Università degli studi di Napoli Federico II CdS triennale in Lettere moderne

corso di STORIA DELLA LINGUA ITALIANA (parte 1) a.a. 2019/2020

VOCI TRATTE DALL ’Enciclopedia dell’italiano a cura di Raffaele Simone, , Gaetano Berruto, Paolo D’Achille, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2011

(punto n. 2 del programma indicato nella Guida dello studente)

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Elenco delle voci sull’Italia dialettale: 1. “aree linguistiche” (di Ugo Vignuzzi) 2. “dialetti” (di Francesco Avolio) 3. “dialetto (usi letterari del)” (di Nicola De Blasi) 4. “dialettologia italiana (di Ugo Vignuzzi) 5. “isoglossa” (di Ugo Vignuzzi) sulle singole aree dialettali: 6. “corsi (dialetti)” (di Annalisa Nesi) 7. “emiliano-romagnoli (dialetti)” (di Fabio Foresti) 8. “friuliani (dialetti)” (di Laura Vanelli) 9. “Italia mediana” (di Ugo Vignuzzi) 10. “laziali (dialetti)” (di Francesco Avolio) 11. “liguri (dialetti)” (di Fiorenzo Toso) 12. “lombardi (dialetti)” (di Giovanni Bonfadini) 13. “meridionali (dialetti)” (di Francesco Avolio) 14. “piemontesi (dialetti)” (di Davide Ricca) 15. “sardi (dialetti)” (di Antonietta Dettori) 16. “siciliani, calabresi e salentini (dialetti)” (di Francesco Avolio) 17. “toscani (dialetti)” (di Silvia Calamai) 18. “umbro-marchigiani (dialetti)” (di Francesco Avolio) 19. “veneti (dialetti)” (di Falvia Ursini) sulle minoranze linguistiche: 20. “gallo-italica (comunità)” (di Fiorenzo Toso) 21. “minoranze linguistiche” (di Fiorenzo Toso) 22. “zingare (comunità)” (di Giulio Soravia).

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aree linguistiche di Ugo Vignuzzi - Enciclopedia dell'Italiano (2010) aree linguistiche

Per area linguistica s’intende un’area geografica caratterizzata dalla presenza di determinati fenomeni linguistici (dal livello fonologico a quello lessicale). La nozione di area linguistica è una delle più dibattute della dialettologia scientifica sin dai suoi esordi.

Per quanto riguarda il dominio linguistico italo-romanzo, come in genere per tutti i domini romanzi confinanti (la cosiddetta «Romània continua»), è particolarmente difficile tracciare netti confini dialettali in mancanza «di un ampio fascio di isoglosse che seguano, riunite e compatte, una data linea» (Pellegrini 1977: 19-20).

E così le più recenti proposte di articolazione areale (o spaziale o geolinguistica) del dominio italo- romanzo, dopo le prime sistemazioni di ➔ Graziadio Isaia Ascoli (1882-1885) e di Merlo (1924), hanno fatto riferimento al più importante confine linguistico della Romània, che divide profondamente anche le varietà linguistiche italiane, la cosiddetta «Linea La Spezia-Rimini», un fascio di isoglosse (➔ isoglossa ) individuato da Walter von Wartburg (1936 [1950]) sulla base dei dati dell’AIS ( ➔ atlanti linguistici ). Un altro importante confine linguistico fu individuato da Gerhard Rohlfs (1937) nel fascio di isoglosse «Roma-Ancona». Su tali confini si basano le proposte di suddivisione del dominio linguistico italiano di Tagliavini (1969 5) e di Pellegrini (1977).

Nel riconoscimento delle aree linguistiche italiane bisogna comunque tener conto di alcuni elementi problematici. Il confine linguistico della «La Spezia-Rimini» è nettamente tracciato solo nelle zone scarsamente popolate dell’Appennino tosco-emiliano; ma di fatto un’ampia fenomenologia tipica dei dialetti settentrionali caratterizza a ovest pure i dialetti della Lunigiana, e a est arriva fino alle porte di Ancona (o meglio almeno fino a Senigallia). Il confine linguistico segnato dalla linea Roma-Ancona è assai più incerto, anche per il rarefarsi dei punti d’inchiesta dell’AIS nelle zone in questione.

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Di fatto, nella valutazione dei dati, e in particolare nella scelta dei fenomeni da esaminare, altrettanto fondamentale appare il fattore tempo, inteso sia come dato storico all’origine della partizione areale, sia come vettore di processi che possono essere sempre in atto.

Distinguiamo allora nel dominio italo-romanzo le seguenti macroaree (con le loro principali suddivisioni, fig. 1 ):

Macroarea italiana settentrionale (o alto-italiana ): area gallo-italica area veneta area istriana (dialetti istrioti)

[Linea «La Spezia-Rimini»]

Macroarea toscana (o di tipo toscano , o centrale non mediana )

[Linea «Roma-Ancona»]

Macroarea italiana centro-meridionale : area mediana area meridionale (o alto-meridionale , o meridionale-intermedia )

Macroarea italiana meridionale estrema

Altre lingue italo-romanze: sardo , friulano , ladino

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Procedendo da nord, a settentrione della linea «La Spezia-Rimini» incontriamo la macroarea italiana settentrionale o alto-italiana, a sua volta suddivisa in area gallo-italica e area veneta. L’area dei dialetti gallo-italici comprende la Liguria (con il monegasco nel Principato di Monaco), il Piemonte (tranne le valli alpine provenzali e franco-provenzali al confine con la Francia), la Lombardia e il Canton Ticino, il occidentale, l’Emilia-Romagna, e inoltre la Lunigiana e le Marche settentrionali con la provincia di Pesaro e Urbino e parte di quella di Ancona.

L’area veneta comprende non solo il vero e proprio ma anche il Trentino orientale e la Venezia Giulia col triestino-giuliano; il veneto giuliano arriva lungo la costa sino a Capodistria e Pirano in Slovenia e in Croazia a sud di Parenzo, mentre nella zona da Rovigno a Pola (Croazia) troviamo i dialetti istrioti (Pellegrini 1977: 62-65). Lungo il confine nord-orientale si hanno pure le consistenti penisole linguistiche dei dialetti tedesco-tirolesi dell’Alto Adige / Südtirol, e più a est dei dialetti sloveni in -Venezia Giulia.

A sud della linea «La Spezia-Rimini» abbiamo i dialetti peninsulari, tradizionalmente distinti in dialetti toscani e dialetti centro-meridionali. Il confine fra queste due macroaree è rappresentato dalla linea «Roma-Ancona», che lascia a ovest dialetti più o meno profondamente caratterizzati da una fenomenologia definibile come toscana (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 63). Nella macroarea toscana rientra la regione Toscana, tranne la Lunigiana e il Grossetano meridionale; fenomeni di tipo toscano si incontrano anche più a est e a sud rispetto al confine regionale: per tali varietà nella loro fase antica è stata proposta la denominazione «peri-» o «para-mediane» (Vignuzzi 1994: 358-368; nell’Umbria attuale sono state riconosciute due ‘zone di transizione’: la «Scheggia-Todi» e la «Trasimeno-pievese»).

A sud della «Roma-Ancona» incontriamo la vasta macroarea centro-meridionale, articolata in area mediana e in area alto-meridionale (o, per Pellegrini, «meridionale-intermedia»; per altri, semplicemente, «meridionale»). Secondo Tagliavini e Pellegrini della macroarea centro-meridionale fa parte anche il gruppo dei dialetti meridionali estremi; classificazioni più recenti considerano invece a sé stante quest’ultimo gruppo (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 70). L’area mediana comprende i dialetti delle Marche centrali e meridionali (con esclusione della Valle del Tronto), dell’Umbria centro-orientale, del Lazio a est del Tevere più o meno sino a Frosinone e a Terracina, e della parte occidentale della provincia dell’Aquila, compresa la città. L’area alto-meridionale comprende la Valle del Tronto nelle

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Marche, l’Abruzzo (meno le zone sopra indicate), il Lazio meridionale, la Cam- pania, il Molise, la Basilicata, la Puglia con esclusione del Salento (fino alla «Linea Taranto-Brindisi» o meglio «Grottaglie- Ostuni»: Avolio 1995: 142).

Molto più articolata la situazione in Calabria (cfr. Avolio 1995: 92-3), ove il vocalismo tonico di tipo ‘siciliano’ arriva fino alla «Linea Diamante-Cassano», ma lo scadimento della vocale finale, tipico dei dialetti alto-meridionali, si spinge più a sud, da Cetraro a Cirò Marina: per Pellegrini (1977) la sezione estrema inizia appunto a sud di quest’ultima linea. La macroarea «meridionale estrema» comprende dunque il Salento, la Calabria centro-meridionale e tutta la Sicilia. Formano aree linguistiche a sé quella sarda, quella friulana e quella ladina.

Il tratto che più sistematicamente caratterizza la macroarea a nord della «Linea La Spezia-Rimini» è l’ ➔indebolimento delle consonanti intervocaliche (spesso anche in fonotassi), che se intense si scempiano ( kaval (o) «cavallo», an(o) «anno») e se scempie si leniscono o cadono (tipo ortiga / urtia «ortica», kavéi «capelli», prado / pra «prato»). Nel consonantismo è diffusa l’assibilazione (sira «cera»). Elementi che distinguono specificamente i dialetti dell’area gallo-italica rispetto a quelli veneti sono la larga presenza di vocali turbate e la caduta delle vocali atone finali diverse da a e in interno di parola.

Il tipo toscano si contraddistingue fra l’altro per l’esito rj > /j/; la macroarea è inoltre caratterizzata da un vocalismo tonico da cui sono assenti vocali turbate (come per la maggior parte dei dialetti centro- meridionali), e un vocalismo atono saldo, che in posizione finale unifica -u e -o latine; diversamente da quasi tutto il resto dell’Italia il tipo toscano non conosce la metafonesi ma il dittongamento delle vocali toniche medio-basse in sillaba libera (da vari secoli [w ɔ] si è rimonottongato in [ ɔ]). Tutta l’area a sud della «La Spezia-Rimini» presenta l’assimilazione regressiva di nessi consonantici (come ct > /t ː/). La sonorizzazione (e lenizione) delle consonanti scempie intervocaliche appare in Toscana di norma solo in parole di influsso settentrionale; e salda risulta l’intensità consonantica. Tipico è il fenomeno della gorgia ( ➔ gorgia toscana ) di diverse consonanti sorde intervocaliche.

Tratto caratteristico della macroarea centro-meridionale è l’assimilazione progressiva di nd > /n ː/ e mb > /m ː/ (meno diffuso ld > /l ː/); i dialetti mediani si caratterizzano soprattutto per la distinzione,

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nel vocalismo finale, fra -u e -o latine. Tutta la macroarea centro-meridionale conosce la chiusura metafonetica delle vocali toniche medio-alte (perlopiù sia da -u sia da -i/-es latini); per quanto riguarda gli esiti metafonetici delle vocali toniche medio-basse (nelle stesse condizioni), si ha in genere la chiusura di un grado nell’area mediana, il dittongamento (e suoi succedanei) in quella alto-meridionale. L’area alto-meridionale si caratterizza in particolare per il conguaglio delle vocali atone nella centrale [ ə], più evidente in finale di parola prima di pausa (cfr. abruzzese [na ˈbːεlla ˈfem ːənə] ma [na ˈfem ːəna ˈbːεll ə]. Tipiche anche la sonorizzazione più o meno avanzata delle occlusive dopo nasale (e talora anche dopo r, anche in fonotassi): dente > [ ˈdεnde]; e l’affricazione di s > ts dopo n, l, r (quest’ultimo arriva sino alla Toscana meridionale): [kon ˈʦ iʎː i], [ ˈbor ʦa], [ ˈsal ʦa] (spesso ulteriomente sonorizzati, [kon ˈʣ iʎː i], [ ˈbor ʣa], [ ˈsal ʣa]).

Peculiare della macroarea meridionale estrema è il vocalismo (detto appunto di tipo ‘siciliano’) con cinque vocali toniche e solo tre (le vocali estreme i, a, u) atone. La presenza di suoni cosiddetti cacuminali , spesso considerata caratteristica di questa macroarea, si incontra anche in altre varietà dialettali (anche molto distanti, quali i dialetti apuani e della Garfagnana).

Studi

Ascoli, Graziadio I. (1882-1885), L’Italia dialettale, «Archivio glottologico italiano» 8, pp. 98-128.

Avolio, Francesco (1995), Bommèspr ə. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale , San Severo, Gerni Editore.

Grassi, Corrado, Sobrero, Alberto A. & Telmon, Tullio (2003), Introduzione alla dialettologia italiana , Roma - Bari, Laterza.

Merlo, Clemente (1924), L’Italia dialettale , «L’Italia dialettale» 1, pp. 12-26.

Pellegrini, Giovan Battista (1977), Carta dei dialetti d’Italia , Pisa, Pacini.

Rohlfs, Gerhard (1937), La struttura linguistica dell’Italia , Leipzig, H. Keller.

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Sobrero, Alberto A. & Miglietta, Annarita (2006), Introduzione alla linguistica italiana , Roma-Bari, Laterza.

Tagliavini, Carlo (1969 5), Le origini delle lingue neolatine. Introduzione alla filologia romanza , Bologna, Pàtron

(1 a ed. Le origini delle lingue neolatine. Corso introduttivo di filologia romanza , 1949).

Vignuzzi, Ugo (1994), Il volgare nell’Italia mediana , in Storia della lingua italiana , a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 3° ( Le altre lingue ), pp. 329-372.

Wartburg, Walter von (1950), Die Ausgliederung der Romanischen Sprachräume , Bern, Francke (trad. it. La frammentazione linguistica della Romània , a cura di A. Varvaro, Roma, Salerno Editrice, 1980).

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dialetti di Francesco Avolio - Enciclopedia dell'Italiano (2010) dialetti

1. Le principali classificazioni

L’esigenza di ordinare in base a precisi parametri il panorama delle parlate dialettali d’Italia è stata avvertita fin dagli albori della dialettologia scientifica, anche se i tentativi compiuti in tal senso hanno risposto solo in parte a due cruciali difficoltà: da un lato l’irriducibile arbitrarietà nella scelta dei tratti caratterizzanti i vari gruppi, dall’altro il ricorso a criteri diversi e spesso eterogenei.

1.1 La classificazione di Graziadio Isaia Ascoli

Il primo ad avanzare (1882-1885) una circostanziata proposta di classificazione fu ➔ Graziadio Isaia Ascoli , il quale nella rivista «Archivio glottologico italiano» da lui stesso fondata elaborò una ripartizione in quattro gruppi, di natura tanto tipologica (sincronica) quanto diacronica. Il criterio di base era infatti la maggiore o minore distanza linguistica rispetto al toscano, considerato come il tipo dialettale meno distaccato dalla comune base latina. Abbiamo così:

(a) dialetti appartenenti a sistemi neolatini «non peculiari» all’Italia, perché, in gran parte, allora, fuori dai suoi confini (dialetti provenzali e franco-provenzali, dialetti ladini centrali e ladini orientali o friulani);

(b) dialetti che si distaccano dal sistema italiano vero e proprio, ma non entrano a far parte di alcun «sistema neolatino estraneo all’Italia» (dialetti gallo-italici – distinti in ligure, ‘pedemontano’, cioè piemontese, lombardo ed emiliano – e dialetti sardi);

(c) dialetti che «si scostano, più o meno, dal tipo schiettamente italiano o toscano, ma pur possono formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neo-latini» (veneziano, corso, dialetti dell’Umbria, delle Marche e della provincia romana, dialetti di Sicilia e delle «provincie napolitane»);

(d) il toscano e il «linguaggio letterario degli Italiani». 9

Lo schizzo ascoliano, per precisione e sintesi, conserva ancora oggi gran parte della sua validità, anche se, inevitabilmente, mancano alcune questioni di dettaglio nonché i risultati che, di lì a qualche decennio, sarebbero stati raggiunti con l’analisi delle carte degli atlanti linguistici.

1.2 La classificazione di Clemente Merlo

Nel 1924, sul primo numero della sua nuova rivista «L’Italia dialettale», Clemente Merlo propose uno schema classificatorio che, oltre a tener conto delle caratteristiche (soprattutto fonetiche) delle parlate delle varie zone, chiamava in causa il concetto di ➔ sostrato . Secondo Merlo, cioè, il principale fattore alla base dell’odierna ripartizione dialettale era l’influsso esercitato sul latino dalle lingue dell’Italia antica. I gruppi principali definiti dal Merlo sono quindi tre:

(a) dialetti settentrionali (di sostrato celtico), che includono i gallo-italici di Ascoli, più il veneziano;

(b) dialetti toscani (di sostrato etrusco);

(c) dialetti centro-meridionali (di sostrato italico o umbro-sannita).

A parte stanno i dialetti sardi, a sostrato mediterraneo, e quelli della Corsica, che lo stesso sostrato distanzia dai toscani; ai dialetti ladini (che includono i friulani), anch’essi gruppo a sé, Merlo associa il dalmatico dell’isola adriatica di Veglia, che ai tempi di Ascoli non era ancora stato descritto (e che è ormai estinto da oltre un secolo). E sono ancora i sostrati a spiegare le differenze fra il veneziano (a sostrato venetico) e il lombardo, fra il ligure (a sostrato antico ligure) e il piemontese, e fra il siciliano, il calabrese e il pugliese (a sostrato mediterraneo) e il resto del Mezzogiorno.

Questo schema aveva certamente un’impostazione a volte troppo rigida e meccanica e soffriva di alcune ingenuità, ma ha il merito di mettere a fuoco importanti elementi di continuità che nella classificazione ascoliana erano appena accennati. Da esso, inoltre, si ricava che possono essere fondatamente ricollegati al sostrato non solo singoli tratti fonetici, lessicali, ecc., ma anche fatti di altra natura, come i rapporti di tipo geolinguistico ( ➔ geografia linguistica ) e, più precisamente, il fatto che, sotto forma di area dialettale, sussista un antico ‘spazio storico’.

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1.3 La classificazione di Gerhard Rohlfs

E fu proprio la geolinguistica a offrire il criterio applicato da Gerhard Rohlfs, che, nel 1937, sfruttava appieno la sua lunga esperienza di raccoglitore per l’AIS ( ➔ atlanti linguistici ) e l’analisi approfondita delle sue carte. Sulla base dei dati dell’AIS, Rohlfs individuava i due principali ‘spartiacque’ linguistici della penisola: la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-Ancona ( ➔ isoglossa ; ➔ aree linguistiche ; ➔ confine linguistico ). Il primo di questi confini, la linea La Spezia-Rimini (che ai margini si spinge anche più a Sud), riunisce i limiti meridionali dei principali tratti linguistici dell’Italia del Nord (e del romanzo occidentale), separandola dalla Toscana; mentre nel secondo, la linea Roma-Ancona, confluiscono i limiti settentrionali dei tratti linguistici più tipici del Centro-Sud, che a sua volta viene così distinto dall’area toscana o toscanizzata (cfr. § 2).

Entrambi i confini non hanno solo valore linguistico, ma coincidono con fattori geografici e storici. La linea La Spezia-Rimini corrisponde alla catena dell’Appennino tosco-emiliano, che, essendo impervia nel suo tratto centrale, fu nella storia la frontiera settentrionale dell’Etruria verso i territori di etnia celtica del Nord Italia e, nella tarda antichità, quella fra l’Italia cosiddetta annonaria (con capitale Milano) e l’Italia suburbicaria (con capitale Roma). La stessa linea, nel medioevo, separava i territori bizantini dell’arcidiocesi di Ravenna da quelli dell’arcidiocesi di Roma. La linea Roma-Ancona, corrispondente per buona parte al corso laziale e umbro del Tevere, fu invece, nell’antichità, la frontiera fra Etruschi (a ovest) e Italici (a est) e, nel medioevo, fra il Patrimonium Petri e i territori longobardi.

1.4 La classificazione di G.B. Pellegrini

L’adozione dell’italiano come riferimento, unico possibile criterio di distinzione fra il vasto insieme definito italo-romanzo e gli altri gruppi neolatini, è stato ripresa, nel 1975, da Giovan Battista Pellegrini, come base per la sua proposta di classificazione in cinque sistemi (italiano settentrionale, friulano o ladino-friulano, toscano o centrale, centro-meridionale, sardo), sulla quale oggi converge, pur con qualche differenza, la maggior parte degli studiosi (per approfondimenti e dettagli si rinvia alle voci sulle singole aree linguistiche).

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Tutti i dialetti italo-romanzi sono definiti primari (➔ varietà ), in quanto formatisi contemporaneamente a quello che poi sarebbe diventato l’ ➔italiano standard .

2. Le caratteristiche principali

2.1 Sistema settentrionale

Comprende i dialetti parlati in tutto il Nord Italia (Piemonte centro-orientale, con i sette capoluoghi, Liguria, Lombardia, Trentino, Veneto, parte del Friuli e della Venezia Giulia, Emilia-Romagna), nonché nelle zone contigue delle Marche (fin circa a Fano e a Senigallia) e della Toscana (la Lunigiana, in provincia di Massa, parte della Garfagnana, in provincia di Lucca, e l’alta valle del Senio, in provincia di Firenze, tutte a Nord della La Spezia-Rimini) e, all’estero, in Francia (dialetti di tipo ligure di Mentone e del principato di Monaco), Svizzera (nel canton Ticino e in alcune valli grigionesi, linguisticamente lombarde), Slovenia e Croazia (fra le residue comunità italofone, di dialetto veneto-giuliano e istriano).

La più importante distinzione interna è quella fra dialetti del Nord-Ovest ( ➔ piemontesi, dialetti ), chiamati galloitalici fin dall’Ottocento per via del sostrato celtico (cfr. § 2.2: Piemonte, Liguria, Lombardia e Ticino, Trentino occidentale, Emilia-Romagna, parte settentrionale delle Marche e della Toscana) e dialetti del Nord-Est ( veneti e istriani o istrioti : Veneto, Trentino orientale, Venezia Giulia, Istria; ➔ veneti, dialetti ; ➔ friulani, dialetti ). I dialetti galloitalici delle Marche (Urbino, Pesaro, Fano) sono detti anche gallo-piceni (➔ umbro-marchigiani, dialetti ).

I tratti più caratteristici di questo vasto insieme di parlate, che giungono verso Sud fino alla linea La Spezia-Carrara-Rimini-Fano (cfr. § 2.3), sono:

(a) il passaggio, fra vocali, di /-t-/ a /-d-/ (milanese [fra ˈdɛl] «fratello», nel Veneto [ma ˈrido] «marito»), di /-p-/ a /-v-/, attraverso una fase /-b-/ (in Liguria [ka ˈvɛli] «capelli», in Emilia [n əˈ voda] «nipote») e di /-k-/ a /-g-/ (in Lombardia [ur ˈtiga] «ortica», nel Veneto [ ˈfigo] «fico»). È la nota sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, detta anche lenizione . Non di rado /d/ e /g/ possono poi cadere ([ma ˈrio], [ur ˈtia], ecc.);

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(b) la semplificazione (o scempiamento ) delle consonanti doppie o intense: in Piemonte [ ˈfjama] «fiamma», veronese [ ˈspala] «spalla», ecc.;

(c) il cosiddetto «avanzamento» di / ʧ/ e / ʤ/, che diventano prima / ʦ/ e / ʣ/ e poi, spesso /s/ e /z/ (in Piemonte [ ˈsiŋa] «cena», in Liguria [ ˈzena] «Genova», nel Veneto [ ˈsenere] «cenere»);

(d) il nesso -cl- diviene spesso / ʧ-/ e il corrispondente gl- passa a / ʤ-/ ( palatalizzazione ): «chiave» è [ʧaf] in Lombardia, [ ʧav] a Torino e in Emilia, [ ˈʧ ave] nel Veneto; a Milano, Torino e Genova [ ˈʤ aŋda] «ghianda», ecc.;

(e) l’uso di mi e ti come pronomi personali soggetto, a cui si aggiungono spesso dei pronomi clitici, cioè privi di accento: milanese [mi ˈgwardi] «io guardo», [ti te ˈgwardet] «tu guardi», [ly l ˈgwarda] «lui guarda», veneziano [mi g ɔ ˈdito] «ho detto». La presenza di complessi sistemi di clitici soggetti, obbligatori o facoltativi a seconda della persona verbale, caratterizza gran parte dei dialetti settentrionali: torinese [a ˈvarda] «(lui) guarda», milanese [i ˈmaŋʤen] e veneziano [i ˈma ɲa] «(loro) mangiano».

Le differenze maggiori fra i dialetti galloitalici e quelli veneti sono le seguenti:

(a) la gran parte dei primi ha vocali di tipo ‘misto’ (anteriori arrotondate), come /y/ (identica alla u francese di lune «luna»: torinese [fys] «fuso», [myr] «muro») e /ø/ (come nel francese peu «poco»: milanese [føk] «fuoco», [ø ʧ] «occhio»), ignote ai secondi (veneziano [ ˈmuro], [ ˈfɔgo] «fuoco»);

(b) nei primi, tranne che in Liguria, è frequente la caduta delle vocali latine non accentate, finali e non, eccetto che per /-a/, con una vistosa riduzione del numero delle sillabe (in Lombardia [ka ˈval] «cavallo», in Piemonte [dne] «denaro», in Emilia [tl ɛr] «telaio», in Romagna [ ˈdmeŋga] «domenica», ecc.): nei secondi, invece, esse resistono in varia misura: in veneziano, ad es., si ha la caduta solo dopo /n/ e /r/ ([kan] «cane», [ndar] «andare»), ma altrimenti [ ˈgato] «gatto», [do ˈmenega] «domenica»;

(c) elemento discriminante di un certo rilievo è rappresentato dalla palatalizzazione di /a/ tonica, evidente soprattutto in Piemonte (ad es., negli infiniti della coniugazione e in alcuni suffissi: [kanˈte]

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«cantare», [tle] «telaio») e in Emilia-Romagna (a Bologna si ha una netta / ɛ/, come in [s ɛl] «sale», [a ˈmɛr] «amaro»), ma ignota nel Veneto;

(d) anche il trattamento del nesso latino -ct- individua ulteriori sottodistinzioni: nel Piemonte centro- occidentale esso si sviluppa in /-jt/ ([fajt] «fatto» < factu(m), [lajt] «latte» < lacte(m)), nelle zone più orientali e in Lombardia diventa / ʧ/ ([fa ʧ], [la ʧ]), ma nel Veneto /-tː-/ derivante dall’assimilazione regressiva di -ct- si semplifica, come le altre consonanti doppie, dando /-t-/ ([ ˈfato] «fatto», [ ˈlate] «latte»);

(e) i dialetti galloitalici (ma non il ligure) hanno la negazione postverbale: torinese [i ˈvardu n ɛŋ] «non guardo», lombardo [el ˈmaŋʤa ˈmia ( ˈmiŋga)] «non mangia»), mentre in veneto la particella negativa sta in posizione preverbale ([mi n ɔ ˈma ɲo] «io non mangio».

2.2 Sistema centrale

Situato fra la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-Ancona, ne fanno parte i dialetti parlati in quasi tutta la Toscana (tranne che nelle zone linguisticamente settentrionali indicate al § 2.1) e nelle aree confinanti delle regioni vicine: l’Umbria nord-occidentale (Perugia, Gubbio, Orvieto), le Marche centrali (Fabriano, Ancona) e l’alto Lazio (Viterbo).

I dialetti della Toscana sono di solito distinti in quattro gruppi ( ➔ toscani, dialetti ). La vicinanza strutturale con la lingua italiana è molto forte; molti tratti tipici toscani, ignoti alle altre aree, sono infatti passati all’italiano, e tra questi possiamo ricordare:

(a) il dittongamento di / ɛ/ accentata in /j ɛ/ in sillaba libera (o dittongamento toscano ): [ ˈpj ɛde], [ ˈvj ɛni], ma [ˈsɛtːe]; quello parallelo di / ɔ/ in /w ɔ/ è ormai scomparso dall’uso regionale, pur restando ben vivo nella lingua comune (a Firenze, infatti, oggi si dice [ ˈbɔno] «buono»);

(b) l’ ➔anafonesi , originariamente fiorentina, cioè la chiusura di /e/ in /i/ se seguita da / ʎː / e / ɲː / derivanti, rispettivamente, da -lj- e -nj- latini: [fa ˈmi ʎː a] < famĭlia(m) (e non *[fa ˈme ʎː a]), [ma ˈli ɲː a] (e non *[ma ˈle ɲː a], come in altre regioni), ma [ ˈle ɲː o] «legno» < lĭgnu(m); oppure la chiusura di /e/ in /i/

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e di /o/ in /u/, se seguite da nasale + /g/ o (più raramente) /k/ ([ ˈliŋgwa] contrapposto a [ ˈleŋgwa], e simili, del resto d’Italia);

(c) il passaggio di -rj - a /j/ ([for ˈnajo] < fornariu(m)), che oppone la Toscana al resto d’Italia;

(d) il ➔ raddoppiamento sintattico ([a ˈkːasa] «a casa»), che la oppone, invece, ai dialetti settentrionali;

(e) la tripartizione dei dimostrativi e di alcuni avverbi di luogo ( questo , codesto e quello ; qui , costì e lì ), che sconfina in Umbria e nel Lazio, ma è ormai uscito dall’uso nell’italiano anche scritto delle altre regioni.

Esistono, comunque, tratti solo toscani e non italiani, fra cui spiccano:

(f) la cosiddetta ➔ gorgia toscana , cioè la pronuncia spirante di /-k-/, /-t-/ e /-p-/ tra vocali (a Firenze [la ˈχaza] «la casa», [an ˈdaθo] «andato», [il ˈlu ϕo] «il lupo»);

(g) la sostituzione della prima persona plurale del presente indicativo con il costrutto si + terza persona sing. ( noi si va a Roma «andiamo a Roma»);

(h) le interrogative introdotte da o (o cche aspettano ad avanzare? ).

Il romanesco moderno rappresenta l’originale esito di un processo di toscanizzazione piuttosto intenso, subito a partire dal Cinquecento da una varietà, quella romana medievale, che era molto vicina ai dialetti mediani (cfr. § 2.3), e che è comunque riuscita a trasmettere alcune delle sue caratteristiche di base ignote al toscano, ad es.: la mancata chiusura di /e/ prima dell’accento ([de ˈroma] «di Roma»); lo sviluppo di -rj- a /-r-/ ([kar ʦoˈlaro] «calzolaio»); le assimilazioni consonantiche progressive ([ ˈmon ːo] «mondo»; ➔ assimilazione ; ➔ laziali, dialetti ); la distinzione fra [kan ˈtamo] «cantiamo», [ve ˈdemo] «vediamo» e [sen ˈtimo] «sentiamo».

Pellegrini (1977) non prende in considerazione la linea Roma-Ancona individuata dal Rohlfs e inserisce le parlate del sistema centrale esterne alla Toscana, ma poste a nord della linea stessa, fra i dialetti «mediani» (che così spazierebbero, nel loro complesso, dall’Umbria settentrionale fino al basso Lazio e

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all’Aquilano). A volte queste parlate vengono anche definite «dialetti mediani di transizione» (così in Sabatini 1997: 4), mentre Castellani li indica come «area mediana non metafonetica». Data però la rilevanza della linea in questione e dei fenomeni che la identificano – i quali rendono oggettivamente difficile procedere a un accorpamento fra varietà molto diverse fra loro – sembra più corretto, per evitare equivoci, attribuire la definizione di mediani esclusivamente ai dialetti che si trovano a sud di essa (cfr. § 2.3).

2.3 Sistema centro-meridionale

Si estende dalla linea Roma-Ancona fino alla Sicilia, e si può ripartire in tre aree: l’area mediana, che include il Lazio a est e a sud del corso del Tevere (da Amatrice e Rieti fino ad Anagni, Priverno e Sonnino), l’Umbria sud-orientale (con Foligno, Spoleto, Terni, Norcia), le Marche centro-meridionali (il Maceratese e le sezioni confinanti delle province di Ancona e Ascoli Piceno) e la parte settentrionale dell’Abruzzo aquilano (dall’Aquila ed Avezzano verso ovest e nord); l’area meridionale, detta anche altomeridionale o meridionale intermedia, che include tre regioni per intero (Molise, Campania, Basilicata), altre cinque in grande o in piccola parte: le Marche meridionali fra l’Aso e il Tronto (inclusa Ascoli Piceno), il Lazio meridionale un tempo campano (con Fondi, Gaeta, Sora, Cassino), quasi tutto l’Abruzzo (tranne le zone mediane dell’Aquilano), la Puglia centro-settentrionale, fino alla linea Taranto-Brindisi, la Calabria più settentrionale, fino alla linea Diamante-Cassano; l’area meridionale estrema, che comprende la Sicilia, gran parte della Calabria e il Salento (la Puglia a sud della linea Taranto-Brindisi) ( ➔ meridionali, dialetti ).

I fenomeni comuni a questi dialetti che si arrestano, verso nord, alla linea Roma-Ancona sono:

(a) la metafonesi, cioè l’innalzamento delle vocali accentate /e/ e /o/, che diventano rispettivamente /i/ e /u/ per influsso delle vocali finali -i e -u latine originarie (a Napoli [a ˈʧ it ə] «aceto», [ ˈpil ə] «pelo/- i», [ ˈmun ːə] «mondo», ecc.), e di / ɛ/ e / ɔ/, che invece, nelle stesse condizioni, possono dittongarsi (dittongamento napoletano : [ ˈpjet ːə] «petto, -i», [ ˈdjend ə] «denti», [ ˈwos ːə] «osso»; ➔ dittongo ) oppure chiudersi in /e/ e /o/ (a L’Aquila [ ˈpet ːu], [ ˈdendi], [ ˈos ːu]);

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(b) il ➔ betacismo , cioè il doppio esito di /v-/ e /b-/ , che è /v-/ in posizione iniziale e tra vocali, /b ː/ dopo consonante o in posizione di raddoppiamento sintattico: a Napoli [na ˈvɔtə] «una volta», ma [tre ˈbːɔtə] «tre volte», [ ˈvat ːərə] «battere, picchiare», ma [ ʒba ˈtːut ə] «sbattuto»;

(c) le assimilazioni consonantiche progressive dei nessi originari -nd-, -mb-, e spesso -ld- (nel Molise [ˈtun ːə] per «tondo», [ ˈɣ am ːə] per «gamba», [ ˈkal ːə] per «caldo»), che comunque includono tutto il Lazio settentrionale;

(d) la cosiddetta lenizione postnasale , cioè il passaggio dei suoni /-k-/, /-t-/, /-p-/ rispettivamente a /-g-/, /-b-/, /-d-/ dopo /-n-/ (un po’ ovunque [ ˈbːang ə] «banco», [ ˈmond ə] «monte», [ ˈkamb ə] «campo», ecc.);

(e) il possessivo enclitico, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela, soprattutto nelle prime due persone (a Norcia, ad es., si ha [ ˈfij ːimu] «mio figlio», [ ˈfratetu] «tuo fratello»), anch’esso noto nell’alto Lazio e nelle parlate salentine, e, un tempo, anche a Roma e in Toscana;

(f) la conservazione, con ulteriori sviluppi, del ➔ neutro latino, mediante un particolare articolo determinativo usato con gruppi di nomi che non ammettono una forma plurale (e che spesso erano neutri già in latino), e poi con aggettivi e verbi sostantivati: napoletano [o ˈkːas ə] «il formaggio» < caseum, [o ˈfːjer ːə] «il ferro (metallo)» < ferrum (ma [o ˈfjer ːə] «il ferro da stiro», maschile e pluralizzabile, senza raddoppiamento), reatino [lo ˈranu] «il grano» < granum, neutro, ma [lu ˈkane] «il cane», maschile, e poi [lo ˈbːel ːu] «ciò che è bello», [lo kam ˈpa] «il vivere», ecc.;

(g) l’uso di tenere per avere non ausiliare (in Sabina [ ˈtɛngo tre ˈfːij ːi] «ho tre figli»).

Le principali differenze fra area mediana e meridionale sono:

(a) il trattamento delle vocali finali non accentate; nella gran parte delle parlate meridionali queste passano alla cosiddetta e muta o indistinta /ə/ (napoletano [ ˈad ːʒə ] «ho» < habeo, [ ˈnir ə] «nero» < nĭgru(m), [ˈsɛtːə] «sette» < septe(m), [ ˈun ːəʧə ] «undici» < undeci(m), [ ˈfem ːənə] «femmina, donna» < femina(m)), sconosciuta a

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quelle mediane, che invece mantengono vocali simili a quelle standard e, spesso, anche la distinzione latina fra -o e -u (ad es., a Foligno [di ˈʃɛ nːo] «dicendo», ma [ka ˈpil ːu] «capello», a Rieti [ ˈsat ːʃo] «so», ma [ ˈporku] «maiale», ecc.);

(b) gli sviluppi dei nessi latini pl- e fl-, che in area mediana diventano /pj-/ e /fj-/ come in italiano, ma che, in diversi dialetti meridionali, e anche meridionali estremi, si trasformano, rispettivamente, in /kj-/ e / ʃ-/ (/ ʧ-/): a Castel di Sangro (L’Aquila) [ ˈkjan ə] «piano», [ ˈʃ at ə] «fiato», catanese [ ˈkj ɔvi] «piove», [n ˈʃ uri] «un fiore».

I dialetti meridionali estremi ( ➔ siciliani, calabresi e salentini, dialetti ), invece, si differenziano, nel loro complesso, dal resto del sistema centro-meridionale per una serie di caratteristiche fra cui:

(a) un sistema vocalico tonico di soli cinque elementi /i/, / ɛ/, /a/, / ɔ/, /u/: [ ˈfilu] «filo» < fīlu(m), come [ ˈnivi] «neve» < nĭve(m) e come [ ˈsti ɖː a] «stella» < stēlla(m), ma [ ˈbːɛɖː a] «bella» < bĕlla(m); [ ˈluna] «luna» < lūna(m), come [ ˈkru ʧi] «croce» < crŭce(m) e [ ˈsuli] «sole» < sōle(m); ma [ ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m);

(b) la presenza nella maggior parte dei dialetti di tre vocali finali (in Sicilia [ ˈkɔri] «cuore», [ ˈsat ːʃu] «so», [ ˈfim ːina] «donna»);

(c) la pronuncia cacuminale (o retroflessa, cioè con la lingua puntata sul retro degli incisivi) di /-dː-/ derivante da -ll-, come in [ ˈbːɛɖː u] «bello», [ka ˈva ɖː u] «cavallo» (tale pronuncia, secondo alcuni molto antica, è nota anche alle varietà sarde e a parte di quelle corse e lunigianesi), e di nessi consonantici come /-tr-/ e /-str-/, che diventano, spesso, /-ʈɽ -/ e /-sʈɽ -/ ([pa ʈɽ i] «padre», quasi [ ˈpa ʧi]);

(d) l’assenza della lenizione postnasale ([ ˈsantu], [aŋˈkɔra], e non [ ˈsand ə], [aŋˈgɔrə]);

(e) la mancanza degli infiniti tronchi, assai diffusi, invece, nell’alto Mezzogiorno e fino alla Toscana ([kan ˈtari] e non [kan ˈta], [ ˈdːiʧiri] e non [ ˈdi ʧe] «dire»);

(f) l’uso del passato remoto in luogo di quello prossimo, ancora più frequente di quanto non si osservi nell’alto Mezzogiorno.

2.4 Sistema sardo

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La Sardegna viene suddivisa dagli specialisti in quattro aree linguistiche principali: campidanese, logudorese, gallurese, sassarese (le ultime due sono ritenute di tipo non sardo da molti studiosi; ➔ sardi, dialetti ).

Sull’intera isola è presente un sistema di vocali accentate di tipo conservativo, in cui non si sono avute fusioni tra suoni vocalici originariamente diversi: [ ˈfilu] «filo» < fīlu(m), come [ ˈpilu] «pelo» < pĭlu(m); [ ˈtɛla] «tela» < tēla(m), come [ˈbːɛɖː a] «bella» < bĕlla(m); [ ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m) come [ ˈsɔle] «sole» < sōle(m); [ ˈgula] «gola» < gŭla(m) come [ ˈluna] «luna» < lūna(m).

Altri notevoli tratti arcaici – propri, però, soprattutto della Barbagia e del Logudoro – sono:

(a) la conservazione di /k/ e /g/ davanti a vocale anteriore: [ ˈkentu] «cento», [ ˈnuke] «noce», [ ˈlɛgere] «leggere», a Nuoro [ ˈpiske] «pesce», ecc.;

(b) lo sviluppo del nesso consonante + /l/ a consonante + /r/, tipico anche del campidanese ( ˈ[fram ːa] «fiamma»);

(c) la conservazione delle consonanti finali, con -s che resta, come in latino, marca del neutro ([ ˈtempus] «tempo») e dei plurali ([p ɛjs] o [ ˈpɛdes] «piedi», [ ˈfeminas] «donne»; ma in gallurese e sassarese [ ˈpedi], [ ˈfemini]).

Sviluppi particolari del sardo sono invece:

(d) il passaggio dei nessi qu- e gu- a /b ː/ ([ ˈab ːa] «acqua», [ ˈlimba] «lingua»), che avvicina la Sardegna alla Romania;

(e) l’assimilazione del nesso latino -gn- in /-nː-/: [ ˈlin ːa] «legna» < ligna(m), [ ˈman ːu] «grande» < magnu(m);

(f) gli articoli determinativi derivanti non da illu(m) e illa(m), bensì da ipsu(m) e ipsa(m): a Bitti (Nuoro), [su ˈmastru de ˈlin ːa] «il falegname», [sa kober ˈtura] «il tetto» (e, al plurale, [sos ˈtempos] «i tempi»; a Cagliari [is ˈtempus] «i tempi»); ecc.

Tra le parole latine che si sono conservate solo in Sardegna si ricordano [ ˈakina] «uva», [ ˈdɔmu] «casa», [ ˈɛ bːa] «cavalla» < equa(m), [ ˈinteri] «frattanto» < interim, [ ˈman ːu] «grande», [koju ˈare] «sposarsi» < coniugare,

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[im ˈbɛnːere] «trovare» < invenire. Concordanze con la penisola iberica e anche con la Romania sono individuate da [ˈɛ du] «capretto» < haedus, [i ˈskire] «sapere» < scire, [pregon ˈtare] «domandare» < percontare.

2.5 Sistema ladino-friulano

Associato da alcuni studiosi – ma su ciò non c’è accordo – al romancio del cantone svizzero dei Grigioni, sotto l’etichetta comune di retoromanzo, esso si distingue per la conservazione di tratti che un tempo erano tipici anche di aree più o meno estese della restante Italia settentrionale, con cui, del resto, condivide tuttora alcuni fenomeni di rilievo (quali la sonorizzazione delle consonanti sorde fra vocali, la semplificazione delle consonanti doppie, la caduta delle vocali finali diverse da /-a/).

Le varietà ladine sono parlate in quattro valli dolomitiche intorno al gruppo del Sella ( ➔ ladina, comunità ), anche se le loro caratteristiche sfumano all’interno di un territorio che include una parte del Trentino orientale e la regione veneta del Cadore. I dialetti friulani sono parlati in buona parte della regione Friuli ( ➔ friulani, dialetti ).

La maggior parte delle varietà del sistema è oggi caratterizzata da:

(a) palatalizzazione dei nessi /ka-/ e /ga-/, che diventano (in accordo col francese antico, ma anche col veneto) / ʧa-/ e /ʤa-/] ([ ˈʧ ar] «caro» e «carne», [ ˈʤ al] «gallo»);

(b) mantenimento di -s nella formazione dei plurali maschili (di nuovo come il francese e il veneto antichi: [ ˈʧ ans] «cani», [ˈmurs] «muri»);

(c) conservazione del nesso di consonante + /l/ ([ ˈblank] «bianco», [ ˈklama] «chiama»), semplificato in /-l-/ all’interno di parola ([o ˈrɛla] «orecchio» < auric(u)la(m), ecc.).

Le varietà friulane si caratterizzano anche per:

(d) la sopravvivenza della distinzione fra vocali lunghe e brevi, che produce un certo numero di coppie minime ( ➔ coppia minima ) (come [lāt] «andato» e [lat] «latte», [pās] «pace» e [pas] «passo»)

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(e) la dittongazione delle vocali accentate, in particolare di / ɛ/ e / ɔ/, con esiti vari (per es. [ ˈbjel] «bello» e [ ˈkwarp] «corpo»);

(f) i diminutivi in /-ut/ ([arbu ˈlut] «alberello», [ta ˈjut] «taglietto» e anche «bicchiere di vino»);

(g) il passato prossimo bicomposto ([o aj vut vjo ˈdut] letteralm. «io ho avuto visto», cioè «ho visto»).

Tipi lessicali caratteristici del Friuli sono, fra gli altri, [kaj] «lumaca», [frut] «bambino», [so ˈreli] «sole» (derivato da soliculu(m), come il franc. soleil), [feve ˈla] «parlare», [ku ˈmɔ] «adesso».

La legge 482 del 1999 ha riconosciuto al sardo e al friulano lo status di lingue di minoranza, equiparandoli, cioè, alle ➔ minoranze linguistiche storiche.

3. Vitalità dei dialetti

Dal 1974 due istituti di indagine statistico-demoscopica, la Doxa e l’Istat, hanno condotto con una certa periodicità rilevamenti di interesse dialettologico, per valutare le percentuali di coloro che, in Italia, usano l’italiano e i vari dialetti (sia in ognuna delle venti regioni sia a livello nazionale, distinguendo poi gli usi fra le diverse fasce sociali e d’età e nelle situazioni più comuni: in famiglia, con amici, con estranei).

La percentuale di coloro che si dichiarano dialettofoni, cioè che affermano di usare il dialetto locale nelle diverse situazioni indicate, risulta in continuo calo: per quanto riguarda l’ambito d’uso domestico (certo quello più favorevole al mantenimento della dialettofonia), nel 1974 coloro che parlavano con tutti in familiari in dialetto erano, secondo la Doxa, il 51,3% (dunque la maggioranza assoluta), ma sono passati al 46,7% nel 1982, al 39,6% nel 1988, al 35,9% nel 1991 e al 33,9% nel 1996. Nello stesso arco di tempo, la percentuale di coloro che parlavano con tutti i familiari solo in italiano è cresciuta, ma in misura minore, dal 25% del 1974 al 33,7% del 1996, come, del resto, quella di coloro che parlavano con alcuni familiari in dialetto, con altri in italiano, aumentati dal 23,7% del 1974 al 32,4% del 1996. Un andamento simile mostrano le percentuali relative agli usi fuori casa: coloro che parlavano sempre o più spesso in dialetto erano il 42,3% nel 1974, ridotti al 28,2% nel 1996; la percentuale degli italofoni più o meno esclusivi o quasi è invece cresciuta dal 35,6 al 49,6%.

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Tale contrazione generale della dialettofonia, però, quasi inaspettatamente, si attenua già a partire dal 1991, nello stesso periodo in cui si vede sempre più chiaramente che «al decremento della dialettofonia non corrisponde […] un incremento dell’italofonia altrettanto marcato» (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 30). Infatti c’è stato un contemporaneo, speculare incremento non dell’italofonia pura e semplice, ma soprattutto dei casi di uso alternato […] e di parlato mistilingue italiano/dialetto. In effetti, usi di questo tipo possono essere attribuiti a pieno titolo a coloro che “parlano sia in dialetto che in italiano” (secondo la terminologia dell’istituto Doxa), categoria che ha avuto un incremento, appunto, del 10% circa (ivi).

Secondo l’Istat, poi, a livello nazionale, fra il 2000 e il 2006 vi sono stati soltanto assestamenti minimi: l’italofonia esclusiva in famiglia è passata dal 44,1% al 45,5%, con amici dal 48% al 48,9%, con estranei si è ormai stabilizzata (72,7% nel 2000, 72,8% nel 2006); la dialettofonia più o meno esclusiva risulta scesa, in famiglia, dal 19,1% al 16%, con amici dal 16% al 13,2%, con gli estranei dal 6,8% al 5,4%, ma l’uso alternato di italiano e dialetto si è mantenuto in famiglia sostanzialmente stabile (dal 32,9% al 32,5%) ed è anzi lievemente cresciuto per quanto riguarda le conversazioni con amici (dal 32,7% al 32,8%) e addirittura con gli estranei (dal 18,6 al 19%). Roccaforti della dialettofonia sono, sul piano geografico, le regioni del Nord-Est (in particolare il Veneto), seguite da quelle del Sud (soprattutto Calabria e Basilicata), mentre, relativamente alla condizione sociale e professionale, lo sono i pensionati, le casalinghe e gli operai rispetto a dirigenti, professionisti e lavoratori in proprio ( ➔ sociolinguistica ).

La notevole ambiguità di formule come «sia italiano che dialetto» – assai comuni, come si è visto, nei rilevamenti statistici – è stata chiarita da Berruto (1995: 242-250), che ha proposto il termine dilalia per cogliere una precisazione importante rispetto al concetto, ampiamente usato, di diglossia (➔ bilinguismo e diglossia ). La dilalia si differenzia dalla diglossia per l’estrema facilità con cui avviene il passaggio dall’uno all’altro idioma, sia all’interno della stessa interazione verbale, sia all’interno della stessa frase ( ➔ commutazione di codice ), e tanto in contesti informali, quanto in quelli di media formalità. Non è difficile accorgersi che, nell’Italia di oggi, queste sono situazioni comuni, nelle quali si riconosce la maggior parte dei parlanti, e che emergono perfino in rete ( ➔ Internet, lingua di ), anche e soprattutto nei siti e nei blog frequentati dai più giovani. Tutto ciò contribuisce a spiegare il sensibile rallentamento nell’abbandono dei dialetti registrato un po’ ovunque a partire dagli anni ’90 del Novecento.

Ad ogni modo, per cercare di capire meglio le motivazioni profonde per cui – contrariamente a quanto ancora si crede – molti dialetti non sono stati e non sono oggi in pericolo di estinzione, si può osservare che, come essi hanno potuto ‘farsi le

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ossa’ proprio grazie a una lunga, plurisecolare convivenza con almeno alcuni livelli di italiano (cfr. Avolio 2003: 43), così questi ultimi, più di recente, hanno paradossalmente difeso anche il dialetto. Anzi, sono proprio coloro a cui il possesso della lingua ufficiale ha dato sicurezza, che […] gli hanno impedito di fare una brutta fine. […]. E oggi il dialetto non fa più paura a nessuno, o quasi. Anzi, in qualche modo affascina i giovani per la sua eccentricità. Certo, dall’avventura dello scontro con l’italiano è uscito un po’ ammaccato, un po’ (o forse troppo?) cambiato. Ma vivo (Marcato 2005: 41).

Fonti

Ascoli, Graziadio Isaia (1882-1885), L’Italia dialettale, «Archivio glottologico italiano» 8, pp. 98-128.

Studi

Avolio, Francesco (2003), A quarant’anni dalla “Storia linguistica” di De Mauro. L’Italia del Novecento e il problema dell’italofonia, in Italiano. Strana lingua? Atti del convegno Sappada - Plodn (Belluno, 3-7 luglio 2002), a cura di G. Marcato, Padova, Unipress, pp. 37-44.

Berruto, Gaetano (1995), Fondamenti di sociolinguistica, Roma - Bari, Laterza.

Grassi, Corrado, Sobrero, Alberto A. & Telmon, Tullio (2003), Introduzione alla dialettologia italiana, Roma - Bari, Laterza.

Marcato, Gianna (2005), Fu così che tentammo di suicidare il dialetto. Confessioni di parlanti del Novecento veneto, in Ead. (a cura di), Lingue e dialetti nel Veneto. 3, Padova, Unipress, pp. 3-41.

Merlo, Clemente (1924), L’Italia dialettale, «L’Italia dialettale» 1, pp. 12-26.

Pellegrini, Giovanni Battista (1975), I cinque sistemi dell’italo-romanzo, in Id., Saggi di linguistica italiana. Storia, struttura, società, Torino, Boringhieri, pp. 55-87.

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Pellegrini, Giovanni Battista (1977), Carta dei dialetti d’Italia, Pisa, Pacini.

Rohlfs, Gerhard (1937), La struttura linguistica dell’Italia, Leipzig, Keller (poi in Id., Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia, Firenze, Sansoni, 1990 2, pp. 6-25).

Sabatini, Francesco (1997), L’italiano: dalla letteratura alla nazione. Linee di storia linguistica italiana, Firenze, .

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dialetto, usi letterari del di Nicola De Blasi - Enciclopedia dell'Italiano (2010) dialetto, usi letterari del

1. Introduzione

L’uso letterario del dialetto va considerato in rapporto alla scrittura nella lingua letteraria comune, così come la stessa nozione di dialetto è complementare a quella di lingua. Nella storia linguistica italiana, che si muove tra unità e molteplicità, la tendenza a una lingua come bene comune e la vitalità di variegate tradizioni locali (per i rinvii bibliografici relativi alle diverse aree, vedi i capitoli regionali di Cortelazzo et al . 2002) rientrano in un medesimo orizzonte e non comportano contrapposizione esplicita, poiché «l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio» (Contini 1984 2: 611). Le letterature in dialetto (Beccaria 1975; Haller 2002) pertanto non sono espressione di un’altra Italia, né tanto meno di gruppi etnici perdenti rispetto a un’altra dominante popolazione di lingua diversa.

Il nesso con la letteratura in italiano risalta nella stessa nozione di «letteratura dialettale riflessa», fissata in un saggio di Croce, punto di riferimento non rinunciabile, in cui si criticava un precedente intervento di Ferrari (1839-1840), che prospettava una valenza oppositiva delle letterature in dialetto (in sé ritenute anche popolari) rispetto alla letteratura in italiano, tanto che ad esse era attribuito un «ascoso rancore», laddove la letteratura in dialetto implica la condivisone di una norma letteraria vista «non come un nemico, ma come un modello» (Croce 1952: 358).

2. Linee storiche

Un problema di fondo riguarda l’avvio dell’uso riflesso del dialetto, che Croce colloca dopo l’avvenuta codificazione bembesca ( ➔ Bembo, Pietro ); invece, secondo Contini (1984 2: 367) «la polarizzazione di poesia dialettale spontanea e riflessa» risalirebbe addirittura alle origini, tanto che per Castellani (1973: 28) anche l’ Indovinello veronese (VIII sec.), fondato sul «confronto tra lo scrittore e il contadino», tra la penna e l’aratro, con consapevole inserimento di volgarismi, «potrebbe quasi essere considerato un testo di letteratura dialettale riflessa», come scelta espressiva rispetto al latino. Nel 25

duecentesco Contrasto di Cielo d’Alcamo sono accostate due diverse soluzioni di stile (Monteverdi 1954: 106-121; Stussi 1993: 9), l’una di tono elevato (per es., nei primi due versi), l’altra con tratti linguistici locali, come nel terzo verso («Tràgemi d’este focora se t’este a bolontate»), citato nel De vulgari eloquentia come esempio di differenza tra lo stile elevato e quello poetico parodico o medio. L’autore del Contrasto metterebbe in parodia un personaggio che non controlla l’interferenza tra due diverse modalità comunicative e di stile. In altro luogo, la parodia si configura «in improperium» di altri e del loro modo di parlare (dei marchigiani, nel caso del Castra nominato sempre nel De vulgari eloquentia ).

Nel Trecento il ricorso al dialetto come genere parodico o realistico coincide spesso con la differenziazione diatopica rispetto a un volgare più diffuso e collaudato in letteratura. Ciò presuppone una diversa valutazione delle lingue volgari, esplicita nella celebre dichiarazione (1332) del retore padovano Antonio da Tempo: Lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis; non tamen propter hoc negatur quin et aliis linguis sive idiomatibus aut prolationibus uti possimus (cap. LXXV). Nell’accostamento tra lingua propria e altrui un ruolo centrale è svolto dai toscani, che per primi osservarono altre varietà da un punto di vista letterario. Esemplare è l’ Epistola napoletana di ➔ Giovanni Boccaccio (Sabatini 1996: II, 425-466), preceduta da una motivazione in toscano, rispetto alla quale l’occasionale ricorso al napoletano è funzionale alla rappresentazione di fatti, persone e parole di uno spazio geograficamente delimitato. La stessa cosa vale per Francesco Vannozzo, padovano di origine aretina, che, tra veneziano, padovano rustico o pavano, e toscano, si muove nella prospettiva di un uso riflesso (Paccagnella 1994: 514).

Dal momento che la connotazione dialettale dipende dalla percezione e dalla competenza dell’autore, il ricorso a un medesimo volgare per alcuni acquista il contrassegno della dialettalità (di genere), mentre è non marcato e in senso stretto non dialettale per chi adotta l’unico volgare che conosce. La prima soluzione ricorre nello sperimentalismo delle corti quattrocentesche in cui vige un repertorio che comprende latino letterario, latino documentario, volgare locale, volgare letterario diversamente dosato con il toscano, volgari di altra provenienza, anche non italiani ( ➔ Castiglione, Baldassarre ; ➔ koinè ). La curiosità verso forme diverse suggerisce tra l’altro le parodie di Luigi Pulci o Benedetto Dei (Folena 1991), o la ripresa del bergamasco, imitato dal veronese Giorgio Sommariva o citato a Genova negli Strambotti a la bergamasca (Paccagnella 1994: 516). La dialettica tra volgare di prestigio e volgare

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rustico si concretizza nella Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici, mentre gli gliommeri napoletani, monologhi recitativi, alludono alla ➔ variazione diastratica tra letterati di corte e popolo cittadino.

Tra le Prose di Bembo (1525) e il Vocabolario della Crusca (1612), si definisce la codificazione di una lingua letteraria rispetto alla quale si configurano la nozione di dialetto e uno scarto linguistico dialettale

‘riflesso’, a partire dal padovano Ruzzante, «il più antico dialettale raggiunto dal canone» (Contini 1984 2: 612). Dal Seicento in poi la letteratura dialettale riflessa conosce una consacrazione definitiva, per cui la periodizzazione proposta da Croce non perde del tutto validità. Infatti «non si intende il senso della dialettalità barocca se non si coglie il rapporto che unisce la deviazione dialettale alla ricerca del peregrino, dell’inusitato, del meraviglioso» (Brevini 1999: 678). Al maggiore prosatore in dialetto, il napoletano Giovan Battista Basile, si deve infatti Lo cunto de li cunti , per Croce (1974: XXXIX) «il più bel libro italiano barocco». A partire da quest’epoca l’opzione dialettale permette di raccogliere la sfida di una scelta letteraria scaltrita, anche se apparentemente negata, come negli autori napoletani che indulgono al topos delle parole chiantute «solide, ben piantate» per la loro corposità popolare.

Si pone quindi il (falso) problema dell’autenticità del dialetto letterario: l’autore dialettale, in ogni epoca, non usa, pena l’incomunicabilità, una lingua inventata, ma persegue per iscritto scelte di genere e di stile, a partire da morfologia, fonetica, lessico e sintassi di una varietà reale, usata in genere solo nella comunicazione parlata. Per questa via, anche se con un certo distacco, non sempre parodico, e pur con il filtro di ogni scrittura letteraria, il mondo popolare entra in letteratura, come nel caso di Giulio Cesare Cortese, che osserva la plebe di Napoli con simpatia e «con un’attenzione quasi etnografica, ma anche con una vivacità mimetico-scenica» (Brevini 1999: 688).

La più evidente implicazione letteraria dell’uso riflesso dei dialetti è nel costituirsi di due monolinguismi complementari e distinti, per cui il ricorso al dialetto prescinde dalla lingua italiana, evitando gli accostamenti e le interferenze della lingua corrente. Al processo di occultamento di una lingua (quella italiana) si abbina talvolta lo stesso sdoppiamento con pseudonimo degli autori o perfino una doppia vita, visto per esempio che l’attività di Giulio Cesare Cortese si colloca in parte dopo la data della sua presunta morte (Fulco 1997: 844-850): per l’autore dunque il dialetto non è più lingua di altri, ma può diventare lingua di un altro sé stesso. Il plurilinguismo permane invece nella commedia cinquecentesca, in cui ai personaggi è conferita una tipizzazione linguistica funzionale al genere comico (Folena 1991) o

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in alcuni generi in cui si alternano lingue diverse ed è in seguito manifestazione ricorrente dell’espressionismo letterario (Segre 1974: 369-426).

L’affermazione della letteratura dialettale dipende anche dall’editoria ( ➔ editoria e lingua ), che favorisce la circolazione delle opere al di fuori del contesto di origine: ne derivano linee comuni alle diverse letterature dialettali italiane, come la traduzione in dialetto di autori italiani o classici (Tasso, Omero), il petrarchismo dialettale, la ripresa di generi alti con abbassamento comico, l’esaltazione dei diversi dialetti (milanese, bolognese, napoletano) condotta, per paradosso o per celia (Croce 1952: 358), da autori che sembrano «farsi beffe dell’ormai più che secolare questione della lingua» (Brevini 1999: 1741; cfr. anche Vitale 1988: 307-326); in qualche caso (come nel Prissiàn de : Lepschy 1978: 177-215) si nota una prima attenzione verso le caratteristiche grammaticali dei dialetti, frequente, anche per il lessico, dal Settecento in poi (Bruni & Marcato 2006).

Grazie al contatto con la letteratura italiana, Giovanni Meli, trasponendo la poetica dell’Arcadia in siciliano, in una lirica non marcata in senso comico, dà luogo a quadretti idilliaci segnati da una nuova e «suggestiva nota di humilitas » (Brevini 1999: 1523). Ancora nel Settecento, l’illuminista napoletano Ferdinando Galiani, storico del dialetto e promotore di una collana editoriale e di un vocabolario, rifiuta un uso comico del dialetto, auspicando il ricorso al napoletano in pluralità di usi scritti anche non letterari e non marcati. In alternativa a queste tendenze si costituiscono in varie forme, in Sicilia, a Napoli e in Veneto, rivendicazioni di usi dialettali fortemente connotati come popolari o plebei.

Nel Settecento il dialetto acquista un ruolo centrale nella scrittura per il teatro grazie a ➔ Carlo Goldoni , che invece di affermare una polarizzazione tra italiano e dialetto porta in scena (e nella pagina) «le infinite sfumature e varianti» della «viva realtà del veneziano parlato, capace di trapassare senza soluzione di continuità dal dialetto ‘sporco’ al dialetto ‘pulito’ alla lingua, di oscillare secondo i momenti espressivi e anche l’età dei parlanti» (Folena 1983: 98).

La soluzione goldoniana si espande ad altri generi letterari, quando in epoca romantica si avverte l’esigenza di dare voce a personaggi e storie della realtà popolare. Il milanese Carlo Porta, dopo aver sondato le potenzialità del dialetto in una traduzione parziale della Divina Commedia , fa parlare in prima

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persona personaggi umili come La Nineta del Verzee o Giovannin Bongee , «non per farci divertire alle loro spalle, ma per far emergere tutta la loro profonda umanità» (Chiesa & Tesio 1978: 29).

Dalla lettura di Porta sembra sia nata in Giuseppe Gioachino Belli l’idea di edificare «il monumento» della plebe di Roma. Per lui il romanesco, osservato e descritto con grande acume, è (diversamente dal milanese di Porta) «favella non di Roma ma del rozzo e spropositato suo volgo» (Belli 1961: 441-442). Il distacco rispetto al popolo che parla nei sonetti conduce peraltro a un ritratto credibile, sia per la visione del mondo veicolata dai «popolari discorsi svolti» nella poesia, sia per la lingua (Serianni 1989: 314; Bertini Malgarini & Vignuzzi 2002: 1014).

Dopo l’Unità, mentre si temeva la crisi dei dialetti, un definitivo salto di qualità si determina grazie al napoletano Salvatore Di Giacomo, che conferisce alla poesia in dialetto temi e prospettive della letteratura europea. Con lui il poeta parla in prima persona e sente empaticamente la realtà osservata. Secondo Contini (1968: 414) la voce di Di Giacomo «è in assoluto una delle più poetiche del suo tempo, forse la maggiore del periodo chiuso tra i Canti di Castelvecchio e Alcyone e i poeti nuovi». Con il suo coinvolgimento individuale diretto, che risalta perfino nel particolare realismo impersonale della raccolta ’O Funneco Verde (Di Giacomo 2009), egli dà avvio alla poesia novecentesca in dialetto, se si accetta la distinzione (Pancrazi 1942: 263) tra poesia dialettale (che si qualifica per la scelta linguistica di genere) e poesia in dialetto (che si qualifica per dignità della poesia in sé). Grazie alla canzone molti versi digiacomiani hanno raggiunto un pubblico ampio e anche popolare, cosa davvero insolita per le opere dialettali, che, al di là di enunciazioni di principio, incontrano per lo più i favori di un (limitato) pubblico colto.

In linea con una poetica verista, il dialetto favorisce a fine Ottocento l’osservazione della sofferta realtà degli emarginati, come gli scugnizzi napoletani (Ferdinando Russo), o delle misere condizioni dei migranti, come nel veronese Berto Barbarani (De Blasi 1999).

3. Il Novecento

Nel Novecento è stato percepito (e forse enfatizzato) il declino dei dialetti in rapporto al nuovo contesto sociale. Ne è derivata un’imprevista fortuna letteraria dei dialetti, che, in quanto lingue di un

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mondo scomparso (Brevini 1990), sono sembrati strumenti adeguati all’espressione di un disagio esistenziale vissuto come dramma personale e collettivo. Topos novecentesco è quindi il recupero delle parole perdute nell’esperienza personale degli autori più che nella realtà, visto che tuttora più della metà dei parlanti dichiara di usare i dialetti (dati tratti da ISTAT 2007), mentre la fortuna dei dialetti si avverte attraverso altri canali (canzone, televisione, cinema, Internet). Il senso di perdita ha indotto i poeti a riscoprire i dialetti nativi, spesso di centri piccoli o piccolissimi (Mengaldo 1994): una costante novecentesca è appunto l’approdo alla letteratura di idiomi estranei alle tradizioni letterarie dei dialetti più collaudati.

