ENRICO MAIDA E FULVIA STRANO

IL TALENTO DI e Borromini fra genio e creatività

Edilazio Letteraria

PREFAZIONE di Vincenzo Cerracchio

“Totti è un genio, questo lo sai...”

Quando Fulvia - coautrice di questo libro e, soprattutto, amica mia - iniziò la manovra di aggiramento, io la scambiai ingenua - mente per la solita provocazione da romanista a laziale. Sorrisi scettico e dissi “beh...”

“Quello che non sai è che ha lo stesso talento di Borromini, è un genio controcorrente” .

Quando Fulvia - coautrice di questo libro e, soprattutto,storica dell’arte - cominciò a sparigliare il discorso, io lo scambiai stupi - damente per un paradosso a effetto. Il sorriso si fece perplesso e dissi “ah...”

“Ho idea di scrivere una storia incrociata. E ho bisogno del tuo aiuto”.

Quando Fulvia - coautrice di questo libro e, soprattutto, donna - si mette in testa una cosa, le strade sono due: assecondare o fug - gire. Va così con qualsiasi donna, no? Io scelsi la strada intermedia: glissare. Guardai verso un imperdibile orizzonte e dissi “uhm...”

“Hai capito male. Mica devi scriverci tu, di Totti. Laziale come sei, sai che schifo ne uscirebbe. Però devi trovarmi un Tottologo”.

Spiegava, si accalorava, scalava la terza in doppia debraiata, ma -

5 gnificando il tacco di Totti, il suo cucchiaio, i suoi gol, difficili e inevitabilmente meravigliosi, irridenti come le orecchie d’asino sullo stemma papale di un architetto del Seicento che si chiamava Francesco anche lui. Borromini, quello che ha trasformato la Ro - metta in Roma, senza essere un calciatore. Nati lo stesso giorno, un 27 settembre, diversamente simili: dipenderà dall’ascendente quel poco che non hanno in comune? Feci finta di allacciarmi una scarpa e dissi “boh...”

Visto che non la fermavo comunque - o forse avevo finito la gamma di interiezioni - buttai lì una frase così: “Un libro? Ma dai, come fai? Un articolo ci potrebbe anche stare, sarebbe curioso. Magari me lo fai leggere e poi lo spediamo a qualche rivista romanista...”

“Ma allora non hai proprio capito niente! Tu trovami il Tottologo e vedrai. Però ci scommettiamo su. Scommettiamo una prefazione. La prefazione di un laziale a un libro che parla bene di un roma - nista, anzi di due”.

A noi laziali - questo è noto - non piace vincere facile.

E qui commisi la seconda leggerezza. Mettendola in contatto con Enrico - coautore di questo libro e, soprattutto, amico mio - il giornalista che più somiglia a uno scrittore che io abbia mai cono - sciuto. Ho pensato che ci volesse un gran genio e una fantasia illi - mitata per scrivere vita e opere di Totti in modo accattivante. E che comunque non sarebbero andati, in due, oltre le dieci pagine di WorldPad a righe strette e caratteri larghi.

Ora i beninformati, o meglio i maligni, sosterranno che, essendo stato Enrico il mio capo alla redazione sportiva del Messaggero, io abbia cercato semplicemente di attirarlo in una trappola o, più bo - nariamente - come si dice a Roma - di tirargli una sòla. Posso solo ammettere, ma in presenza di un avvocato, di essermi fregato le mani una volta fatte le presentazioni.

6 La farò breve. Questa che state leggendo è una scommessa persa.

Ma basterà avventurarsi nella storia - che questa è in fondo, av - vincente, singolare, sorprendente molto più di qualsiasi saggio - per scoprire la scommessa vinta. Perché il ritratto dei due Francesco è una sfaccettatura continua, un insieme di particolari, di curiosità, d’introspezioni che finiscono per rendere vivida e realistica l’intuizione di metterli a confronto. E perché il primo denominatore comune, quella Roma “magnifica e presuntuosa” nella quale i due si muovono e si riflettono, a di - stanza di secoli, da sottofondo che sembrava si erge quasi subito a prepotente protagonista.

Eresia per eresia, posso dire che questo, scritto da due romani, è un grande libro su Roma e sui suoi capolavori, architettonici e tecnici? Su Roma e sul suo cuore pulsante, artistico e popolare, connubio dalla Storia non più scindibile? E che non è necessario essere né cultori d’arte né tifosi della Sud per goderselo appieno?

Talento per talento, posso dire che Fulvia ed Enrico ne hanno, nei rispettivi campi che incredibilmente s’incrociano a loro volta, quanto i due Francesco mirabilmente ritratti?

Scommessa per scommessa, e visto che Totti è perduto, posso dire almeno che Borromini sarebbe stato laziale...?

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1. L’ INCONTRO IMPOSSIBILE . QUEL MAGICO 27 SETTEMBRE

Il giorno si annuncia foriero di novità. A fronte di un’Orsa Maggiore all’altezza minima Cassiopea rag - giunge quasi lo zenith , mentre il Triangolo estivo a sud ovest è an - cora ben evidente e lo sarà fino alla fine del mese. Pegaso è in posizione dominante a sud, con la caratteristica forma ‘a quadrato’ da cui si diparte la costellazione di Andromeda e, più in là, di Per - seo. Il cielo del mese, da autunno boreale o quasi, lascia già intra - vedere la regione d’Orione, anticipata dalle Pleiadi del Toro e, a seguire, da Aldebaran. Roma si è svegliata presto, al suono antico delle campane di qualche parrocchia del centro storico, stuzzicata da un’aria pun - gente che presto verrà stemperata dal sole; l’azzurro deciso del cielo promette un’altra giornata d’estate. La Chiesa festeggia, tra gli altri, San Vincenzo De’ Paoli e molte Dame della Carità si apprestano a rendere omaggio al loro fonda - tore in San Pietro, davanti alla statua gigantesca che Pietro Bracci pose nel 1754 in una nicchia della navata mediana. Un atto di fede ed un segno di distinzione per le associate, giustamente orgogliose di un’appartenenza che vanta quattrocento anni di storia. Attraver - sano a passo svelto la piazza, tra i rintocchi un po’ ovattati del cam - panile di Santa Maria dell’Anima, nascosto alla vista sebbene bellissimo: “opera del Bramante” recitano le vecchie guide di Roma, ma esagerano. Al posto dei vecchi carretti, sui sampietrini scricchiolano gli am - mortizzatori un po’ sgangherati dei motorini e le catene arrugginite di qualche bicicletta bipartisan : a piazza Navona, si sa, ci vivono i ricchi. Peppino il barista distende le tovaglie sui tavolini, non senza aver prima squadrato il cielo in cerca di nubi. Non sembra affatto

9 preoccupato dall’avanzare di quell’ammasso plumbeo da via dei Coronari: a Roma, si sa, piove solo quando è nero su San Pietro. Sistema i posacenere come sgranando i semi di un rosario “ve - diamo un po’ quanti ce ne restano, oggi” sospira tra sé e sé. Consuelo, la peruviana badante del principe Orsini, apre le per - siane del mezzanino e innaffia i gerani rinsecchiti con lo stesso amore con cui accompagna il vecchio brontolone a comprarsi ogni mattina. Sorride a tutti e sopporta con cristiana pa - zienza le angherie blasonate degli avidi congiunti, pronti a sbra - narsi l’osso di una ben scarna eredità che tarda ad arrivare. Al centro della piazza è già montato il palco per il grande con - certo di stasera. Un mausoleo di tubi innocenti e paratie, oltre le quali si sente zampillare l’acqua dei Quattro Fiumi che Bernini im - mortalò nel marmo, a figurare i soli continenti allora noti. Senza l’Australia fanno quattro, appunto. “E quattro: fanno otto. Vai un po’ a prende le altre casse, regazzì. Datte ‘na mossa.” Con la calma che si addice al luogo e alla sua gente, i tecnici del suono cominciano il lavoro: cavi, cavetti e con - trospine saranno maneggiati, smontati e rimontati fino a che tutto non sarà pronto. Suona Venditti questa sera, per festeggiare assieme ad altri artisti il compleanno del Capitano della Roma; l’unico, il solo Capitano, il 10 che fa tutti innamorare per la bravura certo, ma ancor di più per la grandezza d’animo e la magia con cui riesce a trasformare in sogno l’avventura del gioco del pallone. Tiepido il sole, è ancora presto. Ma lentamente qualcuno inizia ad affluire, chi per guardare chi per un caffè nella piazza più bella che ci sia. È così originale questo invaso oblungo, un salotto ina - spettato dentro il reticolo contorto di strade, vicoli e palazzi che si dipana tutt’intorno. Domiziano il folle, megalomane e autoritario imperatore che si meritò la damnatio memoriae ha vinto sulla Sto - ria, lasciando il suo nome impresso per sempre nella mente e negli occhi della gente, grazie allo stadio che qui volle costruire, proprio nel cuore del Campo Marzio. Sopravvissuto in negativo, cioè sol - tanto nella pianta ellittica della cavea e dell’arena pensata per i ludi ginnici , la sua impronta vuota ha condizionato l’urbanistica della

10 città e ne ha dettato l’aspetto di salotto, elegante ed eccentrico come il principio geometrico sotteso. Così oggi il Capitano festeggerà due volte il compleanno: alle tre giocando una partita amichevole all’Olimpico; alle nove parteci - pando al concerto in suo onore a piazza Navona. Due Stadi per una stessa festa: non male come idea. Vicino al palco un po’ di gente si è radunata. Semplici curiosi, passanti interessati a sapere che succede – forse sono laziali, o ju - ventini mascherati da stranieri – tutti a sbirciare e commentare l’evento del giorno. Non mancano le critiche: “troppo rumore dan - neggia i monumenti” e poi “non c’è pace per questa fontana! Prima quel pazzo che l’ha danneggiata staccando un pezzo di marmo, e adesso arrivano i decibel a completare l’opera”. Ma la gran parte del pubblico è entusiasta. Sarà la fede romanista, sarà la voglia di far festa: una serata così chi se la perde? E all’improvviso, dalle Cinque Lune, imbocca nella piazza uno sciame confuso di persone, difficile capirne la natura. Troppo cao - tici nell’andamento per essere un gruppo di turisti, varie le età e i portamenti: non è una scolaresca. Poi, a guardare meglio nella folla, si vede proprio al centro il Capitano. È lui, è Totti in persona che arriva di sorpresa a fare un giro, forse a vedere il palco, forse la piazza; forse soltanto quella gente che ama e fa sognare col pallone. E tutt’intorno a lui ragazzi con la sciarpa giallorosa, qualche fotografo e un paio di cronisti, molti papà coi ragazzini appresso, semplici romani innamorati del personaggio e, manco a dirlo, tre giapponesi. Si avvicina al palco e firma autografi, con la calma e la pazienza che lo contraddistinguono. Totti non cambia atteggiamento in base all’interlocutore: è lo stesso personaggio con chi sia, bonario e scanzonato, gentile e un po’ distratto. “Totti, Totti, una domanda” si arrampica il cronista tra la folla “qualcuno ha criticato il fatto di aver montato un palco che chiude alla vista la fontana di Bernini, lei che ne pensa?” “Mi dispiace per questo signor Bernini” sorride sornione e poi aggiunge “però mi pare uno scenario bellissimo, anche senza la fontana. Basta sta’ chiesa, no? Guarda che bella!” E si gira con la

11 testa in su, coprendo con la mano il sole in faccia per guardare me - glio i campanili e la cupola di Sant’Agnese in Agone. “Davvero trova interessante questa chiesa?” A domandare è un tipo strano, un po’ in disparte tra la folla ma avvicinatosi a lui ap - pena udite le sue parole. Porta un cappello vistoso, un po’ retrò , ed una strana mantellina leggera su una camicia a maniche larghe, tipo Proietti nei suoi show . Si direbbe un attore, forse di teatro, certo non visto nelle soap o nei reality recenti. Il volto magro, se - gnato da una barba a pizzetto e da due lunghi baffi incolti; naso aquilino ed occhi volitivi. “Beh, a me pare stupenda. Non ho mai visto una parete così agi - tata. Sembra che ci passi la corrente. E poi ‘sti campanili così alti, due torri sembrano, accidenti. Bella pure la cupola nel mezzo: grande ma leggera, come sospesa. E’ forte ‘sta facciata, chi l’ha fatta?” Al tipo strano gli si illuminano gli occhi. Lo guarda il Capitano e gli sorride: “Ma che, sei stato tu? Ma che, davero?” Come è, come non è, i due si staccano dal gruppo. I più pen - sando ad un amico o a qualche personaggio del jet set , sebbene a tutti ignoto; molti per discrezione, altri per noia. I cronisti per man - canza di domande e comunque appagati dallo scoop . Insomma, come Dio vuole, Totti e quell’altro se ne vanno, e arrivano alla sta - tua di Pasquino. “Lo sai che qui ai tempi miei era un tripudio di lazzi e dicerie contro il governo, che poi era il Pontefice, i suoi difetti e le man - chevolezze, le chiacchiere maligne e le soffiate. Una specie di radio libera dell’epoca: la statua di Pasquino” poi si gira di scatto e to - gliendosi il cappello con un gesto largo della mano dice: “Che im - perdonabile mancanza! Mi presento: son Borromini, cavaliere e gentiluomo, al suo servizio” “Piacere, so’ Francesco” “Ma che destino, anche io mi chiamo come il Santo d’Assisi” “Comunque bello ‘sto Pasquino, antico! E ci mettevi pure tu i fo - glietti contro qualcuno, chi so, un rivale?” “Eh, amico mio, certo che no. Come potevo scriver male contro un nemico tanto furbo e altero? Quello era protetto niente meno

12 che dal Papa! Ed arrogante, avido e superbo. Vendicativo e frivolo, però bravo. L’ho stimato e anche rispettato; finché ho potuto l’ho pure sopportato. Ma invettive scritte non gliele ho mai fatte: non qui, in mezzo ad una strada” “E chi era ‘sto fiore?” “Gian Lorenzo Bernini, il grande artista” “Ma chi, quello della fontana nella piazza?” “Proprio lui, e chi se no? E pure quella fonte, tu sapessi, quanto di mio ci sta là dentro; in quel progetto tanto fortunato e felice. Ma sai, ogni grand’uomo ha il suo Bernini, pronto a saltargli sulle spalle da dietro l’angolo, a rubargli la scena se non addirittura la vita … Sai di che parlo, no?” “Beh, sì. In un certo senso, capisco e condivido, come no? Io, per esempio, con la Nazionale non ho avuto tutta la fortuna che forse meritavo. Chi lo sa? Certo ce sta un “Bernini de Torino” che m’ha rotto un po’ le uova nel paniere. Mica lui, però, sta’ attento: più che altro quelli del Potere” “Il Papa si occupa di calcio?” “Macché Papa, qui il Vaticano non c’entra. Però il campionato lo vincono sempre le stesse squadre; con gli aiutini e con gli aiu - toni”

Come due vecchi amici camminando, arrivano davanti a Chiesa Nuova. “Aoh, ma questa è ‘na facciata come quell’altra della piazza prima: mossa, ondulata, una ficata!” “Hai buon occhio e gran talento, amico mio; mi complimento! In effetti fu un progetto di difficile gestione, e non soltanto per gli aspetti esterni, ma forse ancor di più per la mansione di dover sen - tire i pareri dei Padri Filippini, tutti così esigenti e assai testardi. Nessuno mi voleva dare retta, e se non fosse stato per lo Spada avrei di certo abbandonato la carretta” “Ma che, pure sta chiesa hai fatto tu?” “Non è una chiesa, a dire il vero, ma solo la facciata di un Ora - torio e di un complesso monastico all’interno” poi, scrutando negli occhi del compagno un senso di velata incomprensione, aggiunge

13 “un Oratorio, sì. Sai, dove i fedeli vanno a pregare ma cantando; con gioia, insomma, e con gran passione.” “Sei proprio forte Borromini mio, geniale come un colpo di tacco nell’area piccola” stavolta l’occhio vitreo è di quell’altro e subito gli corre lui in aiuto “un colpo di tacco, nel pallone, è un tocco di genio all’improvviso; un gioco di prestigio che cambia tutt’insieme la questione. Da preda ti trasformi in predatore e liberi il compagno nell’azione. Non so se hai capito l’allusione” “Forse, qualcosa sto capendo. Per esempio che vincere una sfida presenta spesso gli stessi impedimenti, sia che si giochi di piede sia di matita. Amici, delatori e chicchessia rientrano comunque nella partita” “Eh, ‘na cosa così. Ma dimmi un po’ di questo Spada che era un tuo amico” “Virgilio, di nobile famiglia, mi ha aiutato molto nella vita. A volte mi ha protetto, altre salvato letteralmente dagli strali di odiosi committenti, sempre pronti a gettarmi fango addosso. E tu, hai uno Spada nella vita?” “Più che Spada si chiama Scala e di nome fa Vito. Un amico vero, sta sempre con me e mi cura come un bambino. Pensa che si occupa dei miei muscoli e di rimettermi in piedi dopo una partita. Sapessi quanti calci prendo, mamma mia! Senza Vito non so come farei, pensa proprio a tutto, anche alle bollette del gas e della luce. Una volta l’ho pure trattato male, alla fine di una partita andata storta. Lui me voleva calmà, portamme via, e io gli ho dato una spinta che l’ha fatto cadere. E’ che a perdere, amico mio, io non ci sto; come diciamo a Roma: prendo d’aceto”

Il tempo scorre, gradevole e veloce, mentre i due grandi talenti vanno a passeggio. “Ti porto a vedere un gioiellino, se vuoi, se hai tempo ancora prima di partire” “Partire? No, gioco in casa oggi. E’ un’amichevole per festeggiare il mio compleanno, che è proprio oggi. Anzi, fammi gli auguri” “ Beh, non ci crederai, ma sono nato anch’io di 27 settembre. Ha del mistero questo nostro incontro proprio oggi”

14 “E speriamo che me porti bene! Nel senso che nessuno me vo - glia azzoppà, come consueto. Sai, c’ho più fero in corpo io che la Torre Eiffel messa per lungo” “Una torre di ferro? Che magia! Ma cambiamo argomento, per favore: anch’io ne ho avuto un pezzo dentro il corpo, di ferro in - tendo, e è meglio sorvolare” Arrivano così davanti alla Sapienza ed entrano in silenzio nel cortile: l’uno guardando compiaciuto il prodotto del suo ingegno, l’altro sorpreso e affascinato dalla bellezza di quel chiodo in alto, che si avvita nel cielo blu all’infinito. “E la cupola dov’è?” dice Francesco “Non c’è, a quanto pare. Ma il parere va fatto sulle cose che l’occhio può vedere, assieme a quelle che la mente ti aiuta a rinve - nire, sebbene difficili a capire” “Ma che, sei pure mago? Indovino o che so io? Io non la vedo ‘sta cupola: non c’è.” “Allora seguimi, testone. E guarda bene cosa ci sta dentro” Apre il portone Borromini e i due entrano in Sant’Ivo, passando dalla luce alla penombra. Poi, al centro della sala è come un vortice di aria che spinge dal basso e chiama in alto: alza la testa Totti e sgrana gli occhi “aoh, ce ‘sta la cupola. E come se ce sta! Guarda che roba!” “Capisci adesso il senso delle mie parole?” “Sì, certo. Un po’ contorte, ma per dire che le cose vanno viste con gli occhi e con il cuore; entrandoci davvero e con amore. È come vedo io il pallone, lo sai? La stessa cosa” Si siedono vicini e stanno lì. Come due vecchi amici, due per - sone legate ma lontane nel tempo e nella sorte, accomunate da uno stesso talento che ha prodotto però frutti diversi. “Certo che ‘sta città è proprio bella, e poi nasconde certe cose che se pure la giri da una vita è capace che nemmanco le conosci” “Sì, Roma è unica al mondo. Nel bene e nel male, dico io, ma certamente non ce n’è un’altra come lei. E chissà quante cose non ho visto anche io di questo luogo, seppure lo abbia tanto amato e pur studiato” “Di certo non hai visto come gioco, o meglio come gioca la mia

15 squadra. Si chiama Roma e pure lei è un sogno” Poi si rigira verso il nuovo amico e lo guarda con un sorriso buono “la voi vedé? Ce vieni oggi all’Olimpico a guardarmi?” “Sarei felice, amico mio, davvero. Dimmi come arrivare e ci sarò” “Mando Vito a prenderti: fatti trovare qui verso le due. Ti faccio avere un posto di tribuna d’onore così puoi conoscere anche Ro - sella, la nostra presidentessa. Le dico chi sei, quanto sei bravo; ma - gari potresti occuparti tu del nuovo stadio che la Roma vorrebbe costruire. Stanno a fa’ ‘n sacco de’impicci. A proposito di donne: hai bisogno di un altro biglietto, sei accompagnato?” Sotto la falda ampia del cappello, sorride Borromini e scuote il capo “no, verrò solo. Grazie lo stesso” Poi alza lo sguardo verso il cielo e sospira “solo una donna ho amato da impazzire: magnifica, testarda e presuntuosa. Ricca e stracciona in egual misura, munifica e taccagna all’occorrenza, regale e popolare al tempo stesso; un po’ sgualdrina, un po’ angelica presenza. Tutta la vita ho dato a lei ed, in coscienza, lo rifarei senza tentennare: Roma non la si può altro che amare”

La sera arriva presto insieme alla gente che trasforma piazza Na - vona in un altro stadio. Francesco Totti sale sul palco con Venditti: ha una caviglia gonfia, è riuscito a farsi picchiare anche in un’ami - chevole organizzata per festeggiare il suo compleanno. Ma è felice, non solo per i due gol di preziosa fattura, ma anche per l’affetto che sente intorno a sé. E per la lettera che il fidato amico Vito gli con - segna sulle note di Grazie Roma.

