RASSEGNA STAMPA mercoledì 22 ottobre 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO

PANORAMA CORRIERE DELLA SERA IL MANIFESTO L’ESPRESSO LA REPUBBLICA AVVENIRE VITA LA STAMPA IL FATTO LEFT IL SOLE 24 ORE IL SALVAGENTE IL MESSAGGERO INTERNAZIONALE

L’ARCI SUI MEDIA Da Asca del 21/10/14 Cgil: Arci aderisce a manifestazione di sabato a Roma Presidente Chiavacci: "Sbagliato ridurre tutele lavoratori" (ASCA) Poggibonsi (Si), 21 ott 2014 - "Le forme della rappresentanza sociale sono essenziali per la costruzione della democrazia del nostro paese, agenti di sviluppo e non fattori di immobilismo". Questo il motivo che porta l'Arci Nazionale ad aderire alla manifestazione indetta dalla Cgil per il prossimo 25 ottobre a Roma. "Il nostro - ha spiegato la presidente di Arci Francesca Chiavacci a margine di un convegno della Cgil a Poggibonsi (Si)- vuole essere anche un appello alla riflessione per chiunque, ricoprendo responsabilita' di governo nazionale o locale, pensi che il confronto ed il dialogo sui temi fondamentali del vivere comune possono essere derubricati a passerelle o sbrigativi teatrini". Secondo l'Arci "e' sbagliato partire dalla riduzione di tutele gia' previste dal nostro ordinamento indicandola come possibile soluzione della crisi. Si tratta per altro di una ricetta che ha gia' fallito in tutti i paesi in cui e' stata applicata". Inoltre ha spiegato Francesca Chiavacci,"e' del tutto strumentale utilizzare la disciplina dei licenziamenti come una clava per definire i confini fra cio' che vecchio e cio' che e' nuovo, fra immobilisti e innovatori". Afe

Da TmNews del 21/10/14 Cgil: Arci aderisce a manifestazione di sabato a Roma Poggibonsi (Si), 21 ott. (TMNews) - "Le forme della rappresentanza sociale sono essenziali per la costruzione della democrazia del nostro paese, agenti di sviluppo e non fattori di immobilismo". Questo il motivo che porta l'Arci Nazionale ad aderire alla manifestazione indetta dalla Cgil per il prossimo 25 ottobre a Roma. "Il nostro - ha spiegato la presidente di Arci Francesca Chiavacci a margine di un convegno della Cgil a Poggibonsi (Si)- vuole essere anche un appello alla riflessione per chiunque, ricoprendo responsabilità di governo nazionale o locale, pensi che il confronto ed il dialogo sui temi fondamentali del vivere comune possono essere derubricati a passerelle o sbrigativi teatrini". Secondo l'Arci "è sbagliato partire dalla riduzione di tutele già previste dal nostro ordinamento indicandola come possibile soluzione della crisi. Si tratta per altro di una ricetta che ha già fallito in tutti i paesi in cui è stata applicata". Inoltre ha spiegato Francesca Chiavacci,"è del tutto strumentale utilizzare la disciplina dei licenziamenti come una clava per definire i confini fra ciò che vecchio e ciò che è nuovo, fra immobilisti e innovatori".

del 21/10/2014 – pag. 9 Cittadino chi nasce qui a studi finiti ROMA Nella girandola di nuove iniziative parlamentari, annuncia anche 2

l’adozione dello ius soli : il diritto di cittadinanza per i ragazzi stranieri nati, ma anche giunti, sul suolo italiano. Attualmente lo si ottiene solo dopo aver presentato richiesta al compimento del diciottesimo anno di età. Di proposte di legge per allargare o restringere le maglie di questa norma in Parlamento ce ne sono molte. Neanche una, invece, sta attualmente impegnando gli uffici tecnici del Viminale. Il premier ha fatto riferimento ad uno « ius soli temperato». Cosa intende? Che i ragazzi diventino cittadini italiani al completamento di un ciclo di studi. Se sono nati qui, al termine della scuola dell’obbligo. Se sono arrivati quando erano già adolescenti, alla fine della licenza di scuola superiore. Potrebbero essere 50 mila l’anno i nuovi italiani, se passasse questa norma. Ora il 47,2% degli stranieri iscritti nelle nostre scuole nel 2013 è nato in Italia. Soddisfatto il garante dell’Infanzia Vincenzo Spadafora: «Lo chiediamo da tempo. Sono 4 milioni gli stranieri che vivono in Italia e più di un milione di loro è minorenne». Per Filippo Miraglia dell’Arci la proposta è un bluff: «Dalla nascita a 16 anni continuerebbero a essere considerati stranieri nella terra di nascita». Mentre, secondo il governatore leghista Luca Zaia, è «solo un’iniziativa per distrarre i cittadini dai problemi reali». V.Pic.

Da Ansa del 21/10/14 Carovana antimafia fa tappa a Bucarest Incontro su mafia, droghe, tratta esseri umani (ANSA) - BUCAREST - La carovana antimafia, promossa da Arci, Libera, Avviso pubblico, Cgil Cisl e Uil, ha fatto tappa a Bucarest dove, nella sala 'Costantin Stoicescu' della facoltà di diritto, si è tenuta una conferenza dal titolo: 'Mafia, droghe e tratta di persone: una panoramica sul disagio legato alla strada in Romania ed alcuni possibili antidoti'. L'incontro è stato organizzato in collaborazione con l'associazione Parada, che da anni si occupa dell'emergenza legata ai bambini di strada, ed ha visto, tra gli altri, la partecipazione dell'Ambasciatore italiano a Bucarest, Diego Brasioli, del direttore dell'ufficio regionale di coordinamento per l'est Europa dell'Interpol, Paolo Sartori, e del presidente del Ciao (Comitato italiano associazioni ed ong in Romania), Franco Aloisio. Tra il pubblico, anche gli alunni di una scuola italiana. (ANSA).

del 22/10/14, pag. 5 Immigrazione L’Europa condanna l’Italia Luca Fazio Non tutti i migranti che in questi anni sono sbarcati sulle nostre coste hanno avuto la fortuna, si fa per dire, di essere trattati come dovrebbe esserlo ogni essere umano quando subisce un torto. Con giustizia, secondo il rispetto delle leggi internazionali. E’ arrivata ieri la sentenza pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che condanna il governo italiano — allora faceva danni Berlusconi — e quello greco per aver eseguito «espulsioni collettive indiscriminate» ai danni di migranti afghani rispediti in Grecia. Col rischio che, una volta in Grecia, i migranti avrebbero potuto essere

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nuovamente espulsi verso il paese di provenienza, «dove avrebbero rischiato la morte, la tortura o altri trattamenti inumani e degradanti». La vicenda non è recente, risale a sei anni fa, ma è significativa perché segnala l’approccio prevalente con cui le autorità italiane affrontano la cosiddetta «emergenza» immigrazione, che emergenza non è. Trentadue profughi afghani, due sudanesi e un eritreo sbarcarono in Italia tra il gennaio 2008 e il febbraio 2009 dopo essere partiti da Patrasso. La Corte europea, in particolare, si è soffermata sui casi di casi di quattro persone che almeno oggi hanno un nome. Si tratta di Reza Karimi, Yasir Zaidi, Mozamil Azimi e Najeeb Heideri. La Corte, oltre ad aver condannato l’Italia per il respingimento collettivo e per l’assenza di accesso alle procedure di asilo nel porto di Ancona, ha sottolineato «l’inquietudine di molti osservatori per le espulsioni automatiche operate dalle autorità frontaliere italiane nei porti del mare Adriatico nei confronti di persone che molto spesso vengono affidate immediatamente ai capitani delle navi in vista di essere ricondotti in Grecia, privandoli così di tutti i diritti procedurali e materiali». Sono passati cinque anni eppure oggi caos e violazione dei diritti umani sono aumentati esponenzialmente, se non altro per il fatto che quasi la metà di tutti gli sbarchi avvenuti in questo lasso di tempo è avvenuta nel 2014. E continuano: ieri pomeriggio a Vibo Valentia è arrivata una nave con 700 migranti a bordo, mentre a Lampedusa sono stati sorpresi quattro tunisini appena sbarcati. Ma se la cronaca non impressiona più, in attesa del prossimo eclatante naufragio, è il livello del dibattito politico che lascia esterrefatti. Siamo arrivati al punto che con accenti più o meno razzisti in parlamento di fatto esiste un solo enorme partito trasversale schierato contro gli immigrati. Larghissime intese, piuttosto lugubri, tra chi predica bene e razzola male e chi ormai fomenta o cede alle peggiori pulsioni xenofobe. Della Lega sapevamo, e il peggio deve ancora venire dopo l’enorme manifestazione razzista che ha colto di sorpresa solo gli antirazzisti di professione che hanno sottovalutato il «lavoro» di Matteo Salvini. Ma in queste ore tiene banco la «svolta» di Beppe Grillo che si è scagliato contro i «clandestini» (potenziali portatori di malattie) utilizzando argomenti avvilenti per molti elettori che gli avevano dato fiducia. Ma ancora più avvilente è la replica, una specie di arrampicata sui vetri, di Luigi Di Maio che cerca di smarcarsi dalla Lega — «strumentalizza questi temi fino all’inverosimile» — balbettando «noi non vogliamo esasperarlo, stiamo semplicemente sottolineando un problema che ci viene proposto da decine di migliaia di cittadini, addirittura di poliziotti che vengono mandati a soccorrere i migranti». Sembra un leghista a modo per dire che la pensa come Grillo. Niente di più. Una non reazione all’anatema del capo che gli costa una lezione da parte di Paolo Beni, deputato Pd, secondo cui Lega e Cinque Stelle pari sono. Beni ha ragione quando afferma che il fenomeno immigrazione «è ormai diventato strutturale e l’esodo dal continente africano continuerà per i prossimi decenni, come ci insegnano i demografi. Chi non ha chiara questa situazione, non ha chiaro il problema e non può nemmeno permettersi di dare ricette». Ma per tornare alla drammatica realtà Paolo Beni dovrebbe anche aggiungere che il «suo» governo Renzi-Alfano (Pd-Ncd) il primo novembre sospenderà l’operazione Mare Nostrum, proprio come chiedono Salvini e La Russa, e probabilmente anche Grillo. Questa non è una opinione, è un fatto molto grave che potrebbe provocare la morte di migliaia di persone. E non ci sarà consolazione, in futuro, nemmeno di fronte a una dura condanna della Corte europea dei diritti umani.

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Da Repubblica.it (Bologna) del 22/10/14 "Basta violenza": Cgil e Cisl pronte a scendere in piazza con Merola Il sindaco aveva chiesto una manifestazione pacifica dopo i fatti di sabato. I sindacati: "Noi ci stiamo e diamo il buon esempio" BOLOGNA - Cgil e Cisl di Bologna sono già pronti: se il sindaco Virginio Merola fisserà un appuntamento per scendere in piazza pacificamente e dire basta alla violenza e agli scontri come quelli di sabato tra centri sociali e forze dell'ordine, loro ci saranno. Meno lanciati, ma comunque favorevoli all'iniziativa le associazioni dei commercianti e l'Arci, mentre l'Arcigay è perplessa. L'idea proposta da Merola, che ha parlato di una manifestazione da parte delle forze democratiche della città per fermare la deriva delle occupazioni, i tafferugli, gli imbrattamenti, ha trovato un terreno fertile in casa sindacale. Il segretario della Cgil, Maurizio Lunghi, chiarisce che "noi ci siamo sempre stati e ci siamo: se Merola vuole fissare un appuntamento per scendere in piazza e rilanciare il tema dei diritti e della non violenza noi aderiamo". Un esempio di come si fa un corteo, aggiunge il segretario della Cgil "noi lo abbiamo dato il 16 con lo sciopero regionale: ci siamo mossi all'insegna del rispetto e abbiamo lasciato la piazza pulita alla fine". Ancor più entusiasta di Lunghi è l'omologo della Cisl Alessandro Alberani. Il sindacato, dice, "sta col sindaco condivide in toto le sue valutazioni sui fatti dei giorni scorsi ed è pronta a incontrarlo per organizzare insieme una manifestazione pacifica". Una iniziativa che dica "basta con scioperi e cortei che bloccano la città e mettono in difficoltà i bolognesi". http://bologna.repubblica.it/cronaca/2014/10/21/news/merola-98676882/

Da Corriere.it (CorrierediBologna.it) del 21/10/14 DOPO I DISORDINI TRA ANTAGONISTI E FORZE DELL’ORDINE Sindacati con Merola, sì al corteo pacifico «Si può manifestare anche senza scontri» L’idea della manifestazione pacifica è stata lanciata dal sindaco per rispondere alle violenze dei giorni scorsi BOLOGNA - Cgil e Cisl cittadine sono già pronte: se il sindaco Virginio Merola fisserà un appuntamento per scendere in piazza pacificamente e dire basta alla violenza e agli scontri come quelli di sabato tra centri sociali e Forze dell’ordine, loro ci saranno. Meno lanciati, ma comunque favorevoli all’iniziativa le associazioni dei commercianti e l’Arci, mentre l’Arcigay è perplessa. L’INVITO DEL SINDACO L’idea proposta domenica e ieri da Merola, che ha parlato di una manifestazione da parte delle forze democratiche della città per fermare la deriva delle occupazioni, i tafferugli, gli imbrattamenti, ha trovato un terreno fertile in casa sindacale. L’ADESIONE DELLA CGIL Il segretario della Cgil, Maurizio Lunghi, oggi chiarisce che «noi ci siamo sempre stati e ci siamo: se Merola vuole fissare un appuntamento per scendere in piazza e rilanciare il tema dei diritti e della non violenza noi aderiamo». Un esempio di come si fa un corteo, aggiunge il segretario della Cgil «noi lo abbiamo dato il 5

16 con lo sciopero regionale: ci siamo mossi all’insegna del rispetto e abbiamo lasciato la piazza pulita alla fine». LA CISL: «SI POSSONO ESPRIMERE OPINIONI ANCHE PACIFICAMENTE » Ancor più entusiasta di Lunghi è l’omologo della Cisl Alessandro Alberani. Il sindacato, dice, «sta col sindaco condivide in toto le sue valutazioni sui fatti dei giorni scorsi ed è pronta a incontrarlo per organizzare insieme una manifestazione pacifica». Una iniziativa che dica «basta con scioperi e cortei che bloccano la città e mettono in difficoltà i bolognesi». Per Alberani, dovrebbe essere un’iniziativa unitaria, alla quale dovrebbero aderire anche le altre sigle e la città. A Bologna, analizza, ultimamente «ci sono stati troppi momenti di protesta violenta, mentre si può dire la propria opinione anche pacificamente e in maniera costruttiva». Per questo, Alberani lancia un invito ai centri sociali che sabato si sono resi protagonisti dei tafferugli con Polizia e Carabinieri: «Invece di protestare in maniera violenta, dovrebbero dare una svolta e fare qualcosa di veramente utile per gli indigenti, dovrebbero andare a fare i volontari alla mensa della Caritas». La citta’, insomma, «non puo’ piu’ essere bloccata: ci sono anziani che devono raggiungere i centri e genitori che devono portare i figli a scuola». ASCOM: «SERVONO FATTI CONCRETI» Quanto alle associazioni dei commercianti, il presidente dell’Ascom, Enrico Postacchini, dice: «Abbiamo lanciato tante iniziative per occupare spazi cittadini con la gente normale, come le notti bianche nei quartieri, non ci siamo mai tirati indietro». Però, mette subito in chiaro, «pure se le manifestazioni simboliche sono importanti, bisogna far vedere anche che c’è una mano forte, è necessario che ci siano azioni e fatti veri contro certe violenze». Confesercenti e Arci, da parte loro, pur condannando senza riserve le violenze di sabato, vogliono capire come sarà organizzata la manifestazione prima di aderire. Loreno Rossi, direttore di Confesercenti Bologna, si dice «d’accordo, in linea di principio, con l’idea del sindaco, anche perché quando ci sono degli scontri le attività commerciali subiscono sempre dei danni», ma prima di sbilanciarsi su un’eventuale partecipazione di Confesercenti vuole capire «su quali basi si intende organizzare la manifestazione». RISERVE DALL’ARCIGAY Molto meno convinto dall’idea lanciata da Merola il presidente di Arcigay Bologna, Vincenzo Branà, persuaso che «la violenza vada sempre condannata», ma anche che «la risposta giusta non sia una lezione su come si deve stare in piazza, ma una politica che si opponga fermamente alla deriva di destra che sta prendendo piede in tutto il Paese». (fonte: Dire) http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2014/21-ottobre-2014/sindacati- merola-si-corteo-pacifico-si-puo-manifestare-anche-senza-scontri-230388679923.shtml

Da Repubblica.it (Roma) del 21/10/14 "Il gioco di Mario", quando la ludopatia è una prigione "Il gioco di Mario", quando la ludopatia è una prigione Tema centrale de "Il gioco di Mario", che debutterà alle 21.30 del 21 ottobre al teatro della Casa delle Culture , è la ludopatia o meglio l'azzardopatia. Mario è infatti un uomo di 40 anni con una storia d'amore prossima al fallimento che trova rifugio nel gioco d'azzardo. Rifugio che di lì a poco si trasforma nella sua prigione poiché perde il controllo e si ritrova a combattere una vera e propria dipendenza, accompagnata anche dalla depressione. Lo spettacolo è patrocinato dall'Arci

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Roma e dalla lega dei Consumatori del Lazio, associazioni sensibili al problema della ludopatia. Fotogallery http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/10/21/foto/il_gioco_di_mario- 98658796/1/#1

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ESTERI

del 22/10/14, pag. 8 L’Isis si fa beffe di Obama: «Prese le armi dirette ai kurdi» Chiara Cruciati Iraq/Siria. Prima visita del premier iracheno a Teheran: l'Iran promette supporto militare. Lo Stato Islamico avanza a Sinjar e attacca i peshmerga. Papa Francesco in Turchia a fine novembre La guerra all’Isis diventa ogni giorno di più terreno di confronto tra i regimi regionali. Sebbene il nemico stavolta sia comune, non c’è governo che non tenti di sfruttare la propria partecipazione al conflitto con il terrore. Lo fa Teheran che rafforza la propria influenza su Baghdad; lo fa Ankara che camminando sul filo che separa l’intervento dall’immobilismo punta a indebolire sia il nemico siriano Assad che quello kurdo, il Pkk. E lo fa anche Damasco per salvare il presidente dal vortice della guerra civile e dell’isolamento internazionale. Ieri il premier iracheno al-Abadi è volato per la prima volta a Teheran dove ha incontrato il presidente Rowhani. Un meeting giunto a poche ore dalle bombe esplose nella città sacra sciita di Karbala, insieme a Najaf, considerata dall’Iran la linea rossa invalicabile dall’Isis. Con la caduta di Saddam Hussein e l’avvento di governi a maggioranza sciita, l’influenza iraniana è aumentata, legando l’Iraq all’asse Damasco-Teheran-Hezbollah (a lungo Baghdad è stato l’unico paese ad opporsi dentro la Lega Araba alle sanzioni al presidente Assad). Ieri Rowhani ha ribadito il supporto a Baghdad, ad oggi espresso indirettamente sotto forma di aiuti militari ai peshmerga e direttamente con l’invio dell’unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie a coordinare le attività dell’esercito governativo. Il presidente ha promesso nuovo sostegno alle truppe irachene, ovvero altre armi e consiglieri militari. Continua a muoversi, in maniera controversa, la Turchia. Dopo aver evitato qualsiasi coinvolgimento nella battaglia di Kobane, Ankara – su pressione Usa – ha optato per un intervento minimo, aiutando i peshmerga, i kurdi iracheni, ad attraversare la frontiera per combattere a fianco dei kurdi siriani. Seppure fino a ieri nessuno a Kobane li avesse ancora visti arrivare, dalla partecipazione dei kurdi iracheni Ankara potrebbe ottenere quanto cerca: una marginalizzazione del Pkk, presente da un mese a Kobane, e l’avvicinamento delle Ypg (le milizie kurde siriane) agli Stati uniti e alla coalizione che domenica hanno inviato per la prima volta aiuti militari su Kobane. Non tutti sono arrivati a destinazione: secondo l’esercito Usa, una parte delle armi sono state bombardate perché lanciate troppo vicine ad una postazione dello Stato Islamico. «Stiamo valutando il completamento della missione – ha detto un funzionario Usa – La maggior parte dei pacchi sono stati consegnati con successo alle forze kurde». Per questo alcune sono state distrutte, per evitare che cadessero in mano jihadista, dice il Pentagono, giustificandosi con il buio: gli armamenti sono stati sganciati di notte rendendo più difficile centrare il bersaglio. Diversa la versione dell’Isis: ieri in un video pubblicato in rete, lo Stato Islamico si è fatto beffe degli Stati uniti affermando di essere entrato in possesso delle armi lanciate per errore sulle proprie postazioni. Nonostante gli sforzi, l’Isis non barcolla. In Iraq lo Stato Islamico ha ripreso l’assedio del monte Sinjar, circondato ad agosto. Sarebbero ancora 2mila gli yazidi intrappolati, 700 8

famiglie, ormai prive di armi per difendersi. Due i villaggi occupati nei giorni scorsi dalle milizie di al-Baghdadi. All’inizio di agosto l’assedio e il massacro della minoranza irachena fu la giustificazione ai primi raid «umanitari» del presidente Obama. Sotto attacco anche il Kurdistan iracheno, dopo qualche settimana di tregua. Ieri i miliziani islamisti hanno lanciato 15 attacchi simultanei contro le forze kurde a nord dell’Iraq e contro i peshmerga a difesa della strategica diga di Mosul. Sotto pressione anche il centro del paese dove ieri è registrata l’ennesima ondata di attacchi terroristici: a Baghdad colpiti i quartieri sciiti di Abu Dashir, Madian e Talibiya, 30 morti. Sul fronte siriano, all’assedio di Kobane – che non cessa nonostante i kurdi controllino il 70% della città – si aggiungono nuove offensive nella provincia di Deir-al-Zor dove ieri, per la prima volta in due mesi, lo Stato Islamico ha strappato territori al controllo di Damasco: l’Isis ha occupato la zona industriale della città di Deir al-Zor, oltre la metà della comunità. Un Medio Oriente nel caos e la sorte delle minoranze cristiane preoccupano anche il Vaticano che ieri ha annunciato la meta del prossimo viaggio di papa Francesco: il pontefice sarà in Turchia a fine novembre per una tre giorni dedicata a incontri istituzionali e a portare solidarietà ai profughi siriani e iracheni.

del 22/10/14, pag. 8 Due milioni di yazidi in fuga dal Califfato Chiara Cruciati Iraq/Siria. Intervista a Medici Senza Frontiere attivi in Kurdistan. Quasi due milioni di profughi, in condizioni terribili: costretti a rifugiarsi sotto i ponti e nei palazzi in costruzione. E l'inverno è alle porte Un milione e 800mila iracheni rifugiati da gennaio, tanti quanti l’intera popolazione della Striscia di Gaza. Certi numeri descrivono l’avanzata dello Stato Islamico tra Siria e Iraq, il dramma dei profughi sunniti, yazidi e cristiani, l’emergenza che accompagna la loro fuga verso il Kurdistan iracheno. Dietro i numeri, stanno le vite di ogni rifugiato, la perdita della comunità, la famiglia, il lavoro. Sono quelli per cui la comunità internazionale ha detto di voler mettere in piedi una coalizione per frenare l’offensiva islamista. Sono quelli che hanno riempito i telegiornali nei giorni dell’assedio di Sinjar: 5mila di loro sono morti, 7mila – soprattutto donne – venduti come schiavi al mercato. Andavano salvati, ci hanno detto i governi occidentali. Ma adesso che sono in Kurdistan, pare che la missione sia terminata. Eppure l’emergenza non è cessata. Sono ancora 700 le famiglie yazidi intrappolate a Sinjar, circondate dalle bandiere nere dei miliziani islamisti. Sul campo le Ong internazionali cercano di arginare l’emergenza. La metà dei quasi due milioni di profughi ha trovato rifugio in scuole, campi ancora da completare, edifici pubblici nella regione autonoma del Kurdistan. Migliaia di persone non hanno avuto la stessa fortuna e vivono per strada, sotto i ponti, dentro palazzi in costruzione. Oltre 465mila si trovano a Dohuk, in condizioni di estrema povertà: «Oltre a Dohuk siamo attivi anche a Sharia e Zakho, dove la maggior parte dei profughi è concentrata – spiega al manifesto Giuseppe D’Andrea, coordinatore di Medici senza Frontiere in Iraq – Lavoriamo in un insediamento informale, Dabin: cinque torri da dieci piani con 7mila persone all’interno. Altri campi ospitano 5mila persone, per lo più yazidi da Sinjar, in tende non organizzate». Chi non trova posto nei campi, finisce sotto i ponti. Come quello di Dalal, nella città di Zakho, un antico ponte in pietra che oggi è casa a 5mila profughi di Sinjar. Le tende sono allineate sotto l’arco, intramezzate da qualche latrina. «Ci concentriamo sui rifugiati più

