Gabbia Sassi
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I SASSI POESIA 2009 QUATTORDICESIMO ANNUARIO a cura di Paolo Febbraro Giorgio Manacorda © 2009 Alberto Gaffi editore in Roma Via della Guglia, 69/b 00186 – Roma www.gaffi.it ALBERTO GAFFI EDITORE IN ROMA EDITORIALE di Paolo Febbraro «Cosa fai?». «Scrivo». «Ovvero?». «Produco segni, lavoro sui testi, smon- to, ironizzo, decontestualizzo, lancio parole a perdifiato, le rimonto, per combattere con polemico nonsenso il nonsenso politico dell’oggi globaliz- zato. Nulla può essere detto davvero, e perciò lo dico con disperata esattez- za. Sono un poeta, dunque scrivo in prosa per contrastare il vieto e conso- latorio luogo comune del verso. Tradisco le attese, e ti colgo all’amo dell’a- bitudine. E se vado a capo, lo faccio per conservare della vecchia poesia i vuoti, gli stacchi, le piccole voragini in cui amo navigare, e obliterare me stesso per far posto al linguaggio che mi parla, mi agisce e mi consuma, so- stituendomi. Sono accuratamente atonale, plurilinguistico, acefalo e cere- brale allo stesso tempo. Sono un ricercatore del linguaggio. Meglio: sono insieme un virus e un anticorpo. Metà programmatore e metà hacker. So- no atopico e disforico, serioso e seriale. Sono un poeta del Duemila». «E tu, invece?». «Io sono un lirico. “Lirico fino all’orgasmo”, come scrisse Caproni. La mia è una modernità nobile e fumosa, ingrigita pur nei suoi lampeggiamenti. Scavo parole nell’abisso, forse cerco ancora un paese innocente, e dimostro che d’autunno sugli alberi le foglie possono durare indefinitamente, se hanno una vera missione di testimonianza. Il verso? Certo. Quello scalettato, franto, scosceso. Quello mangiucchiato dal silenzio, quello tentato e mai del tutto espugnato dal cedimento al- l’indicibile. Spesso, pronuncio parole come “corpo”, “sangue”, ma solo per indicare la derelizione in cui sono cadute, nella vedovanza che il si- gnificante vive del proprio significato. Sono dolcemente astruso, quoti- diano e altissimo, perché la Terra è piena di misteri ancora non svelati, o dimenticati. E il modo di farli riemergere consiste nell’intrecciarli in 7 analogie, nell’educare le vertigini. La mia poesia è un gergo, è una prati- «preziosi annuari curati da Giorgio Manacorda», ai recenti volumi di An- ca testamentaria, il riciclaggio di una forma d’arte». drea Cortellessa e Roberto Galaverni, alle antologie di Cucchi-Giovanar- «Un’alternativa?». «Eccomi: sono un manierista. Un poeta al quadra- di, di Enrico Testa, di Cortellessa, Alfano e co. per Sossella e di Paolo Gio- to, un mastro ferraio, un metricista. Sono irto, iperbarico, centripeto, re- vannetti, che «accosta poesie e canzoni sulla base di comuni scelte retori- cursivo, rinculante. Martelletto e saldatore a fiamma. Così la poesia mo- co-stilistiche»; e ancora «al lucido pamphlet di Alessandro Carrera, I poe- stra il suo stesso mostrarsi, indossa la veste che essa stessa costituisce, ecc. ti sono impossibili, Il Filo 2006»; e infine ai recenti volumi di Enzensber- ecc. La poesia si evince dal proprio paradosso, autocostituendosi come ger-Berardinelli e di Alberto Bertoni]. Ma, come osserva Matteo Marche- poesia e sfidando l’entropia crescente dalla propria gabbia citazionale». sini, la poesia italiana recente sconta, più ancora di altri generi, una deso- «Sono a disagio. C’è qualcun altro?». «Tranquillo, sono qui. Un poeta- lante assenza di critica: i risvolti di copertina di libri di poeti firmati da cri- cronista. Verso lungo e attenzione ai minimi spostamenti. La mia poesia tici autorevoli assomigliano “a un favore d’amicizia”, il canone sembra fat- è uno slalom parallelo, non amo gli scarti netti, cerco tragedie millime- to solo dall’editoria, e proprio la mancanza di verifiche e di qualsiasi “re- triche, ansie d’alba. Le mie nozze col mondo sono fraterne, incestuose; sponsabile” controllo critico genera una situazione asfittica» (pp. 94-95). metto i ricordi in celle attigue. Una inarcatura sintattica è una sporcizia, Marchesini, al quale La Porta lascia la responsabilità di tagliare corto una metafora è un peccato di gioventù. Di una gioventù altrui. Sono un in merito a una questione spinosa come quella della critica di poesia in aliante che plana nel giardino di casa, un esploratore di solai». Italia, alla questione stessa ha dedicato in realtà alcune centinaia di pagi- ne. Non solo: alle antologie ricordate da La Porta, dal 2000 ad oggi, van- no aggiunte quelle di Niva Lorenzini, dello stesso Manacorda (con due Un Dizionario per la critica iniziative distinte), dei francesi Rueff e Di Meo, e di Daniele Piccini, solo per citare i curatori di quelle più interessanti dal punto di vista militante. Nel 2007 è apparso da Bompiani un Dizionario della critica militante di Ma sul capitolo di La Porta occorre soffermarsi, proprio per