Per molti il dialetto diventa voce privilegiata della poesia, anche in alternativa (secondo un altro topos) a un italiano ritenuto ormai logoro. Altri autori si muovono tra adesione mimetica alla realtà, tono moraleggiante tradizionale e soluzioni sperimentali. Come in passato alcuni autori scrivono anche in italiano; pochi ricorrono anche al latino: il padovano Fernando Bandini vede ugualmente distanti, come lingue morte, sia il dialetto, sia il latino classicheggiante e metastorico dei suoi poemetti (Cucchi & Giovanardi 1996: 616), mentre per Michele Sovente (Reina & Ravesi 2000: 1234 e 1335) sono lingue palpitanti sia l’italiano, sia il dialetto di Cappella, frazione di Monte di Procida (usato significativamente in luogo del napoletano della tradizione), sia il latino, percepito come vivente nei paesaggi archeologici e vulcanici dei Campi Flegrei.

Più che in passato il dialetto entra anche nella prosa, con l’inserimento di voci dialettali tanto nella narrazione quanto nei dialoghi, come segno di un’adesione letteraria alla realtà o come manifestazione di espressionismo, dagli inserti plurilingui di ➔ Carlo Emilio Gadda fino all’interferenza letteraria di italiano e siciliano in Andrea Camilleri. Come già in Goldoni, infine, ma in un contesto ormai mutato e con diffusione in passato impensabile (si pensi alla televisione), il teatro novecentesco si apre al dialetto nelle sue varie combinazioni con l’italiano per dar luogo a rappresentazioni verosimili (nei napoletani Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo), oppure a uno sperimentalismo variamente orientato in senso espressionistico (dai milanesi Dario Fo e Giovanni Testori alla siciliana Emma Dante).

Tra dialetto proprio e altrui, con intento parodico o mimetico, per ricerca di verosimiglianza, attenzione al popolo, o per testimonianza etnografica, con un’adesione lirica individuale o per dar voce ai diversi aspetti di una realtà plurilingue, o anche per sofisticato sperimentalismo, l’uso letterario del dialetto si

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articola nei secoli in una serie di opzioni diversamente combinate in rapporto ai contesti storici e grazie all’incontro con grandi personalità, che, senza proporre l’angusta esaltazione di una piccola patria, hanno perseguito strade nuove nella cultura letteraria italiana. In ogni caso si è sempre rivelata valida la formulazione di Carlo Porta, il quale osservava che le parole di una lingua hin ona tavolozza de color, che ponn fà el quader brutt, e el ponn fà bell segond la maestria del pittor

(Carlo Porta 1975: sonetto VI, vv. 2-4).

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dialettologia italiana di Ugo Vignuzzi - Enciclopedia dell'Italiano (2010) dialettologia italiana

1. Origini e sviluppo

Già ➔ Dante (nei capitoli ix-xv del libro I del De Vulgari Eloquentia , composto presumibilmente entro il 1305) tracciò un quadro memorabile dell’Italia dialettale dell’epoca, differenziato su base geografica (Grassi, Sobrero & Telmon 1997: 71-72; cfr. Benincà 1988: 27-29), individuando quattordici varietà principali, ma con l’acuta avvertenza che, a considerare anche le varietà «secondarie e minime, in questo solo piccolissimo cantone del mondo […] si potrebbe giungere a mille parlate e anche oltre» (I, x, 7, Alighieri 1998: 87; cfr. Cortelazzo 1980: 28-29). Bisogna arrivare però al primo Ottocento perché emerga un diffuso interesse ‘scientifico’ per la descrizione delle varietà dialettali, già nel 1808 con la ripartizione dialettologica tracciata da C.L. Fernow (Benincà 1988: 53-55; Stussi 2006: 32-34), che «inizia a proporre alcuni tratti linguistici come caratterizzanti delle singole aree» (Loporcaro 2009: 59), poi con il milanese Francesco Cherubini (con un’inedita Dialettologia italiana ; cfr. Danzi 2001) e soprattutto con Bernardino Biondelli e il suo Saggio sui dialetti galloitalici (1853-1854). Il Saggio è importante non solo per la teoria del ➔ sostrato , desunta da Carlo Cattaneo, ma per una prospettiva di ricerca che muove dall’assunto dell’‘autonomia’ dei dialetti, che sono considerati a sé stanti e dunque non subordinati alla lingua. Biondelli mostra inoltre tra i primi una speciale attenzione alla variabilità sociale (Santamaria 1981; Timpanaro 1969 2: 246-256), anche e soprattutto attraverso l’iniziativa di documentare i dialetti con inchieste sul campo, mediante la raccolta delle versioni della parabola evangelica del figliol prodigo (Luca 15, 11-32) iniziata in epoca napoleonica (Grassi, Sobrero & Telmon 1997: 37-47).

La dialettologia italiana si affermò però come disciplina scientifica, in parallelo alla linguistica moderna, nella seconda metà dell’Ottocento con ➔ Graziadio Isaia Ascoli , in particolare coi suoi Saggi ladini (Ascoli 1873), apparsi nel primo numero dell’«Archivio glottologico italiano» da lui stesso fondato. I Saggi ladini possono essere considerati il vero e proprio atto di nascita della grammatica storica dei dialetti, indagati rigorosamente su base comparativa con il latino, un procedimento descrittivo che è rimasto canonico nella dialettologia italiana (Grassi, Sobrero & Telmon 1997: 47-50). Su questa base 35

Ascoli riuscì a individuare per primo unità areali di primaria importanza nell’articolazione della Romània, quali appunto quella ladino-retoromancia e quella che pochi anni dopo egli stesso, tracciandone di fatto le isoglosse che la caratterizzano, denominò franco-provenzale (Ascoli 1878).

Sempre grazie all’individuazione di tratti linguistici caratterizzanti in chiave geografica (definiti isofone ; ➔ isoglossa ), Ascoli realizzò anche la prima descrizione scientifica dell’Italia dialettale ( ➔ aree linguistiche ), in cui al rigoroso metodo storico-comparativo si affiancava l’utilizzo sistematico del concetto di ➔ sostrato cui era pervenuto tramite la lettura giovanile delle opere di Cattaneo: la sua però è tutt’altro che un’adesione incondizionata ai suoi predecessori: egli rimprovera infatti al Cattaneo e al Biondelli un’eccessiva disinvoltura nel connettere le particolarità linguistiche riscontrabili nelle parlate vive con la presenza delle popolazioni che hanno abitato l’Italia preromana (Grassi, Sobrero & Telmon 1997: 51-22, con rinvio ad Ascoli 1864: 98; per le successive fasi del concetto ascoliano di sostrato cfr. Silvestri 1977-1982)

Sulla scia di Ascoli e del suo modello storico-comparativo, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo presero grande vigore gli studi dialettali: nacquero iniziative come quella della Società filologica romana, fondata da Ernesto Monaci, per la descrizione dei dialetti di Roma e del Lazio: un’impresa non soltanto descrittiva ma anche di didattica della lingua nazionale a partire dai dialetti (cfr. Monaci 1918 e, per un interessante caso di applicazione alla scuola elementare, Norreri 1905 sul dialetto di Castel Madama). Non è un caso che una delle prime descrizioni scientifiche complete di un dialetto dell’Italia centro-meridionale si debba a un allievo dello stesso Monaci, Bernardino Campanelli (1896). Per la documentazione dei dialetti di Roma e del Lazio Monaci aveva pensato alla traduzione della novella di Boccaccio La dama di Guascogna e il re di Cipro (Dec . I, 9; cfr. Merlo 1930): l’idea di tradurre un racconto breve nei diversi dialetti risale a Lionardo Salviati che nel 1584, nell’ambito di uno studio complessivo sul Decameron e riprendendo suggestioni di ➔ Benedetto Varchi (Salviati 1584), aveva scelto questa novella per la traduzione in dodici volgari (Cortelazzo 1980: 53-55). Nel 1875, negli anni dell’Unità d’Italia e nel cinquecentenario della morte di Boccaccio, l’erudito livornese Giovanni Papanti ne aveva raccolto una traduzione nei dialetti di 704 località italiane (Papanti 1875). Invece la tradizione della versione dialettale della parabola del figliuol prodigo (cfr. sopra) fu ripresa fra gli altri da Matteo Melillo per il suo Atlante fonetico pugliese , e fu anche inserita nei materiali da indagare per la Carta dei

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dialetti italiani (v. oltre; per le inchieste dell’ALI, su cui vedi oltre, cfr. Campagna et al . 2007). Tra le versioni realizzate nell’Ottocento per la documentazione dei dialetti si ricorderanno anche le traduzioni del Vangelo di San Matteo, promosse da Luigi Luciano Bonaparte tra il 1858 e il 1866 (Foresti 1980); spicca per l’assenza programmatica di letterarietà l’iniziativa di Attilio Zuccagni-Orlandini, che nel 1864 pubblicò una Raccolta di dialetti italiani con le traduzioni di un dialogo tra un padrone e un suo servitore (Zuccagni-Orlandini 1864; cfr. da ultimo Loporcaro 2009: 56).

Fra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento si collocano figure eminenti quale quella del ticinese Carlo Salvioni, grande studioso, fra l’altro, dei dialetti e dei volgari dell’Italia settentrionale: si ricorderà almeno la sua fonetica del milanese (Salvioni 1884), prima monografia sul dialetto di una grande città; Salvioni fu anche direttore, dalla morte di Ascoli (1901), dell’«Archivio glottologico italiano», e fondatore, nel 1907, del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana . Altra figura di spicco dei primi decenni del secolo è quella di Clemente Merlo, al quale si debbono alcuni tra gli studi ancora oggi fondamentali per la descrizione dei dialetti centro-meridionali, soprattutto per l’analisi del piano fonologico: in particolare la fonologia del dialetto di Sora, con il memorabile quarto capitolo dedicato alla ripartizione dei dialetti centro-meridionali (Merlo 1920), e quella del dialetto di Cervara (Merlo 1922; ➔ Italia mediana ). Nel 1924 Merlo fondò la rivista «L’Italia dialettale», con un titolo che si riallaccia direttamente alla tradizione ascoliana, a tutt’oggi una delle più prestigiose riviste nel campo della dialettologia italiana.

2. Il Novecento

Agli inizi del XX secolo, però, il panorama teorico-metodologico della dialettologia era stato profondamente innovato da un lato dalla ➔ geografia linguistica ispirata a Jules Gilliéron, con le imprese degli ➔ atlanti linguistici , e dall’altro dalla scuola Wörter und Sachen («parole e cose») di H. Schuchardt (Massobrio 1990). Proprio su queste basi i linguisti svizzeri Karl Jaberg e Jakob Jud dettero vita alla grande impresa dell’ Atlante linguistico ed etnografico italo-svizzero (Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz ), conosciuto in Italia come AIS (Jaberg & Jud 1928). Il progetto prevedeva in un primo momento l’esplorazione, con le inchieste svolte da un unico indagatore, dei dialetti della Svizzera italiana e romancia e di quelli confinanti dell’Italia settentrionale; in un secondo momento l’indagine fu

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estesa a tutta l’area linguistica italiana (con esclusione della Corsica, già indagata da Gilliéron ed Edmont, e più tardi da Bottiglioni: Massobrio 1990: 141-152).

I raccoglitori dell’AIS furono tre, Paul Scheuermeier per l’Italia settentrionale e centrale, Gerhard Rohlfs per l’Italia meridionale e la Sicilia, e Max Leopold Wagner per la Sardegna, per un totale di 405 punti di inchiesta (Massobrio 1990: 86-98). Va sottolineato che Gerhard Rohlfs è stato uno tra i più importanti studiosi dei dialetti italiani, non solo meridionali: a lui si deve la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti , grande profilo complessivo del panorama linguistico italiano (Rohlfs 1949-1954; per un panorama della morfosintassi dialettale in chiave generativa cfr. ora Manzini & Savoia 2005), mentre Wagner, autore del Dizionario etimologico sardo (DES; Wagner 1960-1964) rimane tuttora il più importante studioso delle varietà del sardo ( ➔ sardi, dialetti ).

Al progetto svizzero dell’AIS si contrappose nel giro di pochi anni quello dell’ Atlante linguistico italiano (ALI), concepito da Matteo Bartoli e proseguito dalla sua scuola torinese, in particolare dal suo allievo Benvenuto A. Terracini, con il concorso di Ugo Pellis che coinvolse la Società filologica friulana «G.I. Ascoli» di Udine; il primo e originariamente unico raccoglitore fu lo stesso Pellis. Dopo la morte di Pellis e di Bartoli e l’interruzione delle inchieste a causa della seconda guerra mondiale, le indagini sul campo ripresero con Raffaele Giacomelli, Corrado Grassi, Giorgio Piccitto, Giovanni Tropea, Temistocle Franceschi e Michele Melillo (alcuni tra questi sono tra i maggiori dialettologi italiani della seconda metà del Novecento), e terminarono nel 1964, per 1000 punti d’inchiesta (Massobrio 1990: 99- 111). Dal 1995, sotto la direzione di L. Massobrio, si sono iniziati a stampare i volumi dell’opera (cfr. http://www.atlantelinguistico.it). Altre importanti opere di carattere geolinguistico sono l’ Atlante linguistico del ladino dolomitico e dei dialetti limitrofi (ALD) di H. Goebl (cfr. http://ald.sbg.ac.at/ald), e la Carta dei dialetti italiani (CDI) di O. Parlangeli, avviata negli anni Sessanta del Novecento e purtroppo rimasta incompiuta (Grassi, Sobre-ro & Telmon 1997: 296, n. 11 e 349). Alla stessa prospettiva geolinguistica, ma in chiave regionale, si rifanno, fra gli altri (Loporcaro 2009: 183-215), l’ Atlante storico- linguistico -etnografico friulano (ASLEF), diretto da G.B. Pellegrini, l’ Atlante lessicale toscano (ALT; http://serverdbt.ilc.cnr.it/altweb) di G. Giacomelli, l’ Atlante linguistico ed etnografico del Piemonte occidentale (ALEPO: www.alepo.it), a cura di T. Telmon e S. Canobbio (cfr., anche per una panoramica complessiva, Loporcaro 2009: 30-32), e il recente Atlante linguistico della Basilicata (ALBA) di P. Del Puente ed E. Giordano (Del Puente 2008). È invece un’opera a carattere tematico l’ Atlante linguistico dei

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laghi italiani (ALLI) di G. Moretti (http://www.unipg.it/difilile/Cart_Progetto_ALLI/Progetto_Alli.htm; per un quadro complessivo alla fine del XIX secolo cfr. Ruffino 1992).

A partire dal secondo dopoguerra un notevole ruolo ha svolto nell’indagine del siciliano e delle sue varietà il Centro di studi filologici e linguistici siciliani, oggi diretto da Giovanni Ruffino, che ha pubblicato opere quali il Vocabolario siciliano (VS) fondato da Piccitto e poi diretto da Tropea e sta pubblicando l’ Atlante linguistico siciliano (ALS, un atlante ‘di nuova generazione’, per cui cfr. Ruffino 1995).

3. Contatti e confronti

A cavallo tra i due secoli, anche per effetto dei nuovi approcci teorico-metodologici della ricerca, la dialettologia, muovendo dal contesto geolinguistico, si è venuta sempre più confrontando e per certi aspetti integrando con la sociolinguistica, dando spazio a problematiche e studi che approfondissero tutti i fattori di variazione. Questa linea ha assunto particolare importanza in quella che è definita la dialettologia urbana , una prospettiva che pone in primo piano lo studio della situazione dialettale nelle città, con le loro reti sociali molto aperte e particolarmente esposte alle innovazioni (Marcato 2007 2: 81- 88; Ruffino & D’Agostino 1995). Così nella «Rivista italiana di dialettologia» (RID), fondata a Bologna nel 1977 da un gruppo di giovani studiosi che facevano capo a Fabio Foresti e Lorenzo Còveri, sono esplicitate le nuove tendenze sociolinguistiche della dialettologia italiana che emergevano in quegli anni. Tengono conto di queste acquisizioni metodologiche sia l’ Atlante linguistico della Campania di E. Radtke (ALCam; http://www.alcam.de/contatto.htm; Radtke 1997), sia il progetto, che ha promosso notevoli studi soprattutto per l’area del Salento, del Nuovo atlante dei dialetti e dell’italiano regionale (NADIR) di A.A. Sobrero (Sobrero, Romanello & Tempesta 1991). Verso la fine del XX secolo si sono cominciati ad applicare allo studio dei dialetti italiani (in particolare per quel che riguarda la morfologia e la sintassi) anche i principi di analisi elaborati nel quadro della linguistica generativa (cfr. Benincà 1994).

«Prodotto estremo della prospettiva geolinguistica» (Loporcaro 2009: 22-23), di impostazione numerica e statistica, è invece la dialettometria , sviluppata soprattutto da H. Goebl e dalla sua scuola a Salisburgo

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(cfr. da ultimo Goebl 2008), «metodica che si ripropone di misurare e cartografare la distanza strutturale tra i diversi dialetti» a partire dai dati delle carte degli atlanti linguistici.

Un luogo di incontri e riflessioni di tipo anche metodologico è l’annuale (nel 1995, e poi dal 1999) convegno di Sappada -Ploden (in provincia di Belluno), ideato e promosso da Gabriella Marcato (di cui sono usciti numerosi volumi di Atti ). Vanno poi ricordati, all’estero l’importante Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona (Canton Ticino, Svizzera), nato nel 2002 dalla fusione del Centro di dialettologia della Svizzera italiana e dell’Ufficio dei musei etnografici e diretto da F. Lurà; e la fondamentale iniziativa del Lessico etimologico italiano (LEI), con ricchissima documentazione dialettale, ideato e realizzato a partire dal 1979 a Saarbrücken da Max Pfister (cui si affianca Wolfgang Schweickard) e dalla sua scuola (si veda la versione in linea, al momento [2010] incompleta, http://germazope.uni-trier.de/Projects/WBB/woerterbuecher/lei).

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isoglossa di Ugo Vignuzzi - Enciclopedia dell'Italiano (2010) isoglossa

1. Definizione

Si definisce isoglossa la linea immaginaria con la quale, mediante un’ipotesi metodologica, si uniscono i punti estremi di un’area geografica caratterizzata dalla presenza di uno stesso fenomeno linguistico (Grassi, Sobrero & Telmon 1997: 7, nota 9; ➔ geografia linguistica ). Questo fenomeno può essere di natura fonologica, e allora si parla di isòfona , morfologica ( isomòrfa ), sintattica, oppure lessicale (in quest’ultimo caso si parla di isolessi o, più di rado, di isòsema , ovvero isoglossa semantica ); con riferimento all’accentazione si può impiegare isòtona (Beccaria 1994: 403). Il concetto di isoglossa era stato introdotto fin dagli anni Settanta del XIX secolo da ➔ Graziadio Isaia Ascoli che, sul modello di (linea ) isobara , isoterma e isoipsa , coniò isofono per le isoglosse fonetiche; il termine però compare per la prima volta in J.G.A. Bielenstein, un dialettologo lèttone, nel 1892 (Chambers & Trudgill 1987: 135).

Di norma ci si riferice con isoglossa a una linea che nello spazio, distingue un’area linguistica che possiede un determinato fenomeno, dal territorio contiguo che non lo possiede: così, ad es., una delle isofone più rilevanti nella definizione dell’Italia dialettale è quella che traccia la linea meridionale (in base ai dati dell’AIS, Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale ; ➔ atlanti linguistici ) della sonorizzazione dell’occlusiva velare sorda intervocalica in ortiga da ŭrticam rispetto a ortica (v. fig. 1, da Rohlfs 1937).

Proprio da questo esempio si deve rilevare che:

(a) sulla carta geografica si traccia una linea che segna l’andamento del fenomeno nelle singole parole in cui esso si presenta, anche se poi nell’impiego comune della geolinguistica a livello astratto le isoglosse vengono riferite al fenomeno in generale;

(b) l’andamento della linea è condizionato nei fatti dalla griglia dei punti d’inchiesta, così che il tracciato della linea stessa dipende dall’ampiezza delle maglie della rete dei punti; 45

(c) la presenza del fenomeno nelle singole parole è normalmente condizionata anche da fattori sociolinguistici, difficilmente rappresentabili cartograficamente.

A tutto ciò andranno aggiunti gli effetti dell’interferenza in condizioni di contatto linguistico, per cui spesso a una situazione virtuale di gradatum , con confini ben individuabili (cioè di opposizione graficamente rappresentabile con una linea isoglossa), corrisponde nella realtà un continuum segnato da microvariazioni non riportabili su carta in forma semplificata.

In sostanza il concetto di isoglossa così come normalmente impiegato corrisponde a una geografia della semplificazione che è ben lontana dalla complessa realtà che è chiamata a descrivere.

2. Fenomeni

Con queste avvertenze, le isoglosse costituiscono uno degli strumenti più potenti e più largamente utilizzati della geografia linguistica. Così anche nella definizione dell’Italia dialettale, per la quale il ricorso alle isoglosse è stato fin dalle origini determinante ( ➔ aree linguistiche ): anzi, nel caso dei confini dialettali, come rilevava Pellegrini (1977: 19-20), si ricorre piuttosto a una serie di isoglosse che, «riunite e compatte», arrivano a costituire un fascio di isoglosse, come è il caso esemplare della cosiddetta Linea La Spezia-Rimini .

Tale linea non solo divide profondamente le varietà linguistiche italiane ma costituisce anche il ➔ confine linguistico di maggior rilievo dell’intera Romània. Secondo Rohlfs (1937) appaiono fondamentali in essa isoglosse come i limiti meridionali dei tipi ortiga «ortica» (-c- → -g-, cui si è già accennato), sal «sale» (caduta di -e), cavei «capelli» (-p- → -v-) e spala «spalla» (-ll - → -l-). Pellegrini nella Carta dei dialetti italiani precisa che «caratterizzano normalmente l’Italia superiore dalla Toscana e dalla sezione centro-meridionale i fenomeni di lenizione delle sorde intervocaliche che hanno per altro decorso assai vario da Rimini ad Ancona», fra cui la lenizione di -t- in -d- che nei termini per «prato» (AIS 1415) raggiunge Ancona («ma la lenizione ad es. in “ruota”, AIS 1227, offre una distribuzione del fenomeno assai diversa con una lenizione assai più ristretta»: Pellegrini 1977: 41). A ogni modo, il confine linguistico della La Spezia-Rimini è ben definito lungo il tracciato dell’Appennino tosco- emiliano, mentre appare meno netto nell’estremo ovest, in Lunigiana, con un andamento a ventaglio

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che è molto più evidente nella parte est, tra la Romagna (Rimini) e le Marche settentrionali, fino alle porte di Ancona (o meglio almeno fino a Senigallia), dove può arrivare addirittura a una distribuzione a macchie di leopardo (Franceschi 1979; Balducci 1984).

A Rohlfs si deve l’identificazione di un altro importante confine linguistico, la «Linea (o fascio di isoglosse ) Roma-Ancona» (Rohlfs 1937), che con un andamento a S passa nelle Marche per la valle dell’Esino, in Umbria lungo la valle del Chiascio e poi segue tutto il corso del Tevere tra Umbria e Lazio (escluse Perugia e Roma; Vignuzzi 1988: 607), incidendo profondamente sul quadro dialettale delle regioni dell’Italia centrale: da un lato la Toscana e i dialetti centrali con influssi toscani e/o settentrionali, dall’altro il blocco dei dialetti centro-meridionali (in quest’area, specificamente mediani). È da rilevare che il confine linguistico segnato dalla Linea Roma-Ancona è assai più incerto e sfumato, non solo per la rarefazione dei punti d’inchiesta dell’AIS nelle zone in questione, ma anche perché tra i fenomeni presi in considerazione da Rohlfs proprio alcuni dei più rilevanti, come quelli relativi alla metafonesi (➔ metafonia ), si ritrovano almeno in tracce anche al di là del limite settentrionale segnato dalla linea stessa; mentre è ben noto che il confine settentrionale di un altro tratto fortemente caratterizzante, l’ ➔assimilazione progressiva di -nd- in [nn] e di -mb- in [mm], non segue la valle del Tevere a sud di Perugia, ma prosegue verso ovest sino a sud di Talamone (Pellegrini 1977: 42; v. fig. 2 ).

Nella dialettologia italiana ci si riferisce talora anche ad altre possibili linee, ad es., nell’area alto- meridionale le cosiddette Cassino-Gargano e Salerno (o Eboli )-Lucera (Loporcaro 2009: 142-3, che rinvia ad Avolio 1990 e Avolio 1989), oppure le isoglosse che segnano il passaggio al tipo meridionale estremo, tra Puglia e Salento (la soglia messapica o linea Taranto-Ostuni ; v. fig. 3 ), e in Calabria, dove si hanno piuttosto una serie di isoglosse che digradano da nord verso sud, come la Diamante-Cassano e la Cetraro-Cirò Marina.

Naturalmente, quando si indaga nel dettaglio una determinata area geografica si rilevano di volta in volta ulteriori differenziazioni dialettologiche che possono mettere capo ad altrettante linee: si vedano, ad es., la suddivisione della Sardegna, oppure, nell’Italia settentrionale, quella tra area gallo-italica e area veneta.

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Per la corretta comprensione delle isoglosse è fondamentale il riferimento temporale, sia come dato storico all’origine della individuazione delle linee isoglosse, sia come vettore di processi che possono essere sempre in atto: è noto il caso del segmento orientale della La Spezia-Rimini in spostamento almeno dall’epoca tardo-medievale dalla Romagna verso Sud.

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fig. 1

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fig. 2

fig. 3

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corsi, dialetti di Annalisa Nesi - Enciclopedia dell'Italiano (2010) corsi, dialetti

1. Aspetti geografici e storici

La Corsica, seconda isola del Tirreno per estensione (8569 kmq), è situata a nord della Sardegna a una distanza di sole 7 miglia (Bocche di Bonifacio). Dista dalla costa toscana circa 50 miglia, e le isole dell’Arcipelago Toscano costituiscono un ponte che ha favorito la continuità dei contatti fra il versante orientale dell’isola e il continente.

La popolazione, di circa 300.000 abitanti, si distribuisce senza rilevanti differenze numeriche, e con maggiore concentrazione nelle città principali, fra i due dipartimenti di Haute Corse con capoluogo Ajaccio e Corse du Sud con capoluogo Bastia. L’isola è prevalentemente montuosa e la principale dorsale, le cui vette superano i 2000 metri, corre da nord-est a sud-ovest dividendo il territorio nelle due subregioni nord-orientale e sud-occidentale, tradizionalmente denominate Corsica suprana o Cismònte («di qua dai monti») e Corsica suttana o Pumònte («di là dai monti»). La conformazione dell’isola è alla base dello sviluppo di una cultura agro-pastorale modernamente integrata dalle attività legate al turismo.

La storia dell’isola è altrettanto rilevante per l’assetto linguistico quanto la sua geografia. Il periodo in cui Pisa amministrò la Corsica per conto della Santa Sede, dal secolo XI al XIII, segnò la penetrazione del toscano, soprattutto nell’area settentrionale e orientale. Nel 1284, a seguito della sconfitta dei pisani da parte dei genovesi nella battaglia della Meloria, la Corsica entrò nella sfera di Genova. Non mancarono le rivolte nel lungo periodo genovese, che si concluse con la cessione dei diritti sull’isola alla Francia (trattato di Versailles, 1768) e la successiva integrazione nell’Impero nel 1789. Nella prima metà del secolo XVIII i corsi tentarono la via dell’autonomia: Pasquale Paoli, con una rivoluzione di netto stampo illuministico, governò l’isola come stato indipendente dal 1755 fino alla sconfitta nella battaglia di Pontenovo nel 1769. Paoli stabilì la capitale a Corte, dotò la ‘nazione’ di esercito e marineria, di una costituzione redatta in lingua italiana, istituì l’università con sede nella capitale. Col passaggio alla Francia, l’università venne chiusa e riaprì soltanto nel 1980.

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2. Ripartizione dialettale

Per il quadro linguistico è rilevante la relazione col toscano, poi con l’italiano, come lingua letteraria e come lingua per la comunicazione ufficiale (dall’amministrazione alla giustizia alla scuola) fino alla sostituzione col francese (Nesi 1993; Durand 2003: 42-43). Il processo di francesizzazione avanzò lentamente nel corso dell’Ottocento e coinvolse soprattutto l’italiano che per gli intellettuali corsi (ma non solo, si pensi a Niccolò Tommaseo), legati culturalmente all’Italia, si identificava con la ‘lingua materna’.

In realtà la relazione fra corso e italiano era la stessa che l’italiano aveva con i dialetti nelle altre regioni della penisola e nelle isole, dove la dialettofonia era generalizzata e la lingua, posseduta da una minoranza, era soprattutto d’uso scritto. Il corso era, dunque, lingua del parlato quotidiano, esposta per contatto all’influenza del toscano, poi e in misura minore del genovese, scritta (o meglio trascritta) per la prima volta nell’Ottocento quando l’attenzione alla cultura tradizionale portò alla pubblicazione di canti popolari. Scrive Durand (2003: 44): «I dialetti còrsi, che certamente rientravano nella comunione linguistica precorritrice della lingua italiana si distaccano progressivamente da tale comunione». Questa deriva ebbe come conseguenza l’allontanamento dalle innovazioni dell’italiano (Marchetti 1989) e più generalmente dall’uso di questa lingua.

Nelle parlate autoctone (a parte Bonifacio, colonia ligure, e Cargesi, colonia greca) Falcucci (1875), cui si deve la prima descrizione, individuò due raggruppamenti dialettali il cui confine corre lungo la catena montuosa da nord-ovest a sud-est, e che si estendono rispettivamente «al di qua da’ monti» o «banda di dentro» e «di là da’ monti» o «banda di fuori»; e denominò il primo gruppo cismontano e l’altro oltremontano (chiamato però dai corsi pumuntincu ) ( fig. 1 ). Sono usati anche gli aggettivi supranu e suttanu , anche se oggi si ricorre più spesso a cismuntincu e pumuntincu . Successivi studi di Guarnerio (legati ai dati forniti da Falcucci), e soprattutto di Bottiglioni, basati sulle indagini condotte per l’ Atlante linguistico etnografico italiano della Corsica (ALEIC: cfr. Bottiglioni 1933-44), permisero una più definita distribuzione areale che colloca la varietà meridionale al di sotto della linea che da Calcatogghju, sul versante centro-occidentale, giunge a Sari di Portivechju, sul versante sud-orientale.

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Il rigido quadro bipartito che individua l’area settentrionale come toscanizzata e quella meridionale come conservativa, legata al sistema sardo, viene rivisto grazie all’acquisizione di nuovi dati: prima le indagini per la Carta dei dialetti italiani , poi quelle del Nouvel atlas linguistique de la Corse (NALC) danno un’immagine più articolata della realtà linguistica dell’isola. Melillo (1977) propone una quadripartizione: la «zona propriamente toscanizzata» situata a nord-est, che comprende la penisola del Capicorsu, Bastia e il suo territorio, il litorale fino ad Aleria, zona che indubbiamente è stata nel tempo la più esposta ai contatti con la penisola; la «zona di compromesso» situata a nord-ovest, con i territori di Corti, Vicu e Calvi, essenzialmente montuosa e con litorale di più difficile approdo; la «zona conservativa» a sud della linea già tradizionalmente individuata; la «zona arcaica» all’estremo sud con Sartene e il suo territorio (fig. 2 ).

Il quadro appare oggi molto più mosso per un sostanziale cambiamento dell’approccio: l’interpretazione dei dati linguistici prende in considerazione non solo i contatti con l’esterno determinati dagli eventi storico-politici, ma anche l’assetto del territorio con le realtà microregionali legate all’antica divisione in pievi, gli spostamenti per la transumanza dalla montagna alle pianure costiere, l’immigrazione, anche stagionale (soprattutto dalla Toscana appenninica), la continuità dei rapporti con la Sardegna settentrionale. La più recente divisione areale si deve a Dalbera-Stefanaggi (2002), che si avvale di una serie di approfonditi studi, dedicati soprattutto agli aspetti fonetici, e fondati sul ricco materiale della Base de données langue Corse (BDLC). L’assetto del vocalismo, corroborato da altri fenomeni, permette di individuare quattro aree: l’area corso-gallurese; l’area taravese; l’area centro- settentrionale; l’area capocorsina.

3. Principali caratteri delle varietà corse

3.1 Vocali e consonanti

L’area corso-gallurese unisce Corsica e Sardegna e comprende il sud della Corsica (regione del Sartenese) e il nord della Sardegna, essendo quello fra Gallura e Logudoro il solo confine netto (Dalbera-Stefanaggi 2002: 69). È caratterizzata da vocalismo tonico a cinque vocali, come nel sardo, risultato della perdita dell’opposizione quantitativa delle vocali latine omologhe, per cui: fīlu > filu, pĭlu > pilu, tēla > téla, pĕde > pédi, pāce > paci, măre > mari, nŏve > nóvi, flōre > flóri, fŭrnu >

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furru, mūlu > mulu. Le vocali chiuse si aprono in sillaba chiusa (ad es. pèttu, nòtte; ma non se seguite dagli esiti di -ll-: ad es. códdu «collo»), e davanti a nasale (ad es. catèna, vèntu, òmu, pònte). In sillaba chiusa da -r- la é diviene a (àrba «erba», fàrru «ferro»). Le vocali atone sono a, i, u e in posizione finale marcano la morfologia dei sostantivi: singolare femminile in -a (a dònna) e in -i (a mòrti «la morte»); singolare maschile in -u (u capu); maschile e femminile plurali in -i (i capi e i dònni).

L’area taravese è di transizione fra varietà meridionale e varietà nord-occidentale, e corrisponde all’incirca al bacino del fiume Taravu. Il vocalismo tonico è eptavocalico, con la seguente evoluzione dalla base latina: fīlu > filu , pĭlu > pèlu , tēla > téla , pĕde > pédi , pāce > paci , măre > mari , nŏve > nóvi , flōre > fióri , f ŭrnu > fòrru , mūlu > mulu . Nell’apertura delle vocali chiuse si ha un trattamento analogo a quello dell’area corso-gallurese soltanto davanti a -n- e davanti a -r- (catèna , òmu , arba ).

L’area centro-settentrionale, la più vasta, presenta un vocalismo tonico eptavocalico – di tipo toscano, ma con inversione degli esiti delle vocali aperte – caratterizzato da specificità sub-areali. Nei territori centro-occidentali si ha: fīlu > filu , pĭlu > pèlu , tēla > tèla , pĕde > pédi , nŏve > nóvi , flōre > fiòre , fŭrnu > fòrnu , mūlu > mulu . Soltanto la e chiusa si apre davanti a nasale ( catèna ), e passa ad a davanti a -r- (arba , farru ). In questi ultimi casi è caratteristica dei territori nord-orientali la presenza di [æ] in luogo di è (cat [æ] na , f[æ] ru ). Il vocalismo atono in genere presenta quattro vocali i, e, a, u.

L’area capocorsina era segnalata come portatrice di caratteri specifici già da Falcucci (1972: 573), parlante nativo proprio di quella varietà; studi recenti ne mettono in evidenza l’originalità. Anche se il vocalismo segue le condizioni dell’area centro-settentrionale, il caso di Morosiglia, sul versante nord- ovest della penisola, potrebbe rappresentare il relitto di una situazione un tempo più estesa (Dalbera- Stefanaggi 2002: 101). Qui in posizione tonica le vocali latine ĭ, ē ed ĕ si risolvono in é (per cui pélu , téla , péde ), mentre ǔ, ō e ŏ si risolvono in ó (per cui fórnu , fióre , fógu ). La é si apre davanti a -n- e -r- (bène «viene» ed èrba ); tuttavia anche la a seguita da -r-, o in altri specifici contesti, passa a è (bèrba «barba», bèrca «barca» e brècciu «braccio»; quest’ultimo fenomeno si verifica anche nell’area nord-orientale) ( fig. 3 ).

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Per quanto riguarda il consonantismo, la distribuzione dei fenomeni segue andamenti non sempre coincidenti con la partizione fin qui seguita. Ad es., il passaggio di -ll -, e talora di -lj -, al suono cacuminale [ ɖ], riscontrabile nel sardo e nei dialetti meridionali estremi d’Italia, è presente – seppure con varietà di realizzazioni – in tutta l’area meridionale dell’isola al di sotto dell’unica linea di divisione precocemente individuata (cfr. § 1): pé [ɖ]i «pelle», pa [ɖ]a «paglia». Seguono più o meno la stessa distribuzione l’esito -rr - da -rn -, per cui ai meridionali furru / fòrru «forno» e carri «carne» corrispondono i centro-settentrionali fòrnu , carne / chèrne ; e il mantenimento della distinzione fra b e v in posizione iniziale, per cui si ha bónu e vinu contro bónu e binu (Dalbera-Stefanaggi 1991: §§ 246, 247). Tipica delle varietà centro-settentrionali del versante orientale è l’assimilazione di -ld- che passa a -ll - (callu «caldo»). Fatta eccezione per l’area meridionale, con gradi diversi e diversa distribuzione, si assiste all’indebolimento delle consonanti sorde e sonore in posizione intervocalica sia all’interno della parola che in fonosintassi. Prendendo ad es. solo alcune consonanti, si nota che nell’area centro-settentrionale è caratteristica la sonorizzazione: u gabu «il capo», u béde «il piede», a sèda [a ˈzεda] «la seta», a dèla «la tela», a nòge «la noce», u gélu «il cielo», u vógu «il fuoco», u góllu «il collo». Le consonanti sonore possono presentarsi come spiranti o cadere a seconda delle sub-varietà: a [β] òcca e a òcca «la bocca», u nó [ð] u e u nóu «il nodo».

3.2 Morfosintassi

Caratteri comuni alle due aree – considerati indicatori della cosiddetta corsité, dunque riconoscibili e riconosciuti come identificatori di lingua secondo Jean-Baptiste Marcellesi (ma cfr. Thiers 1993: 254- 255) – pertengono sia al livello fonetico sia, soprattutto, a quello morfosintattico. La finale u del maschile singolare, per esempio, è diffusa in tutte le parlate corse, ed è un ‘elemento bandiera’, segnalato precocemente fin dai primi resoconti di viaggiatori (Nesi 2002: 961). Si accompagna alla tendenza generale a chiudere le vocali atone (nimìcu «nemico», curtellu «coltello»), o divenute tali per spostamento dell’accento (córciu «povero, meschino», curciaréllu «poveretto, meschinello»). Lasciando da parte l’antecedente base latina e considerando soltanto il risultato, sono presenti le occlusive dorso- palatali sorda e sonora rese in ortografia con chj [ ɕ] e ghj [ ɟ], e sempre intense se post-toniche: chjamà [ɕaˈma] «chiamare», ghjoculu [ ˈɟ ogulu] «gioco», ochju [ ˈoɕ:u] «occhio», piènghje [ ˈpjεnɟe] «piangere», aghja [ ˈaɟ:a] «aia» (Dalbera-Stefanaggi 1991: 204-205; Thiers 1993: 254; Durand 2003: 142-146).

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L’infinito del verbo è ovunque apocopato, per cui avè , pudè , cantà ; le aree settentrionale e meridionale divergono per la vocale finale: «leggere» è rispettivamente lége e légia ; si ha ritrazione dell’accento come in parte «partire», dorme «dormire». La formazione del condizionale separa il nord ( cantarebbe , sintesi di infinito + perfetto di avere ), dal sud ( cantarìa , sintesi di infinito + imperfetto di avere ). L’articolo determinativo è generalmente uniforme sul territorio: davanti a consonante u per il maschile singolare, i per il plurale, a per il femminile singolare, e per il plurale; davanti a vocale l per tutti i generi e i numeri. Il capocorsino presenta lu , li , la , le (variante anche del corso letterario, su cui avrà influito il contatto nel tempo con l’italiano soprattutto come modello scritto). Le preposizioni articolate si presentano con e senza l: ad es., di lu e d’u «dello». Per quanto riguarda i pronomi soggetto, fatte salve le differenze vocaliche, la prima persona singolare – dal latino ĕgo – si realizza come eu , eju , eghju ; la terza persona nei due generi e nei due numeri – dal dimostrativo latino ĭlle – si realizza ellu , elli , ella , elle , e con diverso esito fonetico in area meridionale, iddu , iddi , idda , iddi .

Nel sistema dei ➔ clitici si segnala la preferenza per l’ordine accusativo-dativo in posizione preverbale (lu mi dai «me lo dai»); in posizione postverbale la situazione è oggi più variabile (dallumi e dammilu «dammelo»: Durand 2003: 208); in area urbana, segnatamente Ajaccio, ti la dicu , dimmila (Dalbera-Stefanaggi 2002: 44). L’impersonale del verbo si realizza col pronome indefinito omu nell’area settentrionale ( omu po dì «si può dire»; omu sa chi «si sa che»), con si nell’area meridionale ( si po dì , si sa chi : cfr. Dalbera-Stefanaggi 2002: 43). Con i nomi di parentela si ha l’enclisi del possessivo, per cui babbitu «tuo padre», mammata «tua madre». L’oggetto diretto animato è ovunque introdotto dalla preposizione a: chjama à Marianghjula , chjama à calchissia «chiama qualcuno».

3.3 Lessico

Per il lessico si segnala la presenza di ➔ geosinonimi che si spartiscono il territorio: il tipo lessicale latino cane occupa l’area settentrionale, e il prelatino ghjacaru, un tempo forse più diffuso, quella meridionale; maio, maiori «grande» si distribuisce nel centro-sud e in parte del nord, interrotto da grande; ai nord-occidentali caccaru «nonno», caccara «nonna», corrispondono i centrali babbònu, mammòna, e i sud-orientali misiau, minanna (Giacomo-Marcellesi 1978). Vengono ricondotte al periodo genovese le forme lavéllu «lavandino», baìna «ardesia», carrughju «vicolo»; si inseriscono in un’ampia area che include le isole dell’alto Tirreno, e variamente Provenza e Liguria, parole come tònde

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«tosare», travaghje «lavorare», murta / mòrtula «mirto»; fitonimi relativi a piante spontanee, come lamàghju «rovo» e murza «elicriso», coincidono con quelli delle isole toscane; frònda «foglia», véculu «culla», muchju «cisto» sono variamente condivisi con dialetti mediani e meridionali.

La toponomastica e le denominazioni del terreno testimoniano lo stadio prelatino: cala «spelonca», pènta «pendio scosceso», pentòne «grossa pietra, masso», ghjàrgalu «borro»; così come i fitonimi caracutu «pungitopo», talavéllu «asfodelo» e gli zoonimi muvra «muflone» e il già citato ghjacaru .

I fenomeni descritti permettono di inserire le varietà corse nella compagine dei dialetti italoromanzi, con i quali si accordano in modo vario. L’indubbia toscanizzazione dell’area settentrionale (ad es. nel vocalismo tonico) e la presenza di tratti coincidenti col toscano antico (ad es. l’impersonale con omo ; pòltru «puledro») e anche marginale (ad es. l’enclisi del possessivo attestata in Garfagnana e all’Elba) sono stati determinanti per associare il corso al toscano nelle classificazioni e, in certo modo, per metterne in secondo piano l’originalità. Gli studiosi, tuttavia, hanno rilevato subito la continuità col sardo nell’area meridionale e ipotizzato una maggiore unità linguistica dell’isola precedente il periodo toscano, così come hanno individuato concordanze con i dialetti meridionali (ad es. la sonorizzazione delle consonanti sorde). Recentemente è stata avanzata l’ipotesi di un’area intertirrenica che accorperebbe le isole e l’Italia meridionale (Nesi 2002: 968-969; Durand 2003: 29-30).

4. Il corso di fronte all’italiano e al francese

È stata a lungo opinione corrente che in Corsica si parli italiano o che il corso stesso sia sostanzialmente italiano. Durante il fascismo, le rivendicazioni irredentiste, non prive di sostegno da parte degli stessi corsi, veicolarono un’immagine di italianità dell’isola che poggiava anche sull’identità linguistica.

Già negli anni ’20 del Novecento movimenti autonomisti prendevano le distanze dal francese, ma anche dall’italiano, per affermare l’autonomia del corso; ma è a partire dagli anni ’60 e ’70 che il discorso sull’identità pone al centro la lingua corsa e la sua standardizzazione, con i problemi che la varietà interna comporta, fino a posizioni che riconoscono e accettano la « multidialettalità nella

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codificazione» (Durand 2003: 82). Nella quotidianità, quando il parlante abbia a disposizione i due codici, corso e francese, si assiste a un cambio dall’uno all’altro ( ➔ bilinguismo e diglossia ; ➔ commutazione di codice ) dipendente dall’argomento e legato – seppure in modo non vincolante – alla classe generazionale (Grob 1987).

Non si hanno testimonianze antiche di corso se non per l’affiorare di tratti locali in scritture che gravitano prima in area pisana e poi genovese, e dunque volgari o italiane; e il problema della resa ortografica si pose in relazione all’interesse per i testi della tradizione orale. Poco prima della metà dell’Ottocento i canti popolari dell’isola furono raccolti e pubblicati da Salvatore Viale e da ➔ Niccolò Tommaseo ; la grafia adottata era modellata su quella italiana. Si trattava soprattutto di vóceri e lamenti , canti d’accompagnamento al rito funebre improvvisati su canone. Tuttavia la tradizione isolana ha un repertorio più vasto e vivace, oggi riscoperto: in rima i chiama è risponde , le nanne e le filastrocche , in prosa le favole ( fole ) e i racconti arguti e scherzosi (gli stalbatoghji , da stalbà «accadere, succedere»).

A fine Ottocento iniziò un processo di affermazione del corso scritto al quale concorsero poeti e scrittori; in particolare si ricorda Santu Casanova, poeta, fondatore del primo giornale in corso «A Tramuntana», e Sebastianu Dalzeto, autore del romanzo Pesciu Anguilla (1930), ambientato a Bastia. Un altro momento significativo per la storia del corso è senz’altro il rinnovato impulso che la nuova generazione di scrittori e poeti, facenti capo alla rivista «U Rigiru», dà alla lingua nell’uso letterario, con gli scarti dalla norma che le sono propri.

Studi

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Dalbera-Stefanaggi, Marie-José (2002), La langue corse , Paris, Presses Universitaires de France.

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Durand, Olivier (2003), La lingua còrsa . Una lotta per la lingua , Brescia, Paideia.

Falcucci, Francesco D. (1972), Corsica , in I parlari italiani in Certaldo alla festa del V centenario di Messere

Giovanni Boccacci , omaggio di G. Papanti, Bologna, Forni, pp. 471-603 (1 a ed. Livorno, Francesco Vigo, 1875).

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Grob, Jeannine (1987), Observations sur la situation socio-linguistique du corse , «Études Corses» 28, pp. 21-37.

Marchetti, Pascal (1989), La corsophonie. Un idiome à la mer , Paris, Editions Albatros.

Melillo, Armistizio Matteo (1977), Corsica , in Profilo dei dialetti italiani , a cura di M. Cortelazzo, [poi] di A. Zamboni, Pisa, Pacini, 23 voll., vol. 21°.

Nesi, Annalisa (1993), La Corsica , in Loi Corvetto, Ines & Nesi, Annalisa, La Sardegna e la Corsica , Torino, UTET, pp. 207-292.

Nesi, Annalisa (2002), La Corsica , in I dialetti italiani. Storia , struttura , uso , a cura di M. Cortelazzo et al ., Torino, UTET, pp. 959-974.

Thiers, Ghjacumu (1993), Language contact and Corsican polynomia , in Trends in Romance linguistics and philology , edited by R. Posner & J.N. Green, Berlin - New York, Mouton de Gruyter, vol. 5° ( Bilingualism and linguistic conflict in Romance ), pp. 253-270.

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fig. 1

fig. 2

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fig. 3

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emiliano-romagnoli, dialetti di Fabio Foresti - Enciclopedia dell'Italiano (2010) emiliano-romagnoli, dialetti

1. Territorio e storia

L’Emilia-Romagna è formata da due parti di estensione equivalente, l’una piana e l’altra collinare e montuosa, unite da un asse che va da Cattolica, sull’Adriatico, a Stradella, presso il Po. Il territorio (v. fig. 1 ) è compreso tra la dorsale spartiacque dell’Appennino a sud-ovest, il Po a nord e la costa adriatica a est, collocandosi tra la grande regione padano-alpina e l’Italia peninsulare, cui danno accesso passi montani facilmente transitabili, e il margine costiero di Gabicce. A questa funzione di collegamento lungo la direttrice nord-sud non ha quasi mai corrisposto, storicamente, un’apprezzabile omogeneità culturale e politica interna all’attuale area regionale, caratterizzata da frammentazione e policentrismo.

Nel VII e VI secolo a.C., con l’espansione etrusca a nord dell’Appennino, che ingloba la precedente cultura villanoviana (la prima in Italia con forme di insediamento urbano), si registra l’occupazione (o fondazione) di Bologna (Felsina), Marzabotto e Spina. Quando la conquista romana giunge sull’Adriatico, agli inizi del III secolo a.C., la regione cispadana è occupata per la massima parte dai Galli Boi, anche se popolazioni umbre sono concentrate nell’area del delta padano e nel settore orientale dell’Appennino, mentre i Liguri si distribuiscono in parte del settore occidentale. Sul piano documentario, la tradizione linguistica etrusca emerge isolata tra due fasi storiche prive di documentazione: una precedente, ricca di vicende culturali varie e complesse testimoniate dall’archeologia, e la fase gallica – con l’arrivo di popolazioni prive di scrittura – responsabile del lento tramonto degli Etruschi.

La colonizzazione di una delle regioni dove si è manifestata più intensamente la romanizzazione rientra nel modello di organizzazione politico-amministrativa che assicurò continuità e durata al dominio di Roma: l’impianto di poli urbani, prima Ariminum (Rimini) nel 268, poi Placentia (Piacenza) nel 218 e Bononia (Bologna) nel 189 a.C.; il tracciato della rete viaria, mediante la costruzione della via Emilia nel 187; la creazione di un appoderamento stabile della campagna coltivabile. 63

Il latino si diffonde e, col passare delle generazioni, si impone nella regione tra popolazioni di varia origine. Caduto l’impero, la suddivisione tra territori posti a oriente e a occidente della regione viene ribadita, dopo la guerra greco-gotica (535-553), dalla contrapposizione lungo il fiume Panaro tra Bizantini (i Romani da cui si origina il nome Romagna) e Longobardi, cui subentrano sul finire dell’VIII secolo i Franchi. Dalle lingue germaniche entrano nelle parlate locali molti prestiti ([ ˈboga] «fascia metallica», [grop ː] «nodo», [ ˈgef ːla] «gomitolo», [sku ˈsːɛl] «grembiule») e nomi di luogo (ad es., Gualtieri, Braida, Sala, Guastalla). Ancora una volta, e definitivamente, se si esclude la breve parentesi napoleonica, la zona di sud-est, con il suo confluire sostanziale sotto il potere vescovile e papale (poi dello Stato pontificio), si distacca dalla zona di nord-ovest, assorbita come tutta l’alta Italia nell’orbita del dominio imperiale e dei grandi feudatari (poi dei ducati), fino all’Unità d’Italia.

Nel periodo alto-medioevale si formano le lingue locali dell’attuale Emilia-Romagna, usate e trasmesse ininterrottamente – di generazione in generazione – fino ai nostri giorni. A esse si contrappone durante il medioevo come codice colto il latino, che negli statuti comunali, ad es. a Bologna, adotta, travestendole, parole locali come aibus «abbeveratoio», ceda «siepe», ruscus «spazzatura» (in dialetto: [ajb], [ˈzeda], [rosk]). Anche del cosiddetto volgare , cioè l’idioma parlato dall’intero corpo della popolazione, si forma gradatamente, a partire dal basso medioevo, una varietà scritta, impiegata in ambiti sempre più estesi, e in particolare nei testi di natura pratica (Foresti et al . 1992 e 1994).

Sul piano dell’oralità, assolutamente prevalente nella vita delle comunità sociali, le lingue locali sono state le uniche risorse linguistiche, il tessuto che ha accompagnato e dato forma alle attività lavorative, al mantenimento delle relazioni sociali e all’apprendimento di saperi e norme (Foresti 2009).

2. Varietà dialettali

Per definire l’area linguistica regionale occorre adottare il concetto di continuum , in quanto i dialetti tra loro in contatto in ambito geografico hanno confini soltanto relativi, originando zone di transizione dove i rispettivi caratteri si mescolano reciprocamente. I dialetti emiliani e romagnoli esercitano la propria influenza su altri dialetti limitrofi, superando i confini della regione e anche confini naturali importanti come il Po e gli Appennini, nelle province di Mantova, Pavia, Rovigo, Alessandria, Genova, Massa Carrara, Lucca, Pistoia, Firenze, Pesaro e Urbino, Ancona. E un analogo graduale passaggio da

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un sistema linguistico all’altro avviene anche nella stessa Emilia-Romagna, dove si adotta tradizionalmente – con il discrimine del fiume Panaro – la suddivisione tra dialetti occidentali (piacentino, parmense, reggiano, modenese) e orientali (bolognese, romagnolo, ferrarese).

È inoltre possibile stabilire partizioni interne alle due aree: in quella orientale si deve rimarcare una relativa autonomia del ferrarese rispetto agli altri dialetti, i quali pure si distinguono tra loro, ad es. in virtù della rispettiva presenza o assenza, nelle varietà romagnole e in bolognese, dei fonemi / ẽ/, /õ/. Nell’area occidentale, si evidenzia la costante regressione di [y] < lat. ū in sillaba aperta ([myr] «muro») e di [ø] < lat. ŏ ([føg] «fuoco»), un tratto che in pianura oggi non oltrepassa il fiume Taro (Parma) ed è assente nel resto della regione, ma che nell’Appennino giunge ancora fino a Sestola (Modena) e, nella Bassa, da Busseto (Parma) – lungo la sponda del Po – si congiunge con Guastalla (Reggio Emilia).

Esistono solidarietà linguistiche anche nelle fasce orizzontali dell’Emilia-Romagna (di montagna, pianura e Bassa). La stessa palatalizzazione della a latina in sillaba aperta ([ ʧɛ r] «chiaro», [f ɛr] «fare»), un tratto che accomuna le parlate della regione, dal mare a Piacenza (dove si riflette in [æ]), non si riscontra in realtà nella Bassa parmense, reggiana, modenese, nel territorio ferrarese, come pure in alcune zone appenniniche. Accanto ad altre differenze nel vocalismo tonico e in quello atono (per cui al fidentino [uspe ˈdɛː l] «ospedale» corrisponde [zb ˈdɛː l] a Bologna), a distinguere le due macro-sezioni dialettali interviene la ➔ metafonia , fenomeno fonetico che ha anche rilevanza morfologica, ben vitale nel centro-est e ormai sporadico a ovest: [bi] «belli» (sing. [b ɛː l]), [kur ˈti] «coltelli» (sing. [kur ˈtɛː l]), [ ˈnuster] «nostri» (sing. [ ˈnoster]).

Nel consonantismo si registrano fenomeni ben noti, comuni ad altri dialetti dell’Italia settentrionale, alcuni dei quali influenzano localmente la pronuncia dell’italiano:

(a) la degeminazione o ➔ scempiamento delle consonanti doppie: ad es. a Bologna [ ˈtɛː ra] «terra», [ska ˈpɛː r] «scappare», dove si evidenzia il fenomeno diffuso dell’allungamento vocalico; ma la consonante è intensa dopo una vocale breve: [ ˈred ːer] «ridere», [lom ː] «lume»;

(b) la sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (ad es. a Modena [ ˈroda] «ruota») e il passaggio da -p- a -v- (bolognese [sa ˈvawr] «sapore»);

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(c) il passaggio dei nessi lat. cl- e gl- alle consonanti palatali [ ʧ-] e [ ʤ-]: ad es. a Rimini [ ˈʧ avga] «chiavica», a Piacenza [ ʤas ː] «ghiaccio».

Le difformità interne alla regione riguardano la diversa evoluzione di alcune consonanti del latino, per cui alle forme occidentali [zøg] «gioco», [ ˈʤ enta] «gente», [sent] «cento» corrispondono le centro- orientali [ ʣuːg], [ ʣaŋt], [ ʦaŋt].

A livello morfologico, si segnala per l’articolo determinativo un paradigma relativamente unitario (al sing. al masch. e la femm., mentre in Romagna è tipica la forma masch. e); per il numero, l’opposizione tra sing. e pl. è condizionata dalla caduta delle vocali, eccettuata la a, in fine di parola, per cui si ha al sant «il santo» e i sant «i santi», [la ˈskra ːna] «la sedia» e [al skraŋ] «le sedie»; per il femm. ricorre anche la desinenza -i: [ ˈmoski] «mosche». I pronomi personali tonici hanno un’unica forma per le funzioni di soggetto e oggetto (a Bologna, me , te , lo masch. / li femm., no o [nu ˈɛ ter], vo o [vu ˈɛ ter], [lawr] «loro»). Nella flessione verbale è obbligatorio l’uso delle forme pronominali atone a «io», t «tu», al / l «egli, esso», la / l «ella, essa», a «noi», a «voi», i «essi, esse», anche in presenza di un soggetto nominale espresso ([un ˈomen al ven] «un uomo viene»). Ancora, i pronomi atoni ricorrono nelle frasi interrogative posposti rispetto al verbo (ad es. a Parma [e la ˈbela?] «lei è bella?»), e sono usati con i verbi impersonali ([a ˈneva] «nevica» a Ferrara, [al pjov] «piove» a Bologna).

Per quanto riguarda i pronomi personali al caso indiretto, tra i dialetti ricompare una netta diversità nella terza persona sing. e pl., masch. e femm., per le quali domina nell’Emilia occidentale, centrale e nel ferrarese [g] (per es. a Parma [a g voj ben] «io gli / le / a loro voglio bene»), rispetto a i a Bologna e in Romagna ([a j voj di ːr un ku ˈɛː l] «io gli / le / a loro voglio dire qualcosa»). Sono usate [g] e [j], nelle rispettive aree, anche in funzione di clitico obliquo con valore neutro (a Bologna [a j ɔ pin ˈsɛ me] «ci ho pensato io») e di avverbio di luogo ([a j va ːg dmaŋ] «ci vado domani»).

La flessione verbale, infine, distingue quattro coniugazioni:

(a) la prima, in [-ˈɛ r / -ˈar]: a Bologna [an ˈdɛː r] «andare», a Ferrara [far] «fare»; ma a Piacenza [pa ˈgɛ] «pagare»;

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(b) la seconda, in [-ˈer]: a Ferrara [pja ˈzer] «piacere»; ma a Piacenza [pjaz];

(c) la terza, in [-er]: a Modena [ar ˈkojer] «raccogliere»; ma a Piacenza di nuovo desinenza zero: [kur ː] «correre»;

(d) la quarta, in [-ˈir]: a Reggio [par ˈtir]; ma a Piacenza [pu ˈli] «pulire».

Sul piano lessicale, mentre sono tipici dell’intero territorio regionale termini come [liva ˈdu ːr] «lievito», [ˈdlizer] «scegliere», [ska ˈdawr] «prurito», [ ˈla ːʦa] «spago», se si mantiene la distinzione geografica sopra considerata, contraddistinguono la prima area, ad es., [grim ˈbɛː l] «grembiule», [ ˈdandla] «donnola», [ˈfr ɛː vla] «fragola», [kal ˈʦ ajder] «secchio di rame», [ ˈsantel] «padrino», rispetto a [sku ˈsa ːl], [ ˈbɛndla], [ma ˈʤ ostra], [ ˈset ːʃja], [gu ˈdas ː] della seconda. Tuttavia, la contrapposizione tra le macro-aree Emilia e Romagna e la sottolineatura delle loro interne omogeneità risulta spesso precaria, perché la distribuzione dei tipi lessicali si rivela molto più frammentata. Per es., si ha [arti ˈʧ oːk] a Modena, Ferrara, in provincia di Ravenna, e [skar ˈʧ ofel] a Bologna per «carciofo»; [skond] a Piacenza, [arpja ˈtɛː r] e [ardu ˈpɛː r] a Modena, Bologna, [ar ˈpown ɛr] in provincia di Ravenna, [ma ˈzɛ] a Rimini e Cesena per «nascondere»; [bam ˈbejn] a Piacenza, [ba ˈbeŋ] a Ravenna, [fan ˈʤ eŋ] a Bologna, [pu ˈteiŋ] a Ferrara e Modena, [bur ˈdɛː l] a Rimini per «bambino» (Foresti 1988).

3. Vitalità del dialetto e italiano regionale

Per secoli l’insieme delle risorse linguistiche a disposizione degli abitanti della regione si estende molto limitatamente oltre le lingue materne: anche i pochi alfabetizzati hanno una competenza soltanto passiva dell’italiano, che sono in grado soprattutto di leggere. Nelle opere non letterarie (cronache, memorie, manuali tecnici, inventari, note di lavori, ecc.) sono contenute in abbondanza forme derivate dai dialetti, che talora usano anche gli scrittori, dal Cinquecento, con Giulio Cesare Croce (burazzo «canovaccio da cucina», scimitoni «moine», zavaglio «cianfrusaglia»), al novecentesco Riccardo Bacchelli ( bazurlone «persona sbadata», dare le onde «barcollare», noce «percossa», imbalzato «impedito nei movimenti»). Quando, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, l’italiano incomincia a diffondersi in misura rilevante anche nel parlato, nelle varie situazioni comunicative si generano sia usi

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alternati dei due codici in contatto o, meglio, dell’ampia gamma di varietà in cui questi si suddividono, sia interferenze tra i due codici, ai vari livelli linguistici (fonetico, morfo-sintattico, lessicale-semantico).

Nel 2006, stando ai rilevamenti dell’ISTAT, il 55% degli intervistati afferma di impiegare nel dominio famiglia «solo o prevalentemente l’italiano», oltre il 28% «sia l’italiano che il dialetto» e il restante si esprime in una delle varietà locali dell’Emilia-Romagna. Si ponga attenzione che si tratta di dati medi, riguardanti anche le grandi città, perché nei centri abitati medio-piccoli l’impiego alternato dei due codici sale quasi al 50%, una percentuale che nelle campagne e nelle zone di collina e montagna risulta ancora superiore.

È indispensabile precisare che non esiste nell’uso parlato un italiano uniforme a livello regionale, pur se sono presenti alcuni tratti comuni, ma esistono tante varietà locali, circoscritte a zone ben individuate (in cui peraltro si possono registrare caratteri estesi ad altre aree provinciali) e variabili anche in base al ceto sociale, all’età e al sesso dei parlanti. A determinare tali varietà – in cui comunque sono presenti tratti del cosiddetto ➔ italiano popolare – ha concorso il sostrato dialettale, in varie proporzioni e modalità. Oltre a un’utilizzazione marcata localmente di elementi italiani, come ad es. a Bologna l’estensione dei suffissi -ino e -otto (morsicotto «morso») e dei prefissi verbali s- (sfregarsi , sfarfugliare ) e in - (instizzirsi , inochirsi «incantarsi»), le perifrasi non stare a + infinito al posto dell’imperativo negativo e essere di un + aggettivo per il superlativo, l’uso dell’articolo davanti al nome proprio femminile, si hanno peculiarità intonative (poco studiate) e fonetiche. Fra queste:

(a) la riduzione delle consonanti lunghe prima dell’accento ( gramatica , otengo ) e, viceversa, il rafforzamento delle brevi dopo l’accento ( libbro , coppia «copia»);

(b) la pronuncia sonora della z sorda all’inizio di parola: [ˈʣ ap ːa] zappa ;

(c) la palatalizzazione di s e la depalatalizzazione di [ ʃ] seguite da vocale, per cui si può pronunciare [ʃ]era «sera» e la [s] iare «lasciare»;

(d) la palatalizzazione della consonante nasale e la depalatalizzazione della laterale: [ɲ]ente «niente», botti [l] ia «bottiglia».

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Molti sono i prestiti lessicali e semantici, da quelli largamente diffusi in tutta la regione ( lavoro «faccenda incredibile, gran quantità», bugno «foruncolo», bagaglio «oggetto di poco valore», fatto «strano, curioso») a quelli interprovinciali ( castrone «rammendo mal fatto», tinco «rigido», ciappetto «molletta da bucato», tamugno «robusto», sgurare «pulire», gatti «lanugine di polvere sul pavimento»), fino ai tanti in uso localmente. A Ferrara gianda «fortuna», pizzone «credulone», pilonare «perdere tempo»; a Rimini batecco «rametto», quilare «fare», vontare «traboccare»; a Ravenna piffetto «colpetto», sfoglio «scheggia», sgrigna «riso continuo»; a Forlì cavalla «gran quantità», lozzo «sudiciume», maletta «seccatura»; a Modena malocco «grumo», romella «seme di zucca, nocciolo»; a Piacenza fumera «nebbia», navassa «gran quantità», stramlone «spavento»; a Parma patacca «sculacciata, botta», patello «confusione», intagliarsi «insospettirsi»; a Reggio flenga «carta di nessun valore», campanone «sempliciotto», gnocco «facile»; a Bologna sgodevole «antipatico», morbino «smania», sbanderno , squasso «gran quantità».

4. Letteratura dialettale e usi scritti

Nei dialetti dell’Emilia-Romagna sono state prodotte sia specifiche manifestazioni della cultura popolare stratificatesi nei secoli, sia opere letterarie di un insieme di autori, a partire dalla metà del Cinquecento fino ad oggi. Da una parte, si tratta di un patrimonio trasmesso nel tempo oralmente, comprendente vari generi di composizioni cantate (di lavoro, scherzo, amore, ballate), lo spettacolo nelle sue varie forme (dei cantastorie, dei declamatori di poesia d’occasione, dei burattinai; e il teatro musicale del Maggio drammatico ), le fiabe, le rime infantili, le preghiere, le formule magiche, insieme ai proverbi e agli indovinelli. Figure professionali ambulanti oppure gente comune di tutte le età si sono fatti portatori di tale patrimonio, nel doppio ruolo di chi ascolta e di chi a sua volta trasmette, nelle diverse circostanze della vita quotidiana o nelle occasioni più importanti dell’esistenza, dalla nascita al fidanzamento, dalle nozze ai funerali, durante giorni qualunque o in particolari periodi dell’anno e in differenti luoghi, dalla casa alla strada, dai campi alla chiesa e all’osteria (Quondamatteo & Bellosi 1977).

