così dire critica del 'kitsch' fascista, della sua iconografia rurale, della sua propaganda industriale, colta nel momento piccolo-borghese, con la cultura delle nostre zone depresse. Forse solo Il conformista, prima di Amarcord, ci aveva restituito un fascismo visto così dall'interno, al di fuori delle solite, oziose decalcomanie. E' utile aggiungere che il film funziona anche sul piano del puro e semplice spettacolo e che tutto vi è al proprio posto: a cominciare dal numeroso stuolo degli attori, noti e sconosciuti, professionisti e occasionali (con particolare riguardo al folgorante intermezzo di Ciccio Ingrassia, nel ruolo dello zio pazzo). Rispettiamolo, dunque questo "Amarcord": questo film intenzionalmente modesto, ma molto più realizzato, concluso di tante altre opere felliniane, partite con maggiori ambizioni". (Callisto Cosulich, "Paese sera", 19 dicembre 1973)"

Amarcord resta il più autobiografico dei film del regista riminese: il titolo stesso è un'affermazione e una conferma di ciò - a m'arcord "mi ricordo“ in dialetto romagnolo - ed è proprio questo che Fellini ricorda attraverso gli occhi del suo alter ego (che per una volta non è Marcello Mastroianni, ma Bruno Zanin), il suo paese, la sua giovinezza, i suoi amici e tutte le figure che gli giravano attorno. L'elemento autobiografico in Fellini, comunque, è preponderante, basti pensare altri film come Intervista, Roma o I Vitelloni di cui Amarcord sembra un prequel: i ragazzi ne I vitelloni erano gli stessi ma cresciuti e in Moraldo, il giovane che alla fine del film abbandona il paese natale per andare a vivere in una grande città, riconosciamo il giovane Fellini, che lascia Rimini per Roma. Un'ulteriore vena di "passato" la troviamo nelle musiche del maestro Nino Rota: musiche dolci, leggere come i ricordi che accompagnano e mostrano agli occhi degli spettatori. Il ritorno di Fellini in Romagna si celebra dunque attraverso i piccoli accadimenti di una Rimini in pieno trionfalismo fascista tutt'altro che esaltato. Il ventaglio di una vita si apre nella coralità di un'opera degna del miglior Fellini, non a caso premiato con l'Oscar. Grazie alla collaborazione dello scrittore Tonino Guerra, davanti agli occhi dello spettatore sfila una ricchezza tale di volti e luoghi, divertimenti e finezze, malinconie e suggestioni, da far apprezzare il film a tutto il mondo. Attraverso i toni della commedia venata di malinconia, Amarcord distilla generosamente umori e sensazioni. Tutto ciò è riconoscibile nel film ma, come è stato detto, è la sostanza poetica che salta agli occhi. I protagonisti di Amarcord, soprattutto le figure di contorno, non solo sono caricature di altrettante persone colte in un particolare momento storico; piuttosto, sono tipi universali, che vanno oltre la dimensione temporale per diventare immortali come, appunto, la poesia. Nino Rota (1911-1979) - Giovanni "Nino" Rota Rinaldi è stato con l’attore alter-ego Marcello Mastroianni (1924-1996), uno dei massimi collaboratori di Fellini. Nato a Milano, studia al Conservatorio Giuseppe Verdi della stessa città; è uno straordinario talento precoce tanto che nel 1922, a soli 11 anni, compone L'infanzia di San Giovanni Battista. Successivamente affina le sue eccezionali qualità studiando privatamente con Alfredo Casella a Roma e conseguendo il diploma in composizione musicale al Conservatorio di Santa Cecilia nel 1930. - Nel 1930 si reca negli Stati Uniti, e vi rimane due anni, per alcuni corsi di perfezionamento vincendo una borsa di studio a Filadelfia. - Nel 1933 realizza la sua prima colonna sonora per Treno popolare di Raffaello Matarazzo. Alla fine degli anni 40 incontra Federico Fellini e poi musica Lo sceicco bianco. Da allora tra i due artisti si instaura un'amicizia lunga trent'anni e una collaborazione per numerosi film. -Ha composto le musiche anche per due capolavori di Visconti, Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il Gattopardo (1963). Nel 1972 riscuote grande successo con la colonna sonora de Il Padrino, che non ottenne la candidatura all'Oscar in quanto non si trattava di musiche originali. Rota comunque vincerà l‘Oscar nel 1974 per le musiche originali del film Il Padrino - Parte II. Muore nel 1979 poco dopo la fine delle registrazioni della sua ultima colonna sonora per Prova d'orchestra del suo amico Fellini.

FEDERICO FELLINI (3) L’opera tarda Con le opere successive (Il Casanova di Federico Fellini, 1976; Prova d'orchestra, 1979; La città delle donne, 1979; E la nave va, 1983; Ginger e Fred, 1986; Intervista, 1987; La voce della luna, 1990, il suo ultimo film con ) mano mano scema progressivamente il talento di Fellini e le opere spesso sono molto meno riuscite del passato. Le allegorie del presente si fanno più angosciate, si accentua la tendenza del racconto all'apologo e alla polemica diretta (contro la tv ad esempio) e nello stile si assiste a un accentuato manierismo, quel “fellinismo” che oltre agli epigoni in tutto il mondo aveva contagiato lo stesso maestro.

La sua morte nel 1993, seguita e vissuta come un evento nazional- popolare, chiude il periodo classico del cinema italiano. Premiato con cinque Oscar: nel 1957 per La strada (1954), nel 1958 per Le notti di Cabiria (1957), nel 1964 per 8 e ¹/² (1963), nel 1976 per Amarcord (1973) e nel 1993 con un Oscar alla carriera poco prima della morte.

Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

- Poeta, scrittore, critico, semiologo, autore di testi teatrali e cineasta, Pasolini nasce a il 5 marzo 1922 e dopo molti spostamenti dovuti alla professione del padre, ufficiale di carriera, trascorre la giovinezza tra la città emiliana (dove ha studiato all’Università) e la materna Casarsa (in Friuli dove vede le sue vere radici/poesie in dialetto friulano ed infatti la sua prima raccolta poetica pubblicata a ventanni nel 1942 si intitola proprio “Poesie a Casarsa”). - La sua giovinezza è segnata da diversi traumi: il rapporto con il padre, la morte del fratello partigiano e soprattutto l’espulsione nel 1949 dal PCI “per indegnità morale e politica”. Segue il trasferimento a Roma e il lavoro di sceneggiatore. Escono la raccolta di poesie La meglio gioventù (1954), Le ceneri di Gramsci (1957) L’usignolo della chiesa cattolica (1958) e i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). - Il suo primo lavoro cinematografico è per La donna del fiume (1954) di Mario Soldati, scrive i dialoghi delle Notti di Cabiria (1956) di Fellini e inizia un intenso sodalizio cinematografico con (La notte brava del 1959 “il primo film veramente mio” tratto da Ragazzi di vita). Finalmente nel 1961 il debutta alla regia con Accattone. - “ Devo dire, a distanza di anni, che i film di Charlot, di Dreyer, di Ejzenstein hanno avuto in sostanza più influenza sul mio gusto e sul mio stile che il contemporaneo apprendistato letterario”.

Pier Paolo Pasolini

“Perché sono passato dalla letteratura al cinema ? Questa è, nelle domande prevedibili in un’intervista, una domanda inevitabile, e lo è stata. Rispondevo sempre ch’era per cambiare tecnica, che io avevo bisogno di una nuova tecnica per dire una cosa nuova,o, il contrario, che dicevo la stessa cosa sempre, e perciò dovevo cambiare tecnica: secondo le varianti dell’ossessione. Ma ero solo in parte sincero nel dare questa risposta: il vero di essa era in quello che avevo fatto fino allora. Poi mi accorsi che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi appartenente alla stessa lingua con cui si scrive. ma era, essa stessa, una lingua... [...] Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica”. (Da Una premessa in versi)

La teoria di Pier Paolo Pasolini (1)

- Il “cinema di poesia” è “formalistico”: tiene conto della specificità del linguaggio del cinema e fa sentire attraverso l’uso della “soggettiva libera indiretta” (in letteratura il “discorso libero indiretto”) la presenza autorevole della mdp: alternanza di obbiettivi, macchina a mano, carrelli esasperati, ecc. - Nel particolare stile espressivo di P. domina la matericità/fisicità dei volti (di attori non professionisti e non) e la frontalità pittorica di Masaccio e Piero della Francesca appresa all’università studiando Arte da Roberto Longhi (1890 – 1970). - L’importanza di Pasolini non sta solo nella scoperta (epica) del mondo delle borgate ma anche di non averlo tradotto piattamente in immagini di tipo naturalistico.

La teoria di Pier Paolo Pasolini (2)

- Gli inizi del cinema pasoliniano si situano sotto il segno della riflessione letterario-politica del grande leader marxista Antonio Gramsci: egli «parlava di opere “nazional-popolari”, diceva che dovevano essere

epiche, cioè religiose e perciò sacre. La risonanza di Gramsci fu per me determinante e nella parte iniziale della mia attività cinematografica - che si è svolta nel pieno della cultura degli anni Cinquanta - ho voluto realizzare (in un primo tempo inconsciamente) l’idea gramsciana di opera d’arte. E, ai tempi della giovinezza di Gramsci il popolo, in quanto classe dominante, con una cultura del tutto scissa dalla cultura borghese, esisteva davvero. Ho fatto quindi i miei film per lo stesso destinatario, benché sapessi che si trattava di un popolo completamente ideale». Questa fase “nazional-popolare” va da Accattone (1961) sino a Uccellacci e Uccellini (1966), uno dei cosiddetti “film della crisi”.

Accattone, l’0pera di debutto (1961)

La trama: Accattone è il soprannome di Vittorio, un sottoproletario romano il cui stile di vita è improntato al “sopravvivere” giorno per giorno. L’uomo si fa mantenere da una prostituta, Maddalena, “sottratta” ad un napoletano finito in carcere. Vittorio evita la vendetta degli amici del carcerato, incolpando Maddalena di tutto ed abbandonandola - la donna finisce in carcere. Rimasto senza soldi, Accattone conosce la fame, poi però, incontra Stella, una ragazza che cerca convincere a prostituirsi, ma intanto se ne innamora. L'amore per Stella spinge Accattone a cercarsi un lavoro, guadagnandosi da vivere in modo onesto, ma la “redenzione” dura poco. Dopo un piccolo furto s'imbatte nella polizia e nel fuggire cade dalla motocicletta e muore, compiendo così il destino che pesa su di lui (e su tutti quelli come lui) sin dall’inizio. Importanza: • si da diritto di cittadinanza al sottoproletariato romano e al suo ambiente sino ad allora escluso in modo sistematico dal cinema italiano. • nel cast si ritrovano già molti dei collaboratori fissi di Pasolini (, i fratelli Franco e Sergio Citti, Tonino Delli Colli, Nino Baragli) e a loro presto si aggiungeranno Laura Betti e Ninetto Davoli. Pasolini si rivela da subito un grandissimo talento cinematografico, una personalità genialmente sincretica nell’ assorbire influenze e stimoli diversi. • Con questo film per il quale il Ministero dello Spettacolo si inventerà un “divieto ai minori di 18 anni” prima inesistente, inizia un’autentica persecuzione, fatto di denunzie e di processi da parte dello Stato e della borghesia italiana. Una persecuzione esplicatasi in 33 processi, già iniziata nel 1949, che durerà per tutta la vita e non cesserà neanche dopo il suo assassinio all’idroscalo di Ostia nel novembre 1975. ACCATTONE(2) Accattone può essere considerato la trasposizione cinematografica dei precedenti lavori letterari di Pasolini e viene presentato a Venezia in una sezione informativa dividendo in due la critica. Sviluppando la sua idea di narrazione epica e tragica, per la prima volta ha trasferito in immagini la sua “sympatheia” ideologica, erotica e religiosa per il sottoproletariato romano. In esso convivono un’inconsapevole grazia, una feroce innocenza, un cattolicesimo pagano, insomma quei valori morali -culturali contadini, fondamentali per P.P.P., destinati a soccombere alla borghesia e soprattutto al benessere piccolo-borghese come accade nel successivo Mamma Roma (1962). - Il superamento del neorealismo e la teoria cinematografica di P.P.P. (cfr. il volume di saggi Empirismo eretico). Per Pasolini, il cinema è la riproduzione audiovisiva della realtà, mentre la lingua, cioè il patrimonio comune che permette lo scambio comunicativo, o ancora il codice sulla base del quale il film viene compreso dallo spettatore, è la realtà stessa. Nel rapporto che si instaura tra il cinema come piano-sequenza infinito (registrazione ininterrotta della realtà) e il film quale montaggio dei frammenti di tale riproduzione, nasce lo spazio della scrittura e dello stile.

UCCELLACCI E UCCELLINI(1966)

«Uccellacci e uccellini è stato il mio film che ho amato e continuo ad amare di più, prima di tutto perché come dissi quando uscì è "il più povero e il più bello" e poi perché è l'unico mio film che non ha deluso le attese. Collaborare con lui [Totò] "reduce da quegli orribili film che oggi una stupida intellighenzia riscopre" fu molto bello: era un uomo buono e senza aggressività, di dolce cera. Voglio ricordare anche che oltre che un film con Totò, Uccellacci e uccellini è anche un film con Ninetto, attore per forza, che con quel film cominciava la sua allegra carriera. Ho amato moltissimo i due protagonisti, Totò, ricca statua di cera, e Ninetto. Non mancarono le difficoltà, quando giravamo. Ma in mezzo a tanta difficoltà, ebbi in compenso la gioia di dirigere Totò e Ninetto: uno stradivario e uno zuffoletto. Ma che bel concertino.» (P.P. Pasolini) UCCELLACCI E UCCELLINI (2)

Trama: Totò e suo figlio Ninetto vagano per le periferie e le campagne circostanti Roma. Durante il loro cammino incontrano un corvo. Come viene precisato durante il film da una didascalia: «Per chi avesse dei dubbi o si fosse distratto, ricordiamo che il corvo è un intellettuale di sinistra - diciamo così - di prima della morte di Palmiro Togliatti.» Il corvo narra loro il racconto di Ciccillo e Ninetto (anch'essi interpretati da Totò e Ninetto), due monaci francescani a cui San Francesco ordina di evangelizzare i falchi ed i passeri. I due frati non riusciranno a raggiungere il loro obiettivo: per questa mancanza verranno rimproverati da San Francesco ed invitati ad intraprendere nuovamente il cammino di evangelizzazione. Chiusa la parentesi del racconto nel racconto, il viaggio di Totò e Ninetto prosegue; il corvo li segue e continua a parlare in tono intellettualistico e altisonante. I protagonisti, in un contesto fortemente visionario, incontrano alcuni proprietari terrieri che ordinano a Totò e Ninetto di allontanarsi dalle loro proprietà e finiscono per sparare contro i due, che non vogliono obbedire; una famiglia, che vive in condizioni assai degradate, a cui Totò intima di abbandonare la propria casa; un gruppo di attori itineranti a bordo di una Cadillac; i partecipanti al "1º convegno dei dentisti dantisti"; un uomo d'affari di cui Totò è debitore. In seguito, prima i due si ritrovano ai funerali di Togliatti (1893-1964) e poi incontrano la prostituta Luna. Alla fine i due, stanchi delle chiacchiere del corvo, lo uccidono e se lo mangiano.

UCCELLACCI E UCCELLINI (3)

Un film «ideo-comico», che sarebbe l’umorismo applicato alla politica, l’impegno ideologico superato dalla favola, insomma il cervello scavalcato dalla poesia. Pasolini era un intellettuale scontento, che sentiva l’insufficienza degli schemi razionali della cultura di sinistra, intuendo come la storia proceda per vie ignote e misteriose. Uccellacci e uccellini è appunto la confessione,sincera e confusa, di un momento di crisi successivo alla sconfitta, ma espresso in un tal cocktail di polemica culturale e di slanci lirici, e così vagamente risolto sul piano del racconto, che il film assume il carattere di un’agenda di fatti personali. Il film consiste grosso modo di due episodi, ambedue interpretati da Totò e dal giovane Ninetto Davoli: due figure picaresche assunte a simbolo dell’umanità incamminata verso l’ignoto. La realtà è così indecifrabile che in loro non desta alcuna, sorpresa l’arrivo di un corvo parlante. L’animale dichiara di venire dal paese dell’ Ideologia, d’esser figlio del dubbio e della coscienza. Il resto lo fa Totò, che col suo impagabile istinto comico, servito da una mimica stavolta magistralmente controllata, riassume e affranca il film mutando un personaggio bislacco nella vivente idea dell’assurdo. Musica di Ennio Morricone, titoli di testa cantati da Domenico Modugno. Menzione speciale della Giuria al Festival di Cannes per Totò. LE VARIE FASI DEL CINEMA DI PPP

Il cinema di P. viene distinto in 3 o meglio 4 periodi: la fasi nazional-popolare va da Accattone (1961) sino al “film della crisi” Uccellacci e Uccellini (1966); segue il cosiddetto

“cinema d’elite” in cui esplora le forme del mito sia nella versione “classica” (Edipo re, 1967; Medea, 1969) che in quella di apologhi moderni (Teorema, 1968 e Porcile, 1969) sino a Appunti per un’Orestiade africana (1970); abbiamo infine la “trilogia della vita” (Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972 e Il fiore di una mille e una notte, 1974) e a conclusione l’ “abiura” di Salò (1975). Ognuna di queste fasi è legata ad una riflessione politico- poetica.

PER RICAPITOLARE IL CINEMA DI PPP - L’iniziale ricerca di una purezza primigenia e rivoluzionaria nel sottoproletariato, l’esaltazione della “nudità barbarica” delle borgate romane - una sorta di baluardo contro l’alienazione e la prepotenza annichilente della piccola-borghesia - si va trasformando nella speranza della lotta popolare nel Terzo Mondo contro il mondo neocapitalista.

Segue da l 1971 la “trilogia della vita” dove aderisce alle chimere di un sesso liberato salvo accorgersi che anch’esso è stato fatto oggetto di mercificazione da parte del Potere (e provocare in modo involontario, col successo commerciale del Decameron, un’ondata di film soft-core che niente hanno a che fare con la sua opera). Quando capisce che all’antica tolleranza popolare in materia di sesso (trovata nei classici della letteratura) si è sostituita una pseudo-libertà consumistica sottilmente repressiva, allora si arrende alla definitiva fine della sua amata società contadina e il Dominio borghese gli appare totale e totalizzante. Si compie allora l’approdo al nichilismo e al pessimismo assoluto di Salò (1975) con cui viene pienamente alla luce quell’istinto di morte che sempre ha accompagnato la sua produzione artistica.

Alcune premesse fondamentali sulla commedia in Italia - Manca una tradizione durante il periodo del muto (sino inizio anni Trenta) a differenze di tutte le altre grandi cinematografie: Stati Uniti (Chaplin, Keaton), Francia (R. Clair) e Germania (E. Lubitsch). - La commedia in Italia nasce all’avvento del sonoro con un impianto, piccolo-borghese e realistico simile a quello che sarà della commedia all’italiana. Gli uomini che mascalzoni, 1932, di è la prima grande Commedia del nostro cinema. - Nella commedia viene meno o è meno evidente il modello autoriale basato sulla preminenza della messa in scena. Grande importanza degli attori e degli sceneggiatori spesso importanti quanto i registi. - La commedia in Italia diventa rigogliosa sul ceppo di fenomeni come il varietà o delle riviste satiriche come il “Marc’Aurelio”. - E si sviluppa soprattutto con la figura di Totò negli anni Cinquanta.

Elementi distintivi della commedia in Italia rispetto a quella di Hollywood . Assenza di caratteri “raffinati” e alto-borghesi tipici della commedia brillante americana (la screwball-comedy o sophisticad-comedy). . Assenza della bizzarria comica scatenata e fisica dello Slapstick . Presenza predominante di figure e ambienti piccolo- borghesi. . La presenza della morte o la mancanza del rassicurante lieto fine (l’happy-end). . L’uso del grottesco a partire da elementi minuti della Quotidianità, appreso ad esempio dall’attore e autore romano Ettore Petrolini (1984-1936).

Continuità tra la commedia degli anni Cinquanta e quella “all’italiana” 1) la rilettura critica del costume e della storia dell’Italia attraverso le lenti dell’ironia o della satira; 2) la prevalente realizzazione “en plein air (non in Studio come vuole la tradizione americana); 3) la presenza di uno star-system al maschile prima Totò, poi i quattro “mattatori”: Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi; 4) la militanza sulle riviste satiriche “Il Marc’Aurelio” e/o “Il Bertoldo” di molti sceneggiatori e registi (Mario Monicelli, Luigi Comencini, Dino Risi, Age-Scarpelli, Scola, Steno, Sonego, ecc.). Gli elementi caratteristici della “commedia all’italiana” . Il profondo legame con il boom economico (1958-1963 all’incirca) e con l’evolversi dei costumi nell’Italia di allora; . Mancanza o quasi di eroi positivi, critica caustica agli eterni vizi degli italiani; . Grandi numeri nella produzione e nell’esportazione, impensabili un decennio prima

Foto di Mario Monicelli nei decenni (1915-2010) Gli esordi di Mario Monicelli

Toscanaccio di Roma anche se per molto tempo si è detto di Viareggio, nasce il 15 o 16 maggio 1915 da una famiglia colta: il padre Tommaso Monicelli era un noto giornalista e autore teatrale antifascista. Da giovane vive tra Viareggio e Milano, frequenta gli Studi della Tirrenia , si laurea a Pisa ma soprattutto collabora a Milano ad una rivista di fronda antifascista «Camminare… » (1932-1935), fondata e diretta dal cugino Alberto Mondadori chiusa in seguito a un intervento della censura. Qui scrive di cinema. Il passo alla pratica è breve: con il cugino Alberto realizza nel 1934 un corto in 16 mm (dal testo di Edgar Allan Poe), Il cuore rivelatore e l’anno successivo sempre in coppia con il cugino Il ragazzi della via Paal (dal notissimo testo di Molnar) che vince al concorso di Venezia dei passoridottisti in 16 mm. Il premio di questo concorso era

assistere un regista famoso, l’ungherese Gustav Machaty, che stava girando alla Tirrenia Ballerine (1936) . Più interessante è la successiva assistenza a Lo squadrone bianco (1936) di Augusto Genina a cui seguiranno molte altre esperienze successive che lo formeranno ad un artigianato di alta classe (con Camerini, Mattoli, Gentilomo, Freda, ecc.). Segue l’esperienza di Pioggia d’estate (1937).

