Storia e sviluppi della disciplina del pugilato in Italia

IL PUGILATO DI

Sergio Giuntini [email protected]

Franco Contorbia, uno dei massimi studiosi di Gianni Brera, ha osservato:

La vita e l’opera di Brera sono in attesa di un risarcimento degno dell’una e dell’altra. La sua biografia è ancora in cerca d’autore. La formazione alla periferia del giornalismo sportivo italiano; la partecipazione alla guerra fino al vischioso rapporto con il fascismo repubblicano pavese; la scelta, infine, nel maggio 1944, della guerra partigiana sono temi che Brera non ha mai affrontato di buon grado, finendo per coinvolgere i suoi agiografi in un sistema di interdizioni mai venute meno negli anni […]. Lo stato degli scritti si presenta anche più desolante. Intanto, sembra davvero indifferibile l’allestimento di un compiuto inventario dei testi che Brera ha disseminato ovunque con sovrana e un po’ disperata nonchalance; e il soccorso di una filologia duttile, non ossessiva ma nemmeno cialtrona, non potrà che propiziare una selezione capace di superare la soglia della decenza e una “descrizione” plausibile dei suoi stupefacenti strumenti formali e delle sue inattingibili qualità onomaturgiche1.

Queste riflessioni confermano quanto resti ancora da fare nell’approfondimento della vicenda umana e giornalistica del pavese nato l’8 settembre 1919 a San Zenone Po. Un’esperienza in gran parte da riscoprire, che offre un enorme ventaglio di possibili interpretazioni e chiavi di lettura. All’interno di questi territori breriani da esplorare, uno dei meno frequentati è dato dal pugilato: disciplina che egli amava (tra gli innumerevoli pseudonimi utilizzò pure quello di Jab, il diretto portato col pugno avanzato) e conosceva bene sin nei suoi risvolti più suggestivi: «La boxe è un’altra cosa» – ebbe ad affermare – «e io sono con San Bernardino, che la raccomandava tanto ai suoi parrocchiani senesi: arrumpetevi lo volto per li pugni et non per li pugnali, che occidono villanamente»2. Un amore autentico mai reciso, e a dimostrarlo bastino quell’«era uno dei nostri»3 col quale, sulla rivista della Federazione Pugilistica Italiana, Roberto Fazi gli tributò l’estremo saluto, e il commosso epinicio dedicatogli, il 24 dicembre 1992, dal figlio Franco: «Metti a posto la coscienza e poi vai a giocare in giardino, quel meraviglioso giardino pieno di amici che ci è stato donato. Per lui nel giardino c’erano una Olivetti 32 e i guantoni da boxe – come sport fra amici, senza farsi troppo male – un pallone da football e un aeroplano da cui saltare»4. Dunque, mentre il Brera del football, del ciclismo e dell’atletica leggera è già stato oggetto di adeguate attenzioni critiche, non altrettanto può dirsi per la boxe, che fu invece uno degli sport da lui praticati in gioventù e il tema di numerosi articoli e scritti di notevole interesse. Qui si cercherà di colmare tale lacuna, andando alla ricerca delle più significative tracce lasciate da Brera anche in questo specifico. Un modo per valorizzarne l’immensa maestria e la personalità versatile, capaci di misurarsi con successo nei più disparati campi dello sport.

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1. Il Brera pugile

Nella biografia di Brera il pugilato irruppe di prepotenza negli anni da universitario a , ateneo presso la cui facoltà di Scienze Politiche s’immatricolò il 27 ottobre 1938. Fin lì si era dedicato al calcio giocando da center-half metodista nei ragazzi del allenati da Adolfo Baloncieri. A Milano, oltre a giocare con i Boys rossoneri, frequentò anche le prime due classi dell’Istituto Tecnico di Corso Vercelli e, probabilmente, fu in questo periodo che iniziò a mostrare interesse per lo sport pugilistico. Ciò si evince da uno dei tanti frammenti che riaffiorano sondando a fondo la sua sterminata produzione: «Milano, Porta Venezia. Primi anni trenta. La palestra del gruppo rionale è in via S. I pugili vi si allenano ogni giorno sotto la guida di B. ex campione di mezza tacca. B. è bravo e diligente. La squadra del gruppo si distingue fra tutte. Vi figurano campioncini di talento. Ogni settimana hanno luogo riunioni alle quali si può assistere gratuitamente»5. Un semplice squarcio pugilistico che prelude tuttavia all’abbandono definitivo del football per la sua nuova passione sportiva. Quella boxe di cui, riferendosi ad alcuni dei primi round sostenuti, conservava il seguente ricordo consegnato a un pezzo del :

Ah, la nasa: prima il calcio, a unghia nuda, d’una puledra; poi il gradino di una machine- pistole. E fra i due eventi i pugni di Lambrini, del quale ero sparring partner in vista dei Littoriali. Picchiava così forte che non sono nemmeno più sicuro del suo cognome, e quando un pugile emigrato in USA raccontava di aver implorato Armstrong di risparmiarlo (don’t kill me, please, dont’ kill me), e il negro spregioso “shut up, lousy wop!”. E giù botte, la gente in ascolto rideva, io sentii stringersi la gola, e un brivido scendere dalla nuca alla sedia: ricordai Lambrini, quei diretti sotto i quali ballonzolava il cervello, quasi che il cranio fosse troppo più grande della materia cerebrale, i suoi uppercuts destri alla regione cardiaca, e il capo rombante, il ghigno d’un inquilino di me stesso che usava sedermi sulla spalla, le sue parole avvilenti e vili: scendi da questo ring idiota, sfilati i guantoni e scagliali in faccia a costoro di cui temi il giudizio morale: non sei un pugile: non devi rovinarti: questi pugni di sedici once incretiniscono lentamente: più lodi riceverai dall’istruttore, meno brillanti saranno i voti sul libretto. Come al liceo quando eri bravino nel calcio: più estese le laudi, più bassi i voti in pagella6.

