Michael Pollan

Una seconda natura

EDUCAZIONE DI UN GIARDINIERE

Traduzione di Isabella C. Blum

Adelphi eBook TITOLO ORIGINALE: Second Nature A Gardener’s Education

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

In copertina: Varietà di mele classificate secondo il sistema Diel-Lucas

Prima edizione digitale 2016

© 1991 MICHAEL POLLAN

© 2016 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-7794-7 UNA SECONDA NATURA INTRODUZIONE

Questo libro è la storia della mia educazione in giardino. I giardini, in realtà, sono due: uno più o meno immaginario, l’altro pervicacemente reale. Il primo è il giardino dei libri e dei ricordi, quella vagheggiata utopia all’aria aperta, senza moscerini e sempre in fiore, dove la natura risponde ai nostri desideri e noi immaginiamo di sentirci perfettamente a nostro agio. Il secondo giardino è un luogo reale, a Cornwall, nel Connecticut: circa due ettari di terreno collinare roccioso e difficile da gestire, per coltivare il quale mi sto arrabattando ormai da sette anni. Molto separa questi due giardini, tuttavia ogni anno li porto un po’ più vicini a coincidere. Entrambi hanno avuto moltissimo da insegnarmi, e non solo sul giardinaggio. Ho capito subito, infatti, che non avrei imparato a occuparmi molto bene della mia terra se non avessi appreso anche qualche altra cosa: sul ruolo che mi spetta in natura (rientrava nei miei diritti uccidere la marmotta che mi aveva saccheggiato l’orto durante tutta la primavera?); su certi atteggiamenti alquanto peculiari nei confronti della terra, innati negli americani (com’è che i miei vicini nutrono un interesse tanto profondo per le condizioni del mio prato?); sui tormentati confini tra natura e cultura; e sulla nostra esperienza dei luoghi, sulle implicazioni morali della progettazione del paesaggio e su diversi altri temi che il desiderio di raccogliere qualche onesto pomodoro non mi aveva preparato ad affrontare. Può darsi che sia nella mia natura complicare le questioni in modo indebito, cercare grandi significati nelle piccole cose, d’altra parte sembrava effettivamente che in giardino ci fosse molto di più di quanto mi fossi aspettato di trovare. Cominciai a occuparmi di giardinaggio per gli stessi motivi che di solito spingono la gente a farlo: la soddisfazione di estrarre bei mazzi di carote dalla propria terra; il desiderio di rendere un appezzamento più accogliente o produttivo; il bisogno di riappropriarsi di un luogo che ricordiamo dall’infanzia; e la fondamentale necessità di impedire alla foresta di inghiottire la nostra casa. Nel 1983, quando mia moglie e io acquistammo la nostra prima proprietà – una piccola porzione di una fattoria abbandonata, sul margine orientale della Housatonic Valley –, vivevamo da qualche tempo a Manhattan, in un appartamento che riceveva all’incirca novanta minuti di sole al giorno, e la prospettiva di coltivare qualche fiore e un po’ di ortaggi sembrava straordinaria. C’era poi anche la questione della foresta che avanzava minacciando effettivamente di inghiottire la nostra casa, un piccolo cottage in stile Cape Cod costruito nel 1929 con un kit di Sears, Roebuck & Co. Se speravo di tenere a bada il bosco, dovevo fare qualcosa: o tosare quel campo di erbacce che passava per prato, o allestire un vero e proprio giardino. Penso si possa dire, quindi, che a spronarmi fu la foresta. Mescolate alle mie motivazioni, però, c’erano anche le soddisfazioni che ricordavo d’aver provato nei giardini della mia infanzia. Da bambino, nei primi anni Sessanta a Long Island, avevo accudito una serie di aiuole e orticelli in vari angoli della proprietà suburbana dei miei genitori, e avevo passato molti sabati ad aiutare mio nonno nel suo giardino, ben più vasto, a qualche chilometro da noi (il capitolo I è un ricordo di quei luoghi). Adesso avevo un po’ di terra tutta mia, e prendermene cura sembrava un modo naturale di trascorrere i fine settimana, un passatempo per il quale forse avevo anche un certo talento. Judith era di altro avviso. Alla fine le sue posizioni si sarebbero ammorbidite; all’inizio, però, era una nemica giurata del giardinaggio, essendo stata costretta a dedicarcisi da bambina. Credo anche che le parti in abbandono della nostra proprietà la turbassero meno di quanto turbavano me, giacché trovava una certa bellezza nell’avanzata dei cespugli in un campo di fieno trascurato o nella crescita, eccessiva e sbilanciata, di un melo bisognoso di un’energica potatura. E così, mentre lei cominciò a dipingere paesaggi, io – con risultati un po’ meno spettacolari – cominciai a crearli.

Non passò molto tempo prima che scoprissi di non essere affatto preparato per il lavoro che avevo intrapreso. Il paesaggio locale del New England – un patchwork di fattorie abbandonate rapidamente reclamato dalla foresta secondaria – si dimostrò, nei confronti dei miei progetti, decisamente meno ben disposto di quanto lo erano stati i docili terreni dei sobborghi della mia infanzia. Qui c’erano grossi animali ingordi, infestanti che dettavano legge, qualche miliardo di esemplari di ogni specie d’insetto descritta nella mia guida, gelate letali a giugno e settembre, e sassi inconcepibilmente pesanti e numerosi. Vi erano però anche altri ostacoli di natura molto diversa, che si dimostrarono altrettanto esasperanti: gli atteggiamenti verso la natura, mai ponderati, che avevo portato con me in giardino. Come la maggior parte degli americani quando stanno all’aria aperta, io ero figlio di Thoreau. Ma il modo di considerare la natura che avevo ereditato da lui, e tutta la tradizione letteraria del nature writing che egli aveva ispirato, non sembravano applicabili alle mie esperienze. Nel confrontarmi con le marmotte locali, o nel decidere se fossi o meno obbligato a tosare il mio prato, o fino a che punto potessi permettermi di essere tollerante con le erbacce, ero di certo completamente assorbito dalla natura; i miei sentimenti su di essa, però, per quanto intensi, non erano così romantici o adoranti. Un’estate, quando mi imbattei nell’argomentazione di Emerson secondo cui le «infestanti» (che proprio allora stavano soffocando le mie piante annuali) altro non sarebbero che un difetto di percezione da parte mia, provai una certa dissonanza cognitiva. Tutti scrivevano su come essere nella natura, su che genere di percezioni avere, ma nessuno parlava di come agire in quei contesti. Eppure, a differenza del naturalista, il giardiniere deve, anzi vuole, agire. Ora è vero che il giardiniere perplesso ha a disposizione un’infinità di volumi pieni di consigli pratici; io però sentivo anche il bisogno di una guida filosofica. Prima di scatenare un attacco incendiario contro la tana di una marmotta, preferisco avere dalla mia anche un po’ di teoria. Eppure, per la maggior parte, gli americani che scrivono sulla natura non parlano di orti e giardini: non dicono nulla sui paesaggi creati dall’uomo e sui processi della loro creazione. Si tratta di un’omissione curiosa; infatti, anche se a prima vista il giardinaggio può sembrare privo, per esempio, della drammaticità o della nobiltà dell’alpinismo, è proprio dal lavoro in giardino che la maggior parte di noi ricava le esperienze più intime e dirette della natura: riguardanti le sue gratificazioni, la sua fragilità e la sua forza. Nondimeno, quando abbiamo voluto riflettere sui nostri rapporti con la natura, abbiamo quasi sempre guardato a luoghi selvaggi, non contaminati dalla presenza umana. Thoreau, in effetti, è stato l’ultimo importante autore americano a scrivere di natura e ad aver qualcosa da dire sul giardinaggio. A Walden seminò un campo di fagioli e dedicò un capitolo al racconto delle esperienze che ne seguirono. Quel campo di fagioli (di cui parlo nel mio capitolo sulle erbacce) gli diede però ogni sorta di problemi. A causa dell’infatuazione per la natura selvaggia, si sentiva in colpa nel discriminare le erbacce (nel libro si scaglia contro la necessità di tali «ingiuste distinzioni») e non riusciva a capire che cosa gli desse un maggior diritto di godere dei prodotti del suo orto rispetto alle marmotte e agli uccelli locali. Preso nel terribile groviglio delle contraddizioni fra le proprie esigenze e le prerogative della natura, Thoreau dovette abbandonare il campo di fagioli, dichiarando infine di preferire la più tetra palude a qualsiasi orto o giardino, i quali, con quella dichiarazione, furono essenzialmente banditi dagli scritti americani sulla natura. Io credo che sia un peccato, e non solo perché in giardino ho bisogno di validi consigli. Gli americani hanno l’abitudine profondamente radicata di considerare natura e cultura contrapposte in modo inconciliabile; diamo automaticamente per scontato che ogni qualvolta una delle due guadagna, l’altra debba perdere. Costretti a scegliere, solitamente optiamo per la natura (almeno nei libri). Fu questa scelta, che io ritengo artificiosa, ad allontanare Thoreau e i suoi eredi dal giardino. Certamente la natura incontaminata ha molto da insegnarci: la nostra insuperata tradizione di nature writing ne è una prova sufficiente. La mia esperienza in giardino mi induce tuttavia a pensare che vi siano molte cose importanti, sul nostro rapporto con la natura, che non possono essere apprese in luoghi non contaminati da esseri umani. Tanto per cominciare, oggi più che mai abbiamo bisogno di imparare come servirci della natura senza danneggiarla. Cosa che probabilmente non si può fare fintanto che continuiamo a considerare natura e cultura come mere antagoniste. Come faremo allora a trovare una terra di mezzo fra le due? A soddisfare le nostre esigenze e i nostri desideri senza spogliare la natura? La premessa di questo libro è che probabilmente il luogo in cui cercare parte delle risposte a queste domande non sia nei boschi, ma in giardino.

Benché non sia uno scritto polemico, questo libro è permeato dal conflitto: tra me e questo pezzo di terra esasperante, e anche tra me e alcuni dei modi tradizionali di considerare la natura qui in America; mi rendo conto che passo un mucchio di tempo a litigare con Thoreau. Molti di questi conflitti non vengono risolti; questo libro è un esercizio di scoperta più che la rivelazione di una verità. Come ho detto, è una storia di formazione e, come sarà chiaro dall’elevata incidenza di errori in queste pagine, io continuo a essere, più che un maestro, un allievo. Alla fine del mio racconto ne so di più che all’inizio, e in generale non ho seguito la logica di una tesi qualsiasi, ma quella delle mie esperienze, mentre si dispiegavano, una stagione dopo l’altra. Nondimeno, credo che in tutto questo libro vi sia, quale filo conduttore (esposto abbastanza dettagliatamente nel capitoloX), un unico tema di fondo: e cioè che forse oggi, per noi, l’idea di un giardino – come luogo, reale e metaforico, dove natura e cultura possono unirsi in un modo che arrechi beneficio a entrambe – sia utile proprio come in passato lo fu l’idea della natura incontaminata. Il lettore potrebbe ravvisare in questo pensiero un ottimismo alquanto fuori moda. In effetti io condivido il generale senso di allarme sull’ambiente; non condivido, però, la crescente disperazione. In giardino, trovo alcuni motivi di speranza. Ma che titoli ho, io, per scrivere un libro del genere? Di certo non sono un esperto: non di giardinaggio, non di natura, né – se è per questo – di molte altre cose. In larga misura, questa è l’impresa di un dilettante. La mia unica qualifica (se la possiamo definire così) è la scommessa che ho deciso di fare all’inizio di questo progetto: e cioè che forse il giardinaggio meriti d’esser preso seriamente, e che, se considerato con attenzione, possa offrire alcune belle storie e qualche buona idea. Comunque, ho il sospetto che, dopo aver cominciato a dedicarmici, scrivere questo libro fosse praticamente inevitabile. Come testimonieranno moltissime persone, il desiderio di creare uno spazio verde è spesso seguito da quello di scrivere le esperienze che vi si fanno: in un taccuino, in una lettera a un amico che fa giardinaggio, oppure – se, come me, ci si guadagna da vivere con le parole – in un libro. Scrivere e fare giardinaggio: questi due modi di disporre gli elementi della realtà in righe o in file hanno moltissimo in comune. Nella zona del paese dove vivo io, ogni anno c’è una stagione lunga e a volte feconda, durante la quale la cura del verde ha luogo rigorosamente sulla carta e nell’immaginazione. È stato scrivendo questo libro che ho trascorso le ultime di tali stagioni nel mio giardino.

In questa impresa, sono stato fortunato ad avere l’aiuto e l’incoraggiamento di molte persone, ma è stato l’appoggio di mia moglie a rendere davvero possibile Una seconda natura. La sua iniziale riluttanza verso il giardinaggio cedette il passo, alla fine, a un entusiasmo contagioso, e in tutto quello che segue abbiamo agito strettamente di concerto: nel libro come in giardino. Né l’uno né l’altro avrebbe alcun valore se non fosse stato per l’occhio, l’orecchio e l’intelligenza di Judith. Sono particolarmente grato, per la generosità e la perspicacia, a Mark Edmunson che, nonostante una totale mancanza di interesse per qualsiasi cosa abbia a che fare con il giardinaggio, mi ha offerto critiche e consigli preziosi a ogni stadio del lavoro. Ho avuto anche un supporto fondamentale da parte di Mark Danner e dei miei colleghi allo «Harper’s Magazine». La mia riconoscenza va inoltre ad Amanda Urban, Ann Godoff e Carl Navarre, per aver creduto in questo progetto molto prima che vi fosse una qualsiasi buona ragione per farlo. Vi sono poi alcune altre persone che, senza saperlo, hanno avuto un’influenza decisiva. Questo libro scaturisce infatti dalle mie esperienze in biblioteca non meno che da quelle in giardino, e non sarei andato molto lontano se non mi fossi imbattuto nelle opere di Wendell Berry, Frederick Turner, Eleanor Perényi, Richard Rorty, William Cronon e J.B. Jackson. Per quanto siano diversi, questi autori si muovono tutti, come pionieri, sulla frontiera tra natura e cultura, e questo fa di loro, benché forse inconsapevoli, altrettante splendide guide all’orto e al giardino. I DUE GIARDINI

Il mio primo giardino era un luogo di cui nessun adulto seppe mai nulla, anche se si trovava in una proprietà suburbana di un migliaio di metri quadrati soltanto, a Farmingdale, Long Island, nel terreno dietro la nostra casa, dove per nascondere la palizzata di legno del vicino era stata piantata una siepe irregolare di lillà e forsizie. Il mio giardino, che condividevo con mia sorella e i nostri amici, consisteva nella striscia di terreno non piantumato tra la siepe e la palizzata. Dico che nessun adulto ne seppe mai nulla perché, nell’immagine che un adulto si fa di questo paesaggio, la siepe corre proprio a ridosso della recinzione. Per un bambino di quattro anni, invece, lo spazio creato dai rami a volta della forsizia è vasto come l’interno di una cattedrale, e tra un lillà e una parete c’è posto sufficiente per un intero mondo. Ogni volta che avevo bisogno di sottrarmi al radar degli adulti, strisciavo sotto gli archi della forsizia, mi stringevo tra due cespugli di lillà e mi ritrovavo da solo e al sicuro nel mio personale spazio verde. Se oggi penso a quel luogo come a un orto o un giardino non è solo perché mi offriva uno spazio chiuso e privilegiato all’aria aperta, ma anche perché fu lì che effettivamente feci crescere qualcosa per la prima volta. Le immagini di quell’epoca che riesco a richiamare alla memoria sono perlopiù incomplete e precarie; queste, invece, scorrono come impresse su una pellicola. Dev’essere settembre. Io me ne sto per conto mio dietro la siepe – forse per nascondermi da mia sorella o anche soltanto per curiosare in giro – quando avvisto un pallone da football d’un verde maculato, troneggiante su un intreccio di rami rampicanti e di grandi foglie. È un’anguria. La sensazione è di aver trovato un tesoro, di essermi imbattuto in una netta svolta del destino, in una manna inaspettata. Poi capisco il collegamento essenziale tra l’anguria e un seme che avevo piantato, o quanto meno sputato e sotterrato, mesi prima: L’ho fatta venire io. Per un momento sono combattuto tra l’idea di lasciare che l’anguria maturi e il desiderio impellente di pubblicizzare il mio trionfo: Mamma deve vederla. Così spezzo il gambo che attacca l’anguria alla pianta, la stringo fra le braccia come un neonato e corro verso casa gridando a squarciagola. Ma l’anguria pesa una tonnellata, e proprio mentre arrivo ai gradini della porta sul retro, perdo l’equilibrio. L’anguria schizza via dalle mie braccia sfracellandosi sul cemento in un’esplosione rosa. L’aria è pervasa dal suo profumo, e poi la mia memoria si blocca. Non riesco a ricordare, ma devo aver pianto: vedersi portar via un trionfo così magnifico, sentire Humpty Dumpty schiantarsi all’improvviso sulla mia coscienza di quattro anni... Ricordi di un tipo o dell’altro aleggiano ai margini di ogni giardino, conferendo a quei luoghi gran parte del loro sapore e del loro significato emotivo. Dopo quel pomeriggio, ho passato migliaia di ore nell’orto e forse, in un certo senso, tutto questo tempo è stato investito nel tentativo di recuperare quell’anguria e l’ondata di orgoglio che aveva accompagnato la sua scoperta.

Non ricordo se cercai di salvare una parte dell’anguria per mostrarla a mio padre quando tornò a casa dal lavoro, ma posso dare per scontato che non ne sarebbe rimasto troppo impressionato. Mio padre non era molto incline al giardinaggio e il piccolo terreno della nostra casa, costruita in stile ranch, lo dimostrava. Il prato era a chiazze e sempre bisognoso di una buona tosata, le siepi erano trasandate e incolte, e d’estate orde di coleotteri giapponesi banchettavano indisturbate sui nostri cespugli di rose. Mio padre era un ragazzo del Bronx che si era spinto nei sobborghi durante la migrazione postbellica. Negli anni Cinquanta, acquistare una casa con un po’ di terreno a Long Island era esattamente ciò che faceva, agli inizi della carriera, un avvocato o un dentista (mio padre era un avvocato): faceva parte del modo in cui uno proclamava chi era. Di certo a spingerlo fuori città non fu un grande amore per l’aria aperta. Ho qualche ricordo di mio padre in piedi con la sua Salem e un bicchiere da cocktail sul patio in cemento dietro la casa; con una singola eccezione che racconterò fra poco, però, non ne ho nessuno di lui intento a tosare il prato, a estirpare le erbacce o altrimenti a recitare la parte del padre di famiglia residente nei sobborghi. Lo ricordo invece rigorosamente al chiuso, in giro per casa con la sua uniforme, sempre uguale tutto l’anno, costituita da camicia button-down, calzini neri, scarpe con i lacci e boxer. Forse, a tenerlo in casa, era il fatto che odiava indossare i calzoni; o magari i boxer erano un modo per evitare di dover uscire. In ogni caso, a mia madre restava da scegliere se far fare i lavori in giardino a un marito in mutande, o non farglieli fare affatto: il che, nei sobborghi, non è una gran scelta. Così, mentre i boxer inchiodavano papà al tavolo di cucina, il nostro prato andava costantemente deteriorandosi fino al punto in cui divenne una sorta di scandalo, nel quartiere e in famiglia. Il padre di mia madre abitava a Babylon, a qualche chilometro di distanza da noi, in una grande casa con giardino e orto curatissimi, e si può star certi che le condizioni del nostro prato lo facessero uscire dai gangheri – la qual cosa, forse, era calcolata. Mio nonno, che visse fino a novantasei anni, era un patriarca alquanto soffocante, e mio padre non lo sopportava. Era arrivato a Long Island dalla Russia poco prima della Grande Guerra; partendo da zero, iniziò vendendo ortaggi su un carretto tirato da un cavallo, e alla fine si costruì una fortuna, dapprima nel settore ortofrutticolo, e successivamente in quello immobiliare. Sposando mio padre, mia madre s’era abbassata di uno o due gradini rispetto al proprio status, e il nonno si fece un dovere di minimizzare il sacrificio della figlia maggiore – o anche, considerando le cose da un’altra prospettiva, di mettere in evidenza le manchevolezze del genero. Questo implicava di offrire a mio padre, senza che lui ne avesse mai fatto richiesta, enormi quantità di consigli sulla carriera, di opportunità d’affari (secondo mio padre, immancabilmente dei bidoni) e di servizi paesaggistici. Così come alcuni inviano fiori, il nonno inviava interi giardini, che di solito arrivavano inaspettatamente, a bordo di una colonna di camion. Davanti al marciapiede comparivano due o tre autocarri senza sponde e una squadra di manovali italiani si sparpagliava nella nostra proprietà pronta a eseguire qualsiasi progetto immaginato dal nonno. Una volta inviò un roseto che si sviluppava su tutta la lunghezza della proprietà, dal marciapiede fino alla siepe sul retro. Inviare i cespugli di rose, però, non era sufficiente: il nonno aveva una bassissima considerazione del terreno di mio padre; non era certo pensabile che una delle sue piante ci prosperasse. Così aveva ordinato ai suoi uomini di scavare una trincea di quindici metri, larga novanta centimetri e profonda trenta, di rimuovere manualmente la terra e poi di sostituirla con quella trasportata a bordo dei camion direttamente dal suo giardino. In tal modo le rose (anch’esse provenienti dal giardino del nonno) non avrebbero patito alcuno stress indebito, e il terreno scadente e trascurato di mio padre sarebbe stato almeno in parte risanato. A volte sembrava che il nonno avesse intenzione di sostituire, un po’ per volta, ogni briciola di terra intorno alla nostra casa. Qualsiasi buon giardiniere si prende cura del terreno non meno che delle piante, questo è vero, ma è probabile che l’ossessione di mio nonno per quel particolare pezzo di terra avesse radici più profonde. Senza dubbio mio padre, che era il primo della sua famiglia a possedere la casa in cui abitava, vedeva nel desiderio del suocero di sostituire il nostro terreno con il suo una sfida alle fondamenta stesse della propria indipendenza. E può anche darsi che qualcosa di vero ci fosse: il nonno aveva dato ai miei genitori il denaro per la caparra (quattromila dollari; la casa ne era costata in tutto undicimila); e, come la maggior parte dei suoi regali, anche questo non era del tutto esente da oneri. I servizi paesaggistici non richiesti, così come l’abitudine del nonno di bussare di tanto in tanto sulle pareti della nostra casa, quasi per controllarne la manutenzione, indicano che nutrisse verso di essa i sentimenti di un proprietario: era nelle vesti di padrone di casa che il nonno si sentiva veramente a suo agio, e finché mio padre avesse rifiutato di pensare a se stesso come a un inquilino, erano destinati a non andare d’accordo. È probabile, tuttavia, che la preoccupazione del nonno per la terra del nostro giardino fosse anche un’estensione del suo amore, autentico e profondo, per i terreni. Non intendo amore della terra, quello dell’amante della natura. La terra è astratta e in ultima analisi non può essere posseduta da nessuno. Il nonno, invece, amava la terra come fonte sicura, benché un po’ misteriosa, di ricchezza privata. Non importava che cosa accadesse nel mondo, né quale assurdità escogitasse il governo: si poteva sempre contare sulla terra, che avrebbe conservato e moltiplicato il proprio valore. Nel caso peggiore, un terreno poteva comunque dare un raccolto vendibile e quasi sicuramente – almeno a Long Island per la maggior parte di questo secolo – poteva essere rivenduto traendone profitto. «Possono stampare carta moneta» gli piaceva dire «e possono stampare nuovi titoli e nuove obbligazioni, ma non possono stampare nuova terra». Nella sua mente, il contadino del Vecchio Mondo e l’immobiliarista coesistevano fianco a fianco, e lui li incarnava entrambi senza percepire alcuna contraddizione. Ciascuno dei due guardava a un pezzo di terra e vedeva una potenziale ricchezza: non faceva alcuna differenza che uno vedesse un campo di patate e l’altro un quartiere residenziale. Il nonno riusciva a essere perfettamente sereno passando la mattina a coltivare con amore la terra, e il pomeriggio a depredarla. Quando seminò il suo campo di fagioli, Thoreau intendeva fare in modo che la terra «dicesse fagioli». C’erano giorni in cui mio nonno faceva dire alla terra «ortaggi»; e altri giorni in cui le faceva dire «centri commerciali». Erano gli anni Dieci quando il nonno entrò nel commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli della contea di Suffolk, all’epoca una regione in prevalenza agricola. Acquistava frutta e verdura dai contadini per rivenderla ai ristoranti e, in seguito, alle basi militari spuntate a Long Island durante la guerra. Riuscì a fare soldi anche durante la Depressione, e usò i suoi risparmi per acquistare terreni agricoli al ribasso. Dopo la seconda guerra mondiale, quando cominciò il boom dei sobborghi, lui ci vide la sua opportunità; in genere, la contea di Suffolk era considerata troppo lontana dalla città per i pendolari, ma il nonno confidava che prima o poi la marea suburbana avrebbe raggiunto i suoi lidi. La fede che nutriva in quell’area era tale che (stando a un necrologio pubblicato su «Newsday») negli ambienti degli affari era noto come Mr. Suffolk. Il nonno operava sul fronte stesso dell’avanzata dei sobborghi, speculando sui terreni agricoli che il processo stava costantemente trasformando in centri commerciali e distese di villette unifamiliari identiche. Colse i potenti impulsi che spingevano i newyorkesi sempre più lontano, verso est, perché li condivideva. Oltre alla paura e al disprezzo verso i modi cittadini – la consueta interpretazione della mentalità dei sobborghi –, c’era anche un motivo più nobile: costruire un’utopia per la classe media, sotto la spinta di una fame jeffersoniana di indipendenza e dell’impulso a creare un mondo ideale per i propri figli. I sobborghi, dove era possibile tenere un piede in campagna e l’altro in città, erano senza dubbio il modo di vivere migliore, e il nonno nutriva una fede quasi evangelica nel fatto che avremmo finito per vivere tutti in quel modo. Ogni volta che acquistava qualche decina di ettari di campi di patate a North Fork, sapeva che era solo questione di tempo perché il destino utopico di quella terra si compisse. Il nonno non aveva nulla contro le patate; ma chi poteva negare che il prodotto ultimo da coltivare a Long Island fosse un complesso immobiliare suburbano? Il fatto poi che ogni singola casa costruita in quelle aree residenziali potesse avere sul retro un pezzetto di terra coltivato a patate era la prova che il progresso non imponeva rinunce. La sua personale utopia suburbana era un’ampia casa in stile ranch su due ettari di litorale a Babylon, lungo la costa sud. Mio nonno aveva abbastanza denaro da poter vivere quasi ovunque, e per un certo periodo la famiglia abitò in una grandiosa dimora a Westbury. Lui però preferiva stare in una delle nuove aree residenziali di Long Island, e quando i figli furono cresciuti si trasferì con la nonna in una di esse, dove le bellissime case, sui loro grandi terreni, seguivano i dettati del gusto della classe media suburbana. Le case erano molto arretrate rispetto alla strada e, sul davanti, le ampie distese di manto erboso non cintato confluivano le une nelle altre creando l’impressione di un unico paesaggio simile a un parco. Di fronte a ciascuna casa c’era poco meno di mezzo ettaro di terra su cui nessuno, salvo il giardiniere appositamente ingaggiato, metteva mai piede: un eccesso di superficie inutilizzata che doveva urtare le naturali inclinazioni del nonno. D’altra parte, nei sobborghi, si suppone che i prati davanti all’ingresso delle singole case contribuiscano a una sorta di spazio visivo comune e, per onorare questa convenzione, il nonno era disposto a negare a se stesso la soddisfazione di sfruttare completamente quasi mezzo ettaro di eccellente proprietà immobiliare. Almeno fino alla mia adolescenza, le visite al nonno e alla nonna erano sempre occasioni piacevoli. L’aspettativa cominciava a montare non appena svoltavamo in Peninsula Drive e imboccavano il lungo, lento percorso attraverso il Grande Prato Comune, una perfezione erbosa interrotta solo da qualche segno di punteggiatura sempreverde e dalle belle curve dei vialetti d’accesso tracciati in asfalto nero come l’inchiostro. Per quanto fossimo ansiosi di arrivare, chiedevamo sempre alla mamma di rallentare (papà non venne quasi mai), nella speranza di individuare l’unica celebrità che abitava nella strada dei nonni: Bob Keeshan, noto a tutti i bambini dell’epoca come Captain Kangaroo. Una volta lo avvistammo, in abiti civili, che zappava nel suo giardino. C’è qualcosa, in un bel manto erboso falciato di fresco, che spinge i bambini a mettersi a correre, e dopo il lungo tragitto in auto non vedevamo l’ora di riversarci fuori dalla station wagon e disperderci nel giardino dietro la casa. L’erba sembrava sempre appena tagliata, ed era così morbida e uniforme che veniva voglia di accarezzarla con la mano e avvicinarci la faccia. Le mie sorelle erano capaci di passare l’intero pomeriggio a esercitarsi sull’erba a fare la ruota, ma prima o poi la nonna le attirava in casa, in quello che era chiaramente il suo regno. Con la sola eccezione del garage e di una saletta con un televisore, dove il nonno passava i giorni di pioggia comodamente sdraiato sul divano, la casa traboccava di nonnesca femminilità: vetrinette piene di minuscole statuine di ceramica, tendine di vaporoso chiffon rosa, toilette con spruzzatori di cristallo e spazzole d’argento, scrigni laccati pieni di orecchini, ritratti di mia madre e mia zia montati in cornici riccamente ornate. La ricordo come un luogo decisamente da regina, una Versailles suburbana che ogni volta assorbiva le mie sorelle per ore. Il regno del nonno era all’esterno, dove lui e il suo giardiniere, Andy, avevano creato quello che io giudicavo un paradiso. A partire dal vialetto d’accesso, il prato descriveva un ampio percorso curvo che girava dietro la casa. Da un lato di esso c’era il patio lastricato in pietra e il giardino roccioso, e dall’altro un’area più selvatica, piantumata con arbusti e alberelli, che chiudeva il prato sul retro, proteggendolo dalla baia. Un sentiero di beole conduceva attraverso quest’area, passando sotto un piccolo pergolato di rose e sbucando, con una sorpresa immancabilmente piacevole, sulla luminosa spiaggia bianca. Piazzato in mezzo al prato c’era un gazebo, una costruzione stupidamente elaborata che non usammo mai; intorno ad esso, disposta a formare un’elegante mezzaluna, una collezione di rose di ultima generazione: enormi fiori su fusti esili, con nomi come Chrysler, Eisenhower e Peace. A giugno sembravano i membri di una piccola orchestra intenta a esibirsi per i visitatori nel gazebo. L’area tra il prato e la spiaggia era profonda dai sei ai diciotto metri, densamente piantumata, e formava una sorta di angolo selvaggio che potevamo esplorare lontani dagli sguardi degli adulti che stavano sul patio. Qui c’erano grandi rododendri e alberi da frutta, compreso un famoso pesco che, dicevano, il nonno aveva piantato dal seme: un albero notevole, che d’estate si curvava sotto il peso di un’enorme quantità di frutti. Era di una varietà nana, e quindi riuscivamo a raggiungere da soli le sfere gialle e lanuginose. Sperando di ripetere l’impresa del nonno, sotterravamo scrupolosamente il nocciolo di tutte le pesche che mangiavamo. (Probabilmente fu il suo esempio a ispirare il mio esperimento con i semi d’anguria). Ma la frutta matura era solo una delle sorprese del giardino naturale del nonno. Ce n’era un’altra, che andavamo sempre a cercare e trovavamo solo a volte. Quando eravamo fortunati, strisciando tra i rododendri e gli alberi nani, arrivavamo in una piccola radura ombrosa dove, su un monticello, si ergeva una statua di cemento. Era un bambino che faceva pipì, con la mano sul pene. Quando eravamo in gruppo, la scandalosa scenetta non mancava mai di scatenare scrosci di risa; se ero da solo, i sentimenti erano più complicati. In un modo o nell’altro, Eros governa ogni giardino; in quello del nonno, il luogo in cui regnava era questo. Tornati alla luce del giorno, si poteva continuare lungo il viale erboso fino a un’area dove sorgevano alcune siepi formali, regolate all’altezza di un bambino di dieci anni, che delimitavano un passaggio largo forse tre metri e lungo una dozzina. A un estremo c’era un paio di paletti per il lancio dei ferri di cavallo, e all’altro un campo da shuffleboard regolamentare, pavimentato in cemento liscio verniciato (dava una sensazione di fresco, sui piedi nudi, durante tutta l’estate). In qualche occasione, questi giochi attirarono la mia attenzione per un po’, ma di solito andavo dritto verso un’interruzione della siepe che dava su quella che era, indiscutibilmente, la parte del giardino che io preferivo e di cui il nonno era più orgoglioso: in effetti, l’unica parte della proprietà che ho mai sentito qualcuno definire garden: il suo orto.1 Era agli ortaggi che il nonno doveva i suoi primissimi successi, e più invecchiava, più diventava loro devoto. Alla fine, la cura del giardino ornamentale ricadde su Andy, mentre lui passava la maggior parte delle sue giornate tra gli ortaggi, e ogni primavera sottraeva terreno al prato per aggiungerlo all’orto. Se fosse vissuto altri vent’anni, vi sono ottime probabilità che il suo terreno suburbano sarebbe tornato a essere interamente agricolo. Di fatto, il nonno aveva non meno di duemila metri quadrati piantati a ortaggi: un orto buono per finalità commerciali, ma assolutamente irragionevole per una coppia di anziani. Ho una fotografia, risalente agli anni Settanta, del nonno vestito in tessuto di maglia doppio, in piedi orgoglioso tra i suoi ortaggi, e riesco a contare più di venticinque piante di pomodori e almeno una dozzina di zucchine. Il mais – file su file di mais dolce – o i fagiolini, i cetrioli, i cantalupi, i peperoni e le cipolle non si vedono, ma dovevano essercene abbastanza per rifornire una bancarella. L’orto era bordato da un muretto curvo di mattoni che correva proprio lungo l’acqua: una posizione che assicurava una lunga stagione vegetativa, giacché la baia tratteneva bene il calore durante l’autunno, tenendo a bada il gelo. Il nonno poteva permettersi di largheggiare con lo spazio, e nel suo orto non capitò mai che due piante si toccassero. Non credo sia mai esistito un orto curato con maggior scrupolo; mio nonno lo zappava ogni mattina e non c’era un’infestante che osasse alzare la testa sopra quel terreno grasso e scuro. Nel piantare fagiolini e pomodori, usava la stessa precisione che Le Nôtre usò per mettere a dimora i castagni alle Tuileries. Le file, che seguivano le curve del muretto, erano degne di un agrimensore, e lo spazio fra le piante era uniforme ed esatto. Considerato nel complesso, l’orto sembrava più che altro un modello in scala di un’area residenziale suburbana di ultima generazione: le file erano strade, e ciascuna pianta indipendente era una monofamiliare. Qui nell’orto una delle contraddizioni mai ammesse, presenti nella vita del nonno, era simbolicamente risolta: l’agricoltore e l’immobiliarista diventavano una persona sola. Ma che cosa gli era saltato in mente, di piantare un orto così grande? Anche se avesse cotto, inscatolato e fermentato ortaggi a tutta velocità, mia nonna non avrebbe potuto in alcun modo tenere il passo con l’enorme resa quotidiana dell’orto del nonno. Alla fine esplose e incrociò le braccia: rifiutò di preparare altri ortaggi raccolti dal marito e, fedele alla parola data, non fece più fermentare un cetriolo né inscatolò un pomodoro che fosse uno. Anche allora, però, il nonno non si lasciò intimorire, e l’orto continuò a espandersi. Ho il sospetto che questa crisi di iperproduzione fosse molto gratificante per lui, che era soprattutto un capitalista: in ultima analisi – tanto per prendere a prestito un paio di termini da Marx – a interessarlo era più il valore di scambio dei suoi ortaggi, che non il loro valore d’uso. Non intendo insinuare che non ne traesse anche un piacere immediato; specialmente i pomodori lo riempivano di soddisfazione. Gli piaceva tagliare i suoi cuore di bue in spesse fette rosate e aggredirle con coltello e forchetta. A guardarlo cenare con uno di essi si capiva immediatamente come mai un pomodoro abbia il nome di un taglio di carne. «Dolcecomeilmiele» annunciava tra un morso e l’altro, mentre il suo accento mescolava quelle quattro parole in un unico suono, simile a un mantra. Naturalmente diceva lo stesso delle cipolle Bermuda, del mais e perfino dei peperoni. Quanto ai superlativi, il suo vocabolario inglese era limitato, e «dolcecomeilmiele» era il massimo complimento che potesse tributare a un ortaggio. Mangiare cuore di bue era un piacere, ma calcolare il loro valore di mercato e regalarli era ancora meglio. Avendo passato molti anni nel settore ortofrutticolo, il nonno aveva riservato, nella sua mente, un angolo in cui archiviare il prezzo aggiornato al dettaglio di ogni singolo ortaggio venduto al supermercato; anche dopo i novant’anni, di tanto in tanto si fermava al reparto ortofrutta di Waldbaum per aggiornare il suo listino prezzi mentale. Mentre raccoglievo i prodotti dell’orto accanto a lui, lo ricordo alzare un pomodoro e, invece di commentarne ammirato le dimensioni o il colore perfetto, declamare il suo prezzo di mercato: ottantasette centesimi al chilo! (Quale che fosse la cifra, era sempre uno scandalo). Probabilmente, quando posava lo sguardo sul suo orto, con l’occhio della mente vedeva quei cartellini bianchi, fissati a degli abbassalingua, indicare il prezzo corrente di ciascun ortaggio per unità di peso. E vista la velocità con cui riusciva a sommare mentalmente una colonna di cifre, sono certo che sapesse convertire l’intero orto in valuta statunitense, in un tempo inferiore a quello che occorre a me per fissare una pianta di pomodori al suo sostegno. Lavorare nel suo orto significava entrare in comunicazione con la natura senza mai abbandonare il mercato. Coltivando molti più ortaggi di quanti lui e la nonna potessero mai sperare di consumarne, il nonno li trasformava in merce, e per assicurarsi di questo status elevato, piantava esclusivamente le varietà vendute dalle catene di supermercati: pomodori cuore di bue, lattughe iceberg, fagiolini Blue Lake, cetrioli Marketmore. Poco importava che di solito queste varietà si distinguevano più per il fatto di essere adatte a spedizioni transcontinentali che per il sapore; a un ortaggio gustoso, lui ne preferiva uno (teoricamente) vendibile. Naturalmente quella di vendere gli ortaggi non era un’opzione realistica; il nonno si rendeva conto che un magnate immobiliare ottantacinquenne non era molto adatto ad aprire una bancarella, per quanto potesse piacergli l’idea. D’altra parte, aveva bisogno di canali di distribuzione, e così si dava da fare per regalare i suoi prodotti. Durante tutta l’estate, prima di vestirsi per recarsi al lavoro (non andò mai in pensione), raccoglieva i prodotti dell’orto e poi caricava il bagagliaio e il sedile posteriore della sua Lincoln con enormi ceste piene di ortaggi. Quando andava a fare i suoi giri – per visitare affittuari o per battagliare con banchieri e broker, acquistando a prezzi stracciati e rivendendo alle stelle –, distribuiva ceste di ortaggi. Mio nonno non ha mai regalato nulla senza porre almeno qualche piccola condizione, e senza dubbio credeva che i suoi cuore di bue dolcicomeilmiele mettessero quegli uomini d’affari in obbligo nei suoi confronti, offrendogli così un leggero vantaggio. E probabilmente era così. Come minimo, la sceneggiata degli ortaggi scarrozzati in auto induceva quei tipi incravattati ad abbassare la guardia, facendo apparire il nonno più come un innocuo bifolco del Vecchio Mondo che non come lo squalo che era in realtà. Mi ci volle molto tempo per capire la soddisfazione che si prova nel regalare gli ortaggi: i piaceri della raccolta, invece, li afferrai immediatamente. Una visita a casa dei nonni era bella davvero quando arrivavamo prima che lui avesse già colto qualcosa. In quelle occasioni, a malapena riuscivo ad aspettare che mi passasse un cesto e mi mandasse nell’orto a cominciare la raccolta. Farlo da solo era più bello: quando poi arrivava lui, immancabilmente mi attaccava su qualche difetto della mia tecnica, e così cercavo di uscire prima che finisse di chiacchierare con la mamma. Ai miei occhi, gli ortaggi maturi erano prodigiosi. Prima del raccolto, l’orto era pieno di potenzialità. Mi emozionavo alla vista di un pomodoro maturo, che proclamava la sua rossezza dal profondo del verde indifferenziato. Sollevare il cappuccio di foglie cuoriformi di un fagiolo e scoprire un mazzo di baccelli lunghi e sottili che pendevano là sotto poteva farmi trasalire. Tenere fra le braccia la sfera di un cantalupo intiepidito dal sole, o estrarre dal terreno sciolto del nonno delle lance color arancio – ecco: questi erano i piaceri più intensi, e riesco a provarli ancora oggi, nell’orto, appena attenuati dall’abitudine. All’epoca, questo piacere non aveva nulla a che fare con il mangiare. Non è che gli ortaggi mi piacessero di più che alla maggior parte degli altri bambini (i pomodori li consideravo disgustosi, accettabili solo sotto forma di ketchup), eppure ecco, quello era il sublime dell’orto. Probabilmente avevo assorbito la venerazione di mio nonno per i prodotti della terra, la percezione che si trattasse di cose preziose e che erano, a tutti gli effetti, gratuite. Forse non sapevo che farmene di pomodori e cetrioli, ma il fatto che invece gli adulti lo sapessero benissimo conferiva loro un valore ai miei occhi. D’estate l’orto era un paesaggio incantato, disseminato di sorprese nascoste, macchie di colore inatteso e forme improbabili che mio nonno mi aveva insegnato a considerare come tesori. Da bambino il mio gioco da tavolo preferito era Candyland, in cui i lanci del dado facevano avanzare il segnalino attraverso un magnifico paesaggio di alberi-leccalecca, paludi di cioccolata e cespugli di caramelle gommose. Candyland proponeva una versione della natura che rispondeva a tutti i desideri di un bambino – un paesaggio accogliente all’estremo, che è poi una definizione di giardino – e d’estate l’orto di mio nonno offriva un’onesta versione di quel paradiso.

Questo era l’orto del nonno. Se guardandolo io potevo vederci Candyland, probabilmente lui ci vedeva Monopoli; agli occhi di entrambi, era un paesaggio pieno di significato, che rispondeva ai nostri desideri e che parlava un linguaggio in qualche modo umano. Da bambino orti e giardini mi coinvolgevano sempre di più delle foreste, probabilmente perché queste ultime contengono poche di quelle informazioni di interesse umano che allora desideravo intensamente, mentre i giardini ne racchiudono molte. L’infanzia è, tra le altre cose, un processo in cui apprendere le diverse vie che conducono fuori dalla natura e verso la cultura: il giardino ne contiene molte. Non riesco a immaginare un angolo di natura incontaminata con tante cose da dirmi come il giardino del nonno: i profumi che lasciavano intendere qualcosa sui comportamenti delle donne, oltre che su quelli dei fiori; il pesco che rendeva comprensibile tutta l’idea del frutto e del seme; gli ortaggi che avevano tante cose da raccontare sull’ottenimento del cibo e del denaro; e i prati estivi che non avrebbero potuto esprimere meglio la disponibilità della natura nei confronti della presenza umana. Anche il terreno annesso alla casa dei miei genitori (non lo chiamerei «giardino») aveva molto da dire, ma arrivai a capirlo solo quando fui molto più grande. I paesaggi possono essere caricati di tutto un insieme di altri significati riguardanti questioni sociali o anche politiche, le quali solitamente sono al di là della comprensione dei bambini piccoli. Il prato davanti alla casa di mio padre, non falciato, era un chiaro messaggio rivolto ai nostri vicini e a suo suocero, ma all’epoca ero troppo piccolo per afferrarlo bene. Capivo che era motivo di un certo attrito tra i miei genitori, e ne sapevo abbastanza per provarne un vago imbarazzo. Il conformismo è una cosa che i bambini sembrano cogliere quasi istintivamente, e il fatto che il prato davanti alla nostra casa fosse diverso da tutti gli altri mi dava la sensazione che la nostra famiglia fosse strana. Non riuscivo a capire perché mio padre non potesse essere un po’ più simile a tutti gli altri padri del vicinato. Un’estate lasciò il prato completamente a se stesso. Le graminacee vi crebbero abbastanza alte da fiorire e andare in semenza; l’erba si increspava al vento come una bandiera. Sono certo che in tutto questo ci fosse della bellezza, che però in quel contesto non era visibile. A Long Island, inchiodato nel mezzo di una fila di monofamiliari identiche, il nostro prato diceva «depravazione» e non «prato spontaneo», benché proprio questo fosse diventato. Diceva anche, ai vicini, andate a farvi fottere. Si potrebbe sostenere che il manto erboso davanti alle case sia l’istituzione più caratteristica dei sobborghi americani, così che la mancanza di rispetto mostrata da mio padre nei suoi confronti probabilmente esprimeva la sua generale ambivalenza sullo stile di vita suburbano. In quel contesto, il prato all’ingresso è, almeno visivamente, parte di un paesaggio collettivo; benché non sia proprio un terreno pubblico, non è nemmeno del tutto privato. In questo, riflette uno dei fondamenti dell’esperimento suburbano, che in un’occasione Lewis Mumford definì «uno sforzo collettivo di avere una vita privata». La componente privata era abbastanza semplice: il sogno suburbano è imperniato sul primato della vita familiare e della proprietà privata; poiché nell’universo morale di mio padre questi erano i due massimi valori, aveva sottoscritto con entusiasmo. Emerse però che «possedere la propria casa» era solo metà della storia: il sobborgo è un luogo in cui ciascuno persegue quell’obiettivo insieme ad altre centinaia di coppie con una «mentalità simile». Senza leggere le clausole in caratteri minuscoli, mio padre aveva aderito all’intero pacchetto dell’utopia della classe media, e adesso c’era un conto salato da pagare. Il prato di fronte alla casa simbolizzava il volto collettivo dei sobborghi, quello sul retro il suo aspetto privato. Dietro, si poteva fare sostanzialmente quello che si voleva, ma all’ingresso si doveva tener conto dell’immagine che la comunità aveva di se stessa, come pure dei suoi desideri. Recinzioni e siepi erano fuori discussione, considerate antisociali, simboli inconfondibili di alienazione dal gruppo. Ciascun manto erboso doveva scorrere senza impedimenti e confluire in quello adiacente, oscurando i confini tra le case e contribuendo al senso di comunità. Era qui, nel prato davanti alla casa, che la «mentalità simile» trovava la sua espressione più chiara. La configurazione convenzionale di una strada suburbana è intesa a creare un unico colpo d’occhio – un paesaggio democratico – a partire dalla moltitudine di singoli lotti identici. La manutenzione della propria porzione di quel paesaggio faceva parte del dovere civico di ciascuno. Si andava a votare a novembre, ci si iscriveva al comitato genitori-insegnanti, e ogni sabato si falciava il prato. Com’è ovvio, il sistema democratico può far fronte a chi non vota molto più facilmente di quanto il paesaggio democratico possa far fronte a chi non falcia il prato. Un singolo prato non falciato rovina l’effetto d’insieme, annunciando al mondo che qui, a Utopia, non tutto funziona come dovrebbe. A mio padre non sarebbe potuto importare di meno. La terra era sua: poteva farci quello che voleva. Quanto ai vicini, sentiva di non dover loro nulla. La nostra era praticamente l’unica famiglia ebrea in una zona in larga misura cattolica e, salvo una o due eccezioni, i vicini ci avevano sempre trattato con freddezza. Perché avrebbe dovuto fingere di condividere i loro valori? Se loro consideravano il nostro prato un’espressione di dissenso nei confronti della volontà comune, era un’interpretazione ragionevole. E se quel prato irritava profondamente suo suocero, be’, questo non faceva che deporre a favore del prato. (Bisognerebbe stare attenti, però, a non minimizzare l’influenza della pigrizia sulla filosofia di mio padre in merito alla cura del verde). L’estate in cui papà smise del tutto di usare la falciatrice, io percepii per la prima volta il fiato pesante di una maggioranza tirannica; nessuno diceva nulla, ma il messaggio era comunque udibile: Falciate il vostro prato. Quando passavano davanti alla nostra casa, le automobili rallentavano. Probabilmente alcuni degli automobilisti erano soltanto curiosi: vedevano l’erba alta e si chiedevano se qualcuno se ne fosse andato via in fretta e furia, o magari fosse morto. Altri, però, passavano lì davanti in un modo che risultava chiaro al di là di ogni possibile fraintendimento, rallentando quando si avvicinavano e poi dando rabbiosamente gas non appena erano passati: era uno stile di guida vigoroso, quel tipo di comportamento che è una seconda natura per un uomo del Klan. Il messaggio arrivò anche per altre vie. George Hackett, che abitava nella casa accanto ed era l’unico amico di mio padre nella zona, fu incaricato dagli altri vicini di comunicargli le impressioni della comunità. George non era necessariamente d’accordo con la maggioranza, ma era l’unico intermediario concepibile; vulnerabile alle pressioni, minuto, un po’ timido – probabilmente, all’epoca, era l’adulto meno minaccioso che frequentasse il mio mondo. Sono sicuro che gli altri usarono mezzi di persuasione alquanto brutali prima che acconsentisse a soddisfare le loro richieste. Quando venne da noi a portare il messaggio, era una sera d’estate, sul presto. Non ricordo tutto, ma posso immaginare George che prende un drink da mia madre, spiattella quello che è stato incaricato di riferire, e poi se ne resta in attesa della reazione di mio padre – che vicino a lui era un orso d’uomo. La risposta di papà non avrebbe potuto essere più eloquente. Andò in garage e avviò la vecchia Toro arrugginita per la prima volta dalla primavera; il fatto che l’aggeggio si mise in moto ha del miracoloso. Poi la spinse fuori, fino al marciapiede e quindi tornò indietro attraverso il prato, puntando in direzione della casa, ma non in linea retta: sterzò bruscamente a destra, poi a sinistra, e poi di nuovo a destra. Aveva tracciato una S nell’erba alta. Poi fece una M e infine una P. Erano le sue iniziali, e non appena ebbe finito di scriverle, riportò la falciatrice in garage per non riaccenderla mai più.

