Samuel Beckett
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Samuel Beckett PIÙ PENE CHE PANE (MORE PRICKS THAN KICKS) e SUGARCo S EDIZIONI Titolo originale: More pricks than kicks, Calder & Boyars, Londra. Traduzione di Alessandro Roffeni. © 1970 by Calder and Boyars. Proprietà letteraria riservata, SugarCo Edizioni S.r.l., Viale Tunisia 41, Milano, Italy DANTE E L'ARAGOSTA Era mattino e Belacqua si trovava fermo al primo dei canti della luna. Era così impantanato che non riusciva a muoversi né avanti né indietro. C'era Beatrice colma di beatitudine, ed anche Dante, e lei gli spiegava le macchie lunari. Gli indicava in primo luogo in che cosa si ingannava, quindi gli forniva la propria spiegazione. L'aveva ricevuta da Dio, perciò poteva esser certo che fosse accurata in ogni particolare. Tutto ciò che doveva fare, era seguirla passo passo. La prima parte, la refutazione, era un gioco da ragazzi. Beatrice esponeva l'argomento con chiarezza, diceva quello che aveva da dire senza circonlocuzioni o perdite di tempo. Ma la seconda parte, la dimostrazione, era così complessa che Belacqua non riusciva a venirne a capo. La confutazione, la riprovazione, queste erano evidenti. Ma poi veniva la correzione, un rapido sommario dei fatti reali, e Belacqua era davvero impantanato. Ed anche annoiato, impaziente di giungere a Piccarda. Tuttavia continuava a rimuginare sull'enigma, non volendo darsi per vinto, cercando di capire per lo meno il significato delle parole, l'ordine in cui venivano pronunciate ed il genere di soddisfazione che conferivano al disinformato poeta, il quale infatti, finito di ascoltarle, si sentiva rianimato e poteva sollevare il greve capo, disponendosi a porgere i propri ringraziamenti ed a compiere ritrattazione formale della sua antica opinione. Stava ancora spremendosi il cervello su questo passo impenetrabile, quando udì battere mezzogiorno. Distolse istantaneamente il pensiero da questo problema. Inserì le dita sotto il libro, e lo fece scivolare all'indietro, finché gli giacque interamente sui palmi. La Divina Commedia a faccia in su, sul leggìo dei suoi palmi. In questa posizione lo sollevò sino quasi all'altezza del proprio naso, e quindi lo chiuse con violenza. Lo tenne in aria per un po' di tempo, fissandolo obliquamente con sguardo iroso, premendo in dentro le copertine cartonate con le sporgenze dei palmi. Poi lo mise da parte. Si adagiò sullo schienale della sedia per ridonare la calma alla propria mente e liberarsi dal rovello prodottogli da quel fastidioso quodlibet. Non era possibile far nulla, fintanto che la sua mente non fosse stata tranquilla ed in migliori condizioni, cosa a cui giunse gradualmente. Poi si avventurò a considerare quale sarebbe stato il suo prossimo compito. C'era sempre un prossimo compito da svolgere. Gli si presentarono alla mente tre impegnative incombenze. Prima il pranzo, poi l'aragosta, quindi la lezione d'Italiano. Questo sarebbe stato un buon programma. Quanto a ciò che sarebbe venuto dopo la lezione d'Italiano, non aveva alcuna idea precisa. Senza dubbio qualcuno aveva predisposto qualche meschina occupazione per il tardo pomeriggio e la serata, ma lui non sapeva che cosa. In ogni caso, non importava. Ciò che importava era: uno, il pranzo; due, l'aragosta; tre, la lezione d'Italiano. Questo era più che sufficiente per procedere. Venire a capo del pranzo non era affare da poco. Se doveva risultare soddisfacente, e avrebbe potuto senz'altro essere assai soddisfacente, era necessario che potesse prepararlo nella massima tranquillità. Ma se ora veniva disturbato, se fosse piombato qualche vivace chiacchierone con una petizione o qualche altra brillante proposta, avrebbe potuto addirittura fare a meno di mangiare, perché il cibo gli sarebbe diventato amaro sul palato o, peggio ancora, non avrebbe saputo di nulla. Doveva restare completamente solo, doveva godere della massima quiete ed intimità, per prepararsi il cibo per il pranzo. La prima cosa da fare era chiudere la porta. Ora nessuno poteva raggiungerlo. Aprì un vecchio Herald e lo spianò sulla tavola. Il volto attraente di McCabe l'assassino levò lo sguardo su di lui. Poi accese il gas e staccò dal chiodo il piatto tostapane quadrato, griglia d'amianto, e lo pose con precisione sulla fiamma. Vide che doveva abbassare la fiamma. Il toast non doveva in alcun modo essere preparato troppo rapidamente. Per tostare il pane come si deve, in ogni sua parte, bisognava tenerlo su di una fiamma lieve e regolare. Altrimenti si abbrustolivano soltanto le superfici esterne e si lasciava l'interno molle come prima. Se s'era una cosa che abominava più di ogni altra, era il sentire i propri denti venire a contatto in mezzo ad una poltiglia di mollica e pasta mal cotta. Ed era così facile fare la cosa nel modo giusto. Così, pensò, dopo aver regolato la fiamma e messo a posto la griglia, quando avrò finito di tagliare il pane, questa sarà ormai pronta. Ora la lunga pagnotta cilindrica uscì dalla