Dall’altra parte, si tratta di una letteratura dialettale colta e d’autore, che si compone di testi di poesia, teatro, prosa narrativa e traduzioni di classici da altre lingue (Accorsi 1980 e 1982). Giulio Cesare Croce (1550-1609), di area bolognese, è considerato il primo importante esponente di tale letteratura, anche se la sua produzione dialettale testimonia generi e ritualità raccolti dalla tradizione orale e che sono giunti

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fino ad oltre la metà del Novecento per trasmissione ininterrotta: le canzoni narrative (Violina , Moretta , Girumetta , Pidocchia ostinata ), il maggio-serenata, la drammatica ( Filippa ), le usanze legate al ciclo dell’anno. Si deve rilevare la difformità delle linee di sviluppo della vera e propria letteratura dialettale nelle due aree regionali: specialmente nel Sei-Settecento, Bologna svolge il ruolo principale rispetto a tutti gli altri centri, dando luogo a una vera e propria tradizione (con una notevole continuità di produzione e di consumo, che sfocerà nel XIX secolo, come a Milano e a Venezia, in cospicue antologie dialettali a stampa), mentre nel Novecento – in particolare per la poesia lirica – è la Romagna ad assumere una posizione preminente.

Studi

Accorsi, Maria Grazia (1980), La letteratura dialettale , in Storia dell’Emilia-Romagna, a cura di A. Berselli, Bologna, University Press, 1976-1980, 4 voll., vol. 3º/2 (Realtà regionale), pp. 1010-1055.

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Foresti, Fabio (1988), Italienisch: Areallinguistik V. Emilia-Romagna , in Lexikon der romanistischen Linguistik (LRL) , hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & C. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, 8 voll., vol. 4º (Italienisch , Korsisch , Sardisch ), pp. 569-593.

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Quondamatteo, Gianni & Bellosi, Giuseppe (1977), Romagna civiltà , Imola, Galeati, 2 voll. (vol. 1º, Cultura contadina e marinara ; vol. 2º, I dialetti. Grammatica e dizionari ).

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fig. 1

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friulani, dialetti di Laura Vanelli - Enciclopedia dell'Italiano (2010) friulani, dialetti

1. Il territorio e la situazione sociolinguistica

Il friulano ha un ruolo peculiare tra le varietà dialettali dell’Italia. Si tratta di un idioma romanzo, che ha caratteri comuni con gli altri dialetti settentrionali, ma anche fenomeni originali che gli conferiscono un profilo autonomo. Grazie a questa specificità, assunta dalla comunità dei parlanti come espressione di identità storico-culturale, il friulano ha acquisito lo statuto di lingua minoritaria, e come tale è stato inserito tra le lingue cui si applicano le norme previste dalla legislazione nazionale in materia di tutela delle ➔ minoranze linguistiche .

Il territorio linguisticamente friulano corrisponde alla maggior parte della regione del Friuli-Venezia Giulia, che occupa l’area nordorientale dell’Italia e ha come confini a nord l’Austria, a est la Slovenia, a sud il Mare Adriatico e a ovest (lungo il corso del fiume Livenza) il Veneto. I confini linguistici non sono però del tutto coincidenti con quelli amministrativi ( fig. 1 ): nella fascia orientale del Friuli e nella Venezia Giulia si parlano infatti varietà slovene (➔ slovena, comunità ); nell’estrema area nordorientale, dove confluiscono i confini con Austria e Slovenia, si ha una situazione di plurilinguismo con friulano, sloveno e tedesco. In due punti isolati della Carnia (Sauris/Zahre e Timau/Tischelwang) sono ancora presenti varietà tedesche ( ➔ tedesca, comunità ); nella zona di confine occidentale, il veneto è penetrato in territorio friulano. Varietà venete, presumibilmente autoctone, si parlano in due punti della costa adriatica, Marano Lagunare e Grado, nonché nell’entroterra di Monfalcone (il cosiddetto bisiacco ). Sono parzialmente venetofoni anche i maggiori centri urbani della regione (Udine, Cividale, Palmanova, , Pordenone, ecc.), ove il veneto è stato importato durante la dominazione veneziana del Friuli (1420-1797). È venetofona Trieste, dove però fino alla fine del XVIII secolo si parlava una varietà di tipo friulaneggiante (il cosiddetto tergestino ), poi scomparsa.

Secondo l’indagine sociolinguistica di Picco (2001), nell’area identificata come friulanofona i parlanti che utilizzano regolarmente il friulano sono circa 430.000 e rappresentano il 57,2% della popolazione, a cui va aggiunta un’ulteriore percentuale del 20,3% che conosce in qualche misura il friulano e lo usa 72

occasionalmente. A questi vanno aggiunti i friulanofoni che sono emigrati, a partire dalla fine del XIX secolo e in periodi diversi del XX, in molti paesi del mondo (Romania, Germania, Canada, Argentina, Australia, ecc.).

Benché il friulano mostri ancora notevole vitalità, la stessa ricerca rileva che, rispetto a rilevazioni precedenti, esso registra un regresso di circa l’1% l’anno, e il suo uso decresce col passare da una generazione all’altra ( fig. 2 ).

2. La peculiarità linguistica del friulano e le varietà dialettali dell’area friulana

La peculiarità del friulano tra le parlate dialettali dell’Italia settentrionale è stata messa in luce in concomitanza con l’individuazione di una serie di fenomeni comuni a un gruppo di varietà romanze settentrionali, a cui è stato dato il nome di ladino o retoromanzo .

Dal momento che le parlate cosiddette ladine non sono un gruppo omogeneo e unitario, ma sono distribuite in un territorio discontinuo – il romancio o ladino occidentale nel Cantone dei Grigioni, in Svizzera; il ladino centrale o dolomitico in alcune valli tra l’Alto Adige, il Trentino e il Bellunese (➔ ladina, comunità ) e il friulano –, sono state avanzate diverse ipotesi per rendere conto di queste affinità. Allo stato presente degli studi, l’ipotesi più plausibile è che queste aree fossero ‘periferiche’, dal punto di vista storico-politico-culturale, e dunque anche linguistico, e che come tali abbiano indipendentemente conservato fasi linguistiche condivise un tempo con gli altri dialetti settentrionali. Mentre il resto dell’Italia settentrionale è stato sottoposto a successive innovazioni che ne hanno mutato la fisionomia dialettale, nelle aree ladine tali cambiamenti non sono avvenuti o sono avvenuti in modo peculiare (G. B. Pellegrini 1991).

Per quanto riguarda il Friuli in particolare, se non è possibile sostenere l’ipotesi di un isolamento geografico (il Friuli, nella sua parte centro-merid., occupa un’ampia zona pianeggiante, senza soluzione di continuità con la pianura veneta), ben diverso è il discorso sul piano storico-politico-culturale. Come è stato dimostrato da Francescato & Salimbeni (1976), il Friuli partecipò solo marginalmente al processo di cambiamento nei secoli dopo il 1000, con il sorgere e fiorire dei Comuni, in quanto, come

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Patriarcato di Aquileia, continuò ancora a lungo (fino al 1420, quando passò sotto il dominio della Repubblica di Venezia) a far parte del sistema feudale del Sacro Romano Impero.

Il friulano è un sistema linguistico sostanzialmente unitario per quanto riguarda i principali caratteri. Ciò nonostante si possono individuare ben definite varietà interne, delle quali quelle meglio delineate hanno una distribuzione territoriale che riproduce le antiche circoscrizioni municipali romane (poi convertite in diocesi). Ciascuna di queste aree dialettali comprende poi al suo interno ulteriori sottovarietà (Francescato 1966: 91-125; Frau 1989). Le principali varietà in cui è suddivisa l’area friulana sono le seguenti ( fig. 3 ):

(a) il friulano centro-orientale, corrispondente al territorio della diocesi di Aquileia, il più diffuso e quello che è stato assunto per lo più come modello per gli usi ufficiali, scritti e letterari;

(b) il friulano carnico, che ricopre l’area alpina settentrionale, dipendente nell’antichità dal municipio di Iulium Carnicum (Zuglio), la varietà più conservativa;

(c) il friulano occidentale (o concordiese), corrispondente alla diocesi di Concordia, parlato nella zona a ovest del fiume Tagliamento, per alcuni aspetti il più innovativo (anche per l’influenza del confinante veneto).

3. Caratteristiche linguistiche

3.1 Aspetti fonologici

I tratti che, a partire dai Saggi ladini di G.I. Ascoli (1873), sono considerati come tipici delle varietà ladine e dunque anche del friulano, sono fenomeni fonologici diacronici che riguardano particolari sviluppi consonantici a partire dal latino:

(a) la palatalizzazione delle consonanti velari /k/ e /g/ davanti ad -a, che, in posizione iniziale e postconsonantica, dà origine alle occlusive prepalatali [c] e [ ɟ]: per es., [ ˈcaze] «casa», [ ɟat] «gatto», [ ˈsece]

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«secca», [ ˈmosce] «mosca», [ ˈlar ɟe] «larga», [ ˈlun ɟe] «lunga», ecc. (nelle varietà urbane innovative le prepalatali sono evolute alle affricate postalveolari [t ʃ] e [d ʒ]);

(b) la conservazione dei nessi di consonante + l, rispetto all’ital. e ai dialetti settentrionali in cui l → j: [blaŋk] «bianco», [flo ːr] «fiore», [kla ːf] «chiave», [ ˈploe] «pioggia», ecc.;

(c) la conservazione di -s (desinenza latina) come morfema di plurale e come desinenza di seconda persona sing. e pl. nelle forme verbali: per es. [flo ːrs] < flōres, [ ˈcazis] < casas, [mu ːrs] < mūros, [ˈcantis] < cantas, [can ˈtajs] < cantatis.

Se questi tratti gli assegnano una posizione peculiare in ambito italiano, per altri fenomeni il friulano si inserisce invece pienamente nel panorama dei dialetti settentrionali, in contrasto col toscano e con i dialetti centro-meridionali. I tratti rilevanti sono i seguenti:

(a) l’assenza delle consonanti geminate;

(b) la lenizione delle consonanti intervocaliche del latino: ad es. [can ˈtade] < cantata(m), [ ˈskove] < scōpa(m), [a ˈvonde] < abŭnda(t) «abbastanza», ecc.

Per altri fenomeni ancora, il friulano va piuttosto inserito tra i dialetti cosiddetti gallo-italici (lombardo, piemontese, ecc.), in opposizione al vicino veneto; per es., a causa della caduta delle vocali atone finali del latino diverse da -a le parole friulane ammettono consonanti ostruenti in posizione finale: [na ːs] < nasu(m), [ne ːf] < nĭve(m) (dove si nota anche un altro tratto tipico del friulano, vale a dire la desonorizzazione delle consonanti ostruenti in fine di parola), [vinc] < vigīnti.

Ma l’aspetto più notevole e caratteristico del sistema fonologico friulano, che non trova riscontri così sistematici fuori dal dominio friulano, riguarda il sistema delle vocali toniche: il friulano presenta infatti una doppia serie di vocali toniche, brevi e lunghe, e l’opposizione di lunghezza ha valore fonologico, in quanto dà origine a coppie minime ( ➔ coppia minima ) come le seguenti: [la ːt] «andato» ~ [lat] «latte», [lu ːs] «luce» ~ [lus] «lusso», [va ːl] «vale» ~ [val] «valle».

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La formazione delle vocali lunghe è il risultato di un’innovazione che ha modificato il sistema vocalico del friulano rispetto all’iniziale sistema delle vocali toniche del latino volgare. Si sono cioè allungate le vocali, originariamente in sillaba aperta latina, che, a causa della caduta delle vocali atone finali diverse da -a, si sono trovate in sillaba chiusa finale friulana («posizione forte», nella definizione di Francescato 1966: 130-143). In ogni altra posizione (cioè in sillaba chiusa friulana < sillaba chiusa latina, o in sillaba aperta friulana) le vocali sono brevi, cioè in «posizione debole». Da notare che le vocali ĕ e ŏ latine in posizione debole dittongano rispettivamente in [je] e [we]: pĕtra(m) > [ ˈpjere], sĕptem > [sjet], schŏla(m) > [ ˈskwele], ŏssu(m) > [wes].

La suddivisione tra vocali in posizione forte e debole è rispettata in tutta l’area friulana, anche se gli esiti possono essere diversi a seconda delle varietà: ad es., nel friulano carnico al posto delle [e ː] e [o ː] si hanno i dittonghi [ej] e [ow], nel friulano occidentale le vocali lunghe sono state eliminate dal sistema, ma rimane comunque la distinzione tra posizione forte e posizione debole.

Per quanto riguarda il vocalismo atono finale, in posizione finale si conserva solo la vocale che continua -a: l’esito più diffuso è una [e]: [ ˈbjele] «bella», [ ˈcante] «canta», ecc. Nel friulano occidentale, orientale e in parte del carnico, si mantiene invece la [a] (in alcuni punti isolati della Carnia, l’esito è [o]: [ ˈcazo] «casa»).

3.2 Aspetti morfosintattici

Tra gli aspetti più rilevanti della morfosintassi vanno citati i seguenti:

(a) nella morfologia nominale, per quanto riguarda la formazione del plurale esistono due modalità:

(i) plurale sigmatico (tipico dell’area romanza occidentale), che è quello non marcato e più frequente: [mu ːrs] «muri», [blaŋks] «bianchi», [ma ʦ] «matti» (con ulteriore passaggio [ ʦ] → [s] nelle varietà urbane innovative), [mans] «mani», [ ˈcazis] «case» (sing. [ ˈcaze]);

(ii) plurale palatale, per una classe lessicale particolare di parole maschili (appartenenti alla seconda declinazione latina) terminanti nelle consonanti coronali -t, -n, -l (e nelle varietà conservative, ad es. nel

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carnico, anche -s), che consiste nel sostituire alla coronale la palatale corrispondente: [tant] / [tanc] «tanto / tanti», [aŋ] / [a ɲ] «anno / anni», [ca ˈval] / [ca ˈvaj] (con [j] < [ ʎ]) «cavallo / cavalli», ecc.;

(b) nella morfologia verbale sono fenomeni degni di nota:

(i) le desinenze della prima persona sing. del presente indicativo: -i nella prima coniugazione ([ ˈcanti] «canto»), Ø nelle altre coniugazioni ([bat] «batto», [ta ːs] «taccio», [sint] «sento»);

(ii) la distinzione tra la seconda persona pl. dell’indicativo presente e dell’imperativo: indic. [canˈtajs] (< cantatis) ~ imperat. [can ˈtajt] (< cantate);

(iii) la forma del condizionale in -arès-: prima e terza sing. [canta ˈrɛs], seconda sing. [canta ˈrɛsis], ecc.

(c) nel sistema pronominale, il friulano presenta per la prima e seconda persona sing. tre forme diversificate di pronomi liberi e tonici a seconda del caso: jo e tu nominativo; mi e ti dativo, a indicare l’oggetto indiretto retto dalla preposizione a (a mi , a ti ); me e te in dipendenza da un verbo (oggetto diretto) o da preposizioni diverse da a.

Nell’ambito del sistema dei pronomi clitici e atoni, il friulano si allinea con gli altri dialetti settentrionali in quanto possiede, oltre ai tonici, anche una serie di clitici con funzione di soggetto.

Le forme più diffuse, presenti in tutte le persone, sono: prima sing. o seconda sing. tu terza sing. al (m.) / e (f.) prima pl. o

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seconda pl. o terza pl. a (ma le forme variano a seconda delle varietà)

I pronomi soggetto clitici si usano obbligatoriamente in ogni occorrenza verbale, anche se il soggetto è già espresso da un elemento nominale o da un pronome tonico: ad es. ( lui / Toni ) al cante ben «(lui / Toni) canta bene».

Esistono infine delle forme pronominali enclitiche in posizione postverbale nella flessione interrogativa: ad es. càntjo ?, càntistu , càntjal (m.)? / cantje (f.)?, cantìno ?, cantàjzo ?, càntino ? «canto?, canti?, ecc.».

4. L’italiano regionale

I tratti tipici del friulano si riflettono anche nell’ ➔italiano regionale dei friulani, in particolare nel registro informale e trascurato (Marcato 2001: 64-80). Nella fonetica, a parte l’intonazione (su cui esistono però ancora troppo pochi studi per trarre considerazioni generali), anche in Friuli, come in molte pronunce settentrionali in genere, è comune ad es. la tendenza a non pronunciare le consonanti geminate e a realizzare sempre sonore sia la sibilante alveolare intervocalica ([ ˈkaza], [ ˈrɔza], ecc.), che l’affricata alveolare a inizio di parola ([ ˈʣ uk ːero], [ ˈʣ io]).

È invece tipicamente friulana la pronuncia nettamente più bassa e centralizzata ([ ɪ] e [ ʊ]), rispetto all’italiano, delle vocali alte quando sono brevi, specialmente in sillaba chiusa, come in [ ˈfr ɪtːo] o [ˈbr ʊtːo].

Nella morfologia (Scalco 1986) si osserva tra l’altro che:

(a) per quanto riguarda l’uso delle preposizioni, al posto dell’italiano da con valore locativo si utilizza spesso il tipo friulano là/ lì di : vado là di Maria , ci vediamo lì del tuo amico ;

(b) per i pronomi, si nota che come clitico dativo sing. si usa spesso le anche per il maschile (in friulano esiste la sola forma i per entrambi i generi, mentre c’è ur < illorum̄ per il pl.); il clitico riflessivo di prima

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pl. ci viene spesso sostituito da si : si siamo visti ieri . L’assenza in friulano del clitico locativo corrispondente all’ital. ci si riflette anche nell’italiano, dove ci viene talora omesso, specialmente nella costruzione locativo-esistenziale: non è nessuno lì (= «non c’è …»), non sono più posti (= «non ci sono …»);

(c) l’imperativo negativo si fa con la perifrasi non stare / state a + infinito: non stare / state a far rumore.

Numerosi sono anche i calchi sintattici sul friulano, tra cui si possono citare:

(a) l’ ➔ accordo del participio passato con l’oggetto diretto, anche quando questo è costituito da un elemento nominale, possibile in friulano: hai vista la partita?;

(b) la ripresa di un oggetto indiretto nominale con il pronome clitico dativo, obbligatoria in friulano: gli ha dato il libro a Gianni, le ho detto a Maria che ho fame;

(c) l’uso di introduttori di frasi subordinate costituiti dalla congiunzione subordinante + il complementatore che: siccome che, quando che, sebbene che, ecc.

Naturalmente anche il lessico risulta influenzato dal friulano; per citare soltanto qualche esempio: aria «vento», cragna / cragnoso «sudiciume / sporco», usato «abituato», disfreddare «raffreddare», ecc., o, tra le locuzioni, a stupido via «stupidamente», dietro mano «di seguito», essere buono di «essere capace di», tornare a + infinito (con valore iterativo: torna a farlo «fallo di nuovo»), ecc.

5. Il friulano negli usi scritti e nella letteratura

I più antichi usi scritti del friulano sono documentati a partire dalla fine del XIII secolo, e sono costituiti da testi di carattere pratico-amministrativo (Vicario 2006). Le più antiche attestazioni letterarie sono invece della fine del XIV - inizio del XV secolo, epoca a cui risalgono alcuni componimenti di genere amoroso nella tradizione della lirica provenzale, provenienti per lo più da Cividale (R. Pellegrini 1987: 56-71).

L’uso letterario del friulano ebbe uno sviluppo importante nel Cinquecento, con alcuni scrittori provenienti da diverse aree del Friuli (Giovan Battista Donato, Girolamo Sini, Girolamo Biancone, Nicolò Morlupino). Ma è il Seicento il secolo

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in cui si affermarono personalità letterarie di spicco, come Eusebio Stella (di Spilimbergo) ed Ermes di Colloredo, che viene considerato il vero iniziatore della letteratura friulana, e che, adottando come lingua poetica il friulano centrale, gettò le basi di quella che diventò una sorta di koinè letteraria friulana.

Nell’Ottocento la produzione letteraria assume proporzioni sempre più rilevanti, grazie a due tra gli autori più noti della letteratura friulana, Pietro Zorutti e Caterina Percoto, il primo autore prolifico di versi di varia ispirazione raccolti negli ‘almanacchi’ (Strolic furlan), pubblicati annualmente e con una grande diffusione; la seconda autrice di prose realistiche (in friulano e in italiano) con finalità educative.

A partire dalla metà del Novecento la letteratura friulana (la poesia soprattutto) ha avuto una fase di deciso rinnovamento grazie alla nascita negli anni Quaranta di due gruppi letterari, la Risultive («Acquasorgiva»), fondata da Giuseppe Marchetti (notevole studioso del friulano e autore, tra l’altro, della prima importante grammatica friulana nel 1952), e l’Academiuta di lenga furlana, istituita da ➔ Pier Paolo Pasolini . Gli scrittori che fanno capo a Risultive mantengono l’uso della koinè basata sulla varietà centrale, mentre Pasolini e i suoi seguaci propongono che ogni autore scriva nella propria varietà di friulano, come fa lo stesso Pasolini scrivendo le sue poesie nella varietà occidentale di Casarsa.

Le due linee convivono al presente: nel panorama della fiorente produzione poetica in friulano, accanto per es. a Ida Vallerugo che scrive nella koinè, autori come Novella Cantarutti, Amedeo Giacomini, Leonardo Zannier, Federico Tavan o Pierluigi Cappello che utilizzano come lingua poetica quella della propria varietà.

6. Le tradizioni popolari, la scrittura del friulano e il friulano ‘comune’

Nell’ambito delle tradizioni popolari friulane (Nicoloso Ciceri 1985), accanto a racconti, filastrocche, proverbi e altre produzioni orali, particolare rilievo assume la musica di tradizione orale. Accanto a canti liturgici su testi in latino, eseguiti tuttora specialmente in Carnia, vanno soprattutto citati i tipici canti friulani chiamati villotte. Si tratta di composizioni eseguite normalmente in coro, di argomento lirico-amoroso o satirico, che sono documentate a partire dal XVII secolo (ma la loro origine va presumibilmente retrodatata).

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Il friulano, come è normale per le lingue locali, è sostanzialmente una lingua orale. Ciò nonostante, il problema di creare una grafia unitaria e coerente del friulano è presente in tutta la storia dei suoi usi scritti, con particolare riguardo per l’uso letterario (Moretti 1985).

La prima proposta sistematica di grafia fu quella elaborata da Ugo Pellis nel 1920 per la Società filologica friulana, basata sul friulano centrale della koinè letteraria: successivamente ritoccata, è diventata la grafia più usata, anche se nel frattempo sono state avanzate altre proposte. Nel 1986 sono state elaborate le norme di quella che è stata adottata come la Grafie ufficiâl de lenghe furlane (2002), in virtù della legge regionale 15/1996: «Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane». L’intento non è solo quello di diffondere una grafia il più possibile unitaria, ma anche quello di promuovere in generale l’uso di un friulano ‘comune’, standard, basato sulla varietà centrale.

Queste ed altre iniziative di politica linguistica hanno trovato stimolo anche nel fatto che il friulano è compreso tra le lingue minoritarie cui si riferisce la legge dello Stato 482/1999: «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», che prevede tra l’altro la possibilità di introdurre la lingua tutelata, il friulano in questo caso, nella scuola, nella comunicazione e nella pubblica amministrazione.

Studi

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Frau, Giovanni (1989), Friaulisch: Areallinguistik. Aree linguistiche, in Lexikon der Romanistischen Linguistik (LRL), hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & C. Schmitt, Tübingen, Niemayer, 8 voll., vol. 3º (Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete von der Renaissance bis zur Gegenwart. Rumanisch, Dalmatisch/Istroromanisch, Friaulisch, Ladinisch, Bundnerromanisch), pp. 627-636.

Marcato, Carla (2001), , Roma - Bari, Laterza.

Moretti, Aldo (1985), La grafia della lingua friulana, Udine, Ribis.

81

Nicoloso Ciceri, Andreina (1985), Tradizioni popolari in Friuli, Reana del Rojale (Udine), Chiandetti, 2 voll.

Pellegrini, Giovanni Battista (1991), La genesi del retoromanzo (o ladino), Tübingen, Niemeyer.

Pellegrini, Rienzo (1987), Tra lingua e letteratura. Per una storia degli usi scritti del friulano, Tavagnacco (Udine), Casamassima.

Picco, Linda (2001), Ricercje su la condizion sociolenghistiche dal furlan. Ricerca sulla condizione sociolinguistica del friulano, Udine, Forum.

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Vicario, Federico (2006), Fonti documentarie tardomedievali e studi lessicografici sul friulano, in Lessicografia dialettale. Ricordando Paolo Zolli. Atti del Convegno di studi (Venezia, 9-11 dicembre 2004), a cura di F. Bruni & C. Marcato, Roma - Padova, Antenore, 2 voll., vol. 1º, pp. 189-200.

fig. 1

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fig. 2

fig. 3

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Italia mediana di Ugo Vignuzzi - Enciclopedia dell'Italiano (2010) Italia mediana

1. Definizione

Italia mediana è l’appellativo, suggerito da Bruno Migliorini negli anni Cinquanta (Migliorini 1963: 177; e cfr. Pellegrini 1977: 30-31), per il territorio che comprende tutta l’area orientale e centro-meridionale delle Marche, dell’Umbria e del Lazio, e che ha come confine occidentale e settentrionale il fascio di isoglosse linea Roma-Ancona (➔ confine linguistico ; ➔ isoglossa ). Il termine fu impiegato dalla scuola di Migliorini (la prima attestazione sembra essere nel titolo di Castellani 1950) in riferimento particolare alla situazione degli antichi volgari; a Ignazio Baldelli soprattutto si debbono studi che favorirono l’affermarsi della denominazione (cfr. Baldelli 1983 2), consacrata definitivamente nel convegno del 1967, organizzato da Francesco Alessandro Ugolini, I dialetti dell’Italia mediana con particolare riguardo alla regione umbra (1970).

Gli studi geolinguistici e dialettologici che condussero all’individuazione dell’area risalgono però all’inizio del Novecento e si devono soprattutto a Clemente Merlo, il quale parlava di «zona marchigiana umbra romanesca» nel capitolo della Fonologia del dialetto di Sora , dedicato al «posto che spetta al dialetto di Sora nel sistema dei dialetti italiani» (Merlo 1920: 233-234). Ma lo studioso aveva già individuato tratti caratterizzanti i dialetti di quest’area in lavori precedenti (Merlo 1906-07; 1909; 1918). Un altro studio fondamentale per la definizione della tipologia areale è quello sulla Fonologia del dialetto della Cervara in provincia di Roma (Merlo 1922; cui si aggiunga per la Valle dell’Aniene La Dama di Guascogna 1930).

2. Caratteri

Per quanto riguarda la situazione dialettale contemporanea, l’area mediana può comprendere, in senso lato, basandosi fondamentalmente sul confine settentrionale degli esiti di -nd- > -nn- (ed esiti collegati), l’estrema Toscana meridionale a sud dell’Amiata e i territori umbri al confine con la Toscana per raggiungere il Tevere a Perugia, e arrivare fino all’Adriatico tra Ancona e Senigallia; in senso stretto invece il confine settentrionale coincide con la linea Roma-Ancona (cfr. Loporcaro 2009: 139-140). 84

L’area dialettale mediana comprende quindi il Lazio, l’Umbria e le Marche ad est e a sud di questo confine, con esclusione oggi dell’area laziale di sud-est, già appartenente al Regno delle due Sicilie, e della parte meridionale (a sud del fiume Aso) della provincia di Ascoli Piceno, ma comprendendo invece in Abruzzo due piccole aree, quella aquilana occidentale e quella marsicana occidentale (Avolio 1995: 31; Loporcaro 2009: 142; ➔ aree linguistiche ). Va osservato però che nel passato tratti di tipo mediano sono stati riscontrati fino a Urbino, nelle Marche settentrionali, e nella Campania settentrionale. In epoca medievale proprio dall’Italia mediana sono pervenuti testi volgari di grande arcaicità e importanza: basti pensare, per i testi documentari, al Placito capuano (860) e a quelli campani immediatamente successivi, o alla Formula di Confessione proveniente da sant’Eutizio nei pressi di Norcia (XI secolo); e, per quelli letterari, al Ritmo cassinese della fine del XII secolo e al Ritmo su sant’Alessio , di area marchigiana meridionale, degli inizi del Duecento, per non parlare del Cantico di Francesco.

I territori di confine lungo la linea Roma-Ancona hanno presentato nel passato, e presentano in parte ancora oggi, tipologie in cui fenomeni mediani si incrociano con caratteristiche in genere toscane, per cui è stata proposta (Vignuzzi 1994: 365) la denominazione di dialetti para- o peri-mediani , per aree di transizione che comprendono oggi l’Anconetano centrale, il Perugino con parte dell’Umbria nord- occidentale, il Lazio a nord e a ovest del Tevere, e in Toscana dialetti come quello di Pitigliano (cfr. Loporcaro 2009: 140); Roma costituisce un caso a parte.

Molte delle caratteristiche dei dialetti mediani sono comuni a quelli alto-meridionali, per cui si può parlare (con Giovanni Battista Pellegrini 1977: 30-31) di un’area linguistica complessiva centro- meridionale che comprende anche la sezione meridionale estrema (Temistocle Franceschi per l’insieme dei dialetti mediani e alto-meridionali preferiva parlare di «area italica»; cfr. Avolio 1995: 32). Così è per tratti bandiera quali la chiusura metafonetica delle vocali toniche medio-alte (perlopiù sia da -u sia da -i ed -es latini); l’assimilazione progressiva di nd > nn e mb > mm (meno diffuso ld > ll ); la sonorizzazione più o meno avanzata delle occlusive dopo nasale (e talora anche dopo r): dĕnte > [ˈdεnde] ([ ˈdεnd ə]); e l’affricazione di s dopo n, l, r (quest’ultima arriva sino alla Toscana meridionale): [kon ˈʦ iʎː i, ˈbor ʦa, ˈsal ʦa] (spesso ulteriormente sonorizzati: [kon ˈʣ iʎː i], [ ˈbor ʣa], [ ˈsal ʣa]).

Tratti mediani tipici sono da considerarsi in primo luogo la distinzione, nel vocalismo finale, fra -u e - o latine ([ ˈfilu] < filu(m) ma [ ˈɔ tːo] < octo; [ ˈmɔro] < mŏrio «muoio» ma [ ˈmoru]

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< mŏriunt «muoiono») e, a essa collegata, la presenza del (neo)neutro o «neutro romanzo» (cfr. Loporcaro 2009: 135-136; ➔ neutro ), soprattutto nell’articolo determinativo e pronome clitico lo / lu (la presenza della -o e parallela assenza di metafonesi nei sostantivi e negli aggettivi neutri è molto meno diffusa). Ad es., a Rieti lo piagne «il piangere», lo rie «il ridere», lo siccu «il secco, la secchezza», lo prete «l’essere prete, il sacerdozio» contro lu siccu «quello secco», lu prete «quel prete particolare»; e ancora lo feru «il metallo in generale», ma lu feru attualizzato (ad es., lu feru da stiro ); e nel maceratese abbiamo lu scuru «lo scuro, l’imposta», lu feru «il ferro da stiro o da calza» di contro a lo scuro «l’oscurità», lo fero «il ferro in generale».

La distinzione è particolarmente frequente con i dimostrativi, per cui a quistu e quillu «questa persona», «quella persona», si oppongono questo e quello «questa cosa», «quella cosa», «ciò». Si tenga presente che in buona parte dell’Italia mediana la -u del maschile palatalizza una -ll- precedente per cui al posto di lu si può presentare gliu o addirittura ju , mentre la -o del neutro non produce mai palatalizzazione.

Di particolare rilievo in tutta l’Italia mediana il diverso atteggiarsi della metafonesi delle vocali toniche medio-basse (nelle stesse condizioni sopra indicate). Si ha in genere la chiusura di un grado: [ ˈbɛlːa] ma [ˈbel ːu], [ ˈbɔna] ma [ ˈbonu] (tale metafonesi è denominata sabina o ciociaresca ; cfr. gli esempi da morire sopra riportati; cfr. da ultimo Loporcaro 2009: 122); talora su base morfologica si può avere però anche la chiusura di due gradi, per cui a Cervara di Roma (Merlo 1909: 77) si ha [ ˈmɛto] «mieto», ma [ ˈmiti] «mieti», [ ˈmitu] «mietono» (cfr. Maiden 1985; Vignuzzi 1988: 622; per ulteriori caratteristiche Loporcaro 2009: 135-142).

Mentre le Marche centrali e l’Umbria centro-orientale costituiscono due subaree dell’Italia mediana sostanzialmente compatte (Balducci 2000: 28-31, area centrale maceratese-fermana, distinta per altro dalla subarea fabrianese a ovest, 26-28; e rispettivamente Mattesini 2002), invece nel Lazio mediano è possibile riconoscere un’area reatino-sabina, l’area della valle dell’Aniene e quella ciociara occidentale e dei Monti Lepini. Tra i fenomeni caratterizzanti i dialetti della Valle dell’Aniene, spicca il cosiddetto vocalismo finale «cervarolo» per il quale una -u si conserva se la vocale tonica è estrema (cioè i, a, u ) mentre se la tonica è media la finale si apre in -o (Merlo 1920: 117-118; cfr. Vignuzzi 1988: 622-623): acitu , tantu , austu , ma pettu e mortu ; in alcuni casi come, per es., beglio «bello»

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o cereveglio «cervello» la palatalizzazione di -ll - presuppone la presenza di un’antica -u apertasi in una fase successiva in -o.

Studi

Avolio, Francesco (1995), Bommèspre. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale, San Severo, Gerni Editore.

Baldelli, Ignazio (1983 2), Medioevo volgare da Montecassino all’Umbria , Bari, Adriatica (1 a ed. 1971).

Balducci, Sanzio (2000), Marche , in Profilo dei dialetti italiani , a cura di M. Cortelazzo, poi di A. Zamboni, Pisa, Pacini, 23 voll., vol. 10º.

Castellani, Arrigo (1950), L’area della riduzione di RJ intervocalica a J nell’Italia mediana , «Archivio glottologico italiano» 35, pp. 141-166 (poi in Id., Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1946-1976) , Roma, Salerno Editrice, 1980, 3 voll., vol. 1º, pp. 423-449).

I dialetti dell’Italia mediana con particolare riguardo alla regione umbra (1970). Atti del V convegno di studi umbri (Gubbio, 28 maggio-1° giugno 1967), Gubbio, Centro di studi umbri.

La Dama di Guascogna e il re di Cipro. Novella di Giovanni Boccaccio (Dec. I, 9) tradotta nei parlari del Lazio (1930), in I dialetti di Roma e del Lazio. Studi e documenti pubblicati in memoria di Ernesto Monaci sotto il patrocinio del comune di Roma , Roma, Società Filologica Romana, 5 voll., vol. 5º/1 ( Valle dell’Aniene. Trascrizioni fonetiche con commento linguistico di C. Merlo ).

Loporcaro, Michele (2009), Profilo linguistico dei dialetti italiani , Roma - Bari, Laterza.

Maiden, Martin (1985), ‘Displaced’ metaphony and the morphologisation of metaphony , «Romance philology» 39, pp. 22-34.

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Mattesini, Enzo (2002), L’Umbria , in I dialetti italiani. Storia , struttura , uso , a cura di M. Cortelazzo et al. , Torino, UTET, pp. 485-514.

Merlo, Clemente (1906-1907), Dei continuatori del lat. ille in alcuni dialetti dell’Italia centro-meridionale , «Zeitschrift für romanische Philologie» 30, pp. 11-25, 438-454; 31, pp. 157-163.

Merlo, Clemente (1909), Gli italiani “amano” , “dicono” e gli odierni dialetti umbro-romaneschi , «Studj romanzi» 6, pp. 69-83.

Merlo, Clemente (1918), Del potere metafonetico , palatalizzante di lat. -Ŭ, -Ū, «Zeitschrift für romanische Philologie» 42, pp. 256-268.

Merlo, Clemente (1920), Fonologia del dialetto di Sora (Caserta) , «Annali delle Università Toscane» 6, fasc. 5 (rist. anast. Bologna, Forni, 1978).

Merlo, Clemente (1922), Fonologia del dialetto della Cervara in provincia di Roma , in I dialetti di Roma e del Lazio. Studi e documenti pubblicati in memoria di Ernesto Monaci sotto il patrocinio del comune di Roma , Roma, Società Filologica Romana, 5 voll., vol. 2º.

Migliorini, Bruno (1963), Parole nuove. Appendice di dodicimila voci al “Dizionario moderno” di Alfredo Panzini , Milano, Hoepli.

Pellegrini, Giovanni Battista (1977), Carta dei dialetti d’Italia , Pisa, Pacini.

Vignuzzi, Ugo (1988), Marche , Umbria , Lazio , in Lexikon der romanistischen Linguistik (LRL) , hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & C. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, 8 voll., vol. 4º ( Italienisch , Korsisch , Sardisch ), pp. 606-642.

Vignuzzi, Ugo (1994), Il volgare nell’Italia mediana , in Storia della lingua italiana , a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 3° ( Le altre lingue ), pp. 329-372.

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laziali, dialetti di Francesco Avolio - Enciclopedia dell'Italiano (2010) laziali, dialetti

1. Il territorio

Malgrado il suo nome antico (che fu recuperato solo in età rinascimentale, riferito a una subarea della regione attuale, così chiamata dopo l’Unità), il Lazio è una regione dalla fisionomia piuttosto recente. Basti pensare che fino al 1927 contava la sola provincia di Roma e che in quegli stessi anni fu notevolmente ampliato, inglobando vasti territori dall’Umbria (gran parte della provincia di Rieti), dall’Abruzzo aquilano (tutto il circondario di Cittaducale, con i centri di Antrodoco, Leonessa e Amatrice, aggregati al Reatino) e dalla Campania (il circondario di Sora e parte di quello di Gaeta, con centri importanti come Cassino, Fondi, Formia, divisi prima tra la provincia di Frosinone e quella di Roma, e poi, dopo il 1934, tra quelle di Frosinone e Littoria-Latina). Già in epoca romana, del resto, il toponimo Latium (da latus «luogo ampio, facilmente accessibile») designava entità diverse, come mostra la distinzione fra Latium vetus – il territorio originario dei Latini, compreso fra il basso corso del Tevere e i Colli Albani – e Latium adiectum , quello aggregato alcuni secoli più tardi, che giungeva, verso sud, fino alla bastionata degli Ausoni e al Circeo.

Entro questi mutevoli confini, la valle del Tevere, fin dal suo tratto umbro, e il bacino del Sacco-Liri sono stati da sempre due assi fondamentali negli scambi tra il Centro-Nord e il Sud della penisola, benché la prima abbia svolto altrettanto a lungo anche la funzione, strategica, di frontiera naturale fra entità storiche e statuali diverse: fra Etruschi a ovest e Italici (Sabini e Umbri) a est in età antica, fra Patrimonium Petri e territori longobardi nell’alto medioevo. Da non trascurare, però, l’importanza del corso dell’Aniene, il principale affluente del Tevere in territorio laziale, da sempre direttrice di penetrazione verso l’Abruzzo e l’Adriatico (la via Tiburtina e, oggi, l’autostrada A24 corrono per lungo tratto presso le sue sponde).

Contrariamente a quanto si può pensare sulle prime, un centro dell’importanza di Roma – oggi luogo di forte attrazione e fonte di omologazione socio-culturale – non ha esercitato, fino a tempi recenti, un’evidente leadership linguistica, per lo meno sul piano del dialetto. L’Urbe, infatti, è stata a lungo una 89

realtà sui generis , di confine, nonché caratterizzata a più riprese da un notevole e radicato plurilinguismo interno, elementi che le hanno di fatto impedito di arrivare a fondersi e a confondersi in via definitiva con questa o quella parte del suo ampio contado, o di riuscire ad assimilarle con la necessaria decisione. Non bisogna poi dimenticare fattori storici e geografico-ambientali di rilievo, come brigantaggio e malaria, che per secoli hanno steso sull’agro romano un manto insalubre di solitudine e di abbandono, efficacemente definito da Giuseppe Gioachino Belli er deserto .

2. Le varietà dialettali dell’area

Date queste premesse, il Lazio appare anche oggi un intricato mosaico dialettale, somigliando, in questo, a due altre regioni dell’Italia centrale, le Marche e l’Umbria ( ➔ umbro-marchigiani, dialetti ). Come queste ultime, anzi, anche il Lazio presenta «quella bipartizione tra un’area meridionale (ed orientale) più conservativa […] ed un’area settentrionale (ed occidentale) più variamente aperta ad influssi di diversa provenienza» (Vignuzzi 1981).

Più esattamente, secondo lo stesso Vignuzzi: anche senza voler tenere conto dei territori annessi alla regione solo molto tardi [...], si possono riconoscere immediatamente almeno tre nette ripartizioni dialettali, una di nord-ovest (la ‘Tuscia’ viterbese), una gravitante intorno a Roma (e che si prolunga oggi verso sud parallelamente alla costa fino circa al Circeo), e una a est e sud-est, con la Sabina e la Ciociaria.

Questa suddetta terza ripartizione, del resto, si estende ben al di fuori dei limiti regionali, raccordandosi, per l’appunto, all’Umbria sud-orientale (zone di Terni, Spoleto, Foligno) e all’area maceratese-fermana delle Marche, con le quali viene di solito raggruppata, nel quadro dei dialetti italo-romanzi, sotto la denominazione di «Italia mediana», dovuta a Migliorini ( ➔ Italia mediana ), che ha così definito le parlate dell’Italia centrale ormai strutturalmente lontane dal toscano e dalla lingua italiana, e vicine, invece, a quelle del Mezzogiorno.

Così ricapitolando, entro gli attuali confini amministrativi della regione abbiamo quattro tipi dialettali diversi:

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(a) il tipo della Tuscia viterbese, da inserire nell’Italia linguisticamente ‘centrale’, e che trova le aree di maggiore affinità nella Toscana meridionale e nell’Orvietano; esso si incontra con quello mediano nei comuni delle province di Viterbo e di Roma situati alla destra del Tevere (ad es. a Filacciano, Sant’Oreste, Morlupo, ma perfino Canepina e Fabrica di Roma, ancora sui Monti Cimini, mostrano tratti mediani di una certa evidenza);

(b) quello romano, strutturalmente simile al precedente (e con esso da includere nell’Italia ‘centrale’), nonché oggi in espansione, sia verso nord, a causa del diffuso pendolarismo e del sempre più frequente ‘esodo’ di famiglie romane nei comuni dell’hinterland, sia verso sud, dove agiscono anche gli effetti di un fatto di notevole importanza, la colonizzazione veneta e settentrionale dell’agro pontino all’epoca della sua bonifica (anni Venti e Trenta del Novecento); questa, sul piano della lingua, comportò infatti il passaggio, nelle successive generazioni di immigrati, a varietà assai prossime a quelle usate nella capitale (il cosiddetto «romanesco pontino»);

(c) il tipo mediano, ‘sabino’ e ‘ciociaro’ (da Amatrice e Rieti fino ad Anagni, Cori e Sonnino), che oggi riesce ancora, in qualche modo, a contenere l’infiltrazione di quello romano nella bassa Sabina, nella valle dell’Aniene e nell’area frusinate;

(d) il tipo meridionale, a sud dello storico confine fra Stato Pontificio e Regno di Napoli (rimasto fino al 1927 quello fra Lazio e Campania), nell’ambito del quale possiamo distinguere, sulla costa, varietà chiaramente campane (Fondi) e anzi napoletane (Gaeta, Formia, a cui può aggiungersi Cassino), e, più all’interno, lungo il corso del Liri, varietà quasi in tutto abruzzesi (Sora); ve ne sono poi altre, intermedie tra questi due gruppi (Atina, Arce, Pontecorvo) o che fungono da ponte con il tipo mediano lungo la fascia che va da Terracina a Frosinone e a Guarcino.

Un’importanza particolare, come vedremo, è oggi rivestita dalla composizione del ➔ repertorio linguistico che, negli ultimi decenni, ha subito un po’ ovunque ristrutturazioni anche notevoli, e più evidenti rispetto a quelle osservabili nelle regioni vicine.

2.1 Il tipo linguistico viterbese o dell’alto Lazio

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Esteso su tutta la provincia di Viterbo e nei comuni della parte nord della provincia di Roma, è caratterizzato da non poche differenziazioni interne, che si scaglionano, oltre che da nord a sud, anche da est (corso del Tevere) a ovest (costa tirrenica), seguendo una sorta di gradiente rappresentato dalle antiche consolari (Flaminia, Cassia, Aurelia; cfr. Vignuzzi 1997: 312).

Rispetto al tipo romano odierno, al quale, come si è detto, è notevolmente affine, i suoi tratti più caratteristici sono:

(a) i dittonghi o frangimenti ( ➔ frangimento ), anche in sillaba chiusa (cioè terminante per consonante), come nel viterbese [ ˈbːɛane] «bene», [ ˈpɛal ːe] «pelle»; ad Acquapendente (Viterbo) [la ˈnɔɐtːɐla] «il pipistrello», a Canepina (Viterbo) [ ˈdjorme] «dorme»;

(b) il passaggio di [-i] a [-e] nei plurali maschili (a Tarquinia [le ˈbːaf ːe] «i baffi», [le ˈpj ɛde] «i piedi»), osservabile fino alla zona dei Cimini (Ronciglione), e comune all’orvietano, a diverse varietà umbre e alle Marche centrali;

(c) gli articoli determinativi [ ɛl], [al] o [il], spesso fusi al nome con ➔ raddoppiamento sintattico , come in Toscana (a Tarquinia [ ɛl fale ˈɲː ame] «il falegname», a Montefiascone [i ˈfːab ːro] «il fabbro»), ma che nella zona sud-orientale vengono spesso sostituiti da [lo, o], come nell’antico romanesco (a Ronciglione [o ʦiˈnale] «il grembiule», a Fabrica di Roma [o ˈmaniko] «il manico»);

(d) il possessivo enclitico (il tipo fìglito «tuo figlio», sòrema «mia sorella»), ancora vitale a sud e a est del lago di Vico (Blera, Canepina, Fabrica), ma con tracce anche più a nord, e nel medioevo esteso fino a comprendere l’intera Toscana (e Roma);

(e) il tipo tisto «codesto», in cui appaiono sia un resto della ➔ metafonia delle vocali medio-alte (cfr. § 2.3) sia una tripartizione dei dimostrativi ( ➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi ) analoga, anche nella forma, a quella toscana fra questo , codesto e quello ;

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(f) l’accordo del ➔ participio passato con il pronome gli , per cui, ad es., nei dialetti dai Cimini fino al Tevere (Carbognano, Fabrica, Faleria, Calcata, Sant’Oreste e altre località), si ha [t ɔ ˈdːit ːo] «ti ho detto», ma [l ɔ ˈdːit ːi] «gli ho detto»;

(g) le preposizioni e le forme avverbiali rafforzate da intus: [ta] «a», [to ˈkːi] «qui», [to ˈsti] «costì», [to ˈlːi] «lì», ecc.

Rispetto alla Toscana, invece, si osservano:

(a) tracce sparse di dittonghi metafonetici, noti all’antico romanesco e oggi presenti nell’Italia meridionale (cfr. § 2.4): a Canepina [e g ːuˈpjerki] «i coperchi», [ ˈstjorto] «storto»;

(b) tracce di distinzione tra -o e -u, sia, a nord, per contatto con l’area toscana amiatino-pitiglianese (ad Acquapendente [ ʤeˈnːaru] «gennaio»), sia, a sud-est, come anticipazione delle condizioni mediane (a Sant’Oreste [u ˈraginu] «il ramarro»);

(c) lo sviluppo di -rj- a [-r-], anziché a [-j-]: a Montefiascone [i m ːaʃeˈlːaro] «il macellaio», a Cerveteri [il fe ˈrːaro] «il fabbro»;

(d) le assimilazioni consonantiche progressive, tutte ancora ben attestate: [-nd-] > [-nn-] (un po’ ovunque [ ˈkwan ːo]), [-mb-] > [-mm-] (a Fabrica di Roma [ko ˈmːat ːa] «trattare, discutere»), [-ld-] > [-ll-] in caldo e nei derivati (un po’ ovunque [ak ːwa ˈkal ːa] «acqua calda», [kal ːaˈraro] «calderaio», ecc.).

Questi ultimi due tratti, anzi, assieme alla pronuncia [ ʦ] di [s] dopo [l, n, r] ([ ˈbor ʦa] «borsa», [ ˈpɛnʦo] «penso», ecc.) e la costruzione stare + a + infinito usata per esprimere un aspetto durativo (i tipi che stai a ffà? e ma che stanno a ddì? , contrapposti a stare + gerundio che si osserva tanto in Toscana, quanto in Campania), sono tra i pochi comuni all’intera regione.

2.2 Il tipo linguistico romano

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Il romanesco presentava, fino al XVI secolo, caratteri molto diversi da quelli odierni, che lo avvicinavano sensibilmente, anche se non del tutto, ai dialetti mediani (è stato infatti efficacemente definito una varietà ‘perimediana’, nonché, per lunga consuetudine, romanesco ‘di prima fase’) (➔ Roma, italiano di ).

Causa primaria del notevole cambio linguistico fu il sacco subito nel 1527 da parte dei lanzichenecchi, che spopolò la città, tornata poi a crescere rapidamente grazie a un notevole apporto immigratorio, proveniente soprattutto dalla Toscana, ma anche dal Nord Italia (cfr. Trifone 1992: 43-45). I nuovi venuti, nel giro di qualche decennio, erosero, ‘smeridionalizzarono’ il dialetto, i cui tratti caratteristici riuscirono a sopravvivere, fino alle soglie del Novecento, solo nel giudeo-romanesco ( ➔ giudeo italiano ), la varietà in uso presso l’antica e numerosa comunità ebraica, relegata proprio in quegli stessi anni all’interno del ghetto, sulla sponda sinistra del Tevere, tutt’intorno al Portico d’Ottavia, dove rimase per oltre tre secoli (dal 1555 al 1870).

Malgrado la forte pressione prima toscaneggiante e poi italiana, il dialetto odierno di Roma (definito spesso tecnicamente «romanesco di seconda fase») ha però conservato dell’antica parlata medievale alcuni fenomeni fonomorfologici che ancora oggi lo caratterizzano visibilmente, fra i quali:

(a) la mancata chiusura di [-e-] in [-i-] prima dell’accento, soprattutto all’interno di frase ([de ˈroma] «di Roma», [me ˈdi ʃi] «mi dici»);

(b) lo sviluppo di -rj- a [-r-]: [kar ʦoˈlaro] «calzolaio», [ma ʃeˈlːaro] «macellaio» e, più di recente, [grup ːeˈtːaro] «esponente di gruppuscoli politici», [palat ːsi ˈnaro] «costruttore di palazzine (spesso abusive)», ecc.;

(c) l’assimilazione progressiva -nd- > [-nn-]: [ ˈmon ːo], [a ˈnːa] «andare», [ ˈsp ɛnːe] «spendere», ecc. (quella -mb- > [-mm-] è di fatto scomparsa, mentre l’assimilazione -ld- > [-ll-] sopravvive in caldo e nei derivati: [ˈkal ːo] «caldo», [ka ˈlːat ːʃa] «calura estiva»);

(d) la saldezza della distinzione fra le coniugazioni nella desinenza della II persona plurale del presente indicativo: [par ˈlamo, ve ˈdemo, sen ˈtimo] «parliamo, vediamo, sentiamo».

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In epoca postcinquecentesca sono invece da collocare:

(e) l’indebolimento di [-ʧ-] a [-ʃ-] fra vocali ([ ˈpa ʃe] «pace», [b ːru ˈʃ a] «bruciare»);

(f) il parallelo indebolimento di [-ʎː -] a [-jː-] (che poi può ulteriormente ridursi o cadere ([ ˈfi ʎː o] > [ˈfij ːo] > [ ˈfijo] > [ ˈfio] «figlio»; cfr. Trifone 1992: 61 e D’Achille 2002: 543).

La vitalità del dialetto cittadino – che, malgrado le interferenze e la vicinanza strutturale, non sembra tendere a quel ‘disfacimento’ nella lingua comune paventato prima della guerra da Bruno Migliorini – è poi ben testimoniata da diverse tendenze innovative di segno ‘non italiano’ sviluppatesi dall’Ottocento a oggi. Menzioniamo in particolare:

(a) l’indebolimento di [-rː-], documentato nella sua fase iniziale già in Belli ( terina «terrina», ma arrosto , oggi [a ˈrɔsto], cfr. Trifone 1992: 65);

(b) l’indebolimento e la caduta di [l] in articoli, pronomi e preposizioni articolate, con successive fusioni fra suoni vocalici divenuti contigui ([o ˈvedi] «lo vedi», [k a ːˈmiko] «con l’amico»); è la cosiddetta lex Porena , da Manfredi Porena, lo studioso che per primo la descrisse nel 1925;

(c) lo sviluppo di [a] come particella vocativa ([a ˈfranko] «ehi, Franco!»); ancor più recente è la lenizione intervocalica, cioè la tendenza a pronunciare [-p-, -t-, -k-] fra vocali quasi come [-b-, -d-, -g-] ([aj ga ˈbido?] «hai capito?»), per la verità documentata da tempo sia nell’alto Lazio, sia fra i dialetti mediani (si vedano, ad es., le forme [de ˈrɛdo] «dietro» e [mbri ˈago] «ubriaco» di Canepina), ma oggi divenuta rapidamente una delle caratteristiche dell’‘accento romano’ meno apprezzate sul piano nazionale.

L’area dei Castelli Romani, spesso associata alla capitale anche sul piano linguistico, mostra in realtà una forte frammentazione. Essa ha inoltre subito nel tempo notevoli influssi romaneschi moderni (oggi evidenti soprattutto ad Albano, Ariccia e Grottaferrata, un po’ meno a Marino), che hanno spesso modificato e complicato il quadro di partenza. I tratti mediani originari si mantengono meglio a Frascati, Genzano, Nemi, Rocca di Papa, Lanuvio e Velletri, mentre il versante settentrionale, con

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Montecompatri e Rocca Priora, mostra ancora oggi una netta congruenza fenomenologica con l’area sabina (cfr. § 2.3; Lorenzetti 1993; Dardano 1999).

2.3 Il tipo linguistico mediano

Fra i dialetti che abbiamo definito ‘mediani’, parlati a est e a sud del Tevere, i fenomeni più caratteristici e conservativi (nonché strettamente interrelati), presso che sconosciuti a Roma (fin dalle origini) e nell’alto Lazio, sono sicuramente:

(a) la metafonesi, cioè l’innalzamento di timbro delle vocali accentate [e] e [o], che, per influsso delle vocali finali -i e -u latine originarie, diventano anch’esse, rispettivamente, [i] e [u]; abbiamo così a Rieti [ˈniru, ˈniri] «nero, -i», ma [ ˈnera, ˈnere], a Cori (Latina) [ ˈtun ːo, ˈtun ːi] «tondo, -i», ma [ ˈton ːa, ˈton ːe] «tonda, -e»; allo stesso modo, [ ɛ] e [ ɔ] si chiudono in [e] ed [o]: ancora a Rieti [ ˈtembu, ˈtembi] «tempo, - i», [ ˈbːonu, ˈbːoni] «buono, -i», ma [ ˈbːɔna, ˈbːɔne] «buona, -e», a Cori e Priverno (Latina) [ ˈos ːo] «osso», ma [ ˈɔ sːa] «ossa», ecc. (quest’ultimo sviluppo è detto, per l’appunto, metafonesi sabina o ciociaresca ).

(b) la distinzione tra -o e -u alla finale, che ricalca fedelmente quella latina ([ ˈbːonu] < bŏnu(m) «buono», [ ˈis ːu] < ĭpsu(m) «lui», [ ˈpilu] < pĭlu(m) «pelo», [ ˈtembu] < tĕmpu(s) «tempo», ma [ ˈlɔko] < lŏco «lì», [ ˈɔ tːo] < ŏcto «otto», [ ˈsat ːʃo] < sapio «so», [kan ˈdɛnːo] < cantando «cantando») e che ritroviamo dalle conche di Rieti e di Amatrice fino a Tivoli e ai Castelli Romani (Frascati con i Castelli ‘tuscolani’, Genzano e Lanuvio la possiedono, mentre ad Albano, Ariccia e Velletri è già sconosciuta). Nella valle dell’Aniene, fra Vicovaro e Subiaco, essa è ricollegata alla natura delle vocali accentate: se queste ultime sono [-a-, -i-, -u-] (vocali ‘estreme’), allora alla finale, quando in latino c’era -u, abbiamo [- u] anche oggi ([ ˈis ːu] «lui», [ ˈtut ːu] «tutto», [ ˈbːrau] «bravo»), ma se le vocali toniche sono [-ɛ-, -e-, -ɔ-, - o-] (vocali ‘medie’), in fine di parola si ha [-o] anche per -u latina ([ ˈtembo] e non [ ˈtembu], «tempo», [ˈfoko] e non [ ˈfoku] «fuoco»). Le varietà dell’alta valle (Jenne, Trevi, Filettino), del bacino del Sacco e dei monti Lepini mostrano invece il conguaglio delle due vocali antiche su [-o] (a Cori e Segni [ ˈbːono, ˈis ːo, ˈtembo], come [ ˈlɔko, ˈsat ːʃo], ecc.);

(c) alcuni segnali di continuazione del neutro ( ➔ neutro ) latino, tanto interessanti quanto sconosciuti ai più; si possono osservare sia nell’uso di un articolo particolare – diverso da quello maschile (e

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femminile) – sia nella presenza di dimostrativi, di norma non metafonetici, anch’essi distinti dai maschili (che sono sempre metafonetici) e riferiti esclusivamente a entità astratte (con il significato di «questa», «codesta» o «quella cosa»). L’articolo neutro è molto spesso [lo], oppure [o] (< illŭd o *illod), di contro a [lu, ju, jo ru] o [u] (< illŭ(m)) del maschile, ed è obbligatorio davanti a sostantivi indicanti materie o sostanze (a San Polo dei Cavalieri, in provincia di Roma, [lo ˈfer ːu] «il ferro» inteso come metallo, ma [lu ˈfer ːu] «il ferro da stiro»), ad aggettivi sostantivati, che non ammettono una forma plurale ([lo ˈfri ʃku] «il fresco», nel senso della «frescura», [lo ˈru ʃː u] «il colore rosso», ma [lu ˈru ʃː u] «la persona dai capelli rossi»), a verbi sostantivati ([lo par ˈla] «il parlare»); il corrispondente pronome e aggettivo dimostrativo compare, invece, in forme ed espressioni come (Cori) [se ˈpːuro n i ˈʣ at ːʃo ˈlɛdːʒe, ˈkesto lo ka ˈpi ʃː o] «anche se non so leggere, questo [ciò, questa cosa] lo capisco» (ma [ ˈkisto ˈmun ːo e kːiˈʎː aro] «questo mondo e quell’altro», forma maschile).

Sul piano del consonantismo, le affinità fra le due sponde del Tevere sono maggiori: lo sviluppo di -rj- a [-r-], le assimilazioni consonantiche progressive e il possessivo enclitico sono infatti, come si è visto, in comune col tipo alto-laziale e (tranne l’ultimo) con il romanesco moderno; lo stesso può dirsi del ➔ betacismo , cioè la continuazione di v- e b- latine ora come [v-] (in posizione iniziale o intervocalica) ora come [(-b)b-] (dopo consonante o raddoppiamento fonosintattico: a Castel Madama [ ˈvok ːa] «bocca», [vot ːe] «botte», [vo ˈtːone] «bottone», ma [zbo ˈkːatu] «sboccato», [ab ːoˈkːatu] «di bocca buona», [zbo ˈtːa] «scoppiare, sbottare», [ab ːoˈtːa] «gonfiare, far diventar gonfio», ecc.), scomparso da secoli a Roma, ma ancora variamente attestato nel Viterbese, oppure dell’esito più arcaico di j, dj, g + e, i, cioè [j], che poi spesso cade ([ ˈjamo] «andiamo», [ ˈoj] «oggi», [ ˈfrie] «friggere») o di -gn- ([ ˈlena] «legna», [ˈpr ɛna] «gravida»).

Non vanno oltre il fiume, invece (tranne qualche sporadica eccezione):

(d) la lenizione postnasale, cioè il passaggio dei suoni [-k-, -t-, -p-] quasi a [-g-, -b-, -d-] dopo [-n-] ([ ˈbːangu] «banco», [ ˈmonde] «monte», ecc.), che a Roma è il tratto tipico del ‘burino’;

(e) la varietà di esiti del nesso l + consonante: non solo [-r-], che è presente anche a Roma ([kor ˈtɛlːo], a Rieti [kor ˈtel ːu, ˈfar ʤa] «falce»), ma anche [-w-] (come in [ ˈfaw ʃe] «falce» a Sonnino, in provincia di Latina) o il dileguo (come in [ ˈfa ʃa] «falce» a Serrone, in provincia di Frosinone);

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(f) la tripartizione di dimostrativi e avverbi di luogo e di modo espressa con specifiche forme locali, tutte molto simili, di cui le più diffuse sono [ ˈkwi ʃtu] «questo», [ ˈkwis ːu] «codesto» e [ ˈkwil ːu] «quello»; [ˈɛ kːo] «qui», [ ˈɛ sːo] «costì», [ ˈɛ lːo] o [ ˈlɔko] «lì»; [k ːuˈʃ i] «così come faccio io», [s ːuˈʃ i] «così come fai tu», [l ːuˈʃ i] «così come fa lui o loro»;

(g) l’uso di tenere per avere non ausiliare ([ ˈtɛngo tre ˈfːiji] «ho tre figli»).

Nella morfologia verbale, spiccano:

(h) le forme di III persona plurale del presente indicativo in [-au] o [-ao], determinatesi, in alcuni casi, per ragioni fonetiche (soprattutto in seguito al dileguo di [-d-] e [-v-] intervocaliche), e poi generalizzatesi per via analogica, cioè anche dove tali consonanti non erano originariamente presenti: a Rieti e in tutta la Sabina [ ˈau] < [ ˈavu] «hanno», [ ˈkau] < [ ˈkadu] «cadono», [ ˈfau] «fanno», [ ˈstau] «stanno», [ ˈvau] «vanno», a Genazzano (Roma) [ ˈao, ˈfao], ecc.

Nella sintassi, di rilievo:

(i) l’ ➔accusativo preposizionale , almeno in certi contesti ed espressioni, anche italiane, come beato a te! , o a noi manco ci guarda .

Sempre sul piano sintattico molti dialetti sabini e quelli ciociari si allontanano dalle parlate mediane umbre e marchigiane (e da quelle laziali oltre il Tevere) perché in essi:

(l) sono poco popolari gli avverbi nel ruolo di componenti verbali, come in forme del tipo andare via o buttare via ; così, al maceratese [ ɛ ˈitu ˈvia] i dialetti mediani del Lazio rispondono con [se n ɛ ˈjːitu] «se ne è andato» (e sim.), a [ ˈbːutta ˈvia s ːi ˈsas ːi] «butta via codesti sassi», ancora prevalente a Rieti, si preferisce [ ˈjɛtːa s ːi ˈsas ːi] «getta codesti sassi» (Nemi, in provincia di Roma) o [ ˈjɛtːa s ːe ˈpr ɛte] «getta codeste pietre» (Veroli, in provincia di Frosinone; cfr. AIS c. 1674).

Uno dei tratti che distinguono piuttosto chiaramente le parlate sabine da quelle ciociare è, accanto all’esito di -u latina:

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(m) il trattamento di -l- iniziale e -ll- interno davanti a -i e -u; questi, intatti in tutta la Sabina, fino a Tivoli e a San Polo ([lu] «il», [ ˈkwil ːu] «quello», [vi ˈtel ːi] «vitelli»), a partire dalla valle dell’Aniene presentano uno sviluppo palatale che li trasforma in [-(ʎ)ʎ-] o [-(j)j-] (a Vicovaro e Roviano, in provincia di Roma, [ju] «il», [ ˈvij ːu] «quello», [vi ˈtej ːi] «vitelli», a Serrone, in provincia di Frosinone, [jo ka ˈvaj ːo] «il cavallo», ecc.). Tale sviluppo sconfina a sud nei dialetti di tipo meridionale.

L’ ➔intonazione estremamente segnata di queste parlate, presente non solo nelle frasi interrogative, e riconoscibile anche nell’alto Lazio (oltre che in Umbria e nelle Marche), è in parte ricollegata a ragioni fonetiche: nella sillaba finale, infatti, si è sviluppato spesso un accento secondario o contraccento, non a caso trascritto con frequenza dai raccoglitori stranieri o non del luogo della prima metà del XX secolo (ad es., da Paul Scheuermeier: [ ˈfij ːuˌmu] «mio figlio» a Leonessa, in provincia di Rieti, [ ˈfij ːiˌmu] «mio figlio» a Norcia, in provincia di Perugia, [ ˈfij ːaˌmu] «mio figlio» a Montefortino, in provincia di Ascoli Piceno).

2.4 I dialetti di tipo meridionale

Nel basso Lazio già appartenuto alla Campania si parlano, come si è detto, dialetti di tipo meridionale, la cui caratteristica fonetica più vistosa è:

(a) la confluenza di tutte o quasi tutte le vocali finali in un unico suono, la cosiddetta e muta o indistinta [ə] ( ➔ scevà ) (fanno eccezione i paesi del basso Garigliano, a sud di Cassino, come Ausonia, Suio, Minturno, che in questo si riallacciano ai dialetti campani contigui): abbiamo così, ad es., a Gaeta (Latina), [ ˈsol ə] < sole(m) «sole», [ ˈkwan ːə] < quando «quando», [ ˈvin ə] < vinu(m) «vino», [ˈfat ːə] < facti «fatti», ma anche «fatto», [ ˈfem ːənə] < femina(m) «donna», ma anche «donne», ecc.