“Egregio amico, ho visto i tuoi occhi illuminarsi questa mattina davanti alle mie architetture, a riprova che le cose belle emozionano l’animo di tutti, anche dei non esperti. La gioia non ha confini e il talento non ha territori. Ecco, questo soltanto voglio dirti. Gli stessi occhi lu - cidi erano i miei oggi guardando il tuo modo di giocare in squadra. Io non conosco il calcio. Ai miei tempi si giocava poco e solo a Firenze, per quanto ne sappia. Comunque non era la stessa cosa

16 di oggi, non c’era tanta gente a seguire una partita. Erano altre le situazioni in cui le masse si muovevano e applaudivano con gioia e con passione, come ho visto stasera allo stadio: ai miei tempi erano i Giubilei, le grandi feste di piazza dei Papi e dei principi di Santa Romana Chiesa; erano le Quarantore e le processioni della Settimana Santa, la corsa dei berberi a via Lata durante il Carne - vale e perfino le decapitazioni al ponte Sant’Angelo. Dunque non sbaglio se dico che il tuo mestiere di oggi sta alla gente, come il mio di ieri stava al popolo; dei fedeli certo, ma anche dei curiosi. E poi, in fondo, sempre di fede si tratta, per quanto ho potuto ca - pire dagli sguardi di tutta quella folla di uomini, donne e ragazzini appollaiati sugli spalti in festa, tra striscioni, canti e sfottò che mi hanno fatto un po’ girar la testa. Solo questo volevo tu sapessi. Il mio grazie per avermi offerto in questo giorno l’occasione per capire meglio la beltà delle cose sulla terra, e come l’animo umano sia lo stesso davanti alle eccel - lenze di ogni tipo. In Fede, Francesco Cav. Borromino”

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2. L’ ERESIA FELICE : IL TALENTO NON HA TERRITORIO

- Cara Fulvia, mettiamo subito le carte in tavola e cerchiamo di convincere chi ci legge che non siamo diventati matti. - Caro Enrico, mettere insieme Borromini e Totti ti sembra dav - vero una follia? Può darsi, ma è una lucida follia. - Dopo qualche giorno e anche dopo qualche notte vagamente agitata, mi sono convinto anche io. Il talento non ha territorio e qui siamo in presenza di due fuoriclasse sullo sfondo di una Grande Madre, una città unica al mondo. - La verità è che a Roma tutto è possibile, o quanto meno così appare. Sullo sfondo delle vestigia imperiali e delle magnificenze papali questa città prova ogni giorno a dimostrarsi all’altezza del ruolo di capitale di una nazione europea, avendo come paragoni e confronti metropoli del calibro di Parigi, Berlino e Londra: non so se mi spiego. - Ti spieghi benissimo - E tuttavia non molla. Forte della sua Storia – la maiuscola è d’obbligo – e di una bi-millenaria cultura che effettivamente non ha rivali al di là delle Alpi, mette in scena quotidianamente lo spet - tacolo straordinario delle sue bellezze artistiche: i tramonti rosati con lo skyline delle cupole, i basolati antichi sull’Appia e le ‘nu - vole’ di Fuksas, gli obelischi egizi e il minareto della grande Mo - schea a Monte Antenne. Nessuno può permettersi tanto, perché in fondo vale per Roma quello che diceva il marchese del Grillo, par - lando al popolo: “Io sono io, e voi non siete …” Eh sì, a pensarci bene questa è l’unica città che possa vantarsi di essere cresciuta su se stessa e di se stessa, nel senso che ha utilizzato e riciclato gli stessi materiali per secoli: i marmi imperiali continuano a vivere nelle cappelle gentilizie delle chiese barocche, le grandi strutture pubbliche dell’età antica sopravvivono - anche se distrutte - nelle

19 impronte calcografiche del tessuto urbanistico; penso a piazza Na - vona, naturalmente, ma anche a largo del Pallaro dietro a Torre Ar - gentina. È l’unica città, insomma, che sia sopravvissuta nel tempo grazie alla propria dote, ostentando ricchezza e fasto anche nella miseria, come una nobildonna che non rinuncia ad indossare il vel - luto prezioso e ricamato, seppure scucito e rattoppato. - Eppure in una città così, vincere è sempre più difficile. - In un posto così i miracoli sono all’ordine del giorno, perché tutto è possibile dal momento che tutto è già stato: imperatori ed eserciti trionfatori, pontefici ed eretici, invasioni barbariche e truppe di liberazione, sono passati tutti da qui e i romani lo sanno, lo sentono nel profondo del cuore con un pizzico di orgoglio e un vago senso di indolenza per tutto ciò che di nuovo potrà accadere. “Già visto” sembra che dicano. Ma in un posto così è anche più facile per un talento, quale che sia il suo ambito di azione, trovare il terreno fertile per dare forma e sostanza al proprio genio, avendo tali e tanti stimoli a portata di mano. È facile e al tempo stesso pe - ricoloso, però, perché la stessa indolenza con cui la gente a Roma accoglie le avversità si riscontra poi nella capacità e volontà della stessa di riconoscere la grandezza di un personaggio e di tributargli il giusto merito. Diciamo un nemo propheta in Patria all’ennesima potenza, portato all’eccesso, come tutto il resto d’altronde. - Condivido. Roma è seduttiva e talvolta subdola nel suo modo quasi morboso di accoglierti e di proteggerti. Roma abbraccia e di - vora molti suoi figli teoricamente prediletti. - Eccesso, smodatezza, licenza portata al limite della decenza, sboccatezza sono i massimi pregi e al tempo stesso i peggiori difetti di Roma, e fatalmente accompagnano anche il giudizio nei con - fronti di coloro che si legano a lei per sempre, lasciando il proprio nome iscritto nel registro della storia di questa città, in qualunque disciplina o attività. Esagerare per esserci, dunque. - Il matrimonio di Totti all’Ara Coeli trasmesso in diretta tele - visiva con più di un milione di spettatori. Stai pensando a quello, scommetto. Ma io credo che Francesco lo volesse proprio così, vi - stoso, appariscente, ma senza secondi fini. Un’esibizione innocente di felicità per un sogno che si realizzava come una favola.

20 - Certo, anche io lo credo; anzi ne sono convinta. Ma sarebbe una miopia imperdonabile voler ridurre a questo un talento, se tale è davvero, per il semplice fatto di essersi indissolubilmente legato a Roma. Eppure ciò accade di frequente e in genere si ricorre ad ag - gettivi come “provinciale” , “vernacolare”, se non addirittura “pac - chiano” e “volgare” quando si parla di romanità verace. È davvero insopportabile, per le orecchie di un romano, il verso che fanno i milanesi o i veneti quando dicono “aho, ecché ssei rromano de Roma?” raddoppiando indiscriminatamente le consonanti e, grazie a Dio, sbagliando tutti gli accenti possibili. - Secondo me Totti è andato ben oltre questo luogo comune riu - scendo a diventare un fenomeno nazionale, forse addirittura inter - nazionale come, per esempio, Sordi e Manfredi, giusto per parlare di altri due esponenti della romanità che hanno sfondato certi con - fini del banale. Lo hanno capito bene i pubblicitari, sempre atten - tissimi al fattore immagine, proponendolo come testimonial di aziende multinazionali. La romanità di Totti, abbinata al talento, ha generato una miscela esplosiva. - Facendo comunque storcere il naso ai più snob , ci scommetto. Il paradosso è che non serve essere nati a Roma per subire lo stesso destino: è sufficiente averla scelta come luogo di elezione per la propria attività per incorrere nelle critiche più feroci da parte della critica bacchettona, quella cioè che in ogni tempo e per qualunque disciplina è sempre pronta a mettere all’Indice le novità e le istanze rivoluzionarie, di cui un talento si fa portatore. Essere innovatori a Roma è più difficile che in qualunque altra realtà italiana, perché se cambi qualcosa qui lo fai per sempre e per tutti quelli che ver - ranno dopo di te; è una responsabilità che comporta necessaria - mente un’attenzione diversa ed una censura più severa che altrove. La cosa interessante è che questo discorso vale per qualunque di - sciplina, per ogni possibile territorio in cui un talento si esplichi. Tu mi parli di Totti, ma il discorso è lo stesso anche per Borromini che romano non era, ma che a questa città ha dedicato se stesso e la sua maestria, lasciando alcune delle più straordinarie opere ar - chitettoniche del barocco romano. Che eresia mettere a confronto questi due campioni, eh?

21 - Te lo dicevo prima, quando si discute di talento, tutto diventa possibile. D’altra parte l’Avvocato non chiamava Del Piero Pintu - ricchio? - Un’eresia felice, diciamo così. Perché solo uscendo dagli schemi ingessati del nozionismo accademico e dalla clausura im - posta da una certa cultura che ama ragionare in termini di ‘riserva indiana’ – un tempo si diceva turris eburnea , ma oggi suonerebbe come il nome di un videogioco – ci si può avvicinare ad un capo - lavoro con il cuore e non soltanto con la mente. E un capolavoro è tale, quale che sia il suo ambito di applicazione, il suo territorio di pertinenza. Francamente non provo nessuna remora nell’affermare che l’emozione indotta da un’opera d’arte, una pittura come uno spazio architettonico, può suscitare la stessa passione e soddisfa - zione derivante da un colpo di tacco o da un gol segnato, quando dietro entrambi i capolavori ci sia un genio ispiratore, una regia sublime, la firma di un grande talento, appunto. E non credo di sba - gliare dicendo che tra loro, tra maestri, qualora l’incontro fosse possibile, scatterebbe immediatamente sintonia e stima reciproca, con buona pace dei critici e dei parrucconi ex cathedra. - Io, cara Fulvia, non ho la tua competenza in storia dell’arte, ma posso dirti con certezza che il calcio è in grado di trasmettere emozioni forti e intense che vanno al di là, molto al di là, dello spi - rito di fazione. Mi è capitato di essere a Genova una domenica in cui Totti ha segnato uno dei gol più belli della sua carriera. Bene, tutti i tifosi della Sampdoria, che certo non erano contenti del risul - tato, si sono alzati in piedi come se fossero stati percorsi da un bri - vido. C’è stata un’ovazione spontanea, una cosa straordinaria. Quel gol, a suo modo, non è un’opera d’arte? - La vera sfida, semmai, è quella di far incontrare il pubblico dei due diversi ambiti. Se chiedi ad uno storico dell’arte o ad un archi - tetto chi sia Totti, molto probabilmente farà finta di non saperlo o al massimo fingerà di fare uno sforzo di memoria, pur sapendo be - nissimo la risposta. Ma se domandi ad un ragazzo della Curva Sud chi è Borromini, temo che ti arrivi immediata la domanda “dove gioca?” Non tutti, certamente, ma la maggior parte di loro ignora il suo nome e non sa cosa si perde a non conoscere le sue facciate,

22 le sue chiese, i particolari architettonici che ci ha lasciato proprio qui, a Roma, dove tutti questi ragazzi vivono. È un peccato, non trovi? Ecco, se questo piccolo libro riuscisse a portare anche solo uno su cento degli Ultrà a vedere San Carlino, o a passare per via di Propaganda Fide e alzare lo sguardo sulla facciata di Borromini, potrei dirmi soddisfatta. - Io lo sarei allo stesso modo se uno solo dei tromboni che ti sarà capitato di frequentare, sarà disposto a riconoscere che Totti è un artista. Come vedi, siamo pari. - Qui parliamo di passione, di genio, di ironia, di amicizie e di rivalità; insomma parliamo di un sentire che accomuna tutti senza distinzioni di classe, cultura o fede. Parliamo di sentimento, quello vero, che si prova davanti ad una meraviglia degli occhi e che ci fa volare con la mente e con il cuore dove noi soli sappiamo. Esiste questa possibilità, ne sono certa. E il fatto straordinario, l’occasione ghiotta direi, è che sia proprio Roma ad offrirla, mettendo insieme due protagonisti lontani nel tempo ma legati indissolubilmente a questa città, nella quale e per la quale hanno speso la propria vita e carriera, regalandoci emozioni senza tempo. - Ecco, messa così possiamo ragionevolmente sperare di non fare la fine di Giordano Bruno, che non era il centravanti della Lazio. Anche perché rovistando nella memoria e negli archivi, ab - biamo scoperto alcune cosette interessanti. - Già, Totti e Borromini hanno lo stesso nome di battesimo e, per giunta, sono nati lo stesso giorno anche se a distanza di secoli, ovviamente. Ma c’è dell’altro, anzi molto di più. Volendo entrare nel merito di ciascuna delle due discipline in cui eccellono, è pos - sibile riscontrare delle analogie tra i due davvero interessanti e forse fin troppo calzanti per essere casuali. Ma poiché non è l’astrologia il nostro mestiere, direi di portare il discorso sul piano dell’analisi oggettiva dei risultati che entrambi hanno conseguito nei propri ambiti di azione: Totti nel calcio e Borromini in archi - tettura. Che ne pensi? - Penso che Totti ha la maglia numero 10, un numero che nel calcio significa talento. Se anche Borromini era un fuoriclasse, basta trovare dieci buone ragioni per farli giocare insieme.

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3. F RANCESCO IN 10 MOSSE

3.1 La Roma di Francesco

Totti nasce nel 1976 in una Roma intorpidita più del solito. L’ot - tobrata incombe con tutti i languori della tradizione ma non è an - cora entrata quando Fiorella Marozzini ed Enzo Totti festeggiano l’arrivo del secondogenito Francesco che si aggiunge a Riccardo. Il dollaro si è impennato scavalcando le 800 lire, valore mai rag - giunto che complica non poco la nostra bilancia dei pagamenti. , per tutti l’Avvocato con la A maiuscola, non sem - bra preoccuparsi della crisi che metterà in ginocchio la Fiat e si fa sorprendere dai paparazzi in piazza di Spagna mentre corteggia esplicitamente Monica Guerritore, una delle ragazze più desiderate del Paese. A Montecitorio Giulio Andreotti forma il suo terzo go - verno, un monocolore democristiano che si regge sull’astensione di quasi tutti gli altri partiti, comunisti inclusi: oggi lo chiamereb - bero inciucio. Un altro romanista dichiarato, Adriano Panatta, alza per la prima volta la coppa Davis conquistata dall’Italia del tennis a Santiago. Uno schiaffo al regime di Pinochet e anche un po’ d’ac - qua sull’incendio delle polemiche accese da tutti quelli che spin - gevano per boicottare l’avvenimento. Le radici di Totti sono umili come quelle di Panatta. La casa di via Vetulonia non concede lussi e ospita anche i nonni. Porta Me - tronia offre scarsi e controversi pretesti storici e solo più tardi si scoprirà una singolare coincidenza: qui era nato anche Sergio Cra - gnotti, il presidente che guidò la Lazio verso l’ultimo scudetto. Una curiosità, niente altro che una curiosità (cui si potrebbe ag - giungere la nascita di un’altra bandiera laziale, Nesta, anche lui classe ’76) in questa storia che comincia in una piccola casa popo - lare. La Roma di quell’anno nelle cronache sportive si chiama Ro - metta. La governa un costruttore dal carattere assai fragile,

25 Gaetano Anzalone, che come da prassi ha acquistato il club con la benedizione della Dc, cioè di Andreotti, per convenzione primo ti - foso giallorosso. L’attaccante più rinomato alla corte di Liedholm, che nell’83 riuscirà a vincere lo scudetto, è nientemeno che , un passato glorioso nel di Rivera. Ma il capocanno - niere di quella squadra che finirà il campionato all’ottavo posto è Musiello, promessa mancata dell’Atalanta. Però c’è un piccolo grande segnale che è suggestivo abbinare al fiocco azzurro in casa Totti: mentre Ciccio Cordova tradisce la compagnia trasferendosi alla Lazio, la Roma lancia in orbita due ragazzi che lasceranno il segno, e Agostino Di Barto - lomei. Non accadeva da tempo, esattamente da quando Alvaro Marchini cedette alla Juventus i cosiddetti tre gioielli (Capello, Spinosi e Landini) provocando una specie di sollevazione popolare che lo costrinse ad abbandonare la nave. Marchini, oltre tutto, era pure comunista, colpa intollerabile per il divo Giulio. Non si sa quando è successo. Quando, cioè, il destino ha scritto che Francesco Totti e Roma si sarebbero legati in modo indissolu - bile. Forse si può partire dal panino con la frittata che mamma Fio - rella preparava con cura per la merenda del figlio dopo i primi allenamenti in una squadretta di Trastevere. Perché il panino con la frittata non è un dettaglio: oggi si viaggia a tramezzini, pizza e al massimo qualche supplì al telefono. La frittata, invece, fatte le debite proporzioni, è qualcosa di artistico come il cucchiaio, come il colpo di tacco. E con la frittata come doping Francesco è cre - sciuto, è stato scoperto dalla Lodigiani, società officina del calcio romano e finalmente a 13 anni è entrato nelle giovanili della Roma. Anzalone non c’era più, aveva lasciato il passo a Dino Viola, inge - gnere meccanico diventato ricco con il commercio di armi, uomo dal carattere discutibile ma sicuramente intelligente, forse il diri - gente più acuto che abbia mai guidato la Roma. Se Viola è stato il suo primo presidente, si deve a Vujadin Bo - skov il diritto di primogenitura calcistica, il debutto a Brescia nel finale di una partita che non sarebbe rimasta negli annali se non fosse per questa straordinaria prima volta. L’altro uomo della sua vita è sicuramente Carletto Mazzone che gli regala l’esordio da ti -

26 tolare contro la Sampdoria e la prima ramanzina della carriera mentre un microfono cerca di carpire le sensazioni di quel ragazzo fatto in casa. Il primo dei tanti gol arriva di settembre, nel ’94 al Foggia, ma Totti non sa ancora che tipo di giocatore sarà. Il mo - dello dichiarato è Giannini, ma forse è il carisma che lo attrae più del ruolo. Essere un giorno capitano della Roma, questo è il sogno del ragazzino partito da porta Metronia mangiando il suo panino con la frittata. E pensare che poteva finire tutto. Franco Sensi, che ha ereditato la Roma da Ciarrapico, pensa che il modo migliore per vincere sia assumere un tecnico straniero di grande prestigio. Sbarca a Roma nel ’96 Carlos Bianchi che ai più sembra una specie di Pampurio anche se le credenziali sono di tutto rispetto: ha appena vinto il mondiale per club battendo il Milan con il Velez Sarsfield. Il gol della vittoria lo aveva segnato un certo Trotta che arriva anche lui a Roma raccomandato da Pampurio. Ma i risultati sono deludenti, il gioco latita e le scelte di Bianchi sembrano spesso stravaganti. Fino a quella fatale di suggerire a Sensi la cessione di Totti alla Sampdoria. Il 9 febbraio del ’97 la locandina dell’Olimpico invita la gente a vedere Litmanen, finlandese che gioca nell’Ajax nonché candi - dato a raccogliere il testimone da Totti. La Roma batte per 2-0 gli olandesi con due gol di Totti, uno più bello dell’altro. Quanto basta per promuovere una piccola insurrezione che porta all’inevitabile conclusione: Bianchi viene esonerato e Totti si riprende la Roma di cui diventerà capitano dal 31 ottobre 1998. Per sempre.

27 3.1 La Roma di Francesco

Caput mundi. Roma nel Seicento è paragonabile alla Parigi di fine Ottocento, o alla Berlino anni ’20: artisti, scienziati, eruditi e let - terati trovano qui, nel mecenatismo papale e nel nutrito numero di committenti a vario titolo legati al soglio pontificio, il terreno ideale per l’affermazione del proprio talento ed il conseguimento di un prestigio sociale non altrimenti raggiungibile all’epoca. Roma si gode il suo secolo d’oro, dopo aver superato – non senza fatica – il rigore dei decenni post-tridentini, gli sterili prezio - sismi del manierismo pittorico e gli eccessi realistici di Caravag - gio; e si appresta a celebrare, in rapida successione, il processo di canonizzazione di Filippo Neri e quello di ben altra natura nei con - fronti di Galileo. Carlo Maderno firma il prolungamento della basilica vaticana con una facciata che, dalla piazza antistante, nasconde alla vista la cupola di Michelangelo: un compromesso necessario per soddi - sfare le esigenze liturgiche legate alle moltitudini di pellegrini in visita al santuario petrino. È qui che comincia l’avventura romana di Borromini, sotto l’ala protettiva di Maderno, al quale è per giunta legato da vincoli fami - liari, e accanto ad un coetaneo di grande ambizione ed indiscutibile talento: Gian Lorenzo Bernini. Tra i due non si può certo dire che sia amore a prima vista: troppo diversi per indole e per carattere. Brillante e mondano Ber - nini, sempre pronto a mettersi in mostra; chiuso e scontroso Bor - romini, lunatico e diffidente come tutti i nordici trapiantati a Roma. Eppure insieme lavorano bene, e in San Pietro realizzano uno dei più strabilianti oggetti architettonici del barocco romano, che pas - serà però alla storia come “il baldacchino di Bernini”. Ecco, in questa inesattezza sta tutta la vicenda umana e profes - sionale di Borromini, e la fotografia di uno star system che macina successi ed alimenta il consenso, ma è anche capace di travolgere e annientare chiunque non accetti le regole del gioco o se ne disco - sti, seppure solo in parte. Borromini non è un uomo facile al compromesso e, del resto,

28 non ne ha bisogno in termini di merito o di competenza professio - nale. Piuttosto che soggiacere ai capricci di una committenza di - spotica in cambio della gloria è disposto a lavorare nell’ombra, lontano dai riflettori, con la stessa passione e dedizione dell’arti - giano medioevale. E questa ostentata autosufficienza, la capacità di “volare alto” sopra la mediocrità diffusa di un establishment ipo - crita e opportunista impensierisce molto Bernini, instillandogli una certa diffidenza nei confronti del rivale. Alla morte di Maderno, nel 1629, il cantiere vaticano viene af - fidato a Bernini e per Francesco è uno smacco e un dolore. Tutta - via, anche questo successo non basta a rassicurare Bernini che, per toglierselo di torno, lo fa promuovere dal papa Capomastro della Sapienza, l’antica e prestigiosa Università di Roma. Si tratta di portare a termine un progetto cinquecentesco già pie - namente definito nei propri vincoli urbanistici e formali, co - struendo all’interno del complesso la cappella dedicata a Sant’Ivo. Una promozione, insomma, che ha il sapore dell’allontanamento forzato, dell’esilio dorato in una realtà progettuale che lascia poco spazio alla fantasia creativa ed alle potenzialità dell’artista. I giochi sembrano fatti: mentre l’astro di Bernini risplende in San Pietro, riflesso nelle curve sinuose del “suo” baldacchino, il lu - natico genio di Borromini si eclissa dietro l’esedra di Giacomo della Porta nel cortile della Sapienza. E Roma, indolente e annoiata, quasi non si accorge del miracolo che si sta compiendo oltre il portone di Sant’Ivo, alle spalle di piazza Sant’Eustachio. Non può ancora sapere la fortuna di quella spirale che si avvita nel cielo al posto della cupola, né immaginare lo stupore di intere generazioni a venire, colte di sorpresa all’ingresso nella cappella da un vortice di luce e di aria che tutto solleva, come un’astronave in decollo. È una Roma distratta e pigra, che osserva l’andamento fluttuante delle facciate di Sant’Agnese a piazza Navona e del complesso dei Filippini a Chiesa Nuova liquidandole come eccessi creativi di un bizzarro architetto, ma poi applaude commossa al miracolo nel - l’arena sacra del colonnato berniniano di San Pietro.

