Matteo Bandello
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NOVELLE Matteo Bandello VOL.III LA TERZA PARTE DE LE NOVELLE DEL BANDELLO IL BANDELLO AI CANDIDI ED UMANISSIMI LETTORI SALUTE La pena e il fastidio, lettori miei umanissimi, che io ho sofferto in raccogliere le scritte da me novelle, poi che io partii d'Italia e venni ad abitare su la Garonna ne l'Agenese, molti hanno veduto, i quali sanno che due volte ho mandato a posta in Italia per la ricuperazione di quelle. Né perciò, con quanta diligenza mi sia sforzato usare, ho saputo tanto studiarmi giá mai che intieramente le abbia potute ricuperare. Onde essendo data fuori la prima e seconda parte di quelle, non mi pare per convenienti rispetti tardar piú a mandar appo le due la terza. E non avendo potuto servar ordine ne l'altre, meno m'è stato lecito servarlo in queste. Il che certamente nulla importa, non essendo le mie novelle soggetto d'istoria continovata, ma una mistura d'accidenti diversi, diversamente e in diversi luoghi e tempi a diverse persone avvenuti e senza ordine veruno recitati. Ora ci saranno forse di quelli che vorrebbero ch'io fosse, non so se mi dica, eloquente, o vie piú di quello che io mi sia in aver scritte queste novelle; e diranno ch'io non ho imitato i buoni scrittori toscani. A questi dirò io, come mi sovviene altrove d'aver scritto, che io non sono toscano, né bene intendo la proprietá di quella lingua, anzi mi confesso lombardo, anticamente disceso da quelli ostrogoti che, militando sotto Teodorico loro re ed avendo le stanze a Dertona, edificarono la mia patria ne la via Emilia tra i liguri cisapennini, non lungi da la foce de la Schirmia, ove quella le prese acque fontanili de l'Apennino e da torrenti accresciute discarca nel re dei fiumi. Essa colonia chiamarono Castelnuovo, che anco oggidí per la civiltá de le nobili famiglie e numerositá del popolo è famosa. Non sarebbe adunque gran meraviglia se io talora usasse alcuna parola triviale, e poco usitata, che spirasse alquanto del gotico. Se la lingua tosca mi fosse stata natia o apparata l'avessi, molto volentieri usata l'averei, perciò che conosco quella esser molto castigata e bella. Nondimeno, per quello che a me ne paia, il coltissimo ed inimitabile messer Francesco Petrarca, che fu toscano, ne le sue rime volgari non si truova aver usate due o tre voci pure toscane, perché tutti i suoi poemi sono contesti di parole italiane, communi per lo piú a tutte le nazioni de l'Italia. Tuttavia se saranno alcuni che vogliano biasimarmi, mi dorrò di non aver saputo a tutti sodisfare. E chi è che possa prestar questo? Ora se al gran poeta Omero non fu perdonato in dir male di lui, vorrò io che a me che nulla sono, sia perdonato? Se ci fu chi Vergilio nomò uomo senza ingegno e di pochissima dottrina, e disse Livio esser un cicalone e di troppe parole ne l'istoria e sovramodo negligente, ed Asinio Pollione, come afferma Quintiliano, diceva che in esso Livio aveva notato non so che di «patavinitá», essendo perciò la facondia liviana miracolosa; e se talora pare a Cicerone che Demostene dorma, ed altresí Orazio giudica d'Omero, vorrò io turbarmi che altri, forse con veritá, mi riprenda e corregga? certamente che io a loro averò debito, ove ragionevolmente mi ripiglieranno, perché, se io non potrò emendar le cose mie, almeno apriranno gli occhi a molti, che da cascar in simiglianti errori si guarderanno. Voi mò, candidi miei lettori che le cose mie leggerete, degnatevi pigliar il tutto con quell'animo che io tutte le mie novelle ho scritto, che fu non ad altro fine certamente se non per dilettare ed avvertir ogni sorte di persone che, lasciate le sconce cose, debbiano attender a vivere onestamente: veggendosi per lo piú che l'operazioni triste e viziose o tardi o per tempo restano punite, restando ne la memoria con eterna infamia; ove le cose ben fatte ed oneste sempre vivono con gloria e sono lodate e celebrate. State sani. IL BANDELLO A LA MOLTO ILLUSTRE SIGNORA LA SIGNORA GENEVRA BENTIVOGLIA E MARCHESA DI FINARIO Chi volesse, valorosa signora mia, de la varietá degli effetti de l'amore render le ragioni, e dimostrare onde avviene che questo, amando, sta lieto, e quell'altro sempre è di mala voglia, questo mai non teme, e quell'altro è di continovo pieno di paura, uno crede il tutto, e l'altro a pena crede ciò che con gli occhi propri vede; sarebbe certo cosa da far sette Iliadi e materia piú tosto da filosofi investiganti la cagione de le cose che da me, che ora solamente attendo a scriver i varii accidenti che in diversi luoghi accadeno, cosí ne la materia de l'amore come in qual altra