Non era passato molto tempo da questo episodio quando ce ne andammo da Farmingdale. Era il 1961, io avevo sei anni e mio padre ormai guadagnava abbastanza da potersi permettere una casa sulla costa settentrionale, più ricca, in un comune che si chiamava Woodbury. Acquistammo una delle prime case di un nuovo complesso residenziale, The Gates – «i cancelli»; lo stavano edificando nel sito di un’antica proprietà, e il costruttore aveva conservato, all’ingresso, i giganteschi cancelli in ferro battuto, in modo da dare al nuovo quartiere una nota aristocratica. Il costruttore ha il privilegio di nominare le strade del suo complesso, e all’epoca era prassi comune quella di seguire un tema. La maggior parte dei quartieri aveva strade che prendevano il nome da fiori o alberi, ma The Gates volle connotarsi fin dal principio come un’area residenziale diversa – più grandiosa e lungimirante –, e così aveva una toponomastica differente. Di recente l’Alaska era diventata il cinquantesimo stato, e il costruttore, forse considerandosi un pioniere o un fondatore di imperi, decise di dare a tutte le strade nomi di luoghi di laggiù; la nostra casa era all’angolo tra Juneau Boulevard e Fairbanks Drive. (La parola street, strada, con la sua connotazione cittadina, non fa parte del vocabolario suburbano). L’incongruità di attribuire nomi di luoghi remoti, di frontiera, a leziosi boulevards, drives e courts non sembrò mai disturbare nessuno. In un nuovo complesso, ciascuno sceglieva il suo lotto di terra e uno dei tre tipi di casa disponibili (in stile ranch, coloniale, o su più livelli) e loro la costruivano. Noi scegliemmo quattromila metri quadrati abbondanti di bosco (una grande estensione, rispetto alla proprietà di Farmingdale), che declinavano da Juneau Boulevard verso una depressione. La topografia consentiva una certa privacy, ma implicava anche che il pavimento del nostro seminterrato si trovasse abitualmente sotto diversi centimetri di acqua. Per quanto riguarda il tipo di casa, non potevano esserci discussioni: abbiamo sempre abitato in case in stile ranch. C’erano due motivi: in primo luogo, era il tipo più «moderno», e i miei genitori si consideravano moderni. La seconda ragione aveva a che fare con la sicurezza: mia madre era convinta che non si allevano dei bambini in una casa con una scala interna. Poco sarebbe mancato che uno invitasse quelli delle ferrovie di Long Island a posare i binari nel giardino sul retro. Dopo la firma del contratto, tutti i fine settimana mio padre portava me e mia sorella a Woodbury per seguire i progressi della nostra nuova casa. Osservavamo mentre la superficie boscosa veniva parzialmente liberata dagli alberi e delimitata da agrimensori armati di treppiedi. I miei genitori avevano scelto quel lotto per la sua fitta foresta di querce, e noi legammo dei nastri agli alberi che volevamo salvare, compresa una grande quercia a due tronchi che sarebbe rimasta davanti all’ingresso per il resto della mia infanzia. Ci sentivamo come pionieri, mentre guardavamo il bosco che cedeva terreno ai bulldozer e un intero nuovo paesaggio che prendeva forma. Ricordo che rimasi profondamente impressionato da ciò che quelle macchine erano in grado di fare; chi avrebbe immaginato che una foresta potesse esser trasformata in un giardino o che si potesse far sparire una collina? Non avevo mai visto un cambiamento di quel genere. Il giorno che gli operai arrivarono per gettare le fondamenta, mio padre ci diede delle monetine da lanciare nel cemento fresco come portafortuna. Benché distasse soltanto venti minuti da Farmingdale, The Gates era un mondo diverso. Farmingdale era una zona operaia, abitata da elettricisti, tecnici e operai dell’industria aerospaziale per i quali una casa nei sobborghi era la prima, e forse l’unica, dimostrazione di appartenenza alla classe media americana. Può darsi che a rendere i nostri vicini tanto suscettibili in materia di prati ed ebrei fosse proprio il loro precario controllo su quell’identità. Coloro che compravano casa a The Gates, d’altro canto, erano i figli e le figlie della piccola borghesia, e negli anni Cinquanta e Sessanta ciò significava che stavano per diventare decisamente benestanti; erano avvocati, medici e piccoli imprenditori. Appartenevano a una classe più sicura di sé, e cercavano una casa suburbana che riflettesse la loro superiorità e il loro buon gusto. Già al principio degli anni Sessanta, i sobborghi si erano fatta la reputazione di ambienti conformisti e conservatori, e The Gates si rivolgeva a chi desiderava vivere in un sobborgo che non sembrasse tale. Le strade erano ampie e, invece di essere tracciate secondo un reticolo, curvavano in modo imprevedibile. Non c’era nessun motivo pratico per farlo, naturalmente; le strade non curvavano attorno a niente. Lo facevano esclusivamente per dare l’impressione di un ambiente rurale e antico. Tutto il complesso era dominato da una sorta di estetica suburbana antisobborgo: i lotti di terreno avevano forme irregolari, i marciapiedi erano stati eliminati, e le strade terminavano in cul-de-sacs (questi erano i courts). Rispetto a Farmingdale, il paesaggio disegnato a The Gates era enormemente espressivo. Non che la tirannia del prato davanti all’ingresso fosse stata abbattuta; ma pur attenendosi a quel vincolo stretto, molte famiglie riuscivano, per usare un modo di dire che stava cominciando a diffondersi proprio allora, to do their own thing, a fare come gli pareva. La maggior parte degli stili paesaggistici era vagamente aristocratica, e ricordava sia le proprietà rurali britanniche, sia – in modo ancora più improbabile – le piantagioni del Sud. I vialetti d’accesso circolari erano molto pretenziosi: ampie strade curve, scrupolosamente tracciate in mezzo ai cespugli, portavano fino alla porta d’ingresso. La piantumazione serviva a enfatizzare l’asfalto, riverniciato ogni anno con l’apposito sigillante per ripristinarne la nera lucentezza. Questi vialetti davano al visitatore l’impressione di accedere a una grande dimora padronale, più che a una villetta; quasi ti aspettavi che qualcuno, con indosso una livrea, arrivasse ad aprirti la portiera dell’auto. Ma il vero scopo del vialetto d’accesso circolare era di fornire uno scenario scintillante per il gioiello di famiglia, solitamente una Cadillac o una Lincoln. I vialetti circolari rendevano socialmente accettabile parcheggiare l’auto nel mezzo del giardino davanti alla casa, dove nessuno avrebbe potuto non notarla. I Rosenblum, che abitavano lungo Juneau Boulevard, separati da noi da qualche altra proprietà, avevano due vialetti d’accesso: uno su ciascun lato di quello che era il manto erboso più vasto, uniforme e incontaminato di tutto il complesso. La loro fredda casa coloniale bianca si ergeva imponente nel mezzo di questo vasto rettangolo verde, incorniciata dai due vialetti asfaltati, neri e perfettamente diritti. Uno di essi accompagnava i membri della famiglia al garage, mentre l’altro portava gli ospiti a un’entrata un po’ più formale. La facciata della casa era un vago richiamo al neogreco, ma immensa, con quattro ridicole colonne doriche e un gigantesco lampadario in ferro battuto che penzolava nel mezzo. Mi faceva sempre pensare a Tara. Non ho idea del genere di fantasia che il signor Rosenblum stesse realizzando in quella casa, ma ricordo che andava in bestia ogni volta che qualcuno usava il vialetto sbagliato. I miei genitori dovevano aver capito benissimo che a The Gates un approccio alla manutenzione del prato e al giardinaggio in stile «S.M.P.» non sarebbe passato. Per fortuna, adesso potevano permettersi una fantastica consulenza paesaggistica e, cosa ancor più importante, un contratto per la manutenzione che avrebbe aiutato mio padre a rimanere in buoni termini con i nuovi vicini. È importante capire che i miei genitori non erano indifferenti al paesaggio. Perfino mio padre si preoccupava degli alberi e degli arbusti di sua proprietà; è solo che non gli piacevano i prati, e preferiva avere a che fare con il resto del giardino a una certa distanza, idealmente da una finestra. Insieme al denaro, però, arrivò un nuovo approccio al giardinaggio, che al faticoso coinvolgimento diretto con la terra e le piante sostituiva attività a lui più congeniali: supervisione, traffici, spese, lavoretti tecnologici, negoziati. Occorre ampliare un po’ la definizione di giardinaggio per poter apprezzare appieno i successi che papà riscosse in campo simil-orticolturale. Il più notevole, forse, fu quello che coinvolse la betulla piangente che stava nel mezzo del prato dietro alla casa di Farmingdale, un albero che formava qualcosa di simile a una verde fontana a cascata. Questo esemplare, di una certa rarità, era l’albero preferito di mia madre, che desiderava con tutto il cuore portarlo con noi a Woodbury. Così, non appena il contratto per la vendita della casa di Farmingdale fu firmato – ma prima che i nuovi proprietari ci si trasferissero –, mio padre diede disposizioni affinché Walter Schikelhaus, il paesaggista di mio nonno, lo espiantasse e lo portasse a Woodbury. L’albero, però, era talmente caratteristico, e occupava una posizione così centrale nel giardino sul retro, che i nuovi proprietari ne avrebbero notato l’assenza. Così mio padre disse a Walter di piantare, al suo posto, un salice piangente. Poi gli diede istruzioni affinché dipingesse la corteccia del salice di bianco e ne potasse i rami a regola d’arte per renderlo simile a una betulla piangente. A parte le iniziali tracciate con la falciatrice a Farmingdale, questo fu forse l’atto di maggior rilievo compiuto da mio padre come giardiniere, una sintesi di arte topiaria e frode di notevole originalità. Tra i paesaggisti di Long Island, l’uomo ingaggiato dai miei genitori per progettare, piantumare e curare il nostro giardino doveva essere un eretico. Cogliendo gli spunti inviatigli da mio padre, se ne venne fuori con un progetto radicale, a bassa manutenzione, comprendente solo una sottile striscia curva di prato a zolle. Questo stretto viale si avvolgeva descrivendo un sentiero imprevedibile e costeggiando ogni singola alternativa al manto erboso nota all’epoca: ampie isole di cespugli sotto ai quali era stata piantata della pachysandra; zone pavimentate con beole; cospicue aree a boscaglia; e perfino una sezione giapponese pavimentata con ciottoli bianchi d’importazione. Era tutto molto moderno, e sebbene si facesse beffe delle convenzioni dell’architettura paesaggistica suburbana, lo faceva con buon gusto. Nell’insieme, nel terreno sul davanti c’erano molte più piante di copertura che erba. Invece di essere usati nei pressi della casa, per incorniciarla, la maggior parte degli arbusti (soprattutto rododendri e azalee) furono piantati vicino alla strada, formando una siepe ineguale e irregolare che nascondeva l’edificio. Il muro di contenimento lungo il vialetto d’accesso era una struttura terrazzata ottenuta con traversine ferroviarie, all’epoca ancora una novità nella progettazione dei giardini. (Non erano disponibili sul mercato, ma mio padre riuscì ad acquistarne grosse quantità direttamente dai dipendenti della LILCO e della LIRR). Gran parte della proprietà venne lasciata a bosco. E la falciatrice Toro rimase a Farmingdale: probabilmente la nostra era l’unica famiglia di Long Island a non possedere un tosaerba. Per l’innaffiamento, mio padre seguì più o meno la stessa linea adottata con la falciatura del prato, e quindi decise di ordinare un sistema di irrigazione a pioggia di ultima generazione. Dalla sua postazione di comando in garage era in grado di monitorare e innaffiare ogni angolo del suo terreno, una zona per volta. Un timer sofisticato, operando di concerto con un dispositivo che valutava il contenuto di umidità del suolo, doveva assicurare che l’erba e la pachysandra godessero di condizioni ottimali. Ben presto, però, fu chiaro che il venditore aveva imbrogliato papà facendogli spendere un mucchio di soldi. Avevamo centinaia di irrigatori in più rispetto a quelli che potevano ragionevolmente servirci: a ogni metro e mezzo scarso, dal terreno spuntava un fungo di bronzo. Inoltre, il sistema non funzionò mai a dovere: spesso, nel cuore della notte o durante un temporale, gli irrigatori improvvisamente cominciavano a sibilare e sputacchiare all’unisono, quasi che fossero comandati da un’intelligenza aliena. Da alcuni irrigatori lo spruzzo scrosciava come il Niagara, ma nella maggior parte dei casi l’acqua gocciolava pateticamente. Mio padre passava ogni volta ore e ore in garage, in piedi con i suoi boxer davanti al pannello di controllo, cercando invano di contenere la natura perversa del sistema. Dal mio punto di vista, il paesaggio creato da mio padre, controllato a distanza, era una penosa delusione. Una volta che i giardinieri ebbero finito di mettere a dimora gli arbusti e di posare il tappeto erboso, non era rimasto più nulla da fare, se non stare a guardare. Nonostante tutta la sua banalità, il paesaggio suburbano convenzionale, al pari dei sobborghi stessi, era fatto su misura per le esigenze dei bambini. Come luogo per giocare, non c’è niente di meglio di un prato. Per quanto fosse bello, il terreno dei miei genitori, con il suo nastro d’erba e le masse di alberi da ombra, era poco ospitale per i bambini; era un paesaggio fatto per degli spettatori, e i suoi scorci pittoreschi si apprezzavano meglio standosene in casa, in boxer. Di certo non si poteva giocare nella pachysandra. Ma quello che mancava di più era un vero giardino. Certo, considerato nel complesso, anche quel terreno lo era, ma nella mia mente (come nell’uso comune americano) per garden intendevo un piccolo appezzamento di terra coltivato a fiori o ortaggi. Tutto il resto era uno yard, cioè soltanto un luogo; un giardino, invece, era qualcosa di più specifico e – cosa più importante per quanto mi riguardava – era produttivo: faceva qualcosa. Io desideravo uno spazio più simile al giardino di mio nonno, un luogo dove potessi mettere le mani nella terra e farle fare delle cose. Passavo un mucchio di tempo a osservare gli operai che rivoluzionavano tutto il paesaggio circostante mentre creavano il nuovo complesso residenziale: ogni giorno, sembrava, le foreste si trasformavano in prati, nuove strade nere tagliavano i campi vicini, venivano scavati pozzi, si spostavano intere colline. Ovunque si guardasse, il paesaggio sembrava essere in flusso, e io ero affascinato dall’idea di ridar forma alla terra. Nel frattempo, il nostro terreno si era improvvisamente fossilizzato: tutto quello che si poteva fare era andare in garage e giocherellare con i controlli degli irrigatori. Io volevo scavare. La maggior parte del nostro terreno adesso era sotto la giurisdizione delle squadre di manutenzione che si presentavano ogni venerdì; c’erano comunque alcuni angoli che sfuggivano alla loro attenzione. Sul retro, lungo lo stretto corridoio fra la casa e i boschi, il prato non attecchì mai; non importa quale miscela di sementi provassero: l’ombra, alla fine, sconfiggeva l’erba. Quando finalmente i paesaggisti gettarono la spugna su quel pezzo di terra, io ebbi il permesso di scavarci. Naturalmente l’ombra impediva che ci piantassi un orto o un giardino, ma io avevo un’altra idea: offrire alla proprietà un corpo d’acqua assolutamente indispensabile. Feci passare sotto terra, dalla casa, un tubo di gomma, e creai un alveo: il letto di un corso d’acqua rivestito di pietre, che passava attraverso una complessa rete di pozze e culminava in una spettacolare cascata, alta almeno venti centimetri. Passai interi pomeriggi osservando l’acqua mentre – nel suo viaggio infinitamente vario ma inevitabile verso i boschi – incideva nuove vie nel terreno. Stavo imparando a pensare come l’acqua, un’inclinazione che in seguito mi sarebbe tornata molto utile in giardino. Sperimentai pietre diverse per ottenere suoni e movimenti differenti, e senza dubbio sprecai quantità indecenti di acqua. Benché lo considerassi un paesaggio in miniatura di straordinaria bellezza, è probabile che in realtà il mio giardino acquatico fosse poco più di un terreno fangoso; non ne sono sicuro. Quando mi stancai del mio giardino acquatico, lo rivoltai, e al suo posto allestii un cimitero. Avevamo moltissimi animali domestici, che continuavano a morire: non solo cani e gatti, ma anche canarini e polli, tartarughe e anatroccoli, gerbilli e criceti. Ogni volta che uno di questi animali spirava, le mie sorelle e io organizzavamo elaborate esequie. E se capitava che tutti i nostri animali godessero di buona salute, c’era sempre qualche vittima della strada bisognosa di una decorosa sepoltura. Dopo aver interrato le scatole da scarpe che usavamo come bare, rastrellavamo il terreno e lo riseminavamo, piantando sulla tomba l’ennesima croce di legno fatta in casa. Sapevo benissimo che le croci erano per i cristiani; ma una stella di David andava oltre le mie abilità di falegname, e in ogni caso ero incline a considerare gli animali domestici come gentili. Agli occhi di un bambino allevato da ebreo, l’Altro, in tutte le sue forme, doveva essere cristiano. Il mio compagno abituale, in queste variegate imprese paesaggistiche, era Jimmy Brancato, un ragazzino singolarmente sfortunato che abitava in fondo alla strada insieme ai suoi problematici genitori. Il signor Brancato, un tipo con una vaga aria da gangster, possedeva un autolavaggio a Hempstead e si diceva che avesse soggiornato nel carcere di un altro stato. La signora Brancato, con i capelli ossigenati sistemati in una monumentale acconciatura, ricordava da vicino l’amante di un bandito, ed era un’urlatrice imbattibile con un’indole molto apprensiva. A tal punto era ferma nella convinzione che i suoi figli fossero destinati a mettersi nei pasticci (il carcere nel caso di Jimmy; una gravidanza fuori dal vincolo del matrimonio in quello delle sorelle), che alla fine loro stessi dovevano essere arrivati a credere impossibile qualsiasi alternativa. Certo è che alla fine una delle figlie rimase incinta e Jimmy ebbe un guaio serio con la legge. Questo, però, avvenne molto tempo dopo; nel periodo che sto descrivendo, Jimmy aveva nove o dieci anni, e si trovava ancora soltanto ai margini della delinquenza. Come si può immaginare, entrambi preferivamo stare a casa mia. Mia madre piaceva molto a Jimmy, forse per la semplice ragione che quando lo guardava non vedeva l’uniforme a strisce del carcere. Quanto a me, ero troppo terrorizzato dai genitori del mio amico per avvicinarli di mia spontanea volontà. Jimmy mi piaceva perché, rispetto a me, era coraggioso e intrepido; e io piacevo a Jimmy perché, rispetto a lui, avevo cervello. Insieme eravamo una bella squadra. A entrambi piaceva fare giardinaggio, anche se può darsi che in questo lui mi stesse soltanto venendo dietro. Di solito io stabilivo le cose da fare, e gli spiegavo dove andare a scavare o che cosa avremmo piantato quel giorno, citando mio nonno ogni qualvolta avevo bisogno di rafforzare la mia autorità. Il nostro primo orto, che noi chiamavamo «fattoria», era terrazzato: il muro di contenimento realizzato con le traversine ferroviarie si alzava rispetto al vialetto di una serie di quattro o cinque gradini, ciascuno dei quali formava un’aiuola perfetta. Su un livello piantammo fragole, su un altro angurie e su un terzo cetrioli, melanzane e peperoni. Le fragole, però, erano di gran lunga le nostre preferite. Avevano la presenza scenica dei pomodori (il frutto color rosso acceso), ricrescevano ogni anno da sole (una cosa fichissima ai nostri occhi) e inoltre erano commestibili. L’obiettivo mio e di Jimmy, però, era di raccoglierne abbastanza per venderle – la nostra era una fattoria – e, ogni volta che riuscivamo ad averne contemporaneamente sei o sette mature, le mettevamo in un bicchierino di carta e le vendevamo a mia madre. Alla fine speravamo di aprire una bancarella su Juneau Boulevard. Jimmy lavorava sempre come un matto; anche quando i miei mi chiamavano in casa per cena, lui rimaneva fuori a zappare e vangare fino a quando sua madre tirava fuori la testa dalla finestra della loro cucina e cominciava a gridargli di rientrare. Per quanto sembrasse piacergli, quella forma di giardinaggio non soddisfaceva appieno l’amore di Jimmy per l’avventura; forse percepiva che sarebbe stato difficile realizzare il suo destino nell’orto (benché in effetti alla fine trovò il modo di fare esattamente questo). Jimmy aveva un concetto di giardinaggio relativamente ampio, che abbracciava prassi non convenzionali, per esempio il raccolto degli ortaggi altrui in assenza dei proprietari. Confinante con il nostro complesso c’era un campo di zucche, e diverse volte, ogni autunno, Jimmy insistette affinché lo accompagnassi in missione per rubare tutte quelle che riuscivamo ad ammucchiare sui nostri carretti. Accompagnarlo era il prezzo che pagavo per il suo aiuto nella fattoria. In ottobre, il campo di zucche era un luogo d’una bellezza arcana, con la sua vasta rete di rampicanti verdi che copriva le magnifiche sfere color arancio, a perdita d’occhio. Qui c’era di nuovo il sublime dell’orto: adesso però l’esperienza era piena di insidie. Mi avevano insegnato che lo sconfinamento era un reato odioso, e il cartello di VIETATO L’ACCESSO oltre il quale dovevamo trascinare i nostri carretti mi faceva morire di paura. Nei sobborghi, la proprietà privata era un’istituzione così inviolabile che perfino i bambini piccoli ne percepivano la forza. Secondo Jimmy – forse lo diceva solo per spaventarmi, ma non lo seppi mai per certo – i contadini avevano fucili che sparavano proiettili di sale, e se ci avessero visti avrebbero avuto tutto il diritto di colpirci, perché noi eravamo sulla loro proprietà. Circolava la voce che quei proiettili di sale fossero dolorosissimi (come se essere colpiti da quelli di metallo non fosse già abbastanza orribile). Riuscimmo sempre a venirne fuori vivi, ma devo dire che, l’anno in cui il campo di zucche cedette il posto a un nuovo complesso immobiliare, non ne fui troppo contrariato. Una volta arrivati sani e salvi a casa con le nostre zucche (andavamo sempre da Jimmy; mia madre avrebbe dato in escandescenze se ci fossimo presentati con la refurtiva), ci spartivamo il malloppo e poi Jimmy procedeva metodicamente a sfracellare la sua parte. Questo era un piacere che proprio non riuscivo a capire. Era chiaro, tuttavia, che per Jimmy lo sballo stava tutto nel rubare le zucche, non nel possederle. A guardarlo mentre partiva con il pestaggio, sembrava fosse indemoniato. E più lo conoscevo, più cominciavo a percepire che avesse un’attrazione quasi mistica per i guai. Un’estate, mentre la mia famiglia era in vacanza, Jimmy stava effettuando alcuni esperimenti di routine con i fiammiferi e incenerì accidentalmente la maggior parte della foresta dietro casa nostra. Tutti i bambini tiravano palle di neve alle auto di passaggio, ma quando lo faceva Jimmy era la volta che il parabrezza andava in frantumi, e lui veniva preso. Non era un bambino cattivo, assolutamente; è solo che aveva una sorta di tropismo che lo faceva tendere verso il disastro con la stessa naturalezza con cui una pianta tende verso la luce del sole. Quando le nostre strade si erano ormai separate da anni, Jimmy escogitò il modo di combinare quello che io gli avevo insegnato sul giardinaggio con la sua inclinazione per i guai. Doveva essere circa il 1970, e lui era in prima superiore, quando decise di avviare una fattoria sua che potesse veramente fargli fare un po’ di soldi. Piantò un piccolo campo di marijuana. Aveva considerato ogni aspetto, e aveva fatto tutto il possibile per evitare di essere scoperto. Poiché coltivare erba nella proprietà dei genitori era ovviamente fuori questione, ripulì un pezzetto di terra vicino a Manor House, la dimora padronale abbandonata sul cui terreno era sorto The Gates. Il costruttore aveva promesso di trasformare Manor House in un centro per la comunità, ma se l’era squagliata dalla città molto tempo prima, e ormai il luogo era diventato una sorta di terra di nessuno, una rovina gotica circondata da vecchi frigoriferi e carrelli della spesa abbandonati. Rovi e sommacco crescevano soffocanti dappertutto, con l’eccezione dello spazio occupato da una Chevrolet Impala tutta scrostata; liberare un pezzo di terreno per coltivarlo dev’essere stato un lavoro da spaccare la schiena. La maggior parte di noi non osava avvicinarsi a Manor House durante il giorno, figuriamoci con il buio; ma ogni sera, dopo la mezzanotte, Jimmy scivolava fuori di casa e correva laggiù in bicicletta, e si prendeva cura del suo prezioso campo alla luce di una torcia. Farsi prendere non doveva essere facile, ma Jimmy ci riuscì. Un ragazzino del vicinato, andando in bicicletta dalle parti di Manor House, si imbatté nel campo di Jimmy poco prima che lui si accingesse al raccolto. Oggi, la forma di una foglia di marijuana e la silhouette della pianta sono familiari come quelle dell’acero, ma nel 1970 non era così. Purtroppo per Jimmy, quel ragazzino aveva partecipato di recente a un’assemblea scolastica in cui un poliziotto aveva mostrato agli alunni come riconoscere la marijuana. Il ragazzino corse a casa e raccontò alla madre ciò che aveva visto; la madre chiamò la polizia. A quel punto Jimmy ormai si era già cacciato nei guai abbastanza spesso da essere ben noto alla polizia locale, e sono certo che i poliziotti si fissarono immediatamente su di lui come principale sospettato. Nella versione della storia che sentii io, quando gli sbirri andarono a interrogare lui e la madre, Jimmy mantenne il suo sangue freddo e non fece ammissioni. Poiché non avevano alcuna prova che lo legasse alle piante di marijuana, la cosa sarebbe potuta finire lì. Ma la polizia aveva messo sul chi vive la signora Brancato, che quindi decise di perquisire la stanza di Jimmy. Dei sette vizi capitali, la superbia è certamente quello che, sotto forma d’orgoglio, affligge più comunemente il giardiniere. Jimmy era giustamente orgoglioso del suo campo, e benché non fosse stato così ingenuo da invitare qualcuno a visitarlo, a quanto pare non aveva resistito alla tentazione di fare qualche istantanea alle sue bellezze di quasi due metri e mezzo, nel loro momento di massimo splendore. La signora Brancato trovò le fotografie incriminanti e, avendo concluso che per il figlio quella fosse la soluzione migliore a lungo termine, le portò alla polizia. Non fu intentata nessuna causa, ma Jimmy fu spedito alla scuola militare e io persi le sue tracce.

La mia carriera di giardiniere rimase nei limiti della legge, anche se non sempre in quelli della proprietà. Più o meno nello stesso periodo in cui Jimmy si stava occupando del suo campo a Manor House, io spostai la nostra fattoria dalla sua sede angusta sul muro di contenimento a un pezzo di terra più spazioso, lungo il perimetro della nostra casa, che ero riuscito a farmi concedere dai miei genitori. Sarebbe stato il mio ultimo orto a The Gates. Anche il giovane giardiniere più appassionato scoprirà che alle superiori il suo interesse si smorza, e ben presto ciò accadde anche a me. L’estate prima di prendere la patente, però, allestii quello che allora era il mio orto più ambizioso di sempre. Persuasi i miei genitori ad acquistarmi qualche metro cubo di terriccio e costrinsi nello spazio di dieci metri quadrati scarsi una dozzina di colture diverse: pomodori (proprio allora diventati commestibili), peperoni, melanzane, fragole, mais, zucche, meloni (angurie e cantalupi), fagiolini, piselli. Tutto, tranne la lattuga che – non facendo frutti – non aveva abbastanza fascino per me. Perché mai uno avrebbe dovuto coltivare delle foglie? Anni dopo, quando lessi delle tecniche europee di agricoltura intensiva, mi resi conto che era proprio quello che, inconsapevolmente, avevo fatto io allora. Arricchii il suolo con sacchi di sfagno e letame, lo lavorai in profondità e poi misi a dimora le mie piantine, praticamente attaccate una all’altra. Poiché l’aiuola era lunga e stretta, decisi di lasciar perdere le file e sistemai la maggior parte delle piante a una distanza non superiore a quindici centimetri, disponendole in un modo che si potrebbe definire fuori da ogni schema. Crebbero tutte benissimo: ad agosto il mio microscopico orto, per quanto disordinato, stava producendo una gran quantità di ortaggi. Perfino i miei genitori se ne accorsero, meravigliandosi dei peperoni e dei pomodori che portavo in tavola; la persona che volevo impressionare davvero, però, era il nonno. Ormai i rapporti con lui erano terribilmente tesi. Io portavo i capelli lunghi e mi ero fatto crescere la barba, cosa che lo disturbava profondamente. A quindici anni, non riuscivo a far nulla che gli andasse a genio, e le visite a Babylon, che erano state tra i momenti più belli della mia infanzia, s’erano trasformate in un tormento. Nell’istante preciso in cui arrivavo, cominciava a prendersela con me per la barba, per l’abbigliamento studiatamente trasandato, per il braccialetto di cuoio intrecciato che avevo al polso e per ogni minima evidenza del fatto che ero diventato uno di quei vituperati ’ippies, come era solito pronunciarlo, sprezzante. Pensavo che se esisteva un luogo in cui un anziano reazionario e un aspirante hippie potevano trovare un minimo di terreno comune, quello fosse l’orto – e alla fine ne avevo allestito uno di cui sarebbe stato orgoglioso; così, quando lui e la nonna fecero una delle loro rare visite a casa nostra, quell’estate, non stavo più nella pelle dalla voglia di portarlo sul retro e mostrargli i miei risultati. Il mio orto, però, il nonno neanche lo vide. Si accorse solo delle erbacce e del disordine. E questo tu lo chiami orto?, sbraitò. È tutto troppo vicino – le tue piante si soffocano a vicenda. E dove sono le file? Devono esserci le file. Questo non è un orto – quello che hai fatto qui è un campo di erbacce! I grossi pomodori cuore di bue, i peperoni verdi dalla forma squadrata, le angurie che ormai erano più grosse di un pallone da football: per lui era tutto invisibile, tranne le erbacce. Guardò il mio orto e ci vide tutto quello che non poteva sopportare di me e, in effetti, dell’America del 1970. Vide la disintegrazione dell’ordine, la mancanza di rispetto per l’autorità, la pigrizia, l’avanzare incontrollato di elementi poco raccomandabili. Si stava comportando da rompiscatole, è vero, ma era mio nonno, un uomo anziano in un’epoca in cui era difficile essere vecchi, e quando si inginocchiò e cominciò furiosamente a estirpare le erbacce, provai vergogna.

Penso quindi si possa dire che io e Jimmy fummo cacciati dai rispettivi giardini pressappoco nello stesso periodo. Ma sarebbe troppo semplice. Per quel che ne so, oggi Jimmy si occupa di otto ettari di ottima sinsemilla, nella contea di Humboldt. Nel mio caso, a spingermi fuori dal mio orto, l’arrivo della patente contribuì più del severo attacco del nonno alla mia tecnica. Se fare giardinaggio significa esplorare un luogo vicino a casa, essere adolescenti significa esplorare la mobilità, e questi due approcci ai luoghi, o alla casa, sono destinati prima o poi a entrare in conflitto. È probabile che per almeno dieci anni io non abbia pensato una sola volta alle piante, né abbia fatto caso a un paesaggio. Alla fine, però, come probabilmente accade di solito, tornai nell’orto. In larga misura, il giardinaggio è un ritorno, uno sforzo per recuperare paesaggi ricordati. Ho avuto la fortuna che mio nonno fosse ancora vivo quando ripresi a lavorare nell’orto. Ormai mi ero fatto una casa mia, ma lui aveva più di novant’anni, e non venne mai a vederla. Io però gli portavo delle fotografie, attentamente rifilate in modo da trasmettere un’impressione di pulizia e ordine; dopo averle esaminate scrupolosamente cercando tracce di erbacce, lui pronunciava la sua approvazione. Il suo orto ormai consisteva di cinque o sei piante di pomodori piantate vicino alla porta sul retro di un piccolo condominio. Io lo aiutavo a estirpare le erbacce e a raccogliere i frutti; i suoi cuore di bue erano ancora abbastanza da poterne regalare qualcuno. Mi chiedeva di descrivergli il mio orto, e io lo facevo, scegliendo le parole con cura, tracciando il quadro di un luogo che lui avrebbe trovato piacevole. L’orto di cui gli parlavo era in larga misura immaginario, e combinava alcuni elementi del mio orto vero con i ricordi di Babylon e con il tipo di immagini che suppongo siano comuni nei sogni di ogni giardiniere. Era uno di quei luoghi che non si trova esattamente né nel passato, né nel futuro, ma verso il quale chiunque faccia giardinaggio è sempre in cammino. Era in un luogo dove potevamo ancora andare insieme. Una delle ultime volte che mi recai a trovarlo, mi disse che potevo prendere la sua zappa olandese, dichiarando che era il miglior attrezzo per estirpare le erbacce in cui si fosse mai imbattuto. Aveva novantasei anni, esattamente il triplo della mia età, e benché il suo passo fosse ormai malfermo, mi condusse all’aperto e mi mostrò come usarla.

1. In inglese garden può riferirsi sia al vegetable garden, cioè all’orto; sia al flower garden, cioè al giardino ornamentale; sia, infine, allo herb garden, il giardino dei semplici, dove si coltivano piante officinali. Poiché spesso l’autore usa semplicemente garden, nella traduzione, se necessario, si è specificato il tipo di spazio verde di cui si parla [N.d.T.]. PRIMAVERA II LA NATURA ABORRE IL GIARDINO

Quando infine tornai al giardino, mi portai dietro molte delle idee semplicistiche sulla campagna e sui suoi abitanti, tipiche dell’uomo di città. Una di esse aveva a che fare con il problema degli animali nocivi, tema sul quale ero latore delle consuete posizioni tolleranti. Bombardare un giardino con l’insetticida, puntare il mirino d’un fucile alle spalle di una marmotta che batteva goffamente in ritirata, erigere una barricata elettrica intorno a un orto: tutte queste misure, pensavo, erano eccessive, addirittura irresponsabili. Davo per scontata la fragilità della natura, e l’idea di soffocare l’opposizione dell’ambiente locale ai miei progetti sulla terra dispiegando una maggior potenza di fuoco sembrava avventata e ingiusta, un atto di imperialismo ecologico. Senza contare che la fauna selvatica era una delle attrazioni della campagna; uno sapeva di trovarcisi proprio grazie ai cervi, alle volpi, ai porcospini e alle marmotte. Questi animali erano arrivati molto tempo prima del giardiniere: perciò in questo caso chi era l’intruso? E che cos’era in fondo il giardinaggio se non la ricerca di un rapporto più armonioso con la natura? Uno dei meriti del giardinaggio è che libera la mente dai sentimenti a buon mercato: sulla natura in generale e sulla fauna in particolare. È ad aprile che l’infatuazione romantica per gli animali viene messa in discussione la prima volta: ci siamo appena spezzati la schiena a rivoltare il terreno, abbiamo portato balle di sfagno e sacchi di letame dal baule dell’auto all’orto caricandoceli in spalla, li abbiamo interrati lavorando di forcone e poi abbiamo messo a dimora, in file scrupolosamente ordinate, le piantine di ortaggi precoci come lattuga, broccoli e cavoli. Provate voi a fare tutto questo, a investirci un pomeriggio, e vedrete come vi sentirete il mattino dopo nel trovare la vostra parata di piantine tosata rasoterra da una marmotta uscita a fare uno spuntino. Dapprima, considerando lo spreco di tempo, fatica e denaro, uno si sente frustrato. Poi subentra un senso di persecuzione: con tutti i milioni di teneri germogli che spuntano in questo periodo dell’anno in campagna, perché questi animali hanno scelto di cenare proprio in questo particolare pezzo di terra? Consideriamo ora l’aspetto deprimente delle file di piantine tagliate, ciascuna spuntata di netto a circa un centimetro dal suolo, quasi che fosse opera di qualcuno munito di un paio forbici e con tutto il tempo del mondo a disposizione. Uno scenario del genere indica che la responsabile è una marmotta. Questi animali divorano le aiuole in modo sistematico, là dove invece una cerva – creatura nervosa, forse dotata di un senso del pudore più sviluppato – mordicchierà una pianta qui, un germoglio là, e poi, trasalendo al suono di una foglia che cade o di qualcosa di ugualmente pericoloso per un mammifero di quasi cento chilogrammi, si dileguerà prima di aver terminato il suo pasto. La marmotta, per contro, si accosta all’orto come se fosse un banchetto apparecchiato espressamente per lei; considera le nostre piante non come farebbe un ladro, ma come un parente. Non si preoccupa che il suo desinare possa essere interrotto, e ha tutta l’intenzione di tornare il giorno dopo per i secondi. Quanto al giardiniere, farà buon viso a cattivo gioco, ripiantando immediatamente le file tosate. Certo non ha intenzione di rinunciare all’orto per l’impertinenza di queste creature di basso rango. Un roditore il cui cervello entrerebbe in un ditale potrà vincere un paio di battaglie ma alla fine, ad aggiudicarsi l’esito della guerra, sarà il cervello più grosso. Tutta la storia naturale depone a favore del giardiniere: che cosa sta facendo la specie umana sul nostro pianeta, se non vincere esattamente questo genere di competizione? Perlomeno, era così che consideravo la faccenda quando, ad aprile, aprii gli occhi per la prima volta sulle prove di un’incursione antelucana nel mio orto appena piantato. Stimai il danno, studiai il mio avversario e decisi che la strategia più saggia fosse di spostare la battaglia sul suo territorio; andai dunque a cercare la sua tana. Il mio orto si trova su un terreno pianeggiante non molto esteso, coltivato a prato, che termina a nord alla base di un piccolo pendio. Quest’ultimo è ricoperto da vecce, da un intrico di rovi di more e da un paio di olivagni: in altre parole una copertura perfetta per una tana di marmotta, a pochi passi – passi di marmotta – dalla fila di piantine più vicina. Essendo miopi e piuttosto lenti nei movimenti, questi animali tendono a farsi la casa il più vicino possibile al punto in cui preferiscono mangiare, come detta la prudenza. Avanzai nella vegetazione bassa facendomi strada a colpi di machete – ed eccola lì: una grande bocca sguaiata scavata nel fianco della collina, e subito sotto, come un turgido labbro, un monticello di terreno smosso di fresco. La marmotta non stava solo visitando il mio orto: ci si era trasferita per tutta la stagione. Questo richiese un programma di adeguamento: raccolsi cinque o sei sassi grossi come un pugno e li infilai in fondo al buco. Poi ci ammucchiai sopra qualche vangata di terra e premetti alcune volte con il piede, in modo da incastrare terra e sassi il più possibile in profondità nel cunicolo. Questo avrebbe persuaso la marmotta a cenare altrove, pensai io, con tutta la sicurezza di chi non ha ancora capito niente delle marmotte. Non più tardi del giorno dopo, il buco si era riaperto con uno sbadiglio, sputando fuori sassi e terriccio. Senza dubbio affamata per il lavoro di scavo, la marmotta era emersa dal suo cunicolo intenzionata ad assaggiare qualche piantina di lattuga appena messa a dimora.

A questo punto, il lettore potrebbe chiedersi ragionevolmente perché non avessi predisposto una recinzione. Dopo l’attacco della marmotta, mi hanno fatto questa domanda in diverse occasioni, e io non sono mai riuscito a trovare una risposta del tutto soddisfacente. Ho dato qualche spiegazione banale chiamando in causa questioni di economia e competenza. Sospetto tuttavia che la mia riluttanza a tirar su una recinzione fosse una questione di natura più viscerale: il fatto è che le recinzioni proprio non si accordavano con la mia idea del giardinaggio. Un orto o un giardino dovrebbero continuare nel paesaggio naturale, credevo io, in armonia con l’ambiente circostante. L’idea che un giardino potesse veramente richiedere protezione dalla natura mi pareva assurda. A un certo punto mi ero convinto che una recinzione fosse indice di una disarmonia, addirittura un’alienazione, nei confronti della natura. Sospetto anche che avessi assorbito l’idea tradizionale americana secondo cui le recinzioni sarebbero roba da Vecchio Mondo, fuori posto nel nostro ambiente. Nell’Ottocento, questa idea affiora a più riprese negli scritti americani sul paesaggio. Uno dopo l’altro, gli autori denunciano «il muro di mattoni degli inglesi, con la sua offensiva ostilità, sormontato da cocci di bottiglia». Frank J. Scott, che fu uno dei primi architetti paesaggisti ed ebbe un grande impatto sull’aspetto delle prime periferie residenziali americane, lavorò instancabilmente per liberare il paesaggio dalle recinzioni, deridendole come un residuo del feudalesimo di impostazione britannica. Nel 1870 scriveva che «limitare la nostra vista, o quella del nostro vicino, sui generosi doni della natura» era un atto egoista e antidemocratico. Oggi, attraversando in auto qualsiasi sobborgo americano, dove ogni prato ben curato arriva fin sulla strada compiendo un gesto di apertura e accoglienza, si comprende quanto il trionfo di quelle idee sia stato completo. Dopo una visita negli Stati Uniti, Vita Sackville-West decise che «gli americani devono avere una disposizione d’animo di gran lunga più fraterna della nostra, giacché non sembrano infastiditi dall’essere esposti agli sguardi altrui. Non hanno proprio il concetto della proprietà privata cintata». In un tipico sobborgo americano come quello in cui sono cresciuto io, una staccionata o una siepe lungo la strada significavano una cosa sola: la famiglia che viveva là dietro era antisociale, forse aveva addirittura qualcosa da nascondere. Staccionate e siepi avvertivano: qui vivono gli orchi; a Halloween, passate oltre. Tranne che per questi pochi indirizzi sospetti, nella nostra area residenziale il paesaggio di ogni piccolo appezzamento era curato come si fosse trattato di una proprietà fondiaria in miniatura, e la più striminzita «distesa» di manto erboso non cintato era resa simile a un parco pubblico. Non ho alcuna percezione, tuttavia, di una «disposizione d’animo fraterna». Qualsiasi forma di godimento di questo spazio era sacrificata al concetto di territorio aperto, giacché senza una staccionata o una siepe i prati all’ingresso delle case erano decisamente troppo pubblici per intrattenercisi. Le famiglie comprimevano le loro attività in microscopici giardinetti sul retro, l’unico luogo in cui l’utilità di recinzioni e siepi sembrava pesare di più delle loro connotazioni antidemocratiche. Il pregiudizio americano verso le recinzioni, tuttavia, è precedente allo sviluppo dei sobborghi: il fatto è che ci sono sempre sembrate, in qualche modo, non americane. Erano gli europei a costruire giardini dentro muri di cinta: gli americani non hanno mai creduto nell’hortus conclusus. Se lo spazio all’interno del muro era un orto o un giardino, allora quello fuori dal muro che cos’era? Per i puritani, tutto il paesaggio americano era una terra promessa, uno spazio sacro, e tracciare confini intorno ad alcune sue parti equivaleva a mettere in discussione questa idea fondamentale. Quando Anne Bradstreet, la prima poetessa della colonia del Massachusetts, si accinse a scrivere un’ode al giardino tradizionale inglese, abbatté il convenzionale muro di cinta, oppure (il che è la stessa cosa) lo rese abbastanza ampio da racchiudere tutta l’America. I puritani non avevano attraversato l’Atlantico per acquisire un piccolo appezzamento di terra chiuso da un muro: quello avrebbero potuto farlo benissimo in Inghilterra. Avevano invece dei progetti su tutto il territorio; anzi, li aveva Dio, che agiva attraverso di loro. Anche i trascendentalisti consideravano il paesaggio americano come «il secondo libro di Dio» e ci insegnarono a leggerlo per attingerne insegnamenti morali. Certo, i residui di quest’idea persistono: noi consideriamo ancora la natura, e scriviamo su di essa, con finalità morali elevate (e questo approccio produce un’enorme quantità di prosa ipocrita, quasi con la stessa frequenza con cui accadeva nell’Ottocento). E sebbene nella retorica dei nostri scritti sulla natura il senso di colpa sembri aver preso il posto dell’estasi ottocentesca, la religiosità essenziale rimane. Forse non lo diciamo più così chiaramente, ma la maggior parte di noi crede ancora che il paesaggio sia in qualche modo sacro, e che manipolarlo sia un atto sacrilego. Quanto a stabilire delle gerarchie al suo interno – separare un giardino o un orto dalla campagna circostante –, non ha proprio alcun senso. Una volta che si accetta il paesaggio come spazio morale e spirituale, il giardinaggio ornamentale diventa problematico: come si può avere, infatti, la presunzione di correggere il paesaggio di Dio? Un conto è coltivare la terra per il nostro sostentamento – la Bibbia ne parla –, ma fino a poco tempo fa agli americani sembrava frivolo, se non peggio, farlo per motivi estetici. Allen Lacy afferma che, nel setacciare la letteratura americana sui giardini per la sua recente antologia (The American Gardener, fonte di molte delle citazioni storiche contenute in questo capitolo), non ha trovato alcuna discussione sul colore o sul profumo antecedente al 1894. Abbiamo coltivato orti e giardini per una varietà di ragioni – morali, spirituali, terapeutiche ed economiche –, ma il piacere estetico non era una di esse. Anche quando oggi creiamo giardini per trarne piacere, facciamo del nostro meglio per celare la mano dell’artista, evitando tutto quello che appare progettato o artificiale. Preferiamo giardini che ricordino i paesaggi naturali, e questo lascia poco spazio alle recinzioni. Molto prima di aver letto un granché sugli approcci americani al paesaggio, creai inconsapevolmente una bordura di piante perenni in debito con quelle idee. La bordura si estende sotto un vecchio muro di contenimento lungo uno stretto tappeto erboso che distoglie l’occhio dalla casa attirandolo indietro verso un piccolo pascolo incolto e, al di là di quello, un bosco. Cercai di progettare la bordura in modo che non avesse un inizio e una fine distinti: mentre arretra, le piante diventano sempre più grandi e rustiche. L’aristocratica eleganza di Delphinium, gipsofile, campanule e alchemille lascia gradualmente il passo alle emerocallidi, a una distesa disordinata di enagra, a un ciuffo indisciplinato di rudbeckia, alto poco meno di due metri, e, alla fine, ai proletari Lythrum viola, piante con inclinazioni da infestanti che crescono spontanee qui intorno. Dalla casa non è possibile individuare il punto in cui finisce la bordura e riprende il paesaggio naturale. Se volessi fare una recinzione intorno a questo giardino, dove la farei passare? Una staccionata potrebbe solo distruggerlo.

D’altra parte, possono distruggerlo anche le marmotte, i cervi e le graminacee spontanee. I miei primi tentativi di progettazione armoniosa non furono compresi dall’ambiente circostante, i cui abitanti cercarono prontamente di avvantaggiarsi del mio ingenuo romanticismo. Il cervo adorava i teneri germogli delle emerocallidi e dei Delphinium. Le marmotte trovavano che i Lythrum fossero una copertura ideale per l’uscita della tana. E ben presto le graminacee provenienti dal prato incolto mostrarono come le perenni cosiddette rustiche fossero in realtà avversari facili. Invece di una bordura fiorita che arretrava verso il prato naturale, era quest’ultimo a incalzare in direzione della casa, incontrando localmente scarse resistenze. Senza il mio intervento, la bordura non avrebbe superato la sua prima stagione. Sotto attacco su molti fronti, non ci volle molto perché la maggior parte dei miei atteggiamenti semplicistici e tolleranti nei confronti del paesaggio venisse meno. Ben presto arrivai a comprendere la differenza che passa fra il naturalista, che contempla benevolo tutto l’operato della natura, e il giardiniere esperto, che ha necessariamente sviluppato una prospettiva un po’ meno sentimentale. Soprattutto verso le marmotte. Non sono pronto a vederle bandire completamente dal pianeta – qualche finalità ecologica dovranno senz’altro averla –, ma dubito seriamente che la notizia di una moria di marmotte in questa parte del paese mi renderebbe malinconico. Nell’abbandonare le mie idee romantiche sulla fauna locale, però, può darsi che mi sia spinto troppo oltre in direzione opposta. Ho provato tutto quello che potevo escogitare per eliminare la mia marmotta, in un’escalation di provvedimenti che solo un William Westmoreland avrebbe saputo apprezzare fino in fondo. Iniziai con campagne pianificate fin nei dettagli per modificarne il comportamento: fu la fase «invio di consulenti», durante la quale misi in campo fiduciosamente tutta la saggezza della civiltà occidentale. Avevo fatto le mie brave ricerche e avevo scoperto che le marmotte sono scrupolose in materia di igiene personale. Riservano una camera della loro tana per utilizzarla come latrina e detestano sporcarsi il pelo sull’addome. Confidando di aver trovato il tallone d’Achille del mio avversario, introdussi nella sua tana alcuni materiali scelti con cura: una dozzina di uova, schiacciate e spalmate sui lati della galleria; un vasetto da mezzo litro di melassa; una mezza latta di olio per motori; un topo di campo, defunto; e, per finire, quasi un litro di creosoto, una robaccia così appiccicosa che la marmotta avrebbe dovuto farsi lavare a vapore il pelo sulla pancia. Quando tutto questo fallì – evidentemente la mia marmotta non aveva il gene che, nella sua specie, determina un comportamento alla Felix Ungar –, mi ritrovai a gravitare verso approcci meno cerebrali. È davvero sorprendente quanta rabbia possa scatenare l’assalto di un animale al nostro orto. Dopo tutto, non è che io corressi il rischio di fare la fame a causa delle sue razzie. No: non era più una mera questione di ortaggi e nemmeno di salvaguardia dei miei interessi. Si trattava di averla vinta. Il ricorso a un fucile era fuori discussione; ho sempre avuto il terrore delle armi da fuoco e non ne ho mai posseduta una. Escogitai però qualcosa di ugualmente cinico: trovai una marmotta schiacciata sull’autostrada, la raccolsi in una cesta e la portai a casa. Poi spinsi la carcassa nella tana, il più in fondo possibile. Fu un atto di terrorismo, lo ammetto. Ma o la mia marmotta non ne colse il significato, o decise di ignorarlo, perché nel giro di due giorni aveva scavato un’altra galleria, aggirando i poveri resti; e il saccheggio riprese. A quel punto, decisi di incenerire la marmotta nel suo buco. Al telegiornale avevo visto un servizio a proposito degli incendi in cabina sui jet di linea. Per testare un nuovo carburante, presumibilmente meno infiammabile, la Federal Aviation Administration aveva simulato un incendio a bordo, e il filmato che mostrarono, con le fiamme che infuriavano nello stretto spazio chiuso, mi diede un’idea precisa del tipo di morte che la mia marmotta s’era meritata. Provate a immaginarlo per un momento. Versai dunque nella tana più o meno quattro litri di benzina, aspettai qualche minuto perché si distribuisse nei vari cunicoli, e accesi un fiammifero. Evidentemente là sotto non doveva esserci molto ossigeno, perché le fiamme divamparono nella direzione sbagliata, verso la mia faccia. Feci un salto all’indietro prima di bruciarmi sul serio, e osservai una fontana di fuoco nero-arancio riversarsi fuori dalla tana puntando verso l’olivastro che sporgeva lì sopra. Riuscii a soffocare il fuoco con la terra prima che tutto l’orto andasse in fumo. Credo che quella sia stata la mia fase distruggere-la-città- per-salvarla.

Ma se nell’orto e nel giardino americani le recinzioni sono fuori posto, gli incendi appiccati con la benzina, esattamente, dove li mettiamo? Per fortuna, la breve esperienza con la conflagrazione totale tra gli ortaggi mi scioccò al punto da farmi abbandonare l’approccio-Vietnam prima che, nella mia lotta alle presenze indesiderate, potessi defogliare la mia proprietà o avvelenare la falda acquifera. La furia contro la marmotta, però, mi fece entrare in contatto con alcuni dei nostri atteggiamenti più oscuri nei confronti della natura: in particolare, mi mostrò come la sua inflessibilità possa farci impazzire, e come siamo pronti ad avvelenarla nel perseguire accanitamente qualche obiettivo a breve termine. Uno pensa di avere buonsenso finché, assediato da afidi o cavolaie, non constata che una singola applicazione dell’ultimo ritrovato dell’industria petrolchimica può spazzarli via in quattro e quattr’otto. Dopo il mio scontro a fuoco, però, decisi di non perdere la testa e di pensare più in termini di contenimento che di vittoria sul campo. Cominciai anche a capire che probabilmente in gioco c’era qualcosa di più di una guerra da cartone animato tra me e una marmotta: animale grande e grosso messo in difficoltà a più riprese da un piccoletto astuto; molte risate a spese del primo. Il cartone animato c’era, ma non era tutto. Lo capii durante una lunga camminata, in un pomeriggio di primavera, nei boschi vicino a casa mia. Gran parte del terreno qui intorno è occupato da una foresta postagricola di latifoglie; l’abbandono delle fattorie cominciò nel periodo tra Otto e Novecento, e da allora la foresta ha rapidamente reclamato vaste porzioni di campagna. Si potrebbe pensare che la foresta di querce sia primordiale, se non fosse per i muri di pietra e altri segni persistenti di antiche coltivazioni: grandi alberi (i cosiddetti alberi-lupo, esemplari dalla chioma molto ampia, a indicazione del fatto che maturarono in spazi aperti non competitivi); la vistosa fioritura, in maggio, di un vecchio melo scheletrico; e perfino vaghi solchi d’aratro ancora visibili nella coltre di neve. Ma in quella particolare passeggiata scoprii una serie di segni ancor più spettrali. Seguendo un vecchio sentiero usato dai taglialegna, arrivai a un’area che sembrava, in qualche modo, più ordinata rispetto ai boschi circostanti. Su entrambi i lati del sentiero c’erano muri in pietra – in realtà mucchi di pietre con una disposizione lineare – che delimitavano piccoli spazi chiusi, rettangolari, tra gli alberi. All’interno di ciascun riquadro c’era una fossa rettangolare rivestita di sassi: le fondamenta di una piccola casa. Mi ero imbattuto in Dudleytown, un insediamento ottocentesco oggi abbandonato: avevo spesso sentito dire che si trovava nei paraggi, ma non ero mai stato in grado di localizzarlo. Dappertutto, come ombre sul paesaggio, c’erano tracce di antiche abitazioni, anche se l’area era stata completamente colonizzata dalla foresta. Querce, hickories, frassini e platani erano avanzati uniformemente stendendosi sul villaggio come una coperta, crescendo in quelli che erano stati campi e giardini e perfino all’interno delle fosse usate come cantine, proiettandosi incautamente su spazi un tempo organizzati in cucine e stanze da letto, luoghi accoglienti, in passato vibranti di suoni umani. Cancellando dalla vista gli alberi e seguendo il profilo della terra, è possibile cogliere la configurazione del villaggio. Le case bordavano una strada principale; il giardino di ogni famiglia era delimitato da muri di pietra; in alcuni di quei giardini si ergevano meli contorti e stremati, affamati della luce che la volta della nuova foresta sottraeva loro. Qua e là sopravvivevano ciuffi di emerocallidi, lillà e chiazze di mirto d’un verde intenso: quanto restava dei giardini delle case, che la foresta non era riuscita ad annientare. Alcuni di essi si aprivano su quelli che dovevano essere stati campi o pascoli. Muri di pietra che un tempo avevano segnato i confini delle proprietà e impedito alle mucche di vagabondare tracciavano ora sentieri arbitrari e inconcludenti fra gli alberi. È un luogo inquietante. Non parlo solo del carattere sinistro dell’insediamento abbandonato, o del peso del passato che spesso si avverte tra le rovine. Ciò che fa di Dudleytown un luogo inquietante è il modo chiaramente veloce, brutale e completo con cui la foresta lo ha cancellato. Nello spazio di qualche decennio ha eliminato praticamente ogni segno umano. Per il giardiniere che è in me, Dudleytown divenne una presenza spettrale. Adesso ogni erbaccia che estirpavo, ogni singolo filo d’erba che falciavo, ogni coleottero che schiacciavo – tutto questo – era per arrestarne l’avanzata. Dudleytown mi fece capire che la marmotta non era un agente nocivo autonomo che si concedeva i suoi spuntini esclusivamente nel proprio interesse. Era invece parte di una minaccia più ampia e insidiosa: lavorava per conto della foresta che avanzava. Non solo i mammiferi, ma anche gli insetti, le erbe infestanti, perfino i funghi e i batteri stavano cooperando per cancellare il mio orto – e dopo di quello, il mio prato ben curato, il mio vialetto, il mio patio e perfino la mia casa. Sembra un po’ paranoico? Forse lo è, ma l’esperienza nell’orto mi ha insegnato che qui la natura sembra contrariata dalla nostra presenza e dispiega una gran varietà di agenti, diversi a seconda del luogo, per disfare il nostro lavoro. A che scopo? Anche questo dipende dal luogo in cui si vive, ma adesso io conoscevo il suo obiettivo locale: Dudleytown. La foresta, ora lo capivo, è «normale»; tutto il resto – campi e prati spontanei; tappeti erbosi ben curati e marciapiedi; e, nel modo più spettacolare, orti e giardini – è una perturbazione, una sorta di vuoto ecologico che la natura non tollererà a lungo. Se a volte dà l’impressione che abbia deciso di concentrare un’attenzione particolare sull’orto, è perché lì il «vuoto» è massimo. Il suolo è più ricco e più frequentemente disturbato: quale letto più soffice, dolce e ospitale potrebbe mai trovare, per posarsi, il seme di un’infestante portato dal vento? Le infestanti annuali, che sono le prime a colonizzare un orto o un giardino trascurati, arrivano per questa via: da queste parti si tratta perlopiù di ambrosia, amaranto bianco, Impatiens e Polygonum. Quelle perenni – Solidago, Phytolacca americana, asclepiadi, convolvoli – riescono invece a insinuarsi nelle aiuole anche in altri modi, spesso inviando rizomi sotterranei, a volte a una profondità di quindici metri, alla ricerca di un terreno dolce. Altre non devono nemmeno cercare il nostro orto: in ogni secchiata di suolo si trovano dormienti migliaia di semi di infestanti che attendono pazientemente il presentarsi della giusta combinazione di luce e umidità per attaccare le nostre piante. Queste ultime, poi, sono bersagli molto facili. Proprio come il terreno coltivato costituisce una sorta di vuoto nell’ambiente, lo stesso vale per la maggior parte delle piante che decidiamo di coltivarvi. Ciò che distingue la frutta e gli ortaggi coltivati è il fatto che contengono carboidrati, proteine e grassi in concentrazioni più elevate rispetto alla maggior parte delle piante selvatiche; nel paesaggio naturale spiccano come figli di papà in un quartiere difficile. Ed è qui che entrano in scena i mammiferi. Le marmotte, i cervi e i procioni sono i grandi livellatori della flora, giacché assicurano che nel territorio non vi siano concentrazioni indebite di ricchezza nutrizionale; se mai considerassero se stessi in qualche modo, si vedrebbero come altrettanti democratici. Intendono ridistribuire le mie proteine. Ma se il nostro egualitarismo è sensibile al fascino della loro politica, dobbiamo tener presente che le tattiche di cui si servono non sono quelle della socialdemocrazia. Nel caso in cui i vertebrati, con le loro azioni intimidatorie, non riuscissero a convincermi a cedere il mio orto alla foresta, da aprile in poi una buona decina di specie di insetti, ciascuna con preferenze, tattiche e inganni tipici suoi, marcerà all’attacco delle mie piante in una serie di ondate successive, senza allentare la pressione fino all’arrivo delle gelate. Le prime ad arrivare sono le larve dei nottuidi, che tagliano rasoterra le piantine appena spuntate. Poi si presentano gli afidi, schegge verde pallido che si raggruppano sulla pagina inferiore delle foglie, succhiando i fluidi vitali dalle giovani piante fino a farle diventare d’un moribondo color giallastro. In seguito arrivano le lumache: proiettili di carne disgustosi e nudi – chiocciole sfrattate di casa –, che si nascondono dalla luce del giorno ed emergono al tramonto per andarsene in giro nell’orto percorrendo i loro viali di bava. I vermi dei cavoli (Trichoplusia ni) sono i paracadutisti dell’orto: le loro uova vengono lanciate sui cavoli da mezzi per il trasporto truppe camuffati da innocue bianche. Gli ultimi a presentarsi sono i membri del grande ed esteso gruppo dei coleotteri – la dorifora della patata, i meloidi, i crisomelidi (tra cui Cerotoma, Diabrotica e Acalymma), il coleottero giapponese e la coccinella Epilachna varivestis –, che a partire da metà estate sferrano una massiccia invasione aerea. Come i vertebrati, anche questa marmaglia equipaggiata di esoscheletro è attratta dalla straordinaria ricchezza nutrizionale dell’orto, come pure dal fatto che, bisogna ammetterlo, la maggior parte delle piante che vi sono coltivate sono gli smidollati della natura. Noi selezioniamo le varietà ortofloricole principalmente per le qualità che ci piacciono, e non per quelle che potrebbero contribuire ad assicurarne la sopravvivenza. E le caratteristiche che ci piacciono più di tutte – la corolla doppia nelle piante da fiore, la lentezza con cui la lattuga va in semenza – in battaglia hanno più o meno la stessa utilità di divise da lavoro griffate. (La «resistenza alle malattie» è un ripensamento, e di solito si rivela un esempio di misura inadeguata e tardiva). Invece di addestrarle alle arti marziali, stringiamo con le nostre piante un tacito patto: in cambio della loro bellezza e della loro utilità, ci impegniamo a proteggerle dagli orrori della lotta darwiniana. Perciò, che nessuno venga a darmi lezioni sull’armonia nell’orto o in giardino, o sulla continuità di questi luoghi con il paesaggio naturale. La foresta qui intorno è talmente vigorosa, e così ben servita dalla sua avanguardia di mammiferi, insetti ed erbacce, che una sola stagione di negligenza riporterebbe di colpo il mio orto allo stato di prato naturale, e in un decennio la foresta arriverebbe a lambire l’ingresso di casa, mentre quell’oscura associazione a delinquere di microrganismi che chiamiamo decompositori si metterebbe al lavoro sull’edificio stesso. In cinquant’anni: Dudleytown. Una cantina scavata nella terra con un platano che ci cresce dentro.