Insomma gli esordi da boxeur del “Gioannfucarlo” non furono esattamente dei più facili. Tutt’altro. Pur usando il suo tipico tono antieroico e smitizzante raccontano di un naso subito malmenatogli da tal Lambrini, l’impietoso protagonista di quell’iniziazione agonistica. Un naso che, come vedremo in seguito, ritornerà ad incrociare evocativamente la biografia breriana richiamando in forma narrativa il suo passato da onesto pugilatore dilettante e, parimenti, la sua partecipazione (anch’essa il più antieroica possibile) alla Resistenza. Sempre riguardo a quella breve stagione pugilistica, Brera ci ha regalato un altro episodio affidato stavolta alle colonne di che presenta, rileggendolo attentamente, talune patenti analogie col ricordo precedente. Anche qui si palesano la “morale”, la dura legge del ring e, insieme, la crescita di un Brera-pugile tenace e coriaceo. Privo, non v’è dubbio, di quel talento che avrebbe riversato nella scrittura, eppure capace di cogliere e apprezzare pienamente tutti i valori racchiusi fra le quattro corde; di trarne quindi una lezione di vita che più avanti (alla stregua della sua avventura paracadutistica) gli sarebbe tornata sicuramente utile:

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Dal mio subconscio emerge un ricordo simile a una botticella di veleno che inaspettatamente aggalli dal fondo di una palude melmosa. Nel mio personale epos c’è anche questo, e lo considero onesto proprio perché negativo. Boxando, senza sapere, da autentico sparring partner – perché nessuno aveva intenzione di portare al combattimento un traccagno greve di ossa qual ero io – è accaduto anche a me di subire un knock down e proprio da un terz’anno di Medicina che era un guardia falsa, cioè mancino. Si chiamava Fiori, ed era nativo dell’Oltrepò. La sua morfologia era del lungilineo, dunque elegante, ed io la facevo da sacco nella speranza di tutti. L’allenatore mi disse: “Contro i mancini bisogna tenere alto il guantone destro: perché il loro secondo pugno è il sinistro, non il destro”. Fiori saltava prudente intorno a me, che dispensavo jab velleitari: presi tanta confidenza che, alla lunga, anche quel fragile terz’anno partì col sinistro ed io mi trovai d’incanto seduto sulle chiappe. Udii qualche risata, qualche applauso compiaciuto: e subito sentii serpeggiare dentro tanta rabbia. Mi sollevai quasi facendo molla dei glutei e subito cercai vendetta. “Entra di destro” mi suggerì sottovoce l’allenatore. Agii col destro portando pugnattoni lenti e grevi: i guantoni erano di 16 once, a dir poco deleteri. Fiori prendeva il cazzotto sul naso e sui denti e, scosso, girava cercando invano di eludere i miei attacchi incalzanti. Io insistetti pieno di puntiglio. Evidentemente l’allenatore non desiderava vedere me all’opera ma constatare che quel Fiori aveva evidentemente poco temperamento: ci riuscii appieno: presa una decina di destri, il futuro medico chiese all’allenatore di poter chiudere la seduta. L’allenatore mi oppose allora la palma aperta e disse: “Bravo!”. Io mi volsi a guardare gli amici, anzi i nemici che avevano riso. Dopo anni, riandai a quell’episodio per mettere in evidenza il fatto che, subito un knock down folgorante, avevo trovato la forza per togliere la voglia a chi me lo aveva inflitto. Lo ricordai anche a qualche amico-nemico presente a quell’allenamento. Con mio deluso stupore, notai che ricordavano soltanto il cazzotto che mi aveva seduto di netto, non la poderosa serie di destri con i quali avevo spoetizzato l’elegante terz’anno di Medicina. In seguito, mi dovetti convincere che tutti noi ricordiamo quel che ci garba. Il resto lo rimuoviamo volentieri7.

L’obiettiva consapevolezza dei propri limiti è da ritenere sia stata la principale causa che indusse Brera ad appendere precocemente i guantoni al chiodo. Tant’è, sebbene con qualche distinguo non del tutto condivisibile, questa ragione pare trasparire anche dalle parole di . Il noto giornalista di pugilato, nonché suo fidato amico, che in un accorato omaggio nell’immediatezza della tragica morte ne ripercorse così le fugaci gesta da boxeur: «In gioventù prese parte ad un torneo pugilistico dei Littoriali per universitari fascisti o pseudo tali. Forse la boxe gli sembrò troppo umile, troppo dura, troppo rozza, troppo bisognosa di sacrifici […] e dopo una sconfitta, l’allora ammiratore di Saverio Turiello, la ‘Pantera di Milano’, e di Marcel Cerdan, il ‘Bomber marocchino’, si sfilò i guantoni per arruolarsi nell’aeronautica, pupilla di Italo Balbo e del regime»8. Comunque sia, quei mesi o pochi anni da boxeur lasciarono un segno duraturo nella storia umana di Brera: a sonori pugni, nelle tribune dello stadio di Brescia per una partita tra i padroni di casa e il Torino, negli anni ‘60 risolverà un’antica divergenza d’opinioni tattiche (il suo leggendario “ e contropiede” contro la “poesia dell’attaccare” della scuola calcistica napoletana) col collega-nemico Gino Palumbo9. Non finirono in uno di quegli scantinati dimenticati (o rimossi) della memoria, cui alludeva l’articolo poc’anzi citato. La riprova si ha dalla ricchezza di immagini e ritratti pugilistici che egli traspose nelle sue cronache. Una raccolta di pagine argute e colte sulla boxe di cui forniremo alcuni assaggi.