29 La miopia di giudizio di tanta parte della critica del tempo e dei secoli seguenti è certo dovuta alla straordinaria modernità di Bor - romini, alle istanze rivoluzionarie della sua architettura, all’approc - cio dialettico con cui affronta i problemi strutturali e formali senza mai scivolare nella retorica e platealità del gesto. Alla magnilo - quenza preferisce la frase sussurrata, alla teatralità degli spazi la di - mensione intima, entro la quale ciascun individuo può confrontarsi con i propri dubbi e ritrovare se stesso e la propria Fede, fuori dai dogma cattolici. Sembra difficile pensare a un’altra città per Borromini: è la Roma dei Papi il suo scenario ideale, cui certo l’architetto di Bis - sone deve molto in termini di opportunità e di stimoli. Ma è davvero impossibile immaginare una Roma priva delle sue fantastiche invenzioni: la conchiglia sul tetto di Sant’Ivo, o le folle di cherubini che popolano le navate laterali in San Giovanni; le cornici spioventi e le facciate ondulate che animano piazze e strade di questa città, contribuendo non poco alla sua nomea di Eterna. Sarebbe un’altra Roma, di certo meno bella. Diciamo una Ro - metta.

30 3.2 L’anticlassico

Il dibattito su Totti è stato sempre molto acceso. Su tutti i fronti. Primo argomento di discussione il ruolo, come quasi sempre ac - cade per i cosiddetti numeri 10. Chi indossa questa maglia oltre a essere consapevole di essere sodale di Pelè e Maradona, deve ras - segnarsi a un trattamento particolare sia da parte della gente che da parte dei tecnici. Non è un caso che siano stati tanti i numeri 10 a spaccare le tifoserie e a movimentare le giornate di allenatori e pre - sidenti. ha rappresentato uno dei casi più clamorosi: non sapendo come uscirne, che guidava la Nazionale durante i mondiali di Mexico ’70, inventò la famosa e vituperata staffetta impiegando prima Mazzola e poi Rivera per il quale aveva coniato il termine «abatino» . Anche Del Piero e Baggio, le cui vicende calcistiche si sono in qualche misura sovrapposte, sono stati al centro di polemiche fu - riose quasi sempre legate all’atipicità di un ruolo, quello del fan - tasista, istituzionalmente scomodo da gestire in un disegno tattico convenzionale. Perché il fantasista sfugge agli schemi, resta spesso fuori dal gioco, aiuta poco o niente la copertura difensiva. Una spe - cie di privilegiato, incompatibile con la reclamizzata filosofia del gruppo che di questi tempi trova spazio nelle interviste dopo le partite come succedeva una volta per l’obbrobrioso «attimino». Sarà anche per questo che nella terminologia comune la parola «fantasista» è andata scomparendo. Sostituita da «trequartista» in alternativa a «seconda punta», etichette evidentemente più accet - tabili se non altro sul piano formale. In tutto questo, come s’inqua - dra Francesco Totti? Per arrivare a una conclusione attendibile, è utile ricordare le scelte di chi lo ha allenato. Boskov ha il merito storico di averlo fatto esordire ma non ha inciso sulla sua evolu - zione. Mazzone, il primo a investire seriamente sul suo talento, gli ha disegnato un ruolo di seconda punta alternando questa identità con quella di centrocampista avanzato dietro due attaccanti. Un ruolo, questo, che Totti ha subito dimostrato di gradire. Carlos Bianchi si può saltare senza problemi visto che per lui Totti non serviva. Si arriva così a Zeman che è stato certamente

31 fondamentale nella crescita di Francesco. Una crescita anche atle - tica perché con il tecnico boemo Totti si è notevolmente irrobustito e forse per la prima volta si è allenato con un’intensità probabil - mente sconosciuta. Il rapporto tra tecnico e giocatore deve essere stato particolarmente felice anche alla luce di un altro aspetto: Zeman, che schiera tutte le sue squadre con il 4-3-3, inventa per Totti un ruolo inedito, quello di esterno sinistro del tridente offen - sivo. A prima vista un ridimensionamento per un calciatore abi - tuato a stare al centro del gioco. E invece no, è la svolta: Totti parte da sinistra, si accentra e segna molti gol in più, senza contare gli as - sist . In buona sostanza Zeman gli ha allargato il raggio d’azione in - quadrandolo però in uno schema. Il fuoriclasse nasce in quei giorni. Lo sbarco di Capello coincide con il periodo più felice, la con - quista dello scudetto, il trionfo al Circo Massimo sulle note di Ven - ditti, una certa visibilità anche a livello internazionale per il capitano della Roma, che si affaccia anche in Champions League. Sul piano tattico Capello non deroga dai suoi convincimenti che partono dalla rigorosa applicazione del classico 4-4-2. Sensi si è svenato per acquistare Batistuta dalla Fiorentina e Totti diventa il partner naturale dell’argentino i cui gol risulteranno decisivi per la vittoria finale. Luciano Spalletti firma l’ultima evoluzione dell’artista. Tutto avviene quasi per caso: nella Roma c’è una improvvisa emergenza perché tutti gli attaccanti sono fuori uso. Spalletti chiede a Totti il sacrificio, si fa per dire, di giocare da solo al centro di un attacco che sarà sostenuto dalle incursioni dei centrocampisti. Il risultato è entusiasmante: la Roma vola e Totti segna da centravanti come non aveva mai segnato. Si capovolge un teorema del pallone se - condo il quale l’attaccante, invecchiando, tende ad allontanarsi dal - l’area per finire la carriera al centro del campo. Nella grandezza di Totti c’è anche questo. Già, ma quanto vale Totti nel panorama nazionale? Anche su questo tema le discussioni sono caldissime. Limitandoci al calcio moderno, diciamo quello segnato dall’avvento della televisione a colori, credo che il podio dovrebbe essere occupato da Baggio, Riva e Totti. L’ordine è a piacere anche se esaminando le caratte -

32 ristiche di questi tre campioni, si può scoprire che Totti ha forse qualcosa in meno di Baggio e Riva, ma possiede qualcosa di tutti e due. La potenza di Riva e la sensibilità di piede di Baggio. In questo senso Totti è forse l’attaccante più moderno di questa epoca perché nessuno dei suoi contemporanei mette insieme un repertorio così vasto. Chi non la pensa a questo modo porta come prova la scarsissima considerazione di cui gode Totti a livello internazionale. Il suo nome, salvo che in un paio di annate, non è mai comparso nella lista dei pretendenti al Pallone d’oro. Ma se Messi avesse giocato sempre nel Boca Juniors, avrebbe mai sfondato come ha fatto con il Barcellona? Totti è stato senza dubbio penalizzato dalla sua scelta di vita e magari anche da una certa pigrizia d’indole, ma resta un calciatore che può raggiungere il traguardo dei 300 gol dopo avere vinto un mondiale e sfiorato un europeo. E, soprattutto, uno dei pochi per cui vale sempre la pena di pagare i soldi del bi - glietto in cambio di emozioni garantite. Dopo Totti sarà comunque un altro calcio.

33 3.2 L’anticlassico (fuori dagli schemi)

Pilastri concavi, facciate ondulate come fogli di carta, timpani a pa - goda e cornici piegate come filo di ferro agli angoli delle finestre. Borromini è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto ai canoni dell’architettura di matrice classica, al suo rigore inte - gralista e bacchettone, alle sue regole insindacabili. Bisogna spingersi in Germania o a Praga per ritrovare gli esiti settecenteschi del linguaggio borrominiano e addirittura visitare Petra in Giordania per scoprirne le matrici culturali, certamente mediate attraverso il repertorio inesauribile che nel Seicento offriva la villa di Adriano a Tivoli. Nemo propheta in Patria ? Sì, forse. Oppure l’eresia di Borro - mini esprime una tale rivoluzione, una così forte proposizione in - novativa da non poter essere non solo compresa nella sua grandezza, ma addirittura tollerata. In realtà, le molte deroghe al classicismo imperante, che carat - terizzano l’architettura di Borromini, sono la dimostrazione che il talento non si ferma ai modelli, ma tenta continuamente di superarli andando ad occupare i territori lasciati vergini dai predecessori, per mancanza di tempo o di occasioni, e da loro tacitamente con - segnati ai posteri. Alle loro intuizioni più felici.

Se i grandi spazi consentono ad un architetto di manifestare le proprie qualità, adottando di volta in volta le soluzioni più appro - priate tra le molte possibili fornite dalla tradizione e dall’accade - mia, è nell’angustia di uno spazio ristretto e fortemente vincolato che si misura davvero il talento del fuoriclasse. Il lotto edilizio del complesso dei Trinitari subisce fortissimo il pressing delle due grandi arterie del traffico romano che si incro - ciano alle Quattro Fontane. Uno spazio risibile se paragonato a quelli occupati dagli altri ordini religiosi in città: basti pensare ai Gesuiti del Collegio Romano. Il rischio, fin troppo evidente, è l’effetto claustrofobico indotto dal vincolo urbanistico, che metterebbe in fuga i fedeli anziché at - tirarli all’interno. Una specie di autogol, insomma.

34 E allora tutto va ottimizzato secondo un criterio di economia, tenendo conto cioè che se si riduce lo spazio si accorcia anche il tempo a disposizione per comunicare quel senso di conforto spiri - tuale che è proprio di ogni chiesa e struttura conventuale. A co - minciare dal luogo preposto all’accoglienza: il cortile. Unico, irripetibile e assolutamente geniale nella capacità di tra - smettere un senso di pace e di pienezza a chiunque vi entri, il cor - tile di San Carlino è un capolavoro di tecnica e un’alchimia architettonica. Perché qui la materia si trasforma, letteralmente, a contatto con la luce che scende copiosa dall’alto facendo vibrare l’intonaco bianco delle superfici in una accelerazione di particelle che distrugge le pareti e, invertendo le spinte gravitazionali, solleva la scatola muraria. Le dimensioni risibili del cortile sembrano dilatarsi in un respiro profondo e prolungato che accoglie il visitatore e lo mette a suo agio, a dispetto delle apparenze. Ma non è solo suggestione, c’è molta tecnica oltre l’effetto. Per smarcarsi dal vincolo imposto di uno spazio ridotto al mi - nimo, Borromini rompe gli schemi e inventa una frase mai detta, un neologismo felice, denso di significato e al tempo stesso eretico nella forma, apertamente anti-classica. Con un gesto audace ed inedito, riduce il numero delle colonne che sostengono le arcate al piano terra, togliendo del tutto quelle in angolo. Non c’è spazio sufficiente per eseguire la sequenza se - condo il canone classico, ma mentre un mediocre architetto si sa - rebbe piantato sul problema senza riuscire a venirne fuori, Borromini adotta l’unica soluzione possibile sostituendo al pieno della colonna angolare un pilastro di aria e di luce. E non basta. La sua intuizione felice non si ferma alla semplificazione, per quanto geniale; il suo togliere non è pura necessità o licenza poetica. Tutto il cortile esprime infatti una straordinaria tensione dina - mica, come se poggiando gli spigoli sul vuoto l’intero organismo funzionasse meglio; anzi, come se quel vuoto fosse in realtà ener - gia pura, sprigionata da una massa che spinge e sostiene ma che è nascosta ai nostri occhi. Poi, d’un tratto, ce ne accorgiamo. Vediamo tutta quella materia

35 occultata premere con forza da dietro la cornice in alto, ai quattro angoli. Il muro si gonfia, esce dalla trabeazione e scarta improvviso in avanti, imprimendo alle pareti una spinta che ne azzera l’inerzia costringendoci a seguire con lo sguardo il divenire dell’azione, lungo i quattro lati del cortile. Roba da far girare la testa. Chiamatelo eretico, gridate allo scandalo se credete, oppure snobbatelo come hanno già fatto i puristi dell’ortodossia architet - tonica di ogni tempo e stagione. Le forzature di Borromini sono tocchi di classe, piccole magie mascherate da errori.

36 3.3 L’ironia scanzonata

Il cucchiaio è uno sberleffo. Ma anche un colpo di pennello. Po - trebbe essere un punto esclamativo se questa definizione non ri - chiamasse troppo i messaggini sui baci perugina. Certamente il cucchiaio, al di là della rappresentazione tradizionale che ce lo fa immaginare come posata da minestra, è una figura calcistica molto particolare. E molto legata al repertorio di Totti anche se le origini del gesto vanno cercate altrove. Non si hanno notizie di cucchiai nel vecchio calcio dell’ante - guerra, quando la televisione non riproduceva tutto ciò che acca - deva sui campi. Nemmeno il Grande Torino, la squadra mitica di , ha lasciato in eredità lo sberleffo del pallone. Bisogna quindi attenersi ai documenti filmati che scovano il primo vero identificabile cucchiaio del calcio nella finale europea del 1976, quando l’attaccante ceko Panenka beffò il portiere tedesco Maier che aveva due braccia lunghe un chilometro ma non riuscì a evitare la figuraccia. Perché il cucchiaio è esattamente questo: da una parte lo sber - leffo, dall’altra una figuraccia. Per questo ci sono allenatori che raccomandano caldamente ai giocatori di evitare un gesto che com - porta l’irrisione dell’avversario. In realtà la figuraccia può rove - sciarsi anche sull’esecutore: sbagliare per esempio un rigore a cucchiaio significa consegnare il pallone nelle mani del portiere se questo viene ispirato dall’idea di restare fermo per vedere l’ef - fetto che fa. È come avere una scala servita per quattro quinti reale. Quasi nessun giocatore di poker che abbia un minimo di dimestichezza con le statistiche, cambia una carta con il rischio concreto di restare con niente. Francesco Totti l’ha fatto il 29 giugno del 2000. C’ero anch’io quel giorno ad Amsterdam in uno stadio dipinto d’arancione per spingere l’Olanda verso la finale del campionato europeo. Ri - cordo come fosse oggi l’odore aspro di quello stadio, un odore che non avevo mai sentito in nessun altro campo del mondo perché nes - sun campo profuma di spinello come quello di Amsterdam. L’Italia non era certo la favorita, come non lo è mai la squadra

37 che deve sfidare i padroni di casa. Totti aveva il numero venti, che è il doppio di dieci, e godeva della fiducia di Zoff anche se non poteva esattamente ritenersi un titolare come Del Piero, l’eterno protagonista delle occasioni perdute. Comunque quando arrivarono al fatidico momento dei rigori, Totti c’era e l’odore di marijuana era svanito. «Mo je faccio er cucchiaio» avrebbe anticipato il no - stro a Maldini. Il quale dall’alto della sua praticità meneghina l’avrebbe fulminato con lo sguardo. Uno sguardo che poteva si - gnificare mille cose: non fare cazzate, attento a quello che fai, se lo sbagli ti rincorro fino al Colosseo e via andare. Il portiere olandese era Van der Sar, uno spilungone dall’aria svampita che avrebbe giocato e vinto anche nella Juventus. Non si è mai capito se sia stato un grande portiere o magari uno di quelli che sa trovarsi sempre al posto giusto al momento giusto. Di certo il 29 giugno del 2000 Van der Sar godeva di un’eccellente reputa - zione e mai si sarebbe aspettato il cucchiaio da un pivello che do - veva ancora guadagnarsi il posto da titolare in nazionale. «Mo je faccio er cucchiaio». Lo fece. Totti lo fece a capo del ri - gore più lungo della storia perché quel pallone era lento, insi - nuante, infingardo. Nessuno si ricordava del precursore, del rigore di Panenka a Maier esattamente 24 anni prima. Lo stadio che era tutto arancione prese una sfumatura di rosso accompagnando quel pallone con un gigantesco sospiro. Poi fu un insieme di sensazioni diverse: chi rideva, chi piangeva, chi inveiva, chi rivolgeva lo sguardo all’insù che è sempre un modo per scaricare le responsa - bilità. Francesco Totti aveva realizzato davanti al mondo che lo guardava in tv lo sberleffo sul quale aveva posto la firma, una spe - cie di marchio di fabbrica. Da quel giorno tutti i portieri sanno che quando si trovano di fronte Totti quello sberleffo è dietro l’angolo e non si tratta di corner. Sanno che possono essere turlupinati, bef - fati, irrisi. Totti, da parte sua, sa che cambiare la quinta carta per in - seguire la scala reale resta un azzardo purissimo. Il rischio di toppare è forte, anzi fortissimo. Ma ogni tanto vale la pena di cor - rerlo. Il cucchiaio, in verità, non si realizza soltanto quando si tira un calcio di rigore. Diciamo che quello è il cucchiaino da dolce, la

38 posata per gustare il dessert alla fine del pasto. Il cucchiaio vero è quello che si esegue in corsa, cioè nell’ambito di un’azione. È un gesto tecnico difficilissimo perché esige un movimento innaturale del collo del piede e una sensibilità fuori dell’ordinario. L’alluce deve colpire «sotto» il pallone in un punto preciso per un esercizio balistico possibile solo ai fuoriclasse autentici. Chiamiamolo, per comodità dialettica, il grande cucchiaio e ricordiamo, in proposito, quello che è stato uno dei gol più belli realizzati da Totti, quello del 28 ottobre 2005 a contro l’Inter. Un’azione travolgente, avversari seminati e ipnotizzati, uno sguardo a Julio Cesar che aspetta la botta e cerca di coprire lo spazio del tiro avanzando di un metro e così facendo si espone, lasciando libero un solo itinerario, quello della fantasia. Il pallone colpito dall’alluce di Francesco ap - pena fuori dell’area di rigore, segue fatalmente quell’itinerario, lo percorre veloce e sicuro. Non è come a Amsterdam, non si avver - tono sospiri ma solo un corale «oooooo» che accompagna quella palombella giallorossa, una delizia sublime. Non ci sono bandiere, non ci sono schieramenti, non esiste faziosità che possa prevalere davanti a ciò che è oggettivamente bello, artistico, oserei dire ge - niale.

39 3.3 L’ironia scanzonata (e irriverente)

Il suo gesto più eclatante fu senz’altro l’aver coronato con due orec - chie d’asino lo stemma papale, posto sulla cantonata dell’edificio di Propaganda Fide proprio di fronte alle finestre della casa di Bernini, al quale era stato preferito nella conduzione del cantiere. Inutile cercarlo: questo sberleffo palese non c’è più da secoli. Ma restano altri segni.

Nell’eloquio altisonante del barocco romano, pieno di sé e del proprio indiscusso magistero accademico, unico legittimo erede della tradizione classica, il frasare di Borromini smorza i toni gio - cando d’arguzia e di fantasia. Sono piccoli inserti, licenze poetiche che facilitano la lettura perché aiutano a ricordare, ad imprimere nella memoria se non pro - prio l’assunto teorico quanto meno il senso generale del discorso e lo fanno usando l’ironia, l’eccentricità, l’anomalia.

Alle spalle di Palazzo Farnese o, per meglio dire, all’ombra della sua possente sagoma su via Giulia, la residenza di città della fami - glia Falconieri fatica ad imporsi nello scenario urbano. Da una parte il Tevere, dall’altra i Farnese: due forze della natura, si di - rebbe. Quando viene incaricato dai Falconieri dell’ampliamento del palazzo, Borromini non commette l’errore di strafare, di alzare il tono del linguaggio architettonico mettendosi in competizione con i giganti dirimpettai. Usa invece un espediente colto e al tempo stesso sagace, con quel pizzico di malizia che connota sempre la battuta intelligente privando l’interlocutore della possibilità di re - plica. Due erme con busto femmineo e testa di falco chiudono agli estremi la facciata su via Giulia, costringendo il passante ad un fermo immagine che fissa il ricordo, per sempre. Così l’architetto ha beffato la sorte: consegnando il nome dei Falconieri alla me - moria dei romani, proprio sotto lo sguardo incredulo dei Farnese.

