Gli Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma toscana

a cura di

Mario Ascheri Lucio Niccolai Redazione: Consultacultura Viale Marconi 93, e-mail: [email protected] Trascrizione e battitura testi: Maria Angela Iannelli

Edizioni: C&P Adver effigi Via Roma, 14 - Arcidosso

Stampa: Tipografia Ceccarelli, Gennaio 2002

Atti del convegno “Gli Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma toscana”, promosso da The international of Lions Club Distretto 108 “La Toscana” e realizzato a Santa Fiora il 26 maggio 2001, Organizzato dai Clubs Lions di: Alta Maremma, Amiata, Chianti, Chiusi, Aldobrandeschi, Grosseto Host Orbello-I Presidi, Siena. In collaborazione e con il patrocinio di: Amministrazione provinciale di Grosseto, Comunità Montana Zona I1, Area grossetana, Azienda di promozione turistica (APT) Amiata, Comuni di Santa Fiora e di Arcidosso, Associazione Pro Loco di Santa Fiora, Associazione “Consultacultura” di Santa Fiora.

Pubblicato dai Clubs Lions di: - Alta Maremma - Amiata - Chianti - Chiusi - Grosseto Aldobrandeschi - Grosseto Host - Orbetello I Presidi - Siena

Collaborazione e patrocinio: Amministrazione Provinciale Grosseto Comunità Montana Amiata Ovest Azienda Promozione Turistica Amiata Comune di Santa Fiora Comune di Arcidosso Associazione Pro Loco di Santa Fiora Associazione Consultacultura di Santa Fiora

In collaborazione con la Cassa di Risparmio di Firenze

Realizzato grazie al contributo dell’azienda Tosti di Castel del Piano

Immagini tratte da: G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia, Roma 1934 e I. CORRIDORI, Gli Aldobrandeschi nella storia maremmana, Grosseto 1977. Genius Loci

Storia e cultura locale

Indice

Rodolfo Fazzi, Presentazione p. 7 Saluti e interventi autorità p. 9 Lorenzo Maccari, L’importanza di questo convegno p. 11 Mario Ascheri, Introduzione ai temi del convegno p. 15 Simone M. Collavini, I conti Aldobrandeschi nel contesto storico generale e locale p. 21 Riccardo Francovich e Carlo Citter, Le grandi fasi dell’incastellamento. e gli altri castelli dell’Amiata grossetana a confronto p. 37 Floriano Cavanna, Teresa Cavallo, Stella Menci, Anna Caprasecca, Schede p. 47

Odile Redon, Le Comunità di castello sull’Amiata e nei domini aldobrandeschi nel Duecento p. 65 Roberto Rocchigiani, Un’altra grande famiglia del Senese: gli Ardengheschi p. 77 Carla Benocci, La trasformazione urbanistica di Santa Fiora p. 87 Michele Nucciotti, Guido Vannini, Santa Fiora: strutture materiali di una capitale rurale nella Toscana meridionale del Medioevo p. 111 Lucio Niccolai, Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora nella letteratura p. 151 Aude Cirier, La fine dei conti Aldobrandeschi: il crollo di un mito (secc. XIII-XV) p. 173 Fernando Marioni, La vera storia di Margherita Aldobrandeschi, ultima contessa palatina di p. 169 Mario Ascheri, Conclusioni p. 213 Appendice p. 218 GLI ALDOBRANDESCHI 5

Presentazione

reare e stimolare uno spirito di comprensione fra i popoli del mondo. Promuovere i principi del buon governo e di buona cittadinanza. Prendere “Cattivo interesse al bene civico, culturale, sociale e morale della comunità. Unire i Clubs con i vincoli dell’amicizia e della reciproca comprensione. Stabilire una sede per la libera ed aperta discussione di tutti gli argomenti di interesse pubblico, con la sola eccezione della politica di parte e del settarismo confessionale. Incoraggiare le persone che si dedicano al servizio per migliorare la loro comunità senza scopo di lucro ed a promuovere un costante elevamento del livello di efficienza e di serenità morale negli affari, nelle professioni, negli incarichi pubblici e nel comportamento privato”. Quelli sopra elencati sono gli scopi del Lionismo, che sintetizzano in maniera puntuale e completa come si muove ed agisce nella società civile la più grande associazione volontaristica di servizio del mondo. Promuovere, quindi, anche tutta una serie di iniziative che servano a far conoscere ed apprezzare quelle zone geografiche dove i Lions svolgono la loro attività. Senza sostituirsi alle istituzioni, ma affiancandole con suggerimenti, proposte ed iniziative per stimolarle a riscoprire e valorizzare specifici aspetti della loro storia e della loro cultura. Ed è proprio in questo contesto che la quasi totalità dei Clubs Lions della V circoscrizione del Distretto 108 “La Toscana” hanno organizzato nel maggio 2001 un Convegno a Santa Fiora per ripresentare all’attenzione della pubblica opinione la famiglia degli Aldobrandeschi, rappresentanti di una delle più importanti dinastie feudali del Medio Evo in Toscana. Il Convegno ha messo opportunamente in risalto l’importanza degli Aldobrandeschi nella storia, nella cultura e nella vita sociale delle popolazioni di tutta quella vasta area toscana identificabile nelle province di Grosseto e di Siena. Un’operazione culturale perfettamente riuscita, grazie alla professionalità ed alle specifiche competenze dei relatori ed alla collaborazione di enti pubblici, di associazioni e di istituzioni a livello locale e provinciale. La pubblicazione degli atti del Convegno, realizzata in concreto con questo volumetto, vuol essere appunto un riconoscimento di ciò che è stato fatto ed uno stimolo affinché in un futuro non troppo remoto possano essere compiuti ulteriori approfondimenti su un importante periodo della nostra storia. Rodolfo Fazzi Presidente Lions club Amiata GLI ALDOBRANDESCHI 7

Saluti e interventi delle autorità

Amiata è una zona che fa parte della terra di Toscana e, come tutta la Toscana, questa meravigliosa regione, è ricca di beni artistici e architettonici, di beni L’ culturali e, ambientali. Voglio sottolinearlo perché l’aria che si respira, i boschi, l’acqua che c’è nel nostro sottosuolo sono ricchezze immense ed incommensurabili e sono state messe in evidenza in tantissimi convegni proprio qui a Santa Fiora. Ma anche i nostri borghi, con i loro centri storici e le piazzette, testimoniano di un grande patrimonio culturale, oserei dire che anche le pietre dei nostri centri sono ricche di storia e di cultura. È una cosa importante, e noi abbiamo cercato di mettere in evidenza, in tutte le occasioni, questo patrimonio. Il convegno di oggi, è per noi un momento fondamentale perché permetterà di mettere ancora di più in rilievo il valore di queste terre. Il significato e l’importanza degli Aldobrandeschi, in generale, per noi può essere un valore aggiunto, qualche cosa di più rispetto a tutto quello che in questi anni abbiamo fatto e stiamo facendo. Quindi ringrazio gli organizzatori e i Lions club, per avere scelto come zona l’Amiata, e Santa Fiora in particolare per lo svolgimento del convegno. Come Amministrazione comunale di Santa Fiora, ringrazio i Lions anche a nome dei cittadini che ho il piacere e l’onore, in questo momento, di rappresentare. Saluto tutti i presenti e auguro buon lavoro. Grazie. Luigi Vencia, Sindaco di Santa Fiora

Non sto a ripetere quello che ha già detto il sindaco di Santa Fiora. Voglio solo porre l’accento sul rapporto che già da anni c’è tra i Lions e l’amministrazione comunale di Arcidosso e che si è dimostrato estremamente positivo. Anche il convegno di oggi è una cosa importante per i nostri comuni, sia per Santa Fiora che per Arcidosso per tutto il territorio. Mi limito quindi a ringraziare i Lions e il maestro Fazzi per la sua opera. Grazie a tutti. Attilio Marino, Sindaco di Arcidosso

Buon giorno a tutti, ben arrivati sulla nostra Amiata. Molti di voi la conoscono già benissimo, perché più o meno venite dal circondario e, grazie ai Lions, avete avuto

GLI ALDOBRANDESCHI 9 già altre occasioni ed altri appuntamenti per scoprirla. Questo convegno di oggi è un appuntamento importante per tutti noi perché si vanno a riscoprire le nostre origini. Il percorso storico che verrà fatto, ciò che stamani “scoprirete” sono dei punti cardini di quella storia, delle ricchezze e dei beni culturali che abbiamo e che dobbiamo valorizzare. Il lavoro che è stato fatto nel passato, ed anche adesso dai Lions club, è un grande lavoro, quindi ringrazio il Lions club Amiata, che si è impegnato moltissimo per organizzare il convegno e sta portando avanti idee ed iniziative alle quali stiamo collaborando. Tra poco partirà un grosso progetto per il nostro territorio, a cui siete tutti invitati come ospiti, che è “Amiata a tavola”, dal 10 al 17 giugno, e sarà un grosso appuntamento di carattere eno-gastronomico ma anche di promozione del territorio. Auguro a tutti una buona giornata e sono certa che in questo percorso tra rocche e castelli sicuramente troverete delle cose che ancora non avevate visto, perché ogni volta che si arriva qui, si scopre qualcosa di nuovo, di bello. E poi gli illustri relatori che sono presenti, e che ringrazio per averci onorato della loro presenza, vi daranno degli elementi in più per apprezzare maggiormente le nostre bellezze. Grazie e buona giornata.

Laura Fontani Direttrice APT Amiata

10 GLI ALDOBRANDESCHI L’importanza di questo convegno

Lorenzo Maccari, Lions Club Siena

rima di tutto, a nome del Lions Club Siena, un cordiale, caloroso saluto a quanti, Autorità istituzionali e Lionistiche, amici Lions, gentili ospiti, signore e signori, Phanno voluto essere oggi presenti a questa importante iniziativa culturale, che riunisce nel nome e sul tema degli Aldobrandeschi una scelta rappresentanza di studiosi e specialisti, ai più autorevoli livelli italiani e stranieri. Studiosi e specialisti, cui va pertanto il più sincero ringraziamento per avere accettato di portare il prezioso contributo del frutto delle loro ricerche a questo appuntamento, e tra i quali mi sia consentito ricordare particolarmente il Prof. Mario Ascheri, che della impostazione e attuazione di questo incontro è stato più che magna maxima pars. Una iniziativa, va detto, nata sotto l’egida e a opera di una nutrita e qualificata rappresentanza dei Club Lions di questa nostra parte meridionale del Distretto 108 “La Toscana”. E sotto il patrocinio, giova sottolinearlo, del Comune di Santa Fiora che oggi cortesemente ci ospita nel suo Palazzo e dell’Amministrazione Provinciale di Grosseto. Mentre hanno collaborato alla sua realizzazione, oltre all’Amministrazione Provinciale grossetana e al Comune ora citati, altri benemeriti Enti della zona. A essi, e ai loro Rappresentanti qui presenti, va il nostro più riconoscente saluto. È una iniziativa, l’avere promosso l’odierno Convegno, che si iscrive a buon diritto tra le più significative assunte negli ultimi anni dal Lionismo toscano, nel solco peraltro di una tradizione da tempo consolidata di interventi a favore della cultura e della vita sociale dei territori che hanno espresso i nostri Club. Una tradizione, che annovera la casistica più ampia di interessamenti, dalla promozione, appunto, di incontri e pubblicazioni di studio sui multiformi aspetti della storia e della realtà sociale e culturale delle nostre zone, alle campagne di restauri delle nostre opere d’arte, alla valorizzazione dei prodotti intellettuali di una civiltà vitalissima nei secoli, fino alla costante generale sollecitudine per i più disparati aspetti delle quotidiane occorrenze dei settori specie più deboli delle nostre popolazioni. Una tradizione di intervento, in cui, in estrema sintesi, si condensa e riassume l’imperativo morale del motto fondante del Lionismo, espresso dalla concisa, ma eloquente, affermazione, a un tempo orgogliosa e modesta, “We serve”. Nostro compito, nostro imperativo, infatti, è il servizio, reso al nostro prossimo in genere, ma in particolare, in primo luogo, ovviamente diretto verso le società dalle quali siamo nati e nel cui ambito

GLI ALDOBRANDESCHI 11 L’importanza di questo convegno operiamo. Bene si colloca, in questo quadro, la odierna iniziativa di studio. Perché essa ha per oggetto il ripensamento, l’aggiornamento sugli ultimi apporti della ricerca scientifica, circa una delle principali radici della nostra storia, della storia della nostra regione, e non solo di questa. Gli Aldobrandeschi… un nome fascinoso, che riassume in sé, nel prestigioso riverbero della citazione Dantesca, secoli e secoli di avvenimenti e di vicissitudini, che, in una singolarmente segnaletica evoluzione di giuridici istituti e di istituzioni pubbliche e private, ricapitolano la storia (sono, anzi, essi stessi la storia) di questa terra, strategicamente situata a cavallo e assieme a cesura di due mondi, destinati nel lento trascorrere del tempo a sorti profondamente diverse. Gli Aldobrandeschi... una delle più gloriose e attive famiglie dell’età di mezzo, in una Italia autentico crogiolo delle principali esperienze a livello europeo nel delinearsi di nuovi assetti di potere e nell’affacciarsi a esistenza sociale e politica e istituzionale di nuovi soggetti, individuali e collettivi. Senza volere in niente sottrarre alla competente disamina degli studiosi che tra poco prenderanno la parola su questo specialistico argomento (valga anche per me l’antica ammonizione “ne sutor ultra crepidam”!), non posso sottrarmi al sottolineare, anch’io, quanto l’approfondirlo sia di importanza ai fini di una aggiornata e compiuta riflessione storica di ampio respiro, e non si debba comunque circoscrivere all’ambito di una ristretta, ancorché raffinata, indagine particolaristica. Gli Aldobrandeschi appartengono, infatti, al novero delle non molte famiglie dell’aristocrazia italiana di cui è possibile seguire (mi permetto citare l’opera recentissima del Prof. Collavini, la cui relazione sarà la prima dell’odierno convegno), di cui è possibile seguire (ripeto) dal IX al XIII secolo storia e vicissitudini: un periodo singolarmente lungo, quindi, nel quale la stirpe, dopo una rapida crescita iniziale, rimase sempre ai vertici della società toscana per ricchezza, potenza e prestigio. Ricostruirne le vicende genealogiche, patrimoniali e politiche è perciò occasione preziosa per verificare i mutamenti conosciuti dall’aristocrazia rurale toscana nei suoi rapporti con il potere centrale, con il mondo urbano e con la popolazione contadina che essa dominava e sfruttava. E per seguirne in tutte le fasi il processo di trasformazione in senso signorile dei poteri familiari, sino alla creazione di un vero e proprio principato territoriale: attraverso lo svolgimento di una vicenda storica complessa e lineare, che consente di individuare efficaci modelli di riaggregazione politico-territoriale diversi da quelli cittadini e a essi paralleli in piena età comunale. Una vicenda quindi, quella degli Aldobrandeschi, per vari versi esemplare. Ma che dà anche occasione, proprio per la sua stretta prolungata connessione con l’ambito territoriale di riferimento, a indagini e collegamenti con tematiche ulteriori a questo riferibili, di cui varie relazioni oggi in agenda costituiscono un importante svolgimento. Non posso, pertanto, che chiudere questo breve intervento (al di là di una inevitabile punta di autocompiacimento Lionistico, che spero mi sarà perdonato) con il non

12 GLI ALDOBRANDESCHI L’importanza di questo convegno

retorico auspicio che il confronto odierno di ricerche di qualità, anche estese a discipline complementari alla stretta analisi storiografica, possa contribuire a un ulteriore approfondimento circa l’affascinante storia della nostra terra, e suscitare a un tempo nuovi significativi interventi e nuovi lavori ad ampliamento del patrimonio di conoscenze in questo campo così fondamentale per la stessa identità civile e culturale delle nostre popolazioni.

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Introduzione ai temi del convegno

uesto convegno lo credo molto opportuno, perché colma una lacuna. Tutto sommato, per molto tempo fino alla recente apparizione del libro di Simone QCollavini, il problema storico degli Aldobrandeschi era rimasto in ombra. Invece essi sono stati importanti, perché nel loro nome si può sintetizzare in un certo senso la storia della Maremma e della ‘Montagna’ (l’Amiata tale era, semplicemente, per antonomasia) nel cuore del Medioevo e quindi anche per i secoli a venire. È merito storico degli Aldobrandeschi infatti aver dato unità a quest’area così variegata, la Maritima, e averla in qualche modo, sia pure molto indirettamente, preservata per noi con i suoi caratteri di grande originalità che ha oggi. Però, si parla di Maremma grossetana e non di Maremma aldobrandesca. Ebbene, questo non è un problema terminologico, ma un problema storico. Maremma, ancora oggi, come tanti secoli fa, vuol dire grandi spazi aperti, campi e praterie, acque e boschi, insomma natura, un mondo scarsamente antropizzato, in gran parte vergine, conservato integro per il futuro. Il fascino di queste terre può derivare dal loro abbandono in tempi relativamente recenti, dovuto come fu a fattori sanitari che influirono ovviamente sull’andamento demografico: ossia dall’età tardomedievale fino al Settecento, quando con l’età leopoldina si ebbe la prima grande ripresa della Maremma. Ma quella situazione di spazio aperto della Maremma e della sua Montagna, da cui anche, oltre ad altri fattori poi, derivò la degenerazione sanitaria ben nota in età moderna, ebbe la sua origine proprio con gli Aldobrandeschi. Loro, innanzitutto e soprattutto, furono all’origine di questa terra di città storicamente deboli, almeno fino al passato più vicino a noi, per quanto possano avere avuto momenti importanti al tempo degli Aldobrandeschi. Pensiamo soltanto a Grosseto e a quello che è emerso da recenti convegni come quello per la cattedrale1, o a Massa Marittima, col suo passato minerario, artistico e architettoniche, ma anche a centri come Abbadia San Salvatore (di cui si va riscoprendo la notevolissima biblioteca abbaziale antica2), Santa Fiora, Arcidosso e così via. Centri che non sono mai riusciti ad emergere stabilmente come città-stato, come centri indipendenti, e quindi anche a svolgere un ruolo aggressivo nei confronti del territorio circostante. Anzi, probabilmente Massa e Grosseto con la loro vicinanza hanno finito per danneggiarsi

GLI ALDOBRANDESCHI 15 Introduzione a vicenda, perché hanno consolidato due debolezze, anziché dar vita ad un’unica realtà urbana importante. Massa e Grosseto sono rimaste come due aree ad un certo punto e per qualche tempo senz’altro di rilievo urbano, ma affogate in un mare feudale, un po’ come le città d’Oltralpe e del Mezzogiorno d’Italia e a differenza delle città comunali del centro-nord, che sono riuscite ad organizzarsi stabilmente come città-stato3. Insomma, la potenza degli Aldobrandeschi, e qui emerge bene la loro funzione storica, è a un tempo contrassegno e causa del limitato sviluppo urbano della Maremma e della Montagna. Essi sono stati vittime della loro stessa potenza. Non hanno dovuto, come tante altre famiglie nobili, patteggiare con una città ed entrare a far parte del suo ceto dirigente. In questo modo però si sono anche preclusi una stabile base urbana da cui amplificare il loro potere. Si sono dispersi nel territorio, anziché crescere in modo sinergico con la città che ne era l’ovvio contraltare: Grosseto. Fu un errore politico di più generazioni, ma che trova una giustificazione robusta in un fatto culturale, o in vari fatti convergenti o connessi da un grande fatto culturale. La tradizione secolare di comando di questa grande nobiltà, abituata al governo di decine di castelli e di monasteri con le loro migliaia di abitanti, portava a ragionare sui grandi spazi, sui raccordi con i poteri più elevati. Questa è la nobiltà che colloquiava con l’Impero e con il Papato e che in questo modo si è impedita di concentrarsi su un singolo potere emergente nel proprio territorio. La vastità degli interessi politici ed economici portava questi signori a disperdersi sul territorio, anziché a concentrarsi su un centro urbano e farne perno di una politica espansionistica. La stessa presenza attiva di Pisa, Siena e Orvieto nello spazio degli Aldobrandeschi fu di nuovo causa e conseguenza dell’assenza di una città veramente forte, e quindi causa di nuovo delle due debolezze già segnalate di Grosseto e di Massa. Se questo è vero, sono appunto gli Aldobrandeschi all’origine di questa situazione, e quindi sono loro che vanno da un lato ricordati in negativo, potremmo dire, perché non hanno consentito l’emergere di un capoluogo maremmano-montano fulcro di un riordino politico-amministrativo dell’intera area, ma anche in positivo perché hanno indirettamente impedito lo sfruttamento intenso del territorio e lo hanno preservato quasi intatto per il futuro. Ed è questo lo stesso merito storico che almeno per i secoli più recenti, per l’età tardo- medievale e quella moderna, va riconosciuto – guardando sui tempi lunghi –, a Siena. L’indolente Siena, a un certo punto più tesa ai valori politici che a quelli economici, dopo aver favorito lo sviluppo della Maremma nei primi tempi (grosso modo nel 1100-1200), ha poi sfruttato moderatamente questo territorio, succedendo nei diritti di pascolo esercitati dai vari signori che con gli Aldobrandeschi dominarono Maremma ad Amiata4. Certo, si può forse sostenere che Siena ha per secoli impedito all’Aldobrandesca di

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crescere politicamente e demograficamente, ma non può dimenticarsi che l’ha immessa con la sua dominazione entro un’area di eccellenza per i tempi; quel grande spazio non ha dato tutto quello che avrebbe potuto nel passato, ma la dominazione senese ha anche tolto poco al futuro. Questa è solo un’ipotesi di contesto in cui situare la grande vicenda aldobrandesca che rimane per tanti aspetti da studiare e discutere. Questa che fu una delle più grandi famiglie aristocratiche italiane nei primi secoli e nel cuore del Medioevo ha goduto solo di studi intermittenti, senza continuità. I motivi sono vari, ma tra i primi potremo indicare il fatto che si tratta di una famiglia che, come vedremo, scomparve nel corso del Quattrocento. Poi, andrà ricordato anche una sorta di pregiudizio storiografico che ha pesato per molto tempo nella nostra cultura, che ha privilegiato, anche giustamente in un primo tempo, lo studio delle classi subalterne, e quindi dei ceti contadini per la nostra area, trascurando la nobiltà quando non si trattasse di dinastie che s’identificassero con uno Stato. La nobiltà è stata perciò studiata più come ceto che non nei singoli lignaggi che hanno costruito centri di potere nei vari territori. Questo pregiudizio storiografico ha pesato senz’altro ai danni degli Aldobrandeschi, che se non avessero avuto alcuni personaggi danteschi probabilmente sarebbero anche più sconosciuti. Fortunatamente, il grande rilievo di alcuni di loro nella Divina Commedia, ha sollecitato alcune ricerche, a partire da quella di Gaspero Ciacci del 19345, che è veramente l’opera chiave sulla famiglia. L’autore era un aristocratico (marchese) di formazione liberale-giolittiana (tra l’altro all’origine della Cassa rurale di Saturnia6) che non poteva non interrogarsi con la sua cultura sugli Aldobrandeschi e la loro eredità. Perciò si dedicò meritoriamente alla raccolta della documentazione che li riguardava in quel lavoro che fu certamente a tiratura limitatissima e la cui ristampa dobbiamo ad Alfio Cavoli, il noto studioso, attivissimo scrittore di cose maremmane e amiatine, che ne promosse la ristampa quando era assessore al Comune di Manciano. Ebbene, la sua ristampa è dell’80 non a caso, perché è proprio da quegli anni che rivive il problema degli Aldobrandeschi in una storiografia finalmente più attenta che non in passato all’intrico dei poteri operanti sul territorio. Pochi anni prima, infatti, gli atti di un convegno del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo di Spoleto accoglievano una relazione importante di Gabriella Rossetti, dell’Università di Pisa, che investiva tra l’altro la diocesi altomedievale di Populonia e doveva quindi affrontare di petto gli Aldobrandeschi7; ne fu sollecitata tutta una serie di lavori che sono il presupposto del libro di Simone Collavini uscito nel ’98, ossia la monografia attualmente più aggiornata e completa sugli Aldobrandeschi, l’opera dalla quale bisogna partire per ogni ulteriore ricerca. Tra i due estremi cronologici, tra la Rossetti e il Collavini non c’è stato il vuoto, perché sono comparsi contributi importanti di Odile Redon, dell’Università di Parigi, che ha studiato l’Amiata lavorando sullo spazio storico di Siena, nonché di Wilhelm Kurze dell’Istituto Storico Germanico di Roma8, che ha curato l’edizione del Codice Diplomatico Amiatino9, ossia delle più antiche pergamene preservate attraverso i

GLI ALDOBRANDESCHI 17 Introduzione secoli dall’abbazia di San Salvatore del , un complesso documentario del tutto eccezionale anche a livello nazionale per la sua ricchezza e comunque per il nostro tema assolutamente indispensabile visto che della famiglia degli Aldobrandeschi, per vari motivi storici (divisioni di rami familiari, débacle di alcuni rami, scomparsa finale) non c’è pervenuto l’archivio privato. Gli Aldobrandeschi li conosciamo essenzialmente attraverso il filtro degli enti che hanno avuto rapporti con loro: l’abbazia di San Salvatore in primis, per esser stata in qualche modo inglobata nell’area degli Aldobrandeschi, il Comune di Siena, di Orvieto e così via. Questa famiglia si conosce indirettamente, quindi, pur avendo avuto una grande storia, perché alcuni rami sono entrati nella grande storia europea, come in alcuni momenti del Duecento, col Monfort e gli altri grandi personaggi che hanno avuto un rilievo europeo. Perciò le tracce, le testimonianze dell’operatività di questa famiglia, sono rimaste molto diffuse, fortunatamente, in altri archivi e sono state in parte recuperate nella bibliografia recente, ad esempio negli atti del convegno di Abbadia San Salvatore di pochi anni fa, curati da Wilhelm Kurze e dal sottoscritto10, e il lavoro di Paolo Cammarosano, che oggi avremmo voluto presente perché con l’assistenza tecnica di Vincenzo Passeri è stato il primo a fare una ricognizione puntuale dei castelli del territorio storico senese11 per quello che poteva ritrovarsi attraverso i documenti e attraverso le prime rilevazioni bibliografiche. Era un’opera pionieristica (e siamo di nuovo alla fine degli anni ’70), che stimolò lo stesso Cammarosano a fare le prime ricognizioni sulle famiglie nobili del territorio senese12, e più tardi a dare una prima caratterizzazione della funzione storica degli Aldobrandeschi nel quadro più ampio delle aristocrazie italiane nei secoli centrali del Medioevo quando, recentemente, ha scritto un brillante lavoro di sintesi sulla nobiltà più antica italiana13. L’Amiata e gli Aldobrandeschi ritornavano, poi, ad esempio, in un convegno americano che era dedicato (in garbata polemica) alla ‘altra’ Toscana, cioè a tutta la Toscana esclusa Firenze, oggetto anche troppo privilegiato di studi. In quella sede varie relazioni si occuparono, naturalmente, di Lucca, di Pisa e poi di Siena e perciò anche dell’Amiata14. Molti altri contributi più recenti sarebbero da ricordare, ma si è già data qualche chiave bibliografica per arrivarci. Offrendo una messa a punto della situazione delle ricerche in corso, questo convegno indicherà ai futuri ricercatori in quali direzioni procedere soprattutto. Già da ora, però, si può essere confortati dal numero e dalla qualità dei giovani che lavorano in questo settore di studi. Se solo ci guardiamo indietro di pochi anni, ci viene incontro un quadro ben diverso, di sparuti studiosi, per di più isolati e operanti nell’indifferenza delle pubbliche istituzioni. Oggi molto è cambiato nella sensibilità collettiva. Non sempre si rispetta il grande patrimonio che il passato ci ha tramandato – anzi, c’è chi sbuffa anche da posizioni di potere pubblico per i vincoli che il Medioevo pone alla cementificazione rampante

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che non ha colore politico purtroppo –, ma nel complesso c’è un’attenzione incomparabilmente maggiore per figure, istituzioni e testimonianze del passato – come dimostra ad esempio il periodico di Santa Fiora, le Tracce che vengono meritoriamente curate da operatori locali. Poi ci sono naturalmente da tener conto le grandi possibilità rappresentate dalle novità che prospetteranno le ricognizioni estremamente analitiche che stanno facendo gli archeologi. A partire da quanto si fa nel quadro della cartografia regionale e con il progetto speciale sponsorizzato dalla Fondazione Montepaschi con cui si sta monitorando tutto il territorio toscano. È facile prevedere che una luce nuovissima verrà gettata su un intero periodo di storia – quello dei primi secoli del Medioevo – assai povero di documenti. Si pensi soltanto che sono già venute fuori circa 4000 emergenze15 ed è facile immaginare, dato che la centrale di queste operazioni è a Siena e che alcuni di questi operatori sono molto legati al nostro territorio, che ci sarà un occhio di riguardo per la Maremma e per l’Amiata. Senza trascurare le altre realtà, si terranno presenti come si deve le emergenze amiatine e quindi anche gli Aldobrandeschi, che in un modo o nell’altro sono ad esse collegati. Ma intanto, con le relazioni dei nostri relatori, entriamo nel vivo del nostro incontro dando la parola a Simone Collavini, già ricordato per il suo libro recente, che ci parlerà della Presenza nel territorio e funzione storica e sociale degli Aldobrandeschi: come dire, che riferirà in modo serio su quello che io ho soltanto abbozzato per introdurre.

Mario Ascheri Università di Siena Note: 1 Gli atti sono stati curati da V. Burattini sotto il titolo La cattedrale di Grosseto e il suo popolo 1295- 1995, Grosseto 1996; del precedente, importante convegno grossetano sulla traslazione della cattedra episcopale da Roselle a Grosseto gli atti non sono stati sfortunatamente pubblicati; alcune corpose e notevoli relazioni sono però state recuperate nel volume da me curato Siena e Maremma nel Medioevo, in corso di stampa. Per uno sguardo rapido, senza pretesa di completezza, alla più recente bibliografia sul territorio amiatino e maremmano mi si consenta di rinviare al mio Lo spazio storico di Siena, Cinisello Balsamo 2001; anche le pagine che seguono danno preziose indicazioni.. 2 Grazie al lavoro di Michael Gorman, che mi ha gentilmente partecipato alcune primizie della sua ricerca pluridecennale, che dobbiamo augurarci venga presto resa pubblica: sarà un grande evento per tutta l’Amiata e la Maremma, se solo si pensa a quello che significa già, di per sé, la celebre Bibbia amiatina (oggi alla Laurenziana di Firenze; ne ho riprodotto una grande miniatura in Lo spazio storico cit., fig. 32). 3 E che hanno dato vita a un dibattito complesso tutt’altro che conchiuso per la loro importanza nella storia d’Italia; cenni nel mio Città-Stato e Comuni: qualche problema storiografico, in “Le carte & la storia”, 5 (1999), pp. 16-28. 4 Il caso degbli Ardengheschi risalta chiaramente dal recente volume d’assieme di P. Angelucci, L’Ardenghesca tra potere signorile e dominio senese (secoli XI-XIV), Napoli 2000; l’Autrice, invitata, non

GLI ALDOBRANDESCHI 19 Introduzione

ha purtroppo potuto partecipare a questo convegno. 5 Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia, I-II, Roma 1934, rist. Roma 1980. 6 Si v. G. Celata, dal Medioevo alla Cassa rurale, Pisa 1991. 7 Si v. infatti prima il suo Società e istituzioni nei secoli IX e X: Pisa, Volterra e Populonia, in Lucca e la Tuscia nell’alto medioevo, Spoleto 1973, pp. 209-338; lo stessa A. affrontava poi la nostra famiglia in Gli Aldobrandeschi, in I ceti dirigenti in toscana nell’età precomunale, Pisa 1981, pp.151- 163. 8 Invitato e presente nel programma di questo incontro, non ha potuto intervenire per altri impegni. 9 Codex Diplomaticus Amiatinus. Urkundenbuch der Abtei S. Salvatore am Monte Amiata, I-III, Tübingen 1974-1998. 10 L’Amiata nel Medioevo, Roma 1989. 11 Dapprima pubblicata in un meritorio volume miscellaneo promosso dal Monte dei Paschi di Siena (I castelli del Senese, Milano 1976), del loro lavoro promossi una ristampa con indici analitici come assessore presso l’Amministrazione provinciale di Siena (poi finalmente apparsa come Siena 1984) sotto il titolo: Città, borghi e castelli dell’area senese-grossetana. 12 Dopo il suo lavoro fondamentale sui Berardenghi (Spoleto 1974), pubblicava infatti La nobiltà del Senese dal secolo VIII agli inizi del secolo XII, in I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale, Pisa 1981, pp. 223-256 (già tempestivamente anticipato in “Bullettino senese di storia patria” 86 (1979), pp. 7-48). 13 Nobili e re. L’Italia politica dell’alto medioevo, Roma-Bari 1998. 14 Si v. The Other , eds. Th. W. Blomquist, M. F. Mazzaoui, Kalamazoo Michigan 1994. 15 Si v. la pubblicazione Castelli, I, a cura di R. Francovich e M. Ginatempo, Firenze 2000.

20 GLI ALDOBRANDESCHI I conti Aldobrandeschi nel contesto storico generale e locale*

Simone M. Collavini Università di Pisa

ornare a scrivere sugli Aldobrandeschi a tre anni dall’uscita di un mio libro sulla famiglia è a un tempo facile e difficile. Facile, perché mi si chiede di ripercorrere Tsinteticamente le linee principali di un tema cui ho dedicato vari anni di studio; difficile, perché la distanza di tempo non è né abbastanza breve da consentirmi di ribadire tutto quello che scrissi allora, né sufficientemente ampia da farmi guardare al libro in una prospettiva, diciamo così, storica. Perciò ho accettato non senza imbarazzo l’invito degli organizzatori a trattare un tema tanto generale, piuttosto che approfondire un singolo punto trascurato in precedenza. Intendo soffermarmi su tre aspetti, fra i molti possibili; vorrei innanzitutto ripercorrere rapidamente le vicende principali e le linee evolutive fondamentali della storia degli Aldobrandeschi, fornendo così le informazioni necessarie a chi ha meno familiarità con il tema, ma suggerendo anche, nell’atto stesso della narrazione, una linea interpretativa che non è scontata. In secondo luogo vorrei provare, giusto il titolo inizialmente propostomi dagli organizzatori, a riflettere sul “significato storico della famiglia Aldobrandeschi”, e cioè sulle considerazioni sul complesso della società toscana (o più ampiamente italica) che si possono trarre a partire dal caso degli Aldobrandeschi. Vorrei infine soffermarmi, un po’ più ampiamente, sul rapporto tra la famiglia e la Maremma: un rapporto complesso e di basilare importanza, visto che la storia plurisecolare dei conti è impensabile (nei suoi termini fondamentali) fuori dell’ambiente maremmano, così come il formarsi della Maremma, come regione storica, deve molto alla loro presenza e alla loro peculiare esperienza di dominio politico, sociale ed economico.

1. I conti Aldobrandeschi: linee generali della loro storia Gli Aldobrandeschi affondano le proprie radici nella media aristocrazia lucchese di ceppo longobardo. Le prime notizie su personaggi loro riportabili con certezza

* Ho mantenuto nella versione scritta le linee generali del discorso tenuto al convegno e, in parte, anche la forma. L’apparato di note è ridotto al minimo. In assenza di indicazioni più precise si rimanda a S. M. Collavini, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi da “conti” a “principi territoriali” (secoli IX-XIII), Pisa, ETS, 1998 (Studi medievali, 6), delle cui conclusioni questo testo costituisce una parziale rielaborazione e un leggero ampliamento.

GLI ALDOBRANDESCHI 21 I Conti Aldobrandeschi risalgono agli anni a cavallo dell’800, quando la società lucchese aveva ormai assorbito e metabolizzato il primo impatto con la dinastia franca, ma alcuni indizi rimandano a una loro posizione di un rilievo locale già nell’ultima età longobarda. Le prime generazioni della famiglia, non diversamente dal resto dell’élite lucchese del tempo, erano legate all’ambiente vescovile: i loro esponenti erano per lo più chierici molto attivi nel mercato della terra e nella fondazione nel patronato e nello scambio di chiese private. Il loro patrimonio, e neanche questo è eccezionale, era diffuso nel territorio diocesano / comitale di Lucca, comprese le sue appendici civili in Toscana meridionale nelle diocesi di Populonia, Roselle e Sovana. I suoi nuclei principali erano però in Val di Serchio a nord di Lucca (in crescita) e nella Valdera lucchese (in declino); né mancavano legami con il territorio di Pisa. Nel primo quarto del IX secolo, dunque, gli Aldobrandeschi erano una famiglia di un certo rilievo locale, ma non diversa da molte altre che la straordinaria ricchezza delle fonti lucchesi permette di conoscere; erano però nettamente meno ricchi e potenti dalle stirpi dalle quali furono reclutati i vescovi lucchesi, come quella di Walprando (737-54) o quella di Peredeo (755-79) e, ancor più, quella dei due successivi vescovi Giovanni (779- 801) e Iacopo (801-18). Solo nel secondo quarto del IX secolo la famiglia fece un decisivo salto di qualità quanto al proprio profilo sociale: l’esatta sequenza delle vicende che condussero alla svolta, a mio avviso la più decisiva nella lunga storia degli Aldobrandeschi, si possono ricostruire solo congetturalmente, ma il loro senso complessivo è chiaro: Eriprando I (v. 826-61) esponente laico della media aristocrazia lucchese divenne vassallo regio, in un momento in cui l’intervento locale dei Carolingi (con Lotario e poi Ludovico II) fu pesante come non mai prima, a causa delle vicende generali dell’impero. Il suo inserimento nella vassallità regia seguì percorsi analoghi a quelli di altri aristocratici lucchesi, ma, per ragioni non del tutto chiare (precocità? particolari doti personali?), fu ben più efficace, portandolo a svolgere funzioni di primo piano negli assetti politici regionali: egli ebbe un ruolo importante nell’organizzazione dell’esercito che doveva allontanare la minaccia saracena dopo il sacco di S. Pietro dell’846; e nell’858 fu addirittura missus partibus Tuscie1. I legami di Eriprando con il potere imperiale ebbero un’evidente ricaduta sulla carriera dei figli: i due minori furono anch’essi vassalli regi, mentre i due maggiori divennero rispettivamente vescovo di Lucca e conte di un complesso aggregato territoriale comprendente probabilmente i territori (non ancora elevati a comitati) di Populonia, Roselle e Sovana, a cavallo dei confini con i domini papali. La carica vescovile di Geremia non ebbe seguito per il mutare degli equilibri politici locali negli anni 870, mentre la carica comitale di Ildebrando II fu la base della potenza famigliare nei secoli successivi. La protezione imperiale e la presenza del fratello sul seggio episcopale lucchese permisero a Ildebrando II di unire ai beni fiscali controllati come conte gran parte dei possessi che il vescovado di Lucca aveva in Toscana meridionale, allargando a dismisura il già consistente patrimonio famigliare

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nella zona. L’ascesa degli Aldobrandeschi dalla media aristocrazia lucchese ai vertici dell’élite toscana (e italica) era ormai compiuta, come confermano le fonti narrative di fine secolo, che li mostrano muoversi su un piano di quasi parità con i marchesi di Tuscia, i duchi di Spoleto e il fior fiore dell’aristocrazia dell’Italia centrale. La famiglia, grazie alla posizione appartata del suo dominio e alla minore importanza rispetto ai duchi di Tuscia e di Spoleto, seppe mantenere la carica comitale (e il connesso patrimonio fiscale) nei convulsi anni dei re italici fino all’affermazione della dinastia sassone. L’ascesa di Ottone I segnò una fase di stallo, se non di arretramento, dei conti, che sotto Berengario II avevano addirittura ricoperto, con due successivi esponenti, le cariche di “comes sacri palatii” e di marchese, rimaste vacanti per l’esilio di Oberto I Obertenghi. Grazie a una politica volutamente di basso profilo e a un ripiegamento sugli interessi patrimoniali locali, gli Aldobrandeschi riuscirono comunque a superare indenni gli anni poco favorevoli della casa di Sassonia, ritornando in auge grazie alla scelta di appoggiare Enrico II contro Arduino d’Ivrea alla morte di Ottone III. Nel frattempo gli Aldobrandeschi erano stati fra le stirpi che più precocemente e sistematicamente avevano condotto una politica di incastellamento dei propri centri curtensi e, più in generale, dei propri nuclei patrimoniali; una scelta che li avvantaggiò nettamente nelle lotte locali che caratterizzarono la regione nell’XI secolo. Ancora al tempo di Ildebrandino IV (v. 988-1038) l’azione della famiglia aveva respiro regionale; così come regionale era la diffusione del suo patrimonio che, pur concentrandosi ormai in Toscana meridionale, si estendeva a nord fino alla Garfagnana ed era particolarmente rilevante nel territorio di Populonia e subito a nord di Lucca. Tra 950 e 1050 un simile insieme di beni, che poteva essere tutelato solo da un potere centrale relativamente forte e efficace, rese la famiglia assai sensibile agli incerti della grande politica dovuti ai cambiamenti di dinastia (e ai mutamenti d’orientamento degli imperatori) e al succedersi di personaggi molto diversi fra loro alla guida della marca di Tuscia, una struttura istituzionale che nella sua graduale evoluzione in potere intermedio tra il regno e i poteri comitali aveva inglobato anche la Toscana meridionale, in un primo momento da essa autonoma. Alla metà dell’XI secolo, però, gli assetti patrimoniali e di potere della famiglia vissero una trasformazione radicale e relativamente rapida in senso signorile. La svolta è direttamente collegata alla figura del successore di Ildebrando IV, il figlio omonimo. Dapprima costui e poi i suoi figli, Ranieri e Ugo, incominciarono a usare spregiudicatamente il titolo e i poteri comitali, esercitandoli dovunque riuscissero a farlo, grazie al possesso fondiario alla disponibilità di ampie clientele militari e alla fitta rete di castelli (in via di crescita), indipendentemente dai confini dei comitati di tradizione carolingia. Il titolo comitale, però, con il suo prestigio e la sua valenza pubblicistica rese fin dall’inizio la loro azione diversa da quella dei grandi proprietari che negli stessi anni presero a esercitare poteri di banno nei propri grandi possessi fondiari. Gli Aldobrandeschi, infatti, mirarono a mantenere una valenza territoriale

GLI ALDOBRANDESCHI 23 I Conti Aldobrandeschi e politica al proprio dominato; perciò il grande possesso fondiario fornì sì un supporto decisivo allo sviluppo signorile, ma non limitò l’azione dei conti, delle loro clientele armate e dei loro primi nuclei di officiali dipendenti. La logica stessa dello sviluppo signorile – insieme alla pressione di altri soggetti concorrenti – portò dal 1050 in poi al graduale abbandono dei nuclei patrimoniali periferici: l’area d’azione dei conti si restrinse così alla Toscana centro meridionale (con Colle Val d’Elsa come estremo limite settentrionale) e in particolare all’attuale Maremma grossetana: anche il territorio di Populonia, nonostante alcuni importanti punti di radicamento, divenne dalla fine dell’XI secolo un’area marginale per i loro interessi. La crisi del potere marchionale, connessa allo scatenarsi della lotta per le investiture, e il suo definitivo tramonto alla morte di Matilde di Canossa consentirono il pieno dispiegarsi del fenomeno signorile a tutti i livelli dell’aristocrazia. Gran parte della Toscana centro meridionale vide allora un pullulare di poteri signorili di vario genere e intensità, di cui è specchio abbastanza fedele l’infittirsi dei castelli, spesso destinati a modesta fortuna e rapida morte. Anche la Maremma, a quanto consentono di capire le poche fonti scritte disponibili e i più rilevanti dati apportati dalla ricerca archeologica, conobbe uno sviluppo simile, anche se il numero più ridotto dei siti incastellati, le loro maggiori dimensioni e il più basso indice di abbandono dei castelli farebbero pensare a una minore dispersione dei poteri e quindi a un tessuto aristocratico più rado e coeso2. Quando alla metà del XII secolo, dopo una fase di estrema povertà delle fonti, si possono riprendere le fila delle vicende famigliari, i conti risultano intenti a gettare le basi della terza grande svolta negli assetti del loro potere sugli uomini e sul territorio: la costruzione di un principato territoriale. Questa nuova struttura politico- istituzionale giunse a maturità solo nell’ultimo quarto del XII secolo, ma la sua costruzione durò oltre mezzo secolo. Il punto di partenza era costituito dall’obiettiva strapotenza degli Aldobrandeschi rispetto all’aristocrazia signorile maremmana e dalla tradizione pubblicistica dei loro poteri, derivante dall’esercizio ininterrotto della funzione comitale per tre secoli. La loro aspirazione a dar vita a un potere territoriale ampio e pubblicistico si risolse nella sottomissione dell’aristocrazia signorile, in primo luogo attraverso lo strumento feudo-vassallatico e, in particolare, il “feudo di signoria”. Il riconoscimento delle signorie locali e il loro inserimento nello spazio politico della contea fu infatti la chiave di volta della struttura politica della contea nel tardo XII e nel XIII secolo. Un ruolo altrettanto importante ebbe lo sviluppo di un corpo di officiali al servizio dei conti – processo continuamente in fieri e in via di precisazione fino alla crisi definitiva della contea. Gli officiali comitali erano fondamentali nelle signorie dirette dei conti, che costituivano, almeno nell’assetto duecentesco, circa la metà dei castelli della contea. Un terzo importante aspetto della formazione della contea fu il tentativo di monopolizzare alcuni diritti pubblicistici a scapito delle comunità e dei signori locali vassalli dei conti. Oltre ai diritti più direttamente connessi alla sfera del governo politico – come la convocazione

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dell’esercito, particolari bandi e divieti, la dichiarazione dello stato di guerra – sembra aver avuto notevole rilievo il tentativo (mai pienamente riuscito) di controllare direttamente ed esclusivamente lo sfruttamento di tre risorse naturali di primaria importanza per l’economia maremmana: la produzione e vendita del sale; l’estrazione dei metalli nobili; e la gestione di pascoli e incolti nel quadro del crescente peso assunto nell’economia toscana dalla transumanza ovina. Quest’ultima non fu sfruttata solo attraverso l’affitto dei pascoli, ma anche con l’imposizione di pedaggi locali o generali (questi ultimi giustificati dalla protezione nei confronti di pastori e bestiame all’interno della contea). Gran parte delle informazioni sulle strutture e sulle forme di governo della contea nella seconda metà del XII secolo vengono dalla lite che, nel primo quarto del secolo successivo, contrappose i figli dei due matrimoni di Ildebrandino VIII per la sua eredità. Consentono però di riferire, seppur con le cautele del caso, determinate situazioni già alla seconda metà del XII secolo sia riferimenti interni alla lite, sia singoli documenti sparsi, sia infine l’evoluzione della titolatura dei conti (con l’assunzione del titolo di comites palatini) e la trasformazione della terminologia impiegata per descriverne il dominato. Fu proprio in questo campo che, per successive approssimazioni e non senza incertezze, si affermò l’idea di una contea aldobrandesca (comitatus Ildibrandescus), come spazio politico e territoriale omogeneo e autonomo dai contadi comunali in formazione3. Non è possibile descrivere in dettaglio né gli assetti istituzionali della contea duecentesca, né, tantomeno, le complesse vicende politiche che videro coinvolti i conti. La questione cruciale di questo periodo fu comunque costituita, a mio avviso, dalla tensione strutturale tra l’ambizione della dinastia di rendere sempre più efficaci e pervasive le forme di governo e gli ostacoli che a tale progetto vennero da vari fattori interni ed esterni. I più importanti fra i primi furono senz’altro la rottura dell’unità famigliare, con la nascita di due rami concorrenti (conti di Pitigliano / Sovana e conti di Santa Fiora), e le ambizioni autonomistiche delle maggiori stirpi aristocratiche vassalle dei conti e delle più rilevanti comunità locali. Fra i secondi primeggia l’azione di Siena (soprattutto) e Orvieto (in minor misura) volta a sottomettere politicamente e/o erodere territorialmente la contea; ma ebbero un ruolo importante anche gli interventi delle supreme autorità politiche, come l’occupazione di larga parte della contea da parte di Federico II negli anni 1240 e l’azione di Bonifacio VIII nella crisi definitiva della famiglia a cavallo del 1300. Di fronte alla tensione costante tra il tentativo di mantenere in vita la contea (e possibilmente di incrementarne l’efficacia di governo) e gli ostacoli che dall’interno e dall’esterno venivano a questo progetto, i due rami della famiglia (distaccatisi gradualmente verso la metà del XIII secolo) risposero diversamente. I conti di Santa Fiora, politicamente legati a Siena e, quindi tendenzialmente ghibellini, tentarono di garantire la sopravvivenza propria e della propria parte di contea, accettando un suo inserimento nello spazio politico senese. I conti di Pitigliano, invece, si opposero

GLI ALDOBRANDESCHI 25 I Conti Aldobrandeschi sempre frontalmente a Siena e, a partire dallo scontro tra Guglielmo e Federico II, si collegarono allo schieramento papale (e poi angioino), cercando in questa tutela esterna una garanzia della sopravvivenza della contea come entità autonoma. Questa scelta si dimostrò a lungo vincente, permettendo oltre alla tenuta della contea anche un affinamento dei suoi metodi di governo e lo sviluppo di legami con le élites più attive sullo scacchiere politico italiano, come mostrano i successivi matrimoni di Margherita, erede di Ildebrandino XII, con Guido di Montfort, Orso Orsini e Roffredo Caetani. Il sempre più forte schiacciamento sulla posizione guelfa causò però un’eccessiva dipendenza dei conti di Pitigliano dagli Angiò, cosicché la crisi del Vespro e le incerte sorti della guerra successiva si ripercossero sulla famiglia. Questa debolezza politica, insieme alla crisi dinastica dovuta all’assenza di eredi maschi in due generazioni successive e alla pervicacia con cui Bonifacio VIII cercò di sfruttare questa situazione per impadronirsi della contea a vantaggio dei propri parenti, determinò una crisi profondissima e irreversibile della contea di Pitigliano. Pur sopravvivendo alla bufera grazie al duplice legame matrimoniale tra Aldobrandeschi e Orsini, la Contea si ridusse enormemente di dimensione e di ambizioni, vedendosi decurtata di tutti i domini indiretti (i cui signori si resero autonomi) e di gran parte di quelli diretti. Nello stesso giro di anni, anche la contea di Santa Fiora entrò in crisi – e per motivi paradossalmente opposti. Qualche tempo dopo la morte di Ildebrandino XI i suoi numerosi figli divisero in quote reali la contea: nacquero così più dominati personali di dimensioni tanto modeste da non differenziarsi abbastanza nettamente da quelli dell’aristocrazia maremmana. La debolezza dei conti di Santa Fiora, le rivalità interne che non mancarono e l’ormai indiscutibile subordinazione politica a Siena accelerarono il processo di spostamento delle fedeltà dell’aristocrazia maremmana dai conti verso Siena (un processo già attivatosi dalla metà del secolo, seppur con fasi alterne). Anche in questo caso, nonostante le vicende dinastiche successive favorissero una ricomposizione dell’unità famigliare, la crisi delle fedeltà vassallatiche (con la conseguente obliterazione dei domini indiretti) e il netto ridimensionamento dei domini diretti consegnò al Trecento una contea di Santa Fiora che era solo una lontana parente e una pallida immagine della grande contea aldobrandesca.

2. I conti Aldobrandeschi nel contesto dell’aristocrazia rurale italica Dopo aver cercato di tracciare le linee fondamentali della storia della famiglia e averne ripercorso alcuni fondamentali momenti di snodo, vorrei passare al secondo punto, riflettendo sugli elementi che si possono trarre da questa vicenda per la storia generale della regione e più latamente del regno italico. Vanno in primo luogo considerate convergenze e discrasie rispetto alle linee evolutive dell’aristocrazia italica nel suo insieme. Il primo elemento che balza agli occhi è una differenza: la lunghissima durata della storia degli Aldobrandeschi, specialmente se si considera la precocità della loro ascesa. Una caratteristica fondamentale dell’aristocrazia italica (se non più

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ampiamente di quella europea) è la sua stabilizzazione solo verso la fine del X secolo, mentre in precedenza i gruppi nobiliari, seppur potentissimi, avevano faticato a darsi continuità dinastica in assenza dei punti di radicamento costituiti dai castelli e dalle incipienti forme di signoria locale. Ebbene, come sottolineato da Paolo Cammarosano nel suo recente Nobili e re (che ha riproposto e affinato un modello interpretativo già piuttosto risalente), il caso degli Aldobrandeschi, con la loro continuità che risale all’inizio del IX secolo e con la loro ascesa che si pone alla metà dell’epoca carolingia, anziché un secolo dopo, è difficilmente inquadrabile in questa linea evolutiva4. La peculiarità della vicenda degli Aldobrandeschi è però in parte legata ai particolari “contesti documentari” in cui essa agì (dapprima Lucca, poi l’area amiatina) e perciò risulterebbe forse meno inusuale, se conoscessimo meglio gli ambienti in cui mossero i primi passi altre grandi stirpi aristocratiche italiche5. Comunque, anche se pazienti ricerche mostrassero più risalenti origini di alcune famiglie aristocratiche e anche se i vuoti documentari permettessero di presupporre vicende analoghe per altre, non si potrebbe contestare la profonda novità intervenuta negli assetti aristocratici a cavallo del Mille. Tale trasformazione del resto è evidente, come si è sottolineato, anche per gli Aldobrandeschi che allora ridefinirono completamente le fondamenta della propria eminenza locale. Anzi la possibilità di seguire la famiglia lungo un arco cronologico tanto ampio permette di riconoscere, di momento in momento, le novità degli assetti aristocratici attraverso l’analisi di un caso esemplare: fu, del resto, la capacità – direi quasi camaleontica – di reinventarsi e di ridisegnare il proprio ruolo in base alle convenienze e alle esigenze dei tempi a garantire continuità alla fortuna della famiglia. Gli Aldobrandeschi, pur senza essere tipici, possono dunque essere usati come un efficace indicatore degli assetti e degli equilibri raggiunti dall’aristocrazia rurale italica a varie altezze cronologiche: elementi come l’origine longobarda, l’ascesa attraverso legami con il mondo ecclesiastico e soprattutto con le autorità pubbliche, la dinastizzazione e patrimonializzazione di funzioni e beni pubblici, l’affermazione di poteri signorili e l’esercizio del patronato su chiese e monasteri sono tutte caratteristiche comuni all’aristocrazia italica, anche se per tempi e dimensioni dei fenomeni gli Aldobrandeschi non sono sempre in linea con il resto del mondo nobiliare. Via via che ci si inoltra nel XII secolo, però, la vicenda della famiglia, pur senza mancare di riscontri, si fa sempre meno indicativa di quella complessiva dell’aristocrazia italica e men che meno di quella toscana. I conti infatti non emigrarono in città, ma neppure scomparvero o entrarono in una crisi irreversibile (le due principali alternative per l’aristocrazia rurale del periodo); al contrario essi conobbero un periodo d’intensa crescita, coronata dalla formazione del principato e dal suo consistente potenziamento, non solo per intensità di governo e capacità di controllo dei poteri locali, ma anche quanto alla stessa estensione territoriale. L’evoluzione in senso principesco, pur non mancando di paralleli più o meno calzanti in Toscana (Guidi, Marchiones) e fuori di essa (Monferrato, Vasto, Estensi,

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Montefeltro) ha la sua più adeguata collocazione nel contesto europeo, nel quale, data la minor incidenza dei governi urbani, furono le dinastie aristocratiche a operare il processo di riorganizzazione degli ambiti di potere, che superò la frammentazione signorile caratteristica del periodo fra X e XI secolo, riprendendone lo slancio e piegandolo a nuove esigenze. Nel contesto italiano è invece il parallelo con il processo di comitatinanza il più adatto a comprendere significato e caratteristiche della nascita della contea aldobrandesca; lo mostrano sia la prossimità di certe dinamiche e della terminologia impiegata nelle fonti per definirle, sia il fatto che, se ci si colloca all’altezza di un momento fondamentale di trasformazione come quello della nascita della Lega di Tuscia alla morte dell’imperatore Enrico VI, si vede che accanto ai territori comunali, l’assetto geopolitico toscano del tempo prevedeva alcuni aggregati territoriali aristocratici fra cui, in primo luogo, la contea aldobrandesca6. Se gli esiti raggiunti dagli Aldobrandeschi sono certo eccezionali rispetto al panorama circostante, lo sono meno le dinamiche che a tali esiti portarono. Infatti durante il XII secolo, anche in Toscana, ci furono vari tentativi di trasformare i disgregati patrimoni signorili delle maggiori famiglie dell’aristocrazia rurale in dominati compatti e organici dotati di ambizioni politiche. Il grado di evoluzione verso forme principesche varia molto da caso a caso e il tentativo per lo più non ebbe successo duraturo, se non per breve tempo per Guidi, Alberti e Marchiones; ma furono molte le famiglie che, seppur a livello più modesto, tentarono di creare dominati signorili politicamente autonomi e dotati di un’articolazione istituzionale interna (reti di officiali, famiglie di vassalli a loro volta dotati di poteri signorili). Queste esperienze istituzionali più complesse si situano nel generale processo di riorganizzazione e selezione dei nuclei di potere autonomo germinati dallo sviluppo signorile. In campagna, come del resto anche in città, nel XII secolo si assistette a un processo di precisazione, concentrazione e gerarchizzazione dei poteri, in cui l’aristocrazia rurale ebbe un ruolo fondamentale, anche se minoritario e alla lunga perdente rispetto a quella urbana (e a quella inurbata o in via di inurbamento). Se per questi ultimi gruppi lo strumento di affermazione e controllo delle istanze di potere autonomo fu l’istituto comunale, l’aristocrazia rurale ricorse piuttosto a forme di governo di tipo principesco per tentare di disciplinare l’effervescenza dei poteri signorili, irregimentandoli in forme di esercizio del governo più saldamente strutturate e gerarchizzate. All’inizio del XIII secolo, comunque, l’opzione principesca era ormai soccombente, se non del tutto tramontata, in Toscana, salvo che per gli Aldobrandeschi. Si è soliti considerare questa peculiarità come frutto del contesto ambientale storico e politico in cui la famiglia si mosse. La Toscana meridionale fin dalla tarda età romana, infatti, aveva vissuto una drammatica crisi delle città, crisi accentuatasi durante l’alto medio evo, quando, con cronologie e per cause diverse da caso a caso, entrarono in gravissima crisi (fino alla completa scomparsa) anche i centri più floridi nella tarda antichità e che perciò erano divenuti sedi episcopali. Anche quando, a partire dall’età carolingia, si avviò in tutta la Penisola una crescita economica fattasi travolgente dall’XI secolo, in Maremma non nacquero grandi

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nuclei urbani, sebbene non mancassero centri economicamente vivaci, spesso di nuova fondazione (come Grosseto o Massa Marittima). Perciò gli Aldobrandeschi non dovettero confrontarsi con città importanti, finché in Maremma non intervennero le grandi città dell’interno e del nord, dapprima Pisa e Siena, poi anche Orvieto e Firenze. La debolezza del tessuto urbano è perciò generalmente ritenuta la causa principale della fortuna della dinastia aldobrandesca e del suo dominato tra XII e XIII secolo. In questo c’è molto di vero e non solo perché i conti, al momento della creazione del principato, non dovettero scontrarsi con le ambizioni di centri urbani dai contadi in via di formazione, ma anche perché l’assenza di un’alternativa urbana li indusse a percorrere la propria strada con maggiore coerenza, così come spinse l’aristocrazia del territorio ad accettare più facilmente la sottomissione. Non si deve però pensare che questa sia l’unica ragione del successo dei conti: vanno infatti valorizzati anche alcuni elementi interni alla famiglia stessa. Il primo è la forte dinastizzazione che limitò molto (anche attraverso le scelte di politica matrimoniale) la frammentazione in rami ed anzi mantenne per gran parte del XII secolo la guida della famiglia a una sola persona per generazione. Questa caratteristica, che gli Aldobrandeschi condividono con i Guidi proprio per il periodo in cui costoro tentarono di costruire un proprio dominato principesco, non pare dovuta solo a fattori casuali, ma sembra frutto di una strategia finalizzata a salvaguardare l’unità dei beni e dei poteri famigliari, garantendo il predominio dei figli maschi primogeniti. Del resto la tendenza a difendere l’unità della contea attraverso espedienti politici e giuridici è ancora evidente nel corso della lotta che contrappose i figli dei due matrimoni di Ildebrandino VIII: nei lodi prodotti per risolvere la questione ci sono infatti norme che cercano di proteggere l’unità – almeno politica – della contea anche contro il dettato del diritto ereditario di matrice longobarda allora in vigore. La forte struttura dinastica e la solidarietà interna alla famiglia, che permise di recuperare l’eredità del ramo secondario sviluppatosi tra X e XI secolo e quella di collaterali morti senza eredi diretti (anche in presenza di testamenti di tenore opposto), furono senz’altro fondamentali per la fortuna dei conti, come conferma il rilevantissimo peso della divisione in due rami e delle rivalità fra loro nella lunga crisi della seconda metà del XIII secolo. La capacità di far prevalere gli interessi del gruppo famigliare su quelli dei singoli individui fu importante e del tutto funzionale alla costruzione di un principato, ma non era priva di prezzi per chi era escluso dal potere e questo condusse a reazioni violente e potenzialmente distruttive per la famiglia. La difficoltà di portarla avanti con coerenza emerge bene dagli eventi di inizio XIII secolo, quando Ildebrandino IX, figlio di primo letto di Ildebrandino VIII, rifiutò di accettare il nuovo testamento del padre che nel 1208 lo escluse dall’eredità a favore dei fratellastri; allo stesso modo i fratelli minori di Bonifacio, il nuovo primogenito, non si accontentarono di una quota ideale dell’eredità, ma nel 1216 ottennero (almeno momentaneamente) una quota reale della contea costituita da una certa quantità di

GLI ALDOBRANDESCHI 29 I Conti Aldobrandeschi beni e di castelli precisamente identificati. Prevalevano così le ragioni e gli interessi dei singoli a lungo compressi nel secolo precedente.

3. I conti Aldobrandeschi e la Maremma7 Si è già detto del ruolo correttamente, anche se forse univocamente, attribuito dalla storiografia alle condizioni ambientali e storiche della Toscana meridionale nel successo della dinastia aldobrandesca. D’altro canto, però, si può anche sostenere il contrario, e cioè che la presenza così ingombrante della famiglia e del suo dominato abbia influenzato in modo decisivo le caratteristiche della regione, contribuendo a fissarle nei termini in cui le conosciamo nel pieno e tardo medioevo. Riguardo al primo aspetto ci si è già soffermati sul peso fondamentale della debolezza del tessuto urbano subregionale e del conseguente ritardo con cui gli Aldobrandeschi vennero a contatto con le città. Andrà aggiunto il fatto che la proprietà fondiaria aveva in Toscana meridionale caratteristiche diverse dal resto della regione: lo scarso popolamento, l’assenza di città, l’essere stata a lungo area di confine tra regno longobardo e ducato romano e la conquista in fasi successive alla prima espansione longobarda furono tutte concause – intrecciate in maniera complessa – della molto più accentuata presenza della grande proprietà (spesso anche di enti e persone radicati altrove) rispetto all’area settentrionale. La tenuità della rete di medi e piccoli proprietari e il predominio del grande latifondo (specialmente fiscale ed ecclesiastico) favorirono sicuramente la fortuna degli Aldobrandeschi (eredi sia dei beni fiscali che del grande patrimonio della chiesa lucchese) e orientarono precocemente in senso signorile la società maremmana. Mi pare, infine, che il ruolo particolarmente consistente giocato nell’economia maremmana dallo sfruttamento di alcune risorse naturali, come l’estrazione dei metalli preziosi, la produzione e la vendita del sale marino e lo sfruttamento sistematico di pascoli e aree incolte nel quadro dell’allevamento transumante, abbia anch’esso favorito la nascita e la sopravvivenza della contea. Certo, non si può intendere questo nesso in maniera univoca o necessitante, dato che non mancano casi, anche vicini come Massa Marittima e Montieri, nei quali lo sfruttamento delle risorse minerarie non avvenne nel quadro di un forte dominio signorile, ma al contrario favorì l’affermazione di più soggetti concorrenti e di forti comunità autonome. Sembra però evidente che il carattere pubblicistico del potere famigliare, in virtù della carica comitale ricoperta fin dall’età carolingia, abbia favorito un controllo, almeno in una prima fase, su queste attività, che potrebbe aver garantito ai conti quel surplus di risorse che, insieme alle cause di ordine sociale e politico già delineate, può spiegarne il successo nel tentativo di sottomettere l’aristocrazia signorile maremmana tra XI e XII secolo. In seguito, inoltre, e questa ipotesi è meno congetturale, il carattere “statuale” della contea tra XII e XIII secolo consentì alla famiglia un forte controllo – e dunque una consistente tassazione – di queste attività e del flusso crescente della transumanza (pedaggi generali affiancati a quelli locali, all’affitto dei pascoli e

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all’allevamento in proprio da parte di collaterali della dinastia). Di qui vennero risorse notevoli, fondamentali per la sopravvivenza della contea di fronte alla crescente pressione delle forze disgreganti interne ed esterne e per la fissazione degli equilibri interni alla dinastia stessa.