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2. I campioni di Brera

Da ex paracadutista e poi da ex partigiano10, Brera, su invito di Bruno Roghi, appena cessate le ostilità approdò a firmandovi il primo articolo il 18 agosto 1945. Roghi l’aveva voluto alla sua corte “rosa” perché si occupasse di atletica leggera e, diligentemente, Brera si specializzò anche in questa materia di cui agli inizi era piuttosto digiuno. Alle Olimpiadi di Londra, nel 1948, con i suoi servizi coprì l’intero programma atletico, ma nel contempo ebbe il compito di scrivere pure del torneo di pugilato. Un’opportunità che non si fece sfuggire, esaltandovi soprattutto la classe espressa dal campione ungherese Laszlo Papp. A questo proposito Claudio Gregori, in un prezioso studio sulla lingua di Brera, ha evidenziato come quelle cronache olimpiche forgiarono un nuovo lemma, “incuorare”, uscito dall’”officina” breriana. Per la prima volta questo termine, traducibile con “confortare con forza”, appare in un articolo per La Gazzetta dello Sport del 10 agosto 1948 laddove Brera, rendendo conto degli incontri di boxe all’Empire Pool, scriveva di «gente che perde la flemma solo per incuorare i suoi»; e successivamente in un pezzo del 14 agosto 1948, relativo al match Papp-Wright, nel quale ritornava in questa frase emblematica: «Le sventole di Papp lo suonano ben presto e invano il pubblico lo va incuorando»11. Brera, per , seguì anche le gare di boxe dei Giochi olimpici di Melbourne nel 1956. Mentre Papp vi conquistò il suo terzo oro consecutivo, gli italiani rimediarono una serie di risultati inferiori alle attese. Un esito davvero poco lusinghiero registrato con questa onestà intellettuale da Brera: «Eliminato anche Nizzola nella lotta libera, un ‘argentino’ e un ‘bronzino’ giungono dal pugilato. Nenci, giunto in finale non so come, ma probabilmente per modestia premiata, è stato battuto ad opera dei semplici comodi prudenti jabs sinistri del corretto russo-armeno Enguibarian. Nenci si agitava per trovar la misura, in ciò scusabile solo per la sua ferita sopracciliare, peraltro rimasta chiusa: attacchi disordinati, imprecisi, impotenti. Il russo lo toccava coi soliti jabs e Nenci arrembava invano. Persino tentava il forcing. Un incontro delusivo e un verdetto (purtroppo) giusto»12. La vera scuola di giornalismo e di vissuto pugilistico alla quale si formò Brera va per altro vista nel viaggio da free lance che, dopo essersi dimesso da direttore della Gazzetta nel novembre 1954, compì negli Stati Uniti. Qui scoprì il vero pianeta-boxe, redigendo dei brillanti reportage per varie testate tra le quali , Tempo e L’Equipe parigina. A comprendere il significato che questa trasferta Oltreoceano ebbe nel rapporto coltivato con la boxe sono illuminanti alcune sue severe opinioni circa i motivi che, nel nostro Paese, avrebbero ritardato la nascita di una buona scrittura pugilistica:

In Italia, almeno rispetto alla grande realtà americana, il pugilato non esiste, non è mai esistito più di tanto. Per me, si è sempre trattato di un’appendice gladiatoria. I pugili erano tipi di infima origine, che poco avevano da raccontare. E’ insomma mancata l’ispirazione perché non c’erano i pugili. E’ la stessa storia della nostra vita civile […]. Fino agli anni Venti la boxe da noi era una barzelletta; se paragonata a quella che veniva allestita Oltreoceano. Io qualche pugile l’ho conosciuto bene: Spalla ad esempio è stato mio sergente nei paracadutisti. Ma non era un campione: opponeva all’avversario la testa, che aveva dura come quella degli aborigeni australiani, per cercare di spezzare i polsi a chi lo assaliva. Più che boxeur in senso classico, la maggior parte dei nostri atleti mi sembrava gente che litigava, che faceva a botte su un quadrato invece che all’angolo delle

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strade. Chi salvo? Locatelli, sicuramente. E il meraviglioso Orlandi fiorito a Milano. Ma i tecnici mi dicono che fosse un pestapepe: tanto bello a vedersi quanto sprovvisto del cazzotto che ti spedisce culo a terra13.

Secondo la tesi di Brera, al solito molto forte e opinabile, essendo sostanzialmente mancata la qualità dei pugili era di conseguenza mancata la qualità dello scrivere di pugilato in Italia. Un’altra vera noble art (e come dargli torto pensando ai London, Lardner, Hemingway, Runyon, Mailer, Shulberg, Oates ecc.) che, proprio durante trascorso in America, egli cercò di apprendere attraverso il contatto diretto con quel mondo pugilisticamente tanto avanzato. Su Marciano scrisse ad esempio un famoso articolo impressosi indelebilmente nella memoria di Giuseppe Signori: «Me lo ricordo bene perché un giorno Brera mi chiese di dettare al Messaggero un suo pezzo su Rocky Marciano. Per ringraziarmi, voleva darmi mille lire che era, appunto, quello che io prendevo per un giorno di lavoro all’agenzia. Resistetti virtuosamente alla tentazione di accettare: gli dissi che mi bastava aver letto prima di tutti quell’articolo per ritenermi largamente remunerato. Era la verità. Perché mi aveva fatto capire che, se si poteva arrivare a quel livello scrivendo di sport, la mia scelta di vita non era poi così sballata»14. Ugualmente celeberrimo, e all’origine di grosse polemiche, è l’articolo che trasse da un’intervista fatta a Los Angeles a Primo Carnera. A destare scandalo risultarono le parti del testo in cui Brera strappò a Carnera alcune confidenze sulla presunta omosessualità del principe Umberto. A detta di Carnera, egli avrebbe trascorso un afoso pomeriggio napoletano presso Villa Rosebery a Posillipo, in compagnia dell’erede al trono d’Italia il quale «lo aveva ricevuto in costume da bagno e lo aveva pregato di fare con lui una nuotata in piscina. Poi avevano trascorso insieme, da soli, il pomeriggio»15. In questo caso Brera approfittò della ingenua semplicità di Carnera, che cadde facilmente nelle trappole tesegli dal giornalista pavese. Un “colpo sotto la cintura” di cui, forse pentito, tentò di fare ammenda ritornando in molte occasioni sul massimo di Sequals. Intanto gli dedicò un capitolo (per altro dal titolo non propriamente elogiativo: «Un Everest di polenta») della sua raccolta del 1959 Il sesso degli Ercoli: ovvero 16 lettere sportive (corrispondenti al ritratto di altrettanti campioni o uomini di sport) indirizzate a Mario Soldati. Più avanti, per la morte di Carnera definito ora «uomo buono e candido, con un solo vero nemico al mondo: l’orrida fame dei poveri», si spinse anche oltre facendo queste promesse e, in un certo senso, questa sentita autocritica:

Ho deciso: al povero Primo gli dedicherò un libro. Lo venero come uomo onesto e buono: a pensarci, è più raro dei santi, in questo paese pur tanto ricco di lunari. Sono stanco, la pagina bianca si è riaperta sotto i miei occhi fatti torbidi dalla desolata mancanza di un mago ciclomaniaco: mi ha preso per giunta il grave rimorso di aver potuto dimenticare. Ora il sorriso mesto di Primo pur mo’ giunto al paese mi consola. Al diavolo voi, compagni di latrocinio pedatorio […] l’ideale uppercut di Carnera è una carezza che ci fa vergogna: non ha vibrato mai così dolce: l’ha appena accennato ma per confonderci tutti. Al famoso bivio celeste, il diavolo riceverà quello stesso pugno in pieno ventre. Allora il vecchio san Pietro, per solito molto distratto, crederà di aver sentito fragorosamente sonare alla porta del paradiso e aprirà subito, ma senza doversi pentire16.

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E poi nel 1987, a vent’anni dalla sua scomparsa, Brera celebrerà ancora Carnera condensandone la carriera in queste righe sincere che resistono all’usura del tempo:

Immense bistecche placano il senso morale d’un friulano ribelle. Non basteranno, ahimè, a liberarlo dal terrore di uccidere. I suoi goffi pugni si sopravvalutano: a meno che non c’entri l’orrore gratuitamente provocato dalla regia. Primone veleggia come un galeone cieco in mari che indovina soltanto procellosi. Ciccilluzzo Cacace non ha bisogno di mostragli nulla. Volano scommesse per le quali Léon Sèe passa per traditore agli occhi dei fratelli suoi. A guadagnarci è Cacace. Il riscatto razziale si perfeziona anche negli angoli di un ring. Succede finalmente che un lituano con lo pseudonimo di Sharkey si pieghi intronato sotto i tonfanti mezzi sacchi di mais che sono i pugnattoni di Primo campione del mondo. È il 29 giugno del 1933. Il 14 del giugno seguente è Max Baer, bellissimo fratello in sinagoga, a vendicare i traditi da Léon. Siamo al ludibrio completo. Vengono contati 12 knock down: il che vuol dire che per dodici volte un’Himalaia di polenta si è rovesciata fumante sul pancito (the canvas: il tappeto): i boati sopraffanno l’elefantiaca mole indotta a franare con mugoli di colpi irridenti. Max Baer è uno sbruffone vendicatore. Santo Primone sopporta ricordando Sequals. Le apparizioni europee sono propiziate da altri Wops di casa, nerovestiti e ornati di teschi esorcizzanti la morte e la paura medesima. L’infatuazione razziale ha confini illimitati come la ridicolaggine17.

E da Carnera a Erminio Spalla, il primo italiano a vincere un titolo europeo. Un altro massimo col quale Brera instaurò un sodalizio assai intenso, cementato dalla comune appartenenza in guerra al corpo dei paracadutisti. Questo il medaglione dedicatogli nel 1982:

Il povero pugilato italiano è ancora fatto di rissaioli imbulliti dalla jattanza. Peraltro, Erminio è di animo mite e un pigro giornalista napoletano lo chiama “Occhiovivo” intrattenendolo in meditate partite a scacchi. Fra un pugno (preso) e l’altro, sente fiorire estri narrativi ai quali non osa credere ancora. Diventa campione d’Europa incontrando Van Der Weer all’Arena di Milano. Come lo sa più forte e tecnicamente più ferrato, gli oppone subito la volta cranica, sulla quale Van Der Weer si schianta un polso. La sua teca cranica deve averci l’abnorme spessore degli aborigeni australiani, i quali infatti usano percuotere i loro bambini solo sulla testa! Insignito del titolo europeo, Erminio cerca fortuna sui ring meno paesani del nostro. Agli States, conosce Tunney, che si degna di istruirlo un poco, prima di chiudergli entrambi gli occhi con spietata eleganza […]. La tecnica di Erminio permane rudimentale e si avvilisce in incontri fondati sulla scherma. Lo detronizza Paolino Uzcudum, un terribile picchiatore basco. Allora fa il cazzottaio di ventura. Soddisfa il suo squassante appetito offrendosi con stoicismo al talento dei più giovani. Non è più tanto vivo il suo occhio quando appende i guantoni al chiodo, ma l’appetito rimane. Ha qualche soldo, si costruisce una casa a Marino, dove trova qualche parte nei film patriottici. I milanesi imparano a conoscerlo nelle vesti del basso al Puccini e al Lirico. Ruggisce romanze famose con impeto commovente: certi suoi urli ripetono il ruzzolare di un sacco pieno di lattine e di cul di bicchieri. Se stona, come gli succede spesso, viva Erminione l’istessamento!18