Pioggia d’estate (1937)

Il debutto nel lm in Pioggia d’estate con lo pseudonimo di Michele Badiek. Alcuni fotogrammi del film sono stati ritrovati nel 2011 nell'archivio privato del figlio del direttore della fotografia e montatore Manfredo Bertini. GLI INIZI DELLA CARRIERA Finita la II° guerra mondiale, conosce Stefano Vanzina detto Steno (1917-1988, il papà dei fratelli Vanzina Carlo ed Enrico); con lui Monicelli farà coppia fissa sino al 1953 realizzando insieme otto film di cui la metà con Totò - tra cui alcuni influenzati fortemente dall’atmosfera e dalle ansie economico-esistenziali del dopoguerra. In questo stesso periodo collabora anche con diversi registi tra cui Raffaello Matarazzo, Goffredo Alessandrini, Giuseppe De Santis e soprattutto Pietro Germi da cui apprenderà l’arte di calare la fiction dentro i drammi sociali.

Con Steno che proveniva dalla rivista satirica “Marc’Aurelio”, passano alla regia in un debole film comico Al diavolo la celebrità (1949), a cui seguono il ben più interessante Totò cerca casa (1949) e soprattutto Guardie e ladri (1951). E’ con Dino Risi l’iniziatore alla fine degli anni Cinquanta della “commedia all’italiana”.

Guardie e ladri (1951) Con Totò, Aldo Fabrizi, Rossana Podestà,Ave Ninchi, Carlo Delle Piane. Trama: Ambientato nella Roma del dopoguerra , il film narra di Ferdinando Esposito, un ladruncolo sfuggito a una guardia e che questi deve ricatturare, pena la perdita del posto. Dopo inseguimenti vari, i due finiscono per divenire amici, scoprendo di avere molti problemi che li accomunano, nonostante la totale discordanza dei ruoli.

- L’integrazione tra comicità napoletana e romana - L’impianto neorealista - La fotografia di Mario Bava, futuro regista di horror.

Il film ebbe una complessa storia produttiva . La sceneggiatura iniziale era di Piero Tellini, da una idea originaria di Federico Fellini. In un primo tempo si propose il film a Anna Magnani nella parte della ladra. Il compito di dirigere la pellicola andò poi al regista Luigi Zampa e quella del protagonista a Peppino De Filippo. Infine film passò nelle mani di Mario Monicelli e Steno, i quali si erano già impegnati nella sperimentazione di una sorta di “parodia del neorealismo”. Il titolo del film è simbolico, è un riferimento all’omonimo e antichissimo gioco da bambini.

I soliti ignoti (1958)

Con: Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Totò, Carla Gravina, Claudia Cardinale, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Memmo Carotenuto.

Trama: uno scombinato quintetto di ladri di mezza tacca tenta un furto a un Monte di Pegni nella periferia romana. Il colpo va buco, ma gli aspiranti ladri da strapazzo si consoleranno con …

GLI ELEMENTI SALIENTI DEL FILM

- Il film sancisce il passaggio di consegne tra Totò e i nuovi interpreti della commedia all’italiana; - Scelte attoriali (Vittorio Gassman comico, gli esordi di Claudia Cardinale e Tiberio Murgia); - La sceneggiatura perfetta (Age, Scarpelli, Suso Cecchi D'Amico) dove già compare il tema della morte, tipico di Monicelli; - il film nasce come parodia dei coevi film noir francesi per esempio a Rififi (Du Rififi ches les hommes, 1955) di Jules Dassin oppure americani; - la fotografia in bianco & nero di Gianni Di Venanzo che cattura la Roma sottoproletaria dell’epoca; - le musiche jazzistiche di Piero Umiliani; - Avrà due sequel: Audace colpo dei soliti ignoti (1960) di Nanni Loy e I soliti ignoti vent’anni dopo (1985) di Amanzio Todini - Ha avuto due remake negli Stati Uniti: Crackers (I soliti ignoti made in Usa, 1984, con nel finale il salmone al posto della pasta e ceci) di Louis Malle e Welcome to Collinwood (Id., 2002) di Anthony e Joe Russo con George Clooney in un cameo che rifa il personaggio di Totò. LA GRANDE GUERRA (1959)

Con: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Romolo Valli, Folco Lulli, Mario Valdemarin, Livio Lorenzon, Bernard Blier, Tiberio Murgia, Elsa Vazzoler. Trama: Dopo aver tentato di imboscarsi, il romano Oreste Jacovacci e il lombardo Giovanni Busacca finiscono con la divisa dei fanti al fronte dove vivono da opportunisti un po’ fifoni il conflitto 1914-18, cercando di sopravvivere ad una guerra che non sentono propria. Catturati dagli austriaci, sapranno però morire con dignità. - Scritto da Luciano Vincenzoni, Age & Scarpelli e Monicelli, lontanamente ispirato al racconto Due amici di Guy de Maupassant, si contamina il racconto storico con la commedia. - Due grandi attori inseriti all’interno di un affresco collettivo composto da tante figure ben costruite. - Sagace equilibrio tra epica e macchietta, antiretorica e buoni sentimenti, denunzia degli inutili massacri bellici con un finale tutto sommato patriottico, anche se il film venne considerato all’ epoca un insulto alla Storia patria. - Leone d'oro ex aequo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini. - Lo splendido cinemascope in bianco&nero di Giuseppe Rotunno. I Grandi film di MARIO MONICELLI (1) I COMPAGNI (1963) Con: Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Annie Girardot, Folco Lulli, Bernard Blier, Raffaella Carrà. Trama: “Torino alla fine dell’Ottocento” in una fabbrica tessile. Guidati da un militante socialista , il Prof. Senigallia (Mastroianni), gli operai si battono per ridurre da 14 a 13 ore l’orario giornaliero di lavoro che poteva arrivare allora anche a 16 ore. La repressione si abbatte sullo sciopero indetto dai lavoratori ma il

futuro sembra riservare un possibile futuro migliore… In bilico tra Marx e De Amicis, il film (scritto da Age&Scarpelli e Monicelli) ha delle parti più deboli dove è evidente l’intenzione di creare un’atmosfera nazional- popolare e parti molto valide piene di verità. Splendida la fotografia “antica” di Giuseppe Rotunno.

L’ARMATA BRANCALEONE (1966) Con: Vittorio Gassman, Catherine Spaak, Gian Maria Volonté, Enrico Maria Salerno, Maria Grazia Buccella, Trama: In un periodo non precisato di un fantasioso Medioevo, un gruppo di popolani sottrae a un cavaliere di passaggio la pergamena che lo nomina signore del paese di Aurocastro in Puglia. Contattano allora un nobile decaduto, Brancaleone da Norcia, perché si finga legittimo proprietario del feudo e li conduca a prenderne possesso. Il gruppo parte, ma durante il cammino si imbatte in una serie di esilaranti disavventure I Grandi film di MARIO MONICELLI(2)

«L’ispirazione venne così: facciamo un film su un medioevo cialtrone, fatto. di poveri, di ignoranti, di ferocia, di miseria, di fango, di freddo; insomma tutto l’opposto di quello che ci insegnano a scuola, Le Roman de la Rose, Re Artù, e altre leziosità. [...] È forse il film a cui sono più affezionato, perché trovo che sia il mio più originale». (Monicelli) L’armata Brancaleone (1966) riprende lo schema de I soliti ignoti con un gruppo di simpatici perdenti che si imbarca in un’impresa per cui è sono inadeguati, coniugandolo in una insolita forma di raod movie e operando una riuscita parodia dei kolossal hollywoodiani. E’ contraddistinto dall’uso di una divertente parlata completamente inventata dagli sceneggiatori.

AMICI MIEI (1975) La trama: le avventure di 5 amici, dei cinquantenni immaturi (Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Duilio Del Prete) che coltivano l’antico gusto toscano delle burle ora estrose, ora crudeli. Il gruppo è tenuto insieme la voglia di giocare e di non prendere nulla sul serio, nemmeno sé stessi. Nell’ultima delle loro “zingarate” coinvolgeranno il Righi, un gretto pensionato che viene convinto ad entrare in una fantomatica banda di gangster. • Venata di misantropia (e di misoginia), è una commedia di costume iniziata da Pietro Germi e dopo la sua morte passata a Monicelli, piena di grinta, scatto e ricchezza di trovate comiche. • E’ guidato da una “filosofia” che sembra dirci che la cattiveria sia rimasta l’unica forma di libertà rimasta, pur in una premeditata vaghezza dell’ambientazione. • Con 7 milioni di spettatori nella stagione 1975-76 incassò più dello Squalo di Spielberg. IL MARIO MONICELLI TARDO

Già in Un borghese piccolo piccolo (1977, dal primo libro di Vincenzo Cerami, con Alberto Sordi ) non si ride proprio più, è la fine della commedia all’italiana. A partire dagli anni Ottanta l’estro di Monicelli (e dei suoi sceneggiatori) si è andato progressivamente esaurendo, a parte il caso di Speriamo che sia femmina (1986), il suo film migliore e più originale dell’ultimo periodo. Il regista toscano ha cercato di proseguire, senza mai eguagliarlo, il cinema picaresco precedente (Il marchese del Grillo, 1982; Bertoldo, Bertoldino e cacasenno, 1984; I picari, 1990, ecc.) oppure si è lanciato in alcune rievocazioni storiche-letterarie “serie” come Il fu Mattia Pascal (1986) o Rossini, Rossini (1992). Ha realizzato diversi titoli ma in definitiva si tratta di prove minori : ad esempio il suo ultimo film, Le rose del deserto (2006), è interessante più che altro per l’aspetto ideologico: la rievocazione della campagna di Libia durante la II° guerra mondiale che si trasforma in un ulteriore atto di accusa contro la stupidità e l’inutilità della guerra. Si è suicidato a 95 anni

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Gli esordi di Dino Risi (1)

- Regista di più di 50 film, Dino Risi nasce a Milano il 23 dicembre 1916, in una famiglia borghese liberale e valdese.

Fa parte di un nutrito gruppo di giovani intellettuali e aspiranti registi amanti del cinema che ruotavano intorno alla capitale lombarda, tra cui lo scrittore e cineasta Mario Soldati, Alberto Lattuada, Luigi Comencini – i due insieme fonderanno nel 1947 la Cineteca Italiana -, Marco Ferreri e il fratello minore Nelo Risi (poeta scrittore e anche regista: Diario di una schizofrenica, 1968) e in parte di Monicelli. Scrive degli sketch per la rivista satirica “Il Bertoldo” fondata da Angelo Rizzoli nel 1936 e diretta da Cesare Zavattini per seguire il successo del romano “Marc’Aurelio” (nata nel 1931). . Inizia a fare il critico cinematografico ma poi passa alla prassi: il suo primo contatto con il cinema si ha nel 1941 come aiuto di un aiuto (Alberto Lattuada) per un film di Mario Soldati Piccolo Mondo Antico (e poi per Giacomo l’idealista (1942, sempre di Soldati). A partire dall’8 settembre 1943 Risi si rifugia in Svizzera dove inizialmente viene internato e dove conosce quella che diventerà sua moglie Claudia Mazzocchi, anche lei figlia di un medico – dal loro matrimonio nasceranno due figli: Claudio e Marco destinati in particolare il secondo, a diventare anch’essi registi. Gli esordi di Dino Risi (2) - Dopo la guerra Dino Risi (1916-2008) si laurea in psichiatria seguendo le orme del padre medico ma abbandona quasi subito la professione per dedicarsi alla sceneggiatura, al documentario e alla pubblicità con un vulcanico produttore Gigi Martello. - Girati diversi documentari e un cm di metacinema Buio in sala (1950), debutta nel 1952 con un dignitoso film interpretato da bambini Vacanze col gangster a cui segue un secondo lm dedicato al mondo del cinema Viale della speranza (1953) con un giovanissimo Marcello Mastroianni. - Più significativa la partecipazione a Amore in città (1953), il canto del cigno dell’ esperienza neorealista, in cui già si riconosce la mano del futuro maestro della “commedia all’italiana” nell’episodio Paradiso per quattro ore. - Amore in città Regia di , Dino Risi, , Federico Fellini, Francesco Maselli, Cesare Zavattini, Alberto Lattuada. Prodotto da Marco Ferreri, ideato e supervisionato da Cesare Zavattini, più che un film a episodi è, o voleva essere, un’inchiesta giornalistica filmata in 6 parti.

Le commedie popolari degli anni Cinquanta: Il segno di Venere (1955) Il primo film importante di Risi è Il segno di Venere, una delle più divertenti commedie degli anni Cinquanta scritta (tra gli altri) da Ennio Flaiano e Age/Scarpelli. Con Sophia Loren, Franca Valeri, , Alberto Sordi, Peppino de Filippo. Trama: Agnese, napoletana, e Cesira, milanese, vivono a Roma in casa del padre della prima e di una zia nubile. Cesira lavora come dattilografa mentre la cugina è in cerca di un lavoro. Se Agnese viene fatta segno delle attenzioni molto invadenti degli uomini, Cesira invece vorrebbe sempre trovare l'anima gemella. Una chiromante la informa che si trova sotto il segno di Venere e che il periodo è favorevole agli incontri amorosi... La commedia popolare degli anni Cinquanta: Poveri ma belli (1956) Nello stesso anno del Il segno di Venere Risi dirige Pane, amore e... terza parte della celebre serie iniziata con Pane amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini (1916 – 2007), il maggior successo italiano degli anni Cinquanta, legata al filone del “neorealismo rosa”. Risi si inventa una serie altrettanto fortunata e tipica degli anni Cinquanta, quella dei Poveri ma belli (1956). Su soggetto di Risi, sceneggiato insieme a Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, è il miglior prodotto di quel neorealismo rosa che qui si trasferisce in città, un raro esempio di commedia di successo non affidata a comici di professione, ma all’abilità del copione e della regia. Nato come film a low budget, salverà la Titanus dal fallimento. Seguiranno due sequel meno significativi ma molto redditizi al box office: Belle ma povere (1957) e Poveri milionari (1959). Trent’anni dopo Risi realizzerà un brutto remake di Poveri ma belli, Giovani e belli (1996), il suo ultimo lavoro per il grande schermo.

Le commedie di Risi alla fine degli anni Cinquanta . Tra le commedie significative “pre boom economico” ricordiamo ancora La nonna Sabella (1957) con la caratterista Tina Pica. . Poi a partire 1959 inizia la fase più scatenata di Dino Risi: oltre al Vedovo (con Alberto Sordi) si segnala Il mattatore con Vittorio Gassman che diventerà l’attore preferito di Risi (15 film insieme!). . Qui Gassman da prova di tutto il suo istrionismo camaleontico che passa da un personaggio all’altro. La trama: in una serie di episodi narrati in un lungo flash- back e spesso da una voce fuori campo, si mostra il protagonista Gerardo, che diventa un asso della truffa. Inutilmente la moglie tenta di redimerlo: la sua è una vocazione irresistibile come si dimostra nel finale. . La sceneggiatura ha più di un debito con I tromboni (1956) di Federico Zardi una commedia nella quale Gassman interpretava nove personaggi, ognuno rappresentativo del costume italiano: dallo “sportivo” al “consigliere delegato”, dall’“intellettuale marxista”, all’“onorevole”.

Il sorpasso (1962) Con: Vittorio Gassman, Jean-Louis Trintignant, Catherine Spaak, Claudio Gora, la Lancia Aurelia B24 sport supercompressa. Trama: per Bruno Cortona (Gassman), quarantenne ossessionato dalla furia di vivere e dal timore della vecchiaia, correre in auto diventa una rivincita sui fallimenti della vita privata. Coinvolgerà nelle sue avventure Roberto Mariani, uno studente timido e introverso (Trintignant) sino ad un tragico epilogo. Punti essenziali del film: . Sceneggiato da Risi, Ettore Scola e Ruggero Maccari (1919 – 1989), il film capta l’atmosfera del “boom”, della società del periodo agli inizi degli anni Sessanta con un’euforia rara e insieme con un’ammirevole sapienza nel passare dall’agro al dolce, dal comico al grave. . “Il gran merito del film è non solo di aver così bene isolato e descritto quel personaggio emblematico, ma anche di averlo giudicato, con la catastrofe finale frutto della sua incoscienza; di avere insomma insinuato qualche dubbio di inquietudine nel tempo delle vacche apparentemente grasse...” (Masolino D’Amico). Il sorpasso (1962) (2) ll coesistere della tensione “vitalista” e dello sguardo dell’ “entomologo” in un grande road movie ante litteram. . L’influenza sul cinema americano (Easy Rider di Dennis Hopper, 1969) . La precisa delineazione dei due caratteri antagonisti. . Gli spazi della società del boom economico: la spiaggia, la strada, la sala da ballo, i riti della vacanza. .L macchina come simbolo del boom (La Lancia Aurelia B24 un “gioiello” dell’epoca. . L’uso della canzonetta in funzione dramamaturgica e ambientale. La produzione di Dino Risi dagli anni Sessanta in poi . Le grandi commedie negli anni Sessanta: La marcia su Roma (storico-resistenziale, 1962, Tognazzi/Gassman), I mostri (1963, 20 episodi) , Il giovedì (1963, Walter Chiari), Il gaucho (1964, Gassman), L’ombrellone (1965, Enrico Maria Salerno), Operazione San Gennaro (1966, un “rififì” alla napoletana), Il tigre (1967, Gassman), Straziami ma di baci saziami... (1968, Manfredi /Pamela Tiffin), Vedo nudo (1969, Manfredi). . Due film “profetici”: Nel nome del popolo italiano (1971), Mordi e fuggi (1973). . Tra dramma, saga e letteratura: Profumo di donna (1974), Telefoni bianchi (1975), Anima persa (1976), La stanza del vescovo (1977), Fantasma d’amore, (1981), Scemo di guerra (1985). . Le ultime commedie: I nuovi Mostri (1977 diretto insieme a Monicelli e Scola), Primo amore (1978), Caro papà (1979). . La decadenza: Teresa (1987), Il vizio di vivere (1989), Giovani e belli (1996). Per ricapitolare il cinema di Dino Risi (1) - Oltre alla consueta dualità tragico-comico, in Risi agisce un’altra coppia binaria: “ una complice partecipazione al vitalismo dei singoli personaggi” insieme a “una radiografia critica e distaccata del loro comportamento”. Tale vitalismo è in bilico tra cinismo e moralismo. In questa fertile ambiguità nasce un cinema mai (o quasi) sbilanciato in direzione di una chiara politicizzazione (a differenza di Mario Monicelli). - La precisa delineazione dei caratteri principali. - L’anti-intellettualismo programmatico di Risi. - Il gusto di mostrare il cinema nel cinema e il mondo dei media. - Risi non è un pessimista. Tuttavia anche in lui si attua una visibile trasformazione: dall’ottimismo degli anni Cinquanta si passa ad una vena sempre più cupa. - Più che la nostra tradizione di farsa o le maschere della commedia dell’arte, il suo modello è la commedia sofisticata americana (soprattutto Billy Wilder). Per ricapitolare il cinema di Dino Risi (2)

- E’ un regista di set che lavora spesso sull’improvvisazione con gli attori. - La grande forza delle sue commedie sta nell’ aver catturato lo “Zeitgeist”, lo “Spirito del tempo” (con l’uso delle canzonette, le mode, il linguaggio giovanile, ecc.). Da ciò l’alto aspetto documentario del suo cinema e l’abilità nell’integrare finzione e realtà. - Sono privilegiate le forme di narrazione caleidoscopica (il road- movie, il film ad episodi, ecc.). E’ una forma di drammaturgia “a stazioni” o dell’episodio concluso in se stesso, un modo di narrare “aperto”, lontano da quello della sceneggiatura americana. Luigi Comencini (1916 -2007)

- Ha realizzato nella sua imponente carriera più di 40 opere tra cinema e la televisione. Ha diretto i maggiori attori italiani, fra cui Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida nella celebre commedia Pane, amore e fantasia (1953). Ha avuto quattro figlie: le registe Cristina e Francesca, la scenografa Paola e la direttrice di produzione Eleonora. -Nato a Brescia l’8 giugno 1916 a 8 anni si trasferisce in Francia con la famiglia dove vi resterà sino al 1933. Rientrato a Milano studia architettura e con l’amico Alberto Lattuada si dedica alla ricerca dei film costituendo così il primo nucleo di quella che poi sarà la “Cineteca italiana”. Nel dopoguerra alterna l’attività di critico cinematografico a quella di sceneggiatore. Nel 1948 debutta con un film ambientato tra gli scugnizzi di Napoli Proibito rubare che già lo segnala come il più attento trai registi italiani ai problemi dell’infanzia e dell’adolescenza. Segue la prima delle sue commedie, L’imperatore di Capri (1949) con Totò ma il grande successo giunge con Pane, amore e fantasia e il sequel Pane, amore e gelosia (1954). - Comencini forse ancora più di Monicelli e Risi è il regista della commedia degli anni Cinquanta anche perché oltre ai primi due Pane,amore… gira anche due film-chiave dell’epoca: Mariti in città (1957) e Mogli pericolose (1958) in cui l’erotismo fa capolino nell’umorismo (ovviamente nelle forme castigatissime dell’epoca). Oltre a altri successi come La bella di Roma,(1955), realizza La finestra sul Luna Park (1957), una opera alla De Sica, in cui torna ai temi prediletti dell’infanzia ma in toni quasi da favola.