Se spostiamo la nostra attenzione verso l’altro aspetto del problema, e cioè il modo e la misura in cui gli Aldobrandeschi contribuirono a plasmare i caratteri della Maremma, dobbiamo concentrarci sul XII e XIII secolo. Non che il periodo precedente non sia stato importante, ma fu la nascita della contea a segnare più profondamente la storia maremmana, facendola divergere sempre più nettamente da quella del resto della regione. L’esistenza di una struttura politica e istituzionale come la contea ebbe infatti notevoli ricadute anche in campo sociale ed economico. Un primo nucleo tematico importante riguarda i rapporti di forza e i flussi di ricchezza all’interno del territorio maremmano determinati dalla presenza di questa struttura politica. Se è vero che lo sviluppo della contea fu reso possibile dalla debolezza del tessuto urbano della Toscana meridionale, è altrettanto vero che essa, data la sua peculiare forma istituzionale, impedì il decollo di nuovi centri urbani, limitandone l’espansione politica ed economica e in particolare impedendo la costruzione di territori soggetti. È il caso di Grosseto, la cui crescita socio-economica non si risolse nella creazione di un sia pur modesto contado nel primo ’200 per il perdurante dominio comitale (sia sul centro stesso che sui castelli limitrofi). Il mancato sviluppo di centri schiettamente urbani fu dovuto anche al fatto che, fino alla crisi di inizio ’300 e al ridimensionamento delle due contee, non giunse mai a compimento il processo di fissazione di una residenza comitale stabile: continuarono a esistere invece più castelli che, per posizione strategica e/o per decoro delle residenze, erano i luoghi preferiti di dimora dei conti, senza che nessuno di essi assurgesse a una posizione di esclusività. Lo consentiva del resto la tenuità degli apparati di governo centrale, che continuavano a muoversi al seguito dei conti. È noto invece che la fissazione di capitali fu uno degli elementi che favorirono la crescita di alcuni centri urbani nella gerarchia demica o la nascita ex novo di città in zone fino ad allora poco urbanizzate8. L’assenza di un centro urbano dominante – politicamente ed economicamente – e il mancato emergere di un castello / capitale esaltarono il carattere decentrato della contea, formata da un’ottantina di castelli (con i dipendenti territori signorili) senza alcuna subordinazione degli uni agli altri. Se da un lato, quindi, l’intero territorio era un “contado”, per la pervasiva presenza dei poteri signorili e per la netta caratterizzazione agraria dell’economia, d’altro canto era assente un centro urbano, economicamente altrimenti caratterizzato e giuridicamente privilegiato, con cui confrontarsi. Insomma mancavano un centro e una periferia, e ciò rendeva meno ineguale la distribuzione delle risorse a livello spaziale (anche se non, ovviamente, a livello sociale). Questa peculiarità sembra inoltre aver limitato, rispetto ad altre aree, l’emigrazione

GLI ALDOBRANDESCHI 31 I Conti Aldobrandeschi delle élites locali e, ancor più, dei ceti inferiori, come sembra suggerire il mancato sviluppo di espliciti oneri di residenza coatta per i contadini maremmani9. L’itineranza dei conti, l’assenza di un centro e di una periferia e l’autonomia politica della contea rispetto alle città comunali limitarono anche il drenaggio delle risorse locali verso l’esterno (e in particolare verso le città). Gran parte di quel che veniva prelevato attraverso lo sfruttamento economico del lavoro contadino e attraverso la leva fiscale fu speso nella contea: per il mantenimento della famiglia e del suo seguito, per l’edificazione di castelli e palazzi, per la remunerazione di gruppi aristocratici più o meno cospicui dipendenti dai conti, per le spese militari in difesa dell’integrità della contea, per la magnificenza e la carità a vantaggio di enti e soggetti maremmani. La mobilità dei conti e del loro seguito attivava così in molti castelli circuiti di spesa e di crescita dell’economia locale di un certo rilievo (analoghi, anche se ovviamente infinitamente inferiori, a quelli messi in moto dalla corte papale in alcuni centri dell’Italia centrale); lo stesso può dirsi, seppur in misura più modesta, anche per quei signori locali che rimasero radicati nei castelli maremmani, anziché inurbarsi (e spendere quindi in città quanto prodotto dalle campagne) come era avvenuto nel resto della Toscana e come avvenne in Maremma alla fine del XIII e soprattutto nel corso del XIV secolo. Anzi, gli Aldobrandeschi, grazie alla loro notevole importanza politica e ai loro stretti legami con i vertici politici del tempo, seppero attirare in Maremma risorse economiche (grazie a condotte militari e doti) e immateriali (conoscenze giuridiche, competenze tecniche, committenza artistica, circoli poetici) che nel XIII secolo ridussero la marginalità della Maremma rispetto ad altre fasi della sua storia precedente e successiva. L’affermazione della contea fu molto importante anche per gli equilibri sociali, e in particolare per quelli interni al mondo aristocratico. In tal senso la vicenda degli Aldobrandeschi è in linea con quanto riscontrato per altre aree della penisola (come il Trentino e il Friuli)10. La costruzione della contea nel XII secolo comportò infatti un completo ridisegnamento del profilo dell’aristocrazia maremmana, favorendo un sostanziale ricambio dei gruppi famigliari, incrementandone significativamente la mobilità (spesso anche ad ampio raggio) e alterandone notevolmente gli equilibri interni relativi. Il primo e più cospicuo effetto fu il ridimensionamento di alcune famiglie, i cui patrimoni comprendevano nel XII secolo più di una decina di castelli e che, per la pressione della concorrenza aldobrandesca (e di quella cittadina), non riuscirono a mantenere inalterate le proprie fortune dopo il 1200. Alcune, come la famiglia che dominava la Guiniccesca, furono condannate all’estinzione e i loro beni furono incamerati nella contea; altre, come Tignosi e Vicecomites (poi Visconti di Campagnatico e Visconti di Campiglia), vissero gravi crisi, accentuate dal proliferare di rami ed eredi che si spartirono quanto restava dell’antico dominato, legandosi alternativamente ai conti o ai governi urbani di Siena o di Orvieto. Questa crisi, analoga a quella che travolse gli Ardengheschi e i rami rurali dei Gherardeschi, non colpì alcune famiglie di più recente ascesa, radicate ai margini

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della contea, le quali grazie ai legami politici allacciati con i conti, alla propria marginalità e ad un intelligente gioco di equilibrio con le potenze limitrofe furono protagoniste di una vigorosissima crescita duecentesca che le portò a proporsi come significative potenze e come eredi del dominio aldobrandesco al momento della sua crisi. È il caso, per esempio, di Farnese e Baschi (non per caso localizzati nel sud della contea, l’area meno interessata dalla pressione cittadina) e, forse, dei Pannocchieschi. L’aristocrazia signorile che dominò la contea tra XII e XIII secolo, però, era costituita soprattutto da famiglie con orizzonti molto più limitati e localizzati, che non controllavano più di due o tre castelli (e spesso in forma consortile). L’impressione, derivante da un documentazione insufficiente, è che si tratti per lo più di famiglie che dovevano la propria fortuna al legame con i conti, un legame spesso sviluppatosi in tempi relativamente recenti nel corso del processo di sottomissione e disciplinamento dei poteri locali, che gli Aldobrandeschi intrapresero tra XI e XII secolo. È possibile però che alcune stirpi signorili duecentesche affondassero le proprie radici in una più remota tradizione di dominio locale a base fondiaria. Comunque l’intervento aldobrandesco operò un forte ricambio, positivamente attestato persino da fonti povere come quelle maremmane. La contea impedì inoltre casi di rapida ascesa di singole famiglie: fenomeni del genere si ebbero, non per caso, solo ai suoi margini, mentre là dove il potere comitale fu efficace, esso agì da deterrente, garantendo l’equilibrio all’interno dell’aristocrazia signorile. Perciò se la contea fu a lungo la principale garanzia della tenuta del ceto signorile maremmano nel suo complesso, non lo fu invece per le singole famiglie che furono colpite, oltre che dal naturale fenomeno delle estinzioni e delle implosioni dovute all’eccessiva proliferazione della discendenza, anche dall’azione di controllo da parte del potere comitale e dalla continua minaccia di interventi drastici in caso di infedeltà politica. Per quanto modesto e discontinuo, infine, non andrà neppure dimenticato il prelievo di risorse operato dai conti nei confronti dell’aristocrazia del territorio che, se anche inferiore a quello dei successivi governi urbani, ebbe una sua consistenza. Vanno infine rammentate, fra gli effetti collaterali dello sviluppo della contea, le conseguenze del passaggio da un dominio semplicemente signorile a uno di tipo principesco nei domini diretti dei conti, fatto che favorì la crescita e l’affermazione di nuove élites locali. Il fenomeno è evidente nei maggiori fra questi castelli: prelievi e diritti signorili assunsero sempre più carattere fiscale, lasciando spazio all’intraprendenza di nuovi soggetti economici; le reti di consumo e di scambio attivate dai conti favorirono la diversificazione delle attività produttive; la nascita di istituzioni comunitarie (ampiamente incoraggiata dai conti) garantì alle élites locali la possibilità di sfruttare le risorse economiche comunitarie (beni comuni, fiscalità, stipendi per gli uffici); il servizio ai conti (in campo militare o nel notariato) garantì sbocchi più ampi e nuove fonti d’entrata. Tutto ciò, accanto a più generali processi di differenziazione interni al mondo di villaggio, attivi allora in tutta la regione, favorì

GLI ALDOBRANDESCHI 33 I Conti Aldobrandeschi l’emergere di nuovi e solidi notabilati, in vigorosa crescita socio-economica. A quanto si può capire da fonti piuttosto desolanti, i conti ebbero un ruolo di rilievo nel garantire l’equilibrio tra questo gruppo in ascesa e le antiche aristocrazie militari presenti in molti castelli. Consente di ipotizzarlo l’unico caso in cui siano note tensioni sociali all’interno di un castello aldobrandesco nel ’200: si tratta di Suvereto in Val di Cornia, dove per tutto il secolo si fronteggiarono in una lunga lite populares (esponenti del gruppo testé delineato) e nobiles (membri della consorteria dei Vicedomini di Massa Marittima e aristocratici locali) riguardo a certi oneri personali e contribuzioni fiscali. Ebbene, le parti si appellarono a più istanze diverse, ma furono gli Aldobrandeschi a trovare, a quanto pare, la soluzione definitiva. Dunque i conti, a differenza di altri poteri meno attenti agli equilibri locali (come il comune di Pisa), seguirono con attenzione e favore l’emergere di nuove élites locali, andando anche contro i privilegi della vecchia aristocrazia signorile e militare11. Nel riflettere sugli effetti dell’esperienza della contea aldobrandesca, vorrei infine suggerire la possibilità che l’esistenza di una struttura politica unitaria in Maremma a partire dalla seconda metà del XII secolo abbia favorito lo sviluppo della transumanza, determinandone in parte le caratteristiche tipiche. Alla base dello sviluppo di questa forma di allevamento stava certamente la sempre crescente richiesta di materia prima da parte di una manifattura laniera in enorme espansione, ma alla centralità assunta in questo contesto generale dal percorso verso la Maremma non fu estranea la garanzia di protezione su di un territorio ampio e articolato, che solo i conti potevano garantire. Credo che questa peculiarità politica, unita alla disponibilità di ampi spazi incolti, abbia decisamente favorito la Maremma rispetto ad altre aree costiere in precedenza più importanti per la transumanza, anche perché più vicine ai pascoli estivi appenninici (Garfagnana, Lunigiana, montagne del Pistoiese), quali la Versilia e la Maremma pisana (ed anzi la centralità assunta dai pascoli invernali maremmani potrebbe aver favorito il decollo di pascoli estivi vicini, come quelli amiatini). Potrebbero confermare questa ipotesi interpretativa la presenza di un pedaggio generale (detto non per caso delle “pecore garfagnine”) connesso al transito per la contea e alla protezione accordata al suo interno fin dai primi anni del XIII secolo (come minimo) e un episodio rammentato dal cronista Bernardo Maragone. Nel 1172 Ildebrandino VII, insieme al comune di Pisa suo alleato, organizzò una spedizione militare (culminata in un assedio) contro il suo vassallo Bernardino di Cinigiano, reo di aver catturato le pecore provenienti dalla Garfagnana. Già a questa data (e si tratta di una delle più antiche testimonianze di spostamenti fra Garfagnana e Maremma meridionale) il rilievo economico dell’allevamento era tale da indurre a muovere guerra e da meritare il ricordo in una cronaca pisana12. Ritengo che la capacità degli Aldobrandeschi di impedire il ripetersi di episodi del genere o quanto meno la possibilità di reprimerli adeguatamente non sia stata estranea alla crescente importanza della Maremma come meta del bestiame ovino nei mesi invernali. D’altro canto, in un gioco di specchi ormai famigliare, la fortuna della

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transumanza accentuò il carattere accentrato degli insediamenti, il largo spazio lasciato all’incolto fra un castello e l’altro e l’equilibrio fra i vari centri demici, rafforzando così i caratteri già in precedenza tipici della contea e di tutta la Maremma.

La presenza aldobrandesca si configura dunque come elemento fondante nella storia maremmana: se da un lato la dinastia e il suo dominio politico furono il naturale esito della storia e della società di questo territorio, d’altro canto l’esperienza politica della famiglia Aldobrandeschi segnò profondamente e irreversibilmente la regione. La contea infatti non solo fece sì che le strutture politiche della Maremma fossero completamente diverse da quelle del resto della Toscana, ma direttamente o indirettamente influenzò anche molti altri aspetti della società e dell’economia: dall’assetto del tessuto insediativo (città e castelli) ai flussi delle risorse ricavate dallo sfruttamento del lavoro di contadini minatori e pastori, dalle strutture e dagli equilibri del mondo aristocratico, ai rapporti di questo con le nuove élites di villaggio, fino allo stesso sviluppo della transumanza: la forma economica più globalizzante nella Maremma bassomedievale e moderna. L’esperienza di dominio degli Aldobrandeschi si rivela dunque anche per il ’200 assai significativa per lo storico generale, anche se in termini in parte diversi rispetto ai secoli precedenti. Per la parte più antica della sua storia essa era importante e interessante soprattutto come modello cui confrontare gli assetti aristocratici regionali, per cogliere appieno convergenze e discrasie; nella fase duecentesca l’interesse peculiare della storia di questa famiglia sta invece nella così piena interconnessione tra dinastia e regione, nella profonda commistione fra vicende e destini dell’una e dell’altra. L’esperienza del principato si propone così come elemento globalizzante di interpretazione della storia della Maremma duecentesca non solo in campo politico e istituzionale, ma anche in tutti gli altri settori. Anche in questo caso un’indagine sulle vicinanze e differenze tra questa vicenda e quelle di altre dinastie (italiane e, soprattutto, europee) sarebbe di notevole interesse e ammaestramento per lo storico generale che si interroghi sul fenomeno dei principati (e delle monarchie) e sulla loro capacità di forgiare non solo nuove realtà politiche, ma anche spazi istituzionali sociali ed economici omogenei.

Note: 1 S.M. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi da “conti” a principi territoriali (secoli IX-XIII), Pisa, ETS, 1998 (Studi medievali 6), pp. 45-46. 2 Per una messa a punto delle fonti scritte e archeologiche sull’incastellamento per i territori di Populonia e Roselle, vd. R. FARINELLI, I castelli nei territori diocesani di Populonia - Massa e Roselle - Grosseto (secc. X-XIV), in Castelli: storia e archeologia del potere nella Toscana medievale, I, (a c.) R. FRANCOVICH, M. GINATEMPO, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2000, pp. 141-203. 3 Segnalo qui un’occorrenza dell’espressione “contea aldobrandesca” che mi era sfuggita: è la data topica di una donazione a S. Salvatore di Fontebona (Il Cartulario della Berardenga, [a c.] E. CASANOVA, Siena, 1927, n. 488, a. 1166 ott.), compiuta da Magliano, che recita: “Actum in comitatu Ildibrandessco, in

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castello de Mallano”. Il notaio è Placidus iudex, non altrimenti connesso alla famiglia. L’atto anticipa di sette anni la prima comparsa dell’espressione (vd. COLLAVINI, “Honorabilis domus”, p. 232). 4 P. CAMMAROSANO, Nobili e re. L’Italia politica nell’alto medioevo, Roma -Bari, Laterza, 1998, passim e spec. p. 290. 5 Le possibili origini romagnole (un’altra area favorita dalla densità documentaria) di due stirpi comitali toscane (di solito ritenute di X secolo) peremetterebbero di retrodatarne le prime attestazioni, vd. R. RINALDI, Le origini dei Guidi nelle terre di Romagna (secoli IX-X), in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo: marchesi conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII). (Atti del secondo convegno di Pisa: 3-4 dicembre 1993 [ma 1992]), Roma, Isime, 1996 [ma 1997] (Nuovi studi storici, 39), pp. 211- 240 e T. LAZZARI, I conti Alberti in Emilia, ibid., pp. 161-177 (le cui conclusioni sono però contestate da M. L. CECCARELLI LEMUT, I conti Alberti in Toscana fino all’inizio del XIII secolo, ibid., pp. 179-210). 6 P. SANTINI, Capitoli del comune di Firenze dall’anno 1138 all’anno 1250, in Id., Documenti dell’antica costituzione del comune di Firenze, Firenze, Viesseux, 1895 (Documenti di storia italiana, X), pp. 1-220: n. XXI, pp. 34-39, a. 1197 nov. 11 - 1198 feb. 7. 7 Questo paragrafo, oltre che dalle conclusioni del volume già citato, deriva da un seminario dal titolo Costruzione dello stato e mutamento economico: le peculiarità delle formazioni principesche, tenuto il 6 giugno 2000 nel quadro del programma di ricerca su Costruzione dello stato e mutamento economico nei secoli XII-XIV coordinato dal prof. Paolo Cammarosano (Univ. di Trieste). Ringrazio i partecipanti al seminario, e in particolare Maria Ginatempo (Univ. di Siena), per le loro osservazioni. Questa prima versione, priva di note se non per l’essenziale, anticipa una stesura più ampia prevista per un volume miscellaneo in corso di realizzazione da parte del gruppo di ricerca. 8 Cfr. L. PROVERO, L’invenzione di una città: Saluzzo da castello a capoluogo del marchesato (XI-XIII secolo), “Nuova rivista storica”, 79, 1995, pp. 1-26. 9 L’affermazione di obblighi di residenza e di vincoli alla terra tra XII e XIII secolo non va infatti vista come una sopravvivenza di pratiche altomedievali, ma come una reazione alla crisi della signoria teritoriale e alla forte mobilità dei contadini, cfr. S. M. COLLAVINI, Il “servaggio” in Toscana nel XII e XIII secolo: alcuni sondaggi nella documentazione diplomatica, “Melanges de l’École française de Rome. Moyen Age - Temps Modernes”, 112, 2000, pp. 775-801: 797. 10 Cfr. P. CAMMAROSANO, L’organizzazione dei poteri territoriali nell’arco alpino, in L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII-XIV, (a c.) G. CHITTOLINI, D. WILLOWEIT (Atti della XXXV settimana di studio. 7-12 settembre 1992), Il Mulino, Bologna 1994 (“Annali dell’Istituto storico italo-germanico”. Quaderno, 37), pp. 71-80 e M. BETTOTTI, Famiglie e territorio nella Valle dell’Adige tra XII e XIV secolo, “Geschichte und Region / Storia e regione”, IV, 1995, pp. 129-153; fenomeni analoghi per il Saluzzese in L. PROVERO, Dai marchesi del Vasto ai primi marchesi di Saluzzo. Sviluppi signorili entro quadri pubblici (secoli XI-XII), Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1992 (Biblioteca storica subalpina, 209). 11 Vd. COLLAVINI, “Honorabilis domus”, pp. 474-476. 12 Ibid., pp. 550-551.

36 GLI ALDOBRANDESCHI Le grandi fasi dell’incastellamento. Selvena e gli altri castelli dell’Amiata grossetana a confronto

Riccardo Francovich e Carlo Citter, Univeristà di Siena con schede di Floriano Cavanna, Teresa Cavallo, Stella Menci, Anna Caprasecca.

Un progetto di ricerca sui castelli amiatini nel quadro della valutazione del potenziale archeologico

Le ricerche sui siti fortificati sono uno dei punti di forza dell’archeologia medievale italiana, ma negli ultimi anni l’attivazione da parte dell’Università di Siena di un vasto censimento che coinvolge tutta la Toscana ha mutato il fattore di scala dell’intervento anche in quelle zone dove già l’indagine era ad uno stadio avanzato come la Val di Cornia, il Massetano e il Rosellano. Il lavoro è partito da una schedatura sistematica della letteratura storico-archeologica senza trascurare affondi sull’inedito e indagini sul terreno in questi stessi comprensori. In particolare per quello amiatino è già stata pubblicata la carta archeologica del comune di Abbadia S. Salvatore (a cura di Franco Cambi), mentre sono in corso le rimanenti del versante senese (Radicofani, , Castiglione d’Orcia) e grossetano (Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora, Roccalbegna, Castell’Azzara). Una distinzione fra i due versanti della montagna trova peraltro conforto per il Medioevo in una differente dinamica insediativa pur in un quadro unitario costituito dalla proprietà laica, gli Aldobrandeschi, che interagì con l’abbazia di S. Salvatore. Solo nel caso di Castell’Azzara la ricognizione è parte integrante di un progetto di valorizzazione che trae origine dallo scavo del castello di Selvena grazie ad un rapporto consolidato con l’amministrazione comunale. La ricerca sarebbe certamente più facilitata se questa esperienza fosse estesa anche alle altre amministrazioni e alle comunità montane. Riesce difficile infatti pensare che la progettazione di un parco archeominerario, la valorizzazione dell’ambiente e del territorio nel suo complesso siano destinati al successo se non partono da domande storiografiche forti. E certamente lo studio dell’interazione fra insediamento, centri del potere e risorse è un punto di forza solo se visto in una prospettiva storica di lunga durata in cui l’incastellamento gioca un ruolo di primo piano.

Dopo due decenni di vivace dibattito corriamo il rischio che l’interesse generale su questo tema centrale per la storia toscana si assopisca. Abbiamo compreso l’importanza dell’insediamento accentrato di sommità in un

GLI ALDOBRANDESCHI 37 L’incastellamento quadro di rinascita della grande proprietà fondiaria, pur se ad un livello non paragonabile a quella tardoantica. Abbiamo visto il formarsi dei villaggi comunitari nel corso del VII e dell’VIII secolo, che già avevano assunto una forma accentrata, sebbene non possiamo escludere realtà particolari dove l’accentramento potesse essere meno evidente. Abbiamo registrato l’affermarsi dei segni tangibili di una gerarchia sociale, per la prima volta dalla fine dell’antico, non nel senso che le gerarchie fossero scomparse, ma nel senso che dalla metà del VI alla metà dell’VIII secolo esse non erano in grado o non avevano l’interesse ad incidere sul paesaggio agrario. Abbiamo anche visto che, accanto a zone dove il castello si sovrappose fisicamente al villaggio altomedievale, ve ne sono altre, come l’Amiata, dove ci fu uno spostamento. Sfumano comunque i rigori del dibattito degli anni ’80. È evidente, infatti, che in entrambi i casi il castello stabilì strette relazioni con i precedenti assetti della proprietà e della maglia insediativa. Rimane comunque un fatto che l’insediamento sparso in pianura dopo la metà del VII secolo non ha lasciato traccia archeologica: decenni di ricognizioni in quadri ambientali diversi non hanno prodotto risultati apprezzabili in termini statistici. Trovare qualche capanna o piccola fattoria, magari nei pressi di nuclei accentrati, in oltre 100.000 ettari di campi ricogniti nella Toscana meridionale non può bastare per dire che l’insediamento sparso era ancora una caratteristica saliente del paesaggio di VIII-X secolo. Tuttavia studiare l’incastellamento non significa studiarne solamente le fasi iniziali. Esso non ci appare più, alla luce sia della documentazione scritta che archeologica, come un fenomeno monolitico, ma come un complesso e articolato intreccio di processi di trasformazione e selezione della maglia insediativa i cui contorni sono ancora un po’ troppo vaghi. Studiare l’incastellamento significa oggi cercare di comprenderne allo stesso tempo i processi formativi e le trasformazioni successive. Si aprono pertanto nuovi scenari sulle dinamiche insediative anche del periodo successivo alla comparsa dei primi recinti fortificati in pietra: fra la metà del XII e tutto il XIII secolo vi fu un’opera di selezione dell’insediamento e in questo caso l’Amiata è un comprensorio ideale dove storici e archeologi possono confrontarsi. Gli stimoli di questa nuova frontiera della ricerca sono molteplici. Un primo censimento dei siti fortificati d’altura dell’Amiata grossetano ha fornito un numero superiore a quello dei castelli noti dalle fonti. È presto per dire al termine del lavoro quanto i due numeri saranno distanti. Ma è comunque un dato su cui riflettere. In questa disparità potrebbe nascondersi una realtà molto variegata. Potremmo trovarci di fronte a castelli di prima fase che non riuscirono a imporsi nel nuovo quadro del popolamento che si stava delineando sul finire del XII secolo. Castelli forse solo progettati o frutto di progetti sommari, non radicati in una realtà sociale e insediativa, i cui promotori potevano essere anche soggetti “minori” che seguirono una “moda”, senza avere i mezzi per portare a termine queste imprese. Oppure siti preromani che non furono rioccupati nell’altomedioevo come accadde a Scarlino, Donoratico, Castel di Pietra (e sull’Amiata grossetano viene di pensare a Seggiano e a Penna).

38 GLI ALDOBRANDESCHI L’incastellamento

L’incastellamento è comunque un processo che gli archeologi devono studiare a livello di comprensorio se vogliono cogliere le linee di tendenza. Per questo abbiamo attivato un progetto di ricerca che procede su piani paralleli: la ricognizione di superficie per individuare le linee generali delle dinamiche insediative dalla preistoria all’età moderna, e una più specifica mirata alla formazione e alle trasformazioni dei paesaggi medievali in cui il tema castelli occupa un posto di primo piano. Questo è a sua volta parte integrante di un più ampio e sistematico censimento dei castelli in tutta la provincia di Grosseto che procederà con misurazioni delle estensioni, analisi degli elevati, raccolta di superficie per quelli abbandonati e, dove possibile, anche saggi di valutazione. Stiamo cioè passando da un fattore di scala iniziale in cui i castelli sono punti equipollenti su una carta geografica ad un fattore più avanzato in cui ogni castello occuperà un gradino all’interno di un’articolata gerarchia dell’insediamento che muove da precise osservazioni sul campo. Nell’Amiata ai temi sopra esposti non può mancare quello della risorsa mineraria e del rapporto con la signoria territoriale, quindi con i castelli che ne furono l’espressione. Se è vero che la documentazione scritta sulla signoria territoriale compare solo a partire dal momento in cui altri soggetti, fra cui le città, cominciavano a metterne in discussione il ruolo, è altrettanto vero che l’esiguità di documentazione scritta sulle attività minerarie e metallurgiche fino almeno all’XI secolo potrebbe avere la stessa motivazione: nessuno fino a quel momento aveva messo in discussione la natura pubblica delle miniere. In questo quadro il cantiere di Selvena, peraltro a ridosso di uno dei maggiori giacimenti di mercurio del mondo, può essere un punto di partenza. E non solo. Selvena fu uno di quegli insediamenti vincenti sia della prima grande selezione del X e XI secolo, sia di quelle successive. È un sito dove il secondo e forse un “terzo” incastellamento sono immediatamente percepibili dalla grande cinta muraria che cinge due borghi ampliando di sei volte l’area del sito romanico. L’abbandono dei vicini castelli di Penna e Grossetello, prima della fine del XIII potrebbe essere un’ulteriore conferma in questa direzione. E l’estensione delle indagini nei comuni di Semproniano e Sorano potrebbe incrementarne il numero. Ma Selvena sopravvisse anche alla grande selezione del tardo Medioevo. Gli ultimi dati a disposizione consentono di vedere attività costruttive e frequentazioni stabili fino a tutto il XVIII secolo. La prosecuzione degli scavi e, in parallelo, l’indagine puntuale con rilievi degli elevati e saggi di valutazione sugli altri siti fortificati consentirà di comprendere se e in che misura Selvena, con la sua monumentalità e la sua estensione, sia, nel contesto amiatino, un caso o piuttosto un modello.

Riccardo Francovich

GLI ALDOBRANDESCHI 39 L’incastellamento

Misurando i castelli dell’Amiata grossetano: alcuni dati su cui discutere.

Al termine delle ricognizioni mirate che sono state progettate per tutta la provincia di Grosseto disporremo di dati certo più consistenti e precisi di quelli che presentiamo in questa sede. Anche l’indagine sulle anomalie visibili da foto aerea, utilizzando diversi tipi di volo e ripresa fotografica, potrà riservare sorprese soprattutto su quei comprensori, come l’Amiata, dove la tradizionale indagine di superficie non è praticabile. Al momento ciò che più interessa sottolineare è che non possiamo continuare a parlare di castelli in astratto, ma in concreto di siti archeologici che hanno un’estensione, magari variabile nel corso della loro vita che potrebbe essere molto lunga o all’opposto incredibilmente breve. La presenza di un sito etrusco, o addirittura più antico, conferisce a quella sommità dove appare oggi il castello medievale una valenza, in termini di dinamiche insediative e di costanti dei paesaggi antropici, molto maggiore rispetto a quelle su cui furono edificati castelli precocemente abbandonati. Le stesse strutture materiali, l’articolazione interna degli spazi, le tecnologie impiegate, il grado di specializzazione delle maestranze che edificarono torri, casseri, abitazioni e muri di cinta, sono elementi concreti, quantificabili in una scala di valori. Se due castelli non possono essere equipollenti indipendentemente dalla loro estensione e durata, anche in carte sincroniche delle dinamiche insediative la qualità della cultura materiale produce una differenza che

Tav 1: l’area oggetto di interesse delimitata dal cerchio dei 17 Km. di raggio.

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dobbiamo marcare. Allo stesso modo abbiamo cominciato da alcuni anni a sostituire nelle ricognizioni di superficie i “pallini” posizionati un po’ a occhio sulle vecchie carte dell’IGM con perimetrazioni delle unità topografiche effettivamente riscontrate sulle carte digitali in scala al 5.000 o sulle ortofotocarte al 10.000, georeferenziando con precisione i ritrovamenti e valutando grado di visibilità archeologica, concentrazioni di reperti, e in genere altri fattori di disturbo. Questo modo di procedere ha aperto nuove prospettive per la ricerca e crediamo che se lo applicheremo in modo sistematico anche ai castelli e più in generale ai siti fortificati d’altura avremo un quadro decisamente più articolato. Passiamo quindi ai dati disponibili cercando di cogliere alcuni spunti di riflessione. In particolare, come si è detto, è interessante capire se il castello di Selvena costituisce un caso o un modello nel più ampio contesto amiatino in relazione a tre ordini di fattori: estensione, tipo di espansione, lunga durata dell’insediamento. Per cominciare abbiamo cercato di delimitare un’area. È ovvio che gli attuali confini comunali non servono ai fini della ricerca storica e infatti li usiamo solo per comodità di rapporti istituzionali. L’unica distinzione plausibile è quella fra versante orientale e occidentale del monte, ma in questo caso è la divisione amministrativa a seguire confini naturali. Quindi abbiamo tracciato un raggio di circa 17 Km. dalla sommità dell’Amiata (più o meno l’area indicata a suo tempo da Chris Wickham con un’estensione a sud per comprendere il territorio di Selvena - tav. 1) limitandoci al solo versante grossetano. In termini amministrativi significa comprendere i comuni di Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora e Castell’Azzara e parti di quelli di Cinigiano, Roccalbegna e Semproniano. Un primo censimento dei siti fortificati d’altura entro quest’area condotto da Marcello Cosci nell’ambito del più ampio progetto A.S.F.A.T. ha prodotto 37 anomalie di cui 18 riferibili a castelli ubicabili con precisione (Montenero, Seggiano, Potentino, , Castel del Piano, Monticello, Montepinzutolo, , Arcidosso, , , Santa Fiora, Triana, Roccalbegna, Monte Penna, Castell’Azzara, La Roccaccia di Selvena, Grossetello), ai quali vanno aggiunti altri tre siti che le fonti menzionano in vario modo ma che verosimilmente furono per un certo tempo dei castelli (La Castellina - districtus Podere Morella e Torricella - fortilizi). Altre 4 segnalazioni potrebbero riferirsi a castelli che non possiamo ancora ubicare con precisione e dovremo qui intensificare le indagini infrasito (il Poggio - forse Castellaccio, Ripa di , Podere Becchini - forse Vaiolo, Poggio Colle - forse Belmonte). Non furono invece mai castelli Monte Labro, La Sforzesca, Gravilona e Poggio Sala. Furono siti etruschi sicuramente Monte Civitella e Poggio Antischioni. Per quest’ultimo il toponimo (cui aggiungiamo i vicini fattoria Ansitonia e Podere Pian di Bando) suggerisce un’eventuale rioccupazione bizantina durante la guerra gotica, ma non abbiamo altri indizi in questa direzione. Delle ultime sei anomalie non abbiamo dati più precisi (Castellonchio, Podere Bisorgno, Podere Banditella, Poggio Volturaie, Podere Montegiove, Poggio Piantuma),

GLI ALDOBRANDESCHI 41 L’incastellamento ma una ricognizione sul primo di questi non ha prodotto alcun risultato. A questo già nutrito gruppo si sono aggiunte 93 anomalie (di cui 3 sicuramente riferibili a siti fortificati) da un’ulteriore indagine, oggetto di una una tesi di laurea ancora in corso su otto comuni (Abbadia S. Salvatore, Piancastagnaio, Radicofani, Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora e Castell’Azzara – lavoro curato da Anna Caprasecca). Pertanto un primo dato è che il numero potenziale di siti fortificati medievali è superiore a quello dei centri che le fonti menzionano come castello. Di quanto è presto dirlo, perché le ricerche non sono ultimate, sia sul versante della fotointerpretazione che della verifica sul campo. Sappiamo già che Monte Civitella a Castell’Azzara è un sito etrusco mai più rioccupato, mentre il vicino Penna fu anche castello. In alcuni casi una tradizionale ricognizione è stata sufficiente per constatare la presenza di un sito fortificato (come a Monte Penna, Grossetello, Poggio Antischioni), mentre in altri casi, per quanto la toponomastica sia suggestiva (Castellina, Castellonchio), la vegetazione non ha consentito di rinvenire strutture chiaramente riferibili ad un insediamento fortificato. Dobbiamo pertanto applicare metodi di indagine infrasito più accurati che vanno dalla pulizia della vegetazione infestante, a carotaggi e showel tests, ma anche foto zenitali ed oblique a bassa quota. Per il momento quindi è preferibile fare alcune considerazioni sui soli 18 castelli sicuri, con la consapevolezza che potrebbero essere arricchite in un prossimo futuro. Merita forse annotare per inciso che a fronte di una grande mole di nuove anomalie da verificare (che vanno da terrazzamenti a villaggi aperti, da edifici non meglio identificabili a viabilità) il numero dei siti fortificati d’altura è aumentato di sole 3 unità. Seppure in via preliminare non sembra irragionevole stimare che il numero complessivo di questo tipo di insediamenti nell’area selezionata (di cui si è mantenuta traccia archeologica) non debba crescere di molto in futuro. Ovvero se stimiamo in meno di una trentina il potenziale dei castelli dell’Amiata grossetano non dovremmo andare lontano dal vero. Ma la stessa nuova indagine sulle foto aeree ha prodotto 11 anomalie che potrebbero essere relative ad abitati accentrati non fortificati. Questo nuovo dato, una volta effettuate le opportune verifiche sul campo (la fortificazione non necessariamente deve essere uno spesso muro di pietra), potrebbe incrementare le nostre conoscenze sul popolamento altomedievale centrato su curtes (come la ormai nota Gravilona e la appena individuata Monticclu) e casales (almeno quelli che non dettero origine ad un castello). Un tentativo di misurazione dei castelli fatto alcuni anni fa per l’area rosellana procedeva su una base molto meno indefinita, perché la scarsa incidenza del bosco permetteva un confronto immediato dei dati documentari, aerofotografici e topografici. Qui riportiamo in sintesi il dato forse più interessante per l’analisi che vogliamo fare in questa sede. Ovvero la superficie dei castelli, presa al momento della presumibile massima espansione. Il 41% si colloca su valori superiori all’ettaro e di

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questi la metà ha avuto un’espansione ad anelli. Il fattore medio di crescita fra primo e secondo anello è di poco superiore a 4, cioè molto consistente. Vediamo ora che cosa possiamo dire dei castelli amiatini del versante grossetano. Un primo sostanziale dato su cui riflettere è che la maggior parte dei siti continua ad essere un centro abitato. Dei 18 castelli sicuri solo 4 sono stati abbandonati (cioè il 22%). Il rapporto diventerebbe 25 contro 11 (cioè il 44%) se considerassimo anche quelli per i quali l’individuazione è incerta o una prima ricognizione non ha fornito risultati. Prendendo per buona questa seconda cifra dobbiamo comunque segnalare che nella maggior parte dei casi dovette trattarsi di siti minori come Grossetello, Penna, La Castellina, se non addirittura semplici fortilizi. Dunque una prima tendenza sembra essere quella di una maggiore resistenza dei grandi castelli di popolamento.

La posizione di questi castelli è piuttosto compattata su quote che variano dai 300 agli 800 m con preferenza sulla fascia 600-800, come si evince dal grafico Tav. 2 in cui i dati sono espressi in percentuale.

Per quanto riguarda invece le misurazioni delle superfici preferiamo riferirci ai soli 18 castelli sicuri. Dal grafico Tav. 3 è evidente che 6 non superano il mezzo ettaro, 4 sono compresi fra mezzo e un ettaro, 8 superano l’ettaro anche di molto. Tutti castelli importanti questi appartenenti alla categoria maggiore, tutti siti ancora abitati ad eccezione di Selvena. All’opposto quelli della prima categoria, i più piccoli, o sono stati abbandonati o sono ridotti a poco più che residenze di lusso. Tav. 2: disposizione dei castelli amiatini In particolare osserviamo che la massima per fasce altimetriche. espansione di Selvena, Santa Fiora, Castel

del Piano, Seggiano, Montelaterone si colloca fra i 2,5 e i 3 ettari, rimanendo Arcidosso la vera eccezione con i suoi 37400 mq. Se dunque volessimo trarre alcune deduzioni su Selvena potremmo dire che si colloca nella fascia alta di quei siti vincenti e casomai viene da chiedersi i motivi del suo abbandono così tardo, del tutto avulso dalle logiche del decastellamento amiatino e legato a problemi che speriamo lo scavo possa risolvere. Ma abbiamo anche una chiave interpretativa in più per capire da un punto di vista strutturale i castelli amiatini. Se torniamo al caso rosellano vediamo che solo 8 su 58 superano i 2 ettari, cioè meno del 14%, mentre sull’Amiata sono 7 su 18, cioè il 39% (tav.4). È un tema da approfondire anche con gli storici, e dobbiamo ribadire

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Tav. 3: estensione dei castelli presi in esame espressa in mq.

Tav. 4: rapporto fra castelli che superano i 2 ettari e castelli con superficie inferiore nell’area rosellana e nell’Amiata grossetano. le cautele perché il censimento non è concluso. In ogni caso dalla prima crisi emerse un sistema insediativo caratterizzato da maglie più o meno larghe con nodi estremamente grossi rispetto all’area rosellana. C’è da chiedersi in che misura gli assetti della proprietà, le componenti geografiche, o altri fattori abbiano determinato questa particolare struttura dell’incastellamento nell’Amiata. Un ultimo aspetto riguarda la presenza di un’espansione da un nucleo originario per inserimento in una nuova cinta di borghi esterni o a nuclei concentrici. Questo tipo

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Tav. 5: modelli di impianto urbanistico dei castelli dell’Amiata grossetano.

di osservazione fatta in base alla presenza di murature superstiti e andamento degli edifici è da considerarsi sempre con molta cautela in assenza di scavi accurati che comprovino le deduzioni. Ma si tratta comunque di indicazioni utili. Nel rosellano 13 castelli su 58 sono chiaramente riconducibili al modello dell’espansione ad anelli concentrici. Nel caso amiatino (tav. 5) solo Montelaterone è sicuro, mentre per altri castelli come Santa Fiora, Selvena, forse Arcidosso, possiamo pensare ad un’espansione a borghi. Allo stesso modo, sebbene rifondata come terra nuova, vi includiamo Roccalbegna. Molti sono poi quelli che sembrano frutto di un impianto unitario già dell’estensione massima, in genere posti a ridosso di una ripa scoscesa, dalla forma a ventaglio come Penna, Castell’Azzara, Castel del Piano, Seggiano. Ma impianti regolari sono visibili per Monticello e Montegiovi. Non ebbero espansione Montenero, Montepinzutolo, Grossetello, ma forse anche Triana, Castiglioncello Bandini, Potentino e Stribugliano rientrano in questa categoria. Un ulteriore argomento di approfondimento potrebbe essere il rapporto siti-miniere. Tutto il comprensorio amiatino è particolarmente ricco di mineralizzazioni anche superficiali da cui si possono estrarre ferro, rame e mercurio, ma anche vetriolo. Questo tema è stato trattato dagli storici a più riprese e francamente ci convince l’idea che la disposizione dei castelli abbia, fra gli altri motivi, tenuto presente la possibilità di sfruttare al meglio le risorse minerarie. Tuttavia dobbiamo sottolineare, per onestà intellettuale, di non avere ancora rinvenuto evidenze archeologiche per sostanziare questa che rimane ad oggi un’ ipotesi di ricerca da approfondire. Infine risulta particolarmente interessante effettuare una valutazione dell’edilizia superstite leggibile come strumento che può affiancare le indagini intensive. Il lavoro è cominciato con un censimento di ciò che è possibile vedere in facciata,

GLI ALDOBRANDESCHI 45 L’incastellamento segnando sulle ortofotocarte i tratti di murature riferibili a porte, muri di cinta, edifici di pregio (sia pubblici che privati), torri e casseri. Dobbiamo subito segnalare che il grado di conservazione è piuttosto variegato. Mentre alcuni castelli hanno ancora numerose tracce dell’edilizia medievale come Montelaterone (22 punti), Santa Fiora (23) e Arcidosso (25), altri castelli pure importanti come Seggiano hanno restituito solo 1 punto. La ricerca andrà estesa anche agli interni, alle foto d’epoca e alla cartografia storica per avere una mappatura completa su cui poter effettuare analisi più precise. Dovremo valutare anche l’incidenza sulla tecnica costruttiva dell’uso di litotipi facilmente lavorabili. La presenza di conci squadrati non è indice di per sé di muratura romanica, cioè inquadrabile fra la fine dell’XI e la metà del XIII. Studi condotti su Sovana e Tuscania dove viene utilizzato il tufo vulcanico facilmente lavorabile, hanno mostrato che non è la squadratura, ma piuttosto le dimensioni dei conci a fornire un discrimine cronologico. Il lavoro proseguirà pertanto con il rilievo sistematico delle emergenze censite, con annotazioni puntuali sui litotipi, sulla lavorazione dei conci, sulle malte, su eventuali elementi decorativi, epigrafi e rapporti stratigrafici. Per tentare infine di rispondere alle domande iniziali su Selvena, ci sembra di poter dire che questo castello, una vera anomalia paragonato ai casi studiati nel rosellano, sembra invece essere un modello per il contesto amiatino e questo può servire da ulteriore base di partenza per nuove ricerche.

Carlo Citter

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Fig. 1: vista del palazzo trecentesco dalla torre pentagonale.

PRIMA SCHEDATURA DELLE EMERGENZE MEDIEVALI Di seguito proponiamo una serie di schede frutto di una prima lettura dell'edilizia superstite con particolare riferimento al periodo romanico (seconda metà XI - seconda metà XIII secolo). L'analisi sarà approfondita in un prossimo futuro come parte di due tesi di laurea assegnate dalla cattedra di Archeologia Medievale dell'Università di Siena. ROCCACCIA DI SELVENA Quota: 575 s.l.m. Superficie totale: 27400 mq. Superficie area sommitale: circa 3500 mq. Tavv. 6-8: i periodi dello scavo: in ordine dall’alto i periodi VII, VI e V. Descrizione generale: Il castello di Selvena è situato su uno sperone di modificato e distrutto parte delle strutture calcare molto acuminato che non lascia molto spazio precedenti. Il castello di Selvena presenta una per l’insediamento, infatti parte di questo è urbanistica chiara con tre nuclei, l’area sommitale, localizzato anche sulle pendici. A differenza degli altri un borgo a sud ovest e uno ad est. L’area sommitale, castelli indagati e attualmente abitati, Selvena subì allo stato attuale delle conoscenze, in età romanica probabilmente un graduale abbandono a partire dal sembra l’unica occupata da insediamento stabile, XVII-XVIII, che non ha compromesso fortunatamente successivamente alla fine del XIII il sito fu ampliato la lettura delle emergenze medievali. Molto spesso e dotato di due borghi. negli attuali borghi dell’Amiata le fasi di Per una descrizione più ampia si rimanda alla ristrutturazioni degli ultimi due secoli hanno bibliografia in fondo al testo.

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Descrizione delle emergenze: Il primo periodo: collocabile tra la fine dell’XI e i primi decenni del successivo, momento in cui fu costruita la torre est, con tecnica di particolare pregio. La torre ovest ha una tecnica romanica ma con minori rifiniture. Sempre di questo periodo è un recinto costituito con muratura a secco che probabilmente recingeva le due torri. Il secondo periodo: databile tra i primi decenni del XII e la prima metà del successivo. Momento di notevole ridefinizione ed ampliamento, del sito caratterizzato da un recinto che si colloca tra Fig. 2: la torre della Roccaccia di . le due torri. Sono di questo periodo delle strutture abitative e funzionali che si collocano all’interno di un circuito sommitale che ha due ben distinte fasi costruttive. murario che definisce tutta l’area sommitale. Le La prima fase costruttiva individuabile sul margine tecniche costruttive sono sempre di tipo romanico meridionale del grande edificio(fine XI - metà XII) ma non curate come nel precedente periodo e la è caratterizzata dalla presenza di una torre pezzatura dei conci è di minore dimensione. quadrangolare con il lato di circa 4,50 m. La Il terzo periodo: collocabile tra la metà del XIII e i muratura è di tipo romanico e di pregevole fattura, primi decenni del XIV. le bozze di pietra di medie dimensioni sono Momento costruttivo e di grande espansione del abbastanza squadrate ma non rifinite, disposte a castello. L’area occupata dal precedente insediamento formare corsi paralleli e legate con tenace malta. fu trasformata esclusivamente in area signorile, ed La seconda fase (metà XII-inizi XIII) vede la inoltre furono creati due borghi cinti da mura, alle costruzione di una grande edificio a pianta pendici della sommità. Di particolare rilievo trapezoidale composto da una torre ed articolato evidenziamo la costruzione di un grande palazzo in vari ambienti. La nuova torre di dimensioni probabilmente ad opera del conte Giacomo di Santa maggiori (6,50 m di lato circa) incorpora la Fiora che la scelse come residenza, e della torre precedente struttura (19 x 11 x 16 x 23 m). Le pentagonale. murature sono sempre di tipo romanico, ma si La torre pentagonale ha una muratura ancora ben distinguono nettamente dalla precedente, curata e di tipo romanico, mentre nel palazzo la soprattutto per l’utilizzo di bozze di pietra di tecnica ha caratteristiche di minor pregio. minore pezzatura e per una sommaria lavorazione. Floriano Cavanna Probabilmente è di questa fase o di poco successiva la fondazione del borgo. LA ROCCACCIA DI MONTEVITOZZO Floriano Cavanna Quota: 926 s.l.m. Superficie totale: 5200 mq. CASTELL’AZZARA Quota: 809 s.l.m. Descrizione generale: Superficie totale: 8100 mq. La Roccacia di Montevitozzo è localizzata su di un costone calcareo che si estende da est ad ovest Descrizione generale: particolarmente scosceso sul fianco settentrionale. Castell’Azzara è collocata su un crinale di calcare che Il nucleo fortificato ha una forma semicircolare con si estende da nord-est a sud-ovest particolarmente al centro l’area più elevata che è occupata da una scosceso sul fianco nord. La morfologia deve aver torre con cassero. Del borgo restano tracce dei lotti dettato le forme e invogliato l’insediamento in questo che appaiono ben definiti e pianificati. luogo, che sovrasta la Val di Paglia. Dalla foto aerea Breve descrizione delle murature censite: s’intuisce l’esistenza di un primo nucleo fortificato Molto interessante e ben conservata è la struttura a forma di semicerchio che si colloca con il

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Le porzioni romaniche che probabilmente costituivano il primo nucleo, forse una torre o un cassero, furono ridefinite e trasformate in un secondo momento con la costruzione di un grande edificio dotato di scarpa. Successivamente dobbiamo registrare degli ampliamenti e dei restauri. La fase centrale è di rilevante utilità per capire la morfologia su cui si impostava la costruzione, infatti l’edificio fu dotato di un grande muro a scarpa nei lati sud ed ovest che oggi risulta quasi interamente interrato e inglobato nelle attuali strutture. La muratura a scarpa e il dislivello, forse artificiale, che c’è tra questa e il borgo moderno ad ovest, indicano che l’edificio era collocato su un’area rilevata, questo indizio è forse utile per comprendere le precedenti fasi dell’insediamento. 1 - Struttura turriforme individuata sul margine nord, la muratura è composta da bozze di pietra di dimensioni varie non molto squadrate, e disposte Fig.3: foto aerea di Castell’Azzara, con le murature in corsi paralleli. individuate. 2 - Facciata del grande edificio antistante alla diametro a ridosso del dirupo. L’area sommitale è chiesa. Su questo paramento sono presenti varie occupata dalla chiesa, da una piazzetta e da un aperture, e porzioni di muratura di varia tecnica. grande edificio; da quest’ultimo si diramano a Nella porzione inferiore possiamo notare una raggiera i lotti abitativi. muratura che apparentemente ha una tessitura di La cinta muraria proteggeva principalmente la tipo romanico, non possiamo né valutare la sua porzione meridionale, visto che a nord era già estensione né i caratteri costruttivi dato che l’area è naturalmente difesa. Se ne intuisce l’andamento parzialmente ricoperta da intonaco. Particolarmente semicircolare mantenuto dalle abitazioni. evidenti sono due aperture, una di queste è con arco a tutto sesto costituito da bozze di pietra ben rifinite. Breve descrizione delle murature censite: Quest’ultima riutilizza parzialmente una più antica Una prima verifica delle strutture presenti ha apertura, di questa si conservano solamente gli permesso di individuare alcune murature medievali, stipiti. e di dare una prima valutazione generale sul 3 - La muratura più interessante e forse la più antica, mantenimento di queste. Il litotipo che costituisce è localizzata sul margine sud del grande edificio; è quasi interamente le strutture è il calcare costituita da bozze sommariamente squadrate di nummulitico, materiale che si rinviene in lastre e che medie dimensioni disposte a seguire corsi paralleli, influenza particolarmente le tecniche costruttive. La non presenta finiture. Questa porzione di muratura tecnica romanica che s’identifica generalmente con si interrompe a circa 3 m ed è restaurata dalla corsi paralleli e le bozze squadrate, in quest’area muratura che definisce il grande edificio. deve trovare anche altre discriminanti, da 4 - Questa muratura definisce il grande edificio ed determinare con una lettura della muratura più è ben visibile su tutta la facciata ovest e sud. approfondita. Le murature che possiamo ascrivere È edificata con bozze di pietra scarsamente ad ora al periodo romanico, sono molto scarse; squadrate disposte a formare corsi paralleli di consolante è una piccola porzione individuata altezza variabile, inoltre possiamo notare che nella nell’area sommitale inglobata in un grande edificio porzione inferiore era disposta a scarpa. Sul che presenta molti rifacimenti e materiale di margine superiore del prospetto ovest sono ben riutilizzo. visibili quattro finestre ad arco, parzialmente Questo grande edificio ad una prima lettura occluse da interventi moderni. evidenzia almeno tre grandi momenti costruttivi. 5 - In quest’area dove potenzialmente doveva

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Fig.4: particolare del grande edificio (n°4). Fig. 6: la muratura individuata sul margine sud del grande edificio (n°3).

MONTE PENNA Quota: 1086 s.l.m. Superficie totale: 3850 mq.

Descrizione generale: Abitato fortificato individuato sulla sommità del monte Penna durante la ricognizione archeologica, promossa dall’Amministrazione Comunale di Castell’Azzara. Il muro di cinta descrive intorno alla sommità del poggio una elle, il fianco che rimane scoperto non ha bisogno di difesa visto che un baratro di circa 80-100 mt di dislivello crea un ostacolo invalicabile. La tecnica costruttiva del muro di cinta è assai rozza; per la sua costruzione sono stati utilizzati blocchi di pietra locale di grosse dimensioni non Fig. 5: particolare delle aperture sul lato sud del squadrati e disposti in modo disordinato, senza grande edificio (n°2). l’uso di malta. Non è da escludere che si tratti di un intervento premedievale. Del borgo sono trovarsi la cinta muraria, sono individuabili lacerti rimaste scarse tracce murarie, quasi fosse costituito di murature che sporgono leggermente dalle in gran parte da capanne. La parte sommitale è facciate degli attuali edifici. È possibile che gli occupata da murature scarsamente visibili, attuali edifici si siano adeguati alle preesistenti costituite da bozze di pietra sommariamente strutture difensive. Floriano Cavanna

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squadrate, e da un cumulo di macerie composto, SEGGIANO da calce, scarsissimi frammenti di laterizi e bozze Quota: 491 s.l.m. di pietra; probabilmente era un edificio turriforme Superficie totale: 26200 mq di modeste dimensioni. Floriano Cavanna Descrizione generale: L’attuale abitato di Seggiano sorge su una collina MONTICELLO di arenaria. La forma semicircolare è dettata Quota: 734 s.l.m essenzialmente da fattori morfologici, infatti il Superficie totale: 12600 mq margine settentrionale del borgo si imposta su uno scoscendimento abbastanza accentuato. Descrizione generale: La scarsa conservazione e la massiccia presenza di L’attuale abitato è collocato su una collina intonaco non hanno permesso di evidenziare abbastanza ripida d’arenaria. murature medievali di particolare rilievo. Sull’area sommitale è collocata la chiesa, attorno Dalla foto aerea è possibile evidenziare nell’area alla quale, dalla foto aerea, possiamo intuire l’esistenza nord del poggio un nucleo circolare di edifici di un nucleo circolare. attorno al quale le strutture si dispongono a Ben evidente è la forma ovale del borgo, i lotti raggiera. L’unica evidenza è una porta di accesso abitativi sono disposti ad ellissi concentriche divise costituita da blocchi di grandi dimensioni. longitudinalmente da una via centrale che Teresa Cavallo attraversa tutto l’abitato. Alle estremità della via centrale sono collocate due porte d’accesso, che comprovano i limiti della cinta MONTEGIOVI muraria. Quota:335 s.l.m. Tracce ulteriori di questa cinta muraria sono Superficie totale:9000 mq riscontrabili sul margine nord dell’abitato. Descrizione generale: Breve descrizione delle murature censite: L’abitato attuale di Montegiovi è localizzato su un L’osservazione delle murature è stata ostacolata promontorio di arenaria i cui versanti sono fortemente dalla presenza d’intonaco sulle facciate abbastanza erti. degli edifici. Dell’antico castello si conserva essenzialmente il Anche se non sono state riscontrate murature di tipo romanico, l’attuale abitato conserva intatto il reticolo urbano medievale. 1 - Porta localizzata a nord, costituita da bozze di pietre squadrate e disposte a formare un arco a sesto acuto. 2 - Negli edifici situati nell’area nord del borgo è scarsamente visibile la fondazione della probabile cinta muraria. 3 - Grossa cisterna individuata nella piazza centrale del paese, costituita da mattoni disposti a formare una volta a cupola; recentemente è stata restaurata e valorizzata. 4 - Porta di accesso al borgo localizzata sul margine sud, costituita da pietra locale e da frammenti di laterizio. Floriano Cavanna

Fig.7: foto aerea di Montegiovi, con le murature individuate.

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all’interno dell’edificio, costituita da blocchi di medie dimensioni disposti su filari orizzontali. Potrebbe trattarsi di una porzione del muro di cinta. Teresa Cavallo

MONTENERO Quota: 388 s.l.m. Superficie totale: 7396 mq

Descrizione generale: Il borgo di Montenero, di forma circolare, è ubicato su un’altura che domina la Valdorcia. L’abitato è attraversato da una via principale che lo divide in due porzioni simmetriche; sul margine sud di questa via si trova la porta di accesso con Fig. 8: particolare del Cassero di Montegiovi (n°7). arco a tutto sesto. Probabilmente la cinta muraria, della quale resta una piccola parte non ben visibile circuito murario e le strutture difensive, ben visibili nella a nord-est, ha influito fortemente sulle strutture che zona est del paese dove è ubicata una torre poligonale. in seguito vi si impiantarono. Altre porzioni della cinta muraria sono visibili sul versante nord dove si trova anche una grande porta Breve descrizione delle murature censite: di accesso. Delle strutture interne al borgo non restano 1 - Porta di accesso al paese costituita da blocchi apparentemente tracce ben evidenti. di trachite ben lavorati. Gli interventi di restauro rendono difficile la lettura della muratura che Breve descrizione delle murature censite: sembrerebbe romanica. Lo stipite destro dell’arco 1 - Facciata della chiesa con arco a tutto sesto. La sembra più antico a giudicare dai conci di trachite muratura è costituita da blocchi di trachite ben fortemente usurati e di dimensioni maggiori, squadrati e disposti a formare corsi paralleli. Nella potrebbe trattarsi dell’antica cinta muraria. porzione superiore sono presenti vari interventi 2 - Dell’ originaria chiesa del XII secolo rimane solo di restauro. 2 - Stipiti con battenti di una porta individuati nella parte nord del paese. 3 - Grande porta di accesso con arco a tutto sesto costituita da blocchi di trachite squadrati; presenta molti restauri. 4 - Porzione di cinta muraria costituita da blocchi di arenaria ben squadrati disposti su corsi paralleli. 5 - L’edificio nella parte alta conserva qualche costituito da blocchi di arenaria di medie dimensioni. 6 - L’intonaco abbondante su tutta la facciata non permette di affermare con sicurezza che si tratta di una muratura romanica. L’angolo è costituito da blocchi di trachite di grandi dimensioni. In fase con la muratura sembrerebbe l’arco della facciata nord dell’edificio. 7 - Torre poligonale costituita da blocchi di arenaria disposti su filari orizzontali e da blocchi di trachite che ne delimitano gli angoli. All’interno sono Fig. 9: foto aerea di Montenero, ancora visibili le tre feritoie e la volta. con le murature individuate. 8 - Porzione di muratura romanica individuata

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Fig. 10: arco della porta sud di Montenero (n°1). Fig. 11: foto aerea di Castel del Piano con le murature individuate. un arco a tutto sesto in blocchi di trachite e qualche filare costituito da conci squadrati di medie dimensioni. nucleo centrale situato a nord; probabilmente si 3 - Nella parte alta della facciata ovest dell’edificio tratta dell’antico cassero del quale però non rimane sono stati individuati sette archi a tutto sesto in nessuna evidenza nelle strutture murarie. laterizi disposti su filari paralleli. Non è visibile l’antica cinta muraria che a sud 4 - Elemento architettonico in travertino con potrebbe essere stata inglobata in una fila di edifici. decorazione a foglie, inserito come davanzale di una finestra in una muratura costituita da blocchi di Breve descrizione delle murature censite: arenaria di medie e piccole dimensioni. I corsi non 1 - L’edificio completamente ristrutturato, presenta sono paralleli, l’apparecchiatura sommaria e la malta in qualche punto una muratura romanica. Nella parte abbondante. Non sembra che la lastra sia in fase con nord della facciata è visibile l’angolo dell’edificio. I la muratura, ma piuttosto materiale di riutilizzo. conci non presentano un’accurata lavorazione e sono Teresa Cavallo disposti su filari regolari e paralleli. 2 - I blocchi di trachite che costituiscono l’arco presentano una scalpellatura superficiale. Non è visibile CASTELDELPIANO l’originaria muratura nella quale l’arco era inserito. Quota: 637 s.l.m. 3 - L’edificio presenta tracce di muratura romanica Superficie totale: 30000 mq in più punti su tre lati. Nella parte alta della facciata ovest sono presenti Descrizione generale: due archi a tutto sesto, uno scarsamente conservato Casteldelpiano, posto a 637 m. s.l.m., sorge su un a pian terreno, probabilmente si tratta della porta costone di trachite che degrada dolcemente da d’accesso, e un altro, ben conservato e tamponato, nord, dove è a strapiombo sulla valle, verso sud. al piano superiore. Un altro arco in blocchi di La roccia di base non sembrerebbe affiorare in trachite si trova sul lato sud dell’edificio. La alcun punto all’interno del centro storico. muratura è però ben visibile soprattutto nella parte La struttura ad anelli lascerebbe ipotizzare una alta della facciata est: i corsi sono regolari e i conci specifica pianificazione urbanistica attorno ad un di medie e grandi dimensioni. Sono presenti zeppe

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Fig. 13: particolare di alcune aperture in un edificio (n°3).

zeppe sono più numerose e i conci di piccole e medie grandezze. È visibile nella parte più a nord della facciata, soprattutto nella parte alta, uno spigolo costituito da grandi conci di trachite. 9 - La muratura romanica è stata individuata sui lati est e nord dell’edificio; solo in qualche punto è ben conservata: i corsi sono paralleli e i conci, ben lavorati, Fig. 12: particolare di una muratura romanica nel hanno dimensioni simili (dai 30 ai 40 cm); anche le borgo (n° 1). altezze sono costanti (23/27 cm). 10 - L’angolo est dell’edificio è costituito da blocchi di di laterizi soprattutto in punti in cui il restauro è grandi e medie dimensioni; il restauro e le successive più evidente. ricostruzioni rendono difficile la lettura. Tra i giunti in 4 - Si tratta della porta di accesso al paese. L’arco mezzo a tanta malta ci sono zeppe di laterizi. a tutto sesto è inserito in una muratura romanica Teresa Cavallo ben conservata. I corsi sono regolari e paralleli e i conci di trachite squadrati e lisciati. ARCIDOSSO 5 - La muratura romanica si conserva nella parte Quota: 687 s.l.m. alta della facciata ovest dell’edificio. Zeppe di Superficie totale: 37350 mq arenaria e trachite e abbondante calce rendono paralleli i corsi costituiti da conci di svariate Descrizione generale: dimensioni. Su tutta la facciata sono presenti Il centro storico si sviluppa a semicerchio attorno tamponamenti con laterizi. alla rocca aldobrandesca, sulla pendice occidentale 6 - Porzione di muratura costituita da conci di della collina. È forse possibile individuare due trachite di medie dimensioni; la facciata cinte murarie, visibili soltanto in alcuni punti a dell’edificio è completamente intonacata dunque è causa delle successive trasformazioni; solo quella difficile l’identificazione della muratura che più esterna conserva due porte ad arco a tutto sesto. sembrerebbe romanica. La rocca, recentemente restaurata, è composta da 7 - Porzione di muro sporgente dal lato nord un edificio a complessa pianta quadrangolare con dell’edificio. Non sono visibili i corsi, i conci di un’alta base a scarpa ed in alto finestre ad arco trachite sono di grandi dimensioni e sono presenti ribassato; verso nord vi è addossata un’altissima grandi zeppe di laterizi. torre quadrangolare con coronamento merlato. 8 - Sono visibili blocchi di trachite di medie Sono ancora visibili molte delle murature e degli dimensioni disposti su filari orizzontali e paralleli; la elementi architettonici medievali soprattutto nella parte alta della muratura cambia completamente: le parte a valle, in corrispondenza dell’antico terziere

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Fig. 15: il cassero (n°24).

Fig. 14: foto aerea di Arcidosso, con le murature arenaria soprattutto nella parte inferiore. individuate. 8 - Lacerto di muratura romanica (2 mq circa) a corsi regolari e paralleli; il resto dell’edificio è di Talassosa, uno dei tre borghi in cui era suddivisa ristrutturato. l’antica popolazione di Arcidosso. 9 - Porzione sud/est della facciata di un edificio. Il materiale prevalentemente usato per la messa in Corsi regolari, conci non molto lisciati, presenza di opera di queste strutture è la trachite. zeppe nella parte nord interessata da un successivo restauro. Breve descrizione delle murature censite: 10 - Tre porte ad arco a sesto acuto; numerosi 1 - Due archi a tutto sesto in trachite, inseriti in una interventi di restauro hanno quasi completamente muratura romanica in larga parte ristrutturata. coperto il resto della facciata. 2 - Tamponamento di una porta di cui rimangono 11 - Edificio neoromanico, la parte superiore gli stipiti in trachite e l’architrave decorato. conserva probabilmente resti del paramento 3 - Arco a tutto sesto in trachite; il resto dell’edificio originario del quale rimangono alcuni corsi in è completamente stuccato. trachite molto regolari e paralleli. 4 - Porzione nord/est della facciata della chiesa di 12 - Tre archi in trachite a tutto sesto, probabilmente San Leonardo; probabilmente solo questa parte associabili a una porta. dell’edificio conserva il paramento originario. 13 - Paramento romanico a corsi regolari e paralleli; 5 - Paramento romanico; corsi poco regolari con i conci sono poco lisciati. una forte presenza di zeppe in laterizio e arenaria. 14 - Resti di un paramento murario nella parte 6 - Edificio romanico con arco a tutto sesto in superiore di un edificio; i corsi sono abbastanza trachite tamponato da un restauro moderno. regolari, i conci poco lisciati; la parte superiore è 7 - Edificio romanico. I corsi sono di altezza coperta da malta e intonaco. variabile e presentano alcune zeppe in laterizio e 15 - Porta con arco a tutto sesto; gli stipiti conservano

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ancora conci in trachite ben lisciati. base a scarpa ed in alto finestre ad arco ribassato; 16 - Resti di un paramento romanico. I corsi sono verso nord vi è addossata un’altissima torre regolari e paralleli; zeppe in arenaria. quadrangolare con coronamento merlato. 17 - Porzione inferiore della facciata di un edificio; Stella Menci si conservano ancora alcuni filari romanici disposti a corsi regolari e paralleli. Malta e zeppe in arenaria MONTELATERONE nella parte superiore. Quota: 685 s.l.m. 18 - Arco a tutto sesto, riferibile a una porta Superficie totale: 28800 mq successivamente tamponata. Incerta la muratura in cui è inserito. Descrizione generale: 19 - Porzione superiore della facciata di un edificio; È il primo castello documentato nell’Amiata si conservano ancora circa 3 mq dell’antico paramento occidentale (1004). Il borgo si estende sulla pendice a corsi regolari e paralleli. Piccole zeppe in arenaria. orientale della collina sulla quale sorgeva il cassero 20 - Porzione est della facciata di S. Niccolò costituita del quale rimangono gli imponenti ruderi. La da conci regolari e paralleli; solo questa parte non è costruzione di due successive cinte murarie è stata interessata dal restauro moderno. provata dalle due porte ad arco a tutto sesto poste 21 - Porzione superiore della facciata di un edificio; in serie sulla via centrale, una perpendicolare si conservano ancora alcuni filari a corsi regolari e all’altra. Molto numerose le evidenze di edifici ed paralleli. elementi architettonici. 22 - Porzione inferiore della facciata di un edificio; si conservano ancora alcuni filari a corsi regolari e Breve descrizione delle murature censite: conci abbastanza lisciati. 1 - Cassero. Campione di 2 mq circa: corsi regolari, 23 - Angolari in trachite di un edificio completamente paralleli; conci in trachite, abbastanza lisciati. ristrutturato. 2 - Cinque angolari in trachite, riferiti ad un edificio 24 - Rocca, recentemente restaurata, composta da completamente ristrutturato. un edificio a complessa pianta quadrata con un’alta 3 - Antico Palazzo Pretorio: muratura romanica a corsi regolari e paralleli; i conci in trachite sono ben lisciati. Non sono visibili zeppe. 4 - Resti di una muratura di cui rimangono pochi conci in trachite ben lisciati e squadrati. 5 - Porta (probabilmente riferibile alla prima cinta muraria); si conservano ancora alcuni corsi abbastanza regolari; presenza di zeppe in arenaria. 6 - Paramento in opera romanica, al cui interno è inserito un arco in trachite. I corsi sono regolari e paralleli. 7 - Arco in laterizio con stipiti in trachite. 8 - Arco in trachite; presenza di zeppe in arenaria e laterizi nella parte sommitale dell’arco. 9 - Arco in trachite inserito in una muratura romanica a corsi regolari e paralleli. 10 - Porta in trachite riferibile probabilmente alla seconda cinta muraria; i corsi sono regolari e i conci ben lisciati. 11 - Paramento in trachite e arenaria con zeppe in laterizio e arenaria. 12 - Porta in trachite a corsi regolari e paralleli; non sono visibili zeppe o altri interventi di restauro. 13 - Paramento in trachite a corsi regolari, paralleli. Fig. 16: arco a tutto sesto inserito in una muratura 14 - Porzione superiore della facciata di un edificio; romanica (n°6).

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SANTA FIORA Quota: 687 s.l.m. Superficie totale: 23750 mq Superficie borgo: 16800 mq

Descrizione generale: Arroccato su una rupe di trachite, il paese di Santa Fiora domina la valle dell’omonimo fiume. Fuori dalle mura del centro storico, il paese moderno si sviluppa verso monte, quasi congiungendosi con l’abitato di Marroneto. Si compone di due parti distinte: il castello, a forma semiellittica, in alto e il borgo verso sud-ovest, al quale si accede per una porta ad arco ribassato ancora quasi interamente visibile. Vista la posizione del castello, già difeso naturalmente, non era necessaria una cinta muraria. Abbastanza numerose le evidenze di murature ed elementi architettonici romanici. Breve descrizione delle murature censite: 1 - Paramento a corsi abbastanza regolari; i conci sono poco lisciati; presenza di malta nei giunti. 2 - Due archi a tutto sesto in trachite. Fig. 19: cassero di Montelaterone (n°1).

i corsi sono regolari e paralleli; la parte inferiore è ristrutturata con zeppe di arenaria e laterizio. 15 - Elemento decorativo architettonico riferibile al periodo romanico (rosetta). 16 - Paramento a corsi regolari e paralleli; non sono visibili zeppe. 17 - Due archi a tutto sesto in trachite; uno stipite, anch’esso in trachite, è in comune. 18 - Arco a tutto sesto in trachite; nella parte centrale della volta sono visibili zeppe in arenaria e laterizio. 19 - Intera facciata di un edificio, a tratti interrotta da vari interventi di restauro. Al suo interno sono inseriti archi a tutto sesto in trachite. 20 - Tre colonne in trachite con capitelli diversamente decorati, probabilmente non in fase con l’edificio. 21 - Chiesa di S. Martino. La facciata originaria corrispondeva all’odierno fianco destro, dove si notano tracce dell’antico rosone e del tetto a spioventi e nel quale rimangono ancora il portale con arco ogivale ed elementi decorativi romanici. 22 - Architrave di un arco in trachite decorato da tre rosette inserite nella parte centrale; nel resto della facciata dell’edificio, altri esempi di muratura romanica. Stella Menci Fig. 20: foto aerea di Santafiora, con le murature individuate.