capire se Giuseppe Leonelli e Filippo La Porta. Leonelli, responsabile del capitolo la sua esclusione della critica sulla poesia vi sia logicamente conseguen- relativo agli anni Ottanta, inanella i ritratti di Calvino, Garboli, Praz, Mac- te, o invece dovuta a una casuale pigrizia. chia, Citati, Fortini, Baldacci, Pampaloni, Calasso, Magris, Raboni, Asor La Porta propugna una critica che s’interroghi «su ciò che gli uomini Rosa, Mengaldo, Berardinelli: tra essi, spiccano alcuni fra i più grandi cri- riescono a sapere di se stessi attraverso le opere letterarie», una critica tici di poesia del secondo Novecento. La Porta, nel capitolo dedicato agli capace di non perdere «il legame col passato», che riesca a fare della let- anni Novanta afferma all’inizio: «sembra opportuno precisare che questo teratura un’esperienza vissuta, pur nella consapevolezza di chi deve excursus sulla critica degli anni Novanta è dedicato alla critica militante in chiedersi: «Orfani di qualsiasi filosofia della storia, su cosa appoggiare la rapporto alla narrativa. Non che non siano uscite importanti riflessioni nostra critica della realtà?». Questa la risposta: «Soltanto sull’individuo, sulla poesia contemporanea [e qui La Porta apre una nota, nella quale ac- sul suo apparato percettivo e intellettuale, su quanto vi è in lui di non cenna al pionieristico Il pubblico della poesia di Berardinelli-Cordelli, ai clonabile e di non replicabile, sulla sua residua capacità di dire sì o no». 8 9 Di qui la rivendicazione della personalità e dell’artisticità della sag- co dovrebbe investire il proprio successore di un potere feudale. Un “po- gistica letteraria, e la conseguente struttura del saggio laportiano, com- sto” di critico non si può mettere a concorso: va attribuito per coopta- posto di brevi medaglioni relativi non tanto a problemi, quanto a per- zione corporativa (a meno di sostituire al critico la figura dello studioso sonaggi. La Porta ha attraversato per intero gli anni del rifiuto politico e del docente universitario). Se è così, quella dei critici è una casta di sot- della letteratura e dell’estetico, a favore del politico, quelli della scienti- tili e sensibili disquisitori che devono inventare un pubblico che non ficità della critica strutturalistica, quelli attuali del dominio mercantile. hanno, e che – proprio in quanto fatalmente autori – devono rinunciare A fronte di un Leonelli che in una postrema appendice mostra di rim- a influire sui meccanismi socio-economici che da tempo tendono a ri- piangere i vecchi «custodi della serriana religione delle lettere, che è re- produrre una classe media anestetizzata e massificata. La loro eccellenza ligione della parola, l’atto istitutivo e conservativo della nostra uma- autoriale, costruitasi sulle lente modificazioni provocate dal piacevole e nità», La Porta dimostra grande presa sul presente, affidato a una serie un po’ colpevole esercizio della lettura, li chiude in una comunità ri- di autori (se non proprio o non sempre di auctores), discussi e discuti- stretta di “migliori” la cui analisi porterà pure a un giudizio, ma a nessun bili, ma ben vivi, magari capaci, come egli suggerisce, di «identificare tipo di azione efficiente su coloro che non sono “migliori”. Giornali, ca- un “pubblico” a cui riferirsi, […] un pubblico molto esiguo, o anche so- se editrici e università, non potendo per la legge economica dei grandi lo immaginato». numeri rivolgersi ai “migliori”, li escluderanno. E faranno bene: dacché i Dunque, il critico – se è un artista, e non ha metodo ma strumenti, e “migliori”, non provenendo dalle masse, o essendosene allontanati, non non ha un mandato sociale economicamente operante ma intenzione e le capiranno, inseguendo criteri di qualità sempre meno dialogici, e ispirazione singolari – non deve presupporre un pubblico (e dunque sempre più nobilmente apodittici. Questo è il destino di un corpo ari- una classe, aristocratica, borghese, proletaria), ma deve inventarlo e ten- stocratico all’interno di una società democratica. Cosicché, infine, i tare di farlo esistere, plasmandolo con la propria opera. Questo oggi gli “migliori” devono constatare l’incapacità di determinare anche parzial- resta: la ricerca di un rapporto con alcune persone, forse con qualche mente le condizioni di possibilità (economica) della propria arte. decina di esse: preziosa concretezza, rispetto alle utopiche, palingeneti- A meno che – come dicono da sempre i sostenitori della tesi del com- che premesse. Dopo le grandi speranze, siamo tornati ai venticinque let- plotto e del Grande Vecchio – la società democratica sia solo apparente- tori manzoniani. Da ciò deriva che la presenza del critico sui mezzi di mente tale, e tutto sia invece deciso da un gruppo ristretto di supremi, comunicazione di massa è divenuta impropria o eccessiva,