Qual era, dunque, l’approccio corretto nei confronti degli animali nocivi in giardino e nell’orto? Come potevo arrestare l’avanzata di Dudleytown senza convertire la mia terra in un sito per lo stoccaggio di scorie tossiche? Ormai stavo cominciando a capire che questi interrogativi portavano rapidamente a formularne altri, di più ampia portata, sul modo in cui decidiamo di confrontarci con il paesaggio naturale. Dominio o acquiescenza? Immobiliaristi o naturalisti? Non penso più che la scelta sia così ovvia. Il dominio, tradotto in termini suburbani o rurali, è il prato ben curato: qualche migliaio di metri quadrati di erba fienarola disposti a formare una zona cuscinetto fra casa e campagna: una terra di nessuno pattugliata settimanalmente con una lama rotante. Il manto erboso ha un grande fascino, soprattutto per gli americani. Ha un’aria più o meno naturale – è verde; cresce –, ma di fatto rappresenta un assoggettamento totale e completo della foresta, al pari di un parcheggio. Tutte le specie ne sono escluse a viva forza: tutte tranne una, e anche a questa è vietato diventare più lunga del dito mignolo del proprietario. Questa è la natura sotto un regime totalitario. All’altro estremo c’è l’acquiescenza: lo sguardo benevolo del naturalista. Di certo la sua etica appare garbata e responsabile, ma avete fatto caso che costui non rivela mai dove vive? A meno che uno non abiti in città o in una tenda, lo sguardo benevolo è del tutto privo di senso pratico: prima o poi, porta a Dudleytown. Il trucco, adesso me ne rendo conto, sta nel trovare, in un modo o nell’altro, una terra di mezzo fra queste due posizioni. E un giardino o un orto sono – o dovrebbero essere – proprio questo: uno spazio tra Dudleytown e il parcheggio, un luogo che ammette sia la presenza della natura, sia quella degli esseri umani. Non è, però, come avevo immaginato, un compromesso armonioso fra i due, né è stabile; da quel che posso capire, richiede un continuo intervento umano, altrimenti verrà meno. L’interrogativo, per il giardiniere – e in un certo senso per tutti noi –, è: quali sono le modalità corrette di quell’intervento? Perfino la mia limitata esperienza indica che trovare una buona risposta implicherà una serie di scelte di gran lunga più complicate delle consuete alternative americane, che sembrano consistere nel fare violenza alla terra, o nel chiuderla ermeticamente in riserve dove nessuno possa toccarla. Che il primo approccio sia un fallimento, non occorre nemmeno dirlo. Eppure, per quanto sembri giusto, anche il secondo potrebbe essere un vicolo cieco. La cura dell’orto e del giardino ci insegna rapidamente a diffidare di tutti questi assoluti, a inquadrare la questione in modo un po’ diverso. Dobbiamo sempre ritrarci di fronte al nostro potere sulla natura? Siamo tra le pochissime creature con la capacità di alterare deliberatamente il proprio ambiente. Rinunciare del tutto a quel potere non sarebbe, in un certo senso, rinunciare alla nostra umanità? Alla nostra natura? E questa nostra natura è forse meno reale di quella che sembriamo pensare esista solo là fuori? Il poeta e critico Frederick Turner, in un saggio pubblicato su «Harper’s Magazine», cerca di farci abbandonare l’abitudine di considerare natura e cultura contrapposte, e si chiede perché non riusciamo a vedere noi stessi e quello che facciamo come parte integrante della natura. Turner cita, dal Racconto d’inverno di Shakespeare, la risposta di Polissene a Perdita, che rifiuta sdegnosamente il fiore ibrido in quanto innaturale: «Questa è un’arte / che corregge la Natura – anzi la muta. / Ma è l’arte stessa ad essere Natura». Per il giardiniere, affrancarsi dall’idea che l’arte sia sempre una negazione della natura è liberatorio. Naturalmente qui si aprono nuove prospettive estetiche, ma – e questo ci riguarda più da vicino – può anche cominciare a prendere forma una promettente strategia contro gli organismi nocivi. Tanto per cominciare, possiamo riesaminare il tabù americano nei confronti delle recinzioni. Può darsi che queste ultime offendano le nostre idee sulla democrazia, sull’assenza di confini e sulla sacralità del paesaggio, ma forse dovremmo considerare la possibilità che la loro assenza offenda l’idea di un orto o di un giardino. Per gran parte della storia gli esseri umani hanno creato questi luoghi e nella maggioranza dei casi li hanno delimitati con muri o staccionate. La parola inglese garden deriva dal sassone antico per enclosure, spazio cintato, e la definizione dell’Oxford English Dictionary inizia con queste parole: «Porzione di terreno recintata...». (La si confronti con quella del dizionario americano Webster, che non fa alcuna menzione dell’idea di enclosure). Nel 1914 George Washington Cable sottolineò che «gard, yard, garth, garden erano soliti indicare uno spazio cintato [enclosure], una chiusura, e implicavano per il suo proprietario una privacy superiore a quella di cui avrebbe potuto godere fuori di esso ... Il nostro senso civico e il nostro equilibrio si compiacciono [dell’assenza di recinzioni], ma i nostri giardini ... sono diventati americani cessando di essere giardini». La lunga storia dei giardini, che attraversa tante culture diverse, indica che forse vi è qualcosa di naturale nell’erigere un muro per arginare da un lato il paesaggio e dall’altro lo sguardo della società. Noi annoveriamo la diga del castoro tra le creazioni della natura; perché non includervi anche il muro di cinta del giardino?

Era arrivato il momento che erigessi una recinzione. Scelsi una rete di acciaio zincato alta un metro e mezzo, tesa tra pali trattati con arsenico in modo che non marcissero, piantati nel terreno per una novantina di centimetri. Il bordo inferiore della rete corre a trenta centimetri sotto la superficie, per respingere gli scavatori di gallerie. La rete non è brutta, e benché a distanza sia invisibile, quando chiudo dietro di me il cancello dell’orto mi sembra di entrare in uno spazio riservato. La cosa più importante, però, è che per adesso la marmotta rispetta la recinzione; i cavoli hanno raggiunto indisturbati le dimensioni di una palla da softball. Sembra che la marmotta non abbia abbandonato la tana, comunque, e io me l’immagino all’alba, intenta a percorrere, piena di invidia, il perimetro dell’orto, tramando qualcosa, alla ricerca di uno stratagemma. Quanto a me, resto sul chi vive. Certo, una rete di un metro e venti non rappresenta un impedimento per una cerva che abbia in mente i fagiolini, ma posso sistemare anche lei. Quindici centimetri sopra la rete, tirerò un filo attraverso il quale, ogni tre secondi, passerà una corrente elettrica di un centinaio di volt. Mi hanno detto di spalmare il filo di burro di arachidi, in modo da guidare il cervo verso la sensazione, senza precedenti e memorabile, della scossa elettrica: dopo di che non tornerà più. L’elettricità arriverà da un pannello solare collocato in cima a uno dei pali, orientato verso il sole come un gigantesco fiore ipertecnologico. Quest’ultimo dettaglio mi pare un bell’esempio di jujitsu, nel quale l’energia della natura viene applicata contro alcune delle sue creature. Intervenire contro gli insetti non è altrettanto semplice, ma anche in questo caso potrebbe esserci un’arte «essa stessa... Natura». La chiave per eliminare un insetto dall’orto o dal giardino è la conoscenza: delle sue abitudini, delle sue preferenze e delle sue vulnerabilità. La maggior parte dei pesticidi chimici rappresenta una forma di conoscenza degli insetti molto rozza: una sostanza chimica potente come il malathion, per esempio, paralizza il sistema nervoso della maggior parte degli organismi, e quindi una piccola quantità dovrebbe uccidere gli insetti ma non (si presume) creature di taglia più grande. Tale conoscenza è stata prodotta da esemplari di Homo sapiens in camice bianco, tuttavia non è neanche lontanamente sofisticata o precisa come quella, per esempio, posseduta da una coccinella a proposito degli afidi. La coccinella non è intelligente, ma sa benissimo una cosa: come catturare quaranta o cinquanta afidi al giorno senza fare del male a nessun’altra creatura. Se pensiamo all’evoluzione come a un esperimento di laboratorio durato tre miliardi e mezzo di anni, e al pool genico come all’archivio delle informazioni accumulate nel corso di quell’esperimento, cominciamo a capire che, quando si tratta delle sue stesse operazioni, la natura ha una conoscenza di gran lunga più vasta della nostra. Il trucco sta nell’applicare, nell’orto e nel giardino, le sue conoscenze ai nostri scopi. Finora, l’unico modo per servirsi dell’abilità innata delle coccinelle nella cattura degli afidi consiste nel procurarsi gli insetti integri, cosa che si può fare per posta. Al prezzo di circa 5 dollari è possibile ordinare 4500 coccinelle da un’azienda specializzata in «sistemi di controllo biologico». Le coccinelle arrivano in un sacchetto chiuso da lacci che può essere conservato in frigorifero; gli insetti vanno versati, al bisogno, sulle foglie delle piante infestate, usando un cucchiaio. Questa azienda particolare vende anche ooteche di mantidi religiose, che possono essere applicate sul ramo di un albero vicino all’orto; quando la temperatura si alza, in primavera, le ninfe emergono e prendono posizione sulle foglie più alte delle piante. La loro pazienza e la loro immobilità hanno qualcosa di straordinario, come pure i loro riflessi: una mantide religiosa è in grado di catturare al volo quasi ogni insetto. Non tutti i sistemi di controllo biologico presenti sul mercato sono insetti; vi sono anche alcune forme di batteri. Una di esse, il bacillo Paenibacillus popilliae, dovrebbe risolvere contemporaneamente i problemi causati da tre organismi nocivi: le talpe, i coleotteri giapponesi e i loro bruchi – larve bianche simili a vermi. Queste ultime passano l’inverno e la primavera sottoterra, dove rodono le radici dell’erba, lasciando nel prato delle chiazze morte. Questo sarebbe già abbastanza brutto; va però aggiunto che alle talpe piace mangiare i bruchi, e per cercarli rovinano ulteriormente il manto erboso, scavandovi i loro tunnel. Le larve che riescono a sfuggire alle talpe emergono poi in luglio come coleotteri adulti, flagello di moltissime piante dell’orto e del giardino. Introdotti involontariamente nel paese diversi decenni or sono, questi insetti possono trasformare in qualche giorno una pianta di rose in piena salute in un merletto verde tutto trafori. P. popilliae è un parassita batterico che sa come infettare un unico insetto in un momento particolare del suo ciclo vitale: il coleottero giapponese allo stadio larvale. Le spore, vendute sia in polvere sia in forma granulare, vanno sparse sul tappeto erboso nella tarda primavera. Le larve le ingeriranno e moriranno; le talpe andranno a cercarsele da qualche altra parte, e i coleotteri giapponesi non compariranno. Secondo il catalogo, un unico trattamento dura quindici anni. I sistemi di controllo biologico non risolvono ogni problema legato agli organismi nocivi – sono ancora troppo pochi, tanto per dirne una. L’approccio è tuttavia promettente e indica che cosa possiamo fare quando impariamo a sfruttare la conoscenza che la natura ha di se stessa, smettendo di considerare necessariamente la nostra arte e la nostra tecnologia come sue antagoniste. Come faremo a classificare la malattia indotta da P. popilliae nelle larve dei coleotteri quale intervento umano sul paesaggio? È un approccio tecnologico o naturale? Le categorie non sono più di grande aiuto, perlomeno nell’orto e nel giardino. Per un po’ non saprò se ho risolto del tutto il mio problema con gli animali indesiderati. Tuttavia, lavorando nel mio orto appena munito di recinzione, osservando le mantidi che stanno di guardia sulle cime dei miei pomodori e le coccinelle impegnate in missioni di «perlustrazione e distruzione» fra le melanzane, sto cominciando a sentirmi un po’ più rilassato. Benché Dudleytown continui a incombere sulla collina vicina, so che finché riverserò intelligenza e sudore in questo poco di terra, potrò arginare la sua avanzata. Ho ancora molto da imparare, e sono certo che ci sarà qualche sconfitta; nel giardinaggio non si vince mai una volta per tutte. Tuttavia, credo di aver tracciato un confine funzionale tra me e la foresta. Potrebbe dimostrarsi una linea Maginot? Può darsi, ma lo ritengo improbabile. Perché non dipende dall’invincibilità tecnologica, né dalla benevolenza della natura, ma dal fatto che io mi comporti come un essere umano civile ed equilibrato, ovvero come una creatura che per sua natura ricrea il proprio ambiente e può farsi guidare dalla cultura nelle questioni di etica ed estetica. Quello che sto creando, qui, è una terra di mezzo fra natura e cultura, un luogo che al tempo stesso appartenga alla natura e si schieri contro di essa, senza alcun rimorso; quello che sto creando, insomma, è un giardino. III PERCHÉ FALCIARE IL PRATO?

Nessun prato è un’isola, perlomeno in America. A partire dai gradini all’ingresso di casa mia, il mio arruffato tappeto verde rotola giù da una collina, attraversa con un balzo la strada a corsia unica e prosegue nel giardino del mio vicino. Da lì salta alcune aree coperte da bosco e qualche muro di pietra prima di farsi largo attraverso una buona decina di altre proprietà non cintate che lo portano giù, nella valle dello Housatonic, dove ricomincia la sua marcia verso sud in direzione dell’area metropolitana. Una volta sotto Danbury, il prato – ora libero dalle infestanti e meticolosamente pettinato – corre su e giù lungo i viali delle aree residenziali, incurante dei limiti tra le proprietà. Punta poi a ovest e attraversa il confine di New York; muovendosi ora con passo più maestoso, cammina sotto gli aceri di Larchmont, si srotola su una dozzina di campi da golf e, prima di tirare dritto verso lo Hudson, si avvolge attorno alle piscine azzurre di Scarsdale. Tappezza quindi il New Jersey, come un francobollo color smeraldo disteso sul davanti e sul retro di diecimila villette; poi, sempre più ampio, il fiume verde si divide in due. Un ramo preme verso sud, attraversando veloce le accoglienti colline della Virginia e del Kentucky, ma rifiutando di fermarsi prima d’aver colonizzato i terreni sabbiosi della Florida. L’altro ramo si estende verso ovest, si dilata e supera facilmente il vasto reticolo stradale del Midwest, per poi inerpicarsi verso gli impervi stati dell’Ovest. Ma né l’ostilità del terreno né il clima impediranno l’avanzata del tappeto erboso fino al Pacifico: il prato valica le Montagne Rocciose e, incoraggiato da un monumentale sistema di irrigazione, procede a inverdire grandi distese di deserto occidentale. In nessun luogo del mondo i prati ben curati sono apprezzati come in America. In poco più di un secolo, abbiamo disteso un manto verde su tutto il continente, senza prestare molta attenzione alle condizioni locali o ai costi. L’America vanta qualcosa come 130.000 chilometri quadrati di prato coltivato, per il quale spendiamo 30 miliardi di dollari all’anno, secondo le stime del Lawn Institute: un gruppo con sede a Pleasant Hill, nel Tennessee, dedito a pubblicizzare i benefici che il manto erboso assicura agli americani (un chiaro esempio di predicazione ai già convertiti). Come il sistema di autostrade interstatali, le catene di fast-food e la televisione, anche il prato coltivato è servito a unificare il paesaggio americano; è lui che rende tanto simili i sobborghi di Cleveland e Tucson, ma anche le strade di Eugene e Tampa. Secondo Ann Leighton, la compianta storica dei giardini, l’America ha dato essenzialmente un unico importante contributo, a livello mondiale, alla progettazione degli spazi verdi, e cioè l’abitudine di «unire i tappeti erbosi all’ingresso delle case, per quanto numerose esse possano essere su entrambi i lati di una strada, così da offrire al passante la visuale imperturbata di una distesa verde». La Francia ha i suoi giardini geometrici formali, l’Inghilterra i suoi parchi pittoreschi, e l’America questo fiume verde di prato curatissimo, democratico e senza delimitazioni, lungo il quale disponiamo le nostre case. Opporsi a una corrente così forte non è impresa facile. Giacché per tradizione, qui in America, abbiamo evitato recinzioni e siepi, il panorama suburbano può essere guastato dalla negligenza – o dal dissenso – di un singolo proprietario. È per questo che nelle periferie la cura del prato è considerata una responsabilità civica tanto importante; ed è per questo che, come appresi da bambino, la maggioranza non tollererà il posapiano o il dissidente. L’esperienza di mio padre con i suoi vicini di Farmingdale non è un caso unico. A distanza di qualche anno, regolarmente, nell’una o nell’altra comunità suburbana, affiora una controversia in merito al mancato taglio del prato da parte di un proprietario. Non molto tempo fa, una coppia trasferitasi a Potomac, nel Maryland, in una casa da 440.000 dollari, rimase un po’ indietro con la cura del prato e si ritrovò ben presto relegata nel ruolo di paria della sua nuova comunità. Nella cassetta della posta dei due comparve il biglietto lasciato da un vicino, anonimo e scarabocchiato in uno stile da vigilante. «Siete pregati di falciare il prato. È una vergogna per tutto il quartiere». Quella frontiera sottile e al tempo stesso inequivocabile, dove il prato ben rasato e quello spettinato entrano in contatto, è sufficiente a disturbare la pace di tutto un quartiere; è uno sfregio sul volto dei sobborghi, un intollerabile segno di... problemi in paradiso. Quello stesso sfregio si manifesta nel Grande Gatsby, quando Nick Carraway affitta la casa adiacente a quella di Gatsby e non si prende cura del prato secondo gli standard di West Egg. Gatsby è a tal punto disturbato dal contrasto tra i due prati, che per cancellarlo invia il suo giardiniere a falciare l’erba di Nick. I vicini della coppia di Potomac mostrarono meno savoir faire. Alcuni si offrirono di prestare ai coniugi una falciatrice. Altri si lamentarono presso le autorità della contea, finché i trasgressori furono citati in tribunale per violazione di un’ordinanza locale, secondo cui qualsiasi erba infestante alta più di 30 centimetri è ritenuta rappresentare «una minaccia per la salute pubblica». Evidentemente, leggi discutibili di questo tenore sono in vigore in centinaia di località statunitensi. In un sobborgo di Buffalo, nello stato di New York, vive uno studioso di Thoreau che ha passato gli ultimi anni a difendere in tribunale il proprio il diritto di tenere davanti a casa sua un prato di fiori selvatici. Dopo che i vicini ebbero tagliato di propria iniziativa il prato fuori legge, l’uomo eresse un cartello che diceva: «Questo prato non è un esempio di indolenza. È un prato naturale che cresce nel modo inteso da Dio». Citando un’ordinanza che vieta le «erbe infestanti nocive», un giudice locale ordinò all’uomo di Buffalo di tagliare il suo prato o di corrispondere un’ammenda di 50 dollari al giorno. Lo studioso di Thoreau contravvenne all’ordinanza del tribunale e quando ne ho sentito parlare l’ultima volta il suo atto di disobbedienza civile suburbana gli era costato più di 25.000 dollari.

Io non ero preparato ad adottare una linea così intransigente con il mio nuovo prato, perlomeno non subito. Pertanto acquistai un tosaerba della Toro, e cominciai a falciare. Quattro ore ogni sabato. All’inizio tentai una sorta di approccio zen: eliminai dalla mia mente qualsiasi cosa tranne il compito cui mi stavo dedicando, e mi immersi nel taglio del prato, qui e ora. Mi piaceva pensare che gli incontri settimanali con l’erba da falciare mi avrebbero fatto familiarizzare con i minimi dettagli del mio terreno. Ben presto conobbi a memoria la posizione precisa di ogni ceppo e ogni sasso, le vie sotterranee di tutte le talpe residenti, e l’indirizzo preciso di ciascun formicaio. Notai che il trifoglio bianco fioriva dove si raccoglieva l’acqua piovana, mentre la digitaria prosperava sui rilievi più asciutti. Dopo qualche fine settimana, avevo in testa una mappa mentale del prato precisa ed esaustiva come quella che uno ha del dorso della propria mano. Mi piaceva anche il risultato finale, quel bel profumo e il senso di ordine ripristinato che emana da un prato appena falciato. La mia casa dà sui boschi su due lati, e il taglio del prato è – sia in senso metaforico, sia in senso reale – il mio modo di tenere a bada la foresta e conservare il mio posto in questo scenario. Anche se ormai diffidiamo della natura, dominarla è un bisogno umano profondo, e il taglio del prato è un modo di farvi fronte. Pensavo al tosaerba come alla lama della civiltà, e al mio prato come al «platano ospitale£ che quella lama ricava dalla natura selvaggia, una parte della natura resa adatta ad accogliere gli esseri umani. Forse, quindi, la sensibilità al fascino del prato ben curato è nei nostri geni. Così credono i sociobiologi, che sono arrivati al punto di proporre una «sindrome della savana» per spiegare la nostra passione per le distese erbose. Codificata nel nostro DNA vi è la preferenza per un paesaggio erboso, aperto, che ricorda le savane africane nelle quali evolvemmo. Una pianura erbosa punteggiata di alberi offre sicurezza nei confronti dei predatori e un ambiente adatto per gli animali da pascolo; dicono che questo spieghi come mai abbiamo rifatto i paesaggi boschivi europei e nordamericani a immagine dell’Africa orientale. Anche Thorstein Veblen pensava che il favore di cui godono i tappeti erbosi possa essere un richiamo alle nostre radici pastorali. «Il prato ben rasato» scrisse nel suo The Theory of the Leisure Class «è bello agli occhi di esseri la cui inclinazione ereditaria è di trovare prontamente piacere nel contemplare un pascolo, ben curato o incolto che sia». Queste teorie spiegano, in una certa misura, il fascino diffuso esercitato dalle distese erbose, ma non rendono conto in modo esaustivo del Prato Americano. Per esempio, non rendono conto dell’acuto interesse nutrito da Jay Gatsby per il prato di Nick Carraway, né dello scandalo seminato a Farmingdale dal prato non falciato di mio padre. E nemmeno del fatto che in America abbiamo abbattuto recinzioni e siepi per far confluire i nostri prati. Né spiegano l’inequivocabile odore di virtù che, in questo paese, emana da un prato scrupolosamente curato. Per comprendere tutto questo occorre sapere qualcosa della storia del prato in America: si scopre così che è un’invenzione alquanto recente, un prodotto degli anni che seguirono alla guerra civile, quando nel paese sorsero le prime comunità suburbane. Se mai l’invenzione del prato americano può essere attribuita a un singolo individuo, quello è Frederick Law Olmsted. Nel 1868 gli venne commissionato il progetto di Riverside, fuori Chicago, una delle prime comunità residenziali suburbane nate in America sulla base di un progetto. Olmsted stabilì che ogni casa sorgesse arretrata di nove metri rispetto alla strada, e proibì muri di cinta. La sua era una reazione contro gli «alti muri ciechi» inglesi, che – secondo lui – davano a una fila di case l’aspetto di «una serie di manicomi privati». A Riverside ogni proprietario avrebbe mantenuto uno o due alberi e un prato ben curato che sarebbe poi confluito, senza soluzione di continuità, in quello dei suoi vicini, creando così l’impressione che tutti vivessero insieme in un unico parco. Olmsted faceva parte di una generazione di riformatori e architetti paesaggisti americani – insieme ad Andrew Jackson Downing, Calvert Vaux e Frank J. Scott – che si accinsero, a metà del secolo, ad abbellire il nostro paesaggio. A noi, oggi, il fatto che avesse bisogno d’essere abbellito sembra sorprendente, giacché diamo per scontato che quella del paesaggio sia una storia di declino; all’epoca, però, erano in pochi a pensarla diversamente. William Cobbett, in visita dall’Inghilterra, rimase colpito dalla «trascuratezza degli spazi esterni» delle proprietà americane. Ogni agricoltore, scriveva, era soddisfatto del suo «riparo d’assi di legno, mentre tutto, intorno a lui, è spoglio come una spiaggia ... benché non vi sia arbusto o fiore inglese che non sia disposto a crescere e fiorire anche qui». Sembrava che il territorio fosse stato sistemato e disboscato in gran fretta (e in effetti era così): un paesaggio in larga misura spogliato degli alberi, campi male arati delimitati da recinzioni e, ovunque si guardasse, ceppi di alberi abbattuti. Non appena un lotto di terra era esaurito, gli agricoltori non facevano altro che disboscarne un altro, abbandonando il primo. Come osservò Cobbett, e con lui molti altri visitatori dell’Ottocento, quasi nessuno praticava il giardinaggio ornamentale; il tipico terreno annesso alla casa era «curato» ispirandosi a uno stile che nel Sud finirono per chiamare con disprezzo white trash: alcuni polli, qualche attrezzo agricolo malandato, fango ed erbacce, e un orto trascurato. Forse questo poteva andar bene agli agricoltori, ma per i cittadini della classe media che negli anni successivi alla guerra civile si trasferirono sempre più numerosi sulla «frontiera» occorreva qualcosa di più rispettabile. Nel 1870 Frank J. Scott, nel tentativo di rendere accessibili alla classe media le idee paesaggistiche di Olmsted e di Downing, pubblicò il primo volume mai dedicato all’«abbellimento della casa suburbana»: The Art of Beautifying Suburban Home Grounds: un libro che probabilmente fece più di qualunque altro per determinare l’aspetto del paesaggio suburbano negli Stati Uniti. Come tanti riformatori di quei tempi, Scott era molto sicuro di sé: «Una superficie erbosa uniforme e ben rasata è l’elemento estetico di gran lunga più essenziale nel terreno di una casa suburbana». Non furono certo americani come Olmsted e Scott a inventare i prati ben curati: in Inghilterra erano popolari fin dai tempi dei Tudor. Lì, però, di solito si trovavano soltanto nelle grandi tenute; gli americani li democratizzarono, frazionando la vasta distesa erbosa delle proprietà terriere in porzioni da un migliaio di metri quadrati che chiunque poteva permettersi (soprattutto dopo il 1830, quando il fabbricante di tappeti Edwin Budding brevettò il primo tosaerba pratico da usare). Inoltre, gli inglesi non considerarono mai il prato fine a se stesso, bensì come scenario per gli sport sull’erba e come sfondo per aiuole fiorite e alberi. Scott invece subordinava tutti gli altri elementi del paesaggio al prato; i fiori erano ammissibili purché rimanessero alla periferia della distesa erbosa: «Lasciate che il vostro prato sia l’abito elegante della vostra casa, e che i vostri fiori ne siano i gioielli non troppo vistosi». La deviazione più netta di Scott dalla prassi del Vecchio Mondo, però, fu la sua insistenza sulla responsabilità del singolo nei confronti dei vicini. «Non è cristiano» dichiarò «servirsi di una siepe per nascondere alla vista degli altri le bellezze della natura che abbiamo avuto la buona sorte di creare o di assicurarci». Il prato di ciascuno, sosteneva Scott, doveva contribuire al paesaggio di tutti. «La bellezza ottenuta lasciando aperti e confluenti i terreni di fronte alle case è di quella eccellente qualità che arricchisce tutti coloro che prendono parte allo scambio, senza che nessuno ne esca impoverito». Come Olmsted prima di lui, Scott cercava di elevare un lotto di terreno erboso senza pretese a istituzione democratica; chi dissentiva dai loro progetti era marchiato come «egoista», «ostile ai vicini», «non cristiano» e «non democratico». Con i prati aperti e ben curati all’ingresso delle case, noi dichiariamo di avere idee simili a quelle dei nostri vicini – e ribadiamo la nostra distanza dagli inglesi, che circondano i loro giardini con «ostili muri di mattoni, sormontati da cocci di bottiglia» per tener lontani gli sguardi invidiosi delle classi inferiori. Il prato americano è un concetto egalitario: implica che non vi sia alcuna ragione per nascondersi dietro una siepe o una recinzione, dal momento che facciamo tutti parte della stessa classe media. Qui siamo tutti proprietari, annuncia il prato, e questo indica l’altro suo scopo: fornire un palcoscenico adeguatamente ampio affinché ciascuno possa esibire orgogliosamente la propria casa. Nel 1921, notando come i nostri giardini fossero organizzati «per catturare l’ammirazione della strada», un architetto paesaggista attribuì la popolarità dei prati aperti al «nostro infantile istinto di gridare un saluto al passante mettendogli sotto gli occhi la nostra proprietà». Naturalmente, il democratico giardino davanti alla casa ha un suo lato oscuro, più coercitivo, come la mia famiglia apprese a Farmingdale. Nel raccomandare lo «stile semplice» di un prato curato e non altrimenti abbellito all’ingresso delle case americane, gli architetti/riformatori di metà Ottocento, come ministri puritani, stavano fissando le rigide convenzioni che regolano il nostro rapporto con la terra, regole la cui osservanza sarebbe stata in seguito considerata un indice del nostro carattere. Proprio come i puritani non avrebbero tollerato alcun individuo che cercasse di intrattenere una relazione privata con la divinità, i membri dell’utopia suburbana non tollerano il proprietario di una casa che instauri una relazione con la terra non mediata dalle convenzioni del gruppo. Se si ricorda che in America la natura è stata spesso considerata divina, il parallelo non è forzato come potrebbe sembrare. Pensiamo alla natura come lo Spirito, al prato collettivo della comunità suburbana come la Chiesa, e al taglio del prato come una sorta di sacramento. Si comincia allora a capire perché il giardinaggio ornamentale avrebbe impiegato tanto tempo a far presa in America, e perché mio padre poteva apparire un antinomista agli occhi dei vicini. Come Hester Prynne, affermava di non aver bisogno della loro consacrazione per le sue azioni; le sue iniziali sul prato di fronte alla casa possono essere considerate una sorta di Lettera Smeraldina. Forse, poiché a renderci tutti americani – più che la razza o la tribù – è questa terra comune, abbiamo sviluppato una profonda sfiducia negli approcci al paesaggio di stampo individualista. Ai fini della nostra identità di americani, la terra è troppo importante per consentire, semplicemente, che chiunque la tratti a modo suo. E avendo deciso che essa deve servire da veicolo di consenso, più che come spazio per l’espressione di sé, ecco che il prato americano – collettivo, nazionale, ritualizzato e semplice – presentava la soluzione ideale. Il prato ha finito per esprimere i nostri atteggiamenti verso la terra con la stessa eloquenza con cui le fiduciose geometrie di Le Nôtre esprimevano l’umanesimo della Francia rinascimentale, o i parchi pittoreschi di Capability Brown davano voce ai tumulti interiori del romanticismo inglese.

Dopo la mia prima stagione alle prese con il taglio del prato, l’approccio zen cominciò a dar segni di usura. A quel punto avevo iniziato a occuparmi della coltivazione di fiori e ortaggi, e ben presto le quattro ore che il mio prato pretendeva per sé ogni settimana cominciarono a pesarmi. Ne avevo abbastanza di quel girare all’infinito, spingendo avanti e indietro per il giardino la macchina rumorosa, copiando e ricopiando, come su una vasta pagina, la stessa frase verde: «Io sono un proprietario coscienzioso. Condivido i vostri valori di appartenenti alla classe media». La cura del prato era una forma di giardinaggio mirata a catturare «l’ammirazione della strada», un rituale di consenso che non sentivo veramente mio. Cominciai ad accarezzare vaghe fantasie di ribellione: perché non piantare una siepe lungo la strada, sottraendo così la mia proprietà al fiume verde nazionale per utilizzarla in qualche altro modo? La terza primavera, piantai nel prato davanti all’ingresso qualche albero da frutto – un melo, un pesco, un ciliegio e un pruno –, nella speranza che ne alleggerissero la monotonia e cominciassero almeno a rendere produttivo il prato. Sul retro, misi una bordura di piante perenni. Allestii tre aiuole rialzate utilizzando le vecchie assi di un fienile, in legno di castagno, e ci piantai più di venti varietà diverse di ortaggi. Per quanto fosse stata una faticaccia, estirpare l’erba dal sito delle mie nuove aiuole si rivelò un piacere intenso. Per prima cosa le delimitai usando dello spago. Poi praticai una fenditura nel prato con il bordo affilato di una vanga. Cominciando a un’estremità, sollevai le zolle erbose dal terreno arrotolandole lentamente, come un tappeto. Mentre vincevo la sua presa sulla terra, l’erba produceva il rumore di uno strappo; mi sentivo un po’ come un pioniere che soggiogava la foresta lavorando d’ascia. Sognavo a occhi aperti: fare lo scalpo a tutto il giardino. Non lo feci, però: non ne ebbi il fegato. Davanti alla casa continuai a osservare le convenzioni, tosando l’erba assiduamente e collocando tutte le mie aiuole sul retro. Più prendevo il giardinaggio sul serio, più i prati ben curati mi apparivano discutibili. Il problema, per me, non stava – come per mio padre – nel rapporto con i vicini implicato dal prato, ma nel rapporto di quest’ultimo con la natura. Perché per quanto possa essere democratico verso i vicini del suo proprietario, nei confronti della natura il prato è autoritario. Sotto la lama brutale e indiscriminata del tosaerba, il paesaggio viene soggiogato, omogeneizzato, completamente dominato. Mi convinsi che la cura del prato non ha a che fare con il giardinaggio molto più di azioni come passare la cera sui pavimenti o asfaltare una strada. Il giardinaggio era un sottile processo di dare e prendere nei confronti del paesaggio, la ricerca di una qualche terra di mezzo fra cultura e natura. Un prato era la natura sotto il tacco della cultura. Quando tosavo il mio tappeto d’erba, mi sentivo come se – invece di lavorarla – stessi muovendo guerra alla terra; ogni settimana lei mandava in avanscoperta un esercito verde, e ogni settimana io lo sgominavo con la mia macchina infernale. A differenza di qualsiasi altra pianta del mio giardino, l’erba era anonima, massificata, privata di qualsiasi possibilità di cambiamento o sviluppo, per non parlare di qualsiasi parvenza di autodeterminazione. Io governavo un paesaggio totalitario. Le torride ore monotone passate dietro al tosaerba fecero affiorare speculazioni esistenziali. Passai parte di un pomeriggio cercando di decidere chi fosse Sisifo in quel dramma dell’assurdo che era il taglio del prato. Io? Lo si poteva certamente sostenere. Oppure era l’erba, che spuntava dal terreno ogni settimana, uno strato di cellule alla volta, solo per essere di nuovo tagliata e poi, perversamente, incoraggiata (con calce, fertilizzanti, eccetera) a ricominciare daccapo il processo condannato al fallimento? Un altro giorno mi venne in mente che, nel prato, il tempo come lo conosciamo noi non esiste, poiché l’erba non muore mai, né le si permette di fiorire e andare in semenza. I prati sono un’espressione della natura purgata del sesso e della morte. Nessuna meraviglia che agli americani piacciano tanto. E ad ogni modo, dove si collocava esattamente il mio prato? La risposta non è ovvia come sembra. Il giardinaggio, ormai ero arrivato ad apprezzarlo, è un’esplorazione minuziosa del luogo; tutto quel che accade nel mio terreno – il prosperare e il morire di particolari piante, le scorrerie di vari insetti e di altri animali nocivi – mi insegna a conoscere questo piccolo appezzamento più intimamente: la sua geologia e il suo microclima, la particolare ecologia delle sue infestanti locali, dei suoi mammiferi e dei suoi insetti. Il mio giardino prospera nella misura in cui io comprendo tutte queste particolarità e mi adatto ad esse. I prati, invece, funzionano in base al principio opposto. Il loro successo dipende dal superamento delle condizioni locali. Come Jefferson che impose il suo grande reticolo alla topografia infinitamente varia dei Territori del Nordovest, noi imponiamo i nostri prati alla terra. E poiché la geografia e il clima di gran parte di questo paese sono poco adatti ai tappeti erbosi (nessuno dei quali è costituito da specie native), questi ultimi non possono essere realizzati senza gli strumenti della civiltà industriale del nostro secolo: fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi chimici, macchine e, spesso, sistemi di irrigazione computerizzati. Noi infatti non intendiamo accontentarci del prato che cresce qui: vogliamo quello che cresce là, quel folto tappeto morbido, superverde e privo di infestanti, quell’idea platonica di prato rappresentata nei servizi a due pagine e nella pubblicità della Chemlawn, i prati kitsch da sitcom, i campi da golf sublimi e i diamanti perfetti per il baseball. I nostri prati esistono più lì che qui; attingono al flusso nazionale di immagini, ci fanno distogliere lo sguardo dai luoghi reali in cui viviamo per fissarlo altrove, su luoghi irreali. I prati ben tosati sono una forma di televisione. Devo forse sottolineare che un simile approccio alla «natura» con ogni probabilità non è saggio dal punto di vista ambientale? Negli ultimi tempi abbiamo cominciato a capire che i nostri prati – i quali ricevono, in media, più pesticidi ed erbicidi per unità di superficie di qualsiasi altra coltura del paese – ci stanno avvelenando. Ora fioccano le cause legali contro le aziende che si occupano della manutenzione dei erbosi, e recentemente si è risvegliato l’interesse per approcci più «biologici» alla cura del prato. Il problema, però, è di portata più vasta. I prati, ne sono convinto, sono un sintomo e una metafora del nostro rapporto squilibrato con la terra. Ci insegnano che con l’aiuto della petrolchimica e della tecnologia possiamo piegare la natura alla nostra volontà. I prati alimentano la nostra hybris nei confronti della terra. Qual è l’alternativa? Trasformarli in orti e giardini. Non sto suggerendo che all’interno di questi ultimi non vi sia spazio per i prati, né che orti e giardini di per sé raddrizzeranno il nostro rapporto con la terra; l’abito mentale che essi alimentano, però, può farci percorrere un poco di strada in quella direzione. Prendersi cura di un orto o di un giardino, rispetto alla manutenzione di un prato, ci guida alla conoscenza dei comportamenti della natura, alimentando un’etica del dai e prendi nel rispetto della terra. Orti e giardini ci insegnano le peculiarità del luogo. Riducono la nostra dipendenza da fonti remote di energia, tecnologia, cibo e, per dirla tutta, interesse. Perché se tosare il prato dà la sensazione di ricopiare in continuazione la stessa frase, in una certa misura il giardinaggio è come scriverne di sempre nuove, in un processo di invenzione e scoperta infinitamente variabile. Orti e giardini ci mostrano anche (un insegnamento necessario, benché «non americano») che fra natura e cultura è possibile un compromesso, che tra prato e foresta – fra chi vorrebbe completare la conquista del pianeta in nome del progresso, e chi crede che per noi sia tempo di abdicare e lasciare la Terra alle cure delle sue specie più innocenti – può esserci una qualche via di mezzo. Il giardino indica che forse esiste un luogo dove noi e la natura possiamo incontrarci a metà strada.

Probabilmente il lettore si chiederà se ho cominciato a praticare quello che vado predicando. Be’, non ho estirpato del tutto il mio prato; tuttavia, a ogni primavera, porzioni sempre più ampie di erba cedono spazio all’orto e al giardino. L’anno scorso ho preso circa duemila metri quadrati di terreno e li ho seminati a prato naturale di rudbeckia irta e margherita campestre. In cambio di un unico taglio annuale, sono ricompensato con un campo fiorito da maggio fino ai primi geli. Il prato convenzionale si sta ritirando, e ho ingaggiato un ragazzo che abita qui vicino per falciare quel che ne resta. Ogni sabato, purché i Bon Jovi, i Judas Priest o i Kiss non stiano suonando allo Hartford Coliseum, questo grosso adolescente biondo si presenta con una massiccia falciatrice John Deere che taglia il prato in meno di un’ora. Fanno 30 dollari a settimana, e non è che mi piaccia molto avere questo tipo fra i piedi – il suo eloquio consiste perlopiù di grugniti, e mette gli occhi su mia moglie come se si aspettasse di sfogliare un numero di «Penthouse»; tuttavia, mi ha liberato dalle cupe riflessioni a proposito del prato, offrendomi così più tempo per il giardino. Davanti alla casa, lungo la strada dove il mio prato guarda quelli dei vicini, e poi quelli del resto del paese, ho compiuto la mia mossa più radicale. Ho costruito uno steccato lungo il quale ho cominciato a piantare una siepe rustica di forsizia, lillà, celastro e spirea. Non appena questa siepe sarà alta e folta, la mia secessione dal prato nazionale sarà completa. A quel punto, potrà accadere qualsiasi cosa. Potrei lasciare che tutto si converta in prato selvatico, o addirittura in foresta, se non fosse che non sono sicuro di desiderare quel genere di autoannientamento. Potrei anche fare un campo di zucche, uno stagno di ninfee, oppure magari un meleto. E potrei perfino lasciare un pezzo di terra a prato. Ma se scegliessi di farlo, sarebbe un prato molto diverso da quello che ho adesso. Tanto per cominciare, avrebbe una delimitazione, il che significa che potrebbe accogliere piante più delicate e varie dei chiassosi tagete, delle salvie con il loro rosso violento, e dei muscolosi rododendri che di solito la gente butta a combattere nel ring contro un grande prato non cintato. Protetto dai vicini grazie alla recinzione, non più tributario del fiume verde nazionale, adesso il mio prato formerebbe un luogo distinto e privato – diventerebbe parte di un giardino, e non un suo sostituto. Sì, potrebbe benissimo esserci spazio per un piccolo prato nel mio nuovo giardino. Ma credo che prima di decidere aspetterò che la siepe si sia infoltita. IV IL COMPOST E I SUOI IMPERATIVI MORALI

Avevamo appena acquistato questa ex fattoria, e io avevo da poco cominciato a leggere libri sul giardinaggio, quando iniziai a nutrire una fantasia in cui, rivoltando con la pala una zolla di terra, da qualche parte nella proprietà, trovavo un grosso filone di letame bovino ormai mutato in compost. A giudicare da tutto quello che avevo letto, questo tesoro di terra nera come l’inchiostro, soffice e friabile, avrebbe fatto molto di più che assicurarmi un raccolto impressionante: mi avrebbe istantaneamente elevato al rango di giardiniere serio. Non esiste un libro americano di giardinaggio, pubblicato negli ultimi vent’anni, che non assuma toni lirici quando affronta il tema del compost. James Crockett lo ha chiamato «oro bruno» nel suo Victory Garden, dove fornisce, per produrlo, una ricetta complicata come quella di un soufflé. Gli autori che scrivono di giardinaggio con una vena più letteraria, come Eleanor Perényi e Allen Lacy, ci propongono capitoli appassionati sui benefici e – per quanto possa suonare strano – sulle virtù conferite dal compost. I periodici di orticoltura e giardinaggio, in particolare «Organic Gardening» e «National Gardening», propongono regolarmente il profilo di giardinieri eroici scelti non tanto per l’elegante progettazione e la crescita rigogliosa delle loro bordure di perenni quanto per i cumuli di compostaggio fumanti che punteggiano i loro terreni. In America, l’ottenimento di un cumulo di compost come si deve sembra quasi aver soppiantato, quale segno esteriore di uno stato di grazia ortofloricola, la perfetta rosa tea ibrida o il gigantesco pomodoro cuore di bue. Quello che lessi sul compost mi diede un primo indizio del fatto che la cura dell’orto e del giardino, alla quale mi ero accostato come a un passatempo più o meno secolare, è di fatto un dramma morale di ordine superiore. Prima di tentare di cogliere la metafisica del compost, il lettore vorrà forse considerare, in breve, il materiale in sé: molto semplicemente, si tratta di materia organica parzialmente decomposta. Un qualsiasi mucchio di foglie, erba falciata, infiorescenze, sottobosco, letame o scarti di ortaggi, purché gli si diano tempo, umidità e ossigeno a sufficienza, si decomporrà grazie all’azione dei batteri, producendo qualche preziosa palata di compost. Le teorie, le formule e i dispositivi meccanici mirati a ottenere il compost, con tutte le loro complicazioni, in realtà non sono altro che trucchi per accelerare questo processo naturale. (Sul mercato c’è una macchina a tamburo rotante di acciaio che, dicono, produce il compost in quattordici giorni; la maggior parte dei libri afferma che occorrono tre mesi). Alcuni giardinieri, e anche alcuni autori di testi su orti e giardini, parlano del compost come se fosse un fertilizzante; il che, però, è una verità parziale, e un po’ fuorviante. Certo, il compost contiene azoto, fosforo e potassa (i componenti principali dei fertilizzanti): non in quantità straordinarie, però. Il suo vero beneficio sta in ciò che l’humus – il suo costituente principale – fa al suolo. Consideriamo quanto segue. 1. Il compost migliora la «struttura» del suolo. Quest’ultimo è costituito di argilla, sabbia, limo e materia organica in proporzioni variabili. Se contiene troppa argilla o limo, tende a diventare compatto, rendendo difficile la penetrazione dell’aria, dell’acqua e delle radici. Se è troppo sabbioso, la sua capacità di trattenere acqua e nutrienti è compromessa. Un suolo friabile da giardino consiste idealmente di aggregati permeati d’aria nei quali le particelle di sabbia, argilla e limo sono tenute insieme dall’acido umico. Il compost facilita la formazione di queste particelle. 2. Il compost aumenta la capacità del terreno di trattenere l’umidità. Ho letto di un esperimento nel quale hanno scoperto che 100 chilogrammi di sabbia, argilla o humus trattengono, rispettivamente, 25, 50 e 190 chilogrammi di acqua: un suolo ricco di compost avrà bisogno di un minor numero di annaffiature, e le piante che vi crescono resisteranno meglio alla siccità. 3. Poiché è scurissimo, il compost assorbe i raggi del sole e riscalda il suolo. 4. Il compost brulica di microrganismi, i quali demoliscono la materia organica presente nel suolo scindendola negli elementi fondamentali necessari per le piante. 5. Poiché è costituito di materia di origine vegetale in decomposizione, il compost contiene praticamente tutte le sostanze chimiche necessarie alla crescita delle piante, compresi elementi presenti in piccolissime quantità come boro, manganese, ferro, rame e zinco, che spesso non si trovano nei fertilizzanti commerciali. Il compost, pertanto, restituisce al suolo un’elevata quantità delle sostanze che l’agricoltura gli sottrae. Eppure, per quanto tutti questi benefici siano importanti, non spiegano l’aura di virtuosa moralità che ha finito per circondare il compost e chi lo produce. In fondo, esistono molte altre fonti di humus. Per comprendere il mistero del compost, probabilmente occorre sapere qualcosa non tanto sulla scienza del suolo quanto sulle ragioni per cui gli americani si dedicano al giardinaggio. Ragioni che, a giudicare dalla letteratura e dalle mie conversazioni con giardinieri esperti, hanno spesso a che fare con riflessioni riguardanti non tanto l’estetica, quanto la virtù.