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Fig. 21: porta di accesso al borgo (n°23). Fig. 22: la torre degli Aldobrandeschi (n°22).

3 - Arco a tutto sesto in trachite inserito in una regolari, paralleli; presenza di molte zeppe in muratura romanica a corsi regolari e paralleli; non laterizio. sono presenti zeppe. 12 - Chiesa di Santa Flora e Lucilla; dell’antico 4 - Stipiti e architrave di una porta; si conservano assetto conserva solo il rosone romanico. ancora alcuni blocchi in trachite ben lisciati. 13 - Porzione superiore della facciata di un edificio 5 - Paramento in opera romanica; i corsi sono poco (2 mq circa); paramento a corsi regolari e paralleli. regolari; forte presenza di zeppe in laterizio e malta 14 - Interno di una porta; nella parte inferiore sono soprattutto nella porzione inferiore. visibili probabili murature romaniche a corsi 6 - Porzione superiore della facciata di un edificio regolari. (2 mq circa); paramento in opera romanica a corsi 15 - Porta di accesso al borgo che conserva tracce e paralleli, poche le zeppe in arenaria e laterizio. dell’antico paramento a corsi regolari e paralleli; i 7 - Porzione inferiore della facciata di un edificio conci sono abbastanza lisciati. (1 mq circa); paramento in opera romanica a corsi 16 - Chiesa romanica di S. Agostino; forse solo il regolari e paralleli. I conci sono ben lisciati. lato sinistro conserva in basso l’antico paramento 8 - Paramento in opera romanica a corsi regolari e romanico costituito da filari orizzontali e paralleli. paralleli; i conci in trachite sono ben lisciati. 17 - Porzione superiore della facciata di un edificio 9 - Arco in trachite inserito in una muratura romanica (3 mq circa), realizzata a corsi paralleli, presenta a corsi regolari e paralleli; i conci non sono lisciati. poche zeppe in laterizio. 10 - Porzione superiore della facciata di un edificio; 18 - Arco a tutto sesto in trachite inserito in una si conservano solo alcuni blocchi in trachite, ben muratura romanica a corsi regolari e paralleli; i lisciati e squadrati. conci sono poco lisciati. 11 - Paramento disposto a corsi abbastanza 19 - Arco a tutto sesto in trachite inserito in una

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muratura romanica; i corsi sono regolari e paralleli; successivi al 1976, che presentino una quota di zeppe in laterizio e arenaria tra i giunti. ripresa simile a quella dell’Eira che non essendo 20 - Porzione superiore della facciata di un edificio molto alta permette una buona visione complessiva (4 mq circa); paramento a corsi paralleli. e dei dettagli. Dopo aver effettuato la verifica 21 - Porta in trachite ad arco a tutto sesto; i filari puntuale di tutte le anomalie, ci si propone, attraverso che ancora si conservano sono paralleli e regolari. una comparazione dei vari voli esaminati, di valutare 22 - Rocca Aldobrandesca; a causa dei continui interventi le variazioni delle tracce individuate nel volo 1976- di restauro, non rimane nulla dell’antico assetto. 77 e il loro eventuale stato di conservazione e visibilità 23 - Dall’antico borgo è visibile la porta al di sotto per ricreare una possibile storia dei siti. Per questo dell’antica pieve di Santa Lucilla e Flora. Sembra motivo l’analisi delle foto aeree sarà eseguita che conservi in parte l’antico paramento romanico. prendendo in considerazione il maggior numero Stella Menci possibile di voli, effettuati anche a distanza di anni e cercando di realizzare un confronto e una L’aerofotointerpretazione archeologica valutazione della potenzialità informativa che tenga del comprensorio amiatino. conto anche delle diverse caratteristiche tecniche La ricerca effettuata nell’ambito della tesi di laurea di ognuno di loro. della scrivente si propone di valutare il potenziale Per ciò che riguarda i risultati ottenuti fino ad ora informativo che l’analisi della foto aerea può fornire si può elencare una serie di punti che sono stati all’archeologia dei paesaggi, in una situazione affrontati. particolare come il comprensorio amiatino, che Redazione di un archivio relazionale per poter presenta una grande complessità di situazioni (in classificare le anomalie in base ad una serie di prevalenza zone boscose, pascoli dove gli interventi tipologie che si distinguono per tipi di tracce agricoli hanno alterato solo parzialmente la individuabili sul terreno come ad esempio: stratificazione sottostante, ma anche zone coltivate Alterazione nella composizione del terreno in modo più intensivo). L’individuazione delle Crescita anomala di piante ad alto fusto anomalie ha tenuto presenti vari fattori che possono Crescita anomala della vegetazione influire aprioristicamente su questo tipo di ricerca. Conservazione dell’umidità nel sottosuolo Si fa riferimento, in primo luogo, alla qualità dei Di sopravvivenza voli, che presentano caratteristiche tecniche diverse (occorre precisare che si tratta di una classificazione da quelle richieste da una ricerca archeologica la provvisoria, poiché la scheda definitiva è in corso quale può essere condizionata nei risultati, poiché di definizione) aumenta il numero dei ritrovamenti di siti Redazione di una scheda di verifica che sia in grado imponenti, come ad esempio fortificazioni e di integrare le esigenze della tradizionale castelli, ma diminuisce la possibilità di localizzare ricognizione archeologica, con quelle del riscontro strutture di ben più modesta entità. Altri fattori, puntuale delle tracce individuate da foto aerea. condizionanti soprattutto il grado di visibilità, Questo ha permesso di fare alcune prime possono essere: il tipo di copertura del suolo e il considerazioni, tenendo ovviamente presente che grado di conservazione del sito sepolto. si tratta di risultati parziali poiché necessitano di Questo inconveniente è stato in parte risolto con una verifica sul campo. una lettura molto meticolosa del materiale Sono state individuate un totale di 150 anomalie fotografico attraverso l’utilizzo di uno stereoscopio per tutti i comuni facenti parte del comprensorio Aviopret a 15 ingrandimenti che permette di amiatino: Arcidosso, Santafiora, Castel del Piano, individuare anomalie con modeste estensioni Abbadia S. Salvatore, Piancastagnaio, Vivo (intorno ai 100 mq). L’analisi del materiale d’Orcia, Castell’Azzara, Seggiano. aerofotografico ha interessato fino ad ora la consultazione del volo Eira 1976-77 che presenta Processamento immagini una copertura totale della zona con un totale di Le immagini sono state ottenute rifotografando il circa 800 fotogrammi per la zona del comprensorio negativo originale con una normale reflex con tubi amiatino. Si prevede di procedere alla lettura di addizionali per foto macro, montata su un tutti i voli anche a copertura parziale degli anni fotoriproduttore. In seguito sono state trasferite,

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su un Mac Power PC G3 con processore a 400 strutture edilizie molto regolari. Quelle più evidenti Mhz, HD da 9,2 GB, 256 MB di RAM e monitor misurano rispettivamente 22 m di lunghezza e 17,5 a 21” a colori, scanner Polaroid per diapositive ad m di larghezza, sono disposte in senso ortogonale alta risoluzione (2400 d.p.i. ed un ingrandimento in modo da formare una struttura a quadrilatero del 600%) e poi rielaborate tramite Photoshop 5.5, ripartita in quattro ambienti simili. Si trovano su seguendo una serie di procedimenti al fine di di un’area avente forma irregolare con una rendere il lavoro più leggibile. superficie approssimativa di 4183 mq. Il poggio è inoltre interessato da una serie di terrazzamenti Alcuni esempi di schede. degradanti verso valle, alle cui pendici, spostata ad SCHEDA: 3 est, è presente un’area interessata da una LOCALITÀ: ad est del podere Sala, coltivazione arborea, dove sono appena visibili altre a sud di casale Monteccluo tracce di edifici molto più confuse. Tra queste si COMUNE: Arcidosso nota in particolare una molto netta di forma ellittica COORDINATE: 1704273 4752473 e altre orientate in senso NO-SE che si incontrano QUOTA: 585 m ortogonalmente tra loro e fanno pensare alla CARTOGRAFIA: IGM 1: 25000; presenza di un edificio molto complesso. REGIONALE 1: 5000 CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE: POSIZIONE: sommità rilievo collinare TIPO DI VEGETAZIONE: coltivazione arborea VOLI ANALIZZATI: Eira 1976-7; TIPO DI TRACCIA: crescita anomala di piante ad Strisciata: 81b N°346-7 alto fusto spontanee o coltivate SCALA FOTOGRAMMA: 1:13760 FORMA DELL’ ANOMALIA: poligonale complessa SCHEDA: 35 SUPERFICIE TOTALE: 1040,5 mq LOCALITÀ: Monte Civitella DESCRIZIONE: Si tratta di un’altura che degrada COORDINATE: 1719777 4738908 leggermente verso la valle delle Piagge, si trova ad COMUNE: Castell’Azzara ovest rispetto a poggio Sala e non molto distante da QUOTA: 1107 m una serie di piccoli rilievi impervi che si innalzano CARTOGRAFIA: IGM 1: 25000; anch’essi verso ovest, fino ad incontrare l’imponente REGIONALE 1: 5000 altura sulla quale sorge Monte Laterone. Sulla POSIZIONE: sommità sommità si nota la presenza di tracce riferibili a TIPO DI VEGETAZIONE: bosco rado TIPO DI TRACCIA: di sopravvivenza FORMA DELL’ ANOMALIA: ellittica SUPERFICIE TOTALE: 1134 mq DESCRIZIONE: La zona è interessata da una copertura a bosco rado. La caratteristica delle rocce calcaree che in questo punto tendono a fessurarsi, favorisce la formazione di questo tipo di vegetazione. Ad ogni modo l’area sembra delimitata da un lungo muro che percorre la zona in direzione est-ovest. Inoltre nella parte più bassa si nota un andamento circolare della vegetazione e altre tracce di muri, la superficie totale è pari a 354,3 mq. Appena sopra la vegetazione si dispone di nuovo con un andamento circolare. In corrispondenza di questa zona si notano tracce di due edifici rettangolari aventi le dimensioni di 6,8 m di lunghezza per 5,5 m di larghezza. La superficie totale di questa seconda area è pari a 1134 mq. Fig. 23: Podere Sala.

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Fig. 24: Monte Civitella. Fig. 25: Podere Fusaio.

CARATTERISTICHE REGIONALE 1: 5000 MORFOLOGICHE: rilievo impervio POSIZIONE: sommità VOLI ANALIZZATI: Eira 86A N° 951 - 52 TIPO DI VEGETAZIONE: bosco fitto SCALA FOTOGRAMMA: 1:13760 TIPO DI TRACCIA: Crescita anomala di piante ad alto fusto spontanee o coltivate SCHEDA: 135 FORMA DELL’ ANOMALIA: semiellittica LOCALITÀ: podere Fusaio, vicino al torrente SUPERFICIE TOTALE: 117 mq Bugnone DESCRIZIONE: Sul poggio, completamente COORDINATE: 1.708.783.61; 4.754.467.39 ricoperto da bosco fitto, si nota una traccia di forma COMUNE: Castel del Piano semiellittica che sembra essere originata da una QUOTA: 410 m crescita anomala delle piante. La superficie totale CARTOGRAFIA: IGM 1: 25000; REGIONALE è pari a 117,7 mq e nella parte sommitale si 1: 5000 individua un piccolo rudere, di cui, a causa della POSIZIONE: sommità forte luminosità della foto in corrispondenza di TIPO DI VEGETAZIONE: coltivazione erbacea questo preciso punto, non è possibile definirne né TIPO DI TRACCIA: di sopravvivenza la forma né i contorni precisi. FORMA DELL’ ANOMALIA: di sopravvivenza CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE: SUPERFICIE TOTALE: 484 mq rilievo con versanti poco accentuati DESCRIZIONE: Sembrerebbe trattarsi di una VOLI ANALIZZATI: Eira 86A N° 951 - 52 torre ancora in elevato, delimitata a nord, da un SCALA FOTOGRAMMA: 1:13760 muretto poligonale. Anna Caprasecca CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE: rilievo con versanti poco accentuati VOLI ANALIZZATI: Eira 86A N° 951 - 52 SCALA FOTOGRAMMA: 1:13760

SCHEDA: 13 LOCALITÀ: Montoto COORDINATE: 1707241 4750474 COMUNE: Arcidosso QUOTA: 810 m CARTOGRAFIA: IGM 1: 25000;

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Le Comunità di castello sull’Amiata e nei domini aldobrandeschi nel Duecento

Odile Redon Università di Parigi VIII

el Duecento, sull’Amiata, nella Maremma e sulle Colline Metallifere, che sono le zone aldobrandesche, la stragrande maggioranza delle popolazioni Nviveva in abitati concentrati e fortificati, cioè in castelli (castra); se ora osserviamo il paesaggio delle stesse zone, possiamo quindi immaginare che il disegno delle presenze umane in questo periodo fosse grosso modo paragonabile a quello attuale. Era invece essenzialmente diverso da quello che parzialmente si può ricostruire per i secoli VIII-X, un “paesaggio sepolto”, scriveva Chris Wickham, tale fu il cambiamento (o i cambiamenti), designato con il termine di “incastellamento”, che tra X e XIII secolo portò le popolazioni rurali a raggrupparsi all’interno degli insediamenti fortificati detti “castelli”1. Gli abitanti di un castello, che vivevano per lo più dello sfruttamento del territorio circostante (ossia la “curia” o distretto) dove avevano le loro terre, si associarono in una Comunità o Comune (Comune, Comunitas, universitas) fortemente identificata con il luogo stesso; quindi il medievale Comune di castello non corrisponde alla circoscrizione introdotta nell’Italia moderna con lo stesso nome di Comune, che ora unisce, sulla carta amministrativa della provincia, più abitati o castelli. Per inquadrare la storia di queste unità insediative, politiche, economiche, sociali, abbiamo localmente un punto di riferimento storiografico con gli atti del convegno di Abbadia San Salvatore del 1986, pubblicati nel 1989 a cura di Mario Ascheri e 2 Wilhelm Kurze . Ho avuto il piacere di partecipare a questo convegno, che resta per molti di noi un felice ricordo ed è diventato un punto fermo delle conoscenze storiche sulla zona; dopo una quindicina d’anni, m’interessa cogliere l’occasione di questo nuovo incontro per riprendere appunto l’argomento dei Comuni – che avevo studiato negli anni precedenti al convegno di Abbadia – ora, con l’arricchimento dei molti studi fatti negli ultimi decenni. Sono studi, quelli – locali o no – che non sempre hanno avuto come mira essenziale l’argomento comunale ma che in un certo modo lo hanno rilanciato: indagini archeologiche, rinnovamento degli studi sulla signoria – cioè l’esercizio del potere sui coltivatori della terra –, studi paralleli sulla servitù e genericamente sui gradi vari di dipendenza dei sudditi, indagini complessive sulle famiglie che esercitavano il potere, studi demografico-territoriali fondati sul trattamento informatico dei dati seriali (essenzialmente fiscali).

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I castelli di cui osserveremo le Comunità, risalivano o a una prima fase dell’incastellamento _ i primi, sull’Amiata, furono Montelaterone e Radicofani (secoli X- XI) _, o alla seconda fase, dall’inizio del Duecento, secolo durante il quale furono eretti (come Radicondoli, Belforte nei domini aldobrandeschi delle Colline Metallifere, Castel di Badia/Abbadia San Salvatore sulla terra dell’abate) o profondamente ristrutturati (Castiglione d’Orcia). È certamente importante capire se le Comunità abbiano avuto un ruolo in queste creazioni e ristrutturazioni. Ma prima è necessario ricordare alcuni elementi di definizione, e, più precisamente, spiegare il modo in cui lo storico entra in contatto con le Comunità: una presentazione documentaria, che nello stesso tempo riassume le conoscenze precedenti.

Conoscenza delle Comunità

S’intende per Comunità, o Comune, l’associazione delle persone che abitavano – nel nostro caso – un castello. Di queste associazioni abbiamo una conoscenza diretta quando sono sopravvissuti elementi dei loro archivi; si sa che questi archivi sono esistiti perché ne rimangono tracce3, ma non esistono più in quanto tali per i Comuni dell’Amiata e della Maremma nei secoli che ora consideriamo e, alla meglio, gli elementi superstiti si ritrovano in altre sedi: archivi notarili, archivi degli Stati (Comune sovrano di Siena, Pisa o Orvieto, Regno/Impero), archivi signorili: nella zona considerata, il bacino documentario più ricco è certamente il Diplomatico di San Salvatore del Monte Amiata – ora all’Archivio di Stato di Siena4 – che era l’archivio del monastero. La cancelleria abbaziale vi raccoglieva le carte che riguardavano la gestione ecclesiastica e l’amministrazione dei castelli di cui il monastero era signore. Nei casi più favorevoli disponiamo di alcuni documenti emanati dal Comune. Quelli più organici sono gli statuti, che regolavano la propria vita della Comunità, dei suoi membri e dei suoi luoghi. Altri, di portata più limitata, sono i contratti a fine economico (acquisti, vendite, mutui) rogati da un notaio. Gli atti di procura con cui la Comunità delegava ad uno o più uomini l’incarico di rappresentarla al momento di attivare una decisione testimoniano l’esistenza della detta Comunità come persona giuridica. Sono essenziali i documenti che definivano i rapporti del Comune con il signore del castello, le cosiddette ‘carte di franchigia’. Gli statuti più antichi che conosciamo nella zona sono quelli di Radicofani (solo un frammento, del 1255)5, di Monticello-Amiata/Montepinzutolo (del 1261)6, di Tintinnano/Rocca d’Orcia (del 1297)7. Ma alla metà del Duecento, e probabilmente anche prima, ogni Comunità di castello aveva il proprio statuto; si trovano per esempio allusioni a statuti di Belforte e di Radicondoli nel 1221, di Abbadia nel 12368. Lo statuto era un testo evolutivo, periodicamente aggiornato, a seconda delle necessità della vita pubblica, da una commissione nominata concordemente (se possibile)

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dal Comune e dal suo signore. Per motivi legati al modo di conservazione e di trasmissione dei testi ci è pervenuta la redazione di un momento piuttosto che di un altro. La carta di franchigia invece segna un momento preciso della storia del Comune. Era concessa dal signore e quindi non emanava direttamente dal Comune, ma evidentemente rispondeva alle richieste dei sudditi, normalmente in seguito ad un conflitto, al minimo dopo una contrattazione, che sarà stata per lo più orale e che spesso, quindi, non è testimoniata direttamente. Regolava i prelievi signorili e i servizi dovuti dai dipendenti, definiva la condizione delle persone relativamente alla libertà di movimento e alla trasmissione dei beni, riconosceva alcune prerogative al Comune – o università – personificato dai consoli o da un sindaco designato attraverso un atto di procura. Sono conosciute le franchigie di Suvereto, concesse dai conti Aldobrandeschi nel 1201, e quelle di Tintinnano (Rocca d’Orcia) del 1207, in cui i signori Tignosi si richiamavano ai principi di “equità, giustizia, libertà”. I successivi abati di San Salvatore del Monte Abbadia, al ritmo vario delle rivendicazioni nei castelli, emanarono in nome del monastero delle carte di franchigia: nel 1212 per Castel di Badia, nel 1289 per Montelaterone, nel 1311 per Monticello. ottenne franchigie dal signore Ranieri nel 1233. Grosseto dal conte Ildibrandino VIII Aldobrandeschi nel 1222, ma in quanto città rappresenta un caso particolare. Molti Comuni sono conosciuti solo indirettamente per lungo tempo, quando sicuramente esistevano già da più anni. La circostanza è spesso creata dal giuramento che il signore richiedeva agli abitanti di un castello o per ottenere conferma della loro fedeltà o per impegnarli al rispetto di un patto che aveva contrattato per se stesso e per i suoi castelli. Al momento del giuramento sono nominati per primi i consoli o altri ufficiali comunali, prima delle singole persone, senza altra considerazione al Comune. Spesso è la segnalazione dei consoli che attesta l’esistenza di una Comunità organizzata, così per molti castelli del dominio aldobrandesco all’inizio del Duecento: Magliano e nel 1203; Radicondoli 1210; Sovana, 1213, 1221 e quest’ultimo anno Belforte, Pitigliano, Saturnia; 1223, Castiglione d’Orcia9. Le carte di franchigia dell’inizio del Duecento definiscono la posizione dei consoli, la cui designazione è più o meno controllata dal signore secondo il rapporto di forza tra lui e il Comune: a Tintinnano un console comunale appare come “pendant” di un console dei signori (ma non si conosce la procedura di elezione), ad Abbadia, il primo articolo della carta emanata dall’abate conferma il consolato come un uso antico (“che avete avuto da molto tempo fino ai nostri giorni con il permesso dei nostri predecessori e il nostro nei nostri giorni”, questo nel 1212), consentito dai precedenti abati e la carta è indirizzata ai due consoli del Comune. Il signore di Torniella nel 1233, oltre a riconoscere il consolato, ammette che la scelta del Comune sia completamente libera: “come vorrete, senza di me”10. Tra gli anni 1230 e 1260, la figura del console (o dei consoli) tende ad essere sostituita da quella di un rettore o podestà (come era successo cinquant’anni prima nelle città).

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I due termini “rettore” e “podestà” sono usati indifferentemente. Il podestà, come in città, non appartiene alla Comunità ma è scelto fuori tra giuristi o nobili della zona (ad esempio ad Abbadia: il giudice Graziano di Siena nel 1249 o Bonifacio Aldobrandeschi di Santa Fiora nel 1289). Questo passaggio dal console al podestà significa spesso una riduzione dell’autonomia comunale in quanto il rettore rappresenti sia il signore che il Comune: sarà un elemento di ulteriore esposizione. La carica podestarile è annuale com’era quella consolare. La similitudine nell’evoluzione istituzionale dei vari Comuni – che non esclude importanti differenze, tra l’altro nel grado di autonomia – è sicuramente legata alla pratica notarile, che, diffusa nell’intero territorio, dà forma agli atti comunali e inevitabilmente introduce nelle comunità, con la necessaria formulazione, una riflessione sull’esercizio del potere: dall’assemblea di tutti gli uomini, forma di “democrazia diretta” associata all’espressione orale (che per forza ci sfugge), alla delega del potere collettivo a favore di consigli ristretti e di ufficiali: consoli o rettori, camarlenghi, “massari”, garantita pubblicamente per mezzo degli atti scritti dal notaio del Comune. All’attività dei notai siamo debitori di quasi tutta la nostra conoscenza delle comunità medievali.

Comune e incastellamento

La comunità però si riconosce anche nel luogo della sua esistenza, il castello. La forma attuale del castello testimonia certo per il passato, ma dopo almeno sette secoli di occupazione umana non sempre dà un’immagine chiara del luogo di vita medievale. La cinta muraria spesso è crollata; le case si sono sparse intorno... ad esempio la struttura medievale si legge male a , piuttosto bene a Montelaterone. Sono stati quindi decisivi gli studi condotti sul momento stesso dell’incastellamento attraverso i reperti archeologici e i testi, sviluppati per questa zona ormai da due o tre decenni11. Il problema che qui ci interessa è capire se le Comunità abbiano avuto un ruolo nella realizzazione del processo di incastellamento; questo problema si pone in modo più chiaro per i castelli detti dagli studiosi di questo processo “castelli di seconda generazione” (cioè secoli XII-XIII). Infatti, al momento della loro edificazione, i modelli di funzionamento degli abitati raggruppati e fortificati erano già in atto; d’altra parte, la diffusione per tutto il territorio della scrittura notarile dà allo storico gli strumenti per studiare questi modi di funzionamento, se non di creazione. I casi noti sono eterogenei ed è piuttosto raro trovare tracce di un progetto di “incastellamento” che sarebbe stato portato avanti da persone non precedentemente costituite in associazione e non legate ad un preciso luogo. Presentiamo tre casi. Il castello di Montepinzutolo sul fiume , nella signoria di San Salvatore, fu ricostruito nel 1240 nel luogo e con il nome di Monticello, dopo un contratto passato

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tra il signor abate e la Comunità degli abitanti: una quarantina di uomini sono nominati ed i loro portavoce sono un console e sette consiglieri. In questo caso il Comune preesiste, ha chiesto all’abate il permesso di trasferire il castello perché un incendio ha reso disagevole il precedente luogo, ma l’organizzazione del “terroir” rimane come era prima. Gli uomini edificheranno il castello: all’interno faranno una chiesa per il monastero e delle case di abitazione per le loro famiglie, all’esterno provvederanno alla cinta muraria, con porte alte e forti. Questa cinta è stata completata nei decenni successivi, come viene testimoniato dalle revisioni dello statuto (rubr. 76). Il contratto prevede discretamente l’arrivo di nuovi residenti (“altri che avessero voluto venire ad abitare nel medesimo luogo”12) e soprattutto rinnova la sottomissione degli uomini al signore, compresi il pagamento delle redevances, il servizio militare e la guaita, l’obbligo di giurare fedeltà e il riconoscimento globale della signoria e giurisdizione dell’abate. Esplicitamente i residenti, sudditi del monastero di San Salvatore, conservano i poderi che tenevano dal signore e, a parte l’esenzione dei dazi per 6 anni e dei terratici per 3, non vedono cambiare la loro condizione. Il “reincastellamento” pare effettuato d’accordo tra Comune e signore. A Radicondoli, nel dominio aldobrandesco, il Comune è attestato già al momento della fondazione del castello nel secondo decennio del Duecento. Il tessuto urbanistico, ricostituito com’era all’inizio del Trecento, rivela una struttura allungata da est ad ovest, predisposta all’abitazione delle famiglie più che alla difesa13. Le case erano disposte a schiera, lungo vie parallele dirette est-ovest come l’asse principale. All’incrocio di quest’ultimo con l’asse perpendicolare si sviluppava una grande piazza. Quattro chiese erano ubicate all’interno della cinta muraria ma verso l’esterno del castello; “riproducevano” con le stesse intitolazioni le cappelle che si trovavano prima nelle zone rurali. La loro posizione entro le mura rispecchiava quella degli insediamenti anteriori – mi riferisco agli studi di Roberto Farinelli e Andrea Giorgi14 e di Chiara Cucini. Farinelli e Giorgi mostrano che il processo che ha condotto alla nascita del castello di Radicondoli si è svolto tra il 1172 e il 1210; ha significato la concentrazione in una nuova sede, vicina ad un piccolo castello (che diventò il Castelvecchio), di una popolazione che prima era sparsa in piccoli centri rurali. I nuovi “castellani” in un certo modo integrarono al castello le primitive cappelle e si può ipotizzare che i gruppi di fedeli legati alle chiese “rifondate” all’interno siano stati i primi nuclei del Comune di castello, forse addirittura anteriori al castello stesso. L’iniziativa dell’incastellamento a Radicondoli è venuta dai signori locali, probabilmente fedeli degli Aldobrandeschi, che chiesero (nel 1172) ai canonici della cattedrale di Volterra il permesso di trasferire i loro uomini e le cappelle rurali verso il nuovo insediamento. L’attività comunale è attestata contemporaneamente alla costruzione del castello che è datata agli anni 1210-1213. Nei primi anni il Comune fu governato alternativamente da rettori (1212, 1217, 1220) o da consoli (1210-1211, 1213, 1221): così è stato registrato nella memoria dei testimoni interrogati negli anni

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1240 e si può ipotizzare che tale alternanza rimandi ad un dibattito interno sulla gestione della Comunità. Nel 1221, la popolazione era già importante poiché 320 uomini adulti, dietro ai loro consoli, confermarono con giuramento il patto dei conti Aldobrandeschi con Siena. I conflitti con il vicino Comune di Mensano nel 1222 evidenziano la forza espansiva e l’organizzazione adeguata del Comune. Sembra quindi legittimo concludere che il Comune di Radicondoli abbia aderito immediatamente al progetto signorile di incastellamento e lo abbia fatto suo, partecipando attivamente alla sua realizzazione. Il vicino castello di Belforte presenta un caso analogo a scala un po’ più modesta: 260 uomini giurarono il patto del 1221. Il castello di Castiglione d’Orcia fu completamente ristrutturato tra il XII secolo e la prima metà del Duecento, inglobando il Castelvecchio preesistente; l’ampliamento, associato alla concentrazione del popolamento e al cambiamento delle strutture difensive, fu promosso dai conti Aldobrandeschi, dal monastero di San Salvatore e dall’eremo di San Benedetto del Vivo – tutti e tre possedevano dei diritti signorili a Castiglione – e dalla Comunità15. I nuovi abitanti venivano per lo più da abitati vicini e il raggruppamento fu realizzato in forma di borghi – con case costruite a schiera – disposti intorno al Castelvecchio. La parte più alta dell’abitato mantenne il carattere difensivo. Nella prima metà del Duecento Castiglione d’Orcia conobbe un rapido decollo demografico (200 capifamiglia giurano obbedienza a Siena nel 1251)16 ed economico, che agevolò ulteriormente il processo di organizzazione comunale; nei primi decenni del Duecento la Comunità è governata da un castellano e da una magistratura consolare (come si legge in una vertenza di confine del 123317). L’organizzazione del territorio risale molto probabilmente a questo momento di espansione. Infatti, nella struttura che si legge ancora all’inizio del Trecento, sembra il risultato di una pianificazione, che potrebbe aver accompagnato quella della costruzione dei borghi. È da manuale: aree concentriche a partire dal castello: orti, vigneti, campi dedicati alla cerealicoltura e prati di fondovalle, infine boschi e pascoli sulle pendici dell’Amiata. Le terre dei “castellani” erano dislocate nei diversi “quartieri” e i beni comunali erano particolarmente estesi nell’area montana18. Gli abitanti e il Comune hanno evidentemente collaborato allo sviluppo del castello e del suo territorio e ne hanno approfittato; è quindi possibile ipotizzare – anche se non accertare – che fossero stati partecipi del progetto iniziale.

Governo dei Comuni

Nel Duecento i Comuni castrensi, a differenza dei Comuni cittadini (ad. es., nella zona, Siena o Orvieto), non godono una piena autonomia. Il potere nei castelli è quindi sempre diviso, più o meno pacificamente, tra un signore (o più signori) e il locale Comune. Scegliamo alcuni punti di osservazione. Un castello è oggetto di contesa tra due signori: tale conflitto è scoppiato a Montepinzutolo

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e il caso viene esposto nel luglio 1240 davanti al giudice della magna curia imperiale Taddeo d’Adria. Il dissenso porta sul prelievo signorile. L’abate di San Salvatore rivendicava il suo diritto di “ricevere dal castello le prestazioni che voleva”mentre accusava il conte Guglielmo Aldobrandeschi di aver preteso indebitamente dallo stesso castello, come il defunto padre Ildibrandino (VIII), e riscosso con violenza fisica varie prestazioni in natura: biade e capi di bestiame o animali da cortile. Gli uomini si presentano per testimoniare in quanto individui soggetti al prelievo e in questo caso alle violenze; il Comune non è nemmeno citato, evidentemente perché in questo caso il conflitto supera le sue prerogative. Siamo fuori di un contesto di civile convivenza, e infatti la pacificazione con la giustizia è richiesta all’imperatore19. Se in certi momenti della storia di un castello sono riconosciute reciprocamente, e al livello più alto dei poteri pubblici, la legittimità del signore e la rappresentatività del Comune – un riconoscimento esplicito all’atto di scrivere una carta di franchigia – le competenze si trovano divise. Il signore (o i signori) riscuote le prestazioni ed i servizi consueti, e i dazi pubblici se detiene il banno, decide in materia di “politica estera”, cioè la pace o la guerra e la scelta dei nemici. Il Comune è responsabile rispetto al signore dell’ordine interno, cioè della polizia, garantisce la vita economica (produzione e scambi), tiene le finanze; gestisce la vita collettiva secondo le regole esplicitate nello statuto: culto del santo patrono, rispetto della convivenza civile, protezione dei beni privati – case, campi, alberi e raccolti –, impianto e manutenzione delle strutture pubbliche: strade, piazze, fonti, mulini, fortificazioni. La giustizia è esercitata a secondo dei casi dal Comune o dal signore; in genere i crimini sono giudicati dal signore, che riceve anche gli appelli, i casi minori dal Comune. Il Comune del castello di Abbadia San Salvatore elabora nel 1299 con il monastero una divisione particolarmente precisa – direi esemplare – delle competenze, affinata in lunghi anni di contese. In tutte le varie funzioni, il Comune, per sua natura collettiva, deve essere rappresentato; il problema della rappresentanza è complesso e qui si deve provare a chiarirlo. In senso stretto, il Comune sarebbe stato l’insieme degli abitanti del castello; si realizzava più precisamente nell’assemblea di tutti gli uomini adulti o dei capifamiglia, detta anche “parlamento” o contio. Di queste assemblee le tracce sono rare perché il loro procedimento era per definizione orale; invece lo storico conosce bene la rappresentanza (o procura o delega) perché implica l’uso dello scritto (e il lavoro notarile). Il parlamento può ancora essere convocato nei Comuni castrensi quando l’uso si è praticamente perso in città, per evidenti motivi demografici. L’abate di San Salvatore lo riunisce sulla piazza di un suo castello quando vuole entrare in relazione con tutti i sudditi del detto posto: ad esempio, il 5 febbraio 1262, a Montepinzutolo (Monticello) ha fatto chiamare dal banditore tutti gli uomini per ricevere il loro giuramento di fedeltà e infatti sono 117 a dichiarare concordemente che sono “uomini del monastero”, sottoposti “sia personalmente che per i beni”20. Qui l’assemblea sembra avere l’unica funzione di far accettare alle singole persone la loro dipendenza, ma

GLI ALDOBRANDESCHI 71 Le Comunità di Castello non è completamente vero perché in un’assemblea dello stesso tipo, lo stesso anno, ad Abbadia San Salvatore, una minoranza relativamente importante (41 contro 197) si assumeva il rischio di rifiutare all’abate il giuramento di fedeltà21. Piuttosto che riunire un’assemblea per forza pesante, s’istituisce per le banali consultazioni il consiglio. I consiglieri sono in numero molto ridotto rispetto al parlamento e il modo di sceglierli fra gli uomini adulti è raramente precisato22. Se si deve trattare un singolo caso, la Comunità usa un modo diverso di farsi rappresentare: dà la procura a un sindaco, designato dall’assemblea o dal consiglio; gli esempi sarebbero numerosissimi: cito Bovacciano, sindaco del popolo di Tintinnano che s’impegna per il detto popolo a rispettare la carta di franchigia del 1207. Per l’ordinaria amministrazione il Comune delegava le sue prerogative a vari ufficiali per un anno o per un semestre: il camerario, responsabile delle finanze, era sempre il secondo personaggio del Comune, dopo il rettore, di cui normalmente faceva le veci con il titolo di vicario quando il primo magistrato era assente. Ogni anno un notaio aveva l’incarico delle scritture del Comune, insieme ad una funzione di consigliere giuridico; anche lui poteva fungere da vicario del podestà. Vari incarichi riguardavano la polizia nel castello, la sorveglianza delle strade e dei campi: balitori, camparii, viarii; i nunzi o i “massari” avevano delle mansioni generiche, qualche volta semplicemente occasionali. Torniamo al rettore o podestà, che abbiamo già presentato sopra. È un personaggio chiave per capire l’istituzione comunale a partire dalla metà del Duecento nei domini ampi come la signoria del monastero di San Salvatore o nella contea aldobrandesca (o nel contado senese23). Il rettore, in funzione per un anno, giura di “reggere, governare, difendere e mantenere [il] castello con il suo distretto e i suoi abitanti... di fare giustizia a tutte le persone che lo chiederanno”24, esercita la giustizia ed esegue le decisioni prese dal consiglio: in qualche modo personifica il potere nel Comune, contemporaneamente quello del Comune stesso e quello del signore. A Castel di Badia, la figura del podestà (associata a quella dei principali ufficiali) è stata motivo di contesa tra l’abate di San Salvatore e il Comune. Nel 1251, l’abate affermava di poter “ritenere tra le sue mani il governo del castello” (retinere regimen in dicto castro ad manus suas) ma ammetteva la nomina di un podestà, incaricato particolarmente della giustizia. In un documento in cui l’abate elencava tutti i suoi diritti sul castello, ricordava che il podestà rendeva giustizia in nome suo e divideva con lui i redditi dei placiti; ma era il Comune a pagarlo. L’abate avrebbe avuto la capacità di scegliere il podestà ma consentiva, “per la malignità dei tempi”, dice in altro documento (del 1258), a farlo eleggere in parlamento; manteneva però un controllo sulla designazione e esigeva il giuramento dell’eletto. I podestà ricordati nel 1251 sono tutti forestieri, cavalieri o giudici, di Siena, Orvieto o Acquapendente25, come quelli che conosciamo con ulteriori documenti, così il visconte di Campiglia nel 128826, il conte Bonifazio di Santa Fiora nel 1289. La loro funzione li conduce ad arbitrare tra il signore e il Comune o qualche persona appartenente al Comune: così nel 1249, il giudice Graziano di Siena dà ragione al monastero contro un tale

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Pietro Ingilese, notorio oppositore alla signoria abaziale, e lo condanna a restituire la terza parte di un mulino che possedeva indebitamente. Il conte Bonifazio (II) di Santa Fiora, podestà di Abbadia San Salvatore nel 1289, è confermato come arbitro dal Comune e dall’abate, che erano in conflitto a proposito di una gualchiera comunale (abusiva, diceva l’abate) e di alcuni diritti esercitati (abusivamente?) dal Comune27; rende una sentenza motivata ed equilibrata. La procedura si è svolta “nel palazzo del cassero di Santa Fiora, dove lo stesso signore dimorava”. Si osserva quindi che il conte-podestà non risiedeva ad Abbadia; ma non è un caso particolare: i rettori/podestà, comunemente, non risiedevano nel “loro” castello: Graziano è spesso presente a Siena nel 1249, mentre esercita la funzione podestarile ad Abbadia28. Le norme senesi prevedevano e regolavano la presenza e l’assenza dei rettori nella loro sede. Le funzioni governative erano delegate, come abbiamo già detto, ad un vicario: camerario o notaio del Comune; il conte Bonifazio manda un notaio del proprio “entourage”, Alessio da Suvereto. A Monticello la norma dell’elezione podestarile è analoga a quella di Abbadia ma nel contesto più pacifico di una signoria accettata. Montelaterone, invece, precocemente attratta nell’orbita del Comune di Siena, s’impegna dalla metà del Duecento, nonostante la sua appartenenza alla signoria degli abati, ad eleggere ogni anno un rettore senese; il problema non è affrontato nella carta di franchigia “concessa” dall’abate al Comune, l’8 gennaio 1289. Il governo dei castelli resta generalmente regolato con accordi bilaterali Comune/signore. Non sembra che ci sia stata nel Duecento una uniformazione dell’istituzione comunale nei domini del monastero di San Salvatore, come avveniva nello stesso periodo (fino ad un certo punto) all’interno del contado senese. Nella contea aldobrandesca Simone Collavini ipotizza un disegno di uniformazione più avanzato29; certo i conti dovevano ormai tener conto delle Comunità, ma l’incertezza della terminologia, particolarmente l’uso indifferenziato del termine “vicario”, non permette di andare molto più avanti.

Per concludere: villani e cittadini

Abbiamo finora considerato la vita pubblica, ma la Comunità è composta di individui o piuttosto di famiglie: la famiglia è l’unità di vita e di lavoro, associata al possesso di una casa nel castello e di terre nel distretto castrense; dietro gli uomini presenti al parlamento, ci sono le donne e i bambini. Gli uomini delle Comunità hanno lottato per ottenere la libertà del matrimonio, la libera disposizione dei beni e la loro trasmissione ai figli; le carte di franchigia testimoniano il successo, più o meno tardo, di queste lotte. Gli abitanti del Castel di Badia avevano fatto riconoscere nella carta del 1212 il loro diritto a trasmettere i beni tra padre e figlio, zio e nipote e la libertà di vendere, dare, impegnare le terre che tenevano dal monastero. Quelli di Monticello devono aspettare il 1311 per avere conferma degli stessi diritti, addirittura con certe

GLI ALDOBRANDESCHI 73 Le Comunità di Castello riserve. “Tenere le terre dal signore” significava che i lavoratori, impegnati anche nella difesa del castello, non avevano la piena proprietà delle terre che coltivavano, anche se avevano ottenuto ampie garanzie di possesso. Le terre e le case appartenevano in ultima istanza al signore e i “manenti” pagavano per conservarne l’uso30. La loro libertà di movimento era limitata dalla necessità di conservare i beni che erano anche il loro mezzo di lavoro. La carta di Tintinnano esordiva con una famosa invocazione all’equità, alla giustizia e alla libertà. L’attività dei Comuni testimonia una vita collettiva ordinata, attenta alla convivenza civile, alla qualità della vita privata, all’equilibrio della vita economica. Ma gli uomini che collettivamente agivano come cittadini responsabili, in altri contesti erano minorati: i “liberi” di Tintinnano, quando furono venduti al Comune di Siena, poi ai nobili banchieri Salimbeni, riconobbero individualmente la loro condizione di dipendenza – erano “villani” _, pur rivendicando sempre l’applicazione della carta di franchigia. Gli uomini del Castel di Badia lottavano a viso aperto contro il signor abate per gestire a loro favore il territorio del castello; quelli di Monticello venivano a patti... In tutti i castelli, con rapporti di forza diversi, gli artigiani e i lavoratori della terra vivevano contemporaneamente come “cittadini” nella vita comunale e “villani” nel rapporto signorile.

Note: 1 A Tintinnano non è usato il termine latino castrum o castellum, ma il termine arx o rocca; infatti la designazione attuale è Rocca d’Orcia. Si veda comunque CH. WICKHAM, Comunità e clientele nella Toscana del XII secolo. Le origini del Comune rurale nella Piana di Lucca, Roma 1995. 2 L’Amiata nel Medioevo, a cura di MARIO ASCHERI, WILHELM KURZE, atti del Convegno maggio- giugno 1986, Roma 1989. 3 A Montauto d’Ardenghesca le carte, i libri, tutte le scritture del Comune erano tenute in una “ cassetta ”, Statuto di Montagutolo dell’Ardenghesca, a cura di L. POLIDORI, in Statuti senesi scritti in volgare Bologna, 1863, rubr. 48, p. 16, 88, p. 26. 4 Un’altra parte si trova nell’Archivio di Stato di Firenze. 5 R. PIATTOLI, Lo Statuto del Comune de Radicofani dell’anno 1255 (frammento), “Bullettino senese di storia patria” (da ora in avanti BSSP), 42, 1935, pp. 48-65. 6 I. IMBERCIADORI, Constitutum Montis Pinzutuli (Monticello Amiata, secolo XIII), “BSSP”, 44, 1937, pp. 3-34; traduzione italiana in N. MECHINI e O. REDON, Un Comune medievale e le sue scritture. Da Montepinzutolo a Monticello Amiata, Cinigiano, 1997, pp. 29-35. 7 Inedito, all’Archivio di Stato di Siena (da ora in avanti ASS), Statuti dello stato 114. Commentato con molte citazioni in L. ZDEKAUER, La carta libertatis e gli statuti della Rocca di Tintinnano (1207-1297), “BSSP”, 3, 1896, pp. 327-376. 8 Invece i primi statuti che conosciamo per queste Comunità sono del 1382 per Belforte, 1412 per Radicondoli, 1434 per Abbadia San Salvatore. 9 Vedi S. M. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi da “conti”

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a “principi territoriai” (secoli IX-XIII), Pisa 1998, p. 451 s. I titoli abbreviati rimandano alla Bibliografia in fondo all’articolo, che contiene le opere più spesso citate. 10 Il testo delle carte di Tintinnano, Abbadia San Salvatore, Torniella è in O. Redon, Uomini e Comunità del contado di Siena nel Duecento, Siena 1982, pp. 136-175. 11 Si veda il volume Castelli. Storia e archeologia del potere nella Toscana medievale, I, a cura di R. FRANCOVICH e M. GINATEMPO, Firenze 2000. 12 Testimonianze medioevali per la storia dei Comuni del Monte Amiata, a cura di N. BARBIERI e O. REDON, Roma 1989, p. 45. 13 La struttura è stata ricostituita da R. Farinelli e A. Giorgi, in Radicondoli. Storia e archeologia di un Comune senese, a cura di C. CUCINI, Roma 1990. Questa integrazione delle chiese all’interno della nuova struttura fortificata ricorda il processo analogo nella fondazione della città de L’Aquila. 14 Ibid. e in Castelli..., pp. 245-249. 15 Sono ancora qui dipendente dalla documentazione presentata da R. FARINELLI e A. GIORGI, “Castellum reficere vel aedificare” il secondo incastellamento in area senese. Fenomeni di accentramento insediativo tra la metà del XII e i primi decenni del XIII secolo, in Fortilizzi e campi di battaglia nel Medioevo attorno a Siena, a cura di M. MAROCCHI, Siena, 1998, p. 157-263. 16 ASS, Diplomatico Archivio delle Riformagioni (D. Rif.), 5 marzo 1251. 17 La quale venne trascritta in un atto di confinazione del 1335: ASS, D. Rif., 8 agosto 1335. 18 Sorgevano conflitti di confine (particolarmente con Seggiano e il monastero del Vivo), legati per gran parte all’uso del bosco, conteso tra pascolo/legnatico e attività siderurgiche. 19 Un lungo estratto del documento in Testimonianze…, pp. 29-39. 20 Verbale e traduzione italiana in N. MECHINI e O. REDON, Un Comune medievale e le sue scritture…, p. 40 s. Vedi anche il verbale del parlamento di Montepinzutolo del 2 marzo 1276 in Testimonianze…, pp. 59-65. 21 O. REDON, Uomini e Comunità..., p. 104. 22 Con l’eccezione di Tintinnano, vedi Statuto citato sopra a nota 5, I-43, c. 4v. La designazione dei consiglieri come degli altri ufficiali combina cooptazione ed estrazione a sorte. 23 Vedi O. REDON, Uomini e Comunità..., pp. 181-185. 24 Testo del giuramento del rettore nello statuto di Montepinzutolo, in N. MECHINI e O. REDON, Un Comune medievale e le sue scritture…, p. 30. 25 Doc. 5 in Testimonianze…, p. 55 s.; vedi anche O. REDON, Uomini e Comunità..., particolarmente p. 133. 26 ASS, Diplomatico San Salvatore del Monte Amiata (D. SSMA), 28 aprile 1288. 27 ASS, D. SSMA, 25 e 28 marzo, 3, 6 e 10 settembre 1289 e Testimonianze…, pp. 77-88. La funzione del podestà è normalmente annuale e affidata come abbiamo detto prima ad un miles o iudex forestiero eletto dal Comune e dal signore. Non mi sembra indispensabile immaginare un’azione di forza del conte Aldobrandeschi (S. M. Collavini, “Honorabilis domus...”, p. 453, n. 72). 28 Vedi O. REDON, Un citoyen au XIIIe siècle, le juge Graziano de Sienne, in La Toscane et les Toscans autour de la Renaissance. Cadres de vie, société, croyances. Mélanges offerts à Charles-M. de La Roncière, Aix-en-Provence, 1999, p. 55-75. Comunque le norme senesi prevedevano e regolavano la presenza e l’assenza dei rettori nella loro sede. 29 S. M. COLLAVINI, “Honorabilis domus...”, p. 451 ss. 30 “Mélanges de l’Ecole française de Rome, Moyen Âge”, “La servitude dans les pays de la Méditerranée occidentale chrétienne au XIIe siècle et au-delà: déclinante ou renouvelée?” Actes de la table ronde de Rome, 8 et 9 octobre 1999, 112-2, 2000, pp. 633-1055.

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Un’altra grande famiglia del senese: gli Ardengheschi

Roberto Rocchigiani Accademia degli Intronati di Siena

a casata aldobrandesca rappresenta un’anomalia nel quadro della Toscana carolingia. Di origine longobarda e lucchese, la famiglia finì con l’affermare il Lsuo potere in vasti tratti della sezione centro-meridionale della regione, per restringersi infine attorno al Monte Amiata e a Pitigliano, persistendo qui fino all’età moderna attraverso rami imparentati con gli Sforza e gli Orsini. La Marca di Toscana e lo “speziosissimo comitato” degli Aldobrandeschi costituirono due entità in certo senso contrapposte, ed è significativo che la ben maggiore durata del potere degli Aldobrandeschi rispetto a quello dei Marchesi di Toscana – che si arrestò in pratica alla morte di Matilde di Canossa (1115) – fu la conseguenza dello scarso peso delle città nell’area maremmana, che rese poco efficienti i tentativi di queste piccole città di estendere la propria giurisdizione nel contado, mantenendosi anzi a lungo i poteri ormai signorili di vescovi e famiglie con ampia presenza degli Aldobrandeschi, dinastia egemone nei 3 comitati-diocesi maremmani (Populonia- Massa, Roselle-Grosseto, Sovana-Pitigliano), nonché nella porzione meridionale del Chiusino, appunto intorno all’Amiata. Ma non è qui il luogo per trattare delle vicende politiche e istituzionali della famiglia Aldobrandesca e dei suoi rapporti con le città e i loro episcopati, con le grandi istituzioni monastiche della zona (in primis con l’Abbazia di San Salvatore), con altre stirpi signorili – quasi tutte legate da patti di colleganza che, nei secoli successivi l’XI, assunsero anche veste di dipendenza feudale – con i comuni rurali dei pochi e grandi castelli. Mi limiterò a parlare di una famiglia che, pur avendo il proprio epicentro al di fuori dell’area dove gli Aldobrandeschi avevano maggiore presenza, ebbe però con la casata rapporti di un certo rilievo. Per trattare degli Ardengheschi occorre brevemente inquadrare la loro azione nell’area senese. Siena, come è noto, nel periodo della massima estensione geografica del suo Comune, raggiunta nel XV secolo, finì per assoggettare in vario modo _ riduzione a contado, patti con i “signori naturali” _ la gran parte della Maremma e dell’Amiata, già egemonizzate dagli Aldobrandeschi. Questa espansione in una terra priva di grandi centri cittadini si caratterizzò con una alternanza di contrasti militari e di accordi con gli Aldobrandeschi e con stirpi signorili ad essi collegate, ma non coinvolse direttamente gli Ardengheschi, salvo in un episodio del 1179, cui

GLI ALDOBRANDESCHI 77 Gli Ardengheschi accenneremo in appresso. Ma torniamo in breve alle vicende senesi. Nel comitato di Siena, che ricalcava nei suoi confini l’antico gastaldato longobardo, molto più vasto della diocesi, si ha memoria, per il IX secolo, solo di due conti, certamente non legati da parentela, a conferma della non ancora affermata ereditarietà della carica: Adelrat e Winigis. Più incerta è la successione a Winigis del figlio Berardo: non sappiamo peraltro se l’attributo comitale da lui esibito si riferisse a una preposizione al comitato senese1. Quello che è certo è la piena evoluzione signorile della famiglia dei discendenti del conte Winigis, che perse l’attributo comitale e si ritagliò una propria area di influenza sul margine nord-orientale del comitato senese _ dove evidentemente si concentravano i suoi interessi fondiari _ venendo in piena luce a partire dagli inizi dell’XI secolo, con la rifondazione del monastero di famiglia, già istituito come femminile nell’867 e ora fatto rivivere come monastero maschile, destinato, con la sua ricca documentazione, a farci conoscere anche le vicende della famiglia fondatrice, che andava assumendo il predicato di Berardenghi2. Alla fine del IX secolo, il tendenziale declino delle famiglie comitali di origine franca, evidenziato dalla moderna storiografia (Fumagalli, Wickham) trova così, nel caso senese, insieme una conferma e una smentita. I discendenti di Winigis persero sì il titolo comitale, ma si affermarono come importante stirpe signorile in una ampia sezione del comitato senese. Per ritrovare traccia di un conte che porti l’attributo “senese” occorre attendere un secolo: cosa era avvenuto nel frattempo dell’istituto comitale? I vecchi conti- governatori carolingi _ legati spesso da un rapporto di fedeltà vassallatica con il sovrano, di stampo ancora prefeudale _ furono sostituiti, a opera di re Ugo e poi degli Ottoni, da personaggi appartenenti per lo più a famiglie di legge longobarda che avevano acquisito veste “signorile”, basando il loro potere sul possesso di vasti, se pure incoerenti, appezzamenti di terreni, frammenti di curtes, spesso incastellati. È questa l’opinione dominante della più aggiornata storiografia, che ammette come alternativa minoritaria la presenza di famiglie oltramontane, per lo più attratte al seguito di re Ugo. Le vicende del potere pubblico nel comitato senese, dopo la preminenza dei primi esponenti di quella che sarà poi la famiglia Berardenga, sono del tutto oscure, per mancanza di documentazione in proposito. È pertanto possibile arguire solo indirettamente l’evoluzione dalla struttura relativamente controllata dall’alto, tipica degli inizi dell’Impero carolingio _ che in Italia ebbe una sorta di prolungamento a seguito dell’attiva presenza di Lodovico II _ a quella disgregata, basata su ordinamenti signorili scarsamente soggetti al lontano potere regio. A differenza che per i Berardenghi, la documentazione non consente di ricollegare la famiglia ardenghesca ai tempi dell’Impero carolingio. Per i Berardenghi – dopo una secolare parentesi – la documentazione inizia con continuità alle soglie del secolo XI: per la vecchia famiglia comitale senese, la perdita del titolo è l’esatta spia di una precoce evoluzione che – appunto nell’arco di un secolo – ha trasformato i discendenti

78 GLI ALDOBRANDESCHI Gli Ardengheschi

dei conti-governatori carolingi in signori di uomini, terre e castelli in un’area determinata. Per gli Ardengheschi tutto è certamente iniziato più tardi. Non sappiamo quale fosse la condizione della famiglia nel IX secolo e nella prima metà del X: la prima documentazione della presenza di componenti questo lignaggio – fregiati del titolo comitale – è ancora degli inizi del secolo XI (o al più della fine del X), coeva, quindi, alla rifondazione del monastero di famiglia dei Berardenghi: e ciò vale a mettere in chiaro risalto le profonde differenze di status giuridico che in quegli anni separavano le due stirpi. Secondo l’ultima ricostruzione del Cammarosano3, il capostipite della famiglia Ardenghesca avrebbe avuto per antenato un personaggio i cui discendenti avrebbero dato origine a 3 stirpi che avrebbero dato alternativamente conti a Siena. Il primo personaggio con l’appellativo di conte senese sarebbe stato, nel 983, Ranieri che può considerarsi capostipite diretto di quelli che si diranno conti Guiglieschi (da Willa, una donna appartenente alla famiglia Carolingia, che entrò _ evidentemente con grande prestigio – per via matrimoniale tra i discendenti di Ranieri). Un ramo collaterale a quello dei Guiglieschi è appunto quello degli ardengheschi. Per alcuni particolari vicende della famiglia ardenghesca nei secoli XI-XII rinvio a quanto da me esposto anni addietro4. In questa sede mi limito ad accennare agli aspetti connessi con la natura dei poteri che i membri della famiglia andarono esercitando sul territorio e ai rapporti con altri potentati dell’area toscana centro- meridionale. Il primo conte certamente appartenente alla famiglia ardenghesca, Ardingo, documentato per gli anni 1007-1037 e qualificato come “comes senensis”, era certo titolare della carica pubblica sul comitato senese. Resta invero da considerare la sia pur subordinata ipotesi del Tabacco, secondo la quale Ardingo avrebbe potuto portare il titolo solo in quanto appartenente a famiglia un cui antenato sarebbe stato titolare del comitato senese5: per le considerazioni sopra esposte, questo è certo vero per i suoi discendenti, mentre la presenza a placiti marchionali e imperiali di Ardingo col predicato di conte “senensis” mi fa propendere per una sua effettiva titolarità della carica pubblica. Esaminiamo ora partitamente l’area nella quale la “vera” famiglia ardenghesca esercitò i suoi poteri signorili. Pur dovendosi sempre avere ben presente l’impossibilità di poter delineare gli esatti confini di un feudo o di una signoria per il massiccio intersecarsi dei diritti, possiamo tentare una ricostruzione sia pure approssimativa dell’ambito della signoria Ardenghesca nei secoli XII-XIII, attraverso l’esame dei vari atti di progressiva sottomissione a Siena6. Per l’epoca precedente, fin qui considerata, si può dedurre una assoluta impossibilità a una precisazione territoriale. I beni dei tre rami della ricostruzione del Cammarosano sono sparsi in tutti i punti del comitato di Siena, con frequenti puntate ad ovest in quello di Volterra, a sud in quello di Roselle e a sud-est in quello di Chiusi. Nessuna “concentrazione” sembra delinearsi per nessuno dei tre rami. È solo a partire dagli inizi del XII secolo che un simile processo si va manifestando con chiarezza, anche se mi sembra che una attenta

GLI ALDOBRANDESCHI 79 Gli Ardengheschi lettura dei documenti possa fare anticipare, per il terzo ramo, alla seconda metà dell’XI secolo l’inizio di uno spiccato addensamento. Infatti ai primi del XII secolo (1109) troviamo il conte Bernardo di Bernardo, certamente da inserire nella discendenza di Ardingo, che agisce da tempo in modo chiaro nell’area di Civitella, investendo di questo castello e di altri beni l’abate dei SS. Salvatore e Lorenzo: e il fu conte Ranieri della fu Gualdrada, che è detto avere compiuto in passato un analogo atto, doveva essere certo attivo da tempo, quindi ben dentro l’XI secolo7. Di più non è possibile affermare: però ritengo che se la fondazione dell’Abbazia dei SS. Salvatore e Lorenzo risalisse al 1070 circa, come ammette il Cammarosano8, la fondazione e la dotazione di beni dovrebbero essere riferite a qualcuno di questi personaggi, dunque già chiaramente “Ardengheschi” per localizzazione dei propri interessi territoriali. Per i decenni successivi, avanti cioè che i rapporti con il Comune senese assumessero un rilievo preminente per la storia del territorio e della stirpe signorile, si può notare come la documentazione rimasta sulla famiglia ci indichi una varia attività nell’area ormai chiaramente determinata (l’Ardenghesca appunto) in presenza di un incipiente orientamento a ulteriori, più minute ripartizioni. Dobbiamo comunque confermare una cesura cronologica, da porsi alla metà del XII secolo, che permetta di distinguere le vicende precedenti l’intervento diretto del Comune di Siena da quelle successive che, introducendo un nuovo, decisivo soggetto, devono essere esaminate, almeno in parte, con differente ottica. Ma quali erano gli effettivi poteri dei conti negli ambiti territoriali nei quali li vediamo presenti? Abbiamo ipotizzato che la famiglia dei “conti di Siena” traesse origine da un ceppo longobardo prescelto all’epoca degli Ottoni (961-1001) a ricoprire la carica comitale senese. Possiamo ipotizzare _ ma si tratta pur sempre di ipotesi _ che il personaggio prescelto _ nel caso Ranieri, conte nel 983 _ avesse già interessi patrimoniali nell’area senese. Di quale natura? Anche se manchiamo di una documentazione specifica in proposito, possiamo ipotizzare che la famiglia fosse titolare di possessi terrieri organizzati in curtes e, come conseguenza pressoché inevitabile, esercitasse da tempo su queste terre _ e sugli uomini che le coltivavano _ i poteri propri della signoria fondiaria che si andavano ormai evolvendo in quelli più ampi della signoria territoriale, estesi anche sui minori possessori delle terre vicine e incentrati sull’organizzazione in castelli: si evidenziava così, con il tendenziale superamento della struttura agraria della curtis, la trasformazione dei titolari da grandi possessori terrieri in signori. La famiglia si andava cioè aristocratizzando: ed è a questo punto che si aggiunse al potere di fatto quello di diritto, con l’attribuzione della carica pubblica di conte, che sanzionava la definitiva promozione sociale della famiglia9. È proprio la rilevanza assunta dai castelli che determinerà il progressivo concentrarsi del potere della famiglia ardenghesca in aree ben definite, indipendentemente dalle mutevoli vicende relative all’effettiva titolarità della carica comitale di qualche

80 GLI ALDOBRANDESCHI Gli Ardengheschi

esponente della famiglia stessa. La famiglia signorile ardenghesca, titolare del possesso di numerosi castelli e delle terre dei relativi distretti10, non risultava inserita nel quadro feudale. A partire dal XII secolo, quando la documentazione, ancora scarsa, si fa tuttavia meno episodica, non troviamo esplicitamente gli Ardengheschi né vassalli di altri potentati, né a loro volta seniores di minori milites. Una significativa eccezione, di cui diremo in appresso, riguardava i rapporti con gli Aldobrandeschi: ma a metà del secolo XII occorre esaminare più da vicino la reale natura che l’istituto feudale aveva in terra di Toscana. Come ho accennato in un breve saggio11, nel Senese e nella Maremma notiamo un uso assai contenuto della tipica terminologia di cui troviamo larghissima traccia in Lombardia (vassalli, valvassori, capitani, ecc.) specie nei secoli dal X al XII: valido indizio per ritenere che nella nostra regione non si ebbe la diffusione della feudalità, intesa nel senso di serie di rapporti di un senior concedente benefici contro la prestazione di servigi, caratteristica dell’evoluzione feudale dell’area lombarda, regione a precoce cultura urbana, dove ancora nell’alto Medioevo il centro dei rapporti e della vita sociale era appunto nelle città. In Toscana, e specie nella sua sezione meridionale, anche la scarsa importanza delle città contribuì in questi secoli a una maggiore semplicità di rapporti, con esclusione delle complesse strutture lombarde. Particolarmente in Toscana l’assenza per tutto il Medioevo post-ottoniano di un effettivo e continuo potere regio, ha impedito, o comunque notevolmente rarefatto, la creazione di una nuova nobiltà di stampo “feudale”, come avveniva in larga misura specie nelle monarchie dell’Europa occidentale e settentrionale e anche in quella napoletana e, fino a una certa epoca, in Lombardia. In Toscana ancora in piena età comunale, quando ormai un nuovo patriziato cittadino si era andato costituendo, si distinguevano nettamente le famiglie dei grandi di contado, discendenti dai vecchi casati di origine soprattutto longobarda e franca che, con l’acquisizione di allodi immuni (o di benefici usurpati, anch’essi immuni) avevano potuto costituire più o meno estese aree signorili che perdureranno spesso fino al XIV secolo e oltre. L’istituto del feudo quale ius in re aliena, tipico dell’evoluzione giuridica lombarda12 non figura nei trattati tra casato ardenghesco e Comune di Siena. Con tutta evidenza in Toscana (e in particolare nella sezione centro-meridionale) non era attecchito il vero legame feudale di tipo lombardo per regolare i rapporti tra nascenti Comuni e potentati di contado. La “nobiltà” toscana (e i veri e propri Ardengheschi ne erano classici rappresentanti), anche dopo le più o meno fugaci comparse alla testa dei comitati, aveva – e accentuava – una tipica presenza extra- cittadina, non aveva mai avuto legami con i vescovi, aveva interessi e mentalità “signorili” e “rurali”. La città aveva avuto, sino a questi anni, uno scarso dinamismo: non si erano instaurati precoci rapporti tra curia vescovile e signori di contado13, di modo che, quando sull’onda dell’espansione urbana che si propagò, alla metà del XII secolo, anche alla parte interna della Toscana, la città iniziò la sua decisa

GLI ALDOBRANDESCHI 81 Gli Ardengheschi penetrazione nel proprio contado, questi rapporti furono più difficili: il rapporto feudale lombardo vi si manifestò in minor misura che nelle zone di più precoci contatti, si profilò subito una più marcata antitesi e una tendenza da parte del Comune, almeno con i signori di contado più caratterizzati, a imporre vincoli di più chiara subordinazione politica. Il tipico rapporto feudale, quindi, elaborato in precisi canoni giuridici quale appare nei “Libri feudorum” non fu adottato – ora e poi – nei rapporti che si andavano instaurando tra città e signori di contado nell’area di nostro interesse. Ma in questi rapporti, solennemente stilati dai notai che riportavano il “verbale” di altrettanto solenni assemblee, si respira pur sempre un’atmosfera feudale, un feudalesimo che evidentemente permeava il mondo giuridico-sociale che esprimeva quelle relazioni. A ben guardare, la classica terminologia feudale non compare: non si parla di vassallaggio e vassalli, seniores e capitanei e tanto meno di feudo. Rapporti di questa natura correvano certo – e ne avremo un tipico esempio proprio in una pattuizione tra conti Ardengheschi e Comune di Siena – ma solo tra personaggi del mondo rurale. Un tentativo di rivitalizzare le ormai inconsistenti strutture istituzionali del Regnum Italiae su basi feudali fu, come è noto, compiuto dall’imperatore Federico I, ma non sappiamo se e come questa volontà imperiale si attuasse nei rapporti con la famiglia Ardenghesca. Possiamo fare qualche tentativo esaminando i complessi atti di alleanza _ sottomissione stipulati tra Ardengheschi e Comune di Siena tra XII e XIII secolo, pochi decenni dopo gli interventi “istituzionali” italiani di Federico I14. Nei “patti” scambiati tra conti Ardengheschi e Comune di Siena in data 6 ottobre 1179, le due parti si giurarono reciprocamente amicizia e aiuto su di un piano formale di parità15. In particolare l’aiuto “contra omnes homines” che le parti si promettono, soffre numerose eccezioni. Così gli Ardengheschi non “aiuteranno” i senesi contro l’Imperatore, l’arcivescovo Cristiano di Magonza, i Pannocchieschi, Ranieri di , i Burianesi, l’abate di S. Antimo, Ranieri Beringeri, i Tignosi, i figli di Melluzzo, Ugo di Valcortese (un Berardengo). Seguono poi esclusioni limitate a singoli rami della casata, esclusioni comprendenti, tra gli altri, il vescovo di Volterra. Tutti questi personaggi avevano evidentemente rapporti con la casata ardenghesca, ma non scorgiamo bene di quale natura (a parte l’ovvia dipendenza dall’Imperatore: ma il titolo di dominus che l’accompagna appare un titolo di onore piuttosto che di superiorità feudale). Tra i personaggi per i quali tutta la famiglia si impegnava a non aiutare i senesi in caso di loro ostilità, troviamo il conte Ildebrandino, “tamquam dominum”. Trattasi di Ildebrandino VII Novello conte palatino (1152-1179, qd. 1193), padre di Ildebrandino VIII e nonno di Bonifacio, primo conte della linea di S. Fiora. Con tutta evidenza esisteva una subordinazione feudale, certo dovuta a qualche terra tenuta a tale titolo dagli Ardengheschi, non sappiamo se per averla avuta in concessione dalla potente casata maremmana o per averla a questa sottomessa per ottenerne la protezione feudale.