Luigi Comencini (2)

Alla vera e propria “commedia all’italiana” (tutti film su sceneggiatura di Age & Scarpelli) offre un suo apporto molto particolare con Tutti a casa (1960), A cavallo della tigre (1961) al limite del dramma e Il commissario (1962) che anticipa il poliziesco impegnato. E’ stato detto che in questi casi Comencini applica “i meccanismi e l’ideologia della commedia all’italiana a film che commedie non sono o che lo sono sino ad un certo punto” Il successivo La ragazza di Bube (1963, dal romanzo di Carlo Cassola) è il primo film drammatico della sua carriera. In seguito realizzerà opere molto varie con sempre o quasi al centro il tema dell’infanzia e della crescita in cui si insegna spesso che il bambino deve sempre cavarsela da solo: da Incompreso (1967) a Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo

Casanova ,veneziano (1969, una commedia in costume) da Le avventure di Pinocchio (1972, miniserie tv) a Cuore (1984 miniserie tv), da (1980) a La storia (1986) e Un ragazzo di Calabria (1987) . Marcellino pane e vino (remake del celebre film spagnolo, 1991) è stato il suo ultimo film a cui a collaborato alla regia la figlia Francesca. Luigi Comencini (3)

- Tra le opere migliori della sua carriera possiamo ricordare ancora due gialli: La donna della domenica (1975, Fruttero & Lucentini) e Il gatto (1977). 0ppure alcuni “racconti morali” cupi e “catastrofici” tipo Lo scopone scientifico (1972) o L’ingorgo (1979, su modello di Roma di Fellini). - In Comencini dunque – una delle maggiori personalità del cinema classico italiano - c’è oltre all’al tema dell’infanzia, il prevalere del carattere della favola e una marcato interesse per le figure femminili che a volta divengono protagoniste dei suoi film (in concomitanza con i testi letterari di Carlo Cassola, Elsa Morante). - Perciò il regista bresciano (che nella sua famiglia reale è sempre stato circondato da donne) predilige mettere in scena spesso dei forti caratteri femminili e di donne lottatrici.

Tutti a casa (1960)

Con : Alberto Sordi, Serge Reggiani,Martin Balsam Eduardo De Filippo, Carla Gravina,Claudio Gora. Trama: L’8 settembre del 1943, il sottotenente Alberto Innocenzi viene sorpreso dall'armistizio. La sua compagnia si squaglia e con sempre meno uomini, vaga per il Veneto; poi cerca di tornare a casa, nell'Agro pontino. Il gruppo ha diverse peripezie e, quando la meta è raggiunta, l'ufficiale con l'unico soldato rimastogli, il Geniere Assunto Ceccarelli, viene arruolato a forza e portato nella Napoli in rivolta per l’arrivo degli americani. Mentre i nazisti uccidono anche Ceccarelli, Alberto capisce che bisogna riprendere le armi e partecipare alla resistenza. Marcello Fondato ha collaborato alla sceneggiatura insieme a Age & Scarpelli. Il critico Morando Morandini ha scritto: «Forse il miglior film di Comencini, una delle rare mediazioni felici tra neorealismo e commedia italiana...»

GLI ESORDI DI ETTORE SCOLA (1931-2016)

Ettore Scola nasce a Trevico in Irpinia, (Avellino), il 10 maggio 1931 e dal nome del suo paesino nel 1972 trarrà un film “militante” Trevico/Torino (sottotitolo: “Viaggio del Fiat-Nam”). A 4 anni è a Roma con la famiglia e da subito ha una precoce passione per il disegno e la caricatura - ciò lo porterà dopo la guerra a accostarsi al “Marc’Aurelio”, la rivista romana di Vito De Bellis che è stata una tappa obbligata per i futuri autori della commedia nel dopoguerra. Da essa passarono moltissimi sceneggiatori e registi del cinema italiano come Fellini, Monicelli, Comencini, Risi, Age-Scarpelli, Steno, Sonego, Maccari, ecc. Dal 1947 - a sedici anni quindi - la collaborazione di Scola comincia a diventare sempre più stretta con vignette e sketch. Finita la scuola è indotto dalla famiglia a entrare all’università prima a medicina (tre anni) e poi a giurisprudenza. Senza successo. Invece si intensificherà sempre di più la collaborazione alla rivista e Scola presto ne diventerà una colonna con una propria rubrica, “Radio Marc’Aurelio”. GLI ESORDI DA SCENEGGIATORE

. Nel 1950 inizia il lavoro nel cinema da negro (Gostwriter come dicono gli americani) - da Metz e Marchesi passa a collaborare con il caporedattore del “Marc’Aurelio” Ruggero Maccari - già sceneggiatore affermato con cui avrà un lunghissimo sodalizio. Il primo film in cui si vede una sua decisa mano, è Canzoni di mezzo secolo (1952) di Domenico Paolella sul cui set conosciuto un regista che sarà particolarmente importante per lui insieme a Dino Risi (1916-2008), Antonio Pietrangeli (1919-1968). . Nel 1953 firma ufficialmente una sceneggiatura: Fermi tutti arrivo io! di Sergio Grieco. . Per Pietrangeli la coppia Scola/Maccari scriverà: Lo scapolo (1955), Nata di marzo (1958), Adua e le compagne (1960), Fantasmi a Roma (1961) e La parmigiana (1963). Per Risi invece: Il mattatore (1959), La marcia su Roma (1962), I mostri (1963), Il gaucho (1964). . Trai film più importanti ricordiamo soprattutto: Il sorpasso (1962, di Dino Risi) e Io la conoscevo bene (1965, di Antonio Pietrangeli). I PRIMI FILM DA REGISTA DI SCOLA (1) . Scola debutta dietro la mdp nel periodo in cui il boom economico è finito e la commedia all’italiana sta raggiungendo il suo zenit. Il suo primo film è Se permette parliamo di donne (1964) nove ritratti femminili sulla scia del cinema al femminile di Antonio Pietrangeli ma piuttosto sapidi e costruiti sulla misura del gigionismo di Vittorio Gassman – un’opera poco apprezzata dalla critica. Gassman resterà l’attore più usato da Scola anche nei film successivi come La congiuntura (1964) e L’arcidiavolo (1966). Nel successivo Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968) abbiamo come interpreti Nino Manfredi, Alberto Sordi e Bernard Blier. . Il primo film importante di Scola regista arriva nel 1969 interpretato da Ugo Tognazzi: Il commissario Pepe. Qui si riprende il tema della corruzione della provincia italiana ma senza quella cattiveria grottesca esemplare narrata da Pietro Germi in Signore e signori (1965).

Dramma della gelosia (1970)

Con Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca (1970) scritto del regista con Age & Scarpelli, autori anche della sceneggiatura dell'affine Straziami, ma di baci saziami (1968) di Dino Risi, si racconta una storia a tre: il muratore Oreste (Marcello Mastroianni) si innamora della bella fioraia Adelaide (Monica Vitti). Per lei lascia la famiglia, ma l'amore si interrompe all’arrivo del più giovane e aitante Nello (Giancarlo Giannini), che, dopo essere diventato amico della coppia, finisce per sedurre Adelaide. Segue la tragedia Si tratta di una commedia divertente e dal ritmo sostenuto fino all'amaro finale. Uno dei motivi di fascino sta nella struttura interpellante, con gli attori che parlano allo schermo per riferirsi al giudice (e quindi allo spettatore) di un invisibile processo. Come nel citato film di Risi, si ricorre al linguaggio della sottocultura, al fotoromanzo, ai rotocalchi, alla cronaca rosa oppure nera, per raccontare - attraverso la lente deformante del pittoresco - la vita di personaggi umili e impossibilitati a vivere il proprio destino. Mastroianni vincerà a Cannes la Palma per la migliore interpretazione maschile.

C’ERAVAMO TANTO AMATI (1974) Credevamo di cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi.

- Nella storia di tre amici e di una ragazza, trent'anni di storia italiana. Si conoscono in montagna facendo i partigiani e affrontano il dopoguerra pieni di energia e di idee, ma l'infermiere rimane infermiere e il professore meridionale passa da una delusione all'altra. Solo il più smagato dei tre, l'avvocato Gianni, diventa ricco e potente. Quando si incontrano dopo molto tempo, non avrà il coraggio di confessare agli amici il proprio successo, ottenuto grazie a imbrogli, ad affari avventurosi, a un ricco matrimonio. - Parabola sociale e morale dell'Italia, proiettata nel microcosmo di quattro amici che affrontano il passaggio dall'idealismo al disincanto in modi diversi. - Si traccia un bilancio del dopoguerra, tingendo inevitabilmente l'esito di amarezza e il ritratto storico dell'Italia del dopoguerra assume le sembianze di affresco intimo e personale - Narrazione costruita con un continuo intreccio di flashback, con l'uso di immagini di repertorio, con inserti onirici, con attenzione al costume del nostro paese (vedi l'episodio di Lascia o raddoppia?), con espliciti omaggi a Fellini, Antonioni, De Sica, Ejzenstejn, O'Neill, e con un richiamo continuo all'ideologia ed alla politica. Una giornata particolare (1977)

Trama: 6 maggio del 1938, giorno della visita di Hitler a Roma. In un casermone popolare, Antonietta, moglie di un usciere e madre di sei figli, prepara la colazione, sveglia la famiglia, aiuta nei preparativi per la parata. Una volta sola, inavvertitamente, apre la gabbietta del merlo che va a posarsi sul davanzale di una appartamento di fronte al suo. Bussa alla porta, ad aprirle è Gabriele, ex annunciatore dell'EIAR che sta preparando la valigia in attesa di andare al confino perché omosessuale. Mentre la radio continua a trasmettere la radiocronaca dell'incontro tra Hitler e Mussolini, Antonietta e Gabriele si confronteranno l'uno nell'altro. Si tratta di una delle vette del cinema di Scola, autore anche della sceneggiatura scritta con Ruggero Maccari e di Maurizio Costanzo. Aperto da 6’ di cinegiornali a contestualizzare il momento storico, questo Kammerspiel si contraddistingue per una inedita Sofia Loren e per i movimenti di una macchina da presa mobilissima, con la fotografia color seppia di Pasqualino De Santis, con un'atmosfera ovattata che, meglio di qualunque altra, comunica una dolorosa sensazione d'attesa e che dinamizza gli ambienti chiusi del film.

LA FINE DELLA COMMEDIA ALL’ITALIANA . C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974) . Amici miei (Mario Monicelli, 1975) . Un borghese piccolo piccolo (Mario Monicelli, 1977) . Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977) . I nuovi mostri (Monicelli, Risi e Scola, 1977) . La terrazza (Ettore Scola, 1980)

Alla metà degli anni Settanta nascono nuove forme di commedia ad esempio: Fantozzi (Luciano Salce, 1975) interpretato da Paolo Villaggio, Febbre da cavallo (Steno, 1976) oppure il debutto di Nanni Moretti con Io sono autarchico (1976) MARCO FERRERI(1928-1997)

Nato a Milano il 11 maggio 1928 e morto d’infarto a Parigi il 9 maggio 1997, due giorni prima di compiere 69 anni, Ferreri interrompe gli studi di veterinaria. Scopre il cinema realizzando dei cm pubblicitari per una ditta di maraschino di cui è rappresentante. All’inizio degli anni Cinquanta fonda con Riccardo Ghione, la cine-rivista neorealista

“Documento mensile” di cui escono però solo due numeri. Dopo alcune altre esperienze produttive non molto felici (soprattutto il film- inchiesta, Amore in città coordinato da Cesare Zavattini), lascia l’Italia per trasferirsi in Spagna a vendere attrezzature cinematografiche. Incontra lo scrittore Rafael Azcona (1926-2008) che diventerà il suo sceneggiatore di fiducia (fisso sino a Dillinger e nei credits di La grande bouffe, L’ultima donna, Ciao maschio) - ha poi lavorato con Luis Berlanga e Carlos Saura cioè con due dei principali autori del cinema spagnolo. Alcune somiglianze superficiali con Francesco Rosi e quelle più profonde con Luis Buñuel (1900-1983). . IL MARCO FERRERI SPAGNOLO(1958-1960) Trasferitosi in Spagna, lì Ferreri realizza tre film : a El pisito (1958), in cui un giovanotto sposa una ottantenne per prenderne l’appartamento, segue un film su commissione non scritto da Rafael Azcona Los cichos (1959, bloccato dalla censura franchista) che segue «4 giovani di Madrid di estrazione piccolo- borghese, alla ricerca dei loro sogni di “promozione sociale”». Infine abbiamo il culmine di questa esperienza con El cochecito (1960). Il film sembrerebbe riallacciarsi ad Umberto D di Vittorio De Sica, dimostra invece l’ ormai

profonda lontananza dall’ esperienza neorealista e l’emergere di una ideologia nichilista. Dalla storia di un settuagenario, Don Anselmo, appartenente alla ricca borghesia spagnola che avvelena la famiglia pur di avere una carrozzina a rotelle ed andare in giro con i suoi amici paralitici – Ferreri (e Azcona sceneggiatore e autore del racconto da cui è tratto) sviluppano l’aspetto della noia e dell’inutilità della vita piuttosto che i temi socio-politici legati alla vecchiaia. Il film vince il premio Fipresci alla Biennale di Venezia del 1960. Gli elementi base del Ferreri spagnolo sono dunque l’humour nero, e poi il gusto del paradosso e la esibizione di personaggi di “diversi”. Sono gli stessi elementi che ritroveremo e che continueranno a caratterizzare il mondo cinematografico di Ferreri sino a Dillinger. In particolare in El cochecito compare quel rapporto fra i personaggi e gli oggetti, chiamati a colmare una carenza negli affetti, che sarà un tema sempre ricorrente nel cinema del nostro autore. .

IL PRIMO FERRERI ITALIANO (1961-1969) La prima fase “italiana” del cinema ferreriano sino a Dillinger è morto (1969) comprende 5 lungometraggi: Una storia moderna: l’ape regina (1963), La donna scimmia (1964) L’uomo dei 5 palloni (1964, editato come un episodio di 35’ per il film ad episodi Oggi, domani, dopodomani 1965, e poi intero con il titolo Break-up), il film a episodi (quattro)

Marcia nuziale (1966) e L’harem (1967). E due episodi di film collettivi: Gli adulteri in Le italiane e l'amore (1961) e Il professore in Controsesso (1964). Tutta questa produzione, non sempre della stessa riuscita qualitativa, si può riassumere sotto l’egida della poetica del grottesco. In questa fase si consuma il totale distacco dall’ottica neorealistica del narrare cronachistico, sostituita invece dal gusto per l’abbozzo. Spesso, troppo spesso di Ferreri è stata posta in evidenza la provocatorietà dei soggetti (con gli scandali provocati dai suoi film), dimenticando invece lo stile che è invisibile ma molto efficace: Ferreri, come è stato detto, è un pittore di acquarelli, più che di affreschi. IL PRIMO FERRERI ITALIANO (2) Il primo film italiano del regista milanese L’ape regina (1963), un’opera scandalosa per l’epoca che viene duramente censurata (potrà riuscire solo con un altro titolo: Una storia moderna) rappresenta un durissimo attacco all’istituto cattolico del matrimonio, è una prima impietosa radiografia dell’impossibilità della coppia - una delle ossessioni fisse del cinema di Ferreri - con una unica eccezione La cagna, 1972 dove appunto la protagonista accetta scientemente la sua inferiorità per entrare finalmente in sintonia con l’uomo. Tale impossibilità è dovuta al pessimismo cosmico, anarchico del regista. Un’altra caratteristica: l’affezione di Fereri ai suoi personaggi che non sono mai negativi; lo stile “sciatto”, o meglio un apparente anti-stile. Esso “deve trasmettere un ribollente disagio attraverso una quieta dinamica fenomenologica”, è apparentemente senza guizzi, secondo una regola, una formula inventata dallo stesso regista che afferma: “montare un film contro come l’ho girato e che ho girato contro come l’ho scritto”.

Dillinger è morto (1969) Con: Con Michel Piccoli (Glauco), Anita Pallenberg (la moglie Anita), Annie Girardot (Sabina) Trama: Rientrato in casa mentre la moglie dorme, un ingegnere -designer, Glauco, si prepara una ricca cena. Trova una vecchia pistola, la rimette in ordine, si proietta filmini, scivola nel letto della cameriera Sabina, elimina la moglie e s'imbarca su un veliero. Qui inizia la definitiva maturità artistica di Ferreri con la sua poetica “dell’assurdo” perfettamente incarnata in un film che esibisce quanto è stato definito “il tempo della malinconia” catturato tramite lunghi piani-sequenza. Si abbandona il realismo per abbracciare un punto di vista lieve, dove tutto sembra possibile. In Dillinger non solo si percepisce forte l’eco della contestazione del ‘68 ma anche le ascendenze culturali dovute all’amicizia e alla frequentazione del pittore e cineasta Mario Schifano (1934 – 1998). “Nelle apparenze di un esercizio di stile quasi sperimentale (per tre quarti della sua durata soltanto Piccoli davanti alla cinepresa) è un notturno happening sulla nevrosi, l'alienazione e l'orrore del quotidiano.” La struttura: Un atto unico con un prologo e un epilogo. Per le sue ascendenze culturali si sono ricordate moltissime opere da I sotterranei del Vaticano di André Gide con l’omicidio di Lafcadio, al racconto Erostrato di Jean-Paul Sartre o al testo teorico L’uomo ad una dimensione di Herbert Marcuse.

La grande abbuffata (1973) Con: Tognazzi, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret, Michel Piccoli, Andréa Ferréol Trama: Ugo cuoco, Michel produttore televisivo, Marcello pilota, Philippe magistrato, sono amici e membri di un ristretto club di buongustai. Per un week-end gastronomico raggiungono la villa di Philippe. Mentre iniziano i lauti pasti, Marcello fa giungere 3 prostitute che vanno via, accortesi dell'indifferenza degli ospiti. Solo Andrea, una maestra, accetta l'invito di restare per tutta la durata della tragedia. Di tragedia, si tratta, poiché il continuo, abbondante e raffinato "abbuffarsi" risulta fatale per i quattro… Tra La cagna (1972) e il primo dei "film francesi", Non toccate la donna bianca (1974) sempre con la coppia Mastroianni-Deneuve, Ferreri realizza La grande abbuffata (1973), altro film-scandalo internazionale (al Festival di Cannes), altra sceneggiatura di Azcona, in cui inscena una sorta di crapula interiorizzata, allargata per estensione al sesso. E’ il rovesciamento del buñueliano “fascino discreto della borghesia”, in cui i protagonisti rimangono a tavola come inchiodati. I personaggi di Ferreri hanno deciso un emblematico suicidio, e se ne vanno uno alla volta, in una sorta di smisurato «cupio dissolvi». Come in Dillinger l’impianto realistico sfuma nell’apologo fantastico, unendo come è stato scritto “i toni furibondi di una predica quaresimalista” alla “empietà provocatrice di un pamphlet satirico”.

Ciao Maschio (1978)

Con: Gérard Depardieu, Marcello Mastroianni Trama: In una New York metastorica e surreale Gerard Lafayette è in rapporto con un megalomane direttore di un museo delle cere della Roma antica, un solitario anarchico italiano, un gruppo di femministe teatranti (fra cui Angelica che s'innamora di lui) e soprattutto con un piccolo scimpanzé di cui diventa padre putativo.

Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 31º Festival di Cannes, Ciao maschio scritto con Gérard Brach e Rafael Azcona, girato in inglese, appartiene al novero dei film catastrofici (come Il seme dell’uomo, 1969) ma senza toni disperati, anzi è quasi un film ottimista. Sembra – è stato scritto - “una favola angosciosa e ilare che s'avvale, come spazio drammatico, di una New York magica e allucinante, come vista dall'oblò di un'astronave”.

L’ULTIMO FERRERI Dopo Chiedo asilo (1979 con Roberto Benigni), negli anni Ottanta Ferreri diventa un po’ manierato o manierista, a partire da Storie di ordinaria follia (1981, tratto dall’omonimo libro di Charles Bukowski), seguito da Storia di Piera (1983) e Il

futuro è donna (1984). Il suo sguardo non manca certo di lampi di anticonformismo, umori acidi, gusto per la dismisura e eccesso surreale, come, in I Love You (1986). Tuttavia sembra anche un po’ smarrirsi nella ripetizione della propria cifra stilistica, quasi sorpreso dalla trasformazione sociale, come nei successivi: Come sono buoni i bianchi (1987), La casa del sorriso (1991), La carne (1991), Diario di un vizio (1993). L’ultimo film, Nitrato d’argento (1996), sorta di riflessione sul cinema e la vita, appare quasi il testamento spirituale del più anarchico, irregolare e spiazzante regista mai nato in Italia.

CARATTERI DEL CINEMA DI FRANCESCO ROSI (1922- 2015) (1)

- Le parole chiave del cinema di Rosi sono: POTERE, STORIA (e ovvio SPETTACOLO).

- In una filmografia composta da 17 lungometraggi + un reportage tv su Napoli, Diario napoletano (1992), il regista partenopeo ha quasi sempre affrontato il rapporto con il Potere anzi con i Poteri occulti o meno dello Stato. - Poche sono le eccezioni a tale tema: Il momento della verità (1965) sul mondo della corrida; la fiaba barocca C’era una volta (1967) o la cine-opera Carmen (1984) e infine Cronaca di una morte annunziata (1987, dall’omonimo romanzo di Gabriel Garcia Marquez).