In larga misura lo status elevato del compost si deve a J.I. Rodale, fondatore e direttore di «Organic Gardening», il quale, fino alla morte avvenuta nel 1971, promosse le virtù dell’agricoltura biologica con un entusiasmo che sconfinava nel messianico. Come dice Eleanor Perényi, raccontando la sua storia in L’alfabeto dei fiori, Rodale fu un Geremia dell’ultimo giorno, che esortava gli americani a seguirlo fuori dal deserto dell’agricoltura. Ecco come Perényi – in genere la più sobria degli autori che scrivono di giardinaggio – parla della propria conversione: «[L’editore-direttore era] J.I. Rodale, la cui faccia barbuta, simile a quella di un profeta del Vecchio Testamento, lanciava sguardi minacciosi dall’articolo di fondo. Il suo messaggio squillava da ogni pagina. Come tutti i grandi “messaggi”, anche il suo pareva molto semplice, e a chi lo sentiva per la prima volta, suonava come una rivelazione. Il terreno, ci diceva, non è una sostanza che serva a tenere in piedi le piante in modo che queste siano poi nutrite con i fertilizzanti artificiali: chi lo tratta così, viola il ciclo naturale. Dobbiamo, invece, restituire al terreno quello che abbiamo preso». La via per restituire quanto avevamo sottratto, per redimere il nostro rapporto con la natura, passava attraverso il compost. Come lo stesso Rodale fu il primo ad ammettere, nel produrre il compost non vi era nulla di particolarmente nuovo. L’agricoltura aveva fatto affidamento su rifiuti organici compostati per migliaia di anni – fino all’invenzione, al principio del Novecento, dei fertilizzanti chimici. All’epoca della seconda guerra mondiale, la maggior parte degli agricoltori americani si era lasciata convincere del fatto che, per prosperare, le colture avessero bisogno solo di regolari e abbondanti applicazioni di fertilizzanti. Per l’agricoltore, tuttavia, le tentazioni del fertilizzante pongono una sorta di dilemma faustiano. Al principio, le rese aumentano in modo impressionante. Il costo però è alto, giacché a poco a poco le sostanze chimiche presenti nel fertilizzante soffocano l’attività biologica e danneggiano la struttura del suolo. Alla fine rimangono pochi nutrienti organici, e le colture diventano completamente dipendenti dai fertilizzanti: il suolo è ormai poco più che un dispositivo per tenere le piante in posizione verticale mentre si rimpinzano di fertilizzante 5- 10-5. E, tanto per peggiorare le cose, quanto più fertilizzante si usa, tanto più numerosi saranno i problemi in termini di malattie e insetti, poiché queste sostanze chimiche sembrano indebolire la resistenza delle piante. Nel dopoguerra, l’agricoltore che si trovava in questa difficile situazione cedette a tutta una schiera di nuove tentazioni chimiche – DDT, Temik, chlordane –, ritrovandosi ben presto in un inferno agricolo. Nel frattempo, coloro che coltivavano orti e giardini casalinghi avevano percorso più o meno la stessa strada rovinosa, acquistando sempre più fertilizzanti chimici e poi sempre più pesticidi. Negli anni Sessanta, ormai, sugli scaffali dei garage americani erano allineati i loschi prodotti sfornati dall’industria petrolchimica: Cygon, Sevin, kelthane, benomyl, malathion, folpet, diazinon. Là dove ci si sarebbe potuti ragionevolmente aspettare il logo di aziende produttrici di sementi e di articoli per la cura e il mantenimento di orti e giardini, adesso c’erano le ali della Chevron. In qualche modo il giardinaggio, passatempo semplice e sano per eccellenza, si era incrociato con gli aspetti peggiori della civiltà industriale. Questo è il deserto in cui Rodale trovò il giardiniere americano, ed è qui che lo mise di fronte a una difficile scelta morale: poteva continuare a usare prodotti petrolchimici per fabbricare fiori e ortaggi, oppure poteva seguire lui, imparare a produrre il compost, e redimere il suolo – oltre che, l’implicazione era chiara, se stesso. La prima volta che Rodale perorò la sua causa, fu accolto con il rispetto di solito accordato ai profeti: ancora negli anni Sessanta era generalmente considerato un fanatico. Quando ebbe un collasso e morì durante una registrazione del Dick Cavett Show, nel 1971, la nazione reagì ridacchiando, e Johnny Carson ci scherzò sopra per settimane. Negli anni Settanta, però, quando la preoccupazione per i pesticidi e l’ambiente aumentò, il messaggio di Rodale si conquistò un pubblico più ampio. Oggi le sue idee rappresentano convinzioni generalmente condivise nel campo del giardinaggio casalingo, e sono penetrate anche nell’agricoltura americana su ampia scala. Il fatto che Rodale abbia fondato un movimento quasi religioso – e che il cumulo di compost sia emerso come uno status symbol fra i giardinieri americani – è perfettamente logico se si considerano i tradizionali atteggiamenti degli americani nei confronti della terra. L’apoteosi del compost è in effetti solo l’ultimo atto in un morality play in scena da tempo, sul popolo e la terra americani. Negli inni di lode dedicati al compost dagli autori che scrivono su orti e giardini, si possono ancora udire gli echi dell’ideale agrario di Jefferson, parafrasato, qui, da Henry Nash Smith: «Coltivare la terra conferisce un valido titolo al suo possesso; il quale possesso, rendendo indipendente l’agricoltore, gli conferisce status sociale e dignità, mentre il contatto costante con la natura lo rende virtuoso...». Almeno in senso metaforico, il compost ripristina l’indipendenza del giardiniere: se non altro, affrancandolo dal centro per il giardinaggio e dall’industria petrolchimica. Con l’intero ciclo naturale riprodotto nel suo terreno, il giardiniere non deve più dipendere da nessun altro (salvo, forse, dal commerciante di sementi) per procurarsi il cibo. E poiché il compost rende il suolo più fertile, produrlo incoraggia l’antica convinzione americana secondo cui migliorare la terra consolida il proprio diritto di reclamarla. Questa idea dell’orto come realizzazione in miniatura dell’ideale agrario sembra essere comparsa inizialmente nell’Ottocento, quando un gran numero di americani cominciò a lasciare la campagna per vivere in città. Se l’America non poteva più rimanere una nazione costituita principalmente di agricoltori, gli americani che vivevano nei centri urbani potevano coltivare almeno alcune delle virtù rurali dedicandosi al giardinaggio. «L’uomo che ha preparato un orto sente di aver fatto qualcosa per il bene del mondo» scriveva Charles Dudley Warner, redattore dello «Hartford Courant», a metà del secolo. «Egli appartiene ai produttori ... Nell’orto ben dissodato non ci si limita a coltivare barbabietole, patate, mais e fagiolini, ma si eleva il livello medio della vita umana». Pressappoco nello stesso periodo Thoreau piantava il suo campo di fagioli a Walden, non tanto per coltivare legumi da mangiare o da vendere, quanto per poter raccogliere metafore sulla condizione umana. Migliorare il suolo migliorava l’uomo. Gli americani erano arrivati a considerare il giardinaggio molto più di un passatempo, e nei decenni che precedettero la guerra civile l’ortofloricoltura raggiunse in effetti, per un certo periodo, lo status di crociata morale. In un’epoca caratterizzata «[dal]l’inquietudine e [dal] frastuono della ferrovia» scriveva Lydia H. Sigourney nel 1841, il giardinaggio «instilla nel cuore dell’uomo di mondo, ansimante per la febbre dell’oro, pensieri gentili, pensieri che fanno bene come una medicina». Rivolgendosi ai ricchi bostoniani che si affollavano ogni sabato mattina alla Massachusetts Horticultural Society per ascoltare parole ispiratrici sul giardinaggio e il miglioramento di sé, Ezra Weston dichiarò, nel 1836, che «colui che coltiva un orto o un giardino, e che porta a perfezione fiori e frutti, allo stesso tempo coltiva e migliora la propria stessa natura». Oggi la retorica esortativa può sembrare aliena; che dire, però, dei suoi presupposti? A me sembra che – questi ultimi – li condividiamo. Non meno dei trascendentalisti e dei riformatori dell’Ottocento guardiamo oggi all’orto e al giardino come a una fonte di insegnamenti morali. Loro cercavano un modo per preservare le virtù jeffersoniane anche in città; noi cerchiamo un modo per sfruttare la natura senza arrecarle danno. Così come l’orto prebellico divenne una testimonianza dell’ideale agricolo, in modo molto simile noi consideriamo i nostri appezzamenti di terra, con il cumulo di compost lì vicino, come modelli di responsabilità ecologica. In entrambe le situazioni, il giardinaggio diventa, almeno simbolicamente, un atto di redenzione. A un europeo un atteggiamento così devoto verso il giardinaggio apparirebbe senza dubbio assurdo. Nella letteratura britannica non c’è molto da leggere sul compost, in parte perché in Inghilterra il tipo di persona che scrive libri sul giardinaggio non è, in genere, lo stesso che maneggia il terreno. Credo però che la ragione più profonda stia nel fatto che i giardinieri britannici hanno tradizionalmente considerato se stessi più come artisti che come riformatori. Negli scritti inglesi, i vari temi riguardanti il giardinaggio sono invariabilmente inquadrati in termini estetici, più che morali. Per parlare del giardinaggio, Gertrude Jekyll, l’influente scrittrice e architetta paesaggista attiva all’inizio del Novecento, mutuò le metafore dell’arte e non quelle della religione: paragonava le piante a una «scatola di colori» e sosteneva che dobbiamo «usare le piante così che esse formino bei quadri». L’educazione di un giardiniere di Russell Page, forse il più famoso architetto paesaggista degli ultimi tempi, è scritto seguendo la forma tradizionale dell’autobiografia di un artista, con la cronaca della scoperta del suo dono, dello sviluppo di una visione e uno stile personali, e delle varie intersezioni tra la sua vita e la sua arte. Non una parola sul compost, sul miglioramento di sé o sullo stato della biosfera. Prevedibilmente, la vista dei giardini creati dagli esteti è molto più piacevole di quella degli spazi verdi allestiti dai moralisti. Non è un caso che gli americani non abbiano ancora prodotto molti architetti paesaggisti e progettisti di giardini di fama mondiale, né abbiano trovato uno stile di progettazione del verde che qualcun altro desideri copiare. Non sto dicendo che in questo paese non abbiamo splendidi giardini – li abbiamo eccome –, ma quanti di essi derivano da stili europei o orientali? Benché nelle nostre condizioni di clima e di luce crescano bene solo di rado, insistiamo a piantare copie delle bordure inglesi di piante perenni – anche nel deserto della California! Almeno finora, la progettazione del giardino americano (questa espressione evoca forse qualcosa?) si è distinta ben poco al confronto dei traguardi americani nel campo della scrittura, della musica, dell’arte e perfino della cucina. La progettazione dei giardini rimane l’unico angolo della nostra cultura in cui la dipendenza di noi americani dall’Inghilterra non è mai stata spezzata del tutto. Chi ha a cuore l’aspetto del proprio giardino ingaggia architetti inglesi (o gente che li imita) e studia libri di giardinaggio inglesi. Ancora oggi, l’anglofilia continua a dominare il giardinaggio americano. Eppure, dalla prospettiva inglese, alcuni dei nostri giardini più apprezzati meritano a malapena d’esser considerati tali. Sto pensando a Central Park, di sicuro uno dei paesaggi più riusciti fra quelli creati dall’uomo in America. Com’è, allora, che Russell Page può sbrigativamente liquidare il capolavoro di Olmsted come «una stentata parodia di un parco inglese del Settecento»? La prima volta che lessi queste parole, il suo giudizio mi irritò. Adesso, però, credo di capire che cosa intendesse. Anche secondo gli standard relativamente informali del giardino inglese a cui si ispira, Central Park è tristemente letterale e presenta una progettazione inadeguata (Page lo critica per una «totale mancanza di orientamento»). Eppure, questa radicale informalità e completa mancanza di artificio è probabilmente l’aspetto che ci piace di più: Central Park finge di non essere stato progettato. Più che un giardino è un paesaggio naturale contraffatto, e i newyorkesi vi cercano le soddisfazioni della natura più che quelle dell’arte. Una società che produce «giardini» (o «anti-giardini») come Central Park presume un’opposizione tra natura e cultura fondamentalmente inconciliabile. E a me invece sembra che per progettare autentici giardini di eccellenza occorra avere un’idea di come armonizzarle. Forse è questo che ci manca. Gli americani hanno avuto, storicamente, la tendenza a considerare la natura come un medicamento per la cultura, o viceversa. Posti di fronte al problema di che cosa fare con la terra, sembriamo sempre emergere con le stesse grezze alternative: sottometterla virtuosamente nel nome del «progresso», oppure confinarla in contesti rigorosamente off-limits, in «aree naturali», santuari nei quali andiamo a cercare un antidoto alla vita di città. Un popolo convinto che la natura sia in qualche modo sacra – il secondo libro di Dio, secondo i puritani; il simbolo dello Spirito, secondo i trascendentalisti – probabilmente non si sentirà mai a proprio agio nel piegarla al proprio volere; di sicuro, non lo farà per ragioni estetiche. Almeno fino all’epoca di Thoreau, gli americani sono sembrati, in effetti, più interessati all’idea di piegare invece se stessi al volere della natura, il che potrebbe chiarire come mai i grandi naturalisti prodotti da questo paese siano stati molto più numerosi dei grandi giardinieri. Evidentemente noi ci sentiamo più a nostro agio a ricevere insegnamenti morali nei campi di fagioli e ai piedi degli alberi, che non a disporre le piante in composizioni piacevoli. Anche quando ci accostiamo ai nostri giardini, sembriamo farlo da naturalisti. Il tipico libro di giardinaggio americano è organizzato come una guida sul campo, e tratta una pianta dopo l’altra. È molto meno frequente trovarvi i giardini rocciosi, le bordure di piante erbacee o le aiuole di annuali considerate nel loro complesso, come capita invece nei libri di giardinaggio inglesi. Piuttosto, a ogni cultivar è riconosciuto quanto le spetta: la si considera come un individuo, valutandone abitudini, carattere e punti deboli. «È possibile apprezzare o addirittura amare i fiori per se stessi,» scriveva Katherine White, che per molti anni tenne una rubrica di giardinaggio sul «New Yorker» «ma i giardini sono inevitabilmente in relazione all’uomo». Ahimè. Come se creare giardini fosse in qualche modo sleale nei confronti delle piante che vi si trovano dentro, una negazione della loro individualità e della loro libertà. Quanto tempo passerà prima che gli americani scendano in piazza dietro allo striscione dei diritti delle piante?

Ma torniamo al compost. Alla fine trovai veramente il tesoro sepolto. Un giorno, l’autunno scorso, stavo scavando intorno al fienile, quando improvvisamente la mia vanga affondò in una porzione di suolo particolarmente soffice. Rivoltai una zolla ed eccola lì: la terra più nera che avessi mai visto. Ero esaltato, ma fu solo un attimo. Ormai avevo letto abbastanza sul compost per sapere che trovarlo così non era valido; certo, per i miei ortaggi e le mie piante perenni sarebbe stata una manna. Ma questa era una fortuna inattesa e irripetibile, l’equivalente morale del rinvenimento di un deposito di carburante fossile. Non feci parola del ritrovamento con nessuno dei miei amici che fanno giardinaggio seriamente. Adesso capivo, infatti, che se volevo perfezionare la mia fede avrei dovuto avviare personalmente il mio cumulo di compostaggio. Cosa che feci prontamente. Costruii una cassa con delle assi di legno di recupero, trovai un luogo ombroso in cui collocarla (in modo che poi il compost non si seccasse al sole) e quando il primo gelo ebbe ucciso le piante che amano il clima tiepido, la riempii di fagioli rampicanti bruciati dal freddo, foglie di zucca, zinnie, gambi di girasole, tutoli di mais e una mezza dozzina di zucchine grosse come mazze, sfuggite a un più tempestivo raccolto. Coprii quindi la sommità del cumulo con una palata del compost che avevo trovato (per introdurre i microrganismi necessari, infatti, è bene dare inizio al processo con l’aggiunta di un po’ di compost maturo, seguendo lo stesso principio usato per la acida nella panificazione). Mescolai il tutto, lo annaffiai con la pompa e me lo dimenticai. Quando tornai al mio cumulo, in aprile, avevo letto abbastanza sul giardinaggio americano per sapere che il compostaggio era un feticcio abbastanza stupido. Non produrrà mai una bordura di piante perenni veramente bella, ma solo moralmente corretta: non era un po’ assurdo, allora? Io credo di sì, ma quando sollevai lo strato superiore di foglie non decomposte e affondai la mano nel materiale sottostante – sciolto, nero, inaspettatamente tiepido e con un odore dolce –, mi sentii come se avessi realizzato qualcosa di grande. Se la fertilità ha un suo profumo, di sicuro era quello. In mezzo c’erano pezzi e frammenti incompletamente compostati: schegge di un vago color bruno che potevo ancora riconoscere come ex tutoli di mais e capolini di girasole. Sembravano i fantasmi del raccolto dell’anno passato. Devo ammetterlo, stavo cominciando a vedere metafore. Questo cumulo di materia vegetale in decomposizione mi sembrava più bello del getto più alto del Delphinium più azzurro. Fu proprio allora che capii: mi piacesse o no, ero un giardiniere americano, e probabilmente avrei coltivato più virtù che bellezza. ESTATE V NEL GIARDINO DELLE ROSE

Allestire un’aiuola per le rose è un po’ come preparare la casa all’arrivo di un’anziana signora difficile da gestire, una bisbetica schizzinosa dalle arie aristocratiche. La sua permanenza sarà un tormento, e uno vorrebbe darle il minor numero possibile di motivi per lamentarsi. Tutt’a un tratto, lo stesso terreno che per anni è andato benissimo sembra lasciare a desiderare, la qualità del drenaggio non convince e il pH pare sbagliato. Così mi sono dato da fare con la doppia vangatura, ho trasportato balle di sfagno e ho buttato in un unico punto, tutta in una volta, la preziosa provvista di compost che avevo impiegato anni ad accumulare. Finora, ho evitato di coltivare le rose (le rose vere, intendo; perché ho sempre avuto un paio di rampicanti rustiche); dopo tutto, chi mai andrebbe a cercarsi ospiti così esigenti e tiranniche? Ma questa primavera, per qualche ragione, le fotografie di rose sui cataloghi, le stesse su cui di solito sorvolavo rapidamente, hanno fatto presa sulla mia immaginazione, e ho deciso di lanciarmi nell’avventura. Penso che a sedurmi per prima sia stata, nel catalogo di Wayside, la profusione a doppia pagina di «rose antiche». Vi era ritratta una buona decina di signore (e un elegante gentiluomo, Jacques Cartier) che non somigliavano per nulla a come si immagina debba essere una rosa. Invece del solito pudico bocciolo da negozio di fiorista, queste grandi piante cespugliose avevano fiori lussureggianti che sembravano riversarsi a cascata dalla pagina: masse indisciplinate di petali – in alcuni casi centinaia – a malapena contenuti nella corolla, perlopiù a rosetta o a coppa. A quelli di Wayside piace fotografare i fiori delle loro rose quando sono bene aperti, quasi un po’ oltre il punto culminante, e poi tagliano le immagini in modo da dare l’impressione che essi esplodano dai bordi, quasi in faccia a chi guarda. L’effetto dell’insieme è vagamente lascivo. Poi, però, i nomi di queste rose spingono in un’altra direzione, riportandoci in salotto. Le presento Madame Hardy. Vogliate fare la conoscenza di Madame Isaac Perrier. Je voudrais présenter la Reine Victoria, la Belle de Crécy, la Königin von Danemark. Più che svelare, questi nomi celano: sono nomi da società, il cui pieno significato viene rivelato solo a chi è bene introdotto. Vi ricordate di Madame Hardy, la vedova di Monsieur Hardy? Non era lui che curava il giardino delle rose dell’imperatrice Joséphine alla Malmaison? Ma sì, certo. L’insigne rosicoltore Graham Stuart Thomas vi prende da parte per confidarvi che Madame Hardy viene dalla famiglia delle rose damascene, benché alcune sue parenti siano centifoglie. «C’è appena un sospetto di rosa carnicino nei boccioli semiaperti» sussurra; non la trovate «sontuosa e incantevole»? Difficile dire, in questo gruppo di rose antiche, se vi siete imbattuti in un salotto del Secondo Impero o in un bordello sulla Rive Gauche: se a conferire a queste signore il loro fascino sia l’alto lignaggio o la carica sessuale. Colpito e infatuato, ordinai quattro rose antiche da Wayside. Ovviamente Madame Hardy; una Jacques Cartier, introdotta nel 1868, dall’aria molto soave in tutte le immagini; una Königin von Danemark («un gioiello senza prezzo» e quindi, presumibilmente, un vero affare per 17 dollari e 75); e infine la Blanc Double de Coubert, una rugosa ibrida del 1892 che Gertrude Jekyll dice essere «la rosa più bianca conosciuta». Da un altro fornitore, la californiana Roses of Yesterday and Today, ordinai una rosa che non è disponibile nell’offerta di Wayside: la Maiden’s Blush, una alba d’un tenuissimo colore rosato, la cui descrizione sul catalogo non lascia spazio a equivoci: «la Natura non ha creato nulla di più squisito, nella pianta o nei fiori». È la rosa più antica che ho acquistato: le sue prime fioriture risalgono al Quattrocento. E poi ordinai una sola rosa moderna, la Queen Elizabeth, un cespuglio ibrido dai fiori color ciclamino, introdotto in occasione dell’incoronazione della regina Elisabetta nel 1953. Con l’eccezione di David Austin, insigne selezionatore di rose inglese, che la trova un po’ «volgare», la maggior parte delle autorità conviene che la Queen Elizabeth è una delle migliori rose del Novecento. Mentre aspettavo che questo sestetto arrivasse, consegnato dall’UPS, preparai l’aiuola e mi documentai sulle rose. Ben presto mi tornarono in mente le ragioni della mia precedente riluttanza a coltivarle, giacché i libri, uno dopo l’altro, ripetevano la familiare, terribile storia delle loro molteplici afflizioni. L’elenco delle cose che potevano andare di traverso era scoraggiante. Lessi che d’inverno avrei fatto meglio a coprire le mie piante per tenerle al caldo, poiché senza protezione nessuna di loro – salvo le più rustiche – avrebbe superato geli e disgeli di un gennaio del Connecticut. In estate, poi, le mie rose avrebbero preteso molta acqua (due centimetri e mezzo alla settimana, per tutti i mesi caldi); e d’altra parte, poiché «non amano bagnarsi i piedi», il drenaggio del loro terreno doveva essere più che impeccabile. Perciò vangai l’aiuola fino a una profondità di circa sessanta centimetri e aggiunsi una gran quantità di materia organica: compost, letame bovino maturo e sfagno. Ma anche un’aiuola perfetta non avrebbe necessariamente arrestato le schiere di organismi nocivi e malattie che hanno eletto la rosa a terreno di conquista. L’elenco di questi flagelli occupava per intero otto pagine deprimenti dell’America’s Garden Book, la guida dell’Orto Botanico di New York. Ecco dunque uno stuolo di nuove preoccupazioni che mi accingevo a far entrare nella mia vita. Mi sarei accorto che una rosa aveva contratto la ticchiolatura quando le foglie si fossero coperte di macchie nere, per poi ingiallire e cadere. Stando al libro, questa malattia non può essere curata, ma forse è possibile prevenirla (con regolari applicazioni di prodotti funghicidi). Temo non si possa dire lo stesso di un’altra malattia misteriosa, che impartisce alle foglie una colorazione bronzea, e per la quale non si può fare nulla. E poi vi sono il cancro bruno, il cancro dei rami, la ruggine delle foglie, l’oidio o mal bianco, la galla del colletto e un vasto assortimento di pericolose malattie virali. Se una rosa sfugge a queste sorti orribili, altre piaghe sono comunque in agguato: gli afidi vogliono succhiare i fluidi delle mie piante, se non al punto di ucciderle, sicuramente abbastanza a lungo da spogliarle della loro bellezza e aumentarne la vulnerabilità a tutte le malattie elencate sopra. Quando la stagione è più avanzata, ecco piombare orde di Popillia japonica, coleotteri giapponesi che possono rapidamente ridurre un cespuglio di rose pieno di salute a uno scheletro rachitico. Se dopo il loro passaggio rimanesse ancora qualcosa, bisognerà prepararsi all’arrivo di falene tortricidi, ragnetti rossi, coleotteri delle rose, rinchitidi delle rose, cecidomidi delle rose, cocciniglie delle rose, argidi delle rose, minatori del fusto delle rose e curculionidi delle rose. Quale altra pianta ha mai avuto così tanti insetti nominati in suo onore? Ce n’è abbastanza per chiedersi se la vera raison d’être della rosa, il suo autentico fine ecologico, non sia quello di costituire un buon pasto per l’esercito dei suoi nocivi eponimi. Con ogni probabilità, tuttavia, la maggior parte di queste malattie, e anche le schiere di insetti, non entrarono in scena prima dello sviluppo della moderna rosa ibrida. In anni recenti le tea ibride sono state selezionate mirando in modo così esclusivo all’aspetto, e trascurando a tal punto la resistenza alle malattie e la generale robustezza di costituzione, da renderle del tutto prive di nerbo. Sono come la prole dei matrimoni fra consanguinei in un’antica famiglia reale: molli, vulnerabili, troppo deboli per farsi strada da sole nel mondo. Languidi personaggi cresciuti al riparo di una serra, sovrani inermi per proteggere i quali noi giardinieri, armati del completo arsenale dei prodotti Ortho, dobbiamo intervenire e fungere da reggenti. Un ruolo che non mi interessava proprio, e questa probabilmente è la principale ragione per cui mi sono tenuto alla larga dalle rose tanto a lungo. La maggior parte dei vivai non offre altro che tea ibride, le quali decisamente non coincidono con la mia idea di giardinaggio. Nell’equilibrio fra natura e civiltà a cui esso mira, la rosa è troppo spostata verso l’estremo della civiltà (o perlomeno lo sono le rose nelle vivaci confezioni di Jackson & Perkins in vendita al mio vivaio). Il fatto è che, senza il puntello dell’industria chimica, le rose moderne proprio non ce la fanno: ricordo quelle di mio nonno, tutte avvolte nella loro nuvola bianca di Ortho Rose Dust, che emettevano un profumo decisamente più chimico che floreale (per me, comunque, Rose Dust, la Polvere per Rose, come il cloro, è sempre stato un piacevole elemento evocativo dell’estate, almeno fino a quando scoprii che era un veleno). Le rose moderne che coltivava mio nonno, e quelle che regalò ai miei genitori, non mi hanno mai detto molto: forse perché i loro fiori erano cliché visivi talmente familiari da non lasciar quasi più traccia. I classici boccioli stretti color vermiglio di una Mr. Lincoln costituivano, in giardino, un evento trito, una banalità cui non facevo neanche caso. Non che le rose moderne manchino di novità: la novità costituisce anzi una parte importante del loro problema. Il capitalismo del Novecento scoprì la rosa e – dopo diversi millenni di coltivazione soddisfacente – decise che ciò di cui essa aveva bisogno era un programma a pieno ritmo di R&D, innovazione, ricerca di mercato, posizionamento e pubblicità. Come i giardinieri sono ben felici di sottolineare, l’industria della rosa moderna sembra aver preso a modello Detroit. Ogni anno introduce qualche nuovo modello «emozionante», molti dei quali prodotti in colori improbabili, elettrici e metallici: più adatti a una quattro porte che non a un fiore, e ciascuno con un nome chiassoso e sensazionale ideato a Madison Avenue e debitamente brevettato. Chrysler Imperial è – sul serio – il nome di una rosa. E lo stesso vale per Sunsation. E poi c’è Broadway (una meraviglia bicolore vistosa come una showgirl). Hoola Hoop. Patsy Cline. Penthouse. Sweetie Pie. Twinkie. Teeny Bopper. Fergie. Innovation Minijet. Hotline. Ain’t Misbehanin’. Sexy Rexy. Givenchy. Graceland. Good Morning America. E Dolly Parton (una rosa che – come avrete probabilmente indovinato – è dotata di fiori eccezionalmente grossi). Mi sembra che il mondo evocato da queste rose sia esattamente quello per sfuggire al quale ci dedichiamo al giardinaggio.

Queste dunque erano le rose, o quanto meno così pensavo finché non visitai il reame, singolare ed esclusivo, di quelle «antiche». Qui scoprii rose che non somigliavano affatto a quelle della mia infanzia – o in vendita al mio centro di giardinaggio – e che sembravano afflitte da un minor numero di punti deboli rispetto alle ibride. Nel mondo inaspettatamente litigioso delle rose antiche, scoprii di non essere certo il solo ad avere in antipatia le tea ibride: in effetti tale disprezzo è considerato al tempo stesso un segno di buonsenso e gusti raffinati. Qui mi imbattei in alcuni illustri autori americani che scrivono sul tema del giardino e che, come Eleanor Perényi, parlano del proprio disgusto per l’«obsolescenza» programmata delle rose moderne e proseguono poi accennando all’«indimenticabile» profumo delle rose antiche. Sono gli inglesi, però, a essersi applicati sul serio alla critica degli ibridi: le rose moderne, come era solita lamentarsi Vita Sackville-West con chiunque fosse disposto ad ascoltarla, non sono abbastanza raffinate, sono troppo colorate, nel complesso troppo... borghesi. Sackville-West fu l’antesignana di un’intera fazione conservatrice di Tories delle rose, che si scaglia (ovviamente in modo composto) contro le rose ibride, aggrappandosi al sogno di una restaurazione delle sue amatissime alba, galliche, damascene, bourbon e centifoglie. Il mondo delle rose, che io avevo sempre pensato come una ridente provincia abitata da vecchie bisbetiche inoffensive e affabili appassionati, si rivela invece un luogo ribollente di conflitti. Oggi il principale portavoce della fazione delle rose antiche è l’esperto inglese Graham Stuart Thomas, autore di Le rose antiche da giardino, un classico scritto polemico mascherato da garbata conversazione sul giardino. Thomas si appassionò al tema delle rose antiche a partire dagli anni Quaranta del Novecento quando, come ricercatore per il Cambridge Botanic Garden, cominciò a collezionare e a preservare esemplari di rose antiche sull’orlo dell’estinzione. Thomas, e accoliti come David Austin, perorano la causa delle rose antiche con diverse argomentazioni: intanto, sono senz’ombra di dubbio più robuste di quelle moderne, e la maggior parte di esse non è neanche lontanamente altrettanto vulnerabile ai numerosi malanni che affliggono la specie. Le varietà antiche, inoltre, possiedono un profumo molto più intenso: la fragranza, come la resistenza alle malattie, è stata più o meno ignorata dal moderno selezionatore nella sua ricerca di colori nuovi e fioriture perpetue. È proprio qui, però, che la rosa moderna ha un vantaggio: come riconosce lo stesso Thomas, le rose antiche hanno da offrire solo una gamma limitata di colori (dal bianco al rosa: niente gialli o vermigli). Inoltre, a differenza della maggior parte delle rose antiche, le ibride – come nessun catalogo mancherà di ricordare (le tea ibride non hanno bisogno di avvocati esperti; hanno dalla loro parte l’intera industria vivaistica e la maggior parte della popolazione) – fioriscono per tutta la stagione. I fautori delle rose antiche, tuttavia, hanno dalla loro qualcosa di più della resistenza alle malattie e del buon profumo. Forse i loro paladini non lo riconosceranno esplicitamente, ma gran parte del fascino delle rose antiche – che sembrano oggi godere di un rinascimento – si basa sullo snobismo. La guerra delle rose, in ultima analisi, è una guerra di classe. I trattati degli amanti delle rose antiche sono pieni delle distinzioni sottili, degli ammiccamenti e delle parole in codice con cui gli aristocratici si sono sempre riconosciuti fra loro. Vita Sackville-West, nella sua introduzione al libro di Thomas, scrive che la rosa antica è «qualcosa di molto più modesto e sottile – ma lasciatemi dire quanto grande sia il piacere che se ne ricava una volta che se ne sia acquisito il gusto». Prosegue poi paragonando le rose antiche alle ostriche. Lo stesso Thomas condanna le tea ibride riservando loro un vago elogio e riconoscendo che sono capaci di produrre «perfetti fiori da fioraio». David Austin osserva che gli ibridi sono «pingui abbuffoni» e che il vermiglio di alcuni ibridi di recente introduzione, benché certamente bello, è «forse un poco estraneo al carattere della rosa». I temi di classe, mai lontani dal mondo del giardinaggio, affiorano in superficie quando gli appassionati delle rose ne descrivono la storia. Nelle loro mani, quest’ultima è una parabola appena velata della lotta di classe in Europa, raccontata dalla prospettiva di una aristocrazia ormai decaduta. Leggendo le loro descrizioni si comincia a percepire che, per essere una pianta, la rosa è gravata da una spaventosa zavorra culturale e politica. La storia della rosa è un argomento straordinariamente complicato e io non annoierò il lettore dilungandomici troppo. Basti dire che, prima del 1789, in Occidente, il mondo delle rose era dominato da un piccolo gruppo di «famiglie» che avevano goduto per secoli di una indiscussa supremazia, in modo non diverso dalla nobiltà regnante in Europa. Le principali famiglie di rose comprendevano: le galliche (le più importanti ai tempi dell’impero romano); le damascene (un incrocio medioevale tra la gallica e una rosa selvatica); le rose alba (ottenute dall’incrocio di una damascena con un’altra specie, Rosa canina); le centifoglie (quelle preferite dai pittori olandesi del Rinascimento) e le rose muscose che si ritiene discendano dalla famiglia delle centifoglie. Dall’impero romano fino all’Illuminismo, i membri di queste cinque famiglie reali si divisero la scena europea. I cambiamenti erano rari, anche se non assenti: di tanto in tanto due grandi famiglie si univano in matrimonio e quindi compariva una nuova linea, come quando, nell’Olanda del Seicento, la damascena e l’alba si unirono per lanciare la stirpe delle centifoglie. Questo era l’ancien régime del mondo delle rose, e non avrebbe avuto vita più lunga di quello francese. Nel 1789, infatti, come annota mestamente Graham Thomas, «la rosa avrebbe subito una grande rivoluzione, proprio come i suoi più ardenti estimatori di quel tempo». Nel mondo delle rose, lo sconvolgimento fu causato dall’introduzione in Europa della rosa cinese, R. chinensis, una pianta con la capacità di fiorire più di una volta a stagione. Il fatto che le rose ancien régime fiorissero soltanto una volta non era mai stato considerato un difetto fino alla scoperta della rosa cinese, la quale – benché non resistesse bene agli inverni europei – poteva fiorire per tutta l’estate. All’improvviso, il mondo delle rose affrontò una crisi causata dalle maggiori aspettative, e non passò molto tempo prima che le antiche famiglie cedessero il passo a una nuova generazione di piante capaci di fiorire ripetutamente. La prima di queste varietà rimontanti (rifiorenti) fu la Portland, di cui la Jacques Cartier è un esempio. Ma la rosa più importante di questa classe, la bourbon, comparve in Francia soltanto nel 1823. Sull’Île de Bourbon, una piccola isola dell’Oceano Indiano vicino a Mauritius, gli agricoltori erano soliti piantare siepi miste di rose damascene autunnali e rose cinesi Old Blush. Jean- Baptiste Bréon, un botanico in visita da Parigi, scoprì un ibrido spontaneo tra le due varietà, noto agli isolani come Edward Rose, e lo inviò a Parigi dove ben presto divenne la rosa più amata dell’epoca. L’introduzione della rosa cinese in Europa «offrì grandi opportunità», come osserva giudiziosamente David Austin in The Heritage of the Rose, «ma, come accade tanto spesso nel caso di tali opportunità, anche alcuni rischi». Per la rosa fu un momento precario, un periodo davvero periglioso, ma per fortuna (almeno dal punto di vista di Austin) le nuove piante si dimostrarono eccezionalmente bene educate: secondo lui, la rosa bourbon univa «il meglio di entrambi i mondi» avendo portato in Europa il tratto rimontante senza distruggere la bellezza dei fiori del Vecchio Mondo. Queste nuove rose forse abbatterono l’ancien régime, ma, grazie al cielo, il loro comportamento si rivelò decisamente più aristocratico di quello dei giacobini. Si insediò così una nuova nobiltà, che aveva conquistato, più che ereditato, la sua posizione. C’era del sangue nuovo, certo, ma le aspirazioni erano più imperiali che democratiche. Si era aperta l’èra napoleonica delle rose. L’etichetta è quanto mai appropriata se si pensa che l’imperatrice Joséphine ebbe un ruolo importante nel promuovere l’età aurea delle rose dell’Ottocento. Alla Malmaison c’era una «raccolta di rose» scrive Thomas «come non se n’era mai vista prima». Vi erano rappresentate tutte le rose antiche, e molte di quelle nuove – compresa la Portland e la Noisette – furono collezionate e sviluppate qui sotto la guida di André Dupont, il capo giardiniere di Joséphine. Il suo giardino delle rose era così famoso, e aveva una tal reputazione, che quando le navi da guerra britanniche catturavano vascelli francesi con carichi di piante (i soldati napoleonici avevano istruzioni di frugare il mondo alla ricerca di nuovi esemplari di rose) li lasciavano andare. La passione di Joséphine per la rosa contribuì a fare di essa il principale fiore ornamentale dell’Ottocento; prima di allora, la sua fama riposava sulla fragranza e sulle proprietà medicinali non meno che sulla bellezza. Fu sempre Joséphine a mettere Pierre-Joseph Redouté al lavoro sulla sua monumentale serie di dipinti di rose, molti dei quali furono eseguiti proprio alla Malmaison. L’anno 1789, quindi, fu doppiamente significativo per questo fiore: segnò l’introduzione della rosa cinese in Europa e, con la Rivoluzione francese, innescò una catena di eventi culminati poi nel momento di splendore alla Malmaison. Da allora in poi, secondo le autorità che abbiamo consultato, fu tutta una lunga strada in discesa, che portò alla Dolly Parton.

Con l’ascesa al potere delle classi medie, in Francia e Inghilterra, la rosa cominciò il suo declino, e finì gradualmente per assumere il suo familiare aspetto moderno. Gli stessi impulsi di creatività e competitività che contribuirono allo slancio della rivoluzione industriale furono applicati alla rosa, e per la prima volta i selezionatori cercarono intenzionalmente di sviluppare nuovi ibridi con tratti specifici mirati a interessare il mercato. E per la prima volta nella storia del giardinaggio, a dominare il mercato era la classe media, i cui gusti e le cui esigenze particolari ben presto indussero nella rosa cambiamenti rivoluzionari, fino al punto di farla diventare, come ha detto David Austin, «in tutti sensi e a tutti gli effetti, un fiore nuovo». Questo nuovo fiore aveva diversi aspetti distintivi. In primo luogo, a cominciare dagli ibridi introdotti a metà del secolo, la rosa non è più un arbusto, ma un cespuglio. I giardinieri della classe media non avevano lo spazio che una rosa antica esige intorno a sé (molte di esse crescono fino a un’altezza di un metro e ottanta); poiché il nuovo mercato voleva fiori, e non grandi arbusti, gli ibridatori si affrettarono ad accontentarlo. Con lo sviluppo delle rose ibride perpetue – le cui origini gli esperti disperano di rintracciare (uno borbotta che sono soltanto «un amalgama di varie rose, effettuato in vista di certi obiettivi») – la forma della pianta, divenuta «sgraziata», «goffa», «troppo eretta», è completamente sacrificata all’esagerata ossessione per i fiori, caratteristica dell’epoca. Tale ossessione fu senza dubbio alimentata dalla moda vittoriana per le esposizioni floreali, nelle quali migliaia di appassionati rosicoltori dilettanti si precipitavano per far gareggiare i loro esemplari migliori. Poiché soltanto i fiori potevano essere sottoposti a valutazione, ben presto i selezionatori smisero di prestare attenzione a tutto il resto, uno sviluppo naturalmente deplorato dalla fazione. «Senza dubbio quelle rose erano bellissime quando le si osservava sul banco dell’esposizione,» sibila un esperto «ma come piante da giardino lasciavano molto a desiderare». Non si pensi tuttavia nemmeno per un istante che agli occhi di questo signore anche uno solo di quei fiori fosse veramente «bellissimo». La passione vittoriana per la novità s’era impadronita della rosa, e i selezionatori presentarono un’intera gamma di nuovi colori sgargianti (e anche qualche variegatura), contro i quali gli amanti delle rose antiche inveiscono ancora oggi. Nel 1867 – lo stesso anno in cui, in Inghilterra, il secondo Reform Act estese il suffragio alle classi medie – un tal Guillot, selezionatore francese, incrociò una perpetua ibrida denominata Madame Victor Verdier con una rosa tea (i delicati incroci fra rose bourbon e rose cinesi) di nome Madame Bravy ottenendo così La France, generalmente riconosciuta come la prima tea ibrida. Questa nuova rosa dimostrò di essere esattamente ciò che la classe media stava aspettando. Era un cespuglio di dimensioni contenute (raramente più alto di una novantina di centimetri), il che la rendeva adatta ai piccoli giardini, e fioriva freneticamente: «senza darsi alcun pensiero per il futuro», come disse allarmato un membro della fazione. Inoltre, con il suo bocciolo allungato ed elegante, la tea ibrida era destinata a trionfare sul banco delle esposizioni, giacché di solito le rose vengono esposte proprio quando sono in boccio. «Il bocciolo appuntito della tea ibrida ... può essere di una bellezza squisita» osserva David Austin. Vi è, tuttavia, un caro prezzo da pagare: «Purtroppo, il fiore aperto tende a essere informe e di scarsa qualità – un’accozzaglia di petali senza alcuna forma particolare». Il fiore, per quanto riguarda la forma, non è più una rosetta, ma un bocciolo che ha appena cominciato ad aprirsi. È a questo punto che l’immagine evocata dalla parola «rosa» nel pubblico di Shakespeare lascia il passo a quella, diversissima, che essa richiama alla nostra mente. Le dimensioni e la fioritura continua rendevano le tea ibride adatte a essere incluse negli schemi delle aiuole vittoriane: la dubbia prassi di piantare grandi masse di un unico fiore dal colore brillante in aiuole variamente sagomate che poi venivano combinate così da formare disegni complessi. Andavano di moda i motivi dei tappeti persiani; e anche gli stemmi nobiliari; i meno ambiziosi facevano mezzelune, e perfino girini. Colonne portanti di questi schemi, naturalmente, erano le piante annuali, che adesso potevano essere importate dai tropici e coltivate in grandi quantità nelle nuove serre di vetro riscaldate. Senza dubbio, queste nuove arrivate sgargianti e dalla fioritura generosa esercitarono un potente effetto sui selezionatori di rose, i quali – spinti a competere – stimolarono le proprie piante a produrre sempre più fiori, in colorazioni sempre più accese. Ormai la pianta di rosa era poco più che un treppiede fatto per tenere bene in alto questi grassi fiori vistosi. Quello che un tempo era un nobile arbusto era stato ridotto a una pianta nana cui era stata affibbiata una serie di nomi poco dignitosi, agghindata con colori assurdi, fatta per stare in grandi assembramenti, subordinando così lo splendore dei singoli fiori a un effetto di massa – a una rozza «esplosione di colore». Per quanto riguarda questo elevare il fiore al di sopra dell’arbusto e delle sue tradizioni... be’, non è forse tipico del parvenu, fare sfoggio dei simboli della ricchezza senza prestare alcuna attenzione alla sostanza e al lignaggio? Certo, certo, la rosa moderna ha sicuramente qualche pretesa di nobiltà – basta guardare quei nomi: Princess Grace; John F. Kennedy; Cary Grant. Nobili, può darsi; ma così... così nouveau. Arrivisti, tutti quanti! (Jack Kennedy, – borbotta l’esperto appassionato di rose – corre un abisso fra te e una Jacques Cartier). E che dire di Dolly Parton, Barbara Mandrell o Graceland? Veramente orribili. C’è forse da meravigliarsi se l’estimatore della rosa antica si rifugiò nella clandestinità per quasi un secolo, ritirandosi nella sua tenuta in campagna, dove affidò alla penna sarcasmo e disperazione nei confronti del suo tempo? Le scimmie avevano saccheggiato il tempio del giardinaggio e violentato le belle rose.

Come ho detto: si tratta di una zavorra spaventosa, per un fiore. Ci riflettei il pomeriggio in cui le mie rose antiche arrivarono con il furgone della UPS, poiché sembravano di gran lunga troppo fragili per sostenere tutti quei significati. Poco più che semplici stecchi, arrivarono con la radice nuda e avvolte nel «Pennysaver» della settimana prima, con un’aria da habitués di Ellis Island, più che della Malmaison. Erano in uno stato di completa dormienza; a parte un vago rigonfiamento agli apici, sembravano morte. Difficile credere che avessi sganciato settantacinque dollari per quegli stecchi, e ancor più che la Civiltà Occidentale avesse trovato tanto da ricamare su di esse. Le istruzioni dicevano di immergerle per tutta la notte in un secchio di acqua tiepida, e poi di piantarle il prima possibile. Il mattino dopo, scavai delle buche profonde quarantacinque centimetri e larghe altrettanto, a una distanza di un metro e venti l’una dall’altra. A ciascuna buca aggiunsi diverse manciate di compost, letame bovino maturo e sfagno, mescolando tutto con le mani. Poi, sul fondo di ogni buca, feci un monticello con questa miscela nera e compatta, in modo che formasse una sorta di cuscino per le mie delicate protette. Le piante sembravano due piovre unite per la testa, con le radici che uscivano da una parte e i rami dall’altra. Stando alle istruzioni, l’idea è di sistemare la testa (in realtà l’innesto) sopra a questo cuscino di terreno, distendendo le radici verso il basso, lungo i suoi lati. Tenendo conto delle temperature minime estreme registrate in questa zona, la Wayside raccomanda di interrare l’innesto a cinque centimetri dalla superficie, in modo da proteggerlo dagli stress invernali. Controllai la profondità, riempii le buche di terriccio e le innaffiai abbondantemente per assicurare un contatto completo fra le radici e la terra circostante. Poi premetti il terreno intorno alle piante con un piede. Dopo qualche giorno di esposizione all’umidità, le rose avrebbero interrotto la loro dormienza. Le radici avrebbero inviato i loro delicati tentacoli in profondità, all’interno del monticello sottostante, e avrebbe avuto inizio l’alchimia grazie alla quale la rosa prometteva di tradurre quella massa nera di letame e materia vegetale decomposta in fiori di leggendaria bellezza. Bellezza che peraltro sembrava alquanto remota, mentre facevo un passo indietro per esaminare il mio lavoro. Non pareva un granché: sei mazzi di rami che sbucavano dal fango descrivendo angoli sghembi. Non molto attraenti, certo non roba di lusso, e per nulla evocativi. No, quella era la rosa spogliata di tutte le sue associazioni, di tutto il suo carico di metafore; qui sembrava di poterla guardare con quello che Wallace Stevens chiamava «una mente d’inverno»: così com’era, senza metafore. Senza Shakespeare. Senza la Guerra delle due Rose... la corona di spine... l’aurora dita di rosa... sub rosa... Una rosa è una rosa è una rosa... il rosario... i rosacroce... Il romanzo della rosa... il Rose Bowl... il letto di rose... anche con altro nome avrebbe il suo profumo... il giallo della rosa sempiterna di Dante... Quando... il fuoco e la rosa sian uno... Run for the roses... Verso la porta che non aprimmo mai / nel giardino delle rose... tutto rose e fiori... Rosaspina... La bianca rosa della verginità di Tennyson... il fiore di Afrodite... e anche quello della Vergine Maria... il sangue di Adone... il simbolo dell’amore... della purezza... della caducità... dell’eternità... il simbolo, sembra quasi, dei simboli. Quegli scheletri tozzi e desolati sembravano svuotare tutto questo, rendendolo vagamente assurdo. Ecco cos’erano: piante, rovi. Punto.

Dopo solo qualche giorno le gemme si arrossarono e si gonfiarono e in capo a due settimane i rami avevano avvolto attorno a sé un manto di foglie d’un verde intenso: più chiaro, più delicato e dalla superficie più opaca del lucidissimo fogliame delle rose moderne. Avevo letto che la maggior parte delle rose antiche fiorisce sul «legno vecchio» (sui rami dell’anno prima), e perciò in quella prima stagione non mi aspettavo alcuna fioritura. Ma alla fine di giugno, dopo un mese di rapido sviluppo, Madame Hardy emise una generosa profusione di boccioli. Ormai avevo letto così tanto sulle rose antiche che francamente dubitavo potessero dimostrarsi all’altezza della loro reputazione. Madame Hardy, però, era stupenda. Da una piccola gemma insignificante emerse un insieme di petali d’un bianco porcellana puro, strettamente disposti a formare una perfetta mezza sfera, come fossero contenuti in una invisibile tazza da tè. I petali erano innumerevoli e tuttavia non costituivano una mera massa. In modo ben più raffinato, il fine tessuto dei petali di Madame Hardy era elegantemente disposto a formare una rosetta divisa in quarti, e i fiori mi facevano pensare ai rosoni delle cattedrali gotiche, che in precedenza non mi erano sembrati affatto simili a una rosa. Era difficile considerare Madame Hardy senza complicazioni, difficile non pensare a lei come all’espressione di un altro tempo – cosa che naturalmente essa è, proprio come è un’espressione della natura. Benché Madame Hardy non sia comparsa in scena prima del 1832 (ottenuta, come si ricorderà, dal giardiniere che si occupava delle rose di Joséphine, il quale la nominò in onore della propria moglie), essa incarna la classica forma delle rose antiche, e si avvicina – più di quanto non faccia la rosa che si trova oggi dai fioristi – all’immagine evocata dalla parola «rosa» per gran parte della storia occidentale. Quando Shakespeare paragonava il proprio amore a una rosa, doveva avere in mente questo fiore. Osservare attentamente la fioritura di una rosa antica è, almeno su piccola scala, un esercizio di immaginazione storica: la si vede attraverso i propri occhi, ma anche attraverso quelli di un’altra epoca. Strano, però, giacché una rosa non è una poesia o un dipinto – ma un fiore, una parte della natura: senza tempo. Eppure, in un certo senso, Madame Hardy è opera dell’uomo, che l’ha incrociata e reincrociata finché essa non ha rispecchiato il suo ideale di bellezza; e così oggi essa riflette, nel mio giardino, la sensibilità di un’epoca che mi ha preceduto. La rosa è parte della natura, ma è anche parte di noi. E per la mente d’inverno, questo è quanto. Ammirando la bellezza di Madame Hardy, cominciai a capire perché essa emozionasse tanto gli appassionati un po’ snob e ad accettare il fatto leggermente imbarazzante che, almeno per quanto riguarda la guerra delle rose, le mie simpatie non erano dalla parte del popolo. Rispetto alle rose moderne, Madame Hardy è effettivamente un’aristocratica, incomparabilmente più raffinata e, nella forma, molto più composta. Quando si ha esperienza con le rose, si comincia a comprendere come mai la gente potesse proiettare su di esse metafore riguardanti la classe sociale. Ciascun cespuglio, di per sé, è una sorta di gerarchia sociale. Sotto l’innesto di Madame Hardy c’è il portainnesto di un’altra varietà più robusta – non un ibrido, ma una specie di rosa rustica, un qualche solido ceppo contadino capace di sopportare gli inverni rigidi, ma i cui fiori deludenti non interessano a nessuno. L’ibrido tanto apprezzato è innestato sulle spalle di questo portainnesto anonimo, il quale svolge per la rosa tutto il lavoro duro, dissodando il terreno e sporcandosi le radici in modo che la pianta possa fiorire. Il cespuglio spinoso, di per sé, non è particolarmente elegante, ma anch’esso è necessario per sostenere la fioritura opulenta: la gran massa di foglie sintetizza il nutrimento, e i rami formano l’architettura senza la quale la fioritura non sarebbe possibile. E i fiori, splendidi e generosi, come autentici aristocratici, sembrano non riconoscere la pianta che li sostiene, o il fatto che i propri petali un tempo erano mere foglie. Si comportano come se la loro bellezza e il loro status fossero doni di Dio, trascendenti. Nella fioritura di una rosa non è possibile distinguere il lavoro della pianta, il sacrificio delle foglie divorate dai coleotteri, il tanfo del letame in cui essa affonda le radici. Radici?, chiede Madame Hardy, facendo l’ingenua. Quali radici?

Ma se Madame Hardy attira l’attenzione sul proprio pedigree, Maiden’s Blush, la rosa alba che piantai accanto a lei nel mio giardino, sembra invece imporci la sua sessualità. I petali di questa rosa hanno una disposizione più morbida rispetto a quelli di Madame Hardy; sono meno formali, quasi una veste slacciata. Sono anche più grandi, e si accendono di un pallidissimo rosa carne verso il centro del fiore, di per se stesso elusivo, nascosto com’è fra le molteplici pieghe labiali. Il rossore di questa fanciulla – perché questo significa Maiden’s Blush – non è solo quello sul suo volto. Sto dando libero corso alla fantasia? Be’, consideriamo alcuni altri nomi di questa rosa: Virginale, Incarnata, La Séduisante e Cuisse de Nymphe. È con quest’ultimo appellativo che la chiamano in Francia dove, come ci racconta Vita Sackville-West, i fiori che assumono un rosa particolarmente intenso ricevono il «nome assai espressivo» di Cuisse de Nymphe Émue, un titolo che lei rifiuta di tradurre. Il senso comunque è questo: la coscia di una ninfa turbata. No, Maiden’s Blush non è certamente il tipo di anziana signora che mi aspettavo, accingendomi a piantare le rose. La sua concupiscenza, in effetti, mi ha indotto a chiedermi se tutta la zavorra di cui la rosa è stata gravata non possa essere semplicemente un modo per coprire le cosce di questa ninfa, la sua inequivocabile carnalità. Perché anche se il fiore della Maiden’s Blush è particolarmente provocante, in tutte le rose antiche che ho piantato e in tutte quelle che ho visto e annusato da allora vi è una sensualità profonda alla quale non ero preparato. Se si considerano i casti boccioli e il profumo modesto di quelle moderne, queste rose antiche si offrono generosamente. Fioriscono tutte in una volta, in un climax che dura una sola settimana. I loro fiori hanno l’aspetto migliore quando sono completamente aperti e la loro forma è al massimo dell’intrico; benché esplicite, sono a tal punto avviluppate su se stesse da implicare tuttavia un certo mistero interiore. E le loro varie fragranze – pesche mature, mandorle bruciate, chardonnay giovani, perfino muschio – possono sopraffare. Rispetto alla maggior parte dei profumi floreali, la fragranza di queste rose è impossibile da fissare o descrivere – sembra mandare in corto circuito il pensiero cosciente, viaggiare direttamente dalle narici al tronco cerebrale. Provate a inalare profondamente il profumo di una rosa bourbon e poi cercate di discriminare che cosa è profumo, che cosa è ricordo e che cosa è emozione; non riuscirete a districare i fili che formano questo... questo cosa? Quando ormai tutte le mie rose antiche erano fiorite, avevo cominciato a pensare che forse, a proposito del loro mondo, Marx aveva meno da dire di Freud. Di certo quest’ultimo avrebbe dato per scontato che qualsiasi cosa alla quale avessimo attribuito tanti significati dovesse esercitare una qualche potente attrazione sessuale. Tornai alla mia letteratura sulle rose e, come mi aspettavo, gli stessi esperti la cui prosa mi era parsa piena di coscienza di classe adesso suonavano al mio orecchio concentrati in modo un po’ malsano sul sesso. Sarebbe una mancanza di rispetto insinuare che Graham Stuart Thomas, con tutti i suoi titoli (O.B.E., V.M.H., D.H.M., V.M.M.), abbia una cotta per le rose antiche? Ecco la sua descrizione completa di Madame Hardy: «C’è appena un sospetto di rosa carnicino nei boccioli semiaperti, che emergono dai loro lunghi calici; i fiori si aprono a coppa e diventano rapidamente piatti, mentre i petali esterni si flettono nel modo più bello, lasciando il centro quasi concavo, di un bianco puro con un piccolo bottoncino verde ... sontuose e incantevoli». Il profumo della Maiden’s Blush spinge Sir Thomas agli estatici ineffabili di uno scrittore di storie d’amore a buon mercato: i suoi fiori sono intensi, inebrianti, deliziosi; «i miei sensi non hanno ancora trovato una strada per trasmetterne alla penna le qualità». Marie Louise, una rosa coltivata alla Malmaison nel 1813, fa affiorare lo Humbert Humbert che è in lui: «Sollevare i rametti fitti di foglie e contemplare i fiori completamente dischiusi è una rivelazione...». Stavo cominciando a capire perché gli appassionati di rose tendono a essere uomini. Uomini – e poi, naturalmente, Vita Sackville-West, che di certo riusciva a emozionarsi mentre scriveva, a proposito dei fiori delle rose antiche, che «erano sontuosi, vividi come un fico aperto, soffici come una pesca matura, punticchiati come un’albicocca, corallini come una melograna, vellutati come un grappolo d’uva...». Che ne pensa, dottor Freud? Se il fascino delle rose antiche sta nella schietta sensualità dei loro fiori, allora che cosa dobbiamo pensare dello sviluppo e del trionfo finale della moderna tea ibrida? Può darsi, semplicemente, che la classe media vittoriana non riuscisse proprio a confrontarsi con la sessualità della rosa. Forse, quello che accadde davvero, nel 1867, fu un monumentale atto di repressione floricolturale. Trasformando l’ideale di bellezza della rosa dal fiore completamente aperto al bocciolo, i vittoriani convertirono la femminilità adulta di questo fiore in una femminilità virginale: una bellezza venerata quando è composta, ancora sul punto di schiudersi, ma che poi cade rapidamente in disgrazia. Per quanto riguarda il nuovo aspetto, molto apprezzato, della fioritura continua, può essere considerato anch’esso una forma di sublimazione. In realtà, infatti, non è che le rose ibride producano più fiori, è solo che li distribuiscono nell’arco di un periodo più lungo. Risparmiano e reinvestono. Nella fioritura, invece di abbandonarsi a un unico grande climax, la rosa moderna centellina i propri fiori, uno per uno, sempre trattenendosi, perennemente sul punto di, senza mai... concludere. L’idea di un fiore che non smette mai di fiorire sarebbe sembrata perversa agli elisabettiani; tra gli aspetti che essi amavano di più nella rosa, c’era il suo modo di non trattenere nulla, di fiorire senza riserva per poi esaurirsi. Ma i vittoriani eliminarono dalla rosa questo ritmo sessuale, subordinandola al culto della verginità tipico dell’epoca, come pure al suo nuovo concetto di economia. Ci hanno lasciato in eredità un fiore fanciullesco, forse grazioso, ma ripulito al punto d’essere senza profumo, ormai non più seduttivo o sessualmente consapevole di una girl scout.