Roma pullula di stemmi papali. Si riconoscono per via delle chiavi di San Pietro e della tiara, copricapo del Pontefice, che li

40 sovrastano. Al centro degli stemmi l’insegna araldica del Papa: svolazzano le api Barberini, brillano le stelle dei Chigi e la co - lomba dei Pamphilj tiene un ramo d’ulivo nel becco. Sono i segni tangibili del potere e della munificenza del Santo Padre, la firma lasciata ad imperitura memoria sui manufatti artistici e agli angoli delle strade, come i cartigli dei faraoni sui colossi di pietra, un im - primatur che garantisce la qualità del decoro urbano e lascia il segno nella memoria collettiva . Ma per vedere uno stemma con le ali bisogna entrare in San Gio - vanni in Laterano, la cattedrale di Roma, e guardare sopra il portale d’ingresso. Adagiato sulla balaustra della loggia, come in procinto di spiccare il volo, lo scudo araldico di Innocenzo X Pamphilj mo - stra due possenti ali di aquila in riposo. E tutto sembra all’improv - viso vibrare attorno a noi, la scatola di luce della navata diventa uno spazio rarefatto e sospeso nel vuoto. Un brivido di emozione ci accarezza, come il leggero fruscio di quelle ali che aspettiamo da un momento all’altro di sentire sfiorare le nostre teste. Con un gesto geniale ed irriverente, Borromini trasforma lo scudo araldico del Papa in un volano di suggestioni visive e di ri - chiami sensoriali che coinvolgono il fedele in un’esperienza nuova e totalizzante, in fondo unica come l’evento giubilare di cui diviene così metafora visiva e memoria nel tempo. Con un sorriso.

Poche altre facciate romane riescono ad incutere soggezione quanto quella del Collegio di Propaganda Fide, nella via omonima. L’ingresso principale, su piazza Mignanelli, è opera di Bernini ed è di una noia mortale. Il solito stemma Barberini, la targa in la - tino con l’indicazione del Collegio, il ritmo pacato di finestre e pa - raste, come in una rima baciata; ma senza passione. Poi lo sguardo scivola sul fianco destro dell’edificio, attirato nel gorgo della stretta arteria del traffico romano, e resta impigliato nella superficie corrugata della facciata realizzata da Borromini. Si alza improvviso il tono generale e tutto sembra uscire dalle righe: spigoli vivi, forme convesse che invadono il piano stradale e altre concave che lo risucchiano, in un continuum magmatico che a stento trattiene la propria spinta effusiva. La visione di scorcio

41 non facilita la lettura del testo, di per sé complesso e oltretutto tra - scritto su una pagina pieghettata: come si fa a memorizzarlo? Per quale ragione il passante distratto dovrebbe accorgersi di questo brano architettonico in ombra e trattenerne il ricordo? La risposta è in alto, nel cornicione che esonda con drammatica enfasi dal piano della facciata, stigmatizzandone il profilo in una pesante sot - tolineatura, come il segno dell’evidenziatore nella pagina intatta del libro. È tutto chiaro adesso; resta l’aspetto terrifico di quella cornice, che certamente non scorderemo più, ma avvicinandoci un po’ e alzando lo sguardo verso la finestra sopra il portone, note - remo il volto di un cherubino che ci sorride con angelica irrive - renza, quasi un velato sfottò: “paura eh?” Mai prendersi troppo sul serio!

42 3.4 Il gioco di prestigio

Ci sono stati molti altri cucchiai dopo il primo, realizzato contro il nell’ottobre del ’95, giusto dieci anni prima del capolavoro di San Siro. Uno dei più belli a Empoli anche se forse Totti ricorderà con particolare piacere quello confezionato in un derby per l’amico Peruzzi, festeggiato con l’esposizione di una sottomaglia con la scritta «sei unica». Non era ancora di dominio pubblico la sua sto - ria d’amore con Ilary Blasi e quel messaggio segnò in qualche modo il rapporto, una specie di fidanzamento ufficiale con un bel cucchiaio in dono al posto del convenzionale anello. Il linguaggio delle sottomaglie è qualcosa di misterioso e affa - scinante. È chiaro che non esisterebbe se la televisione non avesse ormai catturato ogni spicchio del pallone, dallo spogliatoio prima e dopo la partita, al labiale di tutti i giocatori, compresi quelli della panchina. Un argentino macho che Totti ha conosciuto da vicino, Gabriel Omar Batistuta, si precipitò dopo un gol davanti a una te - lecamera posta a bordo campo per informare il mondo di essere innamorato di Irina, che era molto banalmente sua moglie. In quel caso nessuna scritta sulla canotta, ma un urlo squarciagola che non ammetteva compromessi lasciando aperte le discussioni e il gossip sul movente di un gesto così plateale.

Ci sono stati in seguito calciatori che hanno dedicato gol speciali ai figli, ce ne sono stati altri, soprattutto sudamericani, che hanno optato per i sentieri del misticismo proclamando la propria devo - zione per Gesù. Naturalmente possiamo riferire soltanto quello che è stato scoperto, nel senso letterale della parola: chissà quante ma - gliette della salute preparate per stupire sono state spedite malin - conicamente in lavanderia senza passare per la inquadratura promessa. Che non poteva essere negata, invece, a un’altra pasqui - nata di Totti: quel «vi ho purgato ancora» dedicato ai tifosi della Lazio dopo un gol in un derby tumultuoso provocò non poche po - lemiche indirizzando la giustizia sportiva verso una nuova intran - sigenza: vietare ai calciatori lo spogliarello della felicità non ha per altro risolto il problema. Per imperscrutabili ragioni legate alla

43 psiche, molti giocatori continuano a togliersi la maglia per cele - brare un gol in cambio di un inevitabile cartellino giallo che non di rado si tinge di rosso. Quanto ai messaggi scritti, basta sollevare la maglia quel tanto che basta e l’elusione, specialità del nostro po - polo, è servita. Ma se a proposito di Totti eravamo partiti dal cucchiaio, non possiamo non scivolare su un altro colpo fatato del repertorio fran - cescano: il colpo di tacco. Ho visto, ahimé quasi tutte le partite di Totti e credo di poter dire che è uno dei non molti campioni a pos - sedere quello che alcuni chiamano «lo sguardo posteriore». Il cal - cio di oggi, a differenza di quello dell’immediato dopoguerra, si basa sulla velocità di esecuzione. Se non sei rapido di riflessi e in - tenzioni, sarai quasi certamente sopraffatto. Il privilegio di «ve - dere» quello che succede alle tue spalle, oltre a ciò che avviene davanti, dà un vantaggio notevole a chi possiede questa dote. Anche se non serve a evitare di essere colpito alle spalle, come purtroppo capita troppo spesso ai calciatori di talento.

Il colpo di tacco, è bene sottolinearlo, è un esercizio talvolta sgradito agli allenatori che in alcuni casi lo considerano un vezzo non solo superfluo, ma addirittura dannoso. Il che è indubbiamente vero per chi non è dotato dello specchietto retrovisore. Un colpo di tacco sbagliato può essere lo spunto per un contropiede letale e per questo la diffidenza di alcuni tecnici è più che comprensibile. Ma quelli come Totti sono capaci di trasformare un colpo di tacco in un grimaldello che può scassinare il dispositivo difensivo degli av - versari perché mette fuori uso in modo imprevedibile il giocatore che tenta l’intervento d’anticipo.

Detto così sembra facile, come sembrava facile la finta con la quale Garrincha si liberava immancabilmente del suo cerbero. Questo fuoriclasse brasiliano che si rivelò insieme al giovanissimo Pelè nei mondiali vinti in Svezia nel 1958, eseguiva sempre lo stesso movimento. Un movimento reso ancora più anomalo dal fatto che per una malformazione genetica, Garrincha aveva una gamba più corta dell’altra. Comunque non c’era terzino che non

44 abboccasse a quella finta apparentemente elementare così come non esiste antidoto, calcioni a parte, per limitare gli effetti di un colpo di tacco realizzato al momento giusto. Ma c’è un altro straordinario gesto tecnico che fa parte del reper - torio di Totti e di pochi altri calciatori dell’era moderna: si tratta di quello che alcuni chiamano «passaggio a occhi chiusi». Anche in questo caso è indispensabile avere in dotazione lo specchietto re - trovisore perché nel momento dell’esecuzione Francesco volta le spalle al compagno di squadra che intende lanciare. Un’azione che sembra un colpo di rasoio: Totti va incontro al compagno che sta per affidargli il pallone e appena lo riceve lo gira, a occhi chiusi ap - punto, lanciando l’attaccante che è scattato in avanti per un taglio che può mettere in crisi tutta la difesa. Nel campionato dell’ultimo scudetto romanista, quello con Ca - pello in panchina, questo schema di gioco è stato assiduamente ap - plicato: a beneficiarne sono stati a turno Batistuta, Montella e Delvecchio, tutti pescati a occhi chiusi da quell’intuizione geniale. Negli anni successivi, Totti è stato costretto a riaprire gli occhi e a constatare che per continuare a cercare un po’ di gol per la Roma, non c’era altro modo che lanciare se stesso.

45 3.4 Il giuoco di prestigio

Sarebbe un errore pensare al Seicento unicamente come al secolo della Controriforma cattolica, né del resto si può relegare alla sem - plice funzione di Sede papale la Roma di allora, salotto delle ec - cellenze in campo teologico e letterario, ma anche palcoscenico ideale per le manifestazioni più varie dell’ingegno umano in campo scenografico e teatrale. Basti pensare agli apparati effimeri che ac - compagnano i maggiori eventi del tempo: incoronazioni e funerali, genetliaci regali e visite ufficiali di capi di stato, matrimoni blaso - nati e nascite di primogeniti, trattati di pace e vittorie militari. Nella grande arena della Storia che è Roma, gli architetti sono chiamati a stupire con il proprio talento ed ingegno tecnico, con la fantasia e l’originalità di scelte sempre nuove o quanto meno ca - paci ogni volta di strappare l’applauso, di convincere il pubblico con la forza della suggestione. I committenti, potenti cardinali o principi che siano, fanno a gara per accaparrarsi i nomi migliori sulla piazza, ben sapendo che l’in - carico dato alla persona giusta può avere un ritorno di gran lunga maggiore in termini di prestigio di quanto non si sia speso in de - naro sonante. Così è sia per le manifestazioni pubbliche sia per quelle private, racchiuse cioè entro le mura o nei cortili delle di - more aristocratiche romane, veri giardini di delizie per pochi eletti. Certo, la destinazione privata comporta un cambio di tono ed un linguaggio più colto, destinato cioè a palati più raffinati ed esigenti, non facilmente accontentabili con semplici affabulazioni visive; richiede insomma un salto di qualità che non è alla portata di tutti gli architetti. Con la sua ironia scanzonata, e talvolta perfino irriverente, Bor - romini sa interpretare magnificamente il gusto del mecenatismo dell’epoca per la citazione dotta, per il coup de théâtre improvviso e geniale che suscita emozione e coglie impreparato lo spettatore, convincendolo con la forza delle idee oltre che con la suggestione sensoriale. Per il palazzo dei Falconieri in via Giulia inventa una serie di soffitti a stucco, nei quali decorazioni all’antica di gusto classico

46 si alternano a motivi araldici e simbologie desunte dai repertori di emblemata , molto in auge all’epoca nei salotti bene della città. È buffo immaginare il fior fiore dell’aristocrazia romana intento a ri - guardare con la testa in su quegli enigmi ancora oggi insoluti, con la curiosità e il divertimento di chi non sa come ingannare il tempo e cerca soluzioni, ma più alla propria noia che alle sciarade in sé. È facile intuire l’atmosfera di certi pomeriggi estivi, attanagliati dal caldo umido di una Roma assolata e deserta, trascorsi nei pic - coli ambienti al piano nobile di palazzo Falconieri tra una limonata ed un gossip d’alto rango, cercando refrigerio nella penombra delle persiane socchiuse. “Ogni soffitto un rebus: tre punti ai vincitori!” Ma il capolavoro ludico di Borromini, il suo più famoso giuoco di prestigio è senza dubbio la galleria prospettica di Palazzo Spada. Otto metri che sembrano venti, una fuga vertiginosa verso il fondo tra due ali di colonnato voltato a botte: et voilà , il gioco è fatto. Però qui c’è sia il trucco che l’inganno. Il trucco è dato da un insieme di espedienti, miscelati con cura dall’architetto a formare una rappresentazione spaziale perfetta, tale cioè da convincere l’osservatore della veridicità del dato og - gettivo, e di conseguenza della sua dimensione presunta, a partire dalla colonna che è in realtà molto più piccola del normale. A que - sto si aggiunga l’inclinazione del pavimento su cui poggia il colon - nato, che tende a salire verso il fondo creando un effetto di rapido allontanamento progressivo, e la collocazione sullo sfondo di una statua alta solo 60 cm, invece dei tre metri abbondanti che sarebbe logico aspettarsi. L’inganno è completo, perché la nostra mente segue un percorso di conoscenze pregresse nel mettersi davanti all’opera, senza riu - scire a cogliere la specificità della galleria, cioè la dimensione reale dei suoi elementi di base e dunque del suo effettivo sviluppo spa - ziale. Ma l’inganno non è fine a se stesso. Non è l’ostentazione di un tecnicismo perfetto ma tristemente sterile l’interesse di Borromini e del cardinale Bernardino Spada suo committente; non serve l’in - telletto se la sua luce non riscalda l’anima, indicando la via della salvezza.

47 Così, avvicinandoci al colonnato fino ad entrarvi dentro, no - tiamo che i fusti delle colonne sono a sezione ellittica e che queste sono poste in obliquo rispetto all’asse centrale della composizione, al suo fuoco, facilmente identificabile nella statua sul fondo. La loro progressione accelera la visione e contribuisce a rendere l’in - ganno verosimile, ma al tempo stesso è lo strumento offerto a tutti per svelare il mistero e infrangere la finzione, restituendo verità al dato reale che viene così ridimensionato, in tutti i sensi. La metafora è chiara, disarmante perfino nella immediatezza del disinganno che si prova non appena la ragione prende il soprav - vento sull’illusione e sulla divagazione onirica: vana è la nostra percezione delle cose terrene, tanto grandi all’apparenza eppure infinitamente piccole nella sostanza. Un monito ed una lezione di stile. Il giuoco di prestigio di Borromini esprime una completezza di intenti e di finalità che, avvalendosi di una tecnica eccelsa e di una conoscenza approfondita degli strumenti scientifici, è altresì ca - pace di offrire all’osservatore un più ampio orizzonte di analisi e di ragionamento, nel quale cioè la mera percezione dal dato visivo sconfina nell’allegoria restituendo alla “favola” la sua “morale”. Molto al di là dell’applauso, peraltro scontato.

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48 3.5 Il coraggio

Kaiserslautern si chiama così per via di Federico Barbarossa che vi si insediò con intenzioni bellicose. Lauter, sensa la n finale, è il nome del fiume che bagna il borgo, kaiser non ha bisogno di spie - gazioni. È una città della Renania fatta di case basse e pomeriggi grigi raramente frequentati da un sole costituzionalmente pallido. Totti non era mai stato qui con la Roma e probabilmente avrebbe avuto qualche difficoltà a pronunciare quel nome, uno scioglilin - gua buono per qualche spot pubblicitario di quelli in cui si diverte a prendersi in giro. Ci vuole un sacco di coraggio a prendersi in giro. E ci vuole un sacco di coraggio per battere un calcio di rigore da cui dipende la felicità di tante persone. “Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un gioca - tore. Un giocatore si vede dal coraggio, dall’altruismo e dalla fan - tasia...” sono le parole di una bellissima canzone di Francesco De Gregori. Un altro Francesco, guarda i casi della vita. Musica e non solo. Il rigore segna la storia di molte partite, di molti campioni, di molti tifosi. Il rigore può essere un’esplosione ma anche una fitta al cuore. Baggio sbagliò quello fatale a Pasadena, nell’ultimo atto dei mondiali americani, consegnando di fatto la coppa del mondo al Brasile ingrugnito di Carlos Dunga. Era il 1994, Roby si reggeva su una gamba sola, quella con cui aveva comunque portato l’Italia in finale. Di Biagio stampò su una traversa parigina il rigore che di fatto spianò la strada ai francesi eliminando l’Italia senza fantasia di . Era il 1998 e Gigi aveva la paura negli occhi mentre si avvicinava al pallone. Bruno Conti e Ciccio Graziani, due che avrebbero dato l’anima per la Roma, tirarono in cielo due rigori che avrebbero potuto dare alla Roma, invece che al Liver - pool, la coppa dei Campioni nella finale che si giocò all’Olimpico. Quando la coppa dei Campioni era veramente tale perché la gioca - vano soltanto le squadre che avevano vinto lo scudetto. Era il 1984 e Falcao, il brasiliano divino, si era rifiutato di tirarlo, quel rigore. Totti quella sera non aveva ancora otto anni.

49 Sono storie che servono anche a smentire uno dei tanti luoghi comuni del pallone. I rigori non hanno niente a che vedere con le lotterie perché il caso non incide più di tanto. La fortuna natural - mente entra sempre in qualche misura nelle cose della vita, ma il rigore è una prova di destrezza, di classe, di carattere e, appunto di coraggio. Può capitare di arrivarci senza un filo di energia, stremati dalla fatica, eppure trovare quell’attimo giusto, quell’illuminazione dell’istinto che ti porta sulla via giusta senza che tu te ne renda conto. Può capitare che si spenga la luce proprio mentre stai per calciare. Il rigore perfetto non è parabile: non c’è portiere, per quanto abile, che possa intercettare un pallone che arriva dalla di - stanza di undici metri e si infila in uno dei quattro angoli della porta alla velocità giusta. Il 29 giugno del 2006 le case basse di Kaiserslautern sembrano animarsi davanti al mondiale che si gioca in Germania. L’Italia si è guadagnata gli ottavi di finale dove trova l’Australia che a tutti sembra un ostacolo abbordabile, per non dire facile. Totti è arrivato in Germania per un atto di fede di Lippi che lo ha aspettato quasi con affetto dopo il grave infortunio che il capitano della Roma aveva subito giocando una stupida partita contro l’Empoli. Era chiaro a tutti che Francesco non avrebbe potuto essere al meglio, ma a Lippi andava bene anche quel poco. Anche se la critica, dopo le prime partite, insinuava la presenza di uno zoppo sottolineando che la Nazionale non sarebbe andata lontano giocando in dieci. Lippi decide comunque di puntare su Del Piero, l’eterno incom - piuto, lasciando Totti in panchina. La partita presumibilmente age - vole si rivela invece complicata perché l’Australia tiene bene il campo e addirittura guadagna metri e ambizioni quando Materazzi si fa espellere. In dieci contro undici questa volta davvero, non in senso figurato, Lippi sente odore di bruciato: essere eliminati da una squadra come l’Australia sarebbe un’onta, forse si parlerebbe di un’altra Corea. La partita sta per finire senza gol, così si an - drebbe ai supplementari, Totti è entrato nell’ultimo quarto d’ora al posto, ovviamente, di Del Piero. Grosso, l’esterno mancino, tenta l’ultimo affondo, entra in area e cade. Non si capisce bene l’entità dell’impatto con il difensore australiano, ma si capisce perfetta -

50 mente che l’arbitro, lo spagnolo Medina Cantalejo, ha fischiato. E’ rigore, proprio mentre il tempo sta scadendo. E adesso chi tira? Chi si prende la responsabilità? Lippi decide subito: Francesco tira tu. Tocca allo zoppo, a quello che è troppo romano, troppo pigro, troppo strafottente. Pensieri e parole davanti alla televisione. Non gli verrà mica in mente di rifare il cucchiaio? Pensaci Francesco, pensaci. «Ci ho pensato sì, come ho pensato a cosa sarebbe successo se avessi sbagliato. Ma ero tranquillo, l’ar - bitro mi ha fatto pure spostare il pallone perché non era esattamente sul dischetto. Di solito uno si innervosisce quando l’arbitro ti fa spostare il pallone, ma quel giorno non è successo, quel giorno sen - tivo che ce l’avrei fatta». Il portiere australiano si chiama Schwarzer. Nessun portiere, per quanto abile, può parare un calcio di rigore perfetto. Francesco Totti non chiude gli occhi mentre tira con il piede destro verso l’an - golo basso alla destra del portiere. I rigori non sono una lotteria. Il coraggio fa la differenza.