Di rilievo, poi:

(b) il frequente dittongamento metafonetico, o metafonesi ‘napoletana’: [ ˈpjer ə] «piedi» (ma [ ˈpɛrə] «piede»), [ ˈtjemp ə] «tempo, -i», [ ˈnwov ə] «nuovo, -i» (ma [ ˈnɔvə] «nuova, -e»), [ ˈkworp ə] «corpo», ecc. (la chiusura ‘sabina’, però, compare ancora a Sora e Ausonia, in provincia di Frosinone, Fondi e

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Minturno, in provincia di Latina); esso si affianca alla metafonesi delle medio-alte, identica a quella dei dialetti mediani ([ ˈnir ə] «nero, -i», [ ˈmun ːə] «mondo»).

In comune con l’area mediana – a sottolinearne l’affinità strutturale – sono anche alcuni importanti tratti consonantici e morfologici, come il betacismo, le assimilazioni progressive, la lenizione postnasale, lo sviluppo in [j] dei suoni latini j, dj, g + e, i, il possessivo enclitico con i termini di parentela. Più caratteristici dell’area sono invece:

(c) l’esito di -bj-, che è [-dːʒ-] da Cassino al mare (a Fondi [ ˈad ːʒə ] < habeo «ho», [ ˈrad ːʒə ] < rabia «rabbia»);

(d) il triplice esito del nesso di l + consonante (a Gaeta [kur ˈtjel ːə] «coltello», [ ˈav ətə] «alto», [ ˈvɔtə] «volta»);

(e) lo sviluppo del nesso latino pl- a [kj-] e di fl- a [ ʃ-], frequente nelle zone interne (a Sora [ ˈkjan ə] «piano», [ ˈkj ɔvə] «piove», e, nel dialetto più arcaico, [ ˈʃ or ə] «fiore», [ ˈʃ um ə] «fiume»), più raro sulla costa;

(f) l’articolo neutro, che nelle isole ponziane appare già caratterizzato, come nel napoletano, dalla marca del raddoppiamento fonosintattico ([u ˈpːan ə] «il pane», [u ˈkːas ə] «il formaggio», forme neutre, ~ [u ˈpɛdə] «il piede», [u ˈkan ə] «il cane», forme maschili);

(g) la tripartizione degli avverbi di luogo, in parte diversa da quella mediana (a Itri, in provincia di Latina, [ ˈkːa] «qui», [ ˈsːa] «costì», [ ˈlːa] «lì»);

(h) frequenti cambi di classe (metaplasmi) nelle forme del participio passato e dell’infinito dei verbi (a Cassino [ ˈjut ə] «andato», [par ˈtut ə] «partito», [s ənˈdut ə] «sentito», [ ˈsa ʎːə ] «salire»);

(i) l’anticipazione dei pronomi clitici nelle secondarie con modo indefinito, frequente sulla costa (a Fondi [ ɛ mːəˈ nut ə pə mːə vəˈ de] «è venuto per vedermi»).

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Nel lessico, spiccano gli avverbi [ ˈng ɔpːa] «sopra», [a ˈbːaʃːə ] «sotto», resti di [ ˈkraj ə] < cras «domani», [p əˈ skraj ə] < post-cras «dopodomani», e anche (Fondi, Minturno) [p əˈ skri ɲːə ] < postridie «fra tre giorni», i verbi [ak ːaˈtːa] «comprare», [al ːuˈkːa] «gridare», [su ˈsa] «alzarsi».

3. La presenza del dialetto nei recenti rilevamenti statistici

Forse in nessun’altra parte d’Italia come nel Lazio i dati derivanti da inchieste statistiche più o meno recenti, di solito aggregati per regioni, rischiano di rivelarsi, nella loro formale ‘neutralità’, parziali o fuorvianti, per almeno due motivi:

(a) la già vista, notevole differenza fra Roma e il resto della regione, non solo a livello di dialetti ‘di base’, ma anche nella strutturazione del repertorio linguistico;

(b) la prossimità, nella capitale e nelle aree da essa più influenzate, del dialetto all’italiano, al punto che diventa difficile, non solo per i parlanti, distinguere i registri più bassi di quest’ultimo (efficacemente definito da Vignuzzi «italiano de Roma») da quelli più propriamente dialettali. Insomma, quando il campione o una sua parte dichiara di usare l’‘italiano’, è ancor meno chiaro che altrove a quale concreta varietà linguistica intenda riferirsi.

Fatta questa premessa, secondo l’Istat nell’Italia centrale il Lazio si colloca, assieme alla Toscana, ben al di sotto della media nazionale per quanto riguarda l’uso del dialetto in famiglia: nel 2006, solo il 6,6% del campione ha infatti dichiarato di esprimersi solo o prevalentemente in dialetto, mentre il 28,4% adopera entrambi i codici (la media nazionale è, rispettivamente, del 16 e del 32,5%). Non molto diverso il quadro per quanto riguarda l’uso con amici: qui la percentuale di coloro che dicono di parlare solo o quasi solo il dialetto sale di poco (6,9%), mentre quella dei ‘bilingui’ scende al 27,1% (media nazionale 13,2 e 32,8%).

Nei primi anni del XXI secolo, il dialetto sembra poi aver subito un ulteriore arretramento: nel 2000, infatti, la percentuale di coloro che in famiglia usavano il dialetto in via quasi esclusiva era pari all’8,1%, e al 29,8% arrivava quella di coloro che usavano dialetto e italiano (media nazionale di allora, 19,1 e 32,9%); con amici, le percentuali erano del 6,9 e del 28,4% (media nazionale 16 e 32,7%). È però

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abbastanza facile intuire che percentuali così basse riflettono solo una parte della realtà comunicativa, quella delle classi più alte e a maggiore scolarizzazione, dove l’italofonia è da tempo pressoché esclusiva, a Roma come in tutti i grandi centri. In realtà, tanto la presenza diffusa di tratti linguistici comunque etichettabili come ‘non italiani’ – ben percepiti, nella capitale e anche altrove, da persone non residenti o non originarie della regione – quanto l’improbabile, netto stacco rispetto alle percentuali di regioni vicine e linguisticamente simili come l’Umbria e le Marche – dove pure la forza del modello toscano non può certo dirsi assente – stanno lì a indicarci che il metodo di rilevamento statistico, per lo meno nella sua dimensione regionale, deve essere ulteriormente raffinato e perfezionato.

4. Tipi di italiano regionale

L’italiano parlato a Roma o, come si è già detto, l’italiano de Roma ( ➔ Roma, italiano di ), proprio perché strettamente intrecciato ai diversi livelli di dialetto, mostra diverse caratteristiche fonomorfologiche e lessicali di quest’ultimo. Esso, inoltre, è oggi in notevole espansione in tutta la vasta area metropolitana sorta intorno alla capitale, e anche più lontano. Roma, anzi, malgrado i molti ed irrisolti problemi che ne fanno una città a volte difficile, sta superando proprio sotto i nostri occhi, e per la prima volta nella sua storia (se si eccettua, ovviamente, la lunga fase latina), il relativo isolamento linguistico rispetto alla maggior parte del contesto regionale, mostrandosi ormai capace di influenzare, a livello italiano e dialettale (con tutti gli intrecci e le sovrapposizioni del caso), aree sempre più estese, fino alla Maremma toscana e al basso Lazio linguisticamente campano (Formia), con infiltrazioni visibili anche nell’Abruzzo aquilano.

Fra i tratti principali dell’italiano di base romana ricordiamo:

(a) una diversa distribuzione delle vocali medie [ ɛ, e, ɔ, o] rispetto alla pronuncia fiorentina: [ ˈdevo, ˈbːɛstja, ˈlet ːera, sa ˈrɛbːe, ko ˈlɔnːa, ˈdɔpo];

(b) la realizzazione intensa di [b] e [ ʤ] tra vocali: [ ˈsub ːito, ˈvid ːʒile];

(c) sempre fra vocali, la diffusione di [z] a scapito di [s]: [ ˈnazo], [ ˈkaza] accanto a [ ˈnaso, ˈkasa];

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(d) la pronuncia intensa della consonante iniziale in parole come [ ˈkːjɛsa] «chiesa», [ ˈsːɛdja] «sedia»;

(e) la frequenza di ci con avere non ausiliare: [ ˈkwanti ˈan ːi ˈʧ aj]?;

(f) il troncamento (apocope) degli allocutivi e degli infiniti ( a Francé , vattene a ddormì );

(g) te usato come pronome soggetto ( vacci anche te );

(h) il possessivo che di solito segue il nome ( il quartiere mio );

(i) starci con il significato di esserci (ci stanno tante per [ʦo] ne ).

Nel resto del Lazio, si ode anche la lenizione postnasale ([imbera ˈtore], [ ˈʧ ingwe]), il passaggio di [s] a [ʃ] e di [z] a [ ʒ] prima di consonante (palatalizzazione: [di ˈsa ʃtro], [ ˈʒ bat ːere]) e, più spesso che a Roma, dove rimane confinato nei registri più bassi, l’indebolimento di [-ʎː -] in [-jː-] ([ ˈmoj ːe], [ ˈpaj ːa]). Rispetto a Roma, si nota poi un uso decisamente più ampio del tu , anche in quei casi in cui di solito si dà del lei . Nella sintassi, di rilievo, come in altre zone del Centro-Sud, il costrutto ancora non + presente indicativo per riferirsi all’immediato passato ( ancóra non ci vado , per «ancora non ci sono andato»).

La diffusione nel Lazio centro-meridionale dell’italiano regionale romano, con la sua forte presenza di elementi tipici di una varietà che non è quella del luogo, ha ovviamente modificato la composizione del repertorio linguistico; la distanza fra il ‘dialetto di base’ (ancora mediano o campano) e i vari tipi di italiano che ad esso si affiancano nella conversazione va gradualmente, sensibilmente aumentando, finendo con il determinare uno stato di cose che certo è per molti versi anomalo nel contesto italiano centro-meridionale, ma che, a ben guardare, si rivela affine a quello creatosi ormai da tempo nel Lazio centrale grazie al prolungato contatto fra il romanesco e le varietà mediane più vicine (Castelli Romani, Tivoli, Palestrina). Non vanno comunque dimenticati gli interessanti casi, ormai storicamente stratificati perché vecchi di più di un secolo, di contatto ‘a distanza’ (ad es., fra romanesco e varietà alto-sabine nella conca di Amatrice, in provincia di Rieti), dovuti a una forte emigrazione verso Roma (ad es., di ristoratori, costruttori, ecc.) e alla conseguente emigrazione di ritorno, spesso a carattere stagionale.

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5. Cenni sulle tradizioni scrittorie dell’area

Un caso particolarissimo, e anzi eccezionale, di grafia fedele fin nei minimi dettagli al parlato è quella elaborata a Roma da Giuseppe Gioachino Belli; essa, ad es., aveva previsto la sistematica distinzione tra [ʃ] e [ ʃʃ ] ( la sòscera «la suocera», sonetto 1422, Nassce , sonetto 1496), nonché la riproduzione sia dello sviluppo [s] > [ ʦ] dopo [n, r] ( penzo , er zangue tuo , sonetto 1406), sia del raddoppiamento fonosintattico (E cquanno ho mmesso a rrisico la pelle , ivi), ecc. Un simile esempio di precisione, però (non a caso Belli è stato definito ‘poeta dialettologo’), era quasi fatalmente destinato a non trovare eredi, e infatti le scelte di autori come Cesare Pascarella e Trilussa si orientarono verso una grafia non ‘fonetica’, come quella belliana, bensì ‘fonologica’.

Molte le oscillazioni presenti anche nel Pasticciaccio di ➔ Carlo Emilio Gadda – che, come si sa, si era avvalso dell’aiuto e della consulenza di Mario Dell’Arco (vi troviamo, fra l’altro, esempi sporadici di lex Porena , come in chiamamoo «chiamiamolo») – così come sono contrastanti i giudizi espressi sul romanesco dei romanzi di ➔ Pier Paolo Pasolini , che vanno dall’ammirazione per la fedeltà a una lingua non propria, fino all’accusa di aver creato un idioma del tutto ‘artificiale’ (la verità, come spesso accade, sta nel mezzo).

I tipi di scrittura non letteraria più diffusi oggi in una vasta area intorno a Roma (ivi comprese le scritte murali e quelle in luoghi pubblici vari, come scuole, stazioni, treni, ecc.; cfr. Stefinlongo 1999) in genere strizzano l’occhio ad alcuni tratti più appariscenti, come l’uso di j per gl (i) originario ( mejo , voja ), il rotacismo di [l] ( ber corpo «bel colpo»), a volte perfino l’indebolimento della vocale dopo l’accento (màgnete «màngiati»).

Nel Viterbese, appaiono in genere ben trascritti i volumi di testi dialettali pubblicati nel comune di Canepina. In area mediana, solo di rado viene evidenziata con appositi accenti la chiusura metafonetica di [ ɛ] ed [ ɔ] (tempu, bonu per [tembu] e [b ːonu]) o la lenizione fra vocali e postnasale, né si fa gran caso, in genere, alla differenza tra [ ʃ] e [ ʃʃ ] (casciu «cacio», pesce «pesce»). Rara, come a Roma, anche la trascrizione del raddoppiamento fonosintattico (un’eccezione è il titolo di Tacchia 1990, Che nn’è?). Nel basso Lazio, le difficoltà maggiori si riscontrano nella grafia della ➔ scevà , che a volte viene segnata con una e, come nell’Abruzzo contiguo, altre, ad es. nella zona di Formia e Gaeta, viene di fatto ignorata, ripristinando le vocali etimologiche, secondo l’uso da tempo invalso nel napoletano letterario, con l’eccezione di -i, resa in genere con -e (come in luonghe «lunghi»; cfr. Bove & Centola 2003). Sempre più diffusa è poi la tendenza, a

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livello popolare, a rappresentarla come zero, eliminando ogni simbolo, con la conseguenza di creare, in certi casi, un cumulo di consonanti (come in femmn «donna»); sporadicamente si segna un semplice apostrofo (cundent’ «contento»).

Alcuni dialetti mediani di transizione verso il tipo meridionale (ad es., quelli di Ceccano, Ferentino, Patrica, tutti in provincia di Frosinone) vengono messi per iscritto rendendo spesso la loro -u ‘a denti stretti’ ([ ɯ]), che qui compare anche per -e originaria, con -u (du Pratica «di Patrica»); questo stesso suono, dopo consonante palatale, può diventare simile a [i] ([ ɪ]), e trascritta pertanto con una -i normale (cappegli «cappello»).

6. Cenni sulla letteratura dialettale

Impossibile riassumere, anche per sommi capi, le vicende di una delle letterature dialettali ‘riflesse’ più ricche e differenziate, quale è quella romana.

Sarà pertanto sufficiente ricordare i nomi di: Cristoforo Castelletti, autore della commedia Le stravaganze d’amore (1585), in cui compare la vecchia serva Perna, una sorta di identikit di uno degli ultimi parlanti del romanesco ‘di prima fase’; Giovan Battista Peresio (1628-1696 circa), che nel Jacaccio, ovvero Il Palio conquistato, ha descritto la contesa, nella Roma trecentesca di Cola di Rienzo, fra il trasteverino Titta e il monticiano Jacaccio; Giuseppe Berneri (1634-1701), forse più efficace e interessante linguisticamente di Peresio, e inoltre creatore del personaggio di Meo Patacca, destinato a diventare una delle maschere della città; Benedetto Micheli (1699-1784), che ne La libbertà romana acquistata e difesa ha rievocato le origini dell’antica repubblica romana. Alla fine del Settecento, il romanesco viene piegato a un uso reazionario nella serie di testi poetici noti col titolo complessivo di Misogallo romano.

Giuseppe Carletti, con L’incendio di Tordinona (1781), rappresenta l’immediato antecedente di Belli; di quest’ultimo (1791-1863) si parlerà altrove, ma qui ricordiamo che i suoi 2279 sonetti rappresentano davvero un unicum, quantitativo e qualitativo, tanto letterario quanto linguistico, al punto che le opere di Cesare Pascarella (1858-1940) e di Carlo Alberto Salustri (Trilussa, 1871-1950), malgrado il loro indubbio valore, hanno forse subito le conseguenze dell’inevitabile confronto con il precedente belliano (ma Trilussa, solo da pochi anni rivalutato come merita – cfr. Trilussa 2004 – conta ancora oggi un’ampia cerchia di estimatori e di epigoni, mentre la Scoperta dell’America di Pascarella è stata recentemente riproposta a teatro).

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L’influsso di Belli resta visibile in Filippo Chiappini (1836-1905), noto soprattutto per un fortunato Vocabolario romanesco, pubblicato postumo, e in Giggi Zanazzo (1860-1911), che fu il maggior folklorista della capitale. Il giudeo- romanesco è stato immortalato, poco prima della sua agonia, nei bellissimi sonetti di Crescenzo Del Monte (1868-1935), mentre la canzone dialettale ha trovato in Romolo Balzani (1892-1962), l’autore di Barcarolo romano, il suo esponente più noto.

In anni più recenti, Mario Dell’Arco (1905-1996) ha rappresentato un filone che si contrapponeva esplicitamente a quello (ritenuto troppo ‘borghese’ e dunque non autentico) di Trilussa, e che si apriva all’ermetismo e alle tendenze della poesia contemporanea. Nel dopoguerra, il romanesco, oltre che nei film di Anna Magnani, Aldo Fabrizi e Alberto Sordi (a cui si affianca una fitta schiera di caratteristi), giù giù fino a Gigi Proietti (e ai suoi proclamati antecedenti nella figura di Ettore Petrolini) e ad altri protagonisti del cinema contemporaneo, ha trovato ampio spazio, sotto varie forme, nei romanzi del milanese Carlo Emilio Gadda (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1957) e del friulano Pier Paolo Pasolini (Ragazzi di vita, 1955, e Una vita violenta, 1959), già citati sopra. Ancora al romanesco belliano si rifanno i versi di Antonello Trombadori (1917-1993).

Nel resto dell’attuale Lazio, se si tralascia il caso, assai particolare, di Loreto Mattei (1622-1705), autore di oltre sessanta sonetti in dialetto reatino dotati di notevole spessore linguistico e letterario (e con ogni probabilità conosciuti, almeno in parte, anche da Belli), bisogna aspettare il secondo Ottocento per assistere a una tanto improvvisa quanto notevole fioritura della produzione letteraria dialettale, che diventerà particolarmente copiosa nell’ultimo mezzo secolo. Fra i tanti nomi possibili, citiamo almeno quelli di Ettore Pierrettori (1927) di Tolfa e di Cesare Chiominto (1920-2003), apprezzato autore di versi nel dialetto nativo di Cori.

Fonti

Trilussa (2004), Tutte le poesie, a cura di C. Costa & L. Felici, Milano, Mondadori

Studi

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liguri, dialetti di Fiorenzo Toso - Enciclopedia dell'Italiano (2010) liguri, dialetti

1. Territorio e diffusione

I dialetti liguri coprono l’intero territorio della Liguria, caratterizzato da un’accentuata tendenza al particolarismo per la distribuzione dei solchi vallivi e dei crinali montani, attenuata soltanto dalla facilità delle comunicazioni costiere.

Caratteri liguri si riscontrano in aree del Piemonte meridionale (alta val Tanaro, parte del Monregalese e della val Bormida, retroterra dei centri storicamente genovesi di Ovada, Gavi e Novi Ligure in provincia di Alessandria) e in Emilia (valli piacentine con Ottone, parmensi con Bedonia e Compiano). A est i tratti liguri digradano intorno a Sarzana nel tipo lunigianese, diffuso nella regione storica comprendente gran parte della provincia di Massa, e caratterizzato da tratti comuni soprattutto con l’emiliano; a ovest sono ancora liguri la val Roia, oggi in territorio francese (Briga, Tenda e Breglio), e il Principato di Monaco; la parlata di Mentone ha caratteri di transizione verso il dialetto nizzardo.

Isole linguistiche liguri ora estinte, frutto di ripopolamenti quattrocenteschi, interessavano ancora ai primi del XX secolo punti provenzali più a ovest (Mons, Biot, ecc.). Tali episodi non hanno rapporto col contributo dato dal tipo ligure alla formazione dei dialetti galloitalici del Meridione, né con l’affermazione di varietà di ligure ‘coloniale’ a base genovese: il tabarchino in Sardegna, il bonifacino in Corsica. Componenti liguri, non solo di natura lessicale, si riscontrano poi in diverse varietà di contatto: yanito (dialetto andaluso di Gibilterra), neogreco di Chios, varietà urbane della Corsica, sassarese, dialetti delle isole Capraia e Maddalena (Toso 2008). L’emigrazione ha radicato nel XIX secolo una presenza del genovese anche in Argentina, Cile e Perù.

2. Tratti unitari e identificanti; aree dialettali

La distribuzione areale rende conto del legame dei dialetti liguri col retroterra, ma ne accredita anche il ruolo di ponte tra le varietà romanze a est (toscano) e ovest (provenzale), e sottolinea l’espansione 109

legata al ruolo di Genova nel Mediterraneo e oltre. Nella classificazione corrente le parlate liguri si considerano parte del gruppo galloitalico, entro il quale si presentano tuttavia con caratteri particolari (Toso 2002; ➔ dialetti ). Oltre al diverso sostrato, alle modalità di romanizzazione e al tardivo collegamento col settentrione longobardo (643), la precoce organizzazione di uno stato regionale intorno a Genova (XII secolo) aiuta a comprendere l’originalità linguistica del territorio ligure rispetto al retroterra sancita già da ➔ Dante , che nel De vulgari eloquentia colloca il solo genovese, tra i volgari settentrionali, a destra dell’ideale spartiacque appenninico.

In effetti, i tratti più vistosi che configurano in maniera unitaria la regione sono per lo più estranei al tipo galloitalico. Ciò vale per aspetti morfologici e sintattici (Forner 1988; 1997), come l’articolo maschile singolare ( u ← ru ← lu ), la formazione del plurale di tipo toscano (anche in casi di arretramento della marca morfologica: can- + i > càin > chen ), o la negazione anteposta al verbo ( nu cantu ); il sistema dei ➔ clitici oscilla in generale tra due o tre forme obbligatorie ( ti mangi , II persona sing., u mangia , III persona sing.; altrove anche i màngia (n), III persona plur.).

Per la fonetica, rispetto all’area galloitalica il ligure si caratterizza per l’assenza della ➔ metafonia , per la conservazione delle vocali atone e finali tranne dopo -n-, -l-, -r- (gatu , menestra contro gat , mnestra ) e per la palatalizzazione ‘spinta’ dei nessi pl-, bl- e fl- (planta > [ ˈʧ aŋta] «pianta», blasphemia > [ ʤaˈstema] «bestemmia», flore > [ ˈʃ uː] «fiore»), tratti che segnano il raccordo con l’area dei dialetti centrali e meridionali. Originali sono anche il passaggio -l- > [r] (il fenomeno è più esteso, ma copre comunque tutta la Liguria) e l’indebolimento della [r] stessa da -r-, -l-.

Altri caratteri unitari sono invece di tipo galloitalico: l’evoluzione in [y] di ū, la presenza di [ø] (che viene meno andando verso est) variamente originato, la lenizione delle consonanti sorde intervocaliche fino alla caduta, l’evoluzione di -ct- secondo il modello factu > [ ˈfajtu] (> [ ˈfa ʧu]), la palatalizzazione di cl- , gl- ([ ʧaˈma ː] «chiama», [ ˈʤ aŋda] «ghianda»).

Dal punto di vista lessicale (Petracco Sicardi, Toso & Cavallaro 1985-1992), l’originalità dell’area risulta non tanto dai rari relitti prelatini (ad es. arma «grotta») o da forme che segnano ancora una volta il raccordo con l’area centro-meridionale ( fra (t)e «fratello», nevu «nipote», dal nominativo latino; mela contro pomo , ecc.), bensì dal lessico specifico (ad

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es. banca (r)â «falegname», lala «zia», spêgéti «occhiali», ecc.), spesso assunto in prestito da vari idiomi del Mediterraneo ( camalu «facchino» dall’arabo, ➔ arabismi ; mandilu «fazzoletto» dal greco, ecc.).

L’indebolimento, fino alla caduta, di -r- ha provocato nell’area genovese, a partire dal XVIII secolo, incontri vocalici e contrazioni che hanno avuto conseguenze notevoli sulla struttura delle parole (farina > [fa ˈriŋna] > [ ˈfajna] > [ ˈfεŋa]), e fenomeni di ristrutturazione che hanno accresciuto la rilevanza fonologica della quantità vocalica ([ ˈka ːsa] «piede dell’albero» / [ ˈkasa] «mestolo»; [ka ːˈseta] «calza» / [ka ˈseta] «mestolino»). In virtù del prestigio socio-politico e culturale e della centralità geografica, il genovese ha operato a fasi alterne arginando la tendenza alla frammentazione o come fonte di innovatività: le aree laterali conservano quindi tratti conservativi rispetto al settore più esposto alle innovazioni provenienti dal centro. Sotto la patina unitaria risultante dal processo di ‘genovesizzazione’, la distinzione subareale si basa comunque su tratti antichi di differenziazione. L’esito di -cl- permette ad es. di distinguere un’area orientale intorno a La Spezia (che ha speculum > [ˈspe ʧo]), un’area genovese e centro-occidentale tra Sestri Levante e Taggia ([ ˈsped ːʒu]), e un’area occidentale ([ ˈspe ʎu]); l’esito di -lj- è unitario invece dai confini orientali fino alla zona di Noli-Finale Ligure (familia > [fa ˈmi ʤa]), contro l’occidentale ([fa ˈmi ʎa). Sestri Levante e Noli sono anche i punti estremi di affermazione di caratteristiche galloitaliche assenti altrove, come la velarizzazione di -n- (genovese [ ˈlaŋna] > [ ˈlaŋa]; spezzino, albenganese e ventimigliese [ ˈlana]) o la dittongazione di ē (da Noli a Moneglia [ ˈbejve], contro [ ˈbeve] delle aree laterali).

Hanno invece caratteri propri, escludendo l’influsso genovese, i dialetti di tipo alpino e quelli conservativi delle Cinqueterre. I dialetti a nord dello spartiacque (tranne la valle Scrivia), pur presentando dei caratteri costitutivi liguri, si mostrano aperti, da ovest a est, all’influsso piemontese, lombardo ed emiliano.

3. Usi scritti e letterari

La grafia genovese è fissata in alcune linee essenziali fin dai primi documenti letterari, quando vengono adottate ad es. le corrispondenze ‹o› = [u], ‹u› = [y], e ‹x› = [ ʒ]. I fenomeni fonetici sopravvenuti nel Settecento implicarono all’inizio del secolo successivo la riforma su cui si basa il sistema ortografico attuale del genovese letterario: essa consentì di registrare le principali innovazioni, come la caduta di [r]

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intervocalica, le conseguenti contrazioni (ad es. maraveggia > mäveggia , dove ‹ä› = [a ː]) e l’accresciuto valore fonologico della quantità vocalica. Per le varietà locali, per lo più dotate di usi scritti solo di recente, si fa spesso ricorso a modelli grafici esemplati sull’italiano.

L’uso letterario del genovese (Toso 2009) si sviluppa dalla fine del XIII secolo, dopo i primi testi documentari e l’utilizzo parodistico fattone da Raimbaut de Vaqueiras (1190 circa), e giunge a maturazione con l’opera dell’Anonimo Genovese. Da allora i caratteri salienti della scripta volgare e dialettale sono dati dalla continuità tematica e ideologica, nell’individuazione di un nesso costante tra la specificità dell’esperienza istituzionale genovese e l’utilizzo del dialetto a fini connotanti.

L’uso di un volgare fortemente idiomatico in atti pubblici e di governo è attestato del resto, accanto a quello preponderante del latino, fino alla fine del XV secolo. Il patriottismo comunale dell’Anonimo costituisce dunque l’ascendente della retorica «repubrichista» dei principali autori cinque-settecenteschi (Paolo Foglietta, Barnaba Cigala Casero, Gian Giacomo Cavalli), la cui produzione poetica consente l’acclimatazione di esperienze internazionali (dal petrarchismo al gongorismo) riproposte in chiave non parodica. A questa aspirazione a realizzare una letteratura alta si allaccia il tentativo settecentesco di Stefano de Franchi di creare una poesia civile atta a rappresentare un velleitario accordo tra le componenti sociali della Repubblica.

La distinzione tra il filone di poesia colta e una produzione di tipo schiettamente dialettale è confermata dall’utilizzo di varietà caratterizzate, tra il XVII e il XVIII secolo, da marche sociolinguistiche di natura sia fonetica (dittongazioni popolari del tipo tiesta , lietto contro testa , letto ) che morfologica e lessicale. Temi e forme caratterizzati in senso spiccatamente dialettale diverranno prevalenti solo a partire dal XIX secolo per la progressiva perdita di prestigio del genovese, ma tale evoluzione sarà accompagnata dai tentativi di acclimatare in Liguria la temperie del romanticismo regionalista europeo (il poema epico A colombìade di Luigi Michele Pedevilla, 1870, e la traduzione della Divina Commedia di Angelico Federico Gazzo, 1909, hanno lo scopo di restaurare un modello letterario di genovese). Nel XX secolo invece si realizza l’adesione dell’espressione genovese a modelli neodialettali di ampia circolazione italiana (Edoardo Firpo in poesia, il teatro di Gilberto Govi) e l’affermarsi nell’uso letterario di varietà dialettali periferiche (Cesare Vivaldi, Paolo Bertolani). La poesia in genovese urbano non ha disdegnato negli ultimi anni, però, il recupero di una linea civile (Roberto Giannoni) e il riaggancio con la

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tradizione cinque-settecentesca (Plinio Guidoni, Alessandro Guasoni); un fenomeno a sé è rappresentato dalla canzone d’autore, illustrata in particolare da Fabrizio De Andrè.

La Liguria non vanta invece un patrimonio demologico particolarmente originale, anche se le ricerche degli ultimi anni hanno consentito di precisarne gli aspetti caratterizzanti rispetto al contesto settentrionale. Nell’ambito canoro, alla tipologia epico-narrativa padana si sostituisce la forma sincopata del trallalero , polivocalità urbana con riscontri in area tirrenica insulare. Gli elementi di gusto ‘gotico’ riconosciuti da Italo Calvino in molte fiabe liguri hanno spesso ascendenze nella tradizione medievale di exempla antico-genovesi; e anche i più genuini filoni della poesia, del canto e del teatro religioso trovano assonanze nella letteratura volgare tre-quattrocentesca.

4. Vitalità e prestigio

Il ruolo di varietà ‘illustre’ del genovese non è stato sufficiente a salvaguardare questo dialetto e le altre parlate liguri, nell’ultimo secolo, da una forte erosione. Intorno al genovese si organizzarono già dal XVI secolo tentativi di promozione e valorizzazione in polemica con l’adozione dell’italiano, che vide però dilatare i suoi spazi comunicativi nel XIX secolo, dopo l’annessione della Liguria allo stato sabaudo (1815) e poi con l’unificazione nazionale: le agenzie dell’italianizzazione attive in tutta l’area settentrionale si associarono a Genova al dinamismo sociale, economico e commerciale ottocentesco, culminato con l’inserimento della città nel cosiddetto triangolo industriale .

Così, le statistiche registrano da tempo in Liguria un decremento costante nell’uso del dialetto. I dati ISTAT del 1987-88 mostravano già la prevalenza dell’italofonia in famiglia (62,6%), nell’uso con gli amici (63,4%) e con gli estranei (79,1%), e nel 2000 si constatavano ulteriori progressi dell’italiano, lingua prevalentemente parlata in famiglia (67,5% contro un uso del dialetto per il 12,4% e l’alternanza di italiano e dialetto per il 17,9%), con gli amici (70,9%; dialetto 7,1%, alternanza 20,3%) e gli estranei (87,6%; dialetto 1,7%, alternanza 9,4%). Questo panorama vedeva la Liguria come la regione più italofona dopo la Toscana, dato confermato nel 2006 dall’ulteriore crescita dell’uso dell’italiano in famiglia (68,5% contro il dialetto all’8,3%, l’alternanza al 17,6% e altri idiomi al 5,2%). Per quanto riguarda gli usi pubblici, dopo avere espresso nel XIX secolo una significativa produzione pubblicistica, il genovese appare oggi scarsamente usato al di fuori dell’ambito letterario o colto (canzone d’autore,

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teatro): forme di recupero, anche a scopi connotativi, vedono un certo impiego radiofonico, presso le televisioni locali e sul web. Più in generale i dialetti liguri trovano saltuario impiego scritto nella toponomastica (ad es. in alcuni centri rivieraschi), in pratiche para-didattiche, e nella denominazione di prodotti locali, esercizi e strutture ricettive. Dal punto di vista della promozione dell’uso parlato e scritto del dialetto, alla scarsa attenzione delle istituzioni regionali e locali tenta di sopperire un associazionismo di tipo volontaristico.

5. L’italiano regionale ligure

Forme di italiano regionalizzato sono attestate a Genova, con intenti parodici, a partire almeno dal XVII secolo e testimoniano (Beniscelli, Coletti & Coveri 1992) una presenza radicata del toscano, quale si può ricostruire fin dalla documentazione tardo-quattrocentesca. Tale circostanza può avere favorito il discreto e talvolta antico accesso di ligurismi nell’italiano (tecnicismi nautici come regata , cazzare ; termini legati alla pesca e alla marineria come acciuga , bolentino , bugliolo ; nomi di prodotti del territorio; ➔ marineria, lingua della ).

Tra le caratteristiche dell’italiano regionale ligure si segnalano alcuni fenomeni riferibili al sostrato dialettale, che sottolineano qualche differenza rispetto al prevalente modello settentrionale: per la fonetica, la presenza di [æ] davanti a [r], [l] + C (per es., [ ˈværde], [ ˈælmo]) contro la generale tendenza alla chiusura di e, e la pronuncia secondo la norma standard delle palatali [ſ] e [ñ]. Di particolare rilievo appaiono anche i fattori intonativi: la còccina (inflessione) genovese riprende la cantilena che nel dialetto è data dall’alternanza di vocali lunghe e brevi e la pronuncia semintensa delle consonanti postoniche

(non necessariamente in accordo con la norma: [ka ˈmit tʃa], [u ˈfit tʃo]).

Anche il lessico presenta interferenze dialettali: alcune non sono più percepite (ad es. i tipi fasciare «incartare», fascia «campo coltivato»), mentre altre riflettono meccanismi inconsci di ipercaratterizzazione (l’uso ad es. del termine volgare belìn come intercalare e segnale discorsivo); altre ancora fanno parte di dinamiche variamente analizzabili dal punto di vista sociolinguistico, che inducono molti parlanti a introdurre forme identificanti nella conversazione, preferendo ad es. brìgola , rumenta , mandillo , caruggio a pustola , spazzatura , fazzoletto , vicolo ; senza contare il lessico espressivo e le interiezioni.

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All’italiano regionale, ben riconoscibile quindi a livello nazionale, pare affidata al momento attuale, più che a improbabili recuperi del dialetto, la trasmissione di una identità linguistica regionale nel quadro del panorama plurilingue e multietnico che in Liguria più che altrove si va delineando.

Studi

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lombardi, dialetti di Giovanni Bonfadini - Enciclopedia dell'Italiano (2010) lombardi, dialetti

1. Il territorio

L’estensione dell’area dialettale comunemente definita lombarda si sovrappone solo parzialmente a quella dell’odierna Lombardia amministrativa. Ciò è certamente in relazione con la storia del territorio, caratterizzato fin dall’epoca preromana dal fatto di essere attraversato da importanti confini politici. Se infatti già prima della latinizzazione l’Adda aveva rappresentato il confine fra le tribù galliche degli Insubri e dei Cenomani, con l’ordinamento augusteo fu l’Oglio a separare la X Regio (Transpadana ) dalla XI (Venetia et Histria ). Ma con la riforma di Diocleziano le due regioni furono di nuovo separate dall’Adda che, dopo la parentesi medievale, tornò a fare da confine tra Milano e Venezia dal Quattrocento all’epoca napoleonica.

Solo dal XIX secolo, quando le suddivisioni dialettali si erano ormai fissate da tempo, il territorio lombardo tornò ad avere un’unità amministrativa all’interno del Lombardo-Veneto austriaco, sotto l’egida del primato economico e culturale della sua metropoli. Nel frattempo si erano però compiuti l’allontanamento delle terre ticinesi, entrate definitivamente a far parte della Confederazione elvetica, e il passaggio al Piemonte del Novarese.

L’area dei dialetti lombardi (v. fig. 1 ) corrisponde in gran parte a quella dell’influsso culturale e linguistico di Milano in epoca medievale, che si estendeva dal Sesia all’Adige. Comprende dunque, oltre alla regione Lombardia, il Novarese con la Val d’Ossola, l’intero Canton Ticino e i Grigioni di lingua italiana, nonché alcune valli del Trentino occidentale (Valbona, Rendena, Ledro).

2. La suddivisione dialettale

Se la presenza di una koinè lombarda in epoca medievale, almeno a livello di lingua letteraria e cancelleresca, è oggetto di discussione (Sanga 1995: 81-82, 91-93), per l’epoca moderna è invece pacifica la fondamentale divisione dialettale tra una Lombardia occidentale e una Lombardia orientale, separate 116

dal corso dell’Adda. Tale bipartizione, formulata per la prima volta da Bernardino Biondelli a metà Ottocento (Biondelli 1853-1854), non è stata più abbandonata dagli studiosi successivi.

I dialetti lombardi occidentali sono parlati nelle province di Milano, Varese, Como, Lecco, nella bassa e media Valtellina, nel Canton Ticino meridionale, nella parte settentrionale delle province di Lodi e Pavia e in quella orientale delle province di Novara e Verbania. I dialetti lombardi orientali sono parlati nelle province di Bergamo e Brescia e nella parte settentrionale delle province di Cremona e Mantova.

Questa configurazione bipolare è accompagnata sia a nord che a sud da fasce di dialetti con caratteristiche nettamente centrifughe. A nord i dialetti definiti lombardo-alpini a partire da Merlo (1960-1961), parlati nell’Ossola superiore, nelle valli ticinesi a nord di Locarno e Bellinzona, nei Grigioni italiani e nell’alta Valtellina, caratterizzati da tratti arcaici e da una certa affinità con il romancio svizzero. A sud i dialetti «di crocevia» (Lurati 1988: 494-495), caratterizzati dalla presenza di marcati tratti di transizione verso altri gruppi dialettali (piemontese, ligure, emiliano), parlati nella parte meridionale delle province di Pavia , Lodi, Cremona e Mantova. A est infine, oltre ai dialetti delle sunnominate valli trentine occidentali, la transizione al gruppo veneto, peraltro già evidente nel bresciano gardesano, è ben rappresentata dai dialetti di impronta lombarda di due località della sponda veronese del Garda, Malcesine e Torri.

3. Caratteristiche dei dialetti lombardi

3.1 Caratteristiche generali

È tipica dell’area dialettale lombarda, che appartiene al gruppo dei dialetti gallo-italici, la scarsità di tratti comuni all’intero territorio che non siano anche più genericamente alto-italiani (lenizione delle consonanti intervocaliche: [ ˈrøda] «ruota»; degeminazione consonantica: [ ˈgata] «gatta»; ricorrenza dei pronomi clitici soggetto nella coniugazione: ti te càntet «tu canti», propriamente «tu te canti tu») o comuni ai dialetti gallo-italici (presenza delle vocali [ø] ed [y] da lat. o ̆ ed u:̄ [kør] «cuore», [ ˈlyna] «luna»; caduta delle vocali finali tranne [a]: cfr. gli esempi precedenti; caduta di [r] finale negli infiniti: [kan ˈta] «cantare», [fi ˈni] «finire»; negazione posposta al verbo: lü al canta minga «egli non canta»; cfr. fig. 2 ).

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L’unico fenomeno panlombardo esclusivo è la desinenza -i/-e nella prima persona del pres. indic. (milan. mi pödi / bergamasco mé pöde «io posso»), subentrata alla più antica forma adesinenziale pös ancora documentata nei dialetti più arcaici.

Tra i fenomeni più importanti che segnano il confine con le aree dialettali circostanti, si possono citare:

(a) a ovest la conservazione di [-ˈa] negli infiniti della I coniug.: [kan ˈta] ~ piem. [kan ˈte];

(b) a sud la conservazione delle vocali atone: [ospe ˈdal] «ospedale» ~ emil. [zbd ɛl];

(c) a est la presenza delle vocali [ø]/[y]: [føk] «fuoco», [dyr] «duro» ~ ven. [ ˈfogo], [ ˈduro].

Anche nel lessico pochissime sono le parole esclusivamente lombarde: tra queste, sciatt (sat nei dialetti orientali) «rospo», la cui diffusione delimita abbastanza fedelmente, con qualche eccezione, l’area dialettale lombarda (v. fig. 3 ).

3.2 Il lombardo occidentale

Tutti i fenomeni più caratteristici dei dialetti lombardi occidentali sono (o sono stati) presenti nel milanese, riconosciuto già da Biondelli come «il dialetto principale rappresentante il gruppo occidentale» (Biondelli 1853-1854: 4), che ha sempre svolto la funzione di modello per l’intera area. In particolare:

(a) opposizione tra vocali lunghe e brevi: [ka ːr] «caro» ~ /kar/ «carro», importante anche a livello morfologico per la distinzione tra infinito ([kan ˈta], [fi ˈni], [ri ˈdy] «ridurre») e participio passato ([kan ˈta ː], [fi ˈni ː], [ri ˈdy ː]);

(b) mantenimento, come in italiano e nei dialetti centromeridionali, della distinzione tra s, ce/ci e tj del tardo latino: [s ɛt] «sette», [ ʃiˈgula] «cipolla», [ka ˈvɛʦ a] «cavezza», da lat. septem, cepulla, capitia;

(c) vocali nasali lunghe da vocale + [n], specialmente in fine di parola: [k ɑ̃ː] «cane», [be ː] «bene», [kar ˈbõː] «carbone», [vy ː] «uno»;

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(d) rotacismo di [l] interna di parola, oggi fenomeno periferico (Brianza, Ticino), ma in precedenza diffuso anche altrove e ampiamente documentato a Milano fino a un secolo fa: [kan ˈdira] «candela», [ˈpyres] «pulce»;

(e) esiti [ ʧ] e [ ʤ] dei nessi latini -ct- e -cl- intervocalici: [n ɔʧ ] «notte», [o ˈrɛʤ a] «orecchio» (tratto anche bergamasco);

(f) plurale adesinenziale dei sost. femm. in -a: dòn , züch , pl. di dòna «donna», züca «zucca» (cfr. fig. 4 ).

3.3 Il lombardo orientale

L’area orientale non ha un dialetto guida con un ruolo analogo a quello del milanese: il bergamasco e il bresciano presentano infatti importanti differenze, specialmente rispetto ai dialetti veneti, ma hanno in comune una nutrita serie di fenomeni che li distinguono dal lombardo occidentale:

(a) assenza della lunghezza vocalica con funzione distintiva ( ➔ quantità fonologica ): [kar] «caro» e «carro»;

(b) riduzione all’unico esito [s], come nei dialetti veneti, di lat. s, ce/ci, tj: [s ɛt] «sette», [ʃiˈgula] «cipolla», [ka ˈɛ sa] «cavezza»;

(c) apertura di [y] in [ø] e di [i] in [e] in particolari contesti: [brøt] «brutto», [i ˈse] «così» (milan. [ ˈbryt], [in ˈʃ i]);

(d) caduta di [v] intervocalica: [ka ˈɛ i] «capelli», [la ˈaka] «la mucca» (milan. [ka ˈvɛi], [la ˈvaka]);

(e) caduta di [n] in finale di sillaba tonica senza nasalizzazione della vocale: [ka] «cane», [kap] «campo», [ˈveter] «pancia»;

(f) palatalizzazione nel plurale dei sost. in [-t] e [-n] : [ga ʧ] «gatti», [ ˈaze ɲ] «asini» (milan. [gat], [ ˈazen]);

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(g) mantenimento della consonante dentale finale nei part. pass. sing. masch.: [kan ˈtat], [fi ˈnit];

(h) plurale dei femm. in -a: [ ˈvake] «vacche».

Anche nel lessico i due gruppi presentano significative differenze: alle voci milanesi tus «ragazzo», gióven «celibe», legnamé «falegname», ghèz «ramarro», erbiùn «piselli», scighéra «nebbia », straluscià «lampeggiare», bergamasco e bresciano rispondono con s- cèt , pöt , marengù , liguròt / lüsertù , ruaia / ruaiòt , ghèba , sömelgà .

All’interno dell’area lombarda orientale si può però osservare per diversi fenomeni anche una marcata transizione dal tipo dialettale lombardo a quello veneto: ciò si verifica in particolare nel bresciano, come si ricava dallo specchietto riportato qui sotto:

ˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍˍ

milanese bergamasco bresciano veneto

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«notte» (lat. -ct-) [n ɔʧ ] [n ɔʧ ] [n ɔt] [ˈnɔte]

«zucche» züch söche söche suche

«battere» bat bat / batì bàter bàtar

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La bipartizione tra lombardo occidentale e orientale, ricondotta a lungo anche ad antiche differenze di sostrato, è stata reinterpretata negli ultimi trent’anni, alla luce di dati più precisi sulle varietà rurali delle due sezioni, come una differenziazione maturata a partire dal medioevo rispetto a una situazione precedente più unitaria (Sanga 1984; Loporcaro 2009). Lo confermerebbero da un lato la presenza di

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molti tratti orientali anche in dialetti rurali della Brianza, del Comasco, del Ticino, dall’altro tracce di importanti fenomeni occidentali (lunghezza vocalica distintiva, sistema consonantico) in punti isolati del territorio bergamasco e bresciano. Infine una considerazione areale: il lombardo in area trentina concorda in diversi casi (per es., ai punti b, c, d, e, g) col milanese e non col bresciano.

3.4 Il lombardo alpino

I dialetti lombardo-alpini sono accomunati da una serie di tratti conservativi in cui è ancora viva quell’impronta gallo-romanza che doveva caratterizzare fino a buona parte del medioevo una parte consistente dell’Italia settentrionale. Si tratta di fenomeni oggi in forte regresso o addirittura scomparsi, ma che anticamente erano presenti anche in pianura e perfino nella stessa Milano, dove «verso il dodicesimo secolo si pronunciava assai verosimilmente las k ˈavras «le capre» con intacco palatale di ca- […] e con la conservazione di -s finale latino» (Pellegrini 1975: 69). La cosa è di particolare evidenza mettendo a confronto gli esempi lombardo-alpini con le corrispondenti forme del francese, specialmente di quello medievale ricavabile dalla grafia per fenomeni quali:

(a) palatalizzazione di [k]/[g] seguite da [a]: [can], [ ɟat] «gatto» (fr. chien , chat );

(b) conservazione dei nessi di cons. + [l]: [blank] «bianco», [klaf] «chiave», [ ˈflama] «fiamma», [gla ʧ] «ghiaccio», [pløf] «piove» (fr. blanc , clef , flamme , glace , il pleut ).

3.5 I dialetti di crocevia

I dialetti parlati lungo la fascia lombarda meridionale, sulla riva sinistra del Po nonché nell’Oltrepò pavese e in quello mantovano, presentano marcati tratti di transizione ad altri gruppi dialettali. Per es., nel pavese (ad eccezione di quello cittadino, che ha subito l’influsso milanese) si trova la vocale centrale /ə/ tonica, come in piemontese: [s ək] «secco», [ ˈməsa] «messa». Il cremonese conosce l’opposizione tra vocali lunghe e brevi anche in sillaba non finale, come nei dialetti emiliani: [ ˈve ːder] «vetro» ~ [ ˈveder] «vedere». In mantovano è molto frequente la caduta delle vocali atone, fenomeno tipicamente emiliano: [fnir] «finire», [ ˈdm ɛnga] «domenica». Più in generale sono presenti, specialmente in mantovano e cremonese, ma talvolta anche più a ovest, tipi lessicali emiliani come brisa «briciola», ris «trucioli».

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4. Vitalità del dialetto

In base ai dati della rilevazione ISTAT del 2006, la Lombardia si colloca nelle posizioni di coda per quanto riguarda l’uso esclusivo o prevalente del dialetto, sia in famiglia (9,1%, sette punti sotto la media nazionale) che con gli amici (7,1%, sei punti sotto). Rispetto ai dati del 1991, in 15 anni il calo è stato molto più sensibile in casa (– 8,5, in pratica la metà ) che fuori (– 4,6, circa un terzo). Se però si aggiungono anche coloro che alternano l’uso di dialetto e italiano, la percentuale dei dialettofoni sale al 35,7% in casa e al 32,1% fuori, dunque circa un terzo dei parlanti. Rispetto al 1991, il dialetto resiste fuori casa (solo – 5%), assai meno in famiglia (– 17%), per il probabile aumento di bambini e ragazzi italofoni esclusivi. Se il dato rappresenta comunque la media regionale, la realtà è molto diversificata e l’uso del dialetto è ancora ben radicato nelle valli, nelle zone rurali e tutto sommato anche nelle città della fascia padana. Diversa la situazione della Svizzera italiana, dove il dialetto, anche se in evidente calo nell’ultimo ventennio, gode tuttora di un prestigio che ne conserva l’uso con percentuali vicine (anche se inferiori) a quelle italiane del .

L’assenza di una koinè regionale fa sì che in Lombardia tale ruolo sia ricoperto dai dialetti dei singoli capoluoghi di provincia: bergamasco, bresciano, cremonese, ecc. Solo il milanese ha (o, meglio, ha avuto) una funzione sovraprovinciale estesa originariamente a tutta l’area occidentale, funzione che è andata però riducendosi con l’autonomia amministrativa dei territori svizzeri – dove si è sviluppata una koinè ticinese – e con il passaggio nell’orbita piemontese delle terre a ovest del Ticino. Se nelle città e nei centri maggiori il repertorio dialettale è ridotto ormai alla sola varietà urbana, nelle zone rurali si ha ancora spesso la compresenza di una varietà «rustica» conservativa di arcaismi e localismi e una varietà «civile» modellata sulla città e italianeggiante: per es., [ ˈskøra] / [ ˈskøla] «scuola» in Brianza, [ ˈpjaha] / [ˈpjasa] «piazza» in molte zone del Bergamasco e del Bresciano.

L’influsso dell’italiano sui dialetti cittadini ( ➔ italianizzazione dei dialetti ) è documentato già nell’Ottocento: confrontando due vocabolari milanesi usciti a distanza di mezzo secolo (cioè Cherubini 1839-1856 e Angiolini 1897), si nota, per es., il passaggio da barba / àmeda a zio / zia , da becchée a macelâr , da bonaman a mancia , ecc. Negli ultimi decenni il fenomeno si è esteso anche ai centri minori e sempre più spesso si incontrano italianismi lessicali che finiscono per annullare anche le differenze tra un

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dialetto e l’altro: per es., pipistrèl «pipistrello» e pisèi «piselli» sostituiscono sia i milanesi tegnöra e erbiùn , sia i bresciani sgrignàpola e ruaiòt .

5. Letteratura dialettale e tradizioni popolari in dialetto

La letteratura dialettale lombarda è rappresentata in larga misura da quella milanese, che si snoda regolarmente a partire dalla fine del Quattrocento e annovera quasi tutte le figure più significative. Da Lancino Curti (1462-1512), al pittore Gian Paolo Lomazzo (1538-1600), a Carlo Maria Maggi (1630- 1699), celebre per aver riprodotto nei suoi versi il cosiddetto parlà in zetta dell’aristocrazia, nel quale venivano resi con z i suoni sc , c’ , s del dialetto: per es., zener «cenere», azet «aceto» rispetto a scendra , asé , riportati dallo stesso poeta per la parlata popolare. E ancora: Carlo Porta (1775-1821), che ci dà l’esempio più alto del milanese della prima metà dell’Ottocento; Delio Tessa (1886-1939), testimone del passaggio al più italianizzato milanese «contemporaneo» (Sanga 1999: 159); Franco Loi (1930), milanese d’adozione, nel quale il dialetto si fa laboratorio espressivo in una commistione di arcaismi e italianismi.

Al di fuori di Milano si ricordano la cinquecentesca Massera da be di Galeazzo dagli Orzi, in un dialetto bresciano con numerosi tratti non cittadini, la traduzione in bergamasco della Gerusalemme liberata ad opera di Carlo Assonica (1626-1676) e, ai nostri giorni, le liriche della sirmionese Franca Grisoni (1945).

Testi dialettali (oltre che in italiano popolare/regionale) relativi alle tradizioni popolari sono presenti in grandissima quantità in tutto il territorio lombardo e sono stati ampiamente raccolti, documentati e pubblicati. Va ricordato in primo luogo l’impegno della Regione Lombardia e del suo Ufficio per la cultura del mondo popolare, attivo fin dai primi anni Settanta del Novecento e diretto a lungo da Bruno Pianta (con la collaborazione di Glauco Sanga e Roberto Leydi). Ad esso si devono, fra l’altro, i 15 volumi della collana Mondo popolare in Lombardia e la parallela collana discografica. Per quanto riguarda l’area svizzera, un ruolo analogo è svolto dal Centro di dialettologia e di etnografia della Svizzera italiana di Bellinzona.

Fonti

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Angiolini, Francesco (1897), Vocabolario milanese-italiano, coi segni per la pronuncia. Preceduto da una breve grammatica del dialetto e seguito dal repertorio italiano-milanese , Torino, Paravia.

Biondelli, Bernardino (1853-1854), Saggio sui dialetti gallo-italici , Milano, Bernardoni, 3 voll. (vol. 1º, Dialetti lombardi ; vol. 2º, Dialetti emiliani ; vol. 3º, Dialetti pedemontani ).

Cherubini, Francesco (1839-1856), Vocabolario milanese-italiano , Milano, Stamperia Regia; Società tipografica dei classici italiani, 5 voll. (1 a ed. Milano, Stamperia Reale, 1814, 2 voll.).

LRL 1988-1995 = Lexikon der romanistischen Linguistik , hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & C. Schmitt, Tübingen, Niemayer, 8 voll. (vol. 4º, Italienisch , Korsisch , Sardisch , 1988; vol. 2º/2, Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance , 1995).

Studi

Loporcaro, Michele (2009), Profilo linguistico dei dialetti italiani, Roma - Bari, Laterza.

Lurati, Ottavio (1988), Italienisch: Areallinguistik III. Lombardei und Tessin , in LRL 1988, pp. 485-516.

Merlo, Clemente (1960-1961), I dialetti lombardi , «L’Italia dialettale» 24, pp. 1-12.

Pellegrini, Giovanni Battista (1975), I cinque sistemi linguistici dell’italo-romanzo , in Id., Saggi di linguistica italiana. Storia, struttura e società , Torino, Boringhieri, pp. 55-87.

Salvioni, Carlo (1907), Lingua e dialetti della Svizzera italiana , «Rendiconti dell’Istituto lombardo -

Accademia di scienze e lettere. Classe di lettere» s. 2 a, 40, pp. 719-736 (rist. in Id., Scritti linguistici , a cura di M. Loporcaro et al. , Bellinzona, Edizioni dello Stato del Cantone Ticino, 2008, 5 voll., vol. 1º, Saggi sulle varietà della Svizzera italiana e dell’Alta Italia , pp. 151-168).

Sanga, Glauco (1984), Dialettologia lombarda. Lingue e culture popolari , Pavia, Università di Pavia, Dipartimento di scienza della letteratura.

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Sanga, Glauco (1995), Italienische Koine. La koinè italiana , in LRL 1995, pp. 81-98.

Sanga, Glauco (1999), Il dialetto di Milano , «Rivista italiana di dialettologia» 23, pp. 137-164.

fig. 1

fig. 2

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fig. 3

fig. 4

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meridionali, dialetti di Francesco Avolio - Enciclopedia dell'Italiano (2011) meridionali, dialetti

1. Il territorio

L’area linguisticamente meridionale d’Italia comprende in realtà anche zone che, dal punto di vista geografico, sono ancora centrali, come una parte della provincia di Ascoli Piceno, a sud del fiume Aso, e quasi tutto l’Abruzzo, fatta eccezione per l’alta valle dell’Aterno e per la Marsica occidentale, in provincia dell’Aquila. Queste due ultime zone aquilane rientrano infatti nell’area dialettale detta mediana (➔ Italia mediana ; ➔ laziali, dialetti ; ➔umbro-marchigiani, dialetti ).

Verso nord, le parlate meridionali giungono all’incirca all’altezza di una fascia che unisce il Circeo (Lt), sul Tirreno, alla foce dell’Aso, sull’Adriatico (Ap), passando per Ceprano (Fr), Sora (Fr), Avezzano (Aq), L’Aquila e Accumoli (Ri), mentre, verso sud, includono per intero la Basilicata, valicando il massiccio del Pollino, in provincia di Cosenza, e, più a est, raggiungono le città pugliesi di Taranto, Martina Franca, Ceglie Messapico e Ostuni (Francavilla Fontana e Brindisi sono invece già salentine, cioè meridionali estreme).

La gran parte dell’area meridionale coincide dunque con una vasta porzione di quello che fu il Regno di Napoli, il più esteso stato preunitario d’Italia, collegato al resto della penisola da importanti direttrici nord-sud, come il litorale adriatico, la conca aquilana e la valle del Sacco-Liri, direttrici che, in varia misura, hanno potuto attenuare l’isolamento determinato nella regione abruzzese, dai più elevati rilievi appenninici.

Su Napoli, la capitale, molte zone hanno gravitato per secoli, con cospicui fenomeni di inurbamento, che, col tempo, hanno provocato la trasformazione e perfino la ‘degenerazione’, sul piano demografico e urbanistico, della città; la quale, del resto, pur avendo a lungo esercitato una riconoscibile supremazia, non si è mai affidata a una politica linguistica appositamente pianificata. Oggi il suo ruolo di guida sta subendo, tanto per l’italiano quanto per il dialetto, un progressivo ridimensionamento, parallelo alla perdita di prestigio e alla diminuita capacità di attrazione. In altre regioni dell’ex Regno, del resto, si 127

sono da tempo costituiti nuovi poli di gravitazione (è il caso, ad es., della conurbazione abruzzese Pescara-Chieti).

Al di fuori di Napoli e dell’area fittamente urbanizzata che la circonda (oggi ampliatasi a dismisura, inglobando del tutto antiche cittadine come Pozzuoli, Aversa, Nola e Castellammare), le città dotate di un qualche peso demografico e, al tempo stesso, storico sono Capua, Benevento e Salerno: abbastanza recenti sono infatti le fortune di Caserta e Avellino, come quelle di Campobasso e Potenza. Centri con caratteristiche in larga parte analoghe si trovano poi nell’attuale basso Lazio (Cassino, Formia, anche Gaeta) e diventano frequenti in Abruzzo, dove possiamo ricordare la singolare esperienza comunale di L’Aquila, civitas nova fondata nel XIII secolo con il concorso dei numerosi centri circostanti, o il fitto reticolo di cittadine di origine antica quali Teramo, Atri, Chieti, Sulmona, Lanciano e, più a sud, Isernia nel Molise. Una situazione simile si ha in Puglia, nella quale è di rilievo il persistere delle cosiddette città contadine nella Terra di Bari e nella Murgia (Andria, Bitonto, Altamura, Martina Franca, la stessa Matera, rimasta a lungo sul limite settentrionale della Terra d’Otranto). Qui, ancora tra Seicento e Settecento, è Trani a contendere a Bari il primato economico (cfr. Aprile et al. 2002: 722, nota 69).

2. Le varietà dialettali dell’area

Da un punto di vista generale una delle caratteristiche salienti del tipo ‘meridionale’ è certamente la sua forte unità, ancor più a livello strutturale ‘di base’, il che ha come conseguenza più vistosa un notevole grado di intercomprensione fra la maggioranza dei dialetti del gruppo, e la chiara percezione, da parte degli stessi parlanti, di un ampio numero di somiglianze (Avolio 1995: 29-30)

Quest’ultima, in genere, convive pacificamente con l’altrettanto diffusa tendenza a sottolineare diversità idiomatiche di varia natura anche in un ambito territoriale assai ristretto.

Ad ogni modo, all’interno delle parlate del gruppo è possibile riconoscere, in prima approssimazione,

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una fascia occidentale (tirrenica) […] più spesso conservativa nella fonetica e nella morfologia, un’area corrispondente alla dorsale appenninica in cui il livello più conservativo è rappresentato dal lessico, e un’altra fascia costiera, orientale (adriatica), che si caratterizza invece per una certa tendenza all’innovazione, in particolare per quel che riguarda il vocalismo tonico (ivi, p. 32).

2.1 Fenomeni comuni o maggioritari

2.1.1 Metafonesi. Fra i tratti che più allontanano l’area dal tipo linguistico toscano c’è senz’altro la metafonesi ( ➔metafonia ), vale a dire l’innalzamento delle vocali accentate /e/ e /o/, che diventano rispettivamente /i/ e /u/ per influsso di alcune vocali finali latine originarie: nelle zone tirreniche e interne di -i e -u, sulla costa adriatica in genere solo di -i (anche da -es). A Trasacco (Aq) si ha, per es., [ˈtit ːə] «tetto, -i»; a Napoli [a ˈʧ it ə] «aceto», [ ˈmun ːə] «mondo»; a Palmoli (Ch) [ ˈru ʃːə ] «rossi», accanto a [ˈrɔʃːə ] «rosso, -a» (ma, a Campobasso [ ˈru ʃːə ] «rosso, -i»). Nelle stesse condizioni, si modificano pure /ɛ/ e / ɔ/, che possono chiudersi, cioè diventare /e/ e /o/ – ad Avezzano (Aq) [ ˈpedi] «piedi», ma [ˈpɛtə] «piede»; a Sant’Elia a Pianisi (Cb) [ ˈdent ə] «denti», ma [ ˈdɛnt ə] «dente», [ ˈfok ə] «fuoco, -chi» (è la cosiddetta metafonesi sabina, assai diffusa in area mediana) – oppure trasformarsi in dittonghi, come nel napoletano e in molte altre parlate fra Molise, Campania e Lucania: ad Agnone (Is), ad es., [ ˈdjent ə] «denti», [ ˈwos ːə] «osso», [ ˈfwok ə] «fuoco» (è il cosiddetto dittongamento napoletano o metafonesi napoletana). Il dittongo può poi ridursi, come avviene in non poche località adriatiche, in Puglia e nel Materano: a Giulianova (Te) [li ˈpid ə] (< [ ˈpi ədə]), «i piedi»; a Tricarico (Mt) [ ˈbːun ə] «buono, -i», [ˈpurk ə] «maiale, -i». Più rari, ma ben testimoniati, ad es. in Abruzzo e nel Molise, gli sviluppi metafonetici di /-a-/: a Campli e Atri (Te) [ ˈnas ə, ˈnis ə] «naso, -i»; a Vittorito (Aq) [ ˈvrat ːʃə , ˈvr ɛtːʃə ] «braccio, braccia».

2.1.2 Centralizzazione. Altro fenomeno caratteristico è la centralizzazione delle vocali atone. Nella gran parte dell’area meridionale, dal fiume Aso (Ap) e dal Circeo (Lt) a nord e fino al fiume Coscile (Cs) a sud, le vocali non accentate, soprattutto finali (ma spesso, anche in altre posizioni), passano a un unico suono, la cosiddetta e muta o indistinta (la vocale media centrale, o schwa , / ə/; ➔ scevà ), a volte, a seconda dei luoghi, con l’eccezione di /-a/. A Monticchio, frazione dell’Aquila a sud-est della città, uno dei primi paesi in cui il fenomeno sia osservabile con regolarità: [ ˈis ːə] «lui» < ipsu(m), [ ˈsat ːʃə ] «so» < sapio, [ ˈtemp ə] «tempi» < *tempi, ma anche «tempo», [ ˈbːɔnə] «buona», ma anche «buone». Nel

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parlato veloce e poco curato, e dopo consonanti intense, la vocale centrale in fine di parola può anche cadere. Anche in posizione atona interna, gli esempi sono numerosi: napol. [f əˈ rːar ə] «fabbro» e [ˈsɛnt ənə] «sentono». In alcune parlate, sparse fra le varie regioni dell’area, la centralizzazione arriva a interessare la vocale tonica, come ad Atri (Te) – [ˈmətr ə] «metro» –, a Scanno (Aq) – [karu ˈsə] «tosare» –, a Stigliano (Mt) – [ˈmərə] «muro».

La maggior parte dei dialetti che si estendono dalla valle del Garigliano fino alla Basilicata sud- occidentale (cioè la zona del Mezzogiorno che nel medioevo fu più marcatamente longobarda), mostra invece vocali atone finali e interne ancora in vario modo differenziate.

2.1.3 Betacismo. Ancora piuttosto ben radicato in tutta l’area è il ➔ betacismo , vale a dire il doppio trattamento di /v-/ e /b-/, che hanno sviluppi comuni ma diversi a seconda del contesto fonico: ad es. in napol. [na ˈvɔtə] «una volta» < vol(vi)ta(m) (ma [tre b ːɔtə] «tre volte»), [ ˈvat ːərə] «battere, picchiare» < bapt(u)ere (ma [ ʒba ˈtːut ə] «sbattuto»), e ancora [ ˈva ʃːə ] «basso», «locale a livello di strada» (ma [ab ˈː aʃːə ] «(d)abbasso, giù»). Tale fenomeno è il caso più evidente di una tendenza che interessa l’intero Centro-Sud, e cioè la scissione di alcuni fonemi in due varianti: una, costrittiva, in posizione debole (iniziale assoluta, intervocalica o prima di /r/), l’altra, occlusiva, in posizione forte (postconsonantica o di ➔ raddoppiamento sintattico ); si veda il napoletano [nu ˈrɛnd ə] «un dente», ma [tre ˈdːjend ə] «tre denti».