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vulnerabili. Non tutti si trovano nei campi. Le torri sono palazzi fantasma, solo pilastri, senza muri, completamente alla mercé delle intemperie. Lo spazio è pochissimo: immaginate 5 palazzi con 7mila persone, ci sono tra le 100 e le 200 famiglie per piano. È scioccante. Difficilmente ho visto altri profughi in tali condizioni». Tra le famiglie di Dabin c’è quella di Ahmed, insegnante a Sinjar. I trenta membri di quel nucleo familiare allargato condividono quattro stanze al sesto piano di uno dei palazzi fantasma. Intorno si continua a lavorare: gli operai scaricano dai camion i materiali da costruzione e li issano ai piani superiori. Le venti latrine disponibili sono tutte a piano terra. Sotto scorrono le acque reflue, a cielo aperto. Per non passarci sopra i profughi hanno posto delle passerelle di legno, ma diarrea, infezioni della pelle e problemi gastro- intestinali affliggono sempre più rifugiati. Cibo e acqua non mancano. A mancare sono i bagni e rifugi dignitosi, che fanno crollare il livello delle condizioni igieniche: «Le toilette sono state portate due settimane fa, circa 50, ma non bastano – riprende D’Andrea – Msf sta costruendo docce e bagni [100 latrine e 100 docce, ndr] ma ne servono molte di più. I profughi vanno dove possono, lungo le strade, sotto gli alberi, nelle case in costruzione, in ogni luogo che possa proteggerli dal sole. Ma a breve, tra un mese, cominceranno le piogge e il freddo invernale». Una preoccupazione che attanaglia anche Dalal: «Non ci sono finestre e non abbiamo abbastanza coperte. Come sopravvivremo alle temperature gelide?». Condizioni di vita lontane anni luce dalla vita di prima. In mezzo, un viaggio accidentato: «Parlo con loro per capire quello che hanno passato durante il tragitto per arrivare qui – ci dice D’Andrea – La maggior parte di loro viene da Sinjar dove noi di Msf eravamo presenti a luglio, nell’ospedale locale. Quando il 3 agosto i gruppi armati sono entrati e la gente è scappata sulle montagne, abbiamo mantenuto i contatti con i medici. Dopo una settimana, hanno camminato sette ore per arrivare in Siria quando hanno aperto il corridoio umanitario. Molti di loro, una volta raggiunta la Siria, sono rientrati da nord nel Kurdistan iracheno. La popolazione kurda è stato il primo attore umanitario ad intervenire, aiutandoli con trasporti, cibo, acqua. Arrivavano qui con molte bruciature dovute al sole o con problemi ai piedi per le distanze percorse. Molti sono ancora traumatizzati: ogni famiglia ha perso almeno un membro». Ma nonostante gli aiuti, l’emergenza è esplosiva: il numero di profughi è elevatissimo e sta costringendo le autorità kurde a completare in fretta i campi, per poterci trasferire i rifugiati che vivono nelle scuole e far ripartire l’anno scolastico. Dall’inizio di agosto, le scuole di Dohuk sono chiuse, trasformate in rifugi improvvisati. A Sharia sono oltre 3mila le persone alloggiate negli istituti scolastici. Ma per i bambini profughi la scuola è un miraggio. Malican ha 10 anni. È fuggita con la famiglia da Hatare: « Qualche giorno fa ho incontrato il mio insegnante e gli ho domandato quando avremmo ricominciato le lezioni – racconta – Mi ha detto che per ora le scuole a Hatare non riapriranno, è troppo pericoloso. Ma quello che mi manca sono i miei amici. Mi manca Madeline, non so dove sia ora, mi manca giocare con lei».

del 22/10/14, pag. 8 Nusra e islamisti pronti all’offensiva prima dell’inverno Michele Giorgio

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Siria. Il ramo siriano di al Qaeda e altre formazioni jihadiste impegnano i governativi di nuovo nella zona dei monti del Qalamoun. L'esercito di Damasco per ora respinge gli attacchi destinati ad intensificarsi prima dell'arrivo della stagione fredda. La crisi economica intanto morde. Il governo taglia i sussidi per il carburante destinato a fabbriche e aziende Sfiduciato e poi richiamato, grazie alle pressioni del Qatar e dei Fratelli Musulmani, Ahmad Tumah, “primo ministro” del governo-fantasma dell’opposizione siriana, in un’intervista al quotidiano saudita al Sharq al Aswat, ha ostentato ottimismo. Ha affermato che entro quattro mesi il suo esecutivo sarà in grado di amministrare i “territori liberati” e annunciato che l’Esercito libero siriano (Els, la milizia della CN, Coalizione Nazionale dell’opposizione) presto formerà il primo nucleo di un futuro “Esercito nazionale siriano”. Quale sia il contributo sul campo di battaglia dell’Esl tuttavia nessuno può quantificarlo con certezza. A leggere le notizie che diffondono le fonti locali, anche quelle anti-Bashar Assad, i soldati di quella che l’Amministrazione Obama definisce l’“opposizione moderata” appaiono marginali se non assenti da gran parte degli scenari di guerra in Siria, nonostante i generosi finanziamenti che la CN continua a ricevere da paesi occidentali e arabi. A combattere contro l’esercito regolare siriano in realtà sono i miliziani di al Nusra (il ramo siriano di al Qaeda) e quelli del Fronte Islamico, un raggruppamento di formazioni jihadiste “non globali” messo in piedi del principe saudita Bandar bin Sultan. Forze ideologicamente simili all’Isis. La battaglia di Kobanè, la strenua resistenza dei combattenti curdi all’avanzata dello Stato Islamico, decapitazioni e stragi di civili nel nord della Siria e in Iraq, catturano inevitabilmente l’attenzione dei media e degli osservatori. In altre parti della Siria intanto la guerra civile va avanti, con la consueta violenza. L’esercito regolare in questi ultimi giorni ha riconquistato diverse posizioni intorno ad Aleppo (i ribelli sono tornati ad accusare Damasco di far uso anche di sostanze chimiche) ma deve affrontare la nuova offensiva che al Nusra, il Fronte Islamico e qualche unità dell’Esl hanno lanciato sui monti del Qalamoun, in particolare nelle regioni di al Assal Jebbah e al Ward. Un’area di eccezionale importanza strategica tornata nei mesi scorsi sotto il pieno controllo del governo centrale. Le nuove battaglie in quella zona sono sanguinose, come ha dimostrato il recente tentato raid a Brital, un villaggio libanese lungo la frontiera, ordinato da Abu Malik Talli, l’emiro di al-Nusra nella zona di Qalamoun. Ad appoggiare, in modo decisivo, i governativi sono ancora una volta i guerriglieri del movimento sciita libanese Hezbollah e, con ogni probabilità, anche volontari iraniani. Dall’altra parte c’è un mix di miliziani siriani e di vari paesi islamici giunti in Siria per la “guerra santa”. Un giornalista del quotidiano di Beirut as Safir ha riferito di aver visto in quella zona numerosi corpi di caduti in battaglia e diversi automezzi distrutti. Ha aggiunto, citando proprie fonti, che Abu Malik Talli prima di lanciare l’offensiva avrebbe incontrato tutte le fazioni armate ribelli, presenti anche rappresentanti dello Stato Islamico, allo scopo di discutere di operazioni militari da portare a termine prima dell’inizio dell’inverno, per riaprire “collegamenti vitali” sulla frontiera tra Libano e Siria, infliggendo allo stesso tempo una pesante “lezione” a Hezbollah. Al Nusra e le fazioni alleate avrebbero impiegato in un primo attacco (a Brital) 150 uomini, e in un secondo, più ampio solo in territorio siriano, altri 450 combattenti. I piani però non hanno avuto successo, almeno sino ad oggi. I comandi siriani si dicono soddisfatti e così il governo dall’andamento delle operazioni militari. Per le autorità centrali però la situazione resta precaria, anche per la mancanza di risorse economiche che si riflette sulla vita dei cittadini che vivono nelle regioni costiere e centromeridionali del paese che sono sotto il controllo di Damasco. La pubblicazione economica Syria-Report riferisce che a causa dell’occupazione nel nord-est della Siria da

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parte dell’Isis, dove si trovano i giacimenti petroliferi, delle sanzioni internazionali e della scarsità di entrare fiscali, le autorità sono state costrette ad annunciare che dal 23 ottobre cesseranno i sussidi statali per il carburante destinato a fabbriche e aziende. Da domani in poi la benzina sarà venduta alle industrie al pezzo di mercato.

del 22/10/14, pag. 9 «Cluster bombs di Kiev anche dopo la tregua» Simone Pieranni Ucraina. Human Right Watch pubblica un report che prova l’utilizzo di «bombe a grappolo» da parte dell’esercito ucraino, dopo la firma del cessate il fuoco Anche in seguito alla tregua stabilita dal governo ucraino di Kiev e i ribelli filorussi lo scorso 5 settembre, la guerra in Ucraina è proseguita fino ad oggi, con bombardamenti e combattimenti tra Donetsk e Lugansk, nelle regioni orientali del paese. In questo periodo, nonostante le parole di pace alargite ad ogni occasione internazionale da Petro Poroshenko, il presidente ucraino, l’esercito di Kiev avrebbe utilizzato almeno dodici volte, causando la morte di almeno sei civili, le bombe a grappolo. Questa circostanza è stata verificata da esperti ed è ampiamente spiegata in un report pubblicato ieri da Human Rights Watch, ripreso con enfasi, in prima pagina, dal New York Times. Le prove circa l’utilizzo di cluster bombs da parte dell’esercito regolare di Kiev, sono arrivate attraverso il lavoro sul campo di tecnici militari, che hanno analizzato testimonianze, video e soprattutto i crateri e i frammenti delle munizioni ritrovate nei luoghi segnalati. Come ha specificato Human Rights Watch, inoltre, i numeri (di attacchi, vittime e feriti) sono per difetto, perché gli esperti non hanno potuto visionare tutti i luoghi dove sarebbero piovute le bombe, segnalati dai testimoni, in gran parte contadini, che si sono ritrovati i campi invasi da «submunizioni». Le particolarità del report sono rilevanti: le bombe sarebbero stato utilizzate nel periodo successivo alla tregua, al cessate il fuoco dichiarato dal governo di Poroshenko e dai ribelli filorussi; avrebbero causato la morte di almeno sei civili (per un totale di oltre 3mila, secondo i dati rilasciati dall’Onu lo scorso 15 ottobre), tra cui l’operatore della Croce Rossa, un cittadino svizzero, ucciso lo scorso 2 ottobre. Infine, va ricordato che questo tipo di artiglieria pesante è bandito da un trattato internazionale contro l’uso di bombe a grappolo ratificato da 86 paesi (ma non ratificato, guarda il caso, da Ucraina, Usa e Russia). Nei 12 casi documentati da Human Rights Watch, le munizioni a grappolo hanno ucciso almeno sei persone e ne hanno ferito decine. «Il numero reale delle vittime causato dall’uso di munizioni a grappolo nel conflitto – si legge nel report — è probabilmente più alto, dato che Human Rights Watch non ha potuto indagare tutte le accuse riscontrate circa l’utilizzo di queste munizioni». Gli esperti hanno provato l’utilizzo di queste armi, grazie ai crateri e alle frammentazioni tipiche delle submunizioni. Entrambi i lanciarazzi utilizzati, Uragan e Smerch, sono prodotti in Russia. L’Uragan può bombardare da un campo minimo di 10 chilometri a una portata massima di 35 chilometri; lo Smerch può arrivare anche a 70 chilometri. Ieri è arrivata la reazione di Kiev. Il Consiglio di sicurezza e difesa ucraino ha respinto le accuse avanzate dall’organizzazione per la difesa dei diritti umani Human Rights Watch secondo cui le forze armate di Kiev hanno usato bombe a grappolo nelle zone residenziali 12

di Donetsk e nelle aree limitrofe. «L’esercito ucraino — ha detto il portavoce del Consiglio di sicurezza, Andrii Lisenko — non ha usato armi vietate a livello internazionale, incluse le bombe a grappolo». Eppure già nell’agosto scorso alcuni video che erano comparsi on line, testimoniavano gli spostamenti dei lancirazzi citati da Hrw, da parte dell’esercito regolare ucraino. Nel rapporto, l’organizzazione internazionale sostiene che ci siano dei sospetti circa l’utilizzo di queste armi anche da parte dei filorussi, senza tuttavia il supporto di alcuna prova specifica raccolta sul campo. Come riportato dal New York Times, «Il rapporto specifica che esistono prove particolarmente chiare, circa gli attacchi delle truppe ucraine ad ottobre contro Donetsk, così come potrebbero essere state utilizzate bombe a grappolo in un attacco sferrato ad agosto, contro il villaggio di Starobesheve, in mano all’esercito ucraino da parte delle forze filorusse». Le prove contro l’esercito ucraino sarebbero dunque nette, nonostante il diniego che è arrivato da Kiev. L’esperto di Hrw, Mark Hizany ha specificato: «È sconvolgente vedere che un’arma vietata alla maggior parte dei paesi nel mondo, venga utilizzata in modo estensivo in Ucraina orientale; le autorità ucraine devono impegnarsi immediatamente a non utilizzare munizioni a grappolo e aderire al trattato che le vieta». Per quanto riguarda i filorussi, ieri Andrei Purgin, vice primo ministro della Repubblica Popolare di Donetsk, ha specificato alla Reuters, che «le forze ribelli non hanno accesso al lanciarazzi Uragan. Abbiamo vecchi missili sovietici, ma non Uragan, né li abbiamo sequestrati all’esercito ucraino». La Russia ha sempre negato l’invio di truppe o armi per aiutare i ribelli, ma Human Rights Watch ha esortato Mosca a impegnarsi a non utilizzare munizioni a grappolo e di aderire al trattato contro il loro utilizzo. Il report di Hrw - dunque — allontana ulteriormente la possibilità di una soluzione pacifica tra le parti, evidenziando le responsabilità di Kiev, da cui ancora attendiamo il risultato di inchieste promesse e su cui non sono stati rese note novità alcune: dalla morte del fotoreporter italiano Andrea Rocchelli, ucciso da un colpo di mortaio, alla strage di Odessa, un rogo nel quale morirono almeno 48 persone.

del 22/10/14, pag. 9 Elezioni Al voto il 26. Oligarchi e clan grandi protagonisti Fabrizio Poggi Ucraina. Stabilite due nuove ricorrenze: le date di nascita dell'Upa filonazista e del suo leader Bandera Il 15 ottobre scorso l’Onu aveva fissato in 3.707 il numero di civili morti e 9.075 feriti per il conflitto nel Donbass; ma il numero complessivo delle vittime, compresi i combattenti, è più alto. E ieri si sono registrati altri tiri delle artiglierie di Kiev su Donetsk, mentre Pëtr Poroshenko annunciava il terzo accordo con le milizie sul «regime del silenzio», che però, dallo scorso 5 settembre (il primo cessate il fuoco), è costato la vita ad altri 300 civili. Qualunque valore e legittimità voglia attribuirsi a delle elezioni parlamentari che si svolgono nelle condizioni per cui una parte non marginale del territorio ne rimarrà esclusa, domenica prossima si calcola che non più del 35% degli ucraini si recherà alle urne per eleggere la nuova Rada. Un parlamento che molti osservatori pronosticano «di clan e oligarchico», espressione ancora di più dei raggruppamenti finanziari che fanno capo a 13

pochi magnati. Già durante la campagna elettorale sono stati avviati 141 procedimenti penali per «compravendita» (offerte fino a 500 grivne, contro entrate medie mensili di 3500, pari a circa 210 euro) di voti in varie città e province ucraine. Tra i 3114 candidati, per 29 partiti (il Pc ucraino e il Partito delle Regioni non hanno avuto praticamente possibilità di svolgere campagna elettorale; ma anche candidati di partiti governativi non sono rimasti immuni da intimidazioni e attentati) anche nomi noti dei battaglioni neofascisti: Andrej Biletskij di «Azov», Semën Semëncenko di «Donbass», Juruj Berezu di «Dnepr-1» e delle frange ultranazionaliste. I sondaggi danno per favorito il «Blocco Petro Poroshenko» col 30%, seguito dal «Fronte popolare» del premier Arsenij Yatsenjuk (9%). Se dunque nella nuova Rada saranno rappresentati anche esponenti delle «famiglie perdenti», ma ancora forti, dei Kuchma, Yushenko e Yanukovic, sembra che la mossa di Poroshenko di andare alle elezioni possa avere successo. Resta da vedere quanto a lungo. Secondo l’Istituto internazionale per i nuovi Stati, la nuova Rada sarà ancora più radicale della precedente: il tentativo (tardivo e in gran parte di facciata) di Poroshenko di prendere le distanze dai battaglioni che, foraggiati dai vari oligarchi, fanno strage di civili nel Donbass, può risolversi in un parlamento «bivacco» degli esponenti di quegli stessi battaglioni. L’omaggio tributato dal Presidente alle frange ultranazionaliste è sfociato in questi giorni nel decreto che fissa due nuove ricorrenze, di per sé significative: le date di nascita dell’Upa filonazista (lo scorso 14 ottobre) e del suo leader Stepan Bandera (il prossimo 1 gennaio). Rostislav Ishchenko è convinto della prossima tragica fine di Poroshenko: «Nel maggio scorso, allorché divenne Presidente, Poroshenko era la figura più debole nella politica ucraina, che doveva assumersi la responsabilità di tutti gli orrori della guerra civile. Se gli americani avessero voluto salvarlo, lo avrebbero consigliato di arretrare le truppe e avviare negoziati. Alla caduta di Poroshenko sono interessati tutti; alla sua eliminazione fisica, quasi tutti». Una prospettiva, questa di un prossimo ulteriore colpo di Stato, non esclusa nemmeno in Occidente. Comunque vadano le cose, secondo un sondaggio dell’Accademia delle scienze ucraina, oltre il 40% degli ucraini ritiene di trovarsi al di sotto della soglia di povertà e a fine 2014 il reddito reale diminuirà probabilmente del 20%. Ciò, a parere del leader del partito «Scelta ucraina» Viktor Medvedchuk, grazie alla «rottura dei legami economici con la Russia e il conseguente fermo di molte imprese, alle misure di austerità dettate dal Fmi, con i massicci licenziamenti nel settore pubblico e l’aumento dei prezzi dei prodotti primari: tutte politiche anti-sociali imposte dagli usurai internazionali». E Diana Gorshecnikova scrive su Ria Novosti che per unirsi alla Ue l’Ucraina dovrebbe innanzitutto riadattare tutta l’economia agli standard europei: il fatto è che l’Europa, sul cui aiuto fa così conto Kiev, difficilmente ha intenzione di sostenere seriamente l’economia ucraina. Anche perché, i pochi settori di punta ucraini (soprattutto aviazione civile o agroalimentare) rischierebbero di fare concorrenza ad alcuni monopoli europei. In questo quadro, mentre a Bruxelles sono iniziati ieri i colloqui tra Russia, Ucraina e Ue sul gas, secondo la linea in gran parte concordata a Milano il 17 ottobre (Mosca sarebbe pronta ad accordare uno sconto sul prezzo del gas già fornito), da registrare la telefonata di Putin a Poroshenko che ha toccato, oltre il tema del gas, anche quello della ricerca di una via d’uscita comune dalla crisi nel Donbass.

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Del 22/10/2014, pag. 16 Ucraina al voto, spopolano i paramilitari OGNI LISTA HA INSERITO SOLDATI E VOLONTARI CHE HANNO COMBATTUTO CONTRO I FILORUSSI, POROSHENKO RESTA FAVORITO Di Giuseppe Agliastro L’Ucraina si prepara alle elezioni parlamentari in un clima di tensioni e rivendicazioni. Il conflitto nel sud-est russofono prosegue a dispetto della fragile tregua del 5 settembre, e per raccogliere quanti più voti possibile quasi tutti i partiti hanno farcito le loro liste con militari o combattenti di battaglioni di volontari. La chiamata alle urne è fissata per il 26 ottobre, domenica prossima, ma i seggi resteranno chiusi nei tanti distretti controllati dai miliziani separatisti, e ovviamente nell'ormai russa Crimea. La nuova Verkhovna Rada si prepara ad accogliere un numero record di deputati filo-occidentali. La fetta più grossa dei 450 seggi in palio andrà probabilmente al presidente Petro Poroshenko, o meglio al Blocco che porta il suo nome, che secondo un recente sondaggio dell'istituto Ratinggroup dovrebbe staccare tutti gli avversari (e gli alleati) aggiudicandosi il 33,5% dei suffragi, mentre il partito Patria dell'ex pasionaria della Rivoluzione arancione, Yulia Tymoshenko, dovrebbe accontentarsi di un più modesto 6,9% nonostante la mossa vincente dal punto di vista del marketing elettorale di piazzare come propria capolista la top gun Nadia Savchenko, catturata mentre combatteva nell'est e ora processata in Russia. Ma a far paura in Ucraina è l'ascesa dei nazionalisti, con i radicali del fanatico Oleg Liashko che potrebbero diventare addirittura la seconda forza politica del Paese con il 12,8% dei voti. LIASHKO si fa pubblicità elettorale facendosi ritrarre con un kalashnikov in mano ed è accusato da Amnesty International di aver guidato degli squadroni di “irriducibili” a farsi giustizia da sé picchiando e umiliando dei presunti filorussi nei territori del sud-est tornati sotto il controllo di Kiev. Restano invece molto più indietro altri partiti nazionalisti, come Svoboda e il movimento paramilitare Pravij Sektor (Settore Destro), che pure sono stati tra i protagonisti della rivolta di Maidan: probabilmente perché “cannibalizzati”proprio da Liashko. Dovrebbe fare bene anche il Fronte popolare di Arseni Yatsenyuk, che ha abbandonato la Tymoshenko (il cui astro politico appare ormai in declino) per allearsi con Poroshenko: secondo Ratinggroup il partito del premier potrebbe raggiungere l'8,9% e un risultato così positivo potrebbe essere dovuto ai nomi di sicuro richiamo che ha fatto salire sulla sua barca, come il comandante delle forze di Autodifesa di Maidan, Andriy Parubiy, la blogger e attivista politica Tetyana Chornovol o - ed ecco il combattente - Viacheslav Konstantinovskij, un multimilionario che ha deciso di imbracciare il fucile per combattere i separatisti e si è arruolato nell'esercito. Non solo, l'oligarca ha anche deciso di vendere la sua Rolls Royce per raccogliere 250.000 dollari da donare alle forze armate ucraine: ed è questo che viene ricordato dallo slogan stampato sui manifesti di cui è tappezzata Kiev. Navigano invece in cattive acque gli ex fedelissimi del deposto presidente Viktor Yanukovich, che avevano il loro feudo elettorale proprio nelle regioni dell'est. Il clima in Ucraina resta teso, e lo prova il presunto tentato omicidio ai danni di Volodimir Borisenko, un candidato del Fronte popolare a cui qualcuno avrebbe sparato nel giardino della sua abitazione vicino Kiev. Il politico si sarebbe salvato perché indossava un giubbotto antiproiettile. C’è poi la denuncia dell'ex ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski, secondo cui nel 2008 il presidente russo Vladimir Putin propose all’allora premier di Varsavia, Donald Tusk, una spartizione dell’Ucraina.