51 3. 5 Il coraggio (il problem solver )

Ci vuole coraggio a costruire la facciata di una chiesa accanto ad un’altra già esistente. Una sana follia ed un pizzico di incoscienza sono indispensabili per accettare un incarico del genere, una mis - sion impossible già nelle premesse. Perché il quasi certo fallimento premia i delatori, mentre nel caso di un improbabile successo si può sempre parlare di fortuna. Già, la Fortuna. La splendida Dea bendata che accorre in aiuto degli audaci, secondo il detto latino, e che tanta parte ha nella vita di tutti, gioca un ruolo importante anche nella vicenda artistica di Borromini, non fosse altro per il fatto di mettergli accanto un per - fetto alter ego quale Bernini. Un pezzo da novanta, si direbbe oggi, con tutti i risvolti subdoli che la definizione comporta; un abile po - litico della propria ascesa sociale ed uno stratega dell’autoaffer - mazione in campo artistico. È celebre l’episodio di sua madre che si reca dal Pontefice per chiedergli di voler intercedere presso il figlio, con il quale evidentemente era ormai quasi impossibile ra - gionare. Un tipo tosto Bernini, per nulla intimorito dal fatto di dover competere con il pronipote di Maderno per guadagnarsi la successione a capomastro della Fabbrica di San Pietro; e infatti ci riesce, a dispetto della stima e considerazione con cui Borromini era guardato dallo zio che, a quanto pare, si fidava solo dei disegni esecutivi fatti da lui a matita (una novità assoluta questa della ma - tita, al posto dell’incisione acquerellata, definita dagli storici la “ri - voluzione della grafite”). Ma “bomba o non bomba” - direbbe Antonello Venditti - e rivo - luzioni a parte, Borromini si ritrova a lavorare come subalterno di Bernini in San Pietro, con una propria ditta che gestisce i subappalti della Fabbrica. Non è un disonore per lui, che ama invece sentirsi libero di dare espressione alla propria fantasia creativa mediante il nobile mestiere di scalpellino. Un idealista, certamente, e già questo dà la misura della distanza di posizioni tra i due, eterni an - tagonisti più nell’immaginario collettivo che nella realtà dei fatti storici. La contrapposizione termina infatti quasi subito, appena cioè Borromini si accorge di un ammanco di cassa ai propri danni,

52 di un illecito amministrativo che viene perpetrato con il tacito as - senso del capomastro Bernini, evidentemente non pago della pro - pria posizione di superiorità nei confronti del rivale. È la rottura definitiva tra i due, e siamo solo all’inizio della carriera di Borro - mini. Anche lui è uno tosto e lo dimostra subito, con coraggio, accet - tando sfide sulla carta impossibili e comunque fuori della portata di qualunque altro architetto del tempo. Il lunatico, l’ombroso, l’antipatico si trova a risolvere problemi inediti e insormontabili per lo stesso Bernini, per Rainaldi, per schiere di giovani appren - disti al loro seguito e, ovviamente, per una committenza avida di successi e poco incline al fallimento, perciò molto esigente. Francesco sa di non poter sbagliare e non ha neppure la certezza del giusto riconoscimento. Lavora a testa bassa, convinto delle pro - prie idee e capacità, supportato da pochi fedelissimi amici tra cui Virgilio Spada, che molto si dà da fare per lui. Il resto è avversità e malasorte. Ma il tosto ticinese sforna i suoi capolavori, uno dopo l’altro, tutti straordinariamente belli: il cammeo prezioso di San Carlino; la spirale di Sant’Ivo, che anticipa di secoli quella rovesciata del Guggenheim Museum di New York; la doppia facciata del com - plesso dei Padri Filippini a Chiesa Nuova, un gesto di coraggio, appunto. La soluzione è geniale quanto ardita, perché scardina tutti i prin - cipi sottesi alla progettazione in quanto già determinati dalla fac - ciata della chiesa di Santa Maria in Vallicella. Invece del travertino Borromini usa il laterizio fine, connotando di rosso il prospetto bianco sulla piazza; alla rigidità del timpano di coronamento della chiesa preferisce un fastigio morbido e ondulato, quasi a pagoda; al principio di assialità dell’ingresso risponde con un portale che introduce in un atrio, lasciando a sinistra l’ambiente dell’Oratorio che, in questo modo, risulta eccentrico rispetto alla facciata esterna. Un capolavoro, semplice e pulito come si addice ad un’opera d’arte. Non c’è replica possibile ad una affermazione così puntuale e precisa, vincente. Eppure non basta a tributargli la fama che merita,

53 a conferirgli la stima incondizionata del vasto pubblico di cultori e di mecenati. Anzi, sarà proprio lo scontro con uno di questi ul - timi, l’iracondo principe Pamphilj, a determinare quella depres - sione che segnerà per sempre il suo destino, fino alla morte. La chiesa di Sant’Agnese in Agone, cappella gentilizia della fa - miglia Pamphilj, è infatti l’ultimo problema che Borromini è chia - mato a risolvere, in termini urbanistici oltre che strettamente architettonici. Per noi oggi è una delle più belle realizzazioni arti - stiche di Roma, fondale scenografico della sua piazza più famosa e giustamente celebrata, piazza Navona. Il compito è difficile quasi quanto quello della doppia facciata, che si trova proprio alle spalle della piazza, e l’architetto inventa una soluzione che per - mette alla chiesa di emergere in tutta la sua monumentale eleganza senza per questo oscurare la facciata del Palazzo nobiliare a fianco, né azzerare il prestigio del luogo storico, l’antico Stadio di Domi - ziano. Sant’Agnese svetta con i suoi due campanili, leggiadra e impe - riosa nel suo inflettersi quasi a voler accogliere il respiro della piazza in una osmosi perfetta tra interno ed esterno, sacralità e sto - ria. Una soluzione, quella borrominiana, che troverà ampia fortuna critica presso gli architetti a venire, come dimostra il barocco vi - sionario di Fischer von Erlach a Vienna. Ma la Fortuna, quella con la maiuscola, qui non c’entra. Anzi, a guardare la vita di Borromini sembra proprio che la Dea bendata sia stata perennemente girata di spalle. E che peccato, verrebbe da dire: non sa cosa si è persa.

54 3.6 L’anti-divo

Se un campione è un po’ un artista, allora non potrà fare a meno della sua corte. Una parola che può anche suonare male, soprattutto se la si associa ai miracoli, ma il genio non può mai essere lasciato solo. Nemmeno se si tratta di un cavallo: Ribot, l’unico purosangue che ha concluso la carriera senza conoscere la sconfitta, s’imma - linconiva se non aveva al suo fianco De Magistris, quadrupede senza pedigree ma con tanto cuore. Se Totti non si offende del paragone con un cavallo (e non ha ra - gione di farlo) la descrizione della sua corte non può che partire dal De Magistris della situazione che si chiama Vito Scala e fa di pro - fessione il preparatore atletico. Dal 2000 questo signore diplomato all’Isef, sposato e padre di tre figli, vive praticamente in simbiosi con Totti in un rapporto che ormai prescinde da quello professio - nale. Scala in realtà si occupa di tutto ciò che attiene alle esigenze quotidiane di Francesco, ne cura le relazioni con la stampa, le que - stioni pratiche e tutto quello che può servire nella quotidianità della vita. La domenica, naturalmente, Vito Scala è in campo con Fran - cesco: non potendo giocare, si mette seduto in disparte per ricom - parire quando l’arbitro fischia la fine e riaccompagnare negli spogliatoi il suo protetto. Magari coprendolo affettuosamente con la giacca della tuta per evitare che prenda freddo. Tante premure fanno pensare alla mamma, ma questa è un’altra storia. Intanto perché una madre non si spinge con rabbia fino a farla cadere come fece Totti con Scala nel gennaio del 2007 a Li - vorno, dove il capitano della Roma era stato appena espulso e non era quindi dell’umore migliore. E poi perché la mamma di Totti esiste e ha un ruolo importante nella cosiddetta corte di cui può es - sere considerata con buoni motivi la regina. Di Fiorella Marozzini si sa pochissimo, a conferma di quanto conti la discrezione in que - sta famiglia molto unita e molto particolare. Figlia di un tecnico degli elettrodomestici, ha rilasciato una sola intervista in tutto que - sto tempo, in cui il figlio ha vinto lo scudetto, nel giugno del 2001. Poche parole, quasi estorte, per ricordare i tempi duri, il famoso panino con la frittata preparato per Francesco che tirava i

55 primi calci, il desiderio di portare il figlio fuori di casa per limitare i contatti con i nonni malati e, naturalmente, la felicità di quel mo - mento tanto atteso e sognato. In realtà mamma Fiorella è l’architrave familiare: è lei a occu - parsi personalmente della «number ten», la società nella quale con - fluiscono tutti i guadagni del figlio che sono andati lievitando anno dopo anno. Una presenza silenziosa ma attiva anche sul fronte degli investimenti (soprattutto immobiliari) che sposta in secondo piano la figura del padre Enzo, detto lo sceriffo. Se Fiorella ha ri - lasciato una sola intervista, il marito ha fatto meglio, un percorso netto. Non si saprebbe niente di lui, ex dipendente di un istituto bancario, se non fosse stato Francesco a raccontare una volta nel salotto di Costanzo la sfumatura di un rapporto difficile: «Mio padre mi dice sempre che sono una schiappa e che mio fratello Ric - cardo sarebbe stato più forte di me se si fosse impegnato. Ma so che mi vuole bene». Maurizio Costanzo, a proposito, è un’altra persona che è diven - tata importante nel gruppo di famiglia. A lui si deve il lancio e la cura di un’immagine che ha fatto il giro del mondo con i famosi libri delle barzellette, straordinari successi editoriali i cui proventi, è bene ricordarlo, sono andati in beneficenza. Costanzo ha avuto l’idea che non ha convinto subito Francesco, permaloso quanto basta per non essere esattamente felice di essere preso in giro. Ma dopo averci pensato su, Totti ha dato via libera all’editore. Da quel momento la sua immagine è cambiata per assumere dimensioni molto diverse ed essere corteggiata da aziende multinazionali. Certo nessuno avrebbe immaginato che uno dei più fieri oppositori della Juventus avrebbe un giorno fatto il testimonial della Fiat al posto di Del Piero. Non ci sono molti altri personaggi significativi nella corte. E tutti, comunque, accomunati da una discrezione a prova di bomba. L’amico del cuore, Giancarlo Pantano, calciatore mancato per via di un brutto infortunio. Il commercialista Adolfo Leonardi, che lo assiste nelle vicende contrattuali. Un cugino, Angelo detto Pisolo, a cui ha dedicato il duecentesimo gol, che è stato anche suo testi - mone di nozze .

56 Poi, naturalmente, la principessa, Ilary Blasi. Totti ha avuto di - verse fidanzate ma quando dedica un gol contro la Lazio a questa bellissima ragazza bionda che fa la Velina, si capisce che la storia ha un altro peso. E infatti mentre il gossip si scatena, la favola si dipana su un copione romantico e suggestivo. Il matrimonio nel giugno 2005 è il classico Evento con lei, che aspetta già un bam - bino, bellissima e accaldata e lui, mai visto prima così «acchitto», che non riesce a mascherare l’emozione. Molto più difficile che ti - rare un rigore decisivo, racconterà poi. La cerimonia si svolge al - l’Ara Coeli (e dove sennò) e viene trasmessa in diretta da Sky, primo e unico caso del genere. Tutta la Roma che conta è presente, la politica in circostanze del genere è spontaneamente bipartisan e Totti, a questo punto, è ormai un patrimonio della città che tutti gli inquilini del Campidoglio riconoscono. L’ Auditel rivela un dato sorprendente: nonostante i limiti diffu - sionali di una tv satellitare, un milione e trecentomila persone sono rimaste incollate allo schermo per assistere al «sì» di Francesco e Ilary. Due ragazzi “della porta accanto”, belli e impacciati nel ruolo di star per un giorno; per nulla fanatici e mai spocchiosi nell’espo - sizione mediatica. Tutto era cominciato nel settembre del 1976 in un quartiere po - polare di Roma dove c’era un bar in cui ogni anno i proprietari controllavano l’altezza di un marmocchio. Da via Vetulonia all’Ara Coeli: le favole esistono.

57 3.6 L’anti-divo

Si fa presto a dire barocco. Nell’accezione comune della lingua parlata, l’aggettivo indica qualcosa di ridondante, pesante e super - fluo, talvolta sgradevole e quasi sempre eccessivo. Il significato storico del termine, invece, è sinonimo di fasto ed eleganza, dinamismo e complessità costruttiva, tecnica squisita ed altamente specializzata. Ma, si sa, ogni rivoluzione alla fine si im - borghesisce e così anche la spinta vertiginosa del baldacchino di San Pietro ha figliato una miriade di soluzioni obbrobriose, tra l’iperbolico e il grottesco; il virtuosismo scultoreo si è appiattito in un cliché stilistico che, incapace di aggiornarsi e rinnovarsi, ha fi - nito per perdere completamente la propria carica innovativa tra - sformandosi piuttosto in un repertorio di forme pedanti e ipertrofiche, totalmente prive di appeal se non addirittura mo - struose. La grande fascinazione del barocco, ciò che ha prodotto in - somma tanta emulazione nelle generazioni seguenti, è senza dub - bio la magniloquenza del suo linguaggio, l’enfasi che caratterizza le varie soluzioni adottate in campo architettonico, scultoreo ed ur - banistico, con una teatralità che esalta il genio creativo dell’arte - fice, almeno quanto la munificenza del committente. Tutte prime donne, a contendersi il ruolo di protagonista: il Papa e l’architetto, il cardinale e il pittore, il principe e lo scalpellino. E in questa fab - brica di divi sembra proprio che ci sia gloria per tutti. Fuori dal coro, lontano dai riflettori, sta Borromini: l’anti-divo per eccellenza. Tutta la sua opera smentisce i modi e le cadenze del grande tea - tro barocco, invertendo in modo sistematico i poli della percezione spaziale: il molto piccolo invece del grandioso, l’essenziale al posto del ridondante, il semplice gesto quotidiano del singolo in - dividuo preferito alla liturgia del rito collettivo.

Piccolissima è la chiesa di San Carlino, quasi una sfida per l’ar - chitetto che ha a disposizione un’area grande quanto uno solo dei quattro piloni su cui poggia la cupola di San Pietro. Uno spazio ri -

58 dottissimo ma non angusto nella percezione di chi entra, né privo di interesse per il fatto di dover comprimere il discorso in un tempo minimo. Al contrario, azzerando le formule codificate della spet - tacolarità barocca Borromini mette al centro dell’esperienza sen - soriale l’individuo, con le incertezze ed i dubbi che ne accompagnano l’animo, concedendo a ciascuno il proprio tempo di ascolto del luogo e, di conseguenza, la possibilità di trovare al suo interno il conforto sperato.

Essenziale è il sistema di comunicazione che Borromini adotta per trasmettere il senso del proprio discorso e le finalità sottese all’opera, cioè la natura dell’edificio e la sua destinazione d’uso. Per il monastero di Santa Maria dei Sette Dolori, in cima a via Garibaldi, organizza una facciata con lesene e cornici che si incro - ciano a formare una griglia, metafora visiva della clausura vigente all’interno per le oblate agostiniane. Nella navata centrale della basilica Lateranense sistema dodici nicchie vuote all’interno dei pilastri, disposte come le 12 porte della Gerusalemme celeste descritte nell’Apocalisse di San Gio - vanni, cui la chiesa è intitolata. Sarà il vezzo classicista di papa Albani, nel Settecento, a riempire con statue degli Apostoli quei vani lasciati vuoti da Borromini come una etimasía , un’attesa che è speranza nella Rivelazione del giorno del Giudizio. Possiamo solo immaginare l’effetto prodotto da quella scatola di luce sui pel - legrini accorsi a Roma in occasione del Giubileo del 1650; il senso di vertigine indotta dal bianco incandescente di quelle pareti in stucco, così diverse dalle policromie dei marmi e dalle dorature delle altre basiliche patriarcali. Ma non è forse la luce la metafora più chiara del divino? Nessun colore può infatti rappresentare ciò che non è di questa terra: la natura sovrannaturale del mistero eu - caristico e la dimensione assoluta della Vita eterna. Poi, quasi a voler accompagnare per mano il fedele verso l’altare delle cele - brazioni, Borromini dispone una folla di angeli sopra le arcate delle navate laterali, in penombra rispetto al bagliore di prima. Sorridono con i loro volti grassocci e bonari, intermediari tra noi e Dio, se - gnali tangibili della distanza che ci separa dalla Redenzione e al

59 tempo stesso guide preziose per orientarci lungo il cammino che, a questo punto, sembra possibile e a portata di mano. Come è nello spirito del Giubileo, appunto.

Quotidiano è il gesto di lavarsi le mani, che i padri filippini com - piono prima di andare a mangiare. Davanti alla porta del refettorio, nel complesso dell’Oratorio di San Filippo Neri, Borromini colloca due lavamano, due piccole vasche poggianti su colonnine come calici di fiore aperti sugli steli. Niente di nuovo, sembrerebbe, se non fosse per il fatto che i due catini non sono appoggiati alle pareti ma liberi e indipendenti, tali cioè da permettere a più persone di compiere quel gesto insieme, disponendosi tutti intorno e non uno alla volta. Così quel gesto quotidiano, quel tempo morto nella giornata della comunità si tra - sforma in una nuova occasione di incontro, in uno scambio di sguardi e di pensieri che accresce la familiarità e consolida l’ami - cizia, fuori dai rituali di una regola che impone comunque disci - plina e rigore, anche ai seguaci del Santo della gioia e del canto. Soltanto per loro, per questa briciola di felicità che potrà forse aiutarli nel confermare una scelta di vita condivisa, Borromini rea - lizza il suo piccolo capolavoro; dietro le quinte e senza luci di scena.

60 3.7 Il gesto nascosto

Molti si chiedono quanta parte di Francesco Totti si sia espressa compiutamente e quanta sia rimasta soffocata dalla sua voglia di restare nella Roma, dalla sua quasi cronica esigenza di non stac - carsi dal grembo della città dove è nato, dove è cresciuto, dove ha messo su famiglia. La maggior parte degli osservatori ritiene che questa scelta così forte e inappellabile abbia costituito un limite importante per un campione che in un certo senso ha rifiutato di giocare in formazioni certamente più competitive. Manca come sempre la controprova e comunque in cambio di cosa?

Il punto sta proprio in questo interrogativo apparentemente ba - nale. La prima risposta che in molti si danno, è che dietro la scelta esistenziale di Totti ci sia un sottile timore di essere sottoposto a giudizi inevitabilmente più severi di quelli per così dire casalinghi. Giocare per esempio nel Real Madrid da straniero, gli avrebbe cer - tamente consegnato un bel po’ di gloria aggiuntiva, un conto in banca ancora più ricco, ma lo avrebbe anche esposto a una specie di esame senza fine. Meglio restare con la mamma, che è sempre estremamente protettiva e indulgente, piuttosto che confrontarsi con una critica severa e costante in un ambiente che non fa sconti. Può darsi che ci sia una parte di verità in questa analisi, ma per esserne convinti fino in fondo è bene esaminare il rovescio della medaglia partendo dal celebre motto «nemo propheta in patria». Roma ha inghiottito parecchi figli e anche Totti ha dovuto superare non poche insidie nel suo rapporto con la città. Non è stato soltanto lo stravagante tecnico argentino Carlos Bianchi a metterlo a dura prova. Il rapporto d’amore forte e certamente intenso tra il capitano della Roma e la sua gente è quello che è; ma ci sono anche quelli che lo considerano un peso, anzi una palla al piede per una società che ha finito con l’essere prigioniera del suo figlio prediletto che tra l’altro pesa sul bilancio in modo considerevole. Questa oppo - sizione strisciante e silenziosa fino a un certo punto, si è manife - stata in modo palese durante le trattative per la cessione del club, il tormentone ricorrente che tanto sembra angustiare la signora Ro -

61 sella Sensi in Staffoli, impegnata in contenziosi bancari incom - prensibili per i comuni cittadini alle prese con le rate del mutuo che non possono mai scadere. Qualcuno ricorderà ancora la rumo - rosa sortita di uno dei legali che assistevano un potenziale acqui - rente della Roma: Totti è la rovina di questa squadra. Disse proprio così, a metà strada tra la sciocchezza e il sacrilegio, ma Francesco, che tra l’altro è molto permaloso, rimase molto colpito da quella clamorosa manifestazione di dissenso. Tanto dall’aver pensato, solo per un momento, di chiudere la carriera lontano dal grembo. C’era il Barcellona che l’avrebbe accolto con tenerezza, diciamo così, sotto la spinta di Pepp Guardiola, grande estimatore di Totti. Per capire veramente il significato di certe decisioni, bisogne - rebbe servirsi di una candid camera in grado di filmare e conse - gnare agli archivi le cose che accadono dietro le quinte. Il gesto nascosto di un artista è anche, qualche volta, il più nobile oltre a es - sere fortemente significativo. Essere leader, e Totti certamente lo è, comporta obblighi di visibilità imprescindibili che sono anche di carattere commerciale: la Roma con Francesco in campo ha una certa quotazione che senza di lui non ha. Perfino il lucroso con - tratto televisivo con Sky, che rappresenta la voce più forte del bi - lancio, tiene conto della presenza dell’uomo simbolo. Ma c’è anche un Totti che pochi conoscono: quello che lavora lontano dalle luci dei riflettori nell’interesse della squadra. Un Totti che potremmo definire regista, qualifica tecnica che lo potrebbe anche interessare negli ultimi scampoli di carriera, speriamo il più tardi possibile. Quello che privilegia un passaggio, una rifinitura, un assist , al gol personale e lo confessa candidamente nel corso di un’intervista: «Ci sono momenti in cui la soddisfazione di far segnare un com - pagno servendogli la palla con il contagiri è veramente impaga - bile». Quello che nei momenti di difficoltà, quando le partite vanno storte e il vento ti arriva in faccia gelido come la tramontana, prende i compagni e li porta tutti a mangiare una pizza per fare gruppo, guardarsi negli occhi e ritrovare le forze. Quello che quando la società stava per precipitare e c’era biso - gno di un aumento di capitale che la famiglia Sensi non poteva so -

62 stenere, ha comprato un bel pacco di azioni della Roma che ancora possiede, unico caso nel mondo del pallone. Quello che ha un ufficio a Trigoria, dove una volta c’erano solo le pecore, nel quale parla quasi tutti i giorni con i ragazzi della Pri - mavera per aiutarli a crescere e se per caso qualcuno ha problemi economici perché il padre ha perso il lavoro, non c’è problema, ci penso io. Quello che aveva ospitato a casa sua Cassano, trattandolo come uno di famiglia, prima di accorgersi di essere stato tradito. Quello che telefona un giorno sì e l’altro pure a per convincerlo a vincere le perplessità e accettare di giocare nella Roma alla faccia di chi pensa che il capitano non voglia nella squa - dra personaggi che in qualche modo potrebbero fargli ombra. Quello che quando c’è da metterci la faccia, magari sostituen - dosi alla società che ha le spalle deboli, non esita a farlo anche a costo di pagare un conto salato. Quello che è il capitano della Roma.