cosa che si sia. Ed a scriver queste novelle vostra madre fu quella che con molti argomenti m'essortò. Ora questi dí, ragionandosi a la presenza de la vertuosa signora Margarita Pia e Sanseverina di colui che nel borgo di porta Lodovica aveva la notte ammazzato la sua innamorata, Girolamo Bandello mio cugino, uomo ne le lettere greche e latine dottissimo e medico eccellente, che alora era in Milano, narrò un mirabile accidente che tutti empí d'ammirazione grandissima. E certamente egli fu un caso molto mirabile. Onde avendomi, oltre che io era presente quando mio cugino lo narrò, due e tre altre volte il tutto puntalmente detto per farlo narrar ad altri, m'è paruto degno d'esser al numero de l'altre mie novelle accumulato. E perché questa novella è di quelle di cui molte fiate insieme abbiamo ragionato, parendone pur troppo strano ciò che l'amico nostro fa, l'ho voluta intitolare al vostro nome, a ciò che, essendo letta da chi si sia, possa sicuramente ne le mani di ciascuno stare. Io credo bene che saranno di quelli che diranno che non vogliono credere che la cosa fosse vera. A questi tali io dico che questo non è articolo di fede e che ciascuno può di questo credere ciò che vuole: ben affermo loro che mio cugino m'affermava d'averla per verissima intesa. Ma sia come si voglia. Voi, signora mia, cred'io che crederete la cosa esser stata vera, sapendo esser qui in Milano occorsi dei casi non minori di questo, i quali se fosse lecito scrivere, questo non saria tanto mirabile stimato. E nel vero, quando una cosa può essere, io non istarei mai a questionare ch'ella non fosse stata; onde i filosofi hanno una regola: che ogni volta che sia proposto un caso possibile, che quello si deve accettare. Ma vegnamo a la novella, a la quale vi piacerá dar luogo insieme con gli altri vostri piú cari scritti, e tenermi ne la vostra buona grazia. Cosí nostro signor Iddio vi doni il compimento d'ogni vostro desio. State sana. NOVELLA I Pandolfo del Nero è sepellito vivo con la sua innamorata, ed esce per nuovo accidente di periglio. Non è ancora guari di tempo passato che io, andando a Loreto a compire un mio voto, pervenni ne la cittá d'Arimini, ove essendo dal sommo pontefice stato messo governatore il molto vertuoso e gentil dottor di leggi, ne le lettere umane latine e greche uomo di grandissimo giudizio, messer Antonio Cappo gentiluomo mantovano, fu necessario che ad albergar seco me n'andassi. Egli mi tenne dui giorni, e volle che io per l'antica nostra amicizia gli promettessi nel ritorno di starmi seco quattro o sei dí. Quivi adunque essendo, intesi un'altra novella che poco innanzi dicevano esser accaduta, la quale, per la sua novitá e per il periglio grande che vi intervenne, mi parve degna d'esser puntalmente ne la memoria tenuta. Ed anche ch'io sappia i veri nomi, nondimeno per convenienti rispetti m'è piacciuto, tacendo i propri, di finti prevalermi. Io ora in questa onorata compagnia la narro, perciò che a proposito mi pare di quella materia di cui si ragiona. Era in Arimini un giovine nobile ed assai ricco, chiamato Pandolfo del Nero, il quale una gentildonna di quella cittá sí fieramente amava che senza la vista di lei non sapeva un'ora starsi. Ella, che Francesca aveva nome, era d'un gentiluomo ricco, ma piú attempato che ella non averebbe voluto, moglie. Il perché essendo di continovo da messi, lettere ed ambasciate di Pandolfo molestata, e parendole che il marito spesso la metteva in appetito di mangiare e poi non era potente darle conveniente cibo come in letto si suol manicare, cominciò a prestargli orecchi. Né troppo stette che, piacendole assai il giovine, ella che ancora venti anni non passava, col mezzo d'una sua fante con Pandolfo si ritrovò. Egli, che prima amava, dopo l'aver gustato i dolci abbracciamenti de la sua Francesca, tutto ardeva. Medesimamente ella, avendo gustato i saporiti cibi di Pandolfo, non sapeva senza lui vivere, biasimando mille volte l'ora chi l'aveva ad un vecchio maritata. Amandosi adunque l'un l'altro senza misura, Pandolfo si metteva assai spesso a periglio de la morte per goder la sua amante, la quale non perdeva mai occasione di ritrovarsi con lui, nulla stimando la vita pur che col suo Pandolfo si potesse ritrovare. Perseverarono circa dui anni godendosi insieme ogni volta che potevano, e di continovo pareva che il lor amore piú s'accendesse e divenisse maggiore. Ora avvenne che la Francesca gravemente infermò e in poco di tempo, avendo un frusso fastidiosissimo, peggiorò di maniera che i medici giudicarono che ella non poteva molto vivere e che in un subito, parlando, si morirebbe.