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Del 22/10/2014, pag. 3 Italia e Francia, i rilievi Ue sui conti La frenata di Barroso, prima di lasciare Il «Financial Times»: pronte le richieste di chiarimenti anche per Austria, Slovenia e Malta di Ivo Caizzi Bruxelles Gli euroburocrati della Commissione europea stanno completando le lettere di richiesta di chiarimenti tecnici sulle leggi di Stabilità, che secondo il quotidiano Financial Times potrebbero essere inviate già oggi a Francia, Italia, Austria, Slovenia e Malta. Ma le decisioni sulle aspettative di maggiore flessibilità nei bilanci nazionali sono attese dal massimo livello politico nel Consiglio dei 28 capi di Stato e di governo, che inizia domani a Bruxelles. Secondo varie fonti autorevoli, la cancelliera tedesca Angela Merkel, leader degli europopolari sostenitori del rigore finanziario, sarebbe disponibile a trattare un compromesso con i due leader eurosocialisti, il presidente francese Francois Hollande e il premier Matteo Renzi, garantendo la disponibilità della nuova Commissione europea del suo fidato lussemburghese Juan-Claude Juncker. Verrebbe cancellato di fatto anticipatamente il presidente uscente della Commissione, il portoghese Josè Manuel Barroso, che appare ancora considerare l’ipotesi di un severo richiamo a Roma e Parigi nel suo mandato, quindi entro fine ottobre. Le indiscrezioni degli ultimi giorni, che hanno cercato di far salire la tensione, sono fuoriuscite proprio dalla sua istituzione Ue. Hollande ha trasferito all’Eliseo la solita riunione dei leader eurosocialisti nella mattinata pre-summit per consolidare il fronte impegnato a ottenere più flessibilità nelle politiche di bilancio e nuovi investimenti Ue per rilanciare la crescita e l’occupazione. Gli eurodeputati hanno già respinto Barroso disertando in massa il suo discorso di addio e accelerando le procedure per consentire l’approvazione della nuova Commissione oggi a Strasburgo. Il capogruppo degli eurodeputati socialisti Gianni Pittella, definendo «disastrosa» la doppia presidenza di Barroso, ha detto di aver accettato tempi stretti perché «vogliamo che la nuova Commissione entri in forze il primo novembre, non vogliamo che Barroso sopravviva politicamente». Il presidente della commissione Affari economici dell’Europarlamento, Roberto Gualtieri del Pd, ha esortato che la Commissione uscente «nella valutazione delle leggi di Stabilità, non voglia ostacolare questo nuovo corso» orientato sulla crescita e sull’occupazione più che sul consolidamento dei bilanci. Juncker, tradizionalmente schierato con Merkel e gli altri leader popolari più rigoristi, appare ben più disponibile del predecessore dopo aver visto favorire il via libera rapido ai suoi commissari e - nell’ultimo Ecofin presieduto dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan – perfino lo slittamento al 2017 della fine del segreto bancario nel suo Granducato paradiso fiscale. Anche il commissario Ue per gli Affari economici e prossimo vicepresidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, guarda al probabile compromesso al summit di domani e venerdì tra il suo principale sponsor nella nomina a Bruxelles, la cancelliera Merkel, con Hollande e Renzi. Ha così ridimensionato a semplici «chiarimenti di alcuni dati» le richieste di informazioni degli euroburocrati dei suoi servizi ai tecnici di Padoan a Roma. «Siamo concentrati nell’analizzare le cifre e le misure che ci ha inviato il governo italiano – ha dichiarato Katainen -. Speriamo che tutto vada per il meglio». Per lui, prossimo vicepresidente della Commissione Juncker (con poteri di coordinamento su vari settori economici) non sembra esserci l’urgenza di bocciature tecniche entro ottobre, che tra 16

l’altro potrebbero essere rimesse in discussione dal suo successore agli Affari economici, il socialista francese Pierre Moscovici. Barroso invece, che punta alla presidenza della Repubblica nel suo Portogallo come leader del centrodestra, non disdegnerebbe di cavalcare un richiamo ai leader socialisti di Francia e Italia, sia pur dall’impatto esclusivamente mediatico.

Del 22/10/2014, pag. 1-34 Le poesie le scrive in cella, sul pavimento di pietra: con l’acqua, perché gli hanno tolto anche l’inchiostro. Le giornate le passa a cucire le divise dei carcerieri. Non può vedere nessuno, neanche l’avvocato. Colpevole d’aver difeso i diritti umani, per Pechino Liu Xiaobo ormai è un fantasma. Ma quattro anni dopo la solenne cerimonia di Oslo, lo è anche per l’Occidente Il Nobel prigioniero GIAMPAOLO VISETTI NON possiede più niente. Le scarpe che calza sono dello Stato. Gli hanno tolto carta e inchiostro. Ogni giorno scrive poesie sul pavimento di pietra, bagnando un dito nella ciotola dell’acqua che beve. I versi, anche se in cella, sono liberi: evaporano in pochi istanti. Vietato invece leggere. La rieducazione ha deciso che il lavoro giusto per lui è il sarto. Liu Xiaobo a fine dicembre compirà 59 anni e trascorre le giornate a cucire le divise dei suoi carcerieri. Nella sua vita di prima insegnava filosofia. Si è poi scoperto poeta e ha promosso “Charta 08”, ultimo manifesto per la democrazia in Cina. Nel 2009 era Natale quando lo hanno condannato: undici anni di carcere per «incitamento alla sovversione». Nel dicembre di dodici mesi dopo, a Oslo, la sua “sedia vuota” di Nobel per la pace fece paura anche a Pechino. «Una farsa e un crimine — dissero le autorità — orchestrati da gruppi di pagliacci stranieri per conto degli Usa». Altri quattro anni e quella “sedia rimasta vuota”, e quel Nobel, per la Cina non esistono. Anche i “pagliacci” però rivelano di avere poca memoria. Di Liu Xiaobo, poeta divenuto sarto per aver chiesto libertà e aver dedicato il premio «alle anime morte di piazza Tienanmen», il mondo non parla più. «Lui però è vivo — dice l’amico Yang Jianli — e vuole resistere almeno fino al giorno in cui potrà uscire dal carcere». Mancano sei anni e nella cella di Jinzhou, in Manciuria, possono essere lenti. Il suo “trattamento” è stato indurito. Nessun contatto con l’esterno, sospese le visite dell’avvocato. Un muro di vetro lo separa dalla moglie Liu Xia, la sola che ha il permesso di visitarlo una volta al mese. Èl’ultima punizione, per aver confidato di «ripassare a memoria ogni notte il discorso». Sogna di pronunciarlo quando finalmente potrà volare libero in Norvegia, per ritirare il riconoscimento che ancora lo attende. Liu Xiaobo è un fantasma invisibile e dimenticato, su quell’aereo forse non salirà mai. Fuori dal carcere in cui è rinchiuso resta però un posto di blocco e due pattuglie impediscono a chiunque di avvicinarsi «per motivi di sicurezza ». Il nulla, ai regimi, non dà pace. Oltre cinquemila chilometri più a sud, alla periferia di Pechino, anche l’appartamento di tre stanze in cui ufficialmente è confinata Liu Xia, viene considerato un «luogo pericoloso». Certi drammi fanno sorridere: la moglie del Nobel, 55 anni, da febbraio non vive più nel malandato palazzo bianco. Restano tre agenti condannati a sorvegliare il suo spettro. Un’auto della polizia, nel cortile vuoto, controlla i documenti a chi passa. «Vivo qui — dice un vicino — mi conoscono. In quattro anni hanno registrato il mio nome migliaia di 17

volte». Liu Xia da nove mesi è in ospedale. Per gli amici rischia di «finire sepolta viva in un manicomio». Le ultime immagini, rubate durante pochi minuti di distrazione dei secondini, risalgono a gennaio. Appare con la testa rasata a zero, vestita con una vecchia felpa, magra, irriconoscibile rispetto alla bella donna imprigionata l’8 ottobre 2014. Il confino, un’ora dopo l’assegnazione del Nobel al marito. Xu Youyu, amico da venticinque anni, dice che «è ridotta nella povertà più totale» e che il potere cinese «vuole farla impazzire, o spingerla al suicidio». Su di lei non pende alcuna accusa. Sposare un ragazzo che poi vince un Nobel «per la sua lunga e non violenta lotta per i diritti fondamentali in Cina», è una colpa più che sufficiente. Per oltre tre anni, prima di finire in clinica chiedendo di morire, la mattina poteva uscire a fare la spesa. Perso il lavoro, finiti i soldi, si faceva accompagnare dalla madre pensionata. Percorrevano a stento i trecento metri fino ad un piccolo spaccio. Le scortavano sei agenti, a volte ragazzi buoni che si offrivano di saldare il conto di riso e foglie di cavolo. «La signora Liu — dice la negoziante — sorrideva sempre ma si vedeva che le veniva da piangere. Diceva che la polizia le suggeriva di divorziare. Un funzionario telefonava per ricordarle che bisogna stare attenti a chi si sposa. L’ultima volta ha promesso che un giorno mi pagherà». Sono passati quattro anni dal Nobel per la pace a Liu Xiaobo, venticinque dalla repressione degli studenti in piazza Tienanmen, e la realtà in Cina è questa: il dissidente è isolato in Manciuria e sottoposto a regime di carcere duro, sua moglie è agli arresti domiciliari in un ospedale di Pechino, curata per «esaurimento nervoso». Nessuno dei due è avvicinabile. Gli edifici in cui risultano reclusi sono sorvegliati giorno e notte. Non possono comunicare con il mondo esterno. Liu Xiaobo rifiuta di chiedere clemenza al presidente Xi Jinping. Liu Xia dice che la politica non l’ha mai interessata. Quando si incontrano si possono scambiare solo poesie d’amore: la censura pensa che non sono «anti-patriottiche». La pena del Nobel scade nel 2020. Quella della moglie nessuno lo sa perché non è stata mai condannata. In un mondo normale, governi e opinioni pubbliche chiederebbero ogni giorno la libertà degli innocenti. Un regime che imprigiona chi esprime pacificamente le proprie idee verrebbe emarginato dalla comunità internazionale. Nel 2010 tale impegno, da parte dei Paesi democratici, fu solenne. La Cina invece viene oggi contesa tra quelle stesse nazioni, che esaltano la sua crescita economica, da cui dipendono. Il gigante dei capitali nasconde il nano dei diritti. Prima di metà novembre il presidente americano Barack Obama volerà a Pechino per il vertice delle potenze affacciate sul Pacifico. I famigliari e gli amici di Liu Xiaobo e di Liu Xia, i superstiti di Tienanmen, gli hanno chiesto di sfruttare l’occasione per scongiurare Xi Jinping di liberarli, prima che sia troppo tardi sia per loro che per la Cina. È l’ultima speranza: se il silenzio continua, legittimando l’indifferenza, il Nobel e la sua “sedia vuota” si trasformeranno nel certificato storico della resa di chi crede nei diritti umani.

del 22/10/14, pag. 7 Union Patriotica fu crimine di guerra Geraldina Colotti Bogotà. Un'importante sentenza sul massacro delle forze di sinistra Delitto di lesa umanità e crimine di guerra. Così, in Colombia, la magistratura ha definito lo sterminio contro l’Union Patriotica (Up) perpetrato negli anni ’80-’90: 34 omicidi contro dirigenti, esponenti e simpatizzanti dell’organizzazione politica, tra i quali anche il candidato alla presidenza Bernardo Jaramillo Ossa e il leader di quartiere, José Antequera. Attacchi commessi da «gruppi paramilitari, in alcuni casi insieme ad agenti 18

dello Stato – ha ammesso la magistratura – sistematici ripetuti e generalizzati, commessi contro la popolazione civile tra il 1986 e il 1996». La maggior parte dei casi erano stati prescritti, ma con questa decisione le indagini possono riaprirsi. Un’importante sentenza che riporta l’attenzione sull’alleanza criminale tra paramilitari, agenti dello stato e settori politici imprenditoriali che caratterizza la scena politica colombiana dai tempi dell’assassinio del progressista Jorge Eliecer Gaitan, candidato alla presidenza della repubblica, ucciso nel 1948. La Up fu un partito politico di sinistra fondato nel 1985 e a cui inizialmente parteciparono diversi gruppi guerriglieri, tra cui le Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc): al termine di un processo di pace tra la guerriglia marxista di Manuel Marulanda e l’allora presidente Belisario Betancur. Nell’86, il candidato presidenziale dell’Up, Jaime Pardo Leal, ottenne il 4,6% delle preferenze, arrivando terzo alle presidenziali. Leal verrà poi ucciso insieme all’altro candidato alla presidenza, anch’egli avvocato, Bernardo Jaramillo Ossa, a deputati e senatori, sindaci, e a circa 5.000 militanti. Molti dei sopravvissuti abbandonarono il paese. Tra questi, la candidata alla vicepresidenza Aida Avella, riparata in Svizzera dopo essere scampata a un attentato e tornata in patria per partecipare alle elezioni presidenziali del 2014 con la Union Patriotica. Una sentenza che entra nel dibattito in corso a Cuba tra il governo di Manuel Santos e le due principali guerriglie, le Farc e l’Esercito di liberazione nazionale (Eln). Il 24 ottobre riprende il negoziato per portare a soluzione politica un conflitto che dura da oltre cinquant’anni: gli anni dei due gruppi armati e delle contraddizioni strutturali che li hanno prodotti. Il «ciclo n. 30» delle trattative sta affrontando il tema delle vittime e vede la partecipazione diretta di diverse associazioni, a seguito di un ampio dibattito in corso nel paese. Un percorso che ha rimesso in moto le energie della sinistra di alternativa, che ha votato per il neoliberista Santos in quanto portatore dell’importante processo di dialogo. Il rischio è però che, come ricorda la sentenza della magistratura, tutto finisca come sempre in Colombia. Per questo, l’obiettivo delle forze del cambiamento, avanzato dalla guerriglia all’Avana, è soprattutto quello di arrivare a un’Assemblea costituente, che attivi la società colombiana e risolva alla radice le storture di cui è vittima. Il governo intende invece sottomettere a referendum gli accordi, in contemporanea alle prossime elezioni regionali. Un ostacolo non da poco è rappresentato dall’ex presidente colombiano Alvaro Uribe. Uribe, grande sponsor dei paramilitari, ha inviato continui siluri contro il processo di pace, che si è aperto nel 2012. Durante le ultime elezioni, Santos ha denunciato di essere stato spiato illegalmente. E così i negoziatori dell’Avana. Venerdì scorso sono stati arrestati tre militari colombiani, un capo dell’esercito e un agente della Direzione nazionale di intelligence, accusati di far parte della cosiddetta operazione Andromeda, scoperta a febbraio scorso. Uribe, insieme al suo partito Centro democratico, ha sollevato 52 obiezioni sugli accordi già raggiunti nei tavoli dell’Avana: quello della terra, della partecipazione politica in sicurezza e delle droghe illecite. «Il governo si è inginocchiato davanti alla guerriglia» ha accusato Uribe a più riprese, lamentando soprattutto che «in nessuna parte degli accordi si chiede alle Farc di riconoscere i loro rapporti col narcotraffico». Ha anche attaccato Santos per aver consentito il viaggio all’Avana del massimo dirigente delle Farc, Timoshenko». Santos, suo ex ministro della Difesa, eletto nel 2010 con l’appoggio di Uribe e poi diventato suo avversario, ha ammesso di aver autorizzato il viaggio del leader Farc. Poi ha invitato l’ex presidente a discutere, ma finora non ha ricevuto risposta.

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Il prossimo 2 novembre arriverà all’Avana il quarto gruppo di vittime per portare avanti la discussione sul tema. Saranno presenti anche funzionari del Venezuela, del Cile e della Norvegia, paesi garanti fin dall’inizio del processo di pace.

del 22/10/14, pag. 7 Non c’è partita, vince il Frelimo Alessandra Vanzi Elezioni generali. I risultati premiano come previsto il partito di governo, ma non c'è l'attesa affluenza di massa alle urne Mercoledì 15 ottobre si sono svolte in Mozambico le elezioni parlamentari e presidenziali. Anche se gli scrutini non sono ancora ufficialmente terminati è evidente la vittoria schiacciante del Frelimo la cui percentuale si aggira intorno al 65%. Una percentuale comunque ben più bassa di quel 75% raggiunto nelle elezioni del 2009, del resto tutta la campagna elettorale aveva messo in evidenza la grande sproporzione di risorse tra il partito al potere e gli altri due. Maputo è ancora interamente ricoperta di manifesti di Nyusi mentre degli altri due candidati Dlhaklama e Simango si fatica a trovare l’effige. È chiaro che il Frelimo ha usato tutti gli strumenti e i capitali in suo possesso, cioè gli unici disponibili, per osteggiare qualsiasi possibile sorpasso. La sbandierata, auspicata e attesa partecipazione di massa non è avvenuta. Su 10.000.000 di cittadini che si erano iscritti per votare (qui è necessario iscriversi prima), solo 5.000.000 si sono effettivamente recati alle urne, ovvero solo il 50% (e se si fa un calcolo di tutta la popolazione si scende ancora, dato che i cittadini che potevano usufruire del diritto di voto erano 12.000.000). Ci sono stati poi alcuni incidenti nel nord del paese, urne chiuse prima del dovuto, qualche strano assalto di marginales nelle scuole dov’erano i seggi (non si capisce perché mai), schede rubate o contraffatte, osservatori e delegati tenuti fuori con la scusa di non aver depositato in tempo i documenti necessari, qualche pistolettata, due morti e un numero indefinito di feriti, episodi considerati non abbastanza gravi dagli osservatori Ue da poter invalidare le elezioni come sta richiedendo a gran voce Dlhaklama. Ancora non si capisce quali saranno le conseguenze di tutto ciò, l’ipotesi che la Renamo, che non ha mai riconsegnato le armi, ricominci a combattere non sembra molto plausibile. Piuttosto si prevede qualche trattativa su ruoli e riconoscimenti tra i due maggiori contendenti Frelimo e Renamo, Mdm ha percentuali molto basse al momento, che varieranno a secondo delle proporzioni reali che risulteranno a scrutini finiti.

del 22/10/14, pag. 16 La vendetta DEI SOGNATORI Dimitri Papanikas Alle idi degli anni ’70, in piena Guerra fredda, in un contesto internazionale marcato dall’instabile assestamento della Rivoluzione cubana, la guerra del Vietnam, la marcia su Washington per il lavoro e la dignità, l’esecuzione di Ernesto «Che» Guevara sulle montagne della Bolivia, la corsa allo spazio… l’America Latina era qualcosa di più di un sogno stereotipato a metà strada tra sentimentalismi rivoluzionari dei nuovi seguaci del 20

Socialismo del XXI secolo, il realismo magico dei moderni cacciatori di Macondo, nuovo El Dorado degli appassionati al boom letterario latinoamericano. Contro questi facili romanticismi che per troppo tempo hanno ridotto l’America Latina a un’immagine stereotipata nel tempo di un continente alla deriva, perduto in un sogno a metà strada tra populismo e rivoluzione permanente, il 4 settembre 1970, in Cile, il medico Salvador Allende, leader della coalizione di Unidad Popular (socialisti, comunisti, cattolici di sinistra e radicali) diventava il primo presidente socialista eletto dal popolo in America Latina. Cominciava così un’effimera stagione di cambiamento che troverà il suo climax nella riforma agraria, nella nazionalizzazione di alcune industrie e delle miniere di rame e, soprattutto, nel ridimensionamento degli interessi di una classe politica e industriale responsabile della svendita di gran parte delle risorse energetiche e infrastrutturali del paese a capitali stranieri. Una strategia politica che in ambito culturale diede alcuni dei suoi migliori risultati, trasformando il Cile in un laboratorio internazionale d’avanguardia, attirando l’attenzione, e soprattutto le aspettative, di un’intera generazione che sognava un mutamento un po’ più compatibile col Sistema rispetto alla via cubana alla rivoluzione. Con questo obiettivo il governo di Allende identificò immediatamente una serie di iniziative finalizzate a istituzionalizzare la memoria attraverso una propaganda culturale che finì per utilizzare la storia della lotta del movimento operaio come strumento di costruzione di un’identità nazionale e popolare. Grazie a un repertorio d’immagini e simboli secolari, dall’epoca precolombiana alla Conquista, insistendo sull’evoluzione del colonialismo tradizionale al neocolonialismo liberale, si crearono miti ad hoc con valore retroattivo. In questa strategia la musica ebbe un ruolo privilegiato come mostrato dalla campagna di mobilitazione studentesca a favore della candidatura di Allende. Tra le iniziative più fortunate basti ricordare la creazione della Discoteca del Cantar Popular nel 1968 in seno alle Juventudes Comunistas; il Festival de la Nueva Canción Chilena organizzato nel luglio 1969 presso l’Universidad Católica fino alla Peña de los Parra, famoso centro culturale di Santiago fondato da Ángel e Isabel Parra, eredi della grande Violeta Parra, imprescindibile riferimento della musica popolare latinoamericana, morta suicida nel febbraio 1967. Una volta eletto presidente, Allende non si dimenticò dei suoi amici musicisti e firmò il decreto per la nazionalizzazione della casa discografica RCA Victor con il nome di Industria de Radio y Televisión; stabilì l’obbligo per le radio del paese di diffondere un 40% di musica nazionale e nominò Isabel Parra, Inti-Illimani e Víctor Jara ambasciatori culturali del Cile presso il Departamento de Extensión Cultural de la Universidad Técnica del Estado. La canzone di governo L’evidente ingerenza politica spinse una famosa rivista dell’epoca a pubblicare un editoriale dall’inequivocabile titolo «Dalla canzone di protesta alla canzone di governo: un nuovo giro del cantare politico». Interpellato in proposito il grande Atahualpa Yupanqui non esitò a rispondere: «Non credo nei professionisti della canzone di protesta. Chi vuole gridare i suoi pamphlet pubblicamente e con musica lo faccia pure. Però questo non è un artista». Se la canzone cilena finì per identificarsi quasi totalmente con la causa del governo, divenendone fondamentale cassa di risonanza, non esente da toni panflettistici e didattici, fu la musica strumentale a raggiungere maggiori libertà espressive raggiungendo un’inedita libertà creativa. All’inizio degli anni ’70, grazie a gruppi eterogenei come Los Jaivas, Los Blops e Congreso, la musica andina scopriva soluzioni fino ad allora sconosciute. Il charango diventava elettrico; il bombo si convertiva in batteria regalando interminabili assoli a metà strada tra il rock psichedelico e progressivo, la musica informale, il folk-rock sinfonico fino al free jazz. Un rinascimento musicale che cominciò presto ad appassionare grandi compositori classici come Carlos Guastavino, Alberto Ginastera e Ariel Ramírez fino ad avanguardisti del calibro di Astor Piazzolla, Gato Barbieri, Eduardo Lagos e Domingo Cura.

