Diacronie Studi di Storia Contemporanea

N° 31, 3 | 2017 “Le armi della politica, la politica delle armi” Ideologie di lotta ed esperienze di guerra

Deborah Paci, Alessandro Salvador e Niall MacGalloway (dir.)

Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/diacronie/5958 DOI: 10.4000/diacronie.5958 ISSN: 2038-0925

Editore Association culturelle Diacronie

Notizia bibliografica digitale Deborah Paci, Alessandro Salvador e Niall MacGalloway (dir.), Diacronie, N° 31, 3 | 2017, « “Le armi della politica, la politica delle armi” » [Online], Messo online il 29 octobre 2017, consultato il 27 septembre 2020. URL : http://journals.openedition.org/diacronie/5958 ; DOI : https://doi.org/10.4000/ diacronie.5958

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INDICE

I. Il lungo 1917: prima parte

Riflessione: cosa fare dell’anniversario del 1917? Valerio Romitelli

Ombre rosse La repressione del disfattismo e lo spettro bolscevico in Italia (1917-1919) Graziano Mamone

Proyecciones de memoria del largo 1917 Ecos simbólicos en el Partido Comunista de España y el Partido Comunista Italiano Andrea Donofrio e José Carlos Rueda Laffond

II. Le occupazioni militari italiane

Italian Military Occupation in Europe: the Historiographical Developments An Introduction Niall MacGalloway

I diari di Enzo Ponzi L’esperienza di guerra in Croazia di un capitano dell’ufficio Propaganda (maggio-novembre 1942) Francesco Mantovani

L’Albania fascista (1939-1943) Stato della ricerca e piste da seguire Redi Halimi

Dallo stomaco al cuore? Il rifornimento di cibo per la popolazione civile nella Croazia occupata e i tentativi italiani di costruire un impero Sanela Schmid

III. Recensioni

Marco Di Maggio (a cura di), Sfumature di rosso. La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento Andrea Ricciardi

Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia 1941-1943 Edoardo Grassia

Alessandro Crocco, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni Michele Toss

Eugenio Di Rienzo, L’Europa e la «Questione napoletana» 1861-1870 Giuseppe Ferraro

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Alessandro Salvador (dir.) I. Il lungo 1917: prima parte

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Riflessione: cosa fare dell’anniversario del 1917?

Valerio Romitelli

1 Ci sono centenari dall’immensa portata simbolica. Caso clamoroso da tale punto di vista è quello della Rivoluzione Francese del 1789: che nell’Ottocento costituì un’importante occasione per il formarsi della socialdemocrazia in Europa e che invece nel Novecento registrò il disfarsi dell’Unione sovietica col conseguente crollo di credibilità di tutto il comunismo. Ben diversamente il centenario in corso della Rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia, fino a imprevedibili prove contrarie, non pare sancire alcunché di simbolicamente rilevante.

2 Al suo cadere c’è comunque da rilevare quanto l’immagine del suo evento originario si sia trasformata anche solo rispetto ad una trentina d’anni fa. In effetti, da allora ad oggi la teoria critica del totalitarismo che aveva preso slancio in piena guerra fredda ha finito per trionfare coniugandosi perfettamente con le dottrine della globalizzazione neoliberista. Così l’assimilazione tra hitlerismo e stalinismo, lungi dal far scandalo, è attualmente un dato quasi obbligatorio dell’opinione corrente, di qualsiasi orientamento politico. Di qui l’imporsi dell’obbligo di giudicare con riserve e sospetti, se non di condannare senza appello ogni politica passata o presente avente a riferimento comunismo e marxismo.

3 Caratteristica peculiare di questo centenario è dunque quella di cadere in un contesto culturale e intellettuale per lo più mondialmente ostile1. Certo si può giustamente insistere nel denunciare l’anticomunismo particolarmente aggressivo della cultura neoliberale dominante. Ma in tal modo si rischia di mancare una questione ben più rilevante. Quella, per dirla col bel titolo di un libro di qualche anno fa, del «silenzio dei comunisti»2. Ossia della mancanza a tutt’oggi di un bilancio e di un’autocritica, da parte

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di chi ha creduto nell’idea comunista, all’altezza del tracollo della sua credibilità a partire dal 1989. Una mancanza aggravata dal fatto che le difese del comunismo e anche di ciò che più genericamente si insiste a chiamare “sinistra” avvengono per lo più su un piano etico, in nome di molto spesso poco chiari “valori” che si manterrebbero sempre identici a loro stessi perché supposti di levatura trascendente, dunque al di sopra di ogni accadimento storico. È anche per questo che, come accade in ogni sconfitta non dichiarata e non ripensata come tale, anche quella sancita dal 1989 si è trasformata in una disfatta progressivamente estesasi fino alle sue ultime conseguenze. Basti pensare alla raffinatezza delle diatribe teoriche ed epistemologiche che hanno accompagnato tutta la storia di socialisti e comunisti fino agli Settanta confrontata alla modestia intellettuale che è prevalsa da allora in poi tra chi ha provato a continuarne la tradizione. Fino al punto che personalità di spicco della sinistra sono notoriamente divenuti i più efficaci paladini del neoliberalismo. Né è molto proficuo ostinarsi a prendersela con il generale abbassamento culturale indotto dai media o da internet. C’è piuttosto da chiedersi come mai in nome del comunismo da una trentina di anni in qua non si sia trovato nulla capace di contrastare questo abbassamento. La conclusione da trarre a questo proposito mi pare possa essere una sola: che il comunismo ha esaurito la sua forza ideale e di sperimentazione politica; o, detto più brutalmente, il comunismo è davvero finito. Col che non è escluso che tale parola possa risorgere, ma così come non è neanche da escludere che si sia giunti ad un punto simile a quello che nel corso del 1917 fece decidere i bolscevichi di abbandonare il nome di socialdemocratici perché appunto aveva secondo loro finito per perdere ogni forza ideale e di sperimentazione politica. La discussione in merito trovo sia comunque da lasciare aperta, ma quel che sarebbe il caso di chiudere è la supposizione etico-filosofica secondo la quale il comunismo o la “sinistra” restino valori trascendenti, eterni, incorruttibili al punto di potere essere custoditi nel proprio animo, qualsiasi cosa accada nel mondo3. Per un pensiero politico sperimentale, quale quello che mi sforzo da anni di elaborare, vale tutta un’altra ottica, del tutto immanente, che prende come orizzonte il divenire colto nel suo tempo presente, all’incrocio tra un bilancio del passato e una possibile agenda per l’avvenire. Di qui, l’ipotesi, sia pur tutta da dimostrare, che non sia completamente vano rivendicare un approccio dichiaratamente post-comunista.

4 Il comunismo o la sinistra supposte come idee trascendenti implicano spesso un’altra supposizione parimenti contestabile: quella secondo la quale pur restando sempre validi i principi democratici ed egualitari occorrerebbe constatarne il loro fallimento nelle esperienze del “socialismo reale”. Si tratta in altre parole della convinzione secondo la quale il comunismo come ideale resta sempre plausibile anche se in realtà ha fallito. Anche qui ad avviso di chi scrive si tratta invece di rovesciare il discorso. Tutto al contrario sono convinto infatti che si debba constatare che se il comunismo è finito, non per questo ha fallito. Anzi come sperimentazione politica credo occorra ammettere che in suo nome è stato raggiunto il massimo risultato mai raggiunto da precedenti sperimentazioni politiche. Il risultato consistente nell’avere favorito l’epoca storica più propizia alla riduzione delle disparità sociali, sarebbe a dire “i trent’anni gloriosi”, grosso modo tra il 1945 e il 1975. Si può in effetti discutere quanto si vuole sui limiti e i costi comportati dalla tendenza dominante in questa epoca, ma resta comunque che essa ha favorito fenomeni del tutto contrari a quelli che oggi affliggono il mondo, in termini soprattutto di diseguaglianze tra ricchi e poveri, nonché di falcidie del ceto medio. Salari alti, assistenza e istruzione universali, ma anche emergere del “terzo mondo” come protagonista politico e così via: questa, dunque, la tendenza globalmente

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operante in assoluta contemporaneità all’espansione in almeno metà del pianeta di regimi fatti ad immagine dell’Urss. Come credere che tale contemporaneità sia stata una pura coincidenza?

5 Piuttosto, si può obiettare che a riconoscere i successi dell’Urss e del diffondersi planetario del suo modello si rischia comunque di sminuire gli orrori connessi. Insomma come pretendere di sconfessare tutto dei tanti “libri neri” del comunismo? Non è questo il problema. Si può perfettamente ammettere, ad esempio con Solženicyn, che l’immensa Santa Madre Russia si sia immolata tramite le pene inflitte da Stalin per alleviare i peccati di ingiustizia dell’intera umanità4: ciò non toglie che, da un punto di vista meno misticheggiante, così si è avuto un effetto di contenimento degli “spiriti animali” del capitalismo, che oggi non si riesce più a creare, mentre il mondo è sempre più dilaniato dall’accrescersi delle differenze sociali. Del resto anche se su un piatto del giudizio storico poniamo le enormi cifre delle vittime della “costruzione del socialismo in un paese solo”, sull’altro piatto non si possono non mettere i 23 milioni di morti tra partigiani, soldati e gente comune mobilitati dalla “grande guerra patriottica” e che ha finito per bloccare irreversibilmente il nazismo a Stalingrado. Insomma anche il discutibile calcolo delle vittime non arriva a cancellare i successi ottenuti dall’Urss, che possono essere negati solo per scelta pregiudiziale.

6 Ma se ammettiamo che le sue maggiori riuscite il comunismo le ha conosciute grazie al regime uscito dell’ottobre 1917, allora si comprende come sia il caso di provare a reinterrogare questo evento per capire da dove siano venute le virtù di questo regime e di tutte le sue successive imitazioni, nonostante la loro conclusione una trentina d’anni fa. Quanto poi a tale conclusione, una volta constatata, val la pena di chiedersi se essa sia dipesa da un vizio di origine sempre risalente all’ottobre 1917 oppure sia stato generato da tradimenti o revisioni successive, quali quelli che Trockij imputava a Stalin o ai maoisti ai comunisti di osservanza sovietica e così via. La risposta a tale questione dipende da come si valuta tale fine. Se la si considera concernente l’insieme di tutte le esperienze condotte in nome di marxismo e comunismo, come qui propongo, allora è chiaro che da reinterrogare è proprio l’evento a partire dal quale “tutto ebbe inizio”, ossia l’ottobre 1917.

7 Virtù e vizi di questa origine: ecco dunque un tema niente affatto obsoleto e quanto mai opportuno per celebrare questo centenario. Così ho tentato in effetti di fare con un opuscolo di prossima uscita, L’enigma dell’ottobre 1917. Perché ripensare oggi la “rivoluzione russa”, senza rivendicare alcuna qualifica di esperto di storia russa, ma presentando una sintesi degli ormai innumerevoli anni passati in dibattiti, riflessioni e tormenti intorno a questo evento cruciale per ogni militante comunista5.

8 Senza qui anticiparne le argomentazioni principali mi limito a segnalarne alcuni nodi problematici: • anzitutto la controversa vicenda dei rapporti tra soviet, bolscevichi e gli altri partiti tra il 1905 e il 1917, fino alla svolta dell’ottobre; • la svolta che questa data ha significato nella stessa storia del bolscevismo modificando radicalmente questo partito; • lo scioglimento dell’Assemblea Costituente, la pace di Brest-Litovsk, la Prima internazionale, il “Comunismo di guerra”, la NEP, come momenti salienti della politica del governo bolscevico; • l’eredità dell’ottobre 1917 e le sue metamorfosi nel corso della “costruzione del socialismo in un paese solo”;

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• la contraddittorietà del pensiero di Lenin spesso debordante nel corso degli eventi oltre i suoi stessi presupposti dottrinari; • la questione dello statuto epistemologico oltre che politico di tale pensiero.

9 Un nodo problematico, quest’ultimo, che merita qui qualche annotazione supplementare. In effetti nel porlo mi sono ispirato a quella corrente dell’epistemologia francese (Bachelard, Kore, Foucault, tra gli altri) che ha costituito un riferimento maggiore di quella che può essere considerata l’ultima filosofia dichiaratamente marxista, quella di Louis Althusser6. Una scelta non casuale questa, ma dovuta ad una precisa ragione. Essa sta nella rielaborazione allargata da parte di Althusser tra gli anni Sessanta e Settanta di quello che era stato, più di mezzo secolo prima, uno dei principali oggetti polemici dello stesso Lenin, sarebbe a dire l’“economicismo”. Oggetto polemico quanto mai cruciale nella biografia intellettuale di quest’ultimo il quale ad esso dedicò quello che non solo è stato consacrato come uno dei testi più classici dei cosiddetti classici del marxismo, ma che può anche essere ritenuto il testo fondatore del bolscevismo. Si tratta di quel Che Fare? del 1902 dove Lenin denunciava l’“economicismo”, il “tradunionismo”, come uno dei problemi che più ostacolavano l’unione e la crescita della socialdemocrazia russa la quale di lì a poco doveva dividersi tra menscevichi e bolscevichi7.

10 Detto in poche e scarne parole, l’aspetto dell’“economicismo” che creava più problemi, da questo punto di vista, era il far credere ai proletari la possibilità di miglioramenti nelle condizioni di vita, i quali invece dovevano essere mostrati impossibili fino a che il regime zarista non fosse stato abbattuto. Morale della favola, per Lenin, era che il primo compito dei socialdemocratici russi di quel tempo stesse nell’elevare la coscienza dei proletari fino a farla divenire sempre e comunque “antagonista” al regime zarista. E a tal scopo un nodo cruciale di tutta l’argomentazione del Che fare? era che la coscienza rivoluzionaria non poteva nascere spontaneamente all’interno dei movimenti popolari, ma poteva venire solo “dall’esterno” di essi, grazie ad elaborazioni teoriche di intellettuali e militanti professionisti.

11 È da qui che Althusser prenderà spunto per proporre categorie che faranno discutere come “pratica teorica”, ma da notare è soprattutto che la sua rielaborazione della polemica anti economista le conferirà una portata epistemologica senza precedenti. Misurando a dovere la sua estensione si comprende che tale polemica non coinvolge solo una categoria come “spontaneità”, ma anche quella di “interesse economico della classe operaia”. Di più, mina alla radice l’idea stessa che la storia abbia soggetto e fine/ i. In effetti, Althusser porterà l’anti economismo di Lenin fino alla sua estreme conseguenze, fino a rimettere radicalmente in discussione sia l’idea di Storia con la esse maiuscola, sia l’idea di Umanità, come suo supposto soggetto – di cui il proletariato avrebbe dovuto essere agente di realizzazione ultima, essenziale, comunista. L’antieconomicismo diventa così anche antistoricismo e antiumanismo. Così pare andare all’aria tutto o quasi dell’impalcatura concettuale del marxismo più canonico, di quel marxismo per il quale, una volta che la classe operaia cominciasse a contare nella storia e a divenire cosciente del suo interesse economico, essa prima o poi avrebbe portato l’umanità intera a trasformazioni sociali sempre più egualitarie.

12 Una simile rimessa in discussione di Marx tramite un ripensamento di Lenin da parte di Althusser può far venire in mente un precedente di tutto rispetto. Si tratta di quel noto articolo del giovane Gramsci nel quale egli pochi mesi dopo la rivoluzione d’ottobre per omaggiarla la chiamava, nientemeno, La rivoluzione contro il Capitale, arrivando

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addirittura a attribuire ai bolscevichi e rivendicare per sé il rinnegamento di Marx8! Il problema qui è però che, a differenza di Althusser, il discorso sul rapporto tra Lenin e Marx resta più vago. Dopo le prime frasi decisamente blasfeme, tanto più in quanto scritte sull’«Avanti!» organo del partito più marxista dell’Italia di allora, l’articolo di Gramsci sembra quasi far marcia indietro. Vi si può leggere infatti che con l’ottobre ’17 ad essere sconfessata e ripudiata è stata solo un certo tipo di lettura dogmatica, positivista, evoluzionista di Marx, mentre tramite tale rivoluzione sarebbe stato pienamente realizzato quanto nella stessa opera di Marx c’era di «spirito vivificatore... continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco». Tesi, antitesi e sintesi, dunque: il marxismo socialdemocratico contraddetto dalla Rivoluzione d’ottobre ma da essa rilevato in una sintesi purificante. Insomma, una discontinuità funzionale ad una continuità che progredisce verso il meglio.

13 Analoga sarà la posizione dello stesso Lenin e della Internazionale comunista quando, ad esempio, sosterranno che l’epoca aperta dall’ottobre 1917 era quella delle rivoluzioni proletarie vittoriose, dopo l’epoca, quella di Marx, delle rivoluzioni proletarie tentate. Anche qui si coglie bene la volontà di dimostrare che la discontinuità introdotta dall’ottobre 1917 non faceva che confermare e rilanciare più avanti la continuità con Marx. A far ragionare così Lenin e Gramsci, e con essi la moltitudine dei loro compagni, è evidentemente l’intenzione di dimostrare la massima coerenza nel loro pensare e nel loro agire. Ma è evidente anche che a tal scopo essi trovavano le istruzioni più adeguate facendo riferimento alla logica hegeliana, a quella logica hegeliana notoriamente rivendicata dallo stesso Marx.

14 Senza pretendere qui di addentrarmi nelle classiche ed interminabili questioni del rapporto tra marxismo e hegelismo mi limito a notare un vantaggio euristico che offre la distanza sempre cercata da Althusser da qualsiasi retaggio di hegelismo. Tale distanza infatti permette di interrogare il rapporto tra Marx e Lenin non solo e non tanto come problema di continuità o meno, di tradimento, rinnegamento o fedeltà, ma anzitutto come problema di differenziazione più o meno progressiva. Qui si fa valere più che mai l’influenza dell’epistemologia francese che Althusser stesso rivendicava come riferimento imprescindibile. In effetti, da questo punto di vista, come dimostrano testi come Dal mondo chiuso all’universo infinito, Studi galileiani di Kore o Le parole e le cose di Foucault9, solo per fare qualche esempio, nella storia delle scienze sperimentali il cambiamento o lo sconfinamento di problematica, intenzionalmente perseguiti o indotti da equivoci o fraintendimenti, giocano un ruolo decisivo: a volte persino superiore dei loro più appropriati e coerenti approfondimenti. Ripensare il rapporto tra Marx e Lenin da questo sbieco del cambiamento di problematica è un suggerimento che si può trarre appunto da tutta l’opera di Althusser, anche se egli stesso non si è mai dichiarato esplicitamente in questo senso.

15 Suo grande gesto strategico è stato anzitutto quello di promuovere il pensiero di Marx al rango del pensiero scientifico moderno; di sfrondare i suoi testi di ogni determinismo economicistico, di ogni escatologia storicistica e di ogni ideologia umanistica per potervi individuare la scoperta di un “continente” inesplorato della conoscenza: quello del materialismo storico, ripensato come scienza della storia delle formazioni sociali, dei suoi confini, dei suoi orizzonti, delle sue leggi. Lenin, invece, Althusser (oltre a riconoscerlo come continuatore della scienza del materialismo storico) lo ha interpellato soprattutto in rapporto alla filosofia, o meglio per mostrare come il leader bolscevico abbia saputo esercitare “la lotta di classe a livello teorico”. Due modi diversi

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dunque, quelli adottati da Althusser ora per affrontare Marx ora per affrontare Lenin. Il primo concernente un campo problematico scientifico, il secondo il campo problematico della lotta di classe a livello più cosciente. A livello simbolico se ne potrebbe dedurre che invece del classico marxismo-leninismo, col trattino di unione, sarebbe da ripensare ad un “marxismo/leninismo”, con una barra di disgiunzione che comunque mantiene la prossimità tra i due termini.

16 Poiché la filosofia per Althusser non ha storia né oggetti di conoscenza, non essendo per lui in fondo altro che un’eterna lotta tra materialismo e idealismo, ci si potrebbe convincere che il pensiero di Lenin, per come lo intende lui, sia riducibile ad una sorta di “antifilosofica”, per usare un termine ampiamente elaborato da Alain Badiou10. Cioè un tipo di pensiero che pur rifiutando di costruire un proprio sistema filosofico si impegna, a volte anche proficuamente, nel mettere in crisi quelli di altri. Ma certo non ci si può contentare di simili definizioni a proposito del massimo dirigente della Rivoluzione d’ottobre. Quanto allo stesso Althusser non è senza importanza notare che egli non abbia mai commentato questo evento, nonostante la sua clamorosa importanza. Si potrebbe supporre che ciò sia dovuto alle difficoltà per lui di situare nel suo stesso sistema filosofico qualcosa come un pensiero politico sperimentale. Qualcosa cioè che non è classificabile né come scienza, né come filosofia: qualcosa che non ha oggetto come la filosofia, ma che ha e scandisce una sua storia come avviene per le scienze sperimentali.

17 Comunque è da qui che si può partire per cercare di inquadrare la novità epistemologica del pensiero di Lenin, almeno a partire dal Che fare? Si tratterebbe dunque di un modo di pensare singolare eppur universale, senza oggetto di conoscenza, ma in grado di sperimentare qualcosa che scandisce la storia, così come le immense conseguenze dell’ottobre 1917 hanno dimostrato. Senza neanche tentare qui di riassumere la questione quanto mai complessa basti notare due novità rispetto ai precedenti più moderni del pensiero politico di cui Machiavelli può sicuramente essere considerato precursore. Queste due novità sono costituite dai due corpi che per Lenin sono condizione necessaria per un’azione politica rivoluzionaria. Da un lato, un preciso corpo dottrinario, i testi Marx ed Engels, da riesaminare e rettificare in base alle esigenze di ogni «analisi concreta di una situazione concreta»; dall’altro, un altrettanto preciso corpo, questo del tutto reale, costituito da un’organizzazione di militanti “professionisti” capaci di utilizzare il marxismo come “guida per l’azione”. Entrambe queste condizioni, si noti, evidentemente ignote agli stessi Marx ed Engels, i quali anche sul piano organizzativo, volendo evitare in ogni modo di rientrare tra i ranghi delle diverse sette tirannicide del loro tempo, si erano dovuti limitare a sostenere Leghe e Associazioni eminentemente intellettuali (quale sempre restò in fondo la stessa Associazione Internazionale dei Lavoratori).

18 Sarebbero dunque anzitutto queste due precise condizioni, intellettuale, l’una, materiale, l’altra, che avrebbero fatto del pensiero di Lenin e dei bolscevichi un pensiero politico sperimentale: sarebbe a dire capace di mettere alla prova, verificare o falsificare le proprie ipotesi alla luce di un’esperienza rigorosamente specificata in termini intellettuali e materiali. E sarebbero proprio la sottovalutazione della prima condizione e il rigetto della seconda ciò che avrebbe caratterizzato tutti i socialdemocratici, come in Russia i socialisti rivoluzionari e menscevichi, che si opposero ai bolscevichi vedendo non di rado in Lenin qualcosa come un “pazzo autoritario”. Interessante ricordare che lo stesso Gorkij, poi sostenitore del regime di

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Stalin, nel corso del 1917 imputava a Lenin e ai bolscevichi la colpa prima di voler trascinare tutta la Russia in un esperimento da loro stessi predisposto11.

19 Può apparire strano considerare il pensiero di Lenin senza oggetto. Tale può sembrare che per lui fosse il potere o se si preferisce i rapporti di forza nella lotta di classe. Ma ragionando così ci si preclude la possibilità di capire uno dei caratteri più innovatori di questo modo di sperimentare una politica comunista. Sarebbe a dire il paradosso di quella che si potrebbe anche chiamare con termine di Nietzsche, la volontà di potenza di Lenin e bolscevichi; una volontà di potenza, sì, volta però al depotenziamento del potere e della forza laddove si stavano più concentrando. Così come risulta evidente, ad esempio, dal fatto che uno degli obiettivi primi della presa del Palazzo d’Inverno era proprio sottrarre la Russia dal novero delle potenze belligeranti. Ma analogo significato lo si può riscontrare nella maggior parte delle più famose formule e parole d’ordine che precedono e seguono questo evento. Che vuol dire infatti che guerra e imperialismo sono la stessa cosa, come fa insistentemente Lenin dal 1914 rivolgendosi a tutti socialdemocratici europei, se non provare a demotivarli dalla tentazione di rifugiarsi sotto l’ala protettiva di un fronte o di un altro? Minare la fiducia in ciò che più sembra più potente, dunque rassicurante, è suo motivo ricorrente. Si pensi al tema del “dualismo di potere” che egli lancia con le famose Tesi di aprile in quella Russia post- zarista in cui tutti o quasi non speravano in altro che sottomettersi all’autorità legittima di un nuovo Stato riunente governo e soviet. Si pensi alla parola d’ordine “tutto il potere ai soviet!” lanciata in un momento in cui i primi a non volerne sapere erano gli stessi soviet, diretti com’erano da una maggioranza socialista rivoluzionaria e menscevica fiduciosa solo in un’Assemblea Costituente che legittimasse la spartizione del loro potere con quello di altre istituzioni. E da ultimo si pensi anche al fatto che la dittatura del proletariato, negli auspici di Lenin, lungi dal dover essere uno Stato “organico” – come ne parlerà lo stesso Gramsci –, avrebbe dovuto consistere in uno Stato “a metà”, in quanto privo proprio di quel potere militare e di polizia da affidare (à la suisse) al popolo in armi12. Nella lingua del leader bolscevico ogni oggetto politico, ogni concentrato di potere, appare così fendersi, spaccarsi per far intravedere un possibile, un insieme di possibilità altrimenti latenti, che si offrono all’azzardo dell’intervento militante.

20 E poi? Ne L’enigma dell’ottobre ’17 avanzo anche un sommario bilancio del “dopo”, fino a Stalin. Qui seguendo il filo delle riflessioni ora condotte mi limito a proporne alcune ulteriori a proposito del corpo organizzativo dei bolscevichi.

21 Punto chiaro è che già nell’estate del 1917 l’afflusso in esso di truppe in diserzione lo alterano profondamente. Con la costituzione del Comitato Rivoluzionario Militare pochi giorni prima dell’insurrezione il regime soggettivo che si viene configurando è quello di una milizia armata con modi di pensare e di agire ben diversi da quelli vigenti negli anni precedenti, quando Lenin e Trockij erano in esilio e i bolscevichi esistevano quasi solo come frazione minoritaria all’interno dei soviet. Una volta che tra di essi le parole passano alle armi è inevitabile che non restino le stesse come pure i pensieri che le accompagnano e i modi di decidere che ne conseguono. Le vicissitudini del governo che segue l’ottobre 1917 fanno capire che il corpo organizzativo bolscevico, un tempo fatto di soli militanti, si stava contaminando con l’afflusso di figure con un preponderante profilo da impiegato, da funzionario o da soldato regolare. La dice lunga in proposito la vicenda della guerra civile nel corso della quale Trockij coopta nei comandi dell’Armata Rossa alti ufficiali già zaristi. Da partito sempre contiguo ad altri

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simili come i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, i bolscevichi con l’estate 1917 e soprattutto dopo si impongono sempre più come partito-Stato.

22 Osservando l’insieme di questo processo dal punto di vista della pace di Brest-Litovsk e delle sue condizioni, che Lenin faticò anche tra i suoi compagni a far accettare, lo scandalo sollevato anche allora a proposito del contemporaneo soffocamento del pluralismo dei partiti e della stampa, risulta in gran parte ozioso. Valutando realisticamente la situazione del momento risulta infatti evidente che nessuna maggioranza “democraticamente” espressa avrebbe infatti avallato mai questo gesto che invece garantì a buona ragione il massimo di popolarità a livello mondiale dell’ottobre 1917: solo così i bolscevichi si dimostrarono al mondo come l’unica forza politica davvero capace di mantenere le sue promesse tra le quali anzitutto l’interruzione unilaterale della carneficina della prima guerra mondiale. Ma ancora prima, di fronte al tentato colpo di Stato reazionario di Kornilov, difficile pensare che esso non sarebbe riuscito se Kerenskij avesse fatto appello ai soviet e ai suoi partiti maggioritari, senza ricorrere, come effettivamente, fece all’aiuto principale delle truppe seguaci del partito di Lenin.

23 In sintesi, contro ogni retorica storicista e trionfalista non si può non riconoscere il carattere minoritario dell’iniziativa bolscevica che ha portato all’ottobre 1917. Invece di pensare che si sia trattato di un evento nel quale si è espresso l’afflato verso il comunismo del gigantesco popolo russo, si deve ammettere che si è trattato piuttosto di un esperimento “da specialisti” che ha introdotto politicamente e militarmente nella storia russa una prospettiva inattesa e controcorrente.

24 Che poi a realizzarla sia stata una figura diversa da quella che l’aveva preparata, un Partito-Stato oramai bolscevico solo più di nome che di fatto, non deve far pensare ad una semplice degenerazione “autoritaria”. Più proficuo dal punto di vista della storia del pensiero politico è valutare quanto questa figura sarà presa a modello dal mondo intero, condizionando non solo i destini di Italia e Germania, dirette come saranno da partiti unici chiaramente ispirati al modello bolscevico, ma anche degli Stati Uniti, se è vero che è al partito democratico di Roosevelt (al governo, come Hitler, ininterrottamente dal 1933 al 1945) che si deve non solo la grande svolta del New Deal, ma anche la partecipazione americana alla seconda guerra mondiale, con tutte le enormi conseguenze del caso.

25 Un protagonismo straordinario in tutto il XX secolo dunque quello da riconoscere all’ottobre 1917: sia a quanto lo ha reso possibile, sia a quanto ne è conseguito. E ciò fino appunto a riconoscergli, come sostenuto più sopra, anche il merito di aver creato alcune delle più importanti condizioni di sviluppo dei “Trent’anni Gloriosi” (1945-1975) del Welfare State. Un discorso, questo, che ritengo vada tanto più sostenuto, quanto più l’attuale ambiente culturale dominato com’è dall’anticomunismo neoliberale, tende a semplicemente a rimuovere o a svalutare come variante culturale di nicchia, da nostalgici inguaribili, quasi tutti i suoi argomenti più probanti.

26 Opporsi a questa rimozione a questa svalutazione non comporta per altro tacitare ogni riflessione critica sul come e il perché il comunismo del XX secolo sempre in questo stesso secolo (tra la seconda metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta) abbia finito per inabissarsi, per di più nel prevalente silenzio dei diretti interessati.

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27 Anche a questo riguardo non posso non rinviare a L’enigma dell’ottobre1917, per una più estesa trattazione della questione, di cui qui avanzo comunque qualche ulteriore annotazione sempre a partire dal tema dell’organizzazione politica.

28 Da quanto già delineato più sopra, attorno all’ottobre 1917 il suo protagonista principale (i bolscevichi) passa dalla condizione di partito tra i partiti in seno ai soviet alla condizione, prima di milizia armata, poi Partito-Stato unico. Saltando al 1936 e alla Costituzione dell’Urss in Stato legale (successiva alle grandi purghe che interrompono definitivamente ogni retaggio bolscevico), si assiste ad un ulteriore passaggio organizzativo. Se nella configurazione che accoppiava Partito e Stato, quest’ultimo era più o meno contenuto nella dimensione del “mezzo Stato” (prescritta da Stato e Rivoluzione di Lenin), col 1936 esso si struttura invece in modo “organico”, lasciando al partito una funzione più che altro ideologica e di propaganda. La strutturazione organica dello Stato implica allora un’esigenza di strutturazione economica della società sovietica. Un’esigenza che però viene vanificata dall’invasione nazista e dalla ben diversa esigenza, tutta politica, di organizzare quella che sarà la “Grande Guerra Patriottica”.

29 Passando subito al dopoguerra, è molto significativo che uno degli ultimi testi di Stalin sia Problemi economici del socialismo (1952), titolo che la dice lunga su quanto le questioni politiche (di competenza del Partito) fossero oramai convertite in questioni economiche (di competenza della gigantesca, labirintica e crudele amministrazione statale sovietica). Ripensando al fatto che l’economicismo era la bestia nera del testo fondatore del bolscevismo (il Che fare? del 1902) si può immaginare che in mezzo secolo l’idea del comunismo sul finire dell’epoca di Stalin si stesse avviando alla conclusione di una sorta di ciclo evolutivo. Che il comunismo fosse una questione anzitutto economica è in effetti quanto si comincerà a sostenere dopo il XX congresso del Pcus nel 1956, quando oltre a denunciare il culto della personalità di Stalin si comincerà a parlare della concorrenza che il socialismo reale doveva ingaggiare col capitalismo per dimostrare quale sistema economico fosse più in grado di garantire il benessere dell’intera umanità. Quasi nessuno nei paesi capitalisti credette a questa visione ammansita e economicistica del comunismo, se è vero che la sua diffusione nel mondo di allora funzionò come deterrente nei confronti della congenita avidità del capitalismo. Anche tra i comunisti le perplessità non furono poche come si dimostrò nel corso del “lungo ’68”. Tuttavia il fatto che la patria della Rivoluzione Proletaria non desse più l’importanza dovuta alle passioni politiche necessarie per sfidare il capitalismo non poteva non minare alla radice la diffusione e l’incidenza mondiali di queste stesse passioni. E soprattutto non poteva non abbassare il livello intellettuale di tutte queste questioni.

30 Come ho sostenuto all’inizio di questo testo il guaio più grave della fine del comunismo non credo sia stata la fine in quanto tale, ma l’inadeguata elaborazione intellettuale del connesso lutto. A ciò sono convinto abbia contribuito proprio quell’economicismo tanto combattuto sia pur su piani ed in tempi diversi tanto da Lenin quanto da Althusser.

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NOTE

1. Così non pare leggendo uno dei pochi libri che hanno il grande merito di aver colto l’occasione centenaria per ritrattare dell’ottobre 1917, sia pur descritto nel contesto molto più ampio dei maggiori accadimenti capitati in quell’anno a livello planetario. In D’ORSI, Angelo, 1917 L’anno della Rivoluzione, Roma-, Laterza, 2017, la classica versione di questa rivoluzione come conseguenza storica necessaria delle immani sofferenze prodotte dalla prima guerra mondiale viene infatti esposta in modo così scorrevole da apparire di un’evidenza quasi incontestabile. Un altro recente testo che non sembra risentire troppo del clima culturale ostile è il decisamente nostalgico FERRANDO, Marco, Cento anni. Storia e attualità della rivoluzione comunista, Roma, Redstarpress, 2016. Per il resto, a mia conoscenza, la bibliografia disponibile in italiano su questo argomento è comunque datata. Tra i principali si veda BUDGEN, Sebastian, KOUVELAKIS, Stathis, ŽIŽEK, Slavoj (a cura di), Lenin 2.0. La verità è di parte, Milano, Transeuropaedizioni, 2008; FLORES, Marcello, 1917. La Rivoluzione, Torino, Einaudi, 2007; GRAZIOSI, Andrea, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione sovietica 1914-1945, , Il Mulino, 2007; PIPES, Richard, La rivoluzione russa. Dall’agonia dell’Ancien Règime al terrore rosso, Milano, Mondadori, 1995; ANWEILER, Oskar, Storia dei soviet. I consigli di fabbrica in Urss. 1905-1921, Roma-Bari, Laterza, 1972; ROSENBERG, Arthur, Storia del bolscevismo, Firenze, Sansoni, 1969; CARR, Edward H., La rivoluzione bolscevica. 1917-23, Torino, Einaudi, 1964. 2. FOA, Vittorio, MAFAI, Miriam, REICHLIN, Alfredo, Il silenzio dei comunisti, Torino, Einaudi, 2002. 3. Un’opinione questa che può trovare sostegno anche da testi del tutto distanti tra loro come ad esempio: BOBBIO, Norberto, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1995 e BADIOU, Alain [et al.], DOUZINAS, Costas, ŽIŽEK, Slavoj (a cura di), L’idea di comunismo, Roma, DeriveApprodi, 2011. 4. SOLŽENICYN, Aleksandr, Arcipelago Gulag, 1918-’56. Saggio di inchiesta narrativa, Milano, Mondadori, 1978. 5. ROMITELLI, Valerio, L’enigma dell’ottobre 1917, Napoli, Edizioni Cronopio, 2017. 6. Principali testi di riferimento qui sono: ALTHUSSER, Louis, Lenin e la filosofia, Milano, JacaBook, 1969; ID., Umanesimo e stalinismo. I fondamenti teorici della deviazione staliniana, Bari, De Donato, 1973; ID., Per Marx, Roma, Editori Riuniti, 1974; MORFINO, Vittorio, PINZOLO, Luca (a cura di), Sul materialismo aleatorio, Milano, Unicopli, 2000. 7. LENIN, Vladimir Ilic, Che fare? I problemi scottanti del nostro movimento, Roma, Ed. Riuniti, 1974. 8. URL: < https://www.marxists.org/italiano/gramsci/17/ rivoluzionecontrocapitale.htm > [consultato il 21 settembre 2017]. 9. Rispettivamente: KOYRÉ, Alexandre, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, Feltrinelli, 1981; ID., Studi galileiani, Torino, Einaudi, 1976; FOUCAULT, Michel, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1967. 10. BADIOU, Alain, San Paolo. La nascita del’universalismo, Napoli, Cronopio, 1999; ID., Lacan. Il Seminario. L’antifilosofia 1994-1995, Napoli-Salerno, Orthotes Editrice, 2016; ID., Nietzsche. L’antiphilosophie (séminaire 1991-92), , Fayard, 2015.

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11. Vedi STRADA, Vittorio, La rivoluzione svelata. Una lettura nuova dell’Ottobre 1917, Roma, Liberal edizioni, 2007. 12. I riferimenti si trovano ovviamente nelle Opere complete di Lenin, (LENIN, Vladimir Ilic, Opere complete, Roma, Ed. Riuniti, 1955-1970), soprattutto nei voll.: XXIII (agosto 1916-marzo 1917), 1965; XXIV (aprile-giugno 1917), 1966; XXV (giugno-settembre 1917), 1967; XXVI (settembre 1917-febbraio 1918), 1966.

RIASSUNTI

A cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, ci si trova di fronte a interrogativi e riflessioni sull’eredità di un evento che ha cambiato radicalmente il volto del XX secolo. Il crollo del socialismo reale si è portato appresso uno stigma che ha reso difficile un’analisi critica e possibilmente priva di pregiudizio sulla portata effettiva del 1917 e sul grande periodo di cambiamenti sociali e movimenti emancipatori che essa ha innescato. Questo contributo, senza aspirare ad una esaustiva rassegna storiografica, vuole mettere in luce i principali nodi della riflessione sul 1917 e le sue conseguenze di lungo periodo prendendone in considerazione analisti e critici e cercando di trarre alcune conclusioni sulla pesante eredità della più importante rivoluzione della contemporaneità.

Hundred years after the Russian Revolution, we face questions and thoughts concerning the heritage of an event that radically changed the face of the XX century. The collapse of the real socialism generated a long-lasting prejudice that made difficult to achieve a critical and objective analysis of 1917 and the era of social changes and emancipation that it triggered. Without trying to be an exhaustive historiographical analysis, this contribution would like to highlight the key issues related with the reflections on 1917 and its long-term consequences. It will take into account analysts and critics and try to draw some conclusions on the heavy heritage of the most important revolution of the contemporary times.

INDICE

Parole chiave : Centenario 1917, Comunismo, memoria, Rivoluzione russa, Socialismo Keywords : Centennial 1917, , memory, Russian revolution, Socialism

AUTORE

VALERIO ROMITELLI Valerio Romitelli (1948) ha insegnato Metodologia delle Scienze Sociali e Storia dei Movimenti e dei Partiti Politici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Tra i suoi libri: Gli dei che stavamo per essere (Bologna, Gedit, 2004); Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche (Roma, Carocci, 2005); Fuori dalla società della conoscenza (Formigine, Infinito,2009); La felicità dei partigiani e la nostra. Organizzarsi per bande (Napoli, Cronopio, 2015). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Romitelli >

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Ombre rosse La repressione del disfattismo e lo spettro bolscevico in Italia (1917-1919)

Graziano Mamone

Elenco delle abbreviazioni degli archivi citati ACS = Archivio Centrale dello Stato (ACS)

1. Il contesto storico-politico

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1 Il “lungo” 1917 dell’Italia costituisce allo stesso tempo il punto di arrivo di una sempre più coercitiva legiferazione in materia di ordine pubblico, e il momento di maggiore intensità del dissenso popolare durante la Prima guerra mondiale. Nell’ambito di un’inesorabile stretta autoritaria messa in campo dal governo per controllare e militarizzare la società civile, l’individuazione costante dei cosiddetti “nemici interni” permette allo stato l’attuazione di politiche repressive ad ampio raggio1. Determinante è a tal proposito l’istituzione del reato di «disfattismo», che nasce con il precipuo scopo di punire e scongiurare atteggiamenti che si suppongono orientatati a favorire la sconfitta militare del Paese. Il disfattismo è concepito come crimine politico e si fonda dal punto di vista giuridico su due Decreti Luogotenenziali riguardanti rispettivamente la propalazione di false notizie (n. 885 del 20 giugno 1915) e la soppressione di condotte antipatriottiche (n. 1561 del 4 ottobre 1917). Mentre il primo provvedimento persegue la diffusione di notizie sulla difesa dello stato o sulla guerra diverse da quelle ufficiali, il secondo condanna fatti pregiudizievoli all’interesse nazionale2.

2 Sebbene nel 1917 giurisprudenza e forza dell’ordine inibiscano progressivamente tempi e spazi d’azione della protesta pacifista, la spinta dell’opposizione alla guerra non si arresta affatto. Catalizzate dai rovesci di un’improduttiva warfare e dagli sconvolgimenti politico-internazionali, le dimostrazioni antibelliche in Italia assumono carattere radicale. La percezione che la guerra si possa protrarre ancora a lungo suscita nella mentalità collettiva frustrazione e inquietudine, favorendo tensioni popolari a diversi livelli3. A questo stato d’animo si somma la visione entusiastica della Rivoluzione russa in quanto miraggio universale di pace e giustizia, capace di ispirare sollevazioni popolari, molte delle quali contraddistinte dall’inedito protagonismo femminile4. Già nel gennaio del 1917 le notizie sullo stato di persistente agitazione interna alla Russia zarista avevano cominciato a preoccupare l’opinione pubblica italiana. Tuttavia è soltanto con i fatti di febbraio (marzo) – in principio percepiti come i «gravi disordini di Pietrogrado» – che la questione diventa preponderante, soprattutto per il potenziale ideologico che la stessa trasmette alle masse contadine e operaie della Penisola5.

3 L’inadeguata e superficiale conoscenza della reale situazione in Russia sortisce un doppio effetto sulla stabilità italiana: da una parte contribuisce a diffondere un irrazionale ottimismo del proletariato rispetto al traguardo rivoluzionario, e dall’altra stimola consensi unanimi nell’intero schieramento politico. Persino taluni interventisti, infatti, guardano con favore alla Rivoluzione di febbraio, soprattutto per la possibilità di un più concreto impegno russo nel conflitto6. D’altro canto, con il

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successivo coup d’Etat dei bolscevichi e la disfatta dell’esercito italiano sul fronte carsico, si polarizzano le posizioni interne al Partito socialista italiano, ora diviso tra una maggioranza rivoluzionaria ed una corrente minoritaria di stampo riformista. Simili travagli investono anche il movimento anarchico e il Partito repubblicano, la cui fragile compattezza è allo stesso modo minata dal dibattito sugli effetti della rivoluzione7.

4 L’attività di propaganda dell’intelligencija bolscevica in Italia, nel frattempo, filtra e diffonde la dottrina leninista, contribuendo in maniera decisiva alla primigenia formazione dell’immaginario rivoluzionario presso gli ambienti socialisti del Regno8. Contemporaneamente si afferma una solidarietà trasversale tra movimento operaio e masse cittadine sempre più affamate e stanche. Ristrettezze, malcontento e ribellione costituiscono una convergenza di fattori esplosiva, capace di mandare eloquenti segnali di turbolenza già nella primavera-estate del 1917. Assai indicativa è in questo senso l’insorgenza di sommosse popolari a Milano e Torino, innescate soprattutto dalla carenza di beni di prima necessità9. La successiva pace di Brest-Litovsk spinge borghesia e governi alleati ad una reazione antirivoluzionaria, inasprita dal timore – specialmente nell’Italia post Caporetto – che l’esasperazione della popolazione possa in qualche modo suggerire o imporre una pace dannosa per l’Italia10.

5 È in tale contesto che nasce e vede le sue prime applicazioni il reato di disfattismo: da questo momento in poi è sufficiente una frase contro la guerra e la nazione per ricevere – a seconda dei casi – una sanzione amministrativa o un ordine d’arresto. L’effetto coercitivo di questo provvedimento e più in generale della restrizione della libertà di parola e di azione in tempo di guerra, produce una sorta di pace sociale apparente. Con eccezionali misure di sicurezza atte a tutelare l’ordine pubblico, il dissenso viene sfiancato e demandato a iniziative individuali e sporadiche. L’azione repressiva si focalizza così su episodiche manifestazioni di rifiuto, che vedono spesso protagoniste donne, contadini e soldati in licenza11. La diffusione di canti antipatriottici e di pratiche parareligiose rimandano ad un ritorno dell’occultismo, inteso come risposta ancestrale alla fame e alla disperazione12.

6 Le fonti prodotte dalla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza consentono di descrivere la penetrazione in Italia delle spinte rivoluzionarie provenienti dalla Russia. Un cauto atteggiamento storiografico invita ad utilizzare queste carte nella consapevolezza di adottare inevitabilmente lo sguardo, il linguaggio e gli strumenti della polizia. Occorre a tal proposito far tesoro della lezione dello storico inglese Richard Cobb, che in una magistrale ricostruzione della partecipazione popolare alla Rivoluzione francese, propone un utilizzo critico di documenti carichi di pregiudizi e figli di un ben preciso metodo di osservazione e descrizione13. Le stesse carte, tuttavia, costituiscono un giacimento inestimabile di informazioni sui protagonisti del dissenso e sulla qualità delle loro azioni sovversive.

7 È necessaria un ulteriore precisazione: le informazioni contenute in questi documenti provengono sovente da delatori, molti dei quali remunerati dalla polizia in relazione all’importanza delle notizie fornite. Gli stessi enti di spionaggio e controspionaggio italiani – l’Ufficio centrale d’investigazione e il Servizio informazioni dell’esercito – si servivano di confidenti non sempre attendibili. Di qui la necessità di un’analisi critica di fonti delicate, capaci tuttavia di restituire vividamente la psicosi antisocialista e antirivoluzionaria sorta nel paese dopo la rivoluzione di febbraio in Russia.

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2. Prevenzione, contagio, censura

8 Nel dicembre del 1916 la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza produce un documento di sintesi sul movimento pacifista in Italia, dal quale si desume l’esatta percezione delle autorità di controllo rispetto ai fermenti sovversivi dopo diciannove mesi di conflitto. Pur riconoscendo la crescente solidarietà tra le classi operaie dei vari paesi europei e il nuovo vigore dell’internazionalismo finalizzato alla cessazione della guerra, lo stato dello «spirito pubblico in Italia» è definito «non allarmante»14. Al tempo stesso si invitano le forze di polizia a «prevenire e frenare la propaganda sediziosa» per impedire che essa possa concretizzarsi in movimenti collettivi e turbolenti15. Già nel successivo gennaio, tuttavia, l’esplosione simultanea delle proteste femminili nelle campagne sorprende gli organi di sicurezza. Le prime indagini avviate portano a imputare la responsabilità della dissidenza al Partito socialista, la cui presunta attività sobillatrice si esplicherebbe attraverso la «subdola propaganda» presso le donne, la diffusione di manifesti di stampo eversivo, e lo sfruttamento delle «torve passioni delle masse»16.

9 Una delle provincie maggiormente interessante da queste tensioni è Alessandria, le cui campagne sono messe a ferro e a fuoco da migliaia di donne per l’interno mese di gennaio. A tal proposito sono indicative le parole del Ministero dell’Interno, che in una corrispondenza con il prefetto piemontese rileva la ritrovata organizzazione e la capacità d’azione del proletariato locale, definendolo «una forza non trascurabile» che da tempo stava accentuando la propria propaganda antibellica e rivoluzionaria. L’autorità prefettizia è messa in guardia rispetto alla possibilità che una simile agitazione non più latente possa degenerare in «moti inconsulti»17. Pochi giorni più tardi la stessa riferisce in materia al locale comando del Corpo d’Armata, cercando di sollecitare un maggiore controllo territoriale18.

10 Nel frattempo la Rivoluzione di Febbraio ha spodestato l’autocrazia dei Romanov e anche i sovversivi italiani (e non solo) guardano alla nuova Russia con speranza. Il direttivo romano del Partito socialista organizza a tal proposito una manifestazione di simpatia per i fatti di Pietrogrado. La dimostrazione, monitorata attentamente del prefetto di Roma, è infine vietata per il timore che possa «assumere un significato diverso e provocare contrasti di opinioni con pericolo per l’ordine pubblico»19. D’altronde l’Ufficio Centrale d’Investigazione ha in quegli stessi giorni avviato indagini a campione presso la classe lavorativa di due quartieri popolari della capitale (San Lorenzo e Testaccio), la quale rivela grande entusiasmo verso la rivoluzione in Russia20. Quanto emerge dai sondaggi popolari riflette i timori di un possibile sconvolgimento politico anche in Italia in un momento assai delicato della guerra. Emblematico il rapporto che viene stilato a margine dell’inchiesta: La sobillazione al certo non manca, più occulta che palese, per ora, da parte dei nemici della patria, alti e bassi. Essa potrebbe aver presa nell’animo della massa. Solo nel caso che un qualche imprevisto od imprevedibile turbamento d’ordine economico o sociale determinasse dimostrazioni di piazza nella quale circostanza potrebbero i mestatori trarre occasione per sprigionare la scintilla che potrebbe dar luogo all’incendio. Perciò è necessario in questo momento eliminare ogni pretesto di malcontento nel pubblico ed impedire quindi agitazioni e qualsiasi pubblica manifestazione21.