63 4.7 Il gesto nascosto

La grande stagione del barocco romano, intesa come affermazione di un linguaggio originale ed inedito resosi esportabile in formule e cadenze precise e facilmente riconoscibili, si chiude in modo em - blematico con l’abbraccio del colonnato di Bernini a San Pietro. Due ampi emicicli di colonne gigantesche, che si protendono in avanti quasi a voler accogliere lo spazio antistante, con la stessa forza salvifica di un forcipe alla nascita. Pochi sanno chi sia il Papa committente dell’opera; nessuno ri - corda il numero delle colonne, ma tutti conoscono il nome dell’ar - chitetto: Gian Lorenzo Bernini, appunto. Perché il barocco, con la teatralità delle sue forme espressive e quel tanto di sovraesposi - zione mediatica che fu loro congeniale, comporta necessariamente l’elezione dell’artista a vero capolavoro vivente, ad oggetto di culto e di idolatria da parte del pubblico, prima e ancor più del suo stesso manufatto. È lui l’artefice della magia che si compie, regista sapiente di emozioni che investono intere masse di fedeli nelle chiese e ster - minate folle, accorse nelle piazze di Roma per assistere agli effi - meri spettacoli elargiti dalla munificenza papale. L’artista è il divo, l’eccelso, il sublime; ed il suo gesto è esplicito, magniloquente e re - torico quanto basta per incidere con forza le sue iniziali nel registro della Storia. L’effetto è altisonante e di quelli che incutono timore, ma viene sapientemente dosato in un mix di ingredienti consolatori di facile consumo da parte del pubblico che, in questo modo, non soltanto subisce un’attrazione fatale per il contesto architettonico, ma svi - luppa altresì una forte fidelizzazione nei confronti della commit - tenza e del management ad esso sottesi: cioè il Papa e la sua politica del consenso. Un esempio per tutti è la basilica di San Pietro. Tutto al suo interno è gigantesco e fuori scala rispetto alle pro - porzioni umane; se solo si avesse la minima cognizione delle al - tezze vertiginose dei pilastri o del peso esatto delle decorazioni in stucco dorato e marmo, si scapperebbe a gambe levate non appena entrati.

64 E invece, siamo fatalmente attirati al suo interno: smarriti come le pecorelle del racconto evangelico, ma non per questo disperati, entriamo tutti in fila a prenderci un pezzo di salvezza nel teatro dell’impossibile che si fa reale, dell’iperbolico che sembra vero, dell’immensamente grande che dialoga con l’infinitamente pic - colo, dell’incommensurabile che diviene tangibile. C’è gloria per tutti, sembra suggerire lo scenario di luci abbaglianti che ci avvolge in un’aura di salvezza, di redenzione completa, di consenso pie - namente partecipato anche se non esattamente consapevole. È il trionfo della suggestione, che trasforma in certezza la spe - ranza, azzerando ogni dubbio residuo circa la validità dell’assunto dogmatico della Fede. Dall’altra parte della scena, volutamente in disparte, si pone Borromini con il suo gesto altrettanto incisivo ma, per contro, na - scosto. È come se l’architetto usasse un tempo diverso, più articolato, ri - spetto all’unità assoluta della macchina barocca: piuttosto che su - scitare un subitaneo shock emotivo che provochi l’applauso del pubblico, Borromini organizza lo spazio in modo tale che ogni sin - golo passo al suo interno sia rivelatore di conoscenza, aiuti cioè a capire gradualmente il funzionamento dell’intero organismo archi - tettonico, mettendo sempre al centro dell’esperienza l’uomo. È in - somma un percorso di avvicinamento alla verità, misurato sulle capacità reali dell’individuo e non sulle suggestioni sensoriali che distolgono la mente dalla ragione e non aiutano a capire. Il suo gesto è nascosto, come la fonte della luce che scivola sugli smussi degli angoli o si infila nelle curve delle lunette in modo sempre radente, mai diretto, proprio per non distrarre la mente con l’effetto abbagliante del flash fotografico, ma piuttosto dilatare il tempo di esposizione favorendo così la concentrazione di chi guarda. Agli antipodi della fascinazione barocca che letteralmente ‘to - glie il fiato’ con le sue macchine sceniche e le suggestioni dei sensi, le architetture di Borromini respirano: sono organismi viventi al - l’interno dei quali è possibile cercare la salvezza, ciascuno secondo i tempi e le modalità del proprio animo. Entrando in una di esse

65 non è la figura dell’architetto a balzare in primo piano, non il suo nome a risuonare: è piuttosto l’intera struttura a funzionare e, con essa, il nostro stesso sentire che diventa partecipe ed essenziale, come ogni altro elemento dell’insieme. Questa è la sua grandezza, incommensurabile e senza eguali, questa la sua unicità: l’essere regista assoluto della scena senza mai togliere visibilità agli attori che, in misura diversa, si conten - dono il primo piano, a partire dai minimi dettagli architettonici e fino alle soluzioni più ardite. Borromini è il vero artefice di un meccanismo che investe tutti i soggetti, dall’anonimo scalpellino al muratore, dal semplice fe - dele al porporato illustre, lasciando a ciascuno la sensazione di es - sere in una qualche misura il cardine dell’azione, l’elemento chiave per il buon esito dell’opera, la ragione del suo successo. Il suo è un perfetto gioco di squadra, attento e discreto, vigile e preciso negli assist che propiziano la vittoria; molto al di là dello sterile prota - gonismo di tanti sedicenti campioni.

66 3.8 Il linguaggio

Anche se non lo sa, Francesco Totti usa il linguaggio di Alberto Sordi. L’opinione lievemente ardita è firmata da Maurizio Co - stanzo, l’uomo che per primo ha scoperto le potenzialità comuni - cative del capitano della Roma. L’uomo che gli ha fatto capire l’importanza del sapersi prendere in giro, l’utilità del non prendersi mai troppo sul serio. I libri sulle barzellette sono stati venduti in un numero di copie esagerato, anche se la scommessa sembrava im - possibile. Totti è un esempio di romanità che lascia comunque il segno come è stato per altri personaggi in qualche caso omologhi: Aldo Fabrizi e Nino Manfredi sono stati grandi attori capaci, tra le altre cose, di ingentilire qualche tratto un po’ troppo crudo della romanità, quegli aspetti che spesso rendono i romani poco simpa - tici, per non dire di peggio. La differenza sostanziale tra questi mostri sacri del cinema ita - liano e Totti è che mentre loro hanno fondato carriera, immagine e successo sulla recitazione, lui non segue alcun copione: gli basta interpretare se stesso per bucare il video e attraversare di corsa le mura aureliane. Come quando ha scelto di trasformare il suo ma - trimonio in una grande soap senza preoccuparsi di sembrare ec - cessivo. Quell’evento così particolare teletrasmesso in diretta da Sky non è stato altro che la realizzazione di un desiderio: Francesco desiderava davvero un matrimonio così kitsch così come voleva che tutti lo vedessero nel momento più felice della vita. Quando Costanzo parla di Sordi, non si riferisce certamente ai caratteristi interpretati dal grande attore. Albertone portava sullo schermo, esasperandoli, i difetti quasi cronici dell’italiano indo - lente, imbroglioncello, vagamente vigliacco ma capace alla fine di straordinari slanci di generosità. Il linguaggio però è effettivamente simile per quanto è diretto. Se alcune aziende multinazionali lo hanno scelto come testimonial, vuol dire che Totti è ormai diven - tato un fenomeno da studiare anche fuori dal campo. La sua indi - scussa romanità, esibita senza alcuna forma di pudore, ha scavalcato gli indici di sgradimento che spesso scandiscono le esi - bizioni di marca capitolina, per conquistare un area di simpatia che

67 talvolta sconfina nella tenerezza. Il suo spot sulla «Internet chi?» interpretato insieme alla moglie Ilary sullo sfondo della solita au - toironia, è un cammeo che resterà nella storia della pubblicità come il carciofo di Calindri, quello che combatteva il logorio della vita moderna. Se anche l’Unicef lo ha scelto come ambasciatore, evidente - mente ci troviamo di fronte a un personaggio del tutto particolare. Portatore di un messaggio comunque positivo che non è stato in - taccato nemmeno da qualche episodio poco edificante. Lasciamo perdere i chiacchiericci da gossip, che lasciano il tempo che tro - vano, ma non possiamo dimenticare l’episodio nero della carriera di Totti: il giorno in cui il Grande Fratello lo smascherò mentre sputava contro Poulsen, un danese che gli aveva fatto perdere la testa. Un fatto vivisezionato da mezzo mondo visto che accadde durante gli europei del 2004 in Portogallo, un delitto che non si sa - rebbe mai scoperto se l’occhio sempre più indiscreto della televi - sione non l’avesse mostrato centinaia di volte al rallentatore. Ricordo l’imbarazzo della Federcalcio italiana che spinse Franco Carraro a mobilitare la penalista più famosa del momento, Giulia Bongiorno, per tentare di salvare il salvabile. La squalifica non venne evitata anche perché lo sputo, giuridicamente equiparato a un atto di violenza, è una delle manifestazioni più odiose e volgari che si possano attribuire a una persona. Anche se nel caso di Poul - sen venne accertata l’attenuante della provocazione, così presente in tante vicende della nostra vita, quello fu il momento più difficile per l’immagine del campione. Totti d’altra parte non negò mai l’evidenza, pur giurando di essersi reso conto di quello che era ac - caduto soltanto davanti alle immagini televisive. Una specie di sdoppiamento della personalità in un contesto molto morbido: Roma, città bambagia, lo riaccolse con quell’enfasi protettiva che probabilmente non ha sempre aiutato Francesco a crescere. In que - sto contesto anche un’altra pagina nera della carriera di Totti, il calcione a Balotelli nella finale della con l’Inter, con - ferma una certa fragilità nervosa che condiziona l’atteggiamento di un campione che fa del senso di appartenenza una ragione di vita. Il linguaggio di Totti sul campo è comunque diverso da quello

68 esterno. Qui viene fuori l’anima romanesca del «nun ce vonno sta» abbinata alla tenerezza del dito in bocca dopo un gol, dedica rivolta non ai figli piccoli, come sarebbe logico pensare, ma alla bella Ilary che, appunto, ha l’abitudine di mettersi il dito in bocca quando è as - sorta in qualche pensiero. In campo Totti non vuole perdere e non sempre riesce a governare l’istinto, soprattutto quando i calci agli stinchi si moltiplicano. Lo sanno anche gli arbitri italiani (quelli stranieri è meglio lasciarli perdere) che in qualche caso porgono l’altra guancia, come fece il bolognese Rizzoli, destinatario di tre vaffa consecutivi, rivelati ancora una volta dal Grande Fratello e in - cassati con estrema disinvoltura. Rizzoli si sentiva un po’ in colpa per avere involontariamente ostacolato un’azione offensiva di Francesco: di qui il perdono davanti agli insulti ripetuti, quasi stra - daroli, paragonabili a quelli di un privato cittadino che inveisce perché qualcuno gli ha soffiato un parcheggio. Anche se la legge del contrappasso ha piazzato al centro della ribalta proprio Rizzoli, chiamato a espellere Totti dopo il calcione a Balotelli. La situazione più difficile, a conti fatti, riguarda le interviste del dopo partita, rito al quale il capitano si sottopone con disagio. Qui lo sfrontato fa posto al timido che però è incapace di cedere al - l’ipocrisia. Ricordando sempre quella prima volta di tanti anni fa quando si affacciò il primo microfono insieme alla voce dura di Mazzone: «Regazzì, corri a fatte la doccia che a questi ce penso io».

69 3.8 Il linguaggio di Francesco

Tutto si può dire dell’architettura di Borromini, tranne che sia no - iosa. Non c’è particolare decorativo, fastigio di facciata, portale o cornice di sua invenzione che non si imprima nella nostra mente al primo sguardo, fissando per sempre il ricordo. E questo, considerata la monotonia di tanta enfasi barocca, non è poco. Bizzarro, eccentrico, stravagante: sono gli aggettivi più ricor - renti nel giudizio formulato dai critici del tempo, sempre pronti a rimarcare le manchevolezze in termini di ortodossia accademica piuttosto che gli aspetti innovativi del suo linguaggio architetto - nico. Certo quelle facciate ondulate, quegli spuntoni di cornici protese ad invadere il piano stradale, dovettero suonare alle orecchie dei puristi del Seicento odiose quanto un solecismo; inaccettabili e ri - provevoli come un congiuntivo sbagliato. L’eloquio ingessato del classicismo imperante vacilla di fronte ai suoi anacoluti, agli effetti cacofonici delle allitterazioni fre - quenti: perché, a dispetto della forma, il linguaggio sgrammaticato di Borromini possiede una straordinaria carica comunicativa, una immediatezza che trasmette senza filtri retorici o perifrasi inutili il concetto di fondo, il senso del discorso.

San Carlo alle Quattro Fontane è una minuscola chiesa di Roma, tanto piccola da essere conosciuta dai romani come San Carlino, e basta. È buffo pensare che la sua ampiezza corrisponda a quella di un unico pilone dei quattro su cui imposta la cupola di San Pietro: incredibile, ma vero. Non c’è spazio sufficiente per divagare, ma d’altro canto bisogna pure rispettare le esigenze del luogo di culto, soddisfare le necessità liturgiche e le aspettative dei committenti, i padri Trinitari, in relazione ai quali va forse letta la scelta di un impianto cruciforme per la chiesa. È infatti la croce il loro simbolo, visibile un po’ ovunque all’interno e fuori dell’edificio, con i due bracci uguali ma di colori diversi: uno rosso e uno blu. Chiunque entri in San Carlino ha la sensazione immediata di

70 trovarsi in uno spazio ovale, ma sbaglia. Bastano pochi attimi per capire che la pianta della chiesa è più complessa, meno lineare di un semplice cerchio allungato. Le pareti intorno si muovono, spin - gendo in avanti e dilatando le superfici come nel ritmo ventricolare di un cuore pulsante. Le colonne si protendono verso il centro della chiesa e la cornice in alto si inflette nei quattro punti cardinali, for - mando altrettante cappelle che segnano così gli estremi di una croce. E proprio la cornice è la chiave di tutto. Dapprima ci guida nella comprensione di uno spazio non altrimenti leggibile, perché troppo compresso e limitato per una visione distesa e prolungata; poi ci accompagna ancora più su, oltre il suo doppio nastro, svelando un tripudio di decorazioni in stucco. Sono timpani piegati ad angolo ottuso, calotte schiacciate sul fondo delle absidi come in una improbabile visione da sotto, profili di archi in acrobatica torsione su se stessi per trovare l’appoggio necessario. Tutto è disteso e allungato, come una visione grandangolare che alteri la realtà per farcela vedere meglio; come una proposizione con tutti i verbi all’indicativo, sintatticamente errata ma più diretta e immediata. Che spettacolo! Davanti ai nostri occhi si dispiega un concentrato di forme distorte, di acuti e di bassi in armonica dissonanza, tanto evidenti da costringerci a restare con la testa in su, immobili, a guardare. E la visione si amplia, oltre l’anello ovale della cupola, nell’invaso di luce che scende dal lanternino inca - gliandosi nei rilievi della calotta: un fitto ricamo di stucchi geo - metrici in forma di esagono, di croce e di ottagono. Sono forme simboliche, motivi desunti da un repertorio antico, già presente nelle catacombe e poi utilizzato nei secoli dagli architetti come ci - tazione colta, segno di appartenenza ad una tradizione cristiana che si rinnova continuamente nel tempo, proprio a partire dalle sue ma - trici più antiche, dagli archetipi del proprio linguaggio formale. Lo stesso motivo geometrico si ritrova infatti nel mausoleo di Co - stanza sulla via Nomentana, nelle volte delle navate minori del San Pietro costruito da Maderno e poi nell’esedra settecentesca della cappella principale del Pantheon.

71 Borromini sa, conosce fin troppo bene i contenuti e non manca di inserirli nel proprio discorso. Ma invece di mettersi in cattedra e farli cadere pesantemente dall’alto di un eloquio forbito e acca - demico, usa una forma colloquiale, diretta e colorita nei termini e negli accenti, quanto mai funzionale alla necessità di comunicare a tutti e in pochi passaggi il concetto di fondo, il messaggio finale. Si prende gioco dei puristi che storcono il naso davanti elle sue cadute formali, insistendo nella forzatura sintattica, nella licenza fonetica. E uscendo dal coro delle magniloquenti espressioni del barocco romano, fissa per sempre il ricordo di sé, oltre l’oblio dei secoli. Perché il suo lessico sgrammaticato è davvero unico ed incon - fondibile.

72 3.9 Francesco, uno di noi

Uno di noi. O forse quello che ognuno di noi vorrebbe scrivere in qualche capitolo della propria vita. Miliardario grazie a un lavoro che somiglia molto a un gioco; marito e padre realizzato e felice; campione capace di giocate artistiche; uomo generoso nel senso concreto della parola. Tutto questo rischia di proiettare la persona su una dimensione lontana rispetto alla gente comune e invece nel caso di Totti questo distacco non esiste. Certo può sembrare azzar - dato richiamare l’immagine del ragazzo della porta accanto, ma Francesco è tutto fuorché il classico divo. Strafottente come può esserlo un figlio di Porta Metronia, ma mai arrogante. Permaloso, se si vuole, ma sempre disposto a metterci una pietra sopra perché il rancore è un sentimento che non gli appartiene. Sgrammaticato a volte, anche sul campo con avversari e arbitri, perché l’istinto è una bestia difficile da domare. Come è difficile chiedere scusa fug - gendo dall’ipocrisia.

Ma Francesco Totti è soprattutto una bandiera e in questo senso può essere considerato il simbolo di una scuola quasi perduta. L’identificazione forte, si potrebbe dire marchiata, con i colori di un ideale, quella cosa che non si trova più nemmeno in politica. Totti e la Roma sono la stessa cosa secondo un concetto che può apparire uno slogan ma non lo è. Che questo fatto sia figlio della «pigritudine», neologismo coniato per descrivere la scarsa propen - sione di Francesco per tutto ciò che comportano i cambiamenti esi - stenziali, conta relativamente. Quella di Totti resta comunque una scelta di vita che gli porta da un lato l’amore imperituro del popolo romanista e dall’altro il rispetto assoluto degli altri popoli comin - ciando da quelli che vorrebbero e non possono. Le bandiere nel calcio sono come i dinosauri, una razza destinata all’estinzione. Il che somiglia tanto a un paradosso perché la reli - gione del tifo prevede, anzi pretende, questa figura sentimentale alla quale appoggiarsi sempre, specialmente nei momenti di crisi. Se la squadra del tuo cuore lotta per salvarsi tu sei triste. Ma lo sei ancora di più se in quella squadra manca il giocatore bandiera,

73 quasi sempre il capitano che per tradizione marinara deve essere sempre l’ultimo ad abbandonare la nave. Ricordo questa conside - razione nelle parole di un vecchio tifoso laziale, costernato per la cessione al Milan di Sandro Nesta. Nato nel 1976 come Totti, Nesta sembrava destinato a essere il Totti della Lazio come la storia di tanti derby aveva indicato. Ma Sergio Cragnotti, che stava per es - sere travolto dal crac della Cirio, aveva esigenze di bilancio scar - samente compatibili con quelle del cuore. Così Nesta andò al Milan, nonostante le smentite ripetute di Galliani e Berlusconi fino a pochi minuti prima della firma, aggiungendosi alle bandiere am - mainate e forse togliendo qualcosa anche a Totti, privato di un av - versario al suo livello sulla piazza capitolina. Cragnotti, d’altra parte, è in buona compagnia. I presidenti del football, salvo rare eccezioni, non amano le bandiere che quando sventolano possono fare ombra. Spesso è anche una questione di ruoli e di potere. E infatti nella storia del calcio i Totti sono po - chissimi e facilmente identificabili. A Madrid li chiamano «i ra - gazzi della cantera»: sono i giovani allevati e cresciuti nel vivaio come per esempio Raul Gonzales, l’ultimo capitano del Real che per altro ha avuto come bandiera storica un argentino di origini ita - liane, Alfredo Di Stefano. Uno che certamente non crede alle bandiere è , innamorato pazzo del mercato delle figurine e per nulla turbato dal fatto che l’Inter schieri spesso una formazione composta esclusi - vamente da stranieri. Il veterano della sua Beneamata resta , anche lui argentino. Il peso crescente del fattore finanziario ha certamente reso più movimentato il calcio: basterebbe pensare, a titolo di esempio, alla carriera di Baggio, uno dei più grandi ta - lenti del calcio italiano, che è stato l’esatto opposto di una bandiera avendo giocato, tra le altre, con Juve, Milan e Inter. Percorso pro - fessionale che non gli viene perdonato dai fiorentini, per i quali Roby era un atto di fede . Diversa la filosofia sull’altro fronte milanese. Rivera è stato senza dubbio un campione tra quelli iscrivibili al ristretto gruppo delle bandiere. Anche se ha mosso i suoi primi passi nell’Alessan - dria, è diventato strada facendo un pezzo di Milan (tentò anche di

74 diventarne presidente) segnando la storia di questo club. Poi, come capita spesso nelle storie d’amore, il divorzio è stato doloroso la - sciando ferite che non si sono più rimarginate. Rivera, tra l’altro, si è volontariamente allontanato dal mondo del calcio per dedicarsi alla politica. Il Milan ha avuto poi altri capitani simbolo come Baresi e Mal - dini ma nella storia del nostro calcio l’unico personaggio che sia in qualche modo paragonabile a Totti sotto l’aspetto romantico è che nella Juve è stato tutto. Geometra pie - montese ingaggiato, dice la leggenda, in cambio di una mucca, Bo - niperti ha giocato sempre nella Juve di cui è diventato presidente dopo avere smesso di giocare. Totti ha battuto anche Boniperti quanto a partite giocate con la stessa maglia, ma deve ancora egua - gliarlo, si spera il più tardi possibile, nella carriera dirigenziale che per altro gli è stata garantita dall’ultimo contratto firmato con la fa - miglia Sensi.

La Roma aveva avuto altre bandiere, da Ferraris e Bernardini fino a Giacomino Losi, piccolo difensore arrivato dalla provincia di Novara. Nessuno però ha percorso la strada di Francesco Totti. Uno che non si trova più. Uno di noi.