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Zorba il cileno In Europa Mikis Theodorakis fu uno dei primi a mostrare interesse nei confronti di questa rinascita musicale latinoamericana. Artista universalmente apprezzato grazie alle sue colonne sonore per il cinema (Zorba il greco, Serpico), intellettuale impegnato, politico schierato (fu deputato socialista del Parlamento greco fino al colpo di stato del 1967), eroe della resistenza greca durante il regime dei colonnelli, censurato, perseguitato, incarcerato, condannato e infine esiliato… Il grande compositore greco divenne presto simbolo internazionale di integrità morale e impegno civile. Nel 1971 fu Pablo Neruda, all’epoca ambasciatore di Allende a Parigi e recentemente insignito del premio Nobel per la letteratura, a invitare Theodorakis a esibirsi in Cile. Responsabile di un’estetica musicale a metà tra il realismo socialista e l’avanguardia, capace di corteggiare allo stessotempo pubblici diversi (grazie a un linguaggio semplice e diretto, anche se a volte un po’ troppo declamatorio e didattico) Theodorakis era l’uomoche faceva al caso loro. La sua enormecuriosità lo spingeva da tempo a interessarsi a nuovi orizzonti sonori che mescolassero una certa sensibilità mediterranea con i suoni della Cordigliera. Dall’incontro dei bouzouki rebetici del porto del Pireo, i ritmi dell’Egeo, le sonorità delle montagne del Peloponneso con la melodia della quena, le armonie del charango, i ritmi del bombo del gruppo folclorico andino Los Calchakis (residente a Parigi dal 1960) nacque la colonna sonora del film di Costa- Gavras État de siège, su soggetto di Franco Solinas, con Yves Montand e musiche dello stesso Theodorakis (1972). La pellicola, distribuita in Italia col titolo de L’Amerikano, era un instant movie ispirato alla storia reale di un agente della Cia sequestrato dal movimento tupamaro nell’Uruguay del 1970. La passione di Theodorakis per l’America Latina raggiunse l’apice in una notte del 1972, a Valparaíso, di fronte all’interpretazione del gruppo Aparcoa del Canto General, una specie di «Iliade latinoamericana » composta negli anni ’40 dall’amico Pablo Neruda. Un ambizioso poema epico e sociale dedicato alla storia del continente latinoamericano in formato di monumentale compendio da consegnare ai posteri. Duecentotrentuno poemi per un totale di quindicimila versi in cui il futuro premio Nobel passava in rassegna le bellezze naturali di un immaginario Eden latinoamericano, dalla notte dei tempi (non esente da un certo dogmatismo illuminista erede del mito del «buon selvaggio») ai drammi della Conquista; dalla schiavitù coloniale a quella neocoloniale, dal genocidio indigeno all’etnocidio culturale, passando per la Santa Inquisizione, le guerre fratricide fino ad arrivare all’indipendenza latinoamericana. A cena con Salvador Allende All’indomani, durante una cena con Allende, Theodorakis maturò l’idea di musicare questo "canto del cigno" di una società scomparsa per mano della cupidigia umana, un continente alla deriva alle soglie della modernità. Fu lo stesso presidente a scegliere i sette poemi da utilizzare per la versione musicale. Gli altri quattro (Zapata, Sandino, Lautaro e Voy a vivir) furono selezionati in un secondo momento dallo stesso Neruda, a Parigi, in una delle loro interminabili conversazioni nel piccolo studio del musicista nella Rue Poliveau. Il risultato fu un’opera magniloquente, corale, in formato di oratorio settecentesco, in sette (che in seguito diverranno dodici) movimenti eseguiti da un’orchestra popolare sul modello della celebre Misa criolla, composta dell’argentino Ariel Ramírez esattamente dieci anni prima e costituita, a suo tempo, da una messa secolare per solisti, coro e orchestra a tempo di carnavalito, estilo, chacarera e ritmi andini in cui per la prima volta il folclore si sostituiva alla tradizionale polifonia liturgica cristiana per favorire un messaggio universale che travalicasse la mediazione delle istituzioni religiose, secondo un percorso culturale e musicale reso possibile dalle aperture dottrinali favorite proprio in quei mesi dalle risoluzioni del Concilio Vaticano II. Il debutto, previsto a Santiago nel 1973 nello scenario di un evento spettacolare intitolato «Concerto dedicato al popolo greco in lotta contro la

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dittatura in Grecia», alla presenza dello stesso Allende, con Neruda come voce recitante, fu posticipato di una settimana a causa dei problemi di salute del poeta premio Nobel. L’anteprima si tenne a Buenos Aires, nello stadio Luna Park, di fronte a settemila spettatori in visibilio. La data coincise con l’apice della campagna elettorale argentina alle presidenziali del settembre 1973 in cui si giocava il ritorno in scena, dopo quasi due decenni di esilio, del protagonista assoluto della storia argentina del secondo dopoguerra: il generale Juan Domingo Perón. I manifesti del Canto General disseminati in giro per la capitale favorirono un’involontaria propaganda nei confronti dell’illustre militare argentino che di lì a breve avrebbe vinto per la terza volta le presidenziali, con quasi il 62% dei voti. All’indomani del concerto una telefonata di un funzionario di Allende spense gli animi, comunicando a Theodorakis un nuovo rinvio a causa di «un paio di piccoli problemi politici». Un eufemismo considerato che di lì a pochi giorni, in una livida mattina di quasi primavera australe, l’11 settembre del ’73, il palazzo presidenziale de La Moneda veniva bombardato e preso d’assalto dai militari al comando del generale Augusto Pinochet. Il resto è storia. L’assassinio-suicidio del presidente Allende, l’esecuzione di Víctor Jara (16 settembre), la morte improvvisa di Neruda (23 settembre) e l’inizio di una terribile stagione di sangue e orrori che durerà quasi vent’anni. «Partimmo per il Venezuela e lì ricevemmo la notizia del colpo di stato militare e della morte di Allende – dichiarava Theodorakis nel 1993 in un’intervista al quotidiano El Mercurio. Venimmo a sapere della morte di Neruda pochi giorni dopo in Messico, dove partecipammo a una grande marcia di protesta contro la giunta militare cilena. Presentammo Canto General di notte all’Opera di Città del Messico. Mi rivolsi al pubblico e dissi che dedicavo l’opera a Neruda, Allende e alla libertà del popolo cileno». Dopo il debutto europeo a Parigi nel luglio 1974, coinciso con la fine della dittatura dei colonnelli in Grecia, nel 1975 fu concesso a Theodorakis di far ritorno al suo paese con un concerto memorabile nel porto del Pireo espressamente dedicato «alla memoria di Allende, Neruda e delle persone che lottano in Cile». Oggi, a quarant’anni di distanza, il Canto General di Neruda-Theodorakis è entrato nella storia della musica contemporanea internazionale, grazie anche alle innumerevoli repliche portate in scena da storici interpreti come Petros Pandis, l’attivista finlandese Arja Saijonmaa fino a Maria Farantouri, grande musa di Theodorakis con cui il compositore intraprese un sodalizio artistico lungo oltre vent’anni. A causa del suo grande impegno in favore della libertà a Theodorakis fu proibito tornare in Cile per quasi vent’anni. Lo fece il 23 aprile 1993. «I sogni prima o poi ottengono sempre vendetta» dichiarò poco prima di salire al palcoscenico del Teatro Monumental invitato a partecipare al Festival Mundial de Teatro de las Naciones. Il Canto General finalmente tornava a casa.

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INTERNI

del 22/10/14, pag. 2 La rivolta dei Comuni Roberto Ciccarelli Legge di stabilità. I sindaci contro 1,2 miliardi di tagli previsti dalla manovra finanziaria: «Non siamo parassiti. Noi investiamo in infrastrutture e nel Welfare locale». La legge arriva la Quirinale: «Ci sarà attento esame». Dopo le regioni, altolà al governo da parte dell’Anci. «Questi tagli sono insostenibili» Con un giorno di ritardo rispetto al previsto, il testo della legge di stabilità è arrivato ieri al Quirinale dove «sarà oggetto di un attento esame» da parte dei tecnici del Colle e resta in attesa della «bollinatura» della Ragioneria dello Stato prevista per domani. Da Bruxelles il commissario Ue agli affari economici Jyrki Katainen ha assicurato di lavorare alla lettera che confermerà, o boccerà, entro il 29 ottobre il primo atto di politica economica del governo Renzi: «Sono in contatto con le autorità italiane per avere dei chiarimenti su alcuni dati». In attesa del duplice esame, il governo Renzi deve affrontare la rivolta dei comuni contro gli annunciati tagli da 1,2 miliardi di euro. Dopo le regioni, a cui Renzi e Padoan dovrebbero tagliare 4 miliardi, in trincea sono scesi i comuni.Il cannoneggiamento è iniziato di buon mattino. A guidarlo il sindaco di Torino, e presidente dell’Anci, Piero Fassino. «Continuare a far credere da parte del sistema dell’informazione che i Comuni sono dei centri di spesa parassitari è un’operazione disonesta – ha esordito al termine dell’ufficio di presidenza — Quello che non risulta chiaro dalla lettura della legge di stabilità, perché non è quantificato in cifre ma le parole hanno lo stesso un significato, è che l’istituzione del fondo per i crediti difficilmente esigibili, unito alla riduzione di 1,2 miliardi di spesa corrente, rischia di vanificare l’allentamento del patto di stabilità. Il saldo rischia di essere zero per i Comuni, se non addirittura negativo». Poi la stoccata al sistema mediatico che si è accordato sulla lunghezza d’onda della campagna «anti-casta» usata da Renzi per nascondere l’austerità e i tagli lineari: «Continuare a far credere da parte del sistema dell’informazione che i Comuni sono dei centri di spesa parassitari è un’operazione disonesta – ha detto Fassino — Quando noi spendiamo lo facciamo per gli asili nido, l’assistenza domiciliare agli anziani, il tpl, la tutela ambientale, la promozione culturale, il sostegno alle fasce di disabilità o di fragilità; e quando investiamo non giochiamo i soldi al casinò, ma investiamo in infrastrutture, interventi di risanamento ambientale, in modernizzazione dei territori delle nostre città». Per Fassino è «intellettualmente disonesto» sostenere che i Comuni siano centri di spesa fuori controllo. «Su 100 euro di spesa pubblica, quella imputabile ai Comuni è il 7,6%. Su 100 euro di debito pubblico, i Comuni ne fanno il 2,5%». Invece per l’ex sindaco di Firenze Renzi (segretario dello stesso partito di Fassino, il Pd) è normale e per questo sta pensando di tagliare il Welfare locale. Per il delegato Anci alla finanza locale e sindaco di Ascoli, Guido Castelli il risultato sarà devastante. «Usciamo da anni in cui abbiamo dato 16 miliardi al risanamento dello Stato e ora ci chiedono altri 4 miliardi: 1,5 di tagli diretti e 2,5 derivanti dalle minori spese dovute al nuovo sistema di contabilità — ha detto il sindaco di Ascoli — Il governo dei sindaci si ricordi la propria origine e restituisca ai sindaci la possibilità di erogare i servizi ai cittadini. La manovra è una mazzata inaspettata». Per i sindaci i comuni hanno già dato, ma per il premier Renzi 24

dovranno continuare a dare. I tagli ammonterebbero a 4 miliardi, da aggiungere ai 16 tagliati in precedenza dai governi Monti e Letta. Si conferma una delle leggi dell’austerità all’italiana: i tagli al Welfare andranno a finanziare il calo delle tasse per le imprese. Domani, alle otto del mattino, ci sarà lo show down tra Renzi, i sindaci e i governatori. Dovranno trovare la quadra tra l’esigenza di tagliare il Welfare e quella di farlo sopravvivere ancora per un altro anno. Non meno caldo ieri era il fronte delle regioni. Renzi ha incontrato a Torino per 75 minuti il governatore del Piemonte, e suo sodale politico nel pd, Sergio Chiamparino in occasione dell’inaugurazione del Salone del Gusto e di Terra Madre. Nel frattempo il governatore della Puglia Nichi Vendola (Sel) ha quantificato le conseguenze dei tagli alle regioni. «Il bonus bebè della Regione Puglia era 250 euro — ha detto — ma ora non lo potremo più dare perché dobbiamo finanziare noi gli 80 euro di Renzi». La Puglia subirà tagli da 360 milioni di euro e sacrificherà i gestori del trasporto pubblico locale e i piani di zona dei servizi locali. In arrivo anche tagli alla sanità. «Mi farò aiutare dai partiti che sostengono la maggioranza di governo a Roma, che sostengono Renzi: mi presentino le proposte concrete di tagli da fare» ha sibilato Vendola. Meno caustico, ma preoccupato, è stato il governatore del Lazio Nicola Zingaretti (Pd): «Non siamo arrabbiati per le Regioni. Siamo preoccupati che i cittadini che sono stati vittime di anni di saccheggio dei soldi pubblici non vedano mai i risultati» delle buone pratiche messe in atto. Porte chiuse al governo da parte del governatore del veneto, il leghista Luca Zaia:«Senza la preventiva garanzia dell’applicazione dei costi standard, il Veneto non parteciperà alla cosiddetta trattativa con il Governo – ha detto — e impugneremo la legge di stabilità di fronte alla Consulta». Contro la manovra ieri si sono schierate le imprese assicurative. «L’aumento della tassazione sui fondi pensione dall’11 al 20%, insieme all’anticipo del Tfr in busta paga — ha affermato il presidente Ania, Aldo Minucci — è una misura «preoccupante, perché non si pensa più ai giovani e al loro futuro ma al presente».

del 22/10/14, pag. 15 Il partito di Renzi azzera il centrosinistra Paolo Favilli Sinistre. Estremismo, minoritarismo, ortodossia: una terminologia comune alla politica, frutto di una retorica manipolatrice. L’esperienza della lista Tsipras ne svela l’ideologia Proviamo a riflettere su due recenti affermazioni provenienti direttamente dal cerchio ristretto berlusconiano e dal presidente del consiglio. Denis Verdini rivolgendosi a Capezzone: «Dovresti capire che questo governo ha fatto tutto quello che poteva fare che ci andasse bene, come la legge elettorale» (la Repubblica 2 ottobre). Matteo Renzi alla City di Londra: «L’articolo 18 rappresenta una mancanza di libertà per gli imprenditori» (Idem). La lunga fase politica in cui siamo immersi è contraddistinta dalla lotta per il «riconoscimento». In tali fasi la gestione del potere e la prassi di governo sono affidate, come ha affermato un grande intellettuale, recentemente scomparso, Mario Miegge, «per lo più a idioti – nel senso dell’etimo greco, che designa il proprio (idios), la ristretta particolarità del privato contrapposta al pubblico».

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Nel caso di Verdini e di Renzi è del tutto chiaro che si tratta di un caso di «idiozie» convergenti in un orizzonte condiviso, di una «profonda sintonia» tra i contraenti del patto del Nazareno. Verdini dice con sincerità, con candida sincerità consapevole di non suscitare nessun scandalo, ciò che solo «l’idiozia» di coloro che hanno un diretto (o indiretto) e particulare modo di partecipazione agli effetti del “patto” finge di ignorare. Dice, cioè, non solo che i confini tra il partito di Berlusconi e quello di Renzi sono permeabilissimi, ma che tra le parti fondamentali del primo e quelle del secondo vi è una vera e propria osmosi cementata da un solidissimo grumo comune di interessi. L’osservatorio parlamentare e politico openpolis ha quantificato in percentuali intorno al 90% i voti congiunti di Forza Italia e Pd e sempre intorno alle stesse percentuali le opinioni convergenti di esponenti dei due partiti. Il sistema politico che si sta delineando, dunque, è quello imperniato su due partiti, tendenzialmente due soli, come è stato ribadito in questi giorni dal presidente del consiglio. Tra i due partiti non esiste nessuna netta frattura longitudinale, ne esistono invece di trasversali a seconda dei diversi gruppi di interesse. Fratture fluide e ricomponibili, pronte a riformarsi su linee diverse, a seguito delle contingenze. Al momento l’osmosi riguarda direttamente i gruppi di comando e quindi appare particolarmente solida. Uno dei gruppi di comando è la risultante del progetto Berlusconi-Dell’Utri–Previti e quindi può definirsi, sulla base di documentate sentenze, come risultante di un’operazione in cui sfera politica e sfera criminale non sono separabili. La rimozione costante di quest’aspetto è indicatore sicuro del livello di mitridatizzazione raggiunto. È indicatore sicuro di come all’interno di una più generale tendenza all’inversione del processo democratico che riguarda tutti i paesi avanzati, la decadenza italiana mostri anche un livello insopportabile di putrefazione del tessuto etico-politico. Il fatto che sia, invece, sopportato benissimo è un ulteriore indicatore di quanto sia esteso e profondo. Le promesse della modernità, secondo Renzi, hanno come paradigma non la democrazia, cioè la tendenza verso forme via via più organizzate di uguaglianza, bensì la «libertà degli imprenditori». D’altra parte le modernità sono molteplici e la forma del capitalismo moderno, quello del sistema di fabbrica, si è definito nella sua genesi, per dirla con un’icastica espressione di Bauman, «nella lotta per il controllo del corpo e dell’anima del produttore» (1982)». I lavoratore, merce forza-lavoro, si presenta sul mercato come funzione della «libertà» di chi ha il potere di acquistare la merce in oggetto. Renzi si trova ad essere del tutto interno alle tendenze di una fase in cui le forze davvero decisive e dominanti trovano necessario riproporre le dinamiche dell’«accumulazione originaria». Dunque la cosiddetta «rivoluzione renziana» è la forma attuale della ragione del «capitalismo assoluto», che è appunto, la ragione della fase genetica e affermativa. Dopo una lunga fase di «capitalismo costituzionalizzato», la «rivoluzione» ha assunto nuovamente il suo significato etimologico: ritorno al punto di inizio. Non solo, quindi, non c’è nessuna novità analitica (la parola è grossa per la politica degli «idioti», si tratta solo di assunzione della retorica ideologica dominante), ma non ci sono nemmeno particolari novità rispetto alla tradizione culturale del Pd. Ricordiamo perfettamente come il responsabile economico del partito da poco fondato (Tonini, marzo 2008), articolasse la sua visione del rapporto economia società parafrasando quasi alla lettera La favola delle api di Bernard de Mandeville. Un testo settecentesco esemplare della fondazione della ragion capitalistica assoluta. Renzi non rivoluziona neppure il Pd, anzi del Pd è «rivelazione». La sinistra si rende conto di quello che sta succedendo? Sembra faticare a guardare in faccia la catastrofe. Sembra riproporre lo schema della tela di Penelope.

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L’esperienza della lista Tsipras, con tutte le difficoltà, debolezze, contraddizioni, è stata un momento positivo nella tessitura della tela. È il caso di ricordare ancora una volta quello che ha scritto a proposito Marco Revelli: cioè che i contributi di «molteplici identità sono stati, e soprattutto sono, tutti egualmente preziosi, [E]dovremmo proporci, d’ora in avanti, di non smarrirne neppure uno, per settarismo, supponenza, trascuratezza». Ci sono tutti i segni che indicano la fatica ad affermarsi di quella essenziale lezione. Sta ricomparendo un lessico apparentemente del tutto di buon senso che invece lancia precisi messaggi. Chi infatti può essere favorevole alla costruzione di una sinistra connotata da «estremismo», «minoritarismo», «identitarismo» etc.? Qualcuno ha sostenuto addirittura la necessità di separazione dai difensori dell’ «ortodossia» (???). Non c’è limite al senso del ridicolo: quale «ortodossia» c’è oggi in campo? L’uso di questa terminologia rientra nel vizio così comune alla politica nel tempo della retorica manipolatrice, della retorica senza prova. Ognuno di questi termini dovrebbe essere vagliato alla pietra di paragone delle reali posizioni politiche e dei comportamenti. I modi di partecipazione alla lista Tsipras sono la prova di fronte a cui la retorica si mostra davvero nella sua funzione di velo ideologico. Se le parole sono ingannatrici il messaggio però è chiaro. Si può sfuggire al minoritarismo solo attraverso la rifondazione del centrosinistra. Naturalmente un centrosinistra «rinnovato», aperto all’influenza vivificatrice di quella sinistra non «estremista», non identitaria», non «ortodossa», la sinistra della «cultura di governo». Posizione perfettamente legittima che sconta però due ostacoli. Sconta la rottura completa con l’esperienza della lista Tsipras il cui progetto è quello della costruzione di una forza non solo del tutto autonoma dal Partito-di-Renzi (l’espressione com’è noto è dell’ «estremista» Ilvio Diamanti), il che è del tutto ovvio, ma anche conflittuale con ciò che quel partito rappresenta. È possibile evitare il conflitto tra la ragione del capitalismo assoluto e la ragione dell’eredità della storia del movimento operaio? Naturalmente questo può non essere un problema: perché non impedire il percorso iniziato con la lista Tsipras se il centrosinistra è l’unico orizzonte ritenuto praticabile? L’altro ostacolo è però più difficile da rimuovere: la realtà. La dimensione strutturale del Partito-di-Renzi, il suo sistema di riferimenti, l’insieme di poteri davvero forti che lo sostengono, può essere modificato dalla presenza nell’alleanza di una sinistra che «minoritaria» lo è per davvero?

Del 22/10/2014, pag. 4 Il Pd di lotta e di governo diviso tra Cgil e Leopolda SABATO IL DOPPIO APPUNTAMENTO: LA MANIFESTAZIONE DEL SINDACATO A ROMA E LA KERMESSE RENZIANA A FIRENZE. E UN GRANDE DUBBIO: “MI SI NOTA DI PIÙ SE VADO O NO?” Di Wanda Marra Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, sta lavorando notte e giorno per l’organizzazione, ma non sarà sul palco. Lo stesso il sottosegretario a Palazzo Chigi, Luca Lotti, che da sempre preferisce lavorare nelle retrovie. Il ministro della Pa, Marianna Madia interverrà dal palco, così come Roberta Pinotti, ministro della Difesa, in lizza per il 27

Quirinale. Il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sarà presente in modo “attivo”. Presente pure il ministro della Cultura, . La prima Leopolda di governo vedrà arrivare mezzo esecutivo, più una nutrita schiera di sottosegretari, da Angelo Rughetti a Ivan Scalfarotto. L’evento che fu il trampolino di lancio della rottamazione, diventa di governo. Di nome e di fatto. In contemporanea sabato a San Giovanni nella manifestazione organizzata dalla Cgil contro il governo ci saranno delle figure non esattamente secondarie a partire da Guglielmo Epifani (“Sono iscritto alla Cgil, anzi allo Spi”), che è il presidente della Commissione Finanze e Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro, quella che sulla carta ha in mano le sorti della riforma del lavoro (anche se poi l’ultima parola - ma no? -è al governo con i decreti attuativi). Ecco di nuovo il Pd di lotta e di governo. Anche se Renzi ha provato a disinnescare la miccia invitando tutti a Firenze: “Venite a vedere”, ha detto. “Non sabato, che avete altro da fare”. Seconda la regola del “non ti curar di lor, ma guarda e passa”. I di fede provata, antica e recente, ci saranno tutti. Alcuni faranno a gomitate per intervenire, altri aspettano un invito ufficiale. Sul palco tre deputati più o meno sconosciuti: Luigi Famiglietti, Silvia Fregolent e Edoardo Fanucci. Più Lorenza Bonaccorsi, un po’ più nota. Almeno un rapido passaggio lo faranno tutti i membri della segreteria. Ma nella vecchia stazione di Firenze arriveranno franceschiniani doc, come Marina Sereni (che spera in un posto da ministro) e Ettore Rosato, renzianissimi come i parlamentari David Ermini, Andrea Marcucci, Simona Bonafè, giovani in ascesa, come Marco Di Maio, “convertiti” da un po’ e ora ultras convinti, come Alessia Morani e Alessandra Moretti, critici come Matteo Richetti. Per molti altri, magari alla prima esperienza in Parlamento, sarà la prima volta: un’occasione imperdibile per condividere un’esperienza con “Matteo”. E la prova generale di quello che sarà il “partito nazione”, aperto a tutti e poco interessato alle strutture tradizionali. Pippo Civati, che fu sul palco degli esordi, andrà a San Giovanni e con lui tutti i suoi. In piazza, Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre. Poi, c’è pure chi non va né da una parte, né dall’altra. Il presidente del Pd Matteo Orfini va in Cina con una delegazione del partito. PER I GIOVANI TURCHI c’è un problema. A manifestare contro il governo, visto che sono una minoranza renziana, non ci possono andare. Anche se la piazza sarebbe il loro luogo naturale. E alla Leopolda? Discussione in corso. Decideranno per una delegazione, capitanata da Valentina Paris, in segreteria. La regola è sempre la stessa, da Nanni Moretti in poi, “...mi si nota di più...”. Se è per Enrico Letta sarà a Trieste per una lezione alla scuola di formazione politica, promossa da www. lab. it di Francesco Russo (senatore Pd, anche lui lontano da Firenze). E Roberto Speranza, capogruppo a Montecitorio, uno dei capi ufficiali della minoranza, ma pronto ad esaudire i desideri del premier? Sarà a festeggiare Matera. Non a Firenze neanche l’ora fedelissimo capogruppo al Senato, Luigi Zanda. Il dilemma non è solo esserci o non esserci, ma anche dove essere. Francesco Boccia, uscendo in serata dalla Camera, alla domanda se va alla Leopolda, scherzando risponde “Non fumo”.

Del 22/10/2014, pag. 4 Lo scout e quell’idea di destra del Country Party Di Fabrizio D’Esposito

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Senza offesa per i personaggi in questione, capita pure che, con questa storia del partito della nazione, un po’ seria un po’ no, finisce che Ezio Mauro parli come un vecchio e dimenticato colonnello di An, Adolfo Urso. Ieri mattina, infatti, il direttore del più noto house organ del renzismo, Repubblica , ha citato il fatidico Country Party du - rante la riunione di redazione, come si apprende dall’apposito video sul sito del quotidiano. Ora, per chi ha memoria, il Country Party, versione albionica del partito della nazione, fu una fissazione di Urso e Domenico Fisichella nel gennaio del 2005, quando l’allora An, oggi defunta, compì dieci anni. Forum, dibattiti, articolesse e un memorabile numero della rivista Char - ta Minuta che alla fine esasperarono non solo Fini ma anche tanti parlamentari postmissini, fra cui uno di origini napoletane che esplose a un certo punto nel dialetto della sua città: “Ma cherè stu Country Party?”. “Ma che cos’è questo Country Party?”. Qualcuno gli rispose che era il partito della campagna, altra traduzione dall’inglese di coun - try. Il divertente aneddoto, ogni tanto ricordato sui divanetti di Montecitorio, è l’introduzione perfetta al nuovo partito della nazione, invocato da Renzi nell’ultima direzione per includere finanche i rimasugli filodemocrat di Sel e Scelta Civica, frutto di microscissioni in partiti traballanti (Sel) o derelitti e morenti (ex montiani). PRECISATO che il partito della nazione, nella Seconda Repubblica, porta anche sfiga (ci ha provato Fini, ci ha provato Casini, ci ha provato persino Bersani col supporto nobile di Alfredo Reichlin), l’anomalia teorica, rilevabile anche da chi non ha studiato un banale manuale di dottrine politiche, è che il Country Party è un’idea di destra, che rimanda al reaganismo ma anche a Mussolini che volle definire il partito fascista come nazionale (Pnf). Punto. Non solo. Nel memorabile numero di Charta Minuta già citato, organo della fondazione finiana di Urso, il professore Fisichella, indiscusso inventore di Alleanza nazionale, immaginò il Country Party come prosecuzione naturale di An in un sistema bipartitico. Senza dimenticare che la scelta di chiamarsi Alleanza nazionale fu presa, a metà degli anni Novanta, in contrapposizione ad Alleanza democratica. E qui la citazione di Ferdinando Adornato è doverosa. Adornato, che piaccia o no, e può non piacere, ha dato tanto alla causa dell’elaborazione partitica nel ventennio breve. Nel ’91, da sinistra, teorizzò il Partito democratico per andare oltre la sinistra (e D’Alema commentò sarcastico: “Oltre la sinistra c’è la destra”). Nel 2003, da berlusconiano, lavorò al partito unico del centrodestra, di matrice popolare. Oggi è deputato centrista che osserva Renzi e dice: “Renzi realizza il partito della nazione a distanza di 24 anni del mio libro. Di questo passo, con la stessa media e lo stesso ritardo, il centrodestra impiegherà altri tredici anni per arrivare alla compiuta realizzazione del partito popolare”. Quella di Adornato è una battuta fino a un certo punto. Indica la fatica dei processi storici nonché, per certi versi, l’eccesso di opportunismo che a volte caratterizza il tentativo di chiamare Country Party il vecchio modello della Dc interclassista che teneva dentro tutto: il centro puro, la sinistra demitiana, la destra clericale e filofascista di Andreotti, giusto per semplificare. Adesso il Country Party è necessario perché bisogna includere il fuoriuscito montiano Andrea Romano e il fuoriuscito vendoliano Gennaro Migliore. Chiosa feroce un deputato democratico campano: “A me, me pare ‘na strunzata”. Non c’è bisogno di tradurre. Ma questo è l’al - tro lato della medaglia senza bandiere di partito che negli anni Matteo Renzi ha coniato alla Leopolda. La vocazione maggioritaria del Pd, alla base del Lingotto veltroniano del 2007, trova adesso il suo sbocco naturale. E infatti la coerenza di “Walter” è tale che, a differenza di D’Alema e Bersani, altri due big riformisti, oggi i sono tutti schierati nel renzismo. Il partito della nazione di Renzi sarà moderato, ma anche di destra e di sinistra. E in casa si ritrova pure il simbolo dei Moderati, il partito di Giacomo Portas, deputato eletto nel Pd e che sabato non andrà da alcuna parte, né alla Leopolda né a San Giovanni, a Roma. Ma la fortuna del Country Party di “Matteo” sarà quella di tenere il piede in due piazze.