11 Il contagio delle idee rivoluzionarie si espande progressivamente ed è registrabile innanzitutto attraverso i toni di talune conferenze politiche, come accade per esempio

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a Pavia, dove durante una riunione repubblicana l’oratore di turno inneggia alla Russia e alle profezie mazziniane sul sovvertimento dell’ordine costituito in Europa22. Nella primavera-estate del 1917, proprio quando i moti per il pane di Milano e Torino minacciano seriamente l’ordine pubblico, le autorità di polizia fanno il punto sulla penetrazione delle idee rivoluzionarie in Italia. In particolare si mostrano indispettiti da una certa stampa sovversiva, la quale a sua volta punta il dito sulla mistificazione antibolscevica messa in atto dallo Stato per «deviare la pubblica opinione […] e preservare il paese dalla cattiva influenza dei Soviet russi»23. In particolare si vaglia la presa di posizione di alcuni propagandisti rivoluzionari i quali avevano denunciato la fortissima censura delle notizie provenienti dalla Russia, parlando apertamente di manipolazione dei telegrammi. Tali circostanze spiegherebbero ai loro occhi «la lentezza con la quale i principii della democrazia russa e la nota formula russa sulla pace sono penetrati nelle coscienze delle masse lavoratrici d’occidente»24.

12 E in effetti il grande lavoro di sorveglianza e selezione di notizie e commenti riguardanti il fermento rivoluzionario in Russia si può desumere dall’oculata attività censoria del Servizio Informazioni dell’Esercito. Nei quindicinali «Notiziari sullo Spirito delle truppe» le corrispondenze dei militari vengono lette attentamente e le manifestazioni di dissenso sono raccolte e scrupolosamente divise per capitoli. Nel resoconto del 15 aprile 1917 alla voce «fermento sovversivo» si descrive l’intensificazione delle idee rivoluzionarie nelle fila dell’esercito25. Un soldato da Como, per esempio, trasmette alla moglie tutta la propria insofferenza attraverso parole sentite e profonde: Oppresso dalla catena militare mi tocca allontanarmi dalla culla di mio figlio! Ma se sapessi quanto è lungo il soffrire sotto a questi galeotti, ma bisogna resistere perché al mondo ci sono bestie e vagabondi che vogliono vivere sopra il sangue dei soldati, ma chissà se dalla guerra possa venire la rivolta; così si faranno tutte le vendette contro a certi sbirri e superbi vigliacchi26.

13 Gli fa eco un commilitone, che si dichiara pronto a fare un’unica guerra contro «coloro che hanno approfittato da questa maledetta guerra», sentenziando perentoriamente: «L’anarchia sarà il mio culto, guerra ai capitalisti maledetti»27. Un altro fante si unisce dal fosso dalla trincea a questa corale manifestazione di dissidenza, inneggiando alla coesione di tutti i proletari contro i borghesi guerrafondai, ai quali promette di «spaccare la testa»28.

14 Nello stesso «Notiziario» si tratta anche degli «effetti morali della rivoluzione russa», che i censori intendono in questa fase come corollario del fermento sovversivo generale. Anche qui lo scambio di missive tra fronte e casa rivela il persistente stato di agitazione dei soldati, i quali rimarcano in più occasioni la necessità di indurre il Paese ad una pace immediata. È quanto scrive un militare dalla zona di guerra, la cui lettera censurata riportava riferimenti espliciti ad una ribellione da farsi sul modello sovietico29. Un altro soldato da Olgiate Comasco spera che i tumulti possano scoppiare in Italia «per affrettare la pace»30. Più immediato, infine, lo slogan sovversivo di un fante piacentino, che in una cartolina alla moglie inneggia alla Rivoluzione russa e accompagna il testo con il disegno di una bandiera rossa31.

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3. Macchinazione, psicosi, fermento

15 Gli effetti internazionali della Rivoluzione di Febbraio contribuiscono alla diffusione del sospetto oltre i confini patri. L’Ufficio Centrale d’Investigazione che fa capo al Ministero dell’Interno, capta notizie più o meno attendibili dai propri informatori all’estero, ne trasmette il contenuto al dicastero e manifesta il proprio timore verso possibili complotti. Il 19 marzo, per esempio, da alcune autorità russe residenti in Italia, trapela la notizia di un possibile coinvolgimento dei servizi segreti britannici nella deposizione dello zar32. Una successiva delazione del 20 giugno, al contrario, rivelerebbe la macchinazione tedesca dietro il peggioramento della situazione a Pietrogrado, la quale sarebbe di fatto «in mano di emissari tedeschi muniti di molte automobili blindati» mentre il popolo russo, inconsapevole, si mostrerebbe «ubbriaco» di fronte ai raggiri teutonici33. Lo stesso Ufficio appare invece ben informato quando, basando la propria analisi su rapporti del Vaticano, riferisce dell’instabilità del Governo provvisorio russo e della pericolosità delle masse operaie, ancora affamate e deluse dal persistente stato di guerra34.

16 I termini apocalittici di questi resoconti, con i riferimenti all’avvento dell’Anticristo e a possibili atti di sabotaggio, impressionano le autorità di controspionaggio, che premono sull’Istituto di Mobilitazione Industriale per una disciplina più restrittiva della forza- lavoro militarizzata. Il pericolo di infiltrazioni nemiche nelle fabbriche è realmente preso in considerazione e si chiede pertanto di intensificare la vigilanza contro la presunta propaganda austriaca diretta a far scoppiare gravi disordini nella Penisola, obiettivo per il quale il nemico non risparmierebbe «uomini fidatissimi» e «abbondanti mezzi finanziari»35.

17 La stessa Santa Sede, tuttavia, è oggetto di indagine da parte dell’Ufficio Speciale d’Investigazione, il quale avrebbe accertato il trasferimento di ingenti somme di denaro dalla Svizzera a Roma, e nella fattispecie presso il conto personale del cardinale Gasparri. Versamenti destinati ad aumentare nel tempo fino a raggiungere nell’estate del 1918 la vertiginosa cifra di quasi sette milioni di lire. La paura è che quei fondi possano provenire direttamente dagli Imperi Centrali e che servano per far pressione sul Vaticano affinché si impegni per indurre il governo alla pace36. I possibili complotti legati alla Svizzera riguarderebbero anche l’attività illecita di Julius Von Ritter Stepsky Doliwa, console austroungarico a St. Moritz, reo secondo gli ispettori italiani di portare avanti un’attiva propaganda contro il Regno presso gli abitanti svizzeri e presso gli stessi emigrati italiani. A tal fine avrebbe istituito piccoli centri filo-austriaci in tutti i Grigioni e persino organizzato un servizio di spionaggio a mezzo contrabbandieri e guide alpine37.

18 Le notizie provenienti dall’estero assumono talvolta carattere di vera e propria psicosi verso potenziali complotti sovversivi. Valga come esempio l’esame di una cartolina che gli internati italiani a Katzenau inviano alle loro famiglie via posta. Il supporto postale raffigura una colomba con un ramo di ulivo nel becco che si libra sull’Europa. La didascalia recita «Friedens-botschaft (messaggio di pace)» e sembra che sia stata distribuita gratuitamente all’interno del campo di concentramento con lo scopo di diffondere in Italia un immaginario di resa38. Un’altra cartolina ispirata ad un’iconografia pacifico-religiosa finisce nelle maglie degli investigatori, i quali soltanto dopo un’attenta indagine sull’autore dichiarano quest’ultimo «incapace di maneggi contrari alla nostra guerra»39. L’ossessione cospirazionista si rileva anche dalla censura

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di una cartolina illustrata a tema religioso ma dallo stile ritenuto tendenzioso e oscuro. L’immagine è quella di una Madonna in atto di preghiera, e sebbene la didascalia reciti solamente una «invocazione», agli occhi degli inquirenti si tratta di occulta propaganda pacifista. Vengono persino disposti esami chimici sulla corrispondenza i quali però danno esito negativo. Interessante risulta in questo senso il commento del censore, la cui analisi mostra un altro grado di timore: Non è infatti una sana preghiera che un buon seguace di Cristo possa rivolgere a Dio per invocare la pace, ma un insieme di idee mistiche e utopie che potrebbero turbare l’animo di chi legge e riuscire nocive. Per chi è religioso essa potrebbe ritenersi un’ironia, in sarcasmo a denigrare la fallita opera del Papa per la pace: in un fanatico della religione può infiltrare l’idea che solo il Papa possa far cessare l’opera fratricida derivante dal “cattivo uso del libero arbitrio”40.

19 Il sospetto irrazionale raggiunge punte altissime anche in una lettera del Servizio Informazioni del Comando Supremo dell’Esercito, il quale avanza l’ipotesi dell’esistenza di una parola segreta nota ai sovversivi, la quale una volta pronunciata darebbe il via alla rivoluzione. Per scongiurare questa ipotesi e sventare tempestivamente la macchinazione, lo stesso Ufficio dispone la ricerca del presunto «comando» nelle corrispondenze e nella stampa estremista41.

20 Si rivela assai sintomatica di una simile dimensione dietrologica, l’attività della Lega Antitedesca, avamposto operativo del nazionalismo più populista, la quale ha come obiettivo primario «sventare le mene e le macchinazione spionistiche dei nemici d’Italia e dei loro mandatari», avversare il contrabbando di guerra e il sabotaggio industriale, assicurare alla giustizia il più alto numero di disfattisti in circolazione42. Per raggiungere tale scopo la Lega mette a punto un vero e proprio tariffario indicante i diversi compensi per i propri collaboratori: venti lire per chi fornisce dati utili a far ritenere gravemente sospetta di spionaggio una persona fino a quel momento insospettabile; trenta lire per chi fornisce prove di propaganda deleteria antinazionale fatta in presenza di più persone; cento lire per la corrispondenza spionistica. E via dicendo fino alla cospicua somma di mille lire per una prova di sabotaggio militare o industriale43.

21 Non tutti i timori nei confronti della rivoluzione si mostrano però infondati e in più circostanze il fermento sovversivo sembra muoversi su una consolidata rete clandestina capace di penetrare anche gli stabilimenti ausiliari. È quanto accade ancora una volta ad Alessandria, dove nel maggio del 1917 è rinvenuto presso l’opificio MINO un manifesto antibellico dalla fortissima carica dissidente44. Le autorità decidono di infiltrare due poliziotti nella fabbrica con il compito di fingersi operai per ottenere informazioni sugli autori dello scritto e sulle modalità di circolazione dello stesso. Un documento eccezionale che rivela la diffusione delle istanze rivoluzionarie in Italia e il potenziale eversivo della classe operaia militarizzata: Le rivoluzioni non si fanno scoppiare a data fissa, ma si preparano e si possono dirigere verso fini determinati. A quest’opera noi vi chiamiamo o lavoratori. Bisogna preparare gli animi e l’ambiente, bisogna persuadersi che può giungere un momento opportuno, e che occorrerà saperlo afferrare. Propaganda quindi assidua delle idealità rinnovatrici, agitazioni continue, per mantenere sempre alta e vibrante l’anima del proletariato. E quando lo scoppio verrà, essere pronti ad aiutarlo, a dirigerlo. […] LAVORATORI raccogliete il nostro appello. Vigilate e siate pronti. All’erta! perché forse i nostri giorni si avvicinano45.

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4. Spettro, controllo, repressione

22 La Rivoluzione d’Ottobre e la disfatta di Caporetto sono considerati due episodi centrali nell’intensificazione dei fenomeni di dissidenza in Italia. Si tende invero a sottovalutare le traiettorie dei processi di radicalizzazione delle masse da una parte e di potenziamento degli strumenti repressivi dall’altra: tendenze longue durée che comprendono gli effetti della vittoria bolscevica e della rovinosa sconfitta sul fronte carsico, ma non dipendono esclusivamente da essi46. L’emanazione del decreto n. 1561 del 4 ottobre 1917 anticipa in questo senso ambedue gli eventi storici, e garantisce alle autorità uno strumento persecutorio eccezionale. La stessa rotta di Caporetto sembra avallare la psicosi del tradimento da parte dei “nemici interni”, i quali con i loro atteggiamenti e la loro propaganda antipatriottica avrebbero contribuito allo sfacelo dell’esercito.

23 Sono ancora una volta i ritrovamenti occasionali di materiale sovversivo a dare forma ai timori della Pubblica Sicurezza. Il rinvenimento di un volantino antimilitarista, databile novembre 1917, inneggia al «magnifico impeto rivoluzionario [che] ha spazzato via lo Zar ed i principi, ha imposto la repubblica, ha imposto la espropriazione delle terre dello Zar e dei principi a favore dei Comuni e della collettività dei contadini» 47. Sul treno -Spezia, in una vettura di terza classe sgombra, viene scoperto un volantino in carta rossa: si tratta di un canto sovversivo distribuito ai soldati al fronte che si deve intonare sull’aria dell’Inno dei lavoratori. È venduto a 5 centesimi «a beneficio della stampa antimilitarista» e in un passaggio recita «Su, soldati, alla rivolta // il dover deve cascare // ammazzate questa volta // chi vi dice d’ammazzar!»48. Sono proprio i reduci dal fronte ad apparire potenzialmente pericolosi per la loro maggiore sensibilità alla propaganda leninista. Valga a titolo esemplificativo la denuncia a carico di Vittorio Bicocchi, ex volontario della Croce Rossa, assistente infermiere in prima linea. Tornato nella sua Bologna, di fronte all’apparente spensieratezza e mondanità di certe signorine, decide di redarguirle in pubblico, reputando vergognoso il loro atteggiamento frivolo. Le ragazze sarebbero state a suo dire colpevoli di divertirsi troppo, frequentando continuamente teatri, cinematografi e caffè, portando «stivalini da 100 lire e cappelli di costo anche maggiore, mentre si moriva e combatteva al fronte» 49. Per vendicare l’offesa una di esse decide di denunciarlo per propaganda filo- rivoluzionaria. Le indagini dimostrano l’assoluta inconsistenza di questo capo d’accusa ma dalla vicenda emerge chiaramente l’utilizzo della querela come strumento persecutorio.

24 Nel dicembre del 1917 il Ministero dell’Interno dirama una circolare a tutti i prefetti del Regno che mette in guardia dagli effetti del lavoro sotterraneo dei servizi segreti nemici. Questi si applicherebbero con dovizia per infondere pessimismo nella popolazione e nell’esercito italiano, inducendoli così a sollevarsi «sotto il miraggio di una pace da conseguire con metodi russi»50. La nota ministeriale parla senza mezzi termini di «alto tradimento» da attribuire ad agenti segreti provenienti dagli Imperi Centrali mascherati da civili e infiltrati nella società. Il documento si conclude con un perentorio richiamo all’ordine, alludendo alle «responsabilità incalcolabili» di ogni funzionario che non si dimostrasse all’altezza del compito51.

25 Anche la classe operaia viene continuamente monitorata attraverso indagini volte a comprenderne lo stato d’animo e prevenirne eventuali ribellioni. Preoccupa, per esempio, il malcontento della manodopera industriale di Torino e della Riviera di

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Ponente, dove nonostante le concessioni in termini di denaro e diminuzione delle ore lavorative, l’agitazione serpeggia continuamente52. Un manifesto di propaganda disfattista, pensato ad hoc per essere distribuito nelle fabbriche ausiliarie italiane, viene sequestrato a Zurigo nel febbraio del 1918. L’appello esplicito all’insurrezione rappresenta un grido di sovvertimento e di emulazione per le vicende russe: Lavoratori! Seguiamo l’esempio del proletariato Russo! Lo Czarismo insozzato di sangue proletario e complice dei coronati che hanno fatto massacrare i loro popoli per soddisfare la sete affaristica della borghesi, è travolto dall’onda irresistibile delle folle operaie di Pietroburgo, di Mosca, e di tutti gli altri centri della grande Russia. […] Intanto, è bene che noi lavoratori Italiani prendiamo esempio dagli avvenimenti delle giornate rivoluzionarie di Pietroburgo e ci prepariamo con maggiore energia al trionfo degli ideali di fratellanza, e di annientamento di tutte le classi che sotto uno scopo o l’atro tendono a mantenere la schiavitù proletaria ed a perpetuare le ragioni che alimenteranno i sistemi che portano alle guerre53.

26 Un rapporto dell’Ufficio Speciale d’Investigazione del maggio 1918 analizza il momento politico, ravvisando la convergenza internazionale dei partiti sovversivi54. Persiste pertanto un altissimo livello di vigilanza che abbraccia il controllo dell’ordine pubblico a più livelli. Nel settembre del 1918, per esempio, gli strumenti radiofonici del Servizio Informazioni dell’Esercito captano un sorprendente messaggio proveniente da Mosca. A diramarlo è il «Soviet Centrale di tutti i Radiotelegrafisti», il quale intende diffondere il verbo bolscevico ai lavoratori della «Siberia, degli Urali, dell’Ucraina, del Don e del Mar Bianco»55. La portata universale del comunicato permette di utilizzare lo stesso per raggiungere apparecchi radiofonici ben oltre i confini russi e anche in Italia, dove la censura militare lo intercetta. La notizia è tempestivamente comunicata al Ministero dell’Interno, che viene esortato a prendere «quelle misure che appariranno necessarie allo scopo di evitare che intercettazioni analoghe di propaganda bolscevica o comunque di spirito sovversivo» possano aver presa sulla classe proletaria del Paese56.

27 L’esito felice della battaglia di Vittorio Veneto e il successo finale nella guerra non abbassano il livello di guardia nei confronti dello spettro bolscevico che anzi diventa un pericolo incombente all’indomani della fine delle ostilità. Un manifesto della Direzione del Partito Socialista a Roma, bloccato preventivamente dalla censura per il suo carattere eversivo, denuncia il tentativo di soppressione internazionale della Rivoluzione russa: La fine delle ostilità ci rileva ancora una volta l’intimo sentimento della borghesia. Più che l’avversario armato essa ha l’illusione di aver vinto il movimento socialista proletario che era ed è contrario alla guerra. E come si prepara a soffocare al di fuori la rivoluzione proletaria russa che proprio oggi compie il primo anno di faticosa gloriosa esistenza, si accinge all’interno ad una più intensa compressione della classe operaia […] I vinti non siete voi, non siete voi che foste avversari della guerra e di questa guerra, non perché desiderate la sconfitta dell’una o dell’altra parte, ma perché credete nella fratellanza internazionale della masse lavoratrici […]57.

28 Terminata la Prima guerra mondiale i servizi di sicurezza italiani continuano a monitorare da vicino lo sviluppo delle vicende russe. Un rapporto del vice direttore generale della Pubblica Sicurezza commenta la cronistoria della rivoluzione firmata Trozky. Lo scrivente reputa le notizie riportate «poco interessanti» ma potenzialmente pericolose: si tratterebbe infatti di una «riproduzione particolareggiata della rivoluzione stessa, fatta però ad uso e consumo del Governo dei Soviet»58. «Il governo dei Societs – continua il rapporto – è di grande ammaestramento pei popoli, onde

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sarebbe opportuno una propaganda ben fatta per far conoscere gli orrori di questo governo anarchico, di cui si fa anche eco la stampa onesta»59.

29 Lo spettro del bolscevismo vincitore si affaccia sul continente martoriato dalla Grande guerra. Un emigrato italiano a Marsiglia, ex frequentatore degli ambienti sovversivi della Provenza poi divenuto collaboratore di giustizia, scrive nel 1919 un’interessante lettera al Ministro dell’interno nella quale si dichiara fedele servitore dello Stato e si propone di fornire informazioni «inerenti all’attuale stato anormale d’Europa»60. La missiva datata 26 maggio 1919 ha lo scopo di strappare un incarico dopo che le autorità consolari hanno deciso di privarsi dai suoi servizi. Il contenuto della stessa rimanda infine ad un nuovo scenario internazionale di lotta nei confronti del contagio rivoluzionario: Amico intimo dei più noti anarchici e sindacalisti rivoluzionari spagnuoli, di sindacalisti e libertari francesi e italiani, inscritto al partito socialista francese ‘di l’internationale Ouvriere’ – adhierent au groupe revolutionnaire International ‘La Vague et du Popilaire che ha sede principale a Mosca e Barcellona e che in questo momento, rappresenta puramente e semplicemente, un’agenzia di propaganda bolscevista in Europa; lo scrivente, potrebbe, immediatamente rendere utili e seri servigi alla causa dell’ordine. E qualora tali servigi fossero accolti, l’esponente sarebbe pronto dare prove materiali di quanto afferma dettagliando uomini, e fatti, inerenti all’attuale stato anormale d’Europa, con espressa riserva però che la lodata E.V. dovrebbe, o convocarlo in Italia, o delegargli un fiduciario per tutte le necessarie e opportune spiegazioni e dimostrazioni61.

5. Conclusioni

30 I fenomeni di controllo dell’ordine pubblico e i dispositivi legali per perseguirlo sono da considerarsi nell’ambito di un processo diacronico che ha nel 1917 un anno importante. Le politiche di repressione delle dissidenze interne devono tuttavia essere analizzate nel più ampio e complesso panorama della militarizzazione della società europea che anticipa e segue la Prima guerra mondiale. Lo studio del disfattismo in Italia si avvantaggerebbe se quest’ultimo fosse concepito come vettore coattivo trasversale: non solo uno strumento per la prevenzione del sovversivismo dunque, ma anche un immaginario, uno spazio d’azione, una categoria giuridica. Fattori che bisognerebbe considerare nella loro completezza e attraverso le relazioni che intercorrono tra gli stessi, allontanandosi dalla mera rappresentazione della caccia al “nemico interno”. In quest’ottica l’indagine storiografica sulla dissidenza durante la Grande guerra deve approfondire la relazione bolscevismo/disfattismo, ricalibrandone la reciproca influenza. La percezione del “pericolo rosso” che avanzava nella Pubblica Sicurezza e l’immagine primigenia della Rivoluzione russa in Italia non può non essere studiata alla luce delle misure messe in campo dallo Stato per prevenire, inibire e governare l’emergenza.

31 Sarebbe importante, per esempio, aprire allo studio particolareggiato della rete sommersa costituita dai confidenti della polizia: quanto la stessa avesse realmente compreso la specificità bolscevica e quale grado di timore avesse nei suoi confronti è dettato infatti anche dai rapporti, dalle denunce e dalle ricostruzioni più o meno lucide dei delatori. Contribuisce ad alimentare un complesso immaginario del sospetto l’azione di gruppi come la Lega antitedesca, la cui iniziativa populista si inserisce nelle laceranti ferite della guerra. Approfondire lo studio dei luoghi dove la forza dell’ordine esercita la propria azione, inoltre, contribuirebbe alla maggiore comprensione dei

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fenomeni repressivi: spazi di aggregazione – “covi” e “nascondigli” per usare il lessico dei questurini – ma anche luoghi di produzione materiale (fabbriche ausiliarie) e di produzione mentale (circoli politici). In questa cornice ampia emerge più chiaramente il disfattismo come pretesto per risolvere tensioni politiche, sociali e di classe a livello locale. Nella rilettura della campagna antirivoluzionaria nella Grande guerra si ribadisce infine la necessità di inserire la politica di controllo sociale in un processo di lungo periodo che ponga in relazione gli ultimi governi liberali con il primo fascismo. Solo nella continuità si possono così apprezzare le traiettorie di quelle strategie repressive abbandonate, mutuate o esasperate più tardi dal regime totalitario.

NOTE

1. Sulle crescenti misure coattive adottate in Italia per controllare l’ordine pubblico e la forza- lavoro nel settore bellico, valga per tutti il prezioso lavoro di PROCACCI, Giovanna, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, Roma, Bulzoni, 1999. 2. Per un inquadramento specifico, con particolare riferimento alla teoria giuridica si veda: FUSCO, Alessandra, Le radici del disfattismo politico: profili teorici ed applicativi (1915-1918), in COLAO, Floriana, LACCHÈ, Luigi, STORTI, Claudia (a cura di), Giustizia penale e politica in Italia tra Otto e Novecento. Modelli ed esperienze tra integrazione e conflitto, Milano, Giuffrè, 2015, pp. 459-481. Per gli ambiti applicativi si rimanda a: PROCACCI, Giovanna, La legislazione repressiva e la sua applicazione, in ID., (a cura di), Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, Milano, Franco Angeli, 1983, pp. 41-59. 3. PROCACCI, Giovanna, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, cit., p. 81. 4. Per un quadro generale: ID., «Le donne e le manifestazioni popolari durante la neutralità e negli anni di guerra (1914-1918)», in DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, 31, 2016, pp. 86-121. Per la ricostruzione della partecipazione femminile alla protesta in un’area interregionale rimando al mio: MAMONE, Graziano, Guerra alla Grande Guerra. La galassia dissidente tra Basso Piemonte, Liguria di Ponente e Provenza, Saluzzo, Fusta, 2016. Per la partecipazione femminile all’assistenza pubblica cfr. MOLINARI, Augusta, «Donne sospese tra pace e guerra. La mobilitazione femminile come pratica di assistenza», in Genesis. Rivista della Società delle storiche italiane, 1, 15/2016, Roma, pp. 61-85. 5. Sulla percezione della diplomazia italiana rispetto alle rivoluzioni in Russia si veda PETRACCHI, Giorgio, Diplomazia di guerra e rivoluzione. Italia e Russia dall’ottobre 1916 al maggio 1917, Bologna, Il Mulino, 1974. Per le ricadute delle rivoluzioni russe sulle relazioni tra Roma e Mosca si veda il recente lavoro di DUNDOVICH, Elena, Bandiera rossa trionferà? L’Italia, la Rivoluzione di Ottobre e i rapporti con Mosca. 1917-1927, Milano, Franco Angeli, 2017. Una sagace ricostruzione dell’atteggiamento delle autorità italiane rispetto al pericolo bolscevico è in LOMELLINI, Valentine, La “grande paura” rossa. L’Italia delle spie bolsceviche (1917-1922), Milano, Franco Angeli, 2015. 6. Valga a tal proposito la descrizione dell’entusiasmo parlamentare nella seduta del 16 marzo 1917. Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, Discussioni, 16 marzo 1917, p.

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13055, cit. in CARETTI, Stefano, La Rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), , Nistri- Lischi Editore, 1974, p. 26n. 7. Per un quadro aggiornato: SCIBILIA, Corrado, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Annali della Fondazione Ugo La Malfa – Quaderni, Roma, Gangemi Editore, 2012. 8. Per l’impatto dei rivoluzionari russi sul Partito socialista italiano e non solo si veda VENTURI, Antonello, Rivoluzionari russi in Italia. 1917-1921, Roma-Bari, Feltrinelli, 1979. 9. Cfr. DE FELICE, Renzo, «Ordine pubblico e orientamento delle masse popolari italiane nella prima metà del 1917», in Rivista storica del socialismo, 20, 1963, pp. 467-504. Sul mondo operaio protagonista di quella protesta: CAMARDA, Alessandro, PELI, Santo, (a cura di), L’altro esercito. La classe operaia durante la prima guerra mondiale, introduzione di Mario Isnenghi, Milano, Feltrinelli, 1980. Sui fatti di Torino: MONTICONE, Alberto, «Il socialismo torinese e i fatti dell’agosto 1917», in Rassegna storica del Risorgimento, gennaio-marzo 1958, pp. 51-96; SPRIANO, Paolo, Torino Operaia nella Grande Guerra (1914-1918), Torino, Einaudi, 1960, pp. 235-254. 10. A tal proposito: PETRACCHI, Giorgio, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. 1917/1925, prefazione di Renzo De Felice, Roma-Bari, Laterza, 1982. 11. Per il dissenso nell’esercito il punto di riferimento è sempre FORCELLA, Enzo, MONTICONE, Alberto, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2014; per gli aspetti psichiatrici si veda: BIANCHI, Bruna, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzioni e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Bulzoni, 2001; sui nuovi orizzonti mentali dei soldati: GIBELLI, Antonio, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 12. Sui fenomeni di superstizione e ritorno della tradizione magico-apocalittica si veda PROCACCI, Giovanna, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, cit., pp. 340-343. 13. Cfr. COBB, Richard, Le fonti della storia popolare francese e le loro interpretazioni, in ID., Polizia e popolo. La protesta popolare in Francia (1789-1820), Bologna, Il Mulino, 1970, pp. 15-70. 14. Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero dell’Interno (MI), Dipartimento Generale di Pubblica Sicurezza (DGPS), Conflagrazione Europea (A5G, 1GM), b. 4, f. 7, sf. 42, Rapporto della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, 29 dicembre 1916. 15. Ibidem. 16. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 1, f. 7, Circolare del Ministero dell’Interno alle Prefetture del Regno, Agitazione pro-pace, 13 gennaio 1917. 17. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 84, Lettera del Ministero dell’Interno alla Prefettura di Alessandria, 16 marzo 1917. 18. Lettera della Prefettura di Alessandria al Comando del Corpo d’Armata Territoriale, Agitazione socialista antibellica, 31 marzo 1917. 19. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 134, f. 280, sf. 3, Rivoluzione Russa, Lettera della Prefettura di Roma al Ministero dell’Interno, Pubblica manifestazione Pro Russia, 22 marzo 1917. 20. Ufficio Centrale d’Investigazione, Informazioni riservate concernenti impressioni sulla rivoluzione russa, 23 marzo 1917. 21. Ibidem. 22. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 134, f. 280, sf. 3, Rivoluzione Russa, Lettera della Prefettura di Pavia al Ministero dell’Interno, Conferenza, 21 maggio 1917. 23. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 4, f. 7, sf. 42, Copia di articoli tratti dal “Cielo Naroda” del 29 luglio e 11 agosto 1917, La rivoluzione russa e l’Italia. 24. Ibidem. 25. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 64, f. 126, Servizio Informazioni dell’Esercito, Sezione R, Notiziario sullo Spirito delle truppe, 15 aprile 1917. 26. Ibidem. 27. Ibidem.

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28. Ibidem. 29. Ibidem. 30. Ibidem. 31. Ibidem. 32. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 134, f. 280, sf. 3, Rivoluzione Russa, Ufficio Centrale d’Investigazione, Informazioni riservate concernenti la rivoluzione in Russia, 19 marzo 1917. 33. Ufficio Centrale d’Investigazione, Informazioni riservate concernenti la situazione Russa, 20 giugno 1917. 34. Ibidem. 35. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 1, f. 7, sf. 1, Riservatissima dell’Ufficio Stampa del Ministero dell’Interno al Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, Lavoro Austriaco in Italia, 9 settembre 1917. 36. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 5, f. 7, sf. 50, Lettera dell’Ufficio Speciale d’Investigazione al Ministero dell’Interno, Somme destinate alla Santa Sede, 7 settembre 1918. 37. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 4, f. 7, sf. 49, Telegramma del Ministero degli Affari Esteri al Ministro dell’Interno, Propaganda anti italiana nei Grigioni, 12 settembre 1918. 38. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 64, f. 126, Servizio Informazioni dell’Esercito, Sezione R, Notizie su internati e profughi desunte dall’esame delle corrispondenze da interrogatori e della stampa estera, 20 marzo 1917. 39. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 1, f. 7, sf. 1, Lettera della Prefettura di Milano al Ministero dell’Interno, 12 gennaio 1918. 40. Reparto Censura Militare Posta Estera, Estratto informativo n°29436, 6 dicembre 1917. 41. Lettera del Comando Supremo (Servizio informazioni) al Ministero dell’Interno, Moti rivoluzionari, 25 ottobre 1917. 42. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 4, f. 7, sf. 42, Comunicato della Lega Antitedesca, databile novembre 1917. 43. Ibidem. 44. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 84, Ritrovamento di un manifesto sovversivo, 3 maggio 1917. 45. Ibidem. 46. Si sottrae a questa tendenza PROCACCI, Giovanna, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, cit. 47. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 1, f. 7, sf. 1, Copia conforme di un volantino antimilitarista, databile novembre 1917. 48. Riservata della Prefettura di Piacenza al Ministero dell’Interno, Inno antimilitarista eccitante alla rivolta, 18 novembre 1917. 49. Riservata della Prefettura di Bologna al Ministero dell’Interno, Propaganda leninista, 26 novembre 1917. 50. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 4, f. 7, sf. 43, Circolare a tutti i prefetti del regno, dicembre 1917. 51. Ibidem. 52. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 1, f. 7, sf. 1, Rapporto dell’Ufficio Speciale d’Investigazione, Agitazione operaia in Piemonte, 2 febbraio 1918. 53. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 4, f. 7, sf. 27, Lettera dell’Ambasciata italiana a Parigi per il Ministero dell’Interno, Per un movimento rivoluzionario in Francia e in Italia, 16 febbraio 1918. 54. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 1, f. 7, sf. 1, Rapporto dell’Ufficio Speciale d’Investigazione, Movimento politico, 19 maggio 1918. 55. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 134, f. 280, sf. 3, Rivoluzione Russa, Servizio Informazioni del Regio Esercito al Ministero dell’Interno, Radiotelegrammi sovversivi dalla Russia, 26 settembre 1918. 56. Ibidem. 57. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 4, f. 7, sf. 42, Manifesto socialista diretto al “Popolo italiano perché riconquisti la libertà”, 11 novembre 1918.

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58. ACS, MI, DGPS, A5G, 1GM, b. 134, f. 280, sf. 3, Rivoluzione Russa, Rapporto del Vice Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, Commento alla cronistoria di Trotzky, 30 dicembre 1918. 59. Ibidem. 60. ACS, MI, DGPS, Casellario Politico Centrale (CPC), Francesco Castaldi, b. 1160. 61. Lettera al Ministero dell’Interno, Marsiglia 26 maggio 1919.

RIASSUNTI

Lo scoppio dei moti rivoluzionari nella Russia zarista catalizzò il dissenso popolare in Italia, innescando proteste violente nelle campagne e nelle fabbriche dove si venne a configurare un movimento dissidente a trazione femminile. Al fine di garantire la pubblica sicurezza anche dopo decisioni assai impopolari, le autorità dispiegarono un volume di forza talvolta sproporzionato al pericolo. Decisiva fu in questo senso l’attuazione del decreto legge n. 1561 del 4 ottobre 1917 noto per l’istituzione del reato di disfattismo. Si entrò così in una sorta di pace sociale apparente dove le misure eccezionali per la tutela dell’ordine pubblico avevano drasticamente ridotto gli assembramenti e demandato il rifiuto ad iniziative individuali od occasionali. Scopo del presente contributo è fare emergere le sinergie tra sospetto rivoluzionario, malcontento popolare e repressione governativa nell’Italia della Grande Guerra.

The outbreak of revolutionary motives in Tsarist Russia catalyzed popular dissent in Italy, causing violent protests in the countryside and in the factories where a female led movement was born. In order to ensure public security even after very unpopular decisions, the authorities deployed forces sometimes much bigger than the threat. The implementation of decree-law no. 1561 dated October 4th, 1917, establishing the defeatism’s crime, was a decisive example. It came to an apparent social peace where exceptional measures for the public order’s respect had drastically reduced assemblies and demanded rejection of individual or occasional initiatives. This research will provide valuable information about the synergies between revolutionary suspicion, popular discontent and governmental repression in the Great War’s Italy.

INDICE

Parole chiave : disfattismo, Grande Guerra, pacifismo, polizia, Rivoluzione russa Keywords : defeatism, Great War, pacifism, police, Russian revolution

AUTORE

GRAZIANO MAMONE Graziano Mamone (1984), dottore (Ph.D.) in Storia Contemporanea, collabora con l’Archivio Ligure della Scrittura Popolare di Genova, l’Istituto di Studi Storici Postali di Prato ed è membro del comitato scientifico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia. Svolge attività didattica e di ricerca presso l’Università di Genova. Recentemente ha pubblicato Guerra alla Grande Guerra. La galassia dissidente tra Basso Piemonte, Liguria di Ponente e Provenza.

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1914-1918 (Saluzzo, Fusta, 2016); Soldati italiani in Libia. Trauma, scrittura, memoria. 1911-1912 (Milano, Unicopli, 2016). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Mamone >

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Proyecciones de memoria del largo 1917 Ecos simbólicos en el Partido Comunista de España y el Partido Comunista Italiano

Andrea Donofrio y José Carlos Rueda Laffond

Elenco delle abbreviazioni degli archivi citati AGA= Archivo General de la Administración AHPCE = Archivo Histórico del PCE RGASPI = Arkhiv Sotsial’no-Politicheskoy Istorii

1. Introducción

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1 Marco Albeltaro ha resaltado como rasgo histórico distintivo del comunismo su carácter de «ideología profundamente invasiva que ha plasmado la vida de sus militantes»1. Este hecho se manifestó a través de una cultura política codificada, pero también relativamente dúctil, plagada de prescripciones, ritos, liturgias o referentes simbólicos que se proyectaron con fuerza sobre el ámbito público y la esfera privada de sus seguidores. Aunque presentó modulaciones de sentido, el eco de 1917 como lugar de memoria y matriz primordial de la cultura comunista fue una constante en las organizaciones nacionales. El discurso y la experiencia orgánica de los partidos de Europa Occidental siempre tuvieron presente, como capital simbólico, el ejemplo de la revolución bolchevique. Aquel acontecimiento estuvo dotado, al menos hasta la década de los sesenta, de una impronta heroica, erigiéndose en modelo que certificaba la posibilidad del cambio histórico y en certidumbre acerca de la virtualidad del tránsito al socialismo entendido como estadio superior.

2 Las celebraciones de la efeméride de Octubre de 1917, o de la figura de Lenin como su inspirador y artífice y arquitecto del Estado soviético, formaron parte del aparato conmemorativo de los partidos comunistas europeos. Lenin y la revolución se constituyeron en perdurables lugares de memoria con naturaleza inclusiva, orientándose a reforzar la identidad y los lazos del partido como comunidad mnemónica. Pero también excluyente, al ser unas marcas que evocaban el sentido anticapitalista del proyecto comunista, o al manejar el objetivo finalista de una emancipación socioeconómica vinculada, de una u otra forma, con la lucha de clases.

3 Otra característica de la cultura comunista fue la importancia otorgada a las estrategias proselitistas y socializadoras. El objetivo de erigirse en partidos de masas «de nuevo tipo», en oposición a la socialdemocracia, el anarcosindicalismo o a los considerados como partidos burgueses, figuró en el discurso público de los años treinta o cuarenta, en la Guerra Fría o durante la experiencia eurocomunista. Más allá de las evidentes singularidades de esos contextos, el recurso simbólico a los lugares de memoria se orientó a ampliar y reforzar la cohesión interna combinando dos marcos de encuadre en los discursos orgánicos: el nacional y el internacional. El eco de 1917, la retórica del internacionalismo proletario, el antifascismo o la solidaridad entre las organizaciones comunistas, así como las prácticas específicas derivadas de la vinculación al Komintern (IC, 1919-1943) o al Kominform (1947-1956), dieron forma tangible al sentido transterritorial del proyecto comunista2.

4 Paralelamente, los partidos comunistas actuaron como instrumentos nacionalizadores mediante narrativas generalistas y mecánicas institucionalizadas3. La movilización de referentes nacionales (o nacionalistas) fue muy visible en coyunturas como la Guerra

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Civil española, la II Guerra Mundial desde 1941 o coincidiendo con el episodio de colaboración vivido en Francia o Italia hasta mayo de 1947, cuando el PCI y su homólogo francés jugaron un papel esencial en la edificación del orden democrático de posguerra. De ese modo, a los mitos simbólicos derivados del paradigma de 1917, o al rol modélico otorgado al ejemplo soviético, se añadieron otras prácticas como la interiorización de los colores nacionales, el constitucionalismo o el recurso a otros elementos simbólicos de gran espectro propios de la historia nacional y la tradición liberal-democrática o radical (revoluciones de 1789 o 1848, jacobinismo, Comuna de París, unificación italiana, figuras de Garibaldi o Jaurès, etc.).

5 Se produjo así un acoplamiento entre valores emplazados en distintas escalas territoriales y simbólicas. Ahí se integraron esas huellas nacionales selectivas, así como la propia memoria sobre el carácter local asociado a cada partido comunista, en combinación con una memoria cosmopolita de mayor alcance donde figuró 1917 como cita compartida. La categoría de memoria cosmopolita alude a la producción y circulación transnacional de prácticas de recuerdo, a las formas de confluencia, y asimilación de referentes foráneos, o a fenómenos de hibridación e intersección «glocal, donde ciertos valores de corte global se adecuarían a parámetros específicos singulares (locales). Frente al sentido tópico y restrictivo habitualmente otorgado a la categoría de memoria nacional, la noción de memoria cosmopolita flexibilizaría, por tanto, las escalas geográficas y culturales donde se habría ubicado el recuerdo colectivo4.

6 Las siguientes páginas se aproximarán a cuatro momentos – 1937, 1949, 1956 y 1988 – donde tuvieron lugar otros tantos ejercicios de recreación de la revolución bolchevique: el vigésimo aniversario de Octubre, el septuagésimo aniversario de Iósif Stalin, el XX Congreso del Partido Comunista de la Unión Soviética (PCUS) y la polémica – protagonizada por Napolitano, Ingrao y Bufalini, entre otros – sobre la actitud de Palmiro Togliatti respecto al mito de la Revolución y la desestalinización. Esas cuatro situaciones permitirán advertir usos de memoria concretos en esa intersección entre lo internacional y lo nacional. Para recalcarla se adoptará una doble mirada sobre Italia y España que resalte los rasgos de especificidad y/o afinidad en relación con el relato internacional comunista.

2. 1937: exportación y españolización simbólica

7 La celebración del vigésimo aniversario de la revolución bolchevique se produjo en un año crucial para la consolidación del régimen soviético. 1937 fue, como resaltó Schögel, el epicentro del terror y la utopía, el momento nuclear en la oleada de violencia sociopolítica nutrida por los Procesos de Moscú y las purgas en el interior del partido, pero también cuando se expresó con mayor claridad el sesgo del estalinismo como proyecto de modernización y cambio totalizador a gran escala5. Asimismo coincidió con la cristalización del «nacional bolchevismo», o «bolchevismo popular», una narrativa asequible que manejó una visión teleológica del progreso y un capital simbólico que incluía una concepción trascendental del socialismo, la exaltación del culto a la personalidad y del liderazgo histórico del partido, la obsesión por la formación de nuevos cuadros, la épica de la emulación y el sacrificio (el heroísmo estajanovista), el mito del «hombre nuevo» o el nacionalismo panruso6. En paralelo, las purgas políticas

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se acompañaron de expectativas y posibilidades de promoción y cooptación para nuevas generaciones de dirigentes o militantes.

8 El pabellón soviético en la Exposición Universal de París de 1937 sirvió de emplazamiento emblemático para proyectar ese tipo de valores fuera de las fronteras de la URSS. Al tiempo, la política soviética y la estrategia establecida desde la IC remarcaron la necesidad de la proyección internacional – la exportación – de un imaginario de memoria sobre la revolución bolchevique que se ajustase a los intereses diplomáticos y al discurso general sobre el antifascismo en su traducción comunista. Si bien diversos partidos se implicaron en la difusión de dichos valores –ecaso del PCE o el PCF –, estos no fueron las herramientas exclusivas. Varias directivas dictadas por el Secretariado Ejecutivo de la IC destacaron en los meses anteriores a octubre de 1937 la relevancia y operatividad de otros colectivos definidos como organizaciones de masas formalmente autónomas, susceptibles de movilizar y encuadrar apoyos sociopolíticos e intelectuales de amplio espectro que superasen el campo estricto de las siglas y la afiliación comunista.

9 Ahí se situaron el Socorro Rojo Internacional (SRI), grupos de cooperación cultural o deportiva o el tejido de Asociaciones de Amigos de la Unión Soviética (AUS). Estas instituciones habían surgido en diferentes puntos de Europa o América Latina desde finales de los años veinte y fueron reactivadas en el otoño de 1936 como instrumentos proselitistas para difundir en los países capitalistas los logros de la «construcción del socialismo», la Constitución de 1936 o la «política de paz de la URSS». Durante 1937 canalizaron una ingente cantidad de materiales propagandísticos y fomentaron las visitas organizadas a la Unión Soviética7. Su operatoria, en conexión con otros organismos oficiales soviéticos, se articuló desde varios preceptos: orientarse hacia un vasto «público antifascista» integrado por trabajadores socialistas o anarquistas y clases medias reformistas, movilizar una «intensa actividad cotidiana» con «especial atención a las formas de trabajo que permitan una penetración en amplios sectores de la población» y, en definitiva, «crear una atmósfera en la que cualquier acción antisoviética sea simplemente imposible»8.

10 Sin duda fue en la España en guerra donde la campaña de memoria por el vigésimo aniversario de 1917 alcanzó mayor grado de visibilidad, al hilo de la denominada «Semana de Homenaje a la URSS» organizada por la AUS durante los primeros días de noviembre de 1937. Aquella celebración fue un ejercicio de españolización – o indigenización – de 1917 como lugar de memoria donde se combinaron las marcas simbólicas soviéticas junto a la iconografía frentepopulista española mediante una profusión de iniciativas proselitistas nutridas de asambleas y conferencias, confección de periódicos murales, representaciones teatrales o proyecciones cinematográficas. Tampoco debe obviarse el momento de celebración de aquella efeméride en clave interna: 1937 representa, probablemente, el cénit en la capacidad de influencia política del PCE en la España republicana, y pocos meses antes de la conmemoración se produjeron los dramáticos acontecimientos del mayo barcelonés.

11 El PCE impulsó la reorganización de las secciones provinciales de la AUS con cierta anticipación. La madrileña se recompuso desde marzo de 1937 sumando representantes de diversas organizaciones políticas y sindicales. En todo caso, la hegemonía comunista resultó abrumadora. En junio algo más de 11.000 socios eran miembros del PCE y otros 3.000 de las Juventudes Socialistas Unificadas (JSU), frente a un millar escaso de afiliados socialistas, otros tantos anarco-sindicalistas o cerca de setecientos

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republicanos9. De ese modo quedó articulada la infraestructura humana para la conmemoración de 1917, una iniciativa potenciada y alimentada desde la URSS, gestionada en sus trazas esenciales por la IC, resuelta desde el PCE y encuadrada mediante la AUS, que dedicó en su organigrama y operatoria un visible espacio al componente no comunista.

12 La memoria de la revolución bolchevique en la España de 1937 se centró en recalcar su carácter popular, su orientación emancipadora y su sentido histórico como frontispicio de nueva era. De ahí los acusados paralelismos trazados entre las guerras civiles rusa y española entendidas como epopeyas libertadoras.

13 Madrid fue uno de los espacios que recogió esta iconografía híbrida. En ocasiones a través de grandes paneles callejeros, o bien mediante muestras de modesta arquitectura efímera, se reiteraron por toda la ciudad pautas de equivalencia simbólica: el hermanamiento entre las banderas nacionales, la correspondencia de liderazgo entre los partidos comunistas soviético y español, el homenaje a través de la monumentalización de los dirigentes soviéticos (retratos en los vanos de la Puerta de Alcalá), o la reconversión de piezas religiosas en laicas como ocurrió en el templete del puente de San Isidro, re-significado con banderines republicanos y emblemas de la AUS10. A estas escenografías se añadió la exposición en los antiguos locales del Palacio de Hielo dedicada a la construcción socialista en la URSS con una selección de regalos que se enviarían a la Unión Soviética11. Con tal motivo se reunió un amplio catálogo de artefactos que incluyeron la primera bandera de las Brigadas Internacionales, pertrechos militares, un jersey de punto para Stalin o un traje de luces de Pepe Bienvenida12.

14 «La Semana de Homenaje a la URSS» debe enmarcarse, además, en la estrategia del PCE volcada en cualificar la Guerra Civil como lucha por la independencia nacional y al fascismo como agresión extranjera13. Desde el verano de 1936 se puso a punto una intensa maquinaria propagandística de corte nacionalista y patriótico que echó mano de referentes de memoria procedentes de la tradición liberal (el 2 de Mayo de 1808, la Guerra de la Independencia, las Cortes de Cádiz, los héroes progresistas decimonónicos, los padres del socialismo español…)14.

15 Este universo supra-comunista incluso formó parte de los materiales formativos preparados para la educación política de los voluntarios de las Brigadas Internacionales, si bien no era un empeño radicalmente nuevo. Un proyecto de expansión editorial estudiado por los servicios de la IC (Rdeizdat) a finales de 1935 resaltó ya la necesidad de lograr «una vasta y concreta penetración ideológica entre las grandes masas» españolas a través de la «nacionalización» de la oferta cultural mediante productos de amplio espectro, con obras históricas o clásicos literarios. Para ello se sugirió poner en marcha una colección («Nuestras Tierras») que incluyese un amplio corpus de biografías dedicadas a personajes tan variopintos como El Cid, Bolívar, los constituyentes de Cádiz, Mariana Pineda, Abd-el-Krim, Pancho Villa o Pablo Iglesias. Su comité editorial estaría compuesto por figuras de relieve literario como Valle Inclán, Eduardo Ortega y Gasset o García Lorca, aunque la responsabilidad del proyecto debía recaer en intelectuales del PCE como César e Irene Falcón, Pedro Garfias, Wenceslao Roces, César Arconada, Luis Lacasa o Ramón J. Sender. Con esta idea se antecedió la eficaz fórmula de expansión editorial materializada en la colección de libros populares «Nuestro Pueblo» que vio la luz tras julio de 193615.