Tra i boxeur apprezzati da Brera vi fu anche Tiberio Mitri, del quale nel 1949 sgrezzò questo profilo tecnico: «Tiberio ha ventitre anni ed è già un campione. La sua boxe è semplice, lineare, diremmo anzi un tantino scolastica. Piacerebbe agli inglesi: piace a tutti quando il combattimento non sia tale da esigere maggior scioltezza di pugno ed eguale uso del sinistro e

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del destro. Questione tutta di guardia disinvolta e di distanza, insegnano i maestri. E Tiberio, non certo incauto, tiene molto alla guardia tradizionale, con il tronco ben rotato a destra… Possedesse completa la tecnica degli americani […] nessuno potrebbe pensare che, morto Cerdan, vi sia oggi un uomo in grado di batterlo»19. Uno sfoggio di competenza tecnica, replicato nel 1968 da Brera nella descrizione del modo di stare sul ring del sardo, «brevilineo tozzo e forte», Salvatore Burruni: «Tore guardia giusta: pugno destro a far da mensola al mento, pugno sinistro proteso a chiudere i varchi verso il viso, gomito sinistro abbastanza aderente al corpo (il destro addirittura schiacciato) […]. Tore fa la sola cosa che gli tocca: entra a ridurre le distanze per i suoi corti uno-due. Il suo destro non è squisito se appena si allunga (capita a molti tarchiatoni par suo e mio). Contro una guardia falsa. Il destro diretto sarebbe prezioso: Tore ghe l’ha minga, por nan e rischia molto riducendo le distanze»20. Ancora: ecco come il sanzenonese giudicava l’approssimativo bagaglio pugilistico di un Francesco De Piccoli che, pure, si laureò campione olimpico a Roma 1960: «Ho visto due o tre volte De Piccoli all’Olimpiade di Roma. È un pestone di uno-due. Colpi tesi, non uno. L’uno-due è ovviamente largo, e si porta a piedi quasi pari. Se l’avversario ti arriva teso, e d’incontro, finisci a terra facile. De Piccoli non ha scherma. Picchia largo e va là che vai bene. Se tocca primo, capace che se la sfanga. Se non arriva a toccare quasi sicuramente busca»21. La profondità, talvolta perfida, dello sguardo tecnico di Brera si evince altresì dai brevi passaggi con cui rievocò il terzo incontro Benvenuti-Griffith nel 1968. Una sfida cesellata in questi pochi tocchi, capaci di coglierne l’intera sostanza: «Poi la bella, con l’arbitro conterraneo che consente il clinch ma lo dissolve subito in break (rompi, dividi) così che il negro non dia cornate a suo modo, e accorciando le distanze non infierisca con le sue braccia tozze e potenti. Il sinistrino aspideo di Nino costantemente vibrato a sbarrare. E il misterioso destro d’incontro che pochi hanno veduto ma che Griffith ha sentito benissimo, e lo ricordava pure, e se ne stupirono i cronisti ai quali era sfuggito»22. E che dire della vivacità creativa di questo articolo sul “titanico” Joe Frazier-Alì valido per la corona dei pesi massimi nel 1971? Alcuni stralci sono sufficienti a misurare il valore della sua scrittura pugilistica:

Qui sono al dunque con la cronaca. Non posso rifarla, benché abbia annotato tutto, e sia in condizione di precisare quante sventole sinistre si è preso il signor Mohammad. La sventola sinistra è stata la protagonista effettiva dell’incontro: il colpo vincente. Mohammad l’avrebbe sempre schivata se avesse avuto gambe. La sventola è un pugno da brocchi o da paurosi: è larga viene di lontano come una mazzata, ma raramente arriva ed è precisa. Questa di Frazier è stretta fino a giustificare - ma poco - tutti coloro che la definiscono a gancio. Quando Mohammad se la becca sulla mandibola, parte destra, scuote il crapone come a dire: l’è nagotta: che mi frega a me di questo colpo sbirulento!? Invece gli frega eccome: perché anche il fatto di scuotere la testa a quel modo è garanzia di sonatura: le gambe del bellissimo Mohammad non sono più. Tutto il suo sistema di guardia cade mancandogli il balzo (fo per dire) all’indietro: ecco perché si becca tante sventole: e si suona e scuote il capo: ma d’un tratto sbarra anche gli occhi: il terrore li ha invasi, come un contagio sinistro. Dal quinto round si appoggia alle corde. I suoi jab si sono fatti radi, come gli uppercut, poco precisi, e i diretti, spesso fuori tempo […]. Clay riesce a vincere due round, il 9 e il 10, tentando l’ultima carta: la fallisce, è stremato: l’11° risulta un calvario. Impressione che Frazier lo risparmi, tanto è fermo e allocchito. Ma non teniamo conto che Frazier è stanco del troppo picchiare: che ha sparato gragnuole di colpi faticosi, quasi mai eleganti jabbetti: uno-due e la clinch, uppercut in uscita; di nuovo

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la sventola, la clinch per stare in piedi, la scarica penosa mentre Mohammad si nasconde dietro ai guantoni, ormai annullato. Ho fatto boxe e ho visto mille e mille incontri: però confesso che questo è stato tale da serrarmi la gola. Ho provato ammirazione per Frazier - il pugile meno brillante nel repertorio - e umana pietà per Mohammad, che è di stile europeo, gioca di rimessa, mai in forcing, ma non può più danzare perché si è appesantito, è avanti con gli anni, è stato fermo troppo a lungo23.