Guardare un fiore e pensare al sesso: che può significare esattamente una cosa del genere? Emerson scrisse che «la natura indossa sempre i colori dello spirito», e intendeva dire che non vediamo la natura in modo diretto ma solo attraverso uno schermo di metafore umane. Perciò ai nostri occhi la primavera diventa giovinezza, gli alberi (tree) sono verità (true), e perfino l’umile formica si trasforma in un intrepido soldato. E quando guardiamo le rose e vediamo anziane signore aristocratiche e girl scout, oppure simboli di amore e purezza, stiamo certamente proiettando su di esse delle categorie umane, caricandole di tutto il peso delle nostre metafore. Ma esiste un altro modo di considerare la natura? Thoreau pensava di sì. Scandagliò il lago di Walden in inverno proprio per alleggerire la natura di questo carico – per «ristabilire la profondità del fondo del lago di Walden, da molto tempo perduta», liberandolo dalle leggende locali che lo descrivevano senza fondo. Thoreau confidava di poter distinguere tra natura (il lago, la cui profondità determinò esser pari esattamente a trentuno metri) e cultura (le storie che la gente raccontava sul suo essere privo di fondo). Si adoperò per separarle una volta per tutte: per considerare il lago con una mente d’inverno senza intralci, così com’era realmente. «Assestiamoci e muoviamoci, infiliamo i piedi ben giù, nel fango e nella mota delle opinioni, dei pregiudizi, delle tradizioni, degli inganni e delle apparenze, quell’alluvione che ricopre il globo ... finché non arriveremo a un fondo solido e alla viva roccia, che potremo chiamare realtà, e di cui potremo dire: Questo esiste...». I trascendentalisti guardavano alla natura come a un medicamento per la cultura ma, prima che essa possa esercitare la sua «influenza risanatrice», dobbiamo grattar via la crosta di cultura che vi si è depositata sopra. Questa netta segregazione tra natura e cultura si complica quando si considerano piante da giardino come la rosa, e questo forse comincia a spiegare perché Thoreau preferisse le paludi ai giardini. Perché la rosa non solo indossa i colori del nostro spirito, ma li contiene. Le rose sono state così a lungo «coltivate», incrociate e reincrociate affinché rispecchiassero i nostri ideali, che ormai è impossibile separare la loro natura dalla nostra cultura. Suggerire che l’eleganza di Madame Hardy incarni qualcosa della società che l’ha prodotta, o che la superficialità di Graceland incarni qualcosa della nostra, è qualcosa di più di un’idea fantasiosa. In una certa misura, lo stesso vale per tutte le piante ibride, ma nessun’altra ha ricevuto un’attenzione così prolungata da parte dell’ibridatore, dell’artefice – per usare le parole di Shakespeare – di «un’arte [essa] stessa ... natura». Thoreau non avrebbe potuto ottenere ciò che voleva guardando una rosa; la rosa è stata così pesantemente gravata di «pregiudizi, tradizioni e inganni» – gravata di storia umana –, che ormai non vi è più un fondo solido da scandagliare. Qui, «il fango e la mota delle opinioni» sono stati distillati fino a produrre Dolly Parton; la quale, più che un medicamento per la cultura, ne è un sintomo. Ma se Dolly Parton indica che a volte il nostro rapporto con la natura genererà una prole deplorevole, ciò non significa necessariamente che con le paludi ci andrà meglio. Ormai è troppo tardi – adesso, semplicemente, siamo in troppi – per seguire Thoreau nei boschi, per guardare alla natura come a un modo per medicare o disfare la cultura. Per quanto sia importante avere le paludi, oggi probabilmente è più importante ancora imparare a fondere la nostra arte con la natura, in modo da culminare con una Madame Hardy e non una Dolly Parton; con creazioni umane che soddisfino la cultura senza offendere la natura. L’abitudine di contrapporre grossolanamente natura e cultura non ha fatto che crearci problemi, problemi dei quali non ci libereremo finché non avremo sviluppato una percezione più complessa ed elastica della nostra collocazione nella natura. Io non so quale possa essere quella percezione, ma sospetto che la rosa, forte della sua storia lunga e particolare di dai-e- prendi con gli esseri umani, possa guidarla altrettanto bene, se non meglio, della palude incontaminata di Thoreau. Perfino dopo aver riconosciuto la falsità della dicotomia fra natura e cultura, è difficile allentarne la presa sulla nostra mente e sul nostro linguaggio: basta guardare quanto spesso ricado nei suoi termini. La nostra alienazione dalla natura è profonda. Eppure, anche parlare di un compromesso tra natura e cultura non è del tutto corretto, poiché implica una distanza fra le due cose: implica che noi non siamo parte della natura. Moltissime nostre metafore dipendono da questa frattura, da una percezione semplicistica di che cosa sia la natura e che cosa sia «un colore dello spirito». Quello che ci serve è confondere le nostre metafore, e la rosa può aiutarci a farlo meglio della palude. Forse è questo ciò che conta quando guardiamo il fiore di una rosa e pensiamo al sesso. Nel mio giardino, quest’estate, la Maiden’s Blush ha prodotto una quantità enorme di fiori, alcuni dei quali sfumati d’un rosa così intenso da meritare l’aggettivo émue. E allora che significa guardare questi fiori e pensare al sesso? Sto pensando metaforicamente? Be’, sì e no. Questo fiore, come tutti i fiori, è un organo sessuale. Anche il bombo, che non è sfiorato dalla cultura, sembra trovarlo attraente, proprio come me; e sembra altrettanto sopraffatto dal suo profumo. Eppure io non credo di considerare il fiore come lo considera lui. Per me il fascino della rosa è legato alla sua somiglianza con le donne, con «le cosce di una ninfa turbata», per le quali posso presumere che il bombo non provi nulla. La mia specie infatti ha coltivato, o selezionato, la rosa affinché avesse quella somiglianza. E dunque: è immaginaria? Una mera rappresentazione? (E l’ape, allora?! quella che l’ape sta impollinando non è una rappresentazione). E, infine, stiamo parlando di natura o di cultura quando raccontiamo di una rosa (natura) che è stata selezionata (cultura) in modo che i suoi fiori (natura) inducano gli uomini a immaginare (cultura) il sesso delle donne (natura)? Forse è di questo genere di confusione che avremmo più bisogno. VI LE ERBACCE SIAMO NOI

Ralph Waldo Emerson, che essendosi dedicato per tutta la vita al giardinaggio doveva saperla lunga, una volta disse che un’infestante è semplicemente una pianta di cui non abbiamo ancora scoperto le virtù: quella di «infestante» non è una categoria della natura ma un costrutto umano, un difetto della nostra percezione. Questo tipo di atteggiamento, che scaturisce da un antico filone americano di pensiero romantico sulla natura selvaggia, può metterci nei pasticci. Quanto meno ci mise me: infatti quando seminai la mia prima aiuola fiorita avevo in mente la bella idea di Emerson, e il risultato non fu altrettanto bello. Avendo letto forse troppi scritti di Emerson e troppi libri di giardinaggio che sostengono i «giardini naturali» e mettono la parola infestante tra virgolette con un’aria di intesa (segno inequivocabile di raffinatezza ecologica), cercai di allestire un’aiuola che fosse il più «naturale» possibile. Escludendo qualsiasi tipo di geometria (troppo artificiale!), delimitai nel prato un’area dalla sagoma più o meno simile a un seme di fagiolo, asportai le zolle con l’erba e divisi il terreno nudo in parti irregolari che circoscrissi in modo approssimativo con un po’ di calce. Poi presi delle bustine di semi di piante annuali – fiordalisi, nasturzi, nicoziane, cosmee, papaveri (sia quelli della California sia la varietà Shirley), cleomi, zinnie e girasoli – e gettai una manciata di ciascuna in quelle aree irregolari, lasciando che i semi cadessero ovunque decidesse la natura. E niente file: la disposizione di quest’aiuola sarebbe stata naturale. Sparsi poi sui semi del terreno sciolto, innaffiai e attesi che germinassero. La prima pianta a germogliare fu l’amaranto, benché all’epoca fossi così ignorante da pensare che i protagonisti di quell’esordio tanto esuberante dovessero essere zinnie o girasoli. In precedenza non avevo mai incontrato l’amaranto (non cresceva in nessun altro luogo della proprietà), e così non capii che si trattava di un’infestante finché non mi accorsi che stava spuntando in ognuna delle suddivisioni irregolari della mia aiuola. In capo a una settimana, quest’ultima era interamente tappezzata di amaranti robusti e lanuginosi, ed era chiaro che, se volevo veder crescere le mie annuali, avrei dovuto cominciare a estirparli. Il fatto che non avessi creato file o camminamenti rese difficile l’operazione, ma riuscii comunque a diradare i vigorosi amaranti, così che le mie annuali, grate per l’intervento a loro favore, spuntarono finalmente dal terreno. Trovando il campo relativamente sgombro, cominciarono a crescere sul serio. Quella prima estate, il mio piccolo prato naturale di annuali prosperò, conformandosi abbastanza bene all’immagine che avevo in mente quando lo avevo seminato. Distese disordinate di fiordalisi color del cielo confluivano senza soluzione di continuità in dense chiazze di papaveri rossi e arancio, dietro alle quali si ergevano, come grandi torri, i girasoli. I nasturzi riversavano le loro foglie rotonde in bei monticelli bassi punteggiati di cremisi e giallo limone, mentre le cleomi descrivevano in alto, nell’aria, le loro intricate architetture. Ben presto liberare questo fitto intreccio dalle infestanti fu pressoché impossibile, ma dopo lo spavento preso con l’amaranto avevo adottato nei confronti degli ospiti non invitati una politica di relativo laissez-faire. Le infestanti che si trasferivano nell’aiuola erano quelle con cui ero disposto a tentare la convivenza: la balsamina (una sgargiante parente dei fiori di vetro, con i petali color arancio), Alopecurus, il trifoglio, la borsapastore, la poco appariscente Galinsoga, e la carota selvatica, il tipo di erba che Emerson doveva avere in mente, con i suoi fiori simili a ricami color avorio (non meno belli di qualunque fiore coltivato) e con radici commestibili simili a carote. Quel primo anno si insinuò nell’aiuola anche una bella rampicante, rifugiatasi lì dal prato circostante. Avanzò avvolgendosi sui gambi dei girasoli e in agosto dischiuse fiori bianchi a forma di tromba, che ricordavano il convolvolo. Che diritto avevo, io, di cacciar via questa delicata rampicante? Di decidere che i fiori piantati da me fossero più belli di quelli seminati dal vento? Mi piaceva l’aspetto spontaneo del mio giardino, il modo pacifico in cui le mie cultivar sembravano andare d’accordo con le loro parenti selvatiche. E mi piaceva il fatto di non essere nevrotico verso le «infestanti». Chiamatemi Ecology Boy. Quell’estate decisi che in effetti le «infestanti» avevano una reputazione ingiustamente negativa. Ripensavo al giardino di mio nonno, al suo approccio poco illuminato e totalitario nei confronti delle erbacce; ogni giorno perlustrava le sue ordinatissime file, decapitando il minimo sbaffo di verde con la sua zappa vigilante. Hippie, sindacati ed erbacce: all’epoca, queste tre cose lo mandavano tutte in bestia – alla fine degli anni Sessanta mio nonno era ormai un uomo anziano –, e tutte e tre scatenavano la sua furia reazionaria. E forse, poiché poteva fare pochissimo per fermare la marcia degli hippie e delle maestranze organizzate, si scagliò contro le infestanti in modo ancor più fanatico. Era uno di quei giardinieri che strappavano le erbacce ovunque: non solo dal suo terreno o da quello di altre persone, ma anche dai parcheggi e dalle fioriere davanti ai negozi. Il suo mondo, allora, era sotto assedio, e per lui le erbacce rappresentavano l’avanguardia delle forze del caos. Probabilmente, se fosse vissuto abbastanza per vederlo, il mio piccolo giardino selvatico – questo be-in vegetale senz’ordine, questo Haight Ashbury orticolturale – gli avrebbe spezzato il cuore. Mio nonno non fu la prima persona a percepire una minaccia sociale o politica nella crescita delle infestanti. Ogni qualvolta Shakespeare ci racconta che «il loglio, la cicuta e la rigogliosa gramigna» o «odiose bardane, cardi irsuti, erbacce e lappole» stanno crescendo incontrollati, possiamo presumere che una monarchia sia sul punto di cadere. Prima dei romantici, si riteneva generalmente che la gerarchia delle piante rispecchiasse quella della società umana. La gente comune, secondo un autore che scriveva nel 1700, può essere «considerata alla stregua delle ortiche o di volgari erbacce». J.C. Loudon, un esperto di giardinaggio del primo Ottocento, invitava i suoi lettori «a confrontare le piante con gli esseri umani, a considerare le specie aborigene come meri selvaggi, e le specie botaniche ... come creature civili». Anche oggi il mondo del giardino ordina le piante in un’unica grande gerarchia. Al vertice troviamo gli ibridi ipercivilizzati – pensiamo alla rosa, la «regina del giardino» – e alla base le erbacce, il proletariato del mondo vegetale, che si riproducono freneticamente e minacciano di usurpare lo status delle specie orticolturali più raffinate, loro superiori. Il punto esatto in cui ciascuna pianta si colloca, in questa verde catena dell’essere, ha molto a che fare con la moda; vi sono tuttavia alcune regole durature. In generale, quanto più intensivamente una pianta è stata ibridata – quanto più lontano è stata spinta dalle sue origini selvatiche –, tanto più elevato è il suo status nella società vegetale. Perciò un Delphinium può spadroneggiare su una Consolida, e una rosa bourbon dal grande fiore doppio su una rugosa a cinque petali. Corollario di questa regola è che quanto più una pianta ha un carattere da «infestante» – quanto più è facile da coltivare –, tanto più basso è il suo status: il phlox perenne, cui toccano tutti i funghi, ha uno status superiore rispetto all’indistruttibile coreopside. Anche il colore determina il rango, e al vertice c’è il bianco. Questo perché in natura il bianco puro è raro, e forse anche perché la capacità di apprezzare la finezza dei fiori bianchi è qualcosa che va acquisito. (I colori vistosi sono sempre stati associati ai tipi più rozzi: la gaillardia, un’appariscente cugina bicolore della margherita, veniva solitamente chiamata «fiore dei negri» [nigger flower]). Subito al di sotto del bianco c’è l’azzurro, un colore che ha sempre goduto di associazioni regali e aristocratiche; da lì, una scala discendente si snoda poi attraverso le tinte calde e vistose, passando per i gialli, fin troppo comuni, per i rossi, notati anche dai tori, fino al fondo vero e proprio: il color magenta, emarginato, rifiutato, respinto, imbarazzante, promiscuo; il pigmento a buon mercato, con cui la natura ha colorato migliaia di infestanti, nel mondo del giardino è sempre stato indice di dubbie origini e pessima educazione. La prole di specie ibride che sia lasciata andare in semenza spesso tornerà al color magenta, giacché i geni di bassa lega vi si riaffermeranno. I romantici dell’Ottocento, che avevano un atteggiamento più benevolo verso l’uomo comune, guardavano con benevolenza anche alle infestanti. Quando scrivevano, la campagna inglese era stata ormai dominata in modo così completo – ogni frazione di ettaro disboscata e suddivisa dalle siepi –, che l’idea di un paesaggio naturale acquisì un grande fascino, forse per la prima volta nella storia europea. (La nostalgia per la natura incontaminata affiora facilmente quando essa non costituisce più una minaccia). Ruskin scrisse con entusiasmo a proposito dei fiori selvatici, che non erano mai stati «spinti a uno splendore ostentato con immane impudenza a un’esposizione di fiori». Per Ruskin un giardino ornamentale era innaturale, «una cosa brutta, anche quando è ben fatto: è un’assemblea di esseri disgraziati, carezzati, gonfiati al di là della loro grandezza naturale ... corrotti da cattive comunicazioni, in colori chiazzati e inarmoniosi; strappati dal suolo che amavano e del quale erano lo spirito e la gloria, per trascorrere in un bagliore il loro tempo di vita tormentosa...». Se i fiori da giardino erano schiavi degli esseri umani, allora – almeno tra gli autori romantici che vivevano a una certa distanza dalla natura – le infestanti erano emblemi di libertà e spontaneità. «Meglio è per me la più umile delle erbacce» scriveva Tennyson nei primi anni Quaranta dell’Ottocento. La parola «erbaccia» divenne ben presto una comune sineddoche per riferirsi alla natura incontaminata, come in questa stanza di Gerard Manley Hopkins:

Cosa sarebbe il mondo, orbato delle acque, delle selve; oh, conservatele, conservate le selve, le acque, vivano sempre le erbe, le selve selvagge.

Com’era prevedibile, l’infatuazione per le erbacce fece presa facilmente sulla mente americana, sempre disposta a considerare le opere della natura superiori a quelle umane e a resistere alle gerarchie, ovunque possano trovarsi. Le erbacce offrirono a Emerson, Whitman, Thoreau e a intere generazioni di naturalisti americani una metafora assai cara per riferirsi alla natura spontanea e senza vincoli, alla bellezza del paesaggio non manipolato, e, naturalmente, se messe tra virgolette, per alludere alla pochezza di quei compatrioti incapaci di percepire la natura con il medesimo loro acume e la loro stessa empatia. (Per adesso, lasceremo in sospeso la questione dell’effettivo acume con cui questi autori percepivano le erbacce). La venerazione delle infestanti torna periodicamente a fiorire in America, come è accaduto di recente negli anni Sessanta. Weed divenne un nomignolo affettuoso per indicare la marijuana, e milioni di noi hanno consultato copie consunte del libro di Euell Gibbons, Stalking the Wild Asparagus: un improbabile best seller che, essenzialmente, proponeva le infestanti come base per una nouvelle cuisine americana. Ogni volta che la storia e la cultura sembrano boccheggiare, le erbacce cominciano ad apparirci buone.

La mia personale infatuazione per le erbacce non sopravvisse a una seconda estate. Le annuali, che l’anno precedente avevo lasciato andare in semenza, rispuntarono, dimostrandosi tuttavia rivali ben poco agguerrite per le infestanti, che tornarono molto più forti e numerose. Era come se durante l’inverno la notizia della gran pacchia (questo sempliciotto d’un giardiniere!) si fosse propagata nei dintorni, perché la popolazione delle erbacce si accrebbe rapidamente in numero e in varietà. Rendendomi conto che quello di cui mi stavo occupando era un giardino di infestanti, e poiché mi avevano insegnato che un giardiniere dovrebbe sempre conoscere il nome di ogni pianta affidata alle sue cure, consultai alcune guide e stilai un inventario della mia collezione. Oltre alle specie che ho già menzionato, avevo asclepiade, fitolacca, poligono, iperico, gramigna, digitaria, piantaggine, tarassaco, silene rigonfia, erigeron, linaria, fleolo, malva, ginestrino, chenopodio, stellaria, portulaca, romice, solidagine, acetosella, bardana, cardo campestre e ortica. Sono certo di essermene lasciato sfuggire un’altra decina buona, e di non averle identificate tutte correttamente, ma l’elenco darà comunque un’idea della varietà dei frutti prodotti dal mio romanticismo. Quello che era cominciato come un prato di fiori selvatici idealizzato adesso sembrava l’intrico di vegetazione che cresce sul ciglio delle strade e, se l’avessi lasciato a se stesso un altro anno, probabilmente sarebbe passato per un lotto di terreno vacante. Poiché il mio obiettivo estetico non era quello, cominciai a bonificare il mio giardino: quanto meno ad arrestare il processo allo stadio di «ciglio di strada di campagna» prima che degenerasse a quello di «binario di servizio abbandonato». Avrei affrontato la cosa in modo illuminato, però, graziando le infestanti che mi piacevano ed esiliando tutte le altre. Ero disposto a tollerare gli erigeron, che tenevano alte le loro piacevoli nuvole di minuscoli fiori simili a stelline, o le asclepiadi, con i semi contenuti in follicoli dall’aspetto interessante, ma erbacce arroganti come la bardana, i cardi campestri e le ortiche dovevano fare i bagagli. Purtroppo, le infestanti che mi piacevano meno si dimostrarono le più agguerrite e recalcitranti. Le bardane, con le loro brutte foglie gigantesche che fanno ombra a qualsiasi altra pianta nel raggio di metri, mantenevano la presa sulla terra in una morsa letale. Quando si cerca di strappare la loro chilometrica radice a fittone, ci si sente come un bambino che cerchi di battere un uomo a braccio di ferro. Immancabilmente la radice si spezza prima di cedere, con il risultato che nell’arco di qualche giorno ci si ritrova con due tostissime bardane dove prima ce n’era una soltanto. Tutto quel che riuscivo a fare era di aiutarle a riprodursi: più che uno sterminatore, nei loro confronti mi sembrava di essere una levatrice. La bella rampicante con i fiori simili al convolvolo si rivelò un altro mostro, un’idra dalle molte teste. La calistegia, così si chiama, si propaga come il kudzu e ben presto minacciò di coprire tutto il giardino. Senza sostegni può crescere soltanto fino a una trentina di centimetri d’altezza, e quindi cerca a tastoni come un cieco, muovendosi incerta prima da una parte poi dall’altra, finché non trova una pianta adatta da usare come appoggio e infine da soffocare. Anche in questo caso, i miei sforzi di eradicazione si dimostrarono controproducenti. La calistegia, con radici che possono raggiungere una profondità di tre metri, si riproduce per seme oppure per clonazione assistita dagli esseri umani. La sua radice, infatti, è fragile come un fagiolino fresco; se la si tocca con una zappa, si romperà in una decina di pezzi, ciascuno dei quali germoglierà dando origine a un’intera nuova pianta. È come se, nel suo caso, l’evoluzione avesse tenuto conto della zappa. Attaccandola alla radice – il metodo approvato per eradicare la maggior parte delle piante infestanti – non facevo che assecondare la sua insidiosa strategia per dominare il mondo. Ho accennato alle mie piante annuali? Alcune riuscirono a resistere coraggiosamente. I papaveri della California e le viole si dimostrarono capaci di trovare delle nicchie tra i cardi, e comparve anche un gruppo di nicoziane di seconda generazione; queste ultime, però, erano tornate al colore di qualche antenato con un’indole da infestante, perché invece di un rosa brillante adesso erano di un torbido verde pallido. Per la maggior parte, le mie annuali si consideravano fortunate a far da sottobosco alle erbacce trionfanti. Quali che fossero le nicchie rimaste vacanti, però, le graminacee sembravano inclini a cancellarle. La gramigna penetrava furtiva diffondendo in ogni angolo dell’aiuola i suoi intrepidi rizomi; questi possono percorrere lateralmente anche quindici metri, procedendo a una profondità di due-cinque centimetri e poi, ogni volta che se ne presenta l’opportunità, spingendo fuori dal terreno una foglia – o magari dieci. Uno estirpa un ciuffo di questi fili d’erba pensando di aver condannato una pianta isolata, solo per scoprire d’aver afferrato una fune che va a finire dritta nella contea vicina (dove senza dubbio è assicurata a una quercia con un nodo ben stretto). Che avrebbe detto, adesso, Emerson? Avevo concesso a tutte le mie infestanti il beneficio del dubbio, avevo riconosciuto le loro virtù e assegnato loro un posto. In altre parole, le avevo trattate come piante da giardino. Loro, però, non si comportavano come tali. Erano diverse dalle varietà coltivate non soltanto per una questione di stima umana. No, sembravano davvero appartenere a un diverso ordine dell’essere, più versatile, meglio attrezzato, più rapido e capace: semplicemente, più abile nell’essere una pianta. Quale varietà da giardino è in grado di germinare in trentasei minuti come può fare invece una salsola? Quale cultivar può produrre quattrocentomila semi da un singolo fiore, come il verbasco? O scroccare uno strappo da qualsiasi animale di passaggio, come la bardana? O percorrere una trentina di centimetri al giorno, come può fare il kudzu? («Se resti abbastanza fermo, e stai abbastanza attento,» dice la gente del Sud «per la miseria se non riesci a vederlo camminare!»). O ancora, come la calistegia, clonare nuove edizioni di se stessa in misura direttamente proporzionale ai nostri sforzi di sradicarla? La fallopia giapponese può penetrare senza difficoltà in una decina di centimetri di asfalto. Ogni estate le radici di un cardo campestre si avventurano di altri tre metri in ogni direzione. I semi di chenopodio rinvenuti in un sito archeologico germinarono dopo aver trascorso quiescenti mille e settecento anni, in paziente attesa che arrivasse il loro momento. Le radici di Striga emettono un veleno che uccide qualsiasi altra pianta nelle vicinanze. No, se l’ortica punge, non può essere solo per la mia mancanza di immaginazione.

E allora: che cos’è un’infestante? Ho consultato diverse guide e libri di botanica sperando di trovare una definizione pratica. Invece di una, però, ne ho trovate decine, benché quasi tutte riconducibili a due categorie principali. «Un’infestante è qualsiasi pianta si trovi nel luogo sbagliato» riassume abbastanza bene la prima categoria, mentre la seconda afferma, in sostanza, che «un’infestante è una pianta particolarmente aggressiva capace di sopraffare, nella competizione, le piante coltivate». Nella prima definizione, di ispirazione emersoniana, «infestante» è un costrutto umano; nella seconda, queste piante possiedono alcuni tratti innati che non siamo stati noi a imporre loro. Stavo cominciando a pensare che il problema metafisico, con le erbacce, non fosse diverso dal problema metafisico del male: si tratta di una proprietà intrinseca dell’universo, o è un’invenzione dell’umanità? Le infestanti, ne sono convinto, sono reali. Sono tuttavia disposto ad ammettere l’esistenza di una zona grigia abitata dalle erbacce di Emerson: piante alle quali abbiamo imposto il carattere di infestanti semplicemente perché non riusciamo a trovare in esse alcuna utilità o bellezza. In effetti, quelli che per uno possono essere fiori, per un altro saranno erbacce. La salcerella, che io avevo piantato nella mia bordura di perenni, è stata messa fuori legge come «infestante nociva» in diversi stati del Midwest, dove è sfuggita dai giardini e ora minaccia la flora delle zone umide. Allo stesso modo, alcune delle mie erbacce probabilmente avranno valore agli occhi di qualcun altro. Ogni giorno strappo dal mio orto tarassachi e portulache sufficienti a Euell Gibbons per preparare una gustosa insalata. Quelle che io chiamo erbacce, per lui sarebbero un pranzo. Non molto tempo fa, chiamai un operaio del luogo affinché mi facesse il preventivo per un lavoro di scavo. Era uno di quegli anziani venerandi che possiedono una conoscenza intima della geografia locale. Sulla mia terra ne sapeva più lui di me: sapeva quanti litri al minuto poteva pompare il mio pozzo, e quale fosse la fonte della sua acqua; che il mio terreno era alcalino, per via della cengia calcarea su cui è situato; e che i miei vecchi meli un tempo facevano il miglior sidro della città. Passeggiammo nella proprietà, cercando un punto adatto per un laghetto, e lui annuiva in segno d’approvazione osservando i cambiamenti che avevo apportato al paesaggio: il ripristino di un prato naturale che aveva ceduto ai rovi, la potatura dei vecchi meli, la modifica della pendenza della collina per allontanare dalla casa il ruscellamento primaverile. Ma c’era una cosa che avevo fatto e che sembrava irritarlo, e dopo un po’ sbottò. Avevo piantato un paio di salici piangenti ai margini di un piccolo acquitrino. Grandi come una cabina telefonica quando li avevo messi a dimora, due anni dopo avevano già le dimensioni di una casa. La proprietà ha pochi alberi da ombra – d’estate ha un’aria torrida – e avevo piantato i salici per creare, nel paesaggio, qualche punto fresco: questi alberi, infatti, sembrano quasi sottintendere l’acqua e amplificano anche la brezza più tenue. Il mio visitatore accennò con la testa nella loro direzione e ringhiò: «Perché diamine ha piantato quelle erbacce?». «Erbacce?! Di che sta parlando?». Per quanto mi riguardava, i salici erano poesia. «Quei maledetti alberi. Non servono a niente, sporcano, e se uno non li controlla prima o poi danneggiano le fondamenta con le radici. Se ne accorgerà». Da allora ho scoperto che molta gente di campagna considera i salici alla stregua di infestanti. Se hanno una buona fornitura di acqua, crescono in modo incontrollato e si sa di casi in cui le loro radici sono penetrate nel cemento danneggiandolo. D’altra parte, i miei alberi erano a cinquanta metri buoni dalla casa. La vera obiezione sembra essere questa: nel corso di una stagione vegetativa i salici perdono un mucchio di rami; agli occhi di un uomo consacrato a un impeccabile tappeto erboso, sono sporchi. Hanno anche il difetto di produrre un legno tenero, per via della loro crescita così rapida. Il mondo degli alberi, naturalmente, ha una gerarchia sua propria, e le piante a legno duro sono ai vertici. Il legno tenero e fresco come quello del salice non ha alcun valore commerciale, né come materiale da costruzione né come legna da ardere. Visto da una certa prospettiva, quindi, un salice piangente è un’erbaccia. Cresce troppo velocemente, insozza i prati, danneggia le case e non brucia molto meglio d’un gambo di sedano. Qui intorno, poi, cresce anche selvatico, un altro tratto che fa presumere una natura da infestante. I rapporti del mio esperto di scavi con i salici erano principalmente di natura economica: sapeva che proprio non c’è modo di vendere legna di salice, e aveva sentito abbastanza storie di crepe nel cemento. I miei rapporti personali con questi alberi erano invece in larga misura estetici, informati da un altro tipo di storia, che li collocava in una luce completamente diversa. Il salice piangente, avevo letto, non è un albero nativo, ma una specie da giardino importata nel Settecento. Si ritiene che il primo sia stato piantato in America non molto lontano da qui – a Stamford, nel Connecticut – nel giardino di Samuel Johnson: religioso, filosofo e primo presidente del Kings College (dopo l’indipendenza rinominato Columbia University). Johnson vide il suo primo salice piangente a Twickenham, nel famoso giardino sul Tamigi di Alexander Pope. Rimase così colpito dal vecchio albero che se ne tornò a casa, sullo Housatonic, con una talea. Evidentemente le rive di quel fiume si dimostrarono ospitali come quelle del Tamigi, perché il salice ben presto sfuggì dal giardino e si propagò verso nord. Oggi grandi salici dal portamento cadente – imponenti fontane verdi – costeggiano lo Housatonic da Stamford alle Berkshire Hills; le origini di ognuno di essi, presumibilmente, sono riconducibili al grande giardino di Pope. Sapendo questo, ogni volta che vedo un salice piangente sono più incline a pensare a Twickenham e al Tamigi, piuttosto che a un’«erbaccia» che danneggia il cemento.

Queste storie sui salici piangenti sembrerebbero sostenere la tesi di Emerson, e cioè che il carattere da infestante di una pianta stia nell’occhio di chi guarda, e che sia tutta questione di percezione. In genere io mi sento perfettamente a mio agio con questo tipo di pensiero relativista, ma in questo caso l’esperienza mi suggerisce che è superficiale. E non si tratta solo dell’esperienza mia: quando piantò il suo campo di fagioli a Walden, anche Henry David Thoreau, discepolo di Emerson, ebbe qualche difficoltà con la teoria del suo maestro a proposito di erbacce. In quanto osservatore e naturalista, Thoreau rifiuta costantemente di compiere «ingiuste distinzioni» tra diversi ordini della natura; nemico giurato della gerarchia, si vanta d’amare le paludi più dei giardini. Ma non appena decide di far sì che «la terra dica “fagioli” invece che “erba”» scopre di essersi fatto dei nemici in natura: i vermi, il freddo, le marmotte e le erbacce. Secondo Thoreau, il suo campo di fagioli lo «lega alla terra», dandogli posizioni che dovrà difendere se spera che l’esperimento di autosufficienza si dimostri un successo. E così è costretto a sferrare una lunga e decisamente insolita «guerra ... non contro le gru ma contro le erbacce, contro quei troiani che avevano sole e pioggia e rugiada dalla loro parte. Giorno dopo giorno, i fagioli mi vedevano venire in loro aiuto, armato di zappa, ad assottigliare le file dei loro nemici e a riempire le trincee di morti erbacei». E così si ritrova a fare «con la zappa [ingiuste] distinzioni, estirpando interi plotoni di una specie, e assiduamente coltivandone un’altra». Qui, naturalmente, Thoreau sta facendo del giardinaggio, e questo lo costringe almeno per un momento a disfarsi del suo romanticismo sulla natura – a liberarsi di quello che oggi i naturalisti salutano come il suo «biocentrismo» ante litteram (contrapposto all’antropocentrismo). Ma alla fine del capitolo, quando il suo campo l’ha spuntata, Thoreau torna stancamente – senza troppo entusiasmo, mi sembra – nella congregazione emersoniana: «il sole guarda senza distinzione sia sui nostri campi coltivati che sulle praterie e le foreste ... [Questi fagioli] non crescono forse anche per le marmotte? ... Allora come potrebbe essere scarso il nostro raccolto? Non dovrò gioire anche dell’abbondanza di erbacce le cui sementi sono il granaio degli uccelli?». Ma certo, Henry, gioisci. E digiuna.

Le mie personali esperienze in giardino e nell’orto mi hanno convinto che esiste effettivamente una «inconfutabile natura infestante», che le erbacce rappresentano un differente ordine dell’essere, e che se i fagioli di Thoreau non riuscivano a tener testa alle infestanti non significa che queste ultime avessero un maggior diritto a reclamare la terra, come sembrava pensare lui. Trovai conferma di questo mio sospetto nelle guide e nei manuali di botanica che consultai mentre cercavo di identificare le mie erbacce. Nel setacciare questi volumi a caccia dei noms de bloom delle mie saccheggiatrici, presi nota dell’habitat preferito da ciascuna specie. Ecco alcuni dei più tipici: «luoghi desolati e il ciglio delle strade»; «siti aperti»; «vecchi campi, luoghi desolati»; «terreni coltivati e abbandonati»; «vecchi campi, cigli di strade, prati, giardini»; «prati, giardini, siti disturbati». Questo elenco suggerisce che le erbacce non sono superpiante: non crescono ovunque, il che spiega perché, con tutto il loro vigore, non abbiano coperto interamente il pianeta. Come mostrano le guide, le erbacce sono adattate in modo particolare ai luoghi creati dagli esseri umani. Non crescono nelle foreste o nelle praterie – allo «stato selvatico». Le erbacce prosperano nei giardini, nei prati, coltivati e non, nei terreni vacanti, in mezzo ai binari di servizio, vicinissime ai cassonetti della spazzatura e nelle crepe dei marciapiedi. In altre parole, crescono dove viviamo noi, e praticamente in nessun altro luogo. A dispetto di quello che i romantici davano per scontato, le erbacce non sono selvatiche: sono un prodotto della coltivazione, non meno della rosa tea ibrida o dei fagioli di Thoreau. Se la cavano meglio delle nostre piante per la semplice ragione che sono adattate meglio alla vita in un orto o in un giardino. Perché là dove le nostre piante sono state selezionate per una varietà di tratti (sapore, contenuto di nutrienti, dimensioni, valore estetico), le erbacce sono evolute invece con un unico fine: sviluppare la capacità di prosperare in terreni disturbati dagli esseri umani. E in questo sono veramente bravissime. Le infestanti rappresentano l’avanguardia dell’evoluzione; senza dubbio, in questo stesso istante, stanno evolvendo nel mio giardino e nel mio orto, mentre la loro prole – miliardi di individui – si autoseleziona mettendo a punto nuove tattiche per battere i miei sforzi e trarre vantaggio da qualsiasi apertura si crei sulla mia terra. Le erbacce sono gli opportunisti, i cinici e i truffatori della natura. Pressoché ogni pianta coltivata ha la sua infestante- impostore, una sorta di Doppelgänger botanico evoluto per imitare l’aspetto e la velocità di crescita della pianta coltivata, assicurandosi così la sopravvivenza. Alcuni di questi impostori, per esempio le varie specie di avena selvatica, sono talmente versatili che possono alterare il proprio aspetto a seconda dalla pianta coltivata che stanno imitando, come un’insidiosa quinta colonna agricola. Secondo My Weeds, il libro di botanica di Sara B. Stein, le specie di avena selvatica che crescono in un campo seminato a file alterne di primaverile e invernale mimeranno, a seconda della fila, le abitudini dell’una o dell’altra varietà coltivata. Stein, il cui libro è una miniera di informazioni sulle infestanti, racconta anche di un’imitatrice del riso diventata talmente problematica da indurre i ricercatori a piantare una varietà di riso violacea, così da discriminare una volta per tutte le erbacce. Nell’arco di qualche anno, era diventato violaceo anche il riso infestante. Eppure, per quanto possano essere piene di risorse e aggressive, le erbacce non possono sopravvivere senza di noi più di quanto sappiano farlo le piante dell’orto e del giardino. Senza esseri umani che creino terre coltivate, manti erbosi ben curati e terreni vacanti, ben presto la maggior parte delle erbacce svanirebbe. La calistegia che nel campo e nell’orto sembra così formidabile, non può crescere altrove: vive grazie all’aratro, proprio come noi. Apprendere tutto questo fu in qualche modo liberatorio. Le erbacce non erano più naturali delle mie piante coltivate, non potevano accampare più diritti di loro sullo spazio per il quale stavano competendo. Quelle ipocrite virgolette con cui i naturalisti si compiacciono di vezzeggiare le infestanti erano un mero costrutto. Le mie battaglie con le erbacce non tradivano un’alienazione dalla natura, né un qualche irresponsabile impulso a dominarla. Se Thoreau l’avesse saputo, forse non si sarebbe dato tanta pena a chiedersi «che diritto avevo di soppiantare l’iperico e il resto, e di rompere il loro antico giardino di erbe aromatiche?». Per Thoreau artemisia, amaranto, acetosella e iperico erano parte della natura, mentre i suoi fagioli appartenevano alla civiltà. Come molti di noi, contemplava il paesaggio americano alla ricerca di una via che lo portasse fuori dalla storia e dentro la natura, e questo lo induceva a dare più valore alle piante che crescevano «spontaneamente» e meno a quelle piantate dall’uomo. La storia, però, si dimostra ineludibile: e questo vale perfino a Walden, dove gran parte della flora è storica, come lo erano i fagioli di Thoreau, i suoi libri e perfino il campo di battaglia messicano cui contrapponeva il suo campo di fagioli. Se avesse portato con sé a Walden una guida al giardinaggio, probabilmente Thoreau avrebbe notato come la maggior parte delle erbacce che spuntavano nel suo terreno fossero specie aliene portate in America dai coloni. L’iperico, ben lungi dall’essere un antico residente di Walden, fu introdotto in America nel 1696 da una banda di fanatici rosacroce, convinti che avesse il potere di esorcizzare gli spiriti maligni. Vogliamo preferire questo, ai fagioli? È difficile immaginare il paesaggio americano senza iperico, margherite, tarassachi, gramigna, fleoli, trifoglio, amaranto, chenopodi, ranuncoli, verbasco, carote selvatiche, piantaggini o achillee; prima che approdassero i puritani, però, qui non cresceva nessuna di queste specie. In realtà, l’America aveva poche infestanti indigene, per la semplice ragione che il terreno disturbato dagli esseri umani era ben poco. Gli indiani esercitavano un impatto così leggero sulla terra che crearono pochi habitat in cui le infestanti potessero attecchire. Niente aratro, niente calistegia. Ma già nel 1663, compilando un elenco «di tali piante che sono spuntate da quando gli Inglesi seminarono la terra e allevarono il bestiame nella Nuova Inghilterra», John Josselyn rinvenne, fra le altre, gramigna, tarassachi, grespini, borsapastore, specie del genere Senecio, romici, verbasco, piantaggine e stellarie. Alcune di queste infestanti furono importate deliberatamente; i coloni apprezzavano il tarassaco come verdura da insalata e usavano i semi di piantaggine per fare il pane. I semi di altre infestanti, però, arrivarono accidentalmente – nel foraggio, nella terra usata per zavorrare le navi, e perfino nei risvolti di calzoni e nelle fessure delle suole degli stivali. Una volta qui, le infestanti si propagarono come un fuoco fuori controllo. Secondo Alfred W. Crosby, lo storico dell’ambiente, gli indiani consideravano gli inglesi come re Mida botanici, in grado di modificare la flora con un tocco; chiamavano la piantaggine «piede dell’inglese» perché sembrava spuntare ovunque passasse l’uomo bianco. (Secondo Hiawatha la propagazione di quella pianta faceva presagire la condanna della natura incontaminata). Benché moltissime infestanti viaggiassero insieme all’uomo bianco, alcune – come il tarassaco – irruppero a ovest per proprio conto (o forse con l’aiuto degli indiani, i quali ne scoprirono rapidamente le virtù), giungendovi ben prima dei pionieri. Pertanto, il presunto paesaggio vergine sul quale posarono lo sguardo i coloni diretti a ovest era stato già segnato dalla loro civiltà. Comunque sia, quegli stessi pionieri non posarono lo sguardo sulla salsola (Salsola tragus), familiare emblema dell’indomito paesaggio del West. Essa infatti non arrivò in America prima degli anni Settanta dell’Ottocento, quando un gruppo di immigrati russi si insediò a Bonhomme County, nel Sud Dakota, con l’intenzione di coltivarvi del lino. Mescolati alle sementi di lino vi erano alcuni semi di un’infestante ben nota nelle steppe dell’Ucraina: la salsola, appunto. Qui da noi, le erbacce europee crebbero bene, modificando nel giro di qualche anno il volto del paesaggio americano, e contribuendo a creare quella che oggi noi consideriamo essere la «natura» del nostro paese da sempre. Perché queste specie hanno avuto tanto successo? Probabilmente perché gli europei che le portarono qui si affannarono a rendere la terra sicura per loro, abbattendo le foreste, arando i campi, bruciando le praterie e allevando animali da pascolo. E proprio come gli europei contribuirono a spianare la strada alle erbacce, queste ultime contribuirono a spianare la strada agli europei. Questo vale soprattutto nel caso delle graminacee. Le specie native si dimostrarono un foraggio scadente per il bestiame europeo, che in America ebbe inizialmente qualche difficoltà. I coloni però notarono che dopo qualche anno le graminacee – e di conseguenza la salute del bestiame – sembravano migliorare. Quel che era accaduto, secondo Crosby, è che il bestiame del Vecchio Mondo aveva pascolato eccessivamente sulle graminacee native. Queste ultime, che non erano abituate a una pressione così forte, avevano difficoltà a rigenerarsi; rimasero quindi vulnerabili all’aggressione da parte delle graminacee infestanti europee, le quali, essendo invece coevolute con capre, pecore e bovini, erano meglio equipaggiate per resistere alla pressione esercitata dal pascolo di questi animali. Ben presto le graminacee europee conquistarono i prati selvatici americani, fornendo così ancora una volta al bestiame importato dal Vecchio Mondo il suo foraggio preferito. Oggi la maggior parte delle graminacee native è scomparsa. Lavorando di concerto, le infestanti e gli esseri umani di provenienza europea si dimostrarono formidabili imperialisti ecologici, escludendo rapidamente le specie native e alterando la terra in modo da adattarla alle proprie esigenze. Le nuove specie vegetali prosperarono perché erano perfette cosmopolite, opportuniste superbamente adattate ai viaggi e ai cambiamenti. In un certo senso, le specie protagoniste dell’invasione erano più simili agli europei che non alle piante locali, le quali, incalzate, batterono in ritirata. O forse questa affermazione andrebbe riformulata, ribaltandola: «Se circoscriviamo il concetto di infestante alle specie che si sono adattate all’opera di disturbo degli esseri umani,» scrive Jack R. Harland in Crops and Man «allora per definizione l’uomo è la prima e la principale specie infestante, sotto la cui influenza sono evolute tutte le altre». Le erbacce non sono l’Altro. Siamo noi.

A Manhattan, un pedone che sosti all’angolo tra Houston Street e LaGuardia Place potrebbe pensare che qui la natura abbia reclamato un piccolo angolo del reticolo cittadino. Dieci anni fa, un artista ambientale persuase l’amministrazione cittadina a consentirgli di creare in questo sito il suo Time landscape, per mostrare agli abitanti di New York quale fosse l’aspetto di Manhattan prima dell’arrivo dell’uomo bianco. Su un piccolo rilievo piantò querce, hickories, aceri, ginepri e sassofrassi, e queste piante sono cresciute formando un intrico quasi impenetrabile che le barre d’acciaio di una recinzione ormai abbellita da un fitto ricamo di rampicanti proteggono dai newyorkesi. È esattamente il tipo di «giardino» che Emerson e Thoreau avrebbero approvato – per la semplice ragione che non è un giardino. Perlomeno, l’idea è questa. Molte mattine, andando al lavoro, cammino fiancheggiando questo anti-giardino, che per una ragione o per l’altra mi ha sempre irritato. Confina con un orto di comunità pieno di vita, dove ogni sera d’estate un gruppo di vicini si ritrova a coltivare piccoli appezzamenti a fiori e ortaggi. Accanto a questa dimostrazione di intraprendenza, Time landscape, incolto, costituisce un contrasto interessante. La giustapposizione, però, mi ha sempre colpito come una cosa scontata, un po’ troppo ipocrita, e un giorno della scorsa estate, mentre camminavo, ho capito perché. Con il pensiero fisso alle erbacce che proprio in quel periodo stavano cantando vittoria sul mio terreno, riconobbi – grazie alle guide che stavo consultando – una delle rampicanti avvolta intorno alla recinzione. Era la morella: una specie – ricordai non senza una struggente, virtuosa fitta al cuore – che non è indigena: arrivò in America con l’uomo bianco. Ah! In realtà, quel compiaciuto angolino di natura incontaminata, in fondo, era un giardino. A meno che qualcuno non lo liberi dalle infestanti con mano diligente ed esperta, sarà rapidamente sopraffatto dalle specie aliene. Questo Time landscape corre il costante pericolo di degenerare in un assai ordinario lotto vacante; solo un giardiniere, armato di zappa e di una serie di «ingiuste distinzioni», può salvarlo. In passato, ovviamente, non sarebbe stato così; ma era molto tempo fa. Ormai abbiamo apportato alla terra una tal quantità di cambiamenti, che una qualche forma di giardinaggio è diventata inevitabile, anche nei luoghi che vogliamo preservare quali monumenti alla nostra assenza. Questa, mi sembra, è una delle lezioni impartiteci dai grandi incendi scoppiati a Yellowstone nel 1988. A un certo punto, nella storia, il non far nulla non è necessariamente una condotta innocua. A partire dal 1972, la gestione del parco di Yellowstone ha seguito una politica denominata «natural burn», la quale prevede che i roghi spontanei siano fatti divampare liberamente, mentre prima di quella data qualsiasi incendio veniva immediatamente estinto. Tutti quegli anni di guerra al fuoco avevano lasciato sul suolo della foresta una gran quantità di legno facilmente infiammabile; forse è per questo che alla fine, durante la siccità del 1988, gli incendi si dimostrarono così catastrofici. Poiché l’ecosistema di Yellowstone era già stato alterato dalla precedente politica di estinzione, il nuovo approccio non poteva – in alcun senso – essere «naturale»: né lo erano gli incendi che alimentò. Non c’è modo di tornare indietro. Perfino Yellowstone, la più grande area «incontaminata» del nostro paese, ha bisogno di un’attenta gestione: è troppo tardi per limitarsi a «lasciarlo stare». Non ho alcuna idea di quale possa essere, per Yellowstone, la migliore politica in tema di incendi; so tuttavia che uomini e donne armati di conoscenze scientifiche, e operanti tramite istituzioni umane, dovranno sceglierne una e attuarla. Nel farlo, dovranno scontrarsi con questo dato di fatto: molto prima che Yellowstone fosse dichiarato «area incontaminata», gli indiani vi appiccavano incendi; erano forse «naturali»? Se l’obiettivo è quello di riportare Yellowstone alla sua condizione precolombiana, la politica di costoro potrebbe benissimo dover includere l’innesco di incendi. Occorrerà anche stabilire quanti turisti Yellowstone possa sostenere; se i lupi debbano esservi reintrodotti per impedire esplosioni demografiche delle popolazioni di cervi wapiti; e tutta una serie di altre questioni complicate. Oggi perfino Yellowstone deve essere accudito come un giardino. A distanza di un secolo da quando Thoreau scriveva «dalla Natura Selvaggia dipende la sopravvivenza del mondo», Wendell Berry, poeta e agricoltore del Kentucky, aggiunse un corollario che non avrebbe avuto alcun senso per Thoreau, e che tuttavia è necessario. Berry scrisse che «dalla cultura umana dipende la sopravvivenza della natura selvaggia». Credo intendesse dire che adesso è troppo tardi per non fare nulla. Solo la saggezza e la padronanza di sé da parte degli esseri umani possono salvare luoghi come Yellowstone. Thoreau, e i suoi numerosi eredi tra i naturalisti e gli ambientalisti radicali contemporanei, danno per scontato che la cultura umana sia il problema, e non la soluzione. Ci esortano quindi a liberarci del nostro antropocentrismo e a imparare a vivere da eguali tra le altre specie. Questa sembra una bella idea ecologica, fintanto che non ci si rende conto che se cominciassimo a comportarci come gli animali, più di quanto già facciamo, la Terra starebbe molto peggio. Per la maggior parte delle specie, la strategia di sopravvivenza consiste nell’estendere il proprio dominio il più lontano e il più brutalmente possibile, fino a quando non si imbattono in un qualche limite naturale, ugualmente brutale, che frena la loro avanzata. Non è esattamente ciò che abbiamo sempre fatto anche noi? A distinguerci dalle altre specie è la cultura; e che cosa è la cultura se non padronanza di sé? Coscienza, scelte etiche, memoria, discernimento: sono queste facoltà, molto umane e decisamente non ecologiche, a rappresentare per il pianeta, al tempo stesso, la migliore prospettiva e l’ultima speranza. È vero che, storicamente, ci siamo concentrati nell’esercitare queste facoltà più nel dominio umano che in quello naturale, ma questo non significa che esse non possano essere esercitate anche lì. In effetti, è proprio questo il lavoro che occorre fare adesso: portare più cultura – e non meno – nel nostro modo di interagire con la natura. Se sembra che mi sia discostato, divagando, dal tema delle erbacce, consideriamo che cosa significa estirparle: un processo mediante il quale compiamo scelte informate in natura, discriminiamo tra bene e male, applichiamo la nostra intelligenza e la nostra fatica alla terra. Estirpare le erbacce significa portare la cultura nella natura – ed è per questo che, quando stiamo liberando un terreno dalle infestanti, diciamo che lo stiamo coltivando. In questo senso, estirpare le erbacce non è una seccatura derivante dal giardinaggio, è la sua stessa essenza. E a un certo punto, in modo simile al giardinaggio, diventa un obbligo. Come ho imparato nella mia aiuola, la mera negligenza non ci restituisce la «natura». In questo, il mio giardino non è molto diverso dal resto del mondo. Non possiamo viverci senza alterare la natura in modo irreversibile; e avendola alterata dobbiamo occuparci delle conseguenze dei cambiamenti che abbiamo messo in moto: in altre parole, ci corre l’obbligo di estirpare le erbacce. È questo genere di intervento che salverà luoghi come Yellowstone, ma solo se ammetteremo che quando estirpiamo le erbacce non stiamo semplicemente facendo qualcosa alla terra: solo se ammetteremo il bisogno di coltivare anche la nostra natura. Perché se è vero che possiamo essere i giardinieri della Terra, è vero anche che siamo le sue erbacce. E non andremo da nessuna parte se prima non verremo a patti con questa fondamentale ambiguità del nostro ruolo: e cioè che noi siamo al tempo stesso il problema e la sua unica soluzione possibile.

Alla fine ho capito che il mio giardino naturale soffocato dalle infestanti era una cosa da irresponsabili. Le piante sul mio terreno avevano legato la propria sorte alla mia, e io non le avevo protette dalle erbacce. Così buttai all’aria la mia aiuola e ricominciai daccapo. Questa volta tracciai nell’erba un rettangolo perfetto, e piantai i semi dei miei fiori in file scrupolose, distanti l’una dall’altra quarantacinque centimetri e diritte come fossero state tracciate con il filo a piombo. Quando spuntarono le piantine, lavorai assiduamente tra le file, usando la zappa olandese che mi aveva regalato mio nonno. Non stetti a preoccuparmi troppo dell’epistemologia: considerai erbaccia qualsiasi cosa spuntasse tra le file, e la eliminai. Avevo cominciato a usare le file come un comodo espediente, giacché facilitano il lavoro; poi però ho finito per apprezzare il loro aspetto. Ormai, credo che a darmi fastidio siano i sentimentalismi romantici sulla natura, più che qualche artificio in giardino. La geometria è il linguaggio dell’uomo, disse una volta Le Corbusier, ed io sono felice di avere un giardino che parla quella lingua. Ormai ne so abbastanza per non pensare che un giardino meno curato sia più naturale; anche le erbacce sono parole nostre. Per come la vedo io, il giorno che ho deciso di disturbare il suolo, mi sono accollato l’obbligo di tenerlo libero dalle infestanti. Questo terreno infatti non è vergine e non lo è più da secoli. Brulica di centinaia di migliaia di semi di infestanti per le quali il colpo della mia vanga rappresenta l’opportunità che bussa alla porta. Questi semi non sono «natura» in senso stretto; in realtà sono i discendenti di giardinieri venuti prima di me. Lasciare che si sviluppino, non fare nulla, è come lasciare che a seminare il mio giardino siano quei giardinieri: lasciare che tutti quei superstiziosi rosacroce, quei puritani e quegli immigrati russi abbiano mano libera sul mio terreno. In altre parole, non far nulla non sarebbe vantaggioso né per me, né per le mie piante, né per la natura. Perciò faccio guerra alle erbacce. VII IL POLLICE VERDE

Il pollice verde: si presume che io ce l’abbia, o perlomeno questo è ciò che pensano, tra i miei amici, quelli che fanno giardinaggio con risultati meno buoni dei miei. Con il pollice verde, di solito, è così: nessuno pensa davvero di averlo, ma quando si trova qualcuno che a luglio raccoglie dei cuore di bue d’un bel rosso ed enormi, qualcuno i cui Delphinium svettano alti come grattacieli color pervinca su quella prospera città che è la loro bordura di perenni, comprensibilmente il termine esce di bocca. Il che ha un senso: i propri fallimenti sembrano più sopportabili se l’altro giardiniere ha un dono ricevuto dal cielo. Benché io sia ragionevolmente sicuro che qualcosa del genere esista, non ho intenzione di mettermi nel novero degli eletti e dei favoriti. Non so, sarebbe un po’ presuntuoso. Forse perfino azzardato: come se in realtà stessi andando a cercarmela (che ne direbbe, Signor Pollice Verde, di una gelata improvvisa ad agosto? O di una bella infestazione da afidi?). Credo di essere un po’ come il calvinista che – a proposito della grazia – non osa dare nulla per scontato sul proprio status. E anche se sa che probabilmente è tutto già stabilito, che o l’ha o non l’ha, continuerà comunque a lavorarci sopra, prendendo ogni precauzione tanto per andare sul sicuro. Senza contare che ormai mi sento in obbligo, come minimo, di cercare di essere all’altezza della mia reputazione di presunto (lasciamoglielo dire!) pollice verde. E così mi arrabatto con i trapianti, tengo sotto stretto controllo il terreno, sfoglio opere di consultazione – come se in giardino una condotta virtuosa potesse essere scambiata con uno stato di grazia. Tutte cose che rendono i miei numerosi fallimenti molto più duri da sopportare. Prendiamo le mie carote. Le seminavo ogni anno a primavera, e d’estate estraevo sempre dal terreno una tristissima collezione di dita artritiche e contorte: tutte nocche, nessuna più lunga di cinque centimetri. Avrei anche potuto imparare ad accettare questa lacuna nel mio repertorio di orticoltore, se non fosse che in genere le carote sono considerate uno degli ortaggi più semplici da coltivare: vengono su facilmente dal seme, pochi organismi nocivi le apprezzano, e le gelate non le disturbano. Quando si acquista uno di quei kit «il primo orto del bambino» si può star certi che conterrà una bustina di semi di carote: non solo perché hanno un ruolo di primo piano nell’immaginario infantile (basti pensare a Bugs Bunny e Captain Kangaroo), ma perché sono considerate, più o meno, «a prova di imbranati». Che razza di pollice verde potevo mai avere se non riuscivo a far crescere una carota? Quel fallimento era francamente imbarazzante, una crisi che scuoteva la mia fede nel giardinaggio. Decisi così di sistemare la faccenda, di conoscere le carote. Riflettei su di esse a lungo e intensamente. Cercai perfino di pensare che cosa potessero pensare loro: di immaginare che cosa non gradissero della loro condizione. Avevano un ciuffo di foglie verde e rigoglioso, quindi le loro rimostranze non dovevano riguardare il nutrimento o l’acqua. Era forse la compagnia? Ci fu un anno in cui avevano occupato un pezzetto di terra accanto alle cipolle, vicine problematiche per qualsiasi pianta (nella società vegetale, le cipolle sono controverse come nella nostra; sono molte le specie che se ne tengono alla larga). Così, l’anno dopo, ricollocai le carote accanto a una fila di lattughe, che al confronto erano tipi amichevoli, senza osservare però alcun miglioramento. Che cosa è importante per una carota? Non è una domanda stupida come sembra. Attribuire alle piante simpatie e antipatie, chiedersi se non proprio come si «sentano» almeno che cosa importi loro, di che cosa abbiano bisogno per compiere il loro destino, è qualcosa di più di una fantasia antropomorfa. Per la maggior parte, i bravi giardinieri di mia conoscenza sembrano avere una facoltà, affine all’empatia, grazie alla quale percepiscono in qualsiasi momento di che cosa possano aver bisogno le loro piante. «Bisogna capire la cosa che si vuole far crescere,» ha scritto Russell Page in L’educazione di un giardiniere «e capirla nel vero senso della parola. “Avere il pollice verde” non è un semplice modo di dire, è un fatto che rimane incomprensibile solo a chi è inesperto. Per avere “il pollice verde”, tuttavia, è necessario avere anche un “cuore verde”». Non credo che qui Page stia semplicemente facendo il sentimentale; sta parlando della necessità, nel giardinaggio, di un salto di immaginazione – nel mio caso, nella natura più intima della carota. Proprio questo tentavo di fare. Riflettei: Che cosa importerà, più di tutto il resto, a una carota che sta lottando per diventare più grande di un mignolo? Mi venne in mente: spazio intorno a sé. Immaginai una sezione trasversale dei primi centimetri del mio terreno, ed era un po’ come un treno del metrò all’ora di punta, affollato di pendolari arancioni tutti schiacciati uno addosso all’altro. Le mie carote erano troppo vicine; non ero stato abbastanza spietato al momento di diradare le piantine. (Questa sembra una debolezza comune fra i giardinieri con poca esperienza: uccidere quello che si è appena seminato sembra uno spreco, addirittura una crudeltà; d’altra parte un’operazione di triage è essenziale nel caso delle piante coltivate per la radice). E immaginai anche qualcos’altro: e cioè che una carota desiderosa di spingere il proprio fittone nelle profondità del terreno vorrà un suolo ben aerato, senza zolle dure o sassi che ostacolino il suo slancio. Avevo offerto questa libertà di movimento alle radici delle mie carote? Scoprirlo fu semplice. Spinsi il mio dito indice nel terreno e a malapena raggiunsi la seconda nocca prima di scontrarmi con un’argilla umida e compatta. Il mio terreno era troppo pesante per le carote. Il successo, dicono, sta nell’essere nel posto giusto al momento giusto. Forse più di quanto avvenga nella vita, nell’orto è spesso possibile alterare il luogo (e in effetti, a volte, anche il momento). Mi accinsi a offrire alle mie carote un ambiente più propizio alleggerendo il terreno in cui crescevano. In primavera, non appena fu possibile lavorarlo, ci buttai un sacco di sabbia per edilizia, una balla di sfagno e tutto il compost che ero riuscito a mettere da parte. In genere, le carote non giustificano un investimento di compost così ingente, ma non c’è nulla che funzioni meglio per alleggerire un terreno argilloso, e la posta in gioco era alta. Mescolai tutto insieme a mano, facendo attenzione, mentre procedevo, a rimuovere sassi e a frantumare i blocchi di argilla. Bastò lavorarlo qualche minuto perché il suolo, in precedenza compatto come una caramella mou, assumesse la consistenza di una torta. Provai di nuovo a infilarci dentro un dito, e questa volta affondò senza nessuno sforzo a una profondità pari alla lunghezza di un sigaro. Ecco l’utopia delle carote. Dopo aver livellato e pareggiato l’area con un rastrello, seminai due file di carote Mokum, una varietà francese a quanto dicono carnosa ed extradolce. In capo a una settimana, dal terreno emerse una striscia piumosa di piantine che diradai scrupolosamente, distanziandole di due centimetri abbondanti; un mese dopo, la diradai ancora per avere l’assoluta certezza che le mie carote non dovessero mai sgomitare. Adesso ciascuna aveva il suo spazio, e ad agosto estrassi dal terreno dei lunghi panetelas color arancio: tra le carote più belle – non ho alcuno scrupolo a dichiararlo – che avessi mai visto. Nell’orto, la raccolta delle radici dev’essere uno dei piaceri più sottili offerti dal giardinaggio. Intanto c’è l’elemento sorpresa (fino a quel momento, ciò che sta accadendo là sotto può solo esser dedotto dal fogliame); e poi, ancor più bello, il piccolo miracolo di trovare forma, colore e valore in mezzo alla massa nera e indifferenziata della terra. È una prospezione aurifera su piccola scala, e queste carote rappresentavano una gran bella scoperta; me ne pulii una sulla camicia, lucidandola per bene, e poi gustai la sua dolcezza fresca e sotterranea, la sua... intima natura di carota così inaspettatamente intensa. Forse, pensai fra me, forse avevo effettivamente il pollice verde.