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del 22/10/14, pag. 4 Sel, scatta l’allarme-regionali: «Mai con Alfano» Daniela Preziosi Sinistre. Renzi rottama la coalizione. Deciso a inglobare nel Pd chi ci sta, il resto spianarlo. Con il nuovo Italicum, Ndc dovrà avvicinarsi sempre più ai dem. Già dal voto di primavera per i governatori Allarme rosso a casa Sel. Il partito renziano ’ della nazione’ apre le porte a sinistra e a destra ma le sbarra, stavolta con doppia mandata, alla coalizione. La ’svolta renziana’ dell’Italicum, con l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista, cambia le carte. Non tanto perché certifica la morte della (ex) coalizione di centrosinistra. Di questo decesso i vendoliani sono consapevoli da tempo. Il punto è un altro. Con questa nuova riforma elettorale il partito di Alfano può, persino deve, avvicinarsi al Pd. Forse già a partire dalle regionali di primavera. Quelle dove fin qui la coalizione di centrosinistra è stata quasi ovunque a prova di bomba. Un’avvisaglia di quello che potrebbe succedere si è avuta in Calabria: l’Ndc ha chiesto di entrare in coalizione e in caso contrario un gruppetto di senatori calabresi, la corrente dell’ex sottosegretario Gentile, ha minacciato di togliere la fiducia a Renzi. Nicodemo Oliviero, il candidato Pd,si è opposto e ha messo sul piatto le sue dimissioni. Ovvio: l’Ndc calabrese è il partito dell’uscente (perché condannato) Scopelliti. Ma nelle altre regioni, in primavera, le cose potrebbero andare diversamente. Gli alfaniani potrebbero chiedere di riprodurre l’alleanza di Palazzo Chigi. In Campania il Pd già oggi non lo esclude. Il guaio dunque è all’orizzonte, anche se in Sel ancora nessuno lo nomina. «Si apre un problema di prospettiva e di quadro politico», spiega Nicola Fratoianni convocando precipitosamente la direzione del partito per discutere (a sua volta) dell’esito della direzione del Pd. Il coordinatore di Sel non spinge il ragionamento fino alle regionale. Ma ammette: «Noi non siamo al governo perché c’è Ncd. Se il partito di Alfano entra in un rapporto strutturato con il Pd per noi ha un chiaro significato politico: siamo radicalmente alternativi al Nuovo Centrodestra». Insomma Sel dovrebbe dire addio anche governi regionali. Il piano B, in realtà, c’è già ed è quella la proposta di «coalizione dei diritti e del lavoro» che il 4 ottobre ha portato in piazza insieme Vendola, Landini e Civati. Ora Sel punta sugli effetti del combinato disposto del nuovo «partito della nazione» e della nuova fiducia sul jobs act che Renzi chiederà alla camera, certificando di nuovo che i parlamentari dem non toccano palla neanche in parlamento. Il malumore di Stefano Fassina si aggrava ogni giorno: «Il partito non è un contenitore indifferenziato. Per me deve stare dalla parte delle persone che lavorano, dalla parte di chi nel mercato del lavoro è più debole», ha detto a Repubblica. La tendenza al bipartitismo non convince neanche un ulivista come Franco Monaco: «Già è opera impegnativa fare sintesi tra le attuali anime del Pd. Alla cui sinistra sempre vi saranno pezzi di società e altri attori politici. La politica italiana ha una lunga tradizione pluralistica. La vocazione maggioritaria non va confusa con velleità totalizzanti». Non sarà il caso degli ex prodiani, ma certo Sel scommette sulle defezioni al partito della nazione. Anche per evitare che la porta sbattuta da Renzi non la spinga a chiudersi in una ridotta minoritaria fin qui evitata come la peste. Per Vendola un «chiarimento» con la Lista 30

Tsipras è ormai nelle cose. In concomitanza con il corteo Cgil l’Altra Europa renderà pubblico un manifesto di rilancio della sua azione politica. La scommessa è che le due ripartenze si incrocino, almeno in parte. Sel guarda innanzitutto a Civati che però continua la battaglia interna. Ma a Bologna la sua componente perde pezzi. Dopo Cecilia Alessandrini, la segretaria dell’ex circolo di Prodi, in questi giorni lasciano il Pd altri esponenti locali dell’area. Dall’altra parte, Sel vuole tenersi ancorata al sindacato e soprattutto all’invocatissimo Landini. Solo così ha una speranza di comporre un fronte di sinistra capace di reggere l’urto di Renzi. Che a sua volta è deciso a inglobare il possibile da quella parte. E il resto spianarlo.

del 22/10/14, pag. 9 Nel vuoto della destra il Carroccio di Salvini cerca spazio al Sud Il progetto si chiama “Lega dei popoli” Amedeo La Mattina «Ma lei lo sa che a Bruxelles l’unico che difende le arance rosse siciliane e il ciliegino di Vittoria dalla concorrenza marocchina è Matteo Salvini?». L’onorevole catanese della Lega Nord e Autonomie Angelo Attaguile guarda il cronista per vedere l’effetto che fa. E l’effetto è lo stesso che fanno le parole dell’imprenditore trentunenne Domenico Furgiuele di Lamezia Terme, che militava nella Destra di Storace e ora guida il Movimento Territorio e Libertà (alle Europee il candidato Marco Cristiano ha preso in città 800 voti). «Con Matteo Salvini c’è un sentimento di fratellanza: lui è una persona genuina, vera. Quando è venuto a Lamezia per le Europee, alla fine della cena si è alzato e ha pagato di tasca sua. Cosa che Storace non faceva mai. Sabato scorso a Milano - racconta Furgiuele - avevamo timore di aprire il nostro striscione con la scritta “Calabria con Salvini”. Quando lo abbiamo aperto c’è stata un’ovazione. Ormai meridionali e settentrionali hanno gli stessi obiettivi contro l’immigrazione e l’euro». Ecco, nel vuoto che Forza Italia sta lasciando dietro di sè, il giovane e attivissimo leader del Carroccio ha messo piccole radici al Sud (vedremo quanto lunghe diventeranno nelle urne). Matteo si fa ben volere, non si risparmia, mette a disposizione dei «terroni» lo spadone di Alberto da Giussano, parlando di identità popolare ma soprattutto della piovra di Bruxelles, dell’euro che divora l’economia delle famiglie e di cui liberarsi, degli immigrati che a migliaia continuano a sbarcare sulle coste siciliane e calabresi. E piace quando dice di essere l’unico argine a Renzi e critica Berlusconi, il quale si scaglia contro l’austerità della Merkel ma siede al suo fianco nel Ppe e vota le sanzioni anti-Russia che danneggiano le aziende italiane. Allora Matteo ci prova ad allargarsi al Sud, ma non vuole che si chiami Lega Sud: ci provò Bossi e fallì. «Questa è un’altra cosa», spiega il senatore Raffaele Volpi che tiene le redini del nuovo esperimento politico che verrà presentato alla fine di ottobre e si chiamerà «Lega dei Popoli con Salvini». Il capo del Carroccio ama chiamarla «Lega gemella» e «sarà fatta - spiega Volpi - da persone che provengono dal sindacato Ugl, da Forza Italia, da tanti professionisti che vogliono metterci la faccia». Tra gli altri hanno aderito alla Lega dei Popoli il consigliere regionale sardo Marcello Orrù, l’ex parlamentare Barbara Mannucci, molto attiva nell’associazionismo romano, Enrico Cavallari, ex assessore al personale della giunta capitolina di Alemanno, il presidente della provincia di Isernia Luigi Mazzuto. Con Salvini è andata l’ex deputata di origine 31

marocchina Souad Sbai che in Parlamento nella scorsa legislatura, tra le fila del Pdl, ha portato avanti la battaglia sui diritti delle donne musulmane, contro il fondamentalismo islamico, ha proposto il divieto di indossare il velo integrale, l’istituzione di un albo degli imam e di un registro delle moschee. C’è anche Silvano Moffa, ex An e Pdl che aveva seguito Fini nel Fli. Che ci fa nella nuova Lega uno come che proviene dalla destra sociale di Rauti? «Oggi - risponde Moffa, ex presidente della provincia di Roma - il centrodestra è in crisi, una fase si è definitivamente chiusa. Salvini ha messo da parte l’opzione anti- nazionale e secessionista per sposare un’idea di Europa dei popoli e il no all’euro. La fine del berlusconismo ha portato ad un renzismo dilagante, a un’omologazione del pensiero incompatibile con la destra». Volpi nega che ci sia molta destra in questa avventura al Sud, ma in effetti è così. Ma ciò non impedisce a Salvini di sognare una Lega nazionale contraltare del Pd.

Del 22/10/2014, pag. 6 Consulta, mossa di Renzi un posto del Csm al M5S e nuovi candidati “tecnici” Contatti del Pd per coinvolgere i 5 Stelle nell’elezione dei due giudici costituzionali che paralizza le Camere LIANA MILELLA Renzi prende in mano la partita della Consulta. Lo fa con il piglio politico di chi, dopo tre mesi di stallo e venti sedute a vuoto, decide di metterci la faccia e di rischiare con una mossa a sorpresa che inaspettatamente apre la porta al partito di Grillo. Dice il premier ai suoi: «Dobbiamo prendere atto che la candidatura di Violante ormai va messa in archivio, e dobbiamo guardare avanti. Ai grillini. Abbiamo un posto nel Csm che possiamo lasciare a loro, e loro saranno ovviamente liberi di scegliersi il candidato che preferiscono. Noi, per la Consulta, dobbiamo indicare due nomi di tecnici puri, nomi di alto profilo, se fossero due donne sarebbe ancora meglio». Renzi incontra Napolitano, gli fa i complimenti per la tempestività nell’aver nominato i suoi due giudici. Quando esce dal Quirinale decide che anche il Parlamento deve “svoltare”. Sulla Consulta, politicamente, il Pd non si può permettere altri ritardi. La partita va chiusa aprendo un tavolo di possibile intesa con M5S. Contatti riservati ci sarebbero già stati. L’M5S ha sempre detto di essere disponibile a votare due nomi di personaggi dal profilo tecnico e istituzionale indiscutibile. Tant’è che adesso Renzi, mentre ne parla con il suo inner circle, insiste sulla qualità dei nomi, «non devono essere come Catricalà e Violante», quindi nessuno che abbia già avuto a che fare con la politica. A questo punto, proprio dopo il fallimento di queste candidature, secondo Renzi è indispensabile puntare su gente dal curriculum professionale specchiato, tecnici di altissimo profilo, inattaccabili sotto qualsiasi punto di vista. A questo punto, sulla Consulta, Renzi già da oggi si muoverà in due direzioni. Da una parte un indispensabile chiarimento all’interno del suo stesso partito, dall’altro un ponte lanciato verso i grillini, per i quali si riapre la possibilità di mandare un proprio rappresentante al Csm e che potrebbero concorrere ad eleggere i due giudici costituzionali. Già oggi, quando sarà Senato per l’informativa sulla Ue, Renzi incontrerà il capogruppo a Palazzo Madama Luigi Zanda e quello alla Camera Roberto Speranza. Con loro metterà a punto la sua nuova strategia, che saranno poi concretamente i gruppi parlamentari a gestire. Ovviamente il premier discuterà del nome possibile che il Pd potrà esprimere al posto dell’ex presidente della Camera Luciano Violante, un candidato sul quale ormai «non si può che voltare pagina». 32

Con Zanda e Speranza, Renzi andrà alla ricerca non solo del futuro giudice, «possibilmente una donna», ma anche della strategia da mettere in atto con i pentastellati e con Forza Italia. Va da sé che l’apertura di Renzi ai grillini può sbloccare ben 143 voti che potrebbero essere fondamentali per raggiungere l’elevato quorum dei due terzi dei componenti, cioè 570 voti. Voti la cui assenza, in questi mesi, si è fatta pesantemente sentire. I grillini hanno ripetuto ufficialmente che sono disposti a votare soltanto per candidati che non hanno un passato politico, ma sono dei tecnici puri. È da vedere — se l’avance di Renzi dovesse fare concreti passi in avanti — se Berlusconi opterà per un tecnico, ma soprattutto se deputati e senatori di Forza Italia saranno disposti a sacrificare un nome di loro diretta emanazione per un tecnico puro, per giunta votabile anche da M5s. Finora le candidature bruciate di Catricalà e Caramazza dimostrano che i forzisti rifiutano il tecnico e vogliono imporre nomi come quello di Donato Bruno, il senatore forzista più votato. Raccontano che Berlusconi non mostra particolare interesse per il posto alla Corte. Forse ora che Renzi entra nella partita anche lui vorrà cominciare a giocare.

Del 22/10/2014, pag. 9 Giustizia, assalto al governo da Fi e Lega Gli azzurri insorgono contro la riforma della responsabilità civile delle toghe. Minaccia di dimissioni dal relatore socialista Buemi. Alla Camera fallisce il blitz dei lumbàrd. I 5 Stelle votano con la maggioranza LIANA MILELLA Orlando la spunta su Palma. Il Guardasigilli in carica contro un ex di via Arenula, un super falco dentro Forza Italia. Succede al Senato, in commissione Giustizia, dove Orlando riesce a “bucare” il muro innalzato dal presidente della commissione Palma sulla responsabilità civile dei giudici. C’è voluto un mese, ma alla fine Orlando l’ha spuntata. Provocando inevitabilmente la collera di Palma. Perché il ministro è riuscito a far cadere il no che impediva a lui, autore di un ddl del governo sulla responsabilità delle toghe approvato il 29 agosto, di “far entrare” la sua proposta in quella già in discussione a palazzo Madama, il ddl firmato dal socialista Salvo Buemi, che ne è anche il relatore. Fino a ieri Palma aveva sostenuto che era troppo tardi per il governo, che il suo ddl poteva varcare le quinte soltanto in aula perché la discussione in commissione era chiusa. Ieri ecco l’exploit. Andrea Orlando si presenta in commissione, porta con sé gli emendamenti che ripercorrono il testo del governo, e com’è nel potere del governo li presenta. Testo noto. Via il filtro che finora ha frenato l’azione della legge Vassalli, “vecchia” dell’88 e nata dopo il referendum sulla responsabilità; la rivalsa dello Stato sulla toga, obbligatoria prima di tre anni, portata da un terzo alla metà dello stipendio. Ma nulla che tocca la libertà del giudice di interpretare la legge. Buemi, che fa parte della maggioranza, e i forzisti Malan e Palma protestano. È scontro. Buemi minaccia di abbandonare il ruolo di relatore (ma in serata ci ripensa e dice che un’intesa si può trovare). Palma è duro, com’è nel suo stile: «Renzi ha detto più volte che chi sbaglia paga, ma con questi emendamenti si retrocede rispetto alla Vassalli. Ci saranno meno casi di colpa grave». Lucio Malan esce dalla commissione e dichiara: «Col testo del ministro si esclude totalmente dalla responsabilità civile la valutazione del fatto e delle prove e l’interpretazione delle norme». Già, proprio quello che il Pd ha sempre negato di voler cambiare. Tant’è che negli stessi minuti, per una coincidenza, alla Camera il Pd si schiera contro il terzo tentativo del leghista Gianluca Pini di far entrare nella legge Comunitaria la responsabilità diretta dei

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giudici. Gli era andata bene per due volte, grazie al voto segreto. Con il governo Berlusconi nel 2011 e di nuovo l’anno scorso. Sempre a Montecitorio. Ma stavolta ha fallito. Lui era a Parigi, ma l’emendamento è stato bocciato per 325 voti contro 126. M5S non si astiene come l’altra volta, ma vota contro. Il Pd non si fa cogliere di sorpresa. In una riunione del gruppo, all’ora di pranzo, il responsabile Giustizia David Ermini e la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti spiegano in che trappola ci si potrebbe cacciare se si votasse coi leghisti. Il no del governo, in aula, lo annuncia il vice ministro della Giustizia Enrico Costa. Un no «nel metodo e nel merito», un no «politico», perché «la responsabilità diretta creerebbe uno squilibrio con gravi conseguenze». Costa sponsorizza il ddl del governo, «che contiene misure chiare, puntuali, sufficienti». Misure che non piacciono né all’Anm, né al Csm. Tant’è che il vice presidente Giovanni Legnini già annuncia un plenum straordinario per discutere il parere che «deve arrivare prima della discussione in aula al Senato».

Del 22/10/2014, pag. 13 Italicum, Berlusconi apre “Tratto sul premio alla lista” Ma il Pd vuole patti scritti L’ex Cavaliere: “Anch’io nel centrodestra punto al partito unico Renzi con una mano dà gli 80 euro, con l’altra aumenta le tasse” CARMELO LOPAPA Sente «aria da campagna elettorale», Silvio Berlusconi, e dunque non c’è tempo da perdere, tende ancora una volta la mano sulle riforme a Matteo Renzi, ma non vuole lasciare campo allo straripante avversario. Torna su Canale 5 occupando i primi otto minuti del tg delle 20, il patron di Mediaset, rientrato a Roma dopo due settimane: pianifica incontri con tutti i senatori e i deputati tra oggi e domani per rassicurare un partito nel caos, per nulla convinto della strategia sulle riforme e precipitato nei sondaggi. Una due giorni serrata, da «ritorno in campo», come dice lui, alla quale potrebbe seguire un nuovo faccia a faccia con il presidente del Consiglio per provare a rilanciare proprio le riforme, a cominciare da quella elettorale. Sul premio alla lista, anziché alla coalizione, Berlusconi vuole discutere, quanto meno trattare. Nonostante a pranzo, a Palazzo Grazioli, non tanto Gianni Letta, quanto l’altro commensale Denis Verdini, a sorpresa abbia avanzato più di qualche dubbio. «Che convenienza avremmo?», lo ha incalzato il pur trattativista senatore toscano, al pari di altri fedelissimi andati a trovare il leader nel pomeriggio. Il leader forzista non si scompone. Dice che «se la situazione precipita, se Renzi ci porta al voto anticipato, potremmo fronteggiare il Pd anche noi con un listone unico, insieme con Lega e Fratelli d’Italia», lui padre nobile e quell’unico leader in ascesa, Matteo Salvini, candidato premier. Ma è proprio il segretario del Carroccio a mostrarsi poco entusiasta, adesso che la Lega vola oltre l’8. Il fatto è che per Berlusconi sarebbe appunto una soluzione da «ultima spiaggia», in caso di “crisi improvvisa”. Matteo Renzi resta a guardare, per nulla convinto dei movimenti e delle mezze aperture del capo forzista. «Mi dicono che possa convergere sul premio alla lista a patto che si vada al voto nel 2018» ragionava ieri il presidente del Consiglio coi suoi. «Ma io voglio messo nero su bianco fin da ora il loro accordo sul premio alla lista, altrimenti mi prendo solo schiaffi per il patto del Nazareno e non porto a casa nulla». È una partita assai delicata, in cui il rischio di bluff dal fronte forzista è altissimo. Qualcosa in più Berlusconi lo dirà oggi pomeriggio tenendo a rapporto i senatori e domani i deputati, riunioni in separata sede, per un partito spaccato. Aveva detto sì all’invito del 34

capogruppo di Palazzo Madama Paolo Romani, anche per sedare la squadra dei senior in fibrillazione, costretto a convocarne un’altra a Montecitorio dopo le proteste di Brunetta, contrario a farne una congiunta. Questo il clima. Già ieri al tg dell’ammiraglia Mediaset Berlusconi ha anticipato quale potrebbe essere la strategia, rispetto al leader pd che ha parlato di partito unico e premio alla lista. «La nostra? La stessa di Renzi ma nel centrodestra» si sbilancia. «Purtroppo noi italiani non abbiamo mai imparato a votare e ultimamente siamo stati costretti a mettere insieme una coalizione di molti partiti». Al premier offre una disponibilità di massima: «Ci confronteremo nella ricerca di una legge elettorale che favorisca la governabilità del Paese — aggiunge — e che, naturalmente, vada bene a tutte e due le parti in causa ». Quindi, prova a scacciare il fantasma che aleggia sui suoi, quello dello scioglimento del partito. «Un’assurdità, davvero una stupidaggine», taglia corto, avvertendo: «Io sono tornato in campo, sono al lavoro perché voglio che Forza Italia, rinnovata e rafforzata, torni a vincere». E al governo Renzi promette opposizione, sia sulle politiche economiche che sulla politica estera: Quella «economica è un revival delle nostre ricette, condito da un po’ di populismo e presentato con grande abilità: con una mano Renzi ha dato gli 80 euro a qualcuno e con l’altra ha aumentato le tasse, gli unici governi che le hanno davvero abbassate sono stati i nostri». L’oppositore interno Raffaele Fitto plaude, «ma ora si passi dalle parole ai fatti».

Del 22/10/2014, pag. 1-23 Genova, rabbia in piazza uova e sputi sul Comune spunta un altro premio-beffa “Sindaco dimettiti”. De André e Baccini alla testa del corteo Soldi ai dirigenti sotto processo per l’alluvione di tre anni fa MICHELA BOMPANI MARCO PREVE Il giorno in cui un corteo di un migliaio di cittadini con in testa i cantanti Cristiano De Andrè e Francesco Baccini assedia il Comune lanciando uova, sputando addosso ai consiglieri e chiedendo le dimissioni del sindaco Marco Doria, a Genova esplode un nuovo caso legato alle retribuzioni di risultato. La manifestazione organizzata via Facebook al grido “#orabasta cittadini genovesi uniti” ha reso ancor più caldo il clima politico. Una delegazione con De Andrè e Baccini è stata ricevuta dal sindaco Doria che ha risposto alle critiche di immobilismo: «Ad aprile partiranno i lavori per lo scolmatore di un altro rivo, il Fereggiano, affluente del Bisagno. Io adesso non mi dimetto: l’amministrazione serve funzionante, ora». Il sindaco in consiglio ha ringraziato il governo: «A me non interessa se verrà o no a Genova Renzi. Perché io, in questi giorni, non mi sono mai sentito solo, così come il premier ci aveva promesso. Il sottosegretario Delrio, i ministri Galletti e Pinotti, il capo struttura D’Angelis è come se fossero qui da dieci giorni». Ma la tensione in città resta alta. E non contribuisce a rasserenare il clima il nuovo caso dei premi ai dirigenti comunali. Quelli andati ai tre attualmente imputati di omicidio colposo e falso nel processo per l’alluvione del torrente Fereggiano che nel 2011 uccise sei donne. Hanno tutti ricevuto per il 2013 la cosiddetta “retribuzione di risultato”, che premia chi ha raggiunto obiettivi prestabiliti. Cifre comprese tra i 5700 a 6800 euro per stipendi tra i 73 mila e i 93 mila lordi annui. A sollevare questo nuovo caso è Marco Costa, papà di Serena la diciannovenne uccisa dall’esondazione mentre andava a prendere il fratellino a scuola: «Capisco i meccanismi della burocrazia ma trovo sconvolgente che non si possano bloccare, specie 35

di fronte a chi ha anche ammesso precise responsabilità ». Marco Costa si riferisce a Sandro Gambelli, ex capo della Protezione civile che ha confessato di aver alterato gli orari nel verbale dell’esondazione per alleggerire le responsabilità. A processo con lui ci sono i dirigenti Gianfranco Delponte e Pierpaolo Chà. Tutti e tre sono stati rimossi da incarichi riguardanti la Protezione civile, i loro stipendi decurtati di circa un 20% (tranne, per ora, Chà), e l’indennità di risultato è stata concessa ma non al 100%. Isabella Lanzone assessore al personale si trova in una posizione surreale visto che da quando si è insediata, due anni fa, ha avviato una campagna di taglio di dirigenti, riduzione di stipendi e licenziamenti per assenteismo: «Capisco la sensazione di inopportunità che possono creare queste situazioni ma si tratta di parte della retribuzione di centinaia di migliaia di lavoratori definita da norme che non possiamo cambiare. Quello su cui stiamo lavorando è cercare di aumentare lo spettro degli elementi da valutare, ancorando la valutazione non solo agli obiettivi raggiunti ma anche al comportamento complessivo del dirigente».