75 3.9 Francesco uno di noi

Il volto di Roma è senza dubbio quello di una città barocca, non fosse altro per le innumerevoli chiese ricche di marmi, stucchi e cornici dorate che si incontrano camminando per le vie del centro storico e che, viste dal Gianicolo o da Trinità dei Monti, galleg - giano con le loro cupole sui tetti rossastri come tante boe a pelo dell’acqua. Sembrano tutte uguali, all’occhio inesperto, e certamente espri - mono un linguaggio comune, uno stesso sentire, frutto di una me - desima volontà di persuadere e affermare con incrollabile certezza la validità di un progetto politico e religioso che trova nell’arte lo strumento migliore di propaganda e di consenso. C’è, insomma, una certa omologazione nel linguaggio barocco, una cadenza con - divisa che, se facilita il dialogo tra artisti e architetti, finisce poi per accomunarli – almeno nel nostro immaginario – confondendo spesso tra loro luoghi e persone, anche se molto distanti per singole vicende umane ed artistiche. Non è così con Borromini. Niente di banale nelle sue architet - ture, nessun déjà vu entrando in esse; non c’è musica già udita o frase ripetuta. Parla diretto, schietto e senza fronzoli, fuori dalle formule consumate dell’apparato ufficiale; e lo fa guardando negli occhi l’interlocutore, come a volergli comunicare il messaggio che più di ogni altro questi è in grado di recepire, per propria attitudine o capacità. È un linguaggio mirato, puntuale e stringente nelle soluzioni che adotta, tutte particolarissime ed inedite, sempre convincenti. L’esempio migliore è forse quello di Sant’Ivo alla Sapienza, la chiesa costruita all’interno del prestigioso complesso dell’Univer - sità di Roma, antichissima istituzione fondata nel 1300 da Bonifa - cio VIII. Quando Borromini viene incaricato dell’opera, l’unica Facoltà all’interno dello Studium Urbis è quella di Giurisprudenza; ciò si - gnifica che la chiesa da costruire è destinata in massima parte alla frequentazione da parte di futuri avvocati e patrocinanti. Questa è la chiave, per l’architetto.

76 Gli studenti saranno presto impegnati nella risoluzione di que - stioni difficili da dirimere, contenziosi senza un’apparente via d’uscita, per i quali sarà richiesto da parte loro un giudizio compe - tente ed illuminato, giusto nella misura possibile di un equilibrio raggiunto tra posizioni antagoniste e divergenti, ugualmente lecite. E Borromini disegna una chiesa che è esperienza tangibile del - l’iter processuale. Entrando in Sant’Ivo si ha subito l’impressione di trovarsi al centro di un sistema di forze contrarie e antitetiche: spigoli vivi e cornici concave si alternano lungo le pareti, in un continuum mag - matico che toglie il fiato e sfugge a qualunque tentativo di definire la forma della chiesa, la sua pianta. Inutile cercare il filo logico della composizione: non è dato capire, almeno a questo primo li - vello di percezione. Poi lo sguardo, faticosamente, sale lungo le paraste verticali fino alla cornice che stacca da terra e marca un secondo piano di visione: ecco, il disegno della pianta viene pro - iettato in fuori, come una sottolineatura che fissi nella pagina la frase illuminante, il senso del discorso. È una linea complessa, molto articolata ed inedita rispetto alle molte soluzioni già adottate nelle chiese a pianta centrale, scaturita dall’incrocio di due triangoli equilateri e poi rielaborata in più parti a formare un contorno mi - stilineo. È un caso difficile, un dibattimento lungo e con molti testi a supporto di opposte verità: come venirne a capo? Quali stru - menti, oltre la logica che fin qui ha guidato, potranno fornire la chiave risolutiva, il verdetto finale? Oltre la cornice, in alto, l’imbuto della cupola risucchia lo sguardo in una progressione repentina di stucchi incandescenti, inondati dalla luce che sgorga copiosa dal lanternino, al cui vertice è posta una colomba dorata. Tutto all’improvviso sembra come smaterializzato e privo di peso, libero da ogni gravità: così è l’animo di chi, dopo tanto penare, trova infine la soluzione ago - gnata, la risposta al dilemma, la ragione delle cose. Il verdetto viene così formulato e la frattura ricomposta: il disegno complesso e sfuggente della pianta trova nel cerchio perfetto della base del lanternino la sua logica geometrica, il principio guida; e la Verità è rivelata per mezzo dello Spirito Santo che apre le menti ed illu -

77 mina il giudizio. Un auspicio ed un monito per i futuri avvocati, af - finché non perdano mai di vista il proprio limite di uomini nel - l’esercizio di una discrezionalità che, per quanto ampia, non può essere Onnipotenza. In altri luoghi, e con interlocutori diversi, Borromini si prefigge comunque lo stesso obiettivo di comunicare in modo diretto e molto mirato con i frequentatori del luogo, i cosiddetti fruitori, par - tendo dall’esame della loro natura specifica, del loro identikit. Così, nella Cappella del Collegio di Propaganda Fide, destinata ai sacerdoti impegnati nella difficile missione di evangelizzazione di popoli lontani dal punto di vista geografico e culturale, il suo sforzo è quello di trovare un medium linguistico, un minimo co - mune denominatore sul quale impiantare il discorso architettonico, asciugandolo di ogni orpello decorativo. Scompaiono gli stucchi in forme vegetali e le teste di cherubini, si semplificano i capitelli e tutta la struttura si presenta come una gabbia di elementi strutturali che partono dal basso e si intrecciano nella volta per ricadere a terra nuovamente. Una canestra di luce, un ragionamento perfetto: necessario e sufficiente come una dimostrazione matematica. In - controvertibile come la Parola che i futuri missionari porteranno nel mondo: tradotta in mille idiomi ma mai reinterpretata.

78 3.10 Tifare Francesco

«Il calcio è sempre stata la mia vita e lo sarà anche in futuro. Fin da quando ero bambino ho praticato questo sport, sono nato con il pallone tra i piedi, ho avuto la fortuna di cominciare a giocare con la mia squadra del cuore, di arrivare a essere il capitano e di vincere quello che ho potuto vincere senza nessun tipo di aiuto, ma con l’orgoglio di indossare la maglia della Roma. Il mio matrimonio con questa società è lungo e duraturo e chiuderò la mia carriera dentro la mia seconda casa, Trigoria. Tutto questo mi ha fatto diventare, a detta di tutti, il giocatore più rappresentativo di questa società non solo in Italia, ma anche nel mondo. Ho sempre sentito l’affetto sincero dei tifosi e la vicinanza affettuosa della proprietà. La mia è stata una scelta di cuore, quella di avere dato una parola e di averla mantenuta, giocare con questa maglia con la quale mi sento gratificato sia dal punto di vista eco - nomico, sia per le soddisfazioni professionali. Tutto questo in virtù di una parola data: non sono mai voluto andare via perché ho pre - ferito vincere e guadagnare di meno, ma restare legato a questi co - lori. Io parlo poco, ma quello che dico mantengo. Basta andare a leggere le mie interviste, ho sempre detto di voler restare in questa città per difenderne l’onore sportivo, sempre e comunque. Chi vive nello sport sa che ci sono momenti belli e brutti. In quelli positivi sono tutti vicini a farti i complimenti, a farti fotogra - fie, a chiederti maglie e a millantare antiche amicizie. Nei momenti negativi mi trovo da solo con la mia famiglia, i miei figli, i miei ge - nitori, con gli amici di sempre, con i dirigenti e le persone che la - vorano con me e che mi hanno sempre stimato, prima come ragazzo e come uomo e poi come professionista. Nella mia carriera momenti brutti ne ho passati sia per le sconfitte, sia per gli infortuni e sia per i miei errori che ho sempre pagato in prima persona. Nes - suno mi ha mai fatto sconti. Mi sono sempre assunto le responsa - bilità davanti a tutti senza avere nessun rimorso per decisioni prese. Chiedo solo una cosa, fuori e dentro Trigoria. Il rispetto in tutte le decisioni e le scelte, some io ho sempre rispettato tutto e tutti e se ho sbagliato sono stato il primo a chiedere scusa.

79 Mercoledì sera ho sbagliato, questo è innegabile, ma poi va tutto ricollegato e riportato alla realtà dei fatti. In questi anni ogni sfida con l’Inter è sempre stata carica di polemiche. Prima e dopo le par - tite. Insieme a decisioni arbitrali discutibili, in questo caso sempre a nostro sfavore. Probabilmente ci abbiamo rimesso scudetti e tro - fei, ma siamo usciti dal rettangolo di gioco sempre con l’onore di indossare questa maglia. Alla finale di coppa Italia si è arrivati dopo 15 giorni di polemiche. A cominciare dal derby, dove tutto è stato strumentalizzato per la mia esultanza, di cui mi sono subito scusato. La vittoria a Parma, con la speranza che si era riaccesa e il giorno successivo con Lazio-Inter. Su quella partita noi romani e romanisti ci siamo già espressi. Infine si è arrivati alla partita con l’Inter che tutti aspettavano e che tutti - sottolineo tutti - ci hanno chiesto di giocare con temperamento e aggressività agonistica. Sul campo i miei compagni inizialmente, io successivamente, abbiamo messo in pratica quello che tutti ci hanno chiesto anche a livello mediatico. Mi ha dato l’impressione sin dall’inizio, se - guendo la partita dalla panchina, che l’Inter aveva un atteggia - mento di lamentela verso la terna arbitrale, contestando anche in modo colorito le decisioni prese. Basta vedere gli atteggiamenti di Eto’o, che solitamente ha comportamenti pacati e tranquilli. Anche loro sentivano molto la partita. Sono entrato in campo con la voglia di ribaltare il risultato. Certamente non ero nel migliore stato d’animo. Avrei voluto dare il mio contributo dall’inizio, ma rispetto sempre le decisioni del tecnico senza mai avere nessun atteggia - mento polemico. Ho fatto lo stesso anche in precedenti partite . Durante la gara “lui” ha avuto nei riguardi dei miei compagni un atteggiamento provocatorio e questo è avvenuto anche in passato contro di noi. Ricordate la linguaccia a Panucci o quello che è suc - cesso con Mexes o la sua esultanza contro la nostra curva? Tutto questo sempre dallo stesso calciatore è stato fatto in quasi tutti gli stadi italiani e anche in Europa ed è probabilmente questo uno dei motivi per i quali nel proprio gruppo non è mai stato ben accetto ed è sempre visto da altri club o dalla Nazionale stessa come ele - mento di disturbo. Certo, ho sbagliato nel commettere quel fallo, ma sono sempre stato il primo a riconoscere i miei errori e a giu -

80 stificare chi contro di me ha compiuto falli di gioco che hanno pro - curato anche infortuni gravi, ma privi di malafede, vedi Vanigli che ho subito scagionato. Chi mi conosce sa perfettamente che una mia reazione viene sempre generata da una provocazione. Sentire che un calciatore alle prime armi, ma con grandi doti, offenda ripetutamente i miei tifosi, la mia città, il mio senso di appartenenza a Roma oltre a me personalmente dicendomi che sono finito, è insopportabile. Non vuole essere una giustificazione, ma è semplicemente la verità di quello che è accaduto. Non si può tollerare che “lui” abbia sempre la possibilità di provocare tutti, compresi i suoi tifosi e quelli av - versari e nessuno prenda in considerazione preventivamente i suoi atteggiamenti. Come ripeto ho sbagliato, sarò sanzionato, ma ho avuto una strana sensazione. Al momento della mia espulsione non c’è stato nessun mio avversario che abbia preso le difese di “lui”. Questo qualcosa fa pensare. Vorrei precisare anche altre cose. L’argomento politici e vip. Tanti si sono scatenati in commenti e giudizi pesanti. Questi per - sonaggi sono quelli che dal calcio traggono solo vantaggi e visibi - lità. Frequentano le tribune autorità, le aree ospitalità, invitano i calciatori a eventi chiedendo autografi e maglie. Tutto sempre gra - tis. Ma non ho mai visto nessuno di loro chiedere un autografo o una maglia a un delinquente. Da alcuni di loro in questo caso - e non è la prima volta - come tale sono stato trattato. Non mi mera - viglierei se tra qualche tempo qualcuno dovesse trovarsi coinvolto in qualche disavventura giudiziaria, magari per reati vari che pos - sono riguardare sia le persone che i beni della comunità. Fortuna - tamente la mia famiglia mi ha comunque insegnato che il silenzio è la migliore risposta quando si incontrano questi personaggi, per disprezzarli. C’è un’altra questione che mi preme chiarire. Chi ama vera - mente la Roma, chi è tifoso e ha senso di appartenenza a questi co - lori capisce cosa rappresenta questa squadra per noi. E chi si permette di giudicare se qualcosa che viene fatto è in linea con la storia della Roma probabilmente c’entra poco con la nostra appar - tenenza. Sono personaggi di passaggio che usano la nostra fede

81 per farsi pubblicità. Spesso la gente, sia dentro che fuori Trigoria, pensa che se io non parlo, non vedo e non so ciò che accade. Ma dopo venti anni di carriera nella Roma so perfettamente tutto di tutti. Posso avere mille difetti, ma quelli della trasparenza e della lealtà nei rapporti con le persone sono valori che nessuno mi potrà mai togliere. È inutile che da domani qualcuno dimostri la solidarietà al sot - toscritto. Già ho ricevuto diversi sms che sorprendentemente hanno dimostrato nel privato la loro vicinanza, ma sono gli stessi che pub - blicamente hanno preso subito le distanze da me. Sono tante le per - sone che ti dicono andiamo e facciamo. Poi ti giri e pochi vengono e pochi fanno. Sono stato e continuerò a essere un grande paraful - mine per questa squadra e questa società e l’ho fatto e lo farò sem - pre. Con orgoglio perché so di avere la stima come persona e come calciatore della proprietà, di alcuni dirigenti e soprattutto di chi condivide con me giornalmente e con lealtà professionale il proprio compito. E so di avere dalla mia parte anche i tifosi, quelli veri, che mi hanno sempre sostenuto e mi sosterranno senza farsi con - fondere da false voci o falsi atteggiamenti di tante persone che ruo - tano intorno a noi. Quando indosso questa maglia ho sempre la stessa emozione della prima volta. Continuerò a indossarla con orgoglio e restando sempre il primo difensore della nostra città e dei nostri tifosi. Senza illuderli con atteggiamenti spettacolari, come fa qualcuno che poi nel privato e nei momenti dei fatti si tira indietro. La Roma appar - tiene alla sua tifoseria e va rispettata da tutti nel mondo per storia, unicità di tradizioni e cultura» . Questo ha scritto sul Corriere dello Sport Francesco Totti nel numero del 7 maggio 2010 all’indomani del famigerato calcione a Mario Balotelli al termine della finale di coppa Italia con l’Inter. Un fatto affrontato dai media con l’enfasi negata a episodi ben più clamorosi e con un tanto al chilo di indignazione, che ci sta sempre bene. È un documento che va proposto integralmente e conservato a futura memoria. Perché spiega molte cose. E perché fa capire cosa significhi tifare per Francesco Totti.

82 3.10 Tifare Francesco

Gli studenti di architettura lo sanno. Una delle esercitazioni più amate nei primi anni di studio universitario è senza dubbio il rilievo e la sezione assonometrica della chiesa di S. Ivo alla Sapienza, no - nostante la difficoltà estrema che tale compito comporta . In linea generale si può dire che tutto Borromini rappresenti per un giovane futuro architetto un modello al tempo stesso ammirato e temuto, proprio per le innumerevoli variabili che il suo linguag - gio figurativo contempla, tutte inconfondibili e per lo più inimita - bili. Ma c’è di più. È l’attualità delle sue soluzioni a far sognare il progettista, offrendo prospettive del tutto inattese e potenzialmente infinite all’intuizione ed al talento del disegnatore, di ogni tempo e dove. Borromini è moderno, provocatorio e geniale, colto e colloquiale nel modo in cui si pone nei confronti dell’osservatore, attento in - terprete della sensibilità del Seicento e tuttavia già oltre, in fatto di scelte linguistiche e di sintassi compositiva, rispetto non solo ai suoi contemporanei ma addirittura a molti suoi epigoni e imitatori; non a caso si parla di analogie e si fanno paragoni con alcuni grandi maestri del Novecento, saltando intere generazioni di architetti in mezzo. Tutti pazzi per lui, insomma, e non solo tra gli architetti. Nel paese dei campanili, dei Montecchi e Capuleti di ogni dove, e dei vari Don Camillo e Peppone di ogni tempo, la disputa tra Bernini e Borromini è nota anche ai più distratti tra i romani, non fosse altro per la mano alzata a coprirsi il volto di quella statua nella Fontana dei Fiumi a piazza Navona, proprio di fronte alla chiesa di Sant’Agnese: un gesto di disprezzo – si dice – da parte di Bernini nei confronti del rivale, la cui facciata sarebbe certamente franata, prima o poi. Questo lo sanno tutti a Roma, anche se è un falso sto - rico, una bugia. La facciata non c’era ancora quando la fontana fu realizzata. Ma basta mettere a confronto i due scaloni interni di Palazzo Barberini per capire: tanto è noioso e pedante quello di Bernini, quanto agile e scattante quello di Francesco. Non serve essere ar -

83 chitetti o esperti della materia per cogliere il portato rivoluzionario del secondo, la modernità di una soluzione che riesce a coniugare tradizione e innovazione, lasciando letteralmente a bocca aperta chiunque si affacci a scrutare in alto questo piccolo gioiello nasco - sto di Roma. Turisti, impiegati e casalinghe, ragazzi e anziani, me - dici e letterati: tutti a testa in su, ad ammirare l’invenzione di Borromini; e magari chissà, una domenica mattina, anche qualche Ultrà della Sud, prima di andare allo stadio per la partita. Perché anche questo Francesco è stato un grande capitano, uno che ha messo sempre e comunque la propria faccia quando si trattava di fare squadra con i propri operari, senza tirarsi indietro anche di fronte all’indifendibile. Pochi sanno, ad esempio, che il cantiere di San Giovanni in Laterano fu macchiato da un delitto orrendo e de - precabile: un tale Marcantonio Bussone, colto in fragranza mentre distruggeva alcune decorazioni all’interno del cantiere, fu preso a calci dagli operari fino a morirne. Borromini scrisse di suo pugno una lettera al Papa Pamphilj, dichiarandosi unico colpevole del - l’accaduto per aver espressamente ordinato ai suoi «…dategli una lezione. Non pensavo affatto che sarebbe morto. Un pugno al mento o forse alla gola ha provocato le conseguenze che certo non volevo. Comunque io discolpo i miei operai e chiedo alla Santità Vostra di considerare come attenuanti i miei meriti e la mia inte - grità. (…) Il Bussone è stato mandato per distruggere il mio lavoro e farmi perdere la stima e la benevolenza Vostra» . E il Papa tenne conto sia della persona sia della provocazione subita da quel tale M.B. Una breve squalifica dal campo, che al tempo si chiamava esilio, e il perdono del cristiano subito riabilitato. Un gesto di cle - menza e, in fondo, di giustizia. Se il tifo è passione, allora non si può non tifare Borromini. Tutta la sua architettura esprime sentimento e trasmette energia: nelle spinte ascensionali degli alzati, ardite come nel gotico; nelle tensioni dialettiche tra porzioni concave e convesse delle facciate, metafore visive del rapporto osmotico tra l’edificio e la città al - l’esterno; nel protagonismo delle cornici e dei particolari decorativi che determinano la sintassi del testo architettonico, facilitandone la lettura in chiave metrica ed in funzione mnemonica.

84 Tifare Francesco è facile e naturale, se solo ci si soffermi a guar - dare le sue invenzioni. E questo è in fondo il vero segreto del suo successo, a distanza di secoli: la capacità di trasmetterci stimoli e suggestioni sempre attuali e fortemente mirati al nostro sentire più profondo, alla nostra sensibilità moderna di uomini e di donne, di ogni estrazione sociale e culturale. Il suo modo di pensare lo spazio mette sempre al centro l’uomo, inteso però non come lo schema geometrico di Leonardo o il modulo di Le Corbusier, ma come soggetto protagonista di una vicenda – quella terrena, appunto – fatta di dubbi e di passioni, spesso laceranti, cui offrire una chiave di lettura ed una possibile risoluzione proprio attraverso l’architet - tura e le sue proposizioni dialettiche. Entrare in una chiesa di Borromini è un’esperienza unica e affa - scinante, perché ci obbliga a concederci un tempo diverso rispetto ai ritmi frenetici con cui siamo ormai abituati a consumare tutto, dai pasti alle letture. Non è possibile restare impassibili entrando in S. Ivo, o affacciarsi di sfuggita nella minuscola navata di San Car - lino senza sentire l’esigenza di restare un altro po’ a guardare, per capire quello che c’è intorno a noi. Non si può passare per via di Propaganda Fide e non notare quel cornicione che sbalza in fuori dalla facciata del Collegio, come un segno di evidenziatore nella pagina che leggiamo, come un accordo tenuto a lungo nell’esecu - zione musicale. Non riusciremo mai a trattenere il sorriso davanti agli angeli grassocci in San Giovanni in Laterano, né a fingere in - differenza di fronte alle erme con testa di falco su via Giulia. Prima o poi, proveremo anche noi ad entrare nella galleria pro - spettica di palazzo Spada, per scoprire il trucco e svelare l’inganno di quel magnifico giuoco di prestigio che solletica la nostra fantasia e accende l’illusione di una fuga all’infinito. E la doppia facciata su Corso Vittorio, anche se vista una sola volta, resterà per sempre nel nostro ricordo, perché non c’è un’altra piazza a Roma percorsa da un tale fremito continuo, come una hola nello stadio. È uno spettacolo degno del tifo più sfrenato, che su - scita emozione e ispira simpatia nei confronti dell’artefice di tanta eleganza e maestria. Un grande talento, di nome Francesco.