Infine uno scorcio breriano tratto da un “Arcimatto” incentrato su un George Foreman- Frazier: «Foreman porta pugni nuovissimi, che chiamerei uncini montanti: così alto e imponente da non dover cercare altri colpi. Tracciano falci mortali nell’aria i colpi a vuoto. Ben presto coglie due volte il destro (io grido e non mi vergogno: sono fra amici, ho appena pianto su una vigna incolta): il secondo è un colpo vietato: arriva al mento di Frazier con il dorso esterno della mano: ma sale dal basso, è un colpo apparentato all’uppercut: Frazier intronato e sicuramente votato a vicinissima morte»24. Come questa panoramica crediamo abbia adeguatamente documentato, nonostante le previsioni un po’ troppo pessimistiche sul conto di Clay-Alì, Gianni Brera fu dunque un vero e proprio esperto di boxe. Dalla pratica giovanile ne apprese la teoria, e il resto venne da sé. Su questa base innestò cioè via via le sue straordinarie, inesauribili doti di narratore creativo. Quella stoffa che, per giudizio ormai unanime, ne ha fatto il maggiore giornalista sportivo italiano del secolo scorso.

3. Viva il pugilato!

Brera esercitò il suo estro “parolibero” in particolare sul Guerin Sportivo. Il settimanale a cui collaborò in vario modo per trentasette anni, fra il 1939 e il 1976, e che diresse dal 1967 al 1973. Su questo foglio-palestra poté liberare sfrenatamente il suo lussureggiante immaginario e la straripante fantasia linguistica, senza tralasciare però d’occuparsi, talvolta, anche di temi seri e importanti. Fra questi, in un frangente, scrisse della cosiddetta violenza e brutalità della boxe, affrontandovi la questione tragica delle morti sul ring. Si tratta d’un articolo dell’aprile 1963, scevro di pregiudizi e falsi moralismi, che merita di venir riprodotto integralmente e senza commento, offrendo un’ulteriore prova plastica di quanto Brera interpretasse a modo suo, ma sempre con intelligenza-schiettezza-paradossalità-provocatorietà, le varie sfaccettature della dimensione pugilistica:

Sono morti due pugili, di questi giorni, ed ecco che io parlo serio di boxe. La dobbiamo sopprimere? Mai! Altrimenti come educhiamo la gente a vedere e capire quanto sia brutale esercizio lo scambiarsi pugni? Sembra una boutade banale? Neanche un po’. Per dimostrarlo, faccio un esempio indiretto. Perché vi piacciono i western in genere e i films di indiani in particolare? Perché cavalcate senza pericolo lungo splendidi fiumi, attraverso praterie verdi e incantate. Togliete la pistola dal fodero e la fate roteare tenendo il polpastrello dell’indice sul grilletto: e ogni colpo è un morto. Siete agile, selvaggio, felice. Perché? Quel che vi è rimasto di unno nel subconscio sfoga in così pacifico modo. All’uscita vi dite ebbramente che non vi debbono pestare un callo perché altrimenti sono sfracelli. E andate tranquillamente a dormire. Poi, le immagini esaltanti si appannano via via sullo specchio della memoria. Però lo sfogo è avvenuto. E aspettate l’altro film per quando siete di nuovo zeppo di urgenze unne. La stessa cosa avviene

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durante e dopo gli spettacoli pugilistici. Spaccate l’”altro” in un battibaleno: date valore autentico ai pugni vistosi che non arrivano e siete disposti a strozzare l’arbitro che si manifesta di diverso parere. Finito il pestaggio, dentro di voi si è placato il gladiatore che certamente sopravvive in tutti: o diversamente lo tacita l’orrore, mettendolo in minoranza di fronte alla vostra coscienza, che è ispirata dal più nobile sedime cristiano. Troppo capzioso? E allora ciccia. Parliamo più schietto. Fra un guaglione che si spiega a onesti cazzotti e un altro che caccia il coltello, io preferisco il primo. Non ricordo mai il nome del gentiluomo inglese, magari un po’ fatuo, che ha scoperto the noble art come definizione. E’ stato ipocrita o soltanto raffinato nell’esprimere una realtà fin troppo crudele? “Ecco, ladies and gentlemen, avrà detto quel lord: in giorni di così facili coltellate, chi riesce a difendersi con il solo uso dei suoi pugni merita un diploma di nobiltà: salva il proprio corpo dall’offesa e perciò va lodato, non soltanto perché evita danni, ma perché onora squisitamente nel proprio corpo un dono meraviglioso del buon Dio”. Gracchierà ora il tremebondo odiatore della noble art: ma noi, siamo contro il pugilato appunto perché “danneggia il dono divino del corpo” e anche l’altro, ancor più sublime, dello spirito! Ah sì? Benissimo. Incominciamo a contare i morti. Quanti, nel mestiere assai duro e spesso drammatico ma non sempre tragico del pugilatore? Ogni tanto qualcuno. E quanti nei nobilitanti mestieri del sabbiatore, del fonditore, del marinaio, dell’autista, e in quelli più divertenti, forse, ma non altrettanto nobilitanti della battona, dell’acrobata, del domatore e del tagliatore di canna da zucchero? Chissà perché i mistici difensori della persona umana non scendono qualche centinaio di metri sottoterra a veder cavare carbone, e non pensano – senza eccitarsi morbosamente – a una flotta con fior di negri che si avventa in franchigia negli angiporti, e concupisce e sfoga mediante denaro? Qui dovremmo giungere a particolari avvilenti, ma una manciata di spirochete pallide messe a giacere, guizzanti anguille, nel sangue d’una poveraccia che ne farà contagio, non sono più dannose d’un uppercut vibrato secco secco alla mascella? Dice: siate casti e non avrete fastidi. L’ha scritto anche un medico grafomane, ai miei tempi cascherecci. Lui era castissimo. Ha sposato dopo lungo spasimare una ragazza che non aveva avuto la sua pazienza. Ma naturalmente non se n’è accorto. Siamo casti, siamo buoni, siamo onesti e generosi. Siamo, congiuntivo esortativo e non indicativo, com’è ovvio. Però si può essere anche il contrario, dal momento che insorgono costantemente in noi naturalissimi istinti. Se cattivi, disonesti e ingenerosi siamo per sola partecipazione e sfogo indiretti, non è meglio? Ma qui il discorso si fa lungo, più difficile, e forse conviene cambiare argomento. In ogni modo, viva il pugilato!25