82 GLI ALDOBRANDESCHI Gli Ardengheschi

La subordinazione feudale degli Ardengheschi – o almeno di alcuni rami della famiglia – agli Aldobrandeschi, trova conferma in un diploma di Federico II. Gli imperatori erano, fin dal Barbarossa, sostenitori dell’organizzazione feudale dei loro domini. Nel 1221, Federico II confermò a Ildebrandino IX i diritti feudali su molti vassalli, tra cui Bonifacio, conte di Civitella e la sua “domus”16. L’ambito territoriale della signoria Ardenghesca, suddivisa in numerosi rami, è bene evidenziata in due atti del giugno 120217. Nel primo un gruppo di personaggi (tra cui lo stesso abate dell’Abbazia di S. Lorenzo) eletti arbitri (con evidenza dal Comune di Siena), pronuncia un lodo per comporre una pacificazione tra i conti Ardengheschi e il Comune senese. “Pro bono pacis et concordie”, i conti dovranno versare ogni anno 26 denari per ogni massaritia dei castelli e ville su cui hanno giurisdizione. In effetti il censo deve essere corrisposto da chi detiene le singole massaritie; i conti svolgono il ruolo di esattori: come è noto le casate signorili non avevano il “dominio utile” che su di una ben piccola parte dei terreni che insistevano nell’ambito della loro signoria; per i rimanenti ne erano appunto signori e come tali titolari di censi. Evidentemente il nuovo censo dovuto a Siena avrà “alleggerito” la quota di spettanza comitale. Esclusi dall’obbligo di pagare il censo a Siena, oltre agli ecclesiastici, erano i milites, i servi, e (con molte eccezioni) i titolari di minori funzioni, come i portonari. Per dare un’idea della consistenza demografica dei castelli e ville dell’Ardenghesca, indichiamo di seguito il numero di uomini (e talvolta anche donne, evidentemente capofamiglia) che giurarono il patto. Civitella (già Ardenghesca, che ha per incomprensibili ragioni mutato il predicativo in “Marittima”), 167; corte di Sant’Anastasio, Terzinate e Litiano, 82; Fornoli, 75; San Lorenzo, 46; Monteverdi, 10; Monte Codano, 6; Montagutolo, 91; Pari, 94; Casenovole, 24; Castiglione, 68; Tocchi, 27; Petriolo, 24; Montepescini, 52; Valerano, 28; Gonfienti, 42; Montecapraia, 94; Abbazia San Lorenzo e Stigliano, 25. In totale 955 persone; è da osservare che gli uomini che non prestarono il giuramento di pagare i 26 denari furono relativamente pochi, 52 in tutto. A differenza di altre realtà dell’area senese dove la dissidenza appare maggiore, è questo un segno della notevole autorità tuttora goduta dalla casata signorile nella zona. Diverse migliaia di abitanti popolavano il territorio ardenghesco che a nord non si spingeva ormai oltre Rosia, Stigliano e Orgia, scendeva poi lungo le due rive della Merse a Montecapraia, Foiano (S. Lorenzo a Merse), Tocchi, Valerano, Montepescini, Gonfienti (località che, come indica il nome segnava la confluenza della Merse nell’Ombrone), oltrepassava a ovest la Farma, comprendendo Castiglione e Petriolo, e proseguiva a sud lungo la riva destra dell’Ombrone, con Pari, Montagutolo, Casenovole, Monte Codano (). Il limite della signoria Ardenghesca abbandonava poi la direttrice sud e seguendo l’Ombrone nella sua ansa piegava verso ovest, comprendendo l’Abbazia dei SS. Salvatore e Lorenzo, Civitella e Monteverdi. Il confine volgeva poi a nord-ovest, includendo Litiano e Fornoli (località ad est di

GLI ALDOBRANDESCHI 83 Gli Ardengheschi

Roccastrada) e poi verso nord, Tersinate e Belagaio. Scavalcando i rilievi a nord della Farma, la linea di confine passava a est di Monticiano riguadagnando la piana di Rosia. Il territorio Ardenghesco aveva una figura piuttosto stretta, dal formato irregolare, lungo da nord a sud al massimo circa 35 km. e largo, tra ovest ed est, intorno agli 8- 15 km. Era posto al limite occidentale del comitato-diocesi di Siena in zona oggi boscosa e poco popolata e presentava frequenti sconfinamenti in area volterrana e grossetana. Ben più vasta era stata l’area sulla quale esponenti delle tre stirpi della ricostruzione del Cammarosano avevano avuto interessi: ma ora può finalmente parlarsi a piena ragion di signoria territoriale con tendenza alla completezza dei poteri pubblicistici entro i suoi confini e ciò proprio quando questi poteri cominciarono a essere fortemente limitati dall’ingerenza senese.

Note: 1 Cfr. per questa problematica la mia Nota sui conti a Siena fino alla prima metà dell’XI secolo, in “Studi senesi”, LXXXIX, 1977, pp. 430-433. 2 Per queste vicende cfr. P. CAMMAROSANO, La famiglia dei Berardenghi, contributo alla storia della società senese nei secoli XI-XIII, Spoleto, 1974. 3 P. CAMMAROSANO, Le famiglie comitali senesi, in “Formazione e struttura dei ceti dominanti nel Medio Evo: marchesi, conti e visconti nel Regno italico (s. IX-XII)”. Atti del II Convegno (Pisa, 3-4 dicembre 1993). Nuovi studi storici n. 39, Roma, 1996, p. 287 ss.. 4 Dal conte Ardingo ai conti dell’Ardenghesca. Una famiglia e un territorio dell’area senese tra XI e XII secolo in “Bullettino senese di storia patria”, XC, 1983, pp. 7-49. 5 G. TABACCO, Arezzo, Siena, Chiusi, nell’alto Medioevo, in “Atti del Congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo”, Lucca, 3-7 ottobre 1971, Spoleto, 1973, p. 176, nota 48. 6 Cfr. P. ANGELUCCI, Gli Ardengheschi nella dinamica dei rapporti con il Comune di Siena, in “I ceti dirigenti dell’età comunate nei secoli XII e XIII” Comitato di studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana, Atti del II Convegno, Firenze 14-15 dicembre 1979, Pisa, 1982, e ora della stessa Autrice, L’Ardenghesca tra potere signorile e dominio senese (Secoli XI-XIV), Napoli, 2000. 7 L’atto, molto importante per la nostra narrazione, conservato in copia del XIII secolo, si trova nel fondo di S. Maria degli Angeli del Diplomatico dell’A.S.S. (F. SCHNEIDER, Regestum senense, I, 713-1235, Roma, 1911, n. 150, p. 56). Cfr. P. ANGELUCCI, Gli Ardengheschi, cit., p. 121 s., che anticipa al 1108 la datazione del documento (nota 8). 8 La nobiltà del Senese dal secolo VIII agli inizi del secolo XII, in “Bullettino senese di storia patria”, LXXXVI, 1979. Secondo W. KURZE, (Monasteri e nobiltà nella Tuscia altomedioevale, traduz. di L. Piu, in “Atti del V Congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo”, Lucca, 3-7 ottobre 1971, Spoleto, 1973, p. 347 s., nota 32) l’abbazia Ardenghesca risulterebbe tra quelle fondate tra il 978 e il 1010 (cfr. P.F. KEHR, Italia Pontificia, sive Repertorium privilegiorum et letterarum a Romanis pontificibus ante annum MCLXXXXVIII Italiae ecclesiis, civitatibus singulisque personis concessorum, III, Berolini 1908, p. 2, nota 64). 9 Per queste tematiche, cfr. la bibliografia relativa ai vari capitoli di Castelli. Storia e archeologia del potere nella Toscana medioevale. Vol. I, a cura di R. FRANCOVICH e M. GINATEMPO, Firenze, 2000. 10 Cfr. G. VISMARA, La disciplina giuridica del castello medioevale (secc. VI-XII), in “Studia et documenta historiae et iuris, 38” (1972), pp. 1-122, ripubblicato in “Scritti di storia giuridica”, 4, Milano, 1988, pp. 1-133. 11 Qualche osservazione sulla diversità tra il feudo della Toscana centro-meridionale e quello lombardo, in

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“Studi Senesi”, LXXXIX, 1977, pp. 155-165. 12 Cfr. P. BRANCOLI BUSDRAGHI, La formazione storica del feudo lombardo come diritto reale, Milano,1965, specie p. 127 s. 13 I rapporti instauratisi fin dalla seconda metà dell’XI secolo tra la Canonica di Siena e taluni rami di conti Ardengheschi non smentiscono queste affermazioni. Le relazioni tra Canonica e città erano molto meno dirette di quelle tra vescovo e città e, comunque, vi furono solo con quei rami della famiglia che avevano beni e residenza in più immediato contatto con la statica città precomunale. 14 Sulle relazioni tra gli Ardengheschi e il Comune di Siena, cfr. il mio saggio “Dal conte Ardingo ai conti dell’Ardenghesca”, cit., p. 32 s. 15 Cfr. i due documenti in Caleffo vecchio del Comune di Siena, I, a cura di G. Cecchini, Siena, 1931, n. 27, p. 39 s. e n. 28, p. 41 s. 16 Cfr. S. M. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi da “conti” a “principi territoriali” (secoli IX-XIII), Pisa, 1998, p. 414 s. 17 Cfr. Caleffo vecchio, I, cit., n. 78, p. 110 s. e n. 79, p. 112 s.

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La trasformazione urbanistica di Santa Fiora

Carla Benocci Responsabile ville e parchi della Sovraintentenza del Comune di Roma

anta Fiora costituisce un esempio di città fondata di particolare interesse, derivato dalla coincidenza tra il potere familiare degli Aldobrandeschi, il più Sampio tessuto cittadino ed il nucleo religioso: coincidenza che conduce a scelte originali sul piano urbanistico, coesistenti con soluzioni più diffuse soprattutto nel XIII e nel XIV secolo, che meritano un approfondimento, al quale la nuova documentazione emersa e trattata in questo convegno non può che portare nuovi significativi elementi di conoscenza. Sono già note le linee fondamentali dell’insediamento e dello sviluppo tra IX e XIV secolo della città, ad opera della grande famiglia degli Aldobrandeschi e di altri gruppi ad essa collegati. Riassumo i termini della questione, rinviando a quanto finora pubblicato1. Nel nono secolo compare il toponimo di Santa Fiora, attestato in documenti citati in diverse fonti, come la pergamena del 27 giugno 833 riportata da P. Presutti nel suo inventario del 1876 dei documenti dell’Archivio Sforza Cesarini, pergamena ora non più rintracciata, in cui viene stabilita una “enfiteusi pel monastero del Monte Amiata nello stato di S. Fiora”, mentre un altro documento dell’890 – di controversa interpretazione – registra lo stesso toponimo (“terra Sancte Flore”) tra i confini di alcuni possedimenti dell’abbazia di San Salvatore. La comparsa di questo toponimo coincide con la fase di affermazione della famiglia degli Aldobrandeschi, iniziata già dalla fine dell’ottavo secolo; ben collocata come chierici lucchesi dal primo quarto del IX secolo fino alle più alte cariche della gerarchia ecclesiastica lucchese, con Eriprando la famiglia si lega strettamente al potere imperiale, soprattutto di Ludovico II, esercitando cariche pubbliche ed assumendo un ruolo di protagonista nell’ambito regionale; consolida il proprio patrimonio territoriale, indirizzandolo ed estendendolo soprattutto verso Roselle e Sovana ed in generale nella Tuscia meridionale. La scelta del luogo dell’attuale Santa Fiora non è casuale: dal momento che si vanno definendo le principali risorse economiche della zona, connesse con lo sfruttamento dei minerali amiatini, sia dell’argento sia soprattutto del ferro, che, unito a quello elbano, dà luogo alla produzione di strumenti da taglio con lame di adeguata durezza, di fondamentale importanza risulta avere a disposizione notevoli risorse idriche ed il collegamento con punti di approvvigionamento e di commercio, elementi tutti

GLI ALDOBRANDESCHI 87 La trasformazione di Santa Fiora presenti nel luogo dell’attuale città. Essi rispondono singolarmente ai canoni stabiliti in un trattato bizantino dell’età di Giustiniano – momento cronologico fondamentale per la nascita dell’urbanistica altomedioevale – per una città strategicamente ideale: “chiunque intenda fondare una città deve per prima cosa esaminare il sito per verificare se è appropriato, in modo che le mura che saranno costruite saranno capaci di resistere ad un assedio. Subito dopo occorre esaminare l’acqua per appurare se è buona da bere e se è bastante per la popolazione della città e anche per tutti coloro che potrebbero trovarvi rifugio in tempo di pericolo. Se la sorgente d’acqua è situata fuori dalle mura, la costruzione della città deve essere abbandonata, oppure si deve trovare il modo per consentire ai portatori d’acqua di uscire dalla città anche in presenza dei nemici. Terzo, si deve scoprire se c’è a disposizione della pietra, già tagliata o facilmente estraibile, in modo che non sia necessario trasportarla da una lunga distanza a grande rischio. Si deve anche scoprire se il legname deve esser trasportato da molto lontano o attraversando terreno difficile, così che sia pressoché impossibile averlo a portata di mano per la costruzione. Quarto, si deve scoprire se la zona produce abbastanza cibo oppure può esservi trasportato da altre zone. Similmente, possono i cittadini trovarvi le altre fonti di sussistenza? Se a tutte queste cose si può rispondere affermativamente, si proceda con la costruzione; ma se non è così, è meglio abbandonare il progetto… I luoghi adatti per costruire una città, specialmente se ciò deve verificarsi piuttosto vicino alla frontiera, sono quelli su terreno elevato (Fig. 1), con pendii scoscesi tutto intorno, in modo che l’accesso sia reso difficile. Sono anche adatti luoghi con larghi fiumi che vi scorrono intorno, o che possono essere adattati a questo scopo, e che, a causa della natura del terreno, non possono essere facilmente deviati”2. L’insediamento degli Aldobrandeschi alle sorgenti del Fiora somma tutti i dati sinora messi in evidenza, oltre alla particolare posizione geografica e geomorfologica del sito, luogo strategico del versante meridionale dell’Amiata, protetto naturalmente da alte ripe e dotato di una straordinaria risorsa idrica. Il toponimo del nono secolo indica quindi un primo insediamento, probabilmente a carattere difensivo, cui è unito anche un nucleo religioso, connesso con il culto delle sante Flora e Lucilla (San Pier Damiani, in un racconto della traslazione delle reliquie delle sante scritto nel 1050, Fig. 1. “Prospetto delle acque in controversia tra i signori riferisce che il vescovo di Arezzo duca Sforza Cesarini e Filippo Luciani”, Veduta di Santa Giovanni aveva ottenuto nel 900 da Fiora, 1765, Roma, Archivio di Stato

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papa Benedetto III il permesso di poter trasferire i corpi delle martiri sul Monte Amiata, in una basilica a loro dedicata; il Pecci ed il Battisti datano all’860 la prima edificazione della pieve santafiorese, dedicata alle due sante); gli stessi Aldobrandeschi edificano nell’XI secolo nei pressi di Castel del Piano una chiesa dedicata a S. Fiora. Il nucleo difensivo e quello religioso dovevano essere stati costruiti rispettivamente in un primo insediamento nell’area del successivo castello, sulla parte sommitale del ripiano collegato con la montagna (Fig. 2), e nell’area dell’attuale chiesa dedicata alle sante Flora e Lucilla, posta più in basso. Anche il castello era comunque probabilmente dotato di un altro nucleo religioso, dedicato a San Giovanni, secondo quanto ritengono il Pecci e il Battisti. Dalla metà dell’XI secolo il potere degli Aldobrandeschi va aumentando e la famiglia assume un ruolo di patronato del monastero di San Salvatore, limitativo dell’autorità dei monaci e non sempre bene accolto; il 31 marzo 1084 i monaci scrivono infatti all’imperatore Enrico IV lamentando le prepotenze dei fratelli Ranieri II Malabranca e Ugo II Aldobrandeschi: Ranieri possiede Santa Fiora, arbitrariamente usurpata (“villam ex toto retinebat, que Sancta Flora dicitur, que amplius quam fere centum masas extenditur”). Il monastero costruisce il “castrum abbatiae”, documentato a partire dal 1094 nell’area sudorientale del territorio abbaziale, favorito anche dagli Aldobrandeschi, che, sicuri del loro dominio, favoriscono l’incastellamento del territorio; nell’agosto

Fig. 2. Veduta aerea dell’insediamento di Santa Fiora sulla parte sommitale dell’altura, Fotocielo, circa 1950, collezione Lucio Sisi.

GLI ALDOBRANDESCHI 89 La trasformazione di Santa Fiora del 1094 i nipoti di Ranieri e Willa, figli di Ugo I, donano al monastero la loro quota di Castiglione d’Orcia, atto stipulato nella “fracta de Sancta Flora”. Il secolo successivo vede il consolidarsi del potere familiare degli Aldobrandeschi, che dividono le sfere d’influenza dei due rami familiari, uno orientato verso la Lucchesia e Populonia e l’altro verso l’Amiata e la Maremma; il monastero di San Salvatore individua una propria signoria territoriale autonoma più ristretta, confinante con le aree di Santa Fiora e di Arcidosso. Santa Fiora assume quindi i connotati di una capitale, espressione di un potere aristocratico, la cui configurazione urbanistica

Fig. 3. Santa Fiora: il centro urbano con gli edifici anteriori al 1825, elaborazione di Paolo Maccari

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Fig. 4. Pianta di Castel del Piano, Archivio di Stato, Grosseto, Catasto Leopoldino, c. 1823 presenta non poche singolarità: in un documento del 1142, relativo a due donazioni all’eremo della SS.Trinità, esse vengono stipulate l’una “in via publica iuxta plebem, alia ante ecclesiam de castello S. Flore”. La “plebem Sanctae Florae” compare nell’elenco delle chiese battesimali riconosciute dal papa Celestino III al vescovo di Chiusi nel 1191; negli elenchi delle decime del 1275-76 e del 1276-77 è ricordata la “plebs S. Flore de Sancta Flora”3; la sua ubicazione coincide con il luogo della pieve attuale, rinnovata nel XII secolo (rinnovamento cui appartengono la facciata attuale, la navata centrale, la scarsella e la base del campanile) e probabilmente connessa anche con altri culti presenti nello stesso territorio, sempre promossi e sostenuti dagli Aldobrandeschi; ad esempio, nel 1146 le fonti ricordano la fondazione, ad opera di Martino vescovo di Chiusi, su commissione degli Aldobrandeschi, di una chiesa dedicata a S. Michele, costruita ai piedi del Castello. La dicitura “via publica” non è casuale nei documenti medioevali di contenuto topografico ed urbanistico: “la qualifica di publica connota ogni tipo di via principale, in relazione con la sua comodità, la sua larghezza, la sua pavimentazione (via publica, aequalis, lithostratum)”4. Quindi dalla pieve parte una via principale, collegata con il nucleo castellare (Fig. 3), a sua volta dotato di un’altra strada, di pari valore,

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assimilabile altresì all’attuale “platea”, che in questo periodo non viene distinta da una via ampia. Quest’ultima ha un andamento ortogonale alla prima, seguendo le linee dell’altura, e dall’innesto della prima con la seconda si stabilisce uno schema a T, variazione piuttosto comune dello schema a croce, modello urbanistico innovativo sperimentato nel mondo tedesco e diffuso in tutta l’Europa centrale e nel Nord Italia. Il tracciato dell’attuale Via Carolina coincide con questo primo asse, seppure rinnovato alla fine del Duecento e probabilmente anche successivamente: esso può essere inteso, comunque, in considerazione della particolare posizione della facciata della Pieve e del fronte della struttura castellare, come asse cerimoniale con fondale, non ancora strada rettilinea perfetta ma certamente tracciata per la veduta prevalente biunivoca del castello dalla pieve e viceversa. Non si osserva in questo tessuto edilizio Fig. 5. Pianta di Proceno, elaborazione di Paola Mancini. la forma insediativa altomedioevale a goccia o ellittica, presente ad esempio a Castel del Piano (Fig. 4), a Radicofani, a Proceno (Fig. 5) e ad Abbadia San Salvatore: solo intorno alla Pieve è da ritenersi sia stata costruita una cinta difensiva con due porte, inglobate in quelle duecentesche della città, formando un “borghicciolo”, così denominato ancora nel Catasto leopoldino: doveva trattarsi, comunque, di una struttura posta soprattutto a difesa della chiesa piuttosto che un vero e proprio insediamento residenziale. L’assenza di questa forma circolare, ormai, secondo gli studi recenti di urbanistica medioevale, ispirata agli insediamenti islamici, diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo (con una struttura labirintica caratterizzata dallo shari, strada di attraversamento che collega le porte principali, dal darb, via secondaria che serve le residenze e ne distribuisce il peso nei diversi quartieri, e l’azucak, il vicolo cieco che costituisce il percorso terminale verso la casa)5, rimanda al carattere aristocratico della fondazione della città e non comunale, laddove l’impianto curvilineo rivela viceversa “l’abbandono, da parte dell’autorità cittadina o statuale, del controllo sulla rete viaria, che di fatto è affidato alla iniziativa stessa degli abitanti”6. Non solo: in questo caso, i due nuclei – laico e religioso – non vengono separati e contrapposti, come nei casi emblematici di Pontremoli e soprattutto di San Qurico

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d’Orcia, dove tra le due parti dell’insediamento – quella pievana definita come Osenna e quella imperiale coincidente con il cassero ed il borgo – viene eretto un muro di confine, ma vengono entrambi promossi o quantomeno direttamente controllati dall’unica autorità aristocratica familiare, di stampo feudale o poi pre-signorile. Il potere degli Aldobrandeschi si estende nel XIII secolo ma iniziano le divisioni familiari, che si svilupperanno, con alterne vicende, per tutto il Duecento: come risulta da un lodo del 1216, che segna una prima separazione tra i due rami degli Aldobrandeschi, quello dei conti di S. Fiora e quello dei conti di Sovana e Pitigliano, poi ricomposta, il “castri Sancte Flore”, citato anche in un documento del 1204, costituisce il centro del potere “curie et districtus” del ramo appunto di S. Fiora. Il 7 ottobre 1259 viene composto un altro tentativo di separazione dei due rami degli Aldobrandeschi, dei quali si vanno definendo gli schieramenti politici: i conti di S. Fiora aderiscono al partito ghibellino senese ed i conti di Sovana e Pitigliano a quello guelfo fiorentino e romano; la separazione diviene dichiarata ed effettiva nel 1274 tra i due cugini, ambedue denominati Ildebrandino; la contea Aldobrandesca viene divisa in due parti equivalenti, ciascuna delle quali assume metà degli oneri stabiliti nei patti del 1221 e del 1237 con Siena. Nel 1284 la parte santafiorese viene divisa in cinque piccoli domini, assegnati ai cinque figli di Ildebrandino XI: Santa Fiora diviene di proprietà di Enrico II, insieme a Roccalbegna, Pietra d’Albegna ed il complesso della SS. Trinità di Montecalvo. Questa divisione viene confermata ed ulteriormente definita nell’istrumento del 2 agosto 1297 di divisione della eredità tra i conti di S. Fiora figli di Ildibrandino e di Giovanna8. Questa serie di divisioni porta alla dissoluzione della contea Aldobrandesca, che, per quanto concerne la parte santafiorese, viene caratterizzata da un centralismo di potere, organizzato sul polo di S. Fiora, che si appoggia a Siena contro l’altro ramo e contro le potenze confinanti. Questa impostazione porta gli Aldobrandeschi di Santa Fiora a sottoscrivere nel corso del Duecento diversi atti di concordia con Siena, sempre più favorevoli a quest’ultima, ripresi poi nel Trecento, che assicurano ai conti un largo margine effettivo di autonomia, sempre ostacolato con alterni esiti da Siena, e per contro vincolano gli Aldobrandeschi a stringere legami matrimoniali con importanti famiglie senesi, come i Cacciaconti, i Salimbeni ed i Buonsignori, a possedere un palazzo in città ed a osservare obblighi di “cittadinanza”. In sostanza, la politica senese di estensione del proprio contado alla contea aldobrandesca non trova compimento nel corso del Duecento, anche se obbliga gli Aldobrandeschi ad osservare una qualche forma di dipendenza. Ancora maggiore è il fallimento dell’analoga politica perseguita da Orvieto, nonostante che ottenga vittorie militari sul ramo dei conti di S. Fiora, giungendo alla fine del Duecento al riconoscimento di una sostanziale autonomia reciproca. Analoga pacificazione si raggiunge tra i due rami familiari nel corso dello stesso secolo, concludendosi con la pace del 6 agosto 1286 stretta tra i conti di S. Fiora e la celebre Margherita Aldobrandeschi.

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Queste vicende politiche e familiari ottengono un risultato preciso nell’ambito dello sviluppo urbanistico del centro abitato di Santa Fiora: citata nei documenti anteriori al 1250 una sola volta, tra il 1256 ed il 1297 rinnova con maggiore forza il suo ruolo di capitale, come residenza di Ildebrandino XI e dei suoi figli, capostipiti del nuovo ramo comitale autonomo. L’insediamento nobiliare è costituito dal cassero, struttura complessa, di cui fa parte il “palatium” e diverse torri (secondo una tradizione settecentesca, tramandata dal Battisti e da altri storici successivi, erano presenti cinque torri): un documento del 19 giugno 1285 viene stipulato “in castro Sancte Floris, in curia palactii cassari huius castri”9, così come un altro documento del settembre Fig. 6. Pianta di Santa Fiora, Grosseto, Archivio di Stato, Catasto Leopoldino, 1825. 1289 (“in palatio cassari Sancte Flore”)10: d’altra parte, anche Orbetello era dotato di un cassero con palazzo e “platea” e nella divisione della contea di Santa Fiora del 1284 molte località sono ricordate “cum cassero et castro, hominibus et districtu et iurisdictione”. Nella seconda metà del Duecento si riempiono le maglie urbanistiche del tessuto preesistente, in un generale rinnovamento che coinvolge anche la residenza signorile: nel 1292 viene infatti trasformato il palatium, ricordato come Palazzo Nuovo in un documento del 15 agosto di quell’anno11, probabilmente adeguato alla nuova funzione che è chiamato a svolgere a seguito della suddivisione delle proprietà e dei rami familiari del 1284. Sull’area sommitale è anche collocata la chiesa di S. Leonardo. Il nuovo tessuto, regolare nella spina centrale, con tracciati collegati “a baionetta” all’asse preesistente tra la Pieve ed il palatium, viene dotato di assi curvilinei, vere e proprie strade per cavalieri (Fig. 6), probabilmente derivate con un processo di regolarizzazione da una maglia viaria preesistente: quello verso la cinta

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muraria orientale e quello ad esso quasi parallelo (la Via del Poggio del Catasto Leopoldino, l’attuale Via Sforza), quello che fiancheggia la parte nord-orientale delle mura (l’attuale Via delle Mura), mentre permangono anche tracciati preesistenti più frazionati, come quello che segue il culmine delle Ripe a sud-ovest (l’attuale Via della Ripa). È probabile che venga anche rinnovata la “via publica” preesistente con andamento nord-ovest/sud-est, congiungente la Pieve con il Palazzo, definita in documenti più tardi Corso del Ricco (l’attuale Via Carolina), caratterizzata da un andamento spezzato in due tratti, di cui quello maggiore, rettilineo, piega nel tratto finale verso la pieve. Questo andamento rettilineo introduce una profonda innovazione nell’urbanistica cittadina e la allinea alle trasformazioni duecentesche delle città italiane. Se infatti la grande strada curvilinea “corrisponde, nella sua funzione strategica, alla «strada dei cavalieri», in quanto ne favorisce l’azione consentendo la percorrenza ad alta velocità limitando al massimo l’esposizione, in linea retta, ai colpi di arcieri e balestrieri”12, quando questi ultimi si avviano a divenire l’espressione forte di un nuovo potere, di stampo mercantile, viene adottata sempre maggiormente la strada rettilinea “che consente di colpire i cavalieri a distanza”, ad opera dei pedoni armati prima di balestre e poi di armi da fuoco. Si può pensare, in questa fase di passaggio, ad un uso “parziale dell’allineamento, limitato all’asse della strada, senza interferenza con i fronti delle case. Si avrebbe così un controllo preciso della direzione, dell’andamento complessivo e dell’ampiezza minima della viabilità, lasciando però ad una esecuzione tradizionale e strumentale la definizione dell’andamento e della larghezza stradale”13. L’altra grande innovazione duecentesca del tessuto cittadino sono le nuove mura perimetrali, che inglobano le mura circostanti la pieve. Le porte aperte in questa prima cinta muraria verranno in parte ridefinite nel corso del Trecento, a conclusione dello sviluppo dell’abitato verso le pendici occidentali con il nuovo terziere di Borgo e con la ricostruzione del Castello. Tuttavia, è plausibile ritenere che a conclusione dell’opera sistematica di definizione del tessuto cittadino e dell’anello difensivo siano stati fissati gli accessi più importanti, salvo quelli introdotti nella nuova cinta trecentesca. Il complesso fortificato è aperto da cinque porte: la prima coincide con il passaggio dal palatium al pendio della montagna sul lato nord-occidentale, oltrepassando con un ponte levatoio il fossato (definita dal Battisti Porta del Palazzo), la seconda è posta all’estremità settentrionale (definita nei documenti trecenteschi Porta del Soccorso e dal Battisti Porta del Cassero), verso le sorgenti d’acqua a valle delle rupi, e la terza all’estremità occidentale, all’inizio dell’attuale Via della Ripa (denominata nei documenti trecenteschi e dal Battisti Porta Postierla); la quarta è identificata dal Battisti, seguito da altre fonti settecentesche, con quella “nominata di S. Giovanni perché da questa si andava alla Pieve. Ch’era fuori del paese, come vedremo: adesso è murata od è situata oltre il Molino”14: si tratta probabilmente di quella posta in prossimità del fianco orientale della Pieve. La quinta porta è posta in prossimità del fianco occidentale della pieve, con antiporta e manufatti difensivi sovrastanti,

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rimaneggiati successivamente. Le definizione delle cinque porte costituisce indubbiamente un elemento innovativo: come è stato recentemente dimostrato nell’esame degli insediamenti dell’area senese legati alla Via Francigena15, le mura rinnovate nel corso del Duecento vengono caratterizzate costantemente da tre porte principali, in generale collegate secondo uno schema triangolare (si vedano ad esempio San Quirico d’Orcia e, nella forma perfetta, Radicofani (Fig. 7), dove la razionalizzazione del sistema difensivo si basa sulla triangolazione, documentata nel perfetto triangolo equilatero collegante il centro della rocca con le due principali torri rotonde a rinforzo degli angoli più esposti delle mura), sviluppo dello schema precedente fondato su due porte principali, legate alle due direttrici verso i centri di potere di maggiore rilievo, Siena, Firenze, Fig. 7. Pianta di Radicofani, elaborazione di Paolo Maccari. Roma o altri centri ad essi legati, e ad un tempo sviluppo dell’urbanistica cittadina, con un’attenzione alle vedute non solo verso o dai centri di potere esterni ma anche da vari terzieri cittadini. In questo caso, il triangolo viene sviluppato in un trapezio: sono evidenti i vincoli legati alle preesistenze ed alle particolarità del terreno, come le due porte preesistenti intorno alla Pieve ed il passaggio dal palatium al fianco della montagna tramite il ponte levatoio, ma non di meno la figura che ne deriva comporta una maggiore complessità progettuale, che desume capacità tecniche dalla pratica agrimensoria, vale a dire ad un “arte di calcolare l’area delle figure piane [basata] essenzialmente sull’uso di una suddivisione in triangoli (suggerita, ad esempio, in alcune figure di Villard de Honnecourt), applicata sia in campo territoriale che in campo urbano. Ma il triangolo è, a sua volta, una figura carica di implicazioni simboliche (come, del resto, la figura quadrata), e, per questa via, la tecnica di misurazione viene a confluire, ancora una volta, nella tecnica di progettazione”16. La forma trapezoidale delle mura costituisce così un anticipo di quella tensione verso un canone di bellezza basato sulla geometria e sulla rettilineità, che troverà sviluppo nelle innovazioni trecentesche.

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In relazione alla nuova definizione degli assi viari centrali e del nuovo palazzo, assume una fisionomia compiuta anche la piazza su cui affaccia il prospetto del palazzo opposto alla montagna e da cui partono appunto gli assi principali del paese; la piazza svolge così una funzione nuova, da bordo aperto della struttura fortificata verso il tessuto urbano a luogo su cui affaccia la dimora signorile, che troverà nei secoli successivi ulteriori sviluppi. Nonostante le rivalità con le città confinanti, si affermano anche nella città di Santa Fiora i modelli urbanistici realizzati nel corso del Duecento a Siena e ad Abbadia S. Salvatore (Fig. 8); quest’ultima rappresenta quasi un modello ideale di città con strade curvilinee, tracciate in un tessuto molto ricco organizzato dalla fine del XII secolo tra il Castello e la pieve di S. Croce, posti su due estremità del ripiano17. I conti Aldobrandeschi completano a conclusione del Duecento la definizione della loro area di potere e della struttura abitativa del paese e, con una volontà espansionistica di notevole portata, pongono le premesse per un allargamento del loro possesso territoriale, a scapito di Siena, utilizzando l’ordine agostiniano per l’espansione di un nuovo polo urbano. Come documentano le pergamene della chiesa di S. Michele e le fonti settecentesche ed ottocentesche, come il Brigidi, nel 1309 viene spostata per volere dei conti Ildebrandino e Arrigo la chiesa di S. Barbara, dell’Ordine degli Agostiniani, da Bagnolo nella chiesa di S. Michele, posta sul lato occidentale ai piedi del castello santafiorese, al di fuori della mura, consacrata, come ricordano i documenti della chiesa ed il Brigidi, il 17 settembre 1146 da Martino vescovo di Chiusi18. La chiesa primitiva, fondata come romitorio nel 1251 da Angelo, dell’Ordine di S. Agostino, con il consenso di Pietro vescovo di Chiusi, documentato in un diploma del 2 agosto di quell’anno che accordava anche un’indulgenza per i benefattori, sorgeva nella località Bagnolo (“S. Barbara de fracta”); il conte Ildobrandino, figlio del conte Bonifazio, aveva concesso il sito e aveva lasciato alla chiesa il 22 agosto 1254 il podere di S. Barbara; morto nello stesso anno, era stato seppellito nella chiesa stessa. La chiesa era stata consacrata il 25 giugno 1273 da Pietro vescovo di Chiusi e da David vescovo di Sovana. I figli del primo benefattore Ildobrandino, Enrico, Guglielmo, Bonifazio e Guido, avevano lasciato al convento nel 1291 e nel 1292 staia 12 di grano all’anno ed altri doni, tratti dai guadagni dei loro mulini di Castello. Nel 1291 il fabbro Matteo aveva offerto vari doni a S. Barbara e vi era stato sepolto: si trattava quindi di un nucleo religioso strettamente connesso con le principali risorse della comunità di Santa Fiora. Dopo il trasferimento di S. Barbara, i frati agostiniani del convento di S. Michele di S. Fiora avevano posto nella loro chiesa un’iscrizione, riportata dal Brigidi ed ancora esistente, che ricorda la sepoltura ed i benefici del conte Ildobrandino (“D.O.M. D.Ildinus Palatinus postquam ab anni MCCLIV non parva in heremum jam sanctae Barberae beneficia, contulerit vita cum morte commutavit; ibidemq. terrena ipsius spolia addicavit”). Le ragioni di questo trasferimento sono state individuate dalle fonti

GLI ALDOBRANDESCHI 97 La trasformazione di Santa Fiora più tarde nella insalubrità della primitiva collocazione della chiesa, nel suo stato rovinoso e nella pericolosità della posizione; ma, pur se si tratta di motivazioni plausibili, l’obiettivo principale dell’ampliamento dell’ordine agostiniano a Santa Fiora, commissionato dagli Aldobrandeschi, si inquadra nel ruolo svolto dagli ordini mendicanti o altri ordini ad essi avvicinabili a sostegno delle nuove municipalità, anche rette da potenti oligarchie; la valorizzazione di zone fino ad allora marginali, che vengono così inserite in un nuovo circuito produttivo, attribuisce loro una funzione fondamentale di alleati della classe dominante nell’accumulo di ricchezza e potere, alleanza pienamente programmata e realizzata nella contea di Santa Fiora. Non casuale sembra essere il fatto che a partire dal 1300 sia Siena, i cui meccanismi di potere avevano avuto consistenti trasformazioni, sia i conti di S. Fiora mettono in atto azioni di guerriglia (le “cavalcate”) per tentare Fig. 8. Pianta di Abbadia S. Salvatore, elaborazione di Paola di estendere i loro possessi, azioni Mancini. sistematiche, di volta in volta respinte da entrambi i contendenti. Proprio all’inizio di queste imprese, i conti di S. Fiora avviano un processo di alleanza con l’ordine agostiniano nel loro centro di potere, garantendosi un appoggio religioso e popolare i cui effetti risulteranno di grande rilievo a fine secolo. A riprova di un possesso stabile già assunto dagli Aldobrandeschi del centro cittadino è il fatto che la nuova chiesa non viene collocata in un’area centrale di quest’ultimo ma al di fuori delle mura: a Lucignano in Val di Chiana e soprattutto a S. Quirico d’Orcia (Fig. 9), invece, la chiesa francescana è collocata in una posizione baricentrica rispetto ai due circuiti contrapposti, quello del potere laico e quello religioso, corrispondendo perfettamente al baricentro del triangolo formato dalle tre porte principali19. L’espansione avviata nella trasformazione del tessuto urbanistico del secolo precedente acquista caratteri di innovazione e sviluppo: attorno al rinnovato

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Fig. 9. Pianta di S. Quirico d’Orcia, elaborazione di Paolo Maccari.

complesso religioso agostiniano viene edificato un nuovo terziere (Fig. 10), definito Borgo, circondato da mura e dotato di una Via Lunga centrale, fiancheggiata da assi minori più irregolari; la strada centrale presenta la stessa direzione del confine sud-occidentale della cinta muraria precedente ma con un andamento rettilineo, in linea con il mutamento del gusto riscontrabile nelle fonti italiane a partire dalla fine del Duecento, secondo il quale le strade curve “vengono definite brutte, quelle dritte belle”20. Questo nuovo tracciato sviluppa la trasformazione della antica strada congiungente la Pieve con il castello ed afferma un modo nuovo di progettare: “la strada rettilinea è [infatti] una strada che richiede di essere accuratamente progettata

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Fig. 10. Pianta di Santa Fiora, elaborazione di Paolo Maccari.

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e realizzata. Essa viene delimitata con picchetti e corde ed eseguita a sezione costante, sia che si tratti di un impianto su terreno non urbanizzato, sia che si tratti di uno sventramento”21. Non solo: in questo modo si può agire direttamente “sul confine tra pubblico e privato, cioè sulle pareti stradali, intervenendo sia in fase progettuale (fissando una larghezza costante della sede viaria e imponendo che la via sia definita recta linea) che in fase di rettifica, ampliamento, regolarizzazione”22. I ceti meno abbienti o di nuova immissione si insediano nel terziere di Borgo, con un’attenzione volta più al sito che ai caratteri architettonici qualificati delle abitazioni. Come risulta dai documenti dell’Archivio di Stato di Siena, il convento di S. Agostino (o di S. Michele Arcangelo in Borgo) acquista e vende diverse case in Borgo nel corso del Trecento (nel 1354, 1359, 1389), tra cui “un casalino con palchi” nel 1394 e diverse abitazioni in prossimità del “forno vecchio” e del “forno nuovo”, nello stesso terziere (nel 1374 e 1389), senza particolari elementi architettonici, un numero minore di case di pari valore nel terziere di Castello (nel 1327 “in contrada detta il Corso”, nel 1374 “in contrada detta il Poggio” e nel 1362 “in contrada detta la Porta della Postierla”) e diverse case “in contrada detta la Piscina” o Peschiera (1318, 1361, 1376)23. In prossimità dell’inizio della Via Lunga verso il confine orientale viene aperta una porta, definita dal Battisti Porta Gobbacci, poi inglobata nel convento secentesco delle Cappuccine; sull’estremità occidentale del nuovo terziere viene costruita un’altra porta, definita dal Battisti Porta S. Michele dal titolo più antico della vicina chiesa, aperta sull’area della Peschiera, sottostante le Ripe. L’assialità tra la prima porta e la Via Lunga introduce un nuovo elemento urbanistico: quello della strada con fondale, nel quale si assume come elemento qualificante il fondale stesso la porta presumibilmente con torre, con un evidente significato di controllo strategico, analogamente a quanto avviene nella nuova progettazione urbanistica di Firenze. Ancora una volta, il modello di questa espansione ed il ruolo svolto dall’ordine agostiniano rimanda alle espansioni urbanistiche dei comuni dell’Italia Centrale, ma in particolare è la città di Siena (con altri esempi toscani come Cortona) a costituire l’esempio più vicino cronologicamente e territorialmente, oggetto di emulazione oltre che di rivalità per i conti Aldobrandeschi. Anche il tessuto cittadino già formato presenta notevoli variazioni rispetto alla situazione duecentesca; il terziere di Castello viene infatti configurandosi come sede di “palatia” o residenze dei vari membri della casata Aldobrandesca, che modificano parzialmente il tessuto qualificandolo come costituito da isolati e non più solo da strade o piazze. In quel terziere vengono ricordati infatti il palazzo del conte Enrico, citato per la prima volta nel 133124, quello del conte Stefano, ricordato nel 1366 come “domus et sala domus”25, e quello del conte Senese, menzionato dal 136126. Una traccia di almeno uno di questi insediamenti di rilievo può ritrovarsi nel complesso di maglia irregolare e diversa rispetto al tessuto centrale posto ad occidente all’inizio della Via Carolina, verso Via della Ripa.

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Fig. 11. Pianta di Staggia, elaborazione di Paolo Maccari. Si estende l’abitato anche ai margini del paese, come attestano diverse case del convento di S. Agostino poste “in contrada detta S. Biagio”, probabilmente in prossimità della chiesa dedicata a quel santo inglobata successivamente nel cimitero: si tratta di documenti del 1303 e del 139027. Non mancano anche legati per arredi pregiati, come la statua di S. Caterina nello stesso convento, ricordata nel 1348. Il “Palatium Comitorum” e la “Domus Curiae”, probabilmente due unità dello stesso insediamento posto sull’area sommitale, affacciato sulla piazza principale, svolgono una funzione pubblica, propria dell’amministrazione comitale e di gestione dell’area del distretto dipendente dal castello. Santa Fiora assume una configurazione planimetrica, sotto il dominio aldobrandesco, di cui è motivo di stimolo e di suggestivo approfondimento studiare anche altre valenze: come nel caso di Staggia (Fig. 11), dove la riedificazione della cinta muraria fortificata, attuata sotto il dominio di Firenze, conferisce alla città anche una forma simbolica, legata al leone accovacciato emblema di Firenze, con la cinta circostante il cassero intesa come testa e quella intorno all’abitato delineata come corpo, definito secondo un preciso orientamento che afferma il potere politico e strategico della città28, sarebbe non sorprendente individuare una forma simbolica attribuita dagli Aldobrandeschi anche alla loro capitale, tenendo presente quanto sia comune, nell’analisi delle piante di città due- trecentesche rilevare la forma del leone (come nel caso di Roma), o dell’aquila imperiale, come nella cinta muraria di Poggio Imperiale o della croce, come per la croce guelfa di Fiorenzuola, fondata da Firenze: solo un’analisi più approfondita

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dell’araldica aldobrandesca e degli emblemi individuati nei centri da loro fondati – oltre che sulla monetazione, esaminata in parte dal Collavini29, e sui sigilli – può aiutare nella comprensione della pianta cittadina. La struttura familiare, sociale e politica sempre più ricca e complessa, espressa in un tessuto urbano policentrico, mantiene mire espansionistiche a danno di Siena, anche se quest’ultima città riesce ad impadronirsi temporaneamente dei possedimenti aldobrandeschi ed a mettere a sacco anche il paese, come avviene ad esempio il 30 aprile del 1330. Gli Aldobrandeschi stringono diverse alleanze con la città toscana, sempre più favorevoli a quest’ultima, rimaste però inattuate, come quella del 136830; tuttavia, l’inadeguatezza di alcuni membri della casata, come Ildebrandino e Guido, il favore per i progetti senesi del conte Guidarello, nonché una forte determinazione nell’ottenere il possesso di Santa Fiora da parte di Siena, sostenuta da forze militari ed economiche consistenti, porta il 15 settembre 1381 alla conquista del centro di potere aldobrandesco, Santa Fiora, riconosciuta, come affermano Agnolo di Guido e Spinello de’ Tolomei Capitano di Montagna in una lettera del 16 settembre diretta alla Repubblica di Siena, “con riverentia… la migliore terra de questo paese et pertanto provedete che non v’escha de le mani che se n’escisse anco disertarebbe el vostro contado come fue facto altra volta”31. Con un procedimento tipico delle imprese signorili, la Repubblica senese decide l’abbattimento delle strutture simbolo del potere aldobrandesco: viene disposta la distruzione della casa del conte Guidarello, del palazzo del conte Francesco, del palazzo del conte Aldobrandino, del palazzo del conte Giovanni, “chon uno giardino e uno chonfesso”, posto alla fine del Corso del Ricco; anche la chiesa di S. Leonardo subisce danni ed è oggetto di interventi dopo il ritorno del conte Guido di Senese Aldobrandeschi. Sulla piazza maggiore viene edificata una loggia per ospitare la guarnigione destinata a controllare le diverse operazioni di polizia e di demolizione. L’opera maggiore è comunque il rinnovamento del cassero, struttura destinata a rappresentare il nuovo potere senese nella città e nel contado. Il direttore delle operazioni e responsabile amministrativo è Biagio di Simone, “Operaio del Cassaro”, che invia una copiosa corrispondenza alla Repubblica senese, descrivendo le vicende costruttive, assai complesse, e richiedendo continui finanziamenti. Vengono utilizzate maestranze senesi e lombarde, dirette dal capomastro lombardo “Aghustino”, cui si deve in sostanza la costruzione dell’opera e che viene pagato in modo rilevante. La Repubblica si era quindi affidata ad un personaggio esterno, proveniente da una regione celebre per le maestranze edili e per le notevoli capacità nell’arte del costruire, al fine di assicurare il migliore esito al nuovo simbolo di potere sulla città. I lavori procedono con grande alacrità; in una lettera di Biagio di Simone del 18 maggio 1382 si dice che “el chonfesso è fatto intorno al palazzo e [sono] volti gli archi ala prima porta del Chassaro e la torre che viene in su la piazza tosto sarà compita. La torre ch’è a capo ala porta del Soccorso è aguegliata col palazzo, tosto si mura il palazzo, ci è alzallo dietro se avaremo denari”32.

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È stata formata una nuova cinta muraria intorno al palazzo, con la torre sulla piazza ancora esistente ed un’altra posta sull’estremità settentrionale vicino alla porta preesistente, che risulta denominata in questo documento “del Soccorso”; tracce di questa seconda torre sono venute in luce in recenti scavi. Il palazzo doveva essere rialzato e dotato di una porta maestra, con antiporta, aperta su di un ponte levatoio, posto sul fossato sul confine nord-occidentale dell’abitato. Le nuove fondazioni poggiavano però su di un terreno non solido ed il 10 ottobre dello stesso anno erano sprofondati parte delle nuove mura perimetrali, il muro del fossato, il ponte levatoio, le nuove fondazioni del palazzo e l’arco dell’antiporta, a seguito delle forti piogge del 29 settembre, come annota Biagio di Simone nelle lettere alla Repubblica (“non so ch’io possa avere maggior dolore che ’l vostro lavorio, cioè del muro del fosso che viene verso la terra a ppettorale ene chaduto e sprofondato co’ le fondamenta de’ palazi de’ Conti che avavamo fatti disfare; e del terreno profondato inverso la piazza cioè rincontro alla porta maestra del chassaro più di sedici braccia per lunghezza e per larghezza dodici o più; e del muro cioè el chonfesso da trenta braccia co ‘l ponte ch’avavamo fatto per lo ponte levatoio e l’archo ch’avavamo fatto per fare l’anziporto”33). Le strutture crollate vengono riedificate ma con grande sforzo, anche per mancanza di soldi e per problemi legati ai materiali costruttivi; i nuclei principali espressione della famiglia aldobrandesca, il palazzo e la piazza, assumono quindi un’immagine nuova, espressione della Repubblica senese. Nello stesso anno il Capitano di Montagna si sposta a Santa Fiora da Arcidosso per seguire le operazioni ma si va potenziando l’ostilità all’interno ed all’esterno della città contro la dominazione senese. L’aumento dei flussi commerciali dalla Maremma a Siena, sulla via doganale che passava da Santa Fiora, aveva favorito la conquista ed il primo anno di dominio; tuttavia, gli Aldobrandeschi in esilio ed il convento di S. Agostino si erano mossi con grande abilità, favorendo le razzie di bestiame e le altre ruberie nel contado, mosse dai partigiani aldobrandeschi, non ostacolate né risolte dalle guarnigioni senesi, e promuovendo una resistenza all’interno del centro cittadino, appoggiata da un ceto i cui affari investivano tutta la regione ed era autonomamente dotato di risorse finanziarie. La stessa posizione del convento di Agostino e di Borgo, fuori delle mura di Castello, si prestava ad una grande libertà di accesso e di frequentazione, come denuncia in una lettera inviata da Santa Fiora il 7 novembre 1382 il Vicario di Santa Fiora per conto del Comune di Siena, Pietro di Ser Bindotto: “il luogo è in Borgo el quale è sciolto, ché possono entrare e escire come è di loro piacere, e nel luogo none à serratura niuna ch’l priore possa guardare, che non ne stanno come è di loro volere”34. Biagio di Simone ordina il ripristino della cinta difensiva con il rinnovamento della porta d’accesso al Borgo35, in modo da garantire un controllo più efficace al nuovo governo. A partire dal 21 agosto 1382 compare nei documenti senesi un edificio civile destinato alla municipalità36, che costituisce una trasformazione dell’immagine dell’abitato, con l’introduzione di un palazzo civico paragonabile a quelli di altri insediamenti

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senesi. Le nuove costruzioni o riedificazioni della Repubblica di Siena, però, non intaccano la struttura urbanistica preesistente, che mantiene il suo centro nel nucleo castellare e nella piazza antistante, posti su un lato del tessuto cittadino e non in posizione centrale, come invece a Buonconvento, dove la torre del palazzo civico costituisce il punto di irradiazione delle torri delle mura (Fig. 12) e il centro dell’abitato si trova ai piedi della torre civica, dove si incontrano le diagonali del trapezio nel quale è iscritto il perimetro murario37. Si tratta, quindi, di un’opera parziale di omologazione della città operata dai senesi, che nel 1383 definiscono anche per la prima volta i confini tra la Comunità di Santa Fiora e quella di Arcidosso, entrambi ormai sotto il dominio di Siena. La Repubblica vuole così risolvere le antiche vertenze per assicurare la pace nel proprio territorio, ma questo intendimento contrasta con la crescente ascesa del conte Guido di Senese degli Aldobrandeschi38, destinatario proprio nel 1383 di un legato testamentario di Coluzio di Castellazzara. Sostenuto dalla rivolta popolare, oltre che dall’appoggio del monastero agostiniano, quest’ultimo riconquista il potere e il centro cittadino di Santa Fiora nel marzo del 1385. Le innovazioni introdotte dai senesi non erano però passate invano: oltre alla definizione dei confini verso Arcidosso, con la successione dei termini posti lungo corsi d’acqua e di elementi particolari nell’andamento del terreno, ancora oggi riscontrabili, vengono conservati nell’ultimo assetto anche il castello con la nuova cinta muraria, con torri e porta, a maggior gloria della casata. Tuttavia, il dominio di Siena sulla contea non era concluso ma solo trasformato in una forma indiretta: il conte Guido di Senese Aldobrandeschi si sottomette alla Repubblica di Siena con capitolazioni del 25 giugno 1386, nelle quali vengono minutamente precisati i suoi obblighi economici e militari, a fronte di un sostegno militare senese in caso di bisogno, nonché l’obbligo di nominare come Podestà o Vicario ogni sei mesi un cittadino senese, con compiti stabiliti negli statuti santafioresi, ricordati per la prima volta ma non ancora rintracciati. Il conte Guido mantiene in cambio il possesso della contea, con i distretti di Santa Fiora, Castell’Azzara, Scansano, ed ottiene un appoggio consistente per riprendere i beni sottratti dagli Orsini, in tutta la valle mediana del Fiora con Selvena e Montebuono, e nella valle superiore dell’Albegna, sopra Saturnia, con Semproniano e Calligiano. Nel 1388 Guido si unisce in matrimonio con Elisabetta di Niccolò dei Salimbeni, importante famiglia senese, secondo una politica di reciproca alleanza con vincoli matrimoniali che avrà un significativo seguito. Nel 1431 il conte Guido riesce a recuperare la rocca di Selvena, con l’approvazione di Siena39; nel 1438, però muore per la pestilenza diffusa in tutta la regione e nello stesso anno muore anche l’unico figlio maschio, Federico. Iniziano quindi le pressioni della Repubblica per esercitare un controllo sulle tre sorelle, Cecilia, Giovanna e Gabriella, al fine di assicurare il pieno possesso della Contea. Viene dunque redatto un atto il 16 ottobre 1438, secondo lo stile senese, in cui le Comunità di Santa Fiora, Scansano e Castellazzara

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Fig.12. Pianta di Buonconvento, elaborazione di Paolo Maccari. si impegnano a fare in modo che le tre contesse non contraggano matrimoni senza l’approvazione della Repubblica, pena la consegna delle terre alla città di Siena. Le tre donne, con l’aiuto del loro parente Pietro Paolo Monaldeschi, riescono però ad inserire nei progetti matrimoniali Francesco Sforza, figlio del celebre condottiero Muzio Attendolo, che impone a Siena i matrimoni di due suoi fratelli, Bosio e Rinaldo, con Cecilia e Giovanna Aldobrandeschi, che avvengono nel 1439; solo Gabriella

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Fig. 13. Santa Fiora. Pianta del terziere di Montecatino, elaborazione di Paolo Maccari.

Aldobrandeschi, la minore delle sorelle, obbedisce ai patti del 1438, sposando Bartolomeo del conte senese Tommaso Pecci, dopo aver rinunciato, in cambio di una cospicua dote, il 28 giugno 1451 alla sua quota di eredità paterna in favore della sorella Giovanna e dei nipoti figli di Cecilia, Guido ed Anastasia. È a Guido Sforza, figlio di Cecilia Aldobrandeschi e di Bosio, che si deve l’ultima addizione urbanistica di Santa Fiora prima delle innovazioni ottocentesche e novecentesche: quella del terziere di Montecatino (Fig. 13), realizzata a partire dal 1462, in relazione alla venuta nella città del pontefice Pio II. Il nuovo impianto, all’avanguardia rispetto alle progettazioni urbanistiche rinascimentali, è frutto della nuova casata, espressione di un colto ed avveduto potere signorile: ma questa è un’altra storia.

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Note: 1 Per la storia dell’urbanistica della città cfr. C. BENOCCI, Atlante Storico delle città italiane. Toscana. 7. Santa Fiora, Roma 1999. 2 Cit. in E. GUIDONI, Storia dell’Urbanistica. Il Medioevo. Secoli VI-XII, Bari 1991, p. 332. 3 Cfr. C. PREZZOLINI, La Pieve di Santa Fiora, in B. SANTI, C. PREZZOLINI, Le robbiane di Radicofani e Santa Fiora, Siena 1993, pp. 47-61. 4 E. GUIDONI, 1991, p. 41. 5 E. GUIDONI, 1991, p. 102 ; per la forma dell’impianto di Castel del Piano cfr. C. PREZZOLINI, I centri storici del Monte Amiata, Arcidosso 1981, p. 46. 6 E. GUIDONI, 1991, p. 35. 8 Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Archivio Sforza Cesarini, I parte, b. 837, n°34. 9 Archivio di Stato di Orvieto, Instr. n. 870 ( cod. Savello I), cc. 174v-175v, 19 giugno 1285, reg. CDO, n. 536. 10 N. BARBIERI, O. REDON, (a cura di), Testimonianze medioevali per la storia dei comuni del Monte Amiata, Roma 1989, n. 8, pp. 76-88, anno 1289, settembre 6-9. 11 M. NUCIOTTI, La formazione del centro storico: indagini preliminari sull’edilizia a Santafiora nel Medioevo, “Tracce…Percorsi storici culturali e ambientali per Santa Fiora”, annuario 1997, Santa Fiora 1997, p. 9. 12 E. GUIDONI, Storia dell’Urbanistica. Il Duecento, Bari 1989, p. 197. 13 E. GUIDONI, 1989, p. 210. 14 Cfr. il testo del Battisti in L. NICCOLAI (a cura di), Paolo Agostino Battisti, Annali della terra di Santa Fiora, in “Amiata Storia e Territorio”, n. 2, luglio 1988, pp. 19-24; P. BARTOLACCI (a cura di), Paolo Agostino Battisti, Annali della terra di Santa Fiora, “Amiata Storia e Territorio”, n. 3, novembre 1988, pp. 16-21. 15 E. GUIDONI, P. MACCARI, Atlante storico delle città italiane. Toscana. 8. Siena e i centri senesi sulla Via Francigena, Roma 2000. 16 E. GUIDONI, 1989, p. 210. 17 P. MANCINI, Sette centri della valle del Paglia, in “Storia della città”, 17, Roma 1987, pp. 95-118. 18 F. BRIGIDI, Descrizione della contea di Santa Fiora, c. 1868, ASR, Archivio Sforza Cesarini, II parte, serie VIII, b. 228; cfr. anche Archivio di Stato di Siena (d’ora in poi ASS), Patrimonio Resti Ecclesiastici, 3541, S. Michele Arcangelo di Santa. Fiora. Cfr. anche S. SERAVALLE, M. NUCCIOTTI, Il convento agostiniano di S.Michele in Borgo, “Tracce… Percorsi storici, culturali e ambientali per Santa Fiora”, annuario Consultacultura 1998, Santa Fiora 1998, pp. 19-32. 19 E. GUIDONI, P. MACCARI, 2000, p. 15. 20 E. GUIDONI, 1989, p. 198. 21 E. GUIDONI, ibidem. 22 E. GUIDONI, 1989, p. 210. 23 ASS, Patrimonio Resti Ecclesiastici, 3541. 24 ASS, Capitoli 2, Caleffo dell’Assunta, cc. 360v-361; per le vicende della conquista senese cfr. G.B. VICARELLI, Castell’Azzara e il suo territorio. Memorie storiche, vol. II, Siena 1991; M. NUCCIOTTI, Note sulla politica urbanistica del governo senese di Santa Fiora, “Tracce…”, 1998, pp. 19-32. 25 ASS, Notarile Anticosimiano 156, cc. 39v-40. 26 ASS, Capitoli 3, Caleffo Nero, c. 235rv. 27 ASS, Patrimonio Resti Ecclesiastici, 3541. 28 P. MACCARI, 2000, p. 17; cfr. anche per le forme simboliche delle città medioevali E. GUIDONI,

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Arte e Urbanistica in Toscana 1000-1315, Roma 1970; E. GUIDONI, A. MARINO, Territorio e città della Valdichiana, Roma 1972; E. GUIDONI ( a cura di), Città contado e feudi nell’urbanistica medioevale, Roma 1974; ID., Atlante Storico delle città italiane. Toscana 6, San Gimignano, Roma 1997; per la pianta di Roma cfr. E. GUIDONI, L’urbanistica di Roma tra miti e progetti, Roma-Bari 1990 29 S. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitaus”. Gli Aldobrandeschi da “conti” a “principi territoriali” (secoli IX-XIII), Pisa 1998, pp. 506-508. 30 ASR, Archivio Sforza Cesarini, I parte, b. 838, n.41. 31 ASS, Concistoro, 1802, 81, n. 300. 32 ASS, Concistoro, 1804, 60. 33 ASS, Concistoro, 1807, 27a. 34 ASS, Concistoro, 1807, 60. 35 ASS, Concistoro, 1805, 92. 36 ASS, Concistoro1806, 41, 21 agosto 1382. 37 P. MACCARI, 2000, pp. 31-33. 38 ASR, Archivio Sforza Cesarini, I parte, b. 839, n. 12; cfr. anche gli altri atti del conte Guido in ASS, Capitoli 2, Caleffo dell’Assunta, e Capitoli 3, Caleffo Nero, cc. 205-209. 39 ASR, Archivio Sforza Cesarini, I parte, b. 841, n. 7.

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Santa Fiora: strutture materiali di una capitale rurale nella Toscana meridionale del Medioevo

Michele Nucciotti, Guido Vannini Università di Firenze

1. Introduzione

Un progetto archeologico per l’Amiata medievale

1. Lo studio di un fenomeno storico di ampia portata _ ampia nel tempo, estesa nello spazio, articolata nelle forme _ e capace di esprimere concretamente caratteri di fondo ed aspetti specifici e rappresentativi su larga scala di una società, per definirla, comprenderla e spiegarla, può essere affrontato in vario modo. Uno è certamente quello di mettersi sulla strada di un’analisi a tappeto di tale fenomeno per documentarne ed interpretarne i connotati fondamentali e le forme comuni, magari selezionando più o meno strettamente il proprio punto di osservazione (per tipologia di fonti, approccio di metodo, gerarchia di obbiettivi sia materiali che concettuali, ambiti cronologici e altro); un altro può essere quello di considerare aree culturali ‘campione’ rispetto ad una tematica storica generale ed analizzarne i caratteri originari attraverso la ricostruzione di una serie di concrete esperienze di fondazione, evoluzione, crisi e passaggio di civiltà. Un approccio archeologico, utilizzando risorse e metodologie disponibili e collaudate soprattutto nell’ambito della recente archeologia storica, consente di delineare quadri interpretati su base territoriale di notevole precisione e, di più, di produrre vere e proprie nuove basi documentarie, nuove fonti, utilizzabili pienamente in sede anche più strettamente storica. Naturalmente ciò a patto _ non solo di adottare impostazioni metodologiche aggiornate ed in grado di interloquire con la ricerca scientifica di settore nel suo complesso _ ma di farlo avendo cura di cercare, in una storia pure territorialmente radicata, echi ed aspetti concreti di fenomeni più ampi che, appunto nel tempo e nello spazio (ed ancora, nella cultura), abbiano caratterizzato un’epoca ed una società. Nel nostro caso, lo studio delle vicende dell’Amiata e della Contea Aldobrandesca (di cui fa parte il presente contributo su Santa Fiora), attraverso specifiche chiavi di lettura archeologiche, rientra nell’indagine di un preciso fenomeno storico nelle sue concrete strutture materiali di radicamento territoriale e di cui rappresenta un precisa peculiarità (ad esempio per i suoi tenaci connotati conservativi): la società

GLI ALDOBRANDESCHI 111 Strutture materiali di una capitale rurale feudale ed il mondo rurale, il Contado, nella sua dialettica con i poteri centrali emergenti, le nuove realtà politiche _ le città mercantili, altrove le monarchie nazionali _ che si venivano affermando con crescente invadenza, come elementi d’origine dell’Europa moderna1. Un progetto, questo amiatino, che si colloca quindi come parte di un programma di analisi archeologico _ territoriali che l’Insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università di Firenze sta da tempo conducendo sulle forme di insediamento di età feudale in aree campione diversamente connotate, toscane e mediterranee: Pratomagno2, Val di Nievole3, Valle del Golo (Corsica ‘pisano _ genovese’)4, Calabria tirrenica5, Transgiordania crociata6). Si tratta certo di situazioni politico _ istituzionali e anche di ambienti assai differenziati ma tutti scelti, in alcuni casi concreti, a rappresentare la parabola di una società fortemente omogenea al suo interno, nei suo valori culturali come nelle sue forme materiali, quale quella feudale (e in particolare di quella definita “mediterranea”7); una società letta attraverso le sue modalità di organizzazione territoriale _ dai caratteri del popolamento alle interrelazioni con lo stesso paesaggio ‘naturale’ _ fino al suo definitivo collasso storico. Quanto alle opzioni di metodo, esse muovono dall’analisi di una scelta di obbiettivi selettivi e da un approccio _ che abbiamo preso a definire ‘archeologia leggera’8, una procedura di rilevamenti archeologici che integra a sistema le diverse archeologie non invasive (paesaggio, ambiente, elevati, archeoinformatica; saggi mirati) _ che va nella direzione di consentire o almeno facilitare un uso direttamente storico delle documentazioni e della stessa analisi archeologica delle ‘strutture’ del passato. Strumenti ne sono quindi la costituzione di una banca dati interattiva della base documentaria intesa ed organizzata come un unico complesso e con una possibilità di gestione di questa sia in direzione di un suo incremento (struttura aperta), sia in quella di un suo uso scientifico (interpretazione dei dati), sia in quella di diffusione a più livelli (fra uso civile e finalità economiche); ma anche per un aggiornamento della documentazione e degli stessi indirizzi della ricerca in tempo reale e per contribuire ad aspetti peculiari come quelli della conservazione dei siti e delle aree indagate o della valorizzazione dei risultati conseguiti _ anche concretamente materiali: manufatti, strutture, assetti topografici _ dalla ricerca stessa.

2. Gli obbiettivi strategici del programma di ‘lettura’ archeologica sull’insediamento nell’Amiata medievale riguarderanno i seguenti punti: - ricostruzione, dal punto di vista delle modificazioni dell’ambiente, di origini, sviluppo, forme relativi alla formazione e caratterizzazione degli insediamenti bassomedievali di tipo urbano (secoli XI-XIV); - analisi dei sistemi produttivi legati all’edilizia in trachite (produzione di calce, cava e lavorazione del materiale da costruzione, circolazione delle maestranze, ruolo della committenza); - messa a punto di una chiave d’interpretazione del rapporto tra gestione del potere,

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urbanistica, produzione edilizia medievale: interpretazione basata sulla costruzione di una vera fonte storica materiale; - ‘produzione’ di atlanti di tipologie murarie come banche dati organizzate criticamente in cui fare confluire le documentazioni registrate e strumenti di analisi archeologica a base territoriale e/o strutturale valido per l’area culturale considerata, utilizzabile anche per indagini ulteriori e diversamente indirizzate. In sintesi si tratta di un sistema integrato di analisi territoriale, selezione tematizzata e gestione dei dati (GIS), non generalista ma strutturato per rispondere esattamente alle necessità scientifico _ documentarie della ricerca. Esso sarà cioè principalmente indirizzato all’archiviazione e rappresentazione di dati relativi alle letture archeologiche del patrimonio edilizio medievale amiatino; un’archeologia degli elevati, attualmente in fase di ulteriore elaborazione dopo la costituzione di una vera e propria nuova fonte documentaria, intesa come lettura di insediamenti articolati o sistemi territoriali omogenei. Così, la produzione di atlanti tematici di tecnologie murarie o edilizie, organizzati per cronotipologie appoggiate ad analisi stratigrafiche condotte a sistema entro ricognizioni archeologiche di superficie mirate, può costituire l’esito di una ricerca territoriale (lettura di singole emergenze architettoniche o di insediamenti) e nel contempo, uno strumento per documentare/interpretare fasi insediative o culturali di un territorio, contribuendo a determinarne confini (sul terreno) o a valutarne, ad esempio, permeabilità o meno ad influenze, rapporti o scambi di cognizioni e modelli tecnologici o più generalmente culturali. In altri termini, una ricerca che, nel suo complesso, si proponga per un verso di contribuire alla determinazione dei caratteri specifici di una vicenda storica che ha connotato in modo determinante l’immagine e una componente essenziale della propria tradizione storica e della stessa individualità, per un altro di metterne in luce, sulla base di una documentazione materiale (in realtà integrata ‘globalmente’ con le altre fonti disponibili) assolutamente originale, rapporti e legami con processi ed ambienti storici più generalmente attinenti alla civiltà medievale toscana e generale. Nella più squisita tradizione archeologica quindi, da luoghi e oggetti concreti ed ‘episodici’ a fenomeni e problemi storici di riferimento. E tuttavia un’analisi territoriale selettiva e mirata, non sistematica a spettro totale: suscettibile ad esempio di essere integrata entro programmi di rilevamento archeologico totale (magari per carte o parchi archeologici)9. Su di un altro piano può essere interessante accennare anche alle modalità di impostazione, per così dire, accademica del progetto qui presentato. Le premesse, che hanno portato già fin qui alla messa a punto delle linee di fondo del progetto, alla sua sperimentazione sul campo, a conseguire alcuni primi consistenti risultati e, infine, all’attuale seconda fase in atto, sono state poste negli ultimi anni. Progressivamente dal 1997 e con maggiore intensità a partire dal 1999 sono infatti state condotte una serie di attività specificamente accademiche, fra ricerca sul campo e formazione avanzata di competenze specifiche; non solo tesi di laurea10 o attività

GLI ALDOBRANDESCHI 113 Strutture materiali di una capitale rurale del Dottorato di ricerca in Archeologia Medievale, ma campagne di studio condotte nell’ambito dei programmi del seminario laureandi della disciplina11. A questo punto, con l’inserimento a pieno titolo nei programmi scientifici dell’Insegnamento12, le attività di ricerca programmate potranno valersi anche della convenzione appositamente stipulata dal nostro Dipartimento13 per sostenere tali progetti, con il CNR (Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali di Montelibretti). Un’attività che, in collaborazione con lo staff dell’Università di Firenze, è in particolare indirizzata al rilevamento dei caratteri fisici delle emergenze (rilievo planimetrico/altimetrico), alla rappresentazione spaziale del territorio (DTM con D- GPS in modalità statica e/o cinematica), all’identificazione e georeferenziazione delle strutture interrate (prospezioni geofisiche e in particolare geoelettriche), alla gestione della piattaforma GIS (fino alla integrazione di scenari 3D) per una lettura integrata delle forme e dei volumi di una selezione di siti e delle strutture che li caratterizzano e per la determinazione di mappe che ne riproducano in maniera precisa i parametri essenziali della rappresentazione morfologica. Tutte procedure che rendono ‘economici’ percorsi di ricerca soprattutto sul fronte del rilevamento e gestione dei dati, con una diretta influenza quindi sulla stessa qualità delle letture storiche territoriali prodotte. Un percorso che, già entro l’anno, vedrà avviate indagini indirizzate verso nuovi obbiettivi, fra quelli selezionati, sempre coniugando attività di ricerca -_ con ricorso anche a indagini stratigrafiche mirate di contesti rilevanti per il progetto _ con stages di formazione specialistica14; un programma che, in prospettiva, punta a favorire una integrazione con i progetti di riqualificazione urbanistica dei centri storici degli EE. LL. e con i piani di sviluppo delle Comunità Montane amiatine15. Una prospettiva e un programma che, è doveroso riconoscere, fin dai primi momenti ha visto un interesse ed una partecipazione di molte amministrazioni locali, in primo luogo di Santa Fiora, le quali hanno appoggiato in vario modo le attività dei ricercatori e degli studenti che hanno a più riprese lavorato intensamente sul campo16. Volendo fare un punto dello stato attuale delle ricerche17, è stato fino a questo punto completato il programma di analisi stratigrafica del costruito sull’intero tessuto urbano di Santa Fiora, di tutto l’impianto murario del castello di Arcidosso, della pieve di Lamula e della rocca di Monte Laterone; inoltre è stata compiuta una sistematica ricognizione sulle murature medievali dei centri storici di Arcidosso e Montelaterone. Gli impegni prossimi, previsti per il programma 2002, saranno costituiti dal completamento delle analisi stratigrafiche delle strutture emergenti medievali localizzate nei comuni di Arcidosso e Castel del Piano (campagne inverno 2001 e estate 2002); mentre alle campagne inverno 2002 ed estate 2003 sarà riservata l’analisi dei siti scelti a rappresentare il versante senese.