CARATTERI DEL CINEMA DI FRANCESCO ROSI (1922- 2015) (2) - Rosi ha trattato i grandi momenti storici e i grandi problemi del nostro paese: La Grande guerra in Uomini contro (1970); il fascismo in Cristo si è fermato ad Eboli (1979); e poi tutti i mali dell’Italia post- bellica: la mafia (Salvatore Giuliano, 1961, Dimenticare Palermo 1991) con le sue ramificazioni internazionali (Lucky Luciano, 1973); la camorra (La sfida, 1958) e la speculazione edilizia (Le mani sulla città, 1963); l’emigrazione (I magliari, 1959); la strategia della tensione (Cadaveri eccellenti, 1976); i grandi delitti politici impuniti del nostro paese (Il caso Mattei, 1972) o il terrorismo e la fine della civiltà contadina (Tre fratelli, 1981). - In questo campionario dei mali dell’Italia ha fatto a volte ricorso alla letteratura “impegnata”: Emilio Lussu (Armungia , 1890–1975), Leonardo Sciascia (Racalmuto 1921 – Palermo 1989), Carlo Levi (Torino 1902 – Roma 1975) o Primo Levi ( Torino 1919 – 1987).

ALCUNE NOTIZIE BIOGRAFICHE su FRANCESCO ROSI

- Nasce a Napoli 15 novembre 1922 da una famiglia benestante della borghesia napoletana. -Studia giurisprudenza e frequenta i teatri dei Guf; fa amicizia con alcuni scrittori e intellettuali napoletani come Raffaele La Capria, Aldo Giuffrè e Giuseppe Patroni Griffi, con i quali poi collaborerà. - Subito dopo la guerra si accosta al mondo dello spettacolo come assistente di Ettore Giannini per l'allestimento teatrale di 'O voto di Salvatore Di Giacomo. - A 26 anni compie la sua prima esperienza cinematografica in Sicilia con la Terra trema (1948) di . Segue un lungo tirocinio sempre accanto a Visconti, Antonioni, Monicelli, Luciano Emmer ma anche Raffaello Matarazzo. Dopo aver collaborato a delle sceneggiature (Bellissima, 1951, di Visconti; Processo alla città, 1952, di Luigi Zampa) gira alcune scene di Camicie rosse (1952) di Goffredo Alessandrini e nel 1956 co-dirige con Vittorio Gassman il film Kean, genio e sregolatezza. - Fatta come molti altri della sua generazione questa lunga gavetta, passa finalmente alla regia da solo con La sfida (1958), il suo primo film politico che parla della camorra a Napoli .

Uomini Contro (1970)

Con Mark Frechette, Gian Maria Volonté, Alain Cuny, Franco Graziosi.

La Trama: Ambientato nell'Altopiano di Asiago e in particolare sul Monte Fior durante la I° guerra mondiale, intorno al 1916, il film è incentrato sulle vicende della Divisione, comandata dall’inumano generale Leone (Cuny), nella quale presta servizio il giovane sottotenente Sassu (Frechette), ex studente universitario interventista. Egli è alle dirette dipendenze del comandante della Compagnia, tenente Ottolenghi (Volontè), veterano disilluso della guerra e con idee socialiste, che in diverse occasioni si opporrà agli ordini inutili o inutilmente punitivi dei Superiori. Sassu è testimone dell'impreparazione dell'Alto Comando, della inadeguatezza degli armamenti, dei tentativi di ribellione dei soldati che, stanchi e stremati dal prolungarsi dei combattimenti giungono a ribellarsi alla follia del maggiore Malchiodi (Graziosi), che pretende di fucilare un soldato ogni dieci. Il maggiore è poi ucciso dai soldati, incoraggiati dal rifiuto del tenente Sassu ad eseguire l'ordine, ed egli risponde personalmente al genereale del comportamento degli uomini con la morte per fucilazione, non prima di avere chiesto la grazia per i suoi soldati «che hanno già subito la decimazione in battaglia».

Uomini Contro (1970) (2) - Si pone in diretto collegamento con due grandi classici pacifisti contro la guerra di trincea della I° guerra mondiale: All'ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, 1930) diretto da Lewis Milestone, e con Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) di Stanley Kubrick, - Come Stanley Kubrick fu costretto a girare il suo film in Germania per l’opposizione delle autorità francesi, anche Francesco Rosi per evitare problemi con le autorità italiane ha girato Uomini Contro in Jugoslavia. -La narrazione è rapsodica e rispecchia solo in parte le idee del romanzo autobiografico di Emilio Lussu (1890–1975), Un anno sull’altipiano (1938), sulle sue esperienze con la brigata Sassari, trascritte in esilio tra il 1936 e il 1937 che racconta, per la prima volta nella letteratura italiana, l'irrazionalità e insensatezza della guerra, della gerarchia e dell'esasperata disciplina militare. - Rosi ha dichiarato : “E' uno dei miei film che amo di più. C'era il libro di Emilio Lussu, bellissimo, di cui mi aveva attratto la scoperta che lui faceva della guerra come un fatto di classe: dentro la stessa trincea c'erano i contadini e i borghesi, e i contadini seguivano le vicende della guerra come se fosse una calamità naturale. La guerra che Lussu descriveva non era una guerra di popolo, era una guerra con delle logiche di classe molto forti… Il generale Leone di Cuny é un personaggio che crede ciecamente nel potere e nel fatto di rappresentarlo, ed in questo ha una sua grandezza, perché è come costretto a essere coerente in fondo con la sua immagine. Tutti i personaggi finiscono per rappresentare un certo livello di coscienza politica: il socialista, il monarchico, il giovane borghese interventista. In questo mi sono spinto molto più avanti di Lussu, ho accentuato delle cose che nel suo libro c'erano, ma non così chiare, perché il film è fatto dopo tanti anni dal libro con una coscienza diversa degli avvenimenti. E poi, io non volevo fare l'illustrazione cinematografica del libro. Per Uomini contro venni denunciato per vilipendio dell'esercito, ma sono stato assolto in istruttoria. Il film venne boicottato, per ammissione esplicita di chi lo fece: fu tolto dai cinema in cui passava con la scusa che arrivavano telefonate minatorie. Salvatore Giuliano(1962) - Rosi porta al cinema il modello del giornalismo inventandosi il genere del film-inchiesta che coinvolge in modo diretto il pubblico e la coscienza pubblica di un paese. Scritto dal regista con con Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas. La Trama: 1950 A Castelvetrano (Sicilia) viene trovato il corpo del bandito Salvatore Giuliano. Inizia una serie di flash-back in cui si ripercorrono i primi anni del dopoguerra in Sicilia, la nascita del movimento indipendentista e le prime “imprese” di Giuliano, del cugino Gaspare Pisciotta e della loro banda. Intanto Montelepre, il paese natale di Giuliano, è sorvegliato da reparti di carabinieri che cercano di arrestarlo. I banditi nel 1947 compiono una strage di contadini a Portella della Ginestra il 1 maggio; poi il film ritorna al ritrovamento del corpo di Giuliano. Pisciotta è arrestato, processato a Viterbo e condannato all’ergastolo per l'assassinio del cugino che lui stesso ha ucciso. Viene avvelenato in carcere in modo misterioso. - All’epoca il problema della mafia non era all’ordine del giorno ma viene affrontato da Rosi con molto coraggio sulla base delle inchieste del settimanale “Europeo”. - Grazie anche allo straordinario montaggio di Mario Serandrei, la struttura narrativa oltre a ricorre a moduli neorealisti (attori e luoghi presi dal vero) va su e giù nel tempo rompendo la linearità temporale del cinema tradizionale. - Tale sistema “che fonde cronaca fotografica, parti recitate e reportage televisivo” ricorda un po’ uno dei massimi capolavori della storia del cinema Citizen Kane (Quarto potere, 1941) di Orson Welles.

Salvatore Giuliano (1962) II - L’ altalenare continuo nel tempo è funzionale ad una Contro-storia della Sicilia che è il vero soggetto del film, non una biografia di Giuliano (1922-50) la cui figura non è approfondita più di tanto né da un punto di vista psicologico né narrativo. - La figura del protagonista serve per parlare dei complessi rapporti tra mafia, banditismo, potere politico e potere economico. Il titolo originale della sceneggiatura di Rosi, “Sicilia 1943-’60” è quello che meglio fotografa la trama del film - A differenza di Michael Cimino in The Sicilian (Il siciliano, 1987), tratto dal romanzo di Mario Puzo che è una biografia romanzata del personaggio interpretato da Christopher Lambert. - Altro elemento importante è l’uso della fotografia di Gianni Di Venanzo che ha elaborato diversi toni di bianco-nero: “lirico-tragico a forti contrasti chiaroscurali per le fasi rievocative; un tono sovresposto da servizio fotografico per la morte di Giuliano e una grana spoglia e grigio di tipo televisivo per il processo di Viterbo”. - Se a guidare il film è l’ordine logico dei fatti che prevale sul mero ordine cronologico, i continui tasselli della storia (costituiti dai flash back) servono a costruire una sorta di caleidoscopio di avvenimenti, dove i vuoti non vengono arbitrariamente riempiti con ipotesi di fantapolitica. Si gioca su tre piani diversi (ancora una volta): quello del processo con la sua versione ufficiale e lacunosa della storia, gli avvenimenti storici, e la voce del narratore che valuta i vuoti e i pieni della Storia come una sorta di coscienza collettiva delle vicende. Cadaveri eccellenti (1976) (1)

- E’ insieme a Todo modo (1976) di Elio Petri (1929-1982) opera che ritrae la Democrazia Cristiana e il suo Presidente Aldo Moro, uno dei film “maledetti” del cinema italiano e senza dubbio il più acuto nell’ analizzare il rapporto tra Potere e “strategia della tensione” negli anni Settanta.

- Tratto da Il contesto (1971), il polemico romanzo dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia e sceneggiatato da Rosi, Lino Jannuzzi e Tonino Guerra, si avvale di un grande cast internazionale: Lino Ventura, Fernando Rey, Max von Sydow, Charles Vanel, Paolo Bonacelli, Alain Cuny.

La Trama: prima in Sicilia e poi a Roma vengono uccisi degli alti magistrati; l’ispettore Rogas (Lino Ventura) fa l’ipotesi che i delitti siano il frutto di un piano eversivo. Il magistrato alla fine verrà ucciso insieme al segretario del PCI a cui voleva raccontare tutto ma la verità verrà messa a tacere dall’una e dall’altra parte, dal Potere e dall’Opposizione.

Cadaveri eccellenti (1976) (2)

La caratteristica di Cadaveri eccellenti è quella di partire da fatti e situazioni vere degli anni Settanta (attentati, strategia della tensione, depistaggi, collusioni politiche internazionali, ecc., tipiche della democrazia “bloccata” dell’occidente di allora) per diventare uno straordinario apologo politico sulla mostruosità del Potere, un giallo sospeso tra sogno e realtà, ricco di riferimenti pirandelliani (il gioco delle parti, il potere anonimo) e/o kafkiani (gli ambienti abnormi, gli spazi immensi che schiacciano i personaggi, trasferiti sullo schermo tramite il Barocco siciliano). La TREGUA (1997)

In concorso a Festival di Cannes, vincitore di 4 .

Con :John Turturro, Massimo Ghini, Rade Sherbedgia, Claudio Bisio, Roberto Citran, Stefano Dionisi, Lorenza Indovina, Ernesto Lama, Andy Luotto, Federico Pacifici, Franco Trevisi, Agnieszka Wagner. - Tratto dal romanzo omonimo del 1963 (vincitore del premio Campiello) di Primo Levi (Torino 1919 – 1987) e basato sulle esperienze autobiografiche dello scrittore e chimico torinese, è stato il canto del cigno artistico di Francesco Rosi. E’ stato sceneggiato dallo stesso regista insieme a Rulli e Petraglia - Dualità di ispirazione (picaresca e epica) che talvolta non si fondono. - Eccellente interpretazione soprattutto di John Turturro. - Piacque poco all’epoca e venne criticata soprattutto la musica considerata invadente di Luis Bacalov - Fu un film “sfortunato”, e è dedicato «a Pasqualino e Ruggero», ovvero a Pasqualino De Santis, morto in Ucraina durante le riprese, e a Ruggero Mastroianni, morto poco prima di ultimare il montaggio.

Paolo e Vittorio Taviani

Paolo (1931) e Vittorio (1929-2018) Taviani nascono a San Miniato (Pisa). Studiano musica e sono folgorati dal cinema vedendo Paisà di Rossellini. Dopoaver cominciato a lavorare a teatro nel 1954 si trasferiscono a Roma iniziando a lavorare in campo documentaristico e come aiuto-registi. Oltre a diversi loro documentari, nel 1959/60 collaborano alla realizzazione del doc. di Joris Ivens L’Italia non è un paese povero. Esordiscono (in terzetto) nel 1962 in Un uomo da bruciare realizzato con l’amico Valentino Orsini (1927-2001), con cui si erano conosciuti dai tempi delle frequentazioni giovanili dei circoli del cinema a Pisa. “Atto di amore verso il neorealismo”, si tratta di un film nato all’ombra di Salvatore Giuliano di Rosi dato che narra di un sindacalista socialista ucciso dalla mafia, Salvatore Carnevale in cui però l’aspetto epico del personaggio lascia piuttosto il posto ad un personaggio sfaccettato e contraddittorio, un eroe realistico perché non retoricamente popolare. Dopo l’unica opera della loro carriera su commissione, I fuorilegge del matrimonio (1963) che trattava della problematica del “piccolo divorzio”, realizzano dopo diversi anni Sovversivi (1967) uno dei “film della crisi” interpretato da Lucio Dalla che anticipa le problematiche del 1968.

Paolo e Vittorio Taviani (2) Sotto il segno dello scorpione (1969) inaugura una trilogia sull’utopia e la rivoluzione che proseguirà con San Michele aveva un gallo (1971) e Allosanfan (1974) dove i Fratelli Taviani trovano il primo compimento del loro stile (la musica come personaggio; l’uso del doppiaggio). E si parla e si riflette anche polemicamente delle speranze che il “movimento del ‘68” aveva suscitato. Per esprimere questo patrimonio di idee i Taviani, però, si svincolano dall’ambientazione nel presente scegliendo il distanziamento storico nell’Ottocento e proseguendo sulla strada di un cinema poetico-politico già indicata da Pasolini ma in maniera diversa da lui. San Michele aveva un gallo, forse una delle massime espressioni del cinema politico in Italia, si realizza quella dialettica binaria che tanta parte ha nell’opera dei Taviani: vecchio/nuovo,razionale/irrazionale,utopia/ realismo, tempo storico /tempo biologico, individuo/gruppo, uomo/natura, visivo/sonoro. Con Allosanfan, il film sulla “restaurazione”, si riprendere il tema dell’eroe e del traditore ma qui si accentuano le psicologie dei personaggi, in particolare quella del protagonista interpretato da Marcello Mastroianni, mettendone in evidenza soprattutto il suo tempo biologico (la sfera privata: la malattia, il sesso, la vecchiaia, la morte) rispetto al tempo storico. Stilisticamente il film abbandona le tecniche “fredde dello straniamento” a favore del Melodramma e segna la transizione verso un cinema di più marcato spirito spettacolare (e di pubblico). Che trova il suo primo coronamento internazionale in Padre Padrone che vince la palma d’oro al Festival di Cannes del 1977. Basato sul romanzo autobiografico di Gavino Ledda il film tematizza lo scontro padre/figlio con un uso di una colonna sonora che diventa quasi preponderante. Gli anni Settanta si chiudono con un film minore Il prato (1979). La notte di San Lorenzo (1982)

Con Omero Antonutti (Galvano), Margarita Lozano (Concetta), Claudio Bigagli, Massimo Sarchielli, Sabina Vannucchi, Paolo Hendel, Dario Cantarelli. È la notte del 10 agosto. Nell'oscurità una donna guarda le stelle e ricorda un'altra notte di San Lorenzo, quella dell'agosto 1944, quando, una bambina dai cui occhi è narrato il film si trovava nel paese di San Martino (nome di fantasia che richiama San Miniato, città d'origine dei registi) durante la guerra in Italia. I nazisti all'approssimarsi delle truppe Alleate ordinano alla popolazione di riunirsi nel Duomo. Un gruppo di uomini, donne e bambini, guidato dal fattore Galvano, temendo una possibile trappola, decide di fuggire e abbandona il paese col favore della notte, per andare incontro agli americani. Poco dopo nella chiesa ha effettivamente luogo la temuta strage perpetrata dai nazisti. I fuggitivi si trovano in un campo a raccogliere il grano con un gruppo di contadini legati alla resistenza e vengono attaccati all'arrivo di un camion di camicie nere. Si scatena la battaglia: nonostante i partigiani e i fascisti siano spesso parenti, amici, vicini di casa, la carneficina è terribile. Da una parte e dall’altra. Gli scampati allo scontro riparano in un cascinale dove trascorrono la notte e lì Galvano corona il suo sogno d'amore con la cugina Concetta. San Martino è liberata. Il mattino seguente gli abitanti del paese possono rientrare nelle loro case: solo Galvano rimane indietro a riflettere su quanto gli è accaduto, anche sul piano sentimentale. Si ritorna al presente.

La notte di San Lorenzo (2)

- Si rievoca un tragico episodio di cui la famiglia Taviani era stata protagonista e testimone nell’estate del 1944 e che aveva costituito la materia del primo lavoro cinematografico di Paolo e Vittorio, il corto San Miniato, luglio ‘44 (1954), diretto insieme all’amico Valentino Orsini. Quasi trent’anni dopo ci sono tornati sopra con l’aiuto dello sceneggiatore Tonino Guerra. - Questa ascendenza autobiografica viene risolta nel film tramite la chiave favolistica: a raccontare la storia è infatti la ragazza Cecilia che rievoca la sua favolosa avventura da bambina. - Più che il rapporto fra i tedeschi, gli italiani e gli americani, l'interesse dei cineasti si concentra sui conflitti quasi familiari (e quindi tragici) tra i fascisti e gli antifascisti, oppure nella opposizione che è anche il simbolo della divisione tra coloro che decidono di andare alla scoperta dell'ignoto e di una possibile salvezza, e quelli che si ripiegano su loro stessi, tra i progressisti aperti alle nuove idee e i conservatori rinchiusi nelle loro convenzioni. - "La morale del racconto ‒ sottolinea Paolo Taviani ‒ banalmente è questa: quando le cose vanno male, è il momento di prendere in mano il senso della propria esistenza; quando tutto è perduto, tutto può essere ancora salvato". - La strage di San Miniato di cui il film racconta, è stato messa in forse da recenti discussioni e ricerche storiche e sembrerebbe forse avvenuta non per mano dell’esercito tedesco ma per un bombardamento errato degli americani. La questione è molto aperta. Ciò non inficia, a prescindere, la verità poetica dell’opera che vuole narrare le vessazioni subite dalla popolazione civile. -Ambientato nel mondo contadino e nel paesaggio toscano straordinariamente fotografato da Franco di Giacomo, il film è stato interpretato da giovani attori alle prime armi, salvo i due protagonisti. - Si tratta di una opera magistrale in sospeso tra il film storico-didattico con lo scontro fascismo- antifascismo e il poema atemporale dove si fondono epica cavalleresca, sapere contadino e memoria folcloristica.

Carmelo Bene (1937-2002)

Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene nasce a Campi Salentina (Lecce). Chi lo ha conosciuto da piccolo lo descrive come un ragazzo taciturno, probabilmente educato con eccessiva rigidità, e forse proprio per questo teso a manifestare la propria prorompente espressività in maniera rivoluzionaria, assolutamente fuori dagli schemi. Tutte cose che verranno alla luce con la totale reinvenzione fatta da Carmelo Bene nel teatro. Per citarlo: "Il problema è che l'io affiora, per quanto noi vogliamo schiacciarlo, comprimerlo. Ma finalmente, prima o poi, questa piccola volontà andrà smarrita. Come dico sempre: il grande teatro deve essere buio e deserto". Dopo i primi studi classici presso un collegio di gesuiti, si iscrive nel 1957 all'Accademia di Arte Drammatica Silvio D’amico a Roma, un'esperienza che dopo un anno abbandona convinto della sua "inutilità". Già da tale episodio si intravede l'incompatibilità fra l'idea classica di teatro, di rappresentazione, e la sua "destrutturazione“ portata avanti da Bene portato avanti; un'operazione culturale che ha fatto a pezzi l'idea stessa di recitazione, messa in scena, rappresentazione e addirittura "testo". Debutta a Roma nel 1959 come protagonista del Caligola di Albert Camus poi diventa presto regista di se stesso, iniziando in questo modo l'opera di manipolazione e di straniamento di alcuni classici immortali. L'attore le ha talvolta chiamate "variazioni". Sono di questi primi anni sessanta numerosi spettacoli come Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde, Gregorio, Pinocchio, Salomè, Amleto, Il rosa e il nero.

Carmelo Bene (2) Nel 1965 scrive Nostra signora dei Turchi, edito dalla Sugar. L'anno dopo, il romanzo viene adattato e messo in scena al teatro Beat '62. Dopo una importante parentesi cinematografica di circa 5 anni, torna al teatro con La cena delle beffe (1974), con S.A.D.E. (1974) e poi ancora con Amleto (1975). Seguono numerose opere, ma molto rilevante è la sua cosiddetta "svolta concertistica", rappresentata in prima istanza da Manfred (1980), basato sull'omonimo poema sinfonico di Schumann. Nel 1981 dalla Torre degli Asinelli a Bologna recita la Lectura Dantis, poi negli anni ottanta Pinocchio (1981), Adelchi (1984), Hommelette for Hamlet (1987), Lorenzaccio (1989) e L'Achilleide N. 1 e N. 2 (1989-1990). Dal 1990 al 1994 una lunga assenza dalle scene, durante la quale, come dirà lui stesso, "si disoccuperà di sé". Muore a soli 64 anni nel 2002, nella sua casa romana.