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4. A PPLAUSI (A SCENA APERTA )

Il talento è luce, fantasia, estro e simpatia. Certo. Ma il talento, quello vero, è anche grandezza d’animo e capacità di fare un passo indietro, di uscire di scena senza rumore se la situazione lo ri - chiede; se davvero ne vale la pena. Già, ma qual è la situazione giusta? Quali sono le condizioni che determinano la scelta, e come si fa a distinguere tra grandezza d’animo e codardia, tra spirito di sacrificio e insicurezza o addirit - tura paura del giudizio altrui? Per Borromini non fu facile uscire di scena, sebbene abbia scelto in fondo il modo più eclatante (e discutibile) per farlo: il suicidio. Non fu facile né come cattolico, né come protagonista della scena architettonica del tempo. Possiamo solo immaginare la sua ama - rezza nel lasciare Bernini, il suo eterno rivale, il suo alter ego per eccellenza, padrone incontrastato del gran teatro del barocco ro - mano. E non serve una mente superiore per capire lo sconforto che accompagnò quel gesto estremo, nella consapevolezza di conse - gnare a mediocri seguaci ed epigoni un patrimonio linguistico tanto sofisticato e complesso da venire fatalmente tradito e vilipeso nel tempo. Eppure decise di fare un passo indietro e di farlo per sempre, senza pentimenti o trucchi di scena. In pochi lo piansero: quel tipo scontroso e senza amici chiudeva così un’esistenza di per sé priva di leggerezza e tragicamente cupa. Un finale scontato, in fondo. Roma gli sarebbe sopravvissuta, come sempre, come già era acca - duto con imperatori e papi, eretici e Santi, barbari invasori e so - vrani illuminati, maghi, artisti, fanatici e ribelli. E così è stato in effetti, sebbene sia arduo immaginare una Roma senza le inven - zioni di Borromini, priva dei suoi eccessi linguistici e delle superbe soluzioni da lui adottate per risolvere i tanti problemi che la fanta - sia di artisti e committenti non riusciva proprio a dirimere. Ma si

87 sa, la memoria è corta e la riconoscenza raramente alligna negli uomini. Di più, i molti delatori di Borromini poterono facilmente far valere le ragioni di un brutto carattere e di una malcelata ipo - condria per giustificare quel gesto e sottolinearne la gravità in ter - mini morali e cristiani, lasciando che il disprezzo – mascherato da oblio – prendesse il sopravvento sulla giusta considerazione dei meriti professionali e dell’eccellenza artistica. Ma noi, a distanza di secoli, possiamo ancora condividere tale giudizio? Camminando per le strade di Roma disegnate dai profili di Borromini, o mettendo a confronto il superbo baldacchino di San Pietro con lo scrigno di San Carlino, ci sentiamo in cuor nostro di poter davvero liquidare la vicenda umana di questo ombroso ti - cinese come una semplice faccenda di depressione o di invidia pro - fessionale? Non sarà piuttosto che quel gesto, nella sua folle determinazione, ha di fatto spianato la strada ad un epilogo più fa - cile e comodo per tutti? Bernini firma il colonnato di San Pietro e suggella il suo trionfo per il papa Chigi, in un abbraccio simbolico che al tempo stesso chiude la stagione del Barocco ed apre ad un consenso illimitato la politica della Chiesa di Roma, nel gesto con - solatorio e confortante dei due emicicli che stringono a sé le folle di credenti. E Borromini lascia la piazza, esce di scena e si na - sconde perfino, negando a se stesso la degna sepoltura che nessuno avrebbe avuto il coraggio di rifiutare. Chiede ed ottiene di essere sepolto accanto all’amato maestro Maderno, sotto il pavimento della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a via Giulia, nel com - pleto anonimato. Solo pochi anni fa è stata posta una lapide con il suo nome, per indicare ai posteri la sua tomba. Bernini è il genio del Seicento romano, Borromini la sua ombra. Immenso l’uno, scontroso l’altro. Tanto brillante il primo, quanto austero e burbero il secondo. Il suicidio mette tutti d’accordo, in fondo, e semplifica la storia di una rivalità che echeggia nei rac - conti delle guide turistiche e dei vetturini di Roma, lasciando una traccia indelebile nel ricordo del viaggio per migliaia di stranieri ed intere scolaresche distratte. Che strana razza quella dei romani. Dimenticano per secoli la degna sepoltura di un genio e di un altro, invece, decretano anzi

88 tempo la fine, cancellandone quasi la presenza che d’un tratto s’è fatta scomoda e ingombrante; del tutto inutile se non perfino dannosa. Il tam tam delle radio romane non fa che parlare di questo: l’av - vio del campionato di calcio 2010-2011 vede la Roma penultima in classifica, dopo gli allori della passata stagione ed uno stretto secondo posto alle spalle dell’Inter. La squadra fatica a macinare gioco, è discontinua e non convince; oltretutto la Lazio è prima in classifica: la classica goccia che fa traboccare il vaso. I processi mediatici si susseguono e i giudizi impazzano, con notevoli oscil - lazioni tra il molto tecnico tendente allo psicologico ed il becero spinto, appannaggio dei più. L’onda monta e diviene presto tsu - nami : serve un capro espiatorio, un totem cui appiccare il fuoco per scacciare tutte le iatture esorcizzando il male. Occorre trovare un volto e un nome, un colpevole su cui far ricadere tutte le colpe, una testa da tagliare per scongiurare il peggio che, nel calcio, si chiama serie B. In gran fretta si allestiscono processi sommari, mentre la Società si trincera nel classico silenzio stampa. Francesco ha 34 anni ed una quantità di ferro in corpo - gentile omaggio di due generazioni di difensori senza scrupoli e costante - mente impuniti - che pochi altri giocatori sarebbero in grado di sopportare. Entra in campo con la stessa convinzione del giorno del suo esordio con la maglia della Roma, fiero di indossarla e di - sposto a sacrificarsi per lei fino alla fine, accettando anche di essere sostituito se il Mister lo ritiene opportuno: mette il broncio come i ragazzini nei campetti di periferia quando vengono richiamati in panchina, con la stessa delusione sul volto si allontana dal campo e non stringe la mano al suo allenatore. Non ha bisogno di nascon - dersi dietro un sorriso, Francesco; non deve dimostrare niente a nessuno, tanto meno ai soliti tromboni della stampa che tuonano sul suo comportamento a dir loro scorretto e montano subito l’en - nesimo “caso Totti”, facendo così passare in secondo piano la vera notizia della 5° giornata di Campionato, cioè il risultato della par - tita che recita: Roma 1 – Inter 0. Le radio imperversano, le televisioni inzuppano il pane della di - scordia inseguendo l’audience, i tifosi impugnano i forconi e al - zano la voce chiedendo la sua testa. E Francesco sorride: negli spot

89 di una nota società di telefonia mobile; rifilando una battuta delle sue al giornalista di turno in conferenza stampa; incontrando la gente per strada che gli chiede autografi; tra i piccoli malati del - l’Ospedale Bambin Gesù per il quale da anni raccoglie fondi, nella più assoluta discrezione. Sorride sornione, come sa fare lui, prendendoci sempre in con - tropiede come quando correva più forte degli altri e bisognava pro - prio metterlo giù se non si voleva subire il gol. “Il calcio è passione e divertimento. Si gioca in due squadre per 90 minuti: la più forte vince. Tutto qui” Sono parole di Francesco, che tutti dovrebbero ri - cordare per capire un po’ di più questo personaggio, la sua visione della vita e del calcio che, come tutti gli sport, ne è pantomima. Francesco è pronto ad uscire di scena e non soltanto per i motivi anagrafici, di cui siamo certi sia consapevole. È pronto a farlo per la squadra, per la Società e perfino per i tifosi dalla memoria corta, che non mostrano riconoscenza. Un numero 10 sa sempre la sua posizione, in campo e fuori. Anche questo fa la differenza tra un grande giocatore ed un talento straordinario.

90 5. P OST -FAZIOSA

La domanda è: può un gesto atletico, per quanto sofisticato e dif - ficile, giocarsela alla pari con un’opera d’arte? E, di conseguenza, quante probabilità ci sono di non sembrare eccessivamente di parte, se non addirittura faziosi, nel paragonare un grande architetto del passato ad un calciatore tuttora in attività? E già, perché il tempo ha il suo peso in questa storia, e sarebbe perfino troppo ingenuo far finta che non esista il problema, che passi del tutto inosservato il fatto di mettere insieme un genio del Seicento e uno che rincorre un pallone in un campo di gioco per 90 minuti, ogni domenica. La Storia, quella con la maiuscola, conse - gna comunque alla gloria i suoi personaggi, ammantandoli di quella patina che dà lustro e decoro a prescindere dalle azioni com - piute e dalle loro valutazioni a posteriori. Nella Storia o ci sei o non ci sei, e se ci sei occupi un posto ben definito, che nessun po - stero – per quanto abile e valente – ti potrà più contendere. Ma per un contemporaneo, uno che vede “L’isola dei famosi” e gioca alla play-station , e che per giunta è nato a Porta Metronia – cioè molti chilometri a sud del Rubicone – entrare nella Storia in presa diretta comporta il possesso di un valore aggiunto, di un quid incontestabile ed inimitabile che non può certo limitarsi al gesto tecnico, alla bravura professionale o allo stile di gioco. Per queste cose ci sono già l’album Panini, l’Enciclopedia dello Sport Trec - cani, qualche centinaio di libri e una miriade di siti web amatoriali ed ufficiali pronti a garantire la memoria e a fare bibliografia. Ci vuole di più, molto di più. C’è bisogno insomma di far con - vergere tutta una serie di fattori, caratteriali e professionali, in un profilo umano che sia in grado di rappresentare oggi quello che in futuro sarà più evidente e in qualche misura perfino scontato per molti: un talento eccezionale e straordinariamente unico, diverso da tutti gli altri grandi e grandissimi, proprio perché dotato di quel quid di cui sopra, non facilmente riscontrabile altrove.

91 Quello che spesso manca alle disamine dei tecnici, per quanto acuti ed attenti, è la visione d’insieme del personaggio Totti. Ci si appiattisce sull’immagine “der Pupone”, un po’ ‘pizza e fichi’ e un po’ talento naturale, e si finisce per trattare Francesco come un puz - zle, di cui però ogni volta si scelga il tassello più consono al proprio discorso, senza mai arrivare a guardare il soggetto nel suo insieme. Quando compie il miracolo tecnico è il cardine imprescindibile – e perfino condizionante – della Roma; quando ‘sbrocca’ e infrange il codice comportamentale evidenzia il suo limite caratteriale, quello che non gli permetterà mai di essere il numero 1 in Italia; quando fa beneficenza è il bravo ragazzo che non si fa pubblicità e quando fa pubblicità è un abile (e simpaticissimo) impresario di se stesso. Delle due una: o si tratta di miopia, oppure c’è qualcosa che non torna nell’analisi del personaggio. Ma qui si rischia di cadere nella tanto famigerata dietrologia romanista, quella che parte dal gol di Turone e arriva all’interrogazione parlamentare bipartisan sull’in - contro Lazio-Inter della terz’ultima di Campionato 2009-2010, e chissà quanto oltre ancora. Mentre il punto è un altro e - con buona pace dei vari doppiopetto televisivi - ben più sostanzioso. Qui si tratta di inquadrare un personaggio in uno scenario molto più complesso del semplice episodio isolato, del fotogramma tele - visivo o dell’azione di gioco. Si tratta di capire se sia possibile con - cedergli quei benefici di cui godono gli artisti di ogni tempo, ai quali è permessa la ‘licenza poetica’ senza che si parli di errore blu; cui è lecito – se non perfino doveroso – riconoscere quelle at - tenuanti generiche che determinano, se non proprio il giudizio, quanto meno le sfumature che colorano la sentenza in caso di er - rore conclamato (e oltretutto ampiamente riconosciuto dal soggetto imputato). Cosa resterà, insomma, di Francesco Totti nella memoria collet - tiva? Lo sputo a Poulsen vincerà sul cucchiaio? Lo spot dei telefo - nini sarà più longevo del rigore ai Mondiali del 2006? Il matrimonio all’Ara Coeli offuscherà il gesto del capitano che punta la telecamera a bordo campo sulla Curva Sud dopo il gol segnato nel derby di ritorno del 2004? E il brutto fallo ai danni di Mario Ba -

92 lotelli stigmatizzerà il suicidio mediatico di un campione e la sua esclusione dal Mondiale 2010? Oppure saremo in grado di ordinare questi segmenti in un unico quadro d’insieme, cogliendo in ciascuno di essi i colori e le forme che, avvicinati, compongano il puzzle finale? Tutti sanno che Caravaggio finì la sua vita in contumacia, per aver ucciso Ranuccio Tomassoni, ma i suoi quadri trasmettono emozioni a prescindere dal carattere turbolento dell’autore. Pochi sanno che Borromini morì suicida, mentre chiunque si avvicini alle sue architetture respira una forza vitale ed un’energia che non ha pari nel barocco romano . Cercare di fissare l’immagine di Totti in un fotogramma di mo - viola o in un congiuntivo sbagliato è come dire che il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina è la prima pit - tura di nudo nella storia dell’arte del Cinquecento. Tecnicamente è un’affermazione corretta, ma in senso storico ed artistico è una bestialità assoluta. Le luci e le ombre delineano l’artista. Il talento e la passione, se uniti assieme, creano il capolavoro.

Enrico Maida e Fulvia Strano

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6. P ICCOLO GLOSSARIO BIPARTISAN

Borromini legge Totti:

ASSIST - Mutuato dal basket, è il cosiddetto passaggio vincente che ispira l’azione da gol.

CAPOCANNONIERE – È l’attaccante che alla fine del campio - nato ha segnato il maggior numero di gol.

CENTRAVANTI - Dizione quasi arcaica per indicare quella che oggi si definisce prima punta o punta centrale. Di solito è l’attac - cante più prolifico della squadra, spesso anche il più discusso.

CORNER - Dall’inglese «angolo». Segnalato da una bandierina gialla, è il punto in cui si batte il calcio d’angolo che spetta alla squadra che attacca se quella che si difende ha mandato il pallone oltre la linea di fondo.

CUCCHIAIO - Gesto tecnico sublime che si realizza colpendo il pallone con la punta della scarpa tra l’erba e lo stesso pallone al fine di ottenere una traiettoria scavalcante e beffarda. Detto anche in alcune sue forme pallonetto.

DISCHETTO - Tondino di calce piazzato a 11 metri dalla porta: è il punto più melodrammatico del calcio perché è da lì che si batte il rigore, la cosiddetta ultima punizione.

FANTASISTA - Croce e delizia di tutti gli allenatori del mondo chiamati a gestire un giocatore capace di tutto e del contrario di tutto. Di solito indossa la maglia numero 10 (ma Bruno Conti aveva il 7) e spesso, a sentire i tecnici, altera gli equilibri perché non rincorre gli avversari, esercizio che non compete ai geni.

95 RABONA - Preziosismo raro, consentito a pochi eletti, che consi - ste nel colpire il pallone con il piede di richiamo incrociato all’al - tro. Solitamente mancino.

RIPARTENZA - Evoluzione lessicale del termine «contropiede» ritenuto sinonimo di difensivismo e quindi sostituito con altra pa - rola dai cosiddetti sacchiani, devoti e ferventi seguaci del tecnico romagnolo .

SOMBRERO - Virtuosismo balistico che consiste nel far passare il pallone sopra la testa dell’avversario per scavalcarlo.

TACKLE - Scontro, al limite prova di forza, tra caviglie divise da un pallone

TRIDENTE - Con grave affronto per la mitologia greca, il termine calcistico identifica così uno schieramento che prevede tre attac - canti (uno centrale e due esterni). Cfr. squadre e gioco dell’eretico Zeman.

Totti legge Borromini

ARCHITRAVE: fa parte della trabeazione di cui, in linea di mas - sima, è la parte più bassa. Nell’uso comune del termine è anche la parte che sostiene tutto il peso della parete sopra l’arco o la porta: non a caso, infatti, è qui citata con riferimento alla mamma di Totti e non in senso strettamente architettonico.

BALAUSTRA: è il parapetto di un balcone, di una loggia, di una grande finestra di facciata in un palazzo monumentale.

BASOLATO: è l’insieme dei basoli, cioè dei grandi massi di ba - salto che si vedono lungo le antiche strade consolari romane.

CANTONATA: da non confondere con un errore di valutazione

96 (“ho preso una cantonata”). Si tratta dell’angolo esterno di un edi - ficio, all’incrocio di due arterie di traffico. Deriva dal termine “canto” nella sua accezione urbanistica di angolo, appunto.

CAPITELLO: è la parte terminale della colonna o del pilastro, in alto. Praticamente l’elemento di raccordo tra la colonna (o il pila - stro) e la trabeazione soprastante.

CAPOMASTRO (della Fabbrica di San Pietro): capocantiere, Di - rettore dei Lavori diremmo oggi. Certamente la persona più im - portante e quella più esposta, anche in termini di responsabilità civili e penali. Nel Seicento tale carica comportava una serie di privilegi economici e sociali, tali da garantire agiatezza e rispetto a coloro che ne erano investiti.

EMBLEMA (plurale: EMBLEMATA): è una immagine composta di figure e scritte, spesso difficile da decifrare e quindi particolar - mente intrigante per i cultori di simboli e di significati nascosti. Diverse raccolte di emblemata si sono conservate nei secoli e rap - presentano ancora oggi materia di studio e di ricerca.

ERMA: è un pilastro che termina in alto con fattezze animali, in genere umane e riferite ai personaggi del Mito classico. Di prefe - renza collocate all’interno dei giardini, anche ad indicare il punto di incontro tra i viali e i sentieri.

ESEDRA: è un semicerchio piuttosto ampio con cui definire una piazza o un cortile, o un fondale di giardino con intento scenogra - fico.

EMICICLO: da non confondere con una mezza bicicletta. Si tratta invece di una metà di cerchio, una specie di esedra quindi, ma in genere composta di due parti simmetriche poste ai lati di un edifi - cio centrale. Nel nostro caso la Basilica di San Pietro.

LESENA/PARASTA: è il pilastro inglobato nella parete, dalla

97 quale quindi sporge di poco senza permetterci di girarci intorno.

LOGGIA: è un ambiente sopraelevato rispetto ad una altro, sul quale affaccia con un balcone o una serie di arcate su colonne. Quasi tutte le piazze medievali avevano la loro Loggia dei Mer - canti, cioè uno spazio dedicato all’esposizione e vendita delle mer - canzie; ma esiste poi anche il Loggione dei teatri, cioè l’ultimo ordine di palchi e balconate, tradizionalmente occupato dai cultori della musica e dagli spettatori più esperti e critici.

MANIERISMO: è una stagione artistica del Cinquecento, collo - cabile tra il primo Rinascimento e il Barocco del secolo seguente. In linea di massima si connota per la complessità delle raffigura - zioni e l’uso spregiudicato dei colori e delle forme. Il termine “Ma - niera” stava ad indicare lo stile di un artista, il suo linguaggio pittorico; manieristi furono quindi i seguaci dello stile dei grandi protagonisti del ‘500: Michelangelo, Leonardo e Raffaello su tutti.

NAVATA: è lo spazio interno di una chiesa, definito tra due pareti continue di muro o di colonne e pilastri. Il numero delle navate varia secondo i casi, ma è sempre dispari.

PILASTRO CONCAVO: è una delle sigle inconfondibili dell’ar - chitettura di Borromini, una specie di suo marchio di fabbrica, col - locato di preferenza in angolo. Praticamente sostituisce lo spigolo con una superficie continua, in quanto scavata, rendendo fluida e senza interruzioni la visione d’insieme.

POLICROMIA: composizione a più colori, spesso molto accesi e variopinti.

REFETTORIO: è la stanza da pranzo nei conventi e nei monasteri. Dovendo ospitare la comunità dei frati o monaci, le sue dimensioni sono generalmente molto ampie. Nel complesso dei Padri Orato - riani a Roma, il Refettorio è una stanza a pianta ovale non troppo ampia, ma con un’eccelsa acustica.

98 SCALPELLINO: intagliatore e scultore di particolari architetto - nici, in pietra e in stucco. In pratica colui che sapeva usare (bene) lo scalpello.

SEZIONE ELLITTICA (di colonna): se potessimo tagliare a fette una colonna, ne ricaveremmo tanti cerchi (che, per inciso, sono quelli che compongono i pavimenti di tante chiese medioevali con tondi di marmo rosso e verde, a formare una specie di grande puz - zle). Ma se la colonna è a sezione ellittica, tagliandola avremmo tanti ovali invece di tondi. La sezione di una colonna è insomma la forma della sua impronta sul terreno.

TIMPANO/FASTIGIO: anche se non sono proprio sinonimi, en - trambi i termini descrivono la parte terminale di una facciata, il suo coronamento in alto, in forma di triangolo. Un ‘fastigio a pa - goda’- come quello dell’Oratorio di Borromini – presenta un anda - mento morbido nel due lati del triangolo, come se si inflettessero sotto il peso del cielo, per intenderci.

TRABEAZIONE: è tutta la parte dell’architettura che sta sopra la colonna o il pilastro. Può avere più livelli di cornici e decorazioni, in base allo stile o al gusto dell’architetto.

VOLTA A BOTTE: è un soffitto curvo, anziché piatto, come l’in - terno di una botte appunto .

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INDICE

Prefazione di Vincenzo Cerracchio

1. L’incontro impossibile: quel magico 27 settembre

2. L’incontro possibile: L’eresia felice

3. Francesco in 10 mosse 3.1 La Roma di Francesco 3.2 L’anticlassico 3.3 L’ironia scanzonata 3.4 Il gioco di prestigio 3.5 Il coraggio 3.6 L’anti-divo 3.7 Il gesto nascosto 3.8 Il linguaggio 3.9 Francesco, uno di noi 3.10 Tifare Francesco

4. Applausi (a scena aperta)

5. Post-faziosa

6. Piccolo glossario bipartisan

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2011 per conto della Casa editrice Edilazio