2.1.4 Assimilazioni. Le assimilazioni consonantiche progressive ( ➔ assimilazione ) dei nessi originari -nd- , -mb-, -nv- e -ld-, sconosciute al toscano e quindi all’italiano, sono invece normali in tutto il nostro territorio, e anche piuttosto antiche: [ ˈtun ːə] per «tondo», [ ˈjam ːərə] «gambero», [ ˈmːidja] «invidia»; il tipo [ ˈkal ːə] per «caldo» giunge a sud fin circa al confine fra Molise e Campania, oltre il quale prevale il passaggio di -l- originaria a /-w-/ ([ ˈkawd ə, ˈkav ədə]: cfr. § 2.1.5). L’area delle assimilazioni di -nd- e - ld- include anche Roma e il Viterbese.

2.1.5 L + consonante. Il nesso latino l + consonante ha in genere tre esiti, compresenti nelle stesse varietà e oggi indipendenti dal contesto fonetico (la natura della consonante successiva non è più rilevante): il rotacismo (napol. [kur ˈtjel ːə] «coltello»); la velarizzazione, cioè il passaggio a /-w-/ o /-və-/: a Campobasso [kaw ˈʦ on ə] «calzone»; a Ravello (Sa), [ ˈfav əʧə ] «falce»; il dileguo (napol. [ ˈro ʧə ] «dolce»).

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Nel Teramano prevalgono esiti assimilati, e successivi a una sonorizzazione della seconda consonante ([ ˈfad ːʒə ] «falce», [ka ˈdːʒʌ tːə] «calzetta»), che sconfinano nelle Marche contigue.

2.1.6 Possessivo enclitico. L’uso del possessivo enclitico con i nomi di parentela e qualche altro (ad es., con casa ), tipico del Centro-Sud, nel medioevo era noto anche alla Toscana e a Roma: oggi abbiamo, per es., a Napoli [ ˈpat əmə] «mio padre» e [ ˈsɔrətə] «tua sorella», a Castelli (Te) [ ˈfɛjm] «mio figlio». In alcune varietà sono enclitici anche i possessivi plurali – ad Alberobello (Ba) [s əˈ rur ətə] «le tue sorelle» –, mentre nel medioevo poteva essere enclitico il pronome di terza persona: casasa «casa sua». Verso sud, l’area include anche il Salento e quasi tutta la Calabria.

2.1.7 Neutro. Uno dei tratti più interessanti di molte parlate dell’area è la conservazione – seguente a una parziale ristrutturazione – del ➔ neutro latino, attuata in due modi.

(a) Con l’uso di un particolare ➔ articolo determinativo singolare, che può essere o formalmente uguale a quello maschile (/o, u/) ma in grado di raddoppiare la consonante iniziale della parola successiva (Campania centrale, Lucania, Puglia centrale), o avere forma diversa (ad es., /l ə/ ~ /lu/, /ju/, /u/ o /ru/ del maschile), come avviene in Abruzzo, nel Molise e nei dialetti tra Lazio e Campania. In tutti i casi, però, tale articolo è usato con gruppi di sostantivi che non ammettono una forma plurale (e che spesso erano neutri già in latino), come quelli che denotano materie (ferro, rame, legno; ➔ massa, nomi di ), sostanze e alimenti (vino, olio, grano, formaggio, sale) o altro (frescura, oscurità, ecc.); e poi con aggettivi e verbi sostantivati. A Napoli abbiamo così [o ˈk:as ə] «il formaggio» (< caseum), [o ˈfːjer ːə] «il ferro», cioè il metallo (< ferrum; il ferro da stiro, pluralizzabile, è infatti [o ˈfjer ːə]), [o ˈbːrut ːə] «ciò che è brutto», «la bruttezza», [o ˈkːapi] «il comprendere», [nun o s ˈː at ːʃə ] «non lo so», ma [o ˈfrat ə] «il fratello», [o ˈpr ɛvətə] «il prete», [nun o ˈvek ə] «non lo vedo« («non vedo quella persona»: forme maschili); a Bari [u ˈmːɛlə] «il miele», [u ˈkːjum ːə] «il piombo», ma [u ˈfig ːiə] «il figlio»; ad Avezzano (Aq) [l ə ˈbːjang ə də jː ˈok ːjə] «il bianco dell’occhio», ma [j ə ˈlab ːrə] «il labbro».

(b) Nei pronomi e aggettivi dimostrativi, con la contrapposizione tra forme neutre non metafonetiche e forme maschili che invece lo sono: napol. [ ˈkel ːə ka ʧəˈ vɔ] «quello (ciò) che ci vuole», ma [ ˈvir ə aˈkːil ːə] «guarda quello (persona)»; a Vinchiaturo (Cb), [ ˈkest ə ɛ ˈkːel ːə kə ˈvːuliv ə] «questo (cioè «questa cosa», neutro) è quello «(ciò)» che volevi», ma [ ˈkwil ːə ˈlːa ɛ nu ˈbːɛlːə wa ˈʎː on ə] «quello là è un bel ragazzo»

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(maschile). Le condizioni di gran parte della fascia costiera adriatica e apulo-lucana sono più instabili, e abbastanza chiare solo per i dimostrativi: a Bellante (Te), ad es., si distingue [ ˈkwal ːə] «quella persona» da [ ˈkul ːə] «quella cosa»; a Palmoli (Ch) si ha [kul ː] per «quella persona», ma [kw ɛlː] per «quella cosa»; a Tricarico (Mt) la distinzione è tra [ ˈkist ə, ˈkis ːə, ˈkid ːə] «questo, quello», con valore di neutro, e [ ˈkust ə, ˈkus ːə, ˈkud ːə], forme maschili. Verso sud, il fenomeno è attestato fin circa a una linea che collega i centri lucani di Anzi, San Martino d’Agri e Lagonegro (Pz); cfr. Lüdtke 1979: 66 e c. 10).

2.1.8 Plurale alla latina. Il tipo di plurale neutro latino tempora (poi segmentato in temp - + -ora , anziché tempor + a) ha avuto notevole estensione, dando luogo a plurali in -ora o -ola che, specializzatisi come plurali cosiddetti collettivi (indicanti, cioè, un insieme di cose dello stesso genere; ➔ collettivi, nomi ), oggi mostrano in diverse zone segni di cedimento: residui sono, nel napoletano cittadino, le forme [kar ˈʧɔ fːələ] «carciofi» e [ ˈtr ɔnələ] «tuoni»; in altri centri, invece, sono tuttora presenti parecchie occorrenze, spesso divenute normali forme plurali: a Palena (Ch) [ ˈlet ːrə] «letti», [ ˈtet ːrə] «tetti»; a Casacalenda (Cb) [ ˈakw ərə] «aghi», [ ˈvot ərə] «gomiti»; ad Acerno (Sa) [ ˈpratura] «prati».

2.1.9 Dimostrativi. Di rilievo – anche se non presente nei vari livelli di italiano regionale, e dunque, a volte, usata in modo inconsapevole dagli stessi parlanti – è la tripartizione di pronomi e aggettivi dimostrativi ( ➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi ) e avverbi di luogo, secondo un criterio che la rende pressoché del tutto equivalente al sistema toscano questo , codesto , quello e qui , costì e lì (➔ toscani, dialetti ). A Monticchio (Aq) [ ˈkwistu, ˈkwis ːu, ˈkwiju] «questo, codesto, quello» (masch.) e [ ˈɛ kːə, ˈɛ sːə, ˈlɔkə] «qui, costì, lì»; nei dintorni di Napoli [ ˈkist ə, ˈkis ːə, ˈkil ːə] e [ ˈkːa, ˈlːɔkə, ˈlːa] (a Napoli città [ˈkis ːə] è ormai disusato, [ ˈlːɔkə] ancora no); a San Mauro Forte (Mt) [ ˈkust ə, ˈkus ːə, ˈkud ːə] e [ ˈkːa, ˈdːo, ˈdːa].

2.2. Sviluppi areali specifici

2.2.1Per quel che riguarda i sistemi vocalici tonici, nella Lucania a sud dei fiumi Sauro e Agri e nella Calabria contigua si trovano alcuni fra i dialetti più conservativi del gruppo meridionale (i quali, però, è bene sottolinearlo, non danno luogo a nette fratture nei confronti delle parlate circostanti), dove sono rimasti sedimentati fenomeni rari anche nel resto del mondo neolatino o romanzo; questa zona, oggi, è nota agli specialisti come area Lausberg, dal nome dello studioso tedesco che, nel 1939, la individuò, descrivendola a fondo.

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Tra le sue caratteristiche conservative ricordiamo un sistema di vocali accentate ancora molto vicino a quello del latino classico, e con precisi riscontri in Sardegna: ad es., a Senise (Mt) [ ˈfil ə] «filo» < fīlum, come [ ˈniv ə] «neve» < nĭvem, [ ˈst ɛlːə] «stella» < stēllam, come [ ˈbːɛlːə] «bella» < běllam, [ ˈmɔrt ə] «morta» < mŏrtuam come [ ˈsɔlə] «sole» < sōlem, [ ˈkru ʧə ] «croce» < crŭcem, come [ ˈlun ə] «luna» < lūnam). Accanto a questo sistema, che ha poche eccezioni e che si riscontra nella cosiddetta Mittelzone (un’area centrale più arcaica, cioè la vallata del Sinni, in Lucania, e l’alto Jonio cosentino, in Calabria, più qualche altra località), se ne trovano anche altri; sono anzi testimoniati, in pratica, tutti i sistemi vocalici tonici noti nel mondo romanzo. Cfr. anche § 2.2.8.

2.2.2 A causa di un accento d’intensità particolarmente forte, parecchie parlate, soprattutto in Puglia e in Abruzzo (ma anche sulla costa napoletana), possono dapprima frangere le vocali toniche (➔ frangimento ) e poi dittongarle, con esiti variabili a seconda del luogo e, frequentemente, anche della struttura sillabica. L’amplissima casistica, diversa da paese a paese, può essere in qualche modo riassunta da esempi come: a Guardiagrele (Ch) per /-i-/ abbiamo [ ˈskr ɔjm ə] «scriminatura» (sillaba aperta), ma [ˈret ːʃə ] «ricciolo» (sillaba chiusa); a Martina Franca (Ta), [ ˈsejr ə] «sera», [ ˈsowl ə] «sole». Le /-i-/ e /-u-/ derivanti da metafonesi (cfr § 2.1.1) possono poi dittongare come le /-i-/ e le /-u-/ etimologiche viste prima: a Bitonto (Ba), ad es., si ha [ ˈkj ɔjn ə] «pieno» (metafonetico, da un precedente *[ ˈkjin ə] < plēnu(m)), come [ ˈfɔjk ə] «fico» (< *[ ˈfik ə], con /-i-/ etimologica).

Talvolta, specialmente nel Teramano, al posto dei dittonghi si hanno sviluppi particolari: a Giulianova, ad es., [ ˈnik ə] «nuca», [ ˈpi ɲːə ] «pugno», [ ˈpal ə] «pelo», [ ˈvan ə] «vena». Nel dialetto di Matera, invece, da /-i-/ (originario e metafonetico) si è sviluppato il suono /y/: [ ˈfyl ə] «filo», [ ˈpyl ə] «pelo».

2.2.3 Nelle parlate meridionali della sezione orientale, dal Pescarese fino alla Lucania orientale, il grado di apertura delle vocali medie toniche / ɛ, e, ɔ, o/ dipende dalla struttura della ➔ sillaba in cui compaiono. Quando questa è aperta, uscente in vocale, si hanno solo vocali chiuse (e a volte dittonghi), quando è chiusa, con uscita in consonante, si hanno solo vocali aperte: [ ˈten ə] o [te] «tiene, ha» anziché [ˈtɛnə], ma [ ˈvɛnːə] «vende» anziché [ˈven ːə]; [ ˈbːon ə] «buona» e non [ ˈbːɔnə], ma [ ˈmɔsk ə] «mosca» anziché [ˈmosk ə]. Tali abitudini di pronuncia sono evidentissime anche nei vari livelli di italiano regionale parlato: béne e non bène , dètto e non détto , nóve «nove» e non nòve , ròsso e non rósso .

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2.2.4 Gli sviluppi del suono j- e dei nessi originari di consonante + j, più altri che con essi si sono precocemente fusi, danno luogo a interessanti ripartizioni areali: per quanto riguarda j-, la distinzione è tra il versante tirrenico e quello adriatico abruzzese-molisano, che continuano il latino /j/ ([ ˈjam: ə/] «andiamo» < *jamus < eamus, [ ˈjuka] «giocare» < iocare), e il versante apulo-lucano, a partire da Foggia e da Vieste (Fg), che ha invece mutato /j/ in /ʃ/ ([ ˈʃ am ə, ˈʃə tːa, ˈʃ uka]). Gli stessi esiti, con le stesse distribuzioni areali, mostrano i nessi latini dj e g + e, i: a Procida (Na) [ ˈjoj ə] «oggi» (arcaico) < hodie, [ˈfrij ə] «friggere» < frigere; nel Barese rispettivamente [ ˈoʃə , ˈfri ʃə ]. La Basilicata appare divisa in due, con lo sviluppo in / ʃ/ diffuso nella parte settentrionale e orientale della regione (cfr. Lüdtke 1979: 47, c. 5).

Per quanto riguarda le continuazioni di -bj-, il contrasto è invece tra un’area più settentrionale (con la Puglia), in cui prevale /-j-/, o il successivo /-ɟː -/ – ad es., in [ ˈaj ə] o [ ˈaɟːə ] «ho» < *habjo < habeo, [ˈraj ə] «rabbia» < rabia(m) – e una più meridionale e occidentale (con la Lucania), in cui l’esito prevalente è /-dːʒ-/: napol. [ ˈad ːʒə ], [ ˈrad ːʒə ]. Il confine fra i due esiti corre fra Molise e Campania (la linea Cassino-Gargano), anche se il tipo [ ˈad ːʒə ] appare oggi in espansione (ad es., a Campobasso). La stessa linea separa poi i diversi sviluppi del latino -sj-: a nord (Abruzzo, basso Lazio, Molise) prevale /- ʃ-/ – [ˈka ʃə ] «formaggio» < caseu(m), [ ˈva ʃə ] «bacio» < basiu(m) –, a sud (Campania, Lucania, Puglia) si ha invece /-s-/ ([ ˈkas ə, ˈvas ə]).

Più a Mezzogiorno, e cioè su una linea che congiunge all’incirca Salerno a Lucera (Fg), si pone invece il confine fra i diversi esiti dei nessi latini -cj- e -ng- + e, i: a nord prevalgono, per il primo, le forme in /- tːʃ-/ – come nel napol. [ ˈfat ːʃə ] «faccio» < facio, [ ˈvrat ːʃə ] «braccio» < braciu(m) – e in /-ɲː -/ – napol. [ˈkja ɲːə ] «piange», [ ˈstre ɲːə ] «stringe»; a sud si hanno, invece, rispettivamente, quelle in /-tːs-/ ([ ˈfat ːsə, ˈvrat ːsə]) e /-nʤ-/ ([ ˈkjan ʤə , ˈstren ʤə ]), che, attraversando Puglia, Lucania, Campania meridionale e Calabria, giungono fino alla Sicilia ([ ˈfat ːsu] «faccio», [ ˈkjan ʧi] «piange»).

2.2.5 Anche il trattamento dei nessi latini pl- e fl- consente ripartizioni più precise. Per quanto riguarda il primo, a partire dall’Abruzzo meridionale (Opi, in provincia dell’Aquila, e Palmoli, in provincia di Chieti) si osserva uno sviluppo in /kj-/ dovuto a un’assimilazione parziale esercitata da /j/: napol. [ˈkjan ə] «piano» < planum, [ ˈkjum ːə] «piombo» < plumbu(m) (ma la forma [ ˈkːju] da plus è nota fino a

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Teramo e all’Aquila). In alcuni punti (ad es., nelle parlate fra Lazio e Campania), /kj-/ può giungere fino a / ʧ-/: a Suio (Lt) [ ʧu] «più», ad Ailano (Ce) [ ˈʧ angjero] «macellaio», derivato di planca.

Il nesso fl- mostra invece una pluralità di esiti, che vanno da quello in /fj-/, come in italiano, prevalente in Abruzzo e nel basso Lazio costiero, a quello in / ʃ-/ o /χj-/ (diffuso nel basso Lazio interno, nel Molise e nella maggior parte della Campania: napol. [ ˈʃ at ə] «fiato» < flatus, [ ˈʃ or ə] «fiore» < florem), fino a quello in /j-/, oggi in forte regresso, ma ancora presente nella Puglia a sud di Foggia, nella Campania interna e nel Cilento, in Lucania e in Calabria: nel Barese [ja ˈta] «respirare»; a San Chirico Raparo (Pz), [ju ˈrid ːɪ] «fiori di zucca»; a San Mauro Cilento (Sa) [ ˈjum ə] «fiume» < flumen, accanto a [ˈʃ um ə]).

In diverse località abruzzesi i nessi di cons. + l si sono però conservati intatti fino a oggi, oppure mostrano spesso il rotacismo di -l-: a Castelli (Te) [ ˈpl ɔvə] «piove», [ ˈflewm ə] «fiume»; a Crecchio (Ch) [ˈprat ːsə] «piazza», [ ˈfr ɔrə] «fior di farina».

2.2.6 Lo sviluppo di -ll- in /-dː-/ (come in [ka ˈvad ːə] «cavallo, -i», [ ˈdːa] «là»), di fatto sconosciuto in Abruzzo, nel Molise e nel basso Lazio, come anche in Campania (ma Procida e Ischia lo conoscevano fino a poco tempo fa), è invece diffuso in quasi tutta la Puglia (fino alla linea occidentale Lucera-Troia- Foggia), in parte del Beneventano e dell’Avellinese (alta Irpinia), nella Campania a est e a sud del fiume Sele (Sa), in Lucania, con l’importante eccezione di quasi tutta l’area Lausberg: ad Aliano (Mt) si dice infatti [ka ˈval ːə] «cavallo, -i», a Oriolo (Cs) [ka ˈpil ːə] «capello, -i». Esso può giungere fino a una consonante retroflessa intensa /-ɖː -/ – a San Giorgio la Molara (Bn) [ ˈja ɖːɣ ] «gallo» – pressoché esclusiva in Sicilia e nella Calabria meridionale (e diffusa anche in Sardegna, Corsica e Lunigiana); o, più di rado, all’occlusiva palatale /-ɟː -/, simile all’iniziale dell’italiano ghianda : a Calitri (Av) e a Palazzo San Gervasio (Pz) [aw ˈʧ ie ɟːə ] «uccello, -i»; lo stesso nel dialetto arcaico di Forio d’Ischia (Na).

2.2.7 Il fenomeno della palatalizzazione di -(l)l- davanti a -i e -u, testimoniato nei documenti fin dal XIV secolo ( ➔ palatali ), è diffuso in un’ampia zona tirrenica e appenninica posta a cavallo fra i dialetti mediani e quelli meridionali (ed è invece sconosciuto in Puglia e nella fascia adriatica abruzzese e molisana). Gli esiti possono oscillare fra /-ʎː -/ e /-jː-/ e a volte estendersi dalla posizione intervocalica

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a quella iniziale: ad Avezzano (Aq) [j ə ˈkoj ːə] «il collo», a Fara San Martino (Ch) [ ˈʎɛ wm ə] «lume», a Filignano (Is) [ka ˈpi ʎːə ] «capello, -i».

2.2.8 Nelle parlate dell’area Lausberg, una delle caratteristiche più interessanti è rappresentata dalla conservazione, in alcuni modi, tempi e voci verbali (più di rado in altri casi), delle consonanti finali latine -s e -t, con lo sviluppo di una ➔ vocale di appoggio finale: ad Aliano (Mt) [ ˈkant əsə] «canti», [ˈkant ətə] «canta»; a Oriolo (Cs) [v əˈ nit əsə] «venite»; a Maratea (Pz) [ku k ːaˈpɛrati] «chi capirebbe». L’ultima traccia di questa antica presenza può essere rappresentata da un ‘anomalo’ raddoppiamento sintattico: [ ˈkant ə nːa kan ˈʣ on ə] < [ ˈkant ətə na kan ˈʣ on ə] «canta una canzone».

2.2.9 Per quanto riguarda le forme dell’ ➔ imperfetto indicativo, il Mezzogiorno si presenta piuttosto chiaramente diviso in due. A nord della già citata linea Salerno-Lucera l’uscita normale dell’imperfetto è quella in /-ev ə/ (e simili): napol. [v əˈ rev ə] «vedevo»; a sud prevalgono le uscite in /-ia/ o /-iə/, che giungono fino in Sicilia: ad Agropoli (Sa), [ri ˈʧ ia] «dicevo», a San Mauro Forte (Mt), [sta ˈʧ iə] «stavo».

2.2.10 Nei dialetti meridionali si infittiscono, man mano che si procede verso sud, i passaggi di classe o coniugazione nel participio passato, in particolare, dalla 4 a coniugazione alla 3 a e 2 a: napol. [tra ˈrut ə] «tradito», [vu ˈlːut ə] «bollito», [ ˈjut ə] «andato».

2.2.11 Il ➔ periodo ipotetico dell’irrealtà oggi più diffuso è quello col doppio congiuntivo (napol. [si pu ˈtes ːə fa ˈʧ es ːə] «se potessi, farei»), anche se non sono rare, qua e là, attestazioni del tipo dell’italiano, con congiuntivo nella protasi e condizionale nell’apodosi: ad es., a Ravello (Sa) [si pu ˈtes ːə, far ˈː iə]). Qui il condizionale è quello in /-ia/ derivato dalla sequenza infinito + imperfetto indicativo (facere + habeba(m)). È poi da notare la presenza, anch’essa a macchie di leopardo, di un particolare tipo arcaico di condizionale, derivato dal piuccheperfetto indicativo latino: ad Auletta (Sa) [fa ˈʧɛ ra] «farei» < fecera(m), a Trasacco (Aq) [pu ˈtirə] «potresti», a Trevico (Av) [fati ˈgarim ə] «lavoreremmo».

2.2.12 Mentre in Abruzzo, nel Molise e nel basso Lazio viene ancora adoperato comunemente, per indicare una ripetizione ( ➔ iterazione, espressione della ) o consuetudine, il prefisso re -, in certi casi fino a logorare il suo valore semantico, nelle altre aree al suo posto si trovano espressioni che valgono «un’altra volta», «indietro», o perifrasi con il verbo tornare . A Monte San Biagio (Lt), ad es., si dice [ki

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aˈbːusk ə e ˈpːɔ rəˈ da fa la ˈvɛrə kari ˈta] «chi riceve e poi ridà fa la vera carità»; ma a Formicola (Ce, a nord di Capua) si ha già [i ˈtɔrn ə a ˈdːiʧə ] «torno a dire», cioè «ripeto», a Napoli [ ˈram ːə aˈrːɛtə] «ridammi», a Ravello (Sa) [ ˈkwan ːə ˈtworn a ˈbːəni?] «quando ritorni?».

2.2.13 La collocazione del pronome personale clitico ( ➔ clitici ) prima del verbo nell’imperativo negativo e nelle frasi subordinate implicite o con verbi modali + infinito (cfr. Rohlfs 1966-1969: § 470), ancora sconosciuta in Abruzzo e nel basso Lazio interno, diviene normale più a sud: a Monte San Biagio (Lt) [s ə ˈmes ːə an ˈkap ə də sə l ak ːaˈtːa] «si mise in testa di comprarsela», a Napoli [v əˈ rim ːə e ʧə ˈmɔvərə] «cerchiamo di muoverci», [nun m ə ˈfir ə ˈkːju e t ə war ˈda] «non ce la faccio più a guardarti».

2.2.14 Nel lessico, è da notare in molte zone la persistenza di antiche parole prelatine (osche), latine o greche, come, ad es., [ ˈpje ʃkə, p əˈʃ kon ə] «roccia», «masso, grosso sasso» < osco pestlúm , [ ˈajn ə, aj ˈnut ːʃə ] «agnello» < agnus, [ ˈkraj ə, ˈkra, ˈkrej ə] «domani» < cras, [i, ji] «andare» < ire, [ ˈkamp ə, ˈkam ːə] «bruco» < gr. kámpē, [ ˈkak ːəvə] «recipiente» < gr. kákkabos , [kuk ːuˈvaj ə] «civetta» < gr. koukkoubáia , [ ˈʦ imp ərə, ˈʦ imbr ə] «caprone» < gr. khímaros , e altre ancora.

3. L’italiano regionale

L’ ➔italiano regionale meridionale presenta sia tratti propri che lo caratterizzano, a volte riscontrabili solo in alcune zone, sia tratti condivisi con porzioni più o meno ampie dell’Italia centrale. Tra questi ultimi, ricordiamo il passaggio della laterale palatale /-ʎː -/ a /-jː-/, sempre più frequente nella stessa Napoli ([ ˈfij ːo] «figlio», [ ˈpaj ːa] «paglia»), dove è sensibile il contrasto con la pronuncia ancora laterale delle generazioni più anziane; il passaggio delle consonanti occlusive sorde /-p-, -t-, -k-/ alle corrispondenti sonore /-b-, -d-, -g-/ dopo /n/ o /m/ (lenizione postnasale): [ ˈkambo] «campo», [ˈtando] «tanto», [ ˈange] «anche»; il passaggio, sempre dopo nasale, di /-s-/ a /-ʦ-/, che poi può sonorizzarsi a /-ʣ-/ ([ ˈpɛnʣo] «penso», [in ˈʣ om ːa] «insomma»).

Tra i tratti più tipici del Mezzogiorno, e in particolare dell’area napoletana, vi è invece la pronuncia aperta di /-e-/ accentata in parole come [b ːij ˈːɛ t:o] «biglietto», [ ˈvɛro] «vero» e negli avverbi in - mente ([vera ˈmɛnte] «veramente», [lenta ˈmɛnte] «lentamente»), e altri casi particolari del vocalismo tonico, come /-ɔ-/ in giorno ([b ːwon ˈʤɔ rno] «buongiorno»), napol. [ ˈjworn ə], forma che denota, tramite

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il dittongamento metafonetico, una / ɔ/ aperta di base che ricompare in italiano (altri esempi: [ ˈlɔro] «loro», [ ˈsɔɲː o] «sogno», [ ˈnɔme] «nome»); la pronuncia – oscillante, ma ben attestata – del dittongo /- je-/ in parole come [ ˈʧ jelo] «cielo» (o addirittura [ ˈʧ ielo]), [suf:i ˈʧ jente] «sufficiente», rispetto a [ ˈʧɛ lo], [suffi ˈtʃɛ nte] della pronuncia standard e di altre zone d’Italia; la pronuncia / ʣ/ + /j/ da -tj- latino ([na ˈʣ jone] «nazione», [valuta ˈʣ jone] «valutazione»), che si oppone tuttora a quella del nesso -ctj- ([at ˈʦ jone] «azione»), ben nota anche in Puglia e in Abruzzo; l’uso del voi come forma allocutiva di rispetto o cortesia ( ➔ allocutivi, pronomi ), in tempi ancora recenti adoperata anche dai figli nei confronti dei genitori, o dai nipoti con i nonni e gli zii ( papà , mi sentite? ), anche se in Abruzzo resiste l’antico uso latino di dare del tu quasi sempre, lasciando il voi (e, oggi, il lei ) ai rapporti più formali; starci e tenere al posto di esserci e avere (ci sta il capotrèno e io il bigliètto non lo tèngo ); il cosiddetto ➔ accusativo preposizionale , introdotto da a (hai visto a Maria? ). Frequenti, anche presso la buona borghesia napoletana ( ➔ Napoli, italiano di ) parole ed espressioni come ceneriéra «posacenere», scostumato «maleducato», cacciare «tirare fuori, estrarre» ( caccia il portafoglio ), pittare «imbiancare», a cche sta? «a che punto è?», non ti gióva «non ti è utile», «non ti risulta comodo» ( non ti gióva la metropolitana? ). Esteso a quasi tutto il Mezzogiorno, inglobando ampie aree della Puglia e dell’Abruzzo, è poi l’uso di melone , citrone «anguria», mappina «cencio, strofinaccio», tuppo «crocchia», ( am )mischiare o immischiare «contagiare», scotolare , scotoliare «scuotere», fare filone «marinare la scuola» (cfr. Mammana 1997: 144-150; Avolio 2002: 602).

Sul versante orientale, e in particolare nella Puglia fra il Gargano e la Murgia, fino a Taranto, nella Lucania contigua (Materano, Melfese), nel Molise adriatico (basso Molise) e nell’Abruzzo costiero fino al Pescarese (con diramazioni più o meno ampie verso l’interno), è visibile anche in italiano il fenomeno della differenziazione vocalica per posizione già visto nei dialetti ([un ˈpoko di ˈpɔlːo] «un poco di pollo» per [un ˈpɔko di ˈpol ːo] dello standard, e anche della varietà napoletana di italiano). L’Abruzzo teramano ha invece generalizzato la pronuncia aperta di /e/ e /o/, in ogni posizione ([ ˈbːwɔna ˈsɛra] «buona sera», [uŋ kal ˈʣɔ ne] «un calzone»).

4. Cenni sulle tradizioni scrittorie dell’area

Il napoletano scritto ha trovato piuttosto precocemente una sua relativa stabilità. La grafia seicentesca, siglata da autori prestigiosi come Giambattista Basile e Giulio Cesare Cortese, giungerà più o meno

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inalterata fin quasi alla fine dell’Ottocento, senza accogliere praticamente nessuna delle trasformazioni che nel frattempo avevano investito il dialetto parlato, ad es., negli articoli determinativi (ridottisi da lu o lo a /o/ e da la a /a/) e, conseguentemente, nelle preposizioni articolate (come de li «dei» che passa a /de/ o /re/), nella chiusura di /o/ protonica in /u/ (come in /nun/ «non»), nel rotacismo di /d/ (che passa a /r/, come in [ ˈrur əʧə ] «dodici»).

In polemica con la fedeltà pedissequa a questa tradizione, ormai fossilizzata, Salvatore Di Giacomo proporrà, verso la fine dell’Ottocento, una riforma tesa a rivitalizzare il dialetto letterario riavvicinandolo a quello dell’oralità, ma senza giungere a confonderlo con esso. Eduardo Scarpetta, aderendo alle indicazioni del Di Giacomo, riscrisse addirittura molte delle sue commedie più fortunate. Resistenze e oscillazioni dureranno però a lungo, e sono tuttora, in parte, riconoscibili, per es., nell’uso di d al posto di /r/ del dialetto parlato in posizione iniziale e tra vocali ( dà per [ra] «dare», piede per [ˈpjer ə] «piedi») o nella mancata segnalazione della lenizione postnasale ( diente per [ ˈrjend ə] «denti»).

La grafia tradizionale napoletana tende a ripristinare le vocali originarie (non senza sviste e oscillazioni), con l’eccezione di -i, che viene resa abbastanza costantemente con -e (capille luonghe «capelli lunghi»). Per quanto riguarda altri ambiti, come scritte murali e striscioni di tifosi, è frequente la cancellazione di schwa , cioè la sua interpretazione come zero ( srnat per [s ərəˈ nat ə/] «serenata»), oppure l’uso di un apostrofo o apice.

Nel resto del territorio, l’Abruzzo spicca per la sua tendenza a rappresentare graficamente lo schwa con - e, anche se quest’ultimo simbolo può, a volte, presentare l’inconveniente di essere pronunciato ‘alla lettera’, cioè proprio come la vocale italiana corrispondente (ad es., da alcuni gruppi folkloristici). Molti scritti dialettali lucani mostrano una situazione tutto sommato simile, mentre nella Puglia dell’Ottocento erano frequenti soluzioni grafiche come l’apice ( ˈ) oppure il troncamento della sillaba con riduzione dell’eventuale consonante intensa ( mun per [ ˈmun ːə] «mondo»).

5. Cenni sulla letteratura dialettale

È impossibile esporre, anche per sommi capi, le vicende della letteratura dialettale riflessa napoletana, forse la più rilevante d’Italia per complessità, continuità e livello artistico.

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Giambattista Basile (1575-1632) ha lasciato nella sua opera più nota, la raccolta di novelle intitolata Lo Cunto de li cunti «il racconto dei racconti» – tradotta per la prima volta in italiano da Benedetto Croce (con il titolo di Pentamerone ) – un esempio notevolissimo di dialetto stratificato e multiforme, simbiosi fra aderenza all’uso vivo e raffinate costruzioni letterarie; Giulio Cesare Cortese (1570-1640), autore della Vaiasseide «epopea delle serve», propone invece versi nel dialetto degli ambienti popolari, rivisto e reinterpretato in chiave polemicamente trasgressiva e antitoscana. A Ferdinando Galiani (1728-1787), noto economista di nascita chietina, si devono un’acuta grammatica e un vocabolario del napoletano (del resto, il contributo dato al dialetto della capitale da personalità originarie di altre zone del Regno non è mai stato né episodico, né trascurabile).

La poesia e la canzone melodica napoletana (quest’ultima con radici nel Cinquecento, all’epoca dei componimenti rustici e scherzosi detti villanelle ) vivono la loro stagione d’oro, che le porterà a una fama di livello mondiale, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, grazie soprattutto a Salvatore Di Giacomo (1860-1934), Ferdinando Russo (1866-1927), Ernesto Murolo (1876-1939), Libero Bovio (1883-1942), E.A. Mario, al secolo Ermete Giovanni Gaeta (1884-1961); nello stesso arco di tempo, il teatro dialettale trova in Eduardo Scarpetta (1853-1925) l’autore brillante più noto e applaudito, tra i tanti allora in attività (nonché replicato innumerevoli volte ancora oggi, non solo in Campania).

Nel Novecento, Raffaele Viviani (1888-1950) ed Eduardo De Filippo (1900-1984), benché assai diversi fra loro, sono riusciti entrambi, nelle liriche come nelle commedie, a delineare un’incisiva immagine dell’umanità napoletana (messa in scena grazie anche a una lunga serie di abili caratteristi) e, per tale motivo, a valicare gli ambiti regionali e nazionali, raccordandosi validamente a istanze e tematiche della poesia e del teatro in lingua.

In Abruzzo la letteratura dialettale riflessa comincia nel Settecento, con Romualdo Parente (1735-1831), autore di poemetti in ottave che hanno come sfondo il paese e le sue antiche tradizioni. Da non sottovalutare, anche al di là del contesto regionale, il ➔ Gabriele D’Annunzio dei Racconti della Pescara , alla cui figura è poi legata quella del latinista e scrittore Cesare De Titta (1862-1933), autore di un’incisiva traduzione nel dialetto nativo del dramma dannunziano La figlia di Jorio (la quale, in realtà, rappresenta, non solo nella lingua, un’opera a sé stante).

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Per il Molise, sono da citare quanto meno il poeta e studioso di folklore Eugenio Cirese (1884-1955), vivamente apprezzato anche da ➔ Pier Paolo Pasolini (cfr. Cirese 1997), e Michele Cima (1884-1932) autore di favole, sul modello di Esopo, Fedro e La Fontaine, nel dialetto nativo di Riccia (Campobasso).

Nella Puglia centro-settentrionale, se si eccettuano alcuni casi isolati, la letteratura riflessa comincia solo nei primi decenni dell’Ottocento, spesso sulla falsariga di modelli più prestigiosi, soprattutto napoletani (cfr. Aprile et al. 2002: 725). Tra i nomi di maggior spicco possiamo comunque segnalare: per Bari, Francesco Saverio Abbrescia (1813-1852), autore delle ancor oggi popolari Rime baresi , e Antonio Nitti di Vito (1886-1951), i cui modelli sono Pascoli e Di Giacomo; per l’area foggiana e garganica, Filippo M. Pugliese (1889-1956) e Francesco Paolo Borazio (1918-1953), autodidatta e autore di poemetti eroicomici; per l’area barese meridionale e tarantina, Enrico Bozzi (detto il Conte di Luna, 1873-1934), che si ispira in particolare a Trilussa, e Pietro Gatti (1913-2001).

In Basilicata si segnalano, fin dal periodo preunitario, il potentino Raffaele Danzi (1818-1891) e il materano Francesco Festa, autore, nel 1872-73, di una fortunata raccolta di versi. In anni più vicini – nei quali svettano figure di poeti in lingua come Rocco Scotellaro (1923-1953) e Leonardo Sinisgalli (1908-1981) – sono da ricordare quanto meno il potentino Mario Albano (1912-2000) e il tursitano Albino Pierro (1916-1995), divenuto un vero e proprio caso letterario, e proposto anche per la candidatura al Nobel.

6. La presenza del dialetto nei recenti rilevamenti statistici

Gli ultimi rilievi dell’ISTAT confermano l’immagine di un Mezzogiorno in cui i dialetti sono ancora di uso corrente. Tutte le regioni, infatti, si collocano nettamente al di sopra della media nazionale, che è, rispettivamente, del 16% per chi dice di parlare «solo o prevalentemente dialetto» e del 32,5% per chi dichiara di parlare «sia italiano che dialetto».

Considerando le cinque regioni che sono in tutto o in gran parte linguisticamente meridionali (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata), nel 2006 la percentuale di coloro che affermavano di parlare, in famiglia, solo o prevalentemente dialetto era il 17,3% in Puglia, il 20,7% in Abruzzo, il 24,1% in

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Campania, il 24,2% nel Molise, e ben il 29,8% in Basilicata; mentre quella dei parlanti che dichiaravano di usare «sia italiano che dialetto» era il 38,3% in Abruzzo, il 41,2% in Basilicata, il 42,3% nel Molise, il 47,9% in Puglia e il 48,1% in Campania. Va notata, e resta da interpretare, la più netta distanza tra le due percentuali pugliesi. Non molto diverso il quadro offerto dai dati riguardanti l’uso del dialetto con amici.

Sempre secondo l’ISTAT, fra il 2000 e il 2006 non vi sarebbero stati mutamenti sostanziali. Alcune regioni, anzi, mostrano addirittura un’inversione di tendenza: così, ad es., nel Molise, dove, per quanto riguarda l’uso alternato di dialetto e italiano in famiglia, si è passati da una percentuale del 36% nel 2000 a una del 42,3% nel 2006, aumento che assorbe solo in parte il calo nell’uso quasi esclusivo del dialetto (dal 27,3% al 24,2%). Con amici, l’opzione per il solo dialetto è addirittura in crescita in Puglia (dal 13,6% del 2000 al 14,5% del 2006, in significativa controtendenza con le altre regioni).

Sono parecchi, insomma, i dati che, oltre a confermare un maggior radicamento dei dialetti rispetto alla media nazionale, mostrano segnali di una ripresa del loro uso, la quale, evidentemente, implica una scelta che non è più considerata alternativa all’italiano.

Studi

Aprile, Marcello et al. (2002), La Puglia , in Cortelazzo et al. 2002, pp. 679-756.

Avolio, Francesco (1995), Bommèspre. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale , San Severo, Gerni Editore.

Avolio, Francesco (2002), L’Abruzzo , in Cortelazzo 2002 et al. , pp. 568-607.

Cirese, Eugenio (1997), Oggi domani ieri. Tutte le poesie in molisano , le musiche e altri scritti , a cura di A.M. Cirese, Isernia, Marinelli, 2 voll.

Cortelazzo, Manlio et al. (a cura di) (2002), I dialetti italiani . Storia , struttura , uso , Torino, UTET.

142

Lüdtke, Helmut (1979), Lucania , in Profilo dei dialetti italiani , a cura di M. Cortelazzo, [poi] di A. Zamboni, Pisa, Pacini, 23 voll., vol. 17º.

Mammana, Giulia, (1997), Fra “italiano regionale” e “italiano parlato”. Appendice a una ricerca , in Aspetti della variabilità. Ricerche linguistiche siciliane , a cura di M. D’Agostino, Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, pp. 139-153.

Rohlfs, Gerhard (1966-1969), Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti , Torino, Einaudi, 3 voll. (ed. orig. Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten , Bern, Francke, 3 voll.).

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piemontesi, dialetti di Davide Ricca - Enciclopedia dell'Italiano (2011) piemontesi, dialetti

1. Territorio e varietà dialettali

Il territorio del Piemonte non è omogeneo dal punto di vista linguistico, e le varietà che si possono definire piemontesi non ricoprono l’intera estensione amministrativa della regione. Rimangono infatti escluse a occidente le varietà delle comunità alloglotte provenzali ( ➔ provenzale, comunità ) e francoprovenzali ( ➔ francoprovenzale, comunità ) e a oriente le varietà chiaramente di area lombarda parlate a est del fiume Sesia. Vi sono inoltre isole linguistiche che formano una comunità alloglotta walser ( ➔ walser, comunità).

Varietà di transizione di incerta classificazione sono presenti nella parte orientale delle province di Vercelli (con le parlate lombarde) e di Alessandria (con quelle lombarde ed emiliane) e ai confini meridionali della regione (con le parlate liguri).

Le parlate propriamente piemontesi si collocano nell’ambito dell’ampio continuum linguistico galloitalico ( ➔ dialetti ); è tuttavia possibile caratterizzarle in termini di tratti fonologici, morfologici e sintattici condivisi e per lo più specifici, di cui i principali saranno descritti nel seguito.

Entro l’area delle parlate piemontesi vi è peraltro una sensibile variazione. Il dialetto della capitale regionale, Torino, si è gradualmente esteso negli ultimi tre secoli dando origine ad un’area linguisticamente abbastanza uniforme nelle pianure a sud-ovest e nord-est della città. Fondamentalmente la stessa varietà, con piccole differenze, è (o era) parlata nei centri urbani lungo le principali vie di comunicazione del Piemonte occidentale (come Ivrea, Pinerolo, Susa, Cuneo e anche Asti). Al di fuori di questa koinè regionale a base torinese ( ➔ Torino, italiano di ), la variazione diatopica all’interno del piemontese (che di solito non mette in pericolo l’intercomprensibilità) si può classificare in termini di alcuni raggruppamenti subregionali che spesso riflettono la storia politica del Piemonte, tutt’altro che unitaria fino all’inizio del Settecento. Seguendo in gran parte Telmon (2001), si possono distinguere: canavese, biellese, valsesiano, alessandrino, monferrino e langarolo. 144

2. Caratteri linguistici

Nel seguito, i tratti caratterizzanti l’area dialettale piemontese saranno illustrati sulla base del torinese, segnalando di volta in volta le principali divergenze presenti negli altri territori sopra citati.

2.1 Fonologia

Le parlate piemontesi condividono con gli altri dialetti galloitalici – romagnolo escluso – le due vocali anteriori arrotondate [ø] (torin. [fø] «fuoco») e [y] (torin. [tyf] «afa»), anche se [y] manca, essendosi ulteriormente evoluto in [i], in molte varietà monferrine e alessandrine.

Caratteristica del piemontese è la vocale centrale [ ə], che appare anche in posizione tonica ([ ˈtəbːi] «tiepido») e porta a nove il totale dei fonemi vocalici del torinese rispetto ai sette dell’italiano (non c’è infatti contrasto tra /o/ e / ɔ/, essendo presente solo / ɔ/, mentre il contrasto tra /e/ ed / ɛ/ è presente, sia pure in poche coppie minime come / ˈfeje/ «farle» ~ / ˈfɛje/ «pecore»). Le vocali [ ɔ] e [ø] sono solo toniche. Nel Piemonte meridionale si può trovare un ulteriore contrasto tra [a] e una vocale bassa posteriore (/ ɑ/ o / ɒ/): /sa ˈɹ a/ «sarà» ~ /sa ˈɹɒ / «salato».

Rispetto all’italiano, il torinese (come buona parte del Piemonte) non conosce [ ʃ], [ ʎ] e [ ʦ], mentre [ ʣ] è del tutto marginale (cfr. [ ˈʣ ura] «sopra», analizzabile anche come sequenza [d] + [z]). Questi fonemi sono peraltro presenti in altre varietà, per es. [ ʃ], [ ʦ] e [ ʣ] in biellese (che ha anche [ ʒ]), gli stessi più [ʎ] in valsesiano, e [ ʃ] in varietà periferiche al confine con la Liguria. L’unico fonema consonantico del torinese sconosciuto come fonema all’italiano è la nasale velare /ŋ/, che contrasta con /n/ in fine di parola (/paŋ/ «pane» ~ /pan/ «panno») e in posizione intervocalica preceduto dall’accento (/ ˈraŋa/ «rana» ~ / ˈkana/ «canna»); quest’ultimo contrasto manca in qualche varietà (alessandrino, canavese).

Nel Piemonte meridionale si trova spesso un’altra interessante opposizione distintiva fra tre liquide. Alle consuete [l] e [r], che in posizione intervocalica continuano solo le rispettive geminate latine, si aggiunge infatti [ ɹ], esito di [l] e [r] semplici, con contrasti del tipo / ˈmila/ «mille» ~ / ˈmi ɹa/ «mira, punto» e /sa ˈrɒ/ «chiuso» ~ /sa ˈɹɒ / «salato».

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Come gli altri dialetti galloitalici – a parte il ligure – il torinese e tutte le varietà piemontesi sono caratterizzati da una struttura sillabica molto più complessa rispetto all’italiano, dovuta alla caduta, nell’evoluzione a partire dal latino, di molte vocali atone, sia all’interno che in fine di parola. Si incontrano così frequentemente sequenze biconsonantiche impossibili in italiano, sia nell’attacco che nella coda sillabica, come in torinese [mluŋ] «melone», [fnuj] «finocchio», [mas ʧ] «maschio».

Nella catena parlata, gli incontri di tre o quattro consonanti che ne deriverebbero sono però semplificati dall’inserimento di una vocale prostetica, pronunciata [ ə] o [ ɐ] secondo le regioni (e notata, con ë, anche nella grafia tradizionale): [ ˈsiŋk ɐˈ mluŋ] «cinque meloni», [ ˈsuŋ ɐˈ vnyjt] «sono venuto», ecc. Altra caratteristica che oppone il piemontese (al pari di tutti i dialetti settentrionali) all’italiano è l’assenza delle consonanti geminate, se si escludono l’allungamento non distintivo di tutte le consonanti precedute da [ə] tonica e seguite da vocale, come in [ ˈvənːer] «venerdì», e alcune geminazioni al confine tra verbo e pronome clitico, che possono essere anche distintive: [ ˈkat ːe] «cómprati!» ~ [(i) ˈkate] «(voi) comprate».

Quanto ai riflessi sull’italiano dell’area, pochi tratti fonologici del piemontese hanno diretto riscontro nell’italiano regionale del Piemonte. Non c’è traccia nell’italiano del Piemonte delle vocali [ø], [y] e [ ə], solo pochi parlanti anziani possono avere difficoltà nell’articolazione di [ ʃ] o [ ʦ] e nell’opporli a [s], e le consonanti lunghe sono generalmente realizzate come tali. D’altra parte, un tratto fonologico importante che oppone tutto l’italiano regionale del Nord al toscano, cioè l’assenza di un contrasto distintivo tra [s] e [z], non ha corrispondenza in piemontese. Un diretto riflesso del sistema fonologico del piemontese sull’italiano regionale si può invece trovare nella perdita pressoché completa in quest’ultimo del contrasto tra [o] e [ ɔ]. Più rilevanti sono gli influssi del dialetto nella realizzazione fonetica dei fonemi dell’italiano regionale ( ➔ Torino, italiano di ).

2.2 Morfologia

Come la grande maggioranza dei dialetti italiani, le parlate piemontesi non si discostano dall’italiano per quanto riguarda le categorie grammaticali espresse nel nome, nell’aggettivo e nel verbo, ma presentano notevoli differenze nelle marche morfologiche che le esprimono.

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Dal punto di vista delle categorie grammaticali, l’unico dato rilevante è la totale assenza del ➔ passato (e del trapassato) remoto, condivisa dalla grande maggioranza dei dialetti settentrionali (e dal francese), anche se si tratta di un’evoluzione relativamente recente (in torinese sono definitivamente scomparsi all’inizio dell’Ottocento).

Per quanto riguarda la differenza nelle forme della coniugazione verbale (che conoscono nei dettagli una notevole variazione):

(a) al contrario dell’italiano, dove sono sempre coincidenti, il torinese distingue in tutte le coniugazioni le prime persone plurali di indicativo e congiuntivo presente (per es., indicativo [by ˈtuma] «mettiamo», ma congiuntivo [ ˈbytu] «mettiamo»), e nella prima e terza coniugazione le seconde plurali di indicativo presente e imperativo (per es. indicativo [fi ˈnise] «finite», ma imperativo [fi ˈni] «finite»);

(b) le desinenze personali mostrano una grande uniformità; l’identica sequenza sing. I [-a], II [-e], III [- a], plur. I [-u], II [-e], III [-u] compare in tutte le coniugazioni in quattro tempi / modi diversi, che sono a loro volta caratterizzati da una marca caratteristica, stabile al variare delle coniugazioni (a parte l’imperfetto indicativo): rispettivamente indic. imperf. [-ˈav-] / [-ˈi-] ([by ˈtava] «mettevo / metteva», [fi ˈnie] «finivi / finivate»); cong. pres. Ø; cong. imperf. [-ˈɛ js-] ([fi ˈnj ɛjsu] «finissimo / finissero»); condiz. [-ˈri-] ([by ˈtriu] «metteremmo / metterebbero»); restano fuori di questo schema solo l’indicativo presente, l’imperativo e il futuro, che ha desinenze personali sue proprie;

(c) la vocale tematica ( ➔ coniugazione verbale ) ha un ruolo marginale, essendo isolabile con chiarezza solo nella terza coniugazione.

Nei nomi e negli aggettivi, la differenza più macroscopica tra il torinese e l’italiano riguarda l’assenza di marche di plurale per quasi tutti i nomi e aggettivi maschili, tranne quelli uscenti in [-l]: [f ɔl] «matto», plur. [f ɔj]. La marcatura esplicita del plurale è però normalmente assicurata a livello di sintagma nominale, dato che l’articolo e quasi tutti i determinanti o quantificatori sono variabili in numero anche al maschile: [al] «il», plur. [i], [kul] «quello», plur. [kuj], [tant] «molto», plur. [ ˈtanti]. In varietà periferiche la marcatura del plurale maschile può essere più complessa, mantenendo residui più o meno estesi di

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procedimenti metafonetici ([sak] «sacco», plur. [s ɛk]), palatalizzazioni ([tant] «tanto», plur. [tan ʧ]) o metatesi di [i] ([tyt] «tutto», plur. [tyjt]).

Più ampiamente marcata che in italiano è invece l’opposizione tra maschile e femminile, che si estende agli aggettivi corrispondenti alla seconda classe latina (ad es. «grande», sing. masch. [grand], femm. [ˈgranda]; plur. masch. [grand] femm. [ ˈgrande]), e, come in molti dialetti italiani, si mantiene nel numero «due» (masch. [duj], femm. [ ˈdue]).

Come avviene in tutti i dialetti settentrionali, i pronomi personali tonici di prima e seconda persona singolare ([mi] e [ti] rispettivamente) derivano dalle forme oblique latine. Caratteristica del piemontese è la forma per la terza persona singolare (masch. [kjɛl], femm. [ ˈkila] in torinese), che funziona anche da riflessivo tonico (manca l’equivalente di it. sé ) e da forma di cortesia, con opposizione di genere a differenza dell’it. lei . Si notino anche i dimostrativi neutri [s ɔŋ] / [l ɔŋ] «questa / quella cosa», riferibili esclusivamente a entità inanimate e specie a concetti astratti o a intere proposizioni.

2.3 Sintassi

Alcuni tratti sintattici molto evidenti oppongono le parlate piemontesi all’italiano. In primo luogo la negazione di frase ([n ɛŋ] in torinese) è ovunque postverbale, o meglio segue il verbo finito: [i l aj ˈnɛŋ man ˈʤ a] «non ho mangiato».

La negazione postverbale si ritrova, con forme anche etimologicamente molto differenziate, in vaste regioni del territorio galloitalico, ma i dettagli della sua posizione sintattica variano sensibilmente da un dialetto all’altro. Le negazioni postverbali nascono come elemento di rafforzamento (per mezzo di un quantificatore negativo come il piem. [n ɛŋ], originariamente «niente», oppure di termini denotanti piccole quantità come «briciola», «goccia», ecc.) che si aggiunge alla marca negativa preverbale ereditata dal latino, e finisce col sostituirsi completamente ad essa. La fase intermedia del processo, con compresenza di due marche negative una pre- e l’altra post-verbale, è attestata in torinese fino al Settecento ed è tuttora presente in territori al confine con la Liguria (ad es. in Val Bormida).

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Un’altra area di forte divergenza con l’italiano è data dalla sintassi dei ➔ clitici . Il torinese possiede una serie completa di clitici soggetto, immediatamente anteposti al verbo finito (imperativo escluso): sing. I [i], II [t], III [a], plur. I [i], II [i], III [a]. I clitici di seconda persona singolare, terza singolare e di terza plurale sono obbligatori, gli altri opzionali; sono tutti compatibili con un soggetto esplicito di terza persona o un pronome tonico. In altre varietà piemontesi, forme e condizioni d’uso possono essere diverse. I clitici soggetto sono un tratto che caratterizza, con grande variabilità nel numero di forme e nella loro obbligatorietà, il complesso dei dialetti settentrionali in opposizione all’italiano.

Per quanto riguarda i clitici complemento, un tratto specifico del torinese rispetto all’intera area romanza è la loro posposizione nei tempi composti del verbo: [ ˈkj ɛl a l a ˈdime] «lui mi ha detto», lett. «lui ha detto-mi». L’innovazione si è stabilizzata in torinese solo alla fine dell’Ottocento, dopo una lunga convivenza con il tipo più antico [a m a ˈdit] e un tipo di transizione con il raddoppio del clitico [a m a ˈdime]. Il processo non ha raggiunto il Canavese, che ha tuttora il tipo preposto, mentre il tipo intermedio è ancora attestato in alcune zone del Piemonte meridionale. Si noti anche in [ ˈmi i l ˈaj] «io ho», [ ˈkj ɛl a l ˈe] «lui è» il clitico ‘vuoto’ [l], che si prepone obbligatoriamente – in assenza di clitici complemento – alle forme finite inizianti per vocale dei verbi [a ˈvɛj] «avere» ed [ ˈese] «essere».

Nessuno dei tratti sopra citati, pervasivi nel dialetto, ha riscontro nell’italiano regionale piemontese, dove compaiono invece calchi di costruzioni dialettali più specifiche.

3. Vitalità attuale del dialetto

Il Piemonte è tra le regioni in cui la vitalità attuale del dialetto può dirsi particolarmente bassa, in particolare nelle aree urbane. I dati ISTAT del 2006 riportano per l’uso del dialetto in famiglia una percentuale del 9,8% di intervistati che dicono di farne uso esclusivo e del 25,4% che dice di farne uso insieme all’italiano. Il dialetto è quindi ormai evidentemente minoritario anche nella situazione comunicativa più favorevole.

Tuttavia, se l’uso esclusivo del dialetto in famiglia si è più che dimezzato dal 1988 ad oggi, la percentuale residua sembra essersi stabilizzata negli ultimi anni, il che può forse riflettere il permanere di limitate aree di vera e propria diglossia anche in Piemonte, presumibilmente nei piccoli centri rurali

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(➔ bilinguismo e diglossia ). D’altra parte, l’uso esclusivo dell’italiano in famiglia non è per il momento aumentato in misura altrettanto ingente, anche se questo può dipendere dalla permanenza di un uso residuale del dialetto con la sola generazione dei nonni, destinato quindi a sparire in pochi anni.

4. Letteratura dialettale

Se si escludono i Sermoni Subalpini (forse risalenti alla fine del XII secolo), di problematica collocazione al confine tra l’area linguistica italiana e quella galloromanza, il primo testo datato sicuramente piemontese (Chieri) è del 1321.

La documentazione tre- e quattrocentesca è molto scarsa, mentre del 1521 è il primo testo letterario a stampa, l’ Opera Jocunda di Giovan Giorgio Alione, una raccolta di farse in dialetto astigiano, all’epoca dai caratteri nettamente monferrini. In un dialetto già molto vicino al torinese moderno è scritta la commedia Ël Cont Piolet di Giovanbattista Tana (1649-1713), seicentesca ma stampata solo nel 1784. La letteratura nella koinè torinese (cfr. Clivio 2002) diventa relativamente abbondante nel Settecento (Ignazio Isler, 1702-1788) e poi nell’epoca giacobina (Edoardo Ignazio Calvo, 1773-1804) e risorgimentale (Angelo Brofferio, 1802-1866): prevale il genere della poesia, specie moralistico-politica, ma sono anche presenti alcune opere teatrali.

Quantitativamente cospicua è la produzione teatrale negli anni 1860-1890, il cui capolavoro è Le miserie ’d monsù Travèt (1863), di Vittorio Bersezio, mentre negli ultimi due decenni dell’Ottocento compaiono periodici di discreta tiratura che ospitano anche romanzi popolari a puntate, sia pur di qualità scadente e con una varietà di piemontese spesso pesantemente italianizzata (Luigi Pietracqua, 1832-1901). Nel Novecento, la produzione letteraria consiste essenzialmente di poesia lirica, mentre la prosa è prevalentemente opera dei promotori del piemontese illustre. Poeta e promotore dell’uso alto del torinese a un tempo è Pinin Pacòt (1899-1964), a cui si deve negli anni Trenta – insieme ad Andrea Viglongo – la sistemazione di un’ortografia standardizzata, da allora utilizzata coerentemente in quasi tutte le produzioni a stampa: ha il merito di essere essenzialmente fonemica, anche se alcune scelte (in particolare la resa di [u] con o e di [y] con u) danno ai testi un aspetto italianeggiante che risulta fuorviante per chi non conosce il dialetto.

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La prima Gramatica [sic] Piemontese , in italiano, si deve a Maurizio Pipino (1783): anche se totalmente inadeguata da ogni altro punto di vista, contiene proposte ortografiche che riflettono una buona sensibilità per i fatti fonetici. Dello stesso anno e dello stesso autore è un Vocabolario che inaugura la lunga serie dei dizionari dialettali apparsi tra fine Settecento e Ottocento (il più ampio, di Vittorio di Sant’Albino, è del 1859). Infine, la prima traduzione completa del Nuovo Testamento , del valdese Enrico Geymet, è del 1834. Esistono anche grammatiche di riferimento (per es., Villata 1997) e dizionari contemporanei (per es., Brero 2001) della koinè torinese.

Fonti

Brero, Camillo (2001), Vocabolario italiano-piemontese, piemontese-italiano , Torino, Il Punto-Piemonte in bancarella (1 a ed. 1976).

Studi

Clivio, Gianrenzo P. (2002), Profilo di storia della letteratura in piemontese , Torino, Centro Studi Piemontesi.

Telmon, Tullio (2001), Piemonte e Valle d’Aosta , Roma - Bari, Laterza.

Villata, Bruno (1997), La lingua piemontese. Fonologia , morfologia , sintassi , formazione delle parole , Montréal, Lòsna & Tron (rist. Torino, Savej, Fondazione culturale piemontese, 2009).

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sardi, dialetti di Antonietta Dettori - Enciclopedia dell'Italiano (2011) sardi, dialetti

1. Tra storia e lingua

Posta al centro del bacino occidentale del Mediterraneo, la Sardegna trae dalla posizione geografica e dall’accentuata diversificazione interna del territorio i fattori che caratterizzano la sua storia linguistica.

Sulla latinizzazione hanno influito distanza e lateralità rispetto a Roma e probabili rapporti con la latinità africana e col meridione italiano. Gli elementi del sostrato paleosardo ( ➔sostrato ) collocano l’isola all’incrocio di correnti linguistiche mediterranee che la collegano all’Africa e all’Iberia, oltre che all’area tirrenica settentrionale (Sanna 1957: 143-181). La romanizzazione, avviata nel III secolo a. C., si inserisce su un sostrato punico nel meridione isolano e nelle zone costiere, e sul paleosardo – ancora in gran parte non decifrato – nelle parti interne e settentrionali. L’idioma romanzo sardo attesta fenomeni risalenti a fasi arcaiche della latinità, mantenutisi in particolare nelle aree interne, più conservative e meno esposte a contatti. Inserita nella sfera politica africana durante la dominazione vandalica (V sec. - 534) e la successiva dominazione bizantina, a partire dal IX secolo l’isola si organizzò autonomamente nei quattro giudicati di Cagliari, Logudoro, Arborea e Gallura, una divisione politica che contribuì all’evoluzione differenziata del volgare sardo. L’intervento militare delle forze cristiane a sostegno dei giudici sardi contro gli Arabi segnò l’avvio della politica di penetrazione pisana e genovese, che ebbe riflessi anche sulla lingua, con influssi innovativi che interessarono in particolare il campidanese e il logudorese settentrionale. L’occupazione catalana, cominciata nel XIV secolo, distaccò l’isola dall’area di influenza italiana ma ebbe effetti linguistici soprattutto nel sud; il successivo influsso spagnolo lasciò invece tracce profonde in tutto il sardo.

I rapporti linguistici con la Penisola furono riallacciati in forma stabile solo nel Settecento, attraverso il Piemonte, che avviò il processo di italianizzazione.

2. Articolazione interna

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Nell’area sarda si distinguono due raggruppamenti dialettali fondamentali: il logudorese nella parte settentrionale e il campidanese in quella meridionale. All’interno del logudorese tratti peculiari distinguono il nuorese dell’area conservativa centro-orientale. Una posizione di rilievo è inoltre riconosciuta alla varietà arborense, nella fascia centrale di transizione fra parlate logudoresi e campidanesi (Sanna 1975: 119-187; Virdis 1988: 904-906).

Caratterizzato da polimorfismo e intreccio di fenomeni diatopicamente connotati, l’arborense è la lingua in cui sono redatti importanti testi medioevali, quali il Condaghe di S. Maria di Bonarcado e la Carta de Logu . Nell’estremo settentrione isolano, si parlano a ovest il dialetto di Sassari (a Sassari, Porto Torres, Sorso e Stintino) e ad est il gallurese (a Tempio e nelle località a nord del Limbara). Il sassarese avrebbe avuto origine nel medioevo, durante la presenza di Pisa nell’area, come lingua di contatto, dall’incontro di volgare pisano e logudorese locale (Sanna 1975: 6-118); la formazione del gallurese sarebbe invece il risultato dell’immigrazione nel XVIII secolo di genti corse, richiamate in Gallura dallo spopolamento che aveva interessato la regione a partire dal XV secolo (Wagner 1943) ( fig. 1 ).

Prosegue ancora il dibattito sul posto da assegnare a queste due varietà dialettali: alle classificazioni che le staccano dal dominio sardo accostandole al gruppo italoromanzo (a partire da Blasco Ferrer 1984: 180-186, 200 e Contini 1987: 1°, 500-503; cfr. Dettori 2002), si oppongono posizioni che le ricollocano al suo interno (Loporcaro 2009: 159-67). Sono presenti inoltre in Sardegna l’isola linguistica catalana di Alghero, che risale al XIV secolo ( ➔ catalana, comunità ), e quella tabarchina di Carloforte e Calasetta, fondata nel XVIII secolo da coloni liguri provenienti da Tabarca ( ➔ tabarchina , comunità).

3. Tratti linguistici

Tra i tratti che caratterizzano il sardo e contrassegnano la specificità della sua storia evolutiva tra le lingue romanze possono essere ricordati:

(a) il sistema vocalico, che mantiene un esito autonomo di ĭ e ŭ latine, senza la confluenza negli esiti di ē e ō del vocalismo romanzo: pike nuorese, pi [ɣ]e logudorese, pi [ʒ]i campidanese «pece»; bucca «bocca»; tratto condiviso col gallurese e col corso meridionale, oltreché con una circoscritta area di confine calabro-lucana;

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(b) la metafonesi, che determina l’articolazione in /é/, /ó/ delle vocali medie toniche, quando nella sillaba successiva si trova una vocale alta, /i / e /u/ (originari): Michéli (ma Michèla ), cónchinu «testardo» (ma cònca «testa»); il fenomeno è assente nel sassarese e nel gallurese;

(c) l’evoluzione di -ll- in retroflessa ( pu [ɖː ]u «pollo»), condivisa col sassarese e gallurese, oltre che col corso e con le parlate meridionali italiane;

(d) la formazione dell’articolo determinativo da ipsu (su , sa , plur. logudorese e nuorese sos , sas ; campidanese is per i due generi), mentre l’articolo del sassarese e gallurese proviene da illu;

(e) la conservazione di -s nominale del latino e delle uscite consonantiche nella flessione verbale ( sos ca [ɖː ]os «i cavalli», cantas «canti», cantat «(egli) canta»), consonanti finali non conservate in sassarese e gallurese;

(f) uso di costrutti con essere + gerundio per la resa dell’aspetto durativo: so [ɣ]antande / seu [ɣ]antendi «canto»;

(g) forme perifrastiche con avere o dovere + infinito per il futuro e il condizionale: logudorese lu appo a fà [ɣ]ere , lu deppo fà [ɣ]ere «lo farò», lu dia và [ɣ]ere «lo farei», tia [ð] èsser béllu «sarebbe bello» (di contro alle forme sintetiche di sassarese e gallurese);

(h) l’infinito usato in sostituzione dell’oggettiva con soggetto diverso dalla principale: a kérfi [ð] u a lu và [ɣ]er deo «ha voluto che lo facessi io»;

(i) posposizione del verbo o dell’ausiliare nelle interrogative: logudorese sa mela [ɣ]èrese «vuoi la mela?», ite ses fa [ɣ]inde «cosa fai?» (inversione che non si verifica in sassarese e gallurese);

(j) introduzione con la preposizione a dell’oggetto diretto [+umano], in certe aree anche [+animato]: krama / [ ʤ]ama / [ ʦ]érria a Maria «chiama Maria»; costrutto condiviso col corso e con l’area italiana centro-meridionale.