Sulla sua fondamentale importanza dentro la cultura e il teatro italiano per favore leggere la scheda dell’Enciclopedia Treccani on line: http://www.treccani.it/enciclopedia/carmelo-bene_(Dizionario-Biografico)/

Carmelo Bene e il cinema (1967-1973) Nel 1967 Carmelo Bene pensa di abbandonare il teatro per dedicarsi ad altro. Pier Paolo Pasolini lo invita a partecipare a Edipo re. Intanto Nelo Risi, avendo progettato un film su Pinocchio, propone la parte della fatina a Brigitte Bardot, quella di Pinocchio a Bene e quella di Geppetto a Totò; che morì proprio nel 1967, mandando in fumo il progetto.

Bene passa dietro la macchina da presa con il mediometraggio Hermitage (1968) e il corto Il barocco leccese (1968) per poi realizzare sempre nello stesso anno il suo capolavoro, Nostra Signora dei Turchi, unico film italiano restato in Concorso nell’anno della contestazione al Festival di Venezia che vince il Leone d'Argento. Nel 1969 lo vediamo come attore in Umano non umano di Mario Schifano mentre nel 1970 fallisce un Don Chisciotte televisivo per la RAI, il progetto viene ritenuto troppo "impopolare". Il cast d'eccezione contemplava, oltre allo stesso attore, Eduardo De Filippo, il clown sovietico Popov e Salvador Dalí. Stessa sorte è toccata a un altro progetto filmico fatto insieme con Eduardo, tratto da La serata a Colono di Elsa Morante. Capricci (1969) e Don Giovanni (1970) sono le sue successive regie di lungometraggio, inoltre partecipa in qualità di attore a Necropolis (1970) di Franco Brocani e a Storie dell'anno mille (1970) di Franco Indovina. Con Salomè (1972) e Un Amleto in meno (1973) si chiude la sua grande carriera cinematografica, ripresa solo nel 1979 con le riprese di un Otello, girato per la televisione e montato solo nel 2002 prima della morte. Tutti i film di Carmelo Bene - il maggiore rappresentante di un underground italiano che ha voluto creativamente confrontarsi con i modelli del “New American Cinema” - hanno prodotto reazioni sconsiderate, spaccatura di pubblico e critica, tra fautori e detrattori. Quasi senza mediazioni – è stato un vero, eccezionale provocatore che però non ha avuto eredi.

Nostra Signora dei Turchi (1968) Con: Carmelo Bene (protagonista senza nome), Lydia Mancinelli (Santa Margherita), Ornella Ferrari (serva-bambina), Anita Masini (Madonna/moglie), Salvatore Siniscalchi (editore) Trama: Il Palazzo Moresco, voce off di Carmelo Bene che annuncia un'autobiografia, musica di Musorgskij. Le immagini si deformano e si intersecano con quelle della Cattedrale di Otranto, nella cappella-ossario dove sono conservate le ossa di 260 martiri. Come loro, il protagonista avrà ancora il teschio coperto di carne tanti secoli dopo la morte? E gli occhi? Oggetti senza senso ma non insignificanti, gesti di un "(sono) io" che è difficile decifrare. Un doppio, più doppi, un gangster. Compare il primo personaggio femminile, la serva-bambina. Voli impossibili da un balcone che si affaccia sul mare: cadute, letteralmente. Brindisi al proprio riflesso distorto. Vocazione al martirio e primi amori, inginocchiati. Ancora voce off, implicitamente ironica: l'invasione di Otranto da parte dei tur(isti)chi. Colori in libertà, una lettera al Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Gli oggetti sono ostacoli. Presto apparirà Santa Margherita e Arnoldo Foà recita García Lorca. Giunge la Santa che seduce il protagonista, lui resiste, poi cede, lei adesso fuma e legge la rivista "Annabella". Lui si agita nel vuoto, ferito e bendato, mima gli oggetti, li interpreta e vi si trasforma. Piazza di Santa Cesarea Terme: interni ed esterni tendono a confondersi. L'idiozia inizia a manifestarsi, si chiudono i cassetti e si inchiodano le finestre e le porte. Una serva, un editore preoccupato di utili e perdite, ancora le ferite (del protagonista come della pellicola) e un funerale, quello della Madonna. Quindi il morto è lui, finalmente guarito. Altri doppi, due frati, una gita in barca con la Santa. Adesso il protagonista è un cavaliere in armatura, la serva e la Santa si scambiano impressioni, quest'ultima sta perdendo l'amore e si cristallizza, mentre il protagonista ‒ afasico ‒ si addormenta o muore. Il cinema si allontana. Nostra Signora dei Turchi (2) Primo lungometraggio della breve carriera cinematografica di Bene, accorciato per la presentazione a Venezia da 142 minuti a 125’, sembra, come il romanzo, una voluta parodia del flusso di coscienza interiore, ma l’autore lo definiva “ben altro. È il più bel saggio, in chiave di romanzo storico, su quel mio sud del Sud”. Le immagini iniziali ci riportano alla strage del 1480 ad opera dei Turchi degli 800 martiri di Otranto le cui ossa sono raccolte nella cappella-ossario della Cattedrale che gli spettatori vedono quasi in apertura. Protagonista, attraverso la voce off di Bene è un ‘io’ che percorre tutto il film, un ‘uomo pugliese’ che incarna la solitudine metafisica dell’artista e preconizza l’imminente rovina e, come quei martiri cristiani, sceglie di autodistruggersi, trovando solo nella morte la salvezza. Senza una vera sceneggiatura, è stato girato nel Salento, nella casa di famiglia dove era nato e cresciuto, in un set caotico, piccolo ma barocco. Bene è presente in ogni scena e prova a distruggere il suo corpo. È ferito, bruciato, fasciato, gioca col fuoco. Coltiva un istinto di morte, ma non riesce mai a morire. Al tempo stesso esprime il suo amore per Buster Keaton, per il cinema comico delle origini, per la gag. Con molte improvvisazioni degli attori, tra l’invettiva visionaria e la dissacrazione, tra religiosità e paganesimo, donne e madonne, carico di citazioni, riferimenti colti, di poesia, Nostra signora… rappresenta un unicum nel panorama italiano (i sincroni, il montaggio, la sequenza delle immagini tutto ha un gusto molto personale, fuori dalla norma). Per lo spettatore si rivela un’esperienza affascinante, sorprendente e immersiva o viceversa assolutamente respingente e noiosa. Dello spirito del 1968 ha tutta la carica dell’immaginazione al potere sotto veste artistica.

Gli esordi di Bernardo Bertolucci (1941-2018) Nato a Parma (1941) e primo figlio del grande poeta Attilio Bertolucci (1911-2000), Bernardo trascorre la sua infanzia a Baccanelli (nei dintorni di Parma) per poi trasferirsi a Roma con la famiglia nel 1952. Anche il fratello minore Giuseppe (1947- 2012) è stato un grande regista e organizzatore culturale. .Del 1956 (La morte del maiale) e del 1957 (La teleferica) risalgono le sue prime esperienze amatoriali in 8 mm, oggi andate perdute. .Malgrado una grande cinefilia, il giovane Bertolucci inizialmente vuole diventare un poeta e frequenta, Pier Paolo Pasolini. Nel 1962 vince il premio Viareggio con la raccolta In cerca del mistero. .Con Pasolini inizia il suo avvicinamento al cinema: prima come assistente di Accattone (1961), poi dopo aver scritto la sceneggiatura de La commare secca (insieme a Sergio Citti ), passa alla regia di questo progetto che Pasolini avrebbe dovuto dirigere ma aveva lasciato al suo discepolo. Il film viene presentato al Festival di Venezia del 1962 con discreto successo. Influenza e distanza da Pasolini.

Prima della rivoluzione (1964) - E’ un film chiave nell’evoluzione artistica di Bertolucci perché vi ritroviamo,in nuce, tutte le ossessioni cinematografica del nostro autore. Con: Adriana Asti, Allen Midget, Francesco Barilli, Morando Morandini, Gianni Amico. Trama: è la storia di un amore impossibile. Il ventenne Fabrizio (Barilli), figlio di un'agiata famiglia di Parma, ama, riamato, Gina (Adriana Asti), giovane e nevrotica sorella di sua madre, ma non ha il coraggio (e la maturità) di andare fino in fondo e si adatta a un matrimonio di convenienza, rinunciando anche all'impegno politico di iscritto al PCI: "Per gente come me è sempre prima della rivoluzione". - La ”educazione sentimentale” di un giovane borghese in preda all’ambiguità - sia in ambito politico e soprattutto personale (il rapporto con Gina e cioè dell’incesto). - Per la prima volta vengono usati dei professionisti. Ma anche amici del regista. - E’ una sorta di ritorno a casa: Parma e l’Opera italiana e contiene una scena di ballo . - Il film ha scarso successo e segue un momento difficile e molto vario di proposte.

Bertolucci e il 68:Agonia,Partner

- La sua produzione successiva è molto varia: gira un doc. su commissione per la RAI, La via del petrolio (1965/66) in due parti, scrive la sceneggiatura (con Dario Argento) di C’era una volta il West (1968) di e dopo diversi progetti mancati realizza 2 film molto legati al momento storico della rivolta studentesca: Agonia (con il “Living Theater” di Julian Beck) per Amore e rabbia (1969), composto da altri 4 episodi diretti da Lizzani, Pasolini , Godard, Bellocchio (Discutiamo, discutiamo). - Fatto quasi in diretta con gli eventi del maggio francese, Partner (1968) apparentemente, è un adattamento letterario, l’ attualizzazione de Il sosia di Dostoevskij (1846) ma, in realtà, è una parabola neanche troppo cifrata del contemporaneo maggio ’68 nello stile tipico dei tempi con interminabili piano- sequenza contro l’uso del montaggio. Il 68’di Bertolucci:i Doc militanti e La strategia del ragno - - A seguito dell’insuccesso di Partner Bertolucci realizza in un “passo doppio” Strategia del ragno (girato nell’estate 1969) e Il conformista. - Il tv movie Strategia del ragno (per la Rai) rappresenta una rivisitazione regionale della tradizione americano in chiave di cinema politico “deluso” dagli ideali resistenziali che hanno fatto il loro tempo - ancora una volta si riprende la classica figura dell’indeciso non ancora però diventato un “conformista”. Lo spunto viene dal racconto Il tema del traditore e dell’eroe di Jorge Luis Borges (1899-1986) - Come ha dichiarato l’autore, la sua attività professionale è stata profondamente influenza da una terapia psicanalitica in un mix tra cinema e vita molto stretto. Come avverrà anche in seguito. - A concludere l’esperienza del 68’ segue un’opera “militante” al pari di quasi tutti i cineasti di sinistra all’epoca: nel 1971 realizza in 16 mm il doc.: La salute è malata (I poveri muoiono prima) fatto per la campagna elettore del PCI. - Seguirà diversi anni dopo L'addio a Enrico Berlinguer (1984) , un doc– omaggio collettivo al grande leader comunista. Il conformista (1971) 1 Con : Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli, Dominique Sanda, Gastone Moschin. Trama: Marcello Clerici (Trintignant) si reca a Parigi in luna di miele. Il viaggio è una copertura: all'insaputa della moglie Giulia (Sandrelli), deve eliminare il suo ex professore antifascista. Il “conformista” sente vacillare la fede fascista e in più s'innamora della moglie del Prof. (Sanda). I caratteri principali del film: 1) Per la prima volta Bertolucci compie un vero adattamento dell’omonimo romanzo (1951) di Alberto Moravia (1907 – 1990) e non usa la letteratura solo come spunto (Borges o Dostrojevski). E’ mutato l’atteggiamento nei confronti della sceneggiatura mentre la struttura temporale è a flash-back incastrati l’uno nell’altro a differenza del romanzo. Il conformista (2)

2) Sotto le spoglie di un film “di impegno civile”, pur nel mutamento di ottica (grande pubblico, grande budget, cast internazionale) Bertolucci non rinunzia ad uno stile molto personale e alle sue ossessioni filmiche. ll tema dell’estraneità sarà poi sviluppato in toto in Last Tango in Paris. . 3) Grazie al lavoro di Kim Arcalli Roma (1929 – 1978), si “scopre” l’importanza delmontaggio contro l’”ideologia” del piano sequenza. . 4) Per la prima volta la musica extradiegetica è composta da un musicista Georges Delerue (1925 – 1992). . 5) Con Il conformista Bertolucci trova il fulcro centrale della sua poetica e cioè l’idea che il cinema sia voyerismo. Last Tango in Paris/ Ultimo tango a Parigi(1972) Con Marlon Brando, Maria Schneider:,Jean Pierre Léaud:,Massimo Girotti:, Maria Michi

Trama: In un appartamento da affittare, Paul incontra Jeanne e le impone il primo d'una lunga serie di violenti rapporti sessuali. Nonostante il patto,di non dirsi nemmeno il nome, nei successivi incontri, i due tracciano di loro stessi minuziosi ritratti di esseri alla deriva . Lui, 43 anni, americano, figlio di alcoolizzati, era stato 5 anni con Rosa appena uccisasi. Lei giovanissima, è combattuta fra l'attrazione e il disgusto per il maturo amante e il fascino del coetaneo Tom, un regista velleitario, ma sincero e affezionato e si prepara al matrimonio con quest'ultimo. Ma non si ribella alle pretese più estreme di Paul.

- È assai difficile parlare di Last Tango in Paris (1972) al di fuori di quanto dal punto di vista extra- cinematografico ha significato (la censura, il film bruciato, la moda, tutto il discorso femminista inizio anni Settanta, le polemiche riprese dopo la morte della Schneider nel 2011 sulle conseguenze psicologiche della celebre scena di sodomia). La cassazione italiana con un sentenza del gennaio 1976, considerando osceno il film, ha ordinato che ne fossero bruciati i negativi. Nel 1987 una nuova sentenza ha stabilito la "non oscenita'" del film consentendone la riedizione. - Ultimo tango è veramente un film “alla metà dell’Atlantico” per il discorso America-Europa (Marlon Brando ne è la perfetta incarnazione) e per il conseguente stile sviluppato nato dopo Il conformista. Si contraddistingue per un continuo gioco di rimandi cinefili a partire da Brando che cita se stesso. Bertolucci si permette quasi dell’ironia e del sarcasmo nei confronti della “Nouvelle Vague” che aveva adorato.

Novecento I e II (1976)

Con Robert De Niro, Gérard Depardieu, Burt Lancaster, Donald Sutherland, Dominique Sanda, Alida Valli, Stefania Sandrelli, Laura Betti

Trama: I due protagonisti nascono entrambi il 27 gennaio 1901 e nello stesso luogo (una grande azienda agricola emiliana): Alfredo (De Niro ) è il figlio dei ricchi proprietari, i Berlinghieri; Olmo (Depardieu ) è figlio di una contadina Rosina e di uomo noto solo a lei. Le lotte contadine e la Grande Guerra prima, e il fascismo con la lotta partigiana per la Liberazione poi, sono al centro del racconto. Altre due figure indimenticabili sono il nonno di Alfredo (Lancaster) e Attila (Sutherland ) un fattore violento e spietato che rappresenta l’arrivo del fascismo in un luogo dove la ricca borghesia iniziava a temere il socialismo. Nel giorno della Liberazione, Attila viene giustiziato e Alfredo è preso in ostaggio. Olmo, creduto morto, ricompare ed inscena un processo sommario ad Alfredo. Il legame di amicizia però prevale mentre sopraggiungono i membri del CLN a disarmare i contadini. Alfredo ed Olmo iniziano così a scherzare di nuovo e ad accapigliarsi come da bambini. Novecento - Alcune caratteristiche - E’ uno dei film più particolari degli anni Settanta con tutte le sue contraddizioni: il progetto “ideologico” di fare del cinema politico-intellettuale con mezzi popolari, di parlare della storia del Socialismo nella Padana con i soldi (e attori) americani. - Pur essendo un kolossal sembra un film “regionale” emiliano con qualche forzatura semplificistica. - Le sequenze finali del “processo al padrone” sono state quelle più contestate all’epoca, quasi fosse cinema militante o forse un inserto teatrale di origine brechtiana. - In Novecento emerge uno dei fili rossi della poetica di Bertolucci mai mostrata sino a quel momento in modo così chiaro: l’importanza dell’infanzia. La produzione di Bernardo Bertolucci sino alla sua svolta internazionale: La luna e La tragedia di un uomo ridicolo . Bertolucci ha definito La Luna (1979) il suo “musical” e alla presentazione al Festival di Venezia diversi critici lo hanno “strapazzato”. In effetti si tratta di una vera e propria Opera verdiana (e non solo per il banale motivo che la protagonista è una cantante lirica americana che rientra in Italia ) . Il film è di un assoluto non-naturalismo (per esempio nel trattare la questione giovanile o quella della droga), è cinema di “simulazione” (non analizza bensì mostra dei personaggi). . Nel evidenziare un discorso tra l’armonia del melodramma e la disarmonia della cronaca, B. riprende il motivo dell’incesto (di Prima della rivoluzione di cui questo film in qualche modo è una continuazione: la zia è diventata una madre) e si trasforma in melos+dramma). . Dopo il precedente film profondamente “ottimistico” , il seguente è invece del tutto sfiduciato, probabilmente il più cupo di tutta la carriera di Bertolucci. D’altronde eravamo nel pieno delle conseguenze degli “anni di piombo” del terrorismo e della crisi del cinema italiano. . La Tragedia di un uomo ridicolo (1981) - definito come un Novecento atto terzo - è forse un’opera “minore” ma è anche profondamente inquietante per la mancanza di un punto di vista “positivo”: non ci sono più confini tra bene e male, giusto ed ingiusto. Anche la nuova generazione non pare che esprima l’ideale politico mentre il punto di vista dell’autore resta quello di un comunismo contadino. . Il film ha avuto due versioni molto diverse la seconda introduce la voce narrante fuori campo) e ha come protagonista Ugo di Tognazzi, grande simbolo (ma non solo) di un genere detestato da B. come la “commedia all’italiana”. . Qui si chiude per molti anni il dialogo di Bertolucci con la realtà italiana. Last Emperor/L’ultimo

imperatore (1987) . Il tema del viaggio si affaccia prepotentemente a partire da quella che è stata soprannominata, la trilogia “esotica”. Si tratta di un variegato corpus di opere che parte col maestoso L’ultimo imperatore (il trionfo dell’anima più spettacolare e “hollywoodiana” di un regista che ha sempre cercato di intervallare opere piccole ed intime con altre di più ampio respiro popolare e di più marcata vocazione corale), passando per il cupo pessimismo de Il tè nel deserto (1990, opera che coniuga il tema del Viaggio nella logica dell’annullamento di se stessi all’interno dell’Alterità di paesaggi esotici e sconosciuti); per approdare, infine, alla favola limpida e distesa di Piccolo Buddha (1993) che risolve le contraddizioni dei due film precedenti nella logica di uno scioglimento del sé più serena e positiva. . Con lo “scandaloso” Ultimo tango a Parigi (1972), L’ultimo Imperatore è la più conosciuta opera, in ogni caso la più fortunata, internazionalmente parlando, di Bernardo Bertolucci. . Ha vinto all’epoca ben nove premi Oscar: al film, al regista, alla sceneggiatura adattata (B.B. con Mark Peploe e Enzo Ungari), alla fotografia (Vittorio Storaro), al montaggio (Gabriella Cristiani), alla musica (Ryuichi Sakamoto, David Byrne e Cong Su), oltre che alle scenografie di Ferdinando Scarfiotti, ai costumi e al sonoro. Last Emperor/L’ultimo imperatore (2) . In questo un film elegante e maestoso, melò intimista e kolossal storico, si racconta la storia, vera, di un uomo che nacque (nel 1906) ultimo imperatore della Cine e morì (nel 1967) cittadino qualsiasi della Repubblica Popolare Cinese, una storia basata sulle memorie del protagonista Pu Yi e su quelle di Reginald Johnston, il suo precettore scozzese. . E’ stato scritto che è il “tragitto di un uomo dall’onnipotenza alla normalità, dal buio della nevrosi alla luce della quotidianità”, ma si tratta anche della curiosa parabola di una specie di attore coatto, di qualcuno costretto – da bambino dai compatrioti, da adulto dai giapponesi invasori che lo incoronano una seconda volta imperatore di uno stato fantoccio al loro servizio: il Manchukuo – a recitare una parte che, in fondo, gli piace e non gli piace – sino, infine, diventare giardiniere nell’orto botanico di Pechino. . Il personaggio di Pu Yi è dunque l’ennesimo eroe maschile, fragile, indeciso e sconfitto, della filmografia di Bernardo Bertolucci. Come Paul di Ultimo tango a Parigi o l’Alfredo di Novecento, anche Pu Yi vive sulla sua pelle la tragedia di un destino più grande di lui e sconta le pene di un rapporto famigliare controverso e difficile macchiato dall’impossibilità di definizione di un rapporto col padre (tema questo che rappresenta un’ossessione continua nel cinema del nostro regista). . Se il personaggio si sposta poco nell’economia di un film che più che raccontare la storia di un individuo eccezionale sembra essere nato dall’idea di raccontare la storia di un’intera nazione che in lui si è riflessa, ad essere in viaggio in L’ultimo imperatore è il regista stesso che lascia Italia ed Occidente per mettersi alla ricerca di qualcosa di più vero. . Il dato personale (la conversione al buddismo del regista) e la scoperta della filosofia orientale si sposano in maniera invidiabile con un melodramma ampiamente spettacolare, denso di movimenti di macchina e di scene corali che rivelano sempre il bisogno di una scoperta. Bertolucci filma la Cina come fosse Marte ma che ricorda però anche la sua natia Parma e il suo amato comunismo contadino emiliano. La produzione di Bertolucci sino alla sua morte Gli altri due film della “trilogia esotica”: Il tè nel deserto (The Sheltering Sky) (1990) Piccolo Buddha (Little Buddha) (1993) Poi il ritorno in Europa e in Italia: Io ballo da sola (Stealing Beauty) (1996) L'assedio (Besieged) (1998) The Dreamers (2003) Io e te (2012) Marco Bellocchio (1939) “Il mio lavoro è sempre stato contraddistinto da uno zizzagare continuo tra generi cinematografici, teatro, cinema militante, tutte esperienze da cui ho sempre cercato di farmi coinvolgere totalmente. Tutto questo (...) mi ha anche fatto restare, come dire, un po’ un eterno dilettante, perché in questo passare da un’esperienza all’altra, e per il modo con cui l’affrontavo, c’era un non volersi convincere dei propri limiti, un non voler rinunciare al sogno onnipotente” Autore ad oggi di 24 lm di finzione e poi di corti e mediometraggi, episodi di film, documentari e documentazioni tv, la sua poetica ha molte similitudini e somiglianze con quella di Bernardo Bertolucci soprattutto all’inizio della carriera. Inoltre il suo luogo di nascita Piacenza non è molto distante da Parma, entrambi appartengono alla medesima generazione che ha iniziato negli anni Sessanta e ha dato vita al Nuovo cinema italiano e quello del 68’. Al pari di Bertolucci, Bellocchio ha scritto da giovane poesie, come lui si è interessato e ha utilizzato l’Opera lirica, per non parlare dell’importanza della psicanalisi, del sesso e della militanza politica che hanno fortemente influenzato entrambi. Gli elementi salienti della formazione di Bellocchio - Nasce a Piacenza il 9 novembre 1939 da una ricca famiglia borghese di provincia. - Riceve un’educazione strettamente confessionale in vari istituti cattolici. - Alla morte del padre nel 1956 vive una profonda crisi religiosa. - Nel 1959 entra al CSC di Roma per studiare recitazione e poi passa alla classe di regia. - I suoi primi film: La colpa e la pena (1961, cm), il doc. Abbasso il zio (1961) e il mm Un Ginepro fatto uomo, il saggio di diploma al CSC. - Nell’autunno del 1962 parte per l’Inghilterra dove frequenta con una borsa di studio la Slade School of Fine Arts e respira lo spirito contestativo del movimento degli Angry Young Men (I“Giovani arrabbiati”) e del Free Cinema. - Scrive poesie dopo aver coltivato la pittura. E’ stato influenzato dal forte rigorismo politico-ideologico dei «Quaderni Piacentini», la rivista co-diretta dal fratello Piergiorgio. I pugni in tasca (1965)