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3. 1949: sovietización y apoteosis del culto a la personalidad

16 El septuagésimo cumpleaños de Stalin, en diciembre de 1949, constituyó la primera gran liturgia del movimiento comunista internacional de la Guerra Fría. Estuvo dominada por una intensa proyección simbólica en clave de sovietización, en correspondencia con un ejercicio de afirmación de autoridad y poder de la URSS en Europa Central y Oriental. Su narrativa no se inscribió, como ocurrió en la España de 1937, en el discurso de cooperación frentepopulista, sino que pretendió reafirmar la sujeción de los partidos comunistas al epicentro encarnado en el PCUS. Pero que se amplificasen pautas soviéticas muy definidas no entró en contradicción con la diversificación local que presentó su campaña de memoria, basada en personificar la figura de Stalin con el legado de 1917.

17 Los fastos de 1949 constituyeron la última gran exaltación del comunismo global concitada en torno a Stalin, presentado como expresión sublime de Lenin y de la huella idealizada de 1917; o como artífice de lo que Jean Marie Goulemot llamó la «sensibilidad estalinista» expresada a través de las ideas de superioridad, modernidad y solidaridad socialistas y mediante la imagen de «hombre de la paz» 16. Según ha resaltado Alexey Tikhomirov respecto a la campaña de la onomástica en la República Democrática Alemana, esta pivotó sobre un elemento central – la sovieticidad – entendida como manto unificador que enfatizaba el rol de la URSS como paradigma para el movimiento comunista. Pero tal afirmación se combinó con el recurso a particularidades históricas, lingüísticas o folklóricas, o bien incorporando ejercicios de culto a los dirigentes locales. De ese modo se concitó un imaginario internacional unitario que hibridó el tono compartido del mito soviético junto a las «polifonías nacionales»17.

18 El homenaje a Stalin se reprodujo con intensidad en las nacientes democracias populares y en las organizaciones comunistas europeas occidentales. Constituyó un ejercicio de notable movilización simbólica que debe contextualizarse en los parámetros iniciales de la Guerra Fría, en el discurso de solidificación del bloque oriental y en la proyección global del modelo soviético en clave de idealizada respuesta anti-imperialista frente a Estados . Pero también se ajustó a los referentes patrióticos y a la memoria inmediata sobre la Resistencia antifascista según las particularidades locales. El PCI, por ejemplo, editó carteles que italianizaron al dirigente soviético, combinando su rostro con una secuencia combinada de banderas que alternaban la enseña roja y los colores nacionales. Otro cartel saludó el aniversario categorizando a Stalin como entregado a la causa del socialismo y la paz. El número especial publicado por L´Unità el 21 de diciembre de 1949 incluyó una biografía que remarcaba la lucha contra el fascismo italiano y la victoria en la II Guerra Mundial18. En las páginas de Rinascita, Palmiro Togliatti publicó un artículo extremadamente halagador de Stalin donde recalcó su rol de autoridad efectiva y simbólica, en coherencia con la semántica ortodoxa del culto a la personalidad. Nos ha enseñado a ser comunistas, a luchar en cualquier condición, a ser fieles hasta el final a los principios del marxismo-leninismo, a servir a la causa de la emancipación de los trabajadores. Nos empeñamos en ser fieles a vuestras enseñanzas [...]. Os deseamos largos años de vida y de salud para el bien del pueblo de la Unión Soviética, para el bien de la clase obrera y de los pueblos del mundo entero. Gloria a usted, compañero Stalin!19.

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19 No obstante, la figura de Stalin fue objeto de intensa pugna simbólica en la Italia de aquellos meses: ante los decisivos comicios de febrero de 1948, la Democracia Cristiana realizó una agresiva campaña de imagen que insistió en un anticomunismo atroz, con un imaginario simbólico que aludió a la barbarie roja, al orco bolchevique y al expansionismo soviético.

20 En el caso del PCE el homenaje se imbricó en una secuencia de intensa inflación simbólica donde figuró la conmemoración anual de la Revolución de Octubre (octubre- noviembre de 1949), la onomástica de Dolores Ibárruri (9 de diciembre) y el trigésimo aniversario del partido (abril de 1950). Estos episodios se explicaron a través de líneas de interconexión y retroalimentación fundadas en una codificación muy cerrada basada en la exaltación idealizada de 1917 y del liderazgo soviético, un agresivo discurso frente a la tradición socialdemócrata y liberal-parlamentaria, el paralelismo en forma de culto reflejo entre Stalin y Pasionaria, el antifranquismo y la profunda revisión del recuerdo del antifascismo de los años treinta y cuarenta, ahora trastocado en anti-americanismo.

21 Inserto en estas coordenadas de sentido «Mundo Obrero» publicó un especial el 21 de diciembre encabezado por un texto de Pasionaria que reiteraba la cualificación de Stalin como «guía y esperanza de los pueblos»20. El PCE, al igual que el resto de formaciones comunistas internacionales, animó una intensa campaña de envío de regalos a Moscú, en una suerte de contraprestación simbólica y homenaje según los códigos del culto a la personalidad. Los presentes, ofrendados desde el exilio o el interior – en ocasiones desde las cárceles franquistas –, incluyeron exvotos y reliquias laicas: viejos carnets, banderas de agrupaciones guerrilleras, escarapelas con los números de registro procedentes de las ropas usadas en campos de concentración nazis o un pisapapeles que recordaba un acto de sabotaje contra los alemanes en Francia21.

22 El homenaje internacional a Stalin de 1949 constituyó, pues, un nuevo ejercicio de síntesis entre memoria cosmopolita e ingredientes de afectividad local, tal y como ocurrió en 1937. La retórica compartida incluyó lemas intercambiables entre las democracias populares y los comunistas occidentales. El más representativo subrayó la tesis de «Stalin es el mejor amigo de…». En esos puntos suspensivos cupieron por igual checoslovacos, alemanes, polacos, búlgaros, italianos o españoles del interior y del exilio, cohesionados simbólicamente mediante una narrativa hagiográfica sobre la URSS y el liderazgo providencial de Stalin, el carisma sistémico del «largo 1917», o un lenguaje ritual y rutinario intercambiable por encima de las singularidades nacionales, pero asimismo adaptado a estas.

4. 1956: el shock del Informe Secreto y el giustificazionismo

23 El XX Congreso del PCUS y la publicación del Informe Secreto tuvieron importantes repercusiones en los partidos comunistas. Como confesó Togliatti «una tempestad se ha abatido sobre nosotros»22. Era el «inicio oficial de la demolición del mito de Stalin»23. Y si el año 1949 había significado la apoteosis del culto a la personalidad, 1956 fue el de su denuncia desde una lógica de exorcismo de memoria. En este contexto los principales partidos comunistas de Europa Occidental apostaron, en general, por una doble estrategia. Por un lado, personalizaron las acusaciones en la figura de Stalin, si bien destacando igualmente sus méritos en la construcción del socialismo en la URSS y su

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contribución al triunfo de la revolución. Y, por otro lado, para minimizar las posibles repercusiones, se prefirió sustituir la agresiva semántica que hablase de «crímenes» por «errores». De este modo el lenguaje jugó un importante rol funcional simbólico.

24 Pero la poderosa carga alegórica asociada a Stalin dificultó igualmente la asimilación de las críticas. Los partidos comunistas italiano o español buscaron un difícil equilibrio, un justo medio, entre el mito de la Revolución y la condena de quien había figurado antaño como su máximo exponente en tiempo presente. Se temía provocar un trauma en los militantes comunistas. Se terminó por culpar de las limitaciones de esta etapa al culto a la personalidad, apartando progresivamente su intensa sombra del escenario político, como un viejo cuadro que no se podía tirar y que había que guardar en el desván.

25 El PCI y el PCE se movieron, pues, entre la cautela y la reticencia de los dirigentes y la confusión y el ocasional estupor de la militancia. A la altura de 1956, Stalin era el fantasma que recorría los encuentros y foros internos. Se obvió su figura, se suavizó su dilatada etapa de poder y se intentó alternar el elogio y la crítica, un logro con un error. Desapareció de los editoriales de los periódicos comunistas, aunque siguió perviviendo ocasionalmente en las cartas a los directores o en los mítines de periferia.

26 Para el PCI 1956 representó una fecha crucial. Por su trascendencia se habló del «indimenticabile 1956». Fue un momento de gran dificultad que, desde un punto de vista estratégico, abrió paso definitivo a la redefinición de la «vía italiana al socialismo». Respecto al periodo estalinista, el partido consideraba necesarias las críticas, al mismo tiempo que enfatizó aspectos como el difícil contexto en el que había actuado el líder georgiano. El partido decidió, en este escenario, prorratear el relato en el tiempo. La estrategia fue la de dosificar las noticias para limitar el impacto. En lugar de hacer público el Informe Secreto cuando empezó a difundirse en la URSS, el PCI fue desmembrando y descubriendo la cuestión en diferentes días y declaraciones, hablando de errores locales, infravaloración de graves problemas y buena fe24. En un primer momento, se intentó defender la idea de que los errores y los delitos cometidos por Stalin, por muy graves que fueran, respondían a «razones históricas». Incluso se argumentó su necesidad. Se empezó a hablar de giustificazionismo, produciéndose una clara división en el seno del partido entre aquellos que intentaron justificar la acción de Stalin y otros críticos más severos.

27 En una reunión del Consejo Nacional del PCI celebrada en marzo de 1956, Togliatti concluyó su intervención de la siguiente manera: «Stalin es un hombre que ha conquistado un lugar en la Historia. Y este lugar lo tiene y lo tendrá siempre en las conciencias de los hombres que saben entender las cosas»25. El auditorio aplaudió como si nada hubiera pasado en aquellos meses. En su intervención Togliatti expresó un juicio positivo por su contribución a la experiencia bolchevique y respetó dos cuestiones: preservar la función mítica del georgiano, tan apreciada entre importantes sectores de la base o los cuadros orgánicos, y posponer el problema de la implicación del PCI en la política estaliniana26. En abril, de nuevo fue Togliatti quién afirmó que Stalin «se ha asegurado un lugar en la Historia al encabezar una obra ingente, la Revolución de Octubre, la construcción de la sociedad socialista, la afirmación y la defensa hasta el final de esta sociedad»27. La insistencia en el contexto dramático fue una constante en el partido y una forma de justificar su relación con la URSS.

28 Tras estas posiciones iniciales, y el temor a la posible desorientación del colectivo comunista, la actitud del secretario general fue evolucionando entre una defensa de la línea general del PCUS y de su máximo dirigente – línea que, en sus palabras, fue

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correcta «antes de la guerra, en la guerra y después de la guerra» –, y la crítica de los defectos teóricos del líder y las «erróneas medidas de represión»28. La actitud del partido fue cautelosa, coherente con la visión de que pervivían los «trabajadores y militantes que tenían el retrato de Stalin en la pared, o en el corazón»29.

29 Solo tras la publicación del Informe Secreto en la prensa norteamericana y francesa, Togliatti decidió enfrentarse con el problema. Concedió una entrevista a «Nuovi Argomenti», titulada «Nueve preguntas sobre el estalinismo», centrada en el debate tras el cónclave soviético30. En ella criticó el exceso de poder personal en menoscabo de la gestión colegiada. Su línea argumental se movió en torno a dos ideas: reiterar los errores y, a la vez, considerar que estos no habían sido capaces de destruir los «elementos básicos de la sociedad soviética» ni su superioridad sobre «las modernas sociedades capitalistas». Y, en esta línea, merecía la pena recordar los valores de la revolución y su importancia, fijando su legado y balance estructural frente a la coyunturalidad del período estalinista.

30 Togliatti, al igual que otros dirigentes comunistas, consideró así que no se podía liquidar en una misma enmienda a la totalidad a Stalin y a la revolución. De este modo, la desacralización simbólica se acompañó de un reforzamiento de 1917 como capital simbólico y seña de identidad. Por tanto, tras el bache, se trataba sólo de emprender de nuevo el camino. El proceso había sufrido una desviación, pero no se había interrumpido ni se había visto definitivamente desvirtuado, y era esa pureza no mancillada la que permitía desplegar la vieja técnica de autocrítica colectiva, tan querida en la cultura comunista. «La demolición» de Stalin abrió «una profunda laceración en el corazón y en el cerebro de cada militante», pero fue el momento de reavivar la memoria de Octubre y la lucha antifascista31. Esta estrategia de memoria tendió a una neutralización selectiva del corto plazo en beneficio de la sombra idealizada de 1917 como matriz de presente y futuro. En coherencia con ello el debate del VIII Congreso utilizó frecuentemente la expresión «partido revolucionario» para remarcar la herencia de 1917 y facilitar el reacomodo identitario.

31 Aunque era evidente la dificultad dialéctica. Togliatti empleó a un mismo tiempo las expresiones «despotismo» y «gran marxista» para referirse a Stalin. Se trataba de acrobacias retóricas con el objetivo de evitar la «desorientación en nuestras filas», como confesó en su discurso ante el Consejo Nacional. Al tiempo, dejó entrever su disgusto ante el método utilizado por Jrushchov para reforzar su posición frente a la dirección soviética y desmarcarse del pasado. Lo consideró un exabrupto, una invectiva que abordaba temas traumáticos pero liquidándolos, sin establecer la necesaria claridad ideológica para profundizar en el camino a seguir.

32 Un suceso aparentemente anecdótico evidencia el arraigo del mito de Stalin entre algunos intelectuales. Entre mayo y agosto de 1956, Leonardo Sciascia escribió un breve texto irónico titulado La morte di Stalin que envió a Italo Calvino para conocer su opinión. Calvino afirmó en su respuesta que al leerlo se sintió incómodo. «Me resulta complicado», afirmó, «darte un juicio desapasionado. Hay demasiado de mi historia en ello». Sobre la ironía del relato consideró que «cuando la realizan otros, no sé valorar objetivamente, me siento implicado»32. Era evidente que el tono satírico le hirió33. Aunque, a pesar del sentido irreverente del texto, Sciascia también se declaró «aún convencido de que Stalin ha sido un gran hombre, uno de los más grandes que la historia del mundo haya tenido», confesando sentir «una terrible confusión»34.

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33 En el caso del PCE, una formación clandestina con un volumen de militantes muy inferior al del PCI y sometido a una notable dispersión geográfica, la desacralización de Stalin fue acogida con preocupación por sus posibles repercusiones internas y la probable campaña de reforzamiento anticomunista desde el régimen franquista. Siguiendo el mismo guión que el PCI, la narrativa oficial del PCE se apresuró a puntualizar que, pese a los errores, Stalin representó una figura histórica decisiva en el triunfo de la Revolución. Sus méritos en la construcción del socialismo no podían ser menospreciados.

34 Se trataba de contener el fuerte impacto psicológico de las revelaciones. Se temía que los militantes pudieran desanimarse o abandonar la lucha clandestina. No obstante, como afirmó Carrillo, «el conocimiento de las faltas de Stalin» provocó un hondo sentimiento, pero »en general, los camaradas aceptan las explicaciones dadas y comprenden»35. El PCE consiguió que el efecto emocional no se tradujese en daño político ni derivase en crisis orgánica. Al contrario, el discurso oficial interpretó la autocrítica como muestra de valentía: el movimiento comunista era capaz de replegarse, manifestar sus defectos, enmendarlos y regenerarse. Dentro de España se evidenciaron dos posturas diferenciadas: la de algunos «viejos camaradas» que rechazaron las acusaciones, y la vivida entre los colectivos más jóvenes donde el impacto personal fue más limitado y distante. Pero la respuesta unánime fue la lealtad al partido por encima de cualquier posible resquicio de fidelidad a Stalin.

35 En definitiva, 1956 representó «un momento de ruptura decisivo en la definición del universo simbólico comunista»36. En el PCI, superada la conmoción inicial del XX Congreso y los hechos de Hungría, Togliatti supo fortalecer su liderazgo. «No hay Estado ni partido-guía», afirmó, «la guía son nuestros principios, los intereses de la clase obrera y del pueblo italiano, la defensa permanente de la paz y de la independencia de la nación, los deberes de solidaridad internacional»37. El «terribile 1956» del PCI se selló con algunos cambios internos y con una mayor propensión al debate dentro de los límites marcados por el centralismo democrático38.

36 En 1957, en el cuadragésimo aniversario de Octubre, el PCI y el PCE subrayaron su proximidad a la URSS, halagaron el camino recorrido y defendieron la unidad del movimiento comunista internacional sobre la base del marxismo-leninismo. Con ocasión de la conmemoración algún periódico acompañó la noticia con la foto emblema de la censura estalinista: Lenin arengando sobre una tribuna de madera mientras Trotsky, en la escalera, miraba al pueblo. Esa instantánea no coincidió con ningún tipo de rehabilitación de Trotsky, pero sí con una postura de nacionalización identitaria y ruptura. Apareció coincidiendo con la afirmación de que debía celebrarse, «como ella solo se merecía», la Revolución de Octubre, aunque en la práctica ambas formaciones estaban ahondando un camino que les llevaría en pocos años a distanciarse de la URSS en aras de sustanciar la tesis de las vías propias al socialismo39.

5. 1988: revisionismo y juicio final

37 Tras la muerte de Enrico Berlinguer en 1984 y el inicio de la Perestroika promovida por Mijaíl Gorbachov, el PCI empezó una nueva etapa. Si por un lado se puso de manifiesto que «el menos preparado por la muerte de Berlinguer es el mismo PCI» 40, por otro se dio paso a una etapa de reflexión sobre la identidad del partido, marcada por una pérdida paulatina de militantes y votos.

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38 El septuagésimo aniversario de la Revolución de Octubre ya no se vivió con los fastos y la emotividad de antaño. Se trataba de un lento declive. En 1968 tuvo lugar la sonada condena del PCI a la URSS por la intervención armada en la Primavera de Praga y, años después, Berlinguer afirmó amargamente que los hechos de Polonia inducían a considerar «el agotamiento de la fuerza propulsora de la Revolución de Octubre»41. En las celebraciones por el aniversario de 1987 en Moscú la delegación del PCI estuvo compuesta solo por el entonces secretario Alessandro Natta y por Giorgio Napolitano. Ambos indicaron que habían aceptado participar «en cuanto se trataba de un encuentro internacional al que fueron invitados los partidos socialistas y socialdemócratas, además de los movimientos progresistas y las formaciones políticas de diferentes naturaleza, por ejemplo el Partido del Congreso de la India»42. Era evidente que formar parte de la delegación ya no era un mérito o una distinción, sino casi una obligación institucional. Tanto en su discurso en la capital soviética como en el de Módena – donde se celebró una fiesta por el aniversario –, Natta tildó de «anacrónicos» y «no productivos» los «intentos de restablecer un movimiento comunista internacional cerrado en sí mismo y tendente a revivir una vieja ortodoxia doctrinaria»43.

39 En febrero de 1988, tras la rehabilitación de Nikolái Bujarin en la URSS, estalló en la prensa italiana el llamado «caso Togliatti». En él se reavivó la crítica acerca del comportamiento de il Migliore respecto a la violencia estalinista. El punto álgido del debate se alcanzó tras la publicación de un artículo de Umberto Cardia, el 24 de febrero en «L’Unità» titulado «Per Gramsci fu fatto tutto?». En él se cuestionaba si Togliatti y el PCI habían abandonado a Gramsci a su triste destino en la cárcel, entre otros aspectos, por sus críticas a Stalin. Se recordaba cómo Togliatti nunca entregó una carta escrita por Gramsci el 14 de octubre de 1926 en la que se aludía a que Stalin «no ganase con ventaja» y respetase la oposición interna44.

40 A pesar de la distancia, la prensa italiana mostró especial interés por el tema. El propio PCI se mostró sorprendido por la repercusión mediática del artículo. La dirección comunista se vio obligada a publicar una nota en la que indicaba que no había silenciado nada y que siempre había intentado dar respuesta documentada a los interrogantes que afectaban a la vida del partido. Pero el contexto de 1988 propició la ocasión perfecta para un juicio sobre la «ambigüedad del PCI». Una ambigüedad que se habría prolongado en el tiempo: en los años cincuenta, en el intento de suavizar la desestalinización y en los sesenta, exaltando la figura de Dubček, solidarizándose con el nuevo curso – la «ineguagliabile esperienza» – y, tras la invasión, «l’augurio di “pieno successo” alla nuova direzione cecoslovacca impersonata da Husák»45. Ya en los setenta, en «el intento de mantener el cordón umbilical» entre renovación democrática y el pasado ejemplificado en 191746. Y, finalmente, en la década de los ochenta, en la búsqueda de un camino entre socialdemocracia y Socialismo Real que no conllevase la ruptura con la URSS.

41 El PCI decidió unir fuerzas en torno a la memoria orgánica de Togliatti, si bien obviando cualquier tipo de especulación sobre la cuestión de salvar a Gramsci. El primero en entrar en la arena fue Giorgio Napolitano con un artículo titulado «Parole e silenzi di Togliatti»47. En él, el que posteriormente fue Presidente de la República recordaba el contexto en el que Togliatti tuvo que tomar decisiones de gran relevancia, pues en caso contrario no se podrían «comprender fenómenos y hechos característicos de aquel período», añadiendo que «solo reflexionando sobre las contradicciones que hoy aparecen tan estridentes se puede vislumbrar la trágica complejidad de aquel tiempo».

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Napolitano explicaba así el giustificazionismo histórico de Togliatti. Subrayó que su acción había oscilado entre «momentos de valiente desarrollo y frenadas». Lo único que le reprochaba era no haber realizado nunca «una explícita y sustancial revisión de su laudatorio juicio de la URSS»48.

42 Más combativo resultó Pietro Ingrao que en su artículo «Fin dove arrivò Togliatti» evitó cualquier tipo de acusación, marcando abiertamente las distancias frente a quienes intentasen convertir al líder comunista en un «imputado» olvidando su papel histórico y su aportación al comunismo italiano49. Ingrao defendió la «justeza de las elecciones políticas» de Togliatti. El pasaje más notable del artículo era aquel en que argumentó que cuando Togliatti «aceptó y aprobó las represiones sanguinarias e injustas», lo hizo porque «quería salvar una perspectiva histórica, una posibilidad de actuar»50. Aceptó, por tanto, en aras de defender un ideal superior, la Revolución de Octubre.

43 Asimismo en «L’Unità», Paolo Bufalini escribió que la conducta de Togliatti se vio impuesta por la necesidad de situarse en un bando en un contexto de confrontación mundial. De los tres políticos comunistas en dar su visión en aquellos días de finales de los ochenta fue el más suave. Tras una crítica inicial al mundo bipolar, reprochó a Togliatti no haber conseguido «encuadrar históricamente el estalinismo». E indicó que «en la denuncia de los errores y de los horrores se perdía la visión global de la Revolución de Octubre, de la construcción del socialismo en un sólo país, de la guerra y de la victoria sobre el nazismo». Por su parte, Nilde Iotti, presidenta de la Cámara e histórica pareja sentimental del líder italiano, intervino en la polémica recordando que hablar de Togliatti y de su labor significaba rememorar las décadas más trágicas de la Europa moderna. En su opinión, il Migliore siempre había actuado en interés del partido en un momento en que era, no sólo conveniente sino necesario, mantener un estrechísimo vínculo con la URSS.

44 Aunque se trató de una polémica marcadamente italiana, a medida que se agudizaba la crisis del bloque del Este se dieron dinámicas parecidas en otros partidos comunistas en términos de revisión crítica en un contexto, además, en que sectores de la intelectualidad comunista – Manuel Azcárate, por ejemplo – adoptaban de forma explícita una visión de Octubre como sucesos de «otro siglo».

45 En los ochenta, los retrocesos electorales conllevaron un encendido debate sobre la identidad de los partidos comunistas de Italia y de España. Terminada la etapa eurocomunista, se cuestionaban las decisiones tomadas por sus históricos líderes. Se señaló cómo el policentrismo de Togliatti, el «compromiso histórico» de Berlinguer o la táctica enunciada en el libro Eurocomunismo y Estado de Carrillo, no habían cosechado los resultados esperados. El eurocomunismo fue un intento de «ir más allá de la experiencia comunista y de la socialdemócrata»51. Se creyó posible conseguir por la vía democrática las ansiadas reformas que llevarían al socialismo dentro del capitalismo. Sin embargo, su fracaso provocó que las expectativas fueran sustituidas por el desencanto y la decepción de la militancia. Aunque cada partido llegó a ese punto marcado por las peculiaridades de su situación, tanto para el PCI como para el PCE el final del eurocomunismo se saldó con críticas, transfuguismos y escisiones.

6. Algunas conclusiones

46 La polémica política, pero con invocaciones historiográficas, sobre la figura de Togliatti estalló en el momento en que los partidos comunistas de Italia y de España afrontaban

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una situación crítica, con una gravísima erosión electoral en vísperas del colapso del Socialismo Real. En el caso de Italia, el último secretario comunista, Achille Occhetto, acabó impulsando una estrategia y una revisión ideológica que terminó suponiendo, en cierto modo, el regreso a 1902 y a la socialdemocracia en vísperas de la fractura entre bolcheviques y mencheviques. Un año antes de la caída del Muro, en una célebre entrevista, Occhetto, entonces vice-secretario del PCI, invitó a «una radical recolocación histórica de la Revolución de Octubre y de todo el complejo movimiento» de ella derivado52. En su opinión, se trataba de «relativizar» su significado. E, incluso, dio a entender que el PCI se sentía más heredero de la tradición revolucionaria francesa de 1789 que de la soviética. Dos días después un cuadro comunista histórico, Armando Cossutta, definió aquellas palabras como reflexión «desconcertante que sabe a capitulación»53.

47 Desde hacía años el PCI o el PCE descartaban la ruptura violenta o la posibilidad de una revolución armada. Para alguna otra voz autorizada de los años ochenta la llave del cambio debía apoyarse en los padres fundadores. «Marx y Engels jamás identificaron la revolución social exclusivamente con su forma violenta [...]. Para toda una serie de países – entre ellos Inglaterra, Estados Unidos y Holanda –, Marx contempló la posibilidad de una transición pacífica al socialismo», se afirmó desde este posicionamiento revisionista54. 1917 seguía considerándose como momento capital en términos históricos, punto de ruptura con el capitalismo y mito fundacional. Pero a la hora de establecer la fundamentación histórica de la naturaleza revolucionaria, esta se retrotraía hasta el siglo XIX en forma de interpretación selectiva.

48 Se ponía un punto final así, en la estela última generada desde el eurocomunismo, a los usos simbólicos de la memoria, cerrándose un ciclo. En 1937, en pleno apogeo del fascismo y con un PCI clandestino, la huella de la Revolución de Octubre fue intensamente exportada según el canon estalinista, en un proceso de adaptación local que cabría tildar, respecto a la España en guerra, de españolización simbólica. En 1949, con un PCI trastocado en partido de masas y un PCE disgregado entre la represión, la clandestinidad y el exilio, tuvo lugar un reforzamiento de la sovietización simbólica en la cultura comunista global, al socaire de la Guerra Fría. 1956 supuso, en cambio, una suerte de transacción entre desacralización simbólica (desestalinización), modulación selectiva de sentido de 1917 y nacionalización tanto en el PCI como en el PCE. Por fin, a finales de los ochenta, y nuevamente en el caso paradigmático del PCI, 1917 se encapsuló como episodio que podía seguir manteniendo una fuerte carga sentimental, pero cada vez más encerrado en sus condicionantes históricos, y definitivamente desahuciado de una virtual aplicación, en clave sistémica, en términos de presente y futuro sobre esa misma realidad nacional.

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NOTAS

1. ALBELTARO, Marco, Cultura política, estilos de vida y dimensión existencial. El caso de los comunistas italianos, in BOSCH, Aurora, SAZ, Ismael (eds.), Izquierdas y derechas ante el espejo. Culturas políticas en conflicto, , Tirant le Blanch, 2015, pp. 363-378, p. 364. 2. Cfr. STUDER, Brigitte, The Transnational World of the Cominternians, Houndmills, Palgrave, 2015, pp. 5-9; KIRSCHENBAUM, Lisa A., International Communism and the Spanish Civil War. Solidarity and Suspicion, Cambridge, Cambridge University Press, 2015. 3. Sobre las prácticas de nacionalización sigue siendo fundamental MOSSE, George L., La nacionalización de las masas. Simbolismo político y movimientos de masas en Alemania desde las Guerras Napoleónicas al Tercer Reich, Madrid, Marcial Pons, 2005. 4. LEVY, David, SZNAIDER, Natan, «Memory unbound: The Holocaust and the formation of cosmopolitanism memory», in European Journal of Social Theory 5, 1/2002, pp. 87-106. 5. SCHLÖGEL, Karl, Terror y utopía. Moscú en 1937, Barcelona, Acantilado, 2014. 6. PRIESTLAND, David, Bandera roja. Historia política y cultural del comunismo, Barcelona, Crítica, 2010, pp. 167 et seq. 7. Directiva de 11 de julio de 1937, Arkhiv Sotsial’no-Politicheskoy Istorii (desde ahora RGASPI), 495/18/1203. 8. Directiva de septiembre de 1936, RGASPI, 495/18/1114. 9. Informe de la Secretaría de Masas del Comité Provincial de Madrid, 1937, Archivo Histórico del PCE, Documentos, 18. 10. Archivo General de la Administración, (AGA/C), 33F, 04070, 56180-001, 56184-001, 56183-001 y 56182-001. 11. AGA/C, 33F, 04069, 56127-001, 56143-001, 56144-001, 56145-001, 56185-001 y 56186-001. 12. Mundo Obrero, 9 de octubre de 1937, p. 2. 13. NÚÑEZ SEIXAS, Xosé M., ¡Fuera el invasor! Nacionalismos y movilización bélica durante la guerra civil española (1936-1939), Madrid, Marcial Pons, 2006. 14. Historia del movimiento liberal y revolucionario de España hasta el 18 de Julio, manuscrito mecanografiado, [1938?]; RGASPI, 545/2/84. 15. RGASPI, 495/78/138. 16. GOULEMOT, Jean Marie, Pour l’amour de Staline. La face oubliée du communisme français, Paris, CNRS, 2009, p. 27. 17. TIKHOMIROV, Alexey, The Stalin Cult Between Centre and Periphery. Structures of the Cult Community in the Empire of Socialism, 1949-1956-The Case of GDR, in ENNKER, Benno, HEIN-KIRCHER, Heidi (herausgegeben von), Der Führer im Europa des 20. Jahrhunderts, Marburg, Herder-Institut, 2010, pp. 297-321. 18. L’Unità, 21 de diciembre de 1949, p. 4. 19. Rinascita, 21 de diciembre de 1949, p. 1. 20. Mundo Obrero, 21 de diciembre de 1949, p. 1. 21. Mundo Obrero, 29 de diciembre de 1949, pp. 1-2.

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22. ERICE, Francisco, «Presentación», in Nuestra Historia, 2/2016, pp. 7-10, p. 7. 23. FROIO, Felice, Togliatti e il dopo Stalin, Milano, Mursia, 1988, p. 2. 24. L’Unità nunca publicó el Informe y solo el 17 de junio admitió «la existencia de algunas formas de degeneración» en la URSS. 25. PAJETTA, Gian Carlo, Le crisi che ho vissuto, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 61-62. 26. RIGHI, Maria Luisa, Quel terribile 1956, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. XXXIV. 27. HÖBEL, Alexander, «Renovación y continuidad. El Partido Comunista Italiano y el año 1956», in Nuestra Historia, 2/2016, pp. 11-30, p. 14. 28. GUERRA, Adriano, Comunismo e comunisti, Bari, Dedalo, 2005, p. 210. 29. La cautela se explica también por la proximidad de las elecciones administrativas (mayo 1956) y el miedo a que la «bomba» Jrushchov pudiera repercutir en el resultado. El entrecomillado en MAGRI, Lucio, Il sarto di Ulm, Milano, Il Saggiatore, 2009, p. 120. 30. Nuovi Argomenti, 20, 3/1956. 31. MAGRI, Lucio, op. cit., p. 133. 32. Carta fechada 12 de septiembre de 1956, in CALVINO, Italo, Lettere 1945-1980, Milano, Mondadori, 2000, p. 463. 33. En desacuerdo con la actitud del partido por los sucesos de Hungría, Calvino abandonó el PCI en 1957 y escribió un texto extremadamente crítico – e irónico – sobre el inmovilismo de Togliatti («La grande bonaccia delle Antille», in Città aperta, I, 4-5/1957). 34. Carta del 16 de septiembre de 1956, citada in MANGONI, Luisa, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 860. 35. ERICE, Francisco, «El Partido Comunista de España, el giro de 1956 y la lectura selectiva del XX Congreso», in Nuestra Historia, 2/2016, pp. 66-88, p. 71. 36. YSÁS, Pere, MOLINERO, Carme, De la hegemonía a la autodestrucción, Barcelona, Crítica, 2017, p. 20. 37. VACCA, Giovanni, Saggio su Togliatti e la tradizione comunista, Bari, De Dorato, 1974, p. 330. 38. La alusión al terrible 1956, en el capítulo IV del libro de AMENDOLA, Giorgio, Il rinnovamento del PCI, Roma, Editori Riuniti, 1978, mientras que el capítulo V del ya citado libro de Claudio Magri tuvo por título «El shock del XX Congreso». 39. El entrecomillado, palabras de Fernando Claudín reproducidas in JULIÁ, Santos, Camarada Javier Pradera, Barcelona, Galaxia Gutenberg, 2012, p. 62. 40. La Vanguardia, 14 de junio de 1984, p.8. 41. MAMMARELLA, Giuseppe, Il partito comunista italiano, in PASQUINO, Gianfranco, La política italiana. Dizionario critico 1945-95, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 287-310, p. 303. 42. NAPOLITANO, Giorgio, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Roma- Bari, Editori Laterza, 2005, p. 229. 43. GUERRA, Adriano, op. cit., p. 333. 44. La carta de Gramsci enviada a Moscú a Togliatti, su respuesta y la réplica del autor in GRAMSCI, Antonio, Le opere. La prima antologia di tutti gli scritti, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 164-178.

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45. SALVADORI, Massimo L., L’utopia caduta: storia del pensiero comunista da Lenin a Gorbaciov, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 694. 46. ELORZA, Antonio, Eurocomunismo y tradición comunista in Vías democráticas al socialismo, Madrid, Ed. Ayuso, 1981, p. 98. 47. L’Unità, 21 de febrero de 1988. 48. Ibidem. 49. 27 de febrero de 1988. Véase INGRAO, Pietro, Interventi sul campo, Napoli, Cuen, 1990, pp. 67-73. 50. Ibidem. 51. CHIARANTE, Giuseppe, La fine del PCI. Dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo congresso (1979-1991), Roma, Carocci, 2009, p. 35. 52. OCCHETTO, Achille, «Il passato è sepolto», in La Repubblica, 10 de marzo de 1988, p. 5. 53. L’Unità, 12 de marzo de 1988, p. 2. 54. SCHAFF, Adam, El comunismo en la encrucijada, Barcelona, Crítica, 1983, p. 38.

RESÚMENES

El artículo analiza varias modalidades de recuerdo sobre 1917 y la revolución soviética, centrándose en algunas estrategias de memoria del Partido Comunista de España (PCE) y el Partido Comunista italiano (PCI). Se atiende brevemente a cuatro coyunturas históricas diferenciadas (1937, 1949, 1956 y 1988), pero que permiten advertir los fenómenos de modulación, inflexión y actualización del recuerdo sobre el “largo 1917”. Varios aspectos – capital simbólico, memoria cosmopolita o nacionalización – sirven, a su vez, de ejes donde inscribir las políticas de memoria comunista en ese dilatado devenir temporal.

L’articolo propone un’analisi sulle differenti modalità di ricordo del 1917 e della rivoluzione sovietica, addentrandosi nelle strategie memorialistiche adottate rispettivamente dal Partido Comunista de España (PCE) e dal Partito Comunista Italiano (PCI). Il saggio si sofferma su quattro differenti congiunture storiche (1937, 1949, 1956 e 1988), che permettono di inquadrare i fenomeni di modulazione, inflessione e aggiornamento sulla memoria del “lungo 1917”. Aspetti come il capitale simbolico, la memoria cosmopolita o il fenomeno della nazionalizzazione servono inoltre come linee guida per collocare le politiche della memoria comunista all’interno di questo lungo arco cronologico.

The article analyzes several types of memory on 1917 and the Soviet revolution, focusing on some memory’s strategies of the of Spain and the . It briefly attends four different historical junctures (1937, 1949, 1956 and 1988) which allow to observe the phenomena of modulation, inflection and upgrade of the memory about the “long 1917”. And in turn, several aspects – like symbolic capital, cosmopolitan memory or nationalization – serve as axes where to inscribe the policies of communist memory in this long temporal development.

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ÍNDICE

Palabras claves: Comunismo, España, Italia, Memoria, Revolución soviética Parole chiave: Comunismo, Italia, memoria, Rivoluzione sovietica, Spagna Keywords: Communism, Italy, memory, Soviet revolution, Spain

AUTORES

ANDREA DONOFRIO Andrea Donofrio es Profesor de la UCM. Sus investigaciones se han centrado en la historia de los movimientos políticos y sociales, el pensamiento y las ideas políticas, especialmente de las formaciones de extrema izquierda y derecha. Es autor de numerosos artículos científicos y del libro Érase una vez el eurocomunismo. Las razones de un fracaso (Madrid, Tecnos, en imprenta). También es co-autor del libro Historia actual del mundo. De la posguerra a la cultura global (Madrid, Síntesis, 2016). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Donofrio >

JOSÉ CARLOS RUEDA LAFFOND José Carlos Rueda Laffond es Profesor Titular en la UCM. Sus investigaciones se han centrado en la historia urbana, la historia de la imagen o las relaciones entre historia y memoria. Es autor de numerosos artículos científicos y de una decena de libros, entre los que resaltan Imágenes y palabras. Medios de comunicación y públicos contemporáneos (Madrid, CIS-Siglo XXI, 2005), Historia de los medios de comunicación (Madrid, Alianza, 2014) o Historia actual del mundo. De la posguerra a la cultura global (Madrid, Síntesis, 2016). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#RuedaLaffond >

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Niall MacGalloway (dir.) II. Le occupazioni militari italiane

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Italian Military Occupation in Europe: the Historiographical Developments An Introduction

Niall MacGalloway

1 Between 1940 and 1943, Fascist Italy invaded and occupied portions of France, Greece, and the dismembered Yugoslav territories. The occupation of these areas augmented those already occupied or incorporated into the Italian Empire in Albania and in North and East Africa. Although Stephen Azzi is arguably correct in his assertion that «no aspect of interwar Italian history has received more attention than fascist foreign policy», the study of Fascism’s military occupations, particularly in Europe, has been more peripheral until relatively recently1. Fascist Italy’s occupations in Europe have been consistently overshadowed by the far larger swathes of territory occupied by Germany. Nonetheless, a growing body of work has begun to emerge addressing this imbalance. Indeed, Davide Rodogno’s claim that the failure of Fascist Italy’s zones of occupation do not make them any less deserving of historical investigation represents the driving force behind much of the existing further work into these projects2.

2 Few areas of historiography, with the exceptions perhaps of the Spanish Civil War and the rise of Nazism in Germany, have received such rich historiographic treatment and debate than the Second World War. Much of this historiography has undoubtedly focused, however, on the German war effort, and the Allied conflict with Germany. Amongst American historians, deviation from this trend has been in the direction of examination of the Japanese war in the Pacific, despite the large Italian American population in the United States. Panoramic histories of the Second World War,

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particularly Churchill’s own six-volume study and Basil Liddell Hart’s history of the conflict, frequently reduced the role of Italy to merely the opponents faced by the Allies in North Africa3. Although comprehensive studies portrayed the Italians as relatively uninfluential actors in the Second World War, a far smaller selection of monographs did examine Italy’s actions in the conflict. Many, however, failed to engage with Italian military occupations. Perhaps the most prominent in English, Denis Mack Smith’s Mussolini’s Roman Empire, focuses on the drive for foreign conquest, and gives no real insight into the governance of those territories occupied by Italy4.

3 During the early decades following the end of the war, work on Italy during the Second World War largely appeared in the form of biographies of Mussolini. Although Fascist Italy and the Second World War were crucial backdrops to these biographies, very few provided any insight into Italy’s actions within her occupied territories. Mack Smith’s analysis of Mussolini’s foreign policy was largely governed by the idea that Mussolini was more concerned with headline-grabbing acts of propaganda, rather than any coherent policy5. Richard Bosworth’s biography, whilst a more balanced account of Mussolini, does not provide any real insight to the occupied territories, instead keeping to its subject matter6. Indeed, even Renzo De Felice’s monumental biography of Mussolini, a biography which has often been utilised by historians as a history of the regime itself, says curiously little about the war, almost completely ignoring the fact that Fascist Italy occupied European territories7. Biographies of Mussolini, therefore, and many of the regimes leading figures have been of limited use to those wishing to understand how Fascist Italy governed her zones of occupation. Even those focused on the Italian Minister for Foreign Affairs, Galeazzo Ciano, have offered little on the occupations themselves, whilst Ciano’s diary has offered similarly little8.

4 The evolution of historical study into Fascist Italy’s zones of occupation has undoubtedly benefited from the increasing nuances of study into Italian foreign policy, both in the lead up to and during the Second World War. Revisionist historians, including MacGregor Knox, Esmonde Robertson and De Felice, began to argue from the 1960s onwards that Fascist foreign policy, if not based upon a specific programme, existed out with the traditional image of Mussolini as nothing more than a buffoon. Although these historians debated the extent to which Fascist foreign policy was rooted in both imperialism and traditional Italian foreign policy goals, and how far Mussolini utilised foreign policy merely as a tool to improve his domestic standing, the combined efforts of revisionist historians meant that Fascist foreign policy became a subject in its own right9.

5 Official studies published by Italian government in the 1970s and 1980s opened new avenues of study on the manner in which the Italian armed forces had governed their zones of occupation. The extension of the Documenti Diplomatici Italiani into the war years brought some of the most important diplomatic documents from the Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE) into print for the first time. Although self-evidently an examination of Italian actions at the highest diplomatic level, the documents demonstrated the scale of Italian diplomatic activity in Europe and helped demonstrate a distinction between Italian and German actions during the conflict. These documents were augmented by a steady stream of official studies each of which took as their focus a particular geographic region. The Stato Maggiore dell’Esercito published a series of geographically specific monographs, yet even the more recent of

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these, for example that published by Domenico Schipsi on the Italian occupation of France, are almost entirely reliant upon military archives10.

6 From the 1990s onwards, an increasing number of monographs and articles began to examine the manner in which Italy’s zones of occupation were governed, both on a national and microcosmic scale. Romain Rainero’s Mussolini e Pétain, coupled with important monographs by Massimo Borgogni and Enrica Costa Bona laid foundations for Italian relations with France, albeit almost exclusively at a diplomatic level11. Although diplomatic relations between Italy and what remained of Yugoslavia and between Italy and Greece were less formal than between Italy and France, early monographs on these fronts largely examined Italian policy at a high level, or from a military point of view. Marco Cuzzi’s L’occupazione italiana della Slovenia utilisation of military archives resulted in a monograph which, whilst thorough, focused on the military aspects of the occupation12.

7 The continued publication of specialist monographs has ensured that the historiography surrounding the Italian zones of occupation has enriched and built upon official publications and examinations of Italian inter-war diplomacy to the point where historians can make the claim that the field forms an integral part of Fascist foreign policy. Perhaps the most important single monograph on the Italian zones of occupation is that of Davide Rodogno. Rodogno’s examination of how Fascist theorists and politicians conceived of Italy’s place in a post-war Europe and important thematic study into Italian zones of occupation across Greece, Yugoslavia, France, and Albania have formed a cornerstone for many of the more specialist monographs which followed13. Marco Clementi and Sheila Lecoeur’s examinations of Italian governance in Greece have helped shed light upon the important role played by Italy in wartime Greece, augmenting the work of Mark Mazower which has hitherto focused more closely on the German occupation14. Steven Pavlowitch and Eric Gobetti have written important studies of the Italian occupation of Yugoslavia, the latter strongly rebutting the notion that the Italian occupation was a comparatively gentle experience15. Debates over the severity of the Italian zones of occupation have coloured many emerging monographs. The concept of the bravo italiano has been thoroughly explored by Filippo Focardi, and the influence of the question has been reflected in new monographs. Amedeo Osti Guerazzi has explored the severity of punitive actions carried out by the Italian army in Slovenia, whilst examinations of the Italian zone of occupation in France by Jean-Louis Panicacci and Emanuele Sica have come to differing conclusions as to how occupier and occupied interacted16.

8 It is hoped that the contributions in this issue build upon the historiography and go beyond merely “filling the gaps”. Redi Halimi’s historiographic overview of the Italian occupation of Albania not only provides a solid introduction to the existing literature, but also points to future lines of study thanks to increasing accessibility in both Italian and Albanian archives. It helps tie together the idea argued by, amongst others, Davide Rodogno that any examination of the spazio vitale must include Albania as many ideas and concepts were trialled there. Francesco Mantovani help paint microcosmic pictures of the Italian occupation of Yugoslavia, which allow us to focus the lens more closely of the region. Yet these studies, whilst more specific than the monographs of H. James Burgwyn and Eric Gobetti, extend beyond pointillism and help us to raise questions surrounding ideology, relations between the armed forces and the civilian population, and to understand the activities of the Italian occupation beyond merely controlling

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armed resistance17. Sanela Schmid’s article examines food supply in Italian-occupied Croatia, and gives insight into Italo-German alliance and the rivalry within it. It makes an important contribution to not only this field, but to readers interested the social dimensions of the Italian occupation of Croatia.

9 It is hoped, therefore, that this volume shall bring interesting and exciting new contributions on the Italian zones of occupation and the spazio vitale to the forefront. It has aimed to bring together young scholars working in new and underutilised archives and examining sources from fresh perspectives in order to re-dress the balance between historiography focusing on the Italian military occupations in Europe and those carried out by Germany. These articles help to demonstrate the scale of activities carried out by Italy in these zones of occupation, and as such are fascinating reading to all of those who carry out study in this area.

10 Niall MacGalloway

NOTES

1. AZZI, Stephen Corrado, «The Historiography of Fascist Foreign Policy», in The Historical Journal, 36, 1/1993, pp. 187-203, p. 187. 2. RODOGNO, Davide, «Le nouvel ordre fasciste en Méditerranée, 1940-1943: presupposes, idéologiques, visions et velléités», in Revue d’histoire moderne et contemporaine, 55, 3/2008, pp. 138-156, pp. 138-139; RODOGNO, Davide, Fascism’s European Empire. Italian Occupation during the Second World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2006. 3. CHURCHILL, Winston, The Second World War, 6 voll., , Houghton, 1948-1953; LIDDELL HART, Basil, The History of the Second World War, London, Pan, 1970. 4. MACK SMITH, Denis, Mussolini’s Roman Empire, London-New York, Longman, 1976. 5. MACK SMITH, Denis, Mussolini, London, Weidenfeld and Nicolson Ltd, 1981. 6. BOSWORTH, Richard, Mussolini, London, Bloomsbury, 2002. Bosworth’s biography focuses on Mussolini as an individual and his place in the regime, for an analysis of the regime see: BOSWORTH, Richard, Mussolini’s Italy, Life under the Dictatorship,1919-1945, London, Penguin, 2005. 7. Mack Smith makes the accusation that De Felice’s study reveals too little about the Second World War, MACK SMITH, Denis, Le guerre di Mussolini: riserve sulla biografia di De Felice, in CHESSA, Pasquale, VILLARI, Francesco (a cura di), Interpretazioni su De Felice, Milano, Baldini & Castoldi, 2002, pp. 29-66. 8. GUERRI, Giordano Bruno, Ciano, Milano, Bompiani, 2011; CIANO, Galeazzo, Diario, Milano, BUR, 1990. 9. ROBERTSON, Esmonde M., Mussolini as Empire Builder, Europe and Africa, 1932-36, London, Macmillan, 1977; DE FELICE, Renzo, Mussolini, 4 voll., Torino, Einaudi, 1965-1997; DE FELICE, Renzo, Le interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1969. 10. SCHIPSI, Domenico, L’occupazione italiana dei territori metropolitani francesi, 1940-1943, Roma , Ufficio Storico del Stato Maggiore dell’Esercito, 2007. 11. RAINERO, Romain, Mussolini e Pétain. Storia dei rapporti tra l’Italia e la Francia di Vichy (10 giugno 1940 – 8 settembre 1943), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, 1990; BORGOGNI, Massimo, Mussolini e la Francia di Vichy, Dalla dichiarazione di guerra al fallimento del riavvicinamento italo-francese (giugno

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1940 – aprile 1942), Siena, Nuova Immagine Editrice, 1991; BORGOGNI, Massimo, Italia e Francia, Durante la crisi militare dell’Asse (1942-1943), Siena, Nuova Immagine Editrice, 1994; COSTA BONA, Enrica, Dalla guerra alla pace: Italia-Francia, 1940-1947, Milano, Franco Angeli, 1995. 12. CUZZI, Marco, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), Roma, Edizione Ufficio Storico Maggiore dell’Esercito, 1998. 13. RODOGNO, Davide, Fascism’s Europe Empire, cit. 14. CLEMENTI, Marco, Camicie nere sull’Acropoli. L’occupazione italiana in Grecia (1941-1943), Roma, DeriveApprodi, 2013; LECOEUR, Sheila, Mussolini’s Greek Island. Fascism and the Italian Occupation of Syros in World War II, London, I.B. Tauris, 2009; MAZOWER, Mark, Inside Hitler’s Greece, London, Yale University Press, 1993. 15. PAVLOWITCH, Steven, Hitler’s New Disorder: the Second World War in Yugoslavia, London, Hurts, 2009; GOBETTI, Eric, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Roma-Bari, Laterza, 2013; GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Roma, Carocci, 2007. 16. FOCARDI, Filippo, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013; OSTI GUERRAZZI, Amedeo, The Italian Army in Slovenia. Strategies of Antipartisan Repression, 1941-1943, Basingstoke-New York, Palgrave, 2013; PANICACCI, Jean-Louis, L’occupation italienne: Sud-Est de la France, juin 1940 – septembre 1943, Rennes, Presses Univeritaires de Rennes, 2010; PANICACCI, Jean-Louis, En territoire occupé. Italiens et allemands à , 1942-1944, Paris, Éditions Vendémiaire, 2012; SICA, Emanuele, Mussolini’s Army in the French Riviera. Italy’s Occupation of France, Urbana, University of Illinois Press, 2015. 17. BURGWYN, H. James, Empire on the Adriatic, Mussolini’s Conquest of Yugoslavia, 1941-1943, New York, Enigma Books, 2005.