Naturalmente, un vero pollice verde avrebbe fatto tutto quello che avevo fatto io senza doverci stare tanto a pensare. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare. In fondo, l’esecuzione fluida e senza sforzo di un concertista comincia con un ragazzino che strimpella motivetti al piano, giusto? Non è che le sue dita abbiano sempre saputo come fare. Lo stesso vale per andare in bicicletta o per l’abilità di cogliere l’intima essenza delle carote. È solo dopo, molto dopo, che tutto questo diventa una seconda natura. Adesso l’ho capito – in effetti non riesco più a immaginare di non capirlo – e probabilmente d’ora in poi coltiverò carote bellissime senza un attimo di riflessione: una cosa non più impegnativa del saper andare in bicicletta. Può darsi perciò che il pollice verde sia proprio questo, una forma particolare di memoria: un compendio di piccole storie, distillate fino al punto in cui il giardiniere può attingere i loro insegnamenti senza nemmeno pensarci – per lui, la morale di queste storie (la maggior parte riguardanti le sue esperienze in prima persona, ma alcune riferite anche da altri) è sempre a portata di mano. Come la cronaca delle mie carote, moltissime di queste narrazioni saranno racconti di fallimenti superati; tutti i giardinieri esperti di mia conoscenza sono sorprendentemente a proprio agio con il fallimento. Magari non ne sono felici, ma invece di reagire con rabbia o frustrazione, sembrano nutrire un rinnovato interesse per la peonia che, data per scontata ormai da anni, all’improvviso rifiuta di fiorire. Sanno bene che, almeno in giardino, la voce del fallimento è più alta e chiara di quella del successo. Con questo non voglio dire che il giardiniere incontri più fallimenti che successi (benché in alcune annate sarà proprio così), ma solo che i fallimenti hanno da insegnargli di più: sul suolo, sulla meteorologia, sulle preferenze dei parassiti locali, sul carattere della sua terra. Il giardiniere non impara nulla quando le sue carote prosperano, a meno che quel successo non sia conquistato a fronte di precedenti delusioni. Il successo istantaneo è muto; il disastro, spesso, è eloquente. Almeno per il giardiniere che impara ad ascoltare. Il libro che parla del mio terreno – forse il volume più importante in possesso di un giardiniere – è stato scritto in questo linguaggio, il linguaggio del fallimento. Dalle mie carote tozze come mozziconi ho imparato che era pesante, perché costituito più da argilla che da terriccio sciolto, e agendo in base a quel suggerimento mi sono dato da fare per alleggerirlo. Quando le mie prime piante di pomodoro risultarono tutte foglie, con frutti striminziti, capii che avevo esagerato con i fertilizzanti: fin dal principio, nel terreno, c’era più azoto di quanto mi aspettassi (forse perché il mio orto occupa un sito dove in passato pascolavano le mucche). La morte immediata di un cespuglio di mirtillo che avevo piantato subito dopo essermi trasferito qui fu il primo indizio del fatto che il terreno doveva essere più alcalino della media del New England. Avevo letto che i mirtilli vogliono un terreno acido, così considerai la perdita di quel cespuglio come un test del pH pagato a caro prezzo, e cominciai ad aggiungere, ogni anno, a primavera, tutto lo sfagno (che è acido) che potevo permettermi. Il fallimento spedisce il giardiniere in biblioteca, da dove farà ritorno con una più fine percezione del proprio territorio. Può darsi che quello che sto descrivendo sembri, più che il comportamento di un pollice verde, quello di un qualsiasi bravo studente o acuto osservatore. Di certo molti giardinieri sostengono che tutto il concetto di pollice verde sia una mistificazione perpetrata da giardinieri di terz’ordine e da principianti. Russell Page, che effettivamente aveva qualcosa del mistico, è praticamente solo, con il suo cuore e i suoi pollici verdi. Più rappresentativa della linea abbracciata dal mondo del giardinaggio sulla questione del pollice verde è Eleanor Perényi, che non asseconda nessuna di quelle sciocchezze: «Le persone che danno la colpa dei loro fallimenti al fatto di “non avere il pollice verde” (e ce ne sono a migliaia) di solito non hanno fatto quello che dovevano fare. Il pollice verde non esiste, è ovvio. Il giardinaggio è una vocazione come un’altra, una chiamata, se volete, ma non è un dono del cielo. Si arriva ad avere la capacità che serve per farlo con successo, oppure no». Non so. Perényi mi ricorda un’insegnante di biologia che avevo in terza media, un’altra scrupolosa demistificatrice, empirista inveterata, un tipo molto pratico. Alla prima lezione dell’anno, la signora Voigt annunciò, con un tono di voce compiaciuto che si sforzava di suonare concreto, che un essere umano è soltanto un mucchio di sostanze chimiche acquistabili per circa quattro dollari da un’azienda di forniture per laboratorio. Come mai così a buon mercato? Perché siamo fatti al 95 per cento di acqua, e il resto è costituito da composti del carbonio relativamente comuni. Quel giorno capii che, quand’anche avesse avuto ragione, la signora Voigt non mi avrebbe insegnato nulla di quello che mi serviva sapere. Ogni essere vivente è costituito al 95 per cento di acqua. Il genio è un 95 per cento di sudore e un 5 per cento di ispirazione. Il successo è, per il 95 per cento, duro lavoro. Benissimo, ho capito; ma vogliamo parlare di quell’altro 5 per cento? Se mi venite a raccontare che un’anguria è costituita per il 99 per cento da acqua, non mi avete ancora detto niente di interessante: per esempio, che cosa c’è in quell’altro 1 per cento? Perché probabilmente è lì che troveremo l’anguria. In una certa misura, Perényi ha ragione. Un buon giardiniere osserva, ricorda, consulta grossi tomi. D’altra parte, in quelli bravi, so di aver avuto occasione di osservare anche qualcos’altro: un certo qual tocco, un’empatia per le loro piante, una percezione del loro terreno più fine e completa di qualsiasi analisi di laboratorio. Ci sono cose che loro sanno, e che io non riesco a trovare nei libri. È la differenza tra l’acqua e l’anguria, il musicista con una solida formazione e il Maestro. È quell’imperscrutabile 5 per cento.

Prima di poter avvicinare i misteri del successo nell’orto e nel giardino, sarebbe utile sapere qualcosa di più sul fallimento, un argomento su cui posso parlare con molta più autorità. In giardino, io considero tre tipi principali di fallimento. Il primo è anche il più esplicito: sono quelle che i religiosi e gli agenti assicurativi chiamano «azioni di Dio». Sto parlando di cose come le gelate d’agosto, le invasioni delle cicale che si ripresentano ogni diciassette anni, la siccità, le inondazioni e tutti quegli eventi da Vecchio Testamento di fronte ai quali il giardiniere può solo restare a bocca aperta; in effetti, per quanto possano essere drammatici, tali rovesci hanno ben poco da insegnargli sul suo giardino (hanno più da dire, invece, sulle grandi questioni dell’esistenza, che però vanno oltre lo scopo di questo capitolo). Il pollice più verde del mondo non sarebbe stato di grande aiuto al giardiniere del faraone. I tipi di fallimento più comuni derivano anch’essi dalla natura, ma sono più sensibili ai nostri sforzi; io li suddivido in fallimenti per eccesso e per difetto di intervento umano. Alcuni fallimenti per difetto potrebbero essere l’incursione sferrata prima dell’alba da una banda di marmotte saccheggiatrici contro le nostre piantine appena spuntate; carote-mozziconi; un’aiuola soffocata dalle erbacce; una clematide che rifiuta di fiorire; pomodori che non maturano prima delle gelate. I fallimenti per difetto solitamente indicano che il giardiniere è stato riluttante ad alterare l’ambiente nella misura richiesta dalle sue piante: non ha addomesticato a sufficienza la natura. Forse a causa delle sue idee romantiche sugli animali o sulle erbacce, non ha fatto abbastanza per proteggere le piante coltivate dalle loro incursioni. Oppure ha dato per scontato che il terreno, così com’era, fosse adeguato alle esigenze dei suoi alberi o dei suoi pomodori. Gran parte di questo libro, in effetti, è il resoconto dei miei numerosi fallimenti ascrivibili a un difetto di intervento, forse perché mi sono accostato all’orto da una prospettiva cittadina, e ho iniziato con molte idee ingenue sulla natura, tipiche dell’uomo di città. Davo per scontato di poter allestire un orto e un giardino restando allo stesso tempo in buoni termini con la flora e la fauna locali. Superare i miei fallimenti mi ha insegnato quanto sia più difficile andar d’accordo con la natura vestendo i panni del partecipante attivo, invece che da remoto ammiratore. Dai miei fallimenti ho imparato ad aver meno paura a esercitare il potere umano in natura, a fare quanto è necessario affinché la terra si conformi ai nostri progetti e soddisfi i nostri bisogni. Naturalmente il giardiniere può anche esercitare, sulla natura, una pressione eccessiva, e quando ciò avviene tende a incorrere nel terzo tipo di fallimento: quello per eccesso di intervento. Il giardiniere che usa quantità esagerate di fertilizzanti per convincere le sue piante a una rapida crescita le renderà più suscettibili agli insetti e alle malattie. Se adotta una linea inflessibile nei confronti degli insetti, le irrorerà con quantità tali di pesticidi da compromettere la vitalità del suolo; gli insetti se ne vanno, ma all’improvviso nulla sembra più crescere molto bene. Le piante rimangono in salute solo nella misura in cui sono selvatiche – «in grado di collaborare con la terra, l’aria, la luce e l’acqua nel modo che era comune tra le piante prima che gli esseri umani mettessero piede sulla terra», nella saggia definizione di Wendell Berry. Quando la coltivazione è troppo intensa, compromette la natura selvatica e pertanto attira il fallimento. La colpa di alcuni fallimenti per eccesso di intervento dovrebbe essere condivisa. Se una rosa soccombe alla ticchiolatura nonostante facciamo del nostro meglio, la colpa può benissimo essere non del giardiniere ma degli ibridatori i quali, nell’inseguire fiori dalle dimensioni improbabili e dai colori esotici, hanno creato varietà talmente overbred – talmente lontane dai loro antenati selvatici – da garantirne, all’atto pratico, il fallimento. (Naturalmente sta al giardiniere rendersi conto del fatto che ottenere una rosa azzurra significa spingere troppo in là la natura: se ne pianterà una, probabilmente se la sarà cercata). In modo simile, il giardiniere che insiste a piantare un’hamamelis in una zona dal clima troppo rigido sta spingendo troppo: la natura non tollera questo tipo di hybris: perlomeno, non a tempo indefinito. Se ho ragione nel vedere Scilla e Cariddi a presidiare il giardino, e se il fallimento deriva dall’andare troppo nell’una o nell’altra direzione, allora può darsi che il dono del pollice verde stia nel senso dell’equilibrio. Il pollice verde è il giardiniere che riesce a camminare agilmente sulla fune tesa tra il pericolo del difetto di intervento e quello dell’eccesso: tra lo spingere la natura troppo lontano e il lasciarle troppo spazio. Il suo giardino è un luogo in cui il comportamento della natura e i progetti dell’uomo vengono fatti elegantemente combaciare. Insediarsi in quel tipo di terra di mezzo non è facile: c’è sempre la tentazione di assumere un controllo completo o di rinunciare del tutto a esercitarlo, di invocare il proprio notevole potere (che però in fondo è sovrastimato) oppure di inchinarsi a quello della natura. Il primo atteggiamento è tipico dell’immobiliarista, il secondo dell’«amante della natura». Il pollice verde, che non sarà mai né eroico né romantico, evita entrambi gli estremi. Non cerca di far scorrere l’acqua verso la fonte, ma nemmeno lascia che si riversi dove vuole. Come metafora per indicare qualcuno abile a destreggiarsi in questa via di mezzo, quella del «pollice verde» mi pare esattamente centrata, unendo, come effettivamente unisce, il potere della natura e quello degli esseri umani. Il verde è quella forza della natura che il giardiniere si sforza di incanalare o imbrigliare (se non proprio di dominare); riesce a farlo solo nella misura in cui ne ha una comprensione profonda e creativa. Il pollice verde sa immaginare la natura intima della carota, sa pensare come l’acqua. Quanto al pollice, è una semplice sineddoche del potere dell’uomo. Non è tuttavia una mera figura retorica; secondo gli antropologi, fu il pollice opponibile a darci un vantaggio evolutivo e a fornire la base della civiltà. Il pollice è il primo strumento con il quale alteriamo la natura a nostro vantaggio. Un giardiniere se ne ricorda costantemente, perché il pollice ha un ruolo prominente nella maggior parte delle operazioni di giardinaggio. Egli semina servendosi del pollice e dell’indice, distribuisce i semi strofinando le due dita una contro l’altra. Lavorando di concerto con i pollici delle due mani, comprime il terreno intorno alle piante appena messe a dimora, assicurandosi che le loro radici facciano presa sulla terra. Nell’arco di tutta la stagione non fa che stringere insieme pollice e indice per spuntare germogli e foglie, eliminare cime sfiorite, schiacciare coleotteri e cogliere frutti. Che sono, in fondo, le onnipresenti cesoie, se non un’estensione meccanica del pollice opponibile? Nell’orto e nel giardino, il pollice è il nostro principale strumento; e se lo maneggiamo con particolare destrezza, così da allineare i comportamenti della natura e i nostri desideri come versi in rima, possiamo definirlo «verde».

Un momento propizio per osservare la disinvoltura del pollice verde in compagnia della natura è quando mette a dimora le piantine: osserviamo come le maneggia. Rispetto a un principiante, che le tratta con cautela, in apprensione per la loro vulnerabilità, il giardiniere esperto appare quasi brusco. Il principiante coccolerà la piantina come fosse una neonata, la deporrà nella terra con delicatezza, alla stessa profondità in cui si trovava nel vasetto, e premerà il terreno con garbo intorno alle radici. Probabilmente, invece, il pollice verde rovescerà il vasetto per far uscire la piantina, che poi premerà a fondo nella terra. Che sensibilità è mai questa? E ora osserviamolo mentre comprime il terreno con i pollici: energicamente. Poi se la prende con quelle poche foglie e germogli che non ha già seppellito, spuntandoli quasi tutti. Quando ha finito, le sue piantine sembrano passarsela alquanto male, perlomeno se confrontate con quelle del novizio: queste ultime hanno infatti esattamente lo stesso aspetto che sfoggiavano al vivaio. Ma se si torna la mattina dopo, le piante del principiante saranno afflosciate e senza nerbo, una fila di vecchi pensionati traballanti troppo deboli per reggere il proprio peso. Le piantine del pollice verde, invece, sembreranno vivaci e piene di vita come tanti scolaretti. In effetti, i modi bruschi del giardiniere esperto con le sue piante sono una forma di sensibilità. Egli capisce la loro difficile situazione, il fatto che le loro radici sono state strapazzate a tal punto da non riuscire più ad attingere dal terreno acqua a sufficienza per rimpiazzare quella che evapora dalle foglie. Sa che, per quanto le bagnerà, le sue piante appena messe a dimora moriranno di sete se non amputerà la maggior parte delle foglie da cui l’acqua sfugge. E se preme il terreno con tanta forza intorno alla pianta è per costringere radici e terreno a entrare in contatto, per accelerare il processo grazie al quale le radici emetteranno nuovi filamenti e cominceranno nuovamente ad attingere acqua. Sì, alcuni libri raccontano tutto questo – che occorre ripristinare un «rapporto radice/germoglio» ragionevole, affinché le piantine superino lo shock del trapianto. Ma il pollice verde ha una percezione intuitiva di queste cose, di quanti germogli e quante foglie amputare esattamente, e di quando si impongano misure più drastiche. Non è esagerato dire che costui soffre insieme all’albero appena messo a dimora, nel guardare le foglie appassire e piegarsi lungo la nervatura centrale mentre la pianta lotta per arrestare la fuga di molecole d’acqua non rimpiazzabili. Quando soffia il vento secco occidentale non può far altro che assistere alla rimozione di quelle molecole dalle foglie, e sa che in quel momento le radici sono inutili come le branchie di un pesce fuori dall’acqua. E così va in soccorso dell’albero non con una pompa, ma con seghe e cesoie da potatura. È la sensibilità che consente al pollice verde di potare drasticamente i rami dell’albero; e insieme a quella sensibilità, la percezione – secondo me molto diversa da quella del giardiniere novizio – di dove risieda l’«essere» di una pianta. La persona inesperta, dando per scontato che l’albero sia indistinguibile dai suoi rami, è riluttante a tagliare il nuovo albero (in effetti, è riluttante con la potatura in genere). Probabilmente perché guarda una pianta con un atteggiamento più o meno antropomorfico, seguendo un modello che, benché utile per certi aspetti, non prende in considerazione le parti della pianta che non stanno, come gli esseri umani, in superficie. In seguito, se costui si dedicherà al giardinaggio con attenzione e sensibilità, svilupperà una comprensione più sofisticata e meno antropomorfica su come e dove vive un albero. Probabilmente arriverà a pensare che esso abbia qualcosa di simile a un’anima distinta dalle sue parti anatomiche, per la quale i rami rappresentano a volte (per esempio in occasione del trapianto) un fardello di cui forse è felicissima di disfarsi. Se «anima» sembra un termine troppo mistico, pensiamo semplicemente ad essa come alla forza vitale dell’albero, o come alla sorgente da cui esso sgorga, quello che Dylan Thomas chiamava la sua «verde miccia». Immaginiamo che questo sia il fulcro delle radici e delle parti visibili dell’albero, localizzato forse appena sotto il livello del suolo: la potatura non sembrerà più un atto crudele, ma piuttosto benefico, una forma di sollievo e uno stimolo per una nuova crescita. Ora, io non ho alcuna idea se vi sia una qualche base «scientifica» per queste idee sull’identità vegetale, ma non posso dire che me ne importi davvero. Mi basta sapere che, dal momento in cui ho cominciato a immaginare le mie piante in questo modo, ho ottenuto risultati migliori. Il giardiniere che ottiene buoni risultati, ho scoperto, si accosta alla scienza e alla saggezza popolare, perfino alla magia, con pari dosi di scetticismo e curiosità. Se funziona, allora è «vero». I bravi giardinieri tendono a essere affatto pragmatici, senza lasciarsi troppo impressionare dalla scienza. Il punto è che la scienza ha fatto poco per guadagnarsi il rispetto del giardiniere. I pesticidi miracolosi che ha messo a sua disposizione si sono rivelati una maledizione. Per quanto riguarda i meccanismi all’opera in un orto o in un giardino, e in modo particolare i rapporti tra piante e suolo, il quadro offerto dalla scienza è risultato frammentario e incompleto. Essa infatti ha sostituito l’immagine tradizionale che il giardiniere aveva del suo terreno, come di una cosa viva e straordinariamente complicata – un mistero della fertilità che andava ben oltre l’umana comprensione –, con un modello chimico che oggi sappiamo essere di gran lunga troppo riduttivo. La fecondità di un suolo, diceva la scienza, dipende semplicemente dal suo contenuto di azoto, fosforo e potassio; qualsiasi cosa mancasse, i fertilizzanti potevano fornirla. La verità dello scienziato, però, si è rivelata, se non falsa, comunque pericolosamente parziale: quegli elementi, di per se stessi, non producevano piante sane; può darsi che raccontino il 95 per cento della storia, ma non dicono tutto. Come il giardiniere aveva sempre sospettato, il suolo è di fatto un mistero, un complesso sistema biologico naturale (e non soltanto chimico) che possiamo nutrire ma non simulare, come avrebbe invece voluto farci credere l’immagine in bianco e nero proposta dallo scienziato. Il pollice verde desidera un ritratto più intensamente colorato e sfumato del suo terreno, un ritratto che renda conto di quell’altro 5 per cento, e che gli indichi quanto è vivo il suo terreno. E così, in primavera, possiamo sorprenderlo mentre si porta al naso una manciata di terra, forse addirittura mentre l’assaggia e poi la strofina tra le mani per vedere che colore lascia asciugandosi. Quando si tratta delle condizioni e della fertilità del terreno, le evidenze fornitegli dai cinque sensi mettono a sua disposizione informazioni che nessun laboratorio potrebbe offrirgli. Non molto tempo fa il «Wall Street Journal» ha pubblicato un divertente servizio sull’agricoltura biodinamica, una scuola di agricoltura biologica incline a varie teorie e prassi mistiche: per esempio, seminare in base alle fasi lunari, far maturare il compost nella vescica di un cervo maschio, imbrigliare le varie forze cosmiche per migliorare le rese agricole. Come prevedibile, l’articolo prendeva la forma di un prolungato sorrisetto di superiorità. In precedenza mi ero accostato alla letteratura biodinamica, avventurandomi perfino in uno degli oscuri testi di teosofia di Rudolph Steiner, e avevo trovato io stesso molto di cui sorridere. Le affermazioni di alcuni agricoltori citati nell’articolo però, benché eccentriche, avevano un certo senso. Se le fasi della luna possono influenzare la fisica del mare, e perfino la biologia delle donne, perché non anche la crescita delle piante? «Come fa una rosa a essere così perfetta?» si chiedeva un agricoltore. «Le spiegazioni materialistiche della realtà non mi soddisfacevano». A lui bastava che le sue preparazioni biodinamiche sembrassero funzionare. E il giornalista doveva ammettere che le piante di quell’uomo – probabilmente seminate durante la luna piena e nutrite con un compost che aveva trascorso il solstizio nel cranio di un animale seppellito accanto a un corso d’acqua – erano effettivamente impressionanti. La maggior parte delle fattorie biodinamiche, infatti, produce, senza far uso di fertilizzanti o insetticidi chimici, piante caratterizzate da una produttività e una salute non comuni. Gli agricoltori intervistati nell’articolo mi ricordavano la storia di Woody Allen sull’uomo il cui fratello credeva di essere una gallina. Quando uno psichiatra gli suggerì di far internare il fratello, l’uomo disse, stringendosi nelle spalle, «e poi a me le uova chi me le fa?». Nessun pollice verde liquiderebbe sbrigativamente le teorie biodinamiche. Prima di mettere in ridicolo una ricetta per ottenere il compost da tarassachi lasciati a macerare nell’amnios di una mucca, probabilmente chiederà di assaggiare una carota cresciuta su quella roba. Se qualcosa funziona, non gli occorre sapere altro – a lui non importa proprio se l’idea arriva da Rudolph Steiner, dall’agronomo della contea, da un premio Nobel, o dall’anziana signora che abita in fondo alla strada, convinta che il segreto dei suoi fantastici asparagi stia tutto nella generosa applicazione di sale per il disgelo stradale. Anzi, può darsi benissimo che il pollice verde provi per prima cosa proprio l’idea della signora, giacché la donna vive nelle vicinanze (nel giardinaggio, le conoscenze più utili sono quelle locali) e inoltre lui ha avuto modo di vedere il risultato. Un’altra definizione di pollice verde potrebbe essere «un giardiniere che si trova a proprio agio tra le lacune della scienza». Il mistero che attribuiamo al suo status non è che un’indicazione di tutto quello che ancora non comprendiamo. Rispetto alla maggior parte di noi, il pollice verde è uno studioso, paziente e rispettoso, di quell’imperscrutabile 5 per cento. Sa che in effetti non esiste alcuna spiegazione materiale per la bellezza di una rosa. Se a volte, a proposito di giardini, presta orecchio a leggende che sanno di misticismo, è solo perché tutti quei suggerimenti e quelle storie rispecchiano i successi di molti altri giardinieri nell’arco di molti anni. A volte, nell’orto e nel giardino, la voce dell’esperienza – distillata, collettiva, trita e ritrita – ci parla nell’idioma delle vecchie comari. È nella voce astratta ed eroica della teoria che il pollice verde proprio non ha fiducia: sa che in giardino appoggiarsi troppo all’astrazione non è che un’altra forma di intervento eccessivo. Le teorie, siano esse scientifiche o astrologiche, sono fatte dagli esseri umani – sono soltanto pollice – e imposte alla natura. E per quanto possa essere potente e contenere della verità, una teoria non è mai qualcosa di più di una rappresentazione della natura: il bravo giardiniere la sa troppo lunga per confonderla con l’irriducibile, verde realtà.

Chi lo osserva per un po’ mentre lavora, nota che il pollice verde, coerente con la sua preferenza per l’esperienza a discapito dell’astrazione, si accosta alla natura più come un artista che come uno scienziato o un tecnico. Nel suo giardino accoglie di buon grado non solo le leggi della natura, ma anche il ruolo del caso. È aperto alle fortunate coincidenze, più a suo agio con gli esempi concreti che con gli assiomi, meno disposto all’analisi e più incline a un approccio per tentativi ed errori. Messo di fronte a un problema – che cosa piantare sotto una Clematis jackmanii? –, prova ora questo ora quello, sta a vedere che cosa succede, e poi prova qualcos’altro. In questo, il metodo creativo del pollice verde imita quello della natura. Nel mondo del suo giardino o del suo orto, costui copre il ruolo della selezione naturale, salvo per il fatto che applica uno standard di fitness forgiato in base a considerazioni non solo naturali ma anche culturali: per esempio, in base al suo gusto. Il fatto che una Queen Elizabeth sopravviva o meno nel suo giardino ha a che fare non tanto con la robustezza della pianta quanto con la valutazione, da parte sua, del colore e del carattere di quella rosa in combinazione con altre piante. Il giardiniere prova la Queen Elizabeth con la clematide e scopre che l’associazione è stridente: lo sfarzoso rosa d’altri tempi della Queen Elizabeth sembra quasi muovere una guerra di classe contro il pigmento onestamente contadino della clematide. Così l’anno dopo toglie la rosa; forse proverà a metterla da qualche altra parte, ma probabilmente se ne disfa, perché è decisamente un po’ troppo aristocratica per poter mai essere felice in quel luogo. Poi, un inverno, sfogliando i cataloghi, si imbatte in un giglio affascinante e schietto, il Golden Splendor, il cui giallo limpido e uniforme sembra abbinarsi perfettamente con la clematide. Nel mese di luglio ha il piacere di scoprire che colori e temperamento delle due piante si accordano davvero benissimo, e i tempi delle fioriture coincidono, così la combinazione diventa un elemento costante del suo giardino. Quando dico che i metodi del pollice verde somigliano a quelli dell’evoluzione, non intendo dire soltanto che egli attua una forma di sopravvivenza del più adatto. L’evoluzione ha un doppio passo: è solo dopo che la natura, nella sua indiscriminata creatività, ha lanciato infinite nuove possibilità e combinazioni, che interviene la selezione naturale (se volete, il suo impulso critico) a decidere quale di esse funzioni meglio in particolari circostanze. Questo processo – di una dispendiosità e una prodigalità colossali – è ciò che rende possibile l’estrema bellezza della rosa, caratteristica che eccede di gran lunga ogni concepibile utilità, visto che fiori molto più modesti attraggono ugualmente bene i bombi. La natura crea senza pensare a un fine; la fitness non è che un ripensamento. Nel suo piccolo mondo il giardiniere, come l’artista nel suo, esegue entrambe le funzioni: escogita gli esperimenti e poi fa piazza pulita degli errori. D’altra parte, per quanto nel suo giardino sembri un dio, mentre attua la propria versione locale della selezione naturale il pollice verde non nutre alcuna illusione di onniscienza o di onnipotenza. Se di un dio si tratta, è un dio greco, di quelli il cui potere è nettamente circoscritto dalla riottosità degli esseri umani e degli altri dèi. A differenza di Yahweh, Atena contratta, lusinga, e di tanto in tanto perde anche la partita; i mortali possono tenerle segrete alcune cose. Il pollice verde sa che nel suo giardino non è lui a muovere tutti fili e, fatto ugualmente importante, preferisce che le cose stiano così. Anzi, nutre il sospetto che un giardino sul quale esercitasse un potere assoluto sarebbe un luogo sbiadito, inconsistente, poco interessante. E infatti non è proprio la parzialità del nostro controllo – l’incessante attrito fra natura e cultura, tra realtà e idea – a conferire ai giardini il loro carattere? Qualcuno potrebbe dire che il pollice verde si dedica al giardinaggio con una dotazione superiore alla norma di quella che Keats, cercando di descrivere il genio di Shakespeare, definì «capacità negativa» – la capacità di esistere «nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione». Il pollice verde è sereno di fronte alle incertezze della natura; si muove tra i suoi misteri senza sentire il bisogno di controllare, di spiegare o di trovare soluzioni definitive. Praticare bene il giardinaggio significa essere felici nell’indecifrabile mormorio del mondo oggettivo, senza esser turbati dal suo rifiuto di lasciarsi ridimensionare dalle idee che abbiamo di esso, o dalla sua indomita fecondità. Può sussistere qualche dubbio sul fatto che Shakespeare avesse il pollice verde? Tuttavia, benché il modo in cui il pollice verde si accosta alla natura somigli per certi versi a quello dell’artista, non necessariamente ne consegue che egli pensi al proprio giardino o al proprio orto come a opere d’arte. Probabilmente guarderà quel termine – soprattutto la chiusura, o la compiutezza, che esso implica – con sospetto. (Chi è bravo a coltivare un giardino non necessariamente è bravo a progettarne uno, e viceversa). Il pollice verde accetta che un giardino non sia mai finito; che sebbene possa addomesticare la natura per qualche tempo, nel migliore dei casi il suo dominio è provvisorio. La siepe curata ben presto crescerà disordinatamente, il vialetto in giardino sarà invaso dalle erbacce, la pioggia abbatterà tutti gli iris. Che razza di opera d’arte è quella che con tanta ostinazione rifiuta di star ferma? Se il giardiniere è un artista, allora è come uno scultore alle prese con una pietra che risponde al colpo dello scalpello fondendo o facendosi crescere una nuova appendice. In realtà, il fatto che egli sia in grado di continuare a far giardinaggio a dispetto dell’irriducibilità dei suoi materiali è una misura della sua capacità negativa. Più che come a un’opera d’arte, mi piace pensare all’orto o al giardino come a un’economia capitalista, intrinsecamente instabile, soggetta a cicli di espansione e contrazione. Anche i tempi più prosperi contengono i semi del futuro disastro. Di solito, nella bordura di perenni, un anno di grande abbondanza significa che si preparano tempi magri per il futuro; ormai esaurite, le piante vanno divise e non raggiungeranno più l’apice dello splendore per altri due anni. A meno che in primavera io non li poti, astri, phlox e Delphinium emetteranno troppi germogli: una forma di inflazione erbacea che, una volta giunta l’estate, ridurrà il valore di tutti i loro fiori. In giardino la ricchezza è costantemente creata e distrutta, ma i conti non rimangono mai in pari molto a lungo: in questa zona si sviluppa una carenza di nutrienti, in quell’altra un’eccedenza, il valore dell’acqua fluttua senza freni. Chi potrebbe sperare di orchestrare, per non dire dominare, un insieme di interessi individuali così turbolento? Il destino del giardiniere è cercare di ottenere quello che vuole dalle sue piante mentre quelle, con noncuranza, ottengono ciò che vogliono loro. A rischio di forzare un po’ troppo la metafora, pensiamo al giardiniere come a una sorta di presidente della Federal Reserve: di certo potente, ma ben lungi dall’onnipotenza. Il meglio che può sperare di fare è di livellare picchi e valli nei cicli del suo giardino, contenere la crescita dilagante del Lythrum, stimolare una campanula depressa, incanalare l’avidità territoriale di una artemisia Silver King. Per il perfezionista, il giardino è un luogo infelice. Troppe cose sono fuori dal nostro controllo, e la sola su cui possiamo contare con certezza è la catastrofe finale. Il successo, in giardino, sta in un istante: quella settimana di giugno in cui le perenni fioriscono unanimi e la bordura acquista definizione, o quelle nitidissime giornate settembrine in cui nell’aiuola dei pomodori c’è una profusione di rossi, subito prima che arrivi il freddo asciutto. È facile cedere allo scoramento, a meno che, come capita al pollice verde, uno non preferisca dedicarsi al giardino nel tempo invece che nello spazio; a meno che il nostro cuore più che nel luogo sia nell’azione. Perché il giardino non è mai compiuto: le erbacce che estirpiamo oggi torneranno domani, una nuova generazione di afidi si farà avanti per vendicare quelle che abbiamo sterminato, e tutto quello che si semina o si pianta – tutto – prima o poi morirà. Tra le molte, moltissime cose che il pollice verde sa, c’è la consolazione del cumulo di compostaggio, dove la natura, sempre disponibile, riscatta le morti e i disastri di questa stagione con la promessa rinnovata della primavera che verrà.

Io sono questo tipo di giardiniere? Non ancora, non ancora. Mi muovo tuttora sbandando fra le cantonate dovute a un difetto di intervento, e quelle causate dall’eccesso. Quale pollice verde si offrirebbe mai, per una male intesa idea di tolleranza, di condividere la sua aiuola di annuali con le erbacce, o di lasciare che una marmotta lo porti al punto di sferrare attacchi incendiari alla sua tana? Ancora esitante con le cesoie e troppo lesto a metter mano allo spray, mi ritrovo a desiderare il giorno in cui, una volta per tutte, il mio giardino sarà compiuto. Il rifiuto di questo terreno di conformarsi ai progetti che ho per lui – anche solo di restarsene fermo per un po’ – spesso mi esaspera. Sarebbe corretto dire che, a differenza di Shakespeare, io tendo a essere impaziente «di correre dietro ai fatti e alla ragione». Impaziente, appunto. Eppure, io so che in alcuni momenti ho considerato il mio giardino come farebbe un pollice verde, momenti in cui mi sono mosso tra le mie piante con la sua disinvoltura. Vi è uno stato d’animo, che a volte ci prende in giardino, addirittura una forma di coscienza, che somiglia più che a qualsiasi altra cosa a un sogno a occhi aperti. Immagino che moltissimi giardinieri l’abbiano sperimentato, una volta o l’altra. Magari è un tardo pomeriggio di luglio, e abbiamo lavorato in giardino sbrigando una serie di piccole incombenze: spuntare i fiori appassiti delle emerocallidi, estirpare le erbacce, strappare i polloni dai pomodori che stanno fruttificando proprio ora, potare un’esile nepeta per promuovere una seconda fioritura. Siamo tutti concentrati, e benché forse il sudore ci imperli la fronte, il lavoro sembra non richiedere alcuno sforzo, come se stessimo giocando spensierati. Gli attrezzi sono leggeri nelle nostre mani, che sanno bene che cosa fare. Questo Delphinium ha bisogno che gli si tolga qualche germoglio, per concentrare la fioritura; quella clematide vuole che le si mostri dove avvolgersi. Mentre le mani lavorano, il mondo arretra: è esattamente come dice Marvell, a proposito della mente, in «Il giardino»: «tutto ciò che aveva concepito lo annienta / per un pensiero verde sotto un’ombra verde». Pensieri verdi, pollici verdi: il sublime del giardiniere, si potrebbe dire, molto diverso dalla versione del romantico, che nella natura è disarmato e rapito, o dalla svuotata assenza di ego del seguace zen. Nel corso di questa particolare rêverie, il giardiniere non perde se stesso, e meno che mai il suo corpo. Perché nella misura in cui tutto quello che ci circonda in questo pomeriggio di luglio agisce su di noi, anche noi stiamo agendo, esortando e ascoltando, guidando quella sconnessa conversazione con la natura che è il giardinaggio durante l’estate. E benché non possa durare molto a lungo (tenetemi d’occhio mentre scivolo nell’argomentazione o nella declamazione), in momenti come questi la via del pollice verde attraverso la natura sembra chiaramente tracciata, facile da seguire, quasi una seconda natura. È così semplice: in giardino lo stato di grazia non è che una forma di gioco spensierato. AUTUNNO VIII IL RACCOLTO

Con la luna del raccolto, che solitamente arriva verso la fine di settembre, il giardino entra in quella stagione dolce e malinconica in cui l’abbondanza della maturità si mescola ai presagi della fine, decifrabili da chiunque: con la sola eccezione, forse, di alcune annuali dei tropici, che all’approssimarsi del gelo sembrano fiorire ancor più freneticamente. Incuranti dell’incalzare dell’inverno e dei protocolli della dormienza, la dalia e il tagete, così come il pomodoro e il basilico, non prendono alcuna precauzione per il gelo, che potrebbe arrivare tra un mese, o magari tra un giorno. A settembre, le annuali non danno alcun segno di quella chiusura in se stesse che si osserva nelle perenni rustiche, le quali rallentano la crescita, non corrono rischi, e spostano l’attenzione dai fiori e dalle foglie alla radice e alle riserve di amido. Invece di prepararsi all’emergenza, risparmiando qualcosa da consumare in un altro momento, le annuali si lanciano ingenuamente e a braccia aperte verso il sole sempre più sbiadito. In quei primi giorni d’autunno, quando il gelo incombe nell’aria come una spada di Damocle, chiaro come la luce del sole anche alla più umile delle creature, vi è qualcosa di più toccante della fioritura temeraria e sconsiderata di una dalia? Proprio quando la gelata più insignificante, uno di quegli esitanti aliti d’inverno spesso portati da settembre, potrebbe bruciarla nell’arco di una notte? A volte la luna del raccolto porta una gelata di quel tipo, un evento della natura che spezza sempre il cuore, seguito com’è, in genere, da qualche settimana di tempo buono per la crescita delle piante. Quando i pomodori sconfitti da una gelata settembrina penzolano come crespo nero dalle loro gabbie, quelle settimane possono sembrare una crudeltà: il tormento e il rimprovero delle opportunità perdute. Perciò, in quelle sere in cui la luna piena domina un cielo senza nubi e l’aria ha un vago sentore metallico, a indicare che cederà il suo calore senza combattere, noi opponiamo un’ultima, disperata resistenza per conto delle nostre annuali. Per trattenere un poco del calore residuo del terreno, copriamo pomodori, zucche e cetrioli con vecchie lenzuola e teli cerati. In notti d’argento come queste, l’orto fa pensare a una congregazione di fantasmi, e sembra che la terra abbia perso la propria coltre; nulla più si frappone fra lei e lo spazio esterno. Lenzuola, la tuta spaziale di una delicata pianta annuale. Con un po’ di fortuna, l’orto e il giardino superano queste poche notti gelide e si avviano verso una serie di giorni tiepidi e senza rischi. Nella luce obliqua della stagione, tutto l’orto sembra troppo maturo, carico e vagamente strano. I girasoli si sono prodotti in una fioritura massiccia e adesso annuiscono ogni giorno più sonnolenti, con il capolino troppo pesante per tenerlo alto e volgerlo verso il sole. Le ghiandaie vi si posano a testa in giù sui bordi, per beccarne i grossi semi. Il colore dominante della stagione è un intenso giallo arancio: la tinta sgargiante della polpa delle zucche, dei petali del girasole e della rudbeckia, e delle foglie cangianti dell’acero canadese. Ma anche delle matite Mongol e degli scuolabus, perché in fondo non è questo il colore ufficiale di tutto ciò che segna il ritorno a scuola? Ora non è più tempo del pigro e spensierato gioco estivo: in giardino c’è del lavoro serio da sbrigare. Benché sia la parte migliore, il raccolto è il meno: questo è anche il momento di preparare le nuove aiuole, mettere a dimora alberi e arbusti, spargere il compost, rastrellare le foglie, seminare le piante di copertura. Il lavoro estivo può essere gestito da mani e cesoie; quello autunnale, invece, ha bisogno di vanghe e forconi, dell’impegno delle braccia e della schiena. E il tempo aiuta, con giornate fredde, dall’aria frizzante, nelle quali sudare è un piacere. Io faccio quello che posso, ma devo ammettere che con l’avanzare dell’autunno, mentre l’arco del sole scivola sempre più lontano verso sud, non sempre ci metto l’anima. Perlomeno non in quei grandi nuovi progetti tutti tesi verso il futuro che sia i giornalisti dalle loro rubriche, sia i commessi del vivaio ci esortano a intraprendere. Ogni anno costoro mi ricordano le cose meravigliose che posso seminare nella bordura per prolungare la stagione della fioritura. A me suona come una negazione... forse anche con una nota di cupidigia. Nei vivai, in questo periodo dell’anno, le vendite battono la fiacca, e così il mondo del giardino cerca di persuaderci che il nostro antico istinto si sbaglia: che l’autunno è proprio il momento di seminare e piantare. Forse questo vale per gli alberi; ma in questa parte del paese il giardiniere che semini piante perenni in ottobre si ritroverà a ripetere l’operazione a maggio, giacché esse non avranno abbastanza tempo per attecchire prima che l’inverno sferri il suo assalto. Ma non si tratta solo di quello. Mentre la terra si prepara a chiudere bottega, io non sono proprio nello stato d’animo di mettermi a sindacare sull’agenda della natura. James G. Frazer, nel suo Ramo d’oro, racconta di una tribù nordamericana, gli eschimesi, presso cui a ogni autunno ha luogo una contesa tra le forze dell’estate e quelle dell’inverno, per vedere quali prevarranno. La tribù si divide in due gruppi, i lagopedi e le anatre; i lagopedi sono i membri della tribù nati in inverno, le anatre quelli nati d’estate. Ogni squadra afferra l’estremità di una corda di pelle di foca, e ne segue un colossale tiro alla fune; se vincono i lagopedi, l’inverno sarà rigido. Non si può fare a meno di pensare che una vittoria delle anatre suoni un po’ inutile, e che le loro grida di incitamento possano mancare di convinzione. I giardinieri troppo appassionati in autunno mi ricordano la squadra delle anatre eschimesi. Per un po’, diciamo durante il mese di settembre, posso immaginare di tirare la fune per resistere alle forze dell’inverno, e così infilo la tuta spaziale ai miei pomodori per assicurar loro un po’ di tempo in più. Ogni autunno, però, a un certo punto mi viene voglia di mollare il mio estremo della fune e di unirmi ai lagopedi.

A meno che uno non sia un’anatra, o un’annuale dei tropici poco esperta di costumi nordici, è difficile lasciarsi sfuggire quale sia il programma della natura nel giardino d’autunno: prepararsi all’inverno. Quando la disponibilità di luce diminuisce, il lavoro della fotosintesi va scemando e le piante concentrano le rimanenti energie nella maturazione di frutti e semi. Per il giardiniere, il mondo verde sembra improvvisamente molto più gestibile. L’erba è lenta a serrare nuovamente i ranghi dopo una tosatura, le infestanti estirpate non rispuntano più nell’arco di una notte, e finalmente il giardiniere può mettersi alla testa della parata verde senza che il suo lavoro sia vanificato. In giardino e nei boschi, per la prima volta da maggio, il colore verde perde la sua schiacciante posizione di maggioranza. Con la maturità, nel momento in cui ciascun frutto acquista la sua tinta caratteristica, arriva un’esplosione di individualità. Le piante di pomodoro rampicanti si seccano e diventano come spaghi sfibrati, mentre i loro frutti gialli e rossi si inturgidiscono; le carote arancioni affiorano dal terreno e le zucche invernali – la gialla zucca , le butternuts marrone e le grandi zucche dolci sfumate di bluastro come uova di pettirosso – esibiscono le proprie tinte mentre l’intrico del fogliame, come una veste gettata via, cade loro intorno. Nei boschi, il colore dell’autunno segnala l’abdicazione della clorofilla; in giardino, tra le annuali, significa qualcos’altro. Con i loro frutti maturi e colorati, le piante mirano a far sostare gli animali di passaggio, offrendo loro del cibo purché diano uno strappo ai loro semi. Verso la fine di settembre, le piante stanno concentrando tutte le energie in questo processo: l’annotazione dei propri segreti sulle minuscole tavole dei semi, per poi incoraggiare qualcuno, chiunque, a portarle fuori nel mondo. Ricette, manuali di istruzioni, ultime volontà: fabbricando i semi la pianta condensa se stessa, o almeno tutto quello che sa, in una forma abbastanza compatta e durevole da sopravvivere all’inverno: una bottiglia sigillata contenente la memoria genetica e lasciata cadere nell’oceano del futuro. (Nel caso degli alberi che hanno frutti protetti da un guscio, come le noci, la sopravvivenza della memoria genetica dipende dalla smemoratezza; se gli scoiattoli che fanno incetta di ghiande non dimenticassero dove hanno seppellito molte di esse – stando alla stima di Beatrix Potter, il 50 per cento – non ci sarebbero più querce). Quanto agli animali di passaggio, di certo non mancano. Nell’orto, le fragranze e i colori della maturità scatenano una lotta per i frutti, giacché la preparazione per l’inverno è all’ordine del giorno anche nell’agenda degli animali. Marmotte e procioni, cervi, scoiattoli e talpe si riscuotono dalla letargia estiva e si lanciano in un’ultima grande battaglia per aggiudicarsi il bottino di stagione. Per questi animali, i carboidrati, i grassi e le proteine – miei di diritto – sono a disposizione di chi se li prende, e i loro assalti autunnali possono rivaleggiare, in quanto a distruttività, con quelli del gelo. L’anno scorso ho seminato del mais, e non avevo raccolto più di una mezza dozzina di pannocchie prima che, una notte, una banda di procioni si arrampicasse sulla recinzione e organizzasse un turbolento festino a spese mie. Abbatterono ogni singolo fusto di mais, massacrando il raccolto anche senza divorarlo tutto: l’orto era disseminato di pannocchie mangiucchiate, sparse come vuoti a perdere. Sembrava che dopo aver dato uno o due morsi a una pannocchia, se la fossero gettata alle spalle per passare alla successiva. Calpestarono tutte le aiuole, strapparono le cime di porri e barbabietole esclusivamente per spregio, e poi depositarono diversi stronzi – grossi, spudorati stronzi – proprio nel mezzo delle mie aiuole. Rispetto alle effrazioni del cervo e delle marmotte, questo sembrava opera della famiglia Manson. D’altra parte, la perversione dei procioni non è che un esempio estremo e dispendioso di una prassi diffusa dappertutto in questa stagione di raccolto. Infatti, proprio mentre sono impegnato a tenere alla larga i mammiferi, mi tocca pure vedermela con funghi e batteri, anch’essi richiamati dai prodotti maturi: sotto una generica voce «marciume», questi organismi si appropriano di una frazione del raccolto probabilmente superiore a quella requisita da me e dai mammiferi messi insieme. Come ben sanno gli epidemiologi, a questo punto della nostra evoluzione i microrganismi sono, per la nostra specie, gli unici competitori significativi; procioni, marmotte, leoni, tigri e orsi sono uno scherzo al confronto di batteri, funghi e virus. A farsi veramente gioco di noi, quando affermiamo di aver conquistato la natura o «sconfitto» le malattie, sono creature per vedere le quali occorre un microscopio. Nell’orto i microrganismi ci portano via la frutta matura rendendola disgustosa o tossica, assicurandosi così che gliela lasceremo affinché la facciano marcire al suolo. La testa di ponte, molle e purulenta, che i batteri rivendicano su un pomodoro; il bersaglio circolare, che va lentamente allargandosi, disegnato da un fungo su una zucca; e le macchie nere impresse da un virus sulle mele – sono tutti segnali di vittoria, bandiere alzate dai microbi e che noi non mettiamo in discussione. Come osservò un biologo, i microrganismi si comportano come il bambino che – davanti a un piatto di dolci – si assicura di leccarli tutti, in modo che nessun altro voglia più mangiarli. Anche gli animali vengono allontanati, soprattutto dall’odore della fermentazione; forse perché l’evoluzione ha usato la mano pesante con quelli a cui piaceva inebriarsi consumando la frutta alcolica. Considerato da questo punto di vista, il giardino d’autunno è teatro di molti orrori, soprattutto in un’annata umida. La pianta di pomodoro, carica e curva, posa un frutto maturo sul terreno, e lo condanna: nell’arco di una giornata diventerà acquoso e rivoltante. Se infiliamo le dita intorno alla base di un cavolo troppo maturo, potremmo richiuderle su una massa di pus scuro e scivoloso che, non visto, ha continuato a divorarlo da sotto. Sono venuti da sotto terra, a quanto pare (anche se le spore dei funghi arrivano in volo da tutte le direzioni); in questo periodo dell’anno, la terra quasi ribolle di decomposizione, ricordando al giardiniere, con un putrido memorandum, che tutto quanto essa dà, può anche riprenderselo. Il terreno è cosparso di soffici masse di materia vegetale in decomposizione che vanno lentamente scurendosi e diventano ogni giorno più indistinte, mentre la loro forma e il loro colore a poco a poco si attenuano fino a ridissolversi interamente nel suolo. Walt Whitman si meravigliava che noi osassimo anche solo toccare la terra, e ancor più che ci togliessimo i vestiti in presenza della sua corruzione. «Come può essere che la terra stessa non provi ripulsa?» si chiede in una poesia intitolata «Questo concime»:

Non seppelliscono forse perennemente corpi corrotti entro voi? Non è ciascun continente lavorato e rilavorato con rancidi morti? ... Oh, quale chimica! ... Che quando mi stendo sull’erba non prendo malattia veruna, Sebbene probabilmente ogni stelo d’erba spunti da ciò che fu un giorno una malattia infettiva. Ora mi trovo atterrito dalla Terra, così calma e paziente, Che così dolci cose fa crescere da corruzione siffatta...

Il lavoro del raccolto serve a tenere a bada, almeno temporaneamente, l’opera di corruzione della terra, e il saccheggio del nostro bottino. Così cogliamo tutta la frutta che possiamo prima che ci arrivino gli animali, e poi dispieghiamo varie tecniche ingegnose per ostacolare l’azione dei microbi. Cottura, inscatolamento, congelamento, acidificazione, affumicamento, salatura, aggiunta di zucchero: ecco le azioni profilattiche approntate dalla cultura e messe alla prova nel corso del tempo contro il marciume della natura, gli strumenti ingegnosi al servizio dell’orto. In effetti, alcuni dei nostri metodi di conservazione più soddisfacenti si fondano sugli stessi princìpi del giardinaggio. Nel fare il vino o il sidro o vari tipi di formaggio, noi non muoviamo guerra ai microbi della natura; piuttosto, li individuiamo, li scegliamo, e poi lasciamo che lavorino per noi. Imbrigliamo il processo di decadimento, coltiviamo il marciume come fosse un giardino.