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LEGALITA’DEMOCRATICA

Del 22/10/2014, pag. 9 La cupola dell’Expo “Da Greganti a Frigerio la tela dei rapporti con sinistra e destra” EMILIO RANDACIO Primo Greganti si vantava «di andare al Nazareno, che è la sede del Pd». Gianstefano Frigerio, a detta degli altri componenti della «Cupola» Expo, spaziava tra Arcore e l’assessorato alla Sanità della Regione, guidato da Mario Mantovani. Per spingere un buon manager nella scala più alta delle società di Stato, poteva presentare banchieri (Ubaldo Livolsi e l’ex numero uno dello Ior, Angelo Caloia), o manager di Stato come il vicepresidente dell’Autority dei contratti pubblici, Berarducci, o il segretario generale dei Trasporti Scino. Visto che gli appoggi servivano da tutte le parti, l’ex centrista Sergio Cattozzo aveva il compito di garantire le coperture nell’Ncd, direttamente con Vito Bonsignore o comunque dialogando con la Lega attraverso «Maroni e il sindaco di Verona Tosi». Chiamarla cupola sembra riduttivo. Perché grazie all’agenda del pregiudicato, ma riverito, «professor» Frigerio, fino all’8 maggio scorso — momento del suo arresto — tanti politici o manager pubblici avevano garantiti incontri, attenzioni, e soprattutto appoggi. Il nuovo elenco emerge dalle carte depositate nell’inchiesta Expo, il cui processo prenderà il via il prossimo 2 dicembre. GLI APPOGGI A SINISTRA L’ex «compagno G», Greganti, oltre a essere accorto nel parlare al telefono, era riluttante a raccontare quelle che erano le sue frequentazioni politiche. Ma qualcosa ogni tanto gli scappava. Così, lo scorso 18 giugno, davanti ai pm di Milano Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio, il faccendiere Sergio Cattozzo, sui «contatti» politici del compagno G, risponde: «Non mi ha mai detto con chi parlava... Lui diceva di andare al Nazareno, che è la sede del Pd». L’ex manager di Expo, Angelo Paris, anche lui arrestato a maggio, è più particolareggiato. «L’unico nome che mi fece Greganti — spiega nel verbale del 4 giugno — è quello del ministro Martina, ma relativo al discorso Paesi» (appalto per la realizzazione dei padiglioni Expo, ndr ). Quale era esattamente il ruolo dell’attuale ministro dell’Agricoltura? Sempre secondo Paris, «prima di questo nuovo incarico da ministro, Martina era in contatto per fare, tra virgolette, segnalare, lavorare aziende italiane, tra cui la CMC (Cooperativa muratori e costruttori di Ravenna, ndr) ». Per Paris, fu lo stesso Greganti a svelare i contatti con Martina. Greganti giura di non aver mai incontrato alcun politico. «Così mi rovinate politicamente», sembra urlare al gip Fabio Antezza. «Io non ho visto nessuno, nemmeno Bersani, che neppure conosco». LE PRESSIONI SULLA DESTRA Nel centrodestra, invece, il garante sembra essere il «professore » Frigerio. Nel verbale appena depositato, Paris a domanda dei pm ricorda anche di «quella volta che mi fece i nomi di Guerini e Delrio, però solo come contatti del nuovo esecutivo di Renzi, come possibili punti di contatto». Paris è accusato di aver pilotato più di un appalto milionario di Expo, su società sponsorizzate dalla cupola. E, almeno dalle intercettazioni telefoniche, emerge come per sdebitarsi garantendogli la poltrona da direttore generale di Infrastrutture lombarde (Ilspa), Frigerio attivi realmente fino alla fine dell’aprile scorso più canali. «Berlusconi e Mantovani ha detto che avrebbero giocato un ruolo nel favorire la mia... (candidatura, ndr ) ». E per tenere ancor più in palmo di mano Paris, «Frigerio mi presentò una volta a pranzo Ubaldo Livolsi e poi io andai a trovarlo una volta in ufficio ». 37

Stessa tattica portata avanti con Berarducci, Scino e Caloia. «Mentre Cattozzo mi fece incontrare una volta Vito Bonsignore, e Bonsignore se lo giocò (Cattozzo, ndr), anche nel supporto alla mia candidatura in Ilspa ». L’indagato conclude il suo verbale spiegando bene il ruolo della cupola Expo. «Io non ho mai pensato per i titoli professionali che avevo di contattare direttamente i politici...». Il pm Gittardi lo interrompe, precisando: «Beh, però Frigerio e Cattozzo servivano a questo, no?». «Loro lo fanno, loro lo fanno... a questo miravano».

Del 22/10/2014, pag. 22 “L’uomo dei misteri era solo un barista” svelata la bufala di Ciancimino Jr Per il figlio dell’ex sindaco di Palermo il “Signor Franco” mediava tra Stato e mafia Rinviato a giudizio: “Calunniò De Gennaro” ATTILIO BOLZONI ILMISTERIOSISSIMO «signor Franco » delle trame mafiose, il famigerato personaggio evocato da Massimo Ciancimino come ponte fra Stato e Cosa Nostra, è il proprietario di un bar di Roma. Quello contrabbandato come uno spione di rango internazionale è in realtà un tranquillo commerciante dei Parioli. Si è svelato così, dopo quattro anni di intrigo, il giallo del “signor Franco” nome in codice usato dal figlio dell’ex sindaco di Palermo per indicare una delle figure più inquietanti che avrebbe fatto da ufficiale di collegamento fra i Corleonesi e gli apparati investigativi. Si è svelato con il rinvio a giudizio del piccolo Ciancimino — dal giudice di Caltanissetta — per calunnia aggravata contro Gianni De Gennaro, l’ex capo della polizia identificato dallo stesso Ciancimino come quel «signor Franco» che teneva contatti ravvicinati con suo padre per conto dello Stato. Una farsa. Totalmente inventato l’accostamento De Gennaro — «signor Franco», sostenuto con una serie di documenti taroccati forniti a rate ai magistrati siciliani per rafforzare la sua temeraria tesi. A questo punto, resta da chiedersi soltanto se Massimo Ciancimino abbia fatto tutto da solo o sia stato manovrato da qualcuno. Avventuriero in proprio o pupo sapientemente pilotato? Il nome dell’ex capo della polizia De Gennaro ha cominciato a farlo circolare nella primavera del 2010, prima confidandosi con un funzionario della Dia e poi «sparandolo» a raffica alle orecchie di una dozzina di giornalisti. In sostanza Massimo Ciancimino ha pronunciato per la prima volta quel nome — dopo un tormentone di almeno due anni do- ve prometteva carte e «rivelazioni », ritrattava e prometteva ancora — collegandolo al «signor Franco» e alle oscure attività del padre Vito. Per sorreggere le sue parole ha consegnato ai pm un foglio con scritto il nome «De Gennaro», giurando e spergiurando che l’aveva avuto dalle mani del genitore. Le perizie l’hanno smentito clamorosamente: il foglio portato da Ciancimino con il nome dell’ex capo della polizia è stato «trasposto e poi incollato, previa riduzione grafica» e infine sfornato da una fotocopiatrice laser di ultimissima generazione. Ai tempi di don Vito non esistevano quelle macchine. Chi ha spinto “Massimuccio” a falsificare grossolanamente il documento? S’indaga. Anche perché — investigando sulla calunnia nei confronti di De Gennaro — si è scoperto chi è il vero “signor Franco”, un uomo contattato dal piccolo Ciancimino solo per tentare di ottenere il rilascio di un passaporto. Se in un primo momento “Massimuccio” non aveva voluto mai pronunciare il nome di De Gennaro («Per paura»), poi ha parlato di un suo interessamento per favorirlo nella vicenda passaporti ma senza ancora indicarlo come il “signor Franco”. L’ha fatto dopo. Ma dopo si 38

è capito anche che un “signor Franco” in realtà si era adoperato per quei passaporti, uno che si chiama davvero Franco, Franco M., titolare del bar Toma’s in piazza Euclide a Roma. Alla fine questo “signor Franco”, richiamato in mezzo a tranelli mafiosi e grandi segreti di Stato, è uno che non ha nulla che fare con apparati e cospirazioni. Si legge nella memoria difensiva degli avvocati Franco Coppi e Francesco Bertorotta, che hanno assistito come parte civile De Gennaro: «È un’ordinaria vicenda di “favori all’italiana”... ». Con sovrapposizione di nomi e di ruoli da parte del figlio di don Vito. Adesso siamo arrivati al capolinea, a processo per calunnia a Caltanissetta e da un anno imputato anche a Palermo sempre per la stessa accusa contro De Gennaro. Cosa rimane della «cantata» di Ciancimino dopo tutto questo tempo? Tante bufale e un solo merito: avere fatto tornare la memoria ad alcuni rappresentanti delle Istituzioni — l’ex presidente della Camera Luciano Violante, l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, l’ex dirigente del ministero della Giustizia Liliana Ferraro — che non avevano mai riferito su incontri fra ufficiali del Ros e l’ex sindaco di Palermo durante le stragi del ‘92. Un pezzo di trattativa spifferato da “Massimuccio” che era sfuggito agli smemorati.

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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE

del 22/10/14, pag. 12 Espulsione collettiva, condannata l’Italia Ilaria Sesana Strasburgo condanna nuovamente l’Italia. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro Paese per aver respinto in Grecia 35 profughi afghani, sudanesi ed eritrei. Tre i punti contestati: il respingimento collettivo, l’impossibilità ad accedere alle procedure di asilo, il rischio di esporre a trattamenti inumani e degradanti i migranti rimandati in Grecia. L’Italia, sottolinea la Cedu, ha violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Condannata anche la Grecia, per non aver assicurato l’accesso alle procedure d’asilo ai 35 profughi e per averli esposti al rischio di deportazione in Afghanistan. Una sentenza storica, che arriva a conclusione di una battaglia legale lunga cinque anni: il ricorso, infatti, è stato presentato nel 2009. «Il dato più significativo è il fatto che siano state accolte tutte le violazioni che abbiamo eccepito», commenta Alessandra Ballerini, uno dei legali che si è rivolta alla corte di Strasburgo. Patrasso è uno snodo cruciale lungo le rotte dell’immigrazione. Qui arrivano ogni anno centinaia di profughi provenienti Afghanistan, Pakistan ma anche dal Corno d’Africa e, recentemente, dalla Siria. Tra il 2008 e il 2009 la presenza dei rifugiati era particolarmente elevata. «Si nascondevano sui tir per cercare di arrivare in Italia. Ma quando la polizia di frontiera li stanava, li riconsegnava al comandante della nave su cui erano arrivati per rispedirli in Grecia - spiega Alessandra Ballerini -. Poi venivano lasciati nelle mani della polizia greca: molti hanno subito brutali pestaggi e violenze». Ma la vittoria ha un sapore amaro. Dei 35 profughi che hanno presentato il ricorso, solo quattro sono effettivamente arrivati alla meta. «Non avevo modo di tenere i contatti con tutti. Alcuni sono spariti, non sappiamo nemmeno se siano ancora vivi - spiega Alessandra Ballerini -. Altri sono stati rimpatriati in Afghanistan». Alì (nome di fantasia) è uno dei quattro sopravvissuti all’odissea dell’Adriatico. Era arrivato a Patrasso dopo essere scappato dall’Afghanistan, dai talebani che lo avevano ferocemente torturato e arruolato a forza. Vuole andare in Italia e per due volte ha tentato la traversata in traghetto. Ogni volta, però, la polizia italiana lo ha scovato e rimandato indietro. Senza perdere tempo per verificare la sua identità, la sua età. Né tantomeno ascoltare la sua richiesta d’asilo. Solo al terzo tentativo la fuga è andata a buon fine. «Questa sentenza è un fatto importantissimo – commenta Alberto Barbieri, presidente dell’associazione Medu, Medici per i diritti umani –. Di fronte a una condanna così netta, auspichiamo che il governo italiano applichi procedure conformi al diritto internazionale anche nei porti dell’Adriatico». Il report "Porti insicuri", pubblicato da Medu nel 2014, evidenzia come la situazione non sia affatto cambiata dal 2008 a oggi. Nel corso del 2013 sono stati 1.317 i migranti irregolari rintracciati negli scali marittimi di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi di cui 1.091 sono stati riconsegnati alla Grecia, 178 risultavano minori. Ai numeri si aggiungono poi le testimonianze di 66 persone, intervistate a Patrasso: nell’85% dei casi, i migranti riammessi hanno riferito di essere stati reimbarcati sulla stessa nave con cui erano arrivati e di essere stati rimandati in Grecia nel giro di poche ore. In otto casi su dieci, hanno cercato inutilmente di comunicare alle autorità italiane la propria volontaà di richiedere asilo. 40

«È una sentenza importante, il cui esito era tutt’altro che scontato», sottolinea Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, ente che per diversi anni ha gestito un presidio negli scali di Ancona, Venezia e Brindisi. «Tante volte abbiamo denunciato questi respingimenti: non può esserci respingimento tra Italia e Grecia, perché è vietato dagli accordi di Schenghen – sottolinea Hein – inoltre sappiamo che sono stati rimandati a Patrasso anche dei minori. Speriamo che questa sentenza possa modificare la prassi dei respingimenti che si verifica ancora nei porti dell’Adriatico».

del 22/10/14, pag. 12 Una sentenza che fa chiarezza Mai più respingimenti prevale il diritto umanitario Una condanna a sorpresa, quella emessa ieri dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e che fa ulteriore chiarezza sull’accoglienza partendo da vicende del passato. Nel 2009 chi governava voleva rispondere con i respingimenti al flusso di profughi diretto verso la Fortezza Europa. Per la prima volta tale pratica venne sanzionata nel febbraio 2012, quando la Corte di Strasburgo condannò i respingimenti di subsahariani verso la Libia. Da allora l’Italia è stata paradossalmente criticata dai partner Ue per motivi opposti, perché l’operazione «Mare nostrum» in un anno, salvando circa 100mila vite umane nel Canale di Sicilia, avrebbe incentivato i flussi. Restava scoperto il fronte adriatico con un altro Stato dell’Ue. Perché diversi profughi, tra cui minori non accompagnati, soprattutto afghani, provenienti dalla Grecia e trovati sui traghetti nei nostri porti, ancora nei mesi scorsi venivano rispediti senza poter chiedere aiuto sul suolo ellenico. Dove rimanevano abbandonati al loro destino. Veniva insomma applicato alla lettera il regolamento di Dublino che prevede di rimandare i profughi al primo punto d’approdo Ue, ma senza curarsi della loro sorte. La Corte ha stabilito due cardini: il diritto umanitario prevale anche nell’area Schengen e i respingimenti appartengono al passato.

Del 22/10/2014, pag. 6 Boom dell’asilo politico, ma l’Italia è una tappa LA SITUAZIONE È STABILE. LA MAGGIORE AFFLUENZA DERIVA DALLE GUERRE NEL MEDITERRANEO E SI DIRIGE VERSO LA GERMANIA O LA SVEZIA Di Salvatore Cannavò Le coste italiane sembrano prese d’assalto dai migranti. L’Italia conosce per la prima volta il boom delle richieste d’asilo. Ma il numero degli immigrati, irregolari o meno, rimane stabile o addirittura decresce. I dati della Caritas, confrontati con quelli europei

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di Frontex, dipingono una realtà in cui l’emergenza è soprattutto televisiva mentre sul fronte dei flussi le cose sono più complesse. SECONDO I DATI ISTAT riferiti al 2013, gli immigrati in Italia non sono molti: 4,3 milioni, il 7,4% circa della popolazione italiana. A questi, secondo gli uffici Caritas-Migrantes – che redige ogni anno un accuratissimo rapporto –si possono aggiungere circa 300 mila immigrati irregolari. Complessivamente non si superano i cinque milioni anche perché, dopo il 2011, con il picco della crisi economica, si sono registrati per la prima volta dei flussi negativi, con un piccolo esodo di migranti rispetto ai flussi precedenti. “La crisi – scrive la Caritas – ha segnato la chiusura di una straordinaria crescita dell’immigrazione”, anche se la riduzione avvenuta non è stata così ampia come atteso. La partita, quindi, si gioca per ora su questi numeri. La crescita mondiale dell’im - migrazione segue del resto l’aumento della popolazione globale. Dai 175 milioni del 2000 si è passati ai 232 milioni del 2012, il 3,3% dei circa 7 miliardi di abitanti il pianeta. Nel 2040 si passerà a 400 milioni, cifra che rappresenta il 4% dei prevedibili 9 miliardi di abitanti di allora. Il problema, ovviamente, è che l’aumento della popolazione riguarda i Paesi meno sviluppati mentre i Paesi occidentali, più ricchi, hanno tassi di natalità vicini allo zero. Il dato è rilevante perché, spiega la Caritas, l’au - mento della popolazione immigrata in Italia negli ultimi anni è dipeso proprio dai tassi di natalità più che dall’af - fluenza di massa dall’estero. Riguardo ai flussi migratori irregolari, i dati più completi sono offerti da Frontex, l’Agenzia europea che dovrebbe monitorare e pattugliare le frontiere della Ue. Secondo il rapporto del Risk Analysis di Frontex relativo al secondo quadrimestre del 2014, l’im - patto dell’immigrazione irregolare è “al livello più alto da quando esistono le rilevazioni”cioè dal 2007. Facendo il confronto con l’analogo periodo del 2013, l’incremento è del 170% . E siccome il 90% dell’immigrazione irregolare proviene dal mare, il problema riguarda soprattutto l’Italia, con un incremento di otto volte rispetto all’an - no precedente. L’EMERGENZA delle percentuali si affievolisce un po’ quando si guardano i numeri reali: l’afflusso di irregolari nel quadrimestre è stato di circa 68 mila persone in tutta la Ue di cui tre quarti in Italia. Circa 50 mila persone in un periodo che comprende i mesi estivi quelli più problematici. “L’afflusso annuale in Italia è stimabile in 150 mila persone” dice don Giancarlo Perego direttore della fondazione Migrantes. “Di questi – aggiunge –almeno la metà sceglieranno di lasciare l’Italia per dirigersi verso Germania, Svezia o Gran Bretagna”. L’afflusso, infatti, proviene in larga parte dal Nordafrica, dall’Eritrea e dalla Siria, paesi colpiti dalla guerra. E questo si riflette sulle richieste di asilo che per l’Europa ma soprattutto per il nostro paese non sono mai state così numerose. Effetto delle tante guerre nell’area del Mediterraneo ma anche di afflussi che vengono da più lontano: Mali, Nigeria, Pakistan. Secondo Frontex è proprio l’Italia ad aver ricevuto il maggior incremento delle richieste di asilo nel secondo quadrimestre 2014 con un balzo del 471%. In termini assoluto si parla di circa 45 mila richieste. Insieme a Germania e Svezia, l’Italia ha cumulato il 60% di quelle totali. L’intreccio tra i due dati, afflusso e richieste di asilo, delinea più chiaramente il terzo dato, quello che dovrebbe calmare gli animi e mitigare l’emer - genza. Per quanto riguarda gli immigrati irregolari che restano sul territorio l’Italia conosce un decremento: -22% nel 2013 rispetto al 2012 (Frontex). Il numero totale resta relativamente stabile ma a crescere di più sono i paesi del nord Europa: Norvegia (+28%), Danimarca (+37), Germania (+20). L’allarme non sembra essere concreto nemmeno sul fronte di Ebola. Come ha spiegato il sottosegretario De Filippo, rispondendo alla Camera a un’interpellanza del M5S, la durata del viaggio “è tale da rendere estremamente improbabile l’arrivo di casi di infezione da virus Ebola”. L’incubazione è di circa sette-dieci giorni con un minimo di due

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e un massimo di 21 giorni. “Chi avesse contratto l’Ebola morirebbe prima di sbarcare in Italia. “Il virus - conferma don Perego - arriva in aereo non in nave”.

del 22/10/14, pag. 6 I parlamentari non seguono Grillo sull’immigrazione Dubbi sulla svolta, ma c’è paura delle espulsioni facili Francesco Maesano Il territorio è ostile e a presidiarlo c’è un avversario che ne conosce ogni angolo. Cercare consenso sul tema dei migranti costringe a scontrarsi con il Carroccio che conosce i sentieri di quella speciale propaganda meglio di qualunque altra formazione. Addentrarsi in una giungla che rischia ad ogni svolta di declinare nel torrente della xenofobia è un’impresa complessa e lo è ancora di più per una forza anagraficamente giovane come il M5S. Ma qualcosa bisognava pur fare, s’è ragionato al vertice del Movimento, anche perché la crescita della Lega, da quando a guidarla c’è Matteo Salvini, minaccia di estendersi a porzioni di elettorato che Grillo era riuscito a sedurre nei giorni degli scandali dei rimborsi regionali. Ma se il post pubblicato lunedì aveva toni duri e ultimativi, la pattuglia di onorevoli cittadini si è attestata su una posizione molto più sfumata. Nessuno si espone in prima persona e anzi, la linea tracciata dai diarchi è rivendicata un po’ da tutti come una continuazione delle posizioni del M5S sui migranti. Certo, l’aria di espulsioni facili non aiuta molto il dibattito interno e, per quanto eterogenee, le componenti interne ai gruppi parlamentari sostengono tutte il post del vertice, ma ne danno una lettura più sfumata. «Noi cerchiamo di affrontare un problema – spiegava ieri Danilo Toninelli, uno che nella stagione che si è aperta dopo le Europee ha acquisito peso e riconoscimento nel gruppo – quello dell’Italia abbandonata dall’Europa nella gestione degli ingenti flussi migratori dal Mediterraneo, e di trovare una soluzione. La Lega, al contrario, ha strumentalizzato il problema per vent’anni, senza mai né affrontarlo né tantomeno risolverlo. Ma la ragione è ovvia: alla Lega l’immigrazione porta voti, senza di essa andrebbe allo zero virgola percento di elettori». Eppure nel tentativo dei parlamentari di tenere insieme i toni di Grillo con le diverse sensibilità che permangono nel gruppo c’è una crepa. È il punto di rottura tra la propaganda decisa dal vertice e le proposte avanzate nel corso della legislatura, tra il «tutti fuori» e l’abolizione del reato di immigrazione clandestina voluta e difesa dai senatori del Movimento l’anno scorso. Solo pochi giorni fa, il 7 ottobre, neanche due settimane prima del duro post di grillo, i deputati avevano presentato una mozione, firmata da dissidenti e ortodossi, che chiedeva al governo di «assumere iniziative, in sede di Unione europea, per una più efficace azione nei confronti dei Paesi di origine e di transito, impegnando e incentivando i governi in una seria e solidale politica di gestione dei flussi». Seria e solidale, toni e contenuti ben lontani dalla minaccia di importare l’Ebola e dalla richiesta di visite mediche obbligatorie fatta balenare da Grillo. Nel frattempo la Lega corre a un’altra velocità. «L’onorevole Chaouki vuole aiutare tutti gli immigrati africani. Proposta: si faccia eleggere in Africa la prossima volta, non in Italia», twittava ieri Matteo Salvini. Il deputato Pd gli ha risposto accusandolo di scarso impegno a 43

Bruxelles: «Invece di lanciare offese personali, ci spieghi cosa ha fatto concretamente in tanti anni di Parlamento europeo», ma Salvini ha alzato ancora l’asticella: «Prima imparate a leggere, poi andate da un medico, da uno bravo. Mare Nostrum è lo schiavismo del 2014. Il vero razzismo, il vero pericolo per l’Italia viene da sinistra», è stata la replica strettissimo giro di posta: una prova muscolare di pollici lesti per dimostrare che lui, nel suo territorio, si muove meglio di chiunque altro.