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Il lessico serba traccia della più antica latinità, in modo più vistoso che nelle altre lingue romanze, in particolare nei dialetti delle aree interne e per i campi semantici relativi alle attività rurali (cfr. Wagner 1997: 97-149). Sono diffuse parole quali maccu «matto» – da cui macchi (ghi )ne e macchiore «pazzia» – che rimanda al maccus delle atellane, domo -u «casa» e suoi vani, àkina (logudorese à[ɣ]ina , campidanese à[ʒ]ina ) col valore collettivo di «uva», saltu a designazione dei terreni comunali. Interpedire è conservato con l’originario significato di «impastoiare» (nuorese tropedire , logudorese trobeire , campidanese trobiri ); mansio -one continua nelle forme masone -i, in riferimento al gregge di pecore, ma anche al recinto che lo ospita; lorum si mantiene in loru «correggia, anello di cuoio del giogo» (da cui illorare «porre fine alla giornata di lavoro» alla maniera del contadino, che lo faceva infilando la stiva dell’aratro nel loru del giogo). Arbu , oggi sostituito nel lessico dei colori dall’italianismo biancu , è vitale in composti e locuzioni polirematiche: fustiarbu , linnarba «pioppo», arbu dess’ou «albume», arbu dess’okru «sclerotica». La stessa metafora che giustifica il nome della testa in italiano è produttiva anche nel sardo, ma viene resa col continuatore di concha > cònca . Berbu , attestato nell’antico sardo col significato di «parola», nella lingua odierna ha assunto il valore di «proverbio, detto sentenzioso» al singolare, quello di «scongiuri, formule magiche» al plurale.

4. Caratteri distintivi

Nell’articolazione interna del sardo, la distinzione fondamentale è quella che delimita l’area settentrionale, comprendente nuorese e logudorese, più conservativa, da quella meridionale, costituita dal campidanese. Tratto caratteristico è la conservazione di -e e -o in nuorese e logudorese (boke / bo [ɣ]e «voce», domo «casa») e il loro passaggio a -i, -u nel campidanese ( bo [ʒ]i, domu ). L’innalzamento vocalico della finale non modifica la tonica, che si mantiene aperta; ne derivano nel campidanese distinzioni oppositive del tipo c[o] ntu «fiaba, leggenda» ~ c[ɔ]ntu «io racconto», b[e] ni «vieni» ~ b[ε] ni «bene», e un sistema vocalico a sette fonemi, di contro a quello a cinque delle varietà settentrionali. Diversificata è anche la tipologia di prostesi vocalica: i- (+ s + consonante) in area settentrionale ( ispika / ispi [ɣ]a ~ spi [ɣ]a «spiga»); a- (+ r) in area meridionale (arru [β] iu ~ ru [β] iu , ruiu «rosso»).

Nel consonantismo, caratteri fondamentali sono il trattamento delle velari latine, conservate a nord (kena , àkina / à[ɣ]ina ) e rese in palatale a sud ([ ʧ]ena , à[ʒ]ina ), e gli esiti variati (qui labializzate, lì

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ricostruite) della labiovelare latina (logudorese, nuorese abba , limba ; campidanese akua , lingua ); fenomeni di evoluzione e ricostruzione attribuiti a influsso medievale pisano (cfr. Wagner 1984: 126-127, 227- 228).

Sono rilevanti anche le differenze che interessano la flessione verbale, mentre la distribuzione del lessico evidenzia le stratificazioni che hanno colpito le aree dialettali del sardo. Si conserva nel campidanese [ ʦ]ìppiri «rosmarino», parola del sostrato punico opposta a quella di derivazione latina romasinu usata nel nuorese e logudorese; anche la resa del concetto di «portare» è affidata nei due dialetti settentrionali a ( b)attire , parola di derivazione latina, e all’italianismo portai nel campidanese. Attesta influssi differenziati delle lingue del superstrato iberico la diffusione nel campidanese dei catalanismi leggiu «brutto» e goccius «canti sacri», di contro agli spagnolismi feu e gosos dei dialetti settentrionali.

Logudorese e nuorese a loro volta differiscono per il trattamento delle occlusive sorde in posizione intervocalica: conservate in nuorese, in logudorese (come in campidanese) evolvono nelle corrispondenti fricative sonore: matrike ~ ma [ð] ri [ɣ]e «lievito», nepote ~ ne [β] o[ð] e «nipote». Altri tratti peculiari del nuorese sono l’esito in fricativa dentale sorda di cj e tj, di contro all’esito in occlusiva del logudorese ( ca [θ(θ)] ola ~ cattola «ciabatta», pu [θ(θ)] u ~ put (t)u «pozzo») e la caduta di f- in posizione iniziale ( i[ʣ]u «figlio», o[ɖː ]e «mantice»).

Il lessico fa emergere anche distinzioni culturali: a diverse modalità classificatorie, in relazione alla ‘forma di vita’ dei volatili, rimanda la distribuzione nel nuorese del tipo lessicale ave quale denominazione degli uccelli (ma anche del genere dei rapaci e dell’aquila, con messa in evidenza dell’importanza attribuita al rapace quale tipo-specifico per eccellenza), di contro ai continuatori di pullione diffusi in logudorese e campidanese, pu [ʣ]one , pilloni . Differenti stratificazioni lessicali emergono dalla distribuzione dei nomi del rosolaccio, con la parola di sostrato paleosardo a[θ ː]anda del nuorese e quella di derivazione latina papàule del logudorese; mentre dei due tipi lessicali che designano l’arnia ( casi [ɖː ]u e móiu ) nel nuorese prevale il secondo.

5. Vitalità e dinamiche in atto nell’uso del sardo

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Il sardo, riconosciuto come una delle ➔minoranze linguistiche storiche dalla legge nazionale 482/1999, è tutelato anche dalla legge regionale 26/1997. In applicazione di quest’ultima sono state intraprese iniziative di valorizzazione e diffusione della lingua, indirizzate in particolare all’ambito scolastico e amministrativo, e hanno preso avvio interventi di normalizzazione e standardizzazione. Le due proposte di standard adottate in via sperimentale a più riprese (2001 e 2006) dall’amministrazione regionale, basate su soluzioni di compromesso, hanno incontrato resistenze all’interno della comunità, per i forti legami che vincolano i parlanti alle varietà locali. Il sardo non ha mai avuto una ➔koinè regionale, ma si sono affermate nel tempo due varietà sovralocali, il logudorese letterario , d’uso consolidato nella poesia, e il campidanese generale , basato sul dialetto di Cagliari. Il prestigio di cui tali varietà godono nelle rispettive aree di riferimento non facilita soluzioni unitarie in materia di standard.

In relazione all’uso, il sardo è in una situazione di bilinguismo instabile, dominata dalla tendenza a sostituire la lingua con l’italiano ( ➔bilinguismo e diglossia ). Ancora vitale nelle aree rurali e presso le fasce generazionali d’età elevata, è in sensibile regresso nei centri più importanti e presso i giovani. Quanto alle aree urbane, gli spostamenti demografici che le hanno interessate a partire dalla seconda metà del Novecento hanno favorito la diffusione della lingua nazionale, come è avvenuto nelle altre regioni italiane. In un rilevamento della Regione Autonoma (Oppo 2007), su circa 2700 soggetti in tutta l’isola il 68% dei parlanti ha dichiarato di saper parlare una varietà locale (con variazioni da circa l’85% nelle località con meno di 4000 abitanti a circa il 64% nelle località con più di 20.000 abitanti), ma circa il 55% dice di parlare normalmente italiano coi vicini di casa. La conoscenza del sardo diminuisce sensibilmente per i giovani, soprattutto a causa della diffusa tendenza all’interruzione della sua trasmissione familiare come prima lingua. Infatti già da alcuni decenni la famiglia ha dimostrato aperture all’italiano per i figli, generalmente in virtù di scelte linguistiche innovative delle donne.

La presenza dell’italiano nel repertorio della comunità ha favorito il suo uso come lingua veicolare, che trova giustificazione anche nel diffuso sentimento di distanza linguistica fra i gruppi dialettali: al prestigio di lingua ufficiale e di cultura, l’italiano unisce il vantaggio di non mettere in discussione gerarchie linguistiche interne e lealtà locali. I provvedimenti legislativi regionali e nazionali di tutela hanno tuttavia rafforzato il prestigio del sardo e hanno diffuso nuove consapevolezze linguistiche e culturali. Nelle diverse aree il rapporto tra italiano e sardo non è più di contrapposizione; le distinzioni si stemperano nell’uso alternato, con fenomeni di commutazione ( ➔ commutazione di codice ) e

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mescolanza ( ➔ mistilinguismo ). Le scelte linguistiche muovono dalle esigenze di adeguamento alle diverse situazioni comunicative e si basano sull’uso di tutte le possibilità che il plurilinguismo offre. L’italianizzazione delle parlate locali si accompagna alla diffusione di varietà regionali d’italiano, che, nelle aree urbane e negli usi giovanili, ricoprono ambiti funzionali informali tradizionalmente affidati al sardo.

6. Letteratura dialettale e tradizioni popolari

L’uso letterario del sardo prende avvio con la poesia religiosa. Risalgono rispettivamente al XV e al XVI secolo i brevi poemi agiografici sui martiri Gavino, Proto e Gianuario di Antonio Cano (1400-1470 circa) e di Gerolamo Araolla (1545 - fine XVI sec.), che posero le basi dell’uso poetico del logudorese. Nel corso del Seicento e del Settecento il teatro religioso in sardo ebbe seguito popolare, con sacre rappresentazioni in cui sardo e spagnolo sono usati congiuntamente. A partire dal Settecento, col ritorno nell’area culturale italiana, prende avvio una produzione poetica ispirata all’Arcadia, che annovera poeti quali Gian Pietro Cubeddu, Pietro Pisurzi, Gavino Pes (che compone i suoi versi nel natio gallurese), Paolo Mossa.

Il logudorese letterario mantiene intatto il suo prestigio di lingua della poesia fino alla prima metà del Novecento: due importanti poeti barbaricini, Peppino Mereu (1872-1901) e Antioco Giuseppe Casula, meglio noto come «Montanaru» (1878-1957) lo usano nella loro produzione che innova la poesia tradizionale. Nel secondo Novecento il rinnovamento investe anche la lingua, determinando l’uso delle diverse varietà dialettali. Rappresentanti di spicco della poesia moderna sono il campidanese Benvenuto Lobina, il nuorese Antonio Mura, il logudorese Antonio Mura Ena. L’uso poetico del sassarese era già stato avviato da Pompeo Calvia (1857-1919).

La produzione novecentesca annovera anche interessanti esempi di prosa narrativa. Fra gli autori più significativi – che scrivono nelle diverse varietà native – si ricordano Michelangelo Pira, Antonio Cossu, Benvenuto Lobina, Francesco Masala, Bustianu Murgia, Mariangela Dui. Largo seguito popolare incontra la produzione teatrale comica in campidanese, con autori quali Emanuele Pili, Efisio Vincenzo Melis e Antonio Garau.

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Negli studi demologici la poesia popolare di tradizione orale è considerata una delle specializzazioni più originali e rappresentative della cultura sarda. Fra le composizioni popolari sono ampiamente attestate attitidos «lamentazioni funebri», anninnias «ninne-nanne», filastrocche e canzoni per l’infanzia. Ma il componimento più rappresentativo è il mutu , considerato esempio locale del canto lirico- monostrofico. Composto di settenari, è diviso in due parti: la prima ( istérria o sterrimentu ) contiene la proposta delle rime, la seconda ( torrada o cobertanza ) ha la funzione di chiuderle. Le due parti divergono anche per contenuto, infatti sono tra loro incongruenti. Fra i componimenti brevi vanno ricordate anche le battorinas , costituite da quartine di endecasillabi o di ottonari.

Di particolare importanza è la narrativa popolare, ricca di fiabe di magia, leggende religiose, narrazioni formulari, racconti sugli esseri fantastici della mitologia popolare: gianas «fate», cogas / surtoras / sùrbiles «streghe-vampiro», muska macedda , la terribile mosca custode dei tesori, ammuttadore «l’incubo o folletto» che soffoca, le diverse incarnazioni del diavolo, gli spauracchi. Tali personaggi sono presenti anche nella narrativa contemporanea in italiano, come parte di quel processo di rielaborazione culturale e linguistica affrontata dagli autori locali.

7. Tradizioni scrittorie

I vocabolari ottocenteschi di Vincenzo Porru ( Nou dizionariu universali sardu-italianu , Casteddu 1832) e Giovanni Spano ( Vocabolario sardo-italiano e italiano-sardo , Cagliari 1851-1852) hanno costituito il modello ortografico per gli usi scritti, con soluzioni esemplate in genere sull’italiano; Spano introduce anche grafie latineggianti ( hòmine , hora ). Oscillante è la resa grafica della lenizione delle occlusive in fonosintassi, mentre è stabile l’uso del grafema ‹x› col valore della fricativa palatoalveolare sonora /ʒ/: paxi «pace», cìxiri «cece, ceci», secondo una tradizione grafica attestata fin dal medioevo. Il grafema ‹z› rende le affricate dentali sorda e sonora, ma Porru introduce ‹ç› per la resa della sorda che deriva da palatale italiana: çittadi ← città , deçidiri ← decidere . Con ‹s› viene resa la sibilante sia sorda che sonora, ‹d› trascrive la dentale sonora e la retroflessa, ma Porru segnala la retroflessione accanto alla parola a esponente: « casteddu dd pronuncia inglese “castello”».

Nelle introduzioni ai due vocabolari il diverso grado di apertura delle medie toniche è indicato con le annotazioni pronuncia chiara (Porru) o larga (Spano) per /ε/, / ɔ/, e rispettivamente scura , stretta per /e/,

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/o/. I problemi di normalizzazione ortografica vengono oggi affrontati all’interno delle politiche di pianificazione linguistica, avviate in applicazione della legislazione regionale e nazionale di tutela della minoranza.

Studi

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Loporcaro, Michele (2009), Profilo linguistico dei dialetti italiani , Roma - Bari, Laterza.

Oppo, Anna (a cura di) (2007), Le lingue dei sardi. Una ricerca sociolinguistica , Cagliari, Riproduzione Centro stampa Regione Sardegna.

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Sanna, Antonio (1975), Il dialetto di Sassari (e altri saggi) , Cagliari, 3T, pp. 6-118.

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Wagner, Max L. (1943), La questione del posto da assegnare al gallurese e al sassarese , «Cultura neolatina» 3, pp. 243-267.

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Wagner, Max L. (1984), Fonetica storica del sardo , introduzione, traduzione e appendice di G. Paulis, Cagliari, Gianni Trois (ed. orig. Historische Lautlehre des Sardischen , Halle (Saale), Niemeyer, 1941).

Wagner, Max L. (1997), La lingua sarda. Storia , spirito e forma , a cura di G. Paulis, Nuoro, Ilisso (1 a ed. Berna, Francke, 1951).

fig. 1

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siciliani, calabresi e salentini, dialetti di Francesco Avolio - Enciclopedia dell'Italiano (2011) siciliani, calabresi e salentini, dialetti

1. Il territorio

La Sicilia, buona parte della Calabria e il Salento (la parte meridionale estrema della Puglia) formano l’area linguistica definita meridionale estrema . Tale territorio trova proprio nella sua posizione, al centro del Mediterraneo, e nel particolare rapporto fra le coste (dallo sviluppo molto esteso) e l’entroterra uno dei suoi elementi comuni e unificanti. Un altro è rappresentato dalla precoce e duratura presenza dell’elemento greco, dall’antichità a tutto il medioevo (e, in certi casi, fino ai nostri giorni; ➔ greca, comunità ), dovuta in primo luogo alla vicinanza e a quella rilevanza strategica che solo in tempi piuttosto recenti si è man mano trasformata nel suo opposto, ossia nella distanza e marginalità rispetto alle aree economicamente forti e ai centri decisionali d’Italia e d’Europa, facendo divenire tutta l’area una sorta di lungo corridoio senza sbocco.

Accanto a quello greco, numerosi sono stati anche altri apporti linguistico-culturali: dal latino all’arabo, dal provenzale allo spagnolo, senza dimenticare la diffusa e ancora visibile presenza albanese in Calabria e Sicilia ( ➔albanese, comunità ), la presenza italiana settentrionale (gallo-italica) in Sicilia e le tracce lasciate dal giudaismo, nel Salento e altrove ( ➔giudeo-italiano ). Scarsi, invece i residui della componente germanica medievale, un po’ più visibili nell’alta Calabria, al confine con l’area meridionale.

La prova degli stretti rapporti fra le parti dell’area è data anche dalla toponomastica ( ➔ toponimi ). Nell’antichità, infatti, era il Salento a portare il nome di Calabria , che, nel corso dei secoli, si estese alla vicina Lucania. Uno degli elementi che contribuirono poi a determinarne il graduale spostamento verso sud, fino a far uscire dall’uso, nel VII secolo, il nome prelatino e latino di Brutium (che designava, appunto, la penisola calabrese), fu certamente il progressivo ritrarsi dell’influenza bizantina, che finì per creare quell’articolazione fra Calabria settentrionale (latina e longobarda) e meridionale (greca e bizantina) ben visibile ancora oggi proprio sul piano delle tradizioni dialettali (cfr. Rohlfs 1972), e simile alla parallela bipartizione linguistica fra Puglia e Salento (cfr. Mancarella 1975; Stehl 1988). 162

Le città hanno sempre svolto, in questo particolarissimo contesto, un ruolo essenziale. Durante i circa due secoli e mezzo del periodo arabo (dall’831 al 1072), Palermo strappò definitivamente a Siracusa (rimasta a lungo grecofona) il ruolo di metropoli regionale (alterne furono invece le fortune di Agrigento); i cronisti dell’epoca la descrivono, ammirati, come una città sontuosa, paragonabile, per ricchezza, al Cairo o a Córdoba. Questo primato, però, soprattutto dopo il trasferimento della capitale a Napoli (XIII sec.), non impedì lo svilupparsi di altri poli urbani, tra cui, innanzitutto, Catania e, dopo il terremoto del 1693, di altri centri siciliani orientali di media grandezza che proprio allora furono dotati, come la città etnea, di un notevole impianto architettonico barocco (Noto, Ragusa, Modica). Palermo, Catania e Messina, inoltre, hanno comunicato e «comunicano tra loro scavalcando tutta la Sicilia» (Vàrvaro 1984: 278), il che non è stato certo senza conseguenze per le vicende linguistiche e culturali dell’isola: ad es., una variante che conquisti le tre città si guadagna «per ciò stesso la qualifica di siciliano comune» ( ibid. ) e tende, quindi, a imporsi anche altrove.

Degno di nota, poi, il fatto che nelle zone interne l’insediamento sparso sia piuttosto raro, mostrandosi invece netta la prevalenza di medi e grossi nuclei accentrati (con ampi spazi vuoti fra l’uno e l’altro), parecchi dei quali di recente fondazione (come Casteltermini, nell’Agrigentino) o rifondazione (come Grammichele, nel Catanese), altri di tradizione antica e medievale (ad es. Troìna, nell’Ennese). I contatti città-campagna e la stessa variabilità linguistica geografica ( ➔ variazione diatopica ) vi assumono quindi aspetti peculiari, e sconosciuti altrove.

Sul continente, Lecce ha conteso a lungo, e con successo, alle altre città pugliesi (Bari inclusa) il ruolo di maggior centro culturale e intellettuale, senza però ostacolare lo sviluppo di cittadine minori (tra cui Otranto, Maglie, Gallipoli e, più a nord, Oria e Francavilla Fontana). Il già menzionato dualismo calabrese, visibile anche a livello geografico (l’istmo di Catanzaro), ha invece portato all’imporsi di un centro dominante tanto a sud (Catanzaro stessa) quanto a nord (Cosenza, che era già fra le più antiche città del Mezzogiorno); una suddivisione che solo nel periodo aragonese si sarebbe articolata, tramite l’istituzione di una Calabria ulteriore I, con capoluogo Reggio, e una Calabria ulteriore II, con capoluogo Catanzaro. Non va trascurato il ruolo svolto, a livello locale, da cittadine come Rossano, Paola, Crotone, Vibo Valentia (già Monteleone di Calabria) e Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia Lamezia (unitesi nel 1968 a formare Lamezia Terme).

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2. Le varietà dialettali dell’area

2.1 Fenomeni comuni o maggioritari

I dialetti meridionali estremi si differenziano, nel loro complesso, da quelli dell’area meridionale (➔ meridionali, dialetti ) per una serie notevole di caratteristiche, fra cui si possono ricordare alcuni tratti ben determinati.

(a) Un sistema vocalico tonico di soli cinque elementi, nel quale mancano le vocali chiuse /e/ ed /o/, e diversi suoni vocalici latini originariamente distinti si sono fusi tra loro: [ ˈfilu] «filo» < fīlu(m), come [ˈnivi] «neve» < nĭve(m) e come [ ˈtila] «tela» < tēla(m), ma [ ˈbːɛɖː a] «bella» < bĕlla(m); [ ˈluna] «luna» < lūna(m), come [ ˈkru ʧi] «croce» < crŭce(m) e [ ˈsuli] «sole» < sōle(m), ma [ ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m). Secondo ricostruzioni ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi, un simile sistema sarebbe il frutto del prolungato contatto, in epoca altomedievale, tra varietà romanze e greco bizantino, una lingua che fu, per secoli, di prestigio e di largo uso in tutta la nostra area, e che presentava, fra l’altro, proprio un notevole conguaglio di vari suoni vocalici sulle vocali estreme (cfr. Fanciullo 1984). Fanno eccezione solo il Salento più settentrionale, che ha un sistema di transizione con quello napoletano, e l’alta Calabria, ormai nell’area dei dialetti meridionali, in cui il sistema più diffuso è di tipo sardo (➔ sardi, dialetti ).

(b) La presenza di vocali finali ben percepibili, che sono, nella maggior parte dei dialetti, tre ([-i, -u, -a]): in Sicilia, nella Calabria meridionale e in parte di quella centrale (inclusa Cosenza), nonché nell’alto Salento (con Brindisi) si dice, per es., [ ˈkɔri] «cuore», [ ˈsat ːʃu] «so», [ ˈfim ːina] «donna»; in vari punti della Calabria centro-settentrionale e nel restante Salento, però, possono essercene quattro, per via della conservazione di [-e] (a Lecce, ad es., si dice [ ˈpane], [ ˈpɛte] «piede», [ ˈsurde] «sorde» – che si oppone a [ˈsurdi] «sordi» –, [kri ˈtare] «gridare»).

(c) La pronuncia cacuminale o retroflessa (cioè con la lingua puntata sul retro degli incisivi; ➔ dentali ) di [-dd-] derivante da -ll-, come in [ ˈbːɛɖː u] «bello», [ka ˈva ɖː i] «cavalli». Notevole è però l’ulteriore diversificazione degli esiti osservabili nella Calabria centro-meridionale, dove si ritrovano, fra le altre, le varianti [-ɖ-], [-ʎʎ -] e [-jj-], e anche [-ll-] conservato. La pronuncia cacuminale, molto antica secondo

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alcuni, è nota anche alle varietà sarde e a una parte di quelle corse ( ➔ corsi, dialetti ) e lunigianesi (➔ toscani, dialetti ), e, in pressoché tutto l’estremo Mezzogiorno, si estende alla vibrante e a nessi consonantici come [-tr-] e [-str-] ([ ˈpa ʈɽ i] «padre», [ ˈʃʈɽ anu] «strano»).

(d) Il mantenimento delle consonanti occlusive sorde dopo una nasale, assente nel resto del Sud e anche nell’Italia mediana ([ ˈsantu], [an ˈkɔra], e non [ ˈsand ə], [an ˈgɔrə]) ( ➔sonorizzazione ).

(e) L’assenza degli infiniti tronchi, assai diffusi, invece, nell’alto Mezzogiorno e fino alla Toscana ([kan ˈtari, kan ˈtare] «cantare» e non [kan ˈda], [ ˈd:i ʧiri, ˈti: ʧere] e non [ ˈdi ʧə ] «dire», ecc.).

(f) L’uso del ➔ passato remoto in luogo di quello prossimo, ancora più frequente di quanto non si osservi nell’alto Mezzogiorno (nella Calabria meridionale [kapi ˈʃː isti?] «capisti, hai capito?», in Sicilia [ˈkɔmu du ˈmːisti?] «come dormisti, come hai dormito?»).

2.2 Ripartizioni e classificazioni interne

I dialetti di Sicilia non sono facilmente classificabili, dato che molti fenomeni vi si presentano con una distribuzione a macchie di leopardo, conseguenza, fra l’altro, delle particolari vicende demografiche dell’isola. Una delle poche distinzioni chiare è rappresentata dalla diffusione del dittongamento metafonetico di /-ɛ-/ ed /-ɔ-/ ( ➔metafonia ), per influsso dei suoni originari latini -i ed -u in fine di parola: questo, assente nella maggior parte delle parlate occidentali, dal Trapanese all’Agrigentino occidentale ([ ˈvɛntu] «vento», [ ˈpɛri] «piedi»), nonché nel Messinese e in parte del Catanese, è invece ben noto a molte di quelle centrali (Enna, Caltanissetta) e nella cuspide sud-orientale ([ ˈvjentu], [ ˈpjeri]). Palermo, con una vasta area costiera circostante presenta invece dittonghi incondizionati, come in [ˈkw ɔsa] «cosa» e [ ˈfj ɛsta] «festa» (cfr. Ruffino 1984: 162 segg.). I dittonghi metafonetici sono pure assenti in tutta la Calabria meridionale e nel basso Salento mentre Lecce e Brindisi conoscono l’esito dittongante in [-wɛ-] da [-ɔ-] originario ([ ˈbːwɛnu], [ ˈbːwɛni] «buono, -i», ma [ ˈbːɔna] «buona»).

Tra i pochi fatti tipici delle parlate della Sicilia nord-orientale ci sono la pronuncia rafforzata di [b-] iniziale ([ ˈbːuka] anziché [ˈvuk ːa] «bocca»), la conservazione dei nessi -nd- e -mb- ([ ˈkwandu] «quando», [pa ˈlumba] «colomba», invece di [ ˈkwan ːu], [pa ˈlum ːa]) e grecismi lessicali come [arma ˈʧ ia] «muro a

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secco» < gr. ermakìa , [ ˈkɔna] «edicola sacra» < gr. èikon , [ ˈgrasta] «vaso» < gr. gàstra e [sala ˈmira] «geco» < gr. samamìthion .

I dialetti del centro dell’isola, ritenuti in genere più conservativi (ma non sempre ciò è vero), appaiono soprattutto caratterizzati dal passaggio di /-l-/ a /-n-/ prima di consonante dentale o palatale ([ ˈantu] «alto», [ ˈfan ʧi] «falce»), da quello di /nf-/ a /mp-/ ([mpi ˈlari] «infilare», [mpur ˈnari] «infornare») e da verbi come [ri ˈiri] «sollevare» < erigĕre, [sdruvi ˈʎː arisi] «svegliarsi», [ti ɖː iˈkari] «solleticare».

La Sicilia occidentale, infine, si distingue dalle altre zone dell’isola per la presenza di numerosi ➔ arabismi , come [ ˈka ɖː u] «secchio» < ar. qādūs , [kasi ˈria] «vaso da fiori» < ar. qasrīya , e grecismi come [ˈmira] «cippo confinale» < gr. mòira . Altri termini di origine araba, di più ampia estensione (spesso sono presenti anche in Calabria) e riguardanti soprattutto l’agricoltura, sono [ ˈbːur ʤu] «cumulo di paglia» < ar. bur ǧ, [ ʧiˈrana, ʤuˈran ːa] «raganella, rana» < ar. ǧarān, [ ˈʤɛ bːja] «grande vasca» < ar. ǧābiyah , [ ˈsaja] «canale artificiale» < ar. sāqija , [d ːzaga ˈrɛɖː a] «nastro» < ar. ẓahar (cfr. Ruffino 1984).

Dal punto di vista lessicale, i dialetti siciliani, oltre a mostrare interessanti francesismi ([kustu ˈrɛri] «sarto» < fr. ant. costurier , [ra ˈʧ ina] «uva» < fr. raisin ) e ispanismi ([kri ˈata] «serva, domestica» < spagn. criada , ormai desueto; a Palermo [karni ˈtːsɛri] «macellaio» < spagn. carnicero ), appaiono dotati, nel loro complesso, di un certo grado di innovatività rispetto alla maggior parte del Mezzogiorno (compresi il Salento e la Calabria settentrionale). Ne sono una prova, fra le altre, le voci siciliane (e calabresi meridionali) [a ˈgu ɟː a] «ago», [ka ˈaɲː a] «cesto, paniere», [du ˈmani] «domani», [ ˈɔ rbu] (e sim.) «cieco», [ˈtɛsta] «testa», [ ˈtuma] «formaggio», [mari ˈtari] «sposarsi, prender moglie», [ska ˈnːari] «uccidere», ecc., che, oltre a individuare inattese e precise concordanze con il Nord Italia, si oppongono chiaramente ai corrispondenti [ ˈaku], [pa ˈnaru], [ ˈkraj], [ ʧeˈkatu], [ ˈkapu], [ ˈkasu], [n ʣuˈra], [a ˈtːʃidere], tipici della Calabria settentrionale e dell’alto Mezzogiorno, e sicuramente più arcaici.

Il siciliano si configurerebbe quindi, stando all’opinione di Rohlfs, come «il dialetto meno meridionale del Mezzogiorno». Riassumendo un annoso dibattito, si può dire che i Normanni, per ripopolare e ricristianizzare le terre rimaste spopolate dopo la cacciata degli Arabi, favorirono l’immigrazione, tramite alcuni feudatari a essi imparentati, di coloni provenienti soprattutto dal Monferrato (che a quel tempo si considerava parte della Lombardia , più ampia della regione attuale), concedendo loro privilegi e

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assegnando terre situate non di rado nelle zone più elevate, verdi e salubri dell’isola (le più simili a quelle d’origine). In seguito a questa poco nota migrazione da nord a sud, si formarono sull’isola numerose nuove comunità, diverse dalle altre per lingua e cultura, e definite oggi, nel loro insieme, la Lombardia siciliana (➔ gallo-italica, comunità ). Ma un fatto altrettanto notevole è che esse sono il resto di una presenza un tempo – come dimostrano le ricerche storiche e linguistiche – molto più diffusa: e ciò spiega come mai il lessico siciliano sia stato profondamente permeato da voci di origine settentrionale, gallo-italica; l’apporto gallo-italico in Sicilia è stato anzi forse «ancor più cospicuo e multiforme di quanto lo stesso Rohlfs abbia indicato» (Ruffino 1984: 182).

Uno dei maggiori motivi di interesse della posizione linguistica della Calabria sta invece nel fatto che essa appare solcata da una serie di confini linguistici ( ➔ confine linguistico ), che distinguono i dialetti meridionali dal siciliano. Ricordiamo, da nord a sud:

(a) il limite del vocalismo ‘siciliano’, che compare a sud di una linea ( ➔ isoglossa ) che va all’incirca da Diamante, sul Tirreno, a Cassano, sullo Jonio;

(b) la presenza della vocale finale neutra indistinta /-ə/ ( ➔ scevà ), che in genere non va oltre la linea Cetraro-Bisignano-Melissa;

(c) le assimilazioni dei nessi consonantici -nd- e -mb- ([ ˈkwan ːu] «quando», [ ˈkjum ːu] «piombo»), sconosciute a sud della linea Amantea-Crotone;

(d) l’uso di tenere per «avere», non con il valore di ausiliare: [ ˈtɛne e ˈspal:e ˈlarge] «ha le spalle larghe», diffuso dal Lazio in giù, è ignoto già a Nicastro e a Catanzaro (dove si dice [ ˈndavi i ˈspad:i ˈlargi] e simili);

(e) il ➔passato remoto come tempo perfettivo ( ➔ aspetto ) quasi unico, ormai evidente a sud di Nicastro e Catanzaro;

(f) lo scarso impiego dell’ ➔infinito in diversi tipi di frasi (cfr. oltre), che comincia a sud della stessa linea;

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(g) i dittonghi metafonetici di / ɛ/ ed / ɔ/ ( ➔ dittongo ; ➔ metafonia ), ignoti a sud della linea Vibo Valentia-Stilo ([ ˈfɛrːu] ~ [ ˈfjer ːu], [ ˈbːɔnu] ~ [ ˈbːwonu]);

(h) l’uso del possessivo enclitico ( ➔ parole enclitiche ), nelle prime due persone, con molti nomi di parentela e affinità ([ ˈfi ɟː uma] «mio figlio», [ ˈfratita] «tuo fratello»), che raggiunge la piana di Rosarno e la Locride, ma non le coste dello stretto di Messina (dove si dice, alla siciliana, [m ɛ ˈfi ɟː u], [t ɔ ˈfrati]).

Uno dei dibattiti più vivaci della prima metà del Novecento ha riguardato la persistenza e i caratteri della grecità in Calabria. Secondo Rohlfs, la grecità antica, profondamente radicata, non sarebbe mai scomparsa del tutto, nemmeno durante i secoli della dominazione romana, e avrebbe poi costituito un fertile terreno per il greco bizantino di epoca medievale. Ancora nel XIV secolo risulta che l’area grecofona – oggi ormai prossima all’estinzione nei paesini aspromontani che ancora la testimoniano – includeva quasi tutta la Calabria meridionale. Una tale compatta distribuzione mal si accorda con l’ipotesi di un’importazione del greco esclusivamente in epoca bizantina.

A ogni modo, il fondo linguistico ellenico nella Calabria meridionale è oggi riconoscibile sia nella toponomastica e nella microtoponomastica che in molte parole legate alla campagna (piante, animali, insetti), per es.: [a ˈgr ɔmulu] «melo selvatico» < gr. agriòmelon , [lambu ˈrida] «lucciola» < gr. lampurìda (calabr. settentr. [kan ːiˈlu ʧida] e sim.), [ri ˈniska] «pecora giovane» < gr. arnìska (calabr. settentr. [peku ˈrɛlːa/), [ ˈmɛlːis ːa] «vespa» < gr. dèllitha (calabr. settentr. [ ˈvɛspa]) (cfr. Rohlfs 1972). La disputa sulla persistenza del greco ha coinvolto anche i dialetti del Salento, che, come quelli della Calabria meridionale e della provincia di Messina, mostrano un fondo lessicale e tratti sintattici di ascendenza ellenica; al centro della penisola salentina, inoltre, esiste ancora oggi la cosiddetta Grecìa (➔ greca, comunità ).

Fra i costrutti più sicuramente imputabili all’influsso e al diretto contatto con il greco va menzionata la scarsa popolarità dell’infinito, che, dopo verbi esprimenti volontà, intenzione, movimento, viene sostituito da /ku/ (< quod) nel Salento (Simone 2002), o /mu/, /mi/, /ma/ (< modo) in Calabria e nel Messinese, più il verbo al presente indicativo, coniugato in accordo con il soggetto della reggente (/ku/ e /mu/, insomma, hanno le stesse funzioni che ha in greco nà ): nel Salento [u ˈlia ku ˈsːat ːʃu]

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«volevo sapere» [lett. «volevo che so»], in Calabria [ ˈvɔɟː u mu ˈbːiu] «voglio bere» (gr. thèlo nà pìo ), [ ˈjiru mi ˈjɔkanu] «sono andati a giocare».

Nel Salento, poi (ma anche in alcuni punti limitrofi della Puglia centrale, e nell’estremità meridionale della Calabria), il ➔ periodo ipotetico dell’irrealtà, riferito al presente, è espresso con l’imperfetto indicativo ripetuto (lett. «se potevo, facevo», costrutto che l’italiano colloquiale riserva al periodo ipotetico dell’irrealtà riferito al passato, «se avessi potuto, avrei fatto»): [vi ˈvia ʧi n ʧˈɛ ra ˈakwa] «berrei, se ci fosse l’acqua».

Voci salentine del lessico quotidiano, di carattere conservativo, sono [ ˈkraj] «domani» ([ ˈkraj ə] o [ ˈkrej ə] in Puglia) < cras, [ ˈfitu] «trottola», [ ˈsɔkru] «suocero», [ ˈsp ɛkːja] «mucchio di sassi», [ ˈtrud ːu] «trullo, casa rurale con copertura in pietra a falsa cupola», [nat ːsi ˈkare] «cullare».

3. La presenza e l’uso del dialetto nei recenti rilevamenti statistici

Secondo le indagini dell’ISTAT relative agli usi linguistici fra il 2000 e il 2006, l’estremo Mezzogiorno è ancora largamente dialettofono, con percentuali ben superiori alla media nazionale. Considerando solo Calabria e Sicilia (i dati del Salento, infatti, non sono scorporabili da quelli della restante Puglia), in Calabria ben il 31,3 % dei parlanti dichiarava nel 2006 di usare in famiglia solo o quasi solo il dialetto, una percentuale non soltanto quasi doppia rispetto a quella generale italiana (16%), ma superiore anche a quella della Sicilia (25,5%) e di altre regioni meridionali (Puglia 17,3%, Campania 24,1%, Basilicata 29,8%), nonché assai più alta di quella di coloro che, nello stesso ambito familiare, si dichiaravano italofoni più o meno assoluti (il 20,4% in Calabria, il 26,2% in Sicilia, addirittura il 33% in Puglia). Analogo è il quadro offerto dagli usi linguistici con gli amici: in questo caso, la percentuale calabrese di dialettofonia più o meno esclusiva scende al 22,9% (identica a quella lucana, 23%), ma resta maggiore di quella siciliana (19,1%) e nazionale (13,2%).

Il limitarsi ai dati più recenti rischia però di mettere in ombra un altro dato importante, e cioè che, negli ultimi anni, la dialettofonia avrebbe subito anche qui un calo vistoso, e anzi maggiore che altrove: nel 2000, infatti, coloro che dicevano di parlare solo o quasi solo il dialetto in famiglia erano il 40,4% in Calabria (il 9,1% in più rispetto al 2006), e il 32,8% in Sicilia (il 7,3% in più); in soli sei anni, dunque, la

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diminuzione nell’uso del dialetto sarebbe stata largamente superiore alla media nazionale (passata dal 19,1% al 16%). Anche nel comportamento con amici il regresso del dialetto è notevole: dal 30,8% al 22,9% in Calabria, dal 26,6% al 19,1% in Sicilia, di fronte a un calo nazionale limitato a soli tre punti (dal 16 al 13,2%). La Sicilia, anzi (comunemente considerata un baluardo dell’uso del dialetto), vede ormai la percentuale degli italofoni più alta rispetto a quella dei dialettofoni esclusivi in ogni contesto d’uso.

Sembra plausibile interpretare queste cifre come la conseguenza di un atteggiamento antidialettale ancora piuttosto diffuso (motivato proprio da una dialettofonia tuttora rilevante) e in ogni caso più comune rispetto al resto del Paese e anche del Mezzogiorno, dove la scelta in favore della varietà locale non sembra più così alternativa rispetto all’italiano né troppo rigidamente connotata in senso sociale. Il dialetto, insomma, continuerebbe a essere, in questo estremo lembo d’Italia, vittima di forti pregiudizi linguistici, frequenti anche tra i più giovani (cfr. Ruffino 2006).

Va notato che le cifre relative all’uso «sia di italiano che di dialetto» sono salite tanto in famiglia (Calabria: dal 39,4% al 43,1%; Sicilia: dal 42,5% al 46,2%), che con amici (Calabria: dal 44,4% al 46,1%; Sicilia: dal 44,2% al 48,7%), mostrando una tendenza in linea col resto del Mezzogiorno e con altre regioni italiane. Inoltre, l’aumento è paragonabile, se non maggiore, a quello registrato per l’italofonia esclusiva. Anche dove il dialetto sembra godere di minor prestigio, quindi, «al decremento della dialettofonia non corrisponde […] un incremento dell’italofonia altrettanto marcato», perché c’è stato un contemporaneo, speculare aumento non dell’italofonia pura e semplice, ma soprattutto «dei casi di uso alternato […] e di parlato mistilingue italiano/dialetto» (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 30).

4. Tipi di italiano regionale

L’ ➔italiano regionale dell’estremo Mezzogiorno ( ➔ Palermo, italiano di ), anche quello delle persone colte, lascia spesso trasparire alcuni tratti fonetici e grammaticali tipici dei dialetti:

(a) l’assenza delle vocali chiuse /e/ ed /o/, sostituite con / ɛ/ ed / ɔ/ ([ ˈbːɛre] «bere», [ ˈsɔno] «sono»);

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(b) la pronuncia regolarmente intensa di /b/, /d/, /g/ e / ʤ/, in posizione iniziale e intervocalica ([ ˈbːib:ita], [ ˈdːata], [ ˈgːɔla], [ ˈdːʒɛ nte]);

(c) la presenza di suoni cacuminali o retroflessi, come la vibrante [ ɽ] ([la ˈɽː adjo]), sempre intensa, e che, in combinazione con [t], diventa quasi [ ʧ] ([il ˈʈɽɛ no] «il treno»);

(d) la preferenza per il passato remoto ( te lo dissi ieri mattina ), a cui può corrispondere, per reazione, il ricorso ‘indebito’ al passato prossimo ( l’ho visto tanto tempo fa );

(e) il congiuntivo imperfetto usato come esortativo ( mi spicciasse «si decida a servirmi»);

(f) la frequente collocazione del verbo alla fine della frase ( Francèsco sòno , il prèside parla ).

Tipica è anche, come a Napoli e in Puglia, la mancata apocope di [-e] negli ➔ appellativi professore e dottore se seguiti dal cognome ( sono il professore Rossi ).

In Sicilia e nella Calabria meridionale, ma in certi casi anche altrove, si notano poi, con varia frequenza: l’assordimento di [-nʤ-] in [-nʧ-] ([ ˈan ʧelo] «angelo»); l’uso del suffisso -ina , con funzione non diminutivale ( ammazzatina «omicidio», sarcitina «rammendo»); quanto con valore finale o consecutivo (dammi i soldi quanto mi compro il giornale ); il valore anche transitivo di alcuni verbi, come entrare , uscire , scendere (entravo la macchina nel garage , esca il documento «tiri fuori il documento»; cfr. Trovato 2002: 877-878).

Nel lessico, l’area presenta al suo interno casi notevoli di concordanza, che non di rado si estendono al resto del Mezzogiorno, come si può vedere nei tipi catenaccio «lucchetto», giardino «agrumeto», lacerto «girello [taglio di carne]», mappina «cencio, strofinaccio», melone , mellone «anguria», tuppo «crocchia», villa «giardino pubblico», cadere malato «ammalarsi», fare filone «marinare la scuola» (in Sicilia sono attestati anche i tipi fare Sicilia , buttarsela , caliarsela ), immischiare «contagiare una malattia», scotolare «scuotere la tovaglia» e altri (cfr. Mammana 1997: 139-153). Al livello di ➔ regionalismi semantici il siciliano traffico assume il significato di «operazioni complicate e fastidiose» ( per prenotarmi dovevo fare tanto di quel traffico …), mentre, fra i

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regionalismi «non imputabili, sia direttamente che indirettamente, alla presenza del dialetto» (Tropea 1976: 131) si segnalano inguardabile per «assai brutto» e semicantinato per «seminterrato». Per quanto riguarda, infine, i modi di dire, spiccano in Sicilia avere il carbone bagnato «avere la coda di paglia», e parlare quanto un giudice povero «parlare troppo» (cfr. Trovato 2002: 879).

5. Cenni sulle tradizioni scrittorie

Più facili da rappresentare per iscritto, quasi a dispetto delle apparenze, rispetto ai dialetti meridionali, soprattutto per ragioni fonetiche (ad es., per la mancanza di suoni vocalici neutri), le varietà meridionali estreme hanno visto anche stabilizzarsi abbastanza precocemente una tradizione scrittoria, in qualche caso giunta fino ai nostri giorni, o quasi (cfr. anche § 6). Le difficoltà maggiori, oggi come ieri, sono date dalla resa grafica delle consonanti cacuminali o retroflesse, in particolare [ ɖ], [ ɽ] e [ ʈ]. Per quanto riguarda la prima, ad es., è diffusa la semplice grafia dd , ma sono pure presenti, a livello amatoriale, le varianti ddh , come in cavateddhi «tipo di gnocchi incavati con il dito; cavatelli», in Calabria e nel Salento, cuddhureddi «dolcetti rotondi di farina zuccherata», nella bassa Calabria, o -ddr - (quest’ultima diffusa soprattutto in Sicilia e nel Salento, dove può corrispondere all’incirca alla pronuncia reale: ad es., a Corsano (Lecce) c’è il detto puru all’infernu , è meju cu vai a cavaddru ca all’ampede «anche all’inferno è meglio andare a cavallo che a piedi»).

In Sicilia, il dialetto scritto e letterario appare sostanzialmente omogeneo, senza cioè che vi trovino puntuale riscontro le tante differenziazioni areali (ad es. i dittonghi metafonetici o incondizionati), differentemente da quanto avviene in Calabria e nel Salento – dove è invece più facile riconoscere le particolarità delle zone di provenienza dei singoli autori. Questo è certamente collegato ai generi letterari per i quali il dialetto si è, come dire, specializzato: il fatto che il siciliano abbia un uso soprattutto lirico non è certo senza rapporto con la sua omogeneità. Ciò significa anche che il controllo, il potere di orientamento, del siciliano sui dialetti parlati, fuori delle grandi città, deve essere stato tutto sommato limitato, anche se i testi a stampa hanno dato l’impressione contraria (Vàrvaro 1984: 280).

6. Cenni sulla letteratura dialettale

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Dopo l’eccezionale ma breve periodo rappresentato dalla Scuola fridericiana, nota come ➔ Scuola poetica siciliana (sec. XIII), che di fatto non ha avuto eredi né sull’isola, né nella restante Italia meridionale, la letteratura in siciliano vive dapprima, nei secoli XIV-XV, l’epoca dei volgarizzamenti (dal latino) o delle traduzioni e ritraduzioni (soprattutto dal toscano), poi, a partire dal Cinquecento, quella di un ritorno alla poesia d’amore, sia pure in un contesto culturale ormai del tutto cambiato. È in questo periodo che si sviluppa una lingua poetica notevolmente intrisa di stilemi letterari, la quale verrà usata quasi senza innovazioni fino agli inizi dell’Ottocento. La prima, monumentale raccolta di poesie d’amore è rappresentata dalle Muse siciliane , pubblicate fra il 1645 e il 1653 da Pier Giuseppe Sanclemente, pseudonimo del palermitano Giuseppe Galeano (1606-1675).

Nel Settecento la figura di maggior spicco è certamente quella del palermitano Giovanni Meli (1740- 1815), membro dell’Arcadia e rara figura di intellettuale con un’ampia rete di contatti internazionali, per il quale il siciliano serve addirittura a stendere dotte dissertazioni filosofiche in versi. A lui si affiancano i concittadini Giovanni Alcozer (1756-1854) e Ignazio Scimonelli (1757-1831), anch’essi membri dell’Arcadia, e il catanese Domenico Tempio (1750-1821).

Nell’Ottocento la letteratura dialettale vive periodi interessanti soprattutto dopo l’Unità, nel solco dell’esperienza verista, grazie, per esempio, a Serafino Amabile Guastella (1819-1899), ricordato anche come studioso delle tradizioni popolari, al giovane ➔ Luigi Pirandello (1867-1936), che scrive novelle nel dialetto della natia Girgenti (Agrigento), e a Nino Martoglio (1870-1921), poeta, ma anche regista e sceneggiatore teatrale e cinematografico. Coetanei di Martoglio sono Francesco Guglielmino (1872- 1956), che tende a un raffinato dialetto regionale, e Alessio Di Giovanni (1872-1946), uno dei pochi a usare il dialetto anche nella prosa.

Tra i nomi degni di nota nella letteratura siciliana del Novecento possono essere ricordati quelli del ragusano Giovanni Antonio Di Giacomo, più conosciuto come Vann’Antò (1891-1960), il primo a tentare ibridazioni con l’italiano che poi avranno ancora più fortuna; di Ignazio Buttitta (1899-1997), poeta assai impegnato politicamente, nonché vincitore, nel 1972, del premio Viareggio; e di Santo Calì (1918-1972), che usa l’arcaico dialetto dei pastori di Linguaglossa (Catania) per ribellione alla freddezza e allo schematismo che contraddistinguerebbero la lingua nazionale. Il periodo più recente è punteggiato da scelte letterarie e linguistiche molto particolari, come quelle di Vincenzo Consolo

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(1933); un caso a sé è invece lo sperimentalismo linguistico di Andrea Camilleri (1925), che ha costituito il fenomeno editoriale forse più noto e discusso degli anni a cavallo tra i due secoli.

In Calabria, la letteratura dialettale inizia nel Seicento a opera di due originali autori entrambi di Aprigliano (Cosenza), Domenico Piro (1664-1696), che avvia un filone di poesia erotica e licenziosa in realtà assai poco popolare, e Carlo Cosentino (1671-1758), traduttore della Gerusalemme liberata . Bisognerà però attendere l’Ottocento, e in particolare il periodo postunitario, per ritrovare temi e figure di ampio respiro, come, ad es., Bruno Pelaggi (1837-1912), per il quale il dialetto nativo diventa lo strumento per esprimere la delusione dei meridionali di fronte alle promesse mancate del nuovo Stato unitario e l’aspirazione a un mondo più giusto; atteggiamenti simili mostra Antonio Martino (1818- 1884), mentre Vincenzo Ammirà (1821-1898) si segnala sia per composizioni a carattere licenzioso e anticlericale, sia per toni malinconici e rievocativi. Attento alla storia e all’antropologia della regione è invece Vincenzo Padula (1819-1893), singolare figura di sacerdote e intellettuale coinvolto in pieno nei moti antiborbonici, che con il poemetto Notte di Natale fornisce forse il miglior esempio di letteratura in calabrese dell’Ottocento. Nel Novecento, il mondo dell’emigrazione e quello della memoria e degli affetti saranno i protagonisti delle opere di Michele Pane (1876-1953), naturalizzato statunitense (sarà uno dei primi a dedicare attenzione alle interferenze della lingua degli emigrati in America, come in Lu calavrise ngrisatu «Il calabrese che parla in lingua inglese»), e di Vittorio Butera (1877-1955). Assai suggestiva è infine l’operazione linguistica condotta nei suoi romanzi di ambientazione calabrese da Giuseppe Occhiato, scomparso nel 2010.

Nel Salento, la stagione letteraria dialettale si apre ben prima che nel resto della Puglia, anche perché il dialetto era usato, nella comunicazione quotidiana, anche dai ceti più alti. Il primo esempio rilevante è offerto dal Viaggio de Leuche («viaggio a Leuca»), poemetto giocoso in ottave del sacerdote Geronimo Marciano (1632-1714), a cui fa seguito, qualche decennio più tardi, la farsa rusticana Nniccu Furcedda («Nico stampella», cioè «storpio»), composta verso il 1730 da Girolamo Bax sul modello di quelle napoletane coeve. Il leccese Francescantonio D’Amelio (1775-1861) è invece l’iniziatore della tradizione lirica dialettale, che proseguì nei decenni successivi con Francesco Marangi (1864-1939) e Giuseppe De Dominicis (1869-1905), cantore della vita e del folklore salentino. Vanno ricordati anche il poeta brindisino Agostino Chimienti (1832-1902), Giuseppe Susanna (1851-1929) e, tra le voci più

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recenti, Giuseppe De Donno (1920-2004), nei cui sonetti si ritrova un notevole impegno civile, assieme a una buona dose di sperimentazione linguistica.

Studi

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Vàrvaro, Alberto (1984), Siciliano antico , siciliano letterario , siciliano moderno , in Quattordio Moreschini 1984, pp. 267-280.

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toscani, dialetti di Silvia Calamai - Enciclopedia dell'Italiano (2011) toscani, dialetti

1. Lingua e dialetto in Toscana

Il saggio programmaticamente intitolato Dialettologia toscana (Giacomelli 1975) inaugura una serie di ricerche che applicano i metodi della dialettologia allo studio delle parlate in un territorio generalmente definito culla della lingua , privo dei livelli individuabili come dialetto e come lingua . In Toscana, infatti, come del resto in altre zone dell’Italia centrale, non è presente il tradizionale bilinguismo lingua-dialetto (➔ bilinguismo e diglossia ). Questa assenza produce nel parlato svariati effetti: uno spiccato polimorfismo (con un numero consistente di varianti fonetiche, morfologiche e lessicali); una separazione malcerta tra registri ( ➔ registro ) differenti; una diffusa caratterizzazione (a un qualche livello linguistico) attraverso elementi dialettali; una maggiore conservatività, specie lessicale e morfologica (Agostiniani & Giannelli 1990).

La minore distanza tra italiano e varietà locali porta a rifiutare, nella coscienza linguistica dei toscani, il concetto stesso di dialetto , e a preferire il termine vernacolo , che allude a un ‘parlar male’ in opposizione a un supposto ‘parlar bene’. Questa situazione rende impossibile osservare i fenomeni linguistici con le medesime griglie interpretative adottate per gli altri dialetti: non si può parlare di ‘apprendimento dell’italiano’ (il toscano è, per certi versi, italiano ), non di ‘abbandono del dialetto’ (il toscano è tipologicamente prossimo alla lingua), ma solo di «graduale decantazione degli elementi insidiati da usi standard» (Giannelli 1989: 278). La non rara coincidenza tra locale e letterario in opposizione a standard rende il quadro estremamente fluido e spesso molto soggettivo. Nel lessico, ad es., voci come gota , al tocco , desinare non coincidono con le espressioni corrispondenti dell’ ➔italiano standard (guancia , all’una , pranzare ), ma hanno alle spalle una tradizione letteraria, possono ancora comparire nei testi scritti per creare un tono più colloquiale e familiare, e tendono tuttavia ad essere evitate dai parlanti colti in contesti formali.

2. Le varietà dialettali

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La Toscana linguistica ha un’estensione minore rispetto alla Toscana amministrativa: non appartengono infatti ai dialetti toscani né le parlate della Romagna toscana né quelle della Lunigiana e dell’area carrarese (Maffei Bellucci 1977), aree che anche politicamente sono rimaste estranee alla Toscana fino alla seconda metà dell’Ottocento.

Le parlate della Lunigiana e della Romagna toscana sono assimilabili ai dialetti di tipo settentrionale. Proprio in Lunigiana passano i limiti meridionali di molti fenomeni peculiari dei dialetti gallo-italici, quali lo scempiamento delle consonanti geminate intervocaliche (per es., tu [s] a «tosse»); gli esiti cl- > [ ʧ] e gl- > [ ʤ] (per es., [ ʧ]ara «chiara», [ ʤ]ara «ghiaia»); le evoluzioni ŏ > [ø] e ū > [y] (per es., [ ˈfjøla] «figlia», [ ˈlyna] «luna»). La Romagna toscana è linguisticamente romagnola: gli stessi parlanti chiamano romagnù il proprio parlare in dialetto, che presenta una forma della parola (per es., [fok] «fuoco») e opposizioni fonologiche (per es., p[el] a «pala» ~ p[al] a «palla») di tipo decisamente non toscano. Lunigiana, aree apuane e Romagna toscana condividono la caduta di vocali finali o il loro passaggio a [ ə] ( ➔ scevà ). In questi territori è dunque presente una opposizione classica lingua ~ dialetto ben diversa da quella prefigurata per il toscano al § 1.

A sud il confine tra le parlate risulta di più incerta definizione, in considerazione di fattori linguistici (la forte vicinanza strutturale tra dialetti toscani e dialetti alto-laziali) ed extralinguistici, quali l’assenza di netti confini geografici, le vicende storiche relative allo Stato dei Presidi, il tipo di insediamento e i flussi migratori che hanno caratterizzato il territorio. In quest’area giungono tratti centro-meridionali che non compaiono in altre parti di Toscana (§ 3.2).

Tracciare confini tra parlate che nella maggioranza dei casi hanno un medesimo inventario fonologico e che si differenziano soltanto nella distribuzione di alcuni fonemi è un compito piuttosto arduo. Giannelli (2000) individua, soprattutto sulla base di fenomeni morfosintattici, dieci varietà toscane (fiorentino, senese, pisano-livornese, lucchese, elbano, aretino, amiatino, basso garfagnino-alto versiliese, alto garfagnino, massese) e otto parlate «grigie», perché caratterizzate da fenomeni misti (viareggino, pistoiese, casentinese, alto valdelsano, volterrano, grossetano-massetano, chianino, parlate del Sud-ovest grossetano). La suddivisione in parlate e zone di influenza è riportata nella fig. 1 .

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In merito al rapporto fra i diversi gradi di dialettalità individuabili nel continuum toscano, Giannelli (2000: 18) distingue tre livelli: il dialetto rustico, il dialetto corrente e un italiano locale. Il dialetto rustico riguarda i territori poco urbanizzati e i parlanti più anziani (tipicamente, i vecchi contadini) e rischia di diventare «una astrazione descrittiva» ( ibid. ) in considerazione dei cambiamenti sociali e demografici che attraversano la regione; il dialetto corrente concerne parlanti giovani e di media età negli insediamenti urbani.

L’italiano locale è anch’esso geograficamente differenziato. Su basi essenzialmente fonetiche è possibile distinguerne cinque tipi: uno che accomuna fiorentini, pratesi, senesi e grossetani, uno occidentale, uno lunigianese, uno aretino, uno riferibile alle aree più meridionali della regione. Ragioni storiche e linguistiche impediscono la diffusione di un modello regionale di riferimento e di un italiano regionale davvero unitario, che possa essere messo a confronto con quello di Milano, di Roma o di Napoli. Il tradizionale policentrismo della regione rende difficile che una sola città, pur importante, inglobi linguisticamente le altre. La parlata del capoluogo di regione ha un ‘tasso di dialettalità’ così elevato – sia a livello di produzione (per l’altissima frequenza di pochi elementi dialettali nel parlato corrente, ben noti e sanzionati) che a livello di percezione – da rendere quasi impossibile l’adesione a un modello fiorentino esplicito.

Si registrano comunque almeno tre caratteristiche fonetiche in espansione (§ 4): l’ ➔indebolimento consonantico; l’affricazione della sibilante postconsonantica (per es., pen [ʦ]o «penso»), tratto non fiorentino che arriva a toccare la pronuncia del capoluogo regionale; la ➔ sonorizzazione di [s] intervocalica (quest’ultimo fenomeno, però, collegato a una parallela evoluzione nell’italiano standard).

3. Profilo linguistico

3.1 I principali tratti delle parlate toscane

A partire da Graziadio Isaia ➔ Ascoli i dialettologi hanno solitamente affrontato l’inquadramento delle parlate toscane ‘per sottrazione’, poiché esse per certi versi sono un compromesso tra dialetti

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settentrionali e dialetti centro-meridionali. Anche per questo il cosiddetto toscano non è una realtà univoca, facilmente descrivibile nel suo insieme.

A livello fonetico, tra i pochi tratti comuni a quasi tutte le parlate dell’area rileviamo il passaggio [rj] > [j] (per es., area > aia , -ariu > -aio ); l’uscita in -o delle desinenze latine -ŭ e - ō (lat. lupu > lupo come quando > quando ); la dittongazione delle vocali brevi latine ĕ e ŏ in sillaba tonica aperta in [j ɛ] e [w ɔ] (ma cfr. § 3.2), a prescindere dal timbro della vocale finale (per es., pĕde > p[j ɛ]de , bŏnu > b[w ɔ]no ). L’assenza di ➔ metafonia , indicata da molti come caratteristica schiettamente toscana, non è peculiare dell’intera regione (ne permangono tracce nell’aretino e nel garfagnino: § 3.2); del resto, la dittongazione delle vocali toniche medio-basse in sillaba aperta è da taluni interpretata come tratto residuale metafonetico. Ancora pan-toscano nel parlato corrente è il fenomeno dell’apocope (Marotta 1995), ovvero la cancellazione della vocale atona finale in contesto postvocalico e preconsonantico (per es., [an ˈda ˈvia] «andai via»). Una caratteristica che accomuna buona parte dei dialetti toscani è il ➔ raddoppiamento sintattico , pur con cospicua differenziazione diatopica.

Nel complesso, le parlate toscane hanno un solido sistema vocalico ma mostrano una forte tendenza all’indebolimento consonantico. Soltanto nelle aree periferiche (nell’aretino e, per certi versi, anche nell’amiatino) il vocalismo atono risulta relativamente debole rispetto alle condizioni della Toscana centrale. Dal punto di vista fonotattico ( ➔ fonetica sintattica ), la struttura lessicale preferita è quella parossitona uscente in vocale: voci ossitone (verbi, avverbi e congiunzioni, non nomi) sono solitamente regolarizzate, soprattutto a livello rustico, con l’aggiunta di una ➔ vocale di appoggio (per es., [an ˈdɔe] «andò»).

Sono pressoché pan-toscani l’uso di punto «nessuno, per nulla» ( non ho letto punti libri , non sono punto contenta ) e il sistema tripartito per gli aggettivi dimostrativi: questo , codesto , quello (➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi ). Il carattere intermedio delle parlate toscane è confermato, nell’ ➔articolo determinativo maschile singolare, dall’alternanza il / lo regolata dalla struttura fonotattica della parola seguente ( il gatto , lo sciame ), in opposizione alle condizioni settentrionali (con un’unica forma uscente in laterale) e a quelle meridionali, con un’uscita generalizzata in lo (e varianti). Firenze è stata comunque, nei secoli, un

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centro irradiatore di fenomeni alto-italiani nella regione (l’apocope, il sistema dei pronomi clitici), rappresentandone per molti versi il limite meridionale estremo.

Un quadro della ricca variazione lessicale è ora offerto dall’ Atlante lessicale toscano (ALT-WEB), che prova la vitalità di voci (quasi) pan-toscane in opposizione alle corrispondenti ‘italiane’ (per es., sciocco ~ scarso di sale; acquaio ~ lavello); il progressivo declino di termini dialettali come compagno, sortire, giubba (rispetto a uguale, uscire, giacca); l’esistenza e la parziale vitalità di diversi tipi lessicali, subregionali e locali (spesso contrapposti al termine fiorentino e, contemporaneamente, italiano), per indicare un medesimo designatum (per es., toscano occidentale e orientale stollo «palo del pagliaio» ~ fiorentino stile ~ aretino-chianaiolo metule e barcile).

La casistica sarebbe estremamente ricca, con una diversificazione geografica anche di parole dell’italiano tout court: il dialettale citto di Siena e di Arezzo è a occidente l’italiano bimbo ed è a Firenze l’italiano bambino. Sulla divaricazione del lessico tra fiorentino e italiano offre ora un quadro, dalla parte del fiorentino, il Vocabolario del fiorentino contemporaneo, coordinato da Neri Binazzi.

3.2 I principali tratti delle varietà più importanti

Il dialetto fiorentino ha il maggior numero di parlanti e appare il più conservativo tra i dialetti toscani centrali. A livello fonetico il fenomeno più macroscopico riguarda il cosiddetto ➔ indebolimento consonantico (detto anche ➔ gorgia toscana ), ovvero la ➔ spirantizzazione delle consonanti occlusive (per es., ami[h]o «amico») e delle affricate palatoalveolari.

Altre caratteristiche fonetiche degne di nota sono le seguenti, soprattutto a un livello rustico: tracce sporadiche dei fonemi [c] e [ ɟ], continuatori dei nessi latini cl e gl (clave > [c] ave «chiave»; glănde > [ɟ]anda «ghianda»), estesi anche a li ̯ ([ ɟ]i «gli») e a forme quali [ ɟ]eci «dieci», mentre sono pressoché scomparse le coppie minime del tipo se [k ː]i (plur. di secco ) ~ se [c ː]i (plur. di secchio ); monottongamento di /w ɔ/ ( b[ɔ]no ); perdita dell’elemento labiale nel nesso /kw/ (per es., prendi [h] esto «prendi questo»); rotacismo della laterale preconsonantica (per es., a[r] to «alto»); caduta della fricativa labiodentale in posizione intervocalica (per es., [a ˈea] «aveva»).

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Nella morfologia nominale, i tratti salienti sono le forme dell’articolo determinativo maschile, singolare [i] «il» e plurale [e] «i»: [i ˈkːane] «il cane», [e ˈhani] «i cani»; il livellamento analogico in -e dei nomi e aggettivi femminili in -i (per es., le vite verde «le viti verdi»); il morfema icché , nelle interrogative dirette e indirette (rispettivamente, [i ˈkːe ˈδiʃe] «che dice?», [ ˈdim ː iˈkːe t ːu ˈvːɔi] «dimmi che cosa vuoi») e in sostituzione dell’ital. «ciò», «quello che» ([fai iˈkːe t ːu ˈvːɔi] «fai quello che vuoi»); la vitalità del suffisso desemantizzato -olo (rigagnolo , formicola ). Il carattere intermedio della parlata fiorentina è dimostrato anche dal sistema dei pronomi soggetto, con distinzione tra sistema tonico e sistema atono, con possibilità di cumulo a fini enfatici (per es., [ ˈvoi e v ːu p ːar ˈlate]), e con alcune vestigia dei pronomi tonici interrogativi postverbali (per es., [ke f ːa ˈtu] «che fai?»).

Nella morfologia verbale, sono da rilevare l’uso di ( noi ) si + terza persona singolare in luogo della prima persona plurale; nelle terze persone plurali, il livellamento analogico in -ano all’indicativo (mangiano , vedano , vendano , sentano ) e il livellamento analogico in -ino al congiuntivo (mangino , vedino , vendino , sentino ); nel fiorentino rustico, il passato remoto (tempo peraltro ancora molto vitale nella regione) in -onno (parlonno ), l’ ➔imperativo per l’infinito (per es., [va a ˈvːedi] «vai a vedere»).