La natura è gotica – ma naturalmente questo è solo un aspetto della stagione. Il raccolto non è tutto guerra e putrefazione, bottino e saccheggio. C’è anche la realtà dell’abbondanza, dei doni elargiti generosamente, senza freni: «il fecondo autunno, grave di pingue frutto». In uno di quei pomeriggi di ottobre freddi e straordinariamente tersi, quando il gelo incombe e ci stiamo affrettando a raccogliere tutto, salvo gli ortaggi più rustici, l’aumento di quantità cui si assiste in autunno non manca mai di stupire: una gran massa, indubitabile, della quale soltanto qualche mese prima nulla esisteva se non nelle prospettive di una manciata di semi. Colmiamo ceste enormi di zucche estive, cetrioli e pomodori; riempiamo sacchi di lattuga e bietole; tagliamo capolini di girasoli grossi come la testa di un vitello, e portiamo quanto abbiamo raccolto al coperto, dove prende possesso della cucina. Ma al di là della quantità impressionante, c’è il peso inaspettato di tutto questo: quasi che stessimo caricandoci in spalla non solo ceste piene di prodotti della terra, ma la gravità stessa dell’autunno, quella stessa forza matura che piega i capolini dei girasoli e incurva i rami dei meli che bordano il mio orto. Soprattutto questi ultimi sembrano investiti della straordinaria gravità della stagione. Thoreau racconta che secondo Plinio le mele sono gli oggetti più pesanti che esistono e i buoi cominciano a sudare alla semplice vista di un carico. Potrebbero sudare, allo stesso modo, anche alla vista di una delle zucche invernali che ho scoperto nel mio orto questo ottobre. Non ne avevo apprezzato appieno le dimensioni fino ad allora, dopo che la massa del fogliame sotto cui aveva trascorso l’estate ingrossandosi si fu seccata. Senza dubbio la cosa più grossa che io abbia mai coltivato, questa zucca pesava circa tredici chilogrammi e mezzo. Mi ero procurato i semi lo scorso inverno, da un’azienda dell’Idaho specializzata in «antiche cultivar» di ortaggi, non più coltivate a scopo commerciale. Dicono che la mia zucca – denominata «Sibley» – fosse una cultivar degli indiani d’America, poi tramandata ai primi coloni. Ora che ho posato gli occhi sopra una di esse, direi che probabilmente la ragione per cui cadde in disgrazia dal punto di vista commerciale ha a che fare con il suo aspetto, decisamente poco attraente. Una zucca Sibley è una grossa cosa verrucosa, di quel colore verde-azzurro slavato tipico del ghiaccio sporco; potrebbe essere il pezzo di un ghiacciaio. La sua forma, però, ha un che di piacevole: compressa a entrambe le estremità e gonfia nel mezzo, somiglia a una gondola o a una nave vichinga che beccheggi sotto un carico pesante. Oppure a una falce di luna con la pancia di un Buddha. Da dove veniva quella grossa cosa, tutta quella gran quantità di polpa di zucca? Dalla terra, diciamo noi, ma non sul serio: qui, adesso, non c’è meno terra di quanta ve ne fosse a maggio quando l’ho piantata; per ottenere la zucca non è stata consumata terra. Secondo qualsiasi criterio, creare qualcosa di così grosso dovrebbe richiedere un dispendio di materia tale che uno si aspetterebbe di trovare le zucche Sibley troneggianti sui bordi di crateri spalancatisi di fresco. Il fatto che non sia così, secondo me, dovrebbe esser considerato una sorta di miracolo. Il primo a verificare che questo è effettivamente un miracolo fu Van Helmont, uno scienziato fiammingo del Seicento, il quale mise un giovane salice in un vaso con 200 libbre di terra e, per cinque anni, non gli diede altro che acqua. Alla fine, l’albero e il terreno pesavano, rispettivamente, 169 libbre, e 199 libbre e 14 once: le 169 libbre dell’albero si erano sviluppate da due once soltanto di terreno. Un bell’incremento. Prima di raccogliere la mia Sibley e di fermarmi a riflettere sulla sua provenienza (e prima di leggere dell’esperimento di Van Helmont) avevo sempre pensato al giardinaggio come a un’impresa a somma zero: e cioè che fosse necessario aggiungere al terreno (sotto forma di nutrienti) le stesse quantità sottratte dagli ortaggi che raccoglievo. Davo per scontato che avrei dovuto restituire al suolo tutto quello che la mia zucca gigante attingeva, altrimenti non sarebbe cresciuto nulla. E benché sia vero che una zucca mostruosa come la mia impoverisce il suolo relativamente a certi elementi, le quantità in gioco sono trascurabili: una piccola manciata di compost potrebbe facilmente compensare il deficit. Il quale, peraltro, è molto più esiguo della quantità complessiva di materia che la mia zucca rappresenta. Se dovessi lasciarla a marcire sulla pianta, alla fine nell’orto si verificherebbe un’eccedenza di bilancio; il terreno sarebbe più ricco sia in termini di nutrienti, sia in termini di massa totale rispetto a prima che vi piantassi la zucca. Naturalmente, gran parte di quell’aumento è costituito da acqua. Il fatto notevole, però, è che – considerata dalla prospettiva dell’economia della materia dell’intero pianeta – la mia Sibley rappresenta un guadagno netto. In altre parole, un dono. Questa non è esattamente una novità – lo so; Van Helmont avrebbe potuto dirci altrettanto tre secoli fa, Shakespeare l’aveva chiaramente percepito, come pure tutti quegli artisti del Rinascimento che dipingevano cornucopie. Si tratta tuttavia di qualcosa che negli ultimi anni noi sembriamo aver dimenticato, mentre le nostre preoccupazioni sulla deplezione delle risorse del pianeta sono andate aumentando. Oggi prendiamo come articolo di fede il fatto che Terra sia in declino, che ne stiamo esaurendo le energie, la fertilità e le risorse in genere. Abbiamo finito per pensare al nostro pianeta come a un sistema chiuso; una delle metafore dominanti del nostro tempo è quella della «Terra astronave». Se la concepiamo in quel modo, è facile pensare che a poco a poco le provviste della nave si esauriscano; poiché sempre più materia viene convertita in energia, alla fine necessariamente si esaurirà. L’entropia è il grande articolo di fede del nostro tempo: chi è più impressionato da questo concetto predica i «limiti dello sviluppo» – il fatto cioè che dovremmo consumare il più lentamente possibile le nostre provviste, che sono finite e non rinnovabili. Su un’astronave, questo è logico. Ma la seconda legge della termodinamica (secondo cui, mentre la materia si converte in energia, l’entropia aumenta) si applica solo ai sistemi chiusi e – come sottolinea l’ambientalista Barry Commoner – l’ecosistema globale non è un sistema chiuso. La Terra, in effetti, non ha proprio nulla dell’astronave, giacché su di essa si riversa in continuazione nuova energia sotto forma di luce solare: luce solare gratuita, illimitata, virtualmente infinita, che arriva sulla Terra e viene usata nel processo della fotosintesi per creare nuova materia vegetale. Le piante, in altre parole, sono energia riconvertita in materia: una riduzione di entropia, almeno qui sulla Terra. L’insegnamento contenuto in tutto questo non è che dovremmo sentirci liberi di sprecare le nostre risorse, ma che i problemi ambientali che stiamo affrontando sono probabilmente legati più alle nostre tecnologie, alle nostre abitudini e ai nostri ordinamenti economici che non ai limiti intrinseci del pianeta o al fardello rappresentato dalla popolazione umana globale. Tutto quello di cui potremmo mai aver bisogno ci è dato: in termini di ecosistema globale, il pasto gratis esiste, e si chiama fotosintesi. In un certo senso, gli antichi avevano perfettamente ragione a considerare l’abbondanza del raccolto come un dono del cielo, e non sarebbe un’eccessiva forzatura considerare la silhouette lunare della mia zucca come un modo per ricordaci la sua origine extraterrestre. Poiché viviamo nell’autunno di un millennio, consapevoli di essere arrivati molto tardi su questo pianeta, mi pare che questo sia l’insegnamento più salutare impartitoci dal raccolto – una ragione sufficiente per dedicarsi al giardinaggio. Qui nel mio orto la seconda legge della termodinamica è revocata. Ogni anno, qui, c’è di più e non di meno; sempre in anticipo, mai in ritardo. Qui, nella forma sgraziata di una zucca Sibley, il nuovo viene al mondo.

Alla fine di ottobre, quando ormai ho raccolto tutto quello che potevo ragionevolmente aspettarmi dal mio orto, le gelate letali hanno cessato di terrorizzarmi. La morte delle piante annuali, adesso, non è più un dolore, ma quasi un sollievo. La mattina dopo la prima gelata veramente brutta, l’orto è più nero che verde, e tutto il suo edificio – dalle grandi foglie a tenda delle zucche, alle reti verticali di fagioli e pomodori rampicanti – si affloscia come se all’improvviso ne fosse fuoriuscita tutta l’aria. Non si tratta davvero di aria, naturalmente, ma dell’acqua che sorregge l’orto dalla primavera in poi. Tranne che per le piante legnose, orti e giardini non sono che elaborate architetture di acqua: a impartir loro la forma sono le cellule, turgide di liquido, e disposte l’una sull’altra come mattoni. Il gelo colpisce quella struttura una cellula dopo l’altra; le facce dei cristalli di ghiaccio, taglienti come vetro, formatisi per il freddo dentro ciascuna di esse, bucano le pareti cellulari liberando l’acqua intrappolata dentro. Ci si rende conto, allora, che ogni cosa dipende da questa precaria tumescenza. In realtà, però, le cellule cominciano a perdere la loro forma solo quando la temperatura torna a salire; se restasse sotto il punto di congelamento, le piante rimarrebbero rigide e verdi a tempo indefinito. Sono i tiepidi raggi del sole, al mattino, a tradire le ferite interne liberando l’acqua che in estate è sotto pressione, e facendo così afflosciare i corpi verdi mutandoli in altrettanti mucchi neri. Ci sono mattine, adesso, in cui il terreno è duro come ferro, mentre in altri giorni è ancora lavorabile. In questa stagione la terra è un cancello che si apre e si chiude, sbattuto dal vento sempre più rigido dell’autunno finché, in un giorno freddissimo, di solito a dicembre, si blocca e resta chiuso. Io però mi sento pronto a uscire dall’orto e dal giardino molto tempo prima che la terra si chiuda. Per me, il giardino perde la sua attrattiva in ottobre: un momento in cui ci sono ancora moltissimi fiori – gli astri, gli heliopsis, e le rudbeckie resistono eleganti nella bordura delle perenni, e fra le annuali si può contare sempre sulle bocche di leone per qualche fiore anche a novembre. Ma, una volta che la foresta comincia a colorarsi, gli ultimi fiori non possono più trattenere l’attenzione su di sé. Gli alberi di un autunno nel New England, estremi come il gelo, rivoluzionano ogni cosa in giardino. Proprio come il freddo rigido sembra invocare un nuovo insieme di leggi fisiche – alterando la propagazione del suono, rendendo l’aria meno elastica –, il colore degli aceri, degli hickories e delle querce rovescia le leggi dello spazio e della luce in vigore dalla primavera. Per tutta l’estate, le pareti verde opaco degli alberi che racchiudono il mio terreno conferiscono al giardino la sua intimità, fissando una scala che esalta le sue piante; in estate, gli alberi formano uno scenario neutro sul quale i fiori possono rappresentare il loro elegante spettacolo senza la competizione del paesaggio su scala più ampia. Ora, però, lo spazio verde sembra diventare ogni giorno più vasto, mentre ogni nuovo fondale colorato, nella foresta, attira l’occhio sempre più lontano attraverso quanto in precedenza era opaco. La scala intima e ridotta dello spazio esterno estivo lascia il passo a qualcosa di più grandioso. Le pareti perdono tutta la loro modestia, fioriscono in modo spettacolare, e la bordura delle perenni quasi scompare, come una sposa sfortunata messa in ombra dai vestiti più appariscenti delle damigelle. A proposito del fogliame autunnale nel New England, Thoreau disse che «se un tal fenomeno accadesse una volta soltanto, sarebbe tramandato alla posterità dalla tradizione, e penetrerebbe infine nella mitologia». Adesso, infatti, l’intera foresta è un giardino: gli hickories sono le sue emerocallidi gialle, gli aceri canadesi le sue dalie rosseggianti, la quercia scarlatta la sua rosa. Prime a cadere, le foglie dei frassini punteggiano il prato come tarassachi ad aprile; qualche settimana dopo, gli aceri ricci si lasciano cadere attorno alle caviglie vesti di un giallo brillante. Adesso, quando il sole è basso nel cielo, i raggi obliqui si impigliano nelle cime degli alberi scarlatti, incendiando la foresta da ovest a est: una bordura di chiome fiammeggianti lunga chilometri. A metà ottobre, le pareti del mio giardino sono in furiosa rivolta; le comuni specie della foresta hanno maltrattato le aiuole fiorite, bruciando i preziosi ibridi e conquistando con la forza l’attenzione dei nostri sguardi. Di fronte a tutto questo, non cerco nemmeno di prendere le difese del giardino. Per una volta, sono incline a schierarmi con Thoreau, il quale sostiene – in un bel saggio poco conosciuto intitolato Autumnal Tints – che «Al confronto, il nostro giardinaggio ha luogo su una scala insignificante – il giardiniere si prende ancora cura di qualche astro in mezzo alle erbacce morte, ignorando astri e rose giganteschi che, per così dire, gli fanno ombra e non chiedono nessuna delle sue attenzioni ... Perché non elevare lo sguardo su scenari più ampi, e camminare nel grande giardino, invece di muoverci furtivi in un suo piccolo angolo “corrotto”? Perché non considerare la bellezza della foresta, invece di limitarci a qualche erba confinata?». Qui, in mezzo alla disinvolta prodigalità della foresta ottobrina, la bordura delle perenni sembra vagamente assurda, mentre riversa il suo colore come una fontana in mezzo al mare. Fino a questo saggio, composto negli ultimi mesi della sua vita, Thoreau aveva scritto relativamente poco sull’autunno. Se torniamo a Walden, che vuole essere la cronaca di un anno intero, troviamo qualche paragrafo soltanto sull’autunno: almeno metaforicamente, infatti, Walden è un libro sulla primavera, sul rinnovamento, sulle nuove prospettive e anche sulla sfida – e l’autunno tende a fiaccare le esortazioni su questi temi. Parlare troppo dell’autunno, in Walden, avrebbe fatto appassire, come una brutta gelata, lo spirito del libro, che è invece pieno di tensione e senza cedimenti. Come il suo mentore Emerson, anche Thoreau teneva la maggior parte dei suoi momenti di rassegnazione confinata nei diari. Almeno fino a quegli ultimi mesi, quando, mentre stava morendo di tubercolosi, mise mano al tema delle foglie autunnali. «Quant’è meraviglioso il modo in cui vanno verso la tomba» scrive. «Con quanta eleganza si posano, e si trasformano in terra ... Ci insegnano a morire. Chissà se mai verrà il giorno in cui gli esseri umani, con la loro tanto vantata fede nell’immortalità, si distenderanno con la stessa eleganza e la stessa maturità – in cui si spoglieranno del proprio corpo come fanno per unghie o capelli, con la serenità di un’estate di San Martino». L’autunno non è una stagione adatta alla sfida. Si può contestare quanto si vuole l’agenda della natura, fare il tiro alla fune fino a diventare paonazzi, ma la squadra delle anatre non vince mai, non sul serio. Se adesso quindi ho voglia di cedere, di lasciar perdere per un po’ le cure di questo giardino e seguire Thoreau in quello più vasto, la foresta ottobrina, lo farò. Il che non significa abbandonare il mio giardino, ma solo riconoscere la transitorietà della mia influenza su di esso, e l’inevitabilità del suo disfacimento. In Autumnal Tints Thoreau non sta perorando la sua solita causa della superiorità morale della natura incontaminata; dice infatti che gli aceri nel verde di Concord lo commuovono come quelli della foresta. No, in questo saggio il suo vero tema è il destino. Un giardino che non morisse mai, alla fine, stancherebbe; forse i giardini hanno bisogno di muri non solo nello spazio ma anche nel tempo. Il giardino non visitato dall’inverno è un luogo opaco, spogliato della primavera, ignaro dello straordinario profumo che si leva dal terreno dopo che ha goduto il suo riposo. Quella promessa, che la freschezza originale della terra tornerà a ogni primavera, non sarebbe mai mantenuta se non fosse per il sopravvenire, in autunno, del gelo, del marciume e della morte finale. Io non credo di voler intralciare tutto questo (come se potessi!). Perciò quando esco dall’orto per l’ultima volta, in autunno, lascio il cancello aperto dietro di me. IX PIANTARE UN ALBERO

È da un po’ di tempo, ormai, che sto pensando di piantare un albero in questo terreno: un albero vero. Non è che prima non l’abbia mai fatto (probabilmente ne ho messi a dimora circa venticinque), ma erano tutti alberi minori, in effetti dei pesi leggeri, il tipo d’albero che si può giustificare nel breve termine: qualche esemplare di Pinus flexilis per fare da schermo alla strada, alberi da frutto nani, uno o due meli selvatici, un’ortensia ad alberello, e un paio di Salix babylonica, l’«albero della gratificazione immediata», altrimenti noto come salice piangente. Per molto tempo questa è stata la mia idea di albero: qualcosa che potevo prendere al vivaio per 29 dollari e 99, infilare dietro alla cinqueporte, spingere in una vecchia buca qualsiasi e poi osservare mentre cresceva praticamente sotto i miei occhi. Ai miei salici formato cinqueporte occorsero meno di tre anni per espandersi e raggiungere le dimensioni di altrettante mongolfiere. Senza voler loro togliere nulla, i salici mancano tuttavia di una certa... gravitas, e nella proprietà c’era ben poco che la fornisse. Gli alberi più grandi di questa ex fattoria sono i due frassini bianchi all’imbocco del vialetto d’accesso; benché adesso svettino per quindici metri buoni, sono tuttavia particolarmente discreti. Anche se sono più alti di una villetta, ci si accorge a malapena che esistono. I frassini sono così: il loro tronco può crescere fino a nove metri prima di ramificarsi, e anche quando sono pienamente sviluppati lasciano passare gran parte della luce solare che li investe. Ogni anno entrano ed escono di scena senza far troppo chiasso, mettendo le foglie solo nell’ultimo scorcio di maggio per poi spogliarsene prima della fine di settembre. Grandi alberi, i frassini sono tuttavia di indole modesta, felici che altre piante crescano nella loro ombra, leggera e a chiazze, e di offrire agli esseri umani ottima legna sia per il fuoco, sia per fabbricare mobili, mazze da baseball e manici di attrezzi (comprese impugnature di asce, il che può dare un’idea di quanto essi siano arrendevoli). Quando si pensa a una fattoria nel New England, probabilmente ci si immagina, vicino alla casa, qualche albero venerando, per esempio delle querce o degli aceri; questa però non è mai stata quel tipo di fattoria, anche se il terreno è coltivato dai tempi delle colonie. A partire dagli anni Venti, e poi senza interruzioni fino a qualche anno fa, questo era un piccolo caseificio, gestito da una famiglia che probabilmente non ha mai ricavato da questa terra più di un precario sostentamento. Un paio di aceri canadesi accanto alla casa avrebbero indicato il raggiungimento di una certa rilassatezza nei rapporti dei Matyas con questa terra, rilassatezza di cui dubito abbiano mai goduto. Avrebbero anche indicato, da parte loro, l’aspettativa di una continuità in questo luogo. Evidentemente, però, i figli non avevano alcun interesse a mandare avanti la fattoria su questo spicchio di collina tutto sassi ed erbacce; quando i vecchi Matyas morirono, infatti, la proprietà fu suddivisa e poi venduta, un pezzo dopo l’altro. Nessuno, in città, ha una buona parola per il vecchio signor Matyas (il nome si pronuncia «Matches»); «talmente meschino, che si odiava da solo» è il modo in cui me lo descrisse un suo vicino. Tutti, però, gli riconosceranno questo: faceva un sidro tra i migliori in circolazione, in ogni caso il più forte. E in effetti gli unici alberi seri che mise a dimora furono una mezza dozzina di meli, che oggi sono di gran lunga gli alberi più belli della proprietà. Ora che hanno più di mezzo secolo, le loro sagome contorte e segnate dalle intemperie fanno pensare al carattere delle rovine architettoniche, al loro essere testimoni sul lungo periodo. Ci sono giorni in cui sembrano monumenti al leggendario caratteraccio del loro piantatore. Ovviamente, però, nella loro messa a dimora confluirono pochissime considerazioni estetiche; è chiaro che l’idea era strettamente utilitaristica: assicurarsi una fonte di alcol gratuita e sicura. Il fattore lasciò nel deposito sotterraneo per gli ortaggi centinaia di damigiane da circa quattro litri l’una. No, questa decisamente non era una di quelle eleganti fattorie del New England il cui proprietario aveva il tempo e la lungimiranza di piantare querce a beneficio delle generazioni a venire. Quando acquistammo il terreno, c’era in esso qualcosa di inconfondibilmente appalachiano, con il giardino del tutto privo di elementi ornamentali (a meno che non si vogliano contare vecchi copertoni e attrezzi agricoli mal ridotti) o di qualsiasi altra prova che i suoi abitanti ne avessero tratto piacere. Con ogni probabilità, Joe Matyas non avrebbe potuto godersi un’area in ombra nemmeno se l’avesse avuta, e predisporne una per i figli non avrebbe fatto altro che indurli a trascurare il lavoro. Forse l’ombra era un lusso che la loro fattoria non poteva permettersi. L’assenza di grandi alberi sottolinea l’asprezza della terra, come pure la solitudine della piccola casa piazzata su di essa, costruita con un kit della Sears, Roebuck & Co. In parte, fu proprio per attutire questo effetto che volevo piantare degli alberi. Dico «in parte» perché sto cominciando a capire che piantare alberi è un’azione complicata, che ha molte radici tra loro intrecciate e non facili da districare. Una delle mie motivazioni, però, era estetica. Un grande albero cambia l’aspetto del paesaggio, naturalmente, e non solo da lontano; dà forma allo spazio anche nella terza dimensione. Un vecchio acero canadese – era quello l’albero che avevo in mente – promuove intorno a sé un diverso tipo di luce e di atmosfera. Per me, la sua ombra, benché fitta, è sempre bella e non opprime mai. Lo spazio che un acero configura intorno a sé sembra particolarmente accogliente nei confronti degli esseri umani: è uno spazio intimo, quasi domestico se confrontato, per esempio, con quello creato da un’antica quercia veneranda, che sembrerà più vasto e imponente. Per quanto possa diventare grande, un acero non abbandona mai i suoi legami con la dimensione umana; alcuni suoi rami immancabilmente si tendono in basso verso di noi, così che possiamo arrampicarci su di essi, anche soltanto con l’immaginazione. Gli aceri fanno pensare a un rifugio. Quando sono piantati vicino alle case hanno sempre un aspetto piacevole; d’estate raccolgono l’aria fresca tutt’attorno e la sospingono verso le finestre aperte. Un unico grande albero può creare da solo una sorta di giardino, un luogo del tutto nuovo sulla terra, e nella mia mente già visitavo quello creato dal mio acero e riposavo alla sua ombra. Sapevo che non sarebbe successo dal giorno alla notte, e probabilmente nemmeno nel corso della mia vita; ma non era proprio quello il punto? Imbarcarsi in un progetto che sarebbe sopravvissuto a me, piantare un albero la cui chioma non avrebbe mai fatto ombra a me, ma ai miei figli o, più probabilmente, ai figli di estranei? A me sembra che piantare un albero sia sempre un’impresa utopistica, una scommessa su un futuro a cui il giardiniere non si aspetta necessariamente di assistere. Devo ammettere che il solo pensare alla questione in questi termini stava cominciando a farmi sentire piuttosto virtuoso. E in un giorno di ottobre, di primo mattino, mentre ero al volante diretto al vivaio, cominciai a trarre conclusioni di vasta portata sulla «nostra epoca» basandomi sul fatto che adesso nessuno pianta più grandi alberi. Quante persone, oggi, riescono a immaginare di starsene sedute all’ombra di un acero piantato nel 1989, in un giorno d’estate del prossimo secolo? Non molte, a giudicare da quello che scegliamo di piantare di questi tempi. In passato, i giardinieri americani piantavano alberi con lo stesso entusiasmo che oggi riversiamo sulle piante perenni. Oggi, in genere, quando ci dedichiamo alla messa a dimora degli alberi, abbandoniamo nel mare aperto di un prato qualche piccolo esemplare ornamentale. Certo, noi disponiamo di meno spazio, e all’incirca ogni sette anni traslochiamo; comunque sia, non posso fare a meno di pensare che qui debba essere in atto anche una qualche patologia culturale, un venir meno della capacità di immaginare il futuro. (Ho letto che ai tempi di Weimar i tedeschi smisero di piantare querce e altre latifoglie a crescita lenta). Non molto tempo fa, durante una visita all’Huntington Botanical Garden, nella California meridionale, rimasi profondamente colpito nell’apprendere come i tre imponenti cipressi che dominano i giardini fossero stati ottenuti dai semi che Henry Huntington aveva raccolto a Chapultepee Park, presso Città del Messico, al volgere del secolo. Quella era un’epoca piena di fiducia. «Piantare alberi» scriveva Russell Page nel suo memoir «significa dare corpo e vita al proprio sogno di un mondo migliore». In compagnia di pensieri grandiosi ed edificanti come questi, andai ad acquistare il mio albero. Spiegai a John, il gestore del vivaio, che ero interessato a un albero da ombra, probabilmente un acero canadese. John si accigliò e scosse lentamente la testa, dandomi la stessa occhiata che mi lancia il meccanico quando scopre, guardando sotto il cofano della mia auto, che dovrà lavorarci un pomeriggio. Sembrava che ultimamente gli aceri canadesi della zona stessero passando un brutto momento, e lui sconsigliava decisamente di piantarne uno. A quanto pare un insetto microscopico, il tripide del pero, ha infestato gli aceri canadesi di tutto il New England. Ad aprile, i tripidi divorano le gemme, così che le foglie prodotte a maggio sono troppo piccole e deformi per essere di una qualche utilità. Gli alberi vittime di una grave infestazione sono costretti a emettere nuove foglie, al prezzo di uno stremante dispendio di energie; in capo a diversi anni, quello sforzo li uccide. I tripidi ci sono sempre stati, diceva John, ma ultimamente gli aceri sono diventati più suscettibili, forse per via dello stress causato dalle piogge acide. Questo è esattamente il tipo di informazione capace di deviare il vento allontanandolo dalle vele dell’utopia. Adesso che John me l’aveva accennato, però, mi ricordai d’aver notato, di recente, diversi aceri morti lungo le strade locali: piante monumentali risalenti all’Ottocento che la scorsa primavera non erano riuscite a metter le foglie. È deprimente pensare che le ciminiere dell’Ohio possano esserne la causa. John disse che mi sarebbe andata molto meglio con un acero riccio, una varietà europea che prosperava in ambienti cittadini e sembrava relativamente impermeabile agli stress della civiltà. Mi indicò alcuni esemplari locali che io conoscevo bene, grandi chiome ovali che in autunno si accendono di un giallo brillante, e così decisi che un acero riccio sarebbe andato bene.2 John mi mostrò quelli che aveva a disposizione: alcuni alberelli di quattro metri e mezzo (e circa sei-sette centimetri di diametro) in vendita a 129 dollari, più 10 per la consegna. Anche di quelle dimensioni, a dirla tutta non facevano un grande effetto; in realtà erano lunghi pali sottili sormontati da qualche rametto biforcuto. Conciliare l’immagine della mia utopia con questi bastoni tanto decantati non sarebbe stato facile. Avendo probabilmente percepito la mia delusione, John posò la mano su uno degli alberi all’altezza della spalla e disse: «Ma questi aceri ricci crescono in fretta. Dieci anni e potrebbe avere un alberello rispettabile; venti, e forse avrà perfino un po’ d’ombra». «Un po’» d’ombra nel 2010?! All’improvviso, cominciai a sentirmi scoraggiato su tutto il fronte. Più che un Henry Huntington che guarda fiducioso oltre la prua del nuovo secolo, io mi sentivo un Joe Matyas, che allunga la mano per prendere un drink mentre rimugina sul suo orizzonte limitato. Forse sarebbe stato meglio un melo, o un altro salice... Voglio dire, quanto tempo resteremo in questa casa? A quel punto, però, mi tornarono in mente i miei «grandiosi pensieri», il mio nobile desiderio di avere un atteggiamento positivo nei confronti del futuro. Cercai di controllarmi e dissi a John di consegnarmi l’acero riccio l’indomani.

Passai quella sera a documentarmi sulla messa a dimora degli alberi. Tutti i libri che consultai cercavano di impressionarmi insistendo sull’enorme responsabilità che stavo per prendermi, e io rimasi debitamente impressionato. In particolare, «scelta del sito e scavo della buca» erano operazioni fondamentali e irreversibili delle quali, se mal gestite, mi sarei pentito per decenni. Scegliere il sito per mettere a dimora un grande albero è una responsabilità che fa riflettere; se sbagli e lo pianti troppo vicino alla casa o a una linea elettrica, costringerai qualcuno, un giorno, a prendere una decisione terribile. Mettere a dimora un grande albero significa gettare un’ombra lunga sul futuro di un luogo; siamo perciò obbligati a considerare con attenzione il suo impatto. Passai mezza giornata girando nella proprietà, sforzandomi di aggiungere mentalmente allo scenario vuoto di fronte a me qualcosa delle dimensioni di una palazzina. (A rendere tanto difficile lo sforzo di immaginazione potrebbe essere il fatto che non vivrò abbastanza per vedere l’albero maturo?). Uno dopo l’altro, tracciai nell’erba dei cerchi di quindici metri di diametro, cercando di figurarmi l’impronta finale dell’ombra. Le ombre che si possono vedere sono già abbastanza elusive; far progetti tenendo conto di ombre che distano da noi decenni significa avere a che fare con ombre di ombre. Mi decisi per un sito in mezzo a un prato naturale aperto, a metà strada fra la casa e il fienile in cui io avevo allestito il mio ufficio e Judith il suo studio. Si tratta di un punto focale della proprietà, visibile da diverse stanze della casa, dal fienile e dal vialetto d’accesso. Privo di qualsiasi ombra o riparo, il prato naturale è esposto a una luce particolarmente cruda e d’estate trasmette la sensazione d’un luogo torrido, asciutto e inospitale. Ogni giorno, lo attraversiamo cinque o sei volte e la prospettiva di un acero che faccia ombra sul nostro cammino verso il fienile è allettante. L’albero costituirà una gran bella vista sia dalla camera da letto, per penetrare nella quale i raggi obliqui del sole mattutino dovranno farsi strada tra le sue foglie, sia dal mio scrittoio nel loft del fienile, dove l’ultimo sole tinto di rosso lo illuminerà da dietro. Sarà uno spettacolo. Il mattino dopo, di buon’ora, cominciai a scavare la buca: un’altra solenne responsabilità. Proprio come i futuri abitanti di questa casa dovranno convivere con le conseguenze della mia scelta del sito, allo stesso modo la qualità della buca che preparo oggi contribuirà a determinare il benessere futuro del mio albero. Per le piante, la buca è destino. A imprimere questo dato di fatto come un marchio a fuoco sulla mia coscienza fu Ralph Snodsmith, un bel tipo un po’ anacronistico, di cui una volta seguii un corso base di giardinaggio al New York Botanical Garden. Snodsmith – che guidava una Mercedes verde, e si presentava a ogni singola lezione con un abito verde e una cravatta verde – ci impartì alcune chiare regole empiriche che in seguito si è dimostrato difficile far vacillare. «Xilema su, floema giù». «Tenete d’occhio il rapporto tra radice e germoglio». E poi quella che ripeteva pressappoco ogni quindici minuti e su cui ci interrogò sia a metà corso, sia all’esame finale: «Meglio mettere a dimora una pianta da cinquanta centesimi in una buca da cinque dollari che una pianta da cinque dollari in una buca da cinquanta centesimi». Benché su questo punto vi sia un certo dibattito, la maggior parte dei libri consigliava una buca profonda come il pane di radici dell’albero e ampia il doppio: nel mio caso significava scavare una buca larga poco meno di due metri e profonda circa uno (in un terreno buono, può bastare anche più piccola). I disegni in bianco e nero del libro mostravano sezioni trasversali in cui eleganti piramidi di terriccio si ergevano accanto a ugualmente eleganti piramidi capovolte scavate nel terreno. Le immagini non mostravano massi delle dimensioni di casseforti da ufficio. Dalla mia buca, invece, vennero fuori più sassi che terra, alcuni così grossi che dovetti farli rotolar fuori, alla maniera degli antichi egiziani, lungo assi di legno inclinate. Più di una volta pensai di provare un sito diverso, ma alla fine decisi che qualsiasi ghiacciaio avesse sparso tutte quelle maledizioni ignee e sedimentarie nella mia proprietà, probabilmente l’aveva fatto animato da uno spirito democratico. Uno dei primi coloni insediatosi qui a Cornwall, dopo aver effettuato una scoraggiante perlustrazione iniziale della terra che intendeva coltivare, compose un distico in suo onore: «La natura esaurì tutta la sua provvista / vomitando sassi, ma non fece molto di più». Il lavoro di scavo – estrazione mineraria sarebbe forse un termine più accurato – mi lasciò un po’ più solidale nei confronti di Joe Matyas e degli agricoltori che lo avevano preceduto su questa terra. Se la mia sopravvivenza dipendesse da lei, forse nemmeno io ci avrei piantato grandi alberi. Questi ultimi, infatti, si mettono a dimora in un terreno per il quale si prova un certo affetto, e lavorare questo suolo così avaro di tutto, tranne che di sassi, suscitava inevitabilmente più rancore che gratitudine. Wendell Berry dice che in una fattoria gli alberi indicano, da parte dell’uomo, «buone intenzioni a lungo termine nei confronti del luogo». Probabilmente è così, e scommetterei che le intenzioni di Joe Matyas verso questo luogo tendevano alla malevolenza. Lo scavo della buca mi prese gran parte della giornata, ma poiché mi riposavo spesso, ebbi molto tempo anche per appoggiarmi alla vanga e riflettere. Guardando tutt’attorno la società di alberi a cui il mio acero stava per unirsi, mi resi conto che essi conservavano un archivio della storia sociale e naturale di questa terra. I vecchi meli caparbi non si limitavano a rievocare i tempi in cui la terra era di Joe Matyas; i loro contenevano anche la cronaca delle condizioni meteorologiche degli ultimi cinquant’anni: probabilmente anche un bambino avrebbe riconosciuto l’estate da «effetto serra» del 1988, talmente calda e siccitosa che gli alberi apposero l’anello di crescita più sottile di tutto un secolo. Anche nel breve periodo in cui sono stato qui, ho constatato come ogni evento importante, nella storia naturale, lasci il suo segno sui miei alberi. Uno dei meli ha una brutta cicatrice nel punto in cui un grosso ramo gli fu strappato durante un’inattesa bufera di neve, il 4 ottobre 1987: una famigerata tempesta che avanzò da qui e poi attraversò l’Atlantico, acquistando la forza di un uragano. Il 16 ottobre, in Inghilterra, abbatté migliaia di querce e olmi preziosissimi, piantati nel Settecento e considerati parte del patrimonio nazionale. Il 10 luglio 1989, un fulmine aprì una ferita di dodici metri nella corteccia del frassino che si trova sul versante sud del mio vialetto d’accesso. Benché sia ancora tutto da vedere se questo albero sopravviverà, mi considero comunque fortunato: quella stessa tempesta generò un tornado violentissimo che attraversò Cornwall vorticando, e danneggiò diverse migliaia di alberi tra i più antichi della città, sradicandoli o strappando loro la chioma. Il 9 luglio, Cornwall aveva una Main Street elegante, bordata di aceri, che faceva di essa il ritratto stesso di un piccolo paese ottocentesco del New England; l’11 luglio, completamente spogliata dei suoi alberi, sembrava più simile a un avamposto di frontiera brutalmente sottratto alla foresta nel giro di una notte. Finché vivrò, Cornwall non tornerà più a sembrare ben radicata su queste terre. Sperando di avvicinare quel giorno, quest’autunno tutti, qui in paese, si stanno affrettando a piantare alberi (potrebbe essere questa un’altra delle mie motivazioni?) e il mio acero andrà a unirsi a una nuova grande generazione arborea che commemorerà, ancora per molto tempo nel prossimo secolo, il disastro del 1989. Come i meli di Joe Matyas, anche il mio acero indicherà un punto di svolta nella storia sociale di questa proprietà. Non posso essere del tutto certo di che cosa rivelerà il mio acero a chi rifletterà appoggiato alla vanga di qui a cinquant’anni, ma posso immaginarlo: l’avvento, in questa proprietà, di un’èra più aperta, in cui il suo proprietario ebbe i mezzi e l’agio per mettere a dimora un albero strettamente ornamentale. Ma se mi fossi completamente sbagliato? Se di qui a cinquant’anni piantare un acero significasse qualcosa del tutto diverso, e il mio successore interpretasse la messa a dimora di quest’albero come... non so, come un atto stranamente arrogante, per esempio, oppure «specista», perché ormai la gente avrà deciso che gli alberi hanno alcuni diritti inalienabili, uno dei quali sarà di non essere piantati a meno di quindici metri da un’abitazione umana? Oppure può darsi che il petrolio sarà finito, e il fascino di una catasta di legna da ardere supererà di gran lunga quello di un grande acero maturo. Probabilmente a questo punto penserete che avrei dovuto interrompere le riflessioni e riprendere il mio scavo, ma temo di non averlo fatto; la mia ricostruzione storica accanto alla vanga, infatti, mi aveva indotto a chiedermi se non fossi stato ingiusto con Joe Matyas. Non poteva essere che per lui abbattere un albero fosse un atto virtuoso come lo è per me piantarne uno? E che una storia più autentica di questo luogo dovrebbe prestare la stessa attenzione agli alberi che ci sono e a quelli che non ci sono? Forse, il principale contributo di Joe all’economia morale di questo luogo non è rappresentato dai meli, ma dai prati naturali aperti. Poiché Matyas era il proprietario di una fattoria marginale del New England, con ogni probabilità i suoi sentimenti verso gli alberi non dovrebbero essere giudicati secondo il mio standard (o quello di Wendell Berry), ma in base a quello dei primi agricoltori del New England: gente che praticava un’agricoltura di sussistenza per la quale un albero era nel migliore dei casi una risorsa da sfruttare e nel peggiore un impedimento all’agricoltura, una grossa erbaccia. Per gran parte del tempo in cui questa terra è stata nelle mani dei bianchi, l’abbattimento degli alberi è sembrato un’azione civile – moralmente non ambigua e civilmente responsabile – proprio come oggi lo è piantarli. Adesso per noi davvero non è facile immaginarlo, né trovare una qualsiasi bellezza – e meno che mai una soddisfazione morale – in un paesaggio da poco disboscato, ma molti prima di noi l’hanno fatto. William James racconta l’episodio (rinarrato da Richard Rorty in La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà) di quando, viaggiando sugli Appalachi, si imbatté in una rozza proprietà che un agricoltore aveva appena disboscato a colpi d’ascia. Al principio, la baracca di legno dell’uomo, l’orto malmesso e il porcile fangoso colpirono James come qualcosa di «orrendo, una specie di ulcera», ma quando il contadino gli disse che «Noi qui non si è contenti se non si riesce a mettere a coltura uno di questi avvallamenti», si rese conto che «stavo perdendo tutto il significato interno della situazione. Poiché per me le radure volevano dire solo denudazione, pensavo che avessero questo significato anche per coloro che le avevano create con le loro braccia robuste e le loro asce obbedienti. Ma quando guardavano quegli orrendi ceppi loro invece pensavano a una vittoria personale ... In breve, la radura che per me era solo una brutta immagine sulla retina per loro era un simbolo pieno di onesti ricordi e che intonava un vero e proprio peana del dovere, della lotta e del successo». Le impressioni iniziali di James sulla proprietà di questo agricoltore riecheggiano molte descrizioni di fattorie del New England, lasciateci da viaggiatori inglesi del Sette- Ottocento. «La scena è veramente selvaggia» scrisse un europeo vedendo il paesaggio americano per la prima volta. I primi agricoltori si limitavano a bruciare o contenere intere foreste e poi procedevano a seminare le loro piante in mezzo ai tronchi senza foglie e ai ceppi carbonizzati. Secondo molti visitatori, i campi del New England avevano un «aspetto rozzo e orrendo». Perché questa repulsione? Probabilmente perché ormai, nel Settecento, gli europei si ritrovarono con così pochi alberi da maturare all’improvviso una nuova percezione del loro valore e della loro bellezza. L’atteggiamento dell’americano verso le foreste vergini li faceva inorridire proprio come oggi quello del brasiliano verso la sua foresta pluviale fa inorridire noi. Chi ha ragione, allora? Quale tra le diverse storie che possiamo raccontare a noi stessi su alberi e asce è vera? È facile e consolante pensare che sul tema degli alberi io sia più illuminato di Joe Matyas (o dei brasiliani), ma sto cominciando a pensare che la verità sia più complicata. In realtà, l’etimologia della parola true, vero, ci riporta al termine usato dagli antichi anglosassoni per tree, albero: per loro, una verità non era nulla più che un’idea profondamente radicata. Allo stesso modo, la mia versione di un albero messo a dimora – ambasciatore nel futuro, depositario della storia, indice del nostro rispetto per la terra, fonte di piacere estetico, eccetera – è «vera»; ha radici profonde nella cultura e sembra servirci bene. Ma – come avrebbe potuto avvertirmi Joe Matyas – anche le idee con le radici più profonde possono cadere.

Naturalmente, l’albero di Joe Matyas e il mio non sono gli unici che abbiano ombreggiato questo luogo. A partire da quella dell’indiano, posso contare forse altre cinque o sei versioni di albero che sono state accolte con favore, soltanto considerando quest’angolo del New England. La storia di questi alberi (o metafore di alberi) vale la pena di essere raccontata, se non altro perché indica come le nostre verità personali sulla terra possano un giorno lasciare spazio ad altre verità, nuove e forse più utili. Benché non si abbia notizia di indiani vissuti a Cornwall, sappiamo però che cacciavano e attraversavano le foreste qui attorno, e la maggior parte delle nostre strade ricalca le loro piste. Il paesaggio degli indiani era animato da ogni sorta di spiriti, ed essi credevano che gli alberi possedessero un’anima veneranda che facevano bene attenzione a non offendere. All’ombra di certi alberi era possibile trovare conoscenza e intuizioni. Gli alberi avevano sentimenti, occhi e orecchie (un concetto, questo, che ha mostrato una certa persistenza), e a meno che non fosse assolutamente necessario, non venivano abbattuti; e anche in quel caso, ci si premurava di spiegare all’albero le proprie ragioni e di chiedere il suo perdono. Gli indiani d’America non furono il primo popolo, e nemmeno l’unico, a considerare gli alberi divini; se non la maggioranza, comunque molti popoli precristiani praticavano una qualche forma di venerazione degli alberi. Il ramo d’oro di Frazer elenca decine di esempi, tratti da ogni angolo dell’Europa settentrionale come pure dall’antica Grecia, da Roma e dall’Oriente. Per gran parte della storia, in effetti, i boschi sono stati densamente popolati di spiriti e folletti, demoni, elfi e fate, e gli alberi stessi sono stati considerati dimore degli dèi. (È interessante osservare che un albero – la quercia, l’albero di Zeus – è stato venerato più di qualsiasi altro. Forse ciò si spiega tenendo conto della sua longevità: più della maggior parte degli altri alberi, la quercia trascende gli esseri umani. Frazer suggerisce un’altra possibile ragione di questo status speciale: la quercia è l’albero più colpito dal fulmine, e quindi si può pensare che goda di un rapporto speciale con il cielo). Se, come è stato detto, il monoteismo insegnò agli esseri umani come temere Dio senza temere anche il creato, i puritani spinsero questa idea innovativa all’estremo; potevano amare Dio e al tempo stesso detestare il creato. Difficilmente l’albero del puritano avrebbe potuto essere più diverso da quello dell’indiano; ai suoi occhi, la foresta del Nuovo Mondo era un «luogo disabitato orrendo e desolato», «selvaggio e desolato», una «cupa boscaglia» in cui una persona poteva perdersi, essere uccisa oppure, peggio ancora, allontanarsi da Cristo e dalla civiltà – per assumere i costumi indigeni. La foresta, quel luogo ombroso infestato da Satana e dall’incertezza, offendeva profondamente le idee puritane di ordine e luce, in effetti della civiltà stessa. Nei racconti di prigionia che i puritani (e molte generazioni successive di americani) si narravano per demonizzare gli indiani, l’albero è presentato come un complice virtuale del male; immancabilmente i pellerossa legavano a un albero la donna bianca prigioniera e sbattevano contro un altro la testa del suo bambino. Abbattere un albero era un atto di suprema virtù, grazie al quale si faceva avanzare l’opera di Dio e si teneva a bada la desolata natura selvaggia. I duri sentimenti dei puritani nei confronti degli alberi avevano sicuramente qualche ragione di ordine pratico: portare nel Nuovo Mondo la loro forma di agricoltura richiese uno sforzo erculeo di deforestazione, e un odio virtuoso nei confronti dei boschi era un buon modo per accelerare il lavoro. D’altra parte, sembra anche probabile che la vista degli indiani in adorazione degli alberi alimentasse l’antipatia verso questi ultimi. I puritani si trovavano in una terra in cui gli alberi erano ancora idoli pagani. Nell’abbatterli, prendevano posto in un’antica tradizione cristiana di animosità contro gli alberi, che la Chiesa giustamente considerava rivali; i papi medioevali avevano regolarmente emesso proclami per proibirne la venerazione e ordinare la distruzione dei boschi sacri. Come accadeva spesso, quando la proibizione totale di tale prassi pagana non riuscì a eliminarla, la mossa successiva della cristianità fu quella di cooptarla, ed è possibile interpretare l’architettura delle cattedrali gotiche, i cui spazi altissimi e la luce filtrata ricordano quelli di una foresta, come un ingegnoso tentativo di appropriarsi del bosco sacro in nome di Cristo. Benché agissero in nome di un’autorità più secolare, i coloni successivi e poi i federalisti continuarono, e infine vinsero, la guerra dei puritani contro gli alberi.3 Ormai de- divinizzato, agli occhi dei coloni l’albero appariva o come un bene di consumo, o come un’erbaccia. Quando un colono guardava un pino, vedeva l’albero di una nave; in una quercia vedeva doghe per botti. Tutto il resto era d’intralcio. Per il colono la deforestazione era sinonimo di progresso; abbattere gli alberi migliorava la terra e in molti casi rafforzava il diritto a possederla. Quando, nel 1738, i terreni su cui oggi sorge Cornwall furono battuti all’asta in lotti da 200 ettari ciascuno, la colonia stabilì che ogni nuovo proprietario dovesse disboscare almeno due ettari e mezzo della sua terra entro tre anni, o altrimenti rinunciare al diritto su di essa. Secondo gli archivi cittadini relativi alle tasse sulla proprietà, entro il 1820 tutti i terreni, salvo una piccola quota, erano stati disboscati. Nel 1919, quando fu acquistato da Joe Matyas, questo versante della collina doveva essere pressoché nudo. Proprio allora, però, le fattorie di Cornwall avevano cominciato a fallire e il bordo di alberi rimasti intorno alla città si stava dilatando, espandendosi dalle cime delle colline refrattarie all’aratro giù verso la Housatonic Valley e opponendosi a qualsiasi opera di diboscamento sul suo cammino. Essendo uno degli ultimi nella zona a ereditare la metafora dell’Albero Coloniale, Joe deve aver lottato strenuamente per tenere a bada la foresta che avanzava. Come moltissimi americani dell’ultimo secolo, avrebbe trovato più facile venerare un’ascia che non un albero. Senza dubbio avrebbe approvato il «Canto della scure» di Whitman, in cui l’ascia è raffigurata come una sorta di fonte da cui sgorga la nuova nazione americana:

La scure rimbalza! La densa foresta emana fluide risonanze, Divallano, sorgono, assumono forma, Capanna, tenda, approdo, picchetto, Coreggiato, aratro, piccone, leva, vanga, Embrice, traversa, puntello, assito, stipite, panconcello, pannello, frontone a punta, Cittadella, soffitto, taverna, accademia, organo, palazzo d’esposizioni, biblioteca, ... Senati dei singoli Stati e senato della nazione di Stati, ... Le forme sorgono!

La storia delle metafore dell’albero non è assolutamente lineare come la sto presentando. Infatti, benché la versione coloniale abbia avuto il sopravvento in questa proprietà per gran parte della sua storia, vi hanno lasciato il segno, sia pure in modo molto più lieve, anche alcuni elementi di altre metafore. I due frassini bianchi, per esempio, furono probabilmente messi a dimora sotto l’influenza di una nuova metafora arborea, sorta in Inghilterra nel Sei- Settecento, subito dopo la presa di coscienza, da parte degli inglesi, che erano rimasti loro ben pochi alberi. Il significato dei miei frassini, che presumo siano stati piantati da Matyas o dal suo immediato predecessore, è essenzialmente politico: montando la guardia all’imbocco del vialetto d’accesso, dichiarano i confini della proprietà e ribadiscono l’intenzione del proprietario di tenersela stretta a tempo indefinito. L’idea che piantare degli alberi potesse avere un significato sociale o politico sembra essere stata inventata dagli inglesi, anche se poi da allora si è diffusa ampiamente. Secondo la ricostruzione storica di Keith Thomas, L’uomo e la natura, gli aristocratici del Sei- Settecento cominciarono a piantare latifoglie arboree, di solito in filari, per dichiarare sia l’estensione della loro proprietà, sia la loro rivendicazione permanente su di essa. «Che cosa può mai esservi di più piacevole» domandava ai suoi lettori l’editore di una rivista per gentiluomini «che avere i confini e i limiti dei vostri possedimenti mantenuti e tramandati di generazione in generazione da simili testimonianze viventi e in continua crescita?». Piantare alberi aveva l’ulteriore vantaggio di essere considerato un atto patriottico, perché la Corona aveva reso nota una pericolosa scarsità del legno duro da cui dipendevano i cantieri della Royal Navy. Era nato l’Albero Politico. Gli aristocratici inglesi dell’epoca svilupparono un’ossessione per gli alberi, che non solo piantavano, ma dipingevano e facevano oggetto di poesie e discussioni di opprimente lunghezza. (Quando Washington Irving visitò l’Inghilterra, rimase al tempo stesso divertito e sconcertato nell’imbattersi in gentiluomini intenti a discutere gli attributi di singoli alberi come si fosse trattato di statue o cavalli). I proprietari terrieri finirono per identificarsi con i propri alberi, a vedere nella loro nobiltà e nelle loro radici profonde il simbolo della propria stessa posizione sociale. Edmund Burke dichiarò che gli aristocratici erano «le grandi querce che proteggono con la loro ombra un paese». È raro che questo tipo di simbolismo politico sfugga ai membri meno privilegiati della foresta sociale: durante la Rivoluzione inglese, nelle campagne, i ribelli abbatterono sistematicamente gli alberi nelle proprietà dei Realisti. Dopo la Restaurazione, per un gentiluomo, ripiantare gli alberi era considerato un modo appropriato di dimostrare la propria lealtà alla monarchia, e tra il 1660 e il 1800 furono piantati diversi milioni di latifoglie arboree. Così, proprio mentre gli americani si stavano impegnando a fondo nella deforestazione del loro continente, gli inglesi si imbarcavano in quella che probabilmente fu, nella storia, la prima operazione di messa a dimora di alberi su vasta scala. Era stata riscoperta la venerazione degli alberi, anche se adesso il suo significato era evidentemente più sociale che spirituale. Come sottolinea Thomas, piantare alberi sulla scala osservata in Inghilterra nel Settecento rifletteva non «soltanto disponibilità di tempo e di molto denaro, ma anche stabilità politica e un sistema di successione che desse fiducia nella trasmissione dell’eredità. Indubbiamente fu questa una delle ragioni per cui il fenomeno ebbe inizio prima in Inghilterra» che altrove. I grandi alberi d’Inghilterra, molti dei quali risalgono a quel periodo, non si limitano a riflettere le tradizioni conservatrici del paese, ma con ogni probabilità hanno anche contribuito a perpetuarle. Visitando l’Inghilterra al principio di questo secolo, lo scrittore ceco Karel C¬apek rifletteva che «... gli alberi venerandi [del paese], magnificamente solidi, antichi, generosi, liberi, immensi ... hanno avuto una grandissima influenza sul torysmo in Inghilterra. Credo che essi salvaguardino gli istinti aristocratici, il senso della storia, il conservatorismo, il protezionismo, il golf, la Camera dei Lord, e altre cose antiche e curiose. Probabilmente, se io vivessi nella Strada delle ringhiere in ferro battuto, oppure nella Strada dei mattoni grigi, sarei un radicale rabbioso, ma poiché me ne stavo seduto sotto un’antica quercia nel parco di Hampton Court, ero seriamente tentato di riconoscere il valore delle cose antiche, la nobile missione dei vecchi alberi, l’armoniosa accoglienza della tradizione, e la legittimità di attribuire un valore a tutto ciò che è abbastanza forte da conservarsi nei secoli». Quando gli esseri umani venerano gli alberi, conclude Keith Thomas, in realtà stanno venerando la propria società. In ogni caso, alberi piantati; perché la venerazione di alberi nell’ambiente naturale ha, come vedremo, un significato diverso. Gli alberi piantati in Inghilterra nel Settecento, però, fanno parte del patrimonio nazionale, il che potrebbe spiegare come mai, per gli inglesi, l’uragano dell’ottobre 1987 sia stato un colpo tanto duro. Nella nostra epoca, l’Albero Politico ha trovato un terreno particolarmente favorevole in Medio Oriente. Forse a causa delle sue radici inglesi, ben presto il movimento sionista introdusse l’Albero Politico in Palestina, dove rimane un simbolo fortemente connotato. Gli israeliani hanno piantato milioni di alberi nel deserto per affermare la loro rivendicazione sulla terra; considerano inoltre reato lo sradicamento di un albero e hanno imposto ai residenti nei territori della Cisgiordania di procurarsi un permesso prima di piantarne uno sul suolo pubblico. Ovviamente il simbolismo politico degli alberi non ha mancato di impressionare i palestinesi, i quali, nei primi giorni dell’intifada, colpirono Israele appiccando il fuoco a diverse foreste piantate dal suo popolo. La rivolta delle pietre è stata anche una guerra degli alberi: per rappresaglia, l’esercito israeliano distrusse con i bulldozer gli uliveti palestinesi.