AUTHOR

NIALL MACGALLOWAY Niall MacGalloway is PhD student at the University of St Andrews in Scotland. His thesis is entitled The Italian Occupation of South-Eastern France, 1940-43, and his interests focus on the Second World War, Italo-French relations, and inter-war Italy and France. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#MacGalloway >

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I diari di Enzo Ponzi L’esperienza di guerra in Croazia di un capitano dell’ufficio Propaganda (maggio-novembre 1942)

Francesco Mantovani

Elenco delle abbreviazioni degli archivi citati AISMO = Archivio dell’Istituto storico della Resistenza di Modena AUSSME = Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito

1. Introduzione: Enzo Ponzi e il ritorno alle armi

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1 Molto più che i libri di storia o i documenti ufficiali, le fonti memorialistiche possiedono una capacità evocativa sorprendente. Al contrario però dei numerosi testi scritti nel dopoguerra da ex ufficiali o soldati, interessanti per indagare l’autopercezione a posteriori, i diari, redatti “in diretta”, rappresentano una fonte di particolare interesse in quanto a essere riportate sono generalmente le impressioni immediate o, per meglio dire, mediate esclusivamente dalla visione di sé e del mondo contemporaneo ai fatti. Perciò, quello che interessa non sarà tanto la «verità effettuale della cosa», bensì come i protagonisti di un determinato evento storico abbiano percepito il loro contemporaneo e la propria azione, proprio a partire da un orizzonte politico- culturale particolare.

2 Anche nello studio sull’occupazione italiana in Jugoslavia tra 1941 e 1943 da oltre vent’anni si è iniziato a utilizzare con padronanza di metodo alcune fonti memorialistiche, non più soltanto di alti gradi dell’esercito o politici di rilievo, ma anche di ufficiali inferiori, sottufficiali e soldati semplici, alcune delle quali sono state depositate presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve S. Stefano1. I due diari inediti del capitano Enzo Ponzi rappresentano pertanto uno strumento utile per lo studio dell’esperienza dell’occupazione italiana nei Balcani durante la seconda guerra mondiale2.

3 Personaggio di spicco del fascismo modenese, Enzo (Vincenzo) Ponzi nacque a Torino nel 1894. Trasferitosi a Modena per studiare legge, ad appena quattordici anni entrò nella redazione della «Gazzetta dell’Emilia», il più importante tra i giornali locali, col quale collaborò tra il 1912 e il 1915, fino cioè al suo arruolamento. Nel primo conflitto mondiale si distinse in diverse azioni militari, raggiungendo il grado di capitano della I Compagnia del 14° Reparto d’Assalto e ottenendo alcune decorazioni3.

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Figura 1. Discorso di Enzo Ponzi ai soldati della Divisione Sassari in occasione dell’inaugurazione del Villaggio del soldato a Knin, 27 settembre 1942.

4 Tornato a Modena, aderì al primo Fascio locale, fondato il 27 maggio 1919 da ex combattenti, ufficiali, intellettuali e studenti. Si trattò però di un’esperienza breve, dal momento che nel settembre dello stesso anno egli, insieme a una decina di giovani fascisti, prese parte alla spedizione dannunziana di Fiume, privando così la sezione locale della propria base sociale. In seguito, il Fascio modenese venne rifondato il 16 novembre 1920 e a Enzo Ponzi venne affidata la carica di segretario. Vista l’esperienza giornalistica, egli diede vita, nell’aprile 1921, al periodico della federazione provinciale, «La Valanga». Tuttavia, la sua linea “moderata” finì presto per essere messa in minoranza dalla corrente più intransigente del Fascio di Modena, soprattutto dopo il patto di pacificazione stipulato a Roma col PSI il 2 aprile 1921: Ponzi, uno dei sostenitori di tale accordo, fu destituito e al suo posto fu nominato Carlo Zanni, rappresentante l’anima intransigente e movimentista del fascismo4.

5 Rimasto tuttavia fervido collaboratore della federazione modenese, Ponzi tenne negli anni tra 1921 e 1924 un gran numero di conferenze, commemorazioni della vittoria della Grande guerra, inaugurazioni di gagliardetti e comizi elettorali in tutto il Nord Italia, soprattutto in Emilia-Romagna5. Nel settembre 1922 venne poi chiamato ad assumere la carica di segretario provinciale di Parma, per cercare di risolvere la difficile situazione sindacale del partito. Anche qui però, la politica di pacificazione andò presto a scontrarsi con la linea del sindacalismo contrario ad accordi con i “sovversivi” e, dopo qualche interruzione, Ponzi dovette dimettersi definitivamente dalla segreteria parmense all’inizio del 19246. Nel febbraio dello stesso anno abbandonò il PNF, ma dopo pochi mesi decise di rientrarvi, seppur in posizione di secondo piano, e negli anni successivi si dedicò principalmente all’esercizio dell’avvocatura a Modena.

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6 Enzo Ponzi tornò a impegnarsi direttamente in politica alla fine degli anni Trenta, riprendendo le attività di conferenziere e di giornalista che tanto lo avevano impegnato all’inizio del decennio precedente7. Ormai riabilitato, a metà aprile 1942 venne indicato dalla Federazione fascista di Modena come capo dell’ufficio «P» (Propaganda) presso il Comando d’Armata mobilitato, come vedremo nei prossimi paragrafi8. Tornato dalla guerra nel 1943, non aderì al Partito fascista repubblicano, soprattutto per la ferma opposizione della moglie, Elda Cristianini, cosa che gli permise di superare indenne la caduta della Repubblica di Salò e riprendere la carriera di avvocato fino alla sua morte, avvenuta il 17 giugno 19609.

2. Funerali e discorsi: l’ufficio «P» della Divisione Sassari

7 Dopo essere stato ufficialmente richiamato in servizio dal Comando del Distretto Militare di Modena con un telegramma datato 3 maggio 1942, Enzo Ponzi viene assegnato alla sezione «P» della Divisone Sassari, dislocata nella Kninska Krajina, regione al confine tra lo Stato indipendente croato (Nezavisna Država Hrvatska, NDH), avente per capoluogo Knin, sede della Prefettura croata e del Comando di divisione italiano10.

Figura 2. Lettera di richiamo in servizio dal Comando del Distretto di Modena per Enzo Ponzi, 3 maggio 1942.

8 La situazione della primavera 1942 non era delle più tranquille nelle zone occupate dagli italiani. Da un lato, la revisione delle competenze e dei compiti del Regio Esercito, ufficializzata dal bando del 7 settembre 1941, comportava l’assunzione dei poteri civili nella II zona d’occupazione (di cui faceva parte anche Knin) da parte del comandante

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della II Armata, il generale Vittorio Ambrosio: lo scopo era «pacificare» e «normalizzare» i rapporti tra croati e serbi, evitando il ripetersi dei massacri dell’estate compiuti dagli ustascia. D’altro lato, a causa dell’estendersi del movimento partigiano, alle questioni amministrative si aggiunsero quelle dalla repressione. Il successore di Ambrosio, il generale Mario Roatta, sulla base delle proprie esperienze coloniali decise il riordinamento di Supersloda (Comando Superiore Slovenia-Dalmazia, nome che assunse la II Armata dal maggio 1942) in grossi presidi. Se per certi versi questa riorganizzazione arrestò la ribellione in certe aree, soprattutto quelle urbane come Knin, tuttavia ciò contribuì alla formazione di zone «infestate» dai «ribelli» (secondo la terminologia ufficiale)11. Lo stesso Ponzi, durante il viaggio che lo portò a Knin, riporta di aver sentito che molti dei presidi più interni, rimasti isolati per lungo tempo durante l’inverno tra il 1941 e il 1942, abbiano subito diversi attacchi da parte delle formazioni partigiane e, per evitare ulteriori perdite, si avanzasse l’ipotesi di ritirarli dalla III zona d’occupazione, dove gli ustascia avevano avviato una nuova fase di rastrellamenti e persecuzioni12.

9 L’arrivo al capoluogo della Krajina, nel pomeriggio del 18 maggio, è quanto mai emblematico: Appena metto piede a Knin sento la voce tremenda del cannone. Sono 24 anni che le mie orecchie non la sentivano e ne provo una certa emozione. […] Bande di ribelli si sono spinte fino a 4 km da Knin, hanno aggredito e massacrato una colonna di truppa e altri reparti del 34° Rgt. artigl. e del 151° fant.: ci sono – sembra – almeno 48 morti. […] Arrivo in un bel momento13.

10 Dopo essersi presentato al capo di SM, il colonnello Gazzini, Ponzi ottiene le prime istruzioni come capo dell’ufficio Propaganda: preparare i funerali per i caduti italiani del giorno, ventisette soldati e due ufficiali, a cui si aggiungono quarantasei cavalli uccisi, dodici feriti e un disperso. Alle 18 del giorno seguente, dopo aver preso accordi col cappellano militare e disposto i mezzi per il trasposto delle salme, si svolgono i funerali. Sarà questa una delle principali attività svolte dal capitano Ponzi nei mesi successivi, sia come organizzatore nel caso di esequie a soldati italiani, sia come rappresentante della divisione nel caso di truppe serbe o croate.

11 I sopralluoghi al cimitero di Knin, situato poco fuori dalla cittadina, costituivano a tutti gli effetti una sortita in territorio a rischio di imboscate, sempre più alto mano a mano che ci si avvicina alla fine del 1942. Per questa ragione, Ponzi riporta di essere accompagnato ogni volta da una scorta che andava dai quindici ai cinquanta soldati, generalmente armati di mitragliatrici e fucili mitragliatori, per proteggere i lavori di tumulazione dei caduti14. In altri casi, come per la commemorazione dei defunti del 2 novembre, fu necessario perfino modificare i piani della giornata: invece della cerimonia al cimitero, il generale Paolo Berardi, che da maggio 1942 aveva sostituito Monticelli al comando della Sassari, aveva preferito fare celebrale una messa nella chiesa di Sv. Ante (Sant’Antonio) «per evitare – dice Ponzi – di esporre centinaia di ufficiali a un colpo di mano partigiano». Al termine della funzione, solo il generale, Ponzi e pochi ufficiali uscirono da Knin per posare una corona sul monumento ai caduti presso il cimitero, circondato da pattuglie di truppa, mentre «raffiche di mitragliatrici e di fucileria risuonano nella chiara mattinata soleggiata». Qui come in altri casi riportati nel diario, l’impressione che si ricava è quella di trovarsi in un perenne stato d’assedio, più o meno opprimente15.

12 L’arrivo del capitano Ponzi presso il comando della Sassari, nella primavera del 1942, al termine dell’operazione congiunta Trio16, si colloca proprio nel momento di passaggio

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da una prima fase, durante la quale la vita nei presidi italiani della II zona poteva dirsi relativamente tranquilla, a una seconda, in cui le caratteristiche della guerra nella penisola balcanica, dove era schierata circa la metà dell’intero esercito, mutarono profondamente. Quello che doveva essere il presidio di una nazione alleata, la Croazia, parte dello «spazio vitale» italiano, si tradusse prima in una gigantesca operazione di polizia, poi, con la nascita del movimento e dell’esercito partigiano, in una difficile guerra di logoramento che finì col compromettere il morale dell’esercito e col minare le premesse ideologiche di «missione civilizzatrice» che il regime fascista aveva dato all’occupazione dell’ex Jugoslavia. In questa cornice, lo Stato maggiore di ogni divisione si preoccupò di controllare e tenere alto l’umore delle truppe attraverso l’assistenza spirituale, lo sport e le attività sociali, la lettura, l’informazione e le case di tolleranza17.

13 Il diario di Enzo Ponzi offre un’importante testimonianza di come il nucleo «P» della Divisione Sassari gestisse buona parte di queste attività. Oltre all’organizzazione dei funerali, a Ponzi era assegnato il compito di tenere discorsi in varie occasioni, principalmente per celebrare ricorrenze e festività, come per il genetliaco di Vittorio Emanuele II e per il ventennale della marcia su Roma, o, d’altra parte, per commentare le notizie sull’andamento del conflitto. Nonostante il contenuto esatto di questi discorsi, tenuti generalmente verso le ore 18 presso il cinematografo di Knin, non venga quasi mai riportato per esteso, Ponzi annota pressoché ogni volta le reazioni della propria platea, soffermandosi in più occasioni sui commenti positivi espressi da ufficiali e truppa18.

Figura 3. Torneo di calcio Divisione Sassari, Knin settembre-ottobre 1942. In primo piano da sinistra: gen. Berardi, cap. Ponzi, ten. col. Marabini, cap. Filippon.

14 Uno dei pochi casi in cui è presente un breve riassunto di quanto abbia detto risulta essere il simposio organizzato il 1° novembre per l’inaugurazione del corso di italiano, promosso dal PNF in accordo col Partito ustascia. Ponzi per prima cosa esprime con passione il proprio appoggio per tale iniziativa, segnale che, anche durante la guerra, l’uomo reclami i «diritti dello spirito», poi esalta la missione civilizzatrice di Roma: dice inoltre di aver ritrovato esposto presso un libraio croato una copia del De bello gallico di

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Cesare, quasi a conferma dell’eredità culturale lasciata dai latini i Croazia. L’altro punto su cui – secondo quanto riportato – Ponzi insiste nel proprio intervento, è la proficua collaborazione tra Italia, Germania e NDH, non solo da un punto di vista militare, ma anche culturale, economico e commerciale. Come si vedrà più approfonditamente nel prossimo paragrafo, questo tipo di discorsi vanno ascritti ai tentativi compiuti dal regime e dall’esercito di non compromettere del tutto i rapporti tra italiani e croati, ormai instabili a causa dell’appoggio dato dall’esercito occupante alle formazioni cetniche19.

15 Come molte altre divisioni, anche la Sassari fu dotata di un «Villaggio del Soldato»: si trattava di sale di ritrovo dove i soldati potevano svagarsi con giochi da tavolo, carte e – nei casi più fortunati – con campi da bocce, pallacanestro e calcio. Nella seconda metà del 1942 vennero inaugurati a Knin il Villaggio del soldato (27 settembre) e, al suo interno, il «Circolo Ufficiali» (4 ottobre). Queste iniziative dei comandi militari e dei nuclei «P» avevano la doppia funzione di tenere impegnati i soldati attraverso le pratiche sportive, cercando di tenerne alto il morale, e di presentarsi alle autorità locali come potenza occupante ma fondamentalmente benevola, invitandole alle inaugurazioni e in altre occasioni importanti20.

16 Tali edifici avevano d’altra parte un costo notevole, sia da un punto di vista di reperimento dei materiali sia per quanto riguarda i finanziamenti. Tra ottobre e novembre, quando il villaggio era già stato inaugurato, Ponzi sostiene che i lavori di completamento siano bloccati per mancanza di cemento: la ditta appaltatrice non ne ha, mentre il Genio militare «non può né vuole darne occorrendogli per lavori più urgenti e importanti», come quelli di fortificazione dei presidi. Qualche giorno dopo, il tenente colonnello del Genio Di Mattei dice a Ponzi che i costi dei lavori ammontano già a un milione di lire, senza per altro aver ottenuto il via libera del Comando del CdA21.

17 D’altro canto, le ristrettezze materiali ed economiche non erano limitate ai grandi lavori. Come riportato da Rodogno, verso la fine del 1942 disciplina e il portamento disciplinato di ufficiali e truppa occupanti iniziarono infatti a scemare in comportamenti libertini, se non violenti o volti a speculazioni personali22. La sera del 2 novembre, facendo l’inventario dei doni portati dal federale di Spalato, Ferruccio Cappi, in visita alla Sassari, Ponzi constata «con dolore e umiliazione» che durante l’imballaggio o il viaggio le casse siano state manomesse e rubate, tra le altre cose, quattromila sigarette sulle quarantamila donate e nove bottiglie di liquori su cento. In un’altra pagina del diario, Ponzi lamenta di aver dovuto riempire il proprio ufficio con le casse delle cartoline con franchigia militare, per evitare che altri «lazzaroni» le svaligiassero ulteriormente, nonostante esse fossero distribuite alla truppa. Questi episodi, più che la «maledetta peste italiana del furto e dell’indisciplina» stigmatizzata da Ponzi, sembrano attestare l’esistenza di un mercato nero piuttosto diffuso, soprattutto per alcune categorie di merci (alcolici, sigarette e valori bollati), anche all’interno dei presidi militari23.

18 Malessere, ristrettezze e – dalla seconda metà del 1942 – i primi veri insuccessi militari dell’Asse contribuirono inoltre ad aumentare il sentimento di sfiducia verso il fascismo, anche se, fino all’estate del 1943, non si può parlare di un antifascismo consapevole. Se tra i soldati la disillusione si esprimeva generalmente attraverso comportamenti indisciplinati, anche alcuni ufficiali cominciarono a manifestare sfiducia verso il regime e, nello specifico, verso alcuni gerarchi24. Nel diario del capitano dell’ufficio Propaganda, attento a questo genere di comportamenti, sono presenti in vari punti

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critiche allo stesso generale Berardi e agli altri ufficiali del Comando di divisione, a volte per inconcludenza, altre invece per atteggiamenti che Ponzi non esita definire «antifascisti». Nei primi giorni di novembre le notizie della disfatta di el-Alamein, degli sbarchi alleati in Marocco e Algeria e della conseguente occupazione della repubblica di Vichy da parte di Germania e Italia suscitarono tra alcuni ufficiali le «solite reazioni»: «non dolore, non smarrimento, non ansia ma quasi un senso di maligna soddisfazione di antifascisti che non temono di vedere rovinata la Patria purché sia rovinato il Partito»25. Neanche l’occupazione di Corsica e Nizza dell’11-12 novembre sembrò accendere negli ufficiali speranze per la loro annessione, cosa che invece Ponzi riteneva ormai scontata: al suo entusiasmo, il generale Berardi e altri ufficiali rispondono con una «deprimente» scrollata di spalle oppure – come viene riportato – con un laconico «Ah sì??»26.

19 Nonostante quindi un grado di fascistizzazione del Regio Esercito tutt’altro che trascurabile, la maggior parte degli studi sullo scacchiere balcanico hanno dimostrato come, a causa dello smarrimento a cui ufficiali e truppa andarono incontro di fronte all’insurrezione partigiana e all’atteggiamento ostile delle popolazioni occupate, il tentativo fascista di ideologizzare il conflitto fosse fallito, perché i soldati non arrivarono a identificarsi con il modello imposto dal regime. Ciò tuttavia non comportò una minore durezza nell’eseguire le direttive dei piani di «normalizzazione» anche da parte di ufficiali non vicini al fascismo, tra gli altri lo stesso generale Ambrosio e il generale Mario Robotti27.

3. Il piede in due staffe: italiani, ustascia e cetnici a Knin

20 Fu proprio il rapporto con le popolazioni dello Stato indipendente croato a far venire a galla le debolezze della strategia italiana nel controllo del territorio: di ciò Enzo Ponzi è pienamente conscio e in numerosi passi del diario esprime il proprio scetticismo verso le politiche del Regio Esercito. Le relazioni italo-croate furono infatti caratterizzate da forti tensioni a vari livelli, dovute principalmente alla questione dalmata. Mentre i vertici militari italiani della II Armata (Ambrosio in primis) si mostreranno fin dall’inizio critici verso il governo ustaša, la Legazione a Zagabria, soprattutto l’incaricato d’affari italiano, Raffaele Casertano, porterà avanti fino a buona parte del 1943 una politica decisamente più conciliante, non esitando in diverse occasioni a criticare gli atteggiamenti filo-serbi di ufficiali e soldati italiani28.

21 Tale questione era di particolare importanza in una regione, la Krajina, nella quale la popolazione era alquanto eterogenea, con campagne prevalentemente ortodosse e alcuni centri ad alta percentuale cattolica. Di qui lo scarso successo che il movimento ustascia era riuscito a riscuotere prima del 1941 in questa zona29. Come si è visto nel paragrafo precedente, il bando del 7 settembre 1941 aveva cercato di «pacificare» le zone del NDH dove più cruenti erano stati i massacri da parte croata: tolta la libertà d’azione alla milizia ustascia, ai domobrani (i soldati dell’esercito regolare) e alla gendarmeria croata era stata lasciata la possibilità, in collaborazione coi carabinieri, di essere impiegati nei servizi di pubblica sicurezza30.

22 Nel corso del 1942, la convivenza tra le truppe della Divisione Sassari e la popolazione civile, la possibilità di mantenere l’ordine e la lotta contro il movimento partigiano

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divennero sempre più dipendenti dai buoni rapporti con le milizie cetniche e con i loro capi31. Dopo l’iniziale reticenza da parte dei comandi italiani nel servirsi delle formazioni nazionaliste serbe, soprattutto per paura di compromettere i rapporti con l’alleato croato, alcune di esse vennero impiegate in una serie di cicli operativi, tra marzo e giugno 1942, volti ad arginare il diffondersi della resistenza comunista. La svolta nei rapporti italo-cetnici avvenne però solo in seguito ai massacri di giugno compiuti dagli ustascia contro le popolazioni serbe della III zona, sgomberata dalle truppe italiane. Viste le nuove violenze e l’inefficienza dell’esercito del NDH, Roatta promosse l’inquadramento delle bande četniche nella Milizia volontaria anticomunista (MVAC), in seguito agli accordi presi da una parte con Pavelić e dall’altra con i principali capi serbi. Poste sotto la supervisione del comandante italiano competente per territorio e di due ufficiali di collegamento, a queste formazioni furono affidati i compiti di difesa dei villaggi e dei centri abitati e di partecipazione ai cicli operativi del Regio Esercito32.

23 Figura di rilievo già prima della seconda guerra mondiale, il pope ortodosso Momčilo Ðujić riuscì a imporsi come principale leader četnico nella zona di Knin, anche attraverso l’emarginazione e l’uccisione dei suoi principali concorrenti. La sua politica fortemente anticroata non gli impedì, il 19 giugno 1942, di sottoscrivere insieme ad altri notabili serbi un accordo col prefetto di Knin, David Sinčić, alla presenza delle autorità militari italiane, con cui si impegnavano nella comune lotta antipartigiana33.

24 Dei controversi rapporti tra italiani, croati e serbi sono presenti molte tracce nel diario di Ponzi, il quale si mostra generalmente critico sulla reale efficacia della MVAC, soprattutto perché l’aperto appoggio alle bande cetniche andava a compromettere i rapporti con Zagabria. Ai primi di ottobre 1942, durante un pranzo al Comando di divisione seguito al funerale di un miliziano cetnico, il capitano Ponzi descrive il discorso «molto prolisso» del pope Ðujić, il quale ricorda le stragi compiute dagli ustascia sulle popolazioni serbe, di fronte alle quali soldati e ufficiali inferiori italiani mostravano compassione, mentre quelli superiori «lasciavano fare», seguendo le direttive di Roma. Di fronte quelle che sono vere e proprie accuse, il generale Berardi – dice Ponzi – non risponde e cerca anzi di «mandarli via contenti». Questo atteggiamento accondiscendente, unito al fatto che al funerale avesse presenziato un intero battaglione italiano, secondo Ponzi non potevano non essere percepita come una leva in massa, una provocazione pei croati. E siamo nello stato croato alleato e amico, e armiamo i nemici dei croati, e ci alleviamo in seno il serpe. E non più tardi di iersera il generale riceveva le maggiori autorità croate e rivolgeva loro espressioni cordiali e amichevoli! Politica pericolosa quella del piede in due staffe34.

25 La tanto criticata arrendevolezza dei comandi italiani nei confronti soprattutto dei cetnici è, d’altro canto, sintomatica della difficoltà di mantenere l’ordine in una realtà altamente conflittuale, dove il richiamo alla lotta anticomunista non riusciva a sopire le rivalità esplose dopo il crollo della Jugoslavia35. Fu proprio il coinvolgimento nelle operazioni congiunte del cosiddetto ciclo Dinara, condotte tra ottobre e novembre nella Kninska Krajina e in Erzegovina per contenere l’avanzata partigiana, a essere l’occasione per riaprire le tensioni tra croati, cetnici e – di conseguenza – comandi italiani. Nel corso dell’operazione Alfa, prima parte questo ciclo operativo, nella quale il contributo della MVAC fu particolarmente rilevante (3.000-4.000 unità), i cetnici compirono una serie di saccheggi e uccisioni, sparando dai finestrini dei treni durante i trasferimenti e mettendo a ferro e fuoco alcuni villaggi delle zone a maggioranza cattolica, scatenando l’indignazione delle autorità centrali croate36.

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26 Il fermento doveva essere ben percepito anche dai militari italiani che non prendevano parte direttamente alle operazioni. Il 5 ottobre Ponzi riporta la voce di un massacro di 800 persone compito da un battaglione della MVAC nei pressi di Spalato: «entrando nei paesi i cetnici facevano il saluto a pugno chiuso: la gente rispondeva con evviva al comunismo e allora si ammazzava». Al di là della cifra più o meno attendibile – egli stesso nutre qualche perplessità – secondo Ponzi si tratterebbe di un’ulteriore dimostrazione dell’«anarchia che qui regna e della contraddittorietà» della politica italiana nei confronti dei croati e dei serbi»37.

27 Lo scetticismo sfociò in certi casi anche nel sospetto di tradimento. Nel corso degli attacchi dei partigiani al presidio italiano di Bosansko Grahovo, a Nord di Knin e quasi al confine tra II e III zona, secondo Ponzi diversi reparti cetnici si sarebbero «disorganizzati», passando in certi casi dalla parte dei ribelli38. Sebbene infatti la seconda fase dell’operazione Dinara, denominata Beta, avesse portato alla rapida avanzata italo-croata e alla riconquista di Livno il 23 ottobre, i partigiani non si limitavano più a ritirarsi, bensì «dimostravano una visione quasi professionale del campo di battaglia, con nuovi criteri tattici»39, attaccando le retrovie e i villaggi tenuti dai četnici, costringendoli a ritirarsi nei presidi, arrivando a minacciare le città durante la notte. Lo stesso Ðujić il 27 ottobre fu costretto a lasciare Strmica, sede del quartier generale della divisione Dinara della MVAC, mentre pochi giorni dopo un suo parente rimase ucciso nel corso di un attacco al villaggio di Topolje40. Anche a Knin i partigiani riuscirono a compiere azioni dimostrative: la notte del 7 novembre comparve sul muro del villaggio del soldato una scritta che inneggiava al comunismo41.

28 Nonostante la pericolosa avanzata dei «ribelli», le tensioni tra ustaša e četnici non sembravano sopirsi. Una delle pagine più interessanti del diario di Ponzi è proprio la descrizione di un fatto da lui definito «abbastanza increscioso e allarmante», avvenuto sul campo sportivo di Knin il 4 novembre, nel corso della rivista del battaglione di domobrani del maggiore Tomislav Draganić, di quello del tenente colonnello Giovannino Biddau del 152° reggimento di fanteria e delle «bande irregolari cetniche» comandate dall’ex ufficiale jugoslavo Bosko Asanović42. Dopo un breve discorso col quale il generale Berardi elogiò lo spirito di collaborazione anticomunista, davanti alla tribuna su cui si trovava insieme a Ponzi, ad altri ufficiali italiani e al maggiore croato sfilano per prime le truppe dell’NDH, cui fanno seguito quelle italiane. Arrivato il loro turno, i četnici non accennano a volersi muovere: il comandante serbo si avvicina allora alla tribuna e, stando sull’attenti, dice a Berardi di non aver intenzione di sfilare dopo i croati43. Il magg. Draganic [sic] scende uno scalino, si avvicina al generale e dice: Noi ce ne andiamo. Il generale ribatte: Se volete compiere un’opera di civiltà rimanete. E fa ripetere al serbo che essi debbono sfilare e sfilando dinanzi a un generale italiano non si umiliano a nessuno. […] Un altro capo si avvicina e rincalza le ragioni di Assanovic [sic]. Comunque finiscono per cedere e accettano di sfilare in senso avverso. Questa non l’ho ben capita. Certo si è che queste bande, zingaresche e pittoresche, vestite nelle più strane fogge, taluni con barbe e capelli alla nazzarena, con cappotti e mantelli e coperte borghesi, e salmerie, muli, asini, biciclette, armi di vari tipi, bombe alla cintola, sfilano anch’esse, e non si può loro disconoscere una certa prestanza militare44.

29 Oltre che per la suggestiva descrizione del vestiario dei četnici, il passo è di particolare rilevanza perché mostra l’instabilità della struttura di mediazione ideata dal generale Roatta, nella quale gli italiani avrebbero dovuto giocare un ruolo guida tra croati e

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serbi. L’episodio destò un certo imbarazzo al Comando di divisione della Sassari e si cercò in tutti i modi di non farlo trapelare45.

30 Nonostante i numerosi accordi firmati nel corso del 1942, la diffidenza reciproca permase e si manifestò spesso – come in questo caso – in questioni legate alla simbologia nazionale o al codice di onore militare. Le perplessità di Enzo Ponzi sulle formazioni serbo-nazionaliste erano d’altronde condivise da vaste componenti dei comandi italiani: i contatti presenti tra četnici e Alleati, il non completo inquadramento nella Milizia volontaria anticomunista e – soprattutto – il timore di compromettere definitivamente i rapporti con Zagabria spinsero gli alti comandi a limitare il più possibile gli aiuti ai nazionalisti serbi, sebbene proprio nel territorio della Sassari la MVAC avesse giocato un ruolo importante nelle operazioni di antiguerriglia46. Va comunque notato che l’ostilità dimostrata dai croati nei confronti di questa collaborazione non abbia impedito alle autorità di Zagabria di dialogare con alcuni capi delle bande cetniche, proprio per evitarne un il consolidamento dei rapporti tra Regio Esercito e serbi47.

31 La politica del «piede in due staffe» mise pertanto l’esercito d’occupazione in una posizione scomoda in primo luogo nei confronti dell’NDH, che dal febbraio 1943, quando Roatta e gli altri comandanti militari italiani rinunciarono al controllo politico- economico della II zona, entrò definitivamente a far parte della sfera d’influenza della Germania che, presentandosi come potenza priva di rivendicazioni territoriali nell’area, riuscì a guadagnarsi la fiducia del governo di Zagabria48. L’incrinarsi delle relazioni italo-croate andò a sommarsi, in secondo luogo, all’ordine da parte dei vertici tedeschi, alla fine del 1942, di smobilitare e disarmare i serbi nazionalisti, facendo così perdere la «carta cetnica» che gli italiani avevano sperato di poter giocare per mantenere il controllo dell’ex Jugoslavia49.

4. Alla deriva: l’esperienza della guerra

Sono felice di sapere che finalmente anch’io potrò fare qualcosa per la Patria in armi, riallacciandomi all’eroico quadriennio 1915-19. Sono ventidue anni e mezzo – dal 16 novembre 1919 – che son borghese. È ora di agire in veste miliare, dopo tanti articoli e tanti discorsi di propaganda. Dio mi aiuterà e mi proteggerà50.

32 La partecipazione al secondo conflitto mondiale rappresentò per Enzo Ponzi un momento di particolare importanza, sia dal punto di vista ideologico che personale. Dopo una quindicina d’anni di marginalizzazione politica, egli vide nella chiamata alle armi la possibilità di riscattarsi di fronte a se stesso e alla Federazione fascista modenese. Pur essendo conscio di non essere più nel pieno delle proprie forze (nel 1942 aveva infatti 48 anni), l’arruolamento fu letto da Ponzi come la naturale ripresa della «marcia interrotta nel 1919-20 […] verso il compimento del dovere»51. Molto presto però, il capitano Ponzi entrò in contatto con un mondo ben lontano da quello descritto dalla propaganda fascista in Italia.

33 In questo senso, i viaggi, una delle tematiche più ricorrenti nei diari di Ponzi, mostrano un paesaggio tutt’altro che confortante, anche grazie alle doti evocative del redattore. Il trasferimento da Modena al comando della Sassari (all’incirca 700 km) dura dal 12 al 18 maggio, perché linea ferroviaria tra Oglulin e Knin è stata sabotata in più punti, zona comunque ad alto rischio di imboscate dei partigiani52. Non meno sicuro è il tragitto via nave, perché – racconta Ponzi in diversi punti – sono già molti i convogli a essere stati

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affondati da sommergibili inglesi nei pressi di Pola, Zara, Šibenik e Spalato53. Giunto finalmente a Knin il 18 maggio, la descrizione del paesaggio e della popolazione è un misto tra quelle fatte dagli esploratori europei in Africa o Asia e quella di uno scenario apocalittico. Prendo contatto con questo strano pittoresco mondo in cui italiani, croati, serbi, dalmati, mussulmani e bosniaci si incontrano e si accavallano. Straccioni indescrivibili. Facce false e traditrici. Donne schifose che lavorano e sfacchinano. Costumi svariati: dai berrettoni dalmati a forma di fez o di cocuzza […] agli scialli. […] Paesaggio quasi sempre orrendo, dirupato, scosceso, brullo, peggio del Carso. Asinelli nani, bestiame piccolo, viti basse: e una massa di bimbi cenciosi e luridi che mendicano. Dappertutto gli italiani stanno sul chi vive, muretti e reticolati di protezione intorno alle stazioni e ai posti di controllo e sorveglianza; le sentinelle tengono impugnato il fucile in posizione di sparo. Appena messo piede a Knin sento la voce tremenda del cannone. Sono 24 anni che le mie orecchie non lo sentivano e ne provo una certa emozione. Che triste arrivo!54

Figura 4. Cartolina ritraente il centro di Knin.

34 Queste descrizioni, figlie – si potrebbe dire – di una sorta di “orientalismo” diffuso nell’immaginario comune, sono presenti in molti altri casi di memorialistica italiana: i soldati del Regio Esercito erano infatti inseriti in un contesto «coloniale», tra la scarsezza di mezzi, l’abbandono e la paura di un nemico – i partigiani – di cui non si capivano le logiche e le modalità di combattimento55. In alcuni casi li si arrivò perfino ad ammirare, per coraggio e dedizione alla causa56.

35 In generale, in Croazia come nelle altre zone occupate dagli italiani i soldati furono costretti a convivere quotidianamente con l’esperienza della morte e della violenza, sia come vittime che come carnefici, o anche semplicemente come spettatori. Nel caso di Ponzi, sono soprattutto violenze raccontate da altri ufficiali e successivamente viste in fotografia a entrare nel diario, come quelle compiute dai partigiani sui militari italiani, soprattutto ufficiali e camicie nere57. Contrariamente infatti a quanto diffuso dalla propaganda fascista, questi episodi non sembrano essere stati una pratica sistematica contro i soldati semplici: a essere passati per le armi furono principalmente coloro che

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venivano considerati come i veri responsabili di crimini di guerra58. D’altro canto, ciò che manca quasi completamente nel diario di Enzo Ponzi sono i riferimenti alle violenze compiute dagli italiani direttamente contro i prigionieri o contro la popolazione civile, se non in due casi59.

36 Sebbene non fosse stato coinvolto direttamente in estenuanti cicli operativi, Ponzi si trovò immerso in una realtà di guerra, ben lontana da quella esperita durante il primo conflitto mondiale, più vicina – per certi versi – alle atmosfere cupe di Cuore di tenebra o alla tensione continua e logorante de Il deserto dei tartari.

37 Nelle pagine finali del secondo diario sulla sua esperienza in Croazia, emergono sempre di più due sensazioni: la disillusione e la frustrazione. Le considerazioni sul ventennale della marcia su Roma, per la quale – dice Ponzi – «tutto diedi, senza nulla chiedere», sono infatti l’occasione per ribadire che, nonostante l’esser stato messo da parte dai colleghi di partito, «nulla [lo avesse] fatto deviare dalla fede nel Duce, dall’amore alla Patria»60. Tuttavia, l’emergere tra gli ufficiali della Sassari di atteggiamenti di sfiducia nei confronti del regime, le notizie dei rovesci militari delle truppe dell’Asse in Africa e le contraddizioni presenti nella gestione dei rapporti con le autorità serbe e con quelle croate e, infine, il progressivo ritiro degli italiani anche dai presidi della II zona in Croazia ed Erzegovina contribuirono, al termine del 1942, a incrinare in Ponzi la certezza nella vittoria e a mettere in crisi le grandi aspettative di rivincita anche personale con le quali era partito nella primavera dello stesso anno da Modena61. Te ne accorgi, vecchio Ponzi, che gli anni migliori, gli ultimi della seconda giovinezza se ne vanno? Ti ritroverai, dopo guerra, spostato, spaesato, invecchiato! Ebbene, non importa. Ricomincerò da capo a lavorare, mi rifarò la clientela, e dagli acciacchi e vecchiezza troverò conforto nelle mie amate collezioni. Certo non vorrò più scannarmi e sfacchinare come in passato62.

38 Confrontando queste parole, scritte a sei mesi dalla chiamata alle armi, con quelle dell’inizio del diario si nota come la prospettiva sia profondamente cambiata e come l’esperienza del conflitto abbia portato l’avvocato di Modena a rivedere molte delle premesse ideologiche, senz’altro legate anche a volontà di affermazione personale, con le quali era partito. Non da ultimo, questo commento rispecchia per certi versi il meccanismo di “rimozione” dalla memoria collettiva a cui andò incontro l’Italia nell’immediato dopoguerra, quando cioè si evitò di fare i conti col proprio operato come potenza occupante tra il 1940 e il 1943, preferendo elaborare una narrazione da “nazione-vittima”.

NOTE

1. Per una bibliografia esaustiva, cfr. GOBETTI, Eric, «L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943). Storiografia e memoria pubblica», in Passato e presente, 30, 87, 3/2012, pp. 39-53. 2. I due diari (3-19 maggio e 3 ottobre-18 novembre 1942) sono conservati presso l’Istituto storico di Modena, all’interno del Fondo Ponzi. Le fotografie e i documenti mostrati in questa sede sono stati allegati alle pagine dei diari Ponzi stesso.

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3. Nel novembre 1920 Ponzi querelò il settimanale socialista modenese «Il Domani», che lo accusava di aver ottenuto la medaglia di bronzo in seguito alla simulazione di un ferimento il 19 giugno 1918, a Fosso Palumbo, sulPiave. In seguito, a causa di “indelicatezze nel gioco”, Ponzi venne punito con la degradazione da capitano a soldato semplice, fino addirittura all’espulsione dall’Associazione degli Arditi nel 1923. Solo nell’aprile 1939 ottenne di essere reintegrato nel grado di capitano, senza però riuscire a recuperare i ventidue anni di anzianità perduti. Cfr. ALBERGHI, Pietro, Modena nel periodo fascista (1919-1943), Modena, Mucchi-SIAS, 1998, p. 29n. 4. Alberghi sottolinea come la “moderazione” di Ponzi non gli abbia impedito di rimanere per tutti gli anni successivi fascista, sebbene in contrasto con quelle frange della federazione modenese legate alla borghesia agraria e industriale, a cui Ponzi, in una lettera del 13 aprile 1921 al segretario generale del fascio, Umberto Passella, imputata le cause della sua destituzione. Cfr. Ibidem, pp. 16-17. In seguito, nel ripercorrere le vicende del ‘biennio nero’, Ponzi sottolineò come la violenza delle squadre fasciste fosse in realtà finalizzata alla restaurazione dello «Stato Nazionale», superando tutti i limiti di quello borghese. Cfr. PONZI, Enzo, Genesi e finalità del Fascismo, Modena, Premiata cooperativa tipografi, 1922, p. 19. 5. Archivio dell’Istituto storico della Resistenza di Modena (d’ora innanzi AISMO), Fondo Enzo Ponzi, serie 1 “Carte personali 1804-1960”, b. 156, fasc. 2 “Carteggio 1804-1960”, I miei discorsi. 6. Cfr. MINARDI, Marco, La nascita dei sindacati fascisti nel parmense (1921-1926), in DEGLI’INNOCENZI, Maurizio, POMBENI, Paolo, ROVERI, Alessandro (a cura di), Il Pnf in Emilia Romagna. Personale politico, quadri sindacali, cooperazione, Milano, Franco Angeli, 1988, pp. 239-255. Nello stesso periodo, Ponzi risulta essersi affiliato all’ordine di Salsomaggiore della massoneria, cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 2, Grande Oriente d’Italia, Gabinetto del Gran Maestro (27 dicembre 1922). 7. Di questo ciclo di conferenze, a partire dall’inizio del 1940, è presente una vasta raccolta fotografica in AISMO, Fondo Ponzi, b. 157, fasc. 3 “Fotografie”. A ciò si unisce l’attività di storico del fascismo modenese, portata avanti attraverso diverse pubblicazioni e quella, fino al maggio 1942, di curatore della rubrica Commentari di guerra per la “nuova” «Valanga», notiziario quindicinale dei Gruppi rionali del fascio di Modena. 8. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario 1942, 13 aprile 1942. 9. Nonostante la mancata adesione ufficiale alla RSI, Ponzi e altri vecchi iscritti al PNF provarono in diverse occasioni ad avvicinarsi al partito repubblicano, finendo con l’esser considerati, come ebbe modo di scrivere nel suo diario, «traditori per i camerati e pur sempre odiati nemici per gli antifascisti». Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, Diario 1944, 10 luglio 1944; FANTOZZI, Giovanni, Il volto del nemico. Fascisti e partigiani alla guerra civile (Modena 1943-1945), Modena, Artestampa, 2013, pp. 89-90. 10. All’arrivo di Ponzi a Knin, la XXII Divisione Sassari – tredicimila uomini tra ufficiali e truppa – faceva parte del XVIII Corpo d’Armata (CdA) della II Armata. Nel maggio 1942 la Sassari era comandata dal generale Furio Monticelli, mentre il capo di Stato maggiore (SM) era il colonnello Gazzino Gazzini, redattore del diario storico della divisione. Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (d’ora in poi AUSSME), N 1-11, Diari storici, b. 523, Divisione Sassari. 11. Per il bando del 7 settembre 1941 e l’arrivo di Roatta al comando di Supersloda, cfr. RODOGNO, Davide, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 240-242; GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Roma, Carocci, 2007, pp. 83-84. Il generale Roatta è inoltre autore della «circolare 3 C» (1° marzo 1942), in base alla quale «il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula: “dente per dente” ma bensì da quella: “testa per dente”». Per il testo completo LEGNANI, Massimo (a cura di), «Il “ginger” del generale Roatta. Le direttive della II Armata sulla repressione antipartigiana in Slovenia e Croazia», in Italia contemporanea, 209-210/1997-1998, pp. 155-174.

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12. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 17 maggio 1942. La voce giunta a Ponzi è confermata in GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit., pp. 96-97. 13. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 18 maggio 1942. Si trattava di una batteria in trasferimento impiegata in un’azione congiunta con le bande četniche nella zona della valle di Plavno, contesa per tutto il mese di maggio con i partigiani. Cfr. TALPO, Oddone, Dalmazia. Una cronaca per la storia, vol. II, Roma, Stato maggiore dell’Esercito, 1990, p. 231. 14. Durante il primo funerale, il 19 maggio, Ponzi dice di essere scortato da «una quindicina di mitraglieri»; qualche mese dopo, in occasione di una visita al cimitero per fare l’elenco degli italiani ivi sepolti, ad accompagnarlo sono «26 uomini e 1 ufficiale con fucili mitragliatori»; infine, nell’ultima pagina del secondo diario, per la sepoltura di un soldato della LXXIII legione Camicie nere (CC. NN.). la scorta ammonta invece a quaranta uomini. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 19 maggio, 6 ottobre e 18 novembre 1942. 15. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, 2 novembre 1942. 16. Per la cosiddetta operazione Trio (aprile-maggio 1942), che portò a un parziale successo nazi- fascista contro i partigiani in Bosnia, ma a un peggioramento delle situazioni per gli italiani in Erzegovina e Montenegro, cfr. BECHERELLI, Alberto, FORMICONI, Paolo, La quinta sponda. Una storia dell’occupazione italiana della Croazia. 1941-1943, Roma, Stato Maggiore della Difesa, 2015, pp. 66-73. 17. Così RODOGNO, op. cit., pp. 183-185, 191-202. Anche i giornali di truppa, come «La Tradotta del Fronte Giulio» del Comando superiore di Supersloda e «Il Picchiasodo» dell’11° CdA, svolsero un ruolo importante di informazione e propaganda a partire dalla seconda metà del 1942 fino ai primi mesi dell’anno seguente. Cfr. SALA, Teodoro, «Guerriglia e controguerriglia in Jugoslavia nella propaganda per le truppe occupanti italiane (1941-1943)», in Il movimento di liberazione in Italia, 24, 108, 3/1972, pp. 91-114. 18. In certi passaggi, traspare quasi un malcelato autocompiacimento per le reazioni positive, come quelle ricevute dopo il discorso fatto per il ventennale del fascismo, alla presenza di ufficiali italiani e autorità croate di Knin: «Parlo per 1 ora e ¼ sempre seguito con attenzione e interesse. Alla fine vengo applaudito, anche il generale batte le mani, le autorità si felicitano e molti ufficiali mi esprimono la loro soddisfazione», cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, 28 ottobre 1942. 19. Non è un caso che Ponzi dica di aver concluso il discorso inneggiando «al Duce, al Führer, al Poglavnik [“Guida”, titolo di Ante Pavelić, NdA] e all’alleanza dei tre popoli». Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 1° novembre 1942. Per la «missione civilizzatrice» ereditata dalla Roma antica, cfr. RODOGNO, op. cit., pp. 67-72. 20. Il 4 ottobre, la domenica successiva all’apertura del villaggio del soldato, venne infatti organizzato un torneo di calcio tra l squadra degli artiglieri (Airone) e quella della fanteria (Rondine). Contestualmente, durante l’inaugurazione del circolo ufficiali, furono invitati anche autorità croate quali il viceprefetto Ante Vatavuk, il commissario distrettuale, e il vice-podestà di Knin Lace. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 4 ottobre 1942 e passim per le fotografie. 21. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 21 ottobre e 9 novembre 1942. 22. Per l’interiorizzazione della violenza, l’adattamento alla brutalità e i comportamenti del conquistatore «straccione e libertino», che comprendevano il concubinaggio con donne locali, i furti e l’alcolismo, cfr. RODOGNO, Davide, op. cit., 212-214 e 218-221. 23. Per il furto di sigarette e alcolici, di cui Ponzi fece poi rapporto al federale di Spalato, cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 2 e 3 novembre 1942; per quello delle cartoline con franchigia, cfr. Ibidem, 7 novembre 1942. 24. Cfr. GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit., pp. 187-188.

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25. Cit. in AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 14 novembre 1942. Per l’occupazione di italiani e tedeschi dei territori liberi francesi e la scarsa autonomia che fu lasciata di fatto al Regio Esercito, cfr. RODOGNO, Davide, op. cit., pp. 57-59. 26. Allo scetticismo di parte dei superiori, Ponzi contrappone invece l’entusiasmo dei seicento soldati che parteciparono alla sua conferenza sulla «liberazione» di Nizza e Corsica; poche pagine prima, egli addirittura elenca gli ufficiali che, durante la discussione alla mensa sull’andamento della guerra, si erano mostrati più o meno «scettici e antifascisti». Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 12 novembre 1942. Per quanto riguarda il gen. Berardi, il suo progressivo allontanamento dal regime fascista è confermato dalla sua nomina, dopo l’8 settembre 1943, a capo di SM dell’esercito del regno del Sud per affiancare le operazioni dell’VIII Armata britannica nelle operazioni sul fronte adriatico; Berardi figura poi tra gli ufficiali «discriminati» dalla Commissione d’inchiesta italiana per i crimini di guerra in Jugoslavia nel 1947. Cfr. NITTI, Gian Paolo, «Berardi, Paolo», in Dizionario biografico degli italiani, URL: < http:// www.treccani.it/enciclopedia/paolo-berardi_(Dizionario-Biografico)/ > [consultato il 25 febbraio 2017]; «Nominativi sottoposti alla commissione d’inchiesta per i presunti criminali di guerra italiani (situazione al 25 gennaio 1947)», in Crimini di guerra, URL: < http:// www.criminidiguerra.it/3ListeCriminali.shtml > [consultato il 15 febbraio 2017]. 27. Per limitata lunghezza del saggio, si rimanda all’ottima sintesi di GIUSTI, Maria Teresa, La Iugoslavia tra guerriglia e repressione: la memoria storiografica e le nuove fonti, in CACCAMO, Francesco, MONZALI, Luciano (a cura di), L’occupazione italiana della Jugoslavia (1941-1943), Firenze, Le Lettere, 2008, pp. 379-418. Per la politica di repressione portata avanti nella provincia di Lubiana e in Montenegro si segnalano i recenti studi: OSTI GUERRAZZI, Amedeo, The Italian Army in Slovenia Strategies of Antipartisan Repression, 1941-1943, New York, Palgrave Macmillan, 2013; GODDI, Federico, Fronte Montenegro. Occupazione italiana e giustizia militare (1941-1943), Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2016. Non mancarono certo i casi di violenza prettamente ideologica ai danni della popolazione civile, soprattutto da parte delle CC. NN. La tesi sostenuta da studiosi come Collotti e Rodogno è però quella di una violenta repressione caratterizzata non tanto dal senso di superiorità razziale (come invece avvenne nel caso dei tedeschi), bensì come segno di debolezza e come unico modo per mostrarsi come «potenza occupante». Cfr. COLLOTTI, Enzo, Sulla politica di repressione nei Balcani, in PAGGI, Luca (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 182-208; RODOGNO, Davide, op. cit., pp. 225-227. 28. Per la ricostruzione dei contrasti tra diplomazia ed esercito sull’atteggiamento verso il governo di Zagabria, fondamentali sono le ricerche nell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri e nell’AUSSME. Cfr. MONZALI, Luciano, La difficile alleanza con la Croazia ustascia, in CACCAMO, Francesco, MONZALI, Luciano, op. cit., pp. 61-131, qui pp. 93-94; BECHERELLI, Alberto, Italia e Stato Indipendente Croato (1941-1943), Roma, Nuova Cultura, 2012, pp. 149-159; BECHERELLI, Alberto, FORMICONI, Paolo (a cura di), op. cit., pp. 106-107. 29. Per riferimenti alla complessa questione delle «identità nazionali» serbe e croate e alla conformazione della Kninska Krajina, cfr. GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit., pp. 26 et seq. 30. Proprio in una di queste azioni, condotte con pattuglie di carabinieri e truppe italiane da un lato e gendarmi e domobrani dall’altro, fu coinvolto Ponzi la sera del suo arrivo, in una Knin «deserta e illuminata dopo il coprifuoco». La prima impressione che il capitano dell’ufficio «P» ebbe degli ufficiali alleati, definiti «gente che val poco militarmente», non sembra essere stata molto positiva. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 18 maggio 1942. 31. Un primo accordo tra comando della Sassari e capi serbi risaliva in realtà alla fine di luglio 1941, durante la sollevazione contro i massacri compiuti dagli ustascia: anche in questo caso, l’impegno era di collaborare alla «pacificazione» della Krajina e alla lotta antipartigiana, cfr. BECHERELLI, Alberto, op. cit., pp. 135-136.