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Figura 1: Area di studio e avanzamento della ricerca18

3. L’intervento presentato si riferisce quindi a letture critiche ed interpretazioni per certi versi anche conclusive circa il ‘caso’ considerato, la ‘capitale rurale’19 di S. Fiora, ma può proporsi anche come modello di alcune operazioni di rilevamento e di utilizzo delle procedure di analisi stratigrafiche del costruito _ in verticale, sugli elementi strutturali degli edifici ed in orizzontale, sul tessuto topografico dell’abitato _ colte, contestualizzate ed interpretate per una ricostruzione di precisi processi storici attraversati dalle comunità dell’area campione amiatina considerata. Si tratta di processi relativi non solo alle modalità insediative ma anche ricostruiti come chiave di lettura dei rapporti sociali di un’intera comunità bassomedievale nel lungo periodo; una lettura che investa sia la sfera dei rapporti di produzione e fra questa e le diverse committenze sia anche quella più strettamente politico-istituzionale. La base documentaria materiale così ‘costruita’ ed in strumenti criticamente organizzati costituisce già una vera fonte storica autonoma in riferimento alla quale altri tipi di documenti acquistano un nuovo e specifico valore informativo; in questo senso, ad esempio, i sondaggi compiuti (come quelli preventivati) in vari fondi archivistici si connotano come capaci non solo (e non tanto) di una semplice estensione delle informazioni disponibili ma soprattutto di rendere possibile incrociare le fonti e quindi letture ed interpretazioni più autentiche e profonde anche delle stesse documentazioni scritte20. In concreto, si intende far luce su quelle strutture materiali che caratterizzarono dalla metà del XIII secolo fino alla fine del Medioevo Santa Fiora come un centro politico di primo piano nell’entroterra della Toscana centromeridionale, facendone una delle più rilevanti capitali rurali _ anche come fortuna storica21 _ e peculiari fra quelle che caratterizzarono così ampia parte dei Contadi della Toscana medievale. L’indagine può quindi seguire il consolidarsi ed il mantenersi di un ruolo strategico di questo castrum amiatino, anche quando il territorio dipendente dalla consorteria dei conti di Santa Fiora subisce un drastico ridimensionamento tra gli anni ’30 e gli anni ’80 del XIV secolo. Un ruolo che, sul proprio territorio di riferimento, viene

GLI ALDOBRANDESCHI 115 Strutture materiali di una capitale rurale anzi enfatizzato nel periodo della conquista senese degli anni 1381-1385 dal progetto di trasferire la sede del capitano di Montagna da Arcidosso a Santa Fiora; un’intenzione mai portata definitivamente a termine per la riconquista da parte degli Aldobrandeschi della piazzaforte montana nell’ultimo quarto del XIV secolo. È in questa prospettiva che si è quindi preferito presentare l’analisi archeologica selezionando prioritariamente quelle strutture che ospitarono le istituzioni del governo centrale della contea (essenzialmente il cassero e i palatia comitali) e che quindi contribuirono a differenziare parzialmente Santa Fiora dagli altri grandi centri comitali aldobrandeschi, costituendo così un concreto e visibile connotato peculiare dell’insediamento non solo nel contesto amiatino. Così, le quattro fasi storiche individuate nella edificazione del cassero, marcano e riflettono con sorprendente precisione le tappe più significative dei mutamenti nel controllo comitale sul territorio amiatino tra XII e XIV secolo. Ad una prima fase (secolo XII-prima metà del XIII) si riferisce il primo articolarsi dello sviluppo del cassero _ che denuncia al proprio interno un’area ancora priva di strutture significative, fra la torre centrale ed il circuito murario22 - e lo stabilirsi della signoria aldobrandesca, a cui segue l’emergere delle sue strutture principali, con il palazzo e l’edificazione del ‘palazzo nuovo’ (metà XIII- prima metà del XIV) ed il parallelo affermarsi del primato di Santa Fiora nella contea aldobrandesca, dove compaiono i primi caratteristici insediamenti militari (fortilitie); negli anni Sessanta del ’300 si ha la prima eclissi politica nel controllo comitale di Santa Fiora, relativa ad una poco documentata occupazione senese del castello, cui fa riscontro un ampliamento del palazzo vecchio del cassero, mentre con la fase relativa all’avvento del governo senese (1381-1385), il cassero diviene il centro di una intensa attività edilizia che ne amplia l’estensione e ne sviluppa i dispositivi tattici. A proposito poi degli ‘oggetti’ materiali oggetto primario di queste indagini, in questo caso anche monumentali (oltre al tessuto civile medievale conservato) e parlando d’altro (ma non tanto), credo che solo una comprensione reale della cultura di tali ‘emergenze’ (come si usa definirle, con involontaria ma ben indicativa ambiguità semantica ...) _ non solo nei loro connotati tecnici e materiali, ma anche nel loro significato in rapporto all’ambiente (storico come fisico) che li ha prodotti ed alla società che ce li ha trasmessi _ possa metterci nelle condizioni migliori per effettuare scelte consapevoli per usi o destinazioni funzionali; e, magari, di rendere accettabili, almeno sul piano del metodo, anche eventuali ‘errori’.

Santa Fiora nel medioevo: economia e popolamento

Gli studi condotti sugli insediamenti bassomedievali amiatini hanno principalmente preso le mosse dallo spoglio del fondo diplomatico di San Salvatore al monte Amiata23 e per il basso Medioevo da quello degli archivi delle magistrature comunali di Siena24 e in misura minore di Orvieto25. In entrambi i casi quindi Santa Fiora (che non ha

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fatto parte della dominazione abbaziale e che solo per poco tempo è stata inglobata nel contado senese) sebbene sia stato uno dei maggiori centri montani ha potuto beneficiare solo marginalmente di queste ricerche. Grazie alla scoperta di un cospicuo carteggio tra gli ufficiali senesi a Santa Fiora e il Concistoro datato dal 1381 al 138526 la situazione è stata tuttavia parzialmente riequilibrata e almeno per quel periodo è stato possibile approfondire l’analisi su alcuni aspetti socio-economici della storia di questo centro. La documentazione prodotta dagli ufficiali senesi tra 1381 e 1385 permette inoltre di stimare per la prima volta la consistenza demografica dell’insediamento, sia grazie a puntuali informazioni contenute nel carteggio, sia sulla base delle sottoscrizioni in calce alla carta di sottomissione della comunità a Siena27 stipulata il 27 ottobre 1381. I 195 sottoscrittori, indicati come i due terzi “personarum et hominum terre”, rappresenterebbero infatti una popolazione totale stimabile tra i 1025 e i 1120 abitanti 28. Pur considerando il sostanziale calo demografico dai livelli di inizio Trecento Santa Fiora pare quindi in questo momento di gran lunga il maggior centro amiatino e con più di mille abitanti supera i 700 di Castel di Badia e i forse 5- 600 di Arcidosso nella stessa epoca29. La fine del XIV secolo si segnala inoltre anche in Maremma come un periodo di gravissima crisi demografica che vede sensibilmente ridimensionata la consistenza dei maggiori centri della pianura30, tutti con livelli di popolamento inferiori ai grandi castelli amiatini (100 uomini a Grosseto, 40 a Magliano e addirittura 8 per , contro rispettivamente 1200, 400 e 50 di qualche anno prima. Il raccolto del grano scende da 40.000 a 5000 moggia)31. Non vanno infine ignorati gli indizi che indicano, anche a Santa Fiora, come la fine del XIV secolo sia caratterizzata da una generale e consistente contrazione demografica rispetto ai livelli di popolamento del cinquantennio precedente. In questo senso è forse sintomatica del trend demografico la diminuzione del numero di mulini da granaglie. Mentre infatti alla fine del XIII secolo risultano attivi nel castello almeno tre mulini che lavorano il frumento32 solo uno di essi sopravvive fino al 138133 e a detta degli ufficiali senesi, con una scarsa capacità di macinazione34. Il consistente calo demografico non si arresta comunque a Santa Fiora ai livelli dell’epoca della sottomissione, ma prosegue drammaticamente a causa di una ulteriore epidemia che scoppia durante il luglio 138335 e costringe anche i contingenti senesi a prendere la via del bosco come aveva probabilmente già fatto la maggior parte della popolazione. All’inizio di ottobre risultano decedute più di cinquecento persone tra senesi e santafioresi36 e alla fine dell’epidemia, un mese dopo, Santa Fiora non conta più di quattrocento uomini37, forse 900 persone in tutto. A distanza di un altro anno poi, e in seguito ad un’altra ondata di pestilenze, la popolazione è ulteriormente diminuita a 240 uomini, compresi un buon numero di pastori forestieri38. Nell’arco di un biennio la popolazione del castello amiatino si riduce quindi ulteriormente di circa il 60%.

GLI ALDOBRANDESCHI 117 Strutture materiali di una capitale rurale

Il Cassero di Santa Fiora

Le vicende costruttive di un manufatto architettonico medievale sono spesso estremamente evanescenti nelle registrazioni documentarie coeve, in particolare quando non si tratti di un edificio ecclesiastico oppure di un’opera situata all’interno di quelle (rare) aree geografiche più densamente documentate, frequentemente imperniate su un grosso centro urbano. Nel caso specifico il cassero di Santa Fiora ‘gode’ quindi di tutte le condizioni necessarie al naufragio della propria storia: sia per il suo essere un manufatto architettonico militare, sia a causa dell’esiguità della documentazione di archivio riguardante Santa Fiora per il XII e XIII secolo e in generale prima del 138139. A rendere ancora più squilibrata la disponibilità di fonti scritte va inoltre considerato che, mentre per il periodo che va dagli anni ’70 del XIII secolo agli anni ’80 del secolo seguente le menzioni del cassero sono poco più che attestazioni incidentali dell’esistenza della struttura inserite nelle date topiche di vari documenti; per gli anni 1381-1385 sono disponibili rapporti quasi giornalieri sullo stato di avanzamento del cantiere della nuova fortezza trasmessi al Concistoro di Siena dagli ufficiali di stanza a Santa Fiora. In tale situazione diventa quindi difficile relativizzare l’epoca della dominazione senese nel contesto della long durée della storia di questa rocca amiatina. La riconquista aldobrandesca di Santa Fiora del 1385 segna inoltre l’inizio di una nuova lacuna documentaria che si conclude definitivamente solo (ma mancano ricerche accurate sui fondi cinque- seicenteschi) con le ristrutturazioni tardo settecentesche dei ruderi del complesso fortificato medievale. A partire dalla documentazione illustrata nella Tabella 1, si possono distinguere almeno tre redazioni del cassero precedenti a quella senese del 1381-1385, che marcano le tappe più significative Figura 2: Pianta di Santa Fiora con indicazione del cassero delle mutazioni nel controllo

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Tabella 1: schema sintetico delle fonti documentarie sul cassero 1144 prima menzione del castrum Sancte Flore40. 1205 menzione del castellano di Santa Fiora41. 1251 - 1256 probabile epoca di costruzione del Palatium42. 1274 prima menzione della Fortilitia di Santa Fiora43. 1285 menzione del Palatium Casseri di Santa Fiora44. 1292 ultimazione del Palatium Novum45. 1362 prima dominazione senese46. 1365 rifortificazione del cassero a opera del conte Senese di Stefano47. 1381 - 1385 seconda dominazione senese.

comitale sul territorio amiatino tra XII e XIV secolo. In primo luogo sebbene per il secolo che intercorre tra il 1142 ed il 1254 siano disponibili tre soli documenti e si sia quindi tendenzialmente esposti al rischio di sottostimare la portata degli interventi di XII e primo XIII secolo, si può comunque ricordare che il ruolo di preminenza raggiunto da Santa Fiora nella contea di Ildebrandino di Bonifacio (I) era a quell’epoca molto di là da venire (resta inoltre al momento impossibile chiarire l’influenza su Santa Fiora della dominazione imperiale del 1241-1251).

D’altro canto, anche dal punto di vista delle strutture sopravvissute fino ad oggi, il XII secolo48 è rappresentato pressoché esclusivamente dalla torre B, un edificio dalla muratura così ben caratterizzata da sopire quasi ogni dubbio di attribuzione di altre strutture della rocca allo stesso cantiere49.

Figura 3: planimetria cassero con indicazione degli ambienti

L’analisi archeologico-stratigrafica tenderebbe quindi in questo caso a rafforzare le conclusioni tratte sul piano documentario, con la notazione aggiuntiva della materiale assenza di strutture analoghe alla torre maggiore50, per tecnologia muraria, nel complesso edilizio della Roccaccia.

GLI ALDOBRANDESCHI 119 Strutture materiali di una capitale rurale

Figura 4: assonometria della torre

2. Secolo XII-p.m. XIII

Fase I.1 La fase I.1 ha come unico testimone la torre B51 stessa, vista nel suo ‘isolamento stratigrafico’ come struttura unica sopravvissuta di questa prima fase di fortificazione. La USM 9852 sembrerebbe indicare un cambiamento di progetto a circa metà degli attuali 32 m. di altezza, con l’arretramento dell’ampiezza di un concio dell’angolata NW. Benché in questo singolare raddoppio di angolata, che non si ripete negli altri spigoli della torre, potrebbe anche ricercarsi il segno di una interruzione del cantiere, forse addirittura Figura 5: planimetria sec. XII una cesura ‘stagionale’ tra

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inverno e primavera ricollegabile eventualmente anche all’indicazione del lavoro eseguito dalle maestranze in vista del pagamento53. Alla stessa fase appartengono le aperture USM 52 e 61, oltre alla porta vera e propria USM 85, ubicata a circa 8 metri di altezza e servita probabilmente da una scala lignea esterna54. Un’altra apertura si trovava probabilmente nella zona in cui fu aperta, nel corso del Trecento, la porta USM 66. Il prospetto N (vedi Figura 14) pare sia stato il solo su cui si aprivano porta di accesso e finestre, pur non potendo essere certi che il restauro settecentesco dell’intera facciata non abbia obliterato aperture analoghe sul prospetto ovest, su cui attualmente si aprono le finestre delle celle delle ex carceri comunali (USM 4, 9, 17, 22, 29).

Fase I.2 Con il primo articolarsi dello sviluppo del cassero l’interpretazione dei dati si fa più incerta, particolarmente per l’epoca più vicina al XII secolo e per gli inizi del secolo seguente. In primo luogo è necessario distinguere i due ordini di ipotesi che concorrono a delineare il profilo di questa fase: i dati desumibili dai prospetti della torre e quelli desumibili dall’analisi planimetrica del complesso nello stato attuale.

Dal punto di vista delle attuali sopravvivenze evidenziabili in pianta si deve distinguere il caso del setto murario che divide gli ambienti A e C, appoggiato alla torre B, che mostra in un’angolata segni di lavorazione simili a quelli del paramento di B (USM 47 e 49); da quello del muro che delimita verso ovest gli ambienti H e I, per il quale, essendo totalmente intonacato, l’ipotesi di attribuzione a questa fase è basata esclusivamente sul dato topografico. Il muro ovest degli ambienti H ed I infatti, per dimensioni e posizione, potrebbe essere considerato parte del circuito murario del castrum o piuttosto, in relazione a quanto è stato osservato a Selvena55, un ridotto fortificato della rocca di XII e primo XIII secolo. A questa stessa fase (anche se non è possibile dire in quale relazione con la torre) appartiene inoltre un lacerto alla base della muratura della facciata della struttura C/E verso la piazza (vedi pianta). Per quanto riguarda i dati stratigrafici relativi alla torre B, si è invece ipotizzato che il più antico edificio appoggiato a essa sul lato est fosse quello testimoniato dal segno di tetto USM 50, forse in relazione con il solaio USM 58. Alla base di questa scelta la motivazione che un simile edificio, avrebbe rispettato la funzionalità degli elementi strutturali della torre non impedendo l’uso della porta USM 85, né quello delle aperture USM 52 e 61. Si tratterebbe quindi di un intervento che considera ancora la torre B come il fulcro del sistema difensivo del complesso.

GLI ALDOBRANDESCHI 121 Strutture materiali di una capitale rurale

Fase I.3 A una fase successiva, da collocarsi probabilmente nell’ambito della prima metà del XIII secolo, risale la realizzazione della facciata est (quella verso la piazza) del palazzetto C/E e una recinzione in muratura di cui sono state individuate cospicue porzioni in occasione del piccolo scavo stratigrafico che ha preceduto il ripristino della scarpa nord dell’ambiente A56. Figura 6: planimetria sec XIII Questo setto murario, indicato in tratteggio nella tavola, potrebbe aver costituito il limite dell’area fortificata duecentesca in questo punto. Per quanto riguarda invece il prospetto est di C/E, pur nella difficoltà di leggere la stratificazione delle diverse murature a causa della estesa presenza di intonaco residuale sulla facciata (che adesso è totalmente intonacata), si è potuto comunque cogliere con certezza l’avvicendamento tra la muratura realizzata con grande cura a piano terra (USM 202) e una seconda più grossolana visibile dall’interno circa 2 m più in alto (USM 283). Su questo prospetto si trovavano inoltre almeno 2 aperture al primo piano (USM 221 e 284), delle quali la seconda, visibile dall’interno, sembrerebbe per le dimensioni assimilabile a una porta (forse un ingresso a un piano rialzato accessibile dall’area della piazza).

Conclusioni fase I Per il periodo che va dal XII secolo (probabilmente la metà) agli anni ’50 del secolo seguente la rocca sembra quindi focalizzata sulla torre B che forse delimitava in un primo momento anche il perimetro sul versante nord occidentale del complesso signorile (fino all’appoggio della struttura sulla metà del lato nord). Come accade ad Arcidosso e probabilmente anche a rocca Silvana, in questa prima fase il limite delle mura castrensi e quello degli apprestamenti militari signorili non coincidono.

3. Seconda metà secolo XIII-p.m. XIV A un certo dinamismo pare essere improntata la fase successiva della vita di questo complesso, dalla seconda metà del XIII secolo agli anni ’60 del secolo seguente, che vede l’avvicendarsi anche serrato di interventi sulla struttura della Roccaccia.

122 GLI ALDOBRANDESCHI Strutture materiali di una capitale rurale

Si tratta di un’epoca in cui il primato di Santa Fiora nella contea aldobrandesca si afferma a causa della scelta del castello amiatino quale sede preferita della famiglia comitale del ramo di Bonifacio I, che tratta da qui la stragrande maggioranza degli ‘affari di stato’. Nella perdurante carenza documentaria l’impronta di fondo di questa scelta si manifesta nell’emergere delle strutture del cassero con il suo palazzo e, a partire dal 1292, dall’edificazione del palazzo nuovo. Si tratta di un periodo per il quale le fonti sopravvissute consentono di legare lo sviluppo delle strutture difensive a un nuovo modello di governo fondato sul controllo di un numero limitato di grandi basi militari, le fortilitie, con capacità di intervento in ambito zonale (sovradistrettuale) e d’altra parte, la creazione di un centro politico in Santa Fiora. Sul versante materiale si assiste quindi a Santa Fiora alla predisposizione di strutture atte a perseguire gli scopi di controllo militare, con l’edificazione del cassero (fosse questo distinto o meno dalla fortilitia) e quelli di governo politico-amministrativo regionale: il palazzo e il palazzo nuovo. Figura 7: planimetria 1256 - p.m. sec. XIV

Fase II. 1 La prima sostanziale innovazione rispetto alla fase precedente sta nel cambiamento del ruolo rivestito dalla torre B che vede ridimensionata la sua valenza strategica in favore di un sempre maggiore avvicinamento a una funzione par- residenziale. Il dato più rilevante di questa fase databile alla seconda metà del XIII secolo è infatti costituito dalla fine dell’isolamento della torre maestra che fino ad allora aveva conservato in funzione i principali dispositivi di XII secolo, in particolare relativamente agli accessi ed alle altre aperture. Si tratta di una fase estremamente importante e complessa che culminerà con la trasformazione di una rocca di medie dimensioni in uno dei maggiori complessi palaziali-militari della contea. L’assetto generale di questo periodo è caratterizzato dalla creazione di una corte parzialmente addossata al lato N della torre B e delimitata verso est dal muro ovest dell’ambiente A. Una traccia di questo ricetto è ancora riconoscibile sul prospetto ovest dell’ambiente A nella USM 304, linea in cui il muro del palazzo curvava di 90° per disporsi parallelo al lato N della torre B.

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Allo stesso modo sulla torre maggiore resta il segno di un tetto a due pendenze (USM 65 e 71) perfettamente allineato al muro ovest dell’ambiente A, a ulteriore conferma dell’esistenza del cortile. L’accesso alla torre maestra continua a essere praticato dalla porta USM 85, benché la preesistente struttura lignea sia stata a questo punto sostituita da un corpo di fabbrica in muratura, forse non diversamente da quanto ancora oggi osservabile nel castello di Arcidosso. Per quanto riguarda invece il limite settentrionale del palatium (A) non è possibile stabilire esattamente come si comportasse la struttura duecentesca in corrispondenza delle attuali USM 311 e 312 (v. Figura 16), se cioè essa raggiungesse il limite attuale dell’ambiente A o si fermasse prima di questo. Poiché tuttavia il prospetto nord del palazzo per i caratteri delle murature è databile al pieno XIV secolo sembra probabile che il palazzo di metà XIII secolo si fermasse prima del muro di cinta dell’area fortificata duecentesca. Non è inoltre facile stabilire se l’attuale ambiente A conservi strutture del palazzo vecchio (a. 1256 circa) oppure di quello nuovo (a. 1292). Dall’analisi dei paramenti murari sembrerebbe comunque probabile che sia l’ambiente A che gli ambienti C ed E rappresentino fasi diverse del palatium più antico (o di parte di esso). Entrambe le strutture sono infatti collocabili nell’ambito della fase mensiocronologica M1, che pare concludersi poco dopo la metà del Duecento. Se si accetta questa ipotesi l’edificazione del palatium di Santa Fiora tra 1251 e 1256 sembrerebbe quindi essere stata un cospicuo ampliamento dell’area residenziale della fortezza già precedentemente esistente e costituita dagli ambienti E e C (ma non limitata ad essi). Un altro elemento chiave negli sviluppi urbanistici di questa fase è costituito dalla costruzione della torre G e dalla prima redazione della torre F (USM 204), la cui muratura si appoggia al muro orientale dell’edificio E/C, occludendo parzialmente la finestra USM 221. Essendo questa muratura tipologicamente identica a USM 301 dell’edificio A (prospetto nord) è ipotizzabile che l’edificazione del palazzo comitale comportò la contestuale fortificazione del prospetto est delle precedenti strutture residenziali. Dall’ampliamento del nucleo palaziale più anticamente connesso con la rocca (C, E), con l’accostamento di un grande edificio (A), e di una linea fortificata (F, G) si originò quindi il complesso architettonico del palazzo del 1251-56, che sarà detto vecchio all’indomani dell’edificazione dell’altro palazzo del 1292. In particolare la presenza delle torri F e G, connessa alla definizione di un recinto fortificato farebbe ipotizzare una contemporaneità tra l’edificazione del palazzo e la definizione dello spazio del cassero, per cui si chiarirebbe l’occorrenza documentaria di un “palatium casseri” nel 128557, da identificare con il complesso ottenuto dalla risistemazione dell’antico edificio C/E più l’edificio A, il cui ingresso sarebbe stato a quell’epoca consentito solo dall’interno della cittadella. Per quanto riguarda il palazzo nuovo (a. 1292) invece, alla localizzazione di questo secondo complesso di fine XIII secolo sono forse riferibili le tracce del cospicuo

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edificio di 4 piani addossato sul lato ovest della torre maestra (Figura 13) e di cui ha lasciato traccia nelle USM 8 (tetto), 1358, 21, 23 e 32-33-3459 (solai).

Conclusioni Fase II La seconda metà del Duecento segna nella contea aldobrandesca un’epoca di intensa attività edilizia nei maggiori castra a causa dell’edificazione di grandi fortezze urbane dette casseri. La costruzione di queste piazzeforti avviene congiuntamente alla riorganizzazione del governo del principato dopo la dominazione federiciana e potrebbe indicare un parziale accoglimento, in quell’ambito, di istanze emerse durante gli anni di governo imperiale. Ciò nonostante, la comparsa generalizzata delle fortezze urbane, era stata anticipata nella prima metà del secolo almeno da uno dei castra dell’area sovanese, Pitigliano, il cui cassero è attestato già dal 122360. A circa trenta anni di distanza si situano invece le fortificazioni di Santa Fiora, Castiglione Valdorcia61 e Orbetello62, mentre per gli altri grandi centri militari aldobrandeschi si hanno attestazioni solo a partire dagli anni ’70, e nella maggioranza dei casi non prima della menzione nella lista della fortilitie del 127463. Questa cronologia delle attestazioni potrebbe forse rispecchiare l’effettivo avvicendamento di due ondate nel processo di costruzione degli impianti strategici della contea, con una prima fase databile agli anni ’50 ed una seconda agli anni ’70 del Duecento, anche se va precisato che non si sono compiute verifiche sulle date topiche di documenti inediti rogati nei centri provvisti di cassero nel 1274. In ogni caso, sul versante urbanistico, la portata degli interventi del secondo XIII secolo è enorme, e trova a Santa Fiora un paragone adeguato solo nell’attività dei cantieri senesi del 1381-85. Come è stato evidenziato dalla lettura stratigrafica del complesso fortificato di Santa Fiora, l’edificazione del palazzo vecchio e del cassero comportò una complessa opera di ristrutturazione della rocca più antica e dei primi edifici residenziali. In particolare il nucleo di costruzioni sorto ai primi del Duecento attorno alla torre maestra, caratterizzato forse da un accesso al primo piano (USM 284) raggiungibile attraverso un ballatoio o un profferio e legato all’attività degli ufficiali locali, vede a metà del XIII secolo il prospetto sulla piazza inglobato nella cinta muraria della cittadella, un cambiamento che prelude a una radicale svolta nell’urbanistica di questa area. Fin dalla metà del XII secolo l’area a sud della torre B era stata infatti occupata dalla piazza del castello, prospiciente la chiesa di S. Leonardo e i più antichi presidi militari aldobrandeschi. L’edificazione del primo complesso di palazzi signorili, portato a termine in due fasi distinte (USM 202 e 283), con l’accesso in direzione della piazza, mostra come lo spazio urbano fosse focalizzato su un’area ‘aperta’, delimitata dai fronti di accesso degli edifici che vi si affacciavano. La situazione che si determinò alla chiusura dei cantieri del cassero del 1251-1256 non doveva invece discostarsi molto da quella osservabile ancora oggi nelle piazze di castello di Arcidosso e Piancastagnaio, con le fortificazioni delle rispettive rocche

GLI ALDOBRANDESCHI 125 Strutture materiali di una capitale rurale a ridosso di spazi angusti nelle cui immediate adiacenze si trova la chiesa e la porta maggiore del castello. A Santa Fiora l’ingresso principale era costituito dalla scomparsa ‘Porta del cassero’ (che si apriva sul tracciato di via Cesarini Sforza) che dava accesso alle fonti di Castello poste lungo la via pubblica che conduceva a Pitigliano e Sovana. All’interno del recinto fortificato del cassero si levava il palatium comitale, il cui accesso era consentito esclusivamente dalla cittadella e che, a differenza di quanto era forse avvenuto per la residenza dei primi ufficiali comitali64, non comunicava direttamente con il resto del castello.

4. Prima metà secolo XIV Per quanto riguarda il cassero propriamente detto non ci sono evidenze documentarie che attestino un’attività edilizia su larga scala all’indomani dei primi anni del XIV secolo ed è quindi ipotizzabile che le strutture realizzate tra gli anni ’50 e gli anni ’90 del XIII secolo siano state usate con poche modifiche fino agli anni ’60 del secolo seguente. La prima metà del XIV secolo pare infatti delinearsi come un’epoca in cui le lacerazioni interne alla famiglia comitale avrebbero fatto optare i singoli membri della consorteria per soluzioni particolaristiche anche nell’ambito delle strutture militari di Santa Fiora. Il portato più evidente di questa situazione sarebbe da individuare nell’emergere di strutture palaziali di proprietà dei singoli esponenti spesso dotate di dispositivi fortificati di ascendenza prettamente militare, cui potrebbe aver fatto da contraltare una minore attenzione verso le strutture di interesse comune dell’intero gruppo parentale (quale doveva apparire appunto il cassero65).

Strategie famigliari dei conti di Santa Fiora nel XIV secolo

Alla fine del XIII secolo la consorteria aldobrandesca di Santa Fiora inaugura strategie familiari nuove, con l’abbandono del modello della famiglia ‘stretta’ e l’allargamento della base ereditaria. La ventesima generazione di Aldobrandeschi si contraddistingue infatti per l’elevato numero di discendenti legittimi (sei) di Ildebrandino XI. L’impresa paterna è inoltre ripetuta, nella generazione 21, da Ildebrandino XIII e dal fratello Enrico II il vecchio. La generazione 22 mostrerà invece gli esiti radicalmente opposti di un comportamento matrimoniale apparentemente analogo, allorché il ramo di Ildebrandino XIII conterà un solo erede e quello di Enrico II 12 (tra legittimi ed illegittimi). Il vertiginoso aumento dei membri della consorteria comitale è spesso enfatizzato dalla cospicua presenza di figli illegittimi, con diritti ereditari limitati. Inoltre non tutti i discendenti legittimi sembrano aver partecipato paritariamente al governo del principato, né aver condiviso costumi matrimoniali analoghi. Dei 10 figli di Ildebrandino XIII solo il conte Stefano si riproduce e anche nella discendenza di

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Enrico II, dei 5 figli legittimi, solo Pietro e Binduccio trasmettono alla prole i propri beni, che successivamente confluiranno nelle mani di Ildebrandino XV (generazione 22) e da questi a Guido III di Senese, unico discendente del ramo di Ildebrandino XIII66 (generazione 23). Nonostante la generalizzazione del titolo comitale tra tutti i membri della famiglia, la guida del gruppo parentale è affidata dalla fine del Duecento a Ildebrandino XIII e a Enrico II il vecchio, che operano spesso congiuntamente negli atti di interesse collettivo. La prevalenza di questi due conti, almeno fino agli anni ’30 del Trecento, è continuata dai discendenti diretti, che eserciteranno le prerogative dei propri avi in seno alla consorteria anche qualora esponenti più anziani siano tuttora in vita. Lo status dominante di Ildebrandino XIII ed Enrico II si manifesta anche nella similarità dei costumi matrimoniali dei due conti, la cui prolificità (rispettivamente 10 e 5 figli) contrasta con la sterilità o la bassa fertilità (uno o due figli al massimo) dei fratelli (v. Figura 7). È quindi probabile che la numerosa prole di alcuni conti fosse indice del ruolo ricoperto nel governo della contea e trovasse una sorta di archetipo nel comportamento matrimoniale di Ildebrandino XI, capostipite della dinastia amiatina. Nonostante la divisione della contea di Santa Fiora del 1297, almeno fino agli anni ’60 del Trecento, la famiglia comitale viene congiuntamente rappresentata presso terzi, sia nella consegna di castelli67, che nei confronti della sede apostolica68, che per la stipulazione dei reiterati atti di pacificazione con Siena69. E anche se le cicliche sottomissioni dei castra avvengono per mano dei titolari legittimi, tutti i membri della consorteria procedono contestualmente alla nomina dei procuratori70. Purtroppo non è sempre facile districarsi tra le molte attestazioni dell’attività dei conti di Santa Fiora nel Trecento (soprattutto di matrice senese) e quindi chiarire completamente gli indirizzi e i risultati della loro politica. All’inizio del XIV secolo sembra effettivamente che essi abbiano continuato a mantenere il primato politico e militare in area amiatina, e che lo abbiano anzi rafforzato con l’acquisizione di beni appartenenti ai conti di Sovana (Casteldelpiano71) e all’abbazia di San Salvatore (Monticello, Lamulas, Gravilona e Castel di Badia72). Anche in Maremma si registrano acquisizioni sostanziali come la fortilizia di , il castello di Morrano (dai conti di Sovana), (dal Patrimonio di San Pietro) e Scerpena73. La pressione di Siena fu invece inizialmente avvertita nella parte settentrionale della contea dove il comune urbano acquisì precocemente la fortilitia di Roccastrada74 e i castelli di Belforte, Radicondoli e Monteguidi75. La crisi pare invece accentuarsi negli anni ’30 quando gli Aldobrandeschi perdono in seguito a una guerra l’importantissimo castello amiatino di Arcidosso76. In quello stesso periodo la sottomissione a Siena dei castelli dei conti di Santa Fiora mostra inoltre gli sviluppi della divisione del 1297. All’atto sono presenti gli eredi di Ildebrandino XIII (Guido II e Stefano), quelli di Bonifacio II (Pietro e Giacomo) e Conticino di Guido77. Spicca l’assenza del ramo di Enrico II che era stato fino ad allora una delle componenti

GLI ALDOBRANDESCHI 127 Strutture materiali di una capitale rurale più attive della famiglia e la leadership famigliare sembra essere passata nelle mani del ramo di Bonifacio II. La conferma dell’esistenza di tensioni tra i diversi lignaggi comitali viene nel 1343, quando il conte Giacomo fa redigere il proprio testamento a favore del comune di Siena78. Poco tempo dopo la crisi sembra però ricomporsi visto che i discendenti di Enrico II e Ildebrandino XIII testimoniano congiuntamente alla vendita di metà di Selvena compiuta da Pietro in favore del fratello Giacomo (eredi di Bonifacio II). Infine nel 1348 anche gli eredi di Enrico II ratificano la pacificazione generale con Siena79. I contrasti interni alla consorteria comitale degli anni ’30 e ’40 sembrano strettamente collegati all’atteggiamento di alcuni dei lignaggi nei confronti della città ‘dominante’. L’ostilità dei discendenti di Enrico II verso Siena potrebbe aver giocato un ruolo importante nella momentanea perdita di potere di questo ramo all’interno della compagine familiare. Estintosi alla soglia degli anni ’50 il ramo di Bonifacio II e prematuramente scomparso Stefano80 di Ildebrandino XIII, gli eredi di Enrico II si trovano per un decennio a essere gli unici titolari della contea di Santa Fiora. Questo lignaggio aldobrandesco è perfettamente conforme al modello famigliare introdotto da Ildebrandino XI, al suo interno spicca infatti un erede principale (Pietro II) molto prolifico, accanto ai fratelli con discendenza limitata. A sua volta Pietro II battezza il primogenito con il nome eponimo (Ildebrandino XV) che identifica tendenzialmente a ogni generazione il leader della consorteria. È quindi probabile che il ramo di Enrico II rivendica anche sul piano simbolico, attraverso i costumi matrimoniali, il governo della contea. Al pari della discendenza di Ildebrandino XI anche quella di Enrico II non è però immune dalle tensioni tra erede principale e ‘cadetti’. In particolare il conte Andrea concede dapprima a Siena l’enfiteusi sull’importante centro maremmano di Magliano81 e designa infine il comune erede universale nel proprio testamento82. Negli anni ’60 inoltre anche il conte Senese, ultimo erede del ramo di Ildebrandino XIII, lotta contro la fazione di Enrico II per affermare i propri diritti. Il primo atto che lo vede protagonista riguarda infatti la cessione in affitto a Siena dei possedimenti (ancora una volta) di Magliano83, forse un espediente usato dal giovane conte per garantirsi la protezione del comune urbano contro i consorti (secondo una consolidata tradizione familiare inaugurata da Bonifacio I agli inizi del XIII secolo). A ulteriore conferma il conte Senese scrive nel 1365 agli ufficiali della città per informarli che gli eredi di Enrico II, con l’appoggio di Bonconte Monaldeschi di Orvieto, stavano radunando gente armata per un attacco di sorpresa a suo danno84. Garantendo il proprio appoggio al conte Siena riesce a quel punto a intervenire promuovendo nel febbraio 136685 la pacificazione tra Senese e i biscugini Ildebrandino XV e Francesco, che avevano con tutta probabilità tentato di diseredarlo. Gli anni ’70 del Trecento sono un periodo in cui prevale nuovamente la solidarietà all’interno della famiglia comitale, composta dagli ultimi eredi dei lignaggi ‘principali’ della discendenza di Ildebrandino XI. In questo periodo si assiste addirittura a una

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certa ripresa dell’iniziativa dei conti nei confronti della repubblica di Siena con il tentativo di recuperare i castelli di Arcidosso86, Selvena e l’effettiva riconquista di Marsiliana87. A distanza di cinque generazioni si può quindi tentare un bilancio della strategia familiare inaugurata da Ildebrandino XI. Nei circa ottanta anni dopo la sua morte, nonostante le defezioni di alcuni membri dei rami cadetti88, l’impianto generale regge e consente la trasmissione unitaria dei centri di Santa Fiora, Triana, Castellazzara, Magliano e Scansano (Selvena verrà reintegrata solo nel ’400), a Guido III di Senese, adottato nel testamento da Ildebrandino XV ultimo erede del ramo di Enrico II89.

I conti di Santa Fiora 1 - ramo di Ildebrando XIII 1208-1438 ca. (generazioni 18-24)

Bonifacio

Ildebrandino XI di Santa Fiora

Ildebrandino XIII Umberto II Bonifacio II Guglielmo II Enrico II Guido Nicola Mezzoconte Cinof. n. Gualterio f. n. f.n. - Ildebrando XIV - Enrico III Pietro Giacomo Conti di Santa Fiora 2 Conticino f.n. Guido f.n. - Guglielmo III - Guido II Stefano - Giovannni Guidarello - Cino f. n. - Gultiero f.n. - Baldiruccio f.n. Niccola Andrea Senese - Arriguccio f.n. = = - Orlando f.n. Giovannnni Bindo del Nerucci Tolomei Guido II da Casole

Federico Cecilia Giovanna Gabriella = Bosio Sforza

Conti Sforza di Santa Fiora

Figura 8: albero genealogico dei conti di Santa Fiora

L’edilizia monumentale

La divisione di beni e rendite della famiglia comitale di Santa Fiora aveva prodotto a partire dal 1297 sei lignaggi virtualmente indipendenti legati dalla gestione politica comune del principato. Tra i vari rami due erano stati più direttamente interessati dalle responsabilità di governo: quelli di Ildebrandino XIII e di Enrico II il vecchio. Così come sul versante documentario la prevalenza di tali lignaggi è testimoniata dal ruolo di rappresentanza semi permanente del Comitatus Ildibrandischus che

GLI ALDOBRANDESCHI 129 Strutture materiali di una capitale rurale congiuntamente avevano esercitato; sul piano (per così dire) della documentazione materiale, la loro posizione dominante nella famiglia si incarna nell’edificazione dei palazzi urbani. La prima comparsa di questo nuovo tipo edilizio avviene nel 1331, quando il “palatium domini comitis Henrici”90 è menzionato nella data topica di un atto. Si trattava di fatto del primo cambiamento significativo da quasi un secolo nella rogatio delle carte aldobrandesche, fino ad allora redatte quasi esclusivamente nel palazzo del cassero (da ora in poi indicato prevalentemente come “palatium Dominorum Comitum de Sancta Flora”91). Le ragioni che indussero Enrico II a edificare un palazzo ‘privato’ e distinto da quello della cittadella furono probabilmente di ordine politico. Come capo riconosciuto (assieme al fratello Ildebrandino XIII) della consorteria si era probabilmente resa necessaria la materializzazione del suo status di prevalenza, ma non reale dominio, all’interno del principato. D’altro canto si è già visto come Enrico II avesse manifestato anche attraverso i costumi matrimoniali le proprie ambizioni egemoniche all’interno della consorteria. Egli sembra quindi agire di conseguenza mantenendo da un lato lo status super partes del palazzo del cassero, e promuovendo contemporaneamente la costruzione di un palazzo che, sebbene non investito da alcuna qualificazione pubblica, testimoniasse il suo ruolo politico nella famiglia. Al 1344 risale inoltre un atto rogato in “domo et sala domus” del conte Stefano di Ildebrandino XIII92, probabilmente un edificio simile al palatium di Enrico II visto che nel 136793 il conte Senese, discendente di Stefano, possedeva un palazzo a Santa Fiora. Questo secondo edificio potrebbe esser stato forse costruito già da Ildebrandino XIII contemporaneamente al palazzo di Enrico II e probabilmente con lo stesso scopo. Dopo circa un decennio dalla sua costruzione, il palatium di Enrico II viene fortificato, come dimostra la presenza del confesso che lo circonda nel 134594. A una fase più tarda di qualche decennio dovrebbero inoltre appartenere altri due95 palazzi urbani fortificati96, commissionati probabilmente dai figli di Enrico II (Giovanni III e Binduccio) o dai suoi nipoti97. Questa seconda generazione di fortilizi sembrerebbe databile agli anni ’60 del Trecento, l’epoca segnata dal tentativo del lignaggio di Enrico II di diseredare il conte Senese98 e dai primi tentativi di Siena (parzialmente riusciti) di esercitare su Santa Fiora i diritti ereditati dal conte Andrea (v. nota 85). La costruzione di piccole fortezze urbane a Santa Fiora segnala quindi il clima di aperta violenza tra il lignaggio di Enrico II e quello di Ildebrandino XIII intorno al 1360. In quel periodo i vari esponenti Aldobrandeschi sembrano infatti dotarsi di ‘basi militari’ adatte alla guerriglia urbana tentando di sostenere i propri diritti con la forza. La costruzione delle fortificazioni dei palazzi potrebbe inoltre segnare la comparsa di una distrettualizzazione interna all’insediamento che, forse nata per gestire i proventi signorili, serve adesso a organizzare le fazioni che appoggiano l’uno o l’altro conte. A testimonianza di ciò il cronista senese Paolo di Tommaso Montauri ricorda come Ildebrandino XV abbia incendiato 30 case di Santa Fiora per ritorsione

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contro Guidarello di Conticino, un membro collaterale della famiglia che diventa verso la fine del Trecento il capo del partito aldobrandesco più vicino ai senesi99.

Il palazzo del conte Giovanni

I resti materiali dei palazzi aldobrandeschi di metà Trecento sono purtroppo molto esigui, tanto da non consentire alcuna ricostruzione (nemmeno planimetrica) delle strutture100. L’assoluta maggioranza dei dati su di essi proviene infatti dalle fonti scritte che spesso consentono però di individuare solo la localizzazione degli edifici. In particolare i palazzi dei conti Francesco101 e Ildebrandino XV (già di Enrico II) erano situati nell’area dell’insediamento dove fin dal XIII secolo si era concentrata la maggioranza dei beni comitali: sulla piazza di castello. Dei due edifici non è sopravvissuto niente di rilevante dopo l’ampliamento del cassero all’epoca della dominazione senese e la successiva costruzione del palazzo Sforza Cesarini nel Cinquecento. L’unico lacerto di muratura attribuibile alle strutture dei palazzi è costituito forse dalla USM 271 del cassero, utilizzata nel 138-85 come base dell’antiporto della fortezza. Sia tipologicamente che per i caratteri mensiocronologici il campione presenta infatti qualche analogia con le murature del palazzo del conte Giovanni e dovrebbe essere appartenuto al palazzo del conte Francesco102. Nell’impossibilità di apprezzare pienamente la portata dell’inserimento dei ‘palazzi forti’ sulla piazza maggiore, un’idea della consistenza di questo tipo di strutture può essere cercata unicamente in ciò che resta del palazzo del conte Giovanni; un complesso architettonico piuttosto consistente provvisto di un’area residenziale (palatium) e di uno spazio aperto fortificato, menzionato per la prima volta nella carta inventario del 1381(?)103.

Questo palazzo sembra esser stato l’unico (dei quattro attestati) localizzato al di fuori dell’area sommitale dell’insediamento e in prossimità della porticciola di accesso al Borgo. L’edificio ormai in rovina si presentava alla fine del Trecento come una casa fortificata urbana prospiciente una piazza, situata presso le mura castrensi e dotata di un ‘giardino’ ricavato probabilmente nell’antica ‘zona di rispetto’ interna alla cinta di Castello104. Più ancora che la casa “a la Ripa” di Ildebrandino XV però il palazzo del conte Giovanni riesce a influenzare il tessuto urbano circostante, sia per le dimensioni del complesso, sia soprattutto perché esso oblitera le strutture preesistenti di una porta del circuito murario di XII secolo che venne così a scomparire. Nel 1382 il palazzo del conte Giovanni venne infine smembrato e raso al suolo dai senesi, a un’altezza di 3 braccia105, più o meno corrispondente al livello a cui sono tagliate le USM 2 e 5 (della Pieve attuale106). Le murature attribuibili con maggior sicurezza alla redazione degli anni ’60 sono però quelle delle USM 36, 50 e 56 (della Pieve), tutte provenienti dalla cinta fortificata del ‘confesso’, che circoscrivono un’area

GLI ALDOBRANDESCHI 131 Strutture materiali di una capitale rurale di circa 800 mq107 (pari quasi alla metà di quella occupata dal cassero). Per le sue dimensioni è quindi probabile che il palazzo del conte Giovanni sia stato il più grande dei quattro, è infatti poco verosimile che gli altri ‘palazzi forti’ ubicati presso la piazza di castello abbiano potuto raggiungere analoga estensione.

Figura 9: area occupata dal palazzo del conte Giovanni 5. Il tardo Trecento (1360 - 1381) Verso gli anni ’60 del Trecento si colloca una prima cesura politica nel controllo comitale di Santa Fiora relativa a una poco documentata occupazione senese del castello. A tale proposito i cronisti senesi si dimostrano piuttosto imprecisi, confondendo gli eventi di questa prima occupazione con quelli della conquista senese degli anni 1381- 1385. Figura 10: planimetria anni ‘60 sec. XIV Sussistono comunque prove sufficienti a sostenere che questa prima occupazione ebbe effettivamente luogo, anche se sulla base di testimonianze indirette e non propriamente documentarie108. Si dovette comunque trattare di un’operazione politico-militare di portata di gran lunga inferiore a quella che avrebbe condotto Santa Fiora sotto il governo del Comune di Siena da lì ad un ventennio. Alcuni fattori depongono infatti a favore di questa ipotesi: in primo luogo per gli anni ’60 si ha notizia di membri della famiglia comitale residenti in Santa Fiora durante la dominazione, in secondo luogo i cronisti senesi non hanno conservato che un confuso ricordo di questo evento di grande rilevanza politica, in terzo luogo non c’è segno di questa occupazione in alcune fonti senesi che avrebbero dovuto di norma

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registrarla (Biccherna e carteggio del Concistoro). In sottordine si potrebbe comunque ipotizzare che, all’epoca della prima occupazione, Siena non volle o non poté raggiungere il grado di dominazione che riuscì invece ad imporre ai santafioresi tra 1381 e 1385, epoca durante la quale il governo senese spese ingenti quantità di denaro e di energie umane per integrare a pieno titolo il castello amiatino nel sistema di potere (ma anche in quello amministrativo) del proprio contado. Per l’epoca immediatamente successiva a questa prima occupazione si ha invece notizia, benché piuttosto laconicamente, di una rinnovata attività edilizia nel complesso della Roccaccia. Nel 1365 infatti, in una lettera al Concistoro, il conte Senese di Stefano I annuncia al Comune di Siena la conclusione dei lavori di fortificazione della rocca di Santa Fiora da lui intrapresi; e in questa occasione la sporadicità dell’attestazione documentaria potrebbe forse nascondere una fase abbastanza importante nella storia di questo manufatto architettonico109. I dati materiali relativi a questa terza fase farebbero ipotizzare una ripresa dei lavori nell’area del palazzo A, concernenti un suo probabile ampliamento sul lato occidentale e l’aggiunta di un ulteriore piano. In questo senso sarebbero da leggere infatti le USM 59 e 60 che ne segnano sul prospetto N della torre maestra i livelli di copertura ad una quota di circa 3 metri più in alto rispetto a quelli del punto massimo del tetto USM 65 relativo a un secolo prima. Mentre sul versante ovest della torre B i livelli corrispondenti sembrano ancora coincidere con le tracce del tetto USM 8, benché non sia chiara la relazione tra questo tetto e quello con pendenza diversa USM 10110. Il dato principale sembra comunque quello di un ampliamento del palazzo vecchio del cassero, sia per la soprelevazione di un piano che per l’avanzamento del muro ovest quantomeno fino al filo della torre B, con la riduzione dello spazio del cortile interno così come era stato delineato nella sua prima redazione. Sebbene tale ampliamento potrebbe in realtà essersi limitato alla realizzazione di una loggia aperta a tre livelli, dal piano terra al secondo piano, così da permettere l’utilizzazione delle aperture USM 287 e 275, oltre a garantire la praticabilità dell’accesso USM 297 che fin dalla costruzione del palazzo A pare caratterizzarsi come ingresso principale del complesso. Un ulteriore ampliamento è comunque realizzato anche verso nord, dove la nuova facciata (v. Figura 16) fornita di almeno quattro ampie finestre sestiacute (USM 247, 248, 268 e 269) si imposta più o meno sul filo interno dell’antico muro di cinta111. Alla stessa fase pare inoltre risalire l’apertura (o la sostituzione) della porta di accesso al cassero sul lato sud112, in corrispondenza del lato meridionale dell’ambiente D. Attualmente il soffitto di questo ambiente non consente di osservare nella sua completezza questo vano di accesso provvisto di un grande portale, l’architrave del quale si apre al livello del non visitabile primo piano, affiancato sulla sinistra da una feritoia per l’avvistamento e l’estrema difesa della porta. Sia la porta che la finestra sono state inserite con un taglio nella muratura del ridotto fortificato delimitato su questo fianco del cassero dalle torri F e G.

GLI ALDOBRANDESCHI 133 Strutture materiali di una capitale rurale

6. L’epoca della dominazione senese del 1381 - 1385

Con l’avvento del governo senese degli anni 1381-1385 il cassero diviene il centro di una intensa attività edilizia che ne amplia l’estensione e ne sviluppa i dispositivi tattici.

Fase IV. 1 Il primo intervento del nuovo regime consiste nell’ampliamento del fossato difensivo che si snodava almeno sui lati Sud ed est Figura 11: planimetria 1381-1385 della cinta della cittadella113 e parte del quale è tuttora identificabile nel vano seminterrato H. Contestualmente si procede alla costruzione di un antiporto fortificato114, un barbacane, che ospitava l’entrata principale del cassero e attraverso il quale, con un ponte levatoio gettato sul fossato, si aveva accesso alla porta vecchia del cassero, ubicata nell’ambiente D. Questo barbacane è ancora oggi conservato nell’ambiente I, con il grande portale senese (USM 273) affiancato in basso dalla feritoia USM 284 (un’altra è andata probabilmente perduta nell’apertura della finestra quadrata USM 276), mentre il ponte levatoio di accesso al corpo della rocca è stato sostituito con una volta a botte che costituisce l’attuale copertura del vano H. Nel frattempo si fortifica anche la porta detta “del soccorso”, con la costruzione di una torre congiunta al palazzo, forse dal muro di cinta115. Queste strutture si trovavano probabilmente nell’area attualmente occupata da via della Roccaccia, in vicinanza della porta urbica che dava accesso alle fonti di castello e non ne resta traccia116, così come del resto delle fortificazioni poste sul lato occidentale della cittadella. Nel corso della laboriosa estate del 1382 si procede anche all’innalzamento della torre F (USM 208) che viene dotata di un piano interno provvisto di feritoie su tutti i lati117, e viene più tardi coronata da un ballatoio merlato (USM 206)118. Questa torre viene realizzata aperta verso l’interno, con l’intento di impedirne l’utilizzo in offesa da parte di un eventuale assalitore, e provvista di un passaggio aereo (corritoio) che la congiungesse alle nuove fortificazioni della porta D ed al palazzo119. Purtroppo non è possibile osservare la struttura originaria della torre F (USM 204) sul lato interno al cassero per chiarire se la soluzione adottata dai senesi fosse innovativa oppure in continuità rispetto a quella messa in opera alla metà del Duecento. Con

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tutta probabilità si rialza contestualmente anche la torre G, se è lecito identificare con essa “la torre sul muro che arriva a la porta maestra”120. Per quanto riguarda l’area del palazzo esso viene ulteriormente rialzato, raggiungendo la quota delle coperture USM 53, 1 e 2, e viene messo in comunicazione con la torre all’altezza del secondo piano (USM 13, 14, 15 e 16) mediante l’apertura della porta USM 66121. Dopo i lavori al palazzo si torna nuovamente a fortificare la linea difensiva più esterna mediante una cintura di merli che arriva probabilmente a perimetrare l’intera area fortificata, in particolare il lato delle mura esposto verso la piazza (USM 220, 281)122, dove nel frattempo era stato selciato il fossato. Contemporaneamente si procede a fortificare la porta maestra (I) e a realizzare una cisterna per dare maggiore autonomia alla cittadella all’interno dell’ambiente E123. Con la fine di luglio del 1382 il cantiere pare avviarsi alla conclusione dei lavori e l’attenzione dei governanti si concentra soprattutto nell’approvvigionamento di armi e vettovaglie.124

Fase IV. 2 La fase IV. 2 è caratterizzata da una intensa ripresa dei lavori attorno al cassero in seguito al crollo di parte delle strutture realizzate nella prima metà del 1382 a causa di uno smottamento del terreno su cui il complesso era stato fondato125. A questa seconda fase si riferiscono propriamente le murature evidenziate nella planimetria con un retino ‘a mattoni’ a 45°, a eccezione del perimetro del barbacane I che venne forse costruito immediatamente all’indomani della conquista senese ma fu seriamente danneggiato (per questo motivo si è ritenuto opportuno utilizzare la stessa retinatura)126. Il nuovo cantiere che, quasi senza soluzione di continuità, resta operativo fino al 1385 si occupa principalmente della messa in sicurezza delle strutture restaurate, senza intraprendere la fondazione di corpi di fabbrica del tutto nuovi. L’esito più evidente di questo secondo periodo di attività fu quello di costruire attorno a tutto il perimetro della fortezza dei muri a scarpa (nelle fonti “muri taglienti”) per assorbire le spinte delle strutture sollecitate dallo smottamento del suolo. Dalle testimonianze sopravvissute pare di capire che i lavori ebbero inizio sul fianco settentrionale127, in corrispondenza delle attuali USM 256 e 260, mentre per la scarpa nord-est (USM 250) fu probabilmente necessario un intervento di ripristino in seguito ad un ulteriore crollo, come mostra chiaramente la relazione stratigrafica di questo muro con USM 259, oltre alla tessitura muraria caratterizzata da una cospicua presenza di laterizi, non altrimenti attestata nelle scarpate del cassero. Al pari di questo lato fu anche “barbacanato” il fossato con l’edificazione della scarpa lungo tutto il lato N dell’ambiente H, che si collega alla scarpa della torre F (USM 203), a sua volta continuata in una scarpa oggi scomparsa appoggiata al muro est degli ambienti C - E, di cui resta unico testimone il cordone in pietra USM 231.

GLI ALDOBRANDESCHI 135 Strutture materiali di una capitale rurale

7. Tavole della stratigrafia

Figura 12: schematizzazzione degli apprestamenti del cassero di Santa Fiora alla fine del XIV secolo

Figura 16: eidotipo stratigrafico prospetto ovest palazzo

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Figura 13: eidotipo stratigrafico Figura 14: eidotipo prospetto ovest torre B stratigrafico prospetto nord torre B

GLI ALDOBRANDESCHI 137 Strutture materiali di una capitale rurale

Figura 15: eidotipo stratigrafico prospetto est cassero

Figura 17: eidotipo stratigrafico prospetto nord palazzo

138 GLI ALDOBRANDESCHI Strutture materiali di una capitale rurale

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GLI ALDOBRANDESCHI 141 Strutture materiali di una capitale rurale

Note: 1 Può essere magari discutibile, ma è ‘storicamente’ significativo, ad esempio, che il solo Istituto Universitario Europeo _ quello di Fiesole _ abbia scelto di centrare il suo interesse alla scienza storica a partire appunto dalla fine del medioevo, non prima. 2 È da anni oggetto di un progetto archeologico che affronta lo studio della feudalità di montagna, fra incastellamento e decastellamento, attraverso analisi territoriale e scavo di siti campione (Poggio della regina e Roccaricciarda). Cfr. VANNINI (a c.) 2001. 3 Indagini sono in corso sui caratteri dell’incastellamento in alta Val di Nievole, con l’area archeologica di Monsummano Alto come ‘osservatorio’ stratigrafico (nell’ambito delle attività promosse dal locale Museo Civico). 4 Obbiettivo specifico del gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, nell’ambito del Progetto internazionale promosso dal CNRS francese e coordinato da Philippe Pergola (‘Mariana et la basse vallée du Golo de l’Age du Fer à la fin du Moyen Age’), è lo studio archeologico del sistema di incastellamento e della rete delle pievi attraverso analisi stratigrafica delle emergenze strutturali e del territorio considerato. 5 Analisi archeologica ‘globale’ del castello di Amantea e del suo territorio nel lungo periodo (fra le fasi araba ed aragonese (cfr. TONGHINI et al. 1997). 6 Oggetto d’indagini archeologiche è da tempo il sistema di insediamento e di incastellamento che, da parte dell’aristocrazia feudale europea, in particolare ha caratterizzato il sec. XII nella regione, con perno che è stato possibile riconoscere nella valle di Petra (cfr. VANNINI 1997). 7 TOUBERT 1980. 8 Riprendendo un’acuta definizione riferita ad uno dei caratteri propri dell’archeologia medievale recente da DELOGU 1994 (pp. 248-250). 9 Come ad esempio quelli condotti da tempo in altre parte della Toscana centromeridionale, con risultati scientifici esemplari, e programmati per aree contigue e in parte coincidenti, da parte della Cattedra di Archeologia Medievale dell’Università di Siena, tenuta da Riccardo Francovich. 10 Uno dei modi possibili - a volte dei migliori - di fare storia (e l’archeologia storica pretende proprio questo) può consistere anche nello studiare, come dire, casa propria: e questo è in fondo il motivo per cui abitualmente l’insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università di Firenze incoraggia, ad esempio, tesi di ricerca, di Specializzazione o Dottorati dedicate dagli allievi alla loro terra; fra l’altro con opportunità di inserimento in loco di professionalità aggiornate in settori specifici e di potenziale collegamento di realtà locali con centri di ricerca avanzata le cui ricadute possono trovare spazio ed offrire occasioni sia a programmi di gestione e valorizzazione territoriale di beni culturali che di formazione di personale specializzato in primo luogo, appunto, per la gioventù locale. 11 La ricerca interessa i centri incastellati del monte Amiata in cui sono localizzate le maggiori testimonianze dell’architettura medievale in trachite locale (Arcidosso, Casteldelpiano, Montelaterone, Montegiovi, Santa Fiora, Pian Castagnaio, Abbadia San Salvatore e Vivo d’Orcia) e consentirà una comparazione tra i modelli di sviluppo urbanistico dei castra maggiori e tra i vari tipi edilizi attestati. In questo ambito sarà possibile valutare gli insediamenti amiatini non solo e non tanto come centri demici isolati ma piuttosto come rete insediativa inserita in (e gestita da) una stessa dominazione territoriale (prima la contea aldobrandesca e poi il contado senese) in grado di mobilitare e movimentare per i propri fini (strategici, insediativi o simbolici) gruppi di maestranze edili più o meno specializzate. Il progetto si propone quindi di documentare attraverso l’analisi archeologica dei resti murari di epoca medievale la dialettica sociale tra i “domini” e i loro interlocutori locali (comunità castrensi e organizzazioni di mestiere) sottesa allo sviluppo urbanistico dei maggiori centri demici e di potere dell’area propriamente montana. 12 Il programma si colloca nel quadro della stessa ricerca cui si riferiscono le indagini citate sopra e condotto

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dall’Insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università di Firenze quale ‘Progetto strategico d’Ateneo’ (‘La società feudale mediterranea. Profili archeologici’). 13 Dipartimento di Studi Storici e Geografici dell’Università di Firenze. 14 Attività promosse e dirette dall’Università di Firenze (tesi di ricerca, di specializzazione, dottorato, programmi finanziati per ‘giovani ricercatori’, etc.) anche in collaborazione con il CNR (ITABC di Roma e Centro Opere d’Arte di Firenze), ad esempio con l’inserimento del progetto ‘Produzione edilizia e gestione del potere nell’Amiata bassomedievale’ nei programmi previsti per ‘Agenzia 2001’. 15 Cfr. in particolare quello della Comunità Montana Amiata I 1 (versante grossetano), con cui è stata avviata ormai da più di un anno una stretta collaborazione. 16 Relativamente a Santa Fiora si può menzionare anche lo scavo stratigrafico della chiesa della Madonna delle Nevi, realizzato da un’équipe dell’Università di Firenze in collaborazione con l’Amministrazione comunale di Santa Fiora e di concerto con la Soprintendenza Archeologica Toscana e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Ambientali delle province di Siena e Grosseto, nell’ambito della realizzazione delle strutture per il progetto ‘Museo dell’acqua’ (la comunicazione dei risultati dello scavo è prevista a breve termine). 17 Una presentazione e una prima discussione dei risultati raggiunti dalle indagini svolte fra il 1999 e la primavera del 2001 è stata oggetto del seminario Archeologia dell’edilizia medievale come fonte storica (Santa Fiora - Palazzo Sforza Cesarini - luglio 2001), coordinato da Guido Vannini nell’ambito delle attività del Dottorato in Archeologia Medievale (diretto dai proff. Fabio Redi - Università dell’Aquila; Paolo Peduto - Università di Salerno; Silvia Lusuardi Siena - Università ‘Cattolica’ di Milano; Guido Vannini - Università di Firenze; Gabriella Maetzke - Università della Tuscia), nell’intervento di Michele Nucciotti (‘Il modello mensiocronologico delle murature medievali di S. Fiora’) e nel corso dell’intero stage. 18 Per quanto riguarda il versante senese sono state attualmente compiute ricognizioni con schedature parziali a Vivo D’Orcia (Eremo del Vivo ed Ermicciolo), Abbadia San Salvatore (completamento dell’analisi delle chiese di San Leonardo e Santa Croce e ricognizione completa del centro storico) e Pian Castagnaio (ricognizione completa del centro storico). 19 Una definizione proposta, sia pure per un’altra area ed in condizioni peculiari, in SETTIA 1984. 20 Si vedano, ad esempio, gli esiti sull’interpretazione delle condizioni e delle vicende dell’occupazione senese di S. Fiora, in seguito alla scoperta (NUCCIOTTI 1998) di un cospicuo carteggio tra gli ufficiali senesi a Santa Fiora e il Concistoro datato dal 1381 al 1385, effettuata nel fondo Lettere al Concistoro dell’Archivio di Stato di Siena (cfr. infra). Si tratta di una fonte scritta straordinariamente dettagliata e autorevole che, unitamente alle notevoli potenzialità dimostrate dalla documentazione materiale, può rendere il caso di S. Fiora bassomedievale un vero modello metodologico (NUCCIOTTI 2001). Si veda infatti ad esempio il caso della torre F in cui la comparazione tra la fonte scritta e l’analisi mensiocronologica dei paramenti murari ha permesso di datare con precisione l’edificio raso al suolo per riutilizzarne il pietrame nell’innalzamento di epoca senese (USM 208) di questo bastione angolare del cassero tardo medievale. 21 Sarà interessante anche confrontare le condizioni materiali e le circostanze storiche con il quadro che sta emergendo da un’altra ricerca condotta sempre nell’ambito dello stesso programma di letture archeologiche sulla società rurale bassomedievale, il caso del Castiglione della Corte (Poggio della Regina) e del suo territorio di riferimento, la Curia del Castiglione (cfr. VANNINI a c. 2001). 22 Notevole è, in questo caso, la ricostruzione, ‘in negativo’ delle condizioni di quello che è destinato, di lì a non molti decenni, a diventare un vero e proprio spazio urbano, infine con caratteri anche monumentali; una ricostruzione che - significativa anche da un punto di vista di verifica di una metodologia che tende a risolvere in categorie storiche la lettura archeologica della documentazione ‘del costruito’ (e non quindi

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fine a se stessa, come spesso accade per certe analisi risolte in letture ‘tecniche’, magari anche sofisticate) - trova precisi riscontri con quanto archeologicamente già osservato in scavi condotti in questi anni (es. CABOANA et al. 1982 e 1984 su Filattiera): una forma d’origine d’incastellamento basato proprio su di un sistema costituito da una torre centrale o eccentrica, reale appoggio difensivo, circondato da un ampio muro di limite con interposto uno spazio aperto utilizzabile per ricetto in emergenza. 23 KURZE 1974, Id. 1982, BARBIERI REDON 1989, MECHINI REDON 1994. 24 CIACCI 1934, GINATEMPO 1988, VICARELLI 1991, REDON 1994. 25 FUMI 1884. 26 Da me effettuata durante le ricerche per la tesi di laurea nel fondo “Lettere al Concistoro” dell’Archivio di Stato di Siena (cfr. NUCCIOTTI 1998). 27 ASS, Diplomatico, Riformagioni a. 1381 ott. 27. 28 Per il calcolo dei coefficienti di conversione si veda: GINATEMPO 1989, pp. 218 n7; in cui si ipotizza come “in relazione alla vitalità demografica dell’Amiata (risulti opportuno adottare, per gli “uomini di guardia”) saggi di conversione relativamente alti; 3,5 (è da considerare come un minimum)”. 1025 -1120 individui sono un numero ragguardevole, specialmente in un’epoca che aveva visto da quasi mezzo secolo la comparsa delle micidiali epidemie di peste. Una diretta conferma di questa stima viene inoltre anche da una lettera del vicario senese (ASS, C, 1804, 52, a. 1382 Mag. 14) dove, in risposta a chi lo accusava di permettere che i soldati di stanza al cassero molestassero le donne del luogo, egli replica che “egli a qui forse 700 femine”, confermando (e anzi innalzando) il numero di abitanti stimabili per il castello. Lo stesso capitano senese Angelo di Guido appena entrato a Santa Fiora nel 1381 la definisce inoltre “la migliore terra di questo paese” (ASS, C. 1802, 81, a. 1381 set. 16), riferendosi con tutta probabilità ai livelli di popolamento del castello confrontati con il resto dell’Amiata. 29 GINATEMPO 1989, pp. 235-237. 30 Risale probabilmente alla stessa epoca anche il decastellamento e/o l’abbandono di molti castra ricordati nella divisione della contea aldobrandesca del 1274. 31 CIACCI, II, p. 316, a. 1370 ott. 12. 32 Nel 1292 il conte Bonifacio di Ildebrandino (XI) dona al convento agostiniano di S. Barbara 15 staia di frumento da ricavare ex moliture nostrorum molendinorum posti lungo il corso del fosso Spigone, presso il mulino della pieve. ASS, DPRSM a. 1292 ago. 15. 33 Così si arguisce dall’inventario dei beni confiscati ai conti all’indomani della conquista senese: BCS, A III, c. 225r (a. 1381?). 34 ASS, C. 1809, 109 (1383 Lug. 29). In cui si scrive a proposito dell’unico mulino della terra di Santa Fiora “e la maggiore soma che vi vada al mulino si ene uno staio di grano per volta”, idem. Lo staio senese corrisponde a 22,7849 litri (REDON 1994, p. 7). Non è in realtà sicuro se si tratti della stessa misura in uso a Siena oppure di una misura diversa. 35 La notizia proviene da una lettera del vicario di Santa Fiora, che chiede per questo motivo al governo senese di far ritornare l’agostiniano frate Tomè per dar conforto agli ammalati. In ASS, C. 1809, 105 a. 1383 lug. 27. 36 ASS, C. 1810, 88. 37 ASS, C. 1811, 72 a. 1383 nov. 8. 38 Allo stesso periodo risale il tentativo del comune di Santa Fiora di riformare gli statuti comunali riducendo la consistenza dei consigli (da 6 a 4 i Difensori e da 30 a 16 il consiglio generale) “[…] per che sonno meno homini che non si crede e perché sonno molto minuiti per la mortalità” (ASS, C. 1814, 56 a. 1384 set. 15).