Per alcuni fenomeni Firenze si oppone a buona parte della Toscana. Rispetto al fiorentino, molte varietà presentano una diversa distribuzione delle vocali medie anteriori e posteriori: s[ɛ]nza a Firenze, s[e] nza a Pisa; c[ɔ]ppia a Firenze, c[o] ppia a Siena, e così via. Poche parlate oltre al fiorentino conoscono il fenomeno dell’ ➔anafonesi : le forme fiorentine lingua e fungo si oppongono pertanto a forme come lengua e fongo , ancora vitali in aretino e in amiatino. I dialetti marginali (aretino-chianaiolo, garfagnino e versiliese, elbano) presentano, in luogo dei dittonghi ascendenti /w ɔ/ (poi monottongato a /ɔ/ nel toscano centrale) e /j ɛ/, i corrispondenti medio-alti /o/ e /je/. Nella morfologia, in senese, pisano-livornese, lucchese e garfagnino è molto diffuso l’articolo determinativo maschile plurale e femminile singolare e plurale [l ː] o [l] davanti a vocale (per es., chiudi [l ː]occhi «chiudi gli occhi»; prendi [l ː]ova «prendi le uova»). Nelle stesse parlate permangono a livello residuale gli articoli a iniziale prevocalica ill , ell (per es., [i ˈlːɔvo] «l’uovo», [e ˈlːaltro] «l’altro»).

Il sistema dei pronomi ➔ clitici , compiutamente attestato in fiorentino, si riduce progressivamente per numero, ruolo e frequenza mano a mano che ci si allontana da Firenze (e il lucchese ne è privo). Ad

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eccezione del fiorentino, l’infinito è generalmente tronco, anche in fine di enunciato, nella parlata lucchese, pisano-livornese, senese, amiatina.

Il dialetto senese appare la varietà toscana meno distante dalla lingua nazionale, per un processo di graduale perdita delle caratteristiche peculiari: rispetto al fiorentino, gli elementi chiaramente dialettali appaiono meno frequenti e meno vistosi (Giannelli 1998).

Quello che in passato era etichettato come dialetto toscano occidentale (comprendente pistoiese, lucchese, pisano) è ora suddiviso in due differenti varietà, il lucchese e il pisano-livornese. Il pisano ha seguito, insieme al livornese, un percorso per certi versi autonomo, mentre il lucchese ha mantenuto caratteristiche più conservative o anche, sporadicamente, settentrionali. Le caratteristiche fonetiche del pisano-livornese sono: l’abbassamento delle vocali medio-basse; la velarizzazione di /a/; vistose modulazioni della frequenza fondamentale ( ➔ fonetica acustica, nozioni e termini di ); lo scambio tra liquide e vibranti in posizione pre- e postconsonantica (pe [l] ché «perché», c[l] edere «credere», ca [r] do «caldo», conc [r] usione «conclusione»). Quest’ultimo fenomeno ha prodotto fraintendimenti e analisi contraddittorie: complicano il quadro cospicui fenomeni di ipercorrettismo, la presenza della cosiddetta lisca , ovvero una pronuncia laterale fricativa della sibilante preconsonantica (per es., i[ɬ]toria «storia») da mettere in parallelo con esiti corsi e sardi (Franceschini 2008), il sistematico sfruttamento di questi esiti nella letteratura dialettale (anche nel pisano Renato Fucini). L’instabilità della laterale è ancora osservabile negli esiti velari della laterale intensa (per es., b[æ ɫː ]o «bello») e nel passaggio gl > [l ː] ( fami [l ː]ia «famiglia»). Nella morfologia verbale, le uscite in /- ɔ/ alla terza persona singolare del futuro e del perfetto, così come nelle forme monosillabiche del presente ( so , sto ), si chiudono in [o] nel dialetto rustico, soprattutto nel pisano e nell’Alta Maremma.

La varietà lucchese conosce ora i fonemi [ ʦ] e [ ʣ], assenti fino a un recente passato; e ancora assenti peraltro nel pisano settentrionale (per es., pia [s ː]a «piazza»). Sul piano morfologico sono da segnalare, a livello rustico, i nomi uscenti in [-n] (per es., [kan] «cane»), che rendono ‘meno toscana’ la struttura della parola e la avvicinano alle varietà garfagnine, ove questo tratto è vitale; i pronomi tonici [lu], [luˈlːi] e [l ɛ], [le ˈlːi]; una persistenza delle uscite livellate in -eno o in -ino per le terze persone plurali del presente indicativo (pur essendo più frequenti le forme in -ano ); una limitata vitalità dei suffissi /-ajo/, /-ɔjo/, /-

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olo/, sostituiti, rispettivamente, da /-aro/ o /-aʎo/ (per es., [for ˈnaro], [for ˈna ʎo] «fornaio»), da /-oro/ (per es., [fran ˈtoro] «frantoio») e dall’atono /-oro/ (per es., [koˈni ʎoro] «coniglio»).

Molto caratterizzati appaiono i dialetti ai confini della Toscana linguistica. Le varietà della Garfagnana sono generalmente prive del fonema /z/ e presentano [ ʃ] e [ ʒ] in variazione libera (per es., di [ʃ]orno , di [ʒ]orno «di giorno»). Nella Bassa Garfagnana persistono tracce di metafonia ([mar ˈtɛlːo] ~ [mar ˈtel ːi]). Le parlate dell’Alta Garfagnana risentono di forti influssi settentrionali: i fenomeni fonetici più rilevanti concernono la sostituzione delle laterali lunghe con suoni cacuminali, caratteristici anche delle parlate lunigianesi ( pa [l] a «pala» ~ pa [ɖ]a «palla»), e la presenza di condizioni metafonetiche (per es., [ ˈdeu] «(io) davo» ~ [ ˈdi ː] «(tu) davi»). Garfagnini sono anche il tipo il Carlo (► nomi propri ) e l’articolo determinativo maschile il a prescindere dalla consonante seguente ( il zio ).

Il dialetto aretino (Nocentini 1989) è affine per certi versi al perugino e presenta alcuni tratti tipizzanti (peraltro in forte regresso) che rimandano da un lato a condizioni settentrionali (come l’innalzamento di [a] tonica in sillaba libera a [ ɛ] o [æ]: [ ˈsɛle] «sale»), dall’altro a condizioni mediane e meridionali ‘antitoscane’ (tracce di armonia regressiva delle vocali atone e indebolimento del sistema atono). Il sistema vocalico tonico in sillaba aperta tende complessivamente all’innalzamento (per cui non solo [a] → [ ɛ], ma anche bene → b[e] ne , b[ɔ]no → b[o] no ); e le affricate sono realizzate come fricative anche dopo pausa ([ ʃ]inema «cinema», [ ʒ]ente «gente»). Nella morfologia nominale sono da segnalare almeno la vitalità dei prefissi a- e ar - (per es., agguardare , armettere ) e i suffissi /-ɛo/ e /-elo/ in luogo di /-aio/ e /-olo/ (rispettivamente, [for ˈnɛo] «fornaio» e [ ˈʃ it ːelo] «bambino»).

Il dialetto amiatino presenta vistose caratteristiche centro-meridionali (Giannelli, Magnaini & Pacini 2002). Sul piano fonetico, sono da rilevare, soprattutto nella parlata rustica: il mantenimento dell’atona finale -u (il suffisso -aio è [aju]); la geminazione di [b-] in fonosintassi (per es., le [b ː]alle «le valli»); l’assenza di /z/ (per es., spo [s] a «sposa») e / ʣ/ (per es., [ ʦ]iro «ziro», senese per «orcio»); il trattamento ‘meridionale’ dei nessi -nd- e -mb- (per es., acce [n ː]evo «accendevo», ga [m ː]a «gamba»); la compresenza nei nessi -lc- di palatalizzazione, rotacismo e conservazione della laterale (rispettivamente, sa [it ː]u, sa [r] tu , sa [l] to «salto»); l’alternanza, per l’affricata palatale sonora, di esiti perugini ( la [ʤ]ente ), esiti toscani spiranti ( la [ʒ]ente ), esiti romani ( la [d ːʒ]ente ).

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4. Vitalità attuale e tendenze nell’uso del dialetto

Nel toscano si registrano dinamiche contrapposte: da un lato la graduale perdita di caratteristiche locali o comunque non pan-toscane (per es., te [r] a «terra», f[ɛ]me «fame»), dall’altro la diffusione di caratteristiche ugualmente non pan-toscane, come l’indebolimento consonantico. A vari livelli, non solo nella fonetica, esistono elementi-bandiera dotati di una limitata forza espansiva che provano l’esistenza, anche nei parlanti giovani, di una spiccata fedeltà linguistica a certi aspetti del ➔ sostrato dialettale (anche minimi: si pensi alla vitalità dell’interiezione dé in livornese, o di alò in aretino).

In alcune aree le fratture tra generazioni sono anche fratture diatopiche, con i giovani che adottano tratti linguistici il cui marchio d’origine non coincide con quello presente nelle generazioni adulte e soprattutto anziane. La spirantizzazione ‘fiorentina’ è penetrata in Casentino, nelle parlate chianine, nell’aretino, nell’occidente e nel meridione della Toscana, aree tradizionalmente caratterizzate da un tipo di indebolimento ‘non toscano’ (sonorizzazione e lenizione intervocalica): in varie parti della regione gli anziani presentano forme sonorizzate e lenite laddove i giovani hanno forme spiranti (➔ spirantizzazione ). Un’espansione più limitata, ma sempre sociolinguisticamente rilevante, concerne alcuni fenomeni fonetici nell’area occidentale soprattutto costiera, da Pisa fino a Piombino e oltre: mentre le generazioni anziane sono caratterizzate dall’uso di tratti occidentali e nord-occidentali anche arcaici, le generazioni medie e giovani assumono tratti attribuibili soprattutto alla varietà livornese (Calamai 2004). Il prestigio, più o meno coperto, del livornese è documentato anche dalla fortuna e dalla diffusione del mensile satirico «Livornocronaca - Il Vernacoliere», redatto in «vernacolo livornese e in italiano».

Nella morfologia, un altro fenomeno di origine fiorentina è la sostituzione della prima persona plurale con la forma impersonale (ad eccezione di siamo ): forme come [si ˈkanta] erodono progressivamente gli spazi di voci verbali quali cantiamo (occidentale), cantamo (aretino), cantamu (amiatino).

5. Letteratura dialettale e tradizioni scrittorie

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L’allargamento del divario tra toscano e italiano ha consentito lo sviluppo di una letteratura dialettale che sfrutta sistematicamente l’iterazione dei non molti elementi inammissibili in italiano e che solo in alcuni casi ha prodotto esiti espressivi rilevanti.

In territorio pisano si registrano una copiosa produzione poetica, che ha ancora in Renato Fucini (1843- 1921) il naturale punto di riferimento, e una parallela riflessione sull’utilizzo del dialetto nella pagina scritta ad opera degli stessi estimatori del vernaolo pisano. Un universo che mostra una vitalità ininterrotta è il teatro vernacolo fiorentino: Ferdinando Paolieri e Augusto Novelli hanno avuto una certa notorietà anche fuori dalla regione. Un caso a parte è rappresentato da Ugo Chiti (nato nel 1943 a Tavarnelle Val di Pesa), che offre una rappresentazione antiveristica del Chianti fiorentino, in un linguaggio autentico perché creato in sintonia con una compagnia attoriale (l’Arca Azzurra Teatro) linguisticamente fedele all’autore.

Una forte esperienza di recupero della memoria collettiva, non solo linguistica, è il Teatro Povero di Monticchiello, in cui ogni estate il paese mette in scena sé stesso, autorappresentandosi. Al confine tra letteratura e tradizioni popolari si situano la produzione del Maggio drammatico, e la poesia in ottava rima, sia sotto forma di componimento tradizionale, sia nelle vesti di contrasto improvvisato fra due poeti (detti bernescanti ) che duellano su temi proposti dal pubblico.

Nelle varie grafie tradizionali risulta relativamente agevole la rappresentazione di quei suoni che già esistono nell’inventario fonologico dell’italiano, come ad es. il rotacismo della laterale preconsonantica, reso graficamente con ‹r› ( carza «calza»), o gli esiti aretini di a, resi con ‹e›, talvolta con ‹ê› (pece o pêce «pace»). Si registra nel complesso un’alta frequenza dell’ ➔apostrofo , utilizzato per (tentare di) segnalare i fenomeni di giuntura e con funzione disambiguante (per es., un articolo ~ ’un «non», e congiunzione ~ e’ pronome). Dal momento che, a livello popolare, il toscano appare, soprattutto nella sua facies centrale, un italiano storpiato e parlato male, l’apostrofo è il segno che meglio si confà a rappresentare questa storpiatura (Nesi 1979-1980).

Per il fiorentino sono diverse le proposte per trascrivere il sistema degli articoli e delle preposizioni articolate: iccane , i’ ’cane e i’ cane (la più fortunata) «il cane»; ai ssole , a i’ sole , aissole «al sole». L’occlusiva palatale [ ɟ] è resa con ‹ggh› (per es., figghio «figlio»). I fenomeni relativi alla gorgia possono essere indicati

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con l’apostrofo (che segnala anche i casi di dileguo) o con ‹h›, grafema che talvolta indica la resa velare della dentale ( andaho «andato»), in passato trascritta anche col digramma ‹ch› ( andacho ).

Studi

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ALT-WEB = Atlante lessicale toscano in rete (http://serverdbt.ilc.cnr.it/altweb/).

Calamai, Silvia (2004), Il vocalismo tonico pisano e livornese. Aspetti storici , percettivi , acustici , Alessandria, Edizioni dell’Orso.

Cortelazzo, Manlio [poi] Zamboni, Alberto (a cura di) (1974-2003), Profilo dei dialetti italiani , Pisa, Pacini, 23 voll.

Franceschini, Fabrizio (2008), Livorno , la Venezia e la letteratura dialettale , Ghezzano, Felici, 2007-2008, 2 voll., vol. 1º ( Incontri e scontri di lingue e culture ).

Giacomelli, Gabriella (1975), Dialettologia toscana , «Archivio glottologico italiano» 60, pp. 179-191.

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Giannelli, Luciano (1989), Toscana: nuovi “continua” e prospettive di ricerca, in La dialettologia italiana oggi. Studi offerti a Manlio Cortelazzo, a cura di G. Holtus, M. Metzeltin & M. Pfister, Tübingen, Narr, pp. 277-285.

Giannelli, Luciano (1998), La dimensione dialettale del territorio della provincia di Siena, in Terre di Siena, Siena, Protagon Editori Toscani, pp. 359-394.

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Giannelli, Luciano (2000), Toscana, in Cortellazzo [poi] Zamboni 1974-2003, vol. 9°.

Giannelli, Luciano, Magnaini, Marina & Pacini, Beatrice (2002), Le dinamiche linguistiche al confine tra Toscana e Lazio: conservazione, innovazione e ristrutturazione, «Rivista italiana di dialettologia» 26, pp. 49-72.

Maffei Bellucci, Patrizia (1977), Lunigiana, in Cortelazzo [poi] Zamboni vol. 9º/1.

Marotta, Giovanna (1995), Apocope nel parlato di Toscana, «Studi italiani di linguistica teorica e applicata» 24, pp. 297-322.

Nesi, Annalisa (1979-1980), Toscana, in La grafia dei dialetti, a cura di G. Sanga, «Rivista italiana di dialettologia» 4, pp. 271-276.

Nocentini, Alberto (1989), Profilo del dialetto aretino, in Il vocabolario aretino di Francesco Redi, a cura di A. Nocentini, Firenze, Elite, pp. 13-68.

fig. 1

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umbro-marchigiani, dialetti di Francesco Avolio - Enciclopedia dell'Italiano (2011) umbro-marchigiani, dialetti

1. Il territorio

L’area umbro-marchigiana, anche a causa della sua conformazione geografica, è stata interessata da vicende storiche piuttosto complesse, sebbene la geografia non le abbia assegnato confini naturali rigidamente determinati, rendendola anzi – grazie alla direttrice adriatica e a un asse di primaria importanza come il bacino del Tevere e le valli dei suoi affluenti – uno «spazio aperto» (Mattesini 1992: 507-508), nonché uno degli snodi principali sia nei collegamenti nord-sud, sia in quelli fra i due versanti della Penisola. Come ci appare oggi, l’Umbria è infatti abbastanza diversa dall’omonima regione antica (che a nord giungeva fino all’Adriatico, ma, verso ovest, si arrestava al Tevere), corrispondendo grosso modo alle «conquiste di Perugia fra il XIII e il XIV secolo» (Baldelli 1953-54, rist. 1983 2: 209).

Per parte loro, le Marche, così chiamate perché territori di confine dell’Impero (il termine Marca compare nel X sec.), nell’antichità erano divise in due (Celti a nord del fiume Esino, Piceni, di stirpe italica, a sud), con una bipartizione simile a quella che allora si poteva osservare anche nella vicina Umbria (abitata dagli Etruschi, stanziati a ovest del corso del Tevere, e dagli Umbri, di stirpe italica come i Piceni, a est), e che doveva essere in parte riassorbita, ma non completamente cancellata dalle vicende successive: nell’alto medioevo, ad es., vi era a nord la Pentapoli marittima di ambito bizantino, alla quale aderivano le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, mentre a sud si trovava il potente gastaldato longobardo di Fermo, che si estendeva fino a una parte dell’attuale Abruzzo.

2. Le varietà dialettali dell’area

2.1 Suddivisioni principali

Sul piano delle tradizioni linguistiche, le due regioni hanno in comune il fatto di avere un’articolazione sostanzialmente bipartita tra un’area meridionale (e orientale) più conservativa – e dalle caratteristiche 189

molto simili tanto sul versante umbro quanto su quello marchigiano – e una settentrionale (e occidentale) più aperta a influssi di diversa provenienza (per lo più toscana e/o settentrionale, romagnola) (cfr. Vignuzzi 1988: 606-607; Vignuzzi 1997: 311-312).

L’area conservativa umbro-marchigiana (come del resto quella del Lazio orientale, che ne rappresenta una continuazione verso sud) è da tempo chiamata, secondo la proposta di Bruno Migliorini, ➔ Italia mediana perché geograficamente si trova ancora al centro della Penisola, ma linguisticamente è ormai distante dalle altre parlate centrali, toscane o toscanizzate (e più affine a quelle del Mezzogiorno). Tale bipartizione di fondo può poi essere ulteriormente articolata (§§ 2.2 e 2.3), ma anticipiamo fin d’ora che, in Umbria, queste due aree «si fronteggiano dalle opposte sponde del Tevere e, oggi, del Chiascio, il più importante dei suoi affluenti in sinistra idrografica» (Mattesini 2002: 487), mentre, nelle Marche, il confine più chiaramente individuabile è quello «che passa lungo l’Esino» (Balducci 2002: 452, nota 6). In entrambi i casi, dunque, i limiti antichi sono riflessi dalle odierne articolazioni linguistiche.

Una delle maggiori differenze tra Umbria e Marche sta invece nel fatto che mentre la prima mostra, all’interno delle varie zone, una «fisionomia tutto sommato uniforme» (Mattesini 2002: 487; Devoto & Giacomelli 1972: 80), cioè sostanzialmente priva di articolazioni interne o di influssi esterni evidenti (questi ultimi, anzi, appaiono oggi in regresso), le seconde appaiono invece percorse, o meglio compresse, da spinte contrastanti, fra le quali quelle di maggior rilievo sono la settentrionale (gallo- italica, di tipo romagnolo, o gallo-picena ) a nord, nel Pesarese e nel Montefeltro, che giunge fino a Senigallia e al suo entroterra, e quella meridionale adriatica a sud, nell’Ascolano compreso tra i fiumi Aso e Tronto. L’incontro fra le diverse correnti linguistico-culturali dà poi luogo, non di rado, tanto a nord quanto a sud (con l’eccezione del Maceratese) a zone miste la cui classificazione si mostra particolarmente ardua (§ 2.3). Ne consegue che da un lato le Marche si rivelano un vero e proprio ponte fra il Settentrione e il Mezzogiorno («l’Italia in una regione», come recita un efficace slogan di promozione turistica), dall’altro l’intera zona appenninica centrale offre sensibili – e forse inattese – differenziazioni non solo verticali (da nord a sud), ma anche, al tempo stesso, orizzontali (da ovest a est). Se infatti prendiamo, ad es., le città di Orvieto, Spoleto e Ascoli Piceno, scopriamo che, pur trovandosi all’incirca sullo stesso parallelo, esse appartengono a tre aree linguistiche diverse (rispettivamente centrale, mediana, meridionale), che siamo soliti considerare in un’altra successione.

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2.2 L’articolazione linguistica dell’Umbria

La prima, chiara proposta di classificazione dialettale della regione fu avanzata nel 1970 da Francesco A. Ugolini, e fu poi approfondita dallo stesso studioso e dalla sua scuola (cfr. Ugolini 1970; Agostiniani 1990). Essa distingue tre zone principali.

(a) La zona perugina o umbra nord-occidentale, che include, oltre a Perugia, centri come Città di Castello, Umbertide e Gubbio. Essa è ancora ricollegata, quasi senza soluzione di continuità, all’area toscana aretina e chianaiola – ma in parte, come quest’ultima, ‘inquinata’ da influssi gallo-italici (cfr. Devoto & Giacomelli 1972: 82) – e compresa fra il paese di San Giustino e il confine toscano a nord, il lago Trasimeno a ovest, il corso del fiume Chiascio a est e quello del Tevere a est e a sud (il limite meridionale è anzi da porre nel territorio comunale di Collazzone che, come la vicina Todi, rientra già nella zona successiva). I suoi tratti tipici sono:

(i) la palatalizzazione, cioè il passaggio a / ɛ/ di /a/ tonica in sillaba libera (terminante per vocale), che coinvolge anche lo sviluppo del latino -ariu(m), il quale, come in Toscana, passa in origine a [-ajo] ([kam ˈpɛna] «campana», [ ˈsɛle] «sale», /ma ʧeˈlːɛjo/ «macellaio»); è uno dei fatti di matrice romagnola di cui si diceva, oggi peraltro in regresso in parecchie località;

(ii) il dittongamento di tipo fiorentino (e italiano) di / ɛ/ originaria in sillaba libera, che passa a /j ɛ/ ([ ˈpj ɛde ˈvj ɛni], ma ['s ɛnti]); più raro, invece, il dittongamento parallelo / ɔ/ > /w ɔ/;

(iii) la debolezza delle vocali non accentate, che tendono spesso a cadere, più vistosamente proprio nell’area intorno a Perugia (è il cosiddetto ritmo martellato del perugino: [ ˈpru ʒa] «Perugia»);

(iv) l’indebolirsi, prima dell’accento, delle consonanti doppie ([kapu ˈtːʃino] «cappuccino», [mu ˈlika] «mollica»);

(v) la conseguente mancanza del ➔ raddoppiamento sintattico ([a ˈkasa] «a casa»);

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(vi) il passaggio, fra vocali, delle consonanti /p, k, t/ rispettivamente a /b, d, g/ ([ ˈabise] «lapis», [po ˈdes ːe] «potesse»);

(vii) alcuni interessanti resti di neutri plurali latini, divenuti maschili anziché femminili come in italiano ([i ˈdeta] «le dita», [i ˈtɛmpa] «i tempi»);

(viii) la serie di preposizioni e avverbi derivati da intus o fusi con esso ([nto] «dove», [tu ˈli] «lì», [tu ˈkwi] «qui», [ta] «a», ecc.).

(b) La zona sud-orientale, folignate-spoletina-ternana, linguisticamente di tipo mediano, che si prolunga fino a includere tutta la Valnerina (dove, anzi, le sue caratteristiche raggiungono le punte di maggior evidenza), e che, come si è detto, trova il suo limite nord-occidentale nel corso del Chiascio e del Tevere. Tra i fenomeni principali, del tutto ignoti al tipo perugino appena visto, ricordiamo (gli esempi, quando non specificato diversamente, vengono dalla zona di Foligno):

(i) la ➔ metafonia , vale a dire l’innalzamento di timbro delle vocali accentate /-e-/ e /-o-/, (che diventano rispettivamente /-i-/ e /-u-/) e /-ɛ-/, /-ɔ-/ (che diventano /-e-/, /-o-/), per influsso delle vocali finali -i ed -u latine originarie (ad es., [b ːan ˈgit ːu] «banchetto», [ ˈmun ːu] «mondo», a Norcia [ˈfjuri] «fiori», ma [ ˈfjore] «mattone»; [ ˈpedi] «piedi», ma [ ˈpɛde] «piede», [ ˈbːonu, ˈbːoni] «buono, -i», ma [ˈbːɔna, ˈbːɔne] «buona, -e», ecc.); a Norcia, però, nelle stesse condizioni, /-ɛ-/, e /-ɔ-/ dittongano (dittonganento metafonetico o metafonia ‘napoletana ’: [ ˈtj ɛmpi] «tempi», [ ˈbːwɔnu] «buono»), mentre Amelia e Narni conoscono il fenomeno solo per -i ([ ˈnero], ma [ ˈniri] «neri»);

(ii) il mantenimento, alla finale, della distinzione latina tra -o ed -u (ad es., a Trevi [ ˈɔ tːo] «otto», ma [ˈkorpu] «corpo»; a Foligno [di ˈʃɛ nːo] «dicendo», ma [ka ˈpil ːu] «capello»; a Terni [ ˈsat ːʃo] «so», ma [por ˈkit ːu] «maialino», ecc.);

(iii) lo sviluppo di un articolo determinativo maschile /lu/ (< illum), che in molte località, si oppone, sempre in virtù della distinzione tra -o e -u, a un articolo neutro /lo/ (dal latino volgare *illod), associato in primo luogo a sostantivi che non ammettono una forma plurale, e che spesso erano neutri già in latino: [lu ˈmun ːu] «il mondo» (lat. mundus), ma [lo ˈfer ːu] «il ferro», cioè il metallo (lat. ferrum);

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(iv) il ➔ betacismo , cioè la continuazione di v- e b- latine ora come /v-/ (in posizione iniziale o intervocalica) ora come /(-b)b-/ (dopo consonante o raddoppiamento sintattico): [ ˈvok ːa] «bocca», ma [ʃbok ːaˈlone] «chi parla a voce alta»;

(v) le assimilazioni ( ➔ assimilazione ) consonantiche progressive dei nessi originari latini -nd-, -mb-, -ld- (addirittura ai dintorni di Perugia arrivano o arrivavano pronunce come [pro ˈfon ːo] per «profondo», [ˈgam ːo] per «gambo», [ ˈkal ːo] per «caldo»);

(vi) lo sviluppo di -rj- a /r/ ([for ˈnaru] «fornaio», [ma ʃeˈlːaru] «macellaio»), che di nuovo ha interessato la zona perugina;

(vii) gli sviluppi di j-, dj- e g + e, i, che danno tutti /j/ oppure /g ːj/ ([joe ˈnɔtːa] «giovanetta», [jo] «giù» < deorsum, [ ˈfrig ːje] «friggere»);

(viii) lo sviluppo del nesso l + consonante a /r/: [kur ˈtel ːu] «coltello», [ ˈfar ʤa] «falce»;

(ix) la cosiddetta lenizione postnasale , cioè il passaggio dei suoni /-k-, -t-, -p-/ quasi a /-g-, -b-, -d-/ dopo /-n-/: [ ˈbːangu] «banco», [ ˈmonde] «monte», ecc.;

(x) l’uso del possessivo enclitico, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela (tipico del Centro-Sud, e nel medioevo noto anche alla Toscana): a Norcia si ha [ ˈfìjːimu] «mio figlio», [ ˈfratetu] «tuo fratello». Arcaismi latini sono custoditi nel lessico, come mostrano, fra le altre, le voci [fe ˈmːina] «donna», [fu ˈra] «rubare», [karo ˈsa] «tosare», [ji] «andare», variamente diffuse nell’area, ecc.

(c) La zona sud-occidentale, formata da dieci comuni intorno a Orvieto e molto più affine a quella perugina (alla quale può essere senz’altro aggregata quando si parla di sostanziale bipartizione linguistica dell’Umbria), quindi centrale e non mediana, ma dove è comunque evidente la prossimità alla Toscana meridionale e alla Tuscia viterbese, della quale, peraltro, il territorio orvietano fece parte fino ai primi dell’Ottocento. Essa «si caratterizza, più che per peculiarità proprie, per la mancanza di alcuni tratti pertinenti alle due aree» principali (Mattesini 2002: 488). Possiamo comunque notare, rispetto alla zona nord-occidentale:

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(i) l’assenza della palatalizzazione di /a/ tonica;

(ii) il mancato indebolimento delle vocali non accentate;

(iii) il passaggio di /-i/ a /-e/ nei plurali maschili ([le b ːaf ːe] «i baffi») noto a Perugia (e anche nelle Marche centrali e nel Viterbese), ma non nella restante area umbra nord-occidentale;

(iv) la mancanza delle preposizioni e degli avverbi rafforzati da intus, mentre sono presenti le forme rafforzate da /me/ (< medio): [me ˈli] «lì», [me ˈlːa] «là», [me ˈsta] «costà», ecc.

Gli studi più recenti hanno poi consentito di individuare, accanto alle tre zone principali, due aree di confine o meglio di transizione:

(a) l’area Scheggia-Todi, che taglia longitudinalmente la regione da nord-est a sud-ovest, includendo centri importanti come Gualdo Tadino e Assisi, e si configura, nel suo complesso, come un’anticipazione della zona sud-orientale di tipo mediano (cfr. Moretti 1987: 134-141);

(b) l’area Trasimeno-pievese, che funge invece da snodo fra la Toscana orientale, la zona perugina e quella orvietana (cfr. Batinti 1988).

L’Umbria non si mostra unitaria nemmeno dal punto di vista lessicale: ecco così i netti contrasti tra parole toscane e/o settentrionali e voci che sono invece proprie del Centro-Sud, come quelli tra fabbro (nord-ovest della regione) e ferraro (sud- est), donna e femmina , andare e gire o ire , ascoltare e sentire , accendere e appicciare .

2.3 La suddivisione dialettale delle Marche

L’obiettiva complessità della situazione linguistica regionale ha spinto per molto tempo gli studiosi ad adottare vari sistemi di classificazione. La classificazione che sembra più adeguata è però quella in quattro aree, spesso a loro volta articolate in varie subaree, riproposta di recente da Sanzio Balducci (Balducci 2002: 453-458).

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(a) Area pesarese, suddivisa in quattro subaree (marecchiese, pesarese, urbinate-fanese-senigalliese, con l’appendice staccata della riviera del Conero, a sud di Ancona, e pergolese-cantianese), che si estende sull’intera sezione settentrionale della regione. Le sue caratteristiche principali, che nelle varie subaree possono avere maggiore o minore intensità, sono sostanzialmente quelle della varietà gallo-italiche di tipo romagnolo (da qui il loro nome di gallo-picene ) e cioè:

(i) la palatalizzazione, vale a dire il passaggio a / ɛ/ della /a/ accentata in sillaba che termina per vocale ([k ɛr] «caro», [ ˈpɛder] «padre», [ari ˈvɛta] «arrivata»), che sfuma tra Fano e Senigallia;

(ii) la caduta delle vocali non accentate, eccezion fatta per /-a/, sia finali ([prim] «primo», [sal, s ɛl] «sale», [t ɛmp] «tempi», ma [gar ˈbɛta] «garbata») sia prima e dopo l’accento (/sti ˈmana/ «settimana» perfino ad Ancona, [dm ɛn] «domani», [p ɔvr] «povero» nel Montefeltro, ecc.), che a Pergola ha però luogo solo all’interno di frase ([un mat ːs de ˈrɔse] «un mazzo di rose»;

(iii) il passaggio dei suoni /-k-, -t-, -p- /, tra vocali, rispettivamente a /-g-, -d-, -v-/ (detto sonorizzazione o lenizione ): [ ˈdiga] «dica», [a ˈvud] «avuto», [ka ˈvei] «capelli»;

(iv) l’eliminazione delle consonanti doppie o intense ([ ʃele ˈrɛt] «scellerati», [ ˈvaka] «vacca»);

(v) i pronomi personali soggetto del tipo /m ɛ, t ɛ/ «io», «tu» nella subarea pesarese, e, in tutta l’area, la reduplicazione dell’intera serie pronominale con forme prive di accento (a Pesaro [m ɛ a ˈparle] «io parlo», [ ˈtɛ t ˈsi] «tu sei», altrove [ ˈia a ˈparle] «io parlo» [lu l ˈbala] «lui balla», [ ˈlori i ˈbala] «loro ballano», ecc.).

(b) Area centrale anconetana, che comprende anch’essa quattro subaree (anconetana, osimana-loretana, jesina, fabrianese), ma assai differenziate tra loro, le cui caratteristiche comuni sono quindi relativamente poche, e cioè:

(i) il mantenimento delle vocali atone finali, con presenza di /-o/ finale ([ ˈsale], [ ˈvino]);

(ii) la conservazione delle consonanti doppie ([ˈmam ːa, ˈspal ːa]);

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(iii) la particolare pronuncia spirante di /-ʧ-/ e /-ʤ-/ (a Jesi [ ˈpe ʃe] «pece», come nel fr. fiches , [ ˈpa ʒina], come nel fr. page ), che si infiltra nel territorio mediano;

(iv) pronomi personali analoghi a quelli della lingua italiana (con la preferenza per noialtri e voialtri al plurale).

Compaiono poi in quest’area fenomeni centro-meridionali di notevole importanza, come

(v) la metafonia, di tipo sabino e napoletano (i tipi [ ˈpedi] «piedi» o [ ˈkworpo] «corpo»);

(vi) le assimilazioni progressive di -nd- (la più vitale), -mb- e -ld- (a Castelfidardo, Ancona, [fa ˈtːʃɛ nːa ˈfat ːa ke ˈdːiu la bene ˈdiga] «faccenda fatta che Dio la benedica»), anche se il dialetto di Ancona e Falconara se ne mostra ancora immune, mentre, d’altro canto, conosce, come le aree più a nord, la riduzione delle consonanti doppie e il passaggio /k/ > /g/ tra vocali ([im ˈbrjago] «ubriaco»; a Jesi anche /t/ passa a /d/: [vo ˈlede] «volete», [sen ˈtido] «sentito») e, fatto comune alla subarea osimana- loretana, la chiusura di /o/ in /u/ fuori d’accento ([kuti ˈgi] «cotechino»).

(c) Area centrale maceratese-fermana (cfr. Franceschi 1979), la più ampia e compatta, che mostra una chiara fenomenologia di tipo mediano, comune alla zona umbra sud-orientale (cfr. § 2.2). Essa si estende dal corso dell’Esino (provincia di Ancona, ma le condizioni mediane valicano il fiume verso nord a Mergo e a Serra San Quirico) fino a quello dell’Aso (provincia di Ascoli Piceno), e include, oltre a Macerata e a Fermo, anche Camerino, Tolentino, Visso, Amandola. I centri di Recanati, Porto Recanati e Civitanova Marche hanno subito recentemente un sensibile influsso dalle zone poste più a nord, e vanno quindi perdendo alcuni dei tratti mediani più vistosi.

(d) Area ascolana, corrispondente alla fascia costiera della provincia di Ascoli Piceno fra i corsi dell’Aso e del Tronto (estremo sud della regione), capoluogo incluso, con diramazioni più o meno ampie verso l’interno (cfr. Balducci 1993; Franceschi 1993). Qui le condizioni sono quelle del versante adriatico del Mezzogiorno, fra le quali si segnalano:

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(i) forti sviluppi delle vocali toniche, a volte con abbassamenti di un grado (a San Benedetto del Tronto [p əˈ lːet ːʃə ] «pelliccia», [ ˈfom ə] «fumo», [ ˈrɛtə] «rete», [ ˈbːav ə] «bove», a Campofilone [ ˈmal ə] ← [ˈmɛlə] «mela»), ma anche con frangimenti e dittonghi ( ➔ dittongo ); ne sono una minima esemplificazione le forme [ ˈnejv ə] per «neve» di Monteprandone, [ ˈdaj ʧə ] per «dice» di San Benedetto;

(ii) la metafonia di tipo napoletano, cioè dittongante ([ ˈpjen ʦə ] «pensi», [ ˈmwort ə] «morto»), con successiva monottongazione nella fascia costiera sambenedettese ([ ˈtimp ə] «tempo», [ ˈfuk ə] «fuoco»);

(iii) il passaggio delle vocali non accentate, e soprattutto finali, al suono / ə/ (con la parziale eccezione di /-a/ nei centri collinari e ad Ascoli), denominato dai linguisti ➔ scevà e simile alla cosiddetta e muta francese (ad Ascoli [pr əməˈ rus ə] «premurosi», [s əˈ mar ə] «somaro», [p əvəˈ ret ːa] «poveretta»). I fenomeni del consonantismo e della morfologia sono spesso analoghi a quelli dei dialetti mediani (resti di betacismo, lenizione postnasale, assimilazioni progressive, possessivo enclitico, ecc.); fra gli altri, diffusi anche nell’Abruzzo teramano, si segnalano:

(iv) gli esiti di l + consonante, che portano a un’assimilazione (ad Ascoli [lu fa ˈdːʒɔ ] «il falcione»; si parte da una pronuncia falgiòne );

(v) la posposizione al verbo, senza accento (ènclisi), dei pronomi e dei locativi (ad Ascoli [ ˈsot ːʃ ˈmis ːə] «ci ho messo»);

(vi) tenere per avere ([ ˈtɛng ə tre ˈfːij ːə] «ho tre figli»);

(vii) l’uso di essere alla prima e spesso alla seconda persona dei verbi transitivi ([so ˈvist ə] «ho visto»).

In questa situazione, i tratti comuni alla gran parte delle parlate marchigiane sono, come si immaginerà, davvero pochi (§ 4.2). Possiamo comunque ricordare l’uso del verbo alla terza persona singolare anche per la terza plurale (è il tipo loro va via , diffusissimo anche nell’italiano regionale, da Pesaro ad Ascoli) e la frequenza di /ar-/ < re-, determinatosi per ragioni fonetiche simili nelle varie zone ([arkur ˈda] «ricordare», [arpi ˈja] «riprendere» tanto nel nord e ad Ancona, quanto nell’Ascolano), gli infiniti tronchi e a volte terminanti in /-a/ ([ ˈkora] «correre», [ ˈveda] «vedere»).

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Il lessico dà tipi interessanti, come, nel Pesarese, [karna ˈʧɛ r] «macellaio» (oggi in regresso), ad Ancona [impali ˈki] «appisolarsi», nel Maceratese [ ˈstrofu] «cencio», [ ˈma ʃulu] «mansueto», [zmu ʃiˈna] «rimestare, scompigliare» (conosciuto anche a Roma), ad Ascoli [ ˈfurja] «molto». Maggior diffusione hanno i tipi lessicali ferraro (a cui, nel nord, si oppone fabbro ), ràgano «ramarro», mentre remoti arcaismi sono lama «dirupo» e néngue «nevica» (lat. nĭnguit), questi ultimi comuni anche all’Umbria e all’Abruzzo contigui.

3. La presenza del dialetto nei recenti rilevamenti statistici

La buona tenuta del dialetto, messa in luce da parecchie recenti ricerche dedicate non solo a centri medi e piccoli, ma agli stessi comuni della cintura perugina, è stata confermata dai rilevamenti svolti dall’Istat. Nel 2006, infatti, l’Umbria e le Marche erano le sole regioni dell’Italia centrale dove si registrava «un uso del dialetto in famiglia superiore alla media nazionale (rispettivamente 56,1% nelle Marche e 52,6% in Umbria)» (media nazionale 48,5%). Ma c’è di più: se infatti, fra il 2000 e il 2006, è scesa quasi ovunque la percentuale di coloro che, in famiglia, si dichiaravano totalmente o quasi dialettofoni (dal 19,1 al 16%, dato nazionale), mentre ha sostanzialmente ‘tenuto’ quella di coloro che usano sia italiano che dialetto (dal 32,9 al 32,5%), in Umbria, nello stesso periodo, entrambe le percentuali sono salite (rispettivamente dal 13 al 14,9% e dal 34,9 al 37,7%); nelle Marche è invece scesa la percentuale dei dialettofoni più o meno esclusivi (dal 18,1 al 13,9%), ma quella dei ‘bilingui’ si è mantenuta inalterata (42,2%).

Simili i dati riguardanti l’uso del dialetto con amici: anche qui l’Umbria è in significativa controtendenza, sia per quanto riguarda la dialettofonia esclusiva (11,9% nel 2000, 13,6% nel 2006), sia per quanto riguarda l’alternanza di codice (34,2 contro 39,6%), mentre le Marche appaiono complessivamente stazionarie (dal 16 al 13% e dal 41,7 al 41,8%). Pur con tutte le riserve per un metodo d’indagine che resta pressoché esclusivamente basato sui giudizi che gli intervistati danno di sé stessi (autovalutazione), si tratta di segnali abbastanza precisi, se non di un recupero (in vari sensi) del dialetto, quanto meno di una sua maggiore stabilità all’interno del repertorio ( ➔repertorio linguistico ).

4. Italiani regionali umbri e marchigiani

4.1 La situazione in Umbria

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Data la presenza di più zone dialettali, per giunta fortemente differenziate, è facile intuire che non esiste un ➔ italiano regionale unitario e che anche le varianti subregionali non siano particolarmente affini: si deve avvertire però che, mentre è osservabile di nuovo un’opposizione fra una varietà sud-orientale e una perugina, da quest’ultima può ora essere distinta, per un certo numero di tratti, una varietà definibile altotiberina (Città di Castello è il principale centro dove essa è in uso). In linea generale, fuori dalle loro zone, e anche restando all’interno della regione, i perugini vengono di frequente scambiati per toscani, gli altotiberini per romagnoli e i parlanti della zona sud-orientale per romani.

Sintetizzando molto (per maggiori dettagli si rinvia a Mattesini 2002: 493-495), le caratteristiche più evidenti di ogni varietà sono:

(a) varietà perugina: la labilità delle vocali atone e finali (come nel dialetto: [ ʤim a pont əfel ˈʧ ino] «andiamo a Poltefelcino»); il passaggio di /-ʎː -/ a /-jː-/ ([ ˈfij ːo] «figlio»), la pronuncia spesso sonora di /s/ tra vocali ([ ˈnazo], [ ˈvizo]), il ➔ raddoppiamento sintattico , il passaggio di /s/ a / ʦ/ dopo /l, n, r/ ([ ˈpɛnʦo] «penso», [ ˈbor ʦa] «borsa»), l’articolo determinativo con i nomi propri femminili (diffuso anche nelle Marche settentrionali); nel lessico, da notare i tipi babbo , calzetti «calzini», essere (è qui , «c’è»), frégo «bambino», sàntolo «padrino», trasporto «funerale»;

(b) varietà altotiberina: un lieve intacco palatale di /a/ in sillaba libera, la diversa distribuzione di /e, o/ accentate, il cui grado di apertura è in funzione della struttura sillabica (aperta in sillaba chiusa e chiusa in sillaba aperta: [ ˈtɛtːo, ˈpɔlːo] ma [ ˈbene, ˈkosa]), che si ritrova nell’italiano delle Marche del nord, il conseguente abbassamento di /i/ e /u/ in sillaba chiusa ([ ˈvesto] «visto», [ ˈfrot ːo] «frutto», ma [ ˈvino, ˈduro]), la riduzione delle consonanti lunghe prima dell’accento ([da ˈvero/, /ma ˈtina]), la perdurante assenza del raddoppiamento sintattico, la distinzione tra /s/ e /z/ (come nel dialetto), la conservazione dei nessi /-ls-, -ns-, -rs-/ ([ ˈpɛnso] «penso», [ ˈborsa] «borsa»), la tendenza di /s/ ad essere pronunciata /ʃ/ (la cosiddetta s salatadei romagnoli);

(c) varietà sud-orientale: mancanza del dittongo /wo/, almeno nei livelli più bassi ([la ˈsk ɔla], [ ʧe ˈvɔle] «ci vuole»), la stabilità delle vocali fuori d’accento, il passaggio di / ʧ/ a / ʃ/ ([ ˈlu ʃe] «luce»), la pronuncia intensa di /b/ e / ʤ/ tra vocali ([ ˈab ːile] «abile», [ ˈvid ːʒile] «vigile»), il raddoppiamento sintattico ([a ˈrːoma]), la tendenza di /p, t, k/ ad essere pronunciate rilassate sia tra vocali, sia dopo /n/ (e anche dopo /l/, come nel dialetto: [le ba ˈdade] «le patate», [il

199

ˈmonde] «il monte», [an ˈgora] «ancora», ecc.). Ai tipi lessicali perugini prima citati fanno riscontro papà, pedalini «calzini», stare (sta qua, ci sta), pischello «bambino», compare, accompagno «funerale».

4.2 Il quadro delle Marche

Anche per quanto riguarda il versante italiano del repertorio, le Marche mostrano una varietà linguistica paragonabile, in qualche modo, a quella dialettale.

Nel nord, fra i molti altri, si segnalano i seguenti tratti:

(a) la diversa distribuzione delle vocali aperte e chiuse, come nella variante umbra altotiberina ([ ˈbene, ˈera, ˈsedja], ma [ˈrɔtːo, ˈstr ɛtːo]);

(b) la pronuncia aperta di /e/ finale accentata: [mɛ, tr ɛ, per ˈkɛ], fino circa a Fano;

(c) la riduzione delle doppie, fino ad Ancona ([ ˈtr ɔpo] «troppo»).

Nel centro, da Jesi in giù, molti i fenomeni in comune con l’Umbria sud-orientale (§ 4.1), ma si notano anche i seguenti tratti:

(a) la ➔ spirantizzazione di / ʧ/, / ʤ/ e /b/ ([ ˈpa ʒina] «pagina», [staj ˈvɛ] «stai bene»), tranne che nell’Ascolano;

(b) l’espansione di /te/ come pronome personale soggetto (solo te ce vai? «ci vai solo tu?»);

(c) la posposizione del possessivo (il cane mio, la scuola vostra);

(d) espressioni avverbiali o verbali come da per lui «da solo», ne vene da Macerata «viene da Macerata», quanti o quandi n’adè? o ne è? «quanti sono?».

5. Cenni sulle tradizioni scrittorie dell’area

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In età moderna e contemporanea i dialetti vengono di solito trascritti seguendo le principali convenzioni grafiche della lingua (con un uso largo e spesso improprio di accenti e apostrofi). In questo quadro, le maggiori difficoltà riguardano – tanto in Umbria, quanto, soprattutto, nelle Marche settentrionali di tipo gallopiceno – la trascrizione delle consonanti che si trovano in posizione finale a causa della caduta delle vocali, e del cumulo consonantico che, per gli stessi motivi, si è formato all’interno della parola: le soluzioni oscillano tra ‹c›, ‹g›, ‹c’› e ‹g’› per /-ʧ, -ʤ/, ‹sc’› o ‹sc› per /-ʃː / e ‹ch›, ‹gh› per /-k, -g/ (pec’ «pece», fugg’ «fugge», pesc’ o pesc «pesce», foch «fuoco», bugh «buco», ecc.). Solo nella zona senigalliese (che ha lo stesso problema del Pesarese) si è andata affermando l’abitudine di inserire un trattino orizzontale al posto di ogni vocale che è o sarebbe caduta (disp-razion- «disperazione», ing-gnacc- «ingegnaccio», pesc- «pesce»), risolvendo così il problema anche all’interno della parola.

Nelle zone mediane delle due regioni, ma anche in quelle più a nord, non sempre viene evidenziata con appositi accenti la chiusura metafonetica di / ɛ/ e / ɔ/ (tempu, focu per [ ˈtembu] e [ ˈfoku]); solo di rado è trascritta la lenizione fra vocali o quella postnasale, o la palatalizzazione di certi suoni (come la /s/ prima di altre consonanti, che a volte tende a diventare /ʃ/), o ancora si fa caso alla differenza tra / ʃ/ e / ʃː / (casciu «cacio», pesce «pesce»). La consonante / ʒ/ viene spesso resa, nell’Anconetano, con sg: pasgina «pagina», nfradisgià «infradiciare». Nell’Ascolano, le difficoltà maggiori, sono, com’è evidente, nella grafia di scevà, che a volte viene segnata con una e sbarrata, altre ancora con un apostrofo o con una e (vin’, vine). Quest’ultima è la soluzione oggi più diffusa (come nell’Abruzzo contiguo e in diversi punti dell’Italia meridionale).

6. Cenni sulla letteratura dialettale

Nella fase della letteratura dialettale ‘riflessa’, l’Umbria, e in particolare la zona perugina, vive – a partire dal Seicento, e, a più riprese, fino al secolo scorso – la tradizione delle Bartocciate, componimenti giocosi che prendono il nome dalla maschera di Bartoccio (< Bartolomeoccio), stilizzazione del contadino benestante del pian del Tevere la cui parlata sapidamente rustica veniva spesso caratterizzata in modo enfatico a scopi comico-parodistici, ma che, per lo meno nel caso di Francesco Stangolini (metà del XVII secolo), riscuote invece – come il personaggio stesso – la simpatia dell’autore.

Tra i molti altri nomi, meritano un sia pur brevissimo cenno almeno il conte Mario Podiani, che, nel 1530, con l’intenzione di restituire al volgare perugino l’antico prestigio, scrisse la commedia I megliacci; Giovan Battista Lalli (1572-1637), autore di sei ottave in «lingua norcina rustica»; Virgilio Verucci, inventore (nel Pantalone

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innamorato,1663) della maschera perugina di Guazzetto, a cui fa da contraltare, a Spoleto, il personaggio di Biasciangelo, creato da Bernardo Luparino.

Nel XIX e XX secolo si registra il nascere e lo svilupparsi di una notevole tradizione poetica dialettale a Città di Castello con Giovan Battista Rigucci (1801-1847) e Angelo Falchi (1880-1925), mentre nel resto della regione troviamo Matteo Innamorati (1809-1853), della zona folignate, Giuseppe Lazzari di Terni e Giuseppe Cardarelli (1848-1914) da Orvieto. Tra le voci più recenti, da citare i poeti perugini Luigi Monti (1875-1935) e Mariano Guardabassi (1896-1952), Antonio Minciotti (1921-1983), di Città di Castello, nonché Renato Brogelli, autore di apprezzate commedie in dialetto ternano.

Nelle Marche è notevole, e anche qui duratura, la tradizione delle Intervenute, commedie in cui, dalla fine del Cinquecento in poi, si sviluppava in vario modo, anche sul piano linguistico, il contrasto comico tra città e campagna; la regione, anzi, si rivela forse inaspettatamente, a quest’altezza cronologica, «l’unica area dell’Italia centrale […] a proporre testi integralmente scritti e recitati in dialetto» (cfr. Breschi 1992: 489). A titolo puramente indicativo, ricordiamo poi il conte Lattanzio Lattanzi, autore, nel 1723, di un Maggio rusticano nel dialetto di Fossombrone (Pesaro); Germano Sassaroli, da Filottrano (Ancona), che tra il 1850 e il 1870 scrisse rime dialettali di contenuto sociale e anarchico; Odoardo Giansanti detto Pasqualon (1852-1932), forse il poeta dialettale più famoso e importante della regione; Giulio Grimaldi (1873-1910), fanese autore, oltre che di una notevole serie di poesie, del noto racconto Pescatori dell’Adriatico; Palermo Giangiacomi (1877-1939), anconetano, a cui si deve la fortunatissima commedia L’imbriago. Ottima, ancor oggi, la raccolta antologica La poesia dialettale marchigiana pubblicata nel 1934 da Giovanni Crocioni. Fra coloro che hanno avuto maggiore fortuna critica, anche internazionale, negli ultimi tempi, citiamo infine l’anconetano Franco Scataglini (1930-1994) e il fanese Gabriele Ghiandoni (n. 1934).

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veneti, dialetti di Flavia Ursini - Enciclopedia dell'Italiano (2011) veneti, dialetti

1. Il territorio

La regione Veneto, con una superficie di 18.380 km 2, quasi cinque milioni di abitanti e sette province (il capoluogo Venezia, Belluno, Treviso, Verona, Vicenza, Padova, Rovigo), costituisce la parte più consistente del Nord-Est italiano. La popolazione non è distribuita in modo omogeneo: la media pianura ha la maggiore densità, meno popolati la bassa veronese e il Polesine, e ancor meno le Prealpi e la montagna bellunese. I centri urbani sono tutti di medie e piccole dimensioni e solo i capoluoghi (eccetto Belluno) superano i 100.000 abitanti. Si tratta di uno spazio al quale è stata riconosciuta, fin dall’antichità preistorica, una specifica caratterizzazione dal punto di vista linguistico ed etnografico.

Nonostante sia difficile tracciare confini entro l’area neolatina, le varietà linguistiche venete hanno una loro individualità: nel panorama dialettale dell’Italia settentrionale i dialetti veneti si distinguono nettamente dai dialetti gallo-italici (piemontese, ligure, lombardo). L’attuale situazione di autonomia e differenziazione interna dipende da un lungo itinerario storico, le cui vicende sono solo in parte ricostruibili con sicurezza. Dal IX-VIII secolo a.C. nella regione del basso Adige e tra Brenta e Piave si insedia il popolo destinato a denominare la regione, i Veneti, che danno vita a una cultura originale, riconoscibile nei tipi di sepolture, nella suppellettile funeraria e in altre particolarità dei reperti, ma soprattutto nella lingua, chiamata dagli studiosi venetico . Il venetico, pur travolto dall’ondata livellatrice del latino, sopravvive in alcuni nomi di luogo: oltre a Este e Padova, anche Vicenza, Asolo, Oderzo, Sile, Treviso. Le migrazioni successive dei Galli e dei Celti insidiano e restringono lo spazio paleoveneto primitivo, senza tuttavia snaturarlo.

Nella suddivisione dell’impero voluta da Augusto, la X Regio Venetia et Histria comprende un territorio ampio ed eterogeneo: tuttavia proprio allora comincia la definizione geografica del territorio. Anche la profonda frattura politica e amministrativa dei primi secoli dell’età medievale tra la fascia costiera, le isole e l’Istria, soggette al dominio bizantino, e il Veneto d’entroterra, occupato dai Longobardi, pare non determini conseguenze vistose nella lingua. Nemmeno le complesse vicende storico-politiche dei 205

secoli successivi sconvolgono gli equilibri interni: basti ricordare che i mandamenti del Regno d’Italia si basavano sulle precedenti divisioni austriache e francesi, le quali spesso rispecchiavano i confini delle podesterie e dei distretti feudali esistenti all’epoca della Repubblica di Venezia.

I confini della regione linguistica non coincidono con quelli dell’attuale regione amministrativa. Nella sezione superiore della provincia di Belluno compare il ladino dolomitico ( ➔ ladina, comunità ), che sfuma nel ladino-veneto dell’Agordino e dello Zoldano; i dialetti del basso Polesine risentono di influssi emiliani; lungo la sponda veronese del lago di Garda si incontrano tratti lombardeggianti. Nella regione sono ancora riconoscibili, per quanto molto ridotte in termini quantitativi, minoranze germanofone, insediatesi probabilmente tra il XII e il XIII secolo: i cosiddetti Cimbri dei Tredici comuni della Lessinia (Verona) e dei Sette comuni dell’altopiano di Asiago (Vicenza), nei quali si parlava un dialetto di origine bavaro-tirolese, e la località di Sappada (Belluno), fondata da gruppi di origine carinziana (➔tedesca, comunità ).

D’altro canto il tipo veneto si estende oltre i confini regionali, in alcune parti del Trentino orientale (Primiero, dialettalmente feltrino, e Valsugana, vicentina) e meridionale (con influssi di tipo veronese); anche il Trentino centrale, che originariamente conosceva una varietà affine al lombardo, risulta oggi profondamente venetizzato. L’espansione più vasta è quella di base veneziana, che ha seguito l’egemonia della Repubblica Serenissima, nell’area alto-adriatica (fasce lagunari di Marano, Grado e Monfalcone), nei centri urbani del Friuli (Pordenone e Udine), nel territorio della Bassa friulana, nel goriziano e a Trieste. Fino all’ultimo dopoguerra, varietà venete erano parlate in Istria e lungo il litorale dalmata. Tracce della penetrazione di questo veneziano «coloniale» o «de là da mar» ( ➔Mediterraneo e lingua italiana ; ➔lingua franca, italiano come ) giungono fino in Grecia. Infine non va dimenticato il veneto (non veneziano) parlato da milioni di persone emigrate tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento in altre regioni italiane industrialmente più avanzate, in varie nazioni europee, in America, soprattutto centro-meridionale, e in Australia ( ➔emigrazione, italiano dell’ ).

2. Tratti linguistici principali

Una serie di tratti caratterizza l’area dialettale veneta rispetto a quelle vicine e all’italiano (per il veneto in generale e le sue varietà, cfr. Zamboni 1974; Marcato & Ursini 1998; Marcato 2002).

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2.1 Fonetica

Le vocali sono le stesse del toscano, con la possibilità per le vocali intermedie /e/ e /o/ di essere pronunciate, in sillaba accentata, chiuse ([ ˈmeze] «mese», [ˈsoto] «sotto») o aperte ([ ˈmɛze] «mezze», [ˈsɔto] «zoppo») dando luogo a opposizione distintiva. Non compaiono le vocali anteriori arrotondate /y/ e /ø/, presenti nei dialetti gallo-italici. La struttura della parola è meglio conservata rispetto ad altre varietà settentrionali: non c’è infatti la riduzione di vocali o sillabe non accentate ( ➔indebolimento ) che portano, per es., il latino telarium «telaio» a [tlɛr] o [tl ɛ].

Il trattamento delle vocali finali varia con curiosa regolarità muovendo dalla pianura al mare o verso nord. Nei dialetti centrali cadono solo la /e/ e la /o/ dopo /n/ ([paŋ] «pane», [boŋ] «buono»; ma non in [aŋˈkuzene] «incudine» e [ ˈpano] «panno») e la /e/ resta quando è segno del plurale femminile. Il veneziano aggiunge la caduta di /e/ dopo /l/ ([ka ˈnal] «canale»; ma [ ˈkae] «calle») e dopo /r/ negli infiniti dei verbi e in nomi come [mar] «mare». Via via che ci si sposta verso nord le vocali finali dileguano in modo sempre più vistoso fino al feltrino e bellunese, in cui si sente [fok] «fuoco», [brut] «brutto», [nof] «nuovo», [faŋ] «fame», [dis] «dice», [saŋt] «santo», [falθ] «falce», e persino [kaŋ] «cane» e «cani», che nasconde la differenza tra singolare e plurale. Nell’inventario delle consonanti mancano la /ʃ/ di liscio , la / ʎ/ di aglio e (a parte alcune località periferiche, come Vittorio Veneto o Trieste) le ➔affricate dentali / ʦ/ e / ʣ/, anche se questi suoni, o meglio la loro interpretazione veneta, compaiono nelle parole italiane che si introducono sempre più frequentemente nel parlato quotidiano. L’affinità con il resto dell’Italia settentrionale è assicurata dalla lenizione ( ➔ indebolimento ) delle consonanti originariamente sorde, collocate tra vocali, che vengono sonorizzate (e a volte cancellate): [ka ˈdena] «catena», [ ˈfɔgo] «fuoco», [sa ˈvere] «sapere», [spo ˈzada], [spo ˈzaa] e [spo ˈza] «sposata». Principalmente, se non esclusivamente, settentrionale è l’indebolimento delle consonanti lunghe (o scempiamento delle doppie): [ ˈboka] «bocca». La / ʧ/ di cento e la / ʤ/ di gente del toscano corrispondono alla /s/ e alla /z/ di [ ˈseŋto], [ ˈzeŋte]. In posizione finale di parola o di sillaba /n/ e /m/ sono realizzate come [ŋ]: [pa ˈroŋ] «padrone», [ ˈkaŋpo] «campo», [kaŋˈtar] «cantare».

2.2 Morfologia

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Il capitolo dei pronomi personali è interessante per alcune particolarità che rendono i dialetti veneti più simili agli altri dialetti settentrionali (e, per alcuni aspetti, al francese) che all’italiano. Il fatto più rilevante è l’uso, in alcuni casi obbligatorio, di una serie di pronomi soggetto atoni, detti proclitici (➔ clitici ) perché si appoggiano alla parola che segue.

Nella prima persona singolare e plurale si sente ancora, anche se sempre più raramente, la forma [a], che i grammatici faticano a spiegare, attestata con regolarità nel padovano antico fino all’Ottocento. Per la seconda persona singolare il pronome atono diffuso in tutto l’entroterra veneto è [te] ([te ˈpɔrti] «porti», in contrapposizione al modello veneziano cittadino [ti]; ➔Venezia, italiano di). Nella terza persona sono attestati: [el] per il maschile singolare; [la] o [ ea] per il femminile singolare; [i] per il maschile plurale; [le] o [e] per il femminile plurale. Le forme toniche [mi] e [ti] funzionano sia come soggetto sia come complemento: [mi ˈvado] «io vado», [vj ɛn ko mi] «vieni con me», [ti te v ɛ] «tu vai», [ ˈvɛɲ o ko ti] «vengo con te». La forma del pronome riflessivo usata per la prima persona plurale dei verbi pronominali ([se peŋˈtimo] «ci pentiamo») è, a differenza dell’italiano, la stessa che si ritrova nella terza persona singolare e plurale ([el se ˈlava] «lui si lava», [i se ˈlava] «loro si lavano») e con valore di passivo ([se sa ˈmena so ˈturko] «si semina granturco»). Per quanto riguarda il verbo, le desinenze della terza persona singolare coincidono con quelle della terza persona plurale (la possibilità di distinguere è affidata ai pronomi atoni) e il ➔passato prossimo ha sostituito il ➔passato remoto .

2.3 Lessico

Una complessa stratificazione determina settori di convergenza con il resto del settentrione e settori di specificità. Vi sono nomi di origine celtica (sbaro «cespuglio», carànto «terreno roccioso», braghe «pantaloni», tamìso «setaccio»), germanica (tacón «toppa», broàr[e] «scottare», sbregàr[e] «stracciare»), greca (góndola, angùria, pantegàna «ratto d’acqua», pirón «forchetta»). Due parole-bandiera del Veneto sono ascrivibili alla fase della dominazione asburgica (1797-1866): schèi «denaro» (dalla prima parte di Scheidemünze «moneta spicciola», letta come era scritta nei centesimi austriaci) e spriz «vino con acqua minerale», che compie un lungo percorso, fino a entrare nel lessico italiano contemporaneo.

3. Principali varietà dialettali

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3.1 Veneziano

Tipicamente veneziana è la realizzazione di /l/ tra vocali, detta evanescente (dorso-palatale rilassata). Il suono che più le si avvicina è una breve [e] o una [j]: si avverte meglio tra due /o/ ([ ˈkɔeo «collo»), due

/a/ ([ ˈska ea] «scala»), oppure /o/+/a/ ([ ˈsp ɔea] «spola», [ ˈza eo] «giallo»); non si sente affatto quando la vocale che segue è una /e/ ([ ˈpɛe] «pelle») o una /i/ ([o ˈiva] «oliva») (cfr. Lepschy 1962). Da Venezia irradia una forma che non manca mai nello stereotipo linguistico: si tratta di [ze], la terza persona del presente indicativo di «essere», uguale al singolare e al plurale e di discussa origine, che per una tradizione ortografica consolidata, difficile da scalfire, si scrive xe. Attualmente compare nell’uso cittadino, di Venezia e delle aree che ne hanno subito l’influsso, e alterna con [ ɛ] nel veronese, nel feltrino-bellunese, nel trevigiano di provincia e in larga parte del Polesine. L’imperfetto [ ˈʤɛ ro] «ero», [te ˈʤ eri] «eri», ecc., similmente caratterizza il veneziano ([ ˈjɛro], [te ˈjeri]), tendenzialmente il padovano, con punti di sovrapposizione e talora con pronunce intermedie. Considerazioni analoghe si possono fare per le forme di «avere» con [g] iniziale [mi g ɔ], [ti ga], nate dall’incorporazione nel verbo della particella [ge] «ci»: sono diffuse nei dialetti di pianura, contro [mi ɔ], [tu a], ecc., nel Nord della regione. Da Venezia sembra sia partita anche l’espansione di un particolare tipo di participio passato: forme come [mo ˈvesto] «mosso», [to ˈlesto] «tolto», [pjo ˈvesto] «piovuto», rare nei testi veneziani antichi e sempre più frequenti nei secoli successivi, si riducono progressivamente a Venezia e si concentrano in aree periferiche, diventando in alcuni luoghi un indicatore di marginalità. Ancora una differenza originariamente geografica, oggi letta in chiave sociale, sussiste tra i suffissi [ ɛr] e [ ˈaro], corrispondenti al toscano [ ˈajo] in nomi di mestiere, di luogo e di piante: [skar ˈpɛr] ~ [skar ˈparo] «calzolaio» e [fi ˈgɛr] ~ [fi ˈgaro] «(albero di) fico», a grandi linee, distinguono le varietà di Venezia, Treviso e Belluno da un lato e quella di Padova con la pianura centrale dall’altro, mentre nel veronese [bote ˈgɛr] «bottegaio» convive con [mu ˈnar] «mugnaio».

3.2 Veneto centrale padovano-vicentino-polesano

Negli scritti di G.B. Pellegrini (1977 e 1991) compare l’ipotesi che il venetico abbia esercitato qualche influsso sul latino nell’area veneta centro-meridionale ( ➔sostrato ). Quindi si potrebbe ritenere che l’erede della ‘veneticità’ originaria sia il veneto della pianura padovana, e in parte vicentina e polesana (pavano), nel corso del tempo squalificato come rozzo dialetto di terraferma in contrapposizione al

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prestigio del veneziano. Il pavano è stato progressivamente snaturato dall’azione livellatrice di Venezia, ma nei dialetti centrali permangono alcuni tratti caratterizzanti (cfr. Trumper 1972; Trumper & Vigolo 1995).