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32. Per l’accordo italo-croato del 19 giugno 1942, cfr. MONZALI, Luciani, op. cit., pp. 102-108; per l’evolversi degli ambigui rapporti italo-cetnici e la formazione della MVAC, che, secondo le cifre più attendibili, nell’estate 1942 contava nello Stato indipendente croato circa 12.000 uomini, cfr. TOMASEVICH, Jozo, War and Revolution in Yugoslavia, 1941-1945. The Chetniks, Stanford, Stanford University Press, 1975; RODOGNO, op. cit., pp. 376; FABEI, Stefano, I cetnici nella Seconda guerra mondiale. Dalla Resistenza alla collaborazione con l’esercito italiano, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2006; GOBETTI, L’occupazione allegra, op. cit., 108-114; CUZZI, Marco, «La strategia dell’ambiguità: i cetnici di Draža Mihailović», in Qualestoria, 43, 2/2015, pp. 33-63. 33. Per le controverse figure del pope-condottiero Ðujić e del prefetto Sinčić, entrambe criticate rispettivamente dagli altri capi cetnici e dalle autorità dell’NDH, cfr. GOBETTI, L’occupazione allegra, op. cit., pp. 132-135; BECHERELLI, Alberto, op. cit., pp. 208, 321. 34. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 5 ottobre 1942. 35. Nel corso di una riunione plenaria degli ufficiali per salutare la partenza del col. Gazzini, presso il circolo ufficiali, «serbi e croati si guardano un po’ in cagnesco. Il colonnello se la cava chiamando nobili l’una e l’altra nazione, facendo l’elogio dei croati e dei serbi e inneggiando alla collaborazione anticomunista». Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 9 ottobre 1942. 36. Le vittime di queste violenze, secondo le fonti riportate da Gobetti, vanno dalle 500 alle 1.000 persone. Cfr. GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit., pp. 137-138; per l’operazione Alfa, cfr. TALPO, Oddone, op. cit., pp. 748-754 37. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 5 ottobre 1942. 38. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 27 ottobre 1942. 39. TALPO, Oddone, op. cit., p. 761 40. Sebbene le fonti italiane parlino di un «fratello» del pope, è possibile che si sia trattato di un cugino, visto che il termine brat in serbo-croato significa sia fratello che cugino. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 27 ottobre e 12 novembre 1942; GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit., pp. 139-140. 41. La scritta era «Živio Staljin Živio Rusija», evviva Stalin, evviva la Russia. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 7 novembre 1942. 42. Per il fatto e le citazioni che seguono, cfr. Ibidem, 4 nov. 1942. Le sottolineature sono nell’originale. 43. Come in molte altre occasioni, la conversazione avviene nelle tre lingue dei militari presenti (serbo, croato e italiano): di qui l’importanza degli ufficiali mediatori, addetti anche alla traduzione. Nel caso del 4 novembre si tratta del capitano Vincenzo Marussi di Zara, dell’ufficio Informazioni della Sassari. 44. A rivista finita, Ponzi racconta che, sebbene fossero stati smobilitati, gruppi di četnici continuino a girare per Knin fino a tarda notte, intonando canzoni anticroate. 45. Ponzi sostiene addirittura che gli fosse stato chiesto da parte del ten. col. Alfano di non farne cenno neppure nel proprio diario, tanto da domandare scherzosamente se dovesse anche «estirpare il ricordo dal cervello». Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 5 novembre 1942. 46. Cfr. GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit., pp. 117-120; per i rapporti tra cetnici e le potenze alleate, si veda CUZZI, Marco, op. cit., pp. 42-44. 47. Sospetti in questa direzione sono presenti in alcuni promemoria del 1943 redatti dal Servizio Informazioni Esercito, cfr. BECHERELLI, Alberto, FORMICONI, Paolo (a cura di), op. cit., p. 112-113. 48. RODOGNO, Davide, op. cit., p. 252; MONZALI, Luciano, op. cit., pp. 108 et seq. 49. L’espressione è del generale Quarra Siro, comandante interinale del 6° CdA, cit. in SALA, Teodoro, «Italiani e cetnici in Jugoslavia (1941-1943). Fonti e linee di ricerca», in Annali della Fondazione Micheletti, 6/1992, pp. 259-269, p. 268. 50. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 3 maggio 1942.

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51. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 12 maggio 1942. Si tratta del giorno della partenza per Knin. Poche pagine prima, viene riportato anche lo struggente saluto tra Ponzi e la moglie Elda, con la quale sembra aver avuto momenti anche conflittuali, cosa che contribuì alla scelta di rispondere affermativamente alla designazione della federazione modenese all’ufficio «P» della Sassari. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 11 maggio 1942. Ciononostante, la corrispondenza tra i due fu frequente. Le lettere inviate da Ponzi alla moglie, nel corso gli oltre sei mesi coperti dai due diari, sono numerate in ordine progressivo: l’ultima risulta essere la numero centodieci. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 18 novembre 1942. 52. Giunto a Fiume il 13 maggio, Ponzi la descrive come «piena di soldati» e senza un posto dove poter pernottare. In attesa del piroscafo per Zara, è quindi costretto a trasferirsi ad Opatija, utilizzata in quel momento come luogo di ricovero per un gran numero di soldati italiani e tedeschi, per i quali egli mostra una certa ammirazione. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 13 e 14 maggio 1942. 53. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 17 maggio, 6 e 10 ottobre 1942. 54. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 18 maggio 1942. La sottolineatura è nell’originale. 55. Per considerazioni simili, cfr. SALA, Teodoro, «Guerra e amministrazione in Jugoslavia 1941-1943: un’ipotesi coloniale», in POGGIO, Pier Paolo, MICHELETTI, Bruna (a cura di), Annali della Fondazione Luigi Micheletti: L’Italia in guerra (1940-1943), 5, 1990-1991, pp. 83-94; GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit., pp. 180-185. 56. Ponzi non esterna particolare ammirazione nei confronti dei partigiani, di cui semmai depreca il «fanatismo». Egli riporta infatti due casi di suicidio compiuto da alcuni di essi, facendosi esplodere con una bomba a mano o buttandosi da una finestra, pur di non finire nelle mani delle CC. NN. o dei cetnici. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 7 novembre 1942. 57. Si tratta di racconti, come quello fattogli durate il viaggio per Knin da un tenente medico modenese in viaggio da Dubrovnik, a tinte forti e carichi di sconcerto: «Evirati, acciecati, segati in due, tagliuzzati come salami a fette, pestatati vivi, sepolti in fosse costruite dai morituri; soprattutto gli ufficiali vengono regolarmente massacrati. Altrettanto le camicie nere. Gli organi genitali mutilati e messi in mano o in bocca alle vittime». Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 17 maggio 1942. Una volta a Knin, Ponzi troverà la conferma inconfutabile di quanto raccontato: «Non posso più credere che quanto mi raccontano siano esagerazioni: ho visto coi mei occhi fotografie di disgraziati nostri soldati, uccisi, martoriati, sventrati, coi testicoli in mano!», cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 18 maggio 1942. Le immagini della guerra prodotte spontaneamente dai soldati, spesso ritraenti soggetti assenti da quelle ufficiali, venivano fatte circolare privatamente tra commilitoni o inviata a casa ed ebbero una larga diffusione nel corso del conflitto e nel dopoguerra, finendo anche per essere utilizzate come strumento di denuncia dei soprusi, come in PIEMONTESE, Giuseppe, Ventinove mesi di occupazione nella provincia di Lubiana. Considerazioni e documenti, Lubiana, s.e., 1946; cfr. MIGNEMI, Adolfo, La seconda guerra mondiale (1940-1945), Roma, Editori Riuniti, 2000, pp. 15-16 e appendice fotografica; ID., Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 125-132. 58. Per l’atteggiamento dei partigiani nei confronti dei prigionieri italiani, cfr. riferimenti storiografici, memorialistici e a fonti dell’AUSSME in GOBETTI, L’occupazione allegra, cit. pp 191-192; GIUSTI, Maria Teresa, op. cit., pp. 401-403. 59. Nel primo caso si tratta dell’uccisione con una coltellata alla gola di un partigiano fatto prigioniero, mentre nel secondo di un diciottenne arruolato da cetnici, ma «di dubbia fede», ucciso durante la sua fuga da parte di un autiere italiano. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1

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“Diari, 1917-1944”, Diario, 19 maggio e 20 ottobre 1942. Per il vasto tema della repressione e del concentramento in campi dei prigionieri, non trattabile in maniera esaustiva in questa sede, si veda, RODOGNO, Davide, op. cit., pp. 397 et seq.; BURGWYN, H. James, Le tra «professionisti» della controguerriglia italiana in Slovenia e Dalmazia, in BALDISSARA, Luca, PEZZINO, Paolo (a cura di), Crimini e memorie di guerra. Violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2004, pp. 247-259; DI SANTE, Costantino, Italiani senza onore: i crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), , Ombre corte, 2005; FOCARDI, Filippo, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013; BECHERELLI, Alberto, op. cit., pp. 252-258. 60. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 17 ottobre 1942. 61. Era infatti andata in fumo anche la speranza di essere nominato federale della Federazione fascista modenese, per la qual cosa Ponzi aveva tenuto fitti contatti epistolari con amici e colleghi di partito a casa. Cfr. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 17 e 21 ottobre 1942. 62. AISMO, Fondo Ponzi, b. 156, fasc. 1 “Diari, 1917-1944”, Diario, 11 novembre 1942.

RIASSUNTI

Nel panorama della rioccupazione dello Stato indipendente croato, in seguito ai massacri compiuti dagli ustascia nell’estate 1941, si colloca l’esperienza dell’avvocato modenese Enzo Ponzi in qualità di capo dell’ufficio Propaganda della Divisione Sassari, di stanza a Knin. I due diari del capitano Ponzi coprono maggio e ottobre-novembre 1942, mesi in cui la posizione delle truppe italiane si fece sempre più complicata, visto l’intensificarsi delle attività partigiane. Da queste pagine di memorialistica, accanto a notizie di carattere personale, emerge una panoramica sul «fronte interno» balcanico che va dai compiti presso l’ufficio Propaganda e dai rapporti con gli altri ufficiali di divisione, fino all’impossibile alleanza in chiave anticomunista tra Regio Esercito, cetnici e ustascia.

In the circumstances of the reoccupation of the Independent State of Croatia, following the summer of massacres committed by the Ustaše in 1941, takes place the experience of Enzo Ponzi, a lawyer from Modena, as the Propaganda bureau chief of Sassari Division, stationed in Knin. Captain Ponzi’s two diaries cover May and October-November 1942, during which the position of the Italian Army became increasingly intricate, because of the heightening of the partisan activities. From these pages, alongside personal memories, emerges an overview of the Balkan “home front” dealing with various topics, which ranged from assignments by the Propaganda bureau and the interactions with the other division officials to the impossible anti-communist alliance among Royal Italian Army, Chetniks, and Ustasha.

INDICE

Parole chiave : Balcani, diario, fascismo, occupazione militare, Seconda guerra mondiale Keywords : Balkans, diary, fascism, military occupation, Second World War

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AUTORE

FRANCESCO MANTOVANI Francesco Mantovani (Modena, 1991) ha portato a termine nel luglio 2016 il percorso di Laurea magistrale nell’ambito del corso integrato italo-tedesco organizzato dall’Università di Bologna e da quella di Bielefeld, discutendo una tesi intitolata Le associazioni imprenditoriali in Italia e Germania durante la Grande guerra. Attualmente iscritto al Master di 2° livello in Public History presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, si interessa del primo Novecento e di comunicazione storica. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Mantovani >

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L’Albania fascista (1939-1943) Stato della ricerca e piste da seguire

Redi Halimi

1. Introduzione

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1 L’Italia e l’Albania hanno condiviso, nel corso dei secoli, diversi capitoli di storia comune. Paradossalmente uno dei periodi conosciuti meno delle relazioni tra le due sponde dell’Adriatico coincide con i quattro anni nei quali i due paesi furono riuniti sotto la corona di Vittorio Emanuele III di Savoia.

2 Discutendo intorno al fascismo come potenza occupante nel 2005, Enzo Collotti sosteneva: non possediamo ancora uno studio di un qualche spessore e di una qualche dimensione sulla politica e l’amministrazione dell’Albania da parte del regime fascista, a partire dall’invasione e dall’annessione del 1939. Uno studio che riguardasse le strutture interne dello stesso regime, alla luce dell’avvicendamento di personale non solo militare, ma politico e amministrativo che si verificò nel corso di quegli anni e soprattutto dopo la conclusione della campagna di Grecia, rappresenterebbe un interessante, e per quel che già sappiamo allucinante, terreno di verifica della corruzione e dell’affarismo di regime che allignò in un’area considerata alla stregua delle riserve coloniali destinate a diventare oggetto di mera rapina a vantaggio dei conquistatori1.

3 Sono passati più di dieci anni dalle affermazioni di Collotti, eppure uno studio complessivo sull’Albania fascista ancora non è stato prodotto. Le motivazioni di questo ritardo erano giustificate nei decenni scorsi con il ritardo della storiografia italiana sia sulle questioni coloniali che sugli aspetti propriamente bellici, nonché da insufficienze documentarie e limitazioni nell’accesso alle fonti primarie. Ora però, nella maggior parte dei casi, tali limitazioni non sussistono più.

4 Questo articolo intende fornire un quadro degli studi scientifici sull’occupazione italiana dell’Albania durante la seconda guerra mondiale e suggerire quali siano le tematiche ancora da analizzare, segnalando la disponibilità di nuove fonti archivistiche accessibili agli studiosi da pochi anni.

2. Gli eventi

5 L’Albania fu l’unica conquista europea effettuata dall’Italia fascista senza l’aiuto della Germania. Il paese venne occupato nell’aprile del 1939, alcuni mesi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Si trattò di un’aggressione gratuita che, agli occhi di Mussolini, avrebbe dovuto mostrare l’indipendenza d’azione e la forza dell’Italia sullo scacchiere balcanico2. In realtà, l’operazione era in preparazione da tempo visto che il controllo dello stretto di Otranto costituiva un obiettivo di lungo corso della politica estera italiana3. L’occupazione e la conseguente Unione rappresentarono il coronamento di decenni di tentativi di ingerenza economica e politica su Tirana.

6 Dal punto di vista istituzionale, l’Albania non fu trattata come un territorio occupato militarmente. Anzi, si tentò di mascherare il più possibile la situazione provando a mantenere, con la collaborazione di parte della classe dirigente autoctona, un governo

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autonomo a Tirana. La corona di Zog, il re albanese fuggito all’arrivo delle truppe italiane, venne offerta a Vittorio Emanuele III. L’unione personale si sarebbe rivelata una scelta infelice che proseguiva le ambiguità dei rapporti italo-albanesi del periodo interbellico4. Da una parte si volevano comandare le decisioni politiche di Tirana e sfruttare le risorse economiche del paese, dall’altra si cercava di dare una parvenza di autonomia e indipendenza alle autorità albanesi. Nel contesto bellico mondiale che iniziò nel 1939, tali ambiguità non aiutarono né l’Italia né l’Albania.

7 La nuova cornice istituzionale venne ufficializzata con la concessione di uno statuto albanese da parte di Vittorio Emanuele III nel giugno del 1939. Il potere esecutivo passava nelle mani del re d’Italia, mentre il soppresso parlamento albanese veniva sostituito da un Consiglio superiore fascista corporativo. Il re nominò Francesco Jacomoni di San Savino, già ministro d’Italia a Tirana, quale luogotenente generale per l’esercizio dei poteri regi in Albania. I cittadini dei due stati avrebbero goduto di pari diritti ed alcune personalità albanesi vennero inserite in organi e istituzioni italiane come il Senato, la Camera dei fasci, le Forze armate, le università e le accademie.

8 La gestione delle relazioni internazionali dei due paesi venne unificata e accentrata presso il Ministero degli Esteri italiano. Nello stesso ministero, venne istituito il Sottosegretariato di stato per gli affari albanesi (SSAA) alla testa del quale venne nominato Zenone Benini. Di fatto il governo italiano comandava la politica di Tirana attraverso Jacomoni che seguiva le indicazioni di Ciano tramite il SSAA. Nominalmente il regno albanese restava indipendente dal punto di vista giuridico5.

9 Una volta costruita l’architettura istituzionale che doveva governare il paese secondo i desiderata di Roma, l’Italia si impegnò per migliorare la situazione economica e integrare l’Albania nel nuovo Impero Romano di Mussolini. Le cose funzionarono in maniera alterna fino alla campagna di Grecia. Da quel momento in poi, l’amministrazione italiana perse molta credibilità e si trascinò malamente fino all’8 settembre del 1943. Non è questa la sede per descrivere le varie fasi del conflitto e i conseguenti cambi della politica del duce. C’è da tenere in mente però, quando si analizza l’amministrazione italiana dell’Albania, che le decisioni politiche erano condizionate fortemente dal conflitto mondiale in corso.

3. La storiografia

10 Muoversi negli studi riguardanti l’occupazione italiana dell’Albania non è un’impresa semplicissima poiché bisogna tenere in considerazione molteplici fattori e diverse storiografie nazionali.

11 Si potrebbe pensare che ci siano poche pubblicazioni a riguardo. In realtà, ricercando bene, si scopre che le opere sono numerose. Si riscontra però in molti studi un focus difettoso sulla situazione albanese, una mancata conoscenza della storia precedente, una lacunosa ricerca sulle fonti primarie nonché l’incapacità di lettura degli archivi a causa di questioni linguistiche o metodologiche.

12 I primi strumenti da consultare per capire cos’è stato pubblicato sono le bibliografie generali. Anche se risultano a volte datate, aiutano a farsi una prima idea delle opere disponibili.6 Per conoscere meglio quello che è stato pubblicato sull’annessione dell’Albania da parte dell’Italia si può consultare la pagina bibliografica della Biblioteca

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Nazionale di Tirana7. La cronologia essenziale degli eventi può essere seguita grazie al lavoro di Pearson8.

13 Le monografie principali sull’Albania italiana sono quattro. Si tratta dei lavori di Dezhgiu, Eichberg, Fischer e Rallo9. Il libro di Fischer, che è stato tradotto anche in italiano10, costituisce lo scritto più compiuto sull’Albania nella seconda guerra mondiale, ma presenta alcune questioni per quel che riguarda le fonti. L’autore si basa soprattutto su documentazione di derivazione anglosassone e tedesca senza utilizzare quella albanese e sfiorando solamente quella italiana. Nello spiegare le sue scelte, Fischer afferma che le fonti italiane spesso non sono credibili perché i diplomatici riferivano soprattutto le informazioni che potevano far piacere a Ciano, Ministro degli Esteri dal 1936 e principale fautore dell’annessione albanese. C’è qualcosa di vero in tale affermazione, ma gli archivi italiani sono i più ricchi in assoluto di materiale riguardante l’Albania non solo per quel che riguarda le fonti diplomatiche e non possono essere tralasciati.

14 Il lavoro di Dezhgiu può essere un buon esempio della tradizionale storiografia socialista albanese. Contiene buone informazioni ma concede un po’ troppa importanza al ruolo del partito comunista albanese.

15 Per quanto riguarda i lavori di Eichberg e Rallo, si tratta più di saggi giornalistici che di vere ricerche storiche, dato che i materiali d’archivio citati sono solo quelli pubblicati. Il libro di Eichberg contiene delle valide considerazioni sulla situazione albanese, mentre quello di Rallo presenta la visione della storiografia italiana di destra, oltre ad essere ormai parecchio datato.

16 Per ottenere altre informazioni sulle vicende che interessano il presente articolo bisogna poi consultare l’immensa bibliografia sulla Seconda Guerra Mondiale. Nel quadro complesso delle vicende belliche, l’area balcanica è stata la meno studiata dalla storiografia italiana. Il primo tentativo di scrivere una storia complessiva delle vicende dei militari italiani nei Balcani è assai recente (2011) e non a caso è intitolato dalle autrici, Una guerra a parte11. I Balcani sono in effetti da sempre un’area di ricerca proibitiva per gli storici non originari dell’area a causa delle difficoltà linguistiche e le stratificazioni di rivalità tra le diverse etnie locali.

17 Sugli aspetti militari, la preparazione del Regio Esercito, il livello tecnologico degli armamenti o le capacità strategiche dei comandanti ci sono gli ottimi studi di Lucio Ceva, MacGregor Konx, Fortunato Minniti e Giorgio Rochat12. Sui militari italiani in Albania esistono diversi lavori, quasi sempre curati dall’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito13.

18 La storiografia non ha ancora chiarito del tutto gli obiettivi della politica estera del regime fascista durante la seconda guerra mondiale. I recenti lavori di Davide Rodogno sul Mediterraneo e di Lidia Santarelli sulla Grecia hanno cercato di spiegare alcuni aspetti del ruolo dei territori occupati all’interno della comunità imperiale di Roma14. Per un quadro complessivo sulle occupazioni fasciste nell’Europa mediterranea si possono consultare gli studi di Enzo Collotti e Teodoro Sala sulla Jugoslavia, Tone Ferenc e Marco Cuzzi sulla Slovenia, Oddone Talpo sulla Dalmazia ed Emanuele Sica sulla Francia15.

19 Rimasto a lungo in secondo piano negli studi storici, il dibattito sul tema dell’Italia fascista come potenza occupante venne rilanciato grazie agli studi di Rodogno. Di

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conseguenza, negli ultimi anni, diverse riviste hanno dedicato numeri speciali al tema delle occupazioni italiane16.

20 Tornando all’Albania italiana c’è poi da tenere in considerazione la letteratura contemporanea agli eventi. Sulla visione fascista dell’azione in Albania esiste una vasta saggistica e pubblicistica contemporanea ai fatti che permette di vedere la retorica utilizzata all’epoca17.

21 Alcune biografie storiche dei protagonisti delle vicende offrono ulteriori spunti di riflessione18.

22 Negli ultimi anni, alcuni studiosi italiani si sono interessati a diversi aspetti del periodo dell’unione italo-albanese, portando nuovi argomenti di discussione19. Lo storico che si è maggiormente occupato dell’Albania italiana è Giovanni Villari che ha prodotto diversi articoli sull’argomento20. Si tratta di studi validi che lasciano ancora aperte diverse questioni. Villari è tra i pochi storici italiani ad aver guardato la documentazione archivistica albanese anche se ha potuto consultare solo i fondi in lingua italiana.

23 Per quanto riguarda la Grande Albania durante la seconda guerra mondiale, risultano molto interessanti gli scritti di Luca Micheletta sulla Ciamuria e sul Kosovo21. Per la Ciamuria sono da considerare anche gli studi di Kretsi e Tsoutsoumpis22. Mentre sulla questione del Kosovo, bisogna fare riferimento ai lavori di Dogo e Malcolm23. Per i rapporti con le comunità religiose si può consultare il libro di Morozzo della Rocca24. Sul tema degli ebrei, si rinvia al recente studio curato da Laura Brazzo e Michele Sarfatti25.

24 Infine qualche parola sulla storiografia albanese che si sta profondamente rinnovando negli ultimi decenni anche se con molte difficoltà metodologiche26. Inutile dire che la produzione di epoca comunista ha rappresentato gli eventi in maniera tendenziosa per quasi mezzo secolo. Tali lavori vanno comunque tenuti in considerazione per estrapolare informazioni e fonti. Tra le opere recenti, una delle meglio documentate dal punto di vista archivistico è rappresentata dal libro di Kastriot Dervishi27. Mentre diverse questioni interessanti sulle minoranze durante la seconda guerra mondiale sono state affrontate dalla storica Sonila Boçi28.

25 Come si può notare da questa breve analisi storiografica, gli studi sono numerosi ma assai disparati. Da molte delle opere citate si possono ricavare informazioni utili sull’Albania italiana anche se non si tratta del punto centrale dell’analisi. Manca ancora un lavoro organico che possa dare un rendiconto migliore rispetto alla frammentata letteratura citata.

4. Le fonti

26 Le fonti italiane sull’unione tra Italia e Albania sono numerosissime e sono state censite in un ottimo libro di Silvia Trani del 200729. Anche se gli studi che analizzano a fondo queste fonti, rimangono pochi, la ricostruzione della Trani mostra come ci siano tanti archivi disponibili agli studiosi oltre ai tre utilizzati solitamente che sono l’Archivio Centrale dello Stato (ACS), l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (AUSSME) e l’Archivio Storico – Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (ASDMAE)30. Si possono citare come esempio l’archivio dell’Accademia nazionale dei Lincei o quello della Banca d’Italia31.

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27 La novità interessante per le ricerche sull’Albania italiana riguarda la possibilità di accedere finalmente alle carte del Sottosegretariato di Stato agli Affari Albanesi (SSAA) presenti presso l’ASDMAE. Istituito nell’aprile del 1939, il SSAA aveva la competenza di gestire tutte le questioni relative alla politica albanese. Venne sciolto nell’agosto del 1941 e le sue competenze furono suddivise tra l’Ufficio Albania, istituito nel dicembre dello stesso anno presso il Gabinetto del ministro degli Affari esteri, e l’Ufficio stralcio per seguire le pratiche del Sottosegretariato nel settore delle opere pubbliche. Ci sono 286 unità di conservazione per il periodo 1939-1943 raccolte nel fondo SSAA e 130 unità di conservazione per il periodo 1938-1945 nel fondo Ufficio Albania. Questa raccolta, fuori consultazione fino a pochi anni fa, rappresenta, in ambito italiano, la fonte archivistica più importante, quantitativamente e qualitativamente, per la storia dell’Albania nel periodo della sua Unione con l’Italia.32 L’unico storico che ha potuto finora lavorare sul fondo del SSAA è Luca Micheletta nei suoi studi sulla Grande Albania33. Restano da affrontare ancora molte questioni che possono essere analizzate sfruttando la documentazione del SSAA.

28 Esistono in Italia altri fondi archivistici interessanti per studiare i rapporti tra le due sponde dell’Adriatico come, ad esempio, quello del Comando generale dell’Arma dei carabinieri o quello della Congregazione per le Chiese orientali34.

29 Per quanto riguarda la documentazione albanese, anche in questo caso gli archivi sono rimasti a lungo chiusi e sono diventati accessibili agli studiosi a partire dai primi anni novanta del secolo scorso. Restano pochi però gli studi che utilizzano profondamente la documentazione di Tirana. Come già accennato, Villari è riuscito a consultare gli archivi della capitale albanese, sfruttando però unicamente i fondi in lingua italiana. Il principale di questi fondi è quello della Legazione italiana d’Albania, archivio mai consegnato all’Italia ma la cui documentazione si trova parallelamente, in gran parte, nell’ASDMAE e nell’ACS.

30 Sulla documentazione albanese riguardante l’annessione italiana del 1939 è stato fatto un inventario da parte di Antonella Ercolani35. Restano ancora da studiare con attenzione i maggiori fondi documentari presenti a Tirana, soprattutto quelli del ministero degli Interni e quelli del Partito fascista albanese. Lo sfruttamento degli archivi albanesi dovrebbe aiutare a chiarire la visione che i locali ebbero della dominazione italiana nonché molte altre questioni legate a tale periodo.

31 Documentazione d’archivio interessante si può trovare anche negli archivi inglesi, tedeschi e americani. Si tratta delle fonti utilizzate principalmente da Fischer, alla cui illustrazione si rimanda36.

32 Parte delle fonti citate fin qui si posso trovare nelle raccolte documentarie pubblicate come ad esempio i Documenti diplomatici italiani (DDI), serie IX (1939-1943), i Documents on German Foreign Policy, serie D (1937-1945) e i Documenti della lotta antifascista del popolo albanese (1941-1944), editi in albanese e francese37.

33 Interessanti, anche se da valutare criticamente, risultano poi i diari e le memorie pubblicate dai protagonisti delle vicende a partire dai diari di Ciano e le memorie di Jacomoni per arrivare agli scritti dei semplici soldati38. Le testimonianze sono numerose: alcune sono state scritte per discolparsi, altre per denunciare. Quindi bisogna fare attenzione alla loro credibilità, ma spesso offrono spunti di riflessione e visioni specifiche delle vicende in questione.

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34 L’ultima tipologia di fonti da indagare, riguarda la stampa periodica albanese durante gli anni dell’Unione. Si tratta di fonti finora studiate pochissimo, a parte qualche rara eccezione39, che possono offrire diverse indicazioni sul funzionamento della propaganda ufficiale fascista in Albania.

5. Le piste da seguire

35 Lo studio dell’Albania italiana consente di affrontare molti temi irrisolti della storiografia sul fascismo oltre a chiarire i capisaldi delle relazioni tra le due sponde dell’Adriatico. Le due principali domande da cui partire – che cosa fanno gli italiani in Albania? e come rispondono gli albanesi alla politica italiana? – non hanno ancora delle risposte esaustive.

36 Intorno a queste domande, richiedono ulteriori studi, dal punto di vista italiano, le questioni istituzionali dell’Unione, i diversi contrasti della politica di occupazione, la riorganizzazione amministrativa, la gestione dell’ordine pubblico, la penetrazione economica, lo sfruttamento delle risorse e della forza lavoro, l’utilizzazione del personale locale, il trattamento delle nazionalità, l’organizzazione dell’istruzione e il rapporto con le confessioni.

37 Mentre, dal punto di vista albanese, bisogna ancora approfondire l’attività dei governi di Tirana, il rapporto con le autorità italiane, la partecipazione al partito fascista autoctono, la questione della propaganda locale, i movimenti di opposizione e il tema della “Grande Albania”.

38 Studiare le vicende dell’Unione significa anche cercare di capire meglio cosa avevano in mente le élite fasciste per quel che riguarda il Nuovo Ordine Europeo. La situazione albanese costituisce un punto di vista privilegiato per capire l’idea di comunità imperiale che Mussolini aveva immaginato. Seguendo la convincente spiegazione di Davide Rodogno, l’impero fascista si sarebbe dovuto configurare come un insieme di tre cerchi concentrici organizzati etnicamente e secondo un principio gerarchico e razzista. In realtà questo piano non venne mai attuato pienamente dato che non esisteva una visione organica e coerente del nuovo ordine. Il regime non disponeva di una visione complessiva e dettagliata del dominio mediterraneo. Nei diversi piani, progetti e idee, più o meno elaborati, non privi di ambiguità e contraddizioni, molti autori d’articoli e monografie, nonché funzionari civili e autorità militari, fecero riferimento a un “modello albanese”. Si voleva promuovere attraverso l’affratellamento italo-albanese la missione civilizzatrice e liberatrice del fascismo.

39 Ora, su cosa pensassero gli albanesi di questo affratellamento italo-albanese e quale fosse la reazione locale bisogna indagare ulteriormente. Si tratta di un aspetto importante che influenzò la politica di Roma e le decisioni dell’establishment fascista. In questo senso bisogna ricercare come funzionò l’amministrazione e la politica albanese in loco; quali furono le principali forze sociali sulle quali fece affidamento il regime fascista; quali le principali personalità legate alla politica di Roma; quali furono invece le principali opposizioni; come cambiarono le politiche locali in base all’evolversi del conflitto mondiale in corso. Il periodo della presenza italiana in Albania fu fondamentale per gli sviluppi del nuovo stato albanese postbellico. Molti aspetti restano ancora da chiarire.

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40 Diversi studi recenti hanno dimostrato come la suddivisione delle società occupate in collaborazionisti e resistenti sia manichea e presenti complicati problemi interpretativi. La zona grigia dei compromessi era invece molto ampia e includeva molto probabilmente la maggioranza della popolazione. Bisogna approfondire l’impatto della guerra sulle appartenenze locali e sulle evoluzioni di reti e network personali. Le scelte di campo del periodo bellico vanno riviste alla luce delle strategie di sopravvivenza tra differenti gruppi sociali. D’altro canto, la repressione fascista portò alla nascita della resistenza albanese e allo sviluppo delle forze partigiane, fossero esse legate al Komintern oppure no. Non si conosce il ruolo delle autorità italiane nella gestione delle bande armate albanesi e nel principio di quella che fu una guerra civile locale per il controllo del potere. La gestione dell’ordine pubblico, la riorganizzazione amministrativa e l’utilizzazione del personale locale sono temi importanti che meritano conseguente chiarezza.

41 Studiando il contesto locale, ci si imbatte poi in una questione, ridiventata attuale, e cioè quella della “Grande Albania”. L’unico momento storico in cui una grande Albania è esistita va dal 1941 al 1944 e si trattò di una creazione italiana40. Dopo il fallimento della campagna di Grecia e l’intervento risolutore della Germania, i confini territoriali dei Balcani vennero ridisegnati a Vienna nell’aprile del 1941. Fu in questo momento che gran parte del Kosovo e una parte della Macedonia occidentale vennero annesse al Regno d’Albania. Su cosa significò questa grande Albania, come venne amministrata e quali furono le conseguenze, restano ancora molti nodi da sciogliere. I regimi comunisti post-bellici di Tirana e Belgrado evitarono imbarazzi reciproci in proposito tornando ai confini precedenti l’aggressione nazi-fascista. La questione però è importante come dimostra la recente nascita di uno stato indipendente kosovaro. Bisogna ancora capire quale fu il ruolo dell’Italia nel caldeggiare il nazionalismo e l’irredentismo albanese; cosa comportò per l’amministrazione fascista la creazione della “grande Albania”; quali circostanze portarono all’annessione del Kosovo e del Dibrano, ma non della Ciamuria; quali furono gli effetti locali sul governo albanese.

42 Oltre ai chiarimenti sulla storia politica e amministrativa dell’Unione italo-albanese negli anni 1939-1943, restano da approfondire alcune questioni di storia sociale e culturale legate al tema dell’Italia come potenza d’occupazione. Bisogna esaminare ulteriormente il ruolo dell’Italia nell’area balcanica, insieme al problema interpretativo dei rapporti con la Germania nazista. In seguito al fallimento in Grecia, la “guerra parallela” di Mussolini finì e l’Italia divenne subalterna nell’alleanza dell’Asse. Nel condomino balcanico si vide chiaramente il conflitto d’interessi delle due potenze e il progressivo ridimensionamento delle ambizioni fasciste. Ma non si conoscono gli aspetti specifici della dominazione in Albania e le dinamiche repressive del regime fascista. Si sa pochissimo dei campi di concentramento italiani in Albania e di quelli per albanesi in Italia. Questo tema, legato a quello del trattamento delle nazionalità nei territori occupati merita di essere accertato.

43 La questione economica permette di analizzare temi quali la gestione delle finanze, lo sfruttamento delle risorse e della forza-lavoro. Si sa che quasi tutta l’economia albanese era in mano italiana e questo processo era iniziato molto prima dell’annessione del 1939. Basta leggere le memorie di Jacomoni per rendersi conto di come ogni campo della vita economica fosse comandato da aziende italiane, dall’AGIP (carburanti) all’EIAA (risorse agricole), dall’IPIS (pesca) all’EBA (bonifiche), dal SIMSA (bitume) all’AIPA (petrolio). Ma non si conosce con precisione chi comandava queste aziende e

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quale ruolo effettivo ebbero nell’aiutare lo sviluppo dell’economia albanese o le necessità belliche dell’Italia. Analizzare i rapporti di queste aziende con le autorità politiche e militari dovrebbe anche permettere delle verifiche sulla corruzione e le pratiche di rapina coloniale del regime fascista.

44 Il tema della propaganda fascista in Albania risulta poi importante per capire cosa voleva dire la “pax italiana” per gli intellettuali albanesi. Nei rendiconti delle Luogotenenza di Jacomoni una cifra importante era spesa per il finanziamento dei diversi giornali locali che dovevano trasmettere la cultura e l’ordine fascista agli albanesi. Si sa pochissimo di chi scrivesse su tali fogli e che tipologia di articoli fossero pubblicati a Tirana.

45 Accanto al tema del trattamento delle nazionalità, risulta importante poi soffermarsi anche sulla collocazione delle confessioni tanto più che in Albania, il regime fascista ebbe a trattare con la chiesa cattolica, quella ortodossa e la comunità islamica. Su questi aspetti ha lavorato Morozzo della Rocca, ma il periodo dell’Unione italo-albanese necessita ulteriori studi. Bisogna capire quale trattamento venne riservato alle varie confessioni presenti in Albania e come furono utilizzate le autorità religiose per la gestione dell’ordine pubblico.

46 Di grande interesse risulta anche la questione dell’organizzazione dell’istruzione. Pochi sanno che Sestilio Montanelli, padre del celebre giornalista, ha lavorato a lungo in Albania, prima del 1939 come organizzatore delle scuole e poi, durante l’Unione, come consigliere permanente presso il Ministero dell’istruzione di Tirana. Non a caso, si possono trovare diversi articoli di Indro Montanelli sull’Albania pubblicati sul Giornale d’Italia di quegli anni. A parte l’aneddoto, è importante capire come fu impostato il sistema dell’istruzione nell’Albania italiana durante la Seconda guerra mondiale e quali scopi si prefiggeva di raggiungere il regime tramite la formazione della gioventù albanese.

47 Da quanto scritto finora, è chiaro che il caso albanese rappresenta un ottimo punto di vista per valutare le politiche di occupazione progettate e attuate dal fascismo. L’approfondimento di queste tematiche può contribuire a una maggiore presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica dei crimini commessi dal fascismo oltre ad agevolare una rivisitazione critica del passato, evitando facili assoluzioni o l’alimentazione disinformata di miti e leggende politiche.

NOTE

1. NERI SERNERI, Simone, «Il fascismo come potenza occupante, storia e memoria: interventi di Enzo Collotti, Davide Rodogno, Angelo Del Boca, Filippo Focardi», in Contemporanea: Rivista di storia dell’800 e del ’900, 30, 2/2005, pp. 311-335. 2. Nel mese precedente Hitler aveva occupato Praga e si cercava di controbilanciare l’espansione della Germania a Est. Si veda: BORGOGNI, Massimo, Tra continuità e incertezza. Italia e Albania (1914-1939). La strategia politico-militare dell’Italia in Albania fino all’Operazione «Oltre Mare Tirana», Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 283-347.

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3. La questione dei rapporti italo-albanesi nel lungo periodo è molto complessa e richiederebbe troppo spazio per il presente articolo. Si vedano in proposito: BASCIANI, Alberto, «Tra politica culturale e politica di potenza. Alcuni aspetti dei rapporti tra Italia e Albania tra le due guerre mondiali», in Mondo Contemporaneo 8, 2/2012, pp. 91-113; D’ALESSANDRI, Antonio, «La figura di Zog “re degli albanesi” nella storiografia italiana», in Nuova Rivista Storica, XCIV, 3/2010, pp. 975-984; DUCE, Alessandro, L’Albania nei rapporti italo-austriaci, 1897-1913, Milano, A. Giuffrè, 1983; HALIMI, Redi, «Italia dhe Shqipëria midis dy luftërave botërore: një situatë koloniale?», in Politikja, 9, 1/2015, pp. 33-48; PACOR, Mario, Italia e Balcani dal Risorgimento alla Resistenza, Milano, Feltrinelli, 1968; PASTORELLI, Pietro, Italia e Albania, 1924-1927: origini diplomatiche del Trattato di Tirana del 22 novembre 1927, Firenze, Poligrafo Toscano, 1967; ROSELLI, Alessandro, Italia e Albania: relazioni finanziarie nel ventennio fascista, Bologna, Il Mulino, 1986. 4. HALIMI, Redi, «A Liberal Government in King Zog’s Albania? Mehdi Frashëri and the Cabinet of the “Young” (1935-1936)», in Südost-Forchungen, vol. 73, 2014, pp. 312-316 5. LUCATELLO, Guido, La natura giuridica dell’unione italo-albanese, Padova, CEDAM, 1943. 6. BLAND, William B., Albania, Oxford, ABC-CLIO Ltd, 1997; GROTHUSEN, Klaus-Detlev (herausgegeben von), Albanien, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1993; HETZER, Armin, ROMAN, Viorel S., Albanien: ein bibliographischer Forschungsbericht: mit Titelübersetzungen und Standortnachweisen, München – New York, Saur, 1983; DANIEL, Odile, Albanie, une bibliographie historique, Paris, Editions du Centre national de la recherche scientifique, 1985; SHARRËXHI, Afërdita, DOMI, Etleva (sous la dir. de), Oeuvres des auteurs et chercheurs français sur l’Albanie et les albanais, 16.-20. siècles : bibliographie, Tiranë, Biblioteka Kombëtare, 2001; BASHA, Nermin, SHARRËXHI, Afërdita, Vepra te autoreve dhe studiuesve italiane per shqiperine dhe shqiptaret : (shek. 15.-20.) katalog, Tiranë, Biblioteka Kombëtare, 1995. 7. BIBLIOTEKA KOMBËTARE E SHQIPËRISË, Pushtimi fashist italian, 1939-1943, URL: < http://bit.ly/ 2mUbrJz > [consultato il 28 febbraio 2017]. 8. PEARSON, Owen, Albania in occupation and war: from fascism to communism, 1940-1945, London, I. B.Tauris, 2005. 9. DEZHGIU, Muharrem, Shqipëria nën pushtimin italian, 1939-1943, Tiranë, Akademia e Shkencave, 2005; EICHBERG, Federico, Il fascio littorio e l’aquila di Skanderbeg. Italia e Albania 1939-1945, Roma, Apes, 1997; FISCHER, Bernd Jürgen, Albania at war, 1939-1945, West Lafayette, Purdue University Press, 1999; RALLO, Michele, L’Epoca delle Rivoluzioni Nazionali in Europa (1919-1945), vol. 4, Albania e Kosovo, Roma, Settimo Sigillo, 1975. 10. FISCHER, Bernd Jürgen, L’Anschluss italiano. La guerra in Albania, Nardò, Besa, 2003. 11. AGA ROSSI, Elena, GIUSTI, Maria Teresa, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani, 1940-1945, Bologna, Il Mulino, 2011. 12. CEVA, Lucio, La condotta italiana della guerra: Cavallero e il comando supremo 1941-1942, Milano, Feltrinelli, 1975; ID., Le forze armate, Torino, UTET, 1981; ID., Guerra mondiale. Strategie e industria bellica 1939-1945, Milano, Franco Angeli, 2001; KNOX, MacGregor, Mussolini Unleashed, 1939-1941: Politics and Strategy in Fascist Italy’s Last War, Cambridge, Cambridge University Press, 1978; ID., Common Destiny: Dictatorship, Foreign Policy, and War in Fascist Italy and Nazi Germany, Cambridge, Cambridge University Press, 1982; MINNITI, Fortunato, Fino alla guerra: strategie e conflitto nella politica di potenza di Mussolini : 1923-1940, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2000; ROCHAT, Giorgio, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2008; ID., L’esercito italiano in pace e in guerra. Studi di storia militare, Milano, R.A.R.A., 1991. Sulle vicende militari durante il secondo conflitto mondiale sono da consultare anche i numerosi volumi con i Diari del Comando Supremo e i Verbali del Capo dello Stato Maggiore dell’Esercito come ad esempio: BIAGINI, Antonello, FRATTOLILLO, Fernando (a cura di), Diario storico del Comando supremo: raccolta di documenti della seconda guerra mondiale, vol. 6, Roma, Ufficio storico SME, 1996; BIAGINI, Antonello, MAZZACCARA, Carlo (a cura di), Verbali delle riunioni tenute dal Capo di SM generale : raccolta di documenti della seconda guerra mondiale, vol. 1, Roma, Ufficio storico SME, 1982.

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13. MONTANARI, Mario, Le truppe italiane in Albania (anni 1914-20 e 1939), Roma, SME, 1978; CROCIANI, Piero, Gli albanesi nelle forze armate italiane, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, 2001. 14. RODOGNO, Davide, Il nuovo ordine mediterraneo : le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003; ID., «La repressione nei territori occupati dall’Italia fascista tra il 1940 ed il 1943», in Qualestoria, XXX, 1/2002, pp. 45-83; SANTARELLI, Lidia, «Fra coabitazione e conflitto: invasione italiana e popolazione civile nella Grecia occupata (primavera-estate 1941)», in Qualestoria, XXX, 1/2002, pp. 143-155; ID., «Muted violence: Italian war crimes in occupied Greece», in Journal of Modern Italian Studies, 9, 3/2004, pp. 280-299. 15. SALA, Teodoro, COLLOTTI, Enzo, Le Potenze Dell’asse e la Jugoslavia. Saggi e Documenti 1941/1943, Milano, Feltrinelli, 1974; SALA, Teodoro, COLLOTTI, Enzo, Il fascismo italiano e gli Slavi del sud, Trieste, Irsml Friuli Venezia Giulia, 2009; FERENC, Tone, La Provincia «Italiana» Di Lubiana: Documenti 1941-1942, , Istituto Friulano Per La Storia Del Movimento Di Liberazione, 1994; CUZZI, Marco, L’occupazione italiana della Slovenia 1941-1943, Roma, SME, 1998; TALPO, Oddone, Dalmazia. Una cronaca per la storia 1941-1944, 3 voll., Roma, SME, 1990; SICA, Emanuele, Mussolini’s Army in the French Riviera: Italy’s Occupation of France, Illinois, University Press, 2015. 16. Si vedano ad esempio: Qualestoria, XXX, 1/2002; Contemporanea, VIII, 2/2005; Italia Contemporanea, 252-253, 2008. 17. AMBROSINI, Gaspare, L’Albania nella comunità imperiale di Roma, Roma, Istituto nazionale di cultura fascista, 1940; BONDIOLI, Pio, Albania. Quinta Sponda D’Italia, Milano, Cetim Anno, 1939; GIANNINI, Amedeo, L’Albania dall’indipendenza all’unione con l’Italia. [1913-1939], Milano, ISPI, 1939; ISTITUTO DI STUDI ADRIATICI DI VENEZIA (a cura di), Albania, 2 voll., Venezia, Officine grafiche Ferrari, 1939-1941. 18. A titolo di esempio cfr.: CACCAMO, Francesco, Odissea arbëreshe, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012; DE FELICE, Renzo, Mussolini il duce. Lo stato totalitario, 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981; ID., Mussolini l’alleato, Torino, Einaudi, 1990; GUERRI, Giordano B., Giuseppe Bottai, Milano, Bompiani, 2010; GUERRI, Giordano B., Galeazzo Ciano, Milano, Bompiani, 2011; SCHREIBER, Thomas, Enver Hodja: Le sultan rouge, Paris, Jean-Claude Lattès, 1994; TOMES, Jason, King Zog: Self-Made Monarch of Albania, New York, The History Press, 2011. 19. MARTUCCI, Donato, «“Le terre albanesi redente”. La Ciameria tra irredentismo albanese e propaganda fascista», in Palaver, 3, 2/2014, pp. 145-174; ID., «La “purezza della razza” e lo scandalo Cordignano», in Palaver, 5, 2/2016, pp. 231-300; BASCIANI, Alberto, La fine del regno del terrore e dell’oppressione e l’inizio di una nuova era di civiltà e progresso”. La propaganda fascista all’indomani della conquista dell’Albania 1939-1940, in DEMIRAJ, Bardhyl, MANDALÀ, Matteo, SINANI, Shaban (a cura di), Edhe 100! Studi in onore del Prof. Francesco Altimari in occasione del 60° compleanno, Tiranë, Albapaper, 2015. 20. VILLARI, Giovanni, «L’Albania tra protettorato e occupazione (1935-1943)», in Qualestoria, XXX, 1/2002, pp. 117-127; ID., «A Failed Experiment: The Exportation of Fascism to Albania», in Modern Italy, 12, 2/2007, pp. 157-171; ID., «L’Unione italo-albanese. Fonti e nodi per una ricerca storica», in Italia contemporanea, 252-253, 2008, pp. 581-589; ID., Il sistema di occupazione fascista in Albania, in BRAZZO, Laura, SARFATTI, Michele (a cura di), Gli ebrei in Albania sotto il fascismo: una storia da ricostruire, Firenze, Giuntina, 2010, pp. 93-124. 21. MICHELETTA, Luca, La resa dei conti. Il Kosovo, l’Italia e la dissoluzione della Jugoslavia (1939-1941), Roma, Nuova Cultura, 2008; ID., «La questione della Ciamuria e l’attacco italiano alla Grecia del 28 ottobre 1940», in Clio: rivista trimestrale di studi storici, 40, 3/2004, pp. 473-512; ID., «Italy, Greater Albania, and Kosovo 1939-1943», in Nuova rivista storica, 97, 2/2013, pp. 521-542. 22. KRETSI, Georgia, «The Secret Past of the Greek-Albanian Borderlands. Cham Muslim Albanians: Perspectives on a Conflict over Historical Accountability and Current Rights», in Ethnologia Balkanica, 6, 2002, pp. 171-195; TSOUTSOUMPIS, Spiros, «Violence, resistance and collaboration in a Greek borderland: the case of the Muslim Chams of Epirus», in Qualestoria, XXXII, 2/2015, pp. 119-138.