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39 Basti pensare che mentre si dispone di una decina di attestazioni del cassero lungo tutto il XIII secolo, nei quattro anni di governo senese si possono annoverare più di duecento testimonianze relative alla sola fortezza. 40 ASS. Diplomatico, Bichi Borghesi, a. 1144 (?) giu. 8. Edito in GHIGNOLI 1992 pp. 70- 72, n. 32. 41 In COLLAVINI 1998, p. 242. 42 La prima data è da considerarsi come un terminus post quem e si riferisce al giuramento di cittadinatico degli Aldobrandeschi di Santa Fiora al Comune di Orvieto del 24 mar. a. 1251 (FUMI 1884, n.297, p. 193), in cui le parti convengono nella chiesa di S. Leonardo, senza la menzione del palazzo. L’anno 1256 indica invece la prima attestazione di questa struttura, per cui si veda COLLAVINI 1998, p. 454. 43 ASS, Diplomatico, Riformagioni, a. 1274 dic. 11. 44 Sezione di Archivio di Stato di Orvieto, Instrumentari n. 870, cc. 174v- 175v, a. 1285 giu. 19, citato in COLLAVINI 1998, p. 513n. 45 La prima menzione in ASS, DPRSM, a. 1292 ago. 15. 46 Si deduce che la dominazione doveva ancora essere in atto a quella data poiché nell’escatocollo di una lettera della contessa Giovanna, moglie del conte Pietro, si legge: “[…] in Santafiore vostra, data a dì II di marzo”, in ASS, C. 1774, 20 a. 1361/2 mar. 12. 47 Ciò si deduce dal tenore di una lettera del conte Francesco in cui si legge: “[…] tanto ve dicho padri miei (i Signori del Concistoro) ch’io ho facta si fatta fortezza in Sancta Fiora che de legiero (Guidarello) non poria né per me né per voi averne beffa […]” in ASS, C: 1775, 11, a. 1365 dic. 11. 48 La collocazione della torre nel XII secolo è naturalmente da considerarsi ipotetica a causa dell’assenza di dati di scavo, essa tuttavia sembrerebbe trovare maggiori giustificazioni sia sul piano documentario (Santa Fiora non è infatti menzionata come castrum prima del 1144), sia sul piano politico con lo sviluppo delle infrastrutture necessarie al governo della contea (opinione condivisa anche da Simone Collavini). D’altra parte l’unico manufatto analogo oggetto di uno scavo archeologico (torre Est del periodo A della Roccaccia di Selvena - cfr. BIANCHI G. et al. 1999) non ha restituito livelli databili associati all’epoca di fondazione (comunicazione di Carlo Citter). 49 Per una discussione approfondita dei tipi murari medievali di Santa Fiora vedi NUCCIOTTI 2000a. 50 La particolare stratigrafia di questa struttura (B) rende difficile una piena comprensione della successione dei vari interventi. Seppure infatti sussistano pochi dubbi sulla sua posizione alla base della stratigrafia del complesso architettonico, è invece difficile stabilire quale fu nelle varie epoche il ruolo specifico di questa torre nell’avvicendarsi dei rifacimenti della rocca di Santa Fiora tra XII e XIV secolo. È cioè virtualmente impossibile mettere in sequenza le varie unità stratigrafiche murarie (da ora: “USM”) esclusivamente per via stratigrafica, trattandosi nella maggioranza dei casi di tagli, quindi di USM negative, spesso senza relazione fisica diretta tra l’una e l’altra. È in particolare di difficile comprensione la sequenza dei numerosi piani pavimentali e la loro relazione con le tracce di copertura delle strutture palaziali a cui la torre ha fatto da sostegno nel corso dei secoli. Nel complesso quindi per l’analisi di questa struttura e delle sue relazioni con il resto dell’area fortificata si è dove possibile fatto affidamento sulla sequenza stratigrafica dei tagli; in secondo luogo si sono valutate le possibili relazioni intrinseche tra serie distinte di tagli e in ultima analisi ci si è valsi delle fonti scritte, nei casi in cui queste lo permettevano (cioè quasi esclusivamente per l’epoca della dominazione senese degli anni 1381 - 1385). Nonostante questa prudente esegesi del manufatto architettonico non è stato comunque possibile chiarire tutti i dubbi sulla sequenza complessiva delle USM. 51 Si è preferito distinguere il complesso architettonico del Cassero in ambienti (identificabili soprattutto dalle planimetrie del piano terra) piuttosto che in corpi di fabbrica poiché le vicende costruttive di questo complesso rendono poco significativa la stratigrafia dei CF attuali.

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52 Tutti i riferimenti alle USM rinviano alle figure Figura 13-16. 53 In questo caso tenderei ad escludere la ‘casualità’ di tale soluzione, che avrebbe comportato un errore estremamente grossolano da parte delle maestranze. Vice versa la possibilità che si tratti di un segno legato alle necessità del cantiere stesso mi pare più giustificabile anche alla luce di quanto accadeva contemporaneamente in altre aree della Toscana, dove sono stati rilevate tracce di “codici” di comunicazione interni ai cantieri edili dei maggiori edifici religiosi. Per cui si veda in generale BIANCHI 1997. Alcune similitudini possono inoltre essere riscontrate con edifici romanici pisani nell’alta Corsica (VANNINI G. DONATO E. NUCCIOTTI M. 2000). 54 La localizzazione e (per quanto si può vedere) il tipo di accesso, concorrono ad avvicinare questa torre alla torre maestra del castello di Arcidosso. Dai risultati dell’analisi stratigrafica di quel complesso (luglio 2001) emergono infatti interessanti analogie riguardo a pianta, sviluppo e lavorazione delle pietre tra le due torri che, considerate contestualmente alle differenze (dimensione dei conci, diversa realizzazione degli appoggi per i solai interni), sembrano individuare l’opera di maestranze simili in entrambe i cantieri (impiantati forse a qualche anno di distanza l’uno dall’altro). 55 Periodo “B” (BIANCHI et al. 1999, p. 140). 56 Realizzato per conto della Soprintendenza Archeologica Toscana da Michele Nucciotti nel 1998. 57 Sezione di Archivio di Stato di Orvieto, Instrumentari n. 870, cc. 174v- 175v, a. 1285 giu. 19, citato in COLLAVINI 1998, p. 513n. 58 Si è considerato questo allineamento di buche pontaie più antico di USM 16 in quanto presenta gli alloggiamenti per le travature del solaio tamponati, e quindi si suppone che USM 16 (che presenta invece buche prive di tamponamento) sia la serie più tarda che abbia sostituito USM 13. 59 Si è preferito relazionare questa serie alla stessa fase di USM 13, 21 e 23, perché la serie inferiore (USM 35) taglia USM 45, che aveva tamponato USM 85, e si ha la sensazione che preventivamente alla realizzazione di questo solaio si resero necessarie operazioni di restauro che sono più in linea con l’azione del cantiere senese di fase 4. D’altro canto non esistendo alcun punto di contatto tra le due serie l’attribuzione di una specifica fase a USM 35 non può che essere ipotetica. 60 a. 1223, cfr. COLLAVINI 1998, p. 513n. 61 ASS, Diplomatico, Riformagioni a. 1258 giu. 30, cit. in COLLAVINI 1998, p. 512n. 62 a. 1262, cit. COLLAVINI 1998, p. 512n. 63 ASS, Diplomatico, Riformagioni, a. 1274 dic. 11. 64 Ma non si può escludere la presenza di una linea difensiva verso la piazza, demolita durante la fase II. 65 Anche se la menzione nel XVII secolo di un’incisione della data 1332 “in una pietra posta vicino alla porta del cassero dalla parte sinistra quando si esce” (BATTISTI f. 48v.), potrebbe testimoniare un’attività edilizia di un certo rilievo in un’ala non sopravvissuta della fortezza. 66 VICARELLI 1991, p. 290. In particolare il Vicarelli fa confusione tra Senese e Guido III, probabilmente sulla scorta dei commentatori senesi Sigismondo Tizio e Paolo di Tommaso Montauri che sono piuttosto imprecisi sulle vicende aldobrandesche di fine Trecento. 67 Roccastrada nel 1301, in ASS, Capitoli 2, f. 427v e ss.. 68 ASS, Diplomatico S. Salvatore, a. 1305 ott. 1. 69 ASS, Capitoli 2, ff. 358- 358v (a. 1317 apr. 9); Capitoli 2, ff. 360v e ss. (1331 ott. 3); CIACCI, II, p. 315 (a. 1360 ott. 12). 70 ASS, Capitoli 3, ff. 124v- 125 (a. 1339 ott. 11); ibid. ff. 129- 129v (a. 1339 ott. 11). 71 Nella divisione del 1274 il castello era stato assegnato a Ildebrandino XII ma tra il 1330 e il 1331 viene sottomesso a Siena dai conti di Santa Fiora (ASS, Capitoli, 2, cc. 873-876v, a. 1330, set. 7; idem, cc. 436v- 437, a. 1331 ott. 30).

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72 Siena promette aiuto all’Abbazia di San Salvatore per difendere Monticello, Gravilona e Lamulas contro i conti di Santa Fiora (ASS, Capitoli, 3 cc. 386- 387, a. 1303 set. 12). Nel 1347 i discendenti di Enrico II vendono a Siena la loro parte del castello di Abbadia (ASS, Capitoli 3, cc. 240- 241, a. 1347 feb. 21). 73 Marsiliana, Morrano e Scerpena sono citati nelle sottomissioni dei castelli dei conti a Siena nel 1339 (ASS, Capitoli, 3, cc. 115- 129v, a. 1339 ott. 11- 17). A Pereta i conti di Santa Fiora sono invece attestati nel 1319- 1320 (ANTONELLI 1895 pp. 458). 74 ASS, Capitoli, 2, cc. 427v- 432, a. 1301 ago. 4). 75 REDON 1994, p. 147, a. 1304. 76 REDON 1994, p. 149- 150, a. 1332. 77 ASS, Capitoli, 3, cc. 115- 129v, a. 1339 ott. 11- 17. 78 ASS, Capitoli, 3, cc. 234- 235, a. 1343 nov. 14. 79 ASS, Capitoli, 3, cc. 240- 241, a. 1347/8 feb. 21. 80 Il conte Stefano aveva sposato Francesca di Salomone Piccolomini e era stato nominato capitano di guerra della Repubblica di Siena. Dal matrimonio era nato il conte Senese rimasto orfano all’età di un anno per la morte del padre avvenuta il 3 dicembre 1346 (VICARELLI 1991, pp. 227- 228). 81 CIACCI p. 315, a. 1358 apr. 6. 82 Il comune di Siena rivendica un ottavo di Santa Fiora come erede del conte Andrea (ASS, Capitoli, 3, 417- 417v, a. 1360 dic. 1). 83 CIACCI p. 316, a. 1363 mag. 16. 84 ASS, C. 1775, 11, a. 1365 dic. 12. 85 ASS, Notarile Anticosimiano, 156, cc. 39v- 40, a. 1265/6 feb. 23. 86 CIACCI p. 316, a. 1369. 87 CIACCI p. 316, a. 1371- 1372. 88 In primo luogo i discendenti di Bonifacio II di Ildebrandino XI (i conti Pietro e Giacomo), sembrano assumere atteggiamenti autonomi rispetto alla politica comitale aldobrandesca verso gli anni ‘30 del Trecento. Essi procedono infatti alla stipula di una pace separata con Siena a conclusione delle spedizioni amiatine di Guido Riccio da Fogliano (CIACCI, II, p. 312, a. 1332 apr. 10), e il conte Giacomo istituisce addirittura il comune di Siena erede universale nel suo testamento del 1343 (ASS, Capitoli 3, cc. 234- 236, a. 1343 nov. 14). Prima della effettiva morte di questo conte la portata del lascito dovrebbe esser stata comunque leggermente ridotta, visto la continuità con cui i conti sono attestati nei decenni successivi, in alcuni dei castelli menzionati nel testamento. In ogni caso il comune senese diede formale corso alla pratica di esecuzione del testamento per la devoluzione all’erario comunale delle rendite e dei beni ereditati dal conte Giacomo (CIACCI, II, p. 315, a. 1348 ott. 21). Un’analoga defezione si ripete da parte del conte Andrea di Enrico II il vecchio che, testando a favore del comune di Siena in data imprecisata, pone in essere le cause della prima occupazione senese di Santa Fiora verso il 1360, allorché la Repubblica pretese di inviare gente armata nel castello in quanto erede per parte del conte Andrea dell’ottava parte di esso (CIACCI, II, p. 315, a. 1360 ott. 12). 89 VICARELLI 1991, pp. 289- 290. a. 1384- 1385. 90 ASS, Capitoli 2, “Caleffo dell’Assunta”, ff. 360v-361, a. 1331 ott. 3. 91 ASS, Diplomatico, Riformagioni, a. 1320 ago 20, e ancora almeno: ibid. a. 1330 ago. 20 e ibid. a. 1330 ago. 21. 92 ASS, Capitoli 3 “Caleffo Nero”, ff. 235 – 235 v, a. 1344 ott. 27. 93 ASS, Notarile Antecosimiano, 156, cc. 39v- 40, a. 1366/7 feb. 23. 94 ASS, DPRSM, a. 1345 ago. 15. L’atto è rogato “in platea ante confessum domus habitationis ipsorum dominorum comitum (Pietro I e Binduccio di Enrico II)”.

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95 Presupponendo che il palazzo di Enrico II sia stato ereditato dal suo primogenito Ildebrandino XV e possa quindi essere identificato con quello che quest’ultimo possedeva in piazza fino alla dominazione senese (ASS, C. 1811, 66, a. 1383 ott. 20). 96 Come doveva essere anche il palazzo edificato da Enrico II. cfr. ASS, Capitoli 3, cc. 211v- 212v, a. 1345 ago. 15, rogato “In castro Sancte Flore in platea ante confessus domus habitationis ipsorum dominorum comitum (Binduccio ed Enrico IV)”. 97 Poiché le due strutture vengono identificate con i nomi degli ultimi possessori (Giovanni di Giovanni III di Enrico II e Francesco di Binduccio di Enrico II) non è chiaro se la loro costruzione debba risalire all’epoca della generazione 21 o della 22. 98 Di questo fatto è testimone la nomina di un procuratore da parte del conte Senese per trattare la concordia con i nipoti di Enrico II, Ildebrandino XV e Francesco. ASS, Notarile Antecosimiano 156, cc. 39v.-40r. a. 1366/7 feb. 23. 99 citato in VICARELLI 1991, p. 288n. 100 Nuovi dati saranno però disponibili dopo la campagna di prospezioni geoelettriche sull’area dell’attuale piazza Garibaldi, progettata dall’Università di Firenze e dall’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR e prevista entro la fine del 2002. 101 ASS, C. 1811, 72, a. 1383 nov. 8. 102 Il vicario e capitano senese di Santa Fiora chiese infatti nel 1383 che l’Operaio del cassero “non faccia guastare più el palazo che fu del Conte Franceso infino che ‘l cassaro non è rifondato”103, perchè per la sua vicinanza era stato utilizzato come magazzino della foresteria dopo lo smottamento dell’ottobre 1382 che aveva reso inutilizzabile buona parte del cassero: “per ciò che era ricetto di tutta la vostra forestaria, et quando ane rifondato el cassaro el può poi guastare [...]”, in: ASS, C. 1811, 72 n°241, a. 1383 nov. 7. 103 “[…] uno palazzo scharicho senza tetto o palcho el quale fu del chonte Giovanni chon uno giardino e uno chonfesso posto nel chastello ne la contrada de la Porticciola dinanzi a la Piazza […]” (BCS, MS A III 21, f. 224v, a. 1381(?)). 104 Prima della edificazione del Borgo negli anni ‘20 del Trecento tutta l’area immediatamente a ridosso delle mura di castello (via della Ripa e via delle Mura) era libera da costruzioni. In seguito alla costruzione dell’ultimo Terzo di Santa Fiora invece si assiste a una ‘smilitarizzazione’ del tratto di mura prospicienti il Borgo, la cui area di rispetto viene utilizzata per la costruzione di case dotate di giardino di proprietà dei conti. 105 ASS, C. 1807, 56, a. 1382 nov. 2. 106 NUCCIOTTI 2000, II, pp. 37 - 46. 107 Considerando l’aula della pieve prima degli ampliamenti settecenteschi e lo spazio compreso all’interno del “confesso”. 108 Due testimonianze provenienti dal carteggio del Concistoro concorrono ad avallare la conquista di Santa Fiora verso il 1360. La prima è coeva all’epoca della occupazione (o di poco posteriore), e si tratta della data topica di una lettera inviata dalla contessa Giovanna, moglie di Pietro di Enrico il vecchio, al Concistoro nel cui escatocollo si legge “Giovanna contessa del conte Pietro, in Santa Fiora vostra, data a dì 2 di marzo (1362)”, in ASS, C. 1774, 20; la seconda è invece coeva alla seconda occupazione e si tratta di un apprezzamento del Capitano senese di Santa Fiora posto in appendice ad una sua lettera del 16 settembre 1381 (ASS, C. 1802, 81 n. 300) in cui rivolgendosi ai Signori scrive: “Ricordiamvi con reverentia che Santa Fiore ene la migliore terra di questo paese et pertanto provedete che non v’esca de le mani che, se n’escisse, anco disertarebbe el vostro contado come fue facto altra volta”. 109 Il tono della lettera lascia poco spazio a dubbi, specialmente per le parole che usa il conte: “[... ]Tanto

148 GLI ALDOBRANDESCHI Strutture materiali di una capitale rurale

ve dico Padri (i Signori del Concistoro) ch’io ho fatta sì facta fortezza in Santa Fiora che de legiero non poria (Guidarello) per voi né per me averne beffa.” (ASS, C. 1775, 11). Un’affermazione di tale genere si giustifica solo a fronte di una consistente opera di fortificazione che probabilmente comprendeva anche zone di Santa Fiora all’esterno del cassero. 110 L’unico indizio di cronologia relativa è dato dal fatto che i livelli superiori di questo “palazzo” mostrano segni di tetto (USM 1, 2 e forse USM 5) con andamento analogo a USM 10, ed essendo stati questi ultimi edificati negli anni ‘80 del Trecento è probabile che ricalchino una situazione più tarda di quella del tetto USM 8 a due spioventi. 111 Sulle motivazioni della realizzazione di una facciata non fortificata su questo fianco della cittadella non ci sono elementi sufficienti per discutere. Stratigraficamente la situazione non presenta alcun margine di dubbio con l’arco della finestra USM 248 coperto dalla cordonatura dello sperone USM 256 pertinente alla fase senese degli anni ’80 del Trecento. La maggior sicurezza di questo lato rispetto a quello esposto ad est, verso la piazza, che era stato pesantemente fortificato già un secolo prima, era probabilmente dovuta ad una serie di altre strutture difensive oggi scomparse poste in vicinanza della porta urbica che dava accesso alle fonti pubbliche, localizzata grossomodo lungo il tracciato dell’attuale via Cesarini Sforza. Anche se in ogni caso bisogna considerare che il piano stradale attuale di via Roccaccia è di almeno 2- 3 metri più in alto rispetto al tracciato in uso anche solo fino ai primi del XX secolo113, e quindi le finestre più basse di questo prospetto si trovavano nel XIV secolo alla ragguardevole quota di circa 10- 11 metri da terra. 112 La diversa cronologia di questa porta rispetto alle altre di epoca aldobrandesca relative al cassero è dovuta sia ai segni di taglio della muratura per operarne l’inserimento, che all’assenza di finitura a bugnato rustico degli stipiti di questa, e anche di quelli della feritoia ad essa connessa, che ne spingerebbero la datazione in seno al Trecento. 113 ASS, C. 1802, 94, a. 1381 ott. 18. 114 ASS; C. 1804, 18, a. 1382 apr. 23. 115 ASS, C. 1804, 29, a. 1382 mag. 4. 116 “[…]il detto luogo (la Rocca) aveva due entrate, una della parte di mezzogiorno e l’altra verso le scale che scendevano alla fonte” in BATTISTI, c. 47v. 117 Quella relativa al prospetto E è stata utilizzata per alloggiare l’albero delle lancette dell’orologio pubblico (USM 205). 118 ASS, C. 1804, 65, a. 1382 mag. 23. 119 ASS, C. 1804, 65, a. 1382 mag. 23. 120 ASS, C. 1805, 11, a. 1382 lug. 2. 121 ASS, C. 1804, 63, a. 1382 mag. 28; 1805, 80 a. 1382 lug. 8. 122 ASS, C. 1805, 11, a. 1382 lug. 2. 123 ASS, C. 1805, 113, a. 1382 lug. 26. 124 ASS, C. 1806, 27, a. 1382 ago. 11. 125 ASS, C. 1807, 27a, a. 1382 ott. 10; v. anche NUCCIOTTI 1998 pp. 25 e ss. 126 ASS, C. 1807, 52, a. 1382 ott. 31. 127ASS, C. 1808, 9, a. 1382 dic. 9.

GLI ALDOBRANDESCHI 149

Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora nella letteratura

Lucio Niccolai Coordinatore redazionale di Tracce…. Consultacultura di Santa Fiora

Premessa

Pur rappresentando in questa sede delle “istituzioni” culturali santafioresei, mi fa piacere richiamare le mie origini mancianesi. Non posso infatti che sentirmi idealmente onorato dei richiami che in questa sede sono stati fatti alla pubblicazione del Ciacci, mio compaesano, e alla ristampa cha anni fa, di quello studio, realizzò l’Amministrazione Comunale di Manciano, il cui assessore alla cultura era Alfio Cavoli, mio insegnante delle scuole medie, di cui ho il piacere e l’onore di vantare l’amicizia nonché uno scambio reciproco di stima e di affetto. Fatta questa doverosa testimonianza, passo al tema assegnatomi, sottolineando subito che, parlando di “Aldobrandeschi e letteratura”, si rischi di ricordare in maniera quasi scontata, i versi danteschi. Ma questo sarebbe un approccio limitato, per quanto lusinghiero. In realtà, negli anni di lavoro culturale dedicato a Santa Fiora, in collaborazione con la Consultacultura e attraverso l’annuario Tracce…, abbiamo potuto constatare come i riferimenti letterari agli Aldobrandeschi siano abbastanza vari, seppure non numerosissimi (ma sicuramente c’è anche un difetto nostro di ricerca). L’idea, allora, è quella di riproporre alcune di queste fonti letterarie per indicare le coordinate di un possibile percorso in grado di mostrare come l’importanza e il ruolo degli Aldobrandeschi di Santa Fiora possano essere attestati anche attraverso una significativa serie di citazioni letterarie.

La leggenda delle Sante Flora e Lucilla attribuita a san Pier Damiani

Una delle prime attestazioni letterarie di Santa Fiora sarebbe di San Pier Damiani a cui è attribuita della Passio Sanctarum Virginum Flora et Lucilla1. San Pier Damiani, originario di Ravenna, nacque, da umile famiglia nel 1007 e fu discepolo di san Romualdo (non dimentichiamo la frequentazione amiatina del santo fondatore dell’ordine Camaldolese, cui fu proposta la direzione dell’abbazia di San Salvatore) di cui scrisse l’agiografia. Nel 1035 si ritirò nel convento camaldolese di Fonte Avellana per praticare una vita eremitica, ma nel 1057 papa Stefano IX lo nominò

GLI ALDOBRANDESCHI 151 Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora cardinale e vescovo di Ostia. Fu quindi collaboratore di Gregorio VII (Ildebrando di Soana) che lo utilizzò per mediare e risolvere i problemi delle chiese locali, specialmente in relazione alla lotta contro la simonia: compì, a questo scopo, numerosi viaggi a Milano (1059), a Cluny, Firenze (1063), Francoforte (1069), Montecassino e Ravenna. Potrebbe essere stato ospite dell’Amiata durante questi viaggi e, secondo Corridori, il santo potrebbe aver conosciuto personalmente alcuni esponenti della famiglia Aldobrandeschi2. Già in vita godette della fama di Litteratus; è ritenuto uomo di grande cultura, buon poeta e scrittore. Per questo stupisce un po’ (e pone legittimi dubbi e interrogativi) che la Passio delle sante Flora e Lucilla, databile intorno al 1050 (ma Pier Damiani fu vescovo di Ostia, dove in origine si sarebbero trovati i corpi delle sante, dal 1057), sia scritta con “grande semplicità e rudezza”3. Nel Terzo capitolo, in ogni caso, si racconta la traslazione delle reliquie delle sante sul Monte Amiata:

Per certo i loro corpi furono raccolti dai fedeli e sepolti con cristiana pietà alla periferia della città di Ostia, dove riposarono per anni settecento ed oltre, certamente fino all’anno 901. In quel tempo il religioso padre Giovanni, vescovo di Arezzo, cancelliere palatino, chiese e ricevette dal pontefice romano Benedetto III i corpi sacri delle sante Flora e Lucilla e del re Eugenio. Egli stesso curandosi di trasferire tramite la sua famiglia religiosamente questi verso Arezzo, per non sopportare alcun impedimento da parte dei romani, ritornò per un’altra via. Ma volendo Dio divulgare i nomi e i meriti delle vergini per la sua e la loro gloria, ottenne che i familiari del vescovo fossero ospitati, con i santi corpi, in un certo giorno, fra il lago, di nome Disortium e la palude aretina4. Ma gli abitanti del luogo, anzi prima di tutto i padroni riconoscenti, e per la reverenza del luogo e la religiosità della famiglia, chiesero ad essi, con insistenza le sacre reliquie, una certa parte, per volere di Dio. Per essere grati ai tanto grandi benefici di Dio, secondo i moniti apostolici, in onore di Dio, della B.a Maria e delle SS. Flora e Lucilla, edificarono una basilica e la dedicarono alle sante reliquie. Comandarono che anche il nome del castello (oppidum) e del suo principato fosse denominato dal nome della santa Flora, chiamandosi dapprima oppidum Amia, la terra, e Amiatae gli stessi conti. Pertanto i religiosi, allontanandosi da oppido sanctae Florae, proseguirono il viaggio iniziato e già si avvicinavano alla pianura di Arezzo quando ecco, per volere di Dio, la giumenta che trasportava i sacri corpi si rifiutava di proseguire oltre con le esortazioni e con le sferzate5.

Abbiamo cercato di dimostrare, con altre ricerche e lavori pubblicati su Tracce… (ricordo in particolare l’intervento del Prof. Fatucchi), come in realtà tutta la storia della traslazione contenga elementi dubbi e sia stata costruita probabilmente per cristianizzare un precedente culto pagano e collegare il culto santafiorese a quello aretino (dove già esisteva un cenobio benedettino, sede del vescovo-conte, dedicato

152 GLI ALDOBRANDESCHI Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora

alle sante). Lo stile, per altro, mal si concilierebbe con la fama di “letterato” di San Pier Diamiani, e fa sospettare, addirittura dell’autenticità del documento, settecentesco forse scritto a posteriori, caso mai su sollecitazione degli Sforza, che effettivamente ripresero e rilanciarono la devozione santafiorese, come ci attesta lo storico locale settecentesco, l’annalista padre Agostino Battisti. D’altra parte la leggenda della traslazione vuole giustificare un improbabile e indimostrabile trasformazione del nome del paese e della montagna che non è attestata da nessun documento storico.

La scuola siculo-toscana e Guittone d’Arezzo

Eppure la leggenda ha, tra le altre cose, il merito di richiamare i legami che, in un certo periodo, devono esserci stati tra l’Amiata e Arezzo, di cui ci offre un’interessante testimonianza Guittone, maestro indiscusso della scuola siculo-toscana. L’influenza della letteratura siciliana, di cui il principale fulcro e fucina fu la corte dell’imperatore Federico II, ebbe modo di diffondersi in Toscana, grazie alla frequentazione e ai rapporti che, intorno alla metà del Duecento, furono intrattenuti dai funzionari imperiali con questo territorio6. Federico II stesso si sarebbe intrattenuto ripetutamente in Maremma, a Grosseto, ospite del conte Guglielmo Aldobrandeschi tra il 1239 e il 1246,

sia perché amatissimo della caccia, ivi trovava di che saziare la sua passione venatoria, sia perché la fedele ospitalità del gran Tosco accresceva l’opportunità di quella temporanea sede, che era a metà strada tra la turbolenta e ribelle Lombardia e il sicuro rifugio del Regno e a poca distanza da Roma, dove il suo formidabile nemico tramava ai suoi danni. [...] All’avvicinarsi dell’inverno 1245-46, eccolo di nuovo scegliere Grosseto con l’intenzione di fermarvisi a lungo per godervi il mite clima, nella tranquillità che l’Aldobrandesco poteva garantirgli, mentre di lì meglio avrebbe potuto vigilare le mosse del Papa. Così per mano del suo segretario Pier della Vigna avverte del suo disegno il conte Guglielmo, inviandogli una lettera. [...] All’arrivo della lettera tutta la città si mette in moto per i preparativi; il conte appronta il suo palazzo e Federico II, poco dopo, giunge. I giorni gli fuggono tra le cacce e i più svariati divertimenti, compreso lo svago della poesia, che rimatori d’ogni parte d’Italia convenuti alla sua corte liberale, coltivavano con amore7.

Ma, nello stesso tempo, le truppe imperiali, al comando di Pandoldo da Fasanella, si accampavano nella zona di Rocca Silvana per l’assedio di Sovana, che verrà espugnata nel 1241. I rapporti tra Guittone e gli Aldobrandeschi di Santa Fiora sono testimoniati esplicitamente da una canzone (si tratta della XVII).

GLI ALDOBRANDESCHI 153 Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora

Ad Aldobrandino conte di Santa Fiore 8

Altra gioi non m’è gente ned altr’amo de core, che ‘l pregio e lo valore de l’amorosa gente. Così coralemente m’ha di lei preso amore, che non porea far fiore ver me cosa spiacente; per che m’è più piacente lo mal, se mal me face, che lo ben non me piace de gente, ch’è nodrita en desorrata vita e vive al dispiacere d’onne valente. Sor tutto amor, m’è gente de gioioso savore quello del meo segnore; ed è ciò giustamente, però ch’è veramente d’alta bieltate fiore: per ch’eo n’ho tal dolzore, ca men obrio sovente, quando li tegno mente, ch’elli ha tutto verace, quanto a baron conface: tanto è dobla fornita l’opera sua, compita de tutto ciò che vol pregio valente.

Perch’eo son lui sì gente, che me po ben tuttore far parer l’amarore d’assai dolze parvente; ma lo dolze neente po far di tal sentore, ch’eo bon conoscidore non sia d’el certamente. Tant’è dolce e piacente, ched en core ed en face sta sì che non se sface già mai, ni fa partita, la gioi, ch’aggio sentita

154 GLI ALDOBRANDESCHI Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora

de lui; sì fall’a me dolze e valente.

Conte di Santa Fiore, de voi parlo, signore, ché vo’ son maggiormente, ch’eo non dico, servente; e servir pur me piace se già merto non face; ma credo che la mia vita serà anco grazita per voi, Aldobrandin, conte valente9.

Secondo Massimo Seriacopi, la canzone ha una “chiara valenza morale” ed esalta la nobiltà d’animo “oltre che di stirpe, che, com’è nella natura del nome della sua casata, con il suo esempio spinge al fiorire delle virtù sociali, morali e civili”. Ciò che Guittone vuole mettere in evidenza, è il suo apprezzamento per il pregio e il valore delle persone in grado di sentire e trasmettere amore: termini chiave, questi, utilizzati, per la fede d’èlite della civiltà cortese. Ogni azione di chi porta il fiore di virtù sarà da preferirsi, dunque, a quella di chi viva in desorrata vita, in una condizione esistenziale priva d’onore, contraria alla valentia e alla rectitudo cordis. Non c’è dubbio: il fiore in questione è veramente/ d’alta bieltate, vera pietra di paragone rispetto a “tutto ciò che vòl pregio valente”10. D’altra parte sembra che lo stesso conte di Santa Fiora fosse sensibile alla poesia e amasse dilettarsi nella scrittura. All’interno del codice della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze segnato Rediano 911, che raccoglie materiali provenienti da Guittone d’Arezzo, si trova, alla c. 143 v, un sonetto introdotto dalla rubrica: “Lo Conte da S(an)c(t)a Fiore” dove il conte stesso si esercita in una composizione “siculo- toscana” (di matrice provenzale) di tema amoroso e di modulo guittoniano, in omaggio ed aemulatio con la produzione coeva di Guittone. Questo, tra l’altro, sembra dirimere i dubbi rispetto alla attribuzione, da parte di un codice Vaticano, ad un certo Ugo di Massa dello stesso sonetto.

GLI ALDOBRANDESCHI 155 Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora

Lo Conte da S(an)c(t)a Fiore

In ogne membro un [i]spirito m’è nato, e in celato inamorato core; e sentome d’amor tutto infiamato che un punto di carne no è fiore.

E lo sospiro meo quando lo fiato eo sento ben ch’e’ va piangendo amore; amore me n’è tanto devisato più fra me che no è lo colore.

Amore è i(n) me tanto co(n)venuto ch’ello ha fatto un[o] spero là und’è nato ch’è sì stretto no(n) può partir sol[o] stando:

A poco a poco fuor va p(er) aiuto gietando ne l’anghoscie che dentr’hae; così di morte campo argumentando.12

La lezione riportata dal Fatini, nel suo saggio sulla letteratura maremmana delle origini, è un po’ diversa:

In ogni membro un spirito m’è nato In ogni membro un spirito m’è nato, ed intelletto in ’namorato core, e sentome d’amor tutto inflamato, che un punto sol di carne non è fore;

e d’ogni parte Amor più divisiato intrao me, ca non fo lo color: ché lo spirito meo, quando lo fiato, eo sento ben che va piangendo amore.

Amore è in meve tanto combenuto, ched à fatto uno spero und’elio vae, ch’è sì stretto non pò partire stando:

a parte a parte for va per aiuto e gittando l’angoscia che dentr’àe: così di morte campo argumentando.

156 GLI ALDOBRANDESCHI Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora

Non sappiamo per quanto possa essersi protratta la corrispondenza “d’amorosi sensi” tra Ildebrandino degli Aldobrandeschi e lo scrittore aretino. Certo è che la battaglia di Monteaperti del 1260 implicò, per ambedue, una precisa e opposta, scelta di campo. Il conte di Santa Fiora, come è noto, partecipò attivamente alla battaglia con le truppe ghibelline. La notte che precedette la battaglia, secondo il racconto di un antico cronista, ripreso da Misciattelli, verso mezzanotte, “gli uomini in arme accampati fuori delle mura, videro un chiarore sopra Siena per modo che pareva giorno e che tutta la copriva a guisa di padiglione”13: era il manto luminoso della Vergine che si disponeva a protezione della città. Così confortati i senesi, “il domani, alla prima luce dell’alba, fu gridato il bando «Ognuno s’armi col nome di Dio et della vergine Maria, et ognuno si appresenti al suo Gonfaloniere». E per la Porta di San Viene uscirono gli uomini del Terzo di San Martino vestiti di rosso, e quelli del Terzo di città vestiti di verde, e quelli del Terzo di Camollia vestiti di bianco, e poi i cavalieri tedeschi del conte Giordano, Farinata degli Uberti e Provenzano Salvani erano tra i cavalieri senesi al comando del conte Aldobrandino. Per ultimo scese in campo il Carroccio col gonfalone bianco, che ben dava conforto che pareva il manto di Maria”14. Da parte sua Guittone celebra tutta la sua delusione per la vittoria ghibellina nella famosa canzone (la XIX) Ahi lasso, or è stagion de doler tanto, dove, tra gli altri sconfitti, cita il Conte Rosso, cugino di Ildebrandino e signore della Contea aldobrandesca di Sovana:

Monete mante e gran gioi’ presentate ai Conti a li Uberti e alli altri tutti, ch’a tanto grande onor v’hano condutti, che miso v’hano Sèna in potestate. Pistoia e Colle e Volterra fanno ora guardar vostre castella a loro spese; e ’l conte Rosso ha Maremma e ’l paiese, Montalcin sta sigur senza le mura: de Ripafratta temor ha e ’l pisano, e ’l perogin che ’l lago no li togliate; e Roma vol con voi far compagnia. Onor e segnoria adunque par e che ben tutto abbiate: ciò che disiavate potete far, cioè re del toscano.

GLI ALDOBRANDESCHI 157 Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora

… e vedrai Santafior com’è oscura… (Purgatorio, VI, 111).

Come è noto, le vicende politiche dell’Italia volsero rapidamente a sfavore dei ghibellini. In questo nuovo contesto gli Aldobrandeschi di Santa Fiora rimasero uno dei principali centri di resistenza ghibellina in Toscana, mentre Siena si è normalizzata al nuovo corso e, da alleata, si trasforma in invadente nemico. La seconda metà del Duecento corrisponde, pertanto, ad una fase di decadenza e di declino territoriale della nobile casata (e più in generale dei “gentili”) di cui Dante ci offre un’autorevole testimonianza:

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi, e questi con sospetti! Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura de’ tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com’è oscura! Vieni a veder la tua Roma che piagne …

Come nota Seriacopi, nel VI canto, “dal v. 97 al v. 114 […] c’è tutta una successione di esortazioni ad Alberto tedesco, uom sanza cura e crudel, perché venga a vedere in quali condizioni versi ‘l giardin de lo ‘mperio lasciato diserto. Ne vuole qualche esempio? venga allora a vedere la pressura delle nobili casate che a lui afferiscono come imperatore, e curi le loro magagne: potrà così rendersi conto di come è diventata oscura15, cioè «trista, afflitta, piena di tribolazioni»16 la già fiorente contea, ora a mal partito come universale conseguenza dei contrasti fraticidi che, per sete di un illecito potere, hanno frammentato il suolo italico in una serie di irresponsabili piccoli domini improntati al particolarismo e comunque insicuri”17. È interessante, tra l’altro, notare come Santa Fiora sia citata tra realtà-simbolo così diversamente importanti come Verona, Orvieto e Roma. Nel canto XI del Purgatorio, ai vv. 49-72, viene invece presentata “una figura di primo piano che si offre come valido spunto, con il valore esemplare suo e della sua famiglia tacciata di rovinosa superbia”. Non cambia il contesto di decadenza che coinvolge gli Aldobrandeschi.

Io fui latino e nato d’un gran Tòsco: Gugliemo Aldobrandesco fu mio padre; non so se ‘l nome suo già mai fu vosco. L’antico sangue e l’opere leggiadre de’ miei maggior mi fer sì arrogante che non pensando alla comune madre18 ogn’uom ebbi in dispetto tanta avante ch’io ne morì’; come i Sanesi sanno, e sallo in Campagnatico ogne fante.

158 GLI ALDOBRANDESCHI Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora

Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, ché tutt’ i miei consorti ha ella tratti seco nel malanno.

Commenta ancora Seriacopi: “impossibile per un uomo vissuto nel XIII secolo in Toscana, non aver sentito parlare degli Aldobrandeschi, la fama dei quali era tale da aver fatto diventare detto popolare che possedevano “tante castella quanti dì ha ne l’anno”; e rinomate erano anche le antiche, nobili origini, e le opere leggiadre, cavalleresche, che qui vengono attribuite alla casata”19.

Ghino di Tacco “nimico de’ conti di Santafiore”

Non di meno la fama dei Conti di Santafiore si mantiene anche negli anni successivi, tanto e vero che, nella Novella II della Decima giornata, Boccaccio li richiama esplicitamente: Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santafiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimostrando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri. Ma il riferimento finisce qui e il contesto storico della novella rimanda comunque a circa un secolo prima, mentre sia Ghino di Tacco che Santa Fiora sono già presenti nella Divina Commedia di cui, come è noto, Boccaccio è avido lettore, studioso e commentatore. Con Boccaccio si perdono i riferimenti letterari illustri, ma conviene comunque ripercorrere tre storie minori che hanno un sapore leggendario e ci rimandano ad un clima storico che, evidentemente, conservava un alone di fascino e di avventura quasi epici che, giustamente, costituiscono il substrato di un leggendario ancora fortemente radicato, come dimostra la storia di Giovagnolo sicario degli Aldobrandeschi, scritta, ormai agli inizi del Quattrocento, da Filippo Degli Agazzari. Ognuna di queste storie, ambientate nel corso del XIV secolo, ci narra di situazioni di violenza e di scontri estremi, testimoniando una fase di accanita difesa che vide protagonisti gli Aldobrandeschi di Santa Fiora.

Tre storie della storia di Santa Fiora20

Ghinozzo di Sassoforte21

La prima storia è tramandata da Muratori, Rerum italicarum scriptores. Tomo XV, pagg. 87-8 e riproposta da Gino Galletti, uno scrittore che pubblicò nel 1913 un libro sulle tradizioni e le leggende di Santa Fiora e del Monte Amiata.

GLI ALDOBRANDESCHI 159 Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora

Nel 1329 i Conti di Santa Fiora erano in guerra coi signori di Sassoforte, a capo dei quali era Ghinozzo. Il pro’ guerriero cavalcò con sue genti nelle terre dei Conti, e il suo cavallo era un prodigio di destrezza e di intelligenza, ma non gli valse per vincere nella gran cavalcata; ei fu preso dal capitano degli avversari e rinchiuso in una rocca, della quale non si conosce il nome, e con lui fu fatto prigione il cavallo. Or accadde che il capitano del Patrimonio dei Conti vide nella spianata della rocca il prodigioso cavallo ed ebbe vaghezza di montarlo; ma per quanto lo tenesse imbrigliato forte e lo stringesse con le cosce e lo pungesse con gli speroni, non riuscì a farlo obbedire e a renderlo docile nella corsa. Ghinozzo, che pure era ben sorvegliato, disse al capitano: _ Volete che io cavalchi? Mostrerovvi il modo del suo andare. _ Il capitano rispose: _ Tolle, et sàlivi. _ Così fece Ghinozzo, in apparenza dimesso e volenteroso di assecondare il desiderio del capitano; e, prima di passo, poi di trotto, poi di galoppo, spinse il cavallo per la spianata della rocca con molto stupore del capitano, che credeva di vedersi dinanzi un altro Alessandro e un altro Bucefalo. Senonché nella mente e nel cuore di Ghinozzo tumultuavano un pensiero arditissimo e un’ardente ansietà; e nel correre ei meditava che forse era venuto il momento di cimentarsi per la propria salvezza, e con l’occhio vivido e penetrante spiava di qua e di là, come per osservare il punto adatto alla fuga. All’improvviso gridò: _ Chi mi vuole venga a Sassoforte. _ E il cavallo, al tocco sapiente degli speroni, spiccò un salto dal rivellino della rocca, fu sul barbacane, fu a terra, illesi cavallo e cavaliere. Questi ripunse con gli speroni i fianchi del corsiero, e via verso Sassoforte. Stupiti, attoniti, e ancora alquanto sconvolti per essere stati giuocati dal furbo signore, il capitano e gli altri della rocca videro ciò che parve loro impossibile meraviglia per la prodezza del cavallo e per l’animo di Ghinozzo, che, con la sua rara bestia, aveva spiccato il salto all’altezza di venti braccia. E continuò, poi, la guerra fra il signore di Sassoforte e i Conti di Santa Fiora. Ghinozzo, co’ suoi, cavalcò sulle terre dei Conti a Magliano e Monteano, e v’ebbe battaglia e fu vinto. Tutti i suoi rimasero prigioni, egli col suo cavallo scampò; ma questa volta la rincorsa dei Conti fu affannosa e implacabile a traverso vallate, pianori, erte montane e boschi e torrenti e fiumi. Così fuggendo e scorrendo come una visione fantastica, Ghinozzo fu in quel di Siena, scorse la fortezza chiamata l’Accesa, che apparteneva al vescovo di Massa, la credette asilo sicuro, e v’entrò. Ma i Conti presero tutti i passi intorno la fortezza e questa cinsero e strinsero d’assedio. Trascorsi più dì, Ghinozzo comprese che non poteva chiedere soccorsi né tentar fughe, e si diede ai Conti, che lo menarono con buona scorta a Santa Fiora, dove lo chiusero nelle prigioni. Quindi essi andarono a Sassoforte, ma gli abitanti di quella Terra, saputo prigioniero il loro signore, si arresero senza combattere, salve le persone e gli averi. Ignoriamo qual sorte sia toccata al cavallo prodigioso e fedele; di Ghinozzo sappiamo che, dopo breve tempo, morì in prigione di poco mangiare _ come scrive il cronista _ e noi possiamo ben dire che morisse di fame.

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Come i santafioresi ripresero il cassero e il castello22

La seconda storia, già nota e riferita anche da Pio II Piccolomini, è stata ricostruita da Giovan Battista Vicarelli sulla base di cronache d’epoca di Sigismondo Tizio, Paolo di Tommaso Montauri, Donato di Neri, Tommasi e Malavolti.

All’inizio del 1377, ci avvertono i cronisti, “le popolazioni dipendenti da Santa Fiora incominciarono a disgregarsi: alcuni propendevano per il conte Aldobrandino, altri invece volevano un padrone senese”. Le diatribe ben presto si propagarono per la contea, gettando lo scompiglio nei casali, nel vicino centro di Castell’Azzara ed in quello di Scanzano, anche per l’incitamento e la spinta del conte Ildebrandino. Il fatto è che, conosciute a Siena le confusioni e le agitazioni popolari, fu dato ordine a Bindo Certo, che presidiava con un ragguardevole contingente di truppe la rocca di Contignano, di trasferirsi immediatamente a Santa Fiora, dove con lusinghe e blandizie riuscì a calmare gli animi alterati, e rinsaldare nel castello il nome di Siena. Non mancarono però aspri scontri ed urti tra la folla. L’abortita insurrezione, e specialmente il rapporto inviato al riguardo, persuasero il governo senese a dotare anche Santa Fiora di una buona e valida fortezza. “Allo scopo furono abbattute le abitazioni del conte di Santa Fiora, e sulle fondamenta fu iniziata la costruzione di una nuova rocca”. Lo smacco subito dalla popolazione, Ildebrandino lo sentì come fatto a se stesso. Non si parla mai di lui nelle cronache, ma è facile comprendere che il popolo agiva dietro suo incitamento. Ora aveva un unico pensiero, quello di rifarsi dell’affronto sofferto. Incominciò subito a capeggiar scorribande in Maremma, a combinar guai dappertutto, depredando borghi e poderi, asportando bestiame e tutto ciò che capitava sotto mano. “El conte di Santa Fiore cavalcò la Maremma di Siena e menonne (ne trasportò) otto mila pecore, e questo fu a dì 24 gennaio passato”. Non ancora soddisfatto, attirò a fargli visita, come amico, un tedesco, messer Piero del Verde, che presidiava Colle Val d’Elsa. Quando arrivò presso di lui con tutto l’accompagnamento, lo fece spogliare di ogni suo avere e gettare in prigione, imponendo una taglia di cinquecento fiorini d’oro per il suo riscatto. Le molestie e i danni perpetrati con tanta insolenza infastidirono i senesi, già disgustati per le pieghe che andavano prendendo alcuni affari. Ma la misura fu colma quando Ildebrandino, approfittando delle difficoltà che opprimevano la Repubblica per l’avvento della Compagnia dei Brettoni, pensò di svincolarsi dal commissario senese residente in Santa Fiora. Non doveva essere affatto opprimente la presenza dell’incaricato di Siena: un fusaio, cioè un artigiano facitore e rivenditore di fusi, che non ostentava né faceva sentire nessuna superiorità o arroganza; un uomo semplice, che stava volentieri in conversazione, uno che preferiva l’amicizia dei paesani alla compagnia monotona ed uniforme dei pochi militari del presidio. Non fu difficile ai fautori di Ildebrandino studiare il modo di gabbare il fusaio bonaccione, allontanarlo e reintegrare nella intera podestà legittima chi ne aveva diritto e ragione. Una mattina si dettero convegno in una casa vicino all’abitazione del commissario senese.

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Quando la polenta dolce fu quasi al punto giusto, incominciarono a chiamare a gran voce, amichevolmente, il Tignoso, un nomignolo che il fusaio Pietro si era attirato addosso, non saprei se per l’incomodo della malattia al cuoio capelluto o se, in senso metaforico, per la spilorceria o testardaggine, secondo l’accezione odierna. L’uomo non poté resistere agli inviti cortesi di tanta buona gente. Mentre stavano mangiando spensieratamente al crepitio della fiamma nel focolare, il povero fusaio si trovò legato e cacciato fuori dalle mura insieme a tutti i militari di difesa; sembra che allo scacciamento abbiano preso parte anche due frati del locale convento degli eremitani di Sant’Agostino, oltre ai sei massari, cioè ai capi incaricati del buon funzionamento della comunità santafiorese. I cronisti del tempo, come i giornalisti d’oggi, si appropriarono immediatamente della notizia e la trasferirono nei loro scritti, chi in un modo, chi in un altro, senza badare troppo per il sottile all’epoca in cui si verificò il fatto. In alcune cronache infatti viene registrato all’anno 1379, in altre nel 1381, in altre addirittura nel 1384. Probabilmente la confusione è da ascriversi alla massa di notizie che si accumularono e si frammischiarono con la pressione delle compagnie di ventura nelle cronache senesi. Del resto anche nella tradizione popolare la notizia, dopo appena ottanta anni, aveva già acquistato il sapore di leggenda. Quando papa Pio II (Silvio Enea Piccolomini, senese), ascoltando le preghiere ardenti di Guido Sforza, il primo dei conti Sforzeschi nella nuova dinastia di Santa Fiora, accondiscese nel 1462 a visitare la sua residenza, gli fu narrato come “una volta il comandante senese della rocca, invitato da certi amici che avevano ammazzato il maiale, fu sequestrato mentre si stava avviando all’appuntamento e costretto ad abbandonare la fortezza”. Io sono persuaso che l’impresa fu compiuta verso la fine del 1379 o al massimo all’inizio del 1380, oltre che per l’esposizione continuativa circostanziata che ne offre il Tizio, soprattutto per l’atto di sottomissione che tutti gli abitanti di Santa Fiora dovettero fare, per mezzo dei loro rappresentanti, i massari, il 27 ottobre 1381, con un documento steso dallo stesso vicario di Siena, inviato dopo l’avvenuta pacificazione. La cacciata del rappresentante senese fu promossa, preparata e sostenuta indubbiamente dal conte Ildebrandino, definito da uno dei cronisti “da Castell’Azara”, il quale si introdusse subito nella rocca, in compagnia del conte Sanese. Ma non poté impedire che le abitazioni già occupate dalle guardie senesi fossero messe a sacco dalla popolazione, spogliandole di tutto ciò che contenevano. Lo farebbe intendere il risarcimento dei danni richiesto dal Comune di Siena, tre o quattro anni dopo, quando il figlio del conte Sanese fece atto di sudditanza alla Repubblica. “Il detto conte Guido sia tenuto a restituire o far restituire tutto il sale, il grano e il biado, le balestre e qualsiasi altra arma, le suppellettili e tutte le altre cose appartenenti al Comune di Siena, che erano nel cassero, nel castello e nella terra di Santa Fiora, quando la terra, il castello ed il cassero furono occupati dal conte Ildebrandino. E se alcune delle cose o delle masserizie elencate non si ritrovassero, [il conte Guido] sia obbligato a restituire o far restituire il giusto valore di esse”. Appena gli estromessi giunsero a Siena, senza porre tempo in mezzo, fu dato l’incarico a Pietro di Salomone Piccolomini che, con un buon numero di soldati a piedi e a cavallo, partisse al ricupero del castello. Qualche giorno dopo, infatti, di prima mattina, quando si aprirono le porte, i senesi

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sorpresero il conte Ildebrandino, che scendeva dalla rocca per soprintendere ai lavori in corso per munire la fortezza. Riuscì facile catturarlo e trasferirlo nelle prigioni di , dove in poco tempo miseramente finì i suoi giorni.

D’un mal uomo che morì disperato, el quale essendo sepolto in chiesa venivano i diavoli e menavano grandissima tempesta (Assempro XXXIV)23

Il terzo racconto è di Filippo Degli Agazzari, un monaco agostiniano nato probabilmente intorno al 1339 e morto nel 1422, che fu priore del convento di S. Agostino di Lecceto in Siena. I suoi racconti “nella bella e semplice lingua popolana senese” mirano a correggere i contemporanei dei loro vizi dominanti (come il gioco e l’usura negli uomini; la vanità nelle donne) e non possono essere pienamente interpretati al di fuori del preciso contesto culturale e religioso nel quale furono scritti: la presenza di Satana come rappresentazione del maligno e il manifestarsi di avvenimenti miracolosi, per i quali l’autore non mostra alcuna meraviglia, facevano parte dell’immaginario collettivo e del quotidiano, oltreché della morale e della retorica religiosa ed introducono, come nota Misciattelli “nel mondo curioso delle credenze popolari senesi, di quelle superstizioni elevate al grado di verità domestiche che sopravvivono ancor oggi, tramandate dai vecchi ...” Agazzari dice di aver appreso la storia da un monaco agostiniano che avrebbe fatto il suo noviziato nel convento di Santa Fiora e sarebbe stato testimone dei fatti.

E’24 Conti da Santa Fiore ebbero un lor Caporale el quale ebbe nome Giovagnuolo di Val di Sieve. Questo Giovagnuolo di Sieve fu molto ardito e gagliardo de la persona, e sopra ’l modo fu malizioso e vizioso e senza neuna concienzia. Costui fu pessimo traditore e disleale e fu ispiatato e crudele sopra ogni immaginazione diabolica, intanto che più si dilettava di uccidere gli uomini che molti le fiere selvatiche.25 Et acciò che i miseri che invecchiano ne’ mali dì e ne le mali notti, e mai non si vogliono correggiare né amendare de la lor mala vita, possono vedere per esempio del sopra detto misero, che gli uomini che sempre vivono male e mai non s’amendano, a la perfine tanto cresce in loro la iniquità e la crudeltà che diventano consimili a le dimonia. Questo maledetto Giovagnuolo presso che al fine de la sua maledetta vita crebbe tanto ne la superbia e ne la diabolica crudeltà, che avendo una volta e’ Conti briga con certi lor vicini et avendo presi de’ lor nemici ben cento prigioni pe’ quali si speravano d’aver pace e concordia co’ lor nemici, questo iniquo uomo e diabolico crebbe in tanta crudeltà e superbia, che acciò che pace non si facesse et anco per isfamarsi de le carni degli uomini26, andò a’ Conti e con molte pregarie e con molte false parole tanto fece, che i Conti gli dettero in guardia e’ sopra detti prigioni, avenga che mal volontieri però, che temevano de la sua crudeltà; ma perché egli l’era molto utile a la guerra loro, el sopportavano e condiscendevagli a ciò che voleva. Sicché avendo ricevuti in guardia e’ sopra detti prigioni, una mattina per tempo andò a’ sopra detti prigioni et avisò un vecchiarello da meno che nessuno. E chiamollo in disparte e disseli: prende qual partito tu vuoe, cioè o vuoe ch’io ammazzi te con questa scure o vuoli

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ammazzare tutti costoro e camparotti. Allora al misero vecchiarello gli entrò el diavolo addosso, et elesse più tosto per campare la morte corporale dare l’anima al diavolo et ammazzare tutti coloro. Allora quel maladetto Giovagnuolo a uno a uno co’ le mani legate dietro gli menava dinanzi a questo diabolico vecchiarello in un’altra casa da lato. E così a uno a uno quel maladetto vecchiarello tutti li ammazzò. E fatto questo, Giovagnuolo prese quella medesima scure et anco amazzò quel maladetto vecchiarello e così se ne andò a casa del Diavolo l’anima sua. E questa crudeltà fu poi principio del distruggimento de’ Conti di Santa Fiore, che si diceva che solevano avere più castella che non sono dì nell’anno.27 Or avvenne che ’l predetto Giovagnuolo enfermò e venne a morte, sicché fu mandato al luogo de’ frati di Santo Augustino per un confessore. E venendovi el Priore del luogo per confessarlo, disse che non si voleva confessare però che aveva fatti tanti peccati che Dio non gli perdonarebbe mai. Et anco molti peccati aveva fatti de’ quali non ne potrebbe avere mai pentimento, et anco ho in animo di fare parecchie vendette se io ci guarisco, e se io vi promettesse altro, non mel credete, però che io non ve l’atterrei. L’altra si è che io ho tanti nemici nell’altra vita che mi saranno contrari, che se Dio mi volesse perdonare quasi non potrebbe. Perché solamente e’ cappucci degli uomini che io ho morti tre mugli28 non gli portarebbono, sicché pensate come io potrei avere concordia con lui. Unde io so che egli non mi ricevarebbe mai a misericordia et io non mi voglio tanto avilire che io mi mostri a lui così timido. Sicché io so che egli non si fidarebbe mai di me et io molto peggio mi fidarei di lui. E così con queste e con altre parole simili disperate, si scusò che non si voleva confessare per nullo modo. Assai gli disse el confessore della ismisurata misericordia di Dio e de la gloria de’ beati e de le pene de’ dannati. Et eziandio la moglie et altri suoi amici che v’erano assai lo ’nfestaro che si confessasse e s’acconciasse dell’anima sua, ma nol potero mutare dell’animo suo maledetto. Anco come ’l cuore di Farraone sempre più indurava, e difendendosi con parole disperate per le quali gli pareva convenciare ogni gente per ragione, che egli non si dovesse confessare né acconciare né con Dio né co’ Santi. Et anco gli era stato procacciato la ’dulgenzia di colpa e di pena e poco gli valse. E così quell’anima misera passoe di questa vita. E morto egli, volsero e’ Conti ch’egli fusse sepolto ne la chiesa de’ frati di Santo Augustino presso a la loro sepoltura però che l’avevano molto amato. Assai si scusaro e’ frati per non sotterrarlo non tanto in chiesa ma in nessuna parte del luogo. Dicendo ch’egli era stato un diavolo in carne umana e che ’l corpo suo si doveva sotterrare al fosso co’ cani e non con gli uomini. Alla perfine e’ Conti ch’avevano fatto fare quella chiesa da le fondamenta,29 per ogni modo volsero che ’l corpo suo fosse sepolto in chiesa et e’ frati avendo maggior paura de’ Conti che di Dio acconsentiro a ciò che i Conti volsero. Et essendo quel maladetto corpo sepolto ne la chiesa, tre notti seguenti fu ne la chiesa tanti bussi e tanta tempesta che non tanto e’ frati, ma eziandio e’ vicini, nullo vi poté mai chiudere occhio per dormire però che pareva la chiesa piena di diavoli com’ell’era. E quando parevano cavalieri che gistrassero; e quando parevano uomini che combattessero co’ le spade in mano; e quando parevano animagli ferocissimi che rabbiosamente con mughi dolorosi s’accapegliassero insieme. E così tre notti30 continue quella tempesta non si ristette in quella chiesa, et eziandio di meriggiana ma non tanto forte. E non tanto che nullo fusse stato ardito in quelle tre notti

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d’entrare in chiesa, ma eziandio ine a parecchi mesi nullo fu che avesse ardire d’entrarvi che non fusse ben confesso e con buona compagnia. El terzo dì e’ frati con alquanti secolari confessi et acconci dell’anime loro, entraro ne la chiesa e scavaro quello maledetto corpo e sotterrarlo nell’orto allato a un fiume, e quelli bussi cessaro e mai non vi fuoro più sentiti. Questo assempro udii l’anno del mio noviziato dal mio maestro che m’insegnò l’officio, el quale era uomo antichissimo e venerabile e di buona coscienzia, el quale in quel tempo era scolaio e conventuale nel detto convento et aitò a scavare quello maladetto corpo. Note: 1 S. P. DAMIANI, Passio Sanctarum Virginum Flora et Lucilla, (traduzione dal latino di Germana Domenichini), “Tracce…”, annuario, Santa Fiora 1998 Su nostra richiesta, essa ci è stata inviata, gentilmente, dalla Biblioteca Classense di Ravenna in copia fotostatica. La lettera d’accompagnamento, firmata dal dirigente Dott. Luigi Malkowski, conteneva le precise indicazioni bibliografiche: “Le invio copia fotostatica dell’opera di S. Pier Damiani Passio Sanctarum Virginum Florae et Lucillae contenuta in J. P. Migne, P.L. 144, col. 1025-1032.” Il testo a stampa, edito nel 1853, è annotato da Guglielmo Cupero S. J. 2 I. CORRIDORI, Gregorio VII, ATLA, Pitigliano 1985, p. 30. 3 A. MARONI, Prime comunità cristiane e strade romane nei territori di Arezzo-Siena-Chiusi, Cantagalli, Siena, 1990, p. 225 4 È difficile definire la precisa collocazione geografica di riferimento perché non sappiamo a quale luogo corrisponda il toponimo Disortium. Tutta la parte è comunque abbastanza vaga in quanto a riferimenti storico-geografici. 5 S.P. Damiani, Op. cit., “Tracce…” 1998 6 Tra gli altri ci sembra interessante ricordare, anche a testimonianza di queste frequentazioni, il Beato Agostino Novello. Già giurista appartenente alla corte di re Manfredi, il beato Agostino Novello era scampato nel 1266 alla battaglia di Benevento. Ritornato in Sicilia aveva trovato rifugio presso un eremo agostiniano dove aveva conosciuto un frate originario di Siena che gli aveva raccomandato gli eremi della sua provincia: “luoghi situati lontano dall’abitazione degli uomini e propizi al servizio di Dio”. Partito dalla Sicilia trovò ospitalità presso l’eremo di Santa Barbara sul Monte Amiata, vicino a Santa Fiora, dove incontrò frate Bono di Siena che ne era il priore. In seguito Agostino, rappresentato dall’agiografia agostiniana del Trecento come il simbolo del collegamento degli eremi agostiniani di tutta la Toscana meridionale, diverrà priore generale dell’Ordine. 7 G. FATINI, La letteratura maremmana delle origini, Firenze 1951. 8 Il testo è ripreso da Letteratura italiana Zanichelli in cd rom (a cura di Pasquale Stoppelli ed Eugenio Picchi), Vol. 1, Il Duecento e Dante, Ed. Zanichelli-L’Espresso, 1998. Struttura metrica: la canzone è composta da tre stanze (strofe) di 14 versi e un congedo (stanza ridotta) di 9 versi. I versi sono settenari salvo l’ultimo di ogni stanza e del congedo che è un endecasillabo. Ogni stanza (escluso il congedo) è composta da due piedi di 4 versi l’uno, con rima incrociata (abba) e da un sirma di sei versi con struttura accddA. Il concedo ha una struttura metrica a coppie di rime baciate (bbaaccdd) con la ripresa dell’ultimo verso endecasillabo (A). Si notino le ripetizioni di alcune parole che hanno un significato particolare, strategico: “gente”, che sta per “gentile”, (ultima parola dei primi versi delle tre stanze), “fiore” (settimo verso della prima stanza, settimo della seconda, primo del congedo) e “valente” ultima parola dell’endecasillabo di ogni strofa. 9 Parafrasi: Altra gioia non mi è così piacevole (gente=gentile) né altro amo di cuore, che il pregio e il

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valore della gente che prova amore. Così compiutamente verso di lei mi ha preso amore come il fiore che non potrebbe fare contro di me cosa spiacevole; per la qual cosa sopporto meglio il male contro di me (se anche male mi facesse) che il bene di gente che è avvezza ad una vita dissoluta che gode delle disgrazie delle persone “valenti”. Su tutto amore, mi è gentile (gente) di gioioso sapore quello del mio signore; e questo è giusto perché è veramente fiore di alta bellezza: per la qual cosa ne ho tale dolcezza da inebriarmene spesso quando lo penso, perché egli rappresenta fedelmente (“verace”) le doti che si convengono ad un signore (baron): tanto è adeguatamente fornita l’opera sua, completa di tutto ciò che è opportuno a definire il valore (pregio) di un uomo rispettabile e meritevole (“valente”). Poiché io sono a lui così sensibile (gente), che (ciò) mi può sempre (tuttore) far apparire l’amarezza (“amarore”) di assai dolce immagine (parvente); ma il dolce niente può fare di tale “sentore”, che io buon conoscitore non sia di lui certo. Tanto è dolce e piacente che nel cuore e nella faccia non scompare (sface) mai, né si dissolve la gioia che ho sentito di lui; così è stata per me dolce e degna di apprezzamento (valente). Conte di Santa Fiora, parlo di voi, signore, di cui sono più servitore (forma di omaggio) di quello che io non dica; e servire mi fa piacere, anche se non produce (face) merito; ma credo che la mia vita sarà impreziosita (grazita) ulteriormente per merito vostro (cioè per il mio atto di fedeltà e di omaggio nei vostri confronti), Aldobrandino, conte valente [Germana Domenichini]. 10 M. SERIACOPI, in “Tracce…” 1999. 11 A partire dalle indicazioni contenute nel testo di Fatini, e su invito della redazione di Tracce…, Massimo Seriacopi ha condotto una ricerca apposita che ha portato all’individuazione del codice citato. Si tratta di un membranaceo di 144 carte che misura cm. 24x17, suddiviso in diciotto quaderni uguali e databile, per dati paleografici interni (scripta, ecc.), al XIII secolo. Sulla seconda delle guardie di membrana risulta il nome di Giovanni di Simone Berti, accademico della Crusca, che fu possessore del codice nel Cinquecento, e che segnò: “Nota de’ poeti antichi de’ quali in questo libro ci sono compositioni”; nel 1670 fu Francesco Redi ad acquistarlo (da qui la segnatura “Rediano”), segnando il proprio nome sulla prima guardia e completando la nota del Berti sulla seconda con queste parole: “Queste lettere di fra Guitton d’Arezzo che sono in questo codice sono 35; in un altro codice che pure è appresso di me Francesco Redi, sono molte più e arrivano al numero di 64”. Alla sua morte, il codice fu ereditato dal nipote mons. Gregorio Redi, passando poi alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, prima col numero 63, poi come Rediano 9. Lo studio completo sul testo è stato pubblicato su Tracce… 12 La trascrizione è di Massimo Seriacopi. Parafrasi: In ogni parte del mio corpo si è incarnato uno “spiritello” d’amore, e più che mai nell’intimità del cuore preso da Amore; mi sento perciò così infiammato da ogni parte dall’amore al punto che nemmeno un pezzetto della mia carne sfugge a questo cocente tormento. Ogni volta che emetto un respiro, comprendo bene che questo formula un lamento amoroso; e Amore è tanto penetrato (=“devisato”) dentro di me di quanto più non possa farlo tale calore (=“colore”). A tal punto si è concentrato dentro il mio corpo che ha dovuto ricreare uno spiraglio (=“spero”) nel pertugio da cui era entrato (concezione classica del vulnus Amoris); ma tale pertugio è così stretto (sottinteso: che) non può uscire (la pressione amorosa) da lì solo concentrandosi tutta insieme verso il varco, e quindi fuoriesce poco a poco cercando scampo nel gettare fuori la sua oppressione di angoscia amorosa: solo in questo modo riesco a sopravvivere e posso parlare di questa situazione di gravità mortale. 13 P. MISCIATTELLI, Misticismo senese, Vallecchi, Firenze 1966, p. 35 14 Idem, p. 15 15 Si è molto discusso sulla lezione da preferire come “originale” per il verso 111 dedicato a Santa Fiora secondo le intenzioni dell’autore: sicura aggettivo, si cura verbo riflessivo, entrambi con connotazione sarcastica, o oscura? Masssimo Seriacopi, sulla scorta di un’accurata analisi filologica, sceglie senza dubbio oscura.