4. “Naso bugiardo”

Gianni Brera declinò il pugilato anche in letteratura. Nel 1948 ultimò un racconto, Lezione di pugilato, la cui prima stesura risaliva all’anteguerra26, e nel 1977 diede alle stampe per Rizzoli il romanzo Naso bugiardo, ripubblicato nel 1998 – senza alcuna variazione rispetto all’originale – col titolo di La ballata del pugile suonato. In una sorta di premessa («Prepotenza di Claudio ‘Gugia’ Orsini’») a Naso bugiardo, Brera scriveva quanto segue:

Quando ho deciso di dedicare un pezzo a Claudio Orsini, figlio e nipote di altrettanti Gugia pianarivesi, mi trovavo in vacanza a Monterosso, dove pioveva ogni giorno. Preparai una decina di fogli accanto alla macchina da scrivere e mi proposi di contenervi la giusta esaltazione di quel mio compaesano divenuto celebre negli ultimi anni trenta. L’articolo mi era stato richiesto per la pagina letteraria del quotidiano presso il quale

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tuttora mi guadagno la micca. Avrei detto del Gugia come era stato grande nella categoria dei medio-leggeri, una delle più classiche; avrei descritto il suo stile paragonandolo a quello dei grandi maestri: soprattutto avrei rivelato i motivi, per me abbastanza insoliti, dai quali era stato indotto a farsi pugile un così mite e civile ragazzo di campagna. Presi a battere assidui polpastrelli sulla tastiera e presto mi si configurò il Gugia come lo ricordavo da piccolo. Alla fine dei dieci fogli preparati accanto alla macchina, il Gugia era ancora garzone del Felice Maineri, che teneva bottega da meccanico ciclista a Milano, in Via San Gregorio, angolo Via Tadino. Benché perplesso la mia parte, decisi di andare avanti - pioveva sempre - e di cavarmela in non più di due puntate neppur tanto lunghe. Dopo altre dieci cartelle, il Gugia era soltanto un pugile famoso in tutta Europa e nulla ancora si diceva di lui fattosi uomo in Russia e a Pianariva, nulla di quanto gli era accaduto negli anni in cui finalmente si era fatto uomo27.

Partendo da questo abbozzo, Brera s’inoltrò lungo i sentieri d’un romanzo tout court divenuto il dovuto omaggio al suo pugilato e a quella Resistenza combattuta nelle valli ossolane con il nome di battaglia di “Gianni”. Il Gioann di sempre, lontano da qualsiasi forzatura eroica o superominica. In questo quadro s’iscrive pertanto Naso bugiardo: un’opera che, mescolando sport e guerra al nazifascismo, narra di un boxeur (il Gugia, il furbo) che manderà due volte al tappeto il Reich tedesco: prima vincendo a Berlino il campionato europeo contro il teutonico Karl Wieneker, poi lottando da partigiano della Volante “Gramsci”. Ambientato non nell’Ossola ma nella sua ancestrale Bassa pavese, il romanzo appare fortemente intriso di autobiografismo e, come detto, nel testo riaffiorano nitidamente sia il suo passato pugilistico giovanile e la sua conoscenza degli ambienti (il manager di Gugia si chiama Raffa, come il manager milanese dell’epoca: Bruno “Raffa” Zambarbieri), sia l’intensa vicenda da aiutante maggiore della 83ma Brigata “Comoli”, un reparto appartenente alla seconda Divisione Garibaldi “Redi”. Tant’è scorrendo Naso bugiardo ci si imbatte ripetutamente in episodi e personaggi che rimandano al vissuto del partigiano “Gianni”. Al pari di Brera (che, grave colpa, aveva persino firmato alcuni articoli per l’organo pavese della Repubblica Sociale Italiana) anche il Gugia giunge alla Resistenza zigzagando pericolosamente: deve insomma conquistarsi la fiducia dei compagni, convincerli delle sue autentiche intenzioni e idealità, di non essere un bieco e opportunista voltagabbana. La eco del periodo ossolano si evince altresì dall’uso, per i coprotagonisti di Naso bugiardo, degli stessi nomi di battaglia (e chissà se proprio questa usanza partigiana non abbia influito sulla immaginifica antonomasia applicata da Brera al mondo dello sport e specie del calcio: dall’”abatino” a “Bonimba” , da “Rombo di tuono” Gigi Riva a “Puliciclone” , da “Deltaplano” Walter Zenga a “Gazzellino” , ecc.?) dietro cui si celavano diversi resistenti con i quali era venuto a contatto tra il 1944 e il 1945. Il “Tarzan” del romanzo è il “Tarzan” partigiano Basilio Pelganta della 83ma “Comoli”; l’”Edoardo” della narrazione corrisponde a Gino Vermicelli, il comandante del Distaccamento alpino “Filippo Beltrami” che, per l’appunto, aveva deciso di chiamarsi da combattente “Edoardo”; l’”Ivan” (per giunta paracadutista) a cui fa ricorso la finzione letteraria trae spunto da quell’”Ivan”, alias Aristide Landini, che fu a capo del Battaglione autonomo “Redi”. Continuando in questi prelievi campione da Naso bugiardo emerge inoltre la ripresa puntuale d’alcune interpretazioni, relative al carattere della guerra di guerriglia partigiana, che Brera aveva inserito nel Diario storico della Divisione Garibaldi “Redi”. Diario che egli, su ordine del comando garibaldino ossolano, fu incaricato di scrivere tra il maggio e il giugno 1945. E da ultimo, la prova provata che il Gugia altri non fosse che il nostro “Gianni”, si ha dal racconto dello scontro a fuoco (identico a un episodio bellico nel quale il partigiano-Brera