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23. DOGO, Marco, Kosovo. Albanesi e Serbi: le radici del conflitto, Lungro di Cosenza, Marco, 1992; MALCOLM, Noel, Kosovo: A Short History, New York, Macmillan, 1998 [trad. it.: Storia del Kosovo. Dalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 1999]. Si veda anche SALIMBENI, Lorenzo, «L’occupazione italiana del Kosovo nella seconda guerra mondiale», in Italia contemporanea, 251, 2008, pp. 299-319. 24. MOROZZO DELLA ROCCA, Roberto, Nazione e religione in Albania, Lecce, Besa, 2002. 25. BRAZZO, Laura, SARFATTI, Michele (a cura di), Gli ebrei in Albania sotto il fascismo: una storia da ricostruire, Firenze, Casa Editrice Giuntina, 2010. 26. Per avere un quadro dello stato della storiografia sulla storia albanese e dei principali specialisti che se ne occupano a livello internazionale si veda: SCHMITT, Oliver Jens, FRANTZ, Eva Anne, Albanische Geschichte: Stand und Perspektiven der Forschung, München, De Gruyter Oldenbourg, 2009. 27. DERVISHI, Kastriot, Historia e shtetit shqiptar 1912-2005: organizimi shtetëror, jeta politike, ngjarjet kryesore, të gjithë ligjvënësit, ministrat dhe kryetarët e shtetit shqiptar në historinë 93-vjeçare të tij, Tiranë, Shtëpia Botuese 55, 2006. 28. BOÇI, Sonila, «Minoriteti Grek Në Shqipëri Në Koniunkturat Politike Të Viteve 1939-1941», in Studime Historike, 1-2/2012, pp. 129-152; BOÇI, Sonila, «Ddilemat e projekteve për bashkëpunimin midis shqiptarëve dhe grekëve gjatë viteve 1943-1944», in Studime Historike, 1-2/2014, pp. 229-240. 29. TRANI Silvia, L’Unione fra l’Albania e l’Italia: censimento delle fonti (1939-1945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2007. 30. Per la descrizione dei fondi archivistici si rinvia a TRANI, Silvia, L’Unione fra l’Albania e l’Italia, cit., pp. 103-488; ID., «L’unione fra l’Italia e l’Albania (1939-1943)», in Clio: rivista trimestrale di studi storici, 30, 1/1994, pp. 139-168. 31. Si veda anche: PANSINI, Mariolina, Le fonti dell’Archivio di Stato di Bari sull’Albania, in ESPOSITO, Giulio, LEUZZI, Antonio, NIKA, Nevila (a cura di), Puglia e Albania nel Novecento, Nardò, Salento Books, 2008, pp. 239-279. 32. TRANI, Silvia, La storia dell’Unione italo-albanese. Un’indagine sulle principali risorse documentarie conservate in Italia, in BRAZZO, Laura, SARFATTI, Michele (a cura di), Gli ebrei in Albania sotto il fascismo: una storia da ricostruire, Firenze, Giuntina, 2010, pp. 65-85. 33. MICHELETTA, Luca, «Italy, Greater Albania, and Kosovo 1939-1943», cit. 34. TRANI, Silvia, L’Unione fra l’Albania e l’Italia, cit., pp. 218-245. 35. ERCOLANI, Antonella, L’Italia in Albania: la conquista italiana nei documenti albanesi (1939), Roma, Libera Università degli Studi S. Pio V, 1999. 36. FISCHER, Bernd Jürgen, L’Anschluss italiano. La guerra in Albania, cit., pp. 343-354. 37. Cfr. Actes et documents du Saint Siege relatifs a la seconde guerre mondiale, 11 voll., Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 1970-1981; Documents on German Foreign Policy, 1918-1945: from the Archives of the German Foreign Ministry, 14 voll., Washington, United States government printing Office, 1949-1964; I documenti diplomatici italiani, 10 voll., Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1960-1990; La Lutte antifasciste de liberation nationale du peuple albanais: documents principaux (1941-1944), Tiranë, Editions «8 Nëntori», 1975. 38. BAGHIOU, Jeanne, Come non vincemmo la campagna di Grecia: fatti e retroscena, Milano, De Vecchi, 1971; BANDIERA, Adolfo, Io fui della IX armata d’Albania: ricordi di guerra di un fante, Bologna, M. Boni, 1982; BEDESCHI, Giulio (a cura di), Fronte greco-albanese: c’ero anch’io, Milano, Mursia, 2011; CAVALLERO, Ugo, Comando supremo. Diario 1940-43 del Capo di S.M.G., Rocca San Casciano, Cappelli, 1948; CIANO, Galeazzo, Diario 1937-1943, Roma, Castelvecchi, 2014; JACOMONI DI SAN SAVINO, Francesco, La politica dell’Italia in Albania: nelle testimonianze del Luogotenente del re, Bologna, Cappelli, 1965; MARKO, Petro, Intervistë me vetveten: retë dhe gurët, Tiranë, Omsca, 2000; ROATTA, Mario, Otto milioni di baionette: l’Esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944, Milano, A. Mondadori, 1946; UMILTÀ, Carlo, Jugoslavia e Albania: memorie di un diplomatico, Milano, Garzanti,

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1947; VISCONTI PRASCA, Sebastiano, Io ho aggredito la Grecia, Milano, Rizzoli editore, 1946; XOXA, Zoi, Kujtimet e një Gazetari, Tiranë, Shtepia Botuese «55», 2007. 39. SAKJA, Rovena, «Drini: Storia di una rivista negli archivi italiani e albanesi», in Palaver, 5, 1/2016, pp. 59-90. 40. CUZZI, Marco, «Quando Mussolini costruiva la Grande Albania», in Limes, 2/2001, pp. 123-129.

RIASSUNTI

Questo articolo intende fornire un quadro degli studi scientifici sull’occupazione italiana dell’Albania durante la Seconda guerra mondiale. Si vuole inoltre suggerire quali siano le tematiche ancora da analizzare, segnalando la disponibilità di nuove fonti archivistiche accessibili agli studiosi da pochi anni. I fondi documentari sull’unione tra Italia e Albania sono numerosi, ma scarseggiano i lavori storiografici che li analizzino a fondo. L’articolo è diviso in quattro parti. La prima parte indica brevemente i principali eventi e il quadro istituzionale dell’Unione. La seconda fornisce un quadro della storiografia italiana e internazionale sull’Albania negli anni 1939-1943. La terza parte offre una panoramica sui documenti resi accessibili negli ultimi anni. La parte finale suggerisce le principali tematiche di ricerca legate alla questione dell’Italia quale potenza d’occupazione durante il secondo conflitto mondiale.

This paper will provide an overview of the scientific studies about Italy’s occupation of Albania during World War II. It also suggests the issues still to be addressed and shows the disposal of new archival sources, finally available to scholars. Documentary collections on the Union between Italy and Albania are abundant but there are just a few historical works that analyze them thoroughly. The paper is divided into four parts. The first part briefly describes the major events and the Union’s institutional framework. The second one provides an overview of the historiography about Albania during 1939-1943. The third part gives an overview of the documents available in recent years. The last one suggests the main research the mes related to Italy as an occupying power during World War II.

INDICE

Parole chiave : Albania, fascismo, Italia, Seconda guerra mondiale, storiografia Keywords : Albania, Fascism, historiography, Italy, World War II

AUTORE

REDI HALIMI Redi Halimi ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nel 2013. È ricercatore associato presso il Cetobac (Centre d’Études Turques, Ottomanes, Balkaniques et Centrasiatiques) di Parigi e collabora con il Dissgea (Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità) dell’Università di Padova. Si occupa di storia dell’Adriatico e del Mediterraneo in epoca moderna e contemporanea con particolare attenzione

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per le vicende albanesi. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Halimi >

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Dallo stomaco al cuore? Il rifornimento di cibo per la popolazione civile nella Croazia occupata e i tentativi italiani di costruire un impero

Sanela Schmid Traduzione : Alessandro Stoppoloni

Elenco delle abbreviazioni degli archivi citati ACS = Archivio Centrale dello Stato AJ = Arhiv Jugoslavije ASMAE = Archivio Storico diplomatico del Ministero degli Affari Esteri AUSSME = Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito BArch = Bundesarchiv HDA = Hrvatski Državni Arhiv NARA = US National Archives and Records Administration PA AA = Politisches Archiv des Auswärigen Amtes VA = Vojni Arhiv

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1 L’elemento imperiale dell’Italia fascista sta riscuotendo sempre più interesse fra i ricercatori e in particolare chi si occupa di storia culturale sta lavorando su questo tema con grande profitto1. Quando però si sposta l’attenzione sulla politica italiana nelle regioni occupate durante la Seconda guerra mondiale la portata della rappresentazione fascista dell’Impero nei suoi effetti sulle zone di occupazione viene indagata solo in modo superficiale. È innegabile che vi siano libri e articoli che contengono nel titolo il concetto “Impero” e che si dedicano alle occupazioni italiane durante la Seconda guerra mondiale, tuttavia la loro relazione con questo concetto è incentrata principalmente sul confronto fra i piani di conquista italiani e le differenze fra la progettata espansione dell’Impero e la sua effettiva realizzazione2.

2 Le idee italiane per un futuro “nuovo ordine” vengono quindi prese poco in considerazione quando si tratta di verificare le effettive politiche di occupazione. Se però si segue lo spunto di Emilio Gentile e si prendono sul serio le implicazioni di miti, simboli e rituali come un «sistema di credenze e valori»3 bisogna anche domandarsi quali conseguenze la propaganda di questi valori per quasi vent’anni abbia avuto sulla politica imperiale italiana durante la guerra. Questo modo di procedere potrebbe aiutare ad affrontare e chiarire meglio la natura bifronte dell’occupazione, un elemento che finora la ricerca ha trascurato o in favore della narrazione del bravo italiano4 o di quella dell’esilio dello stesso5. Partendo dal caso delle zone occupate e annesse dello Stato indipendente di Croazia (Nezavisna Država Hrvatska, NDH) ci si propone di indagare l’atteggiamento italiano verso il problema dell’approvvigionamento alimentare nel contesto dell’imperialismo fascista. Accanto a fattori politici, diplomatici e militari le rappresentazioni fasciste del tipo di impero hanno determinato le modalità con cui i dominanti italiani, sia civili sia militari, hanno affrontato i problemi. Le idee che hanno informato la politica italiana si nutrivano dell’aspirazione dei fascisti ad essere i successori dell’Impero romano e si basavano sui due pilastri: da una parte la rappresentazione di una posizione di dominio nel Mediterraneo che doveva essere costruita sulla forza militare e dall’altra la convinzione di esprimere una civiltà superiore rispetto ai popoli che vivevano nel proclamato spazio vitale. Entrambi sono stati utilizzati per legittimare l’aspirazione a costruire un impero e allo stesso tempo hanno al contempo costituito un motivo per la creazione di due modi di agire contraddittori. Il punto di vista militare ha dato luogo fin dal primo giorno dell’occupazione a una battaglia senza riguardi verso chiunque si opponesse all’espansionismo italiano ed è sfociato nella costruzione di campi di concentramento e in esecuzioni di massa. Allo stesso tempo però gli occupanti italiani promisero a tutti quelli che erano disposti ad aderire all’Impero italiano protezione e un miglioramento nelle condizioni di vita. Cercarono perfino di convincere la popolazione dei vantaggi dell’appartenenza all’Impero fascista. Alcuni degli aspetti della politica di occupazione italiana – la promessa di un trattamento su basi egualitarie e di protezione, di rifornimenti alimentari e di materiale medico così come la propaganda – sono strettamente collegate a questo fattore. Come esempio di questa strategia la lotta senza quartiere a tutti i nemici del progetto imperiale e l’aspirazione a conquistarsi le

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simpatie del popolo per lo stesso progetto devono essere viste come due facce della stessa medaglia. Le possibilità di scelta e i comportamenti del popolo in questa fase devono al contrario essere tralasciati6.

1. Spazio vitale e impero

3 Fin dagli albori del movimento, i fascisti hanno difeso l’idea che la “nuova Italia”, un paese moderno e industrializzato, nato dalla prima guerra mondiale dovesse espandersi non solo territorialmente, ma dovesse anche svolgere una missione di civiltà nel mondo moderno7. Volevano costruire un nuovo Impero fascista, un proprio spazio vitale. Sebbene questa espressione italiana non sia altro che la traduzione letterale della parola tedesca Lebensraum la rappresentazione italiana del concetto era differente dal suo corrispondente tedesco. Così come il concetto Lebensraum in tedesco nel corso degli anni si è arricchito di nuovi contenuti, anche in italiano ha acquisito un significato proprio. Sotto il nazismo il concetto di Lebensraum si è sviluppato verso la rappresentazione di un struttura razzista nella quale i concetti di razza e classe si intrecciavano fra loro per suddividere intere aree di territorio in base a criteri razzisti. Questo sviluppo è sfociato infine nella politica di deportazione e annientamento portata avanti nel Generalplan-Ost8. I piani fascisti per la creazione dell’Impero dovevano essere idealmente realizzati nei grandi spazi africani, ma trovarono applicazione essenzialmente in piccoli Stati e nazioni all’interno dello spazio imperiale. Si procedette quindi a creare una struttura con una grande potenza (l’Italia) al centro che avrebbe dettato i principi per la nuova civiltà. Allo stesso tempo ebbe anche un ruolo la rappresentazione di una missione civilizzatrice per cercare di rendere evidenti ai popoli occupati i vantaggi di una conquista fascista9. L’idea fascista era quindi molto più vicina all’imperialismo inglese e francese del diciannovesimo secolo che alla politica di espansione nazista che prevedeva la conquista di grandi spazi da mettere a disposizione della popolazione tedesca10.

4 La rappresentazione degli eredi ideali di Roma, la romanità11, era una costruzione ideologica molto elastica e ha rappresentato uno dei pilastri dell’identità fascista dall’inizio del movimento fino alla sua fine e durante il ventennio era onnipresente12.

5 Essa rappresentava un insieme ideologico abbastanza coerente che sosteneva sia il concetto di Stato totalitario fascista sia l’imperialismo che mirava a diffondere le “virtù romane”, così come venivano intese dai fascisti, nel mondo. L’accesso unico alla civiltà romana presupponeva la presenza di Diritto, Ordine e Giustizia come principi base della romanità13. Dopo la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero divenne pratica comune, tanto nella cultura “alta” come in quella più popolare, il richiamo alla storia romana per giustificare la politica fascista14. La definizione dell’Impero rimase sempre vaga, ma venne tuttavia sempre collegata a un lato spirituale. Proprio l’inesattezza e la flessibilità del dibattito sul concetto di impero fascista ha permesso il suo utilizzo nella propaganda in modo vario. Così durante l’intero ventennio rimase costante una dicotomia fra la rappresentazione militare e quella conciliante dell’Impero15. Questo risulta particolarmente importante per la ricerca sugli effetti dei concetti imperiali fascisti rispetto a quanto veniva poi fatto sul posto perché proprio questi due elementi contraddittori hanno determinato la politica di occupazione, come verrà mostrato in seguito, usando come esempio l’approvvigionamento di beni alimentari.

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2. Occupazione e situazione alimentare in NDH

6 Dopo lo smembramento della Jugoslavia ad opera delle potenze dell’Asse nell’aprile del 1941, venne creato lo Stato indipendente di Croazia alla cui testa venne posto il movimento fascista ustascia che doveva farsi garante di una politica favorevole all’Asse all’interno del paese16. Allo stesso tempo i due alleati divisero il paese secondo sfere di influenza: alla Germania spettò il Nord mentre l’Italia ottenne il Sud. Il Reich tedesco si accontentò di difendere i suoi interessi economici e di esercitare, attraverso i suoi rappresentanti diplomatici e militari a Zagabria, un’influenza sul regime ustascia17. L’Italia al contrario aveva dei forti interessi espansionistici sulla Croazia e la collaborazione con gli Ustascia, in precedenza a lungo protetti da Mussolini, rendeva chiaramente più difficile raggiungere questi obiettivi18. Con i protocolli di Roma del 18 maggio 1941 venne sancita definitivamente l’annessione della maggior parte della Dalmazia all’Italia, anche se la parte più interna rimaneva alla Croazia. Questa decisione dispiacque in modo particolare al generale Vittorio Ambrosio, il comandante della 2ª Armata italiana che si trovava in Slovenia e Croazia, che da un punto di vista militare avrebbe preferito stabilire il confine lungo la cresta delle Alpi dinariche19. Nel settembre del 1941 le truppe italiane occuparono il territorio corrispondente alla loro sfera di influenza in Croazia e divisero quest’area in due zone. Mentre nella seconda zona, collegata direttamente alla costa dalmata e denominata di solito dalle truppe di occupazione prima zona, la violenza militare e civile fu esercitata direttamente dalle truppe d’occupazione italiane, nella terza l’esercito italiano si limitò a un’attività di controllo. Nell’agosto del 1942 quest’ultima zona venne evacuata dagli italiani che lasciarono nell’altra solo delle teste di ponte. Soprattutto durante il primo anno di occupazione, ma anche successivamente, il generale Ambrosio e il suo successore si preoccuparono di assicurarsi militarmente quello che non era stato raggiunto tramite una via diplomatica. Si comportarono così come capomastri dell’Impero italiano, prodigandosi per un allargamento sia della zona italiana sia della sfera d’influenza.

7 Vennero quindi determinati degli obiettivi diplomatici, degli obblighi militari e un’idea di impero oltre alle modalità con cui i comandanti della 2ª Armata così come le loro divisioni avrebbero governato le regioni occupate. Questo viene mostrato chiaramente già nel comunicato del 7 settembre 1941 con il quale l’esercito italiano, dopo aver preso il controllo delle regioni croate, annunciò fra le altre cose la fine delle persecuzioni e una nuova politica di non discriminazione. Di conseguenza, in forte contrasto con la politica vigente fino a quel momento in Croazia e rivolta contro i suoi abitanti serbi, ebrei e rom: tutte le persone che avevano lasciato i loro paesi furono invitate a tornare indietro con la promessa che le loro vite, la loro libertà e le loro proprietà sarebbero state protette20.

8 Innumerevole materiale propagandistico venne distribuito fra la popolazione per convincerla dei vantaggi derivanti dall’appartenenza all’impero italiano. Per fare ciò la propaganda utilizzò soprattutto i concetti di latinità, giustizia romana e civiltà romana. Un rapporto dell’ottobre 1941 sulla situazione in una località della seconda zona mostra come gli italiani volessero essere visti: «[...] la presenza dei nostri soldati dà motivo a schiette manifestazioni di simpatia verso l’Italia di cui si ammira particolarmente il senso di umana giustizia dovuto ad una civiltà superiore»21. Allo stesso tempo la lotta contro chi si opponeva all’occupazione diffuse paura e spavento all’interno della

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popolazione che fu vittima di una spirale di violenza comprendente aggressioni, contro-aggressioni, e soprattutto rastrellamenti che portarono essenzialmente a imprigionamenti, esecuzioni e saccheggi22.

9 I comandanti della 2ª Armata di fronte alla popolazione cercarono di minimizzare gli eccessi che con i loro stessi ordini avevano provocato. Tali “contrordini” si basavano sempre sulla sottolineatura della superiore civilizzazione italiana23. Essi però dimostravano di non essere in grado di mantenere la disciplina nell’esercito, cosicché durante i rastrellamenti i saccheggi rimanevano all’ordine del giorno24.

10 Questo era disastroso dal momento che un problema molto grande, non solo per lo Stato croato ma anche per le potenze occupanti, era garantire il sostentamento della popolazione. Questo compito in realtà sarebbe spettato allo Stato croato, ma l’amministrazione non era in grado di garantire l’approvvigionamento alimentare alle regioni meno produttive dal punto di vista agricolo come l’Erzegovina, l’entroterra dalmata, le isole, così come alcune regioni della Bosnia. Queste regioni, eccezion fatta per la Dalmazia, che era sotto la responsabilità italiana, dovevano essere rifornite di alimenti come grano, mais e zucchero dallo Stato jugoslavo anche in tempo di pace. La 2ª Armata aveva sostenuto già nel maggio del 1941 che il problema dell’alimentazione era uno dei più seri che il governo croato doveva risolvere25.

11 Le autorità italiane e tedesche fin dall’inizio riferivano di una situazione alimentare critica che inoltre continuava a peggiorare. Già fra la fine di aprile e l’inizio di maggio del 1941 le divisioni italiane resero noto che la situazione dei rifornimenti sulla costa e nell’entroterra era critica e che diventava sempre più difficile. Sulle isole si era già in carestia e in alcune località dell’Erzegovina si erano verificate delle morti per fame. Nell’estate del 1941 non c’era più pane, carne o verdure; nei negozi si creavano delle file e i prezzi salivano26.

12 La cattiva situazione alimentare aveva diverse cause. In primis la Croazia non era ricca di prodotti agrari, al contrario di quanto pensavano alcuni amministratori tedeschi. A fronte di una produzione eccedente in Slavonia, c’erano altre regioni che non riuscivano a coprire il loro fabbisogno. Questa situazione peggiorò drammaticamente quando, in seguito allo spezzettamento e alla spartizione della Jugoslavia, altre regioni con una forte produzione agricola come la Voivodina vennero completamente separate dal mercato croato. A ciò si aggiunse il cattivo raccolto del 1941, in cui la produzione di grano ammontò a meno di un terzo rispetto alle quantità abituali27. Secondo quanto affermato dai croati la produttività agricola fu il 50% di quella media fatta registrare fra il 1937 e il 1939. L’inverno 1941-1942 fu inoltre particolarmente lungo e in Slavonia si registrarono anche delle inondazioni. In aggiunta la bassa qualità delle sementi lasciava anche poche speranze per l’anno seguente28.

13 Un secondo motivo era la presenza di entrambi gli eserciti di occupazione che riduceva la quantità di cibo disponibile per la popolazione29. Inoltre gli eserciti non rispettarono gli accordi che prevedevano la loro autonomia in merito all’alimentazione dei soldati e comprarono alimenti sul mercato croato, pur essendo coscienti di pagare un prezzo molto più alto di quello stabilito dallo Stato croato. I soldati italiani ricevevano denaro per comprare gli alimenti di cui avevano bisogno e di conseguenza i contadini non avevano più bisogno di portare i loro prodotti al mercato visto che potevano venderli direttamente all’esercito30.

14 A ciò si aggiunse l’esportazione illegale operata dall’esercito italiano di alimenti e bestiame verso le regioni annesse all’Italia (la Dalmazia) allo stesso modo in cui

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all’inizio dell’occupazione la Wehrmacht aveva a sua volta esportato illegalmente bestiame in Serbia31.

15 Un terzo motivo erano la guerra e le persecuzioni degli ustascia che creavano degli enormi danni all’agricoltura. Una parte della popolazione fu assassinata o scappò, un’altra venne rinchiusa nei campi di concentramento croati, tedeschi e italiani. In aggiunta a ciò venne operato un trasferimento della forza lavoro verso la Germania per coltivare i campi e per occuparsi della raccolta. I croati che si erano installati sui campi dei serbi cacciati o uccisi non sapevano necessariamente come coltivarli32. La pessima situazione alimentare fece sì che anche le sementi venissero usate come cibo e per questo motivo all’inizio del 1942 venne a mancare il 75% dei semi di frumento. In totale quasi un terzo delle superficie agricola rimase incolta33. Quarto, la rivolta aggravò la scarsità di alimenti. L’esercito dei partigiani doveva essere nutrito attraverso consegne spontanee da parte della popolazione e, nel caso in cui queste non fossero bastate, tramite delle requisizioni34. Allo stesso tempo distruggevano i raccolti per non farli cadere nelle mani degli occupanti ed esortavano i contadini a produrre solo per i loro fabbisogni35.

16 Infine essi distruggevano le vie di comunicazione così che gli alimenti, anche qualora fossero stati disponibili, non avrebbero potuto essere portati ai centri di distribuzione36. D’altra parte gli stessi occupanti finivano per distruggere i raccolti come danno collaterale della lotta ai partigiani37.

17 Quinto, il mercato nero, la corruzione e le prevaricazioni operate da determinati gruppi privilegiati come gli Ustascia peggiorarono ulteriormente la situazione. I contadini rifiutavano di vendere il poco che riuscivano a ottenere dai loro campi per un prezzo ridicolo sul mercato legale e preferivano vendere i loro beni sul mercato nero a un prezzo decisamente più elevato38. Oppure venne loro impedito di raggiungere i centri abitati più grandi e di praticare il commercio. L’inflazione aumentò senza sosta e nemmeno i tentativi di introdurre dei prezzi calmierati per i beni di prima necessità riuscirono a cambiare molto, soprattutto quando gli alimenti non erano proprio più disponibili39. Già nel maggio del 1941 gli operai della strada di Makarska chiesero di essere pagati in farina piuttosto che in denaro, con il quale ormai non si poteva comprare più nulla40. Fino al 1943 la kuna, la moneta croata, valeva così poco che persino la Wehrmacht offriva ricompense sotto forme di farina, zucchero, sale e, in caso di necessità, anche abiti oltre al denaro per chi rivelava i nascondigli di armi41.

3. L’Italia e la questione dei rifornimenti

18 Il problema dei rifornimenti e dell’alimentazione non aveva la stessa importanza per la Germania o per l’Italia. Ciò dipendeva da due fattori. Il primo era che la maggioranza delle aree che si trovavano a soffrire di una scarsezza alimentare si trovavano sotto dominio italiano. Secondo, le due potenze occupanti avevano in Croazia differenti obiettivi da raggiungere. La Germania si preoccupava di farsi coinvolgere il meno possibile nelle questioni croate. Il problema dell’alimentazione venne trascurato e si intervenne solo dietro richiesta ufficiale del governo croato. Così per esempio il ministro degli esteri croato nell’estate del 1941 chiese alla Wehrmacht di ottenere alimenti dai loro magazzini occupati per cercare di far fronte alla situazione catastrofica in Bosnia42.

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19 Al contrario l’Italia si trovava ad agire nel suo spazio vitale. Doveva dimostrare di essere in grado di provvedere ai fabbisogni della popolazione nella Dalmazia annessa se voleva legittimare il suo dominio nel lungo periodo. Nel resto delle zone occupate dall’Italia gli italiani cercarono di sostituirsi allo Stato croato sulla questione degli approvvigionamenti. Da una parte il potere delle autorità doveva essere limitato il più possibile e dall’altra bisognava mostrare al popolo che un dominio italiano doveva essere preferibile a quello degli Ustascia. Subito dopo l’occupazione gli italiani iniziarono a distribuire alimenti43. Per fare fronte alla situazione si pensò di introdurre un razionamento del pane. I soldati dovevano astenersi dal comprare pane nei negozi per non aggravare le mancanze44. Sebbene il Ministero della guerra italiano nell’aprile del 1941 avesse ordinato che per i bisogni della popolazione i commissari civili dovessero rivolgersi ai ministeri competenti e che l’esercito non dovesse mettere nulla a disposizione i comandanti italiani non rispettarono il divieto. Il comandante della sesta armata, il generale Renzo Dalmazzo, aveva già stabilito in questo momento che “il problema [era] importante, serio e pressante” sia per gli effetti politici sia perché il tema poteva essere efficacemente usato come propaganda contro le truppe italiane45. Fino alla metà di maggio 1941 le armate che stazionavano in Croazia e Dalmazia avevano distribuito 62 tonnellate di alimenti alla popolazione e gliene avevano vendute altre 521,5 tonnellate46. Dopo diverse vendite di farina la quinta armata, stazionante nella seconda zona si rese conto che una rapida soluzione del problema alimentare rappresentava un ottimo strumento per influenzare la popolazione, in particolare quella più povera47. Questo strumento sarebbe stato usato anche successivamente. Allo stesso tempo venne detto con insistenza ai soldati di non provocare danni alle colture; dato che la maggioranza della popolazione faceva il contadino la cattiva reputazione dell’esercito avrebbe messo a repentaglio anche gli obiettivi della guerra48.

4. Dissidi fra Italia e Croazia

20 Per garantire i rifornimenti alla popolazione civile della Dalmazia il ministero dell’agricoltura italiano concluse un contratto con la società statale croata Pogod. La società si impegnava a consegnare ulteriormente cibo alla Dalmazia. La quantità che doveva essere settimanalmente consegnata consisteva in trenta-quaranta vagoni49.

21 La situazione dei rifornimenti alimentari peggiorò dopo l’annessione della Dalmazia. Ai motivi economici si sommarono i giochi di potere. Per gli Ustascia l’annessione della Dalmazia era un’amara sconfitta che costituiva un forte fattore di discredito nei confronti della popolazione50. Di conseguenza essi fecero di tutto per ostacolare il consolidamento del dominio italiano e il problema dei rifornimenti offrì loro una gradita opportunità. Per dimostrare la dipendenza della Dalmazia dall’entroterra croato le autorità croate si preoccuparono che nessun bene passasse la frontiera. I militari italiani dedussero che anche attraverso la scarsità di approvigionamenti alimentari avrebbero potuto alimentare il malcontento della popolazione nei confronti dell’amministrazione italiana in Dalmazia51. A luglio il governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini si lamentò di ciò con il Ministro degli Esteri italiano e chiese una soluzione rapida al problema sempre più grave dei rifornimenti. Secondo Bastianini per mantenere il suo prestigio e per giustificare le sue aspirazioni l’Italia doveva dimostrare di essere in grado di provvedere ai bisogni della Dalmazia senza ricorrere alle risorse dell’entroterra. Propose quindi di inviare in Dalmazia ogni tipo di alimenti

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visto che doveva essere trattata come se fosse un’altra isola52. Dato che Luca Pietromarchi del Ministero degli Esteri gli venne incontro venne stilata una lista comprendente gli alimenti di cui la Dalmazia aveva bisogno. Da queste ricerche si capì che la Dalmazia poteva autonomamente coprire circa il 35% del suo fabbisogno di frumento e l’intero fabbisogno di olio. Tutti le altre derrate alimentari dovevano essere importati. Molti altri alimenti e beni di consumo quotidiano vennero inclusi nel «piccolo commercio di confine» con la Croazia che poteva essere realizzato senza permessi e senza dover pagare delle tasse53. I croati tornarono a dirsi d’accordo sul fatto che la Pogod rifornisse la Dalmazia con i principali beni di consumo. L’unica condizione era che i beni venissero suddivisi equamente fra la popolazione italiana e quella croata54.

22 Anche dopo questo accordo, tuttavia, la situazione non migliorò dal momento che l’amministrazione croata perseverava nella sua politica di ostruzionismo, che era sì rivolta contro gli italiani, ma non trascurava le etnie perseguitate nella NDH. Il Ministro croato per l’Industria e il Commercio spiegò all’inviato italiano a Zagabria che non potevano essere inviati alimenti verso Spalato per nutrire gli ebrei e i serbi che si erano rifugiati lì55. Il mutamento avvenne gradualmente attraverso un accordo sottoscritto al momento della presa di potere da parte dell’esercito italiano nella seconda zona nel settembre del 1941; successivamente, nell’ottobre dello stesso anno si giunse al superamento della frontiera doganale fra la Dalmazia e la seconda zona56. Il governo croato si impegnò a subentrare nel garantire i rifornimenti per la popolazione civile e per l’esercito nelle zone d’operazione militari, la seconda e la terza zona, cioè nel loro stesso Stato. Se però il governo non si fosse dimostrato in grado di rispettare l’impegno, i militari avrebbero dovuto sostituirlo e accordarsi per un indennizzo con gli organi amministrativi croati ad esso preposti. L’approvvigionamento della Dalmazia, così come per tutte le altre province, venne assegnato alla sezione “nutrizione” del Ministero per l’Agricoltura e delle Foreste che faceva arrivare alle tre province gli alimenti necessari57. Sebbene l’approvvigionamento della Dalmazia fosse difficile l’amministrazione italiana riuscì a provvedere in modo abbastanza efficace al nutrimento della popolazione58. Ciò fu riconosciuto anche da David Sinčić, commissario generale croato presso la 2ª Armata italiana, nella primavera del 1943. Egli esortò anche a emulare i procedimenti italiani nelle province confinanti per dimostrare alla popolazione che lo Stato croato era in grado di provvedere ai suoi bisogni59.

23 Anche nella seconda e nella terza zona le autorità italiane e croate litigavano senza sosta riguardo agli approvvigionamenti. I primi si lamentavano con le autorità croate che gli alimenti non arrivassero con i tempi giusti; i secondi accusavano invece l’esercito italiano di ostacolare i trasporti così come di sequestrare cibo e mezzi di trasporto60.

24 Nel gennaio del 1942 il generale Ambrosio si lamentò con l’intermediario croato perché non si era ancora fatto nulla almeno per impedire che l’approvvigionamento «per motivi politici e umanitari» non peggiorasse ulteriormente61. Anche le autorità locali croate scrissero un’infinità di rapporti allarmati ai loro superiori, ma la situazione generale non cambiò affatto62.

25 Ogni tanto, per non dire raramente, si riuscì ad avere una buona collaborazione fra le autorità militari italiane e croate. Così per esempio l’esercito italiano consegnò alle autorità croate, come concordato, determinati alimenti affinché fossero distribuiti fra la popolazione63.

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26 A causa della situazione bellica non fu possibile ottenere un considerevole miglioramento della situazione, tuttavia gli italiani posero in essere una politica che consentì loro di ottenere alcuni successi. Così, dopo la distribuzione della farina a Makarska e nei dintorni, i contadini dei paesi vicini portarono di nuovo i loro prodotti al mercato e così la situazione alimentare migliorò un po’. Furono i contadini a elaborare questo sistema perché le autorità locali croate a Makarska non avevano distribuito alimenti razionati – come la farina – che sarebbero spettati a loro, così come al resto della popolazione64.

5. Problema dell’approvvigionamento nell’entroterra croato (seconda e terza zona)

27 Le coste dalmate rimaste alla Croazia e l’entroterra dalmata erano le zone che più di altre soffrivano di carenze alimentari. Nell’autunno del 1941 sia le autorità croate sia quelle italiane da punti diversi della seconda zona fecero sapere che alcuni generi alimentari scarseggiavano e che i prezzi stavano salendo vertiginosamente. Della mancanza di generi alimentari soffrivano in modo particolare i serbi visto che appartenevano alla parte più povera della popolazione65. Si trattava di persone che in estate si erano rifugiate nelle foreste per sfuggire agli attacchi degli Ustascia e dopo la rioccupazione operata dalla 2ª Armata italiana furono inviati con il bando 7 settembre a rientrare nelle loro case66. Già nel settembre del 1941 si ebbe notizia di morti per fame. Per alleviare il problema l’esercito italiano distribuì farina alla popolazione addebitandola al NDH67. In particolari occasioni – come il compleanno di Ante Pavelić, per l’entrata in servizio di Mario Robotti come comandante della 2ª Armata o quando una personalità visitava una località – si provvedeva in egual modo dalla distribuzione di alimenti68.

28 Nella primavera del 1943 si verificò una nuova crisi alimentare nell’Erzegovina e sulla costa. Dubrovnik, Mostar e le isole croate furono particolarmente colpite69. La situazione fu aggravata dalla devastazione causata dall’operazione Weiß e dalla ritirata dell’esercito italiano da alcune guarnigioni che causò un’ondata di profughi verso la costa. Al governo croato non rimase che chiedere aiuto a Germania e Italia. La Germania inviò mais e patate, ma non rispettò le quantità promesse70. In aprile mise a disposizione altre dodicimila tonnellate di cereali e si disse disposta a occuparsi dell’approvvigionamento dell’esercito croato per tenerlo in grado di combattere. Il NDH aveva però bisogno di ulteriori trentamila tonnellate per garantire l’alimentazione della popolazione. Il Reich in questo senso promise «le quantità di cibo essenziali»71.

29 Allo stesso tempo il commissario generale amministrativo croato presso la 2ª Armata italiana cercò di trovare un accordo con le autorità militari italiane per l’approvvigionamento delle regioni costiere oltre Trieste e Fiume, così come ulteriori rifornimenti per le città di Ragusa e Almissa72. Poiché il Supersloda73 già in marzo aveva inviato sette vagoni di alimenti alle due città e dato che la maggior parte degli alimenti che erano stati messi a disposizione dal 1941 non erano stati pagati dallo Stato croato, le autorità italiane non erano propense a mettere a disposizione nuove derrate alimentari fino a quando non fossero stati saldati i vecchi conti74. Nel complesso gli italiani avevano consegnato fino al 30 giugno 1943 1665,2 tonnellate di farina, 171,7 di pasta, 143,7 di riso e 17,6 di carne, limitandoci agli alimenti più importanti. Di questi i croati furono in grado di rimborsare 16,7 tonnellate di farina, 12 di farina di mais, 0,4 di

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pasta, 0,5 di riso e 0,4 di carne75. Tuttavia per ragioni politiche e sulla base di considerazioni di carattere militare la 2ª Armata distribuì altri alimenti. Al 24 aprile 1943 si arrivò a 340 tonnellate di farina di cui solo per Dubrovnik 150. L’ambasciatore croato ringraziò a fine luglio per l’aiuto che la 2ª Armata aveva prestato alla popolazione indigente dopo un’operazione militare nella zona del Biokovo76. Il generale Robotti volle comunque indicazioni dai suoi superiori sui comportamenti che avrebbe dovuto tenere in futuro sulla base di motivazioni politico-militari77.

30 Un ulteriore problema era rappresentato dai profughi che si erano spostati, al seguito dell’esercito italiano, verso la costa. Lo Stato croato si occupava di loro in modo insufficiente. Nonostante il divieto imposto al Supersloda di distribuire ulteriori alimenti fu di nuovo l’esercito italiano a farsi carico del loro sostentamento. In questo modo il prestigio italiano, la calma e l’ordine, così come condizioni sanitarie dignitose, sarebbero state mantenute. Mentre le guarnigioni italiane distribuivano gli alimenti più necessari si fece pressione sul governo croato affinché si facesse carico direttamente delle esigenze dei profughi78.

31 Nelle città di Kraljevica e Crikvenica le razioni mensili erogate dalle autorità croate consistevano in 15 chili di patate, un chilo e mezzo di verdure, tre chili di mais, seicento grammi di pasta, un chilo di farina, un quarto di litro d’olio. Le autorità militari italiane definirono queste quantità come palesemente insufficienti e vollero integrarle almeno con zucchero, pomodori in scatola e formaggio79.

32 I militari italiani utilizzarono la situazione degli approvvigionamenti anche per accattivarsi le simpatie della popolazione, soprattutto a Dubrovnik e sulle isole, in modo da ottenere una posizione favorevole per futuri aggiustamenti di confine. A Dubrovnik nel 1942 gli italiani fecero una forte propaganda che estesero anche ai paesi vicini. A questo scopo venne aperta una scuola elementare e un liceo in cui distribuivano gratuitamente cibo e vestiti. Alcuni rapporti delle autorità croate fecero presente che le misure erano popolari tra la parte più povera della popolazione. Secondo il rapporto fino a quel momento già millesettecento persone avevano fatto richiesta di entrare in territorio italiano80.

33 L’incapacità del NDH di fare fronte all’approvvigionamento per le isole di Brač e Hvar che si trovano di fronte a Spalato fu utilizzata per lo stesso scopo. Dopo che all’isola vennero messi a disposizione alimenti dal consorzio cooperativo di Spalato, si accumularono voci che sostenevano la necessità di chiedere un’annessione all’Italia. Si cercava di suscitare questo stato d’animo continuando ad approvvigionare l’isola prendendo come contropartita ciò che essa poteva offrire (soprattutto olio, olive e legno). Allo stesso tempo si cercava di privare di potere in misura crescente i funzionari croati: ciò avrebbe sostenuto la tendenza autonomista su entrambe le isole. Su altre isole si svilupparono simili dinamiche. Il governatore della Dalmazia organizzò uno scambio di beni con l’isola di Pag che avrebbe dovuto migliorare la situazione degli approvvigionamenti alimentari e «le relazioni tradizionali con Zara». A Pag si giunse a una guerra aperta fra gli abitanti per decidere a chi dovesse appartenere l’isola. A seguito della richiesta di cento capifamiglia e di alcune madri arrabbiate, insieme ai loro figli, di annessione all’Italia si tenne una manifestazione di circa duecento Ustascia per la permanenza in Croazia81.

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6. Questione degli approvvigionamenti e lotta ai partigiani

34 Già altri eserciti avevano usato la leva dei rifornimenti come arma nella lotta contro gli insorti. Se questo elemento non può quindi essere considerato come una peculiarità del tentativo italiano di costruzione di un impero, tuttavia deve essere incluso nel quadro. Tutti coloro che non accettavano il dominio italiano e che o si erano uniti ai partigiani o li “sostenevano”, almeno agli occhi degli italiani – per quanto questo “sostegno” potesse essere giustificato a piacimento dall’esercito italiano e dalle autorità locali – vennero puniti anche con la sottrazione di cibo. Coloro che, al contrario, si comportavano in modo collaborativo o quantomeno neutrale, venivano premiati anche con approvvigionamenti alimentari.

35 La fame non si limitava a demoralizzare la popolazione, ma la spingeva fra le braccia degli insorti comunisti. Le autorità locali croate fecero notare che una tale situazione poteva essere facilmente sfruttata dalla propaganda nemica. La popolazione avrebbe dato la colpa della miseria allo Stato croato e sarebbe stata quindi molto più sensibile alla propaganda dei partigiani82.

36 Quando i partigiani iniziarono a proclamare di voler trattare bene la popolazione e di volersi occupare del suo sostentamento nelle aree sotto il loro controllo, gli occupanti furono costretti a fare lo stesso per evitare che sempre più persone passassero dalla loro parte83. Anche gli occupanti dovettero riconoscere che perfino la migliore propaganda falliva quando «fame e stenti iniziavano a colpire la vita del popolo». La Wehrmacht tuttavia si rese conto che «l’energico sostegno e aiuto alla popolazione» avrebbe rappresentato la miglior forma di propaganda solamente nell’estate del 194384. Fino alla capitolazione dell’Italia la Wehrmacht si trovava a occupare principalmente le regioni croate più floride dal punto di vista alimentare dove il problema era meno sentito. Inoltre le autorità tedesche per rispetto della formale sovranità della Croazia (presa a cuore in particolare dal Ministero degli Esteri) non avevano né effettuato propaganda né si erano occupate del sostentamento della popolazione85. Entrambe queste decisioni vennero modificate a partire dal 1943 anche se la propaganda tedesca riguardava essenzialmente la lotta al mercato nero e in generale allo sforzo di aumentare e mettere in sicurezza i raccolti e non menzionava spesso aiuti materiali86.

37 Per gli italiani al contrario nell’economia della lotta ai partigiani la distribuzione di cibo ebbe un ruolo relativamente grande. L’obiettivo era tenere la popolazione lontana dai comunisti grazie a un’equa distribuzione del cibo alla popolazione. Queste misure, in sé del tutto positive per la popolazione, vennero tuttavia affiancate dall’esercito italiano a una metodologia criminale di lotta ai ribelli.

38 I paesi o le regioni che venivano identificate come “comuniste” sulla base di un assalto che era avvenuto da quelle parti o perché da un certo luogo alcune persone si erano rifugiate nelle foreste, venivano escluse dai rifornimenti. Così un villaggio non ricevette più alimenti dopo che i partigiani avevano ucciso una famiglia filo-italiana87. Dopo che il prefetto della provincia di Zara, Vezio Orazi, venne ucciso il 26 maggio 1942 in un agguato, Bastianini ordinò la sospensione della distribuzione di cibo per i villaggi che si trovavano nelle vicinanze del luogo dell’agguato88. Quando a Brač nell’aprile del 1942 vennero rapiti un tenente e tre ragazze dai partigiani e il primo, nonostante un ultimatum, non venne liberato il comandante della divisione “” ordinò di

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uccidere quattro ostaggi come ritorsione e prese delle misure anche in relazione all’invio di alimenti: «Proprio oggi avevo deciso di mettere a disposizione dei più bisognosi una grossa quantità di riso e di farina, una concessione che naturalmente ora ho ritirato»89. A volte però si fecero anche altre indagini per non interrompere la fornitura di cibo alla parte “sana” (secondo la prospettiva italiana) della popolazione90. Le persone che collaboravano con gli italiani (per esempio aiutando i soldati italiani che scappavano dai partigiani) venivano privilegiate nella distribuzione degli alimenti91. Ciò provocò ripetutamente proteste croate contro le distribuzioni di cibo ai serbi: secondo loro in questo modo gli alimenti avrebbero trovato direttamente la loro strada verso i partigiani. Tuttavia i comandanti italiani non accettarono una simile intromissione nei loro affari92.

39 Nella propaganda per i soldati che – come ha argomentato in modo convincente Amedeo Osti Guerrazzi – si trovava in un dilemma insolubile fra il discredito di tutti gli slavi e la discriminazione fra la «popolazione amica» e i «banditi»93, si fece sempre più ricorso alla missione civilizzatrice dell’Italia. Per esempio su «La tradotta» del 29 novembre 1942 venne pubblicata una foto che mostrava un soldato nell’atto di porgere un pezzo di pane a un ragazzo piccolo e gracile. La foto venne corredata da un breve articolo dal titolo «Latinità» in cui da una parte veniva idealizzata la generosità dei soldati italiani di fronte alla popolazione e dall’altra si metteva in guardia dai «serpenti» comunisti. L’articolo si concludeva con: «Ma siamo sufficientemente grandi e civili e forti nelle armi per sfamare un fanciullo innocente, e distruggere senza alcuna pietà e sino all’ultimo chi si mostri nemico di Roma»94.

40 Questa percezione che l’esercito italiano aveva di sé includeva entrambi i pilastri della costruzione imperiale: la forza militare così come la superiorità civilizzatrice.

41 I rifornimenti sottoposti a regolazioni portarono sì dei risultati, ma non riuscirono a impedire la resistenza alla dominazione italiana. La repressione dei militari italiani nei confronti della popolazione civile che andava dalla distruzione di interi paesi fino all’esecuzione di ostaggi pesava più di qualunque altra misura positiva. I saccheggi operati dai soldati italiani ebbero le stesse conseguenze. Quando nell’agosto del 1943 si tornò a chiedere all’Italia di occuparsi dei rifornimenti delle zone costiere il dipartimento per la Croazia del Ministero per gli Affari Esteri mise in chiaro che, nonostante il pagamento da parte dei croati fosse incerto, era necessario farsene carico. In questo modo si tentò di operare una sorta di risarcimento per le distruzioni operate in precedenza95. Se effettivamente dal punto di vista dei danni materiali queste misure potevano in parte migliorare la situazione le vite umane falciate dalla guerra contro i partigiani non erano risarcibili.

7. Conclusione

42 L’Italia fascista ha cercato di costruire un impero che potesse fondarsi sulla civilizzazione romana. Con l’esempio dei rifornimenti alimentari allo Stato indipendente di Croazia è stato qui mostrato come le autorità italiane, principalmente militari, si siano poste di fronte al problema. L’argomento centrale si basa sull’ipotesi che esse fossero influenzate da un idealtipo fascista dell’Impero romano. In questo senso hanno giocato un ruolo sia la spietatezza dimostrata nei confronti dei nemici, sia l’offerta di inclusione offerta alla popolazione che avrebbe dovuto essere integrata nell’Impero. Quando le autorità italiane furono messe concretamente di fronte alla

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disastrosa situazione alimentare si resero conto che era giunto il momento di attaccare per difendere il “prestigio” italiano, per legittimare le rivendicazioni su queste aree e per mettere in pratica la rappresentazione “imperiale” del loro modo di agire.

43 Nelle zone annesse e occupate dello Stato indipendente di Croazia la politica alimentare dell’esercito italiano aveva alcuni obiettivi principali. In prima battuta si desiderava portare avanti una politica anticroata il cui scopo era far sì che determinati territori finissero saldamente in mani italiane. Inoltre la popolazione doveva essere convinta della bontà dell’idea di un impero fascista italiano e dei vantaggi (migliori approvvigionamenti medici, progetti di infrastrutture e migliori rifornimenti) che avrebbe comportato il farne parte, mentre i tedeschi nel loro impero dell’Est europeo lasciavano morire di fame la popolazione96. I fascisti videro gli aiuti alimentari come un modo per influenzare a piacimento la popolazione e per portare avanti sia una strategia a breve termine sia obiettivi imperiali nel lungo periodo97. I militari italiani capirono anche prima dei loro colleghi tedeschi che un trattamento generalmente corretto della popolazione civile, di cui l’approvvigionamento alimentare era parte determinante, poteva essere un’arma nella lotta contro i ribelli.

44 Tuttavia questa strategia non ebbe successo perché questi benefici vennero vanificati al contempo nella lotta militare contro i partigiani. L’esercito italiano adottò gli stessi sistemi di lotta dei loro alleati di cui fecero le spese le stesse popolazioni di cui ci si voleva accattivare le simpatie.