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16 Per questo valore dell’aggettivo, si confronti anche Jacopone da Todi, Donna de Paradiso, v. 101: “figlio de mamma scura” [Massimo Seriacopi]. 17 M. SERIACOPI, “Tracce…” 1998. 18 La terra, per il nostro commentatore, “della quale fu fatto l’uomo, e in terra rituorna” [Massimo Seriacopi]. 19 M. SERIACOPI, “Tracce…”1998. 20 L. NICCOLAI, “Tracce…” 1999. 21 G. GALLETTI, Nel Montamiata. Saggio di letteratura popolare, Città di Castello 1913, pp. 32-5, Nella nota Galletti cita la sua fonte: MURATORI, Rerum italicarum scriptores. Tomo XV, pagg. 87-8; nota di U. Bentivoglienti alla Cronica Sanese di Andrea Dei, continuata da Agnolo di Tura, dall’anno 1186 fino al 1352. 22 G.B. VICARELLI, Castell’Azzara e il suo territorio. Memorie storiche. Vol. II, La lotta, Cantagalli, Siena 1991, pagg. 286-289. 23 F. DEGLI AGAZZARI, Assempri, ed. Cantagalli, Siena 1973, pp.121-124 24 L’autore usa e’ per i. Successivamente si troveranno delle et per e, e pero ché per perché. 25 Il personaggio è introdotto con caratteristiche negative e viene subito fatto notare il sadico piacere che prova nell’uccidere gli uomini. 26 Addirittura l’autore ipotizza pratiche di cannibalismo da parte di Giovagnuolo. 27 Questo riferimento è abbastanza importante non solo per contestualizzare la storia (che credibilmente dovrebbe riferirsi al XIV secolo, come peraltro si può intendere anche ai riferimenti al narratore che si trovano a conclusione del brano), ma anche per l’allusione all’antica potenza degli Aldobrandeschi che avrebbero posseduto centinaia di castelli, uno per ogni giorno dell’anno. 28 Tre muli. 29 Altro elemento utile alla contestualizzazione storica. Il convento agostiniano fu trasferito dal Bagnolo a Santa Fiora agli inizi del Trecento. 30 I tre giorni che seguono la morte, essendo quelli in cui il corpo si decompone, hanno un valore simbolico molto importante: Gesù risorse dopo tre giorni; anche Giona fu liberato sulla spiaggia dalla balena dopo tre giorni. In questo caso però piuttosto che la resurrezione avviene la dissepoltura per destinare il corpo a luogo non consacrato più consono al personaggio.

GLI ALDOBRANDESCHI 167

La vera storia di Margherita Aldobrandeschi, ultima contessa palatina di Sovana

Fernando Marioni

ata intorno al 1255 da Ildebrandino e Tommasia, Margherita passerà alla storia come l’ultimo e più singolare personaggio della Casa Aldobrandesca Ndel ramo di Sovana. Molti storici si sono interessati di questa donna, avvenente e coraggiosa, e dai loro scritti la sua figura esce quasi sempre discussa e strapazzata. In ogni caso, per capire meglio la sua complessa personalità, oltre i cinque infelici matrimoni, sono da considerare altre cause, tra cui la difficile situazione politico sociale della Contea, le forti pressioni politiche dei potenti Comuni vicini, come Siena e Orvieto, i contrasti e le rivalità provenienti dai Signori vicini e dal Papa Bonifacio VIII. Ma veniamo alla storia. a) Il 1° matrimonio (1270) Nel 1270 sposa a Sovana, prima con un contratto di nozze e poi con una grande cerimonia religiosa nella cattedrale sovanese, seguita da una festa alla quale partecipa una immensa folla di popolani e di signori, il conte Guido di Montfort, che stava conducendo in Italia, e in particolare in Toscana, varie operazioni militari per conto di Carlo D’Angiò, re di Francia, contro le truppe di Corradino di Svevia e dei suoi alleati ghibellini. Ma il consorte, che pure in quegli anni ottenne vari successi militari, nella battaglia navale del golfo di Napoli del 1287 contro gli Aragonesi, venne fatto prigioniero e rinchiuso in carcere in Sicilia. Due anni dopo, non si sa come, si diffuse la notizia, poi rivelatasi falsa, che Guido era morto in carcere. Da quel matrimonio erano intanto nate due bambine, Tommasia, nel 1280 e Anastasia nel 1285. b) Il 2° matrimonio (1289) Credutasi vedova, Margherita, anche per dare un appoggio alle sue bambine, oltre che una guida più sicura alla Contea, passa a seconde nozze con Nello Pannocchieschi della Pietra (secondo la tradizione già marito e assassino di Pia dei Tolomei, ricordata da Dante Alighieri nella Divina Commedia, ma questa è un’altra storia) ma non ottiene il consenso dei parenti che perseguitano i due sposi. Nell’estate del 1290, quando Margherita e Nello dimorano nel castello di Pereta, una delle tante residenze aldobrandesche, si diffonde la notizia che Guido di Montfort

GLI ALDOBRANDESCHI 169 Margherita Aldobrandeschi

è ancora vivo, anche se in carcere a Messina, per cui la convivenza dei due sposi, dalla quale era nato un bimbo, Binduccio, diventa illecita. È davvero un brutto colpo per la sfortunata contessa, tanto più che Nello, considerata la nullità del matrimonio, è costretto ad andarsene. Margherita, di nuovo sola pur con due mariti vivi, è sempre più triste mentre le sorti della Contea vacillano. c) Il 3° matrimonio (1292) In quell’anno giunge di nuovo la notizia che Guido è morto in carcere e questa volta è vero. Margherita, che non sa cosa fare, chiede consiglio al Papa Niccolò IV il quale incarica il cardinale Napoleone Orsini di recarsi a Sovana dalla contessa per aiutarla. Costui, vista la situazione, non si lascia sfuggire l’occasione per mettere le mani sul Feudo, ma da cardinale deve trovare un modo del tutto legale. È così che la contessa palatina Margherita Aldobrandeschi sposa Orso Orsini, fratello del cardinale, mentre l’anno dopo sua figlia Anastasia, ancora bambina, avrebbe sposato Romano Orsini. Il nuovo conte non fa in tempo ad assaporare le gioie del matrimonio che deve affrontare una guerra con gli Orvietani, che non nascondevano le proprie mire sulla Contea. Nel giugno del 1293, assediati nel castello di Saturnia, Margherita e Orso devono accettare la resa e giurare, il giorno 13 in Orvieto, fedeltà a quel Comune. Intanto Orso Orsini, al comando di truppe orvietane, nel 1294 riesce a conquistare, togliendole al Patrimonio di San Pietro, Bolsena ed altre cittadine dell’alto Lazio, mentre Papa Celestino V neppure se ne accorge. Ma il nuovo Papa Bonifacio VIII, succeduto a Celestino che il 13 dicembre 1294 aveva rinunciato al soglio pontificio (“il gran rifiuto” di cui parla Dante Alighieri),colpisce Orvieto con la scomunica mentre nello stesso anno 1295 Orso Orsini muore a Pitigliano, nuova capitale della Contea. Margherita è ancora sola, ma con un’altra figlia, Maria. d) Il 4° matrimonio (1296) Avuta notizia della morte di Orso, Nello tenta, ma inutilmente, di ritornare da Margherita, che non si lascia commuovere neppure dalla improvvisa comparsa a Sovana del figlio Binduccio accompagnato da 100 cavalieri. Del destino della contessa si interessa questa volta Sua Santità in persona, Bonifacio VIII, il quale combina il suo nuovo matrimonio con il nipote Loffredo di Pietro Caetani. Il rito è celebrato in pompa magna in Anagni, forse dallo stesso pontefice, il 19 settembre 1296. Da Orvieto, in festa per loro, gli sposi sono accompagnati a Sovana da 50 donzelli e 12 cavalieri, che dopo aver dato spettacolo di giostre e giochi, lasciano i loro costumi alle genti della Contea. Come ricompensa per tanta solidarietà Orvieto ottiene dal Papa la revoca della scomunica. Ma anche questo matrimonio, come gli altri, non doveva durare a lungo. Appena

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un anno dopo infatti, non sappiamo per quali motivi, il Papa stesso lo scioglie, dichiarandolo poi nullo per bigamia della contessa per via del suo secondo matrimonio, quello con Nello Pannocchieschi. Loffredo ritorna a Roma e Margherita rimane sempre più sola, questa volta con lo spettro della persecuzione papale che non tarderà a manifestarsi. Ne furono effetti immediati il nuovo atteggiamento di ostilità degli Orvietani, ai quali la contessa tentò, ma inutilmente, di imporre una tassa per usufruire delle acque termali di Saturnia, e dei Senesi, che l’accusarono di complicità per l’aggressione al loro ambasciatore.

e) Il 5° matrimonio (1299) Margherita, nel tentativo estremo di salvare il prestigio della sua Casata e la stessa Contea, si rivolge allora ai cugini, conti di Santa Fiora, e trova la disponibilità di Guido, figlio di Ildebrandino, che aveva allora circa 40 anni, più o meno come la contessa, oltre a due figli naturali già grandi. Questa volta sono i Senesi a scatenare una guerra ai Conti Aldobrandeschi, forse preoccupati che le due contee, separatesi nel 1274, si riunificassero di nuovo, rappresentando per loro un ostacolo all’espansione in Maremma. Con un esercito di 2800 fanti e 700 cavalieri, i Senesi partono da Siena il 12 ottobre 1299 ed occupano vari castelli della Contea. Ma il conte Guido si difende con onore, ottenendo anche una bella vittoria sulla Rocca di Radicofani il 19 luglio 1300. Intanto Papa Bonifacio invia anche sue milizie contro gli Aldobrandeschi, al comando dei conti Orso e Gentile Orsini, che più che servire il Papa, pensano a prendere per se la Contea sovanese. Da parte loro i Senesi, il 31 dicembre 1300 stipulano un trattato di pace in virtù del quale ottengono i due castelli di Montepescali e Roccastrada. Il 1° maggio 1302 il conte Guido è costretto ad arrendersi agli Orvietani e agli Orsini ma i guai per la contessa non sono finiti. Papa Bonifacio infatti, che aveva delle mire sulla contea in favore dei propri nipoti, saputo della parentela fra Margherita e Guido, la dichiara colpevole di incesto e la priva di ogni diritto feudale con la bolla del 10 marzo 1303. In quel periodo, forse sfinito da tanti patimenti, Guido di Santa Fiora conclude la sua esistenza terrena, condotta con la dignità dei suoi più illustri antenati. È così che Papa Bonifacio VIII fa crollare definitivamente la Contea aldobrandesca di Sovana. E Margherita?

f) Il ritorno di Nello (1303) Costretta dal Papa ad abdicare e tenuta prigioniera a Piancastagnaio, le viene imposto, tramite il cardinale Ranieri, di riunirsi a Nello della Pietra, mentre la Contea viena concessa al pronipote del Papa, Benedetto Caetani. Ma ormai anche il Papa Bonifacio è giunto alla fine dei suoi giorni e dopo lo storico “schiaffo di Anagni” del 7 settembre 1303, muore a Roma il successivo 11 ottobre. Ne approfitta Margherita per liberarsi una volta per tutte di Nello Pannocchieschi,

GLI ALDOBRANDESCHI 171 Margherita Aldobrandeschi ottenendo con facilità lo scioglimento del vincolo che le era stato imposto contro la sua volontà. Ma lui, Nello, non si dà ancora per vinto e tenta di riconquistare almeno la Contea, ricorrendo anche a scorrerie e razzie di bestiame nelle terre della Maremma. g) Gli anni del tramonto La contessa Margherita intanto, con la protezione del cardinale Napoleone Orsini, lascia la Contea e si trasferisce a Roma con le sue due figlie, Anastasia, sposa di Romano Orsini, e Maria, nipote del cardinale. Dopo quasi un decennio trascorso a Roma, nel 1312 Margherita ritorna a Pitigliano insieme alla figlia Anastasia e al genero Romano. In quello stesso anno accetta un’offerta del Comune di Orvieto di un assegno di 2000 libbre quale frutto delle terre sottrattele e va ad abitare in quella città, nel palazzo di piazza S. Egidio. Ma il Comune di Orvieto non mantiene la promessa e così Margherita, il 24 febbraio 1313, in compagnia del capitano Gentile Orsini, suo consuocero, ritorna a Pitigliano. Da quel momento non sappiamo più nulla di lei. Scompare così silenziosamente dalla storia e dalla vita l’ultima contessa palatina di Sovana e Pitigliano, famosa per bellezza e potenza, quanto per le sue clamorose avventure. E su di lei si piega definitivamente l’ala ormai stanca dell’aquila aldobrandesca.

172 GLI ALDOBRANDESCHI La fine dei conti Aldobrandeschi: il crollo di un mito (secc. XIII-XV)

Aude Cirier Université de Poitiers - Centre d’Etudes Supérieures de Civilisation Médiévale Università degli Studi di Siena

“Magnificus dominus Bosius Sfortia et magnificus Guido vollentes cum comunitate Senarum veram et sinceram adherentiam et recomandationem habere”1. Il 30 aprile 1461, il nuovo conte Guido di Santa Fiora e suo padre, il conte Bosio Sforza (figlio di Muzio degli Attendoli detto Sforza) chiesero al Comune di Siena di potersi mettere sotto la sua protezione. Lo stesso giorno, Francesco Sforza, Duca di Milano, confermò gli stessi capitoli di raccomandazione dei propri congiunti. Quale novità mise in luce l’associazione tra la famiglia Aldobrandeschi, casato fra i più potenti ed illustri della Toscana, ma ormai in pieno declino, e la famiglia milanese degli Sforza, al contrario in piena ascesa? Quali segni avevano preannunciato la decadenza aldobrandesca, potenza insediata nel territorio toscano da circa cinque secoli? Come tale potenza, avendo ottenuto titoli principeschi e cariche pontificali poté barcollare ed infine crollare? La novità fu rappresentata dal matrimonio della contessa Cecilia di Santa Fiora con Bosio, contratto nella prima metà del Quattrocento. L’alleanza fra le due famiglie permise al nobile milanese d’ottenere la trasmissione del titolo comitale e, quindi, la sovranità sulle terre aldobrandesche. Per rispondere agli altri due quesiti, invece, il discorso si organizzerà intorno a due punti principali: in un primo tempo, si tratterà di capire come già durante i secoli precedenti all’irrimediabile declino, ci furono alcuni segnali annuncianti lo smembramento della potenza aldobrandesca; in un secondo tempo, sarà messa in rilievo proprio la progressiva decadenza della famiglia e la sua scomparsa in quanto entità autonoma.

1. Le prime impercettibili cause dello smembramento della potenza aldobrandesca (secc. XIII-XIV)

Il processo di declino si era avviato durante il tredicesimo secolo. Alcuni fattori “responsabili” della sparizione dei conti palatini più potenti della regione erano legati all’organizzazione interna della contea, mentre altri erano direttamente connessi con il contesto sociale e politico della Toscana. a) Il peso delle pratiche successorie e dell’inevitabile ramificazione

GLI ALDOBRANDESCHI 173 La fine degli Aldobrandeschi

Sono questi i primi due elementi incriminati e identificabili come causa della sparizione della famiglia degli Aldobrandeschi.

Sin dagli anni ’10 del secolo XIII, ebbe inizio la decadenza della potenza comitale. Nel 1208, il conte Ildibrandino VIII, con un primo testamento, divise la sua eredità tra i suoi figli di secondo letto2. Egli escluse così il primogenito, Ildibrandino IX, il quale rifiutò tale disegno di spartizione. Ne nacque una controversia3, risolta soltanto otto anni dopo, nel 1216 (ben quattro anni dopo la morte del testatore), grazie all’intervento di numerose mediazioni esterne e di numerosi lodi pronunciati da alcune autorità toscane (nobiliari o cittadine)4. Il progetto del 1208 di spartizione fu corretto, riparando così il danno commesso contro Ildibrandino IX, e venne comunemente accettato da tutti nel 12165. La rappresentazione cartografica, elaborata (cartografia 1) a partire da quella di Simone Maria Collavini6, indica chiaramente la prima divisione della contea in quattro porzioni equivalenti7. Tuttavia, aldilà della singola opposizione istituita tra il giovane diseredato e suo padre, il gioco delle pratiche successorie utilizzato dagli Aldobrandeschi non favorì la conservazione di un patrimonio ampio e ricco. Con l’ufficializzazione della quadripartizione nel 1216, fu provocata una prima rottura all’interno del lignaggio comitale. Ormai, da questo momento in poi, si configurò sempre di più ineluttabile la ramificazione8.

A questa quadripartizione, fece seguito un’ulteriore bipartizione nel 1274. Ne risultò una dicotomia all’interno della famiglia comitale stessa9. L’11 dicembre 1274, la divisione patrimoniale fra Ildibrandino XI di Santa Fiora, figlio di Bonifacio I, ed Ildibrandino XII di Sovana, figlio di Guglielmo I, rese ancora più netta la separazione delle linee: il conte di Sovana e Pitigliano focalizzò il suo potentato sulla sede vescovile di Sovana e sul castrum di Pitigliano, ricevendo un insieme di 43 fortezze, domini giurisdizionali, baronie, affitti e censi. Un ugual numero di fortezze fu rilevato da Ildibrandino XI ormai a capo delle fortezze di Santa Fiora, Roccastrada, Castiglione Valdorcia, Arcidosso..., un insieme sul quale entrambi poterono esercitare pienamente il loro potentato10. La cartografia sintetica indica le zone sulle quali i due rami aldobrandeschi disposero di un intero potere; eccezion fatta per qualche dominio peculiare come Silano, Scarlino, Monteguidi, Radicondoli, Belforte, Grosseto, e Bagno di Saturnia sottomessi ancora all’indivisione oppure alla partizione con altri potentati11. Ciascuna di queste due “topolinee” affermò un potere autonomo nei rispettivi territori, e ciò avvenne al proprio interno e ancor di più verso l’esterno. Anzi, Sovana e Pitigliano da una parte, e Santa Fiora dall’altra, servirono di punto cristallizzatore di ogni ramo.

Dal Duecento, erano apparsi irreversibili i fenomeni di dislocazione della contea e di smembramento della famiglia comitale. Tuttavia le difficoltà interne collegate alla conservazione della potenza familiare, e basata essenzialmente sul patrimonio e

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le prerogative giurisdizionali, non furono l’unica causa di declino della famiglia aldobrandesca contribuendo però a condurle verso un meccanismo di decadenza della sparizione.

b) Dall’emancipazione delle comunità all’erosione della contea Il peso crescente dell’emancipazione comunale, che agitò l’ordinamento pubblico della Toscana a partire dal tredicesimo secolo, costituisce il secondo elemento di smembramento della famiglia. Gli Aldobrandeschi non furono gli unici ad essere scossi dai movimenti comunali, poiché tale processo fu esteso all’insieme dei potentati signorili e nobiliari insediati nella regione. Tutti dovettero confrontarsi con l’evoluzione politica e sociale dei comuni12.

In un primo tempo, le grandi città, veri Stati-Repubblica, come Siena ed Orvieto, svilupparono strategie espansionistiche del loro contado, mosse dall’idea di sottomettere alla loro autorità tutti i signori insediati nei territori confinanti13. Usarono dunque diverse forme diplomatiche: pacifiche o bellicose. Dal 1202, il Comune di Siena si legò ai conti Aldobrandeschi. Con un atto di fedeltà prestato dai nobili nei confronti della città, reiterato nel 1221, i Senesi fecero dei comites una potenza al servizio del Comune, impegnandoli a fornire aiuto militare, servizio e censo14. Da questi due primi trattati del Duecento, Siena provò ad inserire le terre comitali nel suo districtus (zona subordinata), localizzata ai confini delle terre orvietane. Le posizioni politiche furono decisive nel contesto tumultuoso delle opposizioni tra Guelfi e Ghibellini. La scelta filo-imperiale senese, all’inizio del tredicesimo secolo, permise al conte Ildibrandino VIII (morto nel 1212) di contrarre una forte alleanza con il detto Comune. Questa fu rimessa in discussione tra il 1229 e il 1235, quando papa Gregorio IX concesse al conte Guglielmo Aldobrandeschi la sua protezione durante la lunga guerra opponendo Siena ad Orvieto e a Firenze. Successivamente, tra il ’40 e il ’51, le truppe imperiali s’impegnarono contro l’Aldobrandesca, affinché fosse legittimata la presenza senese in nome dell’Imperatore e del suo vicario generale15. Una nuova rottura venne a scuotere la casa comitale nella seconda metà del Duecento: da una parte, Guglielmo ed i suoi discendenti, conti di Sovana e di Pitigliano si posero sotto la protezione pontificia, si allearono con Firenze ed entrarono nella sfera d’influenza di Orvieto. Dall’altra parte, invece, Bonifacio e suoi figli, conti di Santa Fiora optarono per l’obbedienza a Siena ed all’Impero. La dicotomia interna al lignaggio aldobrandesco, per motivi politici, fu ufficializzata in un trattato del 17 maggio 1251, concluso tra il governo di Siena ed Ildibrandino di Bonifacio, trattato nel quale il conte Guglielmo veniva designato come innimicus16. Alla fine, nell’ultimo Duecento, Siena, dopo la vittoria di Montaperti del settembre 126017, cambiò di schieramento politico, ponendosi sotto l’egida pontificale, e rimettendo in discussione la sua alleanza con i conti di Santa Fiora di cui cercava costantemente di annettere le terre, soprattutto per evitare il loro asservimento

GLI ALDOBRANDESCHI 175 La fine degli Aldobrandeschi all’ingerenza orvietana. Venne così organizzata una vera e propria campagna di sottomissione contro i nobili rimasti fedeli alla causa imperiale. Di fronte alle lotte inveterate tra Guelfi e Ghibellini, le città approfittarono dell’occasione per inviare frequentemente i propri eserciti contro i signori del contado. Una situazione che si concretò per gli stessi Aldobrandeschi, che furono sconfitti in diverse occasioni. Gli esempi sono numerosi: nel gennaio 1301, una spedizione dell’esercito orvietano, organizzata per ordine di papa Bonifacio VIII, fu mandata contro i conti di Santa Fiora18. Nel settembre 1303, con un’ordinanza, il comune d’Orvieto annunziò la preparazione di una spedizione nel contado aldobrandesco, per la quale necessitava la somma di 500 fiorini19. L’invasione fu effettuata e le terre dei conti parzialmente occupate. In seguito fu decretata l’occupazione di Pitigliano, Sovana, Sorano, Piancastagnaio e di tutte le terre dell’Aldobrandesca non ancora sottomesse20. In parallelo Siena procedeva ad una strategia similare di sottomissione e di annessione della zona aldobrandesca di Santa Fiora21: nel 1331, l’esercito senese condotto dal famoso capitano di guerra Guido Riccio da Fogliano attaccò e prese Scansano, riuscendo in seguito ad entrare in Arcidosso, dopo un lungo assedio22. Dal tredicesimo secolo, e per tutto il quattordicesimo, le relazioni dei conti con i comuni di Siena e Orvieto furono caratterizzate da rapporti caotici e poco stabili di dipendenza finanziaria, d’aggressione o d’alleanza, economica o militare, di scambio d’ostaggi e di giuramenti.

In un secondo tempo, la potenza aldobrandesca non fu vittima solo delle ambizioni delle grandi città. Il movimento d’emancipazione comunale si espanse a numerose piccole comunità rurali, originariamente sotto dominazione signorile e nobiliare. In effetti, attratte dai discorsi pieni di libertà e di speranza che ispiravano in loro Siena e Orvieto, queste piccole entità (che componevano la base delle grandi potenze signorili) furono prese da un ampio movimento d’emancipazione23. La fine delle strutture feudali era ormai prossima, e si erodeva progressivamente la base del potere comitale, vale a dire il dominio di un’ampia rete di feudi. Il disimpegno delle comunità dall’autorità signorile non permise loro di raggiungere uno stato di vera e totale autonomia, facendo così il gioco dei comuni24. Numerose furono le antiche proprietà aldobrandesche a sottomettersi all’autorità del governo comunale senese od orvietano, sin dalla fine del tredicesimo secolo. I primi anni del Trecento marcarono la sottomissione delle terre della contea al Comune di Siena: terre e uomini di Tatti, Montepescali, Radicondoli, Montecurliano, Montiano, Scansano e tanti altri si unirono alla sfera comunale25. Infine, come se non bastasse un tale processo d’erosione, con il fine di infliggere un ultimo colpo letale alla potenza comitale, il Consiglio Generale di Siena conferì al Governo dei Nove pieni poteri per combattere gli Aldobrandeschi. Questa volta non si trattava più di affrontare uno dei rami della famiglia, ma la lotta si era estesa tanto ai conti di Santa Fiora quanto alla contessa Margherita di Sovana ed ai suoi fedeli26. Tuttavia nonostante l’unione di fronte ad

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un nemico comune, il riavvicinamento del casato non fu duraturo. Infatti già, nel 1312, Margherita ricevette il sostegno del Comune d’Orvieto per la sua lotta contro i propri cugini di Santa Fiora27.

c) Il comitato aldobrandesco tra Impero e Papato: l’incursione romana Come terzo fattore rilevante dello smembramento relativo alla potenza aldobrandesca, dobbiamo tenere presente uno degli elementi più importanti del contesto politico in Toscana durante il Due e Trecento, vale a dire le ambizioni pontificie ad estendere la propria influenza in terra filo-imperiale.

La situazione geografica del comitato aldobrandesco tra Toscana e Lazio nutrì un confronto permanente tra l’Impero e il Patrimonio di San Pietro. La posizione politica adottata da ognuno dei rami della famiglia comitale, all’una o all’altra delle obbedienze, trasformò la Maremma in un teatro di contestazioni, di guerre e di cupidigie. Andando contro i progetti di riorganizzazione politica dell’Imperatore in Toscana, il Papato aveva concepito l’intenzione di accrescere il suo patrimonio e la propria zona d’influenza a nord dell’Urbs, grazie ad un ampio movimento d’espansione. I progressi romani si incentrarono su due principi d’azione. Da una parte l’interesse portato dalla Chiesa per lo sviluppo del patrimonio di San Pietro in Tuscia s’iscriveva, in tale periodo d’agitazioni del Duecento, nell’ampio progetto di resistenza e d’affermazione politica contro l’Impero. Essa doveva, per riuscirci, trattare con riguardo le relazioni con la nuova monarchia di Napoli, assegnata al fratello del Re di Francia, Carlo I d’Angiò. Gravitanti intorno al potere angioino, alcune famiglie romane reintegrarono l’obbedienza pontificale negli anni 1270, per piazzarsi fra le famiglie curiali disposte a sostenere e sviluppare la politica napoletana sull’Italia intera. Una delle vie di successo esplorata fu dunque l’adesione alla causa guelfa, ottenendo favori e incarichi dal Papa e dal Re, in quanto collaboratori talvolta mandati nell’Italia centrosettentrionale per condurre i progetti regi o pontificali. Inoltre, i legami di sangue con qualche membro del Sacro Collegio cardinalizio favorirono la promozione di queste élite romane molto ambiziose. Degli errori diplomatici, da parte dei primi Orsini pretendenti alla Toscana28, e l’elezione alla Santa Sede del cardinale-diacono Giangaetano Orsini (sotto il nome di Niccolò III), nel 1270, sospesero rapidamente la nuova collaborazione romano-napoletana. In effetti, il nuovo papa cercò di contenere l’influenza degli Angioini. L’attribuzione definitiva della Romagna alla Santa Sede dall’imperatore Rodolfo d’Asburgo e l’esclusione del re di Napoli dal Senato Romano scartarono Carlo d’Angiò dalla zona settentrionale tanto ambita. Le manovre pontificie tentarono così di assicurare l’inserirsi crescente dei membri della famiglia Orsini nella vita politica del Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Per esempio, nel 1278, Bertoldo di Gentile Orsini, ex- collaboratore del re Carlo I ricevette il titolo di rettore per gli affari temporali in Romagna, e fu tacitamente incaricato di portare avanti le ambizioni del pontefice

GLI ALDOBRANDESCHI 177 La fine degli Aldobrandeschi in Toscana. Ugualmente gli Orsini moltiplicarono le alleanze matrimoniali con i potentati locali (come per esempio la famiglia d’Este). Tuttavia le pretese di Niccolò III svanirono con la sua morte: le donazioni di castelli presso Viterbo compiute a favore di suo nipote Orso furono contestate (ed Orso ne poté conservare soltanto una parte29). Il nepotismo e l’abitudine dei cardinali romani di favorire loro le famiglie promuovevano la ricerca d’occupazione dei posti cardinalizi, costituendo vere e proprie dinastie ecclesiastiche. In tal modo, nel 1288, gli Orsini poterono annoverare due cardinali: Matteo Rosso di Gentile e Napoleone di Rinaldo30. Fu essenzialmente quest’ultimo ad aprire le porte della Toscana e del Patrimonio di San Pietro in Tuscia agli Orsini, mentre la successione del papa Giangaetano - Niccolò III Orsini sembrava aver compromesso per sempre la presenza della famiglia in Toscana. Buon conoscitore dei problemi inerenti il Patrimonio di San Pietro, Napoleone fu molto aiutato dal nuovo papa Niccolò IV, che lo avvicinò particolarmente alla zona, incaricandolo di controllare e di aiutare la contessa Margherita Aldobrandeschi di Sovana nel gestire sue terre ereditate dal padre31. Una delle prime conseguenze fu il matrimonio d’Orso, fratello di Napoleone, con la contessa nel 1292. Questo offrì agli Orsini una nuova chance di radicarsi in Toscana. Tuttavia, il cardinale dovette rinunciare presto alle le sue pretese territoriali a causa della morte d’Orso, tre anni dopo, e delle forti pressioni del Papa Bonifacio VIII a sospendere le sue azioni. Bonifacio optò per il ritiro di Napoleone solo col fine di inserire nella contea aldobrandesca membri della propria famiglia32. Di conseguenza, il Papa condusse una guerra incessante contro gli Aldobrandeschi e soprattutto contro la contessa Margherita di Sovana, per ottenerne le terre. Scomunicò Margherita e suo cugino Guido di Santa Fiora in quanto refrattari e nemici della Chiesa33, ed il conflitto prese termine alla morte del pontefice34.

Dall’altra parte, il secondo elemento caratterizzante dell’azione romana fu l’intervento, in Toscana di diversi Orsini, investiti dalle autorità pontificie e cardinalizie35. Mandato tra il 1300 e il 1301, in quanto deputato del Papa ed ex- capitano della Lega guelfa di Toscana, Gentile Orsini partecipò, con suo padre Bertoldo, suo zio Orso e suo nipote Romano alla spedizione condotta dall’esercito orvietano contro i castelli dei conti di Santa Fiora. Lo scopo era chiaramente di sradicare tutto il nucleo potenzialmente suscettibile di far rinascere un domino potente ai confini del territorio pontificale. L’opposizione tra i conti di Sovana e quelli di Santa Fiora aveva permesso il riavvicinamento degli Orsini con il ramo guelfo degli Aldobrandeschi, avvenuto col matrimonio d’Orso Orsini con l’unica erede d’Ildebrandino XII il Rosso, Margherita36. La presenza degli Orsini fu rinforzata dopo il 1305, quando Margherita donò al cardinale Napoleone Orsini il castello di Piancastagnaio, ai margini del Patrimonio di San Pietro37. Nel 1308, Anastasia, sua figlia, sposò Romano di Gentile Orsini. In segno della loro alleanza Orsini-Aldobrandeschi, chiesero insieme aiuto

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agli Orvietani nella lotta contro i signori di Montemerano38. Sempre con l’aiuto di Gentile Orsini, padre di Romano, Margherita, riprese, nel febbraio 1313, i castelli di Sovana, Sorano e Pitigliano, confiscati dal 1303 dalla stessa Orvieto, facendo nel contempo ricorso al Senato di Roma39.

Un riavvicinamento matrimoniale, patrimoniale e politico fu dunque effettivo nel primo Trecento tra le due famiglie Orsini ed Aldobrandeschi. Con la morte del conte Ildibrandino XII detto “Il Rosso” di Sovana, l’eredità del ramo aldobrandesco guelfo toccò all’unica erede, Margherita, madre di tre figlie (e di un maschio morto precocemente40). Per la seconda volta consecutiva, data la mancanza di un erede maschio, la successione del conte di Sovana fu quindi assicurata dalle femmine: Margherita trasmise il patrimonio aldobrandesco di Sovana e di Pitigliano a sua figlia Anastasia41. Nel primo Trecento, questa offrì a suo marito, Romano Orsini, la detenzione del patrimonio materno, ed al figlio cadetto Guido, il titolo di conte42.

* La sparizione degli Aldobrandeschi non risultò quindi da un semplice incidente accaduto nel XV secolo. In effetti, nel corso dei due secoli precedenti, i segni premonitori appena analizzati erano chiari: la potenza del casato stava già scivolando verso un declino patrimoniale e politico irreversibile. Il quindicesimo secolo non fece altro che confermare la decadenza della famiglia, a tutto vantaggio di altre dinastie in ascesa.

2. Il crollo della potenza aldobrandesca dal XIV al XV secolo.

a) La perdita dei territori e la lotta per la sopravvivenza La maggiore parte dei feudi degli Aldobrandeschi era passata sotto il dominio comunale. I conti proseguivano le loro sottomissioni alle città di Siena e di Orvieto. L’esito di tale assoggettamento fu la consegna definitiva dei punti strategici e simbolici della potenza aldobrandesca, in pratica Pitigliano, Sovana e per ultimo, Santa Fiora.

Dal lato dei conti di Sovana e Pitigliano, la detenzione del titolo e del patrimonio ancestrale era passata nelle mani degli Orsini, con la designazione di Guido, figlio della contessa Anastasia, in qualità di conte di Sovana43. Non essendo in grado di resistere alle incessanti provocazioni orvietane e senesi, Guido Orsini di Sovana dovette piegarsi alle esigenze comunali, riconoscere la potenza del Comune, sottoporsi alla sua autorità, e evitare così lo sradicamento totale. Di conseguenza, nel 1335, Guido, conte palatino del comitato aldobrandesco, riconobbe l’insieme dei suoi beni presso il fiume dell’Albegna44, sottomise al comune d’Orvieto la città di Sovana, i castelli di Pitigliano, Saturnia, Sorano e Tricosto, e restituì anche quelli di Manciano

GLI ALDOBRANDESCHI 179 La fine degli Aldobrandeschi e Orbetello, e rinunciò a tutti i suoi diritti su Piancastagnaio e Montacuto. Il Comune orvietano lo reinvestì sulle proprie terre in feudum et tamquam feudatarium. L’interesse portato dal Comune di Perugia alle terre aldobrandesche costrinse il nuovo conte di Sovana a sottomettersi ed a prendere la cittadinanza perugina45. Visibilmente, i detentori del titolo comitale di Sovana ebbero la vita salva in cambio di sottomissioni frequentemente rinnovellate alle città di Siena, Orvieto e Perugia. In tal modo, aveva termine il regno della contea aldobrandesca di Sovana e di Pitigliano46.

Dal lato dei conti di Santa Fiora, il conflitto con Siena si prolungò durante l’intero Trecento. Nel luglio 1316, il Consiglio Generale previde le spese future per la guerra contro i conti di Santa Fiora. Un anno dopo, esausti, i figli d’Ildibrandino XI conclusero un atto di pace perpetua con Siena47. A tale compromesso concluso tra i conti di Santa Fiora e il Comune di Siena, seguì nel giugno 1331, la sottomissione ad Orvieto fatta da sette conti di Santa Fiora, nipoti e bisnipoti d’Ildibrandino XI48, esprimendo lo stesso anno il desiderio di reiterare la pace perpetua con il governo senese. Quest’ultimo accettò, alla condizione che gli fossero restituiti i castelli d’Arcidosso, di Castel del Piano e di Scansano, pagando la somma di 800 fiorini49. Negli anni successivi, per mettere un termine alle spinte comunali incessanti ed al fine di assicurarsi un eventuale avvenire politico e sociale, i conti di Santa Fiora furono costretti a conferire al comune di Siena la maggiore parte dei loro castelli50. Dopo numerose sottomissioni, spogliandosi di una gran parte dei loro beni, a volte riconcessi a loro in feudum, i conti di Santa Fiora non disponevano più della loro potenza di un tempo51. La destituzione delle terre comitali, i capitoli di sottomissione, l’estinzione di un primo ramo aldobrandesco e lo sbando dalla società toscana e cristiana avevano obbligato i conti di Santa Fiora a tentare di difendere gli ultimi residui d’onore e di potenza.

Nonostante le relazioni caotiche tra i conti e Siena, la consapevolezza del governo di quest’ultima di trovarsi di fronte ad un avversario stremato ma che rappresentava ancora un potenziale pericolo motivò la determinazione di proseguire nell’ottica di un pieno sradicamento di questi ultimi conti refrattari. Durante tutto lo XIV secolo, Siena continuò ad richiedere una sottomissione personale ai membri della famiglia di Santa Fiora, finché non gli venne consegnato, in pieno Quattrocento il dominio sulla contea omonima52. b) L’ultima lotta dei conti di Santa Fiora: per una riabilitazione sociale e politica Alla fine del Trecento, i conti Aldobrandeschi si trovavano in difficoltà nel tentativo di riconquistare il prestigio e l’immagine sociale che erano stati dei loro antenati. Decaduti dai loro possessi, gli ultimi conti di Santa Fiora poterono beneficiare di una ripresa di favori, intorno agli anni ’30 del Quattrocento, grazie ad alcune antiche relazioni di benificia. In effetti la moltiplicazione dei contratti di pace perpetua e

180 GLI ALDOBRANDESCHI La fine degli Aldobrandeschi

d’alleanza, e la scelta politica di eleggere erede il Comune di Siena, come fece il conte Jacomo di Bonifacio nel 134353, avevano incentivato un tentativo caotico, ma fortunato, di riavvicinamento tra le due parti. Nel contempo un ulteriore avvenimento non marcò invece il miglioramento delle relazioni fra Siena e Santa Fiora, ma un accrescimento della pressione senese sull’esercizio giurisdizionale inerente il potere aldobrandesco: nel 1409, furono ratificate dal conte Guido di Senese di Santa Fiora le convenzioni per regolamentare l’estrazione del sale a Grosseto54. Un fatto che significò un incremento del peso giurisdizionale del comune a discapito del potere comitale.

I conti di Santa Fiora erano decaduti delle loro prerogative comitali. Tuttavia, grazie a ciò che potrebbe sembrare un’abdicazione, i conti Aldobrandeschi si trovarono sulla strada della riabilitazione sociale ed onorifica. Questa si cristallizzò il 5 luglio 1438, quando morì il conte Guido. Il Consiglio del Comune di Siena stanziò la somma di 400 libre per rendere al defunto grandi onori funebri55. Viceversa, attuò progressivamente un inserimento della propria autorità negli affari patrimoniali e familiari di Santa Fiora. Infatti, soltanto dieci giorni dopo le esequie del conte, il Concistoro elesse tre ambasciatori per aiutare Federico, figlio dell’ormai fu Guido, nel gestire alcuni affari familiari56. Le intenzioni dei Senesi non erano certo disinteressate e richiamavano quelle compiute da papa Niccolò IV e dagli Orsini nel primo Trecento con la contessa Margherita e la sua ingombrante eredità: il 16 agosto 1438, morì anche Federico, lasciando alle sue tre sorelle Giovanna, Cecilia e Gabriella l’insieme dei beni familiari. Nelle ore seguenti, il Comune mandò tre nuovi commissari a cercare di recuperare le terre delle contesse e farle destinare loro “ad devotionem et gubernationem dicti comunis”. Per dare un’immagine meno aggressiva al progetto e sfruttando forse la vunerabilità delle tre orfane, il Comune di Siena organizzò delle esequie per il loro fratello, degne dei più nobili cittadini57. Le contesse Giovanna, Cecilia e Gabriella dovettero trattare dal primo settembre dello stesso anno con sei ambasciatori di Siena per concludere l’adesione di Santa Fiora, Scanzano e Castell’Azzara all’obbedienza senese58. Alle tre contesse, fu anche imposto l’obbligo di mantenere, di intrattenere, di custodire e salvaguardare queste terre, e di essere ubbidienti agli statuti e alle decisioni del Consiglio della Città, in conformità degli accordi presi dal padre.

L’apoteosi dell’intervento senese negli affari familiari fu raggiunta con la decisione del Concistoro, il 16 settembre 1438, di concedere al podestà la facoltà di trattare con le tre contesse: ormai non disponevano più del diritto di sposarsi liberamente senza chiedere il consenso al Comune59, e inoltre una volta sposate, dovevano risiedere in città come loro padre60. In seguito, tra l’autunno 1438 e la primavera 1439, d’accordo con i rappresentanti delle comunità dei tre castelli di Santa Fiora, Scanzano e Castell’Azzara, le contesse di Santa Fiora accettarono le richieste della città senese e si misero sotto la sua protezione.

GLI ALDOBRANDESCHI 181 La fine degli Aldobrandeschi c) La fine degli Aldobrandeschi di Santa Fiora e l’incoronazione degli Sforza Nel 1450, le due contesse Giovanna e Cecilia di Santa Fiora appariono nei documenti, associate ai loro rispettivi mariti (senza dubbio, scelti e riconosciuti dalle autorità senesi) Galeazzo conte d’Areo61, e Bosio degli Attendoli fratello dello Sforza di Milano62. I membri della famiglia Sforza erano già comparsi nel territorio toscano, marchese e umbro, in qualità di condottiero o di capitano di guerra, al servizio di potenze civili o ecclesiastiche (italiane o europee), acquistando, per esempio, dalle mani del Papa Eugenio IV la signoria delle Marche nel 143463. La presenza di Bosio in quanto coniugo di Cecilia di Santa Fiora integrava quindi perfettamente le sfumature generiche della politica d’ascesa sforzesca. Il 9 agosto 1450, Nicodemo di Pontemulo, cancelliere del Duca di Milano, rappresentava le due coppie comitali con l’incarico di procuratore presso le autorità comunali senesi. Essi effettuarono una concessione intorno alle terre di Santa Fiora, Scanzano e Castell’Azzara a favore del governo di Siena. Le due coppie riaffermarono la loro lealtà e fedeltà al Comune di Siena, al quale lasciarono il diritto e la facoltà di intervenire su dette terre. In quest’atto, i due mariti venivano designati in quanto “domini Sancte Flore”, come se gli fosse stato conferito il titolo nobiliare comitale dal fatto della loro alleanza matrimoniale con due delle tre ultime eredi legittime della casata aldobrandesca di Santa Fiora. Tuttavia, sarà soltanto Guido, figlio di Cecilia e di Bosio, a portare e trasmettere il nome e titolo di Santa Fiora, alla fine del XV secolo.

Ma, perché furono i discendenti di Bosio e di Cecilia a ricevere titolo onorifico e contea patrimoniale64? La presenza sul territorio toscano di Bosio e di suo fratello Francesco Sforza, duca di Milano dal 145065, fu sicuramente decisivo nella successione al casato di Santa Fiora. Nel 1461, Bosio degli Sforza e suo figlio Guido, nuovo detentore del titolo di Santa Fiora, fecero intenzionalmente riferimento al conte Guido, deceduto ed onorato nel 1438. Chiesero alla città di Siena di accoglierli, richiamando il legame genero-suocero per legittimare le loro azioni66. La loro politica di avvicinamento con il Comune di Siena s’iscriveva in una tradizione ben anteriore ed avallata dalle istanze senesi, cioè una tradizione politica istituita dagli ultimi Aldobrandeschi. Tuttavia non c’era motivo di presentare tale richiesta senza il consenso del membro più eminente e più potente della casa Sforza: il duca Francesco di Milano. Questi veniva presentato in qualità di “padre e benefattore della magnifica comunità senese”. Nel contesto della richiesta di un ufficiale riconoscimento del potere comitale ex-aldobrandesco a Bosio e a suo figlio, venivano conferiti un supplemento di prestigio ed un forte sostegno da parte di suo fratello, detentore di un amplissimo potere diplomatico, politico e economico in tutta l’Italia. Anzi, lo stesso giorno, Francesco Sforza, duca di Milano, approvò e garantì i capitoli di raccomandazione del conte Bosio e di suo figlio, ormai unico detentore del titolo di conte di Santa Fiora67.

182 GLI ALDOBRANDESCHI La fine degli Aldobrandeschi

Conclusione

L’autonomia dei conti di Santa Fiora se ne era andata un po’ alla volta, attenuata nel corso dei secoli, indebolita dalle pretese patrimoniali dei suoi membri stessi, dalle pressioni comunali, dall’avidità pontificia, imperiale, reale, e dalle ambizioni di nuove famiglie. La fine degli Aldobrandeschi nel XV secolo è stata quindi il risultato di un processo avviato nei due secoli precedenti. Gli Sforza, forse più fortunati degli Orsini, grazie al meccanismo delle alleanze e delle cariche politiche e militari, riuscirono a crearsi in Toscana una posizione sociale di alto rilievo, beneficiando di una forte e diretta legittimazione degli Aldobrandeschi. Certo, ancora all’inizio del Trecento, la fortezza di Santa Fiora era apparsa a Dante Alighieri inespugnabile e la potenza della casa comitale inamovibile quando declamava “E vedrai Santa Fiora, com’è sicura!”68. Però, l’impegno inveterato degli eserciti (soprattutto senese) e gli assalti politici hanno avuto ragione degli ultimi Aldobrandeschi, ormai passati sotto il giogo dei Milanesi.

Note: 1 Archivio di Stato di Siena (d’ora in poi A.S.S.) Capitoli 5, cc. 130t-132. 2 La seconda sposa del conte Ildibrandino VIII fu Adalagia, vedere Tavola genealogica 1, in allegato. 3 Per qualificare l’intensità del confronto, Simone Collavini evocava una similitudine con una guerra civile tanto l’opposizione fu rilevante. S. M. COLLAVINI, Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus. Gli Aldobrandeschi da ‘conti’ a ‘principi territoriali’ (secc.IX-XIII), Pisa, ETS, cap. 6, pp. 297-344. 4 Uno degli interventi fu pronunciato da Ugerio della famiglia comitale Pannocchieschi: A.S.S. Diplomatico Riformagioni, a.1215, luglio 2. Il documento spesso citato negli studi riguardanti la famiglia Aldobrandeschi s’inserisce nel corpus documentario delle fonti riguardando la famiglia Pannocchieschi d’Elci che verrà edito in seguito alla monografia familiare dedicata al detto gruppo nobiliare, che sto attualmente curando per il doppio Dottorato di Ricerca, svolto nell’ambito della cotutela Francia-Italia, tra l’Université de Poitiers e l’Università degli Studi di Siena. 5 Codice Diplomatico della città d’Orvieto. Documenti e regesti dal secolo XI al XV e Carta del Popolo, codice statuario del comune d’Orvieto, (da ora in poi: CDO) ed. L. FUMI, Firenze, Vieusseux, 1884, Documenti di Storia Italiana a cura della R. Deputazione sugli studi di Storia Patria per le provincie di Toscana, dell’Umbria e delle Marche, t.VIII (ristampa 1997), n°107, a. 1216, ottobre 22-26, pp. 74-78. 6 Simone Collavini ha identificato i castelli, le giurisdizioni della spartizione della contea Aldobrandesca nel 1216. S. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi, op. cit., pp. 304-305; D. MARRARA, Storia istituzionale della Maremma senese. Principi e istituti del governo del territorio grossetano dall’età carolingia all’unificazione d’Italia, Siena, Meini, 1961, pp. 53-54. 7 Cartografia 1. I limiti indicati sono stati definiti seguendo i confini naturali, e presentano soltanto una visione media della realtà. 8 Il principio successorio seguito era quello della legge longobarda della spartizione equitativa tra tutti gli eredi maschi senza favorire il primogenito maschile. S. CAROCCI, Genealogie nobiliari e storia demografica, in Demografia e società nell’Italia medievale (secoli IX-XIV), a cura di Rinaldo COMBA - Irma NASO, Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo, atti del convegno (28-30 aprile 1994), Cuneo, 1996, pp. 87-105, soprattutto pp. 90-91; P. CAMMAROSANO, Aspetti delle strutture

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familiari nelle città dell’Italia comunale (secoli XII-XIV), “Studi Medievali”, 1975, anno XVI, n.s., fasc., pp. 417-435. 9 La nuova spartizione del 1274 rese acuita la dicotomia all’interno del lignaggio già fortemente scosso dalle scelte politiche divergenti dei conti Aldobrandeschi. 10 L’atto di spartizione del 1274 è edito in G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia, Roma, 1934, ristamp. anal., Roma, 1980, Multigrafiche Editrice, Biblioteca Storica di fonti e documenti, 2 vol., II, n. 580, pp. 246-247. La divisione fu corroborata nell’atto di 12 anni posteriore, il 6 agosto 1286. G. CIACCI, op. cit., II, n. 621, p. 274. 11 Vedere la cartografia 2 di S. M. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”., op. cit., pp. 368-369. 12 Per sopravvivere alle mutazioni sociali e politici nei contadi toscani, alcune famiglie preferirono adottare altra politica che quella di difendere il loro dominio : per esempio, i Gherardeschi s’inserirono nella società della città portuaria pisana, di cui presero il capo fino alla metà del Trecento, E. CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa. Dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico, Napoli, 1962, Istituto Italiano per gli Studi Storici. 13 O. REDON, L’espace d’une cité. Sienne et le pays siennois (XIII-XIV e s.), Roma, 1994, Collection de l’Ecole française de Rome, 200, pp. 143-147. 14 Il Caleffo Vecchio del Comune di Siena, (ad ora in poi, CV) ed. CECCHINI, Siena-Firenze, Olschki, 1931-1991, 5 vol., I, n°62, a.1203, gennaio 21; I, n°172-173, a. 1221, ottobre 2. 15 Il vicario generale era specificamente designato per la Maremma e l’Aldobrandesca. 16 CV, II, n°531-532, a.1251, maggio 17. Il conte Guglielmo si era impegnato con Firenze e Orvieto contro i suoi propri parenti e contro Siena. CDO, n°297, a.1251, marzo 20-29, pp. 192-194. La dicotomia interna al lignaggio aldobrandesco fu confermata ed istituzionalizzata nella redazione degli statuti comunali di Siena nel 1262, che specificò le ‘topolinee’: Il Costituto del Comune di Siena dell’anno 1262, ed. L. ZDEKAUER, Milano, Hoepli, 1897, Dist.III, art. 380, p. 191: “De tribus eligendis super redditibus et censibus comunis Senarum: // et specialiter super redditibus et provenctibus, quos comune Senarum recipere et habere debet a comite Ildibrandino de Sancta Flora et a comite Ildibrandino de Pitigliano //”. Appare ovvio che la distinzione tra i due parenti fatta dal Comune di Siena non era soltanto motivata dalle posizioni politiche, ma anche dalle pretese economiche senesi sull’ampio territorio dell’Amiata, ancora sotto il giogo aldobrandesco. 17 Anche se, generalmente, è considerata la data della battaglia di Montaperti come punto di riferimento del cambiamento d’orientamento politico di Siena, passando dal lato ghibellino al lato guelfo, lo spostamento politico accadde negli anni successivi che possono essere estimati fino agli anni 1270. 18 Gli abitanti ai confini senesi-orvietani furono chiesti di non favorire i ribelli (cioè i conti di Santa Fiora) e furono invitati a mettersi al servizio e alla disposizione del podestà orvietano : Archivio Comunale d’Orvieto, Riformanze, cc. 81, cc. 87-105, citato da G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi nella storia, op. cit., II, p. 304, a.1301, gennaio 6 ; A. LISINI, La Margherita Aldobrandeschi e la dissoluzione della grande contea di Santa Fiora e di Sovana, “B.S.S.P.”, n.s. anno 3, 1932, X, pp. 323-357, pp. 324-325. 19 CDO, n°602, a. 1303, settembre 11. 20 Nel gennaio 1304, undici comuni d’undici castelli del comitato Aldobrandesco si sottoposero al comune d’Orvieto: CDO, n°402, a. 1304. 21 A.S.S Consiglio Generale, LXIII, c. 209, a.1303, dicembre 18. 22 Già, nel settembre 1330, tre conti di Santa Fiora, Enrico, Guido et Jacopo, uno dopo l’altro, s’impegnarono a pagare ai Senesi per riscossione delle rapine e de danni effettuati da loro, e concessero in segno d’accettazione del patto metà del castello di Castel del Piano: CV, t. 4, n°1073, 1074, 1075, a.

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1330, settembre 7. La presa di Scansano e d’Arcidosso dal capitano di guerra, Guido Riccio, fu raccontata da Agnolo di Tura del Grasso, Cronaca Senese, a. 1331, p. 503, in Cronache Senesi, a cura d’Alessandro LISINI e Fabio IACOMETTI, Bologna, Zanichelli, Rerum Italicarum Scriptores, t. XV, parte VI. 23 D. MARRARA, Storia istituzionale della Maremma senese, op. cit., soprattutto il capitolo 3 “Il feudalesimo laico: Gli Aldobrandeschi”, e il capitolo 4 “L’espansione pisana, senese e orvietana: la crisi del feudalesimo e la nascita dei comuni”. 24 Sono qui sotto intesi gli Stati-Repubblica, come Siena oppure Orvieto. 25 L’ampio movimento di sottomissioni si estese dal 1300 al 1305. Qualche riferimento degli esempi del testo: CV, t.4, n°1037, 1049, 1051, 1053, 1055. 26 Dichiarazione comune di guerra da Siena contro Santa Fiora e Sovana: A.S.S. Consiglio Generale, LVII, c.83, a.1299, marzo 24. Ripetizione della dichiarazione ed organizzazione della spedizione: A.S.S. Consiglio Generale, LVIII, c. 32, c. 52, cc. 79-81, a. 1300. Il motivo nel 1300 (c.32): “cum audiveritis... quare orta est guerra inter Comune Senensem et comites Ildibrandescos, et dictos comites occasione dicte guerre equitaverunt hostiliter in comitatu Senense et continue equitant et multam injuriam et dampnum et gravamen intulerant, et cotidie inferunt civibus et comitatinis Senensibus”; A. LISINI, La Margherita Aldobrandesca e la dissoluzione della grande contea, “B.S.S.P.” pp. 324-325. 27 CDO, a.1312, settembre 15-26. 28 Gli Orsini si riorganizzarono con l’arrivo del nuovo re a Napoli, Carlo I d’Angiò, spostandosi di nuovo nell’obbedienza pontificia, dopo la battaglia di Tagliacozzo, e i membri della famiglia romana usarono il pragmatismo politico e il forte sentimento della coesiva solidarietà familiare. Dopo il 1270, la riabilitazione degli Orsini sembrava pienamente effettiva, e loro apparvero particolarmente decisi ad approfittare dell’alleanza tra il Pontefice e il Francese, piazzandosi fra le famiglie curiali sulle quali la nuova monarchia napoletana intendeva contare per sviluppare il suo influsso sul resto dell’Italia. Una delle strade utilizzate dagli Orsini fu l’adesione alla causa guelfa, facendo scegliere il re napoletano tre nipoti del cardinale Giangaetano, cioè Bertoldo, Napoleone e Matteo, figli di Gentile Orsini, in carica di collaboratore del sovrano. Negli anni 1270, Bertoldo riuscì ad imporsi nei progetti toscani di Carlo I. Però, rapidamente si creò una situazione conflittuale tra i due personaggi, soprattutto dopo l’episodio di Massa Marittima, dove Bertoldo, a fine di dimostrare la sua potenza, prese il podestariato di Massa, cacciando Bernardino Pannocchieschi, considerato in quanto occupante abusivo del palazzo comunale. Bernardino era molto legato al potere regio napoletano. Con l’elezione di Giangaetano Orsini alla Santa Sede, sotto il nome di Niccolò III, un disequilibrio fu succitato tra i nuovi progetti pontificali (ormai “orsiniani”) e regi, soprattutto da parte del nuovo papa che intendeva porre limiti all’influenza di Carlo. Anzi, Niccolò III cooptò Bertoldo durante il conclave di Viterbo del 1277, ponendolo al servizio diretto della Chiesa, chiudendo la collaborazione con Napoli. Nel 1278, Bertoldo fu designato rettore in temporalibus in Romagna e fu incaricato ufficialmente di calmare le turbe nelle città della Via Emilia. Ufficiosamente doveva utilizzare la sua propria esperienza podestarile in Toscana per portare avanti le speranze pontificali. Tuttavia, l’incapacità diplomatica di Bertoldo non permise ai progetti pontificali e familiari di realizzarsi, non essendo pure in grado di ottenere successi parziali come legami nuziali con qualche famiglia nobiliare locale. Per le vicende degli Orsini, vedere gli studi di F. ALLEGGREZZA, Organizzazione del potere e dinamiche familiari. Gli Orsini da Duecento agli inizi del Quattrocento, Roma, 1998, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, nuovi studi storici 44. 29 La sua vera e propria campagna d’espansione territoriale si svolse negli anni 1280-1300. 30 Tavola genealogica II. 31 Tuttavia, secondo un atto notarile dettato da Napoleone stesso, suo fratello Orso avrebbe incaricato la moglie Margherita e suo fratello cardinale, durante la redazione del testamento, di farsi gli esecutori

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testamentari e tutori dei loro figli e beni: Archivio Caetani, perg.n.1266, in G. CAETANI, Margherita Aldobrandesca e i Caetani, p.28, citato da G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., doc. DCXL, t. 2, p. 289, a.1287, ottobre 13: “Verum qui Neapoleo tutele filiorum et executioni bonorum ipsius Ursi se non inmiscuit nec se intendat inmiscere ut heredibus Ursi possit alias utilius provideri, ipsis tutele et executioni renuntiavit... In Orvieto.” 32 A. LISINI, La Margherita Aldobrandesca e la dissoluzione della grande contea, “B.S.S.P.”, pp. 326-327. 33 Il 3 ottobre 1298, Bonifacio VIII aveva ordinato la dissoluzione del terzo matrimonio della contessa Margherita con Loffredo Caetani, imputando la contessa aldobrandesca di bigamia: Archivio Caetani, perd.1504, cit. G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia, doc. DCXLII, pp.290-291. Poi, nel marzo 1304, Bonifacio VIII dichiarò la contessa decaduta dell’enfiteusi dei beni del monastero di San Anastasio, qualificandola di nemica della Chiesa: “adversus eamdem Ecclesiam rebellerat, adhaerendo quondam Guidoni de Sancta Flora ejusdem Ecclesiae publico inimico, cum eo copulando amicitias et confoederationi faciendo”. A.S.S. Archivio S. Anastasio, a. 1303, marzo 10. 34 Alessandro Lisini ha forse esagerato le intenzioni del papa Bonifacio VIII, chi, secondo lui, sarebbe stato pronto a qualsiasi tipo d’intervento per ottenere la parte della contea inerente alla contessa Margherita, sostenendo e spingendo Senesi e Orvietani nella loro impresa di sottomissione dei nobili, per rendere più facile il suo compito e limitare le sue spese. Dunque, il papa avrebbe sperato ricuperare le terre della contessa ereditate dal padre, provenienti di concessioni feudali dal Papato e dal monastero di Sant’Anastasio, e sulle quali il pontefice stimava avere un diritto di prelazione. Però, richiedendo il sostegno dei Senesi, il papa temé che il comune di Siena si mise in possesso della zona ambita. Anzi, in una bolla posteriore al 15 ottobre 1300, notificò ai Senesi di non invadere le terre della contessa. Mandò in quanto di comandante delle truppe, il vescovo Teodorico di Civitapapale, la cui azione non fu molto soddisfacente. In effetti, Teodorico pervenne ad occupare senza gran difficoltà Saturnia e Mensano, però al momento dell’assedio di Pitigliano dove si erano spostati gli eserciti del conte Guido di Santa Fiora e della contessa Margherita, la sconfitta fu pesante per l’esercito pontificale, e l’onore del papa schernito. L’indegno di Bonifacio VIII lo spinse a pronunciare la scomunica dei due cugini-amanti, in quanto refrattari e nemici della Chiesa: A. LISINI, La Margherita Aldobrandesca e la dissoluzione della grande contea, “B.S.S.P.”, op. cit., pp. 325-327; G. BRUSCALUPI, Monografia storica della contea di Pitigliano, opera postuma, Firenze, 1906, ristamp. Roma, Mutigrafiche, 1986, p.152. Bolle pontificali di Bonifacio VIII: A.S.S. Diplomatico Riformagioni, a.1300, ottobre 15; A.S.S. Cap.2, c.356v (a.1300, dicembre 3). 35 Il matrimonio di Margherita con Orso Orsini fu chiaramente annunciato in un atto del 1294, conservato presso l’A.S.S. Diplomatico Riformagioni, a. 1294, marzo 5. 36 A. LISINI, La contessa palatina Margherita Aldobrandeschi e il suo matrimonio con il conte Guido di Monforte, “B.S.S.P.”, 1932, X, n.s. 3, pp.1-48; ID., La Margherita Aldobrandesca e il cavaliere Nello da Petra, “B.S.S.P.”, 1932, X, n.s. 3, pp. 248-283. In prime nozze nel 1270, sposò Guido di Montfort, conte palatino, che morì nel 1287, lasciando due figlie Tommassa e Anastasia. Al secondo, sposò Orso Orsini, poi, al terzo, si legò a Roffredo Caetani, il cui matrimonio fu dissolto nel 1298. Ebbe due altri mariti : il suo cugino Guido di Santa Fiora e Nello dei Pannocchieschi da Petra, unione dalla quale nacque un figlio morto presto, Binduccio. Per la visione dal testimonio di Napoleone Orsini sulla molteplicità dei matrimoni della contessa: Archivio di Stato di Napoli, Registri Angioini, vol.161, ff.128v-129, cit. G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit, II, p. 296: “Neapoleo Sancti Adriani dyaconus cardinalis apostolice sedis legatus // de narratione premissa de matrimonio legitime jam dudum contracto inter Loffredum Gaietanum, felicis recordationis Bonifacii pape nepotem, et mulierem nobilem Margaritam comitissam palatinam, ac de secuto postea inter ipsos divorcio//”. 37 Archivio Caetani, perg. 931, cit. G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., II, p. 296.