La trama: la feroce dissoluzione di una famiglia borghese composta da una madre cieca e da quattro fratelli: Augusto è l’unico “sano” del gruppo. ha una fidanzata e una vita di relazioni normali; il fratello minore Leone, affetto da ritardo mentale ed epilessia, è un ragazzo tenero, indifeso ed immensamente dolce ma inutile, un impaccio agli occhi degli altri; Giulia (Paola Pitagora), l’unica sorella, vive un rapporto morboso con la famiglia e ha delle tendenze chiaramente incestuose; ed infine Alessandro (Lou Castel), il protagonista, è quello che con maggiore lucidità ma in modo distorto avverte il disagio familiare e cercherà di risolverlo a suo modo in maniera criminale (uccide prima la madre e poi il fratello minorato, alla fine sarà lui stesso vittima del meccanismo). - Il soggetto venne scritto in Inghilterra - Il finanziamento maggiore del film venne - una cosa un po’ strana per un’opera profondamente contro la famiglia – proprio dal fratello Tonino magistrato mentre la madre mise a disposizione due ville di campagna a Bobbio dove sono stati girati gli interni. - A parte Paola Pitagora, il cast era in gran parte costituito da non-professionisti a partire dal protagonista Lou Castel (1943) conosciuto al Centro Sperimentale di Cinematografia. - Il ruolo della musica - Il grande dibattito scatenato dal film (ad esempio Pasolini)

La produzione “impegnata” sino a Marcia trionfale (1976) I Dopo la satira politica di La Cina è vicina (1967), Bellocchio si dedica ad una serie di esperienze militanti o di lavoro in gruppo. Il movimento del 68’ e dalla contestazione studentesca è vissuto da Bellocchio, molto più di Bertolucci, in maniera piena e militante e la successiva carriera del giovane “arrabbiato” - considerato da P.P.Pasolini il massimo esempio di un nuovo “cinema di prosa” - è di sicuro frastagliata ma segue sempre l’obbiettivo della messa sotto accusa dei sistemi chiusi e autoritari: dopo la famiglia i suoi target saranno: la scuola, l’esercito, la chiesa, il manicomio. Pasolini in una lettera gli aveva scritto profeticamente: “Caro B., per finire questo nostro dialogo di isolati le auguro, come devono suonare le conclusioni, di turbare sempre più le coscienze dell’Esercito, della Magistratura, del Clero reazionario, e insomma della Piccola Borghesia italiana, a cui abbiamo il disonore di appartenere. Saluti affettuosi dal suo P.P. Pasolini.” Interpretato dallo stesso regista nella parte del professore conservatore, Discutiamo, discutiamo (1968) è una sorta di pièce teatrale, tra agit-prop e Brecht dove si mette in scena senza fronzoli un esemplare caso di contestazione studentesca alla pedante lezione di un cattedratico. Poi Bellocchio gira due documentari militanti di propaganda: Paola e Viva il 1 maggio rosso. La produzione “impegnata” sino a Marcia trionfale II A questi primi esperimenti seguono film più tradizionali , “d’impegno” che rientrano nel filone del cinema politico degli anni Settanta: Nel nome del padre (1972), l’opera più significativa di questa fase e poi Sbatti il mostro in prima pagina (1972, con protagonista Gian Maria Volontà) o Marcia trionfale (1976, con Franco Nero e Michele Placido) sull’autoritarismo nell’esercito italiano. Trama di Sbatti…: Alla vigilia delle elezioni del 1972 , la quindicenne Maria Grazia viene trovata morta alla periferia di Milano. Il redattore-capo Bizanti (Volonté), sentito il parere dell’ingegner Montelli, finanziatore de “Il Giornale”, incarica di seguire il caso un giornalista principiante, Roveda, affiancandolo allo smaliziato e senza scrupoli Lauri. Dal canto suo Bizanti avvia indagini private: avvicina la professoressa Rita Zigai, amante di Mario Boni (della sinistra extraparlamentare) e in possesso del diario della defunta. Manipolando le notizie ottenute, Bizanti e Lauri presentano un colpevole alla polizia, alla magistratura e all’opinione pubblica. Solo Roveda, che nutre dubbi, avvicina il bidello della scuola di Maria Grazia scoprendo con orrore la mistificazione e l’autentico assassino. Il redattore-capo anziché denunciare l’assassino, licenzia Roveda, tenendo pronta la notizia da sfruttarle secondo l’esito delle elezioni. Sbatti il mostro in prima pagina è un film su commissione poco amato dal regista che si inserisce nel filone del cinema commerciale d’impegno anche per la presenta di Gian Maria Volonté. La produzione “impegnata” sino a Marcia trionfale (III)

. il cinema realizzato in collettivo (Rulli/Petraglia e Silvano Agosti): Nessuno o tutti/Matti da slegare (1974) o La macchina cinema (1978) dedicato al mondo del cinema. . Matti da slegare inverte il tradizionale punto di vista sull’argomento: non si parla del lavoro svolto da medici, assistenti sociali, tecnici o politici ma racconta, attraverso le proprie voci, la vita di ragazzi che avevano vissuto in case di cura e manicomi. Il film si basa sulle tesi del medico veneziano Franco Basaglia (1924-1980), il maggior rappresentante italiano della cosiddetta “antipsichiatria”, quel movimento di pensiero internazionale sorto in Inghilterra intorno al 1968 ad opera del sudafricano (ma poi londinese) David Cooper che comprende, tra gli altri lo scozzese Ronald Laing o i francesi Michel Foucault e Felix Guattari – tra l’altro nel 1971 il giovane Ken Loach aveva girato Family Life, un dramma ispirato dalle teorie antipsichiatriche di Laing.

Il periodo “Massimo Fagioli” (1980-1995) - Il gabbiano (1977) è il primo film di fiction dove sono evidenti i segni della curvatura psicanalitica che contraddistinguerà il successivo cinema di Bellocchio. Per la prima volta si utilizza un testo letterario e non una propria sceneggiatura originale – seguiranno: Enrico IV (1984, dal testo di Luigi Pirandello), L’uomo dal fiore in bocca (1992, tv, ancora da Pirandello), Il principe di Homburg (1997, da Heinrich von Kleist), La balia (1999, per la terza volta ancora Pirandello, un autore particolarmente amato dal regista piacentino. - Già Salto nel vuoto (1980) è influenzato dal controverso psicanalista romano Massimo Fagioli (1931-2017), fautore dell’analisi collettiva dei sogni. . Film laico sulla stregoneria, fondato sulla bellezza e la visione, La visione del sabba (1988) è molto più astratto del precedente Il diavolo in corpo (1986), è una opera quasi sperimentale e un po’ sconclusionata, tra le meno felici di Bellocchio. - La condanna (1991, orso d’argento al Festival di Berlino) con Vittorio Mezzogiorno e Claire Nebout racconta di una donna che “ rimasta chiusa di notte in un museo, fa l’amore con un architetto che poi denuncia per stupro. Il regista si chiede qual è la linea di separazione tra assalto (inconsciamente) desiderato e violenza?” Un film molto controverso e scabroso come Il diavolo in corpo. - In questo periodo che si conclude con Il sogno della farfalla (1995, sceneggiato dal solo Fagioli), la ricerca di Bellocchio prosegue nell’ambito del privato, nell’esplorazione dell’Inconscio e nella ricerca della bellezza dell’Immagine. IL DIAVOLO IN CORPO (1986) Con: Maruschka Detmers, Federico Pitzalis Trama: nell’assistere al tentato suicidio di una ragazza, il liceale Andrea nota Giulia, nevrotica fidanzata di un terrorista pentito, e se ne innamora. In attesa della sua liberazione, Giulia si concede ad Andrea. - E’ forse l’opera più significative del periodo “fagioliano”, e non non ha nulla a che fare né con il romanzo di Raymond Radiguet (1921) né con l’omonimo film di Claude Autant-Lara (1947). - Connotato da una forte carica erotica (come diversi altri suoi film del periodo), si attraversa l’Italia del post-terrorismo e il fare i conti personali con sogni ed ossessioni in un mix affascinante, complesso, splendidamente fotografato da Beppe Lanci.

L’opera di Bellocchio dal 1995 sino ad oggi 1) Sogni infranti. Ragionamenti e deliri (1995), doc. , coregia Daniela Ceselli. 2) Il principe di Homburg (1997) inaugura l’ultima fase del cinema del regista piacentino. 3) Addio del passato (2002) doc. sulla Opera lirica e Verdi (paragono con Bertolucci) 4) L’ora di religione (2002) 5) Buongiorno, notte (2003) 6) Il regista di matrimoni (2006) 7) Vincere (2009) 8) Sorelle Mai (2010) 9) Bella addormentata (2012) 10) Sangue del mio sangue (2015) 11) Fai bei sogni (2016) Sogni Infranti (1995) Buongiorno,notte(2003) Il tema del terrorismo era stato trattato nel doc. Sogni infranti. Ragionamenti e deliri (1995) dove in 4 interviste – filmate quasi sempre in primo piano – “si esplora la fine dell'illusione rivoluzionaria post-'68. Parlano quattro ex: il dirigente sindacale e politico Vittorio Foa, il segretario dell'Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti) Aldo Brandirali e due brigatisti E. Fenzi e M. Gidoni”. Liberamente tratto dalla biografia romanzata Il prigioniero (2003) dell’ex brigatista Anna Laura Braghetti e della giornalista Paola Tavella, Buongiorno, Notte procede in una lettura intimistica e personale del sequestro di Aldo Moro. Con: Maya Sansa Roberto Herlitzka, Luigi Lo Cascio, Paolo Briguglia, Pier Giorgio Bellocchio. Trama: Chiara, una giovane militante attiva nella lotta armata, è coinvolta nel sequestro Moro. Attraverso il suo sguardo prende corpo il complesso mondo degli "anni di piombo", disperatamente fiducioso nell’avvento della rivoluzione e intrappolato nei rituali della clandestinità. Di contro è chiamata a vivere la normalità del quotidiano con i suoi ritmi di sempre... La storia: Presidente della DC dal 1976, Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. Il cadavere fu fatto trovare in una R4 in via Caetani, vicino le sedi del PCI e della DC il 9 maggio 1978.

Vincere 2009 (1) Con: Giovanna Mezzogiorno e Massimo Timi. Presentato al festival di Cannes del 2009, Vincere è dedicato alla vita di una donna molto decisa e passionale, Ida Dalser, moglie segreta del Duce, e del loro figlio Benito Albino Mussolini. “L'intero film è costruito come un melodramma sia sul piano musicale che su quello della struttura, con la passione dominante all'inizio a cui seguono la disillusione e la morte”. Trama: Siamo agli inizi del secolo e un giovane socialista rivoluzionario di nome Benito Mussolini, incontra una donna passionale come lui, Ida Dalser. Lei lo seguirà nella sua azione politica, assecondandone i cambiamenti di rotta e giungendo fino a spogliarsi di tutto per consentirgli di fondare il proprio giornale, «Il Popolo d'Italia». Gli darà anche un figlio che verrà chiamato Benito Albino e sarà riconosciuto dal padre. Ida però dovrà scoprire che il suo matrimonio, avvenuto in chiesa, ha molto meno valore di quello che Mussolini ha contratto civilmente con Rachele Guidi da cui ha avuto la figlia Edda. L'ascesa dell'uomo politico è inarrestabile così come la sua decisione di escludere dalla propria vita sia Ida che il bambino. La donna cercherà di auto convincersi che si tratti solo di una messa alla prova che non potrà che risolversi in senso positivo. Invece significherà per lei e suo figlio la morte in ospedale psichiatrico circondati da una cortina di oblio.

Vincere (2)

Il film nel raccontare una inconsueta storia d’amore, affronta di petto i temi della violenza nei confronti di una donna e di suo figlio e della distanza tra la verità ufficiale e quella reale. Malgrado la sua grande rilevanza, si trattava di un fatto storico assai poco noto, misconosciuto nel dopoguerra e che era stato poi di nuovo indagato da due giornalisti della Rai che sulla base di numerose testimonianze avevano realizzato un documentario andato in onda su RaiTre nel gennaio 2005. Sullo sfondo del film le vicende dell’Italia dagli inizi politici di Mussolini come dirigente socialista all’inizio del secolo sino alla morte della madre (nel 1937) e del figlio Benito Albino (nel 1942), entrambi rinchiusi in manicomio, mentre il Duce venne giustiziato dai partigiani il 28 aprile 1945. L’attore Filippo Timi ha una doppia parte nel film interpretando sia il Duce giovane sia il figlio da grande, mentre Mussolini adulto è lasciato alle sole immagini di repertorio. Ancora una volta Bellocchio usa la psichiatria per indagare l’accaduto in questo caso un fatto storico poco noto, suggerendoci una chiave di lettura e un parallelo molto acuto: “mentre la follia diviene sempre più collettiva e partecipata nel Paese … diviene quasi indispensabile che la normalità (Ida) venga trattata come devianza. Mentre l'Italia corre verso il baratro della Seconda Guerra Mondiale la Dalser e suo figlio vengono fatti precipitare nella clausura degli Istituti psichiatrici”

Gli esordi di Nanni Moretti (1953) - Figlio di un prof. universitario e di un’insegnante di liceo, Giovanni (Nanni) Moretti nasce a Brunico/Brunich il 19 Agosto 1953. Romano di Prati, fin da bambino, si appassiona al cinema e alla pallanuoto e si forma dentro i movimenti extraparlamentari di sinistra. - Gira dei cortometraggi con un gruppo di amici : La sconfitta, e Paté de bourgeois (entrambi del 1973); poi realizza una versione comica de I promessi sposi, Come parli, frate? (1974), un mm in cui interpreta il ruolo di Don Rodrigo. - Realizzato in Super8, Moretti debutta con Io sono un autarchico (1976) con protagonista Michele Apicella, alter- ego del regista in tutti film successivi sino a Bianca (1984). - Segue Ecce bombo (1978), suo primo film semiprofessionale in 16 mm, in cui si ripropone l’idea di fotografare a caldo la generazione dei reduci del ’68, attraverso la figura autobiografica di Michele e dei suoi amici.

L’importanza di Moretti (1)

Il “caso” Moretti è stato importante per far nascere un nuovo modello di sviluppo nel cinema italiano. Egli ha dimostrato: 1) si può entrare nel cinema da una via che non sia quella tradizionale dell’industria e della professione. Moretti inizia con dei Super8 autoprodotti e poi lavora in 16 mm, non ha fatto il CSC, non ha cercato di imparare il mestiere né di imporsi nel cinema professionale. Il suo lavoro scaturisce dalla cinefilia “Nouvelle Vague” e dall’istruzione universitaria (il Dams di Bologna). Realizza il suo primo lm nel primo anno di grande crisi del cinema italiano, il 1976 quello però di Cadaveri eccellenti di Rosi o Todo modo di Petri. 2) Moretti diventa subito il cineasta di riferimento di una intera generazione.

L’importanza di Moretti (2) 3) Nei film di Moretti si ride per le battute e le situazioni ma non siamo dentro la commedia all’italiana. Inoltre il fondo tragico (o tragi-comico) e moralista dei suoi film lo ha portato lontano dall’esperienza artistica dei “nuovi comici”. Allo stesso Moretti si deve la formula per definire i propri lavori, quella del film “divertente che fa soffrire”. 4) Al centro di un cinema dalla trama “debole” c’è sempre una forte tensione etico- politico. 5) A differenza della generazione dei grandi registi “politici” del passato alle prese con grandi temi (la Mafia, il terzo mondo, la speculazione edilizia, l’autoritarismo nella polizia o nella fabbrica), Moretti parte dal privato e dal quotidiano, secondo un celebre slogan: “il personale è politico”.

MORETTI NEGLI ANNI OTTANTA . In Sogni d’Oro (1981), per la prima volta Moretti usa attori professionisti (Laura Morante e Alessandro Haber) Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia. Poco riuscito film sul cinema, si racconta di un regista, Michela Apicella, al lavoro su La mamma di Freud, dove avvengono una serie di eventi che lo faranno apparire più antipatico e asociale che mai. . Sempre con Laura Morante, nel 1984, gira Bianca, poi l’anno successivo segue La messa è finita (1985) entrambi sceneggiati insieme a Sandro Petraglia, in cui si narra la storia di un sacerdote alla prese con il dolore e i problemi dei suoi parrocchiani. Il film ottiene l’ Orso d’argento al Festival di Berlino. I due film segnalano una grande crescita professionale di Moretti. Nel 1986 fonda, con Angelo Barbagallo, la Sacher Film che, oltre a produrre i suoi lavori, farà debuttare registi come Carlo Mazzacurati (Notte italiana), (Domani accadrà e Il portaborse) e poi Mimmo Calopresti (La seconda volta). Apre anche una sala a Roma, il Nuovo Sacher, e nel 1997, una società di distribuzione (prima Tandem poi Sacher Distribuzione).

LO STILE DEL PRIMO MORETTI . Come dimostrano già Bianca (1984) e La messa è finita (1985) l’opera di Moretti ha ben poco a che spartire con quello che sarà l’unico fenomeno originale di rinnovamento del nostro cinema in quel periodo, quello appunto di alcuni attori del comparto comico che passano dietro la macchina da presa. Ormai morta la “commedia all’italiana”, il suo posto viene preso da una nuova generazione che impone delle modalità di commedia estremamente diverse, quello dei cosiddetti “nuovi comici” come , Massimo Troisi, Roberto Benigni, Francesco Nuti, ecc. . Le principali caratteristiche stilistiche del primo Moretti: estrema semplicità, per non dire primitivismo della messa in scena dove dominano incontrastate, quasi fosse teatro filmato, la macchina fissa e il montaggio interno all’inquadratura. La narrazione è segmentata, le scene si susseguono alle scene in modo meccanico quasi fosse una “striscia”, un comic- stripes di un fumetto. . Il filmmaker romano si occupa di privato e di quotidiano: Michele Apicella, la sorella Valentina, la madre (anche se ad interpretarli sono poi attori diversi), il padre. Il luogo privilegiato degli incontri/scontri di Moretti sono la stanza da pranzo o la scuola. I suoi tic ed ossessioni ricorrenti le conversazioni al telefono, la polemica sul linguaggio in particolare sul “sinistrese” o il politichese, le continue battute sul cinema e gli autori che detesta, la passione per i dolci, oppure - come in Bunuel o Bertolucci - l’esibizione delle scarpe.