NOTE

1. BEN-GHIAT, Ruth, Italian fascism’s empire cinema, Bloomington, Indiana University Press, 2015. 2. BURGWYN, James H., Empire on the Adriatic. Mussolini’s Conquest of Yugoslava 1941-1943, New York, Enigma Books, 2005; RODOGNO, Davide, Fascism’s European Empire: Italian Occupation During the Second World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2006 [ed. orig.: Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003]; LABANCA, Nicola, L’Impero del fascismo. Lo stato degli studi, in BOTTONI, Riccardo (a cura di), L’impero fascista: Italia ed Etiopia (1935-1941), Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 35-61. Per quel che riguarda il tema qui trattato, si veda a p. 37. 3. GENTILE, Emilio, The Sacralization of Politics in Fascist Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 159-160. 4. In italiano nel testo originale così come tutte le espressioni in corsivo che si ritrovano nell’articolo. [N.d.T]. Per la ricerca storica l’immagine del bravo italiano può considerarsi superata. Questo tipo di argomentazione si ritrova soprattutto in testi non recenti e comunque di spessore che si concentrano principalmente su alcuni aspetti dell’occupazione come la politica nei confronti degli ebrei. Cfr. STEINBERG, Jonathan, Deutsche, Italiener und Juden. Der italienische Widerstand gegen den Holocaust, Göttingen, 1992 [ed. orig.: All or Nothing: The Axis and the Holocaust 1941-43, London, Routledge, 1990]; SHELAH, Menachem, Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito Italiano e gli Ebrei di Dalmazia (1941-1943), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 1991.

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5. I lavori più importanti sulla Jugoslavia sono sicuramente RODOGNO, Davide, Il nuovo ordine mediterraneo, cit.; KNOX, MacGregor, «Das faschistische Italien und die “Endlösung” 1942/43», in Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte, 55, 1/2007, pp. 53-92; CONTI, Davide, L’occupazione italiana dei Balcani. Tra crimini di guerra e mito della brava gente, Roma, Odradek, 2008; CACCAMO, Francesco, MONZALI, Luciano (a cura di), L’occupazione italiana della Iugoslavia (1941-1943), Firenze, Le Lettere, 2008. I primi a essersi occupati della dimensione criminale dell’occupazione italiana furono tuttavia COLLOTI, Enzo, SALA, Teodoro (a cura di), Le potenze dell’Asse e la Jugoslavia. Saggi e Documenti 1941/43, Milano, Feltrinelli, 1974. 6. Questo approccio è stato seguito per esempio da TÖNSMEYER, Tatjana, «Hungerökonomien. Vom Umgang mit der Mangelversorgung im besetzten Europa des Zweiten Weltkriegs» in Historische Zeitschrift, 301, 3/2015, pp. 662-704. 7. GENTILE, Emilio, La nazione del fascismo. Alle origini del declino dello Stato nazionale, in SPADOLINI, Giovanni ( a cura di), Nazione e nazionalità in Italia. Dall’alba del secolo ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 65-124, specialmente alle pp. 68 et seq.; GENTILE, Emilio, La grande Italia, Roma- Bari, Laterza, 1997, p. 172; ZUNINO, Pier Giorgio, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 356-358. Questa idea si affermò in modo particolare dopo la conquista dell’Etiopia. 8. JUREIT, Ulrike, Das Ordnen von Räumen. Territorium und Lebensraum im 19. und 20. Jahrhundert, Hamburg, Hamburger Edition, 2012, in particolare alle pp. 287-386; RÖSSLER, Mechthild, SCHLEIERMACHER, Sabine (herausgegeben von), Der „Generalplan Ost“. Hauptlinien der nationalsozialistischen Planungs- und Vernichtungspolitik, Berlin, Akademie Verlag, 1993. Il „Generalplan Ost“ si trova online, URL: < http://www.1000dokumente.de/index.html? c=dokument_de&dokument=0138_gpo&object=translation&st=&l=de > [consultato il 14 ottobre 2017]. 9. GENTILE, Emilio, La Grande Italia, cit., pp. 172-182. 10. Cfr. RODOGNO, Davide, Sogni di conquista e realtà delle occupazioni fasciste in Europa, 1940-1943, in GRIBAUDI, Gabriella (a cura di), Le guerre del Novecento, Napoli-Roma, L’Ancora del Mediterraneo, 2007, pp. 113-121, pp. 116 et seq. 11. Per una dettagliata analisi del concetto di romanità sotto il Fascismo si rinvia a NELIS, Jan, From ancient to modern: The myth of romanità during the ventennio fascista. The written imprint of Mussolini’s cult of the “Third ”, Bruxelles-Roma, Institut Historique belge de Rome, 2011, in particolare le pp. 36, 169. Si veda anche la voce «Romanità» in De GRAZIA, Victoria, LUZZATTO, Sergio (a cura di), Dizionario del fascismo, Vol. 2, Torino, Einaudi, 2003, pp. 539-541. 12. STONE, Marla, A flexible Rome: Fascism and the cult of romanità, in EDWARDS, Catharine (ed.), Roman Presences: Receptions of Rome in European Culture, 1789-1945, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1999, pp. 205-220, p. 205; NELIS, Jan, From ancient to modern, cit., pp. 40, 171. 13. VISSER, Romke, «Fascist Doctrine and the Cult of the Romanità», in Journal of Contemporary History, 27, 1/1992, pp. 5-22, in particolare pp. 15-17. 14. GENTILE, Fascismo di pietra, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 206; STONE, Marla, A Flexible Rome, cit., pp. 208-219. 15. NELIS, Jan, «Imperialismo e mito della romanità nella Terza Roma Mussoliniana», in Forum Romanum Belgicum, 2012, p. 7, URL: < http://kadoc.kuleuven.be/bhir-ihbr/doc/ 3_forum_nelis.pdf > [consultato il 27 febbraio 2017]. 16. HORY, Ladislaus, BROSZAT, Martin, Der kroatische Ustascha-Staat, 1941-1945, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1964. 17. SUNDHAUSSEN, Holm, Wirtschaftsgeschichte Kroatiens im nationalsozialistischen Großraum 1941-1945. Das Scheitern einer Ausbeutungsstrategie, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1983. 18. GOBETTI, Eric, Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2001; SADKOVICH, James, Italian Support for Croatian Separatism 1927-1937, New York, Garland, 1987.

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19. Bundesarchiv (Archivio di stato tedesco, BArch), RH 31-III/8, Nr. 18, Bericht der deutschen Gesandtschaft an das Auswärtige Amt, 31.12.1941. 20. Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito (AUSSME), N. 1-11 Diari storici seconda guerra mondiale (DS) 583, b. 154, no. 3, Proclama alla popolazione, 7 settembre, 1941. 21. Ibidem, b. 543, All. 167 al DS di ottobre 1941, Comando della divisione fanteria “RE”, Uff. Affari civili, Relazione, 15 ottobre 1941. 22. Vojni Arhiv (Archivio militare, VA), TA, k. 91, reg. br. 2/4-6, Operazioni contro i ribelli, 13.1.1942; LEGNANI, Massimo (a cura di), «Il “ginger” del generale Roatta Le direttive della 2ª Armata sulla repressione antipartigiana in Slovenia e Croazia», in Italia Contemporanea, 209-210, 1997-1998, pp. 155-174, pp. 161 et seq. 23. VA, TA, k. 694, reg. br. 29/2, Danneggiamenti, 21.7.1943. 24. Ci limitiamo a citare una piccola selezione dei documenti sull’argomento: AUSSME, DS, b. 646, All. 294, al DS, Rapporto situazione per il mese di Aprile 1942; AUSSME, DS, b. 1426, All. 67, al DS, Comando V CdA, Controguerriglia e distruzione di case, 6.6.1942; AUSSME, DS, b. 782, All. 235, al DS, Relazione sull’operazione di Velebit, 2.8.42; AUSSME, DS, b. 646, All. 5, al DS Marzo 1942, Telescritto XVIII CdA al Comando 2. Armata; HDA, OUP, k. 41, Nr. 16509, Mostar, 4.5.1943; HDA, OUP, k. 24, Nr. 14795, Rapporto dal Kotarska Oblast Gračac, Sušak, 2.9.1942. 25. NAW, T-821, R. 278, Nr. 423-430, Notiziario Politico Militare, 17.05.1941. 26. Archivio storico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE), Gabinetto armistizio-pace (GAB- AP) 1923-1943, b. 1493, Rapporto dall’Ispettore Generale di P.S., Zagabria, 17.6.1941. 27. BArch, RH 31-III/5, Bericht „Die Volksernährung in Kroatien“ vom Chef der kroatischen Militärpropaganda, Donegani, Zagreb, 4.10.1942. 28. SUNDHAUSSEN, Holm, op. cit., p. 265; PA-AA, Gesandtschaft Zagreb, Geheimakten, P. 2, Anlage zum Bericht vom 12. Mai 1942, Kult LA-846/42. 29. Protokoll der Sitzung vom 19.1.1942, in JAREB, Jere, Državno gospodarstveno povjereništvo Nezavisne Države Hrvatske od kolovoza 1941. do travnja 1945. godine. Dokumentarni prikaz, Zagreb, Hrvatski Institut za povijest, 2001, pp. 136 et seq. 30. Hrvatski Državni Arhiv [Archivio di Stato Croato, HDA], Opće upravno povjereništvo. [Commissariato Generale Amministrativo Croato, OUP], k. 12, Nr. 13285, Autorità locali di Dubrovnik al Commissariato Civile Croato, 17.2.1942; HDA, OUP, k. 18, Nr. 13974, Autorità locali di Prozor al Commissariato Civile Croato, 17.5.1942; HDA, OUP, k. 2, Nr. 11854, Snabdijevanje Talijanske vojske hranom, 18.9.1941. 31. SUNDHAUSSEN, Holm, op. cit., p. 267, in particolare la nota 238. 32. Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes [Archivio Politico del Ministero degli Affari Esteri Tedesco,PA-AA], Gesandtschaft Zagreb, Geheimakten, P. 2, D kult 3 – A 167/42 – Ang.II, Propagandatätigkeit in den Monaten März und April 1942. 33. SUNDHAUSSEN, Holm, op. cit., p. 266. 34. Zbornik, IX/3, Nr. 193, Uputstvo Štaba 12. krajiške brigade 4. krajiške NOU divizije od 14. juna 1943. štabovima bataljona o političkom radu i pravilnom postupku prilikom pribavljanja materijalnih sredstava od naroda, pp. 813-815; Per furto ai campi dei contadini i partigiani arrestati venivano puniti con la morte e la loro condanna veniva resa nota alla popolazione. Arhiv Jugoslavije (Archivio della Jugoslavia, AJ), Fond 110, Inv. Br. 15224, Nr. 597-639, Oglas. 35. BArch, RH 21_2/754, pag. 82, Aufruf zur Ernte durch Partisanen. 36. TALPO, Oddone, Dalmazia. Una cronaca per la storia, vol. 3, Roma, Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito, 1994, Situazione alimentare in Croazia, 24.4.1943, pp. 553-555. 37. HDA, OUP, k. 17, Nr. 18906, OUP Komandi 2. Armije, Sušak, 24./25 4.1942; LEPRE, George, Himmler’s Bosnian Division. The Waffen-SS Handschar Division 1943-1945, Atglen, Schiffer Military History, 1997, pp. 1174 et seq. 38. BArch, RH 31-III/5, „Die Volksernährung in Kroatien; BArch, RH 31-III/9, Aktenvermerk: Zur Serbenfrage im kroat. Raume, 1.9.1942.

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39. VA, NDH, k. 69, reg. br. 3/17-7, Zapovjedničtvo II. Domobranskog zbora, doglasno izvješće 1.-16.2.1942. 40. AUSSME, DS, b. 580, b. 33, Nr. 9, Comando VI CdA, Notiziario Nr. 5, 5.5.1941. 41. BArch, RH 26-114/26, Überwachung der Zivilbevölkerung, 10.10.1943. All’inizio del 1943 cento kune valevano ufficialmente trentotto lire, ma le banche di Spalato pagavano solo diciassette lire. In questo periodo per esempio un litro d’olio costava quattrocentosessanta kune (centosettantacinque lire), sempre che fosse disponibile sul mercato. AUSSME, DS, b. 1068, All. 205, al DS feb. 1943, Relazione mensile sul servizio „A“ 15.1. – 15.2.1943. 42. PA-AA, Gesandtschaft Zagreb, Akten, P. 98, W4 – 368/41, Verbalnote, Zagreb, 9.6.1941. Il Reich però non esaudì la richiesta. 43. DIKULIĆ, Marjan, «Vrsi pod talijanskom okupacijom u Drugom svjetskom ratu», in Radovi Zavoda za povijesne znanosti HAZU u Zadru, 49, 2007, pp. 721-783, p. 728; BARBARIĆ, Juraj, Talijanska politika u Dalmaciji 1941. godine, Split, Institut za historiju radničkog pokreta Dalmacije, 1972, pp. 154 et seq. 44. AUSSME, DS; b. 580, b. 35, Nr. 5, Comando VI CdA, Foglio d’ordini, 7.5.1941; US National Archives and Records Administration (NARA), T-821, R. 278, Nr. 431-440, Notiziario Politico Militare, 31.5.1941. Simili rapporti arrivarono dal commissario civile per la Dalmazia così come da singoli comandanti di divisione. 45. AUSSME, DS, b. 580, rac. 33, Nr. 9, Comando VI CdA, Notiziario Nr. 5, 5.5.1941. 46. AUSSME, DS, b. 726, All. 506, Ministero della Guerra – Gabinetto, 23.4.1941; AUSSME, DS, b. 726, All. 548, Stato Maggiore, Cessione di derrate alle popolazioni locale, 13.5.1941. 47. AUSSME, DS, b. 332, All. 16, Notiziario n. 4, giugno 1941. 48. AUSSME, DS, b. 332, All. 12, Riordinamento ed addestramento dei reparti – circolare 10 U.C. – SMRE, Danni alle coltivazioni, 4.6.1941. 49. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1512, Protocollo dell’accordo relativo all’approvvigionamento della Dalmazia da parte della società “Pogod”, Zagabria, 12.5.1941. 50. RAMET, Sabrina P., Die drei Jugoslawien. Eine Geschichte der Staatsbildungen und ihrer Probleme, München, De Gruyter Oldenbourg, 2011, p. 184. 51. AUSSME, DS, b. 449, All. 14, Notiziario Nr. 19, 2.8.1941. 52. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1512, Lettera di Giuseppe Bastianini a Luca Pietromarchi, Roma, 10.7.1941. 53. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1512, Lettera di Bastianini a Pietromarchi, Zara, 14.7.1941 e tre allegati. 54. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1512, Appunto per la R. Legazione, Zagabria, 15.7.1941. 55. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1512, Approvvigionamento della Dalmazia, 12.8.1941. Per esempio i macellai di Sebenico non potevano portare in Dalmazia i beni comprati in Croazia. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1512, Telegramma di Bozzi a Bastianini, senza data [luglio 1941]. 56. ASMAE, GAB-AP 1923-1945, b. 1498, accordo italo-croato sulla soppressione delle linee doganali tra Dalmazia e Croazia, 28.10.1941; AUSSME, DS, b. 543, All. 398, al DS di novembre 1941, Provvedimenti conseguenti all‘accordo italo-croato sulla soppressione delle linee doganali, 13.11.1941. 57. VA, NDH, k. 310a, reg. br. 2/24, Zaključci hrvatsko-talijanskog gospodarskog povjereništva o gospodarskim pitanjima na područjima u kojima se obavljaju vojničke operacije, prilog A, Zagreb, 27.10.1941; ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1512, Coordinamento e funzionamento dei Servizi dell’Alimentazione per la Dalmazia, Roma, 6.11.1941. 58. Così vennero distribuiti ancora all’inizio di settembre gli alimenti previsti sull’isola di Rab: due chili e mezzo di farina, un po’ di pasta, riso, olio, grasso e sapone. Yad Vashem, O 33, Nr. 8367: Tagebuch eines unbekannten Mönches, Eintrag vom 8.9.1943. Questo è particolarmente degno di nota perché la situazione alimentare in Italia era tutt’altro che buona. Cfr. MORGAN, Philip, The

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Fall of Mussolini. Italy, the Italians and the Second World War, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 61 et seq. 59. HDA, Ministarstvo vanjskih poslova [Ministero degli affari esteri, MVP], k. 4, T. I. 88, OUP Ministrastvu vanjskih poslova na ruke Min. Dr. Lorkovića 13.3.1943. 60. HDA, OUP, k. 10, Nr. 13065, 2ª Armata al Commissariato Generale Amministrativo, Sussa, 24.11.1941; HDA, OUP, k. 28, Nr. 15314, Ministrastvo vanjskih poslova općem upravnom povjereništvu, novembre 1942. 61. NARA, T-821, R 197, Nr. 888 f., 2. Armata al Commissariato Generale Amministrativo, 10.1.1942. 62. HDA, OUP, k. 17, Nr. 13785, OUP Ministarstvu unutarnjih poslova, 25.5.1942; HDA, OUP, k. 11, br. 13082, Velika Župa Cetina Općem upravnom povjereništvu, Sinj, 22.1.1942. 63. AUSSME, DS, b. 525, All. 39, Lettera al comandante divisione Marche, 17.2.1942; HDA, OUP, k. 3, Nr. 12046, OUP Ministarstvu Unutarnjih Poslova, Sušak, 28.10.1941; NARA, T-821, R. 294, Nr. 78, Il Commissario generale Amministrativo al Comando della 2ª Armata, Sussa, 30.7.1943. 64. AUSSME, DS, b. 881, All. 102, al DS settembre 1942, Relazione mensile sul servizio “P” dal 15 agosto al 15 settembre 1942. 65. HDA, OUP, k. 12, Nr. 13239, Comando della 2° Armata al Commissariato Generale Amministrativo dello Stato Indipendente di Croazia, 4.12.1941 HDA, OUP, k. 2, Nr. 11854, OUP Državnom Ravnateljstvu za Prehranu NDH, Sušak, 25.9.1941; ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1497, Situazione in Erzegovina, 23.10.1941. 66. AUSSME, DS, b. 583, rac. 157, Nr. 3, Bando 7 settembre 1941. 67. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1512, Situazione alimentare nella Dalmazia Croata, Zagreb, 5.9.1941; ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1504, Telespresso GAB-AP an R. Legazione a Zagabria, 24.9.1941.HDA, OUP, k. 16, Nr. 13708, Corrispondenza tra il Comando della 2ª Armata e il Commissariato Generale Amministrativo dello Stato Indipendente di Croazia, gennaio-marzo 1942. 68. HDA, OUP, k. 41, Nr. 16536, Comando della 2ª Armata ai comandi dei CdA, Sussa, 12.6.1943; HDA, OUP, k. 40, Nr. 16381, Comando della 2ª Armata, Sussa, 11.5.1943; ORTONA, Egidio, «Diario sul Governo della Dalmazia (1941-1943)», in Storia Contemporanea, 18, 6/1987, p. 1365-1403, p. 1373. 69. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Casertano an GAB-AP, Zagreb, 27.3.1943. 70. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Casertano, an GAB-AP, Zagreb, 28.3.1943. 71. PA-AA, Büro des Staatssekretärs (StS) Kroatien, Bd. 4, R. 29.668, Nr. 693, Nr. 428f., Auswärtiges Amt (AA) an Botschafter von Rintelen, Berlin, 26.4.1943; BA-MA, RH 31-III/9, Nr. 49f., Vorsprache des Dt. Bev. Generals beim Poglavnik am 20.5.1943. 72. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Verbale della riunione circa il rifornimento dei viveri alle popolazioni croate della costa e dell’interno, 24.3.1943. 73. Il comando della seconda armata italiana venne rinominato nel maggio del 1942 “Comando supremo forze armate Slovenia e Dalmazia”, abbreviato in Supersloda, e fu posto direttamente alle dipendenze del Comando supremo. 74. HDA, MVP, k. 2, Brzojavi iz 1943.,Poslanstvo Nezavisne Države Hrvatske u Rimu Ministarstvu Vanjskih Poslova, Roma, 31.3.1943. Il comando dell’esercito proibì al Supersloda di distribuire altri alimenti fino a quando i croati non avessero pagato i loro debiti. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Ufficio collegamento II. Armata an GAB-AP, 17.4.1943; ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Ufficio collegamento II. Armata an GAB-AP, 26.3.1943. 75. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Totale generale delle cessioni, restituzioni e rimanenze da parte delle autorità civili e militari croate dall’inizio fino al 30 giugno 1943. 76. NARA, T-821, R. 294, Nr. 78, OUP al Comando della 2ª Armata, Sussa, 30.7.1943. 77. TALPO, Oddone, op. cit., vol. 3, Situazione alimentare in Croazia, 24.4.1943, pp. 553-555.

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78. HDA, OUP, k. 41, Nr. 16540, 16550, Corrispondenza tra il Comando della 2. Armata e il Commissariato Civile Croato, Sussa, 18./20.6.1943; HDA, OUP k. 36, Nr. 16021, Sinj, Juni 1943.ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Castellani al GAB-AP, 23.5.1943; HDA, OUP, k. 41, Nr. 16550, Comando 2ª Armata al Commissariato Generale Croato, Sussa, 20.6.1943; HDA, OUP k. 38, Nr. 16259, Comando Supersloda al Commisariato Generale Croato, Sušak, 7.4.1942. 79. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Ufficio di collegamento con il comando della 2ª Armata al GAB-AP, Ufficio Croazia, 7.5.1943. 80. VA, NDH, k. 320, reg. br. 2/10-99, Ministarstvo unutarnjih poslova Ministarstvu vanjskih poslova, Zagreb, 8.10.1942. 81. NARA, T 821, R 401, Nr. 232-235, Il Governatore della Dalmazia, Giuseppe Bastianini, al Generale Mario Roatta, Comandante Superiore FF.AA. Slovenia-Dalmazia, Zara, 3.11.1942; T 821, R 401, Nr. 244f., Il Governatore della Dalmazia al Comandante della 2ª Armata, Zara, 22.4.1942; T 821, R 401, Nr. 251 f., 258. 82. HDA, OUP, k. 14, Nr. 13464, Brzojav lokalnih vlasti u Trebinju Ministrarstvu Unutarnjih Poslova, marzo 1942; HDA, OUP, k. 11, Nr. 13082, Velika Župa Cetina Općem upravnom povjereništvu, Sinj, 22.1.1942. 83. AUSSME, DS, b. 646, All. 34, al DS Marzo 1942, Notiziario Nr. 21, 10.3.1942. 84. BArch, RH 26-114/28, Propagandabericht vom 25.11.1943. 85. Il Reich a partire dal 1943 mise a disposizione quantità di cibo. SUNDHAUSSEN, Holm, Wirtschaftsgeschichte Kroatiens, cit., p. 266. In questo modo il Reich rafforzò il regime degli Ustascia che distribuì gli alimenti per perseguire i suoi obiettivi politici. Qui si possono ravvisare di nuovo le differenze fondamentali nei piani e negli atteggiamenti del Reich tedesco e dell’Italia nei confronti del NDH. Un quadro simile si presenta anche nella Grecia occupata: FONZI, Paolo, «Regimes of Supply in Greece 1941-1944», presentato al convegno, The Second World War in Southeastern Europe, Berlin, 4-6 ottobre 2017. 86. BArch, RH 26-114/21, 114. I.D., Propagandabericht, 24.6.1943. 87. AJ, Fond 110, k. 736, Nr. 177f. 88. Ordinanza di Bastianini del 7 giugno 1942, Nr. 453, pubblicato in EGIĆ, Obrad, Narodnooslobodilački partizanski odred za sjevernu Dalmaciju, Zadar, Narodni list, 1987, pp. 247 et seq. 89. NARA, T-821, R. 299, Nr. 334-338, Il rapporto del Comandante della divisione «“Bergamo”», aprile 1943. 90. HDA, OUP, k. 38, Nr. 16220, Corrispondenza tra l’OUP e 2ª Armata, Sussak, aprile 1943. 91. NARA, T-821, R. 418, Nr. 310-313, VI CdA, Relazione sull’attività di contropropaganda per il mese di luglio 1943. 92. HDA, OUP, k. 25, Nr. 14823, Corrispondenza tra le autorità locali di Ravno e OUP, April 1942;. 93. OSTI GUERRAZZI, Amedeo, The Italian Army in Slovenia. Strategies of Antipartisan Repression 1941-1943, New York, Palgrave Macmillan, 2013. 94. NAW, T-821, R. 414, Nr. 222, “Latinità” in «La tradotta» Nr. 26/I, 29.11.1942. 95. ASMAE, GAB-AP 1923-1943, b. 1503, Appunto, Roma, 19.8.1943. 96. DIECKMANN, Christoph, QUINKERT, Babette (herausgegeben von), Kriegführung und Hunger 1939-1945. Zum Verhältnis von militärischen, wirtschaftlichen und politischen Interessen, Göttingen, Wallstein Verlag, 2015; GERLACH, Christian, Kalkulierte Morde. Die deutsche Wirtschafts- und Vernichtungspolitik in Weißrußland 1941 bis 1944, Hamburg, Hamburger Edition, 2000. 97. Considerazioni analoghe per la Grecia occupata dall’Italia sono state presentate da Paolo Fonzi. Le élites italiane erano convinte che anche l’inclusione del paese ellenico in un impero italiano sarebbe passato attraverso la loro capacità di fornire un approvigionamento alimentare alla popolazione civile greca. FONZI, Paolo, op. cit.

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RIASSUNTI

Nell’articolo vengono esaminate le strategie di approvvigionamento alimentare poste in essere nel quadro dell’imperialismo italiano nelle regioni annesse e occupate dello Stato indipendente di Croazia. L’approvvigionamento aveva molteplici scopi: la popolazione doveva essere coinvolta in un progetto imperiale, era necessario far sì che gli ustascia fossero screditati di fronte alla popolazione e infine bisognava promuovere il fascismo come assetto futuro e combattere i resistenti.

This article examines Italian food supply policies towards populations in the annexed as well as occupied parts of the Independent State of Croatia within the context of Fascist imperialism. Italian authorities used food supply for several goals: to win their political struggle against its nominal ally, the Ustasha; to promote Fascism as the choice for the future to the population and to combat insurgency.

INDICE

Parole chiave : approvvigionamento di cibo, Croazia, fascismo, Impero, Ustascia Keywords : Croatia, Empire, fascism, food-supply, Ustasha

AUTORI

SANELA SCHMID Sanela Schmid ha conseguito il dottorato presso l’università di Berna con una tesi dal titolo L’occupazione tedesca e italiana nello Stato Indipendente di Croazia 1941-1943/45. Ha successivamente lavorato al quattordicesimo volume dell’edizione di documenti Die Verfolgung und Ermordung der europäischen Juden durch das nationalsozialistische Deutschland 1933-1945 [La persecuzione e l’uccisione degli ebrei europei per mano della Germania nazionalsocialista 1933-1945] intitolato Südosteuropa und Italien (München, De Gruyter Oldenbourg, 2017) di cui ha anche curato l’introduzione alla sezione jugoslava. I suoi principali interessi di ricerca si concentrano sulla storia della Seconda guerra mondiale in Jugoslavia e sulla storia della Shoah. È inoltre autrice di: Zwangsarbeit im italienischen Bereich, in HODZIC, Sanela, SCHÖLZEL, Christian, Zwangsarbeit im „Unabhängigen Staat Kroatien“ 1941-1945, Berlin, LIT Verlag, 2013, pp. 136-174; «“Italiani brava gente?”. Storiografia recente dell’occupazione italiana in Croazia durante la seconda guerra mondiale», in Ventunesimo Secolo. Rivista di Studi sulle Transizioni, 7, 16, 2/2008, pp. 31-55. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Schmid >

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III. Recensioni

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Marco Di Maggio (a cura di), Sfumature di rosso. La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento

Andrea Ricciardi

NOTIZIA

Marco Di Maggio (a cura di), Sfumature di rosso. La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento, Torino, Accademia University Press, 2017, 328 pp.

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1 Sosteneva Vittorio Foa, nel 2006, a proposito della rivoluzione: È da un po’ di tempo che rifletto sulla rivoluzione e, più precisamente, sulla nostalgia della rivoluzione. Il Novecento è stato un secolo caratterizzato da conflitti devastanti ma anche da processi rivoluzionari, il più importante e condizionante dei quali è stato senza dubbio la Rivoluzione d’Ottobre. Oggi possiamo ragionare a freddo sul 1917, comprendiamo quanto tragica sia stata l’esperienza del comunismo non solo in URSS. Eppure, in fondo, mi sembra che sia ancora diffusa una certa nostalgia del sogno rivoluzionario. Ancora più precisamente potrei dire che si tratta della nostalgia della fattibilità della rivoluzione, cioè per l’idea che una rivoluzione sia possibile, non per la rivoluzione in sé e per i suoi effetti concreti. Mi sono detto che forse questa è semplicemente una riflessione da vecchio, propria di chi ha attraversato tutto il Novecento, con qualche appendice nel nuovo millennio, e proietta sugli altri un pensiero legato alla sua personale esperienza. Ma forse non è proprio così1.

2 Foa aveva probabilmente ragione e, forse, la sua riflessione vale anche per il presente, almeno se si considerano alcuni scritti elaborati sul 1917 a cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre2. La politica attuale è quanto mai lontana dal Novecento, i partiti comunisti sono da tempo scomparsi dagli scenari nazionali e internazionali, con pochissime eccezioni, ma anche quelli socialisti e socialdemocratici non sembrano godere di buona salute. La stessa idea di sinistra, al di là delle sigle di partito e delle differenti matrici ideologico-culturali del movimento operaio sviluppatesi tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e la fine della Guerra fredda, pare essere profondamente in crisi. Non è così per i populismi (categoria non semplice da definire e talvolta un po’ abusata) e per la destra (soprattutto quella radicale), molto popolare tra i giovani, certamente più di quanto non si potesse immaginare soltanto qualche anno fa.

3 Sarebbe fuori luogo in questa sede provare a indagare i perché di questo scenario, per vari aspetti inquietante, che appare in linea con il crescente indebolimento dell’antifascismo su cui, almeno in Italia, sono state faticosamente edificate la Repubblica e la democrazia dopo il 1945, cioè in seguito alla sconfitta del nazifascismo e alla fine della Seconda guerra mondiale. Qui ci si propone solo di fornire qualche spunto di riflessione sul 1917 e, più precisamente, su come la Rivoluzione d’Ottobre è stata discussa in un denso volume collettaneo, ideato e curato da Marco Di Maggio3. Il libro, che ospita contributi di differente spessore scientifico, affronta un tema di notevole interesse: la lettura (quindi la ricezione e l’utilizzo politico) della Rivoluzione bolscevica da parte di partiti e movimenti italiani della sinistra marxista (il PCI di Togliatti, Longo e Berlinguer; il PSI di Nenni e, prima, di Turati e Serrati; il PSIUP di Vecchietti e Basso), ai quali si aggiungono tre riviste e giornali di tutt’altri contesti politico-culturali («La Civiltà Cattolica», «Corriere della Sera» e «La Stampa»); figure

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appartenenti all’area nazionalista, per lo più confluita nel fascismo; Giustizia e Libertà di Rosselli; il Movimento Sociale Italiano di Michelini e Almirante; la “Nuova Sinistra”. Un ambito, quest’ultimo, più diversificato al suo interno di quanto non si possa ritenere a una lettura superficiale del fenomeno. Basti pensare alla grande distanza ideologica tra i vari gruppi nati nel corso degli anni Sessanta, più o meno ispirati allo stalinismo, al maoismo o a forme eterodosse di marxismo: Servire il Popolo, Programma comunista, Lotta comunista, i Quaderni Rossi (fondati nel 1961, in un contesto socio-culturale molto diverso da quello di fine decennio), Classe operaia, Potere operaio, Lotta continua e Il Manifesto, il meno settario e anche il più “fertile” e duraturo.

4 I saggi contenuti nel libro, come spiega Di Maggio nell’introduzione, sono organizzati seguendo tre scansioni temporali: la prima comprende gli scritti sulle letture della Rivoluzione nel periodo tra le due guerre, compiute, rispettivamente, dalle varie anime dell’ancora unito socialismo italiano (D’Alessandro); da esponenti del nazionalismo più o meno vicini a Mussolini, tra cui Corradini, Rocco, Marinetti e Pantaleoni (Cingari); da Giustizia e Libertà, fondata nel 1929 a Parigi e, a sua volta, portatrice di una visione rivoluzionaria dell’antifascismo non omogenea, se si considerano le differenti posizioni emerse durante gli anni Trenta fra gli stessi dirigenti (Bufarale).

5 Il secondo gruppo di saggi affronta un arco temporale di più lunga durata: Bucci documenta le posizioni dell’organo dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», dal 1917 al 1991; Ambrosi tratta il modo in cui furono affrontati i decennali della Rivoluzione dal 1947 al 1987 nei due quotidiani, «Corriere della Sera» e «La Stampa», forse più autorevoli nell’esprimere le istanze delle classi dirigenti liberal-democratiche e liberal- conservatrici; Sorgonà analizza le posizioni emerse all’interno del mondo neofascista, dalla fondazione dell’MSI alla sua scomparsa negli anni Novanta.

6 Il terzo gruppo di scritti, il più corposo, si concentra sull’atteggiamento delle diverse culture politiche della sinistra marxista tra la parte finale della Seconda guerra mondiale e l’inizio del tramonto della cosiddetta Prima Repubblica, seguendo una successione cronologica. Sul periodo 1944-1954, Chiarotto e Capelli; sulla fase che va dal “terribile 1956” alla solidarietà nazionale, Höbel; sul “lungo” Sessantotto, Strippoli; sul periodo compreso tra il 1977 e la fine dell’URSS, Di Maggio. Quest’ultimo sembra voler mostrare non soltanto il definitivo distacco dal marxismo-leninismo del PSI di Craxi durante gli anni Ottanta, ma anche il progressivo “sgretolamento” del legame dello stesso PCI con il leninismo e, dunque, con l’eredità della Rivoluzione d’Ottobre soprattutto dopo la scomparsa di Berlinguer, l’uomo della rottura (non totale) con Mosca.

7 Se si riflette sulla prima parte del volume, colpisce (ma non sorprende) come della Rivoluzione, in corso d’opera, si sapesse davvero poco. Questo elemento emerge a più riprese nel saggio di D’Alessandro che, per esempio, fa notare come lo stesso Gramsci, per buona parte del 1917, avesse individuato nel socialrivoluzionario Černov la figura più rappresentativa della rivoluzione, identificando «in lui il capo dei massimalisti russi proprio in contrappunto con la figura di Lenin»4. Per quanto a fine luglio, a Firenze, la rottura interna alla Direzione socialista avesse fatto emergere la frattura tra le due anime del partito, anche fra gli intransigenti la conoscenza degli avvenimenti russi (inevitabilmente connessa con le strategie da adottare in Italia per “fare come in Russia”) era tutt’altro che approfondita. Anche i riformisti, pur perplessi e preoccupati dalle notizie provenienti da Pietrogrado, «sembravano giustificare la Rivoluzione, quantomeno dal punto di vista storico, trovando cioè un riferimento nelle rivoluzioni

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del passato. La lettura della Rivoluzione data da Treves, come “cataclisma necessario in Natura”, e quella data da Modigliani, come “tentativo comunardo disperato di salvare il proprio paese dalla rovina”, rispondono sostanzialmente a questo approccio»5. Tra la fine del 1917 e l’inizio del 1918, in seguito allo scioglimento dell’Assemblea Costituente, mentre emergeva la distanza tra Gramsci e Bordiga sull’interpretazione della visione marxista della storia, anche Serrati, di fronte alla presa di distanza di Martov dai bolscevichi, difendeva il loro operato ed evocava “il dovere dei socialisti” di contribuire alla vittoria della Rivoluzione, evitando pericolose frammentazioni. Soltanto «Critica Sociale», con Treves, difendeva le posizioni del leader menscevico, senza tuttavia volersi staccare dalla dottrina marxista e confermando quanto, in quella fase di passaggio molto confusa, fosse ampia la distanza tra il socialismo riformista di marca turatiana e il revisionismo socialdemocratico che, in Italia, si sarebbe affermato solo in un secondo tempo.

8 Tra i nazionalisti, la Rivoluzione d’Ottobre venne declinata in modi diversi. Cingari, alludendo alle istanze espresse nel 1920 dall’irredentista triestino Attilio Tamaro, scrive che per lui «se il bolscevismo era dottrina da combattere e da respingere, non così era il sistema di governo dittatoriale, nato in mezzo alla tragedia, che andava considerato seriamente ed adottato anche in Europa Occidentale»6. Anche per Marinetti non era dunque la difesa dell’esistente il discrimine tra nazionalisti e comunisti, quanto gli effetti del processo rivoluzionario: in Italia era necessaria una rivoluzione nazionale dai connotati inegualitari e anarchico-individualisti che, tenendo fermo il valore della patria (diversamente declinato dai socialisti riformisti), non mirasse a livellare «i soggetti in una mediocre uguaglianza»7, come stava accadendo nella Russia bolscevica.

9 Non è certamente possibile, in questa sede, soffermarsi su tutti i saggi contenuti nel libro, ma solo dar conto brevemente della struttura o dei tratti salienti di alcuni di essi. Bufarale, per spiegare le analisi svolte dai giellisti sulla Rivoluzione d’Ottobre negli anni Trenta, prende in considerazione scritti di Rosselli (che nel 1934 cercò un’intesa con Trotskij e il gruppo di Tresso, Leonetti e Ravazzoli espulso dal PCd’I nel 1930), Nicola Chiaromonte, Silvio Trentin, Caffi, Lussu, Leone Ginzburg, Franco e Lionello Venturi. Bufarale, con la sua ricognizione, da una parte mostra la ricchezza del dibattito interno al movimento e, dall’altra, l’eterogeneità delle posizioni espresse che, non a caso, si tradussero nella rottura tra i “novatori” (Caffi e Chiaromonte) e il resto del nucleo dirigente.

10 Di particolare interesse, guardando al saggio su «La Civiltà Cattolica», appaiono le osservazioni di Bucci inerenti al primo editoriale del gennaio 1990, sottoscritto da tutta la redazione quando, dopo la caduta del Muro di Berlino (novembre 1989), l’URSS e il comunismo sembravano avviati al crollo definitivo. Nell’editoriale, per certi aspetti profetico, tra l’altro si leggeva: Se l’Est piange, l’Ovest dell’Europa non ride. Certamente il capitalismo occidentale può vantare la sua vittoria sul comunismo orientale; ma […] la stessa maggiore ricchezza prodotta non è equamente distribuita e la sua produzione si compie, almeno in una certa misura, a spese del Terzo Mondo, la cui situazione è assai più grave di quella dei Paesi dell’Est, ma che potrebbe subire, se non una dimenticanza, certo una riduzione degli aiuti da parte dei Paesi occidentali, impegnati ad aiutare con urgenza i Paesi dell’Est8.

11 Conclude Bucci: «Civiltà Cattolica» si sofferma sul ritorno dell’idea di nazione, che presagisce lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica, e rivolge quindi il suo sguardo ad Occidente,

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annunciando un più complesso campo di confronto: concluso lo scontro ideologico e religioso con il comunismo, come confrontarsi con le contraddizioni del «mondo libero»? Come affrontare la sempre più vicina riunificazione tedesca, che ricostruisce una Germania forte nello spazio di un’Europa in cerca d’identità? In tali pagine, apprezziamo la capacità dei gesuiti di precorrere molte domande della contemporaneità […]. La rivista dimostra massima consapevolezza circa i temi nuovi che attendono i cattolici: la ricostruzione di un ruolo pubblico per il cristianesimo nell’Europa orientale che affronta un percorso di democratizzazione, il rischio di un Occidente cieco che accoglie l’Est solo per ricavarne vantaggi9.

12 Sono passati quasi trent’anni dal crollo dell’URSS e cento dalla Rivoluzione d’Ottobre, che ne costituì la radice. Forse sono pochi ad avvertire la nostalgia della rivoluzione, sulla quale vale la pena di interrogarsi ancora (magari contemplando anche le elaborazioni sul tema da parte delle altre famiglie politiche), ma quasi tutti sanno bene che le risposte date finora alle domande di sviluppo e giustizia sociale dell’epoca contemporanea sono insufficienti e che il nuovo mondo globale, in cui di rivoluzione quasi non si discute, non sembra aver risolto i vecchi problemi emersi con forza durante la Grande guerra e nell’immediato primo dopoguerra, non solo in Russia.

NOTE

1. Cfr. FOA, Vittorio, RICCIARDI, Andrea, «Dialogo breve sulla rivoluzione», in Annali della Fondazione Ugo La Malfa, XX, 2005, pp. 235-241, p. 235. Si chiedeva ancora Foa: «perché le rivoluzioni non riescono? Io penso che ci sia una ragione fondamentale. La rivoluzione mira “soltanto” a cambiare radicalmente la realtà, non ha in sé elementi per rendere stabili i mutamenti, non sa costruire come sa distruggere. Se non si dimostra di aver chiaro anche ciò che si vuole conservare, oltre a ciò che si vuole abbattere, si crea una situazione un po’ delicata… Tutte le rivoluzioni, anche quando hanno ottenuto nel tempo risultati straordinari, come è stato per la Rivoluzione Francese o quella inglese, sono destinate a fallire rispetto agli obiettivi iniziali perché tendono a non fermarsi, arrivando addirittura a distruggersi». Ibidem, p. 238. 2. Tra le pubblicazioni più recenti, mi limito a citare PETRACCHI, Giorgio (a cura di), «L’Italia e la rivoluzione d’ottobre. Masse, classi, ideologie, miti tra guerra e primo dopoguerra», in Annali della Fondazione Ugo La Malfa, XXXI, 2016, pp. 43-388, con contributi di Roberto Bianchi, Bedeschi, Cinnella, Olga Dubrovina, Andreucci, Strada, Santi Fedele, Bresciani, Antonello Venturi, Panaccione, Giulio Carpi, Pellicani, Garzonio, Breschi, Mariuzzo, Morozzo della Rocca, Petracchi; CARIOTI, Antonio (a cura di), Ottobre rosso. La rivoluzione che ha cambiato la storia, Milano, RCS, 2017, con testi di Allevato, Canfora, Carioti, Codevilla, Cremonesi, Dragosei, Flores, Galli della Loggia, Kolonitsky, Magarotto, Mettan, Mikhalkov, Montefiori, Moscato, Romano, Salomoni, Terekhova, Valentino. 3. DI MAGGIO, Marco (a cura di), Sfumature di rosso. La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento, Torino, Accademia University Press, 2017. Il volume fa parte della BHM (la Biblioteca della rivista «Historia Magistra»), collezione diretta da Angelo d’Orsi (qui autore della Postfazione), e presenta saggi di D’Alessandro, Cingari, Bufarale, Bucci, Ambrosi, Sorgonà, Chiarotto, Cappelli, Höbel, Strippoli e Di Maggio. 4. Ibidem, p. 11. 5. Ibidem, p. 21.

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6. Ibidem, p. 41. 7. Ibidem, p. 45. 8. Ibidem, p. 99. 9. Ibidem.

AUTORI

ANDREA RICCIARDI Andrea Ricciardi collabora dal 2000 con l’Università degli Studi di Milano dove si è laureato, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia della società e delle istituzioni nell’Europa contemporanea, ha lavorato per quattro anni come assegnista ed è docente a contratto di Storia contemporanea. Si occupa di storia politica e culturale, con particolare riferimento a vicende e figure inerenti alla storia del movimento operaio e dell’antifascismo. Dal 2010 è membro della redazione de «Il Mestiere di Storico» e dal 2011 del Comitato di direzione degli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa». Nel 2013 ha ottenuto l’ASN per professore associato di Storia contemporanea. Oltre a vari saggi pubblicati in riviste di settore e in volumi collettanei, ha scritto e curato libri su Leo Valiani, Vittorio Foa, Gino Giugni, Riccardo Lombardi, Piero Boni, Antonio Giolitti e Luigi Longo. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Ricciardi >

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Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia 1941-1943

Edoardo Grassia

NOTIZIA

Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia 1941-1943, Bologna, Il Mulino, 2016, 375 pp.

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1 La campagna militare italiana in Russia durante il secondo conflitto mondiale è stata oggetto di pubblicazioni sin dal momento in cui i militari italiani salirono sulle tradotte per essere trasferiti su quel fronte. I primi scritti sull’argomento – quelli di regime – risalgono al 1941, con il giornale «L’Illustrazione Italiana»1 che dedicò diversi numeri al Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR). Queste pubblicazioni periodiche fecero da cornice a testi come Il bolscevismo contro Dio, contro la famiglia2 di Mario Parodi, che cercava dubbie motivazioni atte a giustificare l’intervento militare nella steppa, e Due anni di guerra. Cronache sotto gli auspici del Ministero della cultura popolare, che il Minculpop fece scrivere a più mani da improbabili inviati di guerra3. Da allora, tra monografie, raccolte di atti, diari e memorie, articoli su giornali e riviste, film, relazioni e tesi di laurea, sono stati realizzati oltre 1.700 documenti divulgativi. I libri, numericamente maggiori rispetto alle altre forme di diffusione, che direttamente o indirettamente hanno trattato l’argomento, considerando solo gli ultimi quindici anni, sono più di 5004. In tale contesto poteva risultare difficile proporre una ricerca innovativa e fornire nuovi spunti di riflessione, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Possiamo anticipare, da subito, che Maria Teresa Giusti, con il suo La campagna di Russia 1941-19435, edito da Il Mulino nel 2016, c’è riuscita.

2 Concentrandoci ancora sul panorama editoriale, dalla struttura e dalla lettura del testo qui discusso, notiamo – e questo, purtroppo, non possiamo darlo per scontato – che ci troviamo di fronte ad una proposta di testo storico scritto da una storica, a differenza dell’ampia produzione – maggioritaria per quanto concerne questo argomento – di appassionati o di coloro che hanno voluto scrivere, con più o meno enfasi, le proprie memorie. Questo si riscontra nella complessità del lavoro svolto per il quale l’autrice ha integrato la principale bibliografia esistente, più recente e valida, con una importante ricerca archivistica sulla quale appare necessario soffermarci: Archivio Centrale dello Stato, Archivio dell’Ufficio Storico dell’Esercito, Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, quello diaristico di Pieve Santo Stefano e quello dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, solo per quanto concerne la parte di ricerca svolta in Italia, per passare poi al National Archives di Londra, ma soprattutto all’Archivio Statale della Federazione Russa, all’Archivio Centrale del Servizio Federale di Sicurezza della Federazione Russa, all’Archivio Centrale del Ministero della Difesa russo per quanto concerne la parte di ricerca svolta fuori confini nazionali. E, in questa elencazione, rischiamo sicuramente di averne omesso qualcosa. Appare evidente che, oltre alle curiose scoperte che possono emergere – “la prima battaglia difensiva sul Don” della storiografia italiana, ad esempio, diviene, anche se con margini temporali non coincidenti, la “battaglia sul Volga” per la storiografia russa6 – le fonti russe sono state

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basilari per far luce su particolari inediti e per comprendere il punto di vista dei sovietici, il loro atteggiamento verso la guerra e i nemici, nonché verso il regime di Stalin7. E in questo, ancora, scorgiamo un importante particolare: l’autrice, conoscendo la lingua russa, ha potuto tradurre personalmente la documentazione analizzata, leggendola, quindi, con gli occhi di una storica.

3 Maria Teresa Giusti insegna storia contemporanea presso l’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti – e si occupa da tempo di studi, ricerche e traduzioni sulla seconda guerra mondiale concentrando la sua attenzione sul fronte russo. Sono noti i suoi studi sui Prigionieri italiani in Russia8 che, oltre ad essere un punto di riferimento nell’ambito bibliografico sul tema, hanno costituito, e continuano probabilmente ad essere, un’esperienza molto importante e coinvolgente dal punto di vista professionale. Ma proprio quella importante ricerca, a nostro parere, richiedeva un passo indietro temporale, una base per meglio osservare e comprendere le vicende di quei prigionieri: lo studio sulla campagna di Russia9 fornisce proprio quel punto di partenza storico.

4 L’autrice parte da lontano, dalla descrizione della situazione politica post-Grande Guerra, per introdurre il lettore agli avvenimenti dei mesi precedenti a quel patto Molotov-Ribbentrop che il ministro degli esteri Galeazzo Ciano descrisse come «un colpo da maestri» dei tedeschi, che avrebbe destabilizzato la situazione europea10. Di questo, come di molte altre vicende trattate nel libro, l’autrice fornisce anche interessanti indicazioni su come le stesse siano state trattate dalla storiografia russa permettendo, così, di osservare gli avvenimenti dai diversi punti di vista.

5 Proprio in questo “sconvolto” contesto europeo viene quindi illustrata la posizione italiana, sia per quanto riguarda gli aspetti politici che per quelli militari, senza spingersi in profondità, ma col solo intento di far comprendere, da subito, le grosse difficoltà italiane nell’affrontare quella guerra.

6 L’analisi e i commenti dell’autrice si spingono oltre le già note problematiche della mancanza di materiali ed equipaggiamenti idonei per affrontare il clima russo, facendo trasparire le inefficienze e le responsabilità di alcuni uomini di vertice, come quelle del generale Cavallero, al quale, come peraltro avvenne in altre circostanze della seconda guerra mondiale11, apparve più proficuo assecondare l’idea militare di Mussolini12 che agire da comandante di un esercito in guerra.