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SOCIETA’

del 22/10/14, pag. 1/5 Il compromesso impossibile Massimo Villone Capiamo bene che l’etichetta di partito della nazione voglia evitare l’impaccio di una qualificazione di destra o sinistra. E capiamo anche che faccia comodo a un partito che non può più dirsi degli iscritti, essendosi questi dati alla macchia. Ma si pongono domande. Può un partito della nazione non essere un partito della Costituzione, che ne è primo fondamento? E può non essere un partito di diritti eguali per tutti? Le domande si pongono per il pasticciaccio delle coppie di fatto e dei matrimoni gay. Il ministro Alfano, probabilmente fermo allo Statuto Albertino, scatena le truppe prefettizie contro i sindaci che hanno osato trascrivere i matrimoni gay celebrati all’estero. Renzi lascia fare, e i suoi motivano — assurdamente — che il ministro dell’interno non si occupa di diritti. Cosa possiamo leggere in Costituzione? L’articolo 3 sancisce il principio di eguaglianza facendo espresso divieto, tra l’altro, di distinzioni in base al sesso. Già questo sembrerebbe in buona parte risolutivo. Se non è consentita una disciplina differenziata per il sesso, qual è l’ostacolo al formarsi di una coppia omosessuale, con quel che ne segue? Ma c’è poi l’articolo 29, per cui la famiglia è «società naturale fondata sul matrimonio». Ed essendo questo il fondamento, alla fine tutto si incardina sulla definizione di «matrimonio». Qui troviamo l’elemento di ambiguità dello schema assunto in Costituzione. Nella sentenza n. 138 del 2010 la Corte contribuisce decisivamente in senso negativo. Venivano impugnati vari articoli del codice civile dai quali si traeva il divieto di matrimonio per persone del medesimo sesso. La Corte afferma che i costituenti, nell’elaborare l’articolo 29, «tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che … stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso». Significato non superabile dall’interprete, perché si tratterebbe di interpretazione creativa. Ancora — dice la Corte — l’esclusiva riferibilità a persone di sesso diverso non è irragionevolmente discriminatoria, in quanto «le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio». Non è una delle migliori prove della Corte costituzionale, che guarda al passato e non al futuro. Meglio sarebbe stato assumere un’interpretazione evolutiva non limitata a una definizione giuridica data, ma piuttosto mirata alla decisione di stabilire un rapporto di coppia stabile e duraturo. Dando elasticità al concetto di matrimonio piuttosto che rinchiuderlo nell’angusto confine disegnato dal codice civile ancor prima della Costituzione. Tra l’altro, la stessa Corte ripetutamente afferma che il diritto di formare una coppia e di avere dei figli è un diritto inviolabile di ogni persona ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione. Da ultimo, lo si trae dalla sentenza n. 162 del 2014, che ha aperto alla fecondazione eterologa. Ed è chiaro che più si attrae la questione nell’ambito del diritto inviolabile, più si restringe la possibilità di discipline differenziate. Che per il solo fatto della diversità inevitabilmente condurranno a tutele maggiori e minori, riconoscendo a qualcuno un diritto più inviolabile che ad altri. È nell’ambito di questa contraddizione che la Corte, nella recente sentenza n. 170 del 2014 sul cosiddetto «divorzio obbligatorio» nel caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi (con conseguente scioglimento del matrimonio e cessazione degli effetti civili), dichiara la incostituzionalità della legge vigente, nella parte in cui non prevede che i 45

coniugi possano chiedere di «mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata … con le modalità da statuirsi dal legislatore». La norma è lesiva della Costituzione, ma altri devono provvedere. Una conclusione derivante dalla rigida lettura sul matrimonio con la quale la Corte si è privata dello strumento che le avrebbe consentito di intervenire con duttilità, giungendo a una modernizzazione dell’antico dettato normativo. Per questo la palla è al legislatore. Con quel che corre, è in mano a Renzi. Dovrà ricordare che per il legislatore il parametro primario rimane quel diritto fondamentale e inviolabile a formare una famiglia e avere dei figli di cui si è detto. Che non consente di distinguere tra matrimoni omosessuali e coppie di fatto, tra figli naturali, adozioni e quant’altro. Distinzioni puramente terminologiche, forse, se si tratta di evitare allergie a una parte delle gerarchie ecclesiastiche e a politici di stretta osservanza. Ma differenze che incidono nel merito, no. Il costume e la consapevolezza sociale sono profondamente cambiati negli anni. È tempo di nuove letture delle regole giuridiche. Con buona pace di Alfano. E nessuno ci venga a dire che il meglio è nemico del bene. Forse per le tasse o gli sgravi alle imprese, non per i diritti fondamentali della persona e le garanzie costituzionali. E soprattutto non ci dica Renzi che si provvederà ai diritti dopo aver sistemato la legge elettorale. Visto che i tempi dipendono essenzialmente dalle sue scelte, questa è, come direbbero i giuristi, una condizione potestativa, il cui verificarsi è rimesso alla volontà di chi la pone. Non è consentita. E ci permettiamo sommessamente di sottolineare che in democrazia nessuno muore di troppa eguaglianza. Nemmeno i governi.

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INFORMAZIONE

Del 22/10/2014, pag. 8 Il Pd fa rivivere l'Unità e punta ai fondi ex Ds Ritorno in edicola grazie a Guido Veneziani, editore di riviste di gossip. La campagna di risparmi nel partito. Youdem, il canale web del Pd, passerà al digitale terrestre mentre Europa dovrebbe chiudere a novembre per rinascere online e come settimanale. Il quotidiano ripartirà con una redazione più snella rispetto a quella precedente. ROMA. Intanto un primo passo è stato fatto. Tra qualche mese l'Unità sarà di nuovo in edicola. L'impresa non è stata facile. Francesco Bonifazi, tesoriere del Partito democratico, e l'editore di minoranza del quotidiano, Maurizio Mian, si sono messi di buzzo buono per trovare i soldi necessari per rimettere in piedi il giornale e il secondo ha dato un cospicuo contributo finanziario per scongiurarne la chiusura definitiva. Prima hanno deciso di costituire la Fondazione di cui faranno parte Youdem (l'unico vero strumento di comunicazione del Pd che è in attivo e che, anzi, ha molte possibilità di sviluppo future, tant'è vero che a breve andrà sul digitale terrestre), Europa (che a novembre potrebbe chiudere per poi rinascere solo sull'online e come settimanale di approfondimento) e infine l'Unità. Ed era quest'ultimo il vero problema. Trenta milioni di debiti, 900.000 euro di spese l'anno: insomma un carico insostenibile per un partito che ha optato per l'autofinanziamento e che ha detto addio ai soldi pubblici. Come fare? Pensa che ti ripensa, Bonifazi, con l'aiuto di Adrio de Carolis di Swg, ha capito che l'unica era puntare sul brand del giornale. Non a caso Matteo Renzi ha voluto che la Festa, da quest'anno, riprendesse l'antico nome di Festa dell'Unità e Bonifazi ha puntato su tutto quello che gira intorno al brand di quel giornale e a quello degli altri strumenti di comunicazione del partito: gadget, musica, eventi... Poi con Mian si è dato da fare per trovare un editore disposto a metterci i soldi. Già, perché sono quelli che scarseggiano a via del Nazareno, dove la querelle sul patrimonio immobiliare dei «fu Ds» non si è ancora risolta. L'ex tesoriere Ugo Sposetti ha fatto capire in tutte le salse che non ha intenzione alcuna di regalare nulla di ciò che fu dei diessini. L'ultimo segretario di quel partito, Piero Fassino, non la pensa nello stesso modo. E come lui non la pensano molti segretari dei circoli del Partito democratico che provengono dall'esperienza ds. Ma quella è una vicenda destinata ad andare per le lunghe. E se si voleva salvare l'Unità Bonifazi e Mian non potevano certo aspettare che il tormentone diessino arrivasse alla fine. Per questa ragione il tesoriere del Pd si è buttato sul mercato a cercare un partner. Un'offerta è arrivata da Matteo Arpe. Non è stata accettata. Ufficialmente mancavano tutte le garanzie necessarie. In realtà, raccontano a largo del Nazareno, al Pd erano in molti a sospettare che dietro quella cordata vi fosse Massimo D'Alema. Vero o falso? Smentiscono tutti. E Bonifazi è categorico nel negare l'intera vicenda: «Non vi sono stati interessamenti da parte di Matteo Arpe». Ma l'indiscrezione continua a circolare con una certa insistenza. Fatto sta che, Arpe e D'Alema o meno, Bonifazi alla fine ha trovato un editore con il quale fare un'offerta di dieci milioni per l'Unità. È Guido Veneziani. Un nome sconosciuto all'editoria politica, ma ben conosciuto per i suoi periodici: Stop, Top, Vero. Nomi che, magari, faranno arricciare il naso a qualcuno, ma che consentiranno al quotidiano fondato da Antonio Gramsci di riprendere le pubblicazioni di qui a qualche mese, giacché l'offerta verrà fatta entro il 31 ottobre, ossia tra pochi giorni. Dopodiché si tratterà solo di individuare il direttore. Questione di mesi, dunque. Poi si ripartirà. Certo, con una

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redazione più snella rispetto a quella precedente. Ma i tempi sono quelli che sono. E ieri, nell'assemblea che ha avuto con i dipendenti del partito, Bonifazi non ha nascosto le difficoltà, anche se ha fatto delle promesse importanti: «Sono disposto a correre il rischio di andare incontro a una piccola perdita pur di non mettervi in pericolo, quindi niente solidarietà». Una rassicurazione che ha fatto tirare un sospiro di sollievo a quanti erano — e sono — preoccupati per le sorti del Pd dopo la decisione di rinunciare ai finanziamenti pubblici. Del resto, la spending review operata dal tesoriere del Pd sta andando avanti a passo spedito, il costo per i servizi è stato ridotto del 57 per cento rispetto agli anni precedenti, mentre i costi della segreteria nazionale si sono fermati a 50 mila euro, nulla rispetto al milione e 220 mila euro di prima. Sulla manutenzione si risparmia il 70 per cento e l'aver già abbandonato due sedi del Pd a Roma ha portato a un risparmio di 820 mila euro. Certo, non basta. Ci vogliono ancora altri sforzi. E, soprattutto, è necessario che anche i Ds diano un loro contributo. Ma di questo argomento Bonifazi preferisce non parlare. Non vuole entrare in questa polemica che ha visto uno Sposetti molto combattivo difendere il patrimonio immobiliare diessino confluito in alcune fondazioni. Ma ora sono proprio alcuni circoli degli ex Ds, adesso circoli del Partito democratico, che stanno chiedendo conto di questo problema e della fine che farà quel patrimonio. Ne vogliono discutere a giorni. Ed è assai probabile che sia alle viste una nuova puntata di questo tormentone, il tesoriere del Pd, almeno per ora, preferisce non intervenire: è troppo felice di essere riuscito a mandare in porto l'operazione che si era prefisso, l'ennesima resurrezione dell'Unità.

Del 22/10/2014, pag. 12 EDITORIA, LA DISFATTA DELLE SETTE SORELLE CARTA STANCA Sul sito di Mediobanca un report che nessuno pubblica: i big dei giornali perdono copie, pubblicità, hanno i conti disastrati e licenziano Di Giorgio Meletti lettori sono in fuga dalle edicole e tutti sappiamo perché. Le notizie si sentono alla tv, gratuitamente, e chi vuole approfondire usa la rete. I social network aiutano a selezionare le notizie grazie al passaparola e alla condivisione di link e contenuti. Per andare all'edicola resta dunque un solo ovvio motivo: la certezza di leggere una cosa introvabile altrove. È il caso di questo articolo: chi questa mattina ha acquistato il Fatto vi trova adesso i risultati di un’analisi sui bilanci dei principali gruppi editoriali condotta dal Ufficio Studi di Mediobanca. Non è un documento segreto, visto che è stato pubblicato sul sito della Ricerche& Studi spa (www. mbres. it ). SEMPLICEMENTE è stato ignorato dai principali giornali, forse per evitare ai propri lettori la malinconia delle cattive notizie. E infatti la cosa che colpisce di più non è che gli ultimi cinque anni siano stati per i maggiori editori italiani ( Rcs, Espresso, Mondadori, Monti Riffeser, Caltagirone, La Stampa, Il Sole 24 Ore ) una Caporetto ininterrotta. Piuttosto il fatto che dal 2009 i sette gruppi esaminati hanno perso 1,8 miliardi di euro senza fare una piega. Come osserva lo studio, azionisti e impresa, “avendo una posizione residuale, assorbono la perdita finale”. Dal tempio del potere finanziario nazionale arriva dunque la conferma autorevolissima dell'osservazione empirica di chiunque: possedere i giornali non serve a fare soldi, e le perdite sono il prezzo da pagare per controllare l’informazione. Non 48

c’è altra spiegazione. I grandi editori, nella fotografia di Mediobanca, sembrano assistere impassibili alla ritirata disordinata delle loro truppe. Dal 2009 al 2013 il mercato è stato spietato. Oggi, come si vede dalla grafica, per quasi tutti gli editori il costo del lavoro è superiore al valore aggiunto creato: significa che i ricavi non bastano a pagare neppure gli stipendi di giornalisti, poligrafici e impiegati. LA DIFFUSIONE complessiva dei quotidiani che fanno capo a 6 dei 7 maggiori gruppi (la Mondadori pubblica solo periodici) è calata del 24,8 per cento, da 2,8 milioni di copie al giorno a 2,1. La flessione più marcata è del Corriere della Sera (-28,4 per cento), seguito da Repubblica (- 27,4 per cento) mentre Messaggero , Stampa e So - le 24 Ore hanno perso copie intorno alla media, circa un quarto dei lettori. Mentre la diffusione cala del 24,8 per cento, i ricavi delle vendite dei giornali scendono in misura maggiore, del 27,7 per cento, nonostante in questi cinque anni il prezzo dei quotidiani sia salito notevolmente. Il Sole 24 Ore, per esempio, è passato da 1 euro a 1,50 come prezzo base, accusa una flessione dei ricavi del 35 per cento a fronte di un calo delle vendite del 26,8 per cento. Come se la crisi venisse fronteggiata dagli editori (tutti) con massiccia diffusione gratuita, anche a difesa del fatturato pubblicitario. Che però è andato peggio dell'edicola: - 31 per cento in cinque anni. GLI SCHIAFFONI presi sul mercato hanno eroso il capitale netto delle aziende editoriali, rimpicciolito del 40 per cento in cinque anni mentre il valore di Borsa delle società quotate (tutte a eccezione della Stampa) si è mediamente dimezzata, con un dato impressionante per il Sole 24 Ore , le cui azioni hanno perso il 68 per cento del valore. L’Ufficio Studi di Mediobanca fa notare che il patrimonio di queste aziende è tenuto in piedi da una valutazione generosa dei cosiddetti beni intangibili, quale il valore attribuito alle testate. Siccome si tratta di un valore che esprime le potenzialità di reddito di quei beni, viene sottolineato che in questi anni di crisi nera e perdite si è evitato di svalutare queste voci di bilancio. La ragione è evidente: senza queste voci “ottimisti - che” tutte queste aziende, con l’eccezione di Caltagirone e Monrif, avrebbero patrimoni negativi, che in parole povere somiglia molto a doversi preparare a portare i libri in tribunale. La perdita di copie non è maggiore della media europea (-23 per cento), ed è in parte un inevitabile segno dei tempi. Ma sono i drammatici dati di bilancio a farci interrogare sulle contromosse escogitate. In questi cinque anni gli editori hanno fatto fuori il 22 per cento degli occupati, mettendo alla porta 4200 persone. La produttività del lavoro è però diminuita del 15 per cento. BISOGNA considerare che quando si fabbricano automobili la produttività di un operaio si misura in numero di auto prodotte. Nel caso di un giornalista, ma anche di un tipografo, il lavoro di scrittura o di preparazione alla stampa di un articolo rimane sempre lo stesso, sia che si vendano 100 mila copie sia che se ne vendano 10 mila. Tagliare il costo del lavoro unitario dell’1,2 per cento (quindi molto di più considerando l’inflazio - ne), come è stato fatto, contribuisce a migliorare i conti delle aziende. Mentre ridurre il numero dei giornalisti a fronte di una minor vendita di copie, come stanno facendo i grandi editori, non ha senso: visto che non scrivono ogni singola copia con i trasferelli, sfoltire le redazioni è come se la Fiat, vendendo meno macchine, pensasse di far tornare i conti smerciando le Punto senza sportelli.

del 22/10/14, pag. 14 Mamma mia Vincenzo Vita

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«Mamma mia!», cantavano gli Abba, tormentone di successo divenuto musical e film, interpretato quest’ultimo da Meryl Streep. E «mamma mia» diciamo noi, cultori della par condicio e usi a criticare Berlusconi per l’uso spregiudicato del video: conflitto di interessi, sostegno privilegiato e quant’altro. Lo urliamo a mezza bocca, piangendo in silenzio come Amalia di «Senilità», quando osserviamo le presenze di Matteo Renzi in televisione. Siamo a livelli inimmaginabili e qualche volta persino inediti. La rete d’assalto di Mediaset — Retequattro — nel mese di settembre ha ospitato nei telegiornali il Presidente del consiglio per il 38% del tempo. Un po’ meno Studio Apeo (27%) e Canale 5 (24%): tabelle pubblicate sul sito dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Insomma, Mediaset ha incoronato Matteo Renzi, persino più della Rai ferma al 20%. Fino alla performance di domenica scorsa a «Domenica Live» di Barbara D’Urso, dove il premier ha fatto da padrone di casa. Nello stesso giorno la grandissima marcia per la pace Perugia-Assisi veniva praticamente snobbata dai tg dell’azienda di Berlusconi, con l’eccezione di un pezzo sul sito di Tgcom24. Lasciamo stare gli eventuali patti del Nazareno. Tuttavia, lo scenario televisivo è mutato profondamente e Renzi ha assunto un ruolo dominante, che va al di là dell’ovvio riconoscimento del lavoro del governo. Insomma, ancora una volta il vecchio equilibrio ex-duopolistico sembra resistere, a dispetto di un florilegio di convegni che invano evocano consultazioni di massa, innovazioni, cambi di paradigma. Siamo fermi alla via crucis di vent’anni fa. Con la differenza non banale che il leader del Pd vince a mani basse nella classifica delle apparizioni mediatiche. E’ un caso di rivoluzione passiva o è solo l’effetto della bravura comunicativa (indubbia) di Renzi? In verità, la televisione rimane un argomento tabù, stregato, irto di fili spinati. Non è immaginabile alcuna riforma istituzionale senza varare una decente riforma del sistema informativo: tutto, non solo della componente pubblica. Sarebbe bizzarro se – di taglio in taglio– la Rai venisse sminuita senza alcuna strategia e Mediaset trovasse un ancoraggio nel vasto porto di Telecom. Del resto, il contratto di servizio del servizio pubblico — come preconizzato nella puntata di «Ri-mediamo» del 5 marzo scorso — rischia di cozzare con il rinnovo della Convenzione con lo Stato e di morire prima di nascere. E la competizione sembra essersi ridotta ad una partita a due tra Sky e Mediaset, La7 a parte. Ecco perché è assai rischioso ciò che sta accadendo. Quando si indeboliscono regole e criteri si facilita la decadenza del tessuto democratico. Guai a voltarsi dall’altra parte solo perché è calata l’invadenza del patron di Arcore. Meno Berlusconi, ma persino più berlusconismo. Nel partito democratico si è aperta la discussione sulla forma-partito, sul nesso tra iscritti ed elettori, strutture leggere o meno. Forse, sarebbe utile che si considerasse già avvenuta la trasformazione della politica, ormai appendice del circo mediatico. Paradossalmente, proprio coloro che hanno teorizzato la fine dello schermo generalista e la vittoria della rete o dei social network sembrano immersi nella cultura analogica: quella della eterna televisione passiva e indifferenziata. Non sarà un caso se il testo arrivato nell’aula della Camera dei deputati sul conflitto di interessi sia al di sotto di ogni sospetto. Che bel romanzo, «Il gattopardo». Buongiorno tristezza.

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CULTURA E SCUOLA

Del 22/10/2014, pag. 33 COSÌ AMAZON STRANGOLA IL MERCATO PAUL KRUGMAN AMAZON.com, il colosso del commercio online, ha troppo potere e il modo in cui usa questo potere danneggia l’America. Sì, lo so, detta così è un po’ brutale. Ma volevo arrivare al punto fin da subito, perché quando si parla di Amazon spesso e volentieri si finisce per perdersi in questioni di secondaria importanza. Per esempio i detrattori della libreria online a volte la ritraggono come un mostro pronto a inghiottire l’intera economia. Sono proclami esagerati: Amazon non ha una posizione dominante nemmeno nel commercio online, figuriamoci nel commercio al dettaglio in generale; e probabilmente questa posizione dominante non ce l’avrà mai. E con questo? Ciò non toglie che il ruolo che sta interpretando sia inquietante. Sull’altro versante, chi la difende spesso si lascia andare a peana in onore della vendita di libri online, che in effetti è una cosa positiva per tanti americani, oppure esalta il servizio clienti di Amazon (e nel caso ve lo stiate chiedendo, sì, ho Amazon Prime e lo uso a profusione). E con questo, torno a dire? Il punto non è se una nuova tecnologia sia auspicabile o meno, e nemmeno se Amazon utilizzi questa tecnologia in modo efficace. Dopo tutto John Rockefeller e i suoi soci se la cavavano niente male nell’industria petrolifera, ma la Standard Oil aveva comunque troppo potere ed era fondamentale che lo Stato intervenisse per limitarlo. La stessa cosa vale oggi per Amazon. Se non avete seguito le ultime vicende relative al colosso di internet, vi faccio un riassunto: a maggio una controversia tra Amazon e la Hachette, un’importante casa editrice, è degenerata in guerra commerciale aperta. Amazon pretendeva una fetta più grossa del prezzo dei libri venduti dalla Hachette; quando Hachette gli ha risposto picche, Amazon ha cominciato a ostacolare la vendita dei libri Hachette. Non li ha eliminati dal sito, ma ha preso a ritardare le consegne, alzare il prezzo e/o indirizzare i clienti verso altri editori. Potreste essere tentati di dire che il mondo degli affari è così da sempre, come ai tempi in cui la Standard Oil, prima che venisse spezzettata, si rifiutava di utilizzare per il trasporto del suo petrolio quelle compagnie ferroviarie che non le garantivano uno sconto speciale. Ma il punto naturalmente è proprio questo. L’era dei robber barons finì proprio quando noi, come nazione, stabilimmo che certe tattiche affaristiche non erano accettabili. E la domanda che ci dobbiamo fare è se vogliamo cancellare quella decisione. Ma Amazon ha davvero un potere di mercato comparabile a quello dei robber barons? Nel settore dei libri sì, indubbiamente. Amazon ha una quota di mercato largamente maggioritaria nel settore della vendita di libri online, comparabile alla quota del mercato del petrolio raffinato controllata dalla Standard Oil quando fu spezzettata, nel 1911. E anche se si guarda alla vendita di libri in generale, Amazon è di gran lunga il primo operatore. Finora il colosso online non ha cercato di spremere i consumatori. Anzi, ha sistematicamente tenuto bassi i prezzi per rafforzare la sua posizione dominante. Quello che ha fatto, però, è stato usare il suo potere di mercato per spremere gli editori, riuscendo a ridurre il prezzo che paga per i libri (da qui lo scontro con la Hachette). Nel gergo economico, Amazon (almeno per ora) non si comporta come un monopolista, cioè un venditore dominante che ha il potere di alzare i prezzi, ma come un monopsonista, cioè un compratore dominante che ha il potere di ridurre i prezzi. 51

E su quel versante il suo potere è immenso veramente, ancora più grande di quanto segnalino i dati sulla quota di mercato. Per le vendite di libri il passaparola è importantissimo (per questo gli editori spesso spediscono gli autori a fare massacranti tour promozionali): compri un libro perché ne hai sentito parlare, perché altre persone lo stanno leggendo, perché è tra i più venduti. E Amazon possiede il potere di uccidere il passaparola. È sicuramente possibile, con qualche sforzo in più, comprare un libro di cui avete sentito parlare anche se Amazon non lo vende: ma se Amazon non vende quel libro, avete molte meno possibilità di sentirne parlare. Insomma, possiamo fidarci che Amazon non abusi di questo potere? La controversia con la Hachette ci ha fornito una risposta definitiva: no, non possiamo. Non è solo una questione di soldi, anche se i soldi sono importanti: spremendo gli editori Amazon in ultima analisi danneggia autori e Ma c’è anche il problema dell’influenza indebita. Per scendere nello specifico, la sanzione che Amazon sta imponendo ai libri Hachette è brutta di per sé, ma c’è una curiosa selettività nel modo in cui viene applicata. Il mese scorso il blog Bits del New York Times ha documentato il caso di due libri della Hachette che ricevono un trattamento molto diverso. Uno è Sons of Wichita di Daniel Schulman, un profilo dei fratelli Koch, i magnati di ultradestra; l’altro è The Way Forward di Paul Ryan, candidato alla vice presidenza nel 2012 con Mitt Romney e presidente della commissione bilancio della Camera dei rappresentanti. Entrambi i libri sono elencati fra quelli che hanno i requisiti per l’Amazon Prime, ma per il libro di Ryan Amazon offre la consueta consegna in due giorni, mentre per Sons of Wichita sono «normalmente 2-3 settimane» (ho controllato l’ultima volta domenica scorsa). Guarda guarda… Tutto questo ci riporta alla domanda fondamentale. Non venite a dirmi che Amazon dà ai consumatori quello che vogliono, o che si è meritata la posizione che occupa. La domanda che bisogna farsi è se ha troppo potere e se abusa di questo potere. E la risposta è sì, in entrambi i casi.