I dati rilevati nel 1927 per l’Atlante linguistico italiano mostrano come l’interdentale sorda di [ ˈθeŋto] «cento» si mantenesse ancora salda nel padovano meridionale, mentre la sonora di [ ˈðeŋte] «gente» spesso alternava con l’occlusiva: [ ˈdeŋte] «gente» suonava quindi come «dente». Probabilmente si tratta del momento di massima resistenza di questi foni, che con il secondo dopoguerra, colpiti dallo stigma di rusticità, tendono a scomparire. La metafonia caratterizzava in passato i dialetti di quasi tutta l’Italia settentrionale, comprese ampie zone del Veneto, con l’eccezione di Venezia. Attualmente restano solo pochi esempi, quasi cristallizzati, del passaggio di [e] a [i] ([ ˈpese] «pesce», [ ˈpisi] «pesci») e di [o] a [u] ([ ˈtozo] «ragazzo», [ ˈtuzi]) nei plurali dei nomi e in qualche verbo ([ ˈʤ iri] «eravate»; [te ga ˈvivi] «avevi»; [vi ˈdi] «vedete»). Le differenze più appariscenti con le aree contigue oggi sono: la prima persona singolare dell’imperfetto [mi skol ˈtava] «io ascoltavo», anche se cominciano a farsi largo le forme in [-o], veneziane e più vicine all’italiano; la seconda persona singolare e plurale del futuro [te skolta ˈre] «ascolterai», [vo ˈaltri skolta ˈri] «voi ascolterete», che contrastano con il veneziano [ti skolta ˈra], [vo ˈjaltri skolta ˈre]; [te v ɛ] «vai», [te d ɛ] «dai», [te st ɛ] «stai» si oppongono ai ‘cittadini’ [ti va], [ti da], [ti sta]; [el ˈpoe] «può», [el ˈvoe] «vuole», [el ˈvae] «vale» sono le forme più diffuse nella terraferma, mentre il veneziano e le aree di più diretta influenza veneziana hanno [el pol], [el vol], [el val].

3.3 Veneto occidentale veronese

Il veronese, che fino ai secoli XVI-XVII presentava tracce del precedente carattere lombardo, attualmente ha un’originalità fatta di tratti arcaici e analoghi alle varietà di pianura nelle aree periferiche, che in area urbana tendono a essere in alternativa (o addirittura sostituiti) con innovazioni di tipo veneziano. Sono ancora presenti in misura variabile: la mancanza di dittongazione ([veŋ] «viene», [mel] «miele»); la caduta di /v/ iniziale e intervocalica ([ ˈoze] «voce», [ ˈpjoa] «pioggia»); tipi particolari di plurale ([pr ɛ] «prati», [aŋˈdɛ] «andati»); alcune desinenze del verbo ([kaŋˈten] «cantiamo», [kaŋˈtema] nell’area di contatto col mantovano); il pronome interrogativo [ ʧi] «chi», che contrasta con [ki] «qui».

3.4 Veneto settentrionale trevigiano-feltrino-bellunese

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Parte del territorio e soprattutto il centro urbano di Treviso hanno risentito dell’espansione del modello veneziano: particolarmente colpite le pronunce con foni interdentali o aspirazione. Si conservano nella coniugazione del verbo tratti arcaici un tempo presenti anche in pianura e ora confinati in aree periferiche: le uscite in /e/ della prima persona singolare ([mi ˈbate] «io batto») e in /on/ della prima persona plurale ([par ˈloŋ] «parliamo»); l’imperfetto in /ea/: [mi kaŋˈtea] «cantavo»; il condizionale in /ae/: [mi skolta ˈrae] «io ascolterei».

4. Vitalità attuale del dialetto

Nelle indagini dell’ISTAT sull’uso dei dialetti e della lingua italiana il Veneto è sempre stato ai primi posti per le percentuali attribuite alle varietà locali, pur nel quadro di un progressivo incremento dell’italiano. Nel 2007 l’uso prevalente, anche se non esclusivo, del dialetto riguardava quasi il 70% del campione generale, con una lieve crescita anche tra i giovani. Addirittura nel rapporto con estranei si dichiarava un uso esclusivo o prevalente del dialetto nel 15% dei casi, il dato in assoluto più alto a livello nazionale.

I motivi della tenuta sono stati individuati nella maggiore vicinanza strutturale all’italiano; nel maggior prestigio del veneto, che diversamente da altri dialetti ha una tradizione d’uso anche in situazioni relativamente formali (ai tempi della Repubblica Serenissima, il veneziano era impiegato negli usi ufficiali e scritti: Cortelazzo 1982); nella prevalenza di centri abitati di piccole e medie dimensioni, che consentono di conservare il modello linguistico locale. La valorizzazione, tutela e diffusione del patrimonio linguistico è oggi assicurata anche da una legge regionale del 2007.

5. Letteratura dialettale e tradizioni popolari

La produzione letteraria più consistente è di matrice veneziana, con prime attestazioni che risalgono al XIII secolo. Tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento scrive in un misto di italiano e dialetto il poeta petrarchista Leonardo Giustinian. Nel Cinquecento compaiono, in una lingua composita in cui prevale il veneziano, le Cronache di Marin Sanudo e l’ampia produzione di commedie, poesie ed epistole di Andrea Calmo. Nel Settecento una singolare testimonianza viene dalla Raccolta de’ proverbi , detti , sentenze , parole e frasi veneziane di Francesco Zorzi Muazzo, una sorta di vocabolario dialettale

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monolingue; ma ➔ Carlo Goldoni è certo l’esponente di maggior prestigio. Poi la produzione teatrale e poetica prosegue, mostrando continuità nei secoli fino a oggi, con un numero così elevato di autori, che non è possibile considerarli in breve spazio. L’antico padovano, il pavano, assume piena vitalità nelle commedie di Angelo Beolco detto il Ruzzante (1502-1542): costituiranno l’inizio di un filone letterario, destinato a durare fino agli inizi del Novecento con la rappresentazione caricaturale del campagnolo rozzo e astuto ( ➔latino macaronico ). Il trevigiano emerge, sempre nel Cinquecento, nel testo poetico noto come Egloga di Morel e tra i contemporanei è indispensabile ricordare almeno Andrea Zanzotto (1921), che elabora come lingua poetica la varietà periferica e conservativa di Pieve di Soligo.

Nell’area feltrino-bellunese i nomi più noti sono Bartolomeo Cavassico (1480-1555) e Vittore Villabruna (1668-1767), ma pubblicazioni specifiche ne ricordano molti altri. L’area veronese si manifesta precocemente con la scrittura didascalica di Giacomino da Verona (XIII sec.); per il periodo più recente va ricordata la poesia di Berto Barbarani (1872-1945).

Per quanto riguarda le tradizioni popolari, anche se le prime raccolte ottocentesche sono di area cittadina (in particolare di Venezia), le forme dell’espressività orale sono state tramandate soprattutto all’interno della cultura contadina. Il filò , la veglia invernale che radunava nel calore delle stalle intere famiglie, occupate in piccoli lavori manuali, ha rappresentato fino al secondo dopoguerra il principale momento di condivisione di un vasto repertorio di fiabe, racconti, aneddoti, canti, preghiere, filastrocche. Dino Coltro (1929-2009), instancabile ricercatore delle tradizioni linguistiche e delle memorie della sua terra, ha raccolto e pubblicato centinaia di pagine di area veronese (cfr., per es., Coltro 1975-1978). Sillogi di minore entità sono state redatte anche per l’area bellunese e per la pianura centrale.

6. Tradizioni scrittorie

Data la relativa vicinanza delle varietà venete al toscano, i dialetti veneti sono facilmente rappresentabili attraverso il modello grafico italiano. Nei testi antichi compaiono i segni ‹ç› per l’affricata dentale sorda e sonora ([ ʧ] e [ ʤ]), e ‹x› per la fricativa dentale sorda e sonora ([ ʃ] e [ ʒ]), forse con una qualità fonetica diversa da quella attuale. La ‹x› mostra una notevole persistenza, soprattutto nel verbo ‹xe› «è, sono», diventando oggi una sorta di bandiera della veneticità.

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Nel dizionario del veneziano di Giuseppe Boerio (1856) ‹ch(i)› corrisponde sia alla velare di chilo che alla palatale di chiesa [ˈʧ eza], ‹z› indica l’affricata dentale sorda e sonora, ‹s› può valere sia per la sorda di [ˈseŋto] «cento» che per la sonora di [ ˈzente] «gente», mentre ‹ss› intervocalica di cassa corrisponde a [s], non geminata nella pronuncia. I problemi fondamentali di rappresentazione nelle grafie non specialistiche (oltre all’opposizione tra [e] e [o] aperte e chiuse e alla distinzione tra sorda [s] e sonora [z], più frequente che in italiano in posizione interna e presente anche in posizione iniziale) sono: il nesso ‹sc› in parole come [ ˈsʧɔ po] «schioppo», [ ˈris ʧo] «rischio»; la laterale evanescente di tipo veneziano; la /ŋ/ in fine parola e in chiusura di sillaba. Una proposta di Grafia veneta unitaria , pubblicata nel 1995 a cura della Giunta regionale del Veneto, non ha trovato pieno consenso da parte di chi è legato alle proprie scelte grafiche, che, in qualche caso, hanno anche valore di identificazione culturale.

Fonti

Boerio, Giuseppe (1856), Dizionario del dialetto veneziano , Venezia, Giovanni Cecchini.

Grafia veneta unitaria. Manuale (1995), a cura della Giunta regionale del Veneto, Venezia, Giunta regionale del Veneto; Battaglia Terme, La Galiverna.

Studi

Coltro, Dino (1975-1978), Paese perduto. La cultura dei contadini veneti , Verona, Bertani, 4 voll.

Cortelazzo, Manlio (1982), Il veneziano , lingua ufficiale della Repubblica? in Id. (a cura di), Guida ai dialetti veneti , Padova, CLEUP, 1979-1993, 15 voll., vol. 4º, pp. 59-73.

Lepschy, Giulio C. (1962), Fonematica veneziana , «L’Italia dialettale» 25, pp. 1-22.

Marcato, Carla (2002), Il Veneto , in I dialetti italiani. Storia , struttura , uso , a cura di M. Cortelazzo et al. , Torino, UTET, pp. 296-328.

Marcato, Gianna & Ursini, Flavia (1998), Dialetti veneti. Grammatica e storia , Padova, Unipress.

213

Pellegrini, Giovanni Battista (1977), Studi di dialettologia e filologia veneta , Pisa, Pacini.

Pellegrini, Giovanni Battista (1991), Dal venetico al veneto. Studi linguistici preromani e romanzi , Padova, Editoriale Programma.

Trumper, John (1972), Il gruppo dialettale padovano-polesano. La sua unità , le sue ramificazioni , Padova, Rebellato.

Trumper, John & Vigolo, Maria Teresa (1995), Il veneto centrale. Problemi di classificazione dialettale e di fitonimia , Padova, CNR, Centro di studio per la dialettologia italiana.

Zamboni, Alberto (1974), Veneto , in Profilo dei dialetti italiani , a cura di M. Cortelazzo, [poi] di A. Zamboni, Pisa, Pacini, 23 voll., vol. 5º.

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gallo-italica, comunita di Fiorenzo Toso - Enciclopedia dell'Italiano (2010) gallo-italica, comunità

1. Generalità e distribuzione geografica

La definizione di gallo-italico , riferita tradizionalmente a un gruppo di dialetti settentrionali (piemontese, lombardo, ligure ed emiliano e romagnolo), è utilizzata anche per indicare nel loro insieme le parlate che, presentando a loro volta caratteri altoitaliani, sono variamente dislocate fuori dell’area d’origine. Si tratta essenzialmente di due gruppi che interessano comunità sparse in Sicilia e nel Meridione continentale (tra l’estremità meridionale della Campania e la Basilicata), le cui vicende sembrano almeno in parte collegabili, e di due dialetti in provincia di Lucca, quello di Gombitelli frazione di Camaiore (frutto di un ripopolamento quattrocentesco) e quello di Sillano nell’alta Garfagnana ( ➔ minoranze linguistiche ).

Se l’originalità di queste due ultime parlate viene oggi riletta alla luce dei rapporti di contiguità e interrelazione linguistica che hanno storicamente coinvolto un’area di contatto tra Toscana, Emilia e Lunigiana (Giannelli 1994), più problematica è la questione della presenza di parlate gallo-italiche nell’Italia meridionale. In Sicilia (Trovato 1998) si tratta dei dialetti di almeno ventiquattro località. Trovato (2002) tuttavia riconosce come ancora schiettamente gallo-italici solo i dialetti che condividono, tra le altre isoglosse settentrionali ( ➔ isoglossa ), la dittongazione in sillaba libera tonica o davanti a palatale di ĕ ed ŏ latino: si tratta delle parlate di San Fratello (con l’ex-frazione di Acquedolci), San Pietro Patti, Montalbano Elicona, Novara di Sicilia (con l’ex frazione di Fondachelli-Fantina) in provincia di Messina; di Randazzo in provincia di Catania; di Nicosia, Sperlinga, Piazza Armerina e Aidone in provincia di Enna; di Ferla, Buccheri e Cassaro in provincia di Siracusa.

Si caratterizzano invece per la presenza di tratti settentrionali meno accentuati (e in particolare non condividono la dittongazione suddetta) alcuni dialetti nelle province di Messina, Catania, Enna e Palermo. Nel Meridione continentale, in Basilicata, si riconoscono due gruppi compatti di dialetti con caratteristiche gallo-italiche, uno nell’interno (la stessa Potenza, Picerno, Tito, Pignola, Vaglio e tracce in altri punti), e un altro sulle alture che circondano il golfo di Policastro sul versante tirrenico, coi 215

dialetti di Trecchina, Rivello, Nemoli, S. Costantino (Bianchi, De Blasi & Fanciullo 2002): a quest’ultimo gruppo si collegano gli elementi settentrionali recentemente rilevati nelle parlate di Tortorella e Casaletto Spartano all’estremità meridionale della provincia di Salerno.

2. Caratteristiche dialettali

Se è tradizionalmente viva la consapevolezza della diversità linguistica dei comuni di parlata gallo-italica dell’area siciliana, spesso definiti lombardi con generico riferimento alla denominazione storica dell’Italia settentrionale, il carattere peculiare delle parlate gallo-italiche della Basilicata, immerse tra i dialetti lucani e più interessate a fenomeni di convergenza con questi, fu riconosciuto solo tra il 1931 e il 1941 (Rohlfs 1988). La presenza di parlate con tratti gallo-italici in un’area amministrativamente campana è stata constatata ancor più di recente; di conseguenza, gli studi si sono concentrati fin dal XIX secolo sulle parlate gallo-italiche di Sicilia, soprattutto per quanto riguarda la definizione dell’area d’origine.

La constatazione di Rohlfs (1988) che i dialetti gallo-italici della Lucania condividono col gruppo insulare tutte le caratteristiche essenziali induce a non tenerne disgiunta l’analisi linguistica (soprattutto per gli aspetti principali della fonetica), anche se è poi evidente che le vicende relative agli insediamenti dovettero svolgersi con modalità e (almeno in parte) cronologie differenti. Effettivamente, i tratti più vistosamente ‘settentrionali’ di tutte queste parlate rimandano genericamente all’Alta Italia senza che sia possibile supporre una precisa dislocazione originaria. È il caso non solo della già citata dittongazione (con le diverse possibili evoluzioni: San Fratello pièciu «petto», fuòghja «foglia»; Aidone niv «neve», fughja «foglia»; Potenza tjégnë «tengo», vuógljë «voglio»), ma anche di altri fenomeni del vocalismo (particolarmente vistosi in Sicilia per l’opposizione al sistema pentavocalico locale del tipo panromanzo a sette vocali) e del consonantismo, che appare anch’esso di tipo genericamente settentrionale, ad es., con la sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (San Fratello savar «sapere», ssalurer «salutare», furmiega «formica»; Vaglio nëvorë «nipote», dirë da un precedente diδë «dito», fuγë «fuoco»). Lo stesso vale per alcuni aspetti della morfologia, quali il genere femminile di sostantivi come (San Fratello) mièu «miele», fièu «fiele», sseu «sale» e sciàura «fiore».

Tutto ciò ha portato in passato a individuare l’area d’origine delle parlate gallo-italiche nella Sicilia in punti diversi del Settentrione, di volta in volta l’Emilia, l’area lombarda tra il Novarese e il Canton

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Ticino o il Monferrato. Oggi, dopo le osservazioni di Petracco Sicardi (1969) e le puntualizzazioni di Pfister (1988), si è generalmente concordi nel riconoscere condizioni originarie comuni ai dialetti gallo- italici del Meridione e a quelli di una fascia di contatto tra il Piemonte meridionale e la Liguria montana occidentale. L’individuazione di quest’area come zona d’origine degli insediamenti si basa sull’analisi di fenomeni secondari della fonetica (ad es., la presenza delle palatalizzazioni di pl -, bl -, fl -, secondo modelli condivisi dai dialetti meridionali e dal ligure ma non da altri dialetti settentrionali) e della morfologia (desinenze dell’infinito in -é e il tipo somo per la prima persona plurale dell’indicativo presente di essere ) che, variamente condivisi dai vari dialetti gallo-italici della Sicilia e della Basilicata, si presentano combinati in modo analogo solo in un’area del Nord-Ovest, che conosce varietà di transizione ligure-piemontese in cui si incuneano profondamente antichi elementi di continuità con l’area lombarda.

Tale dislocazione originaria pare confermata anche da elementi lessicali, in gran parte comuni ai dialetti gallo-italici della Sicilia e della Basilicata, che trovano riscontro in un’area ligure-piemontese che sembra escludere Torino a nord e Genova a est, come mostrano, ad es., i casi di chintana «vicoletto» e carrùggiu «vicolo» o del tipo garbo «cavo d’albero». Per il resto il lessico dei dialetti gallo-italici conserva da un lato tratti genericamente settentrionali o di area nord-occidentale (ad es., il tipo testa contro capo del lombardo antico e dei dialetti meridionali), dall’altro si mostra ampiamente esposto all’influsso delle circostanti parlate siciliane e lucane (che a loro volta presentano, per naturale osmosi in un contatto linguistico a lungo termine, una componente settentrionale). Questo tipo di affioramenti pone il problema della probabile maggiore estensione, nei secoli scorsi, dei dialetti gallo- italici e del rapporto di questi insediamenti con le isole linguistiche gallo-romanze del Meridione continentale (Faeto e Celle San Vito francoprovenzali in Puglia, Guardia Piemontese provenzale in Calabria) e con la componente genericamente definita gallo-romanza del lessico siciliano.

3. Il problema delle origini

Definita con sufficiente approssimazione un’area d’origine, non è da escludere che gli insediamenti settentrionali abbiano coinvolto all’atto della fondazione e per apporti successivi anche genti di diversa origine settentrionale, anche per il protrarsi dei contatti economici e commerciali (soprattutto in Sicilia) col Settentrione. Allo stesso modo, è spesso evidente la precocità del contatto tra la parlata dei nuovi

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venuti e il contesto dialettale delle zone d’accoglienza: nel caso della Sicilia, in particolare, la pur scarsa documentazione storica fa riferimento all’insediamento dei ‘Lombardi’ non tanto in termini di nuove fondazioni, quanto in termini di trasferimenti in comunità locali già esistenti.

Quanto alle motivazioni dell’immigrazione e alla cronologia relativa, secondo le ipotesi più accreditate l’insediamento in Sicilia si fa risalire all’XI-XIII secolo, quando i nuclei di origine altoitaliana furono trasferiti sull’isola, verosimilmente su richiesta della monarchia normanna, allo scopo di ripopolare o comunque di infoltire centri ritenuti strategici per il controllo di aree ancora caratterizzate, all’epoca, da una significativa presenza araba. L’infeudazione di alcune aree dell’isola alla nobiltà aleramica (legata ai Normanni da vincoli politici e matrimoniali) spiega bene la provenienza dall’area individuata, corrispondente alla sezione occidentale dell’antico Marchesato del Monferrato, all’epoca investito da una profonda crisi economica e demografica.

Analoghe sono le ragioni del trasferimento, probabilmente in un periodo di poco successivo, di signori feudali di origine aleramica nella Basilicata dell’epoca normanna (XII sec.) e angioina (XIII sec.). Mentre la geografia degli insediamenti in Sicilia mostra chiaramente la volontà di tenere separate le ancora vitali comunità arabe della parte sudorientale dell’isola da quelle del settore occidentale, in Basilicata si trattava essenzialmente della necessità di controllare, attraverso sudditi fedeli insediati in zone di nuova conquista, aree di approdo come il golfo di Policastro o importanti direttrici lungo la via terrestre che congiungeva Napoli a Taranto.

4. La situazione attuale

È difficile sintetizzare lo stato attuale delle parlate gallo-italiche nel Meridione, e anche solo tentare di definirne la situazione a livello regionale. Per i dialetti della Basilicata, in conseguenza del mancato mantenimento nel tempo di una ‘identità’ particolare da parte dei parlanti, l’acquisizione di una specificità rispetto alle parlate circostanti è un fatto recente e legato alla riflessione scientifica. I tratti della ‘settentrionalità’ vi appaiono quindi sempre più stemperati in una significativa componente meridionale, dovuta a un processo secolare di convergenza con le parlate contermini, già a partire, probabilmente, da un’originaria condizione di mistilinguismo.

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Alcuni degli studi raccolti in De Blasi et al . (1991) hanno ulteriormente evidenziato il carattere fortemente regressivo della settentrionalità lucana (anche a Potenza, la cui funzione di capoluogo regionale ha agito come elemento di crisi, più che di rilancio, della dialettofonia locale). Di conseguenza, la conservazione di queste parlate pare sempre più affidata alla raccolta di documentazione che a iniziative volontaristiche di promozione, pur presenti da qualche tempo nel quadro generale della rivalutazione dei dialetti lucani. In Sicilia la situazione appare assai più complessa e articolata, anche a causa della maggior diffusione delle parlate. I dialetti gallo-italici, storicamente sottoposti alla pressione e all’interferenza del siciliano e dell’italiano, sono ancora particolarmente vitali a San Fratello, Nicosia, Sperlinga (in tradizionale convivenza col siciliano) e a Novara di Sicilia, centri tra loro contigui e nei quali la percezione dell’alterità linguistica rispetto alle circostanti parlate siciliane è particolarmente intensa. Ad Aidone e a Piazza Armerina, invece, già verso la fine del XIX secolo la parlata locale veniva percepita come arcaica e il suo uso era limitato agli ambiti sociali più bassi.

In generale però rimane ovunque diffusa la consapevolezza dell’originalità linguistica dei ‘lombardi’ (Sgroi 1989) che, per quanto in crisi nei centri minori, è tuttora elemento caratterizzante di una identità locale, tale da favorire anche il sorgere di iniziative spontanee di rivitalizzazione e promozione. Un particolare rilievo assume storicamente, in tal senso, la produzione letteraria, che a partire dall’Ottocento riguarda soprattutto il dialetto sanfratellano e quello di Nicosia, e più recentemente quello di Montalbano Elicona. Sulle parlate altoitaliane della Sicilia vertono numerose iniziative di studio e di promozione attuate in particolare dall’università di Catania col «progetto Gallo-italici» diretto da S.C. Trovato, che ha curato anche la pubblicazione sistematica di materiali storico-documentari e sondaggi sulla vitalità attuale.

La popolazione dei centri di dialetto gallo-italico della Sicilia si calcola in circa 60.000 abitanti, ma non esistono statistiche sulla vitalità delle singole parlate rispetto al contesto generale dei dialetti siciliani. Per quanto riguarda le iniziative istituzionali di tutela, malgrado le ricorrenti iniziative di amministratori e rappresentanti locali, né la legislazione isolana né quella nazionale (legge 482/1999; ➔ legislazione linguistica) hanno mai preso in considerazione forme concrete di valorizzazione della specificità delle parlate altoitaliane della Sicilia, che pure rientrano a pieno titolo, come il tabarchino della Sardegna, nella categoria delle isole linguistiche e delle alloglossie.

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Studi

Bianchi, Patricia, De Blasi, Nicola & Fanciullo, Franco (2002), La Basilicata , in Cortelazzo et al. 2002, pp. 757-792.

Cortelazzo, Manlio et al. (2002), I dialetti italiani. Storia, struttura, uso , Torino, UTET.

De Blasi, Nicola et al. (1991), Le parlate lucane e la dialettologia italiana. Studi in memoria di Gerhard Rohlfs . Atti del convegno (Potenza - Picerno, 2-3 dicembre 1988), Galatina, Congedo.

Giannelli, Luciano (1994), Situazioni di contatto e migrazioni: ‘Gallo-romani’ attorno a Lucca , in Migrazioni interne. I dialetti galloitalici della Sicilia. Atti del XVII convegno di studi dialettali italiani (Nicosia - Catania, 1987), a cura di S.C. Trovato, Padova, Unipress, pp. 31-52.

Petracco Sicardi, Giulia (1969), Gli elementi fonetici e morfologici ‘settentrionali’ nelle parlate gallo-italiche del Mezzogiorno , «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani» 9, pp. 106-132.

Pfister, Max (1988), Galloromanische Sprachkolonien in Italien und Nordspanien , Mainz, Akademie der Wissenschaften und Literatur Stuttgart, F. Steiner.

Rohlfs, Gerhard (1988), Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento , Galatina, Congedo.

Sgroi, Claudio G. (1989), I gallo-italici minoranze linguistiche? Identità e impenetrabilità delle varietà gallo-italiche in Sicilia , in Progetto Gallo-italici. Saggi e Materiali 1 , a cura di S.C. Trovato, Catania, Dipartimento di Scienze linguistiche, filologiche, letterarie medievali e moderne, pp. 25-71.

Trovato, Salvatore C. (1998), Galloitalische Sprachkolonien. I dialetti galloitalici della Sicilia , in Lexikon der Romanistischen Linguistik (LRL) , hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & C. Schmitt, Tübingen, Niemayer, 8 voll., vol. 7º ( Kontakt , Migration und Kunstsprachen; Kontrastivitat , Klassifikation und Typologie ), pp. 538-559.

Trovato, Salvatore C. (2002), Sicilia , in Cortelazzo et al. 2002, pp. 834-897.

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minoranze linguistiche di Fiorenzo Toso - Enciclopedia dell'Italiano (2011) minoranze linguistiche

1. Definizioni: minoranza e alloglossia

Per minoranze linguistiche si intendono gruppi di popolazione che parlano una lingua materna diversa da quella di una maggioranza: quest’ultima si identifica normalmente coi parlanti che hanno come lingua materna la lingua ufficiale dello Stato di cui sono cittadini.

In accezione stretta, sono dunque minoranze anche quanti parlano un dialetto (intendendo con questo termine un idioma geneticamente autonomo, utilizzato in condizione di subordine rispetto alla lingua di maggior prestigio) o una lingua di recente importazione. Sotto questo punto di vista si può così definire minoranza linguistica , ad es., anche l’insieme dei parlanti abruzzese (o un singolo dialetto abruzzese), o degli immigrati che parlano il romeno (Telmon 1992).

Diversamente da quanto avviene in altri paesi occidentali, però, il concetto di minoranza linguistica ha assunto in Italia un’accezione più ristretta (Toso 2006), sovrapponendosi a quello di alloglossia, che identifica varietà minoritarie aventi un’origine nettamente distinta rispetto alla lingua ufficiale e al diasistema dei dialetti italiani. Il concetto di alloglossia viene spesso associato al carattere presuntamente ‘allogeno’ delle popolazioni: già ➔ Graziadio Isaia Ascoli (1861) parlava di «colonie straniere in Italia» per le comunità alloglotte da lui individuate, in base al presupposto di una corrispondenza tra confini geografici ed etnico-linguistici. Alla confusione tra i concetti di minoranza linguistica e di alloglossia si aggiunge spesso il ricorso a parametri di ‘storicità’ (presenza antica della minoranza alloglotta all’interno dei confini di stato) e ‘territorialità’ (radicamento della minoranza stessa su una determinata porzione di territorio): in tal modo però si escludono dal concetto di minoranza linguistica non solo i dialettofoni italiani, ma anche chi parla lingue alloglotte di importazione recente (lingue ‘immigrate’; ➔ acquisizione dell’italiano come L2 ) e quelle (presenti da secoli in Italia) di popolazioni nomadi o disperse ( ➔ zingare, comunità ).

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Storicamente, la confusione tra minoranza linguistica e alloglossia nasce in Italia per due motivi. Da un lato, la difficoltà di tenere distinto l’insieme di ‘minoranze’ rappresentato dagli utenti della dialettofonia tradizionale da una ‘maggioranza’ che di fatto, soprattutto nella situazione sociolinguistica attuale, vi corrisponde. Dall’altro, l’ulteriore confusione tra i concetti di minoranza linguistica (o, con termine di discutibile valenza scientifica, etnico-linguistica ) e minoranza nazionale : quest’ultimo indica in particolare gruppi di popolazione presso i quali la diffusione di una lingua si associa all’affermazione di un differente senso di appartenenza rispetto alla maggioranza, col prevalere di caratteri ‘nazionali’ rivendicati come altrettanti segnali di adesione a un’identità collettiva diversa.

La distinzione tra minoranza nazionale e minoranza linguistica si può verificare, ad es., nel caso della popolazione germanofona dell’Alto Adige ( ➔ tedesca, comunità ), che si riconosce per una serie di motivi (non soltanto linguistici) in una identità nazionale austriaca; mentre si può parlare di una minoranza nazionale catalana in Spagna, ma non in Italia, dove le tradizioni linguistiche della città di Alghero ( ➔ catalana, comunità ) non determinano un diverso sentimento di appartenenza della popolazione catalanofona. Del resto, dal punto di vista linguistico, nel caso delle minoranze nazionali ciò che determina un’alterità è non tanto il persistere degli usi tradizionali, quanto l’impiego storico, accanto all’italiano, di una lingua ufficiale e di cultura diversa da esso: in Valle d’Aosta ( ➔ francese, comunità ), così, è l’uso co-ufficiale del francese a fornire le prerogative di minoranza nazionale a una popolazione che nella prassi parlata adopera tale lingua in percentuale irrisoria, usando tradizionalmente, negli usi quotidiani, varietà dialettali di tipo francoprovenzale (e, oggi, prevalentemente l’italiano; ➔ francoprovenzale, comunità ).

La suddivisione tra minoranze nazionali e minoranze linguistiche porta a considerare l’importante distinzione (Berruto 2009) tra lingue minoritarie e lingue minacciate. Infatti, se è vero che la condizione di minorità implica in genere una situazione di crisi degli usi tradizionali, fino all’obsolescenza e alla morte della lingua, è altrettanto evidente che le lingue delle minoranze nazionali, soggette a tutela in base ad accordi internazionali e praticate in contesti di co-ufficialità nella varietà standard che gode di prestigio e di ufficialità nei paesi di riferimento, appaiono meno esposte degli idiomi delle minoranze linguistiche a un’erosione delle proprie prerogative: solo il tedesco in Alto Adige, il francese in Valle d’Aosta e lo sloveno a Gorizia e Trieste risultano non a caso, secondo Berruto (2009: 341), lingue minoritarie non minacciate in Italia.

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2. Le alloglossie in Italia

Tutte queste distinzioni sono necessarie per fornire una classificazione delle popolazioni di tradizione alloglotta che come tali risultano riconoscibili, per lo più coinvolte in situazioni di plurilinguismo e pluriglossia nelle quali la varietà locale è soltanto una delle componenti (Telmon 1994; Berruto 2009) del ➔ repertorio linguistico delle comunità interessate.

Tra le alloglossie presenti in Italia (i cui parlanti ammontano a meno del 5% della popolazione complessiva), formano altrettante minoranze nazionali in continuità territoriale con le madrepatrie di riferimento le popolazioni che praticano (accanto ai locali dialetti germanici, slavi e francoprovenzali) un uso colto e co-ufficiale del tedesco (provincia autonoma dell’Alto Adige / Südtirol), dello sloveno (Trieste, Gorizia e aree rurali circostanti; ➔ slovena, comunità ) e del francese (regione autonoma Vallée d’Aoste / Valle d’Aosta). Sono poi minoranze linguistiche che praticano varietà alloglotte di tipo germanico anche i membri di alcune comunità sparse lungo la catena alpina in Valle d’Aosta e in Piemonte (gruppi Walser; ➔ walser, comunità ), in Trentino e in Veneto (gruppi Cimbri e Mòcheni e isola linguistica di Sappada) e in Friuli (comunità carinziane di Sauris, Timau e del Tarvisiano), storicamente prive del ‘tetto’ linguistico del tedesco standard. Dialetti sloveni distinti dalla lingua letteraria e i cui parlanti sono tradizionalmente privi di un legame culturale e identitario con la Slovenia si parlano anche lungo la linea di confine tra questo paese e la provincia di Udine, nelle valli del Torre e del Natisone e (in compresenza con dialetti friulani e germanici) nella conca di Tarvisio. Dialetti francoprovenzali slegati dal contesto di bilinguismo ufficiale italo-francese vigente in Valle d’Aosta sono parlati anche nella sezione nord-occidentale della provincia di Torino.

Condizioni di alloglossia legate a una continuità territoriale transfrontaliera riguardano poi i dialetti provenzali (o occitani ) parlati nel settore alpino del Piemonte tra la Val di Susa e la Val Vermenagna (➔ provenzale, comunità ). Nell’Italia meridionale e insulare, le parlate alloglotte appaiono maggiormente disperse, come risultato dell’immigrazione in epoca medievale e moderna di popolazioni provenienti dall’esterno, con la probabile eccezione dei dialetti neogreci del Salento e dell’Aspromonte, per i quali resta aperto il problema della continuità con la lingua che fu parlata nella Magna Grecia (➔ greca, comunità ). Fra il Quattrocento e il Settecento si formarono invece le comunità di dialetto albanese diffuse tra l’Abruzzo meridionale, il Molise, la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria e la

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Sicilia ( ➔ albanese, comunità ). Nella stessa epoca si verificarono gli insediamenti slavi (croati) del Molise ( ➔ serbocroata, comunità ); al Trecento risale invece il ripopolamento di Alghero in Sardegna da parte di genti provenienti dalla Catalogna. Gruppi di dialetto provenzale (e originariamente di confessione valdese) si stanziarono a loro volta in Calabria nel XV secolo (Guardia Piemontese), altri di dialetto francoprovenzale si stabilirono in epoca imprecisata nella Puglia settentrionale (Faeto e Celle San Vito). Quest’ultimo popolamento non va probabilmente disgiunto, per epoca e circostanze, dall’immigrazione in Sicilia, in Basilicata e nel Cilento di popolazioni parlanti dialetti italiani settentrionali di area ligure e piemontese meridionale (galloitalici; ➔ gallo-italica, comunità ), che costituiscono un altro caso di parlata alloglotta, così definibile in rapporto al continuum dialettale in cui si trovano inserite. A maggior ragione alloglotta, perché integrata in un contesto a sua volta alloglotto rispetto al resto d’Italia, è l’isola linguistica tabarchina in Sardegna (➔ tabarchina, comunità ). Alloglotti con tradizioni storiche antiche (risalenti almeno al Trecento) sono inoltre i gruppi zingari presenti in Italia, dispersi in collettività nomadi appartenenti ai ceppi Sinti (prevalenti nell’Italia settentrionale) e Rom (accresciuti di recente dall’immigrazione dall’Est europeo; ➔ zingare, comunità ).

La nozione di alloglossia viene comunemente estesa in Italia anche al sistema dei dialetti sardi ( ➔ sardi, dialetti ), che si considerano come un gruppo romanzo autonomo rispetto a quello dei dialetti italiani; e ai dialetti friulani e ladini, spesso integrati in una superiore unità ‘retoromanza’, e la cui peculiarità è legata al persistere di condizioni di maggiore arcaicità rispetto alle contermini parlate italiane settentrionali. Per una parte almeno dell’area di dialetto ladino ( ➔ ladina, comunità ) va del resto sottolineato che il mantenimento delle parlate locali si verificò in un ambito culturale prevalentemente germanico, e che lo sviluppo di una specifica identità ladina ha seguito fino a tempi recenti le vicende legate al contesto territoriale tirolese, fatto che ha accresciuto il senso collettivo di specificità della popolazione interessata.

Alle situazioni che compongono la mappa delle alloglossie storiche presenti in Italia e comunemente note come minoranze linguistiche (Toso 2008), si dovrebbero aggiungere infine alcuni casi specifici: in primo luogo gli usi linguistici di comunità religiose disperse, come quella ebraica ( ➔ giudeo-italiano ) e quella armena, che fanno un uso liturgico di lingue diverse dall’italiano; poi i gruppi di popolazione che parlano dialetti italiani all’interno di aree territoriali in cui è diffusa una lingua minoritaria: dialetti veneti in Friuli, dialetti corsi (sassarese, gallurese e maddalenino) nella Sardegna settentrionale. Carattere di

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storicità andrebbe ormai riconosciuto, inoltre, a gruppi di popolazione dialettofona trasferiti compattamente in aree diverse da quella d’origine, come i Veneti della Toscana, dell’Agro Pontino e della Sardegna chiamati dal governo fascista ( ➔ fascismo, lingua del ; ➔ politica linguistica ) a colonizzare aree di bonifica negli anni Trenta (Telmon 1994).

3. Criteri di classificazione

Una classificazione genealogica degli idiomi coinvolti nella categoria delle alloglossie consente di apprezzare la ricchezza di tale patrimonio linguistico storico in Italia, certamente tra i più variegati dell’Europa occidentale: esso comprende infatti idiomi di origine semitica (l’ebraico come lingua liturgica), indoeuropea a sé stante (greco, albanese e armeno come lingua liturgica), indoiranica (dialetti zingari), germanica (tedesco standard e dialetti tirolesi in Alto Adige, gruppi minori dell’area alpina), slava (sloveno standard e dialetti sloveni tra Friuli e Venezia Giulia, croato del Molise), neolatina galloromanza (francese, dialetti francoprovenzali e provenzali), iberoromanza (catalano), italoromanza (galloitalico del Meridione e tabarchino), neolatina a sé stante (dialetti sardi, dialetti friulani e ladini).

Il panorama delle alloglossie storiche in Italia appare assai vario e articolato anche per distribuzione geografica (lungo i confini settentrionali e nel contesto meridionale e insulare) e per peso demografico: sono minoranze numericamente consistenti quelle regionali sarda (oltre un milione di parlanti) e friulana (almeno 400.000 parlanti), quella sudtirolese (oltre 250.000), quella zingara (circa 120.000) e in minor misura (ma pur sempre con più di 50.000 parlanti) quella valdostana implicata nell’uso ufficiale del francese (che però non è se non eccezionalmente lingua materna dei parlanti), quella slovenofona, quella albanofona e quella galloitalica di Sicilia.

In rapporto ai parametri UNESCO di vitalità e di tenuta nell’uso parlato, Berruto (2009: 341) definisce poi «in regressione» il sardo, i dialetti zingari, lo sloveno in provincia di Udine, il francoprovenzale in Valle d’Aosta, l’albanese, il provenzale e il catalano (a cui va aggiunto il galloitalico di Sicilia); in «forte regressione» i dialetti germanici minori, il francoprovenzale della Puglia, il greco e il croato molisano; in «lieve regressione» il friulano e il ladino (a cui va aggiunto il tabarchino, caratterizzato da una notevole tenuta); sono «non minacciate», come si è visto, le lingue delle minoranze nazionali.

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4. Minoranze italofone all’estero

Quanto alla presenza dell’italiano come lingua minoritaria storica all’estero, essa si limita di fatto alla Slovenia e alla Croazia, dove si riconoscono e tutelano come minoranze nazionali gruppi autoctoni che praticano tradizionalmente dialetti veneti e istrioti, e alla Bosnia-Erzegovina e Romania, dove si riconosce la presenza di una minoranza linguistica italofona risalente alla fine dell’Ottocento. Questo fatto è indicativo tra l’altro dei diversi parametri di storicità che si adottano a seconda delle tradizioni culturali nei diversi paesi, tali da costituire un serio ostacolo nella definizione di una politica comune europea in tema di tutela delle minoranze linguistiche. In Francia, lo status di lingue minoritarie si riconosce invece a dialetti italoromanzi come il còrso e il ligure (nel Nizzardo e a Bonifacio in Corsica), ma non all’italiano standard, che neppure si propone come lingua tetto ideale di tali realtà; nel Principato di Monaco il dialetto monegasco è lingua nazionale accanto al francese (che è la lingua ufficiale), mentre l’italiano standard gode (come del resto a Malta) di una notevole diffusione, pur essendo privo di qualsiasi status. A San Marino e in Svizzera non si può parlare formalmente di situazioni di minorità, in quanto l’italiano è a tutti gli effetti unica lingua ufficiale della piccola Repubblica (dove è diffuso un dialetto romagnolo) e del Canton Ticino e delle valli italofone del Canton Grigioni (aree di dialetto lombardo) ( ➔ Svizzera, italiano di ); nella Confederazione Elvetica l’italiano è inoltre una delle quattro lingue ufficiali della nazione, anche se, assieme al retoromancio, gode di uno statuto particolare che ne riconosce il carattere minoritario a livello confederale.

La presenza dell’italiano e dei dialetti in paesi caratterizzati da una forte immigrazione dall’Italia conferma l’ambiguità terminologica del concetto di minoranza linguistica, in base al quale, in accezione ampia, si dovrebbe parlare di minoranze italiane, anche consistenti, almeno in paesi europei come la Germania, la Francia, la Svizzera o il Belgio, e in paesi extraeuropei come gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, l’Uruguay, il Venezuela, il Brasile e l’Australia, paese quest’ultimo dove le lingue immigrate (➔ emigrazione, italiano dell’ ), tra cui l’italiano, godono comunque di alcune forme di riconoscimento.

5. La tutela delle minoranze linguistiche in Italia

Prevista dall’art. 6 della Costituzione, la tutela delle minoranze linguistiche in Italia ha riguardato fino a tempi recenti le sole minoranze nazionali ( ➔ legislazione linguistica ). L’uso co-ufficiale del tedesco in

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Alto Adige e del francese in Valle d’Aosta fu previsto da accordi internazionali al termine della seconda guerra mondiale, mentre quello dello sloveno di Trieste e Gorizia (ma non dei dialetti sloveni in provincia di Udine) fu regolato a partire dagli accordi di Osimo con la Iugoslavia (1975); inoltre, i provvedimenti relativi al bilinguismo in provincia di Bolzano e i loro controversi meccanismi applicativi hanno riguardato anche la minoranza ladina del Sudtirolo (ma non quella delle province di Trento e di Belluno).

Alla fine del 1999, dopo un iter complesso e una discussione che coinvolse l’opinione pubblica e gli ambienti politici e intellettuali (sollecitata anche dall’approvazione da parte del Consiglio d’Europa di una raccomandazione nota come Carta europea delle lingue regionali e minoritarie , 1992), si approdò a un provvedimento legislativo in materia di «tutela delle minoranze linguistiche storiche». In realtà la legge n. 482/1999, in contrasto col dettato costituzionale (che all’art. 6 sancisce la tutela «con apposite leggi» delle minoranze linguistiche, senza introdurre distinzioni di sorta, e all’art. 3, comma 2, sancisce l’uguaglianza «sostanziale» e il «compito» della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli» che impediscano la piena realizzazione dell’eguaglianza ‘formale’ di tutti «senza distinzione […] di lingua»), parte dall’interpretazione del concetto di minoranza linguistica storica come alloglossia (escludendo peraltro alcuni casi appartenenti a questa categoria), e dal presupposto che i ➔ diritti linguistici riconosciuti alle minoranze nazionali vadano estesi, per preservarne il patrimonio culturale, alle minoranze linguistiche storiche riconosciute (Orioles 2003).

La confusione tra i concetti di diritto linguistico e di patrimonio linguistico ha introdotto così una discriminazione all’interno di quest’ultima categoria, riconoscendo come suscettibili di tutela solo quelle componenti di essa (un certo numero di alloglossie) alle quali è stato riconosciuto il carattere di «minoranze linguistiche storiche». Non solo l’elencazione imprecisa e parziale, ma anche le modalità di delimitazione degli ambiti territoriali interessati (lasciata di fatto alle amministrazioni locali) contribuirono a un sostanziale fallimento del provvedimento legislativo.

Si sono così moltiplicate le polemiche nell’ambito dei contesti linguistici rimasti fuori dal provvedimento (censurato anche dalle istituzioni europee per l’esclusione della lingua zingara; Consani & Desideri 2007), le interpretazioni disinvolte dei criteri di ‘zonizzazione’ (l’accesso ai finanziamenti previsti ha indotto, ad es., molti comuni di tradizioni dialettali piemontesi, liguri e venete a dichiarare

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inesistenti appartenenze minoritarie) e le applicazioni volte ad affermare (eludendo le tradizioni di plurilinguismo e pluriglossia tradizionalmente presenti sul territorio) la sostanziale equiparazione delle alloglossie alla lingua ufficiale e alle lingue co-ufficiali presenti in Italia, con l’elaborazione di modelli standardizzati privi per lo più di corrispondenza con le esigenze comunicative e identitarie delle popolazioni interessate.

Il vero problema della tutela dei patrimoni linguistici minoritari resta, in realtà, la difficoltà di rafforzare la consapevolezza della funzionalità di una consuetudine plurilingue presso comunità di parlanti ormai da tempo orientate verso un’adesione incondizionata a codici comunicativi di maggiore prestigio. È evidente che, al di là di iniziative di ricerca e di studio da condursi col supporto di idonei strumenti scientifici, le forme della tutela (a parte il caso delle minoranze nazionali) non dovranno tanto essere rivolte alla promozione di diritti linguistici, neppure percepiti come tali dagli interessati, né a una gestione burocratica e verticistica del bene culturale lingua, quanto a un’educazione al rispetto e alla conoscenza dei patrimoni linguistici minoritari (alloglotti e non) come componenti essenziali, nel loro insieme, del patrimonio culturale del paese.

▻ Corredi : Carte

Fonti

Ascoli, Graziadio Isaia (1861), Colonie straniere in Italia , in Id., Studj critici , Gorizia, Paternolli, 2 voll., vol. 1º, pp. 315-363.

Studi

Berruto, Gaetano (2009), Lingue minoritarie , in XXI Secolo. Comunicare e rappresentare , Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, pp. 335-346.

Consani, Carlo & Desideri, Paola (a cura di) (2007), Minoranze linguistiche. Prospettive , strumenti , territori , Roma, Carocci.

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Orioles, Vincenzo (2003), Le minoranze linguistiche. Profili sociolinguistici e quadro dei documenti di tutela , Roma, Il Calamo.

Telmon, Tullio (1992), Le minoranze linguistiche in Italia , Alessandria, Edizioni dell’Orso.

Telmon, Tullio (1994), Aspetti sociolinguistici delle eteroglossie in Italia , in Storia della lingua italiana , a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 3° ( Le altre lingue ), pp. 923-950.

Toso, Fiorenzo (2006), Lingue d’Europa. La pluralità linguistica dei Paesi europei fra passato e presente , Milano, Baldini Castoldi Dalai.

Toso, Fiorenzo (2008), Le minoranze linguistiche in Italia , Bologna, il Mulino.

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zingare, comunità di Giulio Soravia - Enciclopedia dell'Italiano (2011) zingare, comunità

1. Localizzazione e distribuzione

Le parlate dei diversi gruppi zingari in Italia sono riconducibili al romanes (o lingua romani , romani čhib ), una lingua ben definibile storicamente e strutturalmente, ma comprendente varietà dialettali così numerose da consigliare forse di parlare piuttosto di una famiglia di lingue, anche in virtù della loro diffusione sui cinque continenti. Proprio per la difficoltà di assegnare ai popoli zingari una collocazione geografica, in passato essi venivano spesso esclusi dal novero delle minoranze; e sono tuttora lasciati fuori dalla legge 482 del 1999 sulle ➔ minoranze linguistiche italiane ( ➔legislazione linguistica ).

In Italia sono presenti gruppi rom e sinti, con comunità che si distinguono per tre strati di presenza e integrazione:

(a) rom e sinti storicamente attestati sul territorio (nomadi o non) prima del XX secolo (le prime presenze risalgono al XV secolo);

(b) rom e sinti affluiti, per varie cause e con varie modalità, nel XX secolo fino alla seconda guerra mondiale;

(c) rom giunti a partire dagli anni Settanta del Novecento come profughi o in seguito all’apertura di frontiere (prima dalla Jugoslavia, poi da altri paesi ex-comunisti, soprattutto Romania e Albania).

Questi ultimi sono per lo più senza cittadinanza italiana e rientrano entro certi limiti nel più ampio fenomeno migratorio che ha investito l’Italia soprattutto negli ultimi due decenni del Novecento (➔ sociolinguistica ).

Non è facile definire chi e quanti siano i rom e sinti presenti in Italia oggi: le stime disponibili vanno da un minimo di 80.000 a un massimo di 200.000 persone (cfr. Liégeois 1994). In assenza di statistiche 230

occorre esser cauti perché non sempre è riconoscibile come zingaro chi sia in possesso di una cittadinanza straniera e non lo dichiari, o chi lo sia per evidente stile di vita, o sia di origine zingara ma integrato; o ancora chi sia assimilabile ad altre nazionalità a seguito della perdita della lingua (come i rudari).

2. Classificazione dei gruppi zingari

Ciò premesso gli zingari in Italia si possono classificare come segue:

(a) gruppo storico: rom dell’Italia centro-meridionale; gli unici studi linguistici moderni sono sui rom abruzzesi e sui rom calabresi, che hanno dialetti poco diversi; ci sono attestazioni di comunità simili nelle altre regioni meridionali, almeno in passato;

(b) gruppo storico: sinti piemontesi, lombardi ed emiliani;

(c) gruppo storico: sinti del Nord-Est (gačkane, estrexarja, eftavagarja, kranarja, ecc.);

(d) gruppo intermedio: rom sloveni / havati / istriani;

(e) gruppo intermedio: vlax dell’Est europeo (kalderaša, lovara, ecc.), giunti a partire dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta del Novecento;

(f) gruppo recente: rom xoraxané (musulmani, prevalentemente dalla Bosnia);

(g) gruppo recente: altri gruppi balcanici (šiftari, čergari, ecc.).

3. Cenni storici

Tralasciando di ripercorrere il cammino che portò in Europa gruppi indiani che conservarono l’uso di un dialetto medio-indiano (Kenrick 1995), la prima presenza in Italia di un consistente gruppo di zingari risale al 1422 (Colocci 1889: 55 segg.; Viaggio 1997: 18 segg.). Si tratta della Grande Banda del Duca

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Andrea, ricordata nelle cronache di Bologna, che arrivò il 7 agosto a Forlì, dove si fermò due giorni dicendosi diretta a Roma per impetrare il perdono del papa. Tale gruppo non lasciò altre tracce di sé, ma potrebbe essere lo stesso di cui è registrato un arrivo a Parigi nel 1427 (Vaux de Foletier 1978: 58 segg.).

Per tracciare la storia di queste genti a partire da allora, occorre soprattutto rifarsi alla cronaca criminale o ai bandi che scacciano zingari e altri ‘asociali’ dai vari Stati. Col tempo le autorità in Italia, impotenti a cacciare i gruppi di rom e sinti, tendono ad allentare la tensione (in particolare nel XVIII secolo nello spirito dell’Illuminismo); tuttavia, come osserva ancora Viaggio (1997: 85), la sostanza non cambierà molto.

4. Classificazione dei dialetti zingari

I dialetti della lingua romani possono così classificarsi:

(a) i dialetti dei gruppi rimasti in India (lamani, doṃ , ecc.);

(b) i dialetti dei nawar ( dom ) del Vicino e Medio Oriente e del Nordafrica;

(c) i dialetti dei boša armeni ( lom ), oggi estinti;

(d) i dialetti dei rom europei, suddivisibili in: (i) dialetti del gruppo balcanico-danubiano (due gruppi: vlax e non-vlax); (ii) dialetti del continuum sloveno-havato-istriano; (iii) dialetti sinti.

La fig. 1 rappresenta questa partizione.

Matras (2005) basa la classificazione su alcune isoglosse ( ➔ isoglossa ) ma anche su connessioni storiche. Un primo grande confine isola il Sud-Est europeo, che a sua volta si divide in due aree a seconda della presenza di fenomeni di palatalizzazione. Gli altri dialetti (settentrionali) vengono classificati a seconda della condivisione di tratti come:

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(a) s → h finale di sillaba: vas(t) → vah «mano»; kerés → čeréh «tu fai»;

(b) prestiti di verbi coi suffissi -in- ~ -isar-: rom abruzz. pinsin - ← it. pensare ; kalderaš gindisar ← romeno gîndi ;

(c) le forme per «questo» ( kava ~ kada ) e «quello» ( kova ~ koda );

(d) la seconda persona singolare in -an - ~ -al (anche nel verbo «essere»: per «io sono, tu sei» si ha in sinto hom , hal , in xoraxano sem , san ).

Nel XIX secolo in Italia la situazione appare delineata e stabile. I gruppi giunti dai Balcani nei primi anni della conquista turca, con le stesse ‘migrazioni’ che condussero nella nostra penisola le genti albanesi e slave, per il lungo isolamento si differenziarono rispetto all’origine, e nel Sud del Paese sono ora piuttosto omogenei fra loro e caratterizzati ormai solo da alcune connessioni coi dialetti dei Balcani. In particolare:

(a) mancano ➔ prestiti slavi e di altre lingue più settentrionali (tedesco), a esclusione di un paio nel dialetto abruzzese ( tiš «tavolo» dal tedesco, e breg «montagna», che potrebbe essere serbocroato), forse dovuti a contatti più tardi;

(b) condividono con i dialetti havato-sloveni (ma con l’opposizione s ~ h) le forme del verbo «essere»: siñommë «io sono» (havato hínum ), forma ignota sia ai dialetti sinti ( som / hom ), sia ai dialetti ‘danubiani’ ( sem / sim );

(c) hanno un’evoluzione simile, con differenze regionali, dovute all’influenza dei dialetti italiani: perdita delle declinazioni nominali, una particolare evoluzione del sistema verbale, forme pronominali semplificate (cfr. Soravia 1977).

La scomparsa del romanes in Sicilia può essere dovuta ad assimilazione in un ambiente molto aperto all’assorbimento di culture diverse. Anche a Napoli l’ambiente cittadino può aver favorito nel tempo l’assimilazione linguistica.

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Il Nord della penisola è interessato da una fascia di dialetti sinti testimoniata già nel XVIII secolo. La presenza di tali gruppi ha determinato una zona ‘vuota’ intermedia, che coincide anche con il confine linguistico nella divisione dei dialetti neolatini in Italia ( ➔ aree linguistiche ; ➔ confine linguistico ).

I sinti del Nord dunque potrebbero essere stati presenti in Italia per diversi secoli, soprattutto i cosiddetti sinti piemontesi , interessati a un nomadismo oltre le Alpi in terra francese, i lombardi e gli emiliani-marchigiani nella pianura padana e adiacenze, nonché i sinti del Nord-est legati piuttosto al mondo germanico e forse di più recente immigrazione (va tenuta presente l’annessione al Regno d’Italia del Veneto nel 1866 e del Trentino-Alto Adige dopo la prima guerra mondiale). I loro dialetti presentano una parziale caduta delle declinazioni e una forte presenza di prestiti germanici, ma in alcuni tratti risultano fortemente conservativi e tutt’altro che impoveriti. Soprattutto sono assai vitali nell’uso quotidiano.

Verso la fine del XIX secolo il quadro cambia e appaiono nuovi gruppi dall’Est. Si tratta di una terza componente, per altro non omogenea, essenzialmente dall’area balcanica, che può risalire agli anni Venti e Trenta del Novecento: sono gruppi danubiani (kalderaša) e rom havati (o istriani) e sloveni. Tale immigrazione è continuata e in certi casi continua ancora oggi, completata da una serie di nuove componenti dalla ex-Jugoslavia, dall’Albania, dalla Bulgaria. Lovara, čurara, ecc. prima, poi xoraxané (ma in realtà gruppi diversi, musulmani e non) dalla Bosnia e dal Sud (čergari, šiftari, ecc.).

Linguisticamente questi gruppi sono raggruppabili in tre grandi insiemi (Soravia 2009):

(a) i gruppi ‘danubiani’, che cominciarono a mettersi in moto dopo l’abolizione della servitù della gleba nei Balcani alla fine del XIX secolo (Colocci 1889: 136-146). Provengono dalla Romania, dalla Russia, dall’Ungheria, e da altri paesi. I loro dialetti sono fortemente conservativi nella struttura morfologica, in quanto mantengono l’uso delle declinazioni nominali, un complesso sistema verbale e una grammatica in generale intatta; ma presentano un lessico ricco di prestiti romeni, ungheresi e slavi. Foneticamente mostrano notevoli fenomeni di palatalizzazione (per influenza del romeno, ma anche dello slavo), del tipo:

(1) kher > čher «casa»

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(2) čhib > śib «lingua»

(3) tiro > čo «tuo»

(b) alcuni gruppi di rom (havati, sloveni, istriani), le cui parlate, caratterizzate da una marcata influenza lessicale slava, presentano, accanto a un conservatorismo morfologico per le declinazioni (forse per influenza del sistema slavo), evidenti innovazioni nel verbo (uso dell’infinito; futuro diversificato dal presente, ma di forma sintetica, ecc.), e mancano dell’articolo. Rari risultano i prestiti germanici;

(c) i ‘nuovi’ rom (giunti negli ultimi venti-trent’anni), il cui dialetto è simile a quello dei rom vlax, con diversi esiti fonologici, e soprattutto con un lessico privo di prestiti romeni, ma con molti lessemi slavi.

Non è possibile né utile determinare oggi (perché troppo fluida) la distribuzione territoriale di tali gruppi: essi si trovano disseminati ovunque, e non solo in sedi ‘vacanti’ tradizionalmente non occupate da rom e sinti dei primi due tipi (Sardegna, Sicilia, Toscana, Marche settentrionali, Umbria). Questi restano tuttora nelle antiche sedi, anche se è vero che i rom abruzzesi hanno mostrato una certa intraprendenza, con emigrazioni nella zona di Roma, ancor prima della seconda guerra mondiale, e oggi nel Nord (Bologna, Milano).

5. Cenni di sociolinguistica

I rom e i sinti danno grande importanza alla propria lingua; essa è il centro della loro identità e l’elemento dominante nel riconoscersi per quello che sono. I repertori linguistici dei rom comprendono più codici ( ➔ repertorio linguistico ), ma sarebbe troppo facile ascrivere il fatto solo a un motivo di utilità pratica o necessità. In realtà il rapporto tra i codici usati non è indifferente, non è mai paritario. Il concetto di diglossia ( ➔ bilinguismo e diglossia ) va usato in relazione a contesti in cui il romanes è il codice meglio conosciuto, ma solo in ambito orale e familiare, mentre lingue di uso allargato (e scritto) sono (o erano) le lingue dei gagé , i ‘non-zingari’, che in Italia si definiscono come varietà di italiano. Tutto ciò aumenta il divario e l’ambiguità del sentimento del rom nei confronti delle proprie competenze linguistiche.

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Uno dei riflessi ‘neutri’ di tale situazione è la mancanza di una concezione puristica, che ha permesso di sviluppare senza remore l’uso di prestiti. Se la norma astratta di uno standard linguistico è rassicurante e garante dell’ordine sociale, e inoltre permette una comunicazione allargata, tale concezione favorisce però solo chi ne sia consapevole, e conosca lo standard. Il rom invece accetta tutte le varietà in nome della comunicazione allargata, ottenuta attraverso la conoscenza e l’uso di quante più possibili varianti. La lingua dei rom non può definirsi povera o meno complessa di una lingua ‘di cultura’, scritta e di lunga tradizione letteraria e scientifica. La ricchezza di una lingua è una questione di bisogni linguistici: crescendo questi, la lingua si adegua. I prestiti, l’utilizzo di ➔ calchi e l’uso libero di moduli derivativi favoriscono la proliferazione di ➔ sinonimi nelle parlate dei rom e sinti (Soravia & Fochi 1995):

(4) skrivin / hramosar / pišin / šrajvar / sejvar «scrivere»

(5) denkar / tinkar / mislisar / pinsin / gindisar / d-go ǧi «pensare»

(6) dukh / doš / tuga / žalija / lajda / nafélë / patnija «dolore»

(7) nasvalimos / namburibé / boljka / naslapen / nasálimo «malattia»

(8) kamimós / radošti / ljubáv / kamlipén / kamipé «amore»

Tra i sedentari è meno evidente la ‘gelosia’ della propria lingua. Così tra i xoraxané sedentari la lingua si insegna senza problemi, mentre tra i sinti la ritrosia è ossessiva e rivela un vero orrore dell’ibridazione. Tra i rom abruzzesi semisedentari la lingua ricompare o come elemento di coesione del gruppo o come fattore criptico di difesa per non farsi capire.

6. Vitalità

La vitalità dei dialetti romanes parlati in Italia va ovviamente correlata alla vitalità riscontrabile più in generale per quei dialetti parlati anche fuori dai confini (sinto-piemontese in Francia e dialetti dei gruppi vlax e balcanici in varie aree anche extraeuropee).

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Per i rom abruzzesi la conoscenza e l’uso della lingua si va affievolendo nelle nuove generazioni. In passato nelle scuole si sono fatti tentativi di valorizzazione, ma in generale oggi sono meno in atto sperimentazioni di tale tipo.

Quanto ai rom calabresi, si può ritenere che la lingua sia estinta e comunque non più in uso da parte delle giovani generazioni, benché la Regione Calabria abbia tentato di tutelarne l’esistenza con una legge apposita.

I sinti piemontesi sono stati oggetto di studio e la lingua è ancora abbastanza viva; ciò non vale per i sinti lombardi ed emiliani che tendono a non trasmettere alle giovani generazioni l’uso della loro lingua.

Diversa la situazione per i sinti del Nord-Est (estrexarja, eftavagarja, ecc.) dove l’uso della lingua, molto esclusivo e gelosamente protetto dagli estranei, sembra vitale. Quanto ai rom havati (o istriani) e sloveni, sparpagliati in varie zone prevalentemente tra Veneto e Lombardia, la lingua non sembra in pericolo di estinzione ed è di uso comune e tramandata alle giovani generazioni.

Le parlate vlax (lovara, kalderaš, ecc.) e xoraxané sono molto vitali, anche in rapporto alla loro ‘internazionalizzazione’.

In generale non esiste una politica in Italia che favorisca concretamente l’uso delle lingue zingare, anche se alcune legislazioni regionali parlano di tutela delle lingue minoritarie facendo riferimento anche al romanes. Pochi gli strumenti per lo studio e pochi i sussidi didattici. Quasi nulli gli spazi nei media .

I vari dialetti elencati sopra sono documentati in modo sommario e in genere insufficiente, a eccezione dei dialetti vlax e xoraxané. Esiste una vasta bibliografia non italiana per le varietà parlate in vari paesi: per es., il kalderaš è ben descritto in Svezia, nei paesi dell’Est europeo, nelle Americhe, ecc., in cui esistono anche traduzioni bibliche, sussidi scolastici, raccolte di racconti, discografia; e l’idioma è parlato da diversi milioni di persone.

7. Letteratura e tradizioni

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Solo da pochi anni si trovano rom e sinti che scrivono. Grammatiche e dizionari, e/o studi sulla lingua, trascrizioni di testi, ecc., erano appannaggio di studiosi gagé , non zingari. Ora esistono lavori pubblicati da zingari anche in Italia. Più in particolare si tratta di raccolte di poesie o di racconti. Come produzione letteraria moderna tuttavia va ricordato che Matéo Maximoff, forse il più noto romanziere rom, scriveva in francese o in tedesco.

Tra i nuovi giovani scrittori, per l’Italia, va segnalato il caso di Bruno Morelli che ha scritto un bel lavoro sulla lingua e tradizioni dei rom abruzzesi, con molti testi in lingua originale e traduzione (cfr. Morelli & Soravia 1998). È un caso pressoché unico, se si eccettuano alcune raccolte di poesie. Sta tuttavia nascendo un movimento di intellettuali rom e sinti che sempre più cerca di risolvere i problemi connessi con il passaggio a una cultura scritta; il che pone in primo piano i problemi della mancanza di una ortografia unificata e della scelta del dialetto da usare.

Di tutto ciò si trova puntualmente riflessa la storia, anche oltre la situazione italiana, nelle 35 annate di «Lacio Drom», la rivista del Centro Studi Zingari di Roma (chiuso nel 2000), che è doveroso ricordare per validità e ricchezza di documentazione.

Fonti

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Studi

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Liégeois, Jean-Pierre (a cura di) (1994), Roma , Tsiganes , voyageurs , Strasbourg, Éd. du Conseil de l’Europe (trad. it. Rom , Sinti , Kalé ... Zingari e viaggianti in Europa , Roma, Lacio Drom, 1995).

Matras, Yaron (2005), The classification of Romani dialects: a geographic-historical perspective , in General and applied Romani linguistics . Proceedings from the 6 th international conference on Romani linguistics, edited

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by B. Schrammel, D.W. Halwachs & G. Ambrosch (Graz, September 12-14, 2002), München, Lincom Europa, pp. 7-22.

Morelli, Bruno & Soravia, Giulio (1998), I Pativ Mengr. La lingua e le tradizioni dei Rom abruzzesi , Roma, Centro Studi Zingari.

Soravia, Giulio (1977), Dialetti degli zingari italiani , in Profilo dei dialetti italiani , a cura di M. Cortelazzo, [poi] di A. Zamboni, Pisa, Pacini, 23 voll., vol. 22º.

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Soravia, Giulio & Fochi, Camillo (1995), Vocabolario sinottico delle lingue zingare parlate in Italia , Roma, Centro Studi Zingari - Istituto di glottologia.

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Viaggio, Giorgio (1997), Storia degli Zingari in Italia , Roma, Anicia.

fig. 1

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