7 Restando nell’ambito storico-militare, l’autrice riporta, in varie parti del testo, alcune indicazioni sulla tipologia degli armamenti in uso presso l’esercito italiano. Al di là delle sigle e dei numeri forniti, l’interesse risiede nelle particolari osservazioni proposte – ad esempio, le dotazione dell’artiglieria italiana risultavano inefficaci contro i carri armati nemici KV1 e T-3413 e, ancor più, la dotazione dell’armamento individuale con soli 406 moschetti automatici distribuiti per tutto il contingente del CSIR14 – che, anche quando sono prive di commenti, rendono bene l’idea sulla reale situazione militare. Anche nella più breve illustrazione dell’impiego della forza armata aerea italiana15 – schierata in Russia con la denominazione di Comando Aeronautica Fronte Orientale (CAFO) – appare evidente la non disponibilità di mezzi qualitativamente e quantitativamente adeguati16. Sono dati che, seppur relativi alla componente storico- militare del testo, finiscono per uscire da questo specifico settore e comunicano al lettore il complessivo senso di inadeguatezza delle forze armate italiane, ma anche della nazione che le avrebbe dovute sostenere.

8 L’arruolamento volontario-ideologico, o quello coscritto, il trasferimento al fronte con lunghi viaggi stipati nelle tradotte, la vita nella prima linea o nelle retrovie, i partigiani

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russi, i rapporti con i civili e molti altri nodi cruciali del libro come la ritirata, vengono illustrati citando spesso gli scritti di coloro che vissero in prima persona quegli avvenimenti, sia dalla parte italiana che da quella russa. In tal modo, oltre al puro aspetto storico, il testo trasmette sentimenti e stati d’animo di chi visse in prima persona quelle tremende esperienze17. Per queste citazioni derivanti dai diari e ancor più dalla memorialistica scritta ex post e per il loro utilizzo, bisogna tenere a mente che le memorie sui grandi eventi storici risentono inevitabilmente della psicologia individuale e tendano quindi a “drammatizzare” i fatti18, mentre la storiografia moderna, intesa come scienza, si è caratterizzata come elaborazione di metodi di indagine in grado di andare al di là delle memorie individuali19. I diari e le memorie utilizzate da Maria Teresa Giusti lungo lo svolgersi del testo non costituiscono affatto l’elemento strutturale, ma fungono infatti da “ricamo” alla ricerca archivistica portante.

9 Le vicende del CSIR prima e dell’Armata Militare Italiana in Russia (ARMIR) poi non furono limitate a ciò che accade sul Don o nell’area compresa tra questo è il Dnepr o attorno alla città di Stalingrado. Come messo in evidenza da Maria Teresa Giusti, la campagna di Russia si svolse anche lontano dai campi di battaglia. Il puntuale riferimento al diario di Galeazzo Ciano e al suo confronto critico con quello del generale Cavallero20, il carteggio tra Hitler e Mussolini21, le circolari emanate dallo Stato Maggiore del Regio Esercito22 e le informative della Polizia Politica 23, ma anche gli ordini di Stalin24 non hanno il solo scopo di migliorare ed estendere la comprensione degli avvenimenti in Russia ma danno alla ricerca un giusto ampio respiro.

10 Analogo discorso secondo il quale la campagna di Russia non fu soltanto un evento militare, trova applicazione nella parte di testo – la seconda, in termini di lunghezza – in cui l’autrice, forte delle ricerche realizzate negli archivi russi, illustra il pensiero dei soldati italiani e di quelli russi verso la guerra e come entrambi gli schieramenti impararono a conoscersi oltre le divise. La possibilità di visionare e tradurre in prima persona la documentazione custodita nell’ex Unione Sovietica permette all’autrice di aprire spazi che difficilmente si riescono a rintracciare in altri testi, con riferimenti specifici che spostano l’attenzione dal campo militare a quello sociale: il patriottismo, le donne e la popolazione civile, fino al sesso consumato nelle case di tolleranza e ai crimini di guerra. Interessante parentesi a cui l’autrice, chiaramente, non può che dedicare singoli paragrafi25 ma che stimolano l’attenzione e la curiosità, soprattutto considerando che alcuni degli avvenimenti di cui il testo rende conto si sono perpetrati ben oltre la conclusione della seconda guerra mondiale26.

11 Una figura molto presente in questo volume è quella del generale Giovanni Messe27. Assieme a Mussolini, Hitler e Stalin, è il nome più ricorrente e con il suo La guerra sul fronte russo28 e il fondo Messe presso l’Archivio Storico dello Stato Maggiore Esercito, costituisce un prezioso punto di riferimento per la storia non solo militare della campagna di Russia. Sembra essere anche una figura particolarmente apprezzata dall’autrice nel suo ruolo di comandante militare, un apprezzamento che si riscontra comunque in molti degli scritti sul tema qui trattato29.

12 Lo studio si conclude con la fine temporale della spedizione italiana in Russia, da cui il capitolo dall’eloquente titolo Il disastro dell’Armir che risulta il più lungo del libro. L’autrice introduce l’argomento, prima ancora che nei campi di battaglia, con le decisioni e gli ordini dei due principali contendenti, Hitler e Stalin, che fecero diventare quello meridionale, proprio dove era concentrato il grosso delle truppe

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italiane, il fronte principale30. Quest’ultima parte del testo è molto ricca di particolari di storia militare, con le battaglie sul Don, con i differenti rapporti del generale Messe e del generale Gariboldi nei confronti del comando tedesco e degli ordini da questi impartiti, fino al Capo di Stato Maggiore generale Cavallero che, sin dall’inizio, dal momento in cui occorreva prendere un’accorta decisione sulla partecipazione italiana e, ancora, quando la situazione al fronte vedeva l’avanzata dell’esercito russo – coscientemente o involontariamente o, probabilmente incoscientemente – comunicò al duce italiano parziali verità o errate notizie su ciò che stava realmente avvenendo31.

13 Il 16 dicembre 1942 l’esercito russo avviò l’operazione “piccolo Saturno”, sfondò il fronte meridionale dando inizio alla disastrosa ritirata: «una anabasi, una delle peggiori esperienze nella storia militare del nostro paese, che ha segnato in maniera indelebile l’immaginario collettivo degli italiani»32. L’autrice arricchisce la narrazione degli eventi con alcuni scritti memorialistici, concludendo con il bilancio di un’impresa giudicata «inutile»: l’Armir lasciò 95.000 uomini morti o vivi in mano ai russi e riportò a casa 30.000 tra feriti e congelati33 e ancor più elevato fu il prezzo pagato dai sovietici con oltre 8 milioni di morti nelle sole fila dell’esercito34.

14 Come l’autrice pone in evidenza, le conclusioni di questo conflitto non si ebbero il 31 gennaio 1943, con il congedo dell’8a Armata dal fronte russo. I disagi psicologici di chi riuscì a tornare a casa, e le ancor più recenti notizie della fossa comune con circa duemila morti italiani rinvenuta a Gomel e su cui si è fatta luce solo dal 1992, ha aperto nuove indagini anche nell’ambito storico, legando la campagna militare italiana in Russia con un’altra tragedia, post-8 settembre 1943: quella degli Internati Militari Italiani (IMI), nome dato dalle autorità tedesche ai militari italiani rastrellati che non si vollero schierare con il Terzo Reich o con la Repubblica Sociale Italiana.

15 Per effetto della sua struttura manualistica il testo propone uno sguardo d’insieme sulla campagna di Russia fornendo anche stimoli all’approfondimento di alcuni aspetti o avvenimenti. A nostro avviso, sarebbe stato interessante integrare il volume con gli eventi e i personaggi riguardanti le forze armate aeree, sia italiane35 – per le quali ci ha fornito solo veloci indicazioni sulla scarsità di mezzi36 – che russe – per le quali ha già introdotto l’interessante presenza femminile nelle carlinghe di caccia e bombardieri37 – e quelli relativi agli uomini e mezzi della Regia Marina schierati nel Mar Nero e sul lago Ladoga38, affiancando alle figure dei generali dell’esercito quali Cavallero, Messe e Gariboldi, anche il ricordo del generale dell’aeronautica Enrico Pezzi, morto in una missione di volo per portare soccorso alle truppe a Čertkovo39, e dell’ammiraglio Francesco Mimbelli40.

16 Il testo è corredato di un inserto fotografico e di una appendice. Nel primo, il susseguirsi delle immagini è strutturato secondo il procedere temporale della campagna di Russia. Prende avvio con le foto della partenza, dove soldati e mezzi sfilano davanti a Mussolini e al re. Seguono poi alcune immagini del viaggio e di scene di vita quotidiana dove compaiono anche civili, donne e bambini. Vi sono istantanee di prigionieri russi e quelle legate a due elementi che risultano fondamentali in questa storia: la neve e il ghiaccio, prima, e il fango, dopo il loro scioglimento, che caratterizzarono la vita e la guerra su questo fronte. Senza giustamente ricorrere a particolari spettacolarizzazioni, compaiono anche foto delle amputazioni mediche degli arti inferiori per congelamento e, infine, la immagini della ritirata. L’inserto fotografico termina con una cartina geografica la cui presenza è sicuramente molto preziosa, ma che avremmo preferito maggiormente dettagliata e ingrandita, possibilmente su più

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pagine, in modo da avere uno strumento migliore per individuare località normalmente poco note o sconosciute e dai nomi talvolta di difficile lettura. L’appendice, invece, posta in chiusura del libro, raccoglie alcuni documenti originali, sia italiani che tradotti dal russo, la cui scelta è orientata principalmente a dare spunti sull’attività di intelligence dei due schieramenti, con circolari e interrogatori.

17 Il libro, complessivamente, ha il pregio di essere il prodotto di una importante ricerca storico-archivistica che l’autrice ha tradotto in una piacevole narrazione storica. Pur utilizzando necessariamente anche una terminologia tecnico-militare, risulta di piacevole lettura e facile comprensione anche a chi non ha dimestichezza nel settore ma vuole acquisire una corretta conoscenza degli avvenimenti in esame che, come evidenziato41, furono probabilmente decisivi per le sorti del secondo conflitto mondiale.

NOTE

1. Cfr. L’Illustrazione Italiana, n. 34 e 52 del 1941. 2. PARODI, Mario, Il bolscevismo contro Dio, contro la famiglia, Roma, Istituto Romano di Arti Grafiche di Tomminelli, 1941. 3. Cronache della guerra sotto gli auspici del Ministero della cultura popolare, Roma, Istituto Romano di Arti Grafiche di Tomminelli, 1942. 4. I dati sono stati elaborati dal recensore, sulla base di quelli pubblicati sul sito ufficiale dell’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia (UNIRR), disponibili al sito internet, URL: < http://www.unirr.it > [consultato il 2 maggio 2017]. 5. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, Bologna, Il Mulino, 2016. 6. Ibidem, p. 214. 7. Ibidem, pp. 69 et seq., pp. 81 et seq., pp. 174 et seq. 8. GIUSTI, Maria Teresa, I prigionieri italiani in Russia, Bologna, Il Mulino, 2014; ID., «La questione del rimpatrio dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica 1941-1946», in L’Annale IRSIFAR. Studi e ricerche, 2000, pp. 41-81; ID., «La propaganda antifascista tra i prigionieri di guerra italiani nell’Urss», in Ricerche di Storia politica, 3, 3/2000, pp. 337-364; ID., «La memorialistica sulla prigionia di Russia», in Annali del Museo Storico Italiano della guerra, 9-10-11, 2004, pp. 11-33; ID., «Gli Internati Militari Italiani nei documenti del KGB», in Ventunesimo secolo, IX, 28, 2/2012, pp. 149-174. 9. ID., La campagna di Russia 1941-1943, cit. 10. CIANO, Galeazzo, Diario 1937-1943 (a cura di Renzo DE FELICE), Milano, BUR, 2010, p. 332. 11. «[il duce] Non crede più a Cavallero: dice che il suo ottimismo è come il canto di chi ha paura di restare solo in una stanza». Cfr. CIANO, Galeazzo, Diario 1937-1943, cit., p. 491. Nel diario del Ministro degli Esteri italiano sono molte le pagine nelle quali scrive che il generale Cavallero comunicava con «molto ottimismo» situazioni militari che, nella realtà, vedevano le forze armate italiane soccombere in maniera talvolta irreversibile. 12. Si veda, al proposito, anche CEVA, Lucio, Cavallero Ugo, in Dizionario Biografico degli italiani, Volume 22 (1979), URL: < http://www.treccani.it/enciclopedia/ugo-cavallero_%28Dizionario- Biografico%29/ > [consultato il 5 maggio 2017].

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13. Il KV1 era un carro armato pesante che prendeva il nome dall’allora commissario della difesa russo Kliment Vorošilov. Aveva una lunghezza di 6,75 m, una larghezza di 3,34 e un’altezza di 2.71, per un peso complessivo di 43 t.. Il T-34 era uno dei principali mezzi corazzati in dotazione all’esercito sovietico durante la seconda guerra mondiale e tra i suoi principali punti di forza era la lunga autonomia di 465 km. 14. STATO MAGGIORE ESERCITO – UFFICIO STORICO, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio storico, 1977, p 330, cit. in GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 89. 15. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 139. 16. L’autrice riporta i dati di ROCHAT, Giorgio, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, p. 234. 17. «Nell’ambito delle memorie relative alla seconda guerra mondiale le testimonianze sulla campagna di Russia e sulla prigionia hanno di gran lunga superato per quantità quelle dedicate agli altri fronti […] Memorie e diari sono una fonte importante per questo libro, specialmente quando danno conto della varietà delle percezioni dei loro autori», GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 7. 18. FUSSEL, Paul, La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 263. 19. RINALDI, Giuseppe, Storia e Memoria, in ZIRUOLO, Luciana (a cura di), I luoghi, la storia, la memoria, Genova, Le Mani, 2007. Il saggio, riveduto e ampliato, disponibile anche all’URL: < http://digilander.libero.it/education/dati_box/ARTICOLI/Storia%20e%20memoria_21.pdf > [consultato il 5 maggio 2017]. 20. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 132 21. Importanti sono i riferimenti al testo Hitler e Mussolini. Lettere e documenti, Milano, Rizzoli, 1946, da cui Maria Teresa Giusti ha potuto trarre importanti indicazioni sui rapporti e le richieste degli anni 1941-1943. 22. Importante riferimento per gli studi che trattano questo argomento risultano essere le pubblicazioni dello STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO – UFFICIO STORICO, L’Italia nella relazione ufficiale sovietica sulla seconda guerra mondiale, Roma, Ufficio storico SME, 1978; ID., Le operazioni delle unità italiane al fronte russo. 1941-1943, Roma, Ufficio storico SME, 2000. 23. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 116. 24. Di particolare interesse l’ordine 227, del 28 luglio 1942, «non un passo indietro!», su cui l’autrice si sofferma. Cfr. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., pp. 153, 210. 25. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., capitolo V, pp. 159, 208. 26. È il noto caso del rimpatrio, a scaglioni, di prigionieri italiani trattenuti in Russia fino al 1954, ovvero dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953). Cfr. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., pp. 203-204. 27. Il 17 luglio 1941 il generale Messe fu inviato a comandare il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, per sostituire il generale Zingales, ammalato. Con il passaggio dal CSIR all’ARMIR, sconsigliato da Messe che era contrario all’invio di ulteriori grandi unità di fanteria appiedate, il comando d’armata fu affidato al generale Gariboldi. I rapporti tra i due si deteriorarono presto. Il generale Messe richiese e ottenne di rientrare in Italia il 1° novembre 1942 e, successivamente, sarà inviato al confine con la Tunisia per il comando della I Armata. 28. MESSE, Giovanni, La guerra sul fronte russo. Il corpo di spedizione italiano in Russia CSIR, Milano, Mursia, 2005 [ed. or. Milano-Roma, Rizzoli, 1947]. 29. Si vedano, tra gli altri, IGNONE, Marcello, Giovanni Messe. L’uomo, il soldato, Brindisi, Editrice Alfeo, 1992; Il Maresciallo d’Italia Giovanni Messe. Guerra, Forze Armate e politica nell’Italia del Novecento, Lecce, Congedo, 2003; LONGO, Luigi Emilio, Giovanni Messe. L’ultimo Maresciallo d’Italia, Piedimonte Matese, Imago Media per lo Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 2006; OSTI GUERRAZZI, Amedeo, Noi non sappiamo odiare.

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L’esercito italiano tra fascismo e democrazia, Torino, Utet, 2010; LEGGIERO, Antonio, Apocalisse nella steppa. Storia militare degli italiani in Russia 1941-1943, Bologna, Odoya, 2013; VALORI, Aldo, La campagna di Russia, Roma, Grafica Nazionale Editrice, 1951; ROCHAT, Giorgio, Le guerre italiane 1935-1943, Milano, Einaudi, 2008. 30. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 210. 31. Ibidem, p. 217. 32. Ibidem, pp. 249-250. 33. Ibidem, p. 263. 34. Per i dati statistici di morti e feriti, militari e civili, si veda ibidem, p. 272. 35. Si segnala, tra l’altro, il carteggio custodito presso l’Ufficio Storico dell’Aeronautica, con particolare riferimento al fondo di Superaereo e a quello che raccoglie i Diari Storici dei Reparti impegnati nella seconda guerra mondiale. 36. Vedasi nota 16. 37. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 176. 38. Particolare riferimento alla IV Flottiglia che operò nel Mar Nero con il fine di impedire i rifornimenti navali da sud, soprattutto in occasione dell’assedio di Sebastopoli, e della XII Squadriglia che invece si schierò nel lago Ladoga, a nord, con l’identica funzione nei confronti dell’assedio di Stalingrado. 39. Il generale di brigata aerea Enrico Pezzi, era subentrato al colonnello Drago il 12 febbraio 1942 al comando del CAFO e morì a seguito di incidente di volo il 29 dicembre 1942 quando decollò dalla base di Woroschilowgrad in direzione di Čertkovo, per prestare soccorso ai soldati italiani rimasti accerchiati. Con lui, tra gli altri, il colonnello medico Federico Bocchetti. Anche l’autrice riporta questa importante vicenda in nota, cfr. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 326, nota 39. 40. L’ammiraglio Francesco Mimbelli fu il comandante della 4ª Flottiglia MAS nel Mar Nero. Promosso ammiraglio di squadra nel 1957, nel 1993 la Marina Militare decise di titolargli un cacciatorpediniere lanciamissili. 41. GIUSTI, Maria Teresa, La campagna di Russia 1941-1943, cit., p. 210

AUTORI

EDOARDO GRASSIA Edoardo Grassia, diploma di laurea in Sociologia e laurea in Storia medievale, moderna e contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma, è dottorando di ricerca in Storia dell’Europa presso lo stesso ateneo. Si è occupato dell’Aviazione Legionaria da Bombardamento, da cui è nata la pubblicazione L’Aviazione Legionaria da bombardamento (Spagna 1936-1939). Iniziare da stanotte azione violenta su Barcellona (Roma, IBN Editore, 2009) e di Resistenza e guerra di Liberazione con lo studio Sabato Martelli Castaldi. Il generale partigiano (Milano, Mursia, 2016). È autore di alcuni articoli editi da «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea». Membro della Società Italiana di Storia Militare (SISM), svolge regolarmente attività di studio e di ricerca in ambito storico-sociale e storico-militare. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Grassia >

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Alessandro Crocco, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni

Michele Toss

NOTIZIA

Alessandro Crocco, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, Civitavecchia, Prospettivaeditrice, 2016, 137 pp.

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1 «Del resto l’Ottocento è certamente il secolo di far nazioni. Ma è anche il secolo di far canzoni»1. Il volume di Alessandro Crocco è, a tal proposito, significativo. Professore di discipline letterarie e di latino nei licei, Crocco ha pubblicato saggi e articoli di storia contemporanea riguardanti in particolare la tradizione del canto politico e sociale nella cultura popolare italiana2. La storiografia degli ultimi anni ha già messo in luce l’importanza della canzone all’interno dell’analisi storica. Stefano Pivato, infatti, ha sottolineato come «il canto risulta essere un “documento” utile per capire la storia»3. Se poi si sposta lo sguardo al di fuori della disciplina prettamente storica, appaiono di maggior interesse e d’innovazione alcuni recenti lavori di cultural studies italiani che – riprendendo gli studi sulla popular music4 – hanno introdotto nuove importanti questioni e inediti approcci allo studio della canzone, come ad esempio la produzione musicale, i contesti di fruizione e di circolazione della musica e, più in generale, l’interpretazione del canto come una pratica sociale5.

2 All’interno dell’opera, la canzone viene analizzata da un punto di vista testuale e contenutistico e utilizzata come una vera e propria fonte per ricostruire le principali tappe del Risorgimento italiano. Il libro segue un filo cronologico che conduce il lettore dagli esordi del movimento nazionale del periodo giacobino fino alla soglia degli anni Settanta dell’Ottocento, passando per i rivolgimenti del ’48 e le guerre d’Indipendenza. Si tratta di un lavoro di sintesi, tratto dalla tesi di laurea dell’autore6, che si traduce in una lunga carrellata di canti che Crocco annota e contestualizza7.

3 Le fonti utilizzate sono ampie e diversificate tra loro: i canti di produzione colta, composti cioè da autori di professione che spesso utilizzavano espressioni auliche e retoriche, quelli popolareggianti, che rielaboravano le parole d’ordine patriottiche mescolando il linguaggio “alto” e “basso”, e i testi più popolari, spesso anonimi, formati da una grande varietà di canti minori, strofette e canzonette (molte delle quali in dialetto). Uno dei meriti dell’autore è di aver preso in considerazione anche i canti delle regioni meridionali, proponendoli nella loro versione originale e in traduzione8; spesso, infatti, gli studi sul canto politico e sociale hanno privilegiato l’area geografica centro- settentrionale.

4 Spostando l’attenzione sul taglio interpretativo proposto nell’opera, di particolare interesse è la parte dedicata alla rappresentazione di Giuseppe Garibaldi all’interno del canto risorgimentale9. Una personalità complessa che fu al centro di istanze differenti tra loro: «in lui» – scrive l’autore – «erano riposte le speranze sia di chi auspicava la creazione di una repubblica in Italia sia di chi lo vedeva come il coraggioso combattente al servizio della monarchia sabauda sia di chi infine lo considerava un giustiziere popolare»10. Come ha sottolineato Maurizio Degl’Innocenti, Garibaldi «dava corpo a

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tante attese, anche di diverso orientamento»11. L’analisi di Crocco mette in luce gli aggettivi e le immagini utilizzate nei canti di questo periodo per definire l’eroe dei due mondi. «Qual è il guerriero famoso al pari / Di qua d’Atlante, di là dai mari, / che per l’Italia brandì l’acciaro, / e il nostro nome fè sacro e caro / fin fra’ selvaggi nudi e spavaldi? / È Garibaldi»12: così recitava una strofa del canto intitolato Garibaldi composto da Francesco Dall’Ongaro. «Guerriero», «liberatore», «salvatore» sono solo alcuni degli epiteti utilizzati per riferirsi al nizzardo13. La fama di Garibaldi fu talmente ampia e radicata nella popolazione da trasformarlo in un’icona popolare, in un eroe, in un vero e proprio mito e in un oggetto di culto14. Prevalentemente in ambito meridionale, ma non solo, molti canti si riferivano a Garibaldi utilizzando delle immagini e un linguaggio legati alla sfera religiosa. Egli assumeva quindi i tratti di un messia dalle capacità sovrumane e con poteri magici, un santo con caratteristiche quasi divine: «Ch’è beddu Caribardi che mi pari / san Micheluzzo arcancilu davero, / la Sicilia la vinni a libbirari / e vinnicari a chiddi ca mureru, / quannu talìa Gesù Cristu mi pari, / quannu cumanna Carlu Magnu veru»15.

5 La centralità della figura di Garibaldi derivava non solo dagli apprezzamenti messi in rima dai suoi estimatori; egli divenne il protagonista anche delle invettive cantate dagli avversari. Al termine del processo risorgimentale, soprattutto nelle regioni meridionali, iniziò a serpeggiare l’accusa di traditore rivolta a Garibaldi. L’unificazione italiana non aveva mantenuto le promesse di un miglioramento delle condizioni di vita e «una parte del rancore popolare fu diretto inevitabilmente contro Garibaldi che, ai loro occhi, li aveva illusi: Ca amm’a fa de Garebbalde / ca iè mbane e tradètore ? / Ne valìme u rè Berbòne / ca respètte la religgione»16.

6 L’autore inserisce queste tipologie di strofe all’interno di un contesto più ampio, quello dei canti legati alla tradizione antigiacobina, sanfedista e antirisorgimentale. L’ultimo capitolo dell’opera di Crocco, infatti, è dedicato proprio alle canzoni reazionarie e di malcontento che si diffusero tra la popolazione a partire dal periodo napoleonico fino ai primi anni postunitari17. Rientrano all’interno di questa sezione i canti di chi si oppose al movimento risorgimentale in nome dei simboli e dei valori promossi dal clero e dalla chiesa. Sono molti gli esempi riportati nell’opera, come la canzone antigiacobina cantata dall’esercito controrivoluzionario del cardinale Ruffo contro la Repubblica di Napoli del 1799 A lu suono della gran cascia18, quelle diffuse in Toscana nel 1796 di Viva Maria, viva Gesù contro l’occupazione francese e in Piemonte, sempre negli stessi anni, come il canto Sti giacobin s’fazio razun19. Anche durante il periodo delle guerre d’indipendenza circolarono nella penisola canti che contenevano un forte carattere protestatario. Ne sono una testimonianza le strofette di «Viva Radeschi e viva Metternich, / morte ai sciuri e viva ai puverett»20, cantate in seguito alle Cinque giornate di Milano, che dimostrano come una parte della popolazione (soprattutto contadina) identificò il movimento patriottico con la classe dei ricchi e dei signori. Più interessanti ancora sono quest’altre rime livornese di autore anonimo, composte contro il governo provvisorio toscano retto dai tre triumviri Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni, che costituiscono uno schiaffo non solo alle istanze risorgimentali italiane e agli ideali di libertà, propagandati dai giacobini e dai francesi prima e successivamente dai liberali e dai piemontesi, ma anche a tutto quel movimento internazionale di emancipazione popolare in atto a partire dal ’48 francese21: «Diceva un codino / e aveva ragione, / che il re più minchione / è il Popolo-re. […] / La misera storia / del danno sofferto, / ti renda più esperto, / più degno di te, / o re de’ minchioni, / o Popolo-re»22.

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7 Non solo le strofette popolari, l’autore presenta anche i canti di tradizione colta e semicolta che possedevano una certa circolazione tra la popolazione. Per i canti popolareggianti diffusissimo tra i volontari italiani nel 1848-1849, ad esempio, era il canto di Luigi Mercantini Patrioti all’Alpe andiamo, il cui ritornello spronava e rinvigoriva gli animi dei combattenti durante le lunghe marce: «Foco, foco, foco, foco! / S’ha da vincere o morir. / Foco, foco, foco, foco! / Ma il tedesco ha da morir / E sol verde, bianca e rossa, / la bandiera s’innalzò. / E sol verde, bianca e rossa, la bandiera s’innalzò»23. La bandiera tricolore in quegli anni, infatti, stava diventando un vero e proprio simbolo di libertà: «La bandiera dei tre colori / è sempre stata la più bella, / noi vogliamo sempre quella, / noi vogliamo la libertà»24.

8 L’unificazione nazionale non pose certo termine ai contrasti interni al paese; molte furono le voci di insoddisfazione di fronte alla disillusione delle speranze di un reale cambiamento sociale. Crocco utilizza il canto per ottenere un accesso privilegiato a questi sentimenti di sfiducia. Tali componimenti esprimevano un malessere causato da un sistema politico che si percepiva distante dai bisogni della popolazione e che non corrispondeva alle attese che avevano animato molti patrioti: «Non capísciu cosa è stu Parramento, / siddu è ‘ndiavulato o puru santu, / ca pàrtiri ni fa lu sentimentu: / misi sti pisi a fa paari tantu? / Centu stamu paanu e n’autri centu, / semu cu pigghia e paga tantu e tantu; / si buatri pigghiati, e nui pagumu, / no resta oru, argentu e no ramu»25.

NOTE

1. PIVATO, Stefano, «Inni e ballate», in CECCHINATO, Eva, ISNENGHI, Mario (a cura di), Fare l’Italia. Unità e disunità nel Risorgimento, vol. 1, Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie, Torino, Utet, 2008, pp. 660-673, p. 663. 2. Si possono citare, oltre al presente volume: CROCCO, Alessandro, Maramao perché sei morto: la seconda guerra mondiale nelle canzoni, Bari, Palomar, 2010; ID., «L’immagine di Garibaldi nei canti del Risorgimento», in Chronica mundi, 2, 2/2011, pp. 22-41. 3. PIVATO, Stefano, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. X. Per l’utilizzazione del canto all’interno di studi politico-sociali al di fuori dei confini nazionali si rinvia ad esempio a KÖRNER, Axel, Das Lied von einer anderen Welt. Kulturelle Praxis im französichen und deutschen Arbeitermilieu 1840-1890, Frankfurt am Main, Campus Verlag, 1997; DARRIULAT, Philippe, La muse du peuple. Chansons politiques et sociales en France 1815-1871, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2010; GANEV, Robin, Songs of Protest, Song of Love. Popular Ballads in Eighteenth-Century Britain, Manchester, Manchester University Press, 2009. 4. MIDDLETON, Richard, Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, 1994. 5. FABBRI, Franco, Around the clock. Una breve storia della popular music, Torino, Utet, 2008; ID., Il suono in cui viviamo. Saggi sulla popular music, Milano, Il Saggiatore, 2008; FANELLI, Antonio, Contro canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, Roma, Donzelli, 2017. 6. CROCCO, Alessandro, “Patrioti all’Alpe andiamo”. Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, tesi di laurea specialistica in Filologia moderna, Università di Catania, a.a. 2009-2010. 7. Le note al testo sono molte limitate e non contengono i necessari riferimenti bibliografici per risalire alle opere dalle quali sono stati presi i numerosi canti proposti. Il volume, tuttavia, è

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corredato da un utile indice delle canzoni citate suddiviso per titolo o per incipit che favorisce la ricerca. 8. Nel testo, ad esempio, vengono ampiamente utilizzate le raccolte di canti siciliani di studiosi come Leonardo Vigo, Giuseppe Pitrè, Salvatore Salomone Marino e Antonino Uccello. 9. Una tematica già affrontata dall’autore in CROCCO, Alessandro, «L’immagine di Garibaldi nei canti del risorgimento», cit. 10. CROCCO, Alessandro, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, cit., p. 68. 11. DEGL’INNOCENTI, Maurizio, Garibaldi e l’Ottocento. Nazione, popolo, volontariato, associazione, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2008, pp. 226. 12. CROCCO, Alessandro, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, cit., p. 73. 13. A tal proposito mi permetto di rinviare ad alcune riflessioni di chi scrive, cfr. TOSS, Michele, «“Quando la tromba suonava all’armi / Con Garibaldi corsi a arruolarmi”. L’immagine di Garibaldi nel canto popolare di epoca risorgimentale», in CASALENA, Maria Pia (a cura di), Luoghi d’Europa: Culti, città, economie, Bologna, Clueb, 2012, pp. 53-71. 14. Sul mito di Garibaldi si rinvia a ISNENGHI, Mario, Garibaldi fu ferito: il mito, le favole, Roma, Donzelli, 2010; RIALL, Lucy, Garibaldi: the first modern celebrity, in RAGUSA, Andrea (a cura di), Giuseppe Garibaldi: un eroe popolare nell’Europa dell’Ottocento, Manduria, Lacaita, 2009, pp. 7-24; ID., Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Roma-Bari, Laterza, 2007; DEGL’INNOCENTI, Maurizio, Garibaldi e l’Ottocento, cit. 15. «Com’è bello Garibaldi che mi pare / San Micheluzzo arcangelo in persona, / la Sicilia è venuto a liberare / a vendicare quelli che sono morti, / quando guarda sembra Gesù Cristo, / quando comanda un vero Carlo Magno». CROCCO, Alessandro, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, cit., p. 82. 16. «Che cosa dobbiamo farne di Garibaldi / che è infame e traditore ? / Noi vogliamo il re Borbone / che rispetta la religione». Ibidem, p. 114. 17. A questo proposito i capitoli curati da Roberto Leydi «Sempre morte a’ giacobini. Canti antigiacobini, antifrancese, sanfedisti e anti-risorgimentali», «Canti di delusione, malcontento e protesta nel primo periodo postunitario», «Partire partirò, partir bisogna. Canti militari contro la coscrizione e canti contro la guerra, dall’età napoleonica al primo periodo postunitario» costituiscono ancora una delle raccolte più esaustive su questi temi. Cfr. LEYDI, Roberto, Canti sociali italiani, Milano, Edizioni Avanti!, 1963, pp. 208-445 18. «A lu suono de le campane / Viva, viva li populane, / a lu suono de li viulini / sempre a morti à giacobini» trad. «Al suono delle campane / viva, viva i popolani / al suono dei violini / sempre a morte ai giacobini». CROCCO, Alessandro, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, cit., p. 92. 19. «Sti giacobin s’fazio razun, / vuréivo lvé la religiun. / Lur i fazio na gran festa, / a préive e frà cupé-i la testa. / La liberté l’è andà a la fin / A confüziun dëi giacobin […] / O giacobin, l’éi vü na ruta, / E l’éi pià-ve na bela bota, / e giacobin e patriot / e vi bütruma tüti al crot» trad. «Questi giacobini si facevano ragione, / volevano levare la religione. / Facevano una gran festa / ai preti e ai frati tagliare la testa. / La libertà è andata alla fine / a confusione dei giacobini […] / O giacobin, siete stati sconfitti, / vi pigliaste una bella botta / e giacobin e patrioti / vi butterem tutti in prigione». CROCCO Alessandro, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, cit., p. 96. 20. Ibidem, p. 98. 21. Cfr. TOSS, Michele, Il Popolo Re. La canzone sociale a Parigi (1830-1848), Bologna, Clueb, 2013, pp. 153 et seq. 22. CROCCO, Alessandro, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, cit., p. 101. 23. Ibidem, p. 42. 24. Ibidem, p. 43. 25. Vito Mangano, «Non capisciu cosa è stu Parramentu». Ibidem, p. 112. Trad. «Non capisco cosa è questo Parlamento, / se è un indemoniato oppure un santo; / ci fai smarrire il ben

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dell’intelletto: / c’impose pesi e fa pagare tanto? / Cento stiamo pagando e ancora cento, / qui c’è chi prende e chi paga tanto e tanto: / se voialtri prendete, e noi paghiamo, / non resto oro, né argento, né rame».

AUTORI

MICHELE TOSS Michele Toss, laureato in storia contemporanea all’École Pratique des Hautes Études, si è diplomato in storia all’École Normale Supérieure di Parigi e successivamente ha ottenuto un dottorato in cotutela presso il dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna con una ricerca sul canto sociale in Italia e Francia nel XIX secolo. Attualmente collabora con la Fondazione Museo storico del Trentino con un progetto postdoc sulle pratiche d’opposizione popolare al fascismo in Trentino. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Toss >

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Eugenio Di Rienzo, L’Europa e la «Questione napoletana» 1861-1870

Giuseppe Ferraro

NOTIZIA

Eugenio Di Rienzo, L’Europa e la «Questione napoletana» 1861-1870, Nocera Superiore, D’Amico Editore, 2016, 160 pp.

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1 Eugenio Di Rienzo nel suo ultimo lavoro L’Europa e la «Questione napoletana» tratta alcuni temi di fondamentale importanza per quanto riguarda il processo di unificazione italiana1. L’utilizzo di una fonte di prima mano, come il discorso di Lord Lennox alla Camera dei comuni del maggio del 1863, e una puntuale bibliografia, permettono all’autore di studiare l’evoluzione dell’idea di Nazione napoletana prima e dopo il 1860, l’attività del governo napoletano in esilio (formato a Roma da Francesco II), la non trascurabile consistenza di un sentimento nazionale napoletano, le posizioni critiche che assunse la diplomazia internazionale nei confronti delle scelte dei primi governi unitari soprattutto in riferimento ai duri metodi di repressione2 messi in atto nelle province meridionali, ma anche di analizzare come molti temi relativi alla questione napoletana sopravvissero negli autori che tennero a «battesimo la nascita della ‘questione meridionale’»3. È evidente nel libro la capacità dell’autore di intrecciare il punto di vista “interno” con quello “esterno” per conferire alle sue tesi chiarezza e accuratezza. Un libro che, come lo stesso autore sottolinea, è stato scritto in continuità con Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee4.

2 Le province meridionali al momento dell’unificazione presentavano un maggiore livello di arretratezza dovuto alla mancanza di riforme da parte delle classi dirigenti borboniche5, un immobilismo che alla fine si era dimostrato letale per la sopravvivenza della stessa monarchia. Questo non significava che non esistessero in limitate porzioni del Regno poli di dinamismo economico, ma rimanevano isolati e dovevano fare i conti con l’assenza di strade e di ferrovie e con bassi livelli di industrializzazione. A questo si aggiungeva una politica borbonica repressiva e poliziesca nei confronti di politici e intellettuali considerati pericolosi per le loro idee riformiste. Tutti elementi che tornarono utili per denigrare ampiamente prima Ferdinando II e poi il figlio Francesco II in seno alle grandi potenze europee. La «leyenda nigra» di Lord Gladstone rappresentava l’esempio certamente più significativo, e finì col dare un’immagine assai negativa e non sempre obiettiva del Regno dei Borbone. Alle critiche, basate su valutazioni spesso indirette di Gladstone, mancava uno sguardo comparativo con le altre realtà politiche italiane preunitarie. Infatti, se la situazione del Regno delle Due Sicilie non era rosea, almeno fino al 1848, quella degli altri Stati italiani non era migliore: «Se, dunque, nel 1861, non c’era una “Borbonia felix”, certamente non esisteva nessun Piemonte, nessuna Liguria, nessuna Lombardia, nessuna Toscana “felix”»6 . Ancora nel 1862 un attento osservatore settentrionale, molto vicino al blocco moderato allora al governo (Romualdo Bonfadini), in una lettera, rimarcava come i lamenti che i prefetti facevano in riferimento alle province meridionali erano «troppo consoni con quelli che s’odono in tutte le altre parti d’Italia». E continuava asserendo

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che, escluso il brigantaggio, geograficamente delimitato alle ex province meridionali, nel resto d’Italia non si stava «né meglio, né peggio delle altre provincie, colla differenza che da noi [al nord] le popolazioni sono più sode e che quanto v’era di già costituito resiste meglio alla dissoluzione che quanto è ancora da costituirsi […]»7.

3 La situazione nelle province meridionali nei primi anni dello Stato unitario non andò migliorando. Ma certo non si può nemmeno parlare, per il periodo precedente all’unità, di un «primato economico» della Nazione napoletana, e poi, dopo il 1861, di “lager dei Savoia”, di genocidio del Sud da parte dei piemontesi, di “scippo” o colonizzazione. Va anche chiarito, come Di Rienzo riesce a fare nel suo volume, che i metodi messi in campo dai governi di Torino e di Firenze per stabilizzare le province meridionali, rafforzare l’unità appena raggiunta, debellare il brigantaggio, non furono certamente meno illiberali di quelli dei Borbone. Di Rienzo infatti sottolinea che se da una parte non è convincente parlare di una realtà meridionale con primati economici, di «lager dei Savoia», di «genocidio del Sud», non bisogna nemmeno dimenticare «lo stato di arretratezza economica che attanagliava l’intera Penisola e non solo i domini borbonici, la prigionia dura e infamante alla quale furono sottoposti soldati e ufficiali che avevano lealmente seguito Francesco II nell’ultima resistenza e gli spietati metodi di contro- guerriglia, […]»8. D’altronde gli stessi funzionari settentrionali mandati nelle province meridionali mettevano in rilievo da una parte le criticità dei territori annessi, dall’altra l’incapacità del governo centrale di attuare interventi e riforme per migliorare la situazione. Anzi, qualcuno significativamente evidenziava (forse aveva ben in mente gli scritti di Gladstone!) che la politica estera dell’Italia era necessaria farla proponendo un’immagine il più possibile positiva di come si erano risolti i problemi interni nelle province degli ex Stati italiani. Nel 1862 il prefetto della provincia di Cosenza (Calabria Citra), il valtellinese Enrico Guicciardi, sottolineava infatti a Emilio Visconti Venosta che la politica estera si doveva «fare più specialmente coll’amministrazione interna», perché questa poteva dare migliore immagine del nuovo Stato da poco unificato nel contesto internazionale9.

4 Nelle province napoletane si sviluppò un forte e ampio movimento di resistenza al nuovo ordine statale sotto i Savoia, che al suo interno aveva varie anime, con prospettive e aspirazioni spesso diverse e contrastanti10. Era anche sintomatico della presenza, seppur minoritaria, come ricorda Di Rienzo, di un sentimento nazionale napoletano vivo non solo tra le masse contadine e il proletariato, ma anche nel ceto civile, la classe colta, l’esercito e la burocrazia. Il governo napoletano in esilio, presieduto da Pietro Calà Ulloa, sperava però di utilizzare questo sentimento nazionale per ritornare a Napoli, ma «il tentativo degli ultimi sostenitori di Francesco II di avviare un processo di “nazionalizzazione della causa borbonica”, che avrebbe dovuto assicurare all’esule di Gaeta la possibilità di riconquistare i suoi domini, arrivò troppo tardi e forse con non sufficiente convinzione fu patrocinato dall’ultimo re di Napoli per conseguire l’esito sperato»11. Anche perché in molti intellettuali e politici in esilio a Gaeta «l’attaccamento alla patria napoletana non era scisso da quello tributato alla più grande patria italiana»12.

5 Dal 1861 il governo borbonico in esilio e i suoi sostenitori cercarono infatti di colpire il nuovo assetto politico creatosi in Italia sul piano diplomatico, ripetendo un meccanismo che aveva fortemente delegittimato nei decenni precedenti sul piano internazionale il Regno delle Due Sicilie. Per sintetizzare, si voleva dimostrare come con i nuovi governi di Torino e di Firenze non solo le cose non fossero cambiate ma

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addirittura peggiorate, come indicavano alcuni dati economici e gli abusi e gli eccessi messi in campo dall’esercito per ripristinare l’ordine pubblico. Una «tattica propagandistica che si mostrerà vincente proprio presso l’opinione politica del Regno Unito», ma anche in Francia e in altre cancellerie europee13, anche se non sortirà gli effetti sperati. Sarà proprio la House of Lords ad ospitare numerosi interventi in favore di Francesco II e di altri sovrani spodestati dai piemontesi (nel libro in appendice è stato trascritto il discorso alla Camera dei Comuni di Lord Lennox dell’8 maggio 1863 che richiama bene queste dinamiche). In quelle discussioni emergeva la volontà, da parte di alcuni esponenti politici inglesi, di dimostrare come l’Inghilterra avesse preferito al «despotism of a Bourbon» lo «pseudo-liberalism of a Victor Emmanuel». Alla miopia politico-diplomatica da parte inglese si era aggiunta successivamente anche quella economica, come sottolineava Lord Lennox nel suo discorso. L’unificazione, infatti, secondo i critici del governo italiano, aveva fatto perdere a Londra un sicuro partner commerciale quale era stato prima del 1861 il Regno delle Due Sicilie.

6 In Francia, come evidenzia Di Rienzo nel volume, la politica propagandistica a favore dei Borbone cercò invece di legare la questione napoletana a quella delle nazioni vittime di oppressione da parte di altri Stati. Il Mémoire di Garnier cercava di assimilare «la rivoluzione dei sudditi di Francesco II contro il governo di Torino all’insurrezione del popolo polacco per emanciparsi dal dominio dell’autocrazia zarista che era scoppiata con grande violenza a Varsavia nella notte del 23 gennaio 1863»14. L’avversione verso l’Italia unificata sotto la corona sabauda aveva trovato anche sostegno nel «partito dell’Imperatrice» e nel consiglio privato di Napoleone III. Calà Ulloa presumeva che Napoleone, se nelle province dell’ex regno borbonico non fosse tornata la tranquillità, sarebbe prontamente intervenuto «per modificare la sistemazione politica che si era determinata oltre le Alpi»15.

7 Sebbene la nuova patria italiana fosse sembrata a molti sudditi di Francesco II «matrigna», con l’aumento dell’imposizione fiscale, la leva obbligatoria, la dura repressione, il patriottismo napoletano sbandierato in ritardo dai legittimisti borbonici era destinato a soccombere. Era mosso infatti più da rancore e nazionalismo di rivalsa che da un vero progetto identitario e politico; inoltre i cambiamenti che stavano interessando il quadro politico internazionale in quegli anni (come la vittoria della Prussia contro l’Impero asburgico e la presa di Roma) spinsero lo stesso Francesco II a sciogliere il governo in esilio e poi trasferirsi a Parigi. Il volume evidenzia anche come l’azione diplomatica dei Borbone in esilio di contrastare la nascita del Regno d’Italia e facilitare la rinascita del Regno delle Due Sicilie, anche se destinata a fallire, dimostrasse l’intraprendenza di quei settori costituzionalisti, liberali, federalisti che troppo in ritardo furono sostenuti dalla corte borbonica, ma erano capaci di spostare il tema della Nazione napoletana «dallo scenario italiano a quello europeo, per porlo al centro del dibattito internazionale»16.

8 Il libro, in conclusione, permette di riflettere in maniera seria sugli errori commessi da parte delle classi dirigenti liberali nel processo di costruzione dello Stato italiano, senza cercare però per forza un’eccezionalità del caso (e tenendo conto delle differenze), rilevando che, anche in altri processi di costruzione dello Stato nazionale, la violenza del fuoco e dell’acciaio accompagnò e seguì la realizzazione del progetto politico: non dimenticando o tacendo che il 1860 per una parte degli Italiani fu anche l’anno della «sconfitta per mano straniera, della perdita della sovranità economica e politica, del

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peggioramento delle loro condizioni di vita, dell’inizio del ludibrio cui li espose un sentimento anti-meridionale di chiaro stampo razzista»17.

NOTE

1. SCIROCCO, Alfonso, Il Mezzogiorno nella crisi dell’Unificazione (1860-1861), Napoli, S.E.N., 1981; ID., Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’Unificazione (1860-61), Milano, Giuffrè, 1960; ID., Il Mezzogiorno nell’Italia unita (1861-1865), Napoli, Società editrice napoletana, 1979. 2. Cfr. LATINI, Carlotta, Governare l’emergenza. Delega legislativa e pieni poteri in Italia tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 121-140; SCIROCCO, Alfonso, Amministrazione della giustizia e poteri di polizia prima e dopo l’unità, in Atti del 52.mo Congresso nazionale dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1984; MARTUCCI, Roberto, «La regola è l’eccezione: la legge Pica nel suo contesto», in Nuova Rivista Storica, vol. XCVII, II, 2013, pp. 405-443; ID., Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio (1861-1865), Bologna, Il Mulino, 1980. Si veda anche VIOLANTE, Luciano, «La repressione del dissenso politico nell’Italia liberale: stati d’assedio e giustizia militare», in Rivista di storia contemporanea, V, 4/1976, pp. 481-524. 3. DI RIENZO, Eugenio, L’Europa e la «Questione napoletana» 1861-1870, Nocera Superiore, D’Amico Editore, 2016, p. 77. 4. ID., Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee 1830-1861, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012. 5. Per la situazione sociale, economica e politica prima dell’unità cfr. DE LORENZO, Renata, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma, Salerno editrice, 2013, in particolare pp. 102 et seq. Si veda anche l’indagine sulla scomparsa dei regni preunitari di MACRY, Paolo (a cura di), Quando crolla lo Stato: studi sull’Italia preunitaria, Napoli, Liguori, 2003 (in particolare: Appunti per una fenomenologia del crollo, pp. 3-24); ID., Unità a mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, Il Mulino, 2012; SPAGNOLETTI, Angelantonio, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997, in particolare pp. 271-306; MERIGGI, Marco, Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il Mulino, 2002; BARONE, Giuseppe, Quando crolla lo stato e non nasce la nazione. Il Mezzogiorno nel Risorgimento italiano, in ROCCUCCI, Adriano (a cura di), La costruzione dello Stato-nazione in Italia, Roma, Viella, 2012. 6. DI RIENZO, Eugenio, L’Europa e la «Questione napoletana», cit., p. 66. 7. FERRARO, Giuseppe, Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana, Milano, Mondadori- Le Monnier, 2016, p. 121. 8. DI RIENZO, Eugenio, L’Europa e la «Questione napoletana», cit., p. 7. 9. Ibidem, p. 124 10. Cfr. COLAPIETRA, Raffaele, Il brigantaggio postunitario in Abruzzo, Molise e Capitanata; BARRA, Francesco, Il brigantaggio in Campania; PEDIO, Tommaso, Reazioni e brigantaggio in Basilicata (1860-1861) pubblicati tutti in «Archivio storico per le province napoletane», 1983 [ma 1985]. Per la Calabria rimando a GAUDIOSO, Francesco, Calabria ribelle. Brigantaggio e sistemi repressivi nel cosentino (1860-1870), Milano, Franco Angeli, 1987. 11. DI RIENZO, Eugenio, L’Europa e la «Questione napoletana», cit., pp. 16-17. 12. Ibidem, p. 17 13. Ibidem, p. 25 14. Ibidem, p. 66.

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15. Ibidem, p. 70. 16. Ibidem, p. 24. 17. Ibidem, pp. 7-8.

AUTORI

GIUSEPPE FERRARO Giuseppe Ferraro, dottore di ricerca in Storia contemporanea (Università della Repubblica di San Marino), come cultore della materia svolge la sua attività presso l’Università della Calabria. La sua tesi di dottorato ha vinto due premi nazionali “Pier Paolo D’Attorre” e “Spadolini-Nuova Antologia 2016”. È anche membro del comitato scientifico dell’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea e redattore della rivista «Giornale di storia contemporanea». URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Ferraro >

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