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38 STANCHI, Descent.Orsini, p. 428, cit. G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., II, p. 308. 39 Nel febbraio 1313, Margherita di Sovana si ritirò d’Orvieto dove aveva ricevuto, un anno prima, il diritto di risiedere liberamente nel suo palazzo della Piazza San Egidio, considerando che le promesse fatte alle non erano state rispettate. CDO., a.1312, settembre 15; a.1313, febbraio 24, e a.1313, aprile 1 et 2. Intanto, gli Orvietani presero tutte le disposizioni necessarie al ricupero dei castelli, nonostante l’ammonizione romana. 40 Il 1° aprile 1313, Benedetto Caetano fu mandato come procuratore per trattare la concessione del contado aldobrandesco con le autorità comunali. Il giorno dopo, 2 aprile, Gentile Orsini otteneva il diritto di dare lasciapassare a chi voleva : CDO., a.1313, aprile 1; Archivio Comunale Orvieto, Riformanze XII, cc. 14t-15, cit. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., II, p. 309. 41 Margherita di Sovana e Nello Pannocchieschi da Petra ebbero un figlio maschio, Binduccio, la cui sepoltura si trova ancora oggi a Massa Marittima, presso la chiesa di San Francesco. L. PETROCCHI, Massa Marittima, Arte e Storia, Firenze, A. Venturi ed., 1900, p. 159: è stata edita la sua iscrizione sepolcrale “HIC JACET BINDOCCIUS FILIUS DNE MARGARITE COMITISSE PALATINE ET DNI NELLI DE PETRA PANNOCCHIENSIUM AN. DNI MCCC INDICTIONE XIII DIE KALENDARUM MAI.” 42 Era una cosa eccezionale di trasmettere l’intero patrimonio ad una femmina, due generazioni di fila. Di solito, le figlie venivano meno considerate nella spartizione patrimoniale: vedere G. LUMIA, ‘Ut cippus magis conservetur’. La successione a Siena tra statuti e testamenti (XII-XVII secc.)”, articolo in corso di stampa presso “Ricerche Storiche”; A. CIRIER, Donne e patrimonio nella nobiltà senese del Trecento. Riflessioni intorno alle vicende matrimoniali e patrimoniali della contessa Costanza d’Elci (ca. 1306-1342), articolo in corso di stampa per la rivista “Ricerche Storiche”. 43 F. ALLEGREZZA, Organizzazione del potere e dinamiche familiari, op. cit., pp. 45-46. 44 Al suo fratello, era stata assegnata la contea di Nola, vedere la tavola genealogica 2, in allegato. 45 “Terras positas ad Albegna citra fuisse et esse comunis Urbeveteris jure veri dominii, proprietatis, possessionis et jurisdictionis”. MURATORI, Regesti Atti Comune Orvieto, pp.101-102, cit. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., II, p. 313. 46 A.S.S. Dipl. Riformagioni Balzana, n. 52, 1341, febbraio 2: “Exponitur coram vobis dominis prioribus artium rectoribus et gubernatoribus civitatis Perusii propter magnifici viri Guidonis de filiis Ursi comitis pallatini quod cum idem comes Guido de Soana intendat paternitatem excelsi et magnifici vostri comunis Perusine adhipissa supplicat. Idem comes magnitudini paternitatis vostre quatenus dignemini eumdem recipere in filium recommandatum adoptionis titulo et in civem civitatis predicte pactis si placet vestra sempre reverentia observata et condictionibus infrascriptis. In primis quidem postulat. Idem comes esse civem dicte civitatis Perusii et alibrari pro alibratu competenti videlicet inquistatur XIIc libris denariorum perusinorum pro qua libra solvere se offert datas et collectas et alias facere factiones ut alii perusini faciunt pro comunis libra et catastro.Item nomine suo et fratrum suorum pro quibus de rato permictet submetit et submictere offert civitates castra terras et fortelitias suas quas juste habent tenent et possident et quas in futurum juste dusserint aquirendas se et dictos suos fratres et personas eorum et dictas terras maxime: civitatem Soane; castrum Pictigliani; castrum Sorani; castrum Castelucalli; castrum Serenum; castrum Montisboni; castrum Chatalbii; castrum Saturnie; castrum Urbetelli; et portus suos in meranii; ipsius castri videlicet; portum Herculis; portum sancti Stephani ; portum sancte Liparete; castrum Ansedonie et portum suum qui vocatur; portum Ansedonie; castrum Altercosti; castrum Montis Aghuti; castrum Inlgliani et generaliter omnes alias suas terras in quabus jus pretendit et habet et specialiter in castro Morani; castro Montiani et castro Marsigliani.” 47 Le relazioni tra gli Orsini, nuovi conti di Sovana e di Pitigliano, e gli Aldobrandeschi di Santa Fiora, non furono sempre concordanti: si associarono nel 1314, in un tentativo di vendetta nei confronti dei

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Senesi, bruciando Montelaterone, Roccalbagna, però vedendo bruciare il castello di Scansano e nonostante il trattato di pace del 1317, nel gennaio 1318, una lite tra i conti di Pitigliano e quei di Santa Fiora conduce le truppe dell’uno e dell’altro a confrontarsi presso Radicofani. Dopo la sconfitta dell’esercito di Santa Fiora, l’abbazia di San Salvatore sul Monte Amiata fu presa e messa a saccheggio. G. BRUSCALUPI, Monografia storica della contea di Pitigliano, op. cit., pp. 158-159. Alcuni documenti fanno anche riferimento alle concessioni fondiarie da parte dei conti di Santa Fiora a quei di Sovana e di Pitigliano : per esempio, nel luglio 1349, Pietro del fu Fazio di Santa Fiora vendé al conte Guido del fu Romano Orsini di Sovana, il castello di Selvana con la sua rocca, la terza parte del castello di Samprugnano, la terza parte di Magliano, e della Marsigliana... per la somma di 40 000 fiorini d’oro: A.S.S. Archivio Sant’Anastasio (inventario-regesto Ms.B.16, doc.13, a.1349, luglio 24); G. CELATA, Antologia storica della diocesi di Sovana - Pitigliano, Pitigliano, s.d., pp. 60-61. L’A. descrive le ultime campagne condotte dai Senesi per sradicare la contea di Sovana e di Pitigliano, ormai tra le mani degli Orsini: gli anni 1410-1420 marcarono la totale sottomissione della zona decaduta dell’Aldobrandesca al governo senese, anche se i membri della famiglia Orsini perpetuarono la detenzione del titolo di conte di Sovana; A. VERDIANI BANDI, I Castelli della Val d’Orcia e la Repubblica di Siena, Siena, ed. Turbanti, 1926, p. 95. 48 A.S.S. Cap.2, cc. 358-360v, a. 1317, aprile 9-17. Il 26 aprile seguente, era corroborato il testo della sottomissione facendo menzione di tutti i nomi dei conti Aldobrandeschi et dei loro seguenti: A.S.S. Dipl. Riformagioni, a. 1317, aprile 26. 49 CDO, p.473. La sottomissione fu reiterata il 22 aprile 1332, dai conti Enrico, Guido e Stefano de Santa Fiora, obligandosi alla restituzione delle terre occupate, rinunciando ai diritti di pedaggio e vietando di formulare tutti tipi d’atto di guerra e di pace senza il consenso del comune, eccetto la potenza pontificale, dell’Impero e del monastero di S. Anastasio: MURATORI, Arch. Orv. Com. Reg. Atti.Com., c. 701, cit. G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, II, p. 312. 50 A.S.S. Cap. 2, cc. 360v-361. Il contratto di trattazioni fu scritto il 6 ottobre 1331: A.S.S. Cap. 2, cc. 361- 362; e il 30 ottobre, il Consiglio Generale deliberò in favore della pace con i detti conti a condizione che vendessero a Siena i loro castelli d’Arcidosso, di Casteldelpiano e di Scansano per 800 florini: A.S.S Cap. 2, cc. 436v-437; la concessione fu fatta il 22 febbraio 1332 : A.S.S Cap. 2, cc. 444-445v. 51 A.S.S. Cap. 3, cc. 121v-124, cc. 124v-125v, c. 129, c. 129v, a. 1339, ottobre 11-17: I conti Jacomo e Pietro del fu Bonifacio sottoposero al comune di Siena terre e castelli di Selvena, Capalbio, Margliana, Montebono, Magliano, la metà di Collecchio, Scansano, Samprugnano e l’isola del Giglio. I conti Guido e Stefano del fu Ildebrando XIII detto Novello, sottoposero la metà di Santa Fiora, Capalbio, Magliano, Petreto, Collecchio e Scanzano, e il terzo dell’isola del Giglio ; infine, il conte Conticino di fu Guido il castello di Stacchilagi e la metà di Morrano. 52 G. PINTO, La Toscana nel Tardo Medioevo. Ambiente, Economia rurale, Società, Firenze, Sansoni, 1982, p.85. 53 Gli atti di sottomissione (od assimilati) dei diversi conti nella seconda metà del quattordicesimo secolo furono la ricondotta del patto di tregua tra Siena e i conti di Santa Fiora per un anno: A.S.S. Consiglio Generale, CLVIII, c. 54, a. 1356, dicembre 23; una sottomissione al comune di Siena da parte del conte Francesco : Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. ms. B.VI, 13, f. 449 ; Nomina degli ambasciatori per contrattare accordi di pace con i conti di Santa Fiora: A.S.S. Concistoro, reg. LXIII, c. 24, a. 1372, marzo 16; Ratifica dei nuovi accordi tra i conti di Santa Fiora e il comune di Siena e capitoli di sottomissione firmati dal conte Guido del fu Senese: A.S.S. Concistoro, reg. CXXXI, c. 14, a. 1386, giugno 20 - A.S.S. Cap.3, cc. 682-683v, a. 1386, giugno 25. 54 A.S.S. Cap. 3, cc. 234-236, a. 1343, novembre 14. Edizione in allegato: documento 1. 55 A.S.S. Dipl. Riformagioni, a. 1409, settembre 9.

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56 A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXV, c.6v, c.15v. 57 Una maggiore parte dei documenti è edita in annessa al testo della comunicazione. 58 A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXV, c. 33v, in edizione, doc. 2, n°3. Le trattative si proseguirono nell’estate e nell’autunno del 1438: A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXVI, c. 3; c.11, a. 1438, settembre 1-15: “Primo namque victum obtentum deliberatum et solempniter ordinatum fuit magnifichis domini capitaneus populi et vexillifer magister et illi cives electi super materia Sancte Flore habeant plena remissione et possint concludere et capitolare cum comitissis de Sancta Flora predicta et comitatibus terrarum earumdem eo meliori modo quo poterant ad honorem et utilitatem comunis Senensis pacifice et concorditer et non alter”. 59 A.S.S. Cap. 4, cc.257v-259, a. 1438, ottobre 16-23: “Item quod dicte comunitates et homines earum facient et curabunt ita et taliter quod dicte comitisse aut aliqua earum non contrahent matrimonium nec contractum matrimonii facient cum aliquo sine expresso consensu et voluntate ipsarum comunitatum et hominum earumdem, et quod ipse comitates et homines nullo modo concludent nec promictant concludi aut contrahi ab ipsis comitissis aut aliqua vel altera earum aliquem contractum matrimonii cum aliquo sine expresso consensu et voluntate magnifici comunis Senarum. Et in casu quo dicte comitisse aut aliqua earum se maritarent aut contractu aliquem matrimonii facerent vel contraherent secundum expresso consensu comunis Senensis tunc et eo casu dicte comunitates et homines teneantur et debeant rochas et fortillitia dictarum terrarum et cujusque earum et Selvane dare tradere et consignare realiter et cum effectu mandatariis dicti comunis Senarum uni vel pluribus”. Edizione nel documento 3. La richiesta del consenso matrimoniale non era soltanto da porre al Comune di Siena, ma anche alle comunità dei tre castelli di Santa Fiora, Castelazzaro e Scansano. La clausola nuziale valida per le contesse è richiamata il 23 ottobre 1438, in una decisione del Concistoro di Siena : A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXV, c. 35v (edizione in Doc.3, n°2). Tuttavia, era già stata accennata nel mese precedente: A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXVI, c. 11: “Et recipiant promissionem et obligationem quod dicte comitisse non maritabuntur sine licentia et consensu comunis Senensis”. 60 A.S.S. Cap. 4, cc. 257v-259, a. 1438, ottobre 16: “Pro prefatis comitissis et ad earum obedientiam et voluntatem et ad honorem et statum dictorum magnificorum dominorum Senensium secundum quod in capitulis ut super olim factis inhitis et contractis inter dictos magnificos dominos Senenses et dictum olim comitem Guidonem continetur ” (vedere edizione, doc. 3, n°1). 61 A.S.S. Cap. 4, cc. 257v-259; A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXV, c.35v. Il governo senese iscriveva la reiterazione dell’alleanza delle contesse con il comune all’interno di un processo di definizione dei confini dei castelli e delle piccole signorie locali, soprattutto in Valdorcia. A VERDIANI-BANDI, I castelli della Val d’Orcia e la Repubblica di Siena, p.106; Vedere il repertorio di Paolo Cammarosano e di Vincenzo Passeri, in I Castelli del Senese. Strutture fortificate dell’area senese-grossetana, a cura di P. CAMMAROSANO, R. FRANCOVICH, V. PASSERO, C. PEROGALLI, G. PICCINNI, G. VISMARA, Siena, 1976, Electa Editrice, Monte di Paschi di Siena, 2 vol., II, Rep. n°53.1, p. 378. Galeazzo d’Arco conferma le transazioni con il Comune di Siena, da solo, nel gennaio 1451, e poi “ sparì ” dagli affari riguardanti Santa Fiora: A.S.S. Cap. 5, cc. 89-89v, a. 1450, gennaio 6. 62 Su Bozio Sforza, P. LITTA, Le famiglie celebri italiane, vol.1, tav.1-2. Bosio fu cresciuto nella scuola militare del suo padre e del suo fratello. Approfittando del sostegno del papa Martino V, ricevette la carica di governatore d’Orvieto, poi quella di poscia generale della repubblica di Siena. 63 G. PEYRONNET, “Un virtuose de la guerre et de la paix au Quattrocento: François Sforza”, in Fifteenth-century Studies, vol. 19, ed. Medieval Institute Publications, Western Michigan University (Kalamazoo), 1992, e Atti del convegno sul Quattrocento, Perpignan, 1991, pp. 191-208, p. 196. Francesco Sforza combatté anche contro d’Andrea Fortebracci detto Braccio di Montone alleato degli Orsini (e quindi dei conti di Sovana) e del Papa, nella lotta contro Perugia, in numerose occasioni. L’ultimo confronto

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tra i due uomini fu letale a Braccio di Montone nel 1424, durante la battaglia dell’Aquila in Abruzzo, dove lo Sforza lo sconfisse, lo ferì e lo fece prigioniero. Braccio di Montone morì tre giorni dopo, il 5 giugno 1424. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, (1960-) 1997, t. 49, voce “Fortebracci Andrea”, pp. 117-127. 64 A.S.S. Cap.5, cc. 85v-87v, a.1450, agosto 9 (Edito, doc. 4) 65 G. PEYRONNET, “Un virtuose de la guerre et de la paix au Quattrocento : François Sforza”, p. 197. 66 A.S.S. Cap.5, cc. 130v-132, a.1461, aprile 30: “volentes cum suprascripte comunitate Senarum veram et sinceram adherentiam et recomandationem habere” (Edizione parziale, doc. 5) 67 A.S.S. Cap. 5, cc. 278-282, a. 1462, aprile 30. 68 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Purgatorio, VI, III.

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EDIZIONE DI DOCUMENTI

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1343, novembre 14, ind. XII Ampugnano, in domo posita super podere Francisci Guiduccii Ruffaldi, in sala ipsius domus

Testamento del conte Jacomo di Bonifazio Aldobrandeschi da Santa Fiora, con il quale nomina erede il Comune di Siena.

A. B. Copia in A.S.S. Capitoli 3, c. 234. C. Copia in A.S.S. Capitoli 60, quaderno cartaceo, ff. 83-86v.

B. In nomine Domini nostri Jhesu Christi et individue trinitatis amen. Anno ejusdem millesimo trecentesimo quadragesimo tertio, indictione duodecima die quartodecimo mensis novembris secundum cursum et consuetudinem civitatis Senarum. Quoniam scriptum est quod humane nature condictio habet debitum mortis persolvere et apud eam non est differentia personarum. Et quisque censendus est nobilior qui quod debet accelerat (sic) cum saltim retardare non valeat debiti iam contracti arogrosum (sic) cancellare predicta itaque considerans inclitus et magnificus vir dominus comes Jacobus de Sancta Flora Dei gratia palatinus filius quondam bone memorie domini comitis Bonifatii de Sancta Flora predicta eadem gratia palatini et attendens iuxta mandatum Ecclesie saluti sue anime providere et domui sue sapienter et diligenter disponere sanus mente corpore et intellectu presens testamentum nuncupatium sine scriptis per modum instrumentum fecit et facere procuravit. In primis quidem devota mente se catholicum orthodosse fidei celationem profitetur et asserit, et se constanter et simper (sic)1 tenere et credere quod tenet et docet Sancta Romana mater Ecclesia in omnibus principaliter que ad forum anime pertinere noscuntur et sub dicte fidei clipeo animam Deo reddens in ultimo vite spiritu, ex nunc devote dixit et dicit "in manus tuas, Domine meum spiritum recommendo". Item in casu mortis ob reverentiam Creatoris judicavit et voluit corpus suum post mortem ejus secundum solempnitatem Ecclesie tradi et sepelliri ecclesiastice sepulture apud locum Beati Niccolai de Silvena. Item legavit jussit et mandavit per infrascriptos suos heredes et fideicommissarios suos restitui et solui omnibus recipere debentibus et quecumque legittime deberent et appererent restitui cuicumque persone loco collegio et universitati et maxime que ad eum pervenissent ex quacumque causa illicita et injusta et illicite et injuste de summa et quantitate infrascripta.

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Item considerans et attendens ad constantem fiduciam et solitam legalitatem et virtutes comunis Senarum ad quod se et mentem suam constanter et confidenter elegit et direxit spem sue salutis et executionem presentis sue ultime voluntatis. Ipsum comune Senarum sibi et in omnibus bonis suis mobilibus et immobilibus seseque moventibus juribus et actionibus generaliter et universaliter sub et cum infrascriptis modis oneribus et condictionibus et substitutionibus sibi universalem heredem instituit. Item ut circa jura sibi competentia in terris et fortilitiis suis clare pateant et sub generalitate contra intentionem ipsius testatoris nullam per suum heredem predictum vel infrascriptum possit usurpatio vel super assumptio fieri declaravit per modum infrascriptum, infrascriptas terras et fortilitias pro infrascriptis partibus ad eum ut infra distinguetur pertinere, videlicet terram et roccham de Silvena cum juribus et pertinentiis suis pro medietate pro indiviso cum comite Petro fratre suo. Item castrum et fortilitiam de Scerpena cum juribus et pertinentiis suis pro medietate pro indiviso cum dicto comite Petro fratre suo. Item unum quantum et dimidium alterius quarti cassari et terre de Capalbio cum medietate ejus curie et districtus cum juribus et pertinentiis suis pro medietate pro indiviso cum dicto comite Pietro fratre suo. Item medietatem castri et terre de Magliano prout distincta apparet a parte aliorum comitum cum quarta parte ejus curie et districtus prout distincta et terminata et confinata apparet cum juribus et pertinentiis suis pro medietate pro indiviso cum dicto comite Pietro fratre suo. Item medietatem pro indiviso totius castri et cassari de Giglio et ejus curie et districtu cum juribus et pertinentiis suis pro indiviso cum dicto comite Pietro fratre suo pro medietate. Item undecim partes de viginti partibus castri et cassari de Colecchio et ejus curie et districtus cum juribus et pertinentiis suis pro indiviso cum comite Stefano et etiam pro medietate pro indiviso cum dicto comite Petro fratre suo. Item tertiam partem que divisa apparet cum suis consortibus castri et fortilitie de Scansano cum tertia parte divisa ejus curie et districtus cum juribus et pertinentiis suis pro indiviso pro medietate cum dicto conte (sic, invece di comite)2 Petro fratre suo. Item tertiam partem pro indiviso castri et cassari de Samprugnano et ejus curie et districtus cum juribus et pertinentiis suis pro medietate pro indiviso cum dicto comite Petro fratre suo. Item medietatem totius castri et fortilitie Montis Buoni et ejus curie et districtus cum juribus et pertinentiis suis pro dimidia parte comune cum dicte comite Petro fratre suo. Item tertiam partem census et juris census quod habet et recipere debet a comuni de Monticello quod est in totum quadraginta libras denariorum comunem pro indiviso cum dicto conte (sic)3 Petro fratre suo. Item fidelitatem et baroniam terre de Strabugliano cum ejus curia, territorio et

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districtu et omagium quod a possessionibus dicte terre tenetur habere comunem pro indiviso cum dicto comite Petro fratre suo. Item voluit, jussit et mandavit quod prefatum comune Senarum et heredes suus teneatur et debeat solvere et erogare pro salute anime sue quantitatem quadragintaduorum milium florinorum auri per modum infrascriptum videlicet in decem annis sequentibus post obitum ejus videlicet pro quolibet anno ad minus quattuormilia ducentos florinos de auro quos expendere debeat per infrascriptum modum videlicet quod fiant et construantur de novo quattuor monasteria in quibus habitari et monachari debeant ad minus pro quolibet ipsorum quindecim moniales maxime virgines pauperes et bone progeniei. Et in dictis monasteriis debeant proprio divina officia celebrari pro salute et remedio anime ipsius testatoris. Et quodlibet ipsorum monasteriorum habeat et dotetur per infrascriptum heredem suum in quantitate quattuor milium florinorum de quantitate predicta quadraginta duorum milium florinorum pro constructione ipsius et aliis opportunis et pro substentatione et victus et aliis necessariis dictis monialibus et servientibus ibidem in possessionibus mobilibus emendis utilibus et fructuosis secundum dispositionem infrascriptorum fideicommissariorum ipsius testatoris que bona vendi vel alienari non possint nec obligari silicet sunt et remaneant proprio cum eorum fructibus ad substentationem promissorum. Quorum monasteriorum primum fiat sub reverentia et vocabulo Beate Marie Virginis et Beate Anne matris ejus sub regula et gubernatione Beati Francisci Senensis loci. Secundum vero sub regula et gubernatione Beati Francisci Senensis loci et sub vocabulo ejus. Tertium vero sub vocabulo et reverentia Beati Dominici Senensis locis. Quartum vero sub vocabulo et reverentia Beati Augustini Senensis loci in locis declarandis per comune Senarum vel bonos homines per comune Senarum eligendos cum consensu et voluntate infrascriptorum fideicommissarium. Que monasteria proprio defendi debeant per comune Senarum et sint proprio sub protectione ipsius dictum que comune Senarum in dictis monasteriis et quolibet eorum jure patronatus plenissime assequatur. Item quod modo simili construatur et fiat quoddam hospitale sive domus ad gubernationem et substentationem pauperum maxime trascuratium pro quo expendantur pro constructione ipsius et substentatione predicta et pro fulcimentis et lectis tenendis proprio ibidem in numero triginta lectorum ad minus bene et sufficienter fulcitorum in quo debeant divina officia celebrari. Et pro predictis debeant investiri et expendi quattuormilia florinos auri secundum dispositionem bonorum hominum eligendorum per dictum comune Senarum cum consensu infrascriptorum fideicommissariorum in illo loco de quo disposuerant predicti boni homines eligendi per comune Senarum cum consensu infrascriptorum fideicommissariorum. Quod hospitale construatur sub vocabulo Beati Jacobi apostoli et reverentia ejus. Et etiam debeat per comune Senarum proprio eligi gubernator et administrator et esse debeat sub protectione comunis Senensis dumtaxat in quo debeant deputari sacerdotes unum vel plures pro divina officia celebranda pro

GLI ALDOBRANDESCHI 193 Documenti remedio anime sue per dictum comune Senarum, residuum vero quantitatis florinorum a dictis quantitatibus superius dispensatis supra judicavit et disposuit reliquid et erogari et expendi mandavit et solui pro ut et sicut particulariter et distincte etiam nuda voluntate quocumque titulo vel codicillis contigerit cum deinceps disponere relinquere vel erogare. Que omnia voluit haberi et censeri posita disposita et legata in presenti testamento et ex eo efficaciter peti et exigi posse et executioni voluit de mandari ac si expresse in presenti testamento esset descriptum. Item institutionem predictam de dicto comuni Senarum fecit si et in quantum dictum comune Senarum dictam hereditatem solempniter ad habuirent infra duos menses a die notificationis et sciencie presentis testamenti post mortem dicti testatoris et si contigerit non adhunc substituit et instituit sub condictionibus suprascriptis et cum honeribus suprascriptis et infrascriptis hospitale Sancte Marie ante gradus maioris ecclesie civitatis Senensis et domum Sancte Marie Misericordie pauperum dicte civitatis pro equalibus partibus sub hac condictione si capitula et conventus et rectores dictorum locorum solempniter adiverint hereditatem ipsius testatoris in alios duos menses a die notificationis eisdem facte et post repudiationem dicte hereditatis facte per comune Senarum si contigerit eam non adhiri per comune Senarum predictum. Ita modo quod uno dictorum locorum acceptante altero repudiante acceptanti remaneat tota dicta hereditas cum honeribus suprascriptis. Et si contingerit post repudiationem predictam factam per dictum comune Senarum dicta loca vel alterum eorum non adhire hereditatem predictam vel non mandare vel mandari posse executioni effectualiter voluntatem presentem et per ipsum testatorem dispositam quam in dictis casibus et quolibet eorum Ecclesiam Romanam sibi universalem heredem instituit cum honeribus suprascriptis et aliis per dictum testatorem declarandis si declarari contingerit. Onerans reverenter ex nunc in predictis et predictorum executiis conscientis et animas Romanorum pontificum et administratorum Ecclesie suprascripte. Et si contingat ex presenti testamento per institutos heredes successive hereditatem non adhivi et bona sua devenire ad successores ab intestato voluit legata predicta solui et ea ab intestato repetit et repetiri et deberi etiam absque hereditatis de eis fienda et per eosdem prestari et fieri voluit. Et ut ipsius testatoris voluntas plenam executionem recipiat in omnem eventum et ut fideicomissarii liberius et magnus expedite executionem facere valeant voluit quod comune Senarum adjutorium favorem et operam interponat et prebeat. Et ad hoc ut liberitur hoc faciat voluit et in dicta causa legavit dicto comuni Senensi pro censu et nomine census et honore et omagio suarum terrarum annuatim et in perpetuum unum cerum de certa foliatum valoris centum librarum denariorum senensium que offerre debeant tam heredes supradicti istituti quam substituti et heredes venientes ab intestato successive. Et fideicommissarii offerant et offerri faciant in die feste Sancte Marie Virginis quando offertur cerus dominorum Novem cum armis ipsius testatoris patentibus et in memoriam ipsius comitis Jacobi et pro salute anime sue operi Sancte Marie predicte. Et nicchilominus in causa in quo hereditatis ab intestato

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deveniret voluit quod dicta judicia et legata solvatur de redditibus et intratis bonorum et terrarum suarum que bona sua predictis judiciis persolvendis obligari. Item sub condictione obiecta in omnibus suprascriptis quod terre, fortilitie, jurisdictiones et castra ad eum pertinentia per heredem vel venientes ab intestato vendi vel alienari vel in alterum transferri vel obligari non possint silicet semper in hereditate ipsius et apud heredes remaneant mandans predicta fieri et observari per heredem sub pena privationis rei alienate et totius hereditatis. Et ad predicta executioni mandanda sollicitanda et promovenda incessanter suos fideicommissarios executores et procuratores inrevocabiles laudabiles officium dominorum Novem civitatis Senensis presens et quod pro tempore fuerit rectorem hospitalis Sancte Marie predicte, rectorem domus Misericordie suprascripte, priorem Beati Augustini Senensis loci, priorem Beati Dominici de Camporegio Senensis loci, priorem fratrum loci de Certosa, guardianum Beati Francisci Senensisloci consultorem in predictis, dominum Niccholaum Novellum quondam domini Filippi de Bonsignoribus de Senis, Francischum quondam Guidoni Ruffaldi et Guidonem quondam domini Mei cives Senenses fecit et constituit comune effectu. Et dedit eis licentiam substituendi alios fideicommissarios et procuratores. Et ex nunc dedit eis et substituendis ab eis omnia suprascripta faciendi mandatum licentiam et auctoritatem cum generali libera et plena administratione, quorum fideicommissariorum mandatum et auctoritas ducet et reiteretur per duos singulos usque quo dicta dispositio fuerit executioni mandata et possint recommictere mandatum quotiens eis videbitur. Et quod factum fuerit per omnes vel maiorem partem eorum vel duas partes eorum valeat et teneat. Et nolentium acceptare et absentium voces et auctoritates eorum volentibus et acceptantibus applicentur. Et hec est sua ultima voluntas et dispositio quam voluit valere et tenere pleno jure et specialiter jure testamenti et ultime voluntatis, et si non valent jura testamenti valeat jure codicillorum et alterius cujuscumque juris melius et efficacius valere et tenere potet, ita quod sit immutabilis. Rumpens et cassans omne aliud testamentum et ultimam voluntatem quod et quam ab hodie retro et usque in hodiernam diem condedit sive ferit. Et siquam apparent corroboratam cujuscumque condictionis in eo apposite, voluit esse nullam et vanam. Et ad hoc ut securius testamentum predictum in sua permaneat immutabili firmitate voluit omne aliud testamentum et ultimam voluntatem quod et quam apparent ab eo conditum vel inposterum condendum vel per eum celebrandum vel fiendum non valere nec tenere aliquo jure vel causa et nullam obtinere robboris firmitatem nisi in eo expresse et signantur et nominatim continentur et scripta forent hec verba videlicet Bernim, Caides, Anavit, Avacellus, et quod siquod apparent in posterum factum vel conditum ab eodem in quo predicta verba superius scripta apposita non forent et in quo dicta verba ut superius dictum est scripta non forent ex nunc dicit et affirmat illum testamentum et ultimam voluntatem esse fictitium et non verum. Et ex nunc si contingerit dictum testamentum et ultimam voluntatem in posterum condendaum non continere expresso nominatim et signantur predicta verba vel Benium, Caudes,

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Anavit, Avacellus, dictam hereditatem titulo irrevocabilis donationis in terminos dedit et donavit post mortem suam dicto comuni Senensi et mihi notario infrascripto recipienti pro dicto comuni Senensi cum honeribus condictionibus et pactis et modis superius declaratis. Et predicta et fecit pro maiori securitate inmutabili testamenti predicti et contentorum in eo. Actum apud villam de Ampugnano comitatus Senensis in domo posita super podere Francisci Guiduccii Ruffaldi in sala ipsius domus coram domino Guidone judice quondam Fredi de Montalcino cive Senense, Jacobo quondam Jordani socio predicti domini comitis Jabobi, Dominico quondam Guiduccini Ruffaldi et ser Bandino notario de Senis, Francisco Guidonii Ruffaldi et Guidone quondam domini Mei de Senis et me notario infrascripto cognoscentibus personam dicti testatoris, testibus ad predicta presentibus habitis et vocatis et rogatis a testatore predicto in quorum presentia predictus testator rogavit me Jacobum notarium ser Gaulterii notarius de Castillione quod de predictis concedere publicum instrumentum ad dictum et scriptum consilium cujuscumque sapientis et specialiter domini Guidonis de Montalcino. Ego Jacobus filius ser Gualterii notarius de Castillione vallis vine comitatus Senensis, imperiali auctoritate notarius et judex ordinarius predictis omnibus et singulis ut supra legitur interfui et ea rogatus a dicto testatore scripsi et publicavi.

[2]

1438, luglio-agosto Siena

Il Comune di Siena prevede le esequie del conte Guido di Santa Fiora, a luglio, e poi, del suo figlio Federico da Santa Fiora, ad agosto dello stesso anno.

1) 1438, luglio 5.

A. A.S.S. Concistoro 435, c.6 t: Circa pennonem et alia pro honore exequia comitis de Sancto Flora

Convocato congregato et cohadunato consilio populi et popularium magistrorum comunis Senensis in sala magna palatii. Et ubi similiter consilia solent congregari in numero sufficienti facta proposuit super infrascriptis redditis consiliis. Et tenendo posito per toto ad lupinos albos et nigros et servatis certis solempnitatibus opportunis et fuit in dicto consilio actum optentum et solempniter deliberatum quod auctoritates ipsius consilii sit plene remissum et commissum in magnificum dominum capitaneum populi et vexilliferi magistros et illos cives quos apud se elegerint si quos voluerint qui

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ad honorandum obse exequie magnifici comitis Guidonis de Sancta Flore. In pennone targit converti equi vestri famuli Bambriis, insignis comunis et in cera pro exequiis habeant autoritates expendendi usque quantitatem librarum quatrigentarum expenses comunis mittendo illud duos alios imbasciatores ultra persona Jacobi Guidini qui ibidem est ad interveniendum in dictis exequiis ita quod ibidem sunt tres imbasciatores nostri comunis unius per monte. Cum licteris et rotulis prout videbitur ad honorem comunis. Non computatis in dictis libris IIIIc salariis ipsorum ambasciatorum. Et in predictis habeant tantam auctoritatem quantam habet totum comune Senarum.

2) 1438, luglio 15

A. A.S.S. Concistoro 435, c. 15t : Apotissa expens factarum in obsequi comitis de Sancta Flora - Super materia de Sancta Flora

Magnifici domini et capitanei populi in simul et spectabiles vexilleri magistri visa expensi facta de libris trecentis nonagenta septem solidis sex pro honorandis exequiis comitis Guidonis in pennone targita super vestibus banderiis et cera juxta deliberationem consilii generalis. Ipsam expensam approvaverunt. Et deliberaverunt quod camerarius Biccherne ipsos denarios solvat et instituat Francischino Maroso (?) operario camerario pro totis expensis per eum in predictis. Et cum spectabilibus vexilliferis predictis vigore deliberationis conyilii populi concorditer et solempniter elegerunt infrascriptos tres egregios et spectabiles viros super commissionibus comitis Federici de Sancto Flora. In simul cum ipsis magnificis dominis vexilliferis magistris et Bartaolomeo domini Tommassi de Agazaris, Guidocco Gionte et Jacobo Guidini illuc ambasciatoribus juxta deliberationem consilii populi de qua retro, quorum electorum hec sunt nomina: Dominus Pecciis de Petrus miles et doctor ; dominus Petrus de Michaelibus miles et doctor et dominus Antonius Johannis de Batigniano.

3) 1438, agosto 17

A. A.S.S. Concistoro 435, c. 33t: Remissio praticandi et capitulandi super materia Sancti Flore - Pro honorando exequi comitis Federici.

Quod sit remissum in magnificos dominos et vexilliferum magister et illos cives qui sunt electi super materia Sancti Flore, et in alio sex vel novem cives eligendos per eos qui possint et auctoritatem habeant cum suppositis olim comitis Guidonis de Sancto Flore praticandi componendi et capitulandi omnia ea que noverint expedire ad conservationem honoris et utilitatis comunis Senarum, cum hoc quod omnia et singula per eos praticata composita et ordinata cum comitatibus et suppositis ipsius olim comitis de Sancto Flore ponantur ad simile consilium, et pro ut super eis deliberatum fuerit mictatur executioni, omnia faciendo et operando cum hoc quod

GLI ALDOBRANDESCHI 197 Documenti terre et fortilitie ipsius olim comitis de Sancto Flore deveniant ad devotionem et gubernationem magnifici comunis Senarum. Simili modo et forma fuit in dicto consilio virtum optentum et solempniter deliberatum quod sit remissum in magnificos dominos, capitaneum populi et vexilliferos magistros et cives electos super materia Sancti Flore honorandi memoriam et exequia comitis Federici comitis Guidonis de Sancto Flora qui de proximo mortuus est, uno pennone super veste targia coveta equi et duobus banderectis quadratis insignis comunis, expensis comunis ad consilium Augustini de Burghensibus etc.

4) 1438, agosto 17

A. A.S.S. Concistoro 435, c. 34t: Pro centum manibus grossorum argenti qui missi fuerunt ad Sanctum Floram – Pro censu comitis de Sancto Flore.

Deliberaverunt etiam concorditer et solemniter quod regulatores comunis significent comitem Federicum comitis Guidonis de Sancto Flore destribuendo creditorem in biccherna pro redditis in centum manibus grossorum argenti. Et similiter accordant creditorem ipsum comitem pro reddendo malleani pertinentibus ad eum in libris ... pro... censu presentis anni. Et quod postmodum de eis fiat apostisse solutionis directa ipsi camerari biccherne quod ipsos solvat camerario Ecclesie catedralis pro censu presentis anni.

[3]

1438, ottobre 16-23, ind.II Siena, in palatio residentie magnificorum et potentum dominorum

Le contesse di Santa Fiora si presentano con i rappresentanti delle comunità rurali dei castelli di Santa Fiora, Castellazzara e Scansano per concludere accordi con il Comune di Siena. Le contesse cercano di conservare il loro dominio sopra detti castelli. Tuttavia, nel presente atto, viene fuori l’obbligo per le tre figlie di Guido da Santa Fiora di seguire le decisioni del comune per quanto riguarda il loro matrimonio.

1) 1438, ottobre 16

A. A.S.S. Caleffo Rosso, capitoli 4, cc. 257t-259. In nomine Domini nostri Jhesu Christi amen. Anno ab ejusdem Domini salutifera incarnatione millesimo quatuorcentesimo trigesimo octavo, indictione secunda secundum ritum stilum et consuetudinem notariorum civitatis Senensis die vero decimo sexto mensis octubris, tempore pontificatus sanctissimi in Christo patris et domini domini Eugenii divina providentia Pape quarti secundum comunem usum

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loquendi in dicta civitate Senarum. Universis et singulis presens publicum instrumentum inspecturis appareat manifeste quod magnifici et potentes domini et domini priores gubernatores comunis et capitaneus populi magnifice civitatis Senensis absente Andreoccio ser Antonii Gennarii infirmo, spectabiles viri vexilliferi magistri dicte civitatis et quindecim cives specialiter electi quorum magnificorum dominorum capitani populi vexilliferi magistrorum et civium prefatorum nomina et prenomina inferius sunt descripta, habentes ad infrascripta omnia et singula faciendum gerendum et exercendum plenam potestatem auctoritatem et baliam a generali consilio campane dicti comunis et populi civitatis Senensis prefate prout solempniter et publice patet manu providi viri ser Barnabei de Tuderto notarii Reformationum dicti comunis Senensis vice et nomine comunis et populi civitatis Senensis prefate et pro ipso comuni et populo ex balia auctoritate et potestate predictis ex una parte. Et venerabile vir frater Silvester Pieri de Sancta Flora, dignissimus Bacalarius frater ordinis heremitarum Sancti Augustini et Jacobus Johannis de Sancta Flora predicta vocatus de Calegiano ambassiatores mandatarii sindici et procuratores magnificarum comitissarum et comitissarum Cicilie, Johanne et Gabrielle filiarum olim recolende memorie magnifici comitis Guidonis de Sancta Flora predicta et comunis et hominum Sancte Flore predicte ad infrascripta omnia et singula facendum gerendum paciscendum componendum et exercendum plenum speciale ac generale mandatum habentes prout plene constat publicis instrumentis manu ser Antonii Petri Ciardini de Ischia notarii publici Senensis. Et prudentes viri Guaspar Antonii et Ranerius Angeli Sozi de Scanzano ambassiatores mandatarii sindici et procuratores comunis Scanzani predicti habentes ad infrascripta omnia et singula faciendum paciscendum componendum gerendum et exercendum plenum speciale ac generale mandatum de quo plene constat publico instrumento manu ser Jacobi ser Johannis de Castillione Aretino notarii publici. Et providus vir Antonius Vivarelle vocatus Antoniuccius de Castro Azara, ambassiator mandatarius sindicus et procurator comunis et hominum Castri Azare predicti habens ad infrascripta similiter omnia et singula faciendum paciscendum componendum gerendum et exercendum plenum speciale ac generale mandatum de quo plene constat publico instrumento manu ser Pierileonis Ghichi domini Andree de Gualterottis de civitate castelli notarii publici dictis nominibus et quolibet vel altero dictorum nominum ex alia parte. Que mandata et notula de qua in eis sit mentio sunt pene camere consistorii dictorum magnifici domini et copia pene me notarium infrascriptum. Ad laudem honorem reverentiam et gloriam omnipotentis Dei ejusque gloriosissime matris semper virginis Marie sub cujus protectione et defensa Senensis civitas regitur et in statu pacifico gubernatur. Et ad magnificentiam honorem et tranquillitatem magnifici comunis et populi civitatis Senensis magnifici quod officii dominorum priorum gubernatorum et capitanei populi dicti comunis et populi civitatis Senarum ac etiam magnificarum comitissarum suprascriptarum devenerunt ad infrascriptam compositionem et concordiam et ad infrascriptas promissiones, stipulationes et obligationes atque conventiones et pacta

GLI ALDOBRANDESCHI 199 Documenti pro infrascriptis de jure vallandis et efficaciter firmandis prout et sicut per specialia et distincta capitula inferius continetur et secundum eorum dispositionem continentiam et tenorem, quorum capitulorum tenor infra sequitur videlicet. Inprimis quod omnia et singula capitula olim facta inhita et contracta inter comune Senense ex una parte et dictum olim magnificum comitem Guidonem ex alia parte in submissione facta predictum olim magnificum comitem Guidonem que apparent in libro publico dicti comunis Senensis in foleis 682 et 683 existenti in concistorio dictorum magnificorum dominorum qui vocatur calefus novus fuit et esse intelligant ex confirmata et ratificata in omnibus partibus suis et in nullo sit modo aliquo derogatum. Item quod dicte comunitates Sancte Flore, Scanzani et Castri Azare et quelibet earum teneantur et debeant custodire, guardare, salvare et manutenere ipsas terras et rochas sive fortillitia earum et cujusque earum videlicet Sancte Flore, Scanzani, Castri Azare et Selvane pro prefatis magnificis comitissis et ad earum obedientiam et voluntatem et ad honorem et statum dictorum magnificorum dominorum Senensium secundum quod in capitulis ut supra olim factis inhitis et contractis inter dictos magnificos dominos Senenses et dictum olim comitem Guidonem continetur. Et facere et curare ita et taliter quod in dictis terris aut aliqua earum et rochis predictis non introibit aut stabit seu morabitur aliquis malivolus et suspectus magnificis dominis Senensibus contra eorum voluntatem de quibus malivolis eis debeat notificari suis loco et tempore congruis per magnificos dominos qui per tempora residebunt. Item quod dicte comunitates et homines earum facient et curabunt ita et taliter quod dicte comitisse aut aliqua earum non contrahent matrimonium nec contractum matrimonii facient cum aliquo sine expresso consensu et voluntate ipsarum comitatum et hominum earumdem, et quod ipse comunitates et homines nullo modo concludent nec promictant concludi aut contrahi ab ipsis comitissis aut aliqua vel altera earum aliquem contractum matrimonii cum aliquo sine expresso consensu et voluntate magnifici comunis Senarum. Et in casu quo dicte comitisse aut aliqua earum se maritarent aut contractu aliquem matrimonii facerent vel contraherent secundum expresso consensu comunis Senensis tunc et eo casu dicte comunitates et homines teneantur et debeant rochas et fortillitia dictarum terrarum et cujusque earum et Selvane dare, tradere et consignare realiter et cum effectu mandatariis dicti comunis Senarum uni vel pluribus. Item quod eo ipso quod dicte magnifice comitisse aut aliqua earum alligate fuerint ad aliquem matrimonii contractum cum aliquo cum consensu et voluntate dictorum magnificorum dominorum Senensium prout super dicitur intelligantur remanere et remaneant et sint obligate comuni Senarum eo modo quo erat dictus magnificus comes Guido et cum eisdem capitulis et non aliter tenendo dominium dictarum terrarum et bonorum prout superius in secundo articulo continentur. Et predicta omnia et singula predicti et infrascripti magnifici et potentes domini capitanei populi vexilliferi magistri et cives electi prefati quorum ut dictum est nomina

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et prenomina subscribentur vigore et potestate dicte eorum auctoritatis potestatis et balie sibi concesse et date per dictum consilium generale dicti comunis Senensis ut dictum est et vice et nomine dicti comunis et populi civitatis Senarum et pro ipso comuni et populo ex una parte, et frater Sivester et Jacobus sindici et procuratores dictarum magnificarum comitissarum et comunis et hominum Sancte Flore predicte et pro ipsis comitissis et dicto comuni et hominibus Sancte Flore et Guaspar et Ranerius sindici et procuratores dicte comunitatis et hominum Scanzani et pro ipsa comunitate et hominibus Scanzani et Antonius aliter Antoniuccius predictus sindicus et procurator dicte comitatis et hominum Castri Azare et pro ipsa comunitatese et hominibus ex alia parte promiserunt sibi ad Tusciam et inter se massim videlicet una pars alteri et altera solenibus stipulationibus hinc inde intervenientibus nominibus quibus super et quolibet vel altero eorum et convenerunt perpetuo attendere observare et adimplere et contra non facere dicere vel venire per se vel alium seu alios directe vel per obliquum de jure vel de facto quacumque ratione jure modo vel causa sub pena et ad penam decem milium florinorum auri et de auro. Quam penam nominibus antedictis sibi ad invicem solempne stipulatione hinc inde promissam dare et solvere promiserunt si et quotiens commissa fuerit que pena totiens commictatur et peti et exigi tota possit quotiens fuit modo aliquo contrafactum aut omissum de predictis aliquid. Et dicta pena commissa soluta vel non predicta omnia et singula nichilominus firma perdurent cum refectione dampnorum interesse et expensarum litis et extra. Pro quibus omnibus et singulis observandis predicti magnifici domini capitaneus populi et vexilliferi magistri et alii cives electi et infrascripti obligaverunt dictum comune et populum Senensem et ejus bona omnia presentia et futura jure pignoris et ypothece eisdem sindicis et procuratoribus recipientibus et stipulantibus pro dictis magnificis comitissis et pro comunitatesibus et hominibus prefatis Sancte Flore, Scanzani et Castri Azare. Et dicti sindici et procuratores et quibus eorum sindicariis et procuratoriis nominibus quibus superius obligaverunt dictas magnificas comitissas et earum bona omnia presentia et futura juris pigneris et ypothece dictis magnificis et potentibus dominis capitaneo populi, vexilliferis magistris et aliis civibus electis recipientibus et stipulantibus pro dicto comuni et populo Senense et ipsius comunis et populi vice et nomine. Renuntiantes dicte partes nominibus antedictis exceptioni non factarum dictarum submissionis, suppositionis, subjectionis, promissionis, conventionis et obligationis predictarum rei dicto modo non geste non sic celebrati contractus exceptioni doli mali actioni in factum condictioni sine causa vel ex injusta causa beneficio de pluribus reis debendi et novarum constitutionum et de fideiussoribus epistole divi Adriani fori privilegio et omni alii juris et legum auxilio beneficio et favori. Et juraverunt sponte partes predicte et quilibet eorum super animas constituentium ad sancta Dei evangelia corporaliter manutactis scripturis dictus autem frater Silvester super pectus suum quia sacerdos contra predicta vel aliquod predictorum non dicere facere vel venire per se vel alium aut alios aliquo tempore de jure vel de facto in judicio vel extra aliqua

GLI ALDOBRANDESCHI 201 Documenti ratione, jure modo vel causa sed predicta omnia et singula observare prout super et infra continetur. Quibus quidem partibus et cuilibet earum presentibus volentibus in predicta omnia et singula sponte confitentibus precepi ego Franciscus notarius et judex ordinarius infrascriptus nomine sacramenti et guarentisie secundum formam statutis Senarum quatenus predicta omnia et singula et infrascripta faciant et observent prout supra promiserunt et scriptum est. Nomina vero dictorum magnificorum dominorum capitanei populi, vexilliferi magistorum et quindecim civium prefatorum infra se quanter videlicet. Petrus Petri de Signorinis prior, Andreoccius ser Antonii Gennarii, Marchion Augustini magistri Antonii, pro Terçerio K(amollie); Bartolomeus Francisci Guilielmi capitaneus populi, Jacobus Bartoli Lotti, Marianus Chechi Marci, Bartolomeus Jacoppi de Petrucciis, pro Terçerio (cinvitati); Marianus Jacobi de Humidis, Jacobus Christofori Jacobi domini Grifoli et Angelus Andree Georgii Pasqualis, pro Terçerio Sancti Martini; Magnifici domini et capitanus populi (omessi i 3 vessilliferi e i 15 cittadini). Acta fuerunt predicta omnia in civitate Senarum in palatio residentie magnificorum et potentum dominorum dicte civitatis cui undique via comunis in consistorio dicti palatii coram egregiis et providis viris Berto Antonii Berti de Ildobrandinis, Nerio Meii de Martiis et ser Johanne Angeli Minucci è notario omnibus de Senis et ser Johanne Bartolomei de Boscolis de Asciano notario et cive Senarum testibus ad predicta presentibus adhibitis vocatis et rogatis. Ego Franciscus filius Stefani Vannini de Senis publicus imperiali auctoritate notarius et judex ordinarius et nunc notarius et scriba prefatorum magnificorum dominorum et eorum consistorii per magnificum comune Senarum specialiter deputatus predictis omnibus et singulis interfui eaque rogatus manu propria scripsi et publicavi signumque nominem meum apposui consueta in fidem et testimonium promissorum. Signum mei Francisci + Stefani notarii predicti.

2) 1438, ottobre 23.

A. A.S.S. Concistoro 436, c. 35t.

Magnifici et potentes domini et capitaneus populi antedicti et una cum eis magnifici domini et capitaneus populi noviter extracti, vexilliferi magistri et quindecim cives alias electi super materia Sancte Flore in numero XXXIIIIor congregati et cetera, audito quod comitisse de Sancta Flora sunt de proximo maritande et cetera, deliberaverunt quod magnifici domini et capitaneus populi eligant tres cives qui perquirant et investigent pro habenda informatione de predictis pro ut viderint esse necesse aut expediens etcetera. Post que magnifici domini capitaneus populi et vexilliferi magistri supradicti remanentes in consistorio elegerunt ad predicta facienda infrascriptos tres cives quorum hec sunt nomina videlicet: Bartolomeus domini Thommassi de Agazaria, Guidoccius Jonte et Jacobus Guidini.

202 GLI ALDOBRANDESCHI Documenti

[4]

1450, agosto 9, ind.XIII Siena, in concistoro

Bosio degli Attendoli, figlio di Muzio detto Sforza, e Galeazzo conte d’Arco, in nome delle contesse Cecilia e Giovanna del fu conte Guido Aldobrandeschi da Santa Fiora loro respettive mogli, concordano con il comune di Siena, una transazione per questioni sorte nelle terre di Santa Fiora, Scansano e Castellazzara.

A. B. A.S.S. Capitoli 5, cc. 85t-87t, 1450, 9 agosto.

In nomine Domini nostri Yhesu Christi amen. Anno ab ipsius Domini salutifera incarnationis MCCCCL indictione tertiadecima die numero nona mensis augusti temporis pontificatus sanctissimi in Christo patris et domini domini Nicolai divina providentia Pape quinto. Cum tempore retrohacto acte fuerint quedam differentes inter magnificum comune Senarum et quosdam cives et sudditos ipsius comunis ex una parte et magnificum dominum Bosium de Actendolis et dominum Galeazium de Argozi dominos Sancte Flore et comitissas de Sancta Flora infrascriptas et quosdam eorum subditos actione et occasione quorumdam dampnorum datum et illatorum hinc inde in persona et bestiis et rebus quibuscumque et pro alia quacumque causa usque in presentem diem. Et cum prefatum magnificum comune Senensem semper non obtanstibus predictis paterno amore dilexerit dictos dominum Bozium, comitem Galeazium, comitissas et eorum subditos tamquam bonos filios. Et dicti dominus Bozius comes Galeazius et comitisse et eorum subditi et homines semper fuerint maximo amore et filiali devotione afficti edidem magnifico comuni Senensi tamquam proprii et benefactorii ipsos. Igitur magnifici et potentes domini domini priores gubernatores et capitaneus populi magnifice civitatis Senensis una cum spectabilibus vexilliferis magistris solempnitate convocati et congregati in concistorio eorum solitum residentie prefactis comunis Senensis utiliter peragendis atque tractandis quorum nomina hic inferius erunt descripta habentes auctoritatem ad omnia et singula infrascripta ab opportunis consiliis et status comunis Senensis et vice et nomine ipsius comunis Senensis ex una parte. Et magnificus Nicodemus de Pontemulo cancellarius illustrimi ducis Mediolani procurator et procuratorio nomine magnifici domini Bozii Sforzie de Actendolis domini Cosignuole et domini Sancte Flore et magnificarum dominarum Cecilie et Johanne dignitissarum comitissarum dicte Sancte Flore, constituentes eorum propriis nominibus et vice et nomine magnifici domini Galeazzi comitis Archii et domini Sancte Flore, Scanzani et Castri Azare, pro quo magnifico domino Galeazzo comunitatibus hominibus in personis et quolibet eorum dicti constituentes et quilibet eorum in solidum clerato reati

GLI ALDOBRANDESCHI 203 Documenti habitatione promiserunt et se facturos et curatos. Ita et taliter quod prefatus dominus Galeazzus comunitates et singulares persone et homines ratificabunt solempniter et quilibet de persone omologabunt et confirmabunt omnia et singula suprascripta et infrascripta pro ut de eis procuratorio et momento clare constat manu providi viri ser Jacobi Bucciarelli de Theramo vicarii Sancte Flore se die XXV mensis Junii 1450, in publica solempni et legiptima forma a me notario infrascripto viso et lecto ex alia parte et tunc in presentia consensu auctoritate et voluntate Leonardi Claii de Sancta Flora occtenus, affirmantis et asserentis quod dictus dominus Bozius dominus Galeazius et comitisse sit contrati omnibus et singulis suprascriptis et infrascriptis quibus portavit copiam capitulorum infrascriptorum et ea legerunt et intralexerint et de quibus etiam copiam habuit prefatus magnificus Nichodemus suprascriptus manu mei notarii infrascripti volentes et intendentes dictas differentias tollere et ad concordiam ad invecem quietam et tranquillitatem dictarum partium non omnino innovandi silicet predictis differentiis solum et dum taxat secandis et pace et concordia reintinsicando dictis nominibus et quolibet ipsorum unanimiter concordita venerunt ad invicem et intase ad infrascriptam compositionem transactionem et pactum solempnibus et legiptimis super hinc inde intervenientibus videlicet fecerunt inserunt firmaverunt concluerunt et compositionem et transactionem simul et dictis nominibus et quolibet eorum fecerunt et firmaverunt prout et sicut in infrascriptis capitulis et provisionibus obtemptis in consilio populi mangnifici comunis Senensis de quo proprius manu mei notarii infrascripti. Et in consilio generali ipsius comunis aliquo proprius manu ser Johannis Bandicti notarii reformationum dicti comunis die XXIII mensis julii 1450 et quolibet eorum continet et descriptus est. Cum hac declaratione facta interdictas peretis nominibus predictis et quolibet eorum. Quod de libras mille CCCCXLV sol.XI den.9 que extonit dentur et consignentur dictis domino Bosio, domino Galeazzo et comitissis in sale VCL pascuis ut indicto capitulo ultimo continetur ad beneplacitum dicti domini Bozii domini Galeazzi et comitissarum mandantum fieri debiti ut inprimis provisionibus et capitulis continetur et quolibet eorum que omnia et singula super infrascripta pactis predictis et nominibus predictis et quolibet eorum et suprascriptam transactionem et pactum promixerunt solempniter et legiptimiter stipulantis hinc inde intervenientibus actendere et observare et adimplere Senis, Florentia, Pisis, Sancta Flora, Scanzano Castro Lazara et ubicumque locorum et remotum et ganis distantis a superius nominatus et non contrafacere vel venire per eos vel alios de jure vel de facto aliqua ratione jure modo vel causa, sub pena et ad penam duorum milium florinorum solempni et legipta stipulatione promissa, quam penam pars non observans pacti observerunt vel observare volenti dare et solvere promixerunt prout et sic et quotiens comissa fuerit. Et dicta pena commissa vel non soluta vel non proximierunt predicta omnia et singula nichilhominus observare ut superius continetur in scriptum est, cum integra et facta omnium et singulorum dampnorum interesse et expensis litis etcetera. Pro quibus omnibus et singulis observandis firmis quod tenendis dicti magnifici

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domini capitaneus et vexilliferi obligaverunt dictum magnificum comune Senensem et singula bona ipsius comunis presentia et futura jurium, pingnori et ypothece dicto magnifico comuni Senensi et suprascriptis magnificis dominis capitaneo et vexilliferis. Renunptiantes pro predictis exemplari non facte dicte transactionis compositionis, conclusionis et pacti et non facte promissionis et obligationis predictarum rei dicto modo non geste non sit ablati contractus actioni infactum condictioni sine causa vel ex injusto. Quod meta causa fori privilegio doli mali beneficio Senarum inductis in honorem dicti et omni alii juris et legum et consuetudinum et statutum auxilio beneficio et favori. Et juraverunt sponte ad sancta Dei evangelia corporaliter manu tactis scripturis predicta omnia et singula vera esse et contra ea non facere vel venire vel aliquo predicto per eos vel alium aliqua ratione jure, modo vel causa de jure vel de facto in judicio vel ex alio. Sed predicta omnia et singula observare ut superius continetur et scriptum est quibus quidem presentibus et volentibus, et predicta omnia et singula suprascripta sonte confitentibus precepi ego notarius infrascriptus nomine sacramenti et guarantisie et secundum formam statutis civitatis Senensis, quantium predicta omnia et singula observetur prout superius continetur et scriptus est. Quorum capitulorum et provisionum tenor talis est videlicet //. Actum Senis in concistoro prefatorum magnificorum dominorum coram spectabilibus viris ser Johanne Benedicti et Casulis notario pro magnifico comuni Senensi adprestas reformationem et ser Francischo Angeli de Asciano notario magnifici capitani populi ipsius civitatis testibus ad hec specialiter ad habitis rogatis et vocatis. + Ego Arduinus Leonardi et Arduinus civis Senensis imperiali auctoritate notarius et judex ordinarius et ad presens pro magnifico comuni Senensi notario concistorii omnibus et singulis suprascriptis dum sit agitarentur inter dictas partes interfui et ea rogatis alteri fideli notario scribere geci quo in aliis dicti offici occupatu ipso letto me publice subscripsi ad fidem omnium et singulorum predictorum et singum cum consuetum hic aposui et designavi et illud quod sub cassum est ubi dicti non pro judicando et cetera fuit cassum per me et deliberatum magnificorum factum die quinta settembris 1450 et que manu ser Stefani ser ser Mestro testibus rogatis etcetera.

[5]

1461, aprile 30, ind.IX Siena

Il nuovo conte Guido da Santa Fiora, figlio di Bosio Sforza e di Cecilia da Santa Fiora, con il padre, chiedono di porsi sotto la protezione del comune di Siena, rispettando degli articoli scritti in lingua volgare (qui non trascritti). A. B. A.S.S., Capitoli 5, cc.130t-132, 1461, 30 aprile. Edizione parziale.

GLI ALDOBRANDESCHI 205 Documenti

In nomine Sancte et Individue Trinitatis Patris et Filii et Spiritus Sancti amen. Anno navitatis ejusdem MCCCCLXI, indictione nona die jovis trigesima mensis aprilis, cum hoc sit quod de anno domini MCCCLXXXVI de mense junii inter magnificum comune Senarum pro una parte et magnificum comitem Guidonem de Sancta Flora pro altera parte seu agentes pro eis fuerint facta certa capitula et conventiones rogata per ser Minum filium Dominici notarium publicum et olim cancellarium prefate magnifice comunitatis Senensis adque capitula habeatur relatio et cum successuit et magnificus dominus Bosius Sfortia gener suprascripti quondam domini comitis Guidonis et magnificus comes Guido filius suprascripti illustris et magnifici domini Bosii et magnifice domine Cecilie filie quondam suprascripti magnifici domini Guidonis, ipse illustris et magnificus dominus Bosius et magnificus Guido vollentes cum suprascripta comunitate Senarum veram et sinceram adherentiam et recomandationem habere intercessionem et interventum illustrissimi et excellentissimi principis domini Francisci Sfortie vice comitis ducis Mediolani etc. Papie Anglarie quorum comitis ac Cremone domini fratris suprascripti illustris et magnifici domini Bosii patris et benefactoris prefate magnifice comunitatis Senensis, qui illustrissimus et excellentus dominus dux Mediolani et quod intendit. Et ita sue est mentis ut idem adherentia et recomendigia et alarum umbra ac protectione et defensione suprascripte magnifice comunitatis Senensis quem ad modum ettiam ipse prefatus dominus dux vivit et in futurum vivere pretendi. In circo Dei et Gloriose Virginis Marie atque omnium sanctorum nominibus in convocatis ibique magnificus dominus dantes Bartolomee Santis de Senis nunc moram trahens in hospitio Cappelli Mediolani ambasciator et orator ac sindicus et procurator prefate magnifiche comunitatesis Senensis ut patet instrumento rogato viso et lecto tenoris hujusmodi videlicet ex una parte. Tenor dicit mandati infrascriptus est.

206 GLI ALDOBRANDESCHI Tavola genealogica semplificata – Le ultime generazioni degli Aldobrandeschi (XIII-XV secc.).

GLI ALDOBRANDESCHI Fonte parziale: S. M. COLLAVINI, Honorabilis domus e spetiossisimus comitatus. Gli Aldobrandeschi da ‘conti’ a ‘principi territoriali’ (secc. IX-XIII), Pisa, ETS, 1998, pp. 580-582. Documenti

Tavola genealogica semplificata – Gli Orsini apparsi negli ultimi decenni della storia degli Aldobrandeschi (XIII-XIV secc.)

Font: F. ALLEGREZZA, Organizzazione del potere e dinamiche familiari. Gli Orsini da Duecento a fine Trecento, tavole genealogiche.

Note: 1 Sic: semper. 2 Sic: comite. 3 Sic: comite. 4 Il testo sospeso era in italiano, e venivano elencati diversi capituli. Per accomodarsi dello spazio nella pubblicazione, è stato ritenuto il corpo essenziale della decizione.

208 GLI ALDOBRANDESCHI Documenti

GLI ALDOBRANDESCHI 209

Conclusioni

Mario Ascheri Università di Siena

redo che i Lions possano essere soddisfatti, come pure gli enti che hanno sponsorizzato questa giornata, perché si può tranquillamente dire che è stata Cmolto ricca. Questi Aldobrandeschi li abbiamo visti crescere, stabilizzarsi, fare tante cose a Santa Fiora e altrove; li abbiamo seguiti nella letteratura, nelle aule giudiziarie, nelle alcove quasi; insomma, sono venuti fuori nella loro straordinaria vitalità anche nel corso di questi secoli, in un’area che era delicatissima perché era un’area di cerniera tra lo Stato papale in formazione e il cuore della Toscana delle città in via di formazione. Questa è un’area-cuscinetto, e perciò abbiamo visto tutte le preoccupazioni dei papi e come Federico II prima e gli Angiò dopo, avessero qui uno dei quadranti fondamentali del loro operare. E forse gli Aldobrandeschi sono così centrali in Dante proprio perché fanno parte di quella sua grandiosa cosmologia tutta medievale di Papato e Impero; loro sono proprio in mezzo, in una posizione assolutamente centrale. La Maremma e l’Amiata del 1100 e 1200 non hanno nulla a che fare con quello che sarà la Maremma e l’Amiata del Sei-Settecento. Dobbiamo imparare a distinguere i vari periodi e ad evitare l’anacronismo e il teleologismo, che sono i rischi sempre ricorrente nella ricostruzione storica; nel senso che dobbiamo evitare di proiettare l’oggi nel passato e/o di spiegare il dopo col prima: la perifericità della Montagna di oggi non ha nulla a che fare con il passato, quand’era centro d’una abbazia tra le più importanti dell’Italia centrale ed era a un passo da un’arteria come la Francigena e dai porti maremmani. Ebbene, se c’è stato un elemento veramente positivo nelle nostre relazioni, al di là degli apporti specifici spesso validissimi e innovatori di ognuna di esse, è che spaziando sull’universo-mondo di quel passato (letteratura, archeologia, politica), mi sembra sia emersa in modo esemplare la complessità di quel tempo, e quindi ne sia derivato un nuovo avvertimento a mai semplificare in sede storica e meno che mai per quei secoli così vitali, così effervescenti. S’è vista la centralità che il 1100 e il 1200 hanno nella storia dei castelli, delle abbazie, della famiglia degli Aldobrandeschi e delle città. Sono i due secoli formativi centrali della civiltà italiana, e quindi anche della civiltà europea. La straordinaria ricchezza

GLI ALDOBRANDESCHI 213 Conclusioni di eventi di personaggi (ma anche di beni materiali rispetto al passato) offertaci da quei due secoli è balzata fuori con evidenza. Perciò si è voluto raccogliere rapidamente gli atti del convegno, in modo che possano dare un contributo positivo e impulso ad ulteriori ricerche. La interdisciplinarietà sempre ricercata (ma poco praticata nei fatti) qui si tocca invece con mano. La ricerca puramente documentaria si è intrecciata felicemente con la ricerca archeologica di gruppi diversi e con l’analisi letteraria, alternandosi le prospettive più generali agli accertamenti puntuali e gli esami retrospettivi con analisi importanti anche per interventi futuri sul territorio. Ne vien fuori con evidenza che è un territorio da considerare con estrema attenzione. Il passato ha lasciato molte testimonianze e quelle scritte le si possono integrare o leggere correttamente solo coordinandole con quelle monumentali, artistiche ed archeologiche. Solo così si possono dare quadri convincenti e aprire ipotesi di lavoro proficue per continuare. I nostro relatori sono stati fedeli all’assunto: un grazie venga loro quindi anche da me, che mi sono curato solo di evidenziarne l’attitudine a portare un contributo positivo. Si poteva fare di più, naturalmente, come sempre. Ma non è detto che tra qualche tempo non si possa pensare ad un ‘Santa Fiora 2’, visto l’interesse giustificatissimo del Comune, degli altri enti e dei nostri attivissimi Lions, bene rappresentati da Rodolfo Fazzi, sempre cortesemente insistente per raggiungere lo scopo. Abbiamo già detto del libro del Ciacci, sempre fondamentale, per cui vorrei oggi spezzare una lancia a favore di un’ulteriore ristampa. Dato che è il libro dal quale è ancora imprescindibile partire, bisogna che chi ha delle responsabilità di politica culturale ne favorisca una ristampa per consentirne una più larga fruizione. Ma c’è dell’altro che i lavori documentari, da quelli di Collavini alla Redon e alla Cirier, hanno fatto emergere chiaramente. E cioè che è il tempo di raccogliere in modo organico altri documenti, non conosciuti a suo tempo dal Ciacci. Insomma, bisogna pensare ad un ‘codice diplomatico’ degli Aldobrandeschi attuale, ad un ‘Ciacci due’, per intenderci, perché c’è una ricca documentazione venuta fuori dopo il lavoro del Ciacci, utile ma con i suoi anni che non nasconde. Le raccolte documentarie, toscane e non, via via edite a Firenze, a Pisa, a Siena (il fondamentale Caleffo Vecchio, cominciato nel 1933, lo abbiamo finito solo pochi anni fa!), ma anche fuori della Toscana e all’estero (i tedeschi sono stati attivissimi nell’edizione di fonti, ma non escluderei nuovi apporti da raccolte angioine, inglesi e pontificie) vanno setacciate accuratamente e certamente verranno fuori notizie imprevedibili. Peraltro abbiamo, a questo punto, i giovani studiosi che hanno le carte in regola per lavorare in questo senso: bisogna incoraggiarli nel modo giusto per farlo o per favorire chi altri potrebbe farlo. Sono lavori a volte lentissimi, di grande pazienza quasi come gli scavi archeologici, però bisogna farli se si vuole rinnovare il patrimonio documentario di cui disponiamo.

214 GLI ALDOBRANDESCHI Conclusioni

Insomma, gli scavi archeologici ben vengano, ed è giusto che dopo tanto silenzio siano privilegiati, ma non dimentichiamo l’apporto documentario. I secoli di cui trattiamo sono per il nostro Paese di grandissima diffusione della scritturazione; le tracce degli Aldobrandeschi possono perciò rintracciarsi nelle sedi più impreviste. Il comparto documentario, quindi, non va trascurato. Non si pensi di essere arrivati al fondo della ricerca in questo settore. Anche perché, come è ben noto, non tutti gli archivi sono ugualmente ordinati e inventariati. Le sorprese possono essere dietro l’angolo ogni momento. Più che mai poi lo possono essere negli archivi ecclesiastici, ancor meno curati purtroppo e non sempre accessibili. Anzi, bisognerà aggiungere ancora che il comparto ecclesiastico, se così si vuol dire, è stato necessariamente assai poco curato in questo nostro incontro. Ma è una lacuna che andrà colmata. L’organizzazione ecclesiastica del territorio merita attenti studi. Già in alcune relazioni s’è vista l’importanza degli Agostiniani, ma è necessaria una riflessione complessiva sull’organizzazione ecclesiastica e sui santi amiatini e maremmani. L’agiografia è molto importante: basta che venga fuori un testo come quello di san Pier Damiani e si apre subito un fascio di luce improvvisa. Un altro settore che nel nostro incontro abbiamo lasciato in ombra è quello della viabilità, mentre invece c’è ancora da parlarne e molto, perché nella nostra area i rapporti con Arezzo, con la diocesi di Chiusi e con il mare sono stati fondamentali. S’è parlato tanto di Francigena negli ultimi anni, ma naturalmente essa è solo un aspetto della realtà del tempo, dove, non dimentichiamolo, molto spesso gli ecclesiastici maggiori, i mercanti e le merci navigavano. Il povero pellegrino e lo studente si muoveva per terra, ma chi poteva si guardava bene dal correre i rischi che la viabilità coinvolgeva; quindi, bisogna ancora lavorare su Talamone e sul porto di Grosseto – nonostante i contributi recenti di Gaetano Prisco e della Sordini. Abbiamo spaziato abbastanza, oscillando tra mari e monti, facendo nel nostro piccolo com’erano abituati a fare in grande gli Aldobrandeschi. Ora è tempo di chiudere. Ringraziando, con viva cordialità, gli sponsor, gli organizzatori e gli Autori per il generoso lavoro. Un grazie particolare ancora va anche al pazientissimo e attento pubblico: non è facile godere dell’attenzione che ci ha riservato in questa occasione. Significa che questi problemi non sono più ritenuti appannaggio di noiosi specialisti e che l’opinione pubblica comincia a percepire l’importanza centrale del fattore ‘cultura’ – che è qualcosa di più e talvolta di diverso dai ‘beni culturali’ cui si tende a ridurla anche in sedi accademiche. I confronti col passato come questi aiutano ad affrontare meglio il futuro, da una posizione più forte. La maturazione delle culture locali (e non localistiche, grettamente campanilistiche) è il miglior rimedio contro i rischi di omologazione e appiattimento verso il basso cui siamo esposti dalla globalizzazione in atto; essa non è un pericolo nella misura in cui si ha un’identità precisa e robusta per colloquiare con i processi che attiva.

GLI ALDOBRANDESCHI 215

Le pagine successive sono estratte da G. Ciacci Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia, Roma 1934 e riguardano gli atti di divisione del 1216 e 1274. 218 219 220 221 222 223 Finito di stampare nel mese di Gennaio 2002