SULLA MORTE DI PAUL LAFARGUE E LAURA MARX Articolo Già Pubblicato Su La Bottega Del Barbieri (
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SULLA MORTE DI PAUL LAFARGUE E LAURA MARX articolo già pubblicato su La bottega del Barbieri (www.labottegadelbarbieri.org) Il festival del cinema di Venezia si è appena concluso e nessun premio è stato attribuito al film di Susanna Nicchiarelli dedicato a Eleanor Marx, morta suicida per amore nel 1898. È probabile che, al di là dei meriti o dei demeriti della regista, nessuno abbia voglia di occuparsi del comunismo, a meno che non ne denunci i misfatti, come il film Cari compagni di Andrei Konchalovsky. Nell’Italia dei cori fascisti allo stadio e del mausoleo di Affile a Graziani, non si può parlare di Marx se non con un certo imbarazzo, come se fosse un freak, uno spostato, un alieno. Ed ecco allora che parlando del film fioccano i titoli ad effetto come: «Miss Marx una donna succube» (Il secolo); «Una vita vissuta al limite» (F. Gallo, Ansa); «La sua vita fu assurda e tragica» (S. Nicchiarelli, nel sito ufficiale della Mostra del Cinema); «Pre-punk infelice… Di sicuro, non deve essere stato facile per “Tussy” vivere all’ombra di quel cognome ingombrante, finendo un po’ per morirne» (M. Anselmi, Cinemonitor). Simili battute non sono certo una sorpresa; in realtà l’onda lunga di un generale senso di fastidio dell’homo liberisticus verso un sempre più imbalsamato Marx, fonte di sciagure per l’umanità e sciagura egli stesso, che si è guadagnato una nicchia al Museo delle Cere accanto ad altri protagonisti della storia di fine Ottocento, come Jack lo Squartatore e Landru. Un atteggiamento mirabilmente riassunto in un articolo apparso sulla Repubblica del 14/6/2014 e firmato dall’autorevole Siegmund Ginzberg, che dopo aver ricordato il suicidio dell’altra figlia di Marx (Laura) e aver osservato che «i grandi padri spesso sono ingombranti» si conclude con le parole: «Il Capitale di Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor tocca tasti ancora più universalmente umani». Eppure nonostante queste conclusioni. destinate a divenire un luogo comune sempre più stancamente ripetuto, Ginzberg non poteva fare a meno di ricordare un’elementare verità che fa a pugni con l’idea del “padre ingombrante” e della “telenovela”. Lasciamogli la parola: «Eleanor… aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla». Uno storico serio, anzi qualunque persona seria, dovrebbe verificare simili insinuazioni: se sono vere o quanto meno se ci portano a dubitare delle versioni ufficiali, allora è veramente scorretto e poco intelligente crogiolarsi nel ripetere luoghi comuni e mistificazioni di segno del tutto opposto. Se una persona è stata assassinata o se è stata indotta al suicidio in modo subdolo, non può essere stata turbata dal nome “imponente” di suo padre e neppure vittima di quella che è stata chiamata «la maledizione delle figlie di Marx». La stessa mancanza di serietà e superficialità hanno dimostrato e dimostrano ancora oggi coloro che si sono occupati del presunto suicidio dell’altra figlia di Marx, Laura, che avrebbe terminato volontariamente la sua esistenza nella notte fra il 25 e il 26 novembre 1911, obbedendo a un mitico e mai documentato “patto suicidario”, stretto con il marito Paul Lafargue. L’argomento ha fatto versare fiumi di inchiostro ed è stato rievocato da grandi personaggi politici (come Jan Jaurés, Karl Kautsky, addirittura Lenin, presenti ai funerali della coppia) e da tanti altri scrittori, e storici. “Le petit Parisien”, 28 novembre 1911, prima pagina La vicenda, riassunta da un grande studioso e uomo politico come Maurice Dommanget è la seguente: «Paul Lafargue si diede la morte, trascinando con sé Laura, sua compagna, nella notte del 26 novembre 1911… Entrambi, dopo aver passato la giornata del sabato a Parigi, avevano raggiunto la loro abitazione di Draveil. Rientrando, avevano chiacchierato col giardiniere, Ernest Doucet, e con altri membri della sua famiglia. Lafargue parlò allegramente della giornata trascorsa. Laura e lui, che erano stati al cinema, si mostrarono – è stato scritto – “pieni di familiare allegria.” Eppure sapevano che ben presto avrebbero posto fine alla loro esistenza. Una serenità che lascia senza parole. Il mattino dopo, verso le dieci, Doucet si preoccupò non vedendo nessuno alzato anche perché i due coniugi avevano mantenuto abitudini mattiniere. Salì alle loro stanze, bussò e, non ottenendo risposta, aprì la porta. Lafargue era sdraiato sul letto, completamente vestito, senza vita, in camera sua. Nella camera vicina Laura, seduta in poltrona, era morta anche lei. Nessun disordine nei locali: tutto era a posto, come al solito… Su un tavolo, non lontano dai cadaveri, fu trovata una lettera al nipote, il dottor Edgar Longuet, e un foglio contenente le disposizioni testamentarie. C’era anche un certificato per il giardiniere, con la data del 28 settembre, e una lettera allo stesso, datata 18 ottobre, cioè rispettivamente due mesi e circa tre settimane prima del suicidio… II testamento è così redatto: Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che la vecchiaia impietosa, che mi tolse a uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza e che mi spogliò delle risorse fisiche e intellettuali, non paralizzi la mia energia e non spezzi la mia volontà facendomi divenire un peso per me stesso e per gli altri. Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settanta anni; ho fissato la stagione dell’anno per il mio distacco dalla vita e ho preparato il sistema per mettere in pratica la mia decisione: una iniezione ipodermica di acido cianidrico. Muoio con la suprema gioia della certezza che, in un prossimo futuro, la causa alla quale mi sono votato da quarantacinque anni trionferà. Viva il Comunismo. Viva il Socialismo Internazionale!»1. Lo choc per l’incredibile notizia sconvolse tutti coloro che erano vicini a Lafargue, fossero amici o avversari politici. Non tutti approvarono il suo gesto e qualcuno, come Jules Guesde, molto vicino politicamente a Lafargue, parlò di “diserzione”: tuttavia la maggioranza dei commentatori furono travolti dall’emozione e molti, a cominciare da Karl Kautsky, espressero ammirazione per l’eroismo e la dignità stoica di questo suicidio, portato a termine «nel pieno del vigore», «prima del declino»2. Tuttavia qualcuno espresse dubbi e perplessità. Uno fu Alexandre Zevaès, che conobbe bene i Lafargue. Come ha scritto Dommanget: «le sue affermazioni eccessive, esagerate, l’odio per Lafargue che traspare ad ogni frase, fanno dubitare delle sue parole e tuttavia si è costretti ad accogliere alcuni suoi punti di vista… Ricordando Laura, la figlia prediletta di Marx, donna ammirevole sotto tutti gli aspetti, Zevaes scrive: “Nulla di ciò che sappiamo del dramma del 26 novembre 1911 autorizza a credere che si sia suicidata”… Ed effettivamente non resta nessuna traccia scritta di lei, nessuna carta, nessuna annotazione, nessuna disposizione testamentaria. Nelle ultime lettere di Lafargue nulla lascia presagire il funesto progetto e di conseguenza nulla lascia intravedere la partecipazione di Laura. Ed anzi – cosa di estrema importanza e che sinora e sfuggita all’attenzione – nel suo saluto Lafargue parla in prima persona e le spiegazioni che dà si riferiscono a lui solo. Non vi si fa parola di Laura». Secondo Dommanget anche Lenin nutrì qualche dubbio: «Lenin aveva un grande rispetto per Lafargue pur mantenendo sempre un atteggiamento critico nei confronti dei leaders del socialismo francese. Egli doveva così, prendendo la parola ai funerali dei Lafargue a nome del Partito operaio socialdemocratico di Russia, fare il loro elogio… Si astenne dal condannare il suicidio, sebbene non fosse d’accordo, secondo la testimonianza di Serafina Gopner, allora aderente al gruppo bolscevico di Parigi3… Il discorso di Lenin alle esequie non era improvvisato e questo spiega la traduzione che Ines Armand ne ha potuto fare. In questa traduzione l’uso del termine “morte” invece di “suicidio” lascia perplessi. Se tale traduzione è rigorosamente fedele, la cosa ha la sua importanza: essa postulerebbe in Lenin la persuasione che non ci fosse stato suicidio da parte di Laura»4. Anche altri espressero le stesse perplessità nel corso del tempo. Il poeta Louis Aragon, per esempio scrisse: «Voi trovate questa morte bellissima, straordinaria e bla, bla, bla. Io la trovo semplicemente riprovevole. Perché la figlia di Marx avrebbe dovuto fare una cosa simile?»5. Si potrebbe pensare che si tratti solo di reazioni stizzose e polemiche: ma in realtà la scomparsa di Laura pone oggettivamente un problema che solo recentemente si è avuto il coraggio di affrontare apertamente in termini storici. Ha scritto a riguardo Jacques Macé: «La questione più grave concerne la morte di Laura… perché la donna non ha lasciato alcun documento che testimoni la sua adesione al progetto dello sposo e questo strano silenzio ha creato intorno alla fine dei Lafargue un disagio che non è mai stato dissipato»6. Se riusciamo a superare le reazioni polemiche e le emozioni scomposte e ci atteniamo, saldamente, alla storia dobbiamo ammettere che non è questo l’unico problema sul tappeto. Il compito dello storico è oggi enormemente agevolato dal riordino e dalla catalogazione delle fonti d’archivio che riguardano Paul Lafargue e dall’inventario ragionato di Pierre Boichu e Jean-Numa Ducange7 e questo ci permette di porci nuove domande.