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ECONOMIA E LAVORO

Del 22/10/2014, pag. 2 Tarda la Finanziaria, dubbi di Napolitano e la Ragioneria chiede garanzie di copertura Freddo comunicato del Quirinale “Non è bollinata, attento esame” e Renzi sale al Colle, oggi il via libera Pensioni pagate in ritardo, è rivolta ROBERTO PETRINI Arriva, non arriva, è quasi arrivata. L’attesa per la legge di Stabilità, annunciata per lunedì, prevista per ieri e giunta al Quirinale senza relazione tecnica e “bollinatura”, cioè approvazione, da parte della Ragioneria generale dello Stato, rischia di far scoppiare un incidente istituzionale. Freddo, e forse un po’ irritato, il comunicato con cui Giorgio Napolitano ha accolto il provvedimento “monco” della parte che consente di leggerlo: «E’ arrivato il testo al Quirinale in attesa di “bollinatura” da parte della Ragioneria Generale dello Stato, adesso oggetto di un attento esame essendo per sua natura un provvedimento molto complesso». Per tutta la giornata la tensione si è rincorsa da un telefono all’altro e via sms. Il Tesoro ha subito assicurato che si è trattato di “ritardi tecnici”, altri ambienti spiegano che il testo è stato inviato nei giorni scorsi, in varie tranche, in modo da consentire al Quirinale di portarsi avanti con il lavoro di esame e che quello di ieri era una stesura ancora “ufficiosa”, per cui era ovvio che mancasse la “bollinatura”. Velate polemiche che nascondono tuttavia un generale disagio per lo slittamento dei tempi tant’è che anche il presidente del Consiglio Renzi è salito ieri sera al Colle. La decisione finale è giunta al termine della giornata: la “bollinatura”, annuncia una nota del Tesoro, e le “tabelle” della Ragioneria arriveranno oggi sul tavolo del Capo dello Stato. Sulle motivazioni si specula, ma non più di tanto. Nell’aria aleggia la questione delle coperture non sempre “blindate” a dovere. Secondo alcune voci - smentite dal Tesoro - ci sarebbe anche la richiesta da parte di Rgs di maggiori garanzie e persino di anticipare la “clausola di salvaguardia”(già prevista per il 2016 per 12,4 miliardi di aumento dell’Iva) nell’eventualità di sforamento dei saldi o di mancate coperture. Sotto scrutinio ci sono i 3,8 miliardi imputati alla lotta all’evasione fiscale (tra cui il meccanismo della reverse charge), le coperture di 1,9 miliardi per gli sconti destinati alle assunzioni e genericamente molti tagli. La “clausola”, che significa lo scatto automatico di aumenti Iva o di tagli di agevolazioni fiscali, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, del resto è uno dei cavalli di battaglia di Bruxelles. Accredita la voce il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta che annuncia anche la convocazionelampo del consiglio dei ministri per la serata per introdurre le modifiche. Ma Palazzo Chigi smentisce seccamente. Nell’incertezza la legge di Stabilità, dopo il “siluro” lanciato lunedì dal presidente della Commissione europea Barroso prima di fare i bagagli e in attesa della lettera interlocutoria di Bruxelles, comincia a diventare bersaglio di critiche. Alle Regioni che attendono l’incontro con il governo per domani e che hanno già manifestato la propria protesta, si aggiungono i Comuni. «Non siamo centri di spesa parassitari», dice il presidente dell’Anci Piero Fassino. Mentre sul dibattito rotola una nuova mina: la “Stabilità” prevede che il pagamento di pensioni e assegni da parte di Inps slitterà dal primo del mese al giorno 10. L’obiettivo è di «razionalizzare ed uniformare le procedure e i tempi di pagamento delle prestazioni» e risparmiare 19 milioni di interessi in un anno, ma l’attesa di dieci giorni in più in tempi di magra come quelli di oggi ha 53

scatenato la protesta del sindacato. Negativo il giudizio dei sindacati Cgil-Cisl-Uil: «I lavoratori ci rimettono». «Decisione incomprensibile» per la segretaria della Cisl Annamaria Furlan. Duro il giudizio anche del segretario della Uil Angeletti che prende di petto Renzi: «Ignora le leggi dell’economia». Dopo le proteste l’Inps ha comunque precisato che lo spostamento della data di pagamento sarà oggetto di confronto con i sindacati dei pensionati, con l’obiettivo di introdurre la novità con gradualità e di salvaguardare l’erogazione per gli assegni più bassi.

Del 22/10/2014, pag. 2 Ora si teme il giudizio Ue “Sul deficit faranno richieste eccessive” voto a rischio al Senato Calderoli chiederà lo scrutinio segreto a Palazzo Madama Premier ottimista sull’esito della trattativa con Bruxelles FRANCESCO BEI UMBERTO ROSSO Le carte, plichi con centinaia di pagine, fanno ingresso al Quirinale verso l’ora di pranzo. Arrivano però senza quel benedetto bollino della Ragioneria, la certificazione che le cifre sono esatte, che le coperture ci sono tutte, e il “banco” dei conti dello Stato non salterà sotto la pressione della legge di Stabilità targata Renzi. E a Giorgio Napolitano non è piaciuto granchè ritrovarsi sul tavolo — dopo che domenica in tv il ministro Padoan aveva inopinatamente dato il testo come già all’esame del Colle — una finanziaria ancora ballerina, senza le garanzie del Tesoro. Così quando Matteo Renzi nel pomeriggio sale al Quirinale, ufficialmente per informarlo sul prossimo vertice europeo, il capo dello Stato mette in chiaro col premier l’iter che seguiranno gli uffici guidati dai suoi consiglieri economici e giuridici: «Cominciamo l’esame del testo, e necessariamente sarà un lavoro approfondito. Per la natura stessa della legge di stabilità e anche perché, ancora prima di ogni valutazione finale, dovrà arrivare quell’ok della Ragioneria ». Renzi rassicura, smussa, promette «questione di ore, presidente, le tabelle col timbro saranno sulla sua scrivania, le coperture non mancheranno». Alla fine, nel giro di un paio di giorni, Napolitano dovrebbe controfirmare e autorizzare la trasmissione in Parlamento. Tanto che, lasciando il Colle alla fine dei novanta minuti di colloquio, Renzi rientra a Palazzo Chigi e galvanizza i suoi: «È andato tutto bene, nessun intoppo». E liquida con un sorriso “l’annuncio” del capogruppo forzista Brunetta di un Cdm urgente in notturna per trovare ulteriori coperture: «Non sapevo che l’avessimo nominato sottosegretario alla presidenza del nostro governo». Del resto la vera partita non è tra Napolitano e Renzi, che nell’incontro ha trovato nel Quirinale una preziosa sponda nella difficile trattativa con l’Europa. Il capo dello Stato avrebbe alzato il telefono e parlato con il presidente della commissione Barroso, dal quale è attesa oggi una lettera ufficiale di “chiarimenti” al governo italiano sui numeri della manovra. Uno sforzo per trovare un compromesso fra la mano pesante della Ue e il tentativo italiano di rompere la gabbia del rigore. La sfida si gioca sui decimali di riduzione del deficit. Il governo ha scritto che nel 2015 l’aggiustamento strutturale sarà soltanto dello 0,1 per cento, pari a 1,6 miliardi. Barroso chiede di più, molto di più. La lettera in arrivo oggi potrebbe attestarsi su mezzo punto di Pil da correggere. Troppo per Roma. «Tecnicamente — ha anticipato ieri Renzi ai ministri — potremmo anche arrivare a una riduzione dello 0,25 per cento. Ma io non vorrei 54

concedere tanto». Insomma, il braccio di ferro continuerà nei prossimi giorni. Nella speranza di non dover usare tutto quel “tesoretto” di 3,4 miliardi di euro prudentemente accatastato nella legge di Stabilità proprio per fronteggiare le richieste europee. Nelle conversazioni informali tra gli sherpa si arriva a ipotizzare una chiusura del negoziato su una cifra intermedia (0,30-0,35 per cento) che non faccia perdere la faccia a nessuno, né al governo né alla Commissione. E soprattutto eviti all’Italia la bocciatura della finanziaria, un atto dirompente che potrebbe riaccendere la fiammata speculativa sullo spread. Ma l’Europa non è stata l’unica preoccupazione nel faccia a faccia al Colle. Il governo infatti appare sempre più sotto assedio. I comuni in rivolta, le regioni che minacciano tagli ai servizi, la Cgil in piazza, una fetta del Pd in subbuglio. «Avevo messo nel conto le proteste — rassicura Renzi — ma siamo ancora nella fase preliminare: urlano per farsi sentire, poi tratteranno ». Napolitano entra poi nei dettagli della manovra, chiedendo di specificare meglio le norme sul bonus bebé e quegli sgravi per i neo-assunti. Oggi se ne riparla, insieme agli altri ministri, nel tradizionale pranzo al Quirinale che precede i vertici europei. Prima però il premier dovrà schivare il trappolone che Roberto Calderoli gli sta preparando a palazzo Madama, dove Renzi illustrerà la posizione del governo in vista del summit Ue. L’esponente leghista medita infatti una richiesta di voto segreto che, visti i numeri della maggioranza, potrebbe mettere in seria difficoltà l’esecutivo proprio nel momento più delicato.

del 22/10/14, pag. 3 Bufera sulle pensioni Riccardo Chiari Legge di stabilità. Per risparmiare 6 milioni di euro il ministero dell’Economia dispone un ritardo nei pagamenti previdenziali dal 1 al 10 del mese, gettando nel panico milioni di persone alle prese con bollette, mutui e spese da pagare Da gennaio slitterà dal primo al 10 di ogni mese il pagamento delle pensioni. La norma è già nella legge di stabilità. E di fronte alle immediate proteste dei sindacati dei pensionati e delle associazioni dei consumatori, mentre il governo resta silenziosissimo, l’unica voce avvertita è quella dell’Inps. L’istituto nazionale di previdenza si dice pronto ad applicare il provvedimento «con gradualità», nel tentativo di arginare un’arrabbiatura che aumenta di ora in ora. Sottolineando poi che in questo modo si risparmierebbero, ogni anno, sei milioni di euro. Addirittura. Inserito nel capitolo che riguarda le «riduzioni spese ed interventi correttivi del ministero del Lavoro», il ritardo di dieci giorni nel pagamento delle pensioni è inquadrato sotto la voce «commissioni bancarie». Ed ecco il testo: «Al fine di razionalizzare e uniformare le procedure e i tempi di pagamento delle prestazioni previdenziali corrisposte dall’Inps, i trattamenti pensionistici, gli assegni, le pensioni e le indennità di accompagnamento erogate agli invalidi civili, nonché le rendite vitalizie dell’Inail, sono poste in pagamento il giorno 10 di ciascun mese o il giorno successivo se festivo o non bancabile, con un unico pagamento, ove non esistono cause ostative, nei confronti dei beneficiari di più trattamenti». Oltre al «faraonico» risparmio per le casse statali, l’unica spiegazione data è quella relativa all’unificazione dei pagamenti fra le 800mila persone che hanno pensioni sia Inps

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che Inpdap (oggi pagate il 16 del mese) e tutti gli altri pensionati. Che sono almeno 15 milioni. Compresi i due milioni che hanno una pensione inferiore ai 500 euro, e che hanno un enorme bisogno (al pari degli altri quattro milioni che prendono meno di 1.000) di avere i loro soldi il prima possibile. Va da sé che alla immediata presa di posizione degli infuriati Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp Uil, i cui segretari generali Carla Cantone (vedi intervista sotto), Gigi Bonfanti e Romano Bellissima rappresentano sei milioni di iscritti ai sindacati confederali, nel corso della giornata se ne aggiungono molte altre. Come quella di Daniele Barbieri del sindacato degli inquilini Sunia: «Anche se per gli affitti c’è una tolleranza di venti giorni prima di essere considerati morosi, per un pensionato ricevere la pensione il 10 del mese significa non poter pagare in tempo tutte le utenze (elettricità, telefoni, gas ecc). Ancora più pesante sarà non poter pagare la rata del mutuo della propria casa o di quella dei figli. In questi casi si diventa morosi e, nel caso del mutuo, il conto può andare in rosso con drammatici effetti sui pagamenti di interessi e sanzioni. Si tratta, ancora, di una disposizione della quale non si sono valutati gli effetti reali». La domanda di tutti è resa esplicita dalla nuova numero uno della Cisl: «Sarebbe stato più logico – osserva Annamaria Furlan — scegliere di pagare tutte le pensioni il primo del mese, in modo da armonizzare i pagamenti. Per questo vorremmo capire qual è la ratio di questo provvedimento che rappresenta l’ennesima beffa per i pensionati». A una voce Federconsumatori, Adusbef e Adiconsum ricordano: «Si colpiscono le famiglie, che spesso creano welfare familiare grazie alle pensioni dei loro anziani, che sostengono la mancanza di lavoro di figli e nipoti». «Gli anziani hanno ricostruito questo paese dopo la guerra – chiude Paolo Ferrero del Prc — meritano rispetto, e non provvedimenti insultanti che si sommano ai tagli della sanità e dei servizi».

del 22/10/14, pag. 2 Spunta un aumento retroattivo Delle aliquote su Irap e fondi pensione Stop allo sconto del 10% varato a maggio. Violato lo statuto del contribuente Paolo Baroni Per tutta la giornata si aspettava la smentita, ma né il Tesoro né Palazzo Chigi hanno fatto sapere nulla. La legge di stabilità non ha ancora preso la sua forma definitiva, tant’è che la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato arriverà solo oggi, e quindi continuano i ritocchi e continuano a filtrare le indiscrezioni. Le ultime le riportava ieri mattina il «Sole 24 ore» e si riferivano Ad una applicazione retroattiva dell’aumento delle tasse applicate ai fondi pensione che salirebbero dall’11,5 al 20%,non più dal prossimo anno ma addirittura a decorre dal 1 gennaio di quest’anno. Solo le somme già liquidate nel frattempo si salverebbero, tutte le altre sarebbero invece gravate da un sostanziale raddoppio del prelievo e in prospettiva da un taglio di 8 punti e mezzo i rendimenti delle pensioni integrative future. Non solo, un analogo rincaro peserebbe anche sulle fondazioni e, sempre in forma retroattiva e quindi in palese violazione dell’articolo3 dello Statuto del contribuente, che vieta esplicitamente interventi di questo tipo, verrebbe cancellato pure il taglio del 10 % delle aliquote Irap (dal 3,9 al 3,4%) in vigore dallo scorso maggio per effetto del decreto legge6 6,quello del bonus da 80 euro per intenderci,a valere sul 2014.

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«Leggo con preoccupazione alcune indiscrezioni giornalistiche - denunciava ieri mattina il presidente della commissione Bilancio della Camera, Daniele Capezzone -. Oltre ad Una evidente inosservanza dello Statuto del contribuente, mi preme sottolineare che questa norma sarebbe in palese violazione della Delega fiscale, recentemente approvata dal Parlamento italiano, che impedisce qualunque intervento retroattivo sfavorevole al contribuente». La sua richiesta di smentita come altre arrivate sempre dal fronte di Forza Italia sono cadute nel vuoto. Salvo sorprese dell’ultima ora, dunque, l’operazione sarebbe confermata. Rispetto alla manovra originaria, stando all’unica bozza circolata dopo il Consiglio dei ministri della scorsa settimana, solo tre interventi dello stesso pacchetto di aumenti fiscali conserverebbero come decorrenza l’inizio del 2015. Si tratta dell’aumento dal 20 al 26% delle aliquote relative alla tassazione delle Casse private di previdenza, l’incremento dall’11 al 17% dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione del Tfr e la tassazione dei capitali percepiti dai beneficiari delle polizze vita. Non è la prima volta che lo Statuto del contribuente finisce nel cestino: anche l’anno passato il governo Letta decise di non rispettarlo aumentando, a sorpresa,l’acconto Ires di fine anno a carico di banche e assicurazioni per finanziarie la cancellazione della seconda rata dell’Imu. In questo caso il dietrofront sullo sconto dell’Irap, previsto comunque per il 2015 per finanziare il taglio ancora più grande sul costo del lavoro delle imprese, non solo è odioso,perché toglierebbe al sistema delle imprese 2,4 miliardi di liquidità ad appena due mesi dalla chiusura dei bilanci dell’anno, ma rivela pure che i conti del 2014, nonostante le svariate rassicurazioni, non sono poi tanto solidi come si diceva. Al punto di dover rimediare 3 miliardi al fotofinish.

Del 22/10/2014, pag. 2 Radiografia di bonus, sconti e sgravi La trappola delle tasse che verranno di Mario Sensini ROMA Una manovra tutta puntata al rilancio della crescita, con un cospicuo taglio delle tasse, forti incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato e molte riforme, che segna una svolta espansiva nella politica economica, finora restrittiva. Ma che non è povera di rischi, legati all’efficacia delle misure e ai giudizi della Ue, ed impliciti nel mantenere il deficit ancora a lungo appena un pelo sotto il tetto massimo del 3% del prodotto interno lordo. Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in eredità al futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018. Almeno secondo quanto prevede il testo non ancora vidimato dalla Ragioneria generale e non ancora arrivato in Parlamento. La riduzione delle tasse Il bonus di 80 euro, dal quale si attende un rilancio dei consumi che finora non c’è stato, viene confermato, ma la platea non viene allargata. Restano, dunque, i problemi legati all’equità della misura, che non riguarda ad esempio gli incapienti o i pensionati (il che rende anche problematica la sua trasformazione in detrazione fiscale, a rischio costituzionale), e che ha qualche effetto perverso, come quello di penalizzare le famiglie povere monoreddito. Oltre al bonus per le famiglie arriva quello per i bebè, con un limite di reddito molto alto per poterne beneficiare, 90 mila euro, che fa discutere. Per le imprese ci sono forti incentivi alle assunzioni. Non si pagherà più l’Irap sulla componente lavoro, ma vengono annullate le riduzioni precedenti dell’aliquota. Con 57

effetto, sembra di capire, già sull’anno di imposta corrente, il 2014. Lo sgravio, così, vale 4 miliardi, e premia soprattutto le imprese ad alta intensità di manodopera. Accanto c’è la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, ma non c’è molta chiarezza sui costi. Un miliardo, aveva detto Renzi, forse più si dice oggi. Lo stanziamento, in ogni caso, coprirebbe 850 mila nuovi contratti, più o meno metà di quelli che si fanno di solito in un anno. Per le partite Iva viene esteso il cosiddetto regime dei minimi ad una platea più vasta, ma entro limiti di reddito più bassi e con l’aliquota passata dal 5 al 15%. La legge di Stabilità, poi, stanzia 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali, anche se per la Cig in deroga, nel 2013, si è speso quasi il doppio. E prevede l’opzione per il trasferimento del Tfr in busta paga. Soldi subito, anche a caro prezzo perché in molti casi si pagherebbero tasse più alte, e una pensione di scorta più leggera domani. Tagli e nuove entrate Finché si tratta di dare, i problemi sono relativi. Molto meno quando si tratta di recuperare le risorse. La manovra prevede 6,1 miliardi di tagli alle amministrazioni centrali dello Stato, di cui 4 dai ministeri e 2 dalla riduzione delle cosiddette spese «a politiche invariate», dalle missioni di pace al 5 per mille, che ora vengono coperte strutturalmente. Ma spuntate. I ministeri dovrebbero approfittare della centralizzazione degli acquisti, ma 4 miliardi sono comunque una cifra enorme. Tagliare usando discrezionalità è stato sempre difficile e lo è ancor di più con il bilancio ridotto all’osso: il rischio, di nuovo, è che per ottenere il risultato si ripiombi sui tagli lineari, molti dei quali creano un rimbalzo della spesa negli anni successivi. I tagli agli enti locali sono egualmente pesanti (4 miliardi per le Regioni, 2,1 per i Comuni, 1 per le Province), ma con il Patto di Stabilità interno il rischio di non portarli a casa è basso. Come, d’altra parte, è elevato quello di un parallelo aumento delle tasse locali. Con sindaci e governatori non sarà facile arrivare a un’intesa. C’è la possibilità che la sforbiciata finisca per colpire anche la spesa sanitaria. La manovra prevede poi quasi 4 miliardi di recupero dall’evasione. È un punto critico, perché in passato queste cifre non venivano messe in bilancio come incasso sicuro, o a copertura di spese certe. Alcune misure danno un maggior gettito automatico, come il «reverse charge» sull’Iva (900 milioni), o il prelievo delle banche, a titolo di acconto, sui bonifici relativi alle fatture per le ristrutturazioni edilizie (altri 900). Meno sicuro è il gettito atteso da altre misure, dal nuovo ravvedimento operoso alla stretta sugli «split payments», cioè i pagamenti frazionati per ridurre l’imposta. Tanto che si affaccia la possibilità di sostituire queste coperture col classico aumento delle accise. Le incognite sul futuro Per coprire le spese e per correggere il deficit, dopo un 2015 di pausa nel percorso di risanamento, la manovra prevede fin da ora un forte aumento dell’Iva e, ancora una volta, delle accise. E sconta tuttora una riduzione molto forte delle detrazioni Irpef. Nel 2016 l’aliquota Iva del 10% passerebbe al 12, poi al 13% nel 2017, mentre quella del 22 salirebbe prima al 24, poi al 25 e al 25,5% nel 2018. Nello stesso tempo si prevede un taglio delle detrazioni Irpef per 4 miliardi nel 2016, e 7 negli anni successivi. La manovra, per ora, ha solo scongiurato una parte del taglio degli sconti fiscali, quello che doveva scattare già quest’anno, poi rinviato al 2015, da 3 miliardi. Sul futuro, dunque, pende un fortissimo aumento delle imposte, quasi 20 miliardi nel 2015, e 30 nel 2018. Misure che potranno essere sempre sostituite da altri provvedimenti, come i tagli di spesa. Anche se a blindare la manovra, ora, ci sono più tasse di quelle che si riducono.

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Del 22/10/2014, pag. 3 Una Bretton Woods per la crescita, l’appello di 340 economisti Un appello degli economisti al premier Matteo Renzi per una «Bretton Woods» per rilanciare l’Eurozona. Sono 340 gli esperti, accademici ed economisti — nomi illustri tra cui Romano Prodi, Luciano Gallino, Innocenzo Cipolletta, Mario Baldassarri, Gustavo Piga, Marco Vitale, Michele Salvati, Paolo Leon, Leonardo Becchetti — che hanno firmato un documento chiedendo a Renzi di utilizzare i restanti mesi del semestre europeo per ridiscutere le regole dell’Eurozona, oggi di fatto disapplicate visto che «i Paesi che violano le regole o “utilizzano la flessibilità” sono moltissimi. Non c’è impegno dei Paesi in surplus come la Germania a stimolare la domanda interna e la Bce ha fallito nel suo obiettivo di portare l’inflazione vicino al 2%. L‘austerità ha «clamorosamente fallito» su crescita, occupazione e sostenibilità dei conti pubblici. Da qui la necessità di «una conferenza internazionale» per costruire nuove regole: le proposte sono di una Bce che, come la Fed, vari il quantitative easing, politica fiscale espansiva a livello europeo, impegni sull’armonizzazione fiscale e progetti di ristrutturazione del debito europeo con intervento della Bce.

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