scatola dei biscotti ed ebbe pareggiata l'estremità sul volto di McCabe. Due colpi inesorabili con il tagliapane, ed un paio di cerchi precisi di pane crudo, la componente principale del suo pasto, giacquero dinanzi a lui, in serbo per il suo piacere. Il troncone della pagnotta ritornò nella sua prigione, le briciole, come se nel mondo quant'è largo non esistesse un solo passero, furono spazzate via con furia febbrile, e le fette afferrate e condotte alla griglia. Tutti questi preliminari furono assai frettolosi ed impersonali. Era adesso che si rendeva necessaria la vera abilità, era a questo punto che l'individuo medio si metteva a pasticciare l'intera operazione. Si appoggiò contro la guancia la parte soffice del pane, era spugnosa e calda, viva. Ma le avrebbe tolto assai presto quel senso flaccido di morbidezza, per Dio le avrebbe fatto scomparire assai in fretta quell'aria grassa e bianchiccia dalla faccia. Abbassò di un filo il gas e spiattellò energicamente una di quelle fette mollicce sulla struttura ardente, ma con tale accuratezza e precisione, che il tutto venne ad assomigliare alla bandiera giapponese. Poi in cima, non essendoci posto a sufficienza perché entrambe si tostassero uniformemente fianco a fianco, e se non si abbrustolivano uniformemente tanto valeva risparmiarsi del tutto la fatica di prepararle, fu messa a scaldare l'altra fetta. Quando il primo candidato fu pronto, il che si ebbe soltanto quando divenne nero in ogni sua parte, scambiò posto con il suo compagno, in modo che ora giacque in alto a sua volta, preparato a puntino, nero e fumante, attendendo il momento in cui si sarebbe potuto dire altrettanto anche dell'altro. Per il coltivatore dei campi, la cosa era semplice, l'aveva ricevuta da sua madre. Le macchie erano Caino con il suo fascio di spine, diseredato, maledetto dalla terra, fuggitivo e vagabondo. La luna era il suo volto dai lineamenti disfatti e marchiati, sfigurati dal primo stigma della pietà divina, per cui ad un reietto era negata una rapida morte. Tutto ciò era assai confuso nella mente del contadino, ma non importava. Se era andato bene per sua madre, andava bene anche per lui. Belacqua, inginocchiato dinanzi alla fiamma, assorbito nell'esame della griglia, controllò ogni fase della tostatura. Occorreva tempo, ma se una cosa andava fatta, tanto valeva farla bene, questo era un giusto detto. Assai prima che l'operazione fosse terminata, la stanza si riempì di fumo e di odore di bruciato. Spense il gas, quando ormai tutto ciò che l'attenzione e l'abilità dell'uomo potevano fare era stato fatto, e ripose il tostapane sul suo chiodo. Questo era un atto di dilapidazione, in quanto provocava una grossa ustione sulla carta. Questo era vandalismo puro e semplice. Ma che diavolo gliene importava? Era sua quella parete? Quella stessa sciagurata carta era stata lì per cinquant'anni. Era consunta dall'età. Non poteva essere peggiorata più di così. Ed ora, una densa salsa di Savora, sale e pepe di Cayenna su ogni fetta, spalmati a puntino mentre i pori erano ancora aperti per il calore. Niente burro, che Dio ne liberi, solo una buona dose di mostarda, sale e pepe su ogni fetta. Imburrare era un errore grossolano, rendeva il toast molle e umidiccio. Il toast imburrato andava bene per i decani dell'università e l'Esercito della Salvezza, per tutti quelli che non avevano che denti falsi in bocca. Non andava affatto bene per un giovane virgulto ben piantato come Belacqua. Questo pasto che stava allestendo con tanta fatica, se lo sarebbe divorato con un senso di rapimento e di vittoria, sarebbe stato come sgominare i Polacchi scivolanti in slitta sul ghiaccio. Lo avrebbe addentato ad occhi chiusi, lo avrebbe ridotto in una massa triturata, lo avrebbe completamente sopraffatto con le sue zanne. E poi, l'angoscia del sapore pungente, lo spasimo delle spezie, mentre ogni boccone moriva escoriandogli il palato, recando lacrime. Ma non era ancora completamente pronto, molto restava ancora da farsi. Aveva bruciato l'offerta, ma non l'aveva agghindata a dovere. Sì, aveva messo il carro davanti ai buoi. Premette una contro l'altra le fette tostate, le fece cozzare energicamente come cimbali, esse aderirono l'una all'altra sul viscido balsamo di Savora. Poi le avvolse provvisoriamente dentro un vecchio foglio di carta. Quindi si preparò ad affrontare la strada. Ora la cosa importante era l'evitare di essere accostati. Essere fermato a questo punto, e venire coinvolto in banalità discorsive, sarebbe stato un disastro. L'intero suo essere era teso verso la gioia riserbatagli. Se veniva accostato in questo momento, tanto valeva gettare il pranzo nel fosso e tornarsene dritto a casa. Talvolta la sua brama, più mentale (occorre dirlo?) che fisica, di questo pasto giungeva ad una tale frenesia, che non avrebbe esitato a colpire chiunque fosse stato così temerario da appiccicarglisi addosso, bloccandogli il cammino; lo avrebbe tolto dalla sua strada con una spallata, senza cerimonie.