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venne effettivamente colpito al naso) che porta al ferimento del protagonista del libro. Questo il brano che chiarisce perfettamente tale punto:

“Fuori tutti” urlò “Tarzan” prima di buttarsi a corpo morto giù per il costone. Aggirando la stalla, “Tarzan” e Gugia vennero investiti da una sbruffata di calcinacci e di schegge di granito. Il Gugia ebbe la sensazione che l’avesse inorbato una scheggia. Tracce incandescenti si lasciavano dietro i proiettili sparati dalla strada. A mezzo del frutteto in discesa cadde ruzzolando “Tarzan” e si voltò per rispondere al fuoco. Il Gugia si lasciò cadere a sua volta, ma di proposito, slittando per un buon tratto d’erba. “Tarzan” gli porse lo Sten perché fosse lui a rispondere e il Gugia tolse la sicura del piccolo mitra nell’istante in cui cinque-sei proiettili si disegnarono accecanti a un palmo dalla sua faccia. Allora, per saggio istinto, rimise il mitra in sicura e gattonò dietro “Tarzan”, che già si era mosso madonnando. Le raffiche di machine-pistol si alternavano ai colpi isolati di Mauser: grida virili acutissime si levarono dietro la casa. “Tarzan” spinse il Gugia sulla destra e gli ingiunse di non correre troppo, se voleva restare con lui. Il Gugia annuì sentendosi stranamente tirare i peli sul petto: soltanto allora si accorse di star sanguinando dall’occhio sinistro e dal naso: il sangue gli colava giù per il collo e subito coagulando gli tirava anche i peli in modo sgradevole28.

A rompere il naso di Gugia-Brera, dopo lo sfortunato battesimo pugilistico con Lambrini, era ora una pallottola tedesca. Boxe e Resistenza rappresentarono in conclusione due momenti fondamentali della biografia breriana: l’uno rimandava all’altro, ed entrambi insegnarono molto al futuro, sommo giornalista. Epico e picaresco, turbinoso e ironico Naso bugiardo rispecchia fedelmente l’esuberante stile vitalistico del miglior Brera. Quel vitalismo che, analizzandola con rigorosa cura, trasuda da tutta la più significativa letteratura novecentesca sul pugilato.

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NOTE

1. F. Contorbia, Introduzione, in: AA.VV., Giornalismo italiano (1939-1968). Mondadori, Milano 2009, Vol. III, pp. XLIX-L. 2. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 18 marzo 1968. 3. R. Fazi, È scomparso un campione, «Boxe Ring», febbraio 1993. 4. F. Brera, Vi racconto Gioann, mio padre, «la Repubblica», 24 dicembre 1992. 5. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 1° gennaio 1973. 6. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 11 novembre 1963. 7. G. Brera, I pugni non fanno memoria, «la Repubblica», 30 luglio 1992. 8. G. Signori, Addio poeta del gol, «l’Unità»”, 20 dicembre 1992. 9. E. Parodi, Nove colonne in prima. Gino Palumbo: l’ultima intervista. Editrice Portoria, Milano 1989, pp. 74-75. 10. S. Giuntini, Il partigiano Gianni. Gianni Brera, l’Ossola e il diario storico della II Divisione Garibaldi “Redi”. Sedizioni, Mergozzo 2015. 11. C. Gregori, Nell’officina linguistica di Brera, «Quaderni dell’Arcimatto. Rivista di studi breriani», 2015, n. 3, p. 85. 12. G. Brera, Due titoli olimpici vinti per l’Italia da Rossini e Pavesi, «Il Giorno», 2 dicembre 1956. 13. A. Creti, S. Petrucci, Boxe fuori i secondi. Viaggio nello sport più antico più nobile più discusso. Edizioni e/o, Roma 1989, pp. 87-88. 14. P. Brera, C. Rinaldi, Gioannfucarlo. La vita e gli scritti inediti di Gianni Brera. Edizioni Selecta, Pavia 2001, p. 222. 15. G. Brera, Il sesso degli Ercoli. Rognoni, Milano 1959, p. 181. 16. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 11 settembre 1967. 17. G. Brera, Quel gigante con il cuore di un povero, «la Repubblica», 28 giugno 1987. 18. G. Brera, Ora ve lo racconto io, quel diavolo di Erminio, «la Repubblica», 12 agosto 1982. 19. G. Brera, Mitri, la classe e gli avversari (ivi compreso il suo matrimonio d’amore), «La Gazzetta dello Sport», 18 dicembre 1949. 20. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 15 febbraio 1968. 21. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 8 aprile 1963. 22. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 18 marzo 1968. 23. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 15 marzo 1971. 24. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 29 gennaio 1973. 25. G. Brera, L’Arcimatto, «Guerin Sportivo», 8 aprile 1963. 26. Cfr. P. Brera, C. Rinaldi, Gioannfucarlo, cit., pp. 70-74. 27. G. Brera, La ballata del pugile suonato. Baldini & Castoldi, Milano 1998, pp. 9-10. 28. Ibidem, pp. 193-194.

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1. Gianni Brera inviato della Gazzetta dello Sport nel dopoguerra. Collezione Marco Impiglia.

2

2. Fine degli anni cinquanta: Brera assiste a un braccio di ferro tra il peso massimo veneziano Bruno Scarabellin e il peso medio marchigiano Italo Scortichini. Archivio Corriere dello Sport-Stadio.

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