Palombella rossa (1989) Con: Nanni Moretti, Mariella Valentini, Silvio Orlando, Eugenio Masciari, Asia Argento

Trama: Torna la figura di Michele Apicella, questa volta funzionario del PCI: in seguito ad un incidente si ritrova senza memoria e durante una partita di pallanuoto, colto da amnesia, rimette insieme i pezzi della propria vita e discute sul disagio, la confusione, le contraddizioni della Sinistra. Omaggio alla pallanuoto (lo sport praticato con successo dal giovane Moretti) e prima apparizione di Moretti nella parte di un personaggio politico, Palombella Rossa parla dell’ennesima crisi d’identità del suo alter-ego. Se sino ad allora, la politica era stato un ingrediente fondamentale del cinema morettiano, qui però si prende di petto, in modo quasi profetico, l’imminente crisi della sinistra comunista. Palombella Rossa esce nel settembre 1989 al Festival di Venezia diventando un caso politico-giornalistico. Due mesi dopo cadrà il muro di Berlino, aprendo il mondo ad un nuovo scenario, non più basato sull’antagonismo tra le due superpotenze. Interpretato da Silvio Orlando (alla prima apparizione in una opera morettina), da una giovanissima Asia Argento (nella parte della figlia di Moretti) e da molti amici e colleghi del regista, è diventato il suo primo successo di pubblico internazionale, aprendo una grande discussione su cosa significava essere di sinistra, sulla perdita della memoria e dell’identità storica. Caro Diario(1993)

Con: Nanni Moretti, Nanni Moretti, Silvia Nono, Renato Carpentieri, Antonio Neiwiller.

Trama: in tre episodi (In vespa, Isole e Medici), nel primo siamo a Roma in agosto e Moretti girovaga in moto. Dopo aver osservato delle coppie ballare, incontra per caso Jennifer Beals, poi va a vedere Henry-Pioggia di sangue (John McNaughton, 1999 ) che trova brutto e violento. Decide di fare un terzo grado a un critico che lo ha lodato, infine arriva sulla tomba di Pasolini a Ostia. In Isole, la parte più disimpegnata e divertente, incontra un amico che non ama la televisione. Girano le Eolie fino a quando la tranquillità e la solitudine non fanno esplodere l'amico, che si converte a Beautiful e a Chi l'ha visto? e fugge verso il continente. Medici è la cronistoria, con una ripresa iniziale autentica, della malattia contratta da Moretti. Diagnosi e medicine sbagliate, medici poco disposti ad ascoltare. Poi il paradosso finale: la presunta malattia della pelle era un tumore benigno i cui sintomi erano riportati in una semplice enciclopedia. Da molti considerato il suo capolavoro, in Caro diario (Premio per la regia al Festival di Cannes) si passa da un sentito omaggio a Pasolini e alla città di Roma, alla ironica critica del cinema e della tv, fino alla scoperta di un tumore benigno. La forma diaristica (cfr. il Wim Wenders di Der Himmel über Berlin , 1987), già esplicita e dichiarata nel titolo, qui si mescola ad una sorta di autobiografia personale e politica. Moretti non straparla di sé come spesso accade, trovando una felice e originale forma di equilibrio filmico. Aprile(1998) Con: Nanni Moretti, Silvio Orlando e Silvia Nono

Trama: Il discorso di Emilio Fede al Tg4 annuncia la vittoria di Silvio Berlusconi alle politiche del 1994. Sconcertato dalla vittoria della destra Moretti intende girare un documentario su Berlusconi e il conflitto d'interessi. L’idea viene accantonata per fare posto ad un musical. Ma nel 1996 ci saranno le elezioni anticipate e Moretti (che nel frattempo aveva sospeso il musical per mancanza d'idee) ripensa al suo progetto del doc. Contemporaneamente la moglie gli rivela di essere incinta e da quel momento la vita di Moretti si divide tra il lavoro sul documentario e la nascita del figlio. Incontra notevoli difficoltà professionali e soprattutto personali nel ruolo di padre. Il documentario non verrà realizzato in tempo, quindi Moretti abbandona il progetto (anche per via della vittoria della sinistra) e si dedica nuovamente al musical.

Aprile fonde insieme la forma del film di famiglia (un retaggio del suo passato di Super8) con la forma fratta del diario intimo. Il film parte dal 28 marzo 1994 (data della vittoria elettorale del centro-destra di Silvio Berlusconi) e termina nell’agosto 1997 quando l’autore decide di tornare al cinema di finzione su un progetto sempre vagheggiato e mai sinora girato se non sotto forma della sequenza finale. Nel film che porta all’estremo il mix di Caro Diario, si mescolano la crisi della generazione post-68, la mediocrità della classe dirigente, il tentennare della sinistra, la volgarità della tv e l’indifferenza cinica della gente. Moretti nel terzo millenio Sino a oggi, Moretti ha realizzato 5 opere abbastanza diverse dalle precedente nello stile ma forse non sempre altrettanto valide. Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2001, La stanza del figlio (2001) segna il ritorno di Laura Morante nel cinema morettiano. Anche se il finale sembrerebbe rasserenante, nel narrare l’elaborazione del lutto del figlio da parte del protagonista (sempre interpretato dal regista), è un’opera cupa, dove non si ride mai, anche se ricompaiono puntuali tutti i tic e le ossessioni dell’autore romano. Nel 2002, facendosi portavoce di una diffusa posizione critica sia nei confronti del governo di centrodestra sia degli esponenti della sinistra, è tra i promotori del movimento dei “girotondi”. Questo periodo di politica attiva sfocia ne Il caimano (2006), esplicito atto di denuncia contro il premier Silvio Berlusconi. Seguono infine, nel 2011, Habemus Papam e infine il suo dodicesimo lm, Mia madre (2015), forse insieme a La stanza del figlio, il suo film più doloroso e soffert0. Ha realizzato nel 2018 Santiago, Italia, un doc. sui rifugiati politici nell’ambasciata italiana a Santiago del Cile dopo il colpo di stato militare di Pinochet nel 1973.

Il Caimano (2006)

Trama: Appassionato di film-spazzatura (Cataratte, Maciste contro Freud, Mocassini assassini), il produttore semi fallito Bruno Bonomo (Silvio Orlando) è pieno di debiti, ipoteche e in rotta con Paola (Margherita Buy), moglie amatissima che gli ha dato due figli e vuole separarsi da lui. Quando riceve da una giovane regista, Teresa (Jasmine Trinca) una sceneggiatura sul “Caimano” (termine coniato dalla scrittore Franco Cordero sulle pagine del quotidiano “La Repubblica” per Berlusconi) un imprenditore miliardario che fonda un partito e diventa capo del governo, lui che “de sinistra” non è, s’affanna a trovare gli euro per finanziarlo, ma non ci riesce perché tutti lo abbandonano” (Morandini). Però, almeno una scena – anche se non si capisce bene dove possa trovare i soldi (sarà forse solo un sogno) la gira, quella del processo finale al Caimano/Berlusconi che verrà condannato a sette anni…

- Il film politico italiano più atteso, odiato ed amato e comunque discusso degli anni zero del terzo millennio. All’apice del successo artistico raggiunto a Cannes con la Stanza del figlio, dopo l’impegno diretto a partire dal 2002 nel creare il movimento dei “girotondi” contro la sinistra tradizionale a suo giudizio votata alla sconfitta, Moretti ritorna a fare un film esplicitamente legato ad un argomento di attualità politica. - Per la prima volta in trent’anni di carriera Moretti e/o i suoi alter ego non sono i protagonisti di un suo lavoro ma si affida, invece, a Silvio Orlando (l’attore professionista che più spesso è comparso nei film di NM: 5 volte). Tuttavia comparirà nel finale ritagliandosi un grande cammeo nella parte di Berlusconi stesso. Il Caimano (2)

- Il caimano parla di temi e personaggi politici ma è, soprattutto, come Sogni d’oro o Aprile, un film sul cinema o meglio su un film da fare (o non fare) e si avvale di una sceneggiatura molto ambiziosa ed originale quanto caleidoscopica e frammentata. Moretti mostra alcuni momenti ed aspetti della carriera di Silvio Berlusconi di volta in volta visualizzato e/o interpretato da riprese televisive e da tre attori diversi: Elio De Capitani, Michele Placido che fa la parodia di Volontè (e l’autoparodia di se stesso ) e infine il cammeo finale di Moretti stesso nelle parta edi un Berlusconi vincitore su tutti.. -Molti gli elementi caratterizzanti: l’autoironia su se stessi, l’uso dei documenti visivi (come una celebre gaffe di Berlusconi ), la caricatura di Placido che si paragone a Gian Maria Volontè in Todo Modo (1976) di Elio Petri , il tentativo di fare un film politico che ambisce ad essere diverso da quello del cinema classico italiano. - Con tutti i suoi possibili difetti e errori , però,Todo modo oIl caso Mattei (1972) di Francesco Rosi restano a paragone del Caimano, in una comune indignazione morale, molto superiori perché non vogliono essere metacinema che chiede sempre al cinema una giustificazione del proprio operato. Se la confezione è comunque alta - musiche di Franco Piersanti, fotografia di Arnaldo Catinari – il risultato, però, resta abbastanza deludente. - Se Marco Bellocchio aveva concluso Buongiorno notte (2003) con un sogno utopico (quello di Aldo Moro liberato), qui invece Moretti chiude il film con un incubo terribile, dove si abbandona ad una utopia negativa e a una visione distopica dove Berlusconi può realizzare quello che vuole.

Gabriele Salvatores (1950)

- Nato a Napoli, si trasferisce a Milano con la sorella e i genitori e inizia la sua attività artistica fondando nel 1972 il Teatro dell'Elfo, con il quale ha diretto molti spettacoli, definibili d'avanguardia. Proprio da uno di essi nasce nel 1983 la sua prima regia cinematografica, Sogno di una notte d'estate. -Abbandona il teatro nel 1989, anno in cui passa al mondo del cinema. Marrakech Express (1989) e Turné (1990) sono stati girati con il suo gruppo di attori-amici tra i quali Diego Abatantuono (insieme al quale e a Maurizio Totti possiede e gestisce la società di produzione cinematografica "Colorado“ ) e Fabrizio Bentivoglio. La consacrazione internazionale giunge con l’oscar a Mediterraneo (1991) che chiude la cosiddetta "trilogia della fuga", idealmente proseguita nel 1992 da Puerto Escondido, tratto dal romanzo omonimo di Pino Cacucci.

- Segue Sud (1993), tentativo di denuncia della situazione politica e sociale dell'Italia in cui spicca l'interpretazione di Silvio Orlando. - Nirvana (1997) con le sue atmosfere cyberpunk apre l'inizio di un periodo di sperimentazione narrativa e il film diventa il maggiore successo commerciale del regista. Il periodo sperimentale-fantascientifico prosegue nei primi anni 2000 con le regie di Denti (2000) e Amnèsia (2002), entrambi con Sergio Rubini come interprete.

Gabriele Salvatores (2)

- Nel 2003 altro cambio di rotta con un film sui rapimenti, Io non ho paura, tratto dall'omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. - In Quo vadis, baby? (2005), tratto dall'omonimo romanzo di Grazia Verasani, Salvatores riprende la sua sperimentazione usando tecniche digitali per tutto l film, dando vita a un noir sui generis con atmosfere dark e spazi al limite della claustrofobia. Il ruolo di protagonista è stato affidato all'attrice e musicista Angela Baraldi. Da esso è stata tratta nel 2008 una miniserie con la gran parte degli interpreti del film. Nello stesso anno il regista torna a dirigere Come Dio comanda ricavato sempre da un romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti. - Happy Family (2010) è invece tratta da una commedia teatrale di Alessandro Genovesi. A settembre dello stesso anno, fuori concorso al Festival di Venezia viene presentato il documentario di montaggio1960. - Dopo Educazione Siberiana (2013) una delle sue opere più infelici, dall'omonimo romanzo autobiografico di Nicolai Lilin, realizza nel 2014 prima il doc. Italy in a day e poi Il ragazzo invisibile, che segna la sesta collaborazione del regista con Fabrizio Bentivoglio, nonché il ritorno di Salvatores al mondo della fantascienza e dei supereroi all’italiana. Nel 2018 esce il sequel Il ragazzo invisibile - Seconda generazione.

Mediterraneo (1991)

Con : Diego Abatantuono, Claudio Bigagli, Giuseppe Cederna, Claudio Bisio, Gigio Alberti Trama: 1941. Uno scalcinato manipolo di soldati italiani ha l'ordine di presidiare un'isola greca, apparentemente deserta. C'è il tenente Montini col suo attendente Farina, ci sono il sergente Lo Russo, il marconista Colasanti e Strazzabosco, legatissimo a una mula. In una rissa si è rotta la radio, così l'isolamento è totale. I soldati si trascinano nell'ozio finché ricompaiono gli abitanti, tutti vecchi e donne. C'è anche la bella prostituta Vassilissa che fa l'amore con tutti ma ama soltanto il timido Farina. Ecco che dopo 3 anni atterra un ricognitore e il pilota informa il gruppo che Mussolini è caduto e che gli alleati adesso sono gli americani. Tutti, meno Farina che sposa Vassilissa, tornano a casa malvolentieri. Con un epilogo amaro a distanza di anni. Quinto film di Gabriele Salvatores, terzo di successo dopo Marrakesh Express (1989) e Turné (1990). Un passo avanti nello stile di Salvatores che ormai ha raggiunto un suo riconoscibile linguaggio artistico. Ha ottenuto l'Oscar quale miglior film straniero, un riconoscimento a dir poco generoso.

Giorgio Diritti (1959) Bologna 1959, Giorgio Diritti ci ha consegnato sinora tre lungometraggi di finzione (oltre a tre opere di teatro e due volumi tra cui il romanzo Noi due, 2014), E’ nel cinema italiano contemporaneo (verso cui mantiene una decisa distanza, quasi aristocratica), un importante autore a se stante e fuori da ogni tendenza. Diritti si è formato lavorando al fianco di vari registi italiani e in particolare del concittadino ,con cui collabora per vari film. Ha realizza vari casting per film in Emilia-Romagna, tra cui La voce della luna (1990) di Federico Fellini. Ha partecipa all'attività di “Ipotesi Cinema”, fondato e diretto da (1931 – 2018). Come autore e regista dirige documentari, cortometraggi e programmi televisivi. In ambito cinematografico il suo primo corto, è Cappello da marinaio (1990) mentre il suo lungometraggio d'esordio, Il vento fa il suo giro (2005), ha partecipato a oltre 60 Festival nazionali e internazionali, vincendo oltre 36 premi. Il secondo film, L'uomo che verrà (2009), è stato presentato nella selezione ufficiale del Festival di Roma 2009, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria Marc'Aurelio D'argento, il Premio Marc'Aurelio D'oro del Pubblico e il Premio "La Meglio Gioventù“.. Nel 2013 dirige Un giorno devi andare, di cui ha curato anche soggetto e sceneggiatura, che è stato presentato in anteprima al prestigioso Sundance Film Festival negli Usa. Nel 2014 ha pubblicato il suo primo romanzo. Sta preparando il suo quarto film.

L’uomo che verrà (2009)

Con: Greta Zuccheri Montanari (Martina), Maya Sansa (Lena), Alba Rohrwacher (Beniamina), Claudio Casadio (Armando). Trama: Nell'inverno 1943-1944 sull'Appennino emiliano, la piccola Martina, di 8 anni, vive con i genitori e la numerosa famiglia che fa fatica a sopravvivere. Dalla morte del fratello più piccolo, ha smesso di parlare e questo la rende oggetto di scherno da parte dei coetanei, tuttavia il suo sguardo sul mondo che la circonda è molto profondo. La guerra arriva anche sul Monte Sole ricoperto di neve. La madre Lena resta nuovamente incinta e Martina segue i nove mesi della gestazione, mentre le vicende della guerra si intersecano con la quotidianità della vita contadina: il bucato, le ceste, la stalla, la macellazione del maiale, gli amoreggiamenti dei giovani, la Prima Comunione. Il fratellino di Martina nasce in casa, a fine settembre del 1944. Allo spuntar del giorno le SS e l’esercito tedesco mette in atto un feroce rastrellamento, ricordato come la Strage di Marzabotto: vecchi, donne e bambini vengono trucidati, dopo esser stati raccolti nei cimiteri, nelle chiese e nei casolari. Martina, che era riuscita a fuggire, viene scoperta e rinchiusa in una chiesetta insieme a decine di altre persone e, dopo avere chiuso le porte, attraverso le finestre i soldati lanciano delle granate per fare una strage. La bambina resta miracolosamente illesa e torna a casa, trovando solo stanze vuote e silenzio: prende la cesta con il fratellino, che aveva nascosto in un rifugio dentro il bosco, e va nella canonica di un sacerdote. Finita la strage, fa ritorno al casolare di famiglia, dove si prende cura del fratellino intonando per lui una ninna nanna. Ha riacquistato l'uso della parola.

L’uomo che verrà (2009) (2)

- Dai registi con cui ha collaborato, Giorgio Diritti ha di fatto mutuato alcune caratteristiche della sua opera: dal concittadino, Pupi Avati (1938) ha appreso l’importanza del lavoro con gli attori, la concezione dell’arte che non disdegna la concretezza del migliore artigianato; dal romagnolo Fellini ha imparato l’ottica di una discreta nostalgia dei tempi andati per avventurarsi nel sogno, l’idea che fare un film ambientato nel passato implica e impone la stessa libertà di farne uno ambientato nel futuro. Infine da Ermanno Olmi (1931 – 2018) ha ricevuto in dote l’attenzione a un epos degli umili e il non tirarsi indietro di fronte anche a scelte scomode, ma che rileggono la tensione realistica in una chiave superiore. - Il regista si è lungamente documentato per questo film che racconta l’eccidio di Monte Sole (più noto come la strage di Marzabotto), un insieme di massacri compiuti dalle truppe nazifasciste tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 in quella zona delle colline bolognesi. E’ stato uno dei più gravi crimini di guerra compiuti contro la popolazione civile dalle SS durante la II°guerra mondiale con 1830 morti accertati. - Nei titoli di coda si dichiara che i personaggi e le vicende del film sono frutto di finzione, ma lo sfondo storico è reale e alcuni personaggi del film sono veramente esistiti. -L’uomo che verrà ha in comune con La Notte di San Lorenzo dei Fratelli Taviani la centralità di un’ottica infantile e il ricordo radicato nelle memoria collettiva della popolazione locale di un grande trauma storico. Il film di Diritti è però molto più realistico a partire dal fatto che è recitato in stretto dialetto bolognese e con un mix di attori professionisti e non. - Il rapporto tra singoli e collettività è il cuore più pulsante di tutto il cinema di Giorgio Diritti mentre l’equazione tra Uomo, Storia e Territorio connota un preciso rapporto della macchina da presa con il territorio che ospita la narrazione.

Marco Tullio Giordana (1950) Bio-filmografia (1) Nato a Milano nel 1950, Giordana è autore di film a metà tra fiction e documentario, strettamente legati alla realtà storica dei fatti. Con la collaborazione di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, creatori della maggior parte delle sue sceneggiature, ha rinnovato la tradizione del cinema impegnato degli anni Settanta, indagando i casi controversi della nostra storia, dalle vicende di Peppino Impastato al delitto Pasolini, fino alla grande saga familiare La meglio gioventù. Dopo intense esperienze politiche, si avvicina al cinema collaborando con alla realizzazione diel doc. Forza Italia! alla fine degli anni Settanta. L'esordio alla regia avviene con Maledetti vi amerò! (1980), divertita ma amara riflessione (una delle prima se non la primissima) sulla generazione del '68. A quest'ultimo tema è dedicato anche La caduta degli angeli ribelli (1981), senza però riuscire a raggiungere i risultati del film precedente. In Notti e nebbie (1984, dall’omonimo romanzo di Carlo Castellaneta) si narra il periodo della Repubblica di Salò, la Resistenza e la guerra civile dal punto di vista del fascismo, diventando così uno dei rari esempi di cinema d'inchiesta. Anche se meno incisivo e con qualche ingenuità di sceneggiatura, Appuntamento a Liverpool (1987) racconta, invece, la strage dell'Heysel, la tragedia avvenuta nel 1985, poco prima dell'inizio della finale di Coppa dei Campioni di calcio tra Juventus e Liverpool allo stadio di Bruxelles, in cui morirono 39 persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600. Marco Tullio Giordana Bio- filmografia (2) Nel 1995 realizza il docu-drama Pasolini un delitto italiano dove si cerca di far luce sugli errori e sulla sospettosa fretta delle indagini sull'omicidio efferato avvenuto a Ostia. È il primo film popolare che racconta la morte del grande poeta e cineasta italiano. Nel 2000 arriva il grande successo de I cento passi interpretato da Luigi Lo Cascio, ispirato alla breve vita di Peppino Impastato, giovane militante siciliano che, per aver osato combattere i mafiosi del suo paese, viene ucciso dai complici del boss Tino Badalamenti, lo stesso giorno in cui a Roma si scopriva il cadavere dell'onorevole Aldo Moro ammazzato dalle Brigate Rosse. Dopo questo film e La meglio gioventù , l'amore per le lotte storico-sociali diventa sempre più la chiave stilistica di Giordana, con Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) si affronta le contraddizioni di una famiglia borghese nei confronti della solidarietà per gli immigrati clandestini. Nel 2008 lo vediamo alle prese con Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, interpretati da Monica Bellucci e Luca Zingaretti, in Sanguepazzo, in cui si percorre gli ultimi anni di vita dei due attori, dalla fedeltà alla Repubblica di Salò all'uccisione per mano dei partigiani. Nel 2012 infine esce Romanzo di strage, dedicato al sanguinoso attentato di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e ai fatti che ne seguirono, fino all'assassinio del commissario Luigi Calabresi il 17 maggio 1972., nel quale dirige Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea e Laura Chiatti.

La meglio gioventù (2003)

Con: Luigi Lo Cascio (Nicola), Alessio Boni (Matteo), Sonia Bergamasco (Giulia), Maya Sansa, Fabrizio Gifuni, Adriana Asti, Jasmine Trinca, Valentina Carnelutti, Riccardo Scamarcio, Claudio Gioé. Trama: Trentasette anni di storia italiana, dall'estate del 1966 fino alla primavera del 2003, attraverso le vicende di una famiglia della piccola borghesia romana e la storia di due fratelli, Nicola e Matteo. Durante l'alluvione a Firenze del '66, Nicola si innamora di Giulia e la segue per vivere nella città di lei, Torino. E' la Torino degli anni '70, sullo sfondo del terrorismo, dei problemi operai e dell'immigrazione dal Sud. Su questo incipit si prosegue fino al 2003 per chiedersi e chiederci che cosa sia cambiato da allora e cosa sia rimasto uguale. - Il film nasce come miniserie televisiva in quattro episodi, un lavoro che la Sacher di Moretti e Barbagallo produce per la RAI e che quest'ultima, per motivi niente affatto chiariti, non manda in onda nonostante per ben due volte ne avesse annunciato la trasmissione. Giordana riesce a portare la sua opera a Cannes, vince con clamore la sezione “Un certain regard” - Un'opera storica di 6 ore magnificamente interpretata da un grande cast, ma soprattutto: “un affresco che descrive l'evoluzione dei costumi, dei rapporti familiari e le trasformazioni sociali e qualche riflessione pungente sulla politica del nostro Paese”.

Paolo Sorrentino (1970) - Nato il 31 Marzo 1970, napoletano purosangue, Paolo Sorrentino, regista e/o sceneggiatore di tutti i suoi film si è distinto per uno tipologia di cinema molto personale ma anche internazionale (già la sua opera seconda approda al grande traguardo del Festival Di Cannes). E’ anche autore letterario. - Sorrentino esibisce uno stile rigoroso, quasi geometrico e molto costruito nella scelta delle inquadrature e dei movimenti di macchina quanto innovativo ed eccentrico a livello di scrittura della sceneggiatura. Tutto il contrario di Matteo Garrone. - La sua è una fucina di storie e di personaggi tanto forti quanto originali, in cui mostra uno spirito creativo e sofisticato anche sul piano visivo e musicale, passando in modo disinvolto da Ornella Vanoni all’elettronica o meglio l’”indietronica“ (indie electronic) dei Lali Puna. Paolo Sorrentino (2)

- Pur fatte alcune esperienze pratiche, Sorrentino proviene soprattutto dal mondo della scrittura cinematografica (vincitore del Premio Solinas nel 1997 con Dragoncelli di fuoco, e altre esperienze come la serie tv La squadra). - Esordisce con il pluripremiato L’uomo in più (2001), forse il miglior film di debutto dai tempi dei Pugni in tasca di Bellocchio, dopo due corti tra cui L’amore non ha confini (1998), con cui inizia la sua collaborazione con la società napoletana “Indigo Film” (produttrice di tutti i suoi lavori). Qui inizia anche un fortunato sodalizio artistico-produttivo, con l’attore Toni Servillo (Afragola/Napoli, 1959), protagonista e alter ego di gran parte delle sue opere.

L’uomo in più (2001) Con: Toni Servillo, Andrea Renzi, Nello Mascia, Angela Goodwin. Trama: si raccontano le vite parallele negli anni ottanta a Napoli di due persone dallo stesso nome, Antonio Pisapia. Il più vecchio Tony (Servillo) è un cantante di successo cocainamane; l’altro ( Renzi) è un onesto calciatore che vorrebbe diventare allenatore. Entrambi, inizialmente ricchi e famosi, cadono in disgrazia, cercano di rialzarsi ma precipitano nell’abisso. - Ispirato a personaggi reali - il cantautore Franco Califano (1938-2013) e il calciatore De Bartolomei - il film si svolge in una Napoli diversa, spietata e cinica senza mai essere folkloristica. L’occhio di Sorrentino è caratterizzato da uno sguardo critico sugli ambienti della canzone e del calcio, ma senza un taglio predicatorio: l’amarezza sui destini e i casi della vita prevale sull’ indignazione morale. Il suo sembrerebbe quasi un cinema di pedinamento post-zavattianiano ma rivisto con luce tutta moderna che racconta con intensità, pudore e precisione di dettagli e che evita le scorciatoie e i clichè della sintassi narrativa tipici della produzione mainstream americana. Paolo Sorrentino (3) - Segue il meno riuscito Le conseguenze dell’amore (2004) dove inizia a collaborare con il grande direttore della fotografia Luca Bigazzi che è presentato al Festival di Cannes, sempre con Toni Servillo nell’abito di un drogato, di un personaggio scomodo e antipatico. Il protagonista vive nell’albergo di un luogo imprecisato del Canton Ticino e nasconde un segreto che emergerà a poco a poco anche grazie al progressivo innamoramento per la ragazza del bar dell’hotel. La grande raffinatezza stilistica del film sul piano visivo si accompagna però con un testo molto scritto che appesantisce il film, malgrado la bravura del protagonista . - Come il precedente (e il successivo) il film è montato da Giogiò Franchini poi sostituito a partire da Il divo da Cristiano Travaglioli. Paolo Sorrentino lavora (attore, tecnici) quasi sempre con le stesse persone. .Ritorna di nuovo a Cannes con L’amico di famiglia (2006), storia del vecchio usuraio Geremia de’ Geremei (Giacomo Rizzo – è il primo film senza Toni Servillo), ulteriore sgraziato antieroe nella galleria di creature disperate create dalla penna e dalla macchina da presa del regista napoletano.

Il Divo (2008)

Nel 2008 sempre in Concorso al Festival di Cannes realizza Il Divo, scomodo ritratto della figura di Giulio Andreotti (1919 – 2013) - di nuovo interpretato dal suo attore feticcio Toni Servillo - nel periodo della sua discesa politica , raccontata nel periodo tra 1991 e 1993, a cavallo tra la presentazione del VII Governo Andreotti e l'inizio del processo di Palermo per collusioni con la mafia. Il film riceve il premio della Giuria (Garrone invece il Gran Prix della Giuria con Gomorra). I due film sono antitetici: “barocco” e scritto l’uno, “lineare” e improvvisato l’altro. Paolo Sorrentino (4)

A Il Divo (2008) segue il meno fortunato This Must Be the Place (2011), scritto con Umberto Contarello e interpretato da Sean Penn, Frances McDormand e Judd Hirsch, il suo primo lavoro in inglese e ad alto budget. - Il titolo del film è un tributo alla canzone “This Must Be the Place” dei Talking Heads, del 1983. Infatti il protagonista è una ex rock star degli anni ottanta ritiratosi dalle scene anche se continua a vestirsi come se ciò non fosse avvenuto e non a caso le musiche del film sono state scritte da David Byrne ex leader dei Talking Heads con la collaborazione del cantautore indie Will Oldham. -Ancora una volta nella storia troviamo un personaggio che parecchi punti di contato con i precedenti: Cheyenne, rocker ormai in disarmo ma che un tempo fu celebre e di quella celebrità gode ancora i frutti economici, è un uomo che quotidianamente si trasforma in maschera ma ha un enorme problema irrisolto con il padre. Che dovrà cercare di affrontare quando muore.

- Nel 2010 Sorrentino esordisce anche in letteratura con Hanno tutti ragione (risultato terzo classificato al Premio Strega) a cui è seguito il libro di racconti Tony Pagoda e i suoi amici (2012) ispirato al personaggio del cantante de Un uomo in più.

La grande bellezza (2013)

Con: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Massimo Popolizio, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek.

Trama: Scrittore di un solo libro giovanile, "L'apparato umano", Jep Gambardella, giornalista di costume, critico teatrale, opinionista tuttologo, compie sessantacinque anni chiamando a sé, in una festa barocca e cafona, il campionario freaks di amici e conoscenti con cui ama trascorrere infinite serate sul bordo del suo terrazzo con vista sul Colosseo. Trasferitosi a Roma in giovane età, come un novello vitellone in cerca di fortuna, Jep rifluisce presto nel girone dantesco dell'alto borgo, diventandone il cantore supremo, il divo disincantato. Re di un bestiario umano senza speranza, a un passo dall'abisso, prossimo all'estinzione, eppure ancora sguaiatamente vitale fatto di poeti muti, attrici cocainomani fallite in procinto di scrivere un romanzo, cardinali-cuochi in odore di soglio pontificio, imprenditori erotomani che producono giocattoli, scrittrici di partito con carriera televisiva, drammaturghi di provincia che mai hanno esordito, misteriose spogliarelliste cinquantenni, sante oracolari pauperiste ospiti di una suite dell'Hassler. Jep Gambardella tutti seduce e tutti fustiga con la sua lingua affilata, la sua intelligenza acuta, la sua disincantata ironia. (My Movie)

La grande bellezza Come al solito in Concorso a Cannes, è il tentativo per me riuscito di riscrivere attualizzata La dolce vita (1960) di Federico Fellini, riportando in Italia dopo 15 anni la statuetta dell’oscar come miglior film straniero. Si tratta di un film piuttosto antinarrativo che è piaciuto quasi più all’estero che non in Italia dove ha avuto numerosi detrattori. Ne esistono due versioni diverse. Personalmente lo considero il culmine dell’opera del regista napolatano. “Forse l’opera più ambiziosa di Sorrentino fino ad oggi, La grande bellezza è un film che vive delle stesse contraddizioni che racconta, di eccessi barocchi e intimità commoventi, momenti di un surrealismo concretissimo come di puro e cristallino godimento estetico essenziale, di una crepuscolarità costante e ininterrotta perfino dalla luce del giorno e momenti di straordinaria lucidità su sé stessi e sul mondo. Un film opulento per ragionata necessità, ma nel quale il regista trova perfino, niente affatto paradossalmente, lo spazio per calmierare la scalmatezza della sua vorticosa macchina da presa”.

le ultime opere di Sorrentino

. Con Youth - La giovinezza , al solito in Concorso al Festival di Cannes 2015, Sorrentino realizza la sua seconda opera in lingua inglese per l’interpretazione di Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano e Jane Fonda. Dedicato a Francesco Rosi, il film è ambientato prevalentemente in Svizzera è caratterizzato da uno stile particolarmente estatico e rarefatto. A molti è sembrato lezioso ma è sempre girato con grandissima maestria. . Infine nel 2016 scrive e dirige la sua prima serie tv prodotta da Sky, Canal + e HBO, The Young Pope, con Jude Law, Diane Keaton e Silvio Orlando protagonisti, che ha riscontrato molte critiche positive. . Infine il film su Silvio Berlusconi (2018), Loro, in due parti, con il “mattatore” Tony Servillo, un lavoro estremamente diverso da quello di Nanni Moretti.

Matteo Garrone (1968)

- Nasce a Roma il 15 ottobre 1968 da una famiglia intellettuale: il padre, Mirco, è un critico teatrale, la madre una fotografa. A Scuola , il giovane Matteo pratica con successo Il tennis. Si diploma al Liceo Artistico nel 1986, prima lavora come aiuto operatore e poi si dedica alla pittura, a tempo pieno. - Debutta con il cortometraggio Silhouette (1996), che vince il Festival Sacher. Nel 1997 realizza il primo lm,Terra di mezzo, un collage di tre storie di immigrazione (prostitute nigeriane, giovani albanesi in caccia di un lavoro qualsiasi, un egiziano che di notte fa il benzinaio abusivo) ambientate nei dintorni e dentro Roma. - Sempre nel 1997 gira, a New York, il doc. Bienvenido Espirito Santo; dopo l’incontro con gli sceneggiatori Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata, firma in co- regia, Un caso di forza maggiore e, poi il doc. Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni e il suo secondo lm, Ospiti (1998) che sembra essere la continuazione meno riuscita del secondo episodio di Terra di mezzo. - Garrone affina però il suo stile e modo di concepire il cinema: troupe ridottissima di fedeli adepti, sempre più una sorta di ‘famiglia‘’quasi fissa (la fotografia di Marco Onorato, il montaggio di Marco Spoletini, le musiche della Banda Osiris); presa diretta sulla realtà, sia visiva che auditiva; utilizzo personale delle logistiche di produzione, con possibilità, di ritornare sui set e sulle riprese. A questa maniera resterà negli anni fedele.

Estate romana (2000) Dopo aver affrontato il tema dell’emigrazione senza retorica, si occupa del mondo dello spettacolo e delle cantine romane nel suo terzo e meglio riuscito film rispetto al precedente, Estate romana (2000) presentato al Festival di Venezia. Trama: nella Roma accaldata del 1999, invasa dai cantieri per il Giubileo del 2000, si sovrappongono gli itinerari tragicomici di uno scenografo pigro senza ambizioni (Salvatore Sansone) e del suo grande mappamondo, della sua assistente (Monica Nappo) in lotta continua con la suocera megera e di una ex attrice (Rossella Or) di teatro off, che, rimpatriata dopo molti anni, si trova alquanto spaesata e depressa. Con piazza Vittorio come punto di partenza, è un viaggio attraverso una Roma inedita e teatrale all'insegna di una precarietà subita, ma anche accettata con una tranquillità non priva di irrequietezza.

L’imbalsamatore (2002)

. Con L’imbalsamatore (2002), il regista romano fa un salto di qualità estetica ma resta fedele al tema della marginalità che affrontato affinando il discorso in una direzione più introspettiva (e di genere). Sono cambiate un po’ le logiche di produzione (prima l’autoproduzione indipendente adesso la Fandango di ), ma non varia il suo approccio personale. La realtà della storia viene letta con il sentimento del documentarista o del fotografo: alla ricerca della verità, Garrone è interessato a rivelare l’essenziale, indagato con occhio clinico. . Scritto con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, ispirato a un fatto di cronaca romana, reinventato da Vincenzo Cerami in L'omicidio del nano (in Fattacci, 1997), rappresenta un raro esempio di noir all'italiana che coniuga cinema d'atmosfera con lo scavo psicologico e il racconto d'azione. . Analizzando i personaggi e le rispettive funzioni attribuite in maniera ricorrente nella filmografia di Garrone, si assiste al suo intento di voler sublimare anche argomenti di pressante attualità presenti nel cinema contemporaneo, con elementi chiaramente riferibili alla tradizione favolistica più esplicita in alcuni sui film successivi, oltre poi a veicolare la trasmissione dei contenuti alla maniera orale, attraverso la macchina da cinepresa.

Primo amore (2003) . Presentato con una certa risonanza mediatica, segue Primo amore (2003), dal romanzo Il cacciatore di anoressiche di Marco Mariolini, sceneggiato dal regista con Massimo Gaudioso e lo scrittore vicentino Vitaliano Trevisan (quest'ultimo anche protagonista improvvisato insieme all’attrice teatrale Michela Cescon alla prima esperienza dietro la mdp). . Con Primo amore Garrone continua il discorso iniziato ne L’imbalsamatore sullo squallore della provincia italiana profonda e quello su degli amori perversi. E lo fa sempre con il suo stile “rubato” alla vita. Primo amore è un film molto disturbante soprattutto per l’insistita ripresa sulla nuda e spaventosa magrezza della protagonista che è stata costretta a dimagrire più di 15 kl per rendere la parte della ragazza anoressica.

Gomorra (2008) . Dopo diversi anni di attesa e sempre prodotto dalla Fandango, Garrone torna dietro la mdp nel 2008 per cimentarsi con la trasposizione cinematografica del bestseller sulla camorra e la criminalità napoletana dello scrittore Roberto Saviano (1979), Gomorra (2006, 2.000.000 di copie vendute in Italia, 33 traduzioni nel mondo). Un film senza: Senza linearità, senza protagonista, senza attori noti (tranne Toni Servillo), senza molte scene-madri, senza variazioni di tono, senza prediche, senza catarsi. . Si parla di potere, sangue, soldi attraverso l'incrocio di 5 vicende che si annodano fluidamente senza danneggiare l'omogeneità narrativa. Racconta la camorra tra Napoli e Caserta, un sistema che - secondo i titoli di coda - ha ucciso in 30 anni più di 10.000 persone. Con le altre mafie (Sicilia, Calabria, Puglia) – dicono sempre le statistiche - fa parte di un impero criminale con un giro d'affari di 150 miliardi di euro l'anno ( la Fiat arriva a 58). Non li guadagna soltanto con droga, armi, estorsioni. Fa affari in tutto. Omicidi a parte, è la storia di una normalità, di una catastrofe pulita, di una Chernobil alla diossina. Un opera devastante.

Gli ultimi film Dopo il grande successo di Gomorra ,nel 2012 gira Reality, con cui vince di nuovo il Grand Prix a Cannes. Ispirato – sembra - alla vera storia dell'allora cognato di Garrone, che nella realtà svolgeva la professione di pescivendolo e aveva cercato di sfondare nel mondo dello spettacolo tramite il “Grande Fratello”, il film è una commedia grottesca sull'influenza negativa che hanno i reality show sulle persone. Il protagonista, interpretato da un attore che si era formato in carcere, è tanto ossessionato dall’idea del successo che finisce con il perdere il senso della realtà, distorcendo la percezione di ciò che lo circonda. Sempre in questa chiave stilistica ma con un cast internazionale tra cui Salma Hayek, Vincent Cassel, John C. Reilly e Toby Jones , nel 2015 dirige Il racconto dei racconti - Tale of Tales, adattamento di tre racconti della raccolta di fiabe “Lo cunto de li cunti “di Giambattista Basile, pubblicata postuma tra il 1634 ed il 1636. Si tratta di un film coraggioso e atipico nel panorama del cinema italiano attuale, un opera di fantasy dalle tinte horror che purtroppo ha avuto scarso successo di pubblico malgrado l’ottima accoglienza critica. Infine nel 2018 esce Dogman, ispirato alle vicende del delitto di Pietro De Negri, detto il ”Canaro della Magliana”; a Cannes è valso al protagonista, Marcello Fonte, il Prix d'interprétation masculine. Sta preparando una nuova versione di Pinocchio.

Daniele Vicari (1967) . Nato a Collegiove, (Rieti), nel 1967, si laurea in “Storia e Critica del cinema” all’Università la Sapienza di Roma. Collabora dal 1990 al 1996 come critico cinematografico alla rivista “Cinema Nuovo” e poi dal 1997 al 1999 a “Cinema 60”, interessandosi soprattutto di cinema d’impegno. La passione per questo genere si riverbera anche nelle sue prime produzioni di cortometraggi: Il nuovo, in 16 millimetri, seguito poi da Mari del Sud, che tocca temi socio-ambientali. Nel 1997, collabora con Guido Chiesa, Davide Ferrario, Antonio Leotti e Marco Simon Puccioni, al documentario collettivo Partigiani, che racconta la lotta al nazismo e al fascismo della cittadina emiliana di Correggio (Reggio Emilia). . Il genere documentaristico d’impegno socio-politico ha costituito il centro di ben quattro corti realizzati nel 1998: Comunisti, in cui descrive omicidi di sacerdoti cattolici per mano di partigiani comunisti nell’Italia dell’immediato dopoguerra; Uomini e lupi, ritratto sulla vita dei pastori del Gran Sasso, Bajram e Sesso, marmitte e videogames, sulla passioni automobilistiche degli italiani. . Nel 1999, dopo aver collaborato a Non mi basta mai, storia di cinque operai licenziati dalla FIAT nel 1980, dirigerà Morto che parla, dedicato all’attore di Pier Paolo Pasolini Mario Cipriani, (protagonista nel 1963 de La ricotta)

Daniele Vicari (2) . Il terzo millennio si apre con il passaggio al cinema di finzione in Velocità Massima (2002), in concorso alla Mostra di Venezia, con cui vince il David di Donatello come miglior regista esordiente. Nel 2005, L’orizzonte degli eventi partecipa al Festival di Cannes nella sezione Semaine de la Critique. Nel 2007, con il doc. Il mio paese, riceve un secondo David di Donatello per il miglior documentario di lungometraggio. Nel 2008 presenta al Festival di Roma Il passato è una terra straniera, con protagonista , trasposizione del romanzo di Gianrico Carofiglio. . Dopo Diaz - Don’t Clean Up This Blood del 2012. che si aggiudica quattro David di Donatello, al Festival di Venezia sempre nel 2012 presenta come evento speciale fuori concorso il doc. La nave dolce che si aggiudica il “Premio Pasinetti”. . I suoi due ultimi film sono Sole cuore amore (2017) con Isabella Ragonese, Eva Grieco e Francesco Montanari e questo anno il tv movie Prima che la notte in cui racconta la storia di Pippo Fava (interpretato da Fabrizio Gifuni), giornalista ucciso da Cosa nostra il 5 gennaio 1984. . È il direttore artistico della Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté.

Diaz-NON PULIRE QUESTO SANGUE (2012)

Con: Claudio Santamaria, Jennifer Ulrich, Elio Germano, Davide Iacopini, Ralph Amoussou Trama: Si seguono diversi personaggi: Luca è un giornalista della “Gazzetta di Bologna” che decide di andare a vedere cosa sta accadendo a Genova dove, in seguito agli scontri per il G8, un ragazzo, Carlo Guliani, è stato ucciso. Alma è un'anarchica tedesca che ha partecipato agli scontri e ora, insieme a Marco (organizzatore del Social Forum) è alla ricerca dei dispersi. Nick è un manager francese giunto a Genova per seguire il seminario dell'economista Susan George. Anselmo è un anziano militante della CGIL che ha preso parte al corteo pacifico contro il G8. Bea e Ralf sono di passaggio ma cercano un luogo presso cui dormire prima di ripartire. Max è vicequestore aggiunto e, nel corso della giornata, ha già preso la decisione di non partecipare a una carica al fine di evitare una strage di pacifici manifestanti. Tutti costoro e molti altri si troveranno la notte del 21 luglio 2001 all'interno della scuola “Diaz” dove la polizia scatenerà l'inferno.

Prodotto dalla Fandango, girato in gran parte in Romania, il film si pone nel solco del cinema d’impegno civile degli anni Settanta per ricostruire uno degli episodi più scandalosi della storia dell’ Italia repubblicana. Un film che vuole essere un monito. E’ stato detto a questo proposito in una recensione: “Una notte da dimenticare diranno alcuni. Una notte da ricordare afferma con forza e rigore questo film. Perché fatti simili non accadano più .”