A poco a poco, in Inghilterra e in America, l’Albero Politico lasciò il passo, nell’Ottocento, all’Albero Romantico, il cui significato è più spirituale che sociale. Questo è l’albero di Wordsworth, Emerson, Thoreau e Muir – e anche, in linea di massima, della nostra epoca. «Nei boschi torniamo alla ragione e alla fede» scriveva Emerson, orientando gli americani verso un albero dal quale potevano trarre sostegno spirituale: in America, un’idea innovativa. In contemplazione e in compagnia dell’Albero Romantico – indipendente, solido, sempre proteso verso il cielo – potevamo trovare un antidoto alla nostra meschina cultura commerciale, e aprirci all’infinito: l’albero infatti sta al di sopra della storia e fornisce un punto d’osservazione elevato, da cui potevamo guardare, oltre la confusione e il caso, verso «leggi più sublimi». Gli alberi «si prendevano cura» degli esseri umani, diceva Thoreau; provvedevano al nostro benessere spirituale ed emozionale. «Mostratemi due villaggi, uno circondato di alberi ... l’altro un luogo desolato, squallido e senz’alberi, o che ne abbia uno o due soltanto per i suicidi, e io sono certo che nel secondo si troveranno i bigotti più affamati e fanatici e i beoni più disperati». Nell’America della seconda metà dell’Ottocento, l’Albero Romantico e l’Albero Coloniale coesistettero in tensione. Pressappoco nello stesso periodo in cui Whitman celebrava la sua scure, Thoreau componeva uno struggente necrologio per un pino abbattuto da un boscaiolo. «Una pianta che ha impiegato due secoli per giungere alla perfezione, elevandosi a passi lenti verso il cielo, oggi pomeriggio ha cessato di esistere ... Perché la campana del villaggio non suona a morto?». Al volgere del secolo Gifford Pinchot, esperto di scienze forestali per Theodore Roosevelt, propose una nuova metafora, quella dell’Albero Utilitaristico, per riconciliare l’albero-bene di consumo e l’albero-oggetto spirituale; nel suo schema, se necessario, gli alberi potevano ancora essere abbattuti, ma in modo giudizioso, facendo attenzione a conservare alcuni boschi molto amati. Il compromesso di Pinchot, però, non resse, e alla fine, almeno nella mente popolare, l’albero di Thoreau prevalse sull’ascia di Whitman. Oggi, la maggior parte di noi vede l’albero e la foresta attraverso gli occhi di Thoreau. Il quale avrebbe facilmente riconosciuto l’albero descritto dai nostri autori naturalisti, che si erge fuori dalla cultura come una sorta di testimone morale e spirituale. L’Albero Romantico è, in effetti, l’immagine speculare dell’Albero dei Puritani; se questi ultimi abbattono gli alberi per redimere la natura, i romantici li venerano per redimere la cultura. Entrambi considerano natura e cultura come antagoniste; soltanto, esprimono un voto diverso. Ovviamente, la metafora arborea che un popolo fa propria avrà una grandissima influenza sugli alberi di quell’epoca. Gli Alberi dei Puritani tendono a essere abbattuti all’insegna del bigottismo; gli Alberi Coloniali, senza cerimonie. Gli Alberi Politici vengono messi a dimora nei momenti di stabilità, ma quando è tempo di rivoluzione sono abbattuti, sia pure con le cerimonie del caso. E l’Albero Romantico? Il suo destino appropriato è di ritrovarsi in un parco o in una riserva naturale, lontano dai traffici degli esseri umani. In generale, più che piantato, l’Albero Romantico viene conservato, giacché gran parte della sua autorità spirituale gli deriva dall’indipendenza dagli esseri umani, dalla sua incontaminata Alterità. E in effetti è proprio all’idea romantica di albero e in generale di natura che dobbiamo l’invenzione delle aree incontaminate protette, uno dei grandi contributi americani alla cultura mondiale. Qual è il mio posto tra queste metafore? Da qualche parte fra l’Albero Politico e quello Romantico, credo. Nell’accingermi a piantarlo, sto agendo in linea con la metafora politica: voglio lasciare il mio segno in questo luogo, e voglio rivolgermi al futuro. Francamente, però, sarei stato altrettanto felice di ereditare degli alberi, e di passare direttamente all’infatuazione romantica. Desideravo con tutto il cuore dei grandi alberi, qui, in modo da potermi immergere in pensieri emersoniani, al riparo della loro ombra. La maggior parte dei miei sentimenti inconsapevoli sugli alberi l’ho ereditata dai romantici. Le mie conclusioni iniziali su Joe Matyas erano esattamente quelle che avrebbe tratto Thoreau: da questo «luogo desolato, squallido e senz’alberi» avrebbe concluso che il suo proprietario era un bigotto fanatico e un beone disperato: un pagano in una terra di adoratori della natura. Tuttavia, come ho detto, non mi sento più a mio agio con una descrizione così compiaciuta. Joe visse alla luce di una metafora diversa, necessaria per portare a termine un particolare compito storico, quello di colonizzare e costruire l’America. A quel tempo, essa era uno strumento importante come l’ascia. Benché per noi possa essere più difficile da capire, le nostre metafore sulla natura non sono più giuste o più eterne di quella di Joe. Osservata dalla prospettiva della prossima metafora arborea, la nostra apparirà contingente come la sua – e probabilmente altrettanto retriva. Se la storia che sto raccontando ha qualcosa da insegnarci, è che l’idea ottocentesca dell’albero placidamente svettante fuori dalla cultura – anzi, tutta l’idea della natura come di qualcosa che sta «là fuori», una sorta di assoluto metafisico permanente rispetto al quale possiamo giudicare la cultura contingente e confusa – è essa stessa un costrutto culturale, un’invenzione di Emerson e Thoreau e dei poeti romantici inglesi. Certo, una grande invenzione – che ci ha donato le riserve naturali, la nostra insuperata letteratura naturalistica e una gran quantità di splendidi viaggi a contatto con la natura –, ma non dovremmo scambiarla per una verità eterna. Come l’Albero Coloniale o l’Albero Politico, anche l’Albero Romantico non è nulla più (o nulla meno) di uno strumento dimostratosi utile nel realizzare alcuni importanti compiti della storia. Sto tuttavia cominciando a chiedermi in quale misura esso continui a essere utile. Se finora il giardinaggio mi ha insegnato qualcosa, è che la netta contrapposizione romantica tra natura e cultura non è d’aiuto. La metafora romantica non ci attribuisce alcun ruolo, in natura, salvo che come osservatori o adoratori; agire nella natura significa macchiarla con la cultura (consideriamo l’accezione diffusa: la terra è «vergine» finché l’uomo non le fa «violenza»). L’idea romantica poteva incoraggiarmi a venerare e conservare gli alberi che avevo, ma non mi offriva grandi incentivi a piantarne di nuovi. In effetti è proprio l’immagine del nobile Albero Romantico a far apparire tanto patetici gli striminziti alberelli del vivaio, con il loro cartellino del prezzo. La metafora politica potrebbe essere un po’ più utile – mi aiuta a tenere d’occhio una gratificazione lontana nel tempo –, ma non vi è una certa presunzione in tutte quelle idee grandiose sul piantare alberi per le generazioni future? Mi sembra che ora sia tempo di usare qualche metafora arborea nuova.

Ma torniamo per un momento da questa foresta di alberi alquanto speculativi al mio albero vero, in attesa di essere piantato. Dopo aver scavato la buca, preparai il terreno, un argomento sul quale le autorità in materia di messa a dimora degli alberi sono attualmente divise. La linea di pensiero più recente sostiene, contra Snodsmith, che – tanto per cominciare – il terreno non dovrebbe essere migliorato, a meno che non sia insolitamente povero: la teoria è che un albero fatto crescere in una porzione di terreno privilegiato sarà viziato e non riuscirà a sviluppare una costituzione robusta. Il mio terreno è talmente pesante che decisi di dar retta al consiglio della vecchia scuola, di alleggerirlo e arricchirlo. Così, dopo aver smosso la terra sul fondo del cratere con un forcone, aggiunsi una balla di sfagno del volume di 170 litri, un paio di sacchi di letame bovino compostato da 18 chilogrammi e qualche palata del compost di mia produzione (niente fertilizzanti, però: possono bruciare le radici di un giovane albero). In piedi sul fondo della buca, rivoltai e mescolai la miscela con il forcone, e poi ne misi un po’ da parte per dopo. Inoltre graffiai e bucherellai le pareti del cratere: se sono troppo dure o lisce, l’albero finirà per sviluppare una matassa fittissima di radici, più o meno come se stesse crescendo in un vaso. Il passo successivo consiste nel far arrivare un tubo di gomma fino alla buca e nel riempirla d’acqua. Questo si fa non solo per assicurare un’adeguata fornitura di umidità, ma anche per far assestare bene la terra e rimuovere ogni grossa bolla d’aria che potrebbe far marcire qualsiasi radice eventualmente esposta ad essa. Diedi all’acqua tutto il tempo di filtrare nella terra e poi misurai la profondità della buca, usando un’asse e un filo a piombo. La profondità alla quale si pianta l’albero è un fattore critico: se si esagera, le radici possono soffocare; ma se si resta troppo in superficie, rischiano di rimanere esposte. Il terreno aggiunto alla fine dovrebbe coprire appena la parte superiore del pane di terra. Se il suolo sul fondo della buca è stato disturbato, è importante lasciarlo assestare. Alla fine avevo un’autentica buca da cinquanta dollari, una buca snodsmithiana, ed era arrivato il momento di presentarle il mio acero. Con l’aiuto di una spessa asse di legno e qualche altra mano disponibile, feci in modo di calarlo nella buca con delicatezza, senza che il pane di terra urtasse troppo. Benché non sia necessario togliere la iuta (si decomporrà abbastanza in fretta) slegai comunque i nodi alla base dell’albero e rimossi, per quanto possibile, tutto il filo metallico che avvolgeva il pane delle radici. Poi, mentre Judith teneva il tronco perpendicolare, cominciai a riempire la buca intorno alle radici con la miscela di terreno che avevo preparato. Ogni volta, dopo qualche palata, innaffiavo e premevo con i piedi sul terreno fresco per spremere fuori l’aria e consolidarlo. Quando il lavoro di riempimento giunse al livello del suolo, formai tutt’attorno al perimetro della buca un bordo di 15 centimetri per raccogliere l’acqua piovana e condurla verso le radici. Riempii questa vasca di acqua diverse volte, inzuppando profondamente le radici, e poi aggiunsi uno strato di pacciame per impedire al terreno di asciugarsi. Quando si mette a dimora una pianta, sembra sempre di ridurne le dimensioni: all’improvviso il mio acero aveva perso quasi un metro di altezza, il che lo faceva sembrare ancor più insignificante di quando era posato a terra. Senza contare che adesso stava per diventare ancora più striminzito, visto che John mi aveva dato istruzioni affinché lo «cimassi»; per ripristinare un corretto equilibrio tra le radici (che sono già state ridotte al vivaio) e la cima dell’albero, dopo la messa a dimora la chioma andrebbe sfoltita: di circa un terzo, dicono alcuni, benché altri trovino da ridire sulla questione. Se la chioma è troppo ampia, il sistema radicale ridotto dell’albero potrebbe non essere in grado di fornirle abbastanza acqua per sostenere il fogliame eccessivo, e la pianta andrà in shock. (Questo spiega perché gli alberi si mettono a dimora nel tardo autunno, quando non hanno foglie e pertanto hanno poco bisogno di acqua; quando in primavera rispunteranno le foglie, il sistema radicale ormai avrà recuperato). Perciò, con l’obiettivo di ristabilire un corretto rapporto tra chioma e radici, mi arrampicai su una scala e, con riluttanza, amputai diversi rami, già scarsi, del mio albero, in un atto di misericordia orticolturale che trovai difficile da eseguire. Il passo finale consiste nel fornire all’albero, durante il suo primo anno, una certa protezione dagli elementi, benché – anche su questo punto – si scateneranno le discussioni; la scuola più recente è contraria a viziare indebitamente la nuova pianta. Ad ogni modo, io optai per il vecchio approccio «cuore di mamma», basandomi sulla particolare durezza delle condizioni su questo versante della collina. Per proteggere la corteccia dell’albero dal sole e dal vento invernali, avvolsi il tronco con della carta; per contrastare i topi di campo a cui piace mordicchiare tutto il contorno della base di un giovane albero (e che così facendo lo uccidono), lo fasciai con una sorta di calza ricavata da un pezzo di zanzariera metallica. E infine legai l’albero a un tutore, per evitare che il vento ne disturbasse le fragili radici mentre facevano le loro prime incursioni in un suolo sconosciuto. Quando arretrai per ammirare il mio lavoro, era ormai il crepuscolo. Era una di quelle sere di ottobre senza nubi in cui la temperatura si abbassa velocemente, marciando a ranghi serrati con il sole; la notte prometteva una gelata letale. E il mio acero appena piantato, questo preziosissimo bastone sormontato di rametti, con tanto di calze e stabilizzato da tiranti, sembrava decisamente troppo vulnerabile per passare la notte fuori casa da solo. Considerando tutto quel lavoro, non sembrava un granché – un vecchio nodoso con un bastone, là fuori da solo, in una pianura senz’alberi, nulla di più lontano dalla nostra immagine di Albero Romantico. E nei giorni che seguirono, sarei rimasto deluso più volte dal fatto che i visitatori nemmeno si accorgevano del mio acero se non ero io a sollecitarli, e meno che mai lo ammiravano. Ma più me ne stavo lì ad osservarlo, più numerosi erano gli aspetti che riuscivo a coglierne. Può darsi sia stata la luce tarda e incerta, ma dopo un po’ non ebbi alcuna difficoltà a immaginare il suo futuro prender forma. Guardavo i ramoscelli sottili e nodosi e potevo figurarmeli, come in un time-lapse, coprirsi di foglie e ramificarsi, primavera dopo primavera, un ramo in due, e poi in quattro, in otto, in sedici: il mio albero si costruiva a ogni estate in una progressione geometrica che alla fine generava una grande chioma ovale.

Dal mio scrittoio, nel loft del fienile, ho una buona vista sul nuovo albero e ogni volta che la mia attenzione si stacca dal lavoro e divaga, sembra fissarsi là, tra i suoi rami senza foglie. Lo so, è un essere fragile per caricarlo di tante riflessioni, ma questo sembra essere il destino degli alberi nel mondo umano – i nostri pensieri e le nostre metafore si aggrappano loro come limatura di ferro a un magnete. Ovviamente gli alberi esistono a prescindere dal nostro elaborare immagini che li riguardano – non li abbiamo certo inventati noi; tuttavia, hanno sposato le nostre metafore in tempi così remoti che non abbiamo idea di come sarebbero da single. Ogni volta, quando crediamo di aver capito che cosa sia veramente un albero – la dimora degli dèi, un bene di consumo, parte integrante della natura trascendente, una componente dell’ecosistema forestale –, salta fuori che ne abbiamo ottenuto una nuova descrizione, di una qualche temporanea utilità pratica. Eppure, considerando ciò che siamo noi, non è cosa da poco: le nostre metafore contano. Anzi, le nostre metafore sugli alberi, in linea di massima, determinano il loro destino. Gli alberi sono entrati nella cronaca in tempi alquanto recenti. Gli scienziati ci avvertono che sono in difficoltà e che la loro salute è strettamente legata alla nostra in modi mai immaginati prima. È probabile che la deforestazione stia contribuendo ad alterazioni potenzialmente catastrofiche dell’atmosfera terrestre. Nessuna meraviglia, quindi, che adesso le immagini degli alberi sembrino comparire dappertutto: nelle gallerie d’arte, sulle copertine delle riviste, nei loghi e nelle pubblicità di prodotti, nei discorsi dei politici. La mia impressione è che, poiché percepiamo la progressiva usura delle nostre antiche metafore sugli alberi e sulla natura nel suo complesso, ci stiamo guardando intorno per trovarne di nuove e più potenti. Quando il mio acero raggiungerà l’età matura probabilmente avrà un significato molto diverso da quello che ha oggi. Quali potrebbero essere queste nuove metafore? Di recente, alcuni filosofi e attivisti hanno ipotizzato che il mio albero (e in generale la natura) possieda dei «diritti». Costoro considerano la storia occidentale come una lotta incessante per ampliare la cerchia di coloro che detengono diritti: dai nobili ai proprietari terrieri, e poi ai maschi bianchi, agli uomini in generale e, più recentemente, alle donne. Ora ci propongono di allargare ancor di più questo cerchio, così da comprendervi la natura. Come se nulla fosse, stabiliscono analogie tra la condizione degli afroamericani prima dell’abolizione della schiavitù, da un lato, e l’attuale condizione della natura, dall’altro. Tale equazione legittima un’azione radicale in difesa della natura, e gruppi come Earth First! ricorrono regolarmente alla prassi di conficcare lunghi chiodi nel tronco degli alberi – il cosiddetto tree spiking – per difenderli da chi intende abbatterli. Se si accetta che gli alberi hanno pari diritti, il fatto che questa prassi metta a rischio la vita dei boscaioli e degli operai delle segherie sembra molto meno inquietante. In un libro intitolato Should Trees Have Standing?, uno studioso di diritto, Christopher D. Stone, si è spinto fino a sostenere che si dovrebbe riconoscere a foreste, laghi e montagne il diritto di intentare cause legali nei tribunali americani. L’idea non è forzata come sembra; agli occhi della legge, aziende e navi sono già «persone giuridiche», e quindi perché non anche gli alberi? L’argomentazione di Stone venne effettivamente accolta dal giudice William O. Douglas, e in anni recenti sono state intentate con successo alcune cause legali per conto di alberi e altri oggetti naturali. Non sono sicuro di apprezzare l’idea che il mio acero diventi un attaccabrighe dalla querela facile. Benché i proponenti dei diritti della natura abbiano sicuramente a cuore l’interesse del mio albero e della natura in genere, mi preoccupa il fatto che, in un mondo dove gli alberi avessero dei diritti, con ogni probabilità quelli degli esseri umani sarebbero sostanzialmente diluiti. I diritti dell’individuo – questa conquista tanto fragile della storia occidentale, e ottenuta a così caro prezzo – non se la passerebbero bene in un mondo di «diritti della natura»: se non altro perché, in natura, le specie contano sempre più degli individui. Dalla prospettiva «biocentrica» che gli ambientalisti radicali ci stanno spingendo ad adottare, gli ultimi grizzly contano più di qualsiasi singolo essere umano. Nel tentare di espandere il liberalismo al punto da fargli abbracciare la natura, potremmo finire per distruggerlo. Naturalmente questa è un’obiezione meramente pragmatica, e non modificherà le posizioni di chi pensa di aver scoperto una nuova verità sulla natura. L’idea dell’albero come detentore di diritti, in realtà, non è che un’altra metafora, che siamo liberi di accettare o respingere. Se farà presa in questo paese (e temo che possa riuscirci) sarà perché coincide sia con la nostra tradizione liberale, sia con l’Albero Romantico di Thoreau. (Perché che cosa è mai l’Albero Attaccabrighe se non un Albero Romantico assistito da un avvocato?). Eppure, con tutto il loro parlare di biocentrismo, i fautori dei diritti della natura non sfuggono mai davvero alla trappola dell’antropocentrismo: i diritti, dopo tutto, sono un’invenzione umana, che sta sempre a noi concedere o negare. E, comunque, non possiamo trovare una metafora meno goffa dell’ennesima fondata sui «diritti»? In effetti, la scienza ha recentemente proposto alcune nuove descrizioni degli alberi che mi hanno colpito come molto più promettenti e che, a posteriori, conferiscono un singolare carattere di prescienza agli antichi, intensi sentimenti del genere umano verso gli alberi. Pensiamo all’albero come all’apparato respiratorio della Terra: un organo che contribuisce a regolare l’atmosfera del pianeta espirando ossigeno fresco e inalando l’anidride carbonica che gli animali, i processi di decomposizione e la civiltà riversano in essa. In questa nuova descrizione, l’albero non è soltanto un membro dell’ecosistema forestale locale (dove sappiamo già da tempo che esercita un’influenza considerevole sulla vita, sul suolo e anche sul clima); è anche un organo vitale in un sistema globale più intricato e interdipendente di quanto avessimo mai realizzato. Con ogni probabilità, la Terra non è un’astronave ma un organismo, e gli alberi potrebbero essere i suoi polmoni. Usando strumenti per l’analisi dei gas installati sul versante di un vulcano nelle Hawaii, gli esseri umani hanno realmente osservato il respiro della Terra, che segue un ritmo annuale: ogni estate, mentre le foreste inspirano, nell’atmosfera dell’emisfero settentrionale la quantità di anidride carbonica diminuisce; e a ogni inverno, quando la fotosintesi segna il passo e il mondo civilizzato aumenta il consumo di combustibili fossili, i livelli di anidride carbonica tornano ad aumentare – ogni anno un po’ più alti. (In questa nostra epoca, probabilmente, il respiro della Terra sta facendosi affannoso, mentre l’inalazione di anidride carbonica da parte delle foreste fatica a tenere il passo con il pesante respiro caldo della civiltà). Qui, allora, troviamo i lineamenti di una nuova metafora arborea, di grande potenza, bellezza e significato. La scienza ha anche finito per considerare gli alberi come barometri della nostra salute ecologica, giacché sembrano manifestare, molto prima che affiorino altrove, gli effetti dei danni arrecati dall’uomo all’ambiente. Gli ecologi pensano che l’effetto serra si presenterà dapprima nelle foreste, dove le specie che amano i climi freschi, incapaci di migrare verso nord abbastanza velocemente per tenere il passo con il clima sempre più caldo, potrebbero ben presto ammalarsi e soccombere. Già le foreste del New England mostrano gli effetti delle piogge acide (come il lettore ricorderà, questa è la ragione per cui mi portai a casa un acero riccio; il mio albero probabilmente è un indice dei nostri primi sforzi per adattarci a questo nuovo mondo). Gli alberi sono come i canarini che i minatori usavano portare con sé nelle miniere di carbone; poiché gli uccelli soccombevano ai gas velenosi molto prima degli esseri umani, mettevano in guardia i minatori sulla presenza di pericoli invisibili. Potendo scegliere, preferirei che a prender piede fosse l’Albero Polmone o l’Albero Canarino, piuttosto che l’Albero Attaccabrighe. Queste prime due metafore (che in effetti sono strettamente correlate) hanno il pregio di costringerci a vedere le connessioni fra le nostre piccole azioni locali e la salute globale del pianeta; ci incoraggiano a preservare gli alberi che abbiamo e a piantarne di nuovi; ma – ancora più importante, credo – la metafora del polmone ci mette nuovamente in rapporto reciproco con gli alberi. Erode le idee romantiche sulla loro Alterità, orientandoci verso un piano esistenziale condiviso. Se arrivassimo a pensare agli alberi come a polmoni, e alla Terra come a un organismo, non avrebbe più senso pensare a noi stessi come a creature esterne alla natura, né agli alberi come a esseri esterni alla cultura. In effetti, tutta la metafora esterno/interno potrebbe appassire, e sarebbe una buona cosa. Ovviamente è impossibile prevedere quale di queste nuove metafore prenderà piede, ammesso che una di esse lo faccia; dipenderà da quanto si dimostreranno utili, come pure dalle solite vicissitudini delle nostre conversazioni sulla natura. In qualsiasi momento, infatti, potrebbe affacciarsi un nuovo Thoreau – che stavolta potrebbe, o meno, essere uno scienziato – e ricreare completamente la nostra idea di albero, lungo linee che forse non possiamo prevedere. Questo però sono in grado di dirlo: se potessi sapere che ne sarà del mio acero da qui a cent’anni, saprei anche moltissimo sul destino della natura. Un giorno, non molto tempo fa, ho riflettuto esattamente al tipo di notizia che vorrei ricevere dal mio albero. Era un mattino, di buon’ora, dopo una notte che aveva portato la prima neve. Nel cielo d’oriente il sole era così basso e così luminoso, che l’acero gettava un’ombra insolitamente lunga e ben definita sulla bianca superficie innevata. Correva dritta a ovest attraverso il prato, poi piegava su per una collinetta, e infine s’addentrava nei boschi, dove io ne persi traccia. E allora che cosa volevo sapere da laggiù, dall’orizzonte? Di certo il rapporto stilato sul mio albero da un botanico sarebbe stato utile. L’acero riccio è una specie che ama i climi freschi, e se nel caldo clima del 2091 si fosse ammalato, saprei che l’effetto serra è reale e non siamo stati in grado di evitarlo. Ma forse ancor più rivelatrice della relazione di uno scienziato sarebbe una lettera, scritta nel futuro, che per caso dedicasse qualche frase alla descrizione del mio albero, nel linguaggio di tutti i giorni. Da quella potrei apprendere in che modo la gente del 2091 guarderà a un albero, e questo mi informerebbe bene sul futuro stato della natura. Se la lettera lo descrivesse in termini che Joe Matyas – o se è per questo, anche Henry Thoreau – avrebbe trovato familiari, ci sarebbe di che preoccuparsi, perché significherebbe che siamo rimasti impantanati nelle antiche metafore sulla natura, e che probabilmente non siamo riusciti a districarci dalla nostra difficile situazione attuale. Ma forse la lettera conterrebbe le prove di una nuova metafora, qualcosa di intenso, potente e, almeno per qualche tempo, vero. Con ogni probabilità, al principio suonerebbe strana, perfino incomprensibile. Ma alla fine il suo significato affiorerebbe. Ecco cos’è un albero, dunque! Come abbiamo mai potuto pensare altrimenti? In tal caso, potrebbe esserci ragione di sperare che qualche nuova verità abbia messo radici, e che forse abbiamo finalmente dato una base più salda al nostro rapporto con la natura.

2. Questa fu una decisione ancor più cruciale di quanto pensassi. In seguito scoprii che l’acero riccio è una specie invasiva disprezzata dai giardinieri americani più raffinati. Inoltre fa un’ombra molto fitta in cui non cresce quasi nulla. L’acero canadese nativo, che è più bello, alla fine si riprese dai suoi problemi con i tripidi; io rimango comunque fedele al mio bistrattato acero riccio, se non altro quale durevole riconoscimento della mia naïveté orticolturale.

3. Le migliori descrizioni degli atteggiamenti dei puritani e dei coloni nei confronti del paesaggio si trovano nella storia ecologica di William Cronon, Changes in the Land, Hill & Wang, New York, 1983 [La terra trasformata: indiani e coloni nell’ecosistema americano, trad. it. di R. Arrigoni, Selene, Milano, 1993], e in John Stilgoe, Common Landscape of America, 1580-1845, Yale University Press, New Haven, 1982. X L’IDEA DI UN GIARDINO

La notizia più importante mai uscita da Cornwall in molti anni fu quella del tornado – o dei tornado – che l’attraversò sbandando il 10 luglio 1989, un lunedì. Abbattendosi dalle Berkshire Hills giù nella valle dell’Housatonic, il tornado virò a est su Coltsfoot Mountain e poi, dopo aver macchiato il cielo di un verde grigiastro inquietante, avanzò come la pallina di un flipper impazzito da una collina all’altra per circa quindici minuti, prima di tornarsene in cielo turbinando. Era parte di quella stessa tempesta che squarciò la corteccia del mio frassino; sull’altro lato del paese, però, il danno fu molto, molto peggiore. Come una gigantesca gomma da matita fuori controllo, la tromba d’aria cancellò con precisione intere aree di bosco, e passò strisciando in modo approssimativo su molte altre, dove spazzò via solo le cime degli alberi. Nell’arco d’una notte, vaste aree del paese furono rese irriconoscibili. Un luogo su cui la gomma si abbatté in pieno fu Cathedral Pines, una famosa foresta di pino strobo di antica crescita, non lontana dal centro del paese. Questa foresta di 17 ettari, una sorta di santuario locale, era uno dei boschi di pino strobo più antichi del New England, giacché i suoi alberi non venivano toccati dal 1800. Vederla, significava farsi un’idea di come la foresta del Nuovo Mondo dovesse apparire ai primi coloni, e nel 1985 il governo federale la designò come «national natural landmark»: un sito naturale di interesse nazionale. Addentrarsi in Cathedral Pines in una calda giornata estiva era come lasciarsi alle spalle il sole ed entrare in una cattedrale in penombra, dove – nell’aprirsi un varco fino al suolo soffice ed elastico, che per buona parte di due secoli non aveva visto il cielo azzurro – la luce veniva rinfrescata e attenuata da trilioni di aghi di pino. Quando arrivò la tempesta, erano circa le cinque del pomeriggio e bastò solo qualche minuto di vento perché pini alti più di quarantacinque metri, con la circonferenza pari a quella di un missile, giacessero al suolo come bastoncini di shangai, simili a un pugno di matite lasciate cadere da una grande altezza. A tal punto il vento era assordante che le persone all’interno delle case, al limitare della foresta, si accorsero degli alberi abbattuti solo quando si avventurarono all’esterno, una volta passata la tempesta. Il mattino seguente – il cielo ormai era limpido – fu il primo, in più di un secolo, in cui la luce del sole cadde su quel terreno. «È uno scempio terribile» raccontò ai giornali il primo consigliere comunale; «una tragedia» disse un altro residente a Cornwall dando voce al profondo senso di perdita condiviso da molti in paese. Ma, nei giorni che seguirono, il consigliere e tutti noi altri imparammo che le nostre reazioni, benché comprensibili, erano miopi, non scientifiche e, cosa peggiore di tutte, antropocentriche. «Per noi sarà anche una calamità» disse un funzionario statale per la gestione dell’ambiente a un giornalista dello «Hartford Courant»; ma «per la biologia non è uno shock imprevedibile. È semplicemente un evento naturale». Nature Conservancy, l’organizzazione ambientalista proprietaria di Cathedral Pines, emise un comunicato stampa in cui spiegava che «la tempesta di lunedì è stata solo un ulteriore anello nella catena ininterrotta degli eventi responsabili di formare e modificare questa foresta». Non passò molto tempo prima che l’attrito fra queste due prospettive innescasse una controversia abbastanza accesa da farsi spazio sulle pagine del «New York Times». Nature Conservancy, fedele al proprio mandato di mantenere le sue terre in uno «stato di natura», dichiarò che avrebbe lasciato Cathedral Pines a sé, permettendo che la foresta seguisse il suo «percorso naturale», quale che esso fosse. Per i funzionari locali e per coloro che abitavano nei pressi della foresta questa posizione era del tutto inaccettabile. Oltre a essere uno spettacolo che stringeva il cuore, gli alberi abbattuti, proprio ai margini del paese, costituivano anche un rischio d’incendio. Qualche estate di siccità, e il legname avrebbe potuto prender fuoco minacciando diverse case vicine e forse l’intero abitato. Erano in molti, a Cornwall, a volere che Cathedral Pines fosse ripulita e ripiantata, in modo che almeno la prossima generazione riuscisse a vedere qualcosa di simile all’antica foresta. Ci fu anche chi ebbe il pessimo gusto di sottolineare la perdita di più di 2300 metri cubi di legname pregiato, magnifico legno di pino senza difetti e senza nodi. I giornali la presentarono come una classica battaglia ambientalista, che vedeva contrapposti gli interessi dell’uomo a quelli della natura, e in un certo senso proprio di quello si trattava. Da un lato c’erano gli ambientalisti duri e puri, convinti che qualsiasi intervento umano nella destinazione della foresta fosse innaturale. «Se avete intenzione di ripulirla,» dichiarò uno di loro alla stampa locale «a quel punto potreste anche farci dei condomini». Dall’altro lato c’erano i presunti interessi dell’uomo, variamente declinati utilizzando il vocabolario della sicurezza (il rischio di incendi), dell’economia (il legname perso) e dell’estetica (lo «scempio terribile»). Tutti si divertono con un bello scontro locale, ma devo dire che a me l’intera faccenda parve subito deprimente. Si trattava in effetti di una classica battaglia ambientalista, in quanto sembrava esemplificare esattamente quasi tutto quello che non va nel nostro modo di accostarci, oggigiorno, ai problemi di questo genere. Entrambe le parti cominciarono a mettere in caricatura le posizioni dell’altra: nella pagina della posta, sul «New York Times», la battuta dello «scempio terribile» attirò il ridicolo sul consigliere comunale per il suo antropocentrismo; lui, a sua volta, accusò uno scienziato di Yale, che si era espresso a favore della non interferenza, di «vivere in una torre d’avorio». Per quanto sembrassero lontane, però, le due posizioni in realtà avevano molti più punti in comune di quanto riconoscessero i loro fautori. Entrambe partivano dalla premessa che uomo e natura fossero inconciliabili antagonisti, e che la vittoria di uno implicasse necessariamente la sconfitta dell’altra. Entrambe le parti, in altre parole, accettavano le premesse di quella che potremmo chiamare l’«etica della natura incontaminata», fondata sul presupposto che il rapporto tra uomo e natura somigli a un gioco a somma zero. Questa idea, che trova ampio consenso ma in larga misura resta non verificata, ha fissato i termini della maggior parte delle battaglie ambientaliste combattute nel nostro paese, a partire dalla primissima davvero importante: lo scontro sulla costruzione della diga nella Hetch Hetchy Valley nel 1907, che vide John Muir contrapposto a Gifford Pinchot, quest’ultimo abitualmente definito da Muir «distruttore di templi». Osservando il mio piccolo dibattito locale dispiegarsi nell’arco di quell’estate e diventare progressivamente sempre più sterile e chiassoso, cominciai a chiedermi se ormai non fosse la stessa etica della natura incontaminata, nonostante tutte le conquiste realizzate in questo paese nell’ultimo secolo, a esser divenuta parte del problema. Cominciai anche a chiedermi se non fosse possibile formulare un’etica diversa che ci guidasse nelle nostre interazioni con la natura, almeno in certi tempi e in certi luoghi: un’etica che non fosse basata sull’idea della natura incontaminata ma su quella di un giardino.4

Gli specialisti di scienze forestali che hanno esaminato le sezioni degli alberi abbattuti a Cathedral Pines pensano che i più antichi risalissero pressappoco al 1780; ciò indica che probabilmente il sito era stato oggetto di taglio da parte della prima generazione di coloni. Pertanto Cathedral Pines non è una foresta «vergine». Gli anelli degli alberi abbattuti rivelano anche, nel 1840, un’impennata nella crescita, probabile indicazione del fatto che in quell’anno i boscaioli rimossero le latifoglie, lasciando così i pini senza competitori. Nel 1883, i Calhoun, un’antica famiglia di Cornwall la cui proprietà confina con la foresta, acquistarono la terra per proteggere gli alberi dalla minaccia del taglio; nel 1967 ne trasferirono la proprietà a Nature Conservancy, con la clausola che l’organizzazione l’avrebbe conservata nel suo stato naturale. Da allora, e fino a quando il tornado non ne rese impercorribili i sentieri, la foresta è stata un luogo molto frequentato per le escursioni e le gite domenicali. Nel corso degli anni, numerosi residenti a Cornwall si sono sposati nella foresta. Cathedral Pines non è, in nessun aspetto importante, natura incontaminata. La storia naturale della foresta ha molti punti di intersezione con la storia sociale di Cornwall. È il prodotto dei primi interventi di taglio degli alberi, che comportarono dapprima un disboscamento della terra e poi nuovi abbattimenti, questa volta selettivi, un centinaio di anni dopo. Altri fattori umani quasi certamente ebbero una parte nella storia della foresta; possiamo tranquillamente presumere che qualsiasi incendio scoppiato nell’area sia stato estinto prima che raggiungesse Cathedral Pines (lo spegnimento degli incendi, benché in genere non sia considerato in questi termini, è uno degli effetti più significativi esercitati dagli europei sul paesaggio americano). In una certa misura, quindi, Cathedral Pines è un paesaggio creato dagli esseri umani, e si potrebbe ragionevolmente sostenere che, a questo punto della sua storia, escludere la componente umana costituirebbe una frattura con il suo passato. Entrambe le parti coinvolte nella disputa, però, scelsero di non considerare l’autentica storia di Cathedral Pines, e di pensare invece alla foresta come a un’area di natura incontaminata nella comune accezione del termine: un luogo immacolato mai toccato dall’uomo bianco. Fin dai tempi dei romantici, abbiamo apprezzato questi luoghi come altrettanti rifugi dal disordine della condizione umana, posizioni privilegiate dalle quali poter trascendere le stravaganze di quel mondo e concentrarci su quelle che Thoreau chiamava «le leggi più sublimi». Certamente un pomeriggio trascorso a Cathedral Pines alimentava questi sentimenti, e il suo stesso nome rispecchia il panteismo che li ispirava. Molto prima che la scienza coniasse il termine ecosistema, noi abbiamo percepito che la natura indisturbata esibisce un ordine e un equilibrio miracolosi, qualcosa che il mondo umano può soltanto sognare. Quando l’uomo la lascia a sé, la natura tende verso uno stato di equilibrio sano e duraturo. La natura incontaminata, l’espressione più pura di questa legge, svetta al di sopra della storia. Queste sono idee potenti e per molti aspetti meravigliose. Il concetto di natura incontaminata è una sorta di tabù nella nostra cultura, e in molti casi funge da freno nei confronti della nostra inclinazione a dominare e distruggere la natura. Ci ha ispirati a risparmiare luoghi spettacolari come Yellowstone e Yosemite. Quella della natura incontaminata, però, è anche un’idea profondamente alienante, perché allontana a viva forza uomo e natura. La storia umana, rispetto ai cicli senza tempo della natura, sembra lineare e imprevedibile, esposta com’è, mentre avanza ciecamente verso il futuro, agli insulti del tempo e del caso. Al confronto, la storia naturale obbedisce a leggi fisse e comprensibili, che fanno sembrare quelle della storia umana meschine, cose di seconda mano a malapena degne di chiamarsi «leggi». Noi quasi non abbiamo idea di ciò che il futuro ha in serbo per Cornwall, ma la natura ha di certo un suo piano per Cathedral Pines; se lasceremo la foresta a sé, quel piano – che la scienza chiama «successione ecologica» – si dispiegherà inesorabilmente, in rigoroso accordo con la legge naturale. Mentre la natura lavorerà per ripristinare il proprio equilibrio, emergerà una nuova foresta climax: quanto meno, l’idea è questa. Il pensiero che la natura abbia un piano per Cathedral Pines è confortante, e di certo offre un’argomentazione potente per lasciar stare la foresta. Naturalmente io ero curioso di sapere quale fosse quel piano: che avrebbe fatto la natura con una vecchia foresta di pini abbattuta da un tornado? Nella speranza di scoprirlo, consultai alcune guide e opere di riferimento di ecologia forestale. Stando alla classica teoria della successione, formulata nell’Ottocento, fra gli altri da Henry Thoreau, di solito una foresta di pini distrutta improvvisamente sarà sostituita da latifoglie, in genere querce. Gli scoiattoli, infatti, usano seppellire le ghiande nelle foreste di pini e poi tralasciano di recuperarne molte; esse allora germogliano e, poiché l’ombra non le ostacola più di tanto, spesso le giovani querce riescono a sopravvivere sotto la volta scura di una pineta matura. I pini appena spuntati, invece, richiedono più luce di quanta riesca a filtrarne: all’ombra non si sviluppano. Nel momento in cui la foresta viene abbattuta, quindi, le giovani querce partiranno già avvantaggiate nella competizione per assicurarsi il dominio della nuova foresta. Prima che qualsiasi nuovo pino abbia avuto la possibilità di germogliare, le querce saranno già sulla buona strada per monopolizzare la luce del sole ed ereditare la foresta. Questo, ad ogni modo, era quanto avevo letto, e decisi di cercare conferma del fatto che a Cathedral Pines ci si aspettasse un comportamento simile. Parlai con uno specialista di ecologia forestale e con un esperto di Nature Conservancy. Mi dissero che la classica teoria della successione, applicata alle foreste di pini, probabilmente descrive la tendenza di fondo operante a Cathedral Pines. Emerse però che moltissime cose possono andare, se non proprio «storte», quanto meno diversamente. Che succederebbe, infatti, se nei paraggi non vi fossero querce? Nella loro ricerca di luoghi dove nascondere le ghiande, gli scoiattoli si spingono solo fino a una certa distanza. Invece di ghiande di quercia, in tutto il terreno di Cathedral Pines potrebbero essere nascoste provviste di noci di hickory. E poi vanno considerate anche le specie piantate dagli esseri umani che vivono vicino alla foresta; una di quelle specie, magari esotica (ovvero, non nativa) potrebbe concepibilmente entrare in competizione con le altre e prendere il sopravvento. «Dipende» era il ritornello che continuavo a sentire quando cercavo di individuare le intenzioni della natura per Cathedral Pines. Quella della successione ecologica, a quanto pare, è solo una teoria, una metafora fabbricata da noi, e all’incirca la metà delle volte la natura se ne fa un baffo. Il numero di fattori che entrano nella determinazione del futuro di Cathedral Pines è quasi al di là dell’umana comprensione. Consideriamo solo questo piccolo assaggio degli eventi che potrebbero alterare irrevocabilmente il suo futuro. La prossima estate, una tempesta di fulmini – o anche il mozzicone di una sigaretta gettato da un’auto di passaggio – innesca un incendio. Se sarà uno di quelli brutti, genererà un calore sufficiente a compromettere la fertilità del suolo, ritardando così di decenni il recupero della foresta. Se invece quella notte pioverà, l’incendio risulterà smorzato e sprigionerà un calore appena sufficiente a uccidere le giovani querce e a consentire alle piantine di pino di prosperare in assenza di competizione. Dopo tutto, allora, avremo una nuova foresta di pini? Forse. Ma se l’anno dopo la popolazione di cervi dovesse moltiplicarsi, che accadrebbe? Brucando, farebbero piazza pulita dei giovani pini e creerebbero un’apertura per gli abeti, che ai cervi non piacciono molto. Oppure poniamo che non scoppino incendi: in loro assenza, occorreranno centinaia di anni perché i pini abbattuti si decompongano e restituiscano al suolo i nutrienti. Ora, nel suolo esaurito gli alberi crescono male; i semi dei rovi, invece, che possono restare dormienti nel terreno anche cinquant’anni, germogliano e proliferano: e così ci ritroveremmo, per un centinaio di anni, con una vegetazione a macchia. O forse – diciamo nell’estate del 1997 – un vento di brezza porterà a Cathedral Pines le samare di un acero riccio che si trova in un giardino vicino, proprio nel momento in cui le condizioni sono perfette per la germinazione dei semi. L’acero riccio, come si ricorderà, è una specie europea, introdotta qui all’inizio dell’Ottocento e molto utilizzata per le alberature stradali. Se questa specie esotica dovesse prevalere, Cathedral Pines diventerebbe un’area di «natura incontaminata» dall’aspetto molto curioso e dal nome imbarazzante. L’esito, però, potrebbe essere ben peggiore. Poniamo che la prossima primavera le piogge siano particolarmente abbondanti e dilavino tutto lo strato superficiale del suolo (la foresta cresceva sul fianco ripido di una collina). Adesso possono sopravviverci solo le specie infestanti esotiche, e una di queste è il caprifoglio giapponese (Lonicera japonica), una pianta importata nell’Ottocento con abitudini così aggressive che può soffocare, a tempo indefinito, la crescita di tutti gli alberi. In tal caso, non avremmo più alcuna foresta. Nessuno, in altre parole, può dire che cosa accadrà a Cathedral Pines: non perché l’ecologia forestale sia una scienza giovane o imperfetta, ma perché la natura stessa non sa che cosa accadrà qui. Non ha alcun disegno grandioso per questo luogo. Il futuro di Cathedral Pines sarà determinato da un insieme incomprensibilmente vario e complesso di circostanze – alcune delle quali di origine umana, ma molte altre no. E quale che esso sia, quel futuro non si dispiegherà due volte nello stesso modo. Probabilmente la natura ha certe tendenze intrinseche che possono essere descritte da teorie come quella della successione; tuttavia, gli eventi casuali possono far deviare il suo corso, indirizzandolo in un numero quasi infinito di canali diversi. È difficile conciliare questo dato di fatto con la nostra forte percezione di un qualche tipo di ordine quasi divino intrinseco nei meccanismi della natura. Ultimamente però la scienza ha scoperto che nella storia naturale il caso ha un ruolo quasi altrettanto importante che in quella umana. Oggi, gli ecologi che studiano le foreste riconosceranno che le teorie della successione sono poco più che confortanti narrazioni da noi imposte a un processo sorprendentemente imprevedibile; perfino le cosiddette foreste climax a volte vengono sostituite (in molti luoghi negli Stati Uniti settentrionali, oggi, boschi maturi di querce vengono inesplicabilmente invasi dagli aceri – come altrettanti opportunisti imbucati al garden party della foresta climax). Molti ecologi ammetteranno ora liberamente che anche il concetto di ecosistema non è che una metafora, un costrutto umano imposto a una realtà ben più variabile e precaria. L’ecosistema può essere un concetto utile, ma nessun ecologo è mai riuscito a isolarne uno in natura. Né il processo dell’evoluzione è logico o inesorabile come pensavamo. L’attuale pensiero paleontologico sostiene che l’evoluzione di una qualsiasi specie, compresa la nostra, non sia il prodotto necessario di una qualche legge naturale, ma piuttosto l’esito di una concatenazione di eventi casuali – l’esito della «sola storia», per usare la parole di Stephen Jay Gould. Basta aggiungere o rimuovere un evento fortuito qualsiasi – l’asteroide non spazza più via i dinosauri; Pikaia, piccolo cordato vermiforme, soccombe nell’estinzione di Burgess –, e il genere umano non comparirà mai. In diverse discipline, infatti, gli scienziati stanno arrivando alla conclusione che in natura la «sola storia» sia in atto più spesso di quanto si pensasse in precedenza. Eppure le nostre metafore continuano a raffigurare la natura come logica, stabile e astorica: più simile a un orologio che non a un organismo vivente o a una borsa valori, tanto per nominare due metafore che potrebbero benissimo essere più adatte. È emerso che caso e contingenza sono ovunque in natura; e che quest’ultima non ha alcun obiettivo prestabilito, nessuna via inalterabile verso il futuro, nessuna regola inflessibile che lei stessa non possa distorcere o spezzare a suo piacimento. La natura è più simile a noi (o noi a lei) di quanto avessimo mai immaginato. Apprendere questo, almeno per me, cambia tutto. Per me, è qualcosa di profondamente positivo, benché mi riesca facile immaginare che alcune persone possano trovarlo inquietante. Per molti di noi, la natura è un ultimo bastione di certezza; la natura incontaminata, intesa come qualcosa che è fuori dalla portata della storia e della contingenza, è – nella nostra scorta in rapido esaurimento – uno degli ultimi assoluti metafisici: quei confortanti valori trascendentali in base ai quali abbiamo tradizionalmente valutato noi stessi e stabilito i nostri obiettivi. Rinunciare alla natura prevedibile, preordinata da Dio, significa levare una delle nostre ultime ancore: probabilmente andremo alla deriva nel mare impervio della nostra soggettività. Scoprire che il tempo e il caso hanno il sopravvento perfino in natura, tuttavia, può anche essere liberatorio. La contingenza, infatti, è un invito a partecipare alla storia. La scelta umana è innaturale solo se la natura è deterministica; il cambiamento apportato dall’uomo sarebbe innaturale solo se, in nostra assenza, la natura non andasse soggetta a cambiamenti. Se il futuro di Cathedral Pines è aperto, se la sua storia sarà sempre il prodotto di una miriade di eventi casuali, allora perché non dovremmo reclamare anche noi un ruolo, fra tutti quei fattori decisivi? Non siamo forse anche noi una delle contingenze della natura? E se a plasmare il futuro di questo luogo saranno i mozziconi delle nostre sigarette, gli aceri ricci e le piogge acide, allora perché non anche le nostre speranze e i nostri desideri? La natura ammetterà un numero quasi infinito di possibili futuri per Cathedral Pines, alcuni migliori di altri. Certo, quello che noi considereremmo «migliore» probabilmente non lo sarebbe anche per i coleotteri; ma la natura, di per sé, non ha nette preferenze. Questo non significa che tollererà qualsiasi risultato; ha già escluso molti futuri possibili (la foresta pluviale tropicale, il deserto, eccetera) e, a parità di altre condizioni, probabilmente propenderà per le querce. Ma poiché non vi è parità delle altre condizioni (secondo lei), la natura è chiaramente felice di lasciare che a risolvere la faccenda sia il libero gioco di numerose contingenze, grandi e piccole. Almeno in questo luogo e in questo momento, escludere da quelle contingenze i desideri umani sarebbe arbitrario, perverso e – sì – innaturale.

Stabilire che dovremmo esprimere un voto sul destino di Cathedral Pines è molto più facile di immaginare come dovremmo votare. La scoperta della contingenza in natura sembra scoperchiare un vaso di Pandora. Perché se nel comportamento della natura non vi è nulla di prefissato o inevitabile, che cosa ci impedirà di concludere che va bene qualsiasi cosa? È enormemente più facile presumere che la natura lasciata a sé sappia che cosa è meglio per un certo luogo; è enormemente più facile lasciarci guidare dall’etica della natura incontaminata. E può darsi che debba essere così. Il semplice fatto che l’etica della natura incontaminata sia basata su un quadro probabilmente più mitico che reale non vuol dire che la si debba di necessità respingere. Proprio come la Dichiarazione di Indipendenza comincia con l’utile invenzione secondo cui «tutti gli uomini sono creati uguali», noi potremmo semplicemente stabilire che Cathedral Pines è un esempio di natura incontaminata, e procedere sulla base di questo assunto. Il banco di prova per quest’etica non sta nel determinare quanto essa sia veritiera, ma quanto sia utile per fare quello che vogliamo fare: per proteggere e migliorare l’ambiente. In che misura, allora, l’etica della natura incontaminata è una guida efficiente in questo caso particolare? Di certo trattare Cathedral Pines come un angolo di natura intatta impedirà che vi si costruiscano dei condomini. Quando uno non si fida di saper fare la cosa giusta, disporre di un’autorità saggia ed esperta come la natura, che decida per lui, è d’aiuto. Ma se la natura decidesse per il caprifoglio giapponese – trecento anni di macchia, a copertura totale del terreno? In quel caso, non solo avremmo una foresta che non ci piace, ma non sarebbe nemmeno natura incontaminata, visto che fu l’uomo a portare il caprifoglio giapponese a Cornwall. A questo punto della storia, e cioè dopo che gli esseri umani hanno lasciato la loro impronta praticamente in ogni angolo della Terra, spesso astenersi dall’agire non è una buona ricetta per conservare la natura. In molti casi, infatti, tale astensione porta a un ambiente in graduale deterioramento (come sembra stia accadendo a Yellowstone), oppure in larga misura forgiato dalle azioni e dagli errori degli esseri umani che vi abitavano in precedenza. Se quella che vogliamo a Cathedral Pines è una natura autenticamente intatta, e non un’innocenza meramente immaginaria, dovremo ripristinarla. Questo è il paradosso affrontato da Nature Conservancy e da moltissimi altri sostenitori di quell’idea di natura: a questo punto della storia, creare un paesaggio che non rechi segni dell’intervento umano richiederà, in una certa misura, che gli esseri umani intervengano. A Cathedral Pines, come minimo, occorrerà estirpare le specie infestanti esotiche e questo è qualcosa che la rigorosa adesione di Nature Conservancy all’etica della natura incontaminata non permetterà. Ma che accadrebbe se Nature Conservancy fosse disposta a intervenire solo quel tanto che basta per cancellare ogni evidenza di presenza umana? Immediatamente si scontrerebbe con alcune difficili questioni che la sua etica non la prepara ad affrontare. Qual è, infatti, lo stato di natura «autentico» a Cathedral Pines? Qual era il suo aspetto quando non erano ancora arrivati i primi coloni? Potremmo ripristinare quella condizione rimuovendo ogni traccia dell’uomo europeo. Ma non è un’idea di natura incontaminata un po’ eurocentrica (se non addirittura razzista)? Oggi sappiamo che gli indiani non furono presenze ecologicamente innocue, come pensavamo un tempo. Anche loro lasciarono il proprio segno sulla terra: gli incendi che appiccavano determinarono la composizione delle foreste del New England, e probabilmente crearono quel tipo di «natura incontaminata» che noi abbiamo chiamato «Grandi Pianure». Per una natura veramente incontaminata, mai toccata dalla mano dell’uomo, dobbiamo spingerci ben più indietro del 1640 o del 1492. E se volessimo ripristinare il paesaggio nelle condizioni in cui versava prima degli indiani, allora, per farlo apparire proprio com’era, dovremo attrezzarci per la fabbricazione di enormi quantità di ghiaccio (per non parlare di qualche mammut lanoso). Anche questo, però, sarebbe arbitrario. In effetti non vi è un solo istante, individuabile nel passato, del quale si possa dire: ecco, questo è lo stato di natura di Cathedral Pines. Anche solo a partire dall’ultima èra glaciale, quello «stato di natura» è andato incontro a una completa rivoluzione ogni mille anni o pressappoco – quando le specie arboree spinte verso sud dai ghiacciai migrarono nuovamente a nord (un processo tuttora in corso), quando arrivarono gli indiani e appiccarono i loro incendi, quando scomparvero i grandi mammiferi, quando il clima fluttuò: quando tutte le solite contingenze storiche entrarono e uscirono di scena. Dopo l’èra glaciale, per diverse migliaia di anni questa parte del Connecticut fu una tundra senz’alberi; è quello l’autentico stato di natura di Cathedral Pines? Il dato di fatto ineludibile è che, se qui vogliamo davvero la natura incontaminata, ci toccherà di scegliere quale vogliamo: un’idea che di per se stessa va contro l’etica della natura incontaminata. Il suo fascino, infatti, non sta proprio nel fatto che ci ha sollevato dal dover fare delle scelte – non era forse la natura a decidere, liberandoci dai problemi della storia e dell’antropocentrismo? A quanto pare, non ci è data una tale fortuna. Il concetto di «natura incontaminata» è lungi dall’essere la guida trasparente o sicura che ci piacerebbe credere. Se non faremo nulla, è probabile che ci ritroveremo con un’area impoverita e infestata dalle erbacce, di nostra stessa creazione (indiretta): un risultato che sarà difficile considerare una vittoria della natura. E se vogliamo riportare Cathedral Pines a una sua condizione precedente, quale che essa sia, saremo invece costretti a compiere quel tipo di scelte e di distinzioni inevitabilmente antropocentriche per sfuggire alle quali ci eravamo rivolti alla natura intatta. (In effetti, compiere un onesto lavoro di ripristino della natura richiederebbe l’impiego di tutta la tecnologia e il know-how scientifico di cui gli esseri umani dispongono). In un modo o nell’altro, sembra non vi sia modo di sfuggire alla storia, nemmeno nella natura.

La ragione per cui l’etica della natura incontaminata non è di grande aiuto in un luogo come Cathedral Pines è che è un’etica assolutista: l’uomo o la natura, – dice – scegline uno. Non appena la storia o le circostanze rendono più sfumata quella linea di confine, ci mette in difficoltà. Vi sono tempi e luoghi in cui «uomo o natura» è la scelta giusta e necessaria; nel 1907 a Hetch Hetchy probabilmente fu così. Mi sembra però che adesso la maggior parte delle questioni ambientali che stiamo affrontando siano più simili a quelle ambigue poste da Cathedral Pines; e, in merito a queste, l’etica della natura incontaminata ha da darci sempre meno consigli di grande aiuto. Essa non ci dice che fare quando l’ecosistema di Yellowstone comincia a deteriorarsi, non in seguito alla nostra interferenza ma alla nostra trascuratezza. Quando una specie minaccia di sopraffare e distruggere un habitat perché le contingenze storiche hanno ucciso il predatore che un tempo teneva la sua popolazione sotto controllo, quell’etica è muta. Ed è confusa anche quando l’unica speranza per la sopravvivenza di una specie sta nella manipolazione del suo habitat naturale da parte dell’uomo. Non ha nulla da dire – salvo: Non farlo! – in tutti quei luoghi in cui lo sviluppo è desiderabile o inevitabile. Quando siamo costretti a scegliere tra una centrale idroelettrica o una centrale nucleare, rifiuta di aiutarci. Questo perché l’etica della natura incontaminata non può compiere distinzioni tra un tipo di intervento e l’altro – tra eliminare le infestanti da Cathedral Pines e svilupparci un parco a tema. «A quel punto potreste anche farci dei condomini» è la classica risposta di fronte a qualsiasi proposta di intervento umano in natura. «Tutto o nulla» afferma l’etica della natura incontaminata, e in effetti in America ci siamo ritrovati con un paesaggio che si conforma straordinariamente bene a quell’ingiunzione. È proprio grazie a questo tipo di approccio aut-aut che gli americani hanno fatto da un lato un lavoro ammirevole nel tracciare confini intorno a certe aree-santuario (fummo noi a inventare il concetto di riserva naturale), e dall’altro un lavoro pessimo nel gestire tutto il resto del territorio. La ragione non è difficile da scoprire: l’unica etica ambientale di cui disponiamo non ha nulla di utile da dire sulle aree fuori da quei confini: in genere, una volta che non è più «vergine», un paesaggio viene bollato come caduto in disgrazia, perso, irredimibile. Lo trasmettiamo allora alla giurisdizione di quell’altra etica americana inviolabile: l’economia del lassaiz-faire. «A quel punto potreste anche farci dei condomini». E noi ce li facciamo. In effetti l’etica della natura incontaminata e l’economia del laissez-faire, per quanto antitetiche possano apparire di primo acchito, in realtà sono immagini speculari l’una dell’altra. Ciascuna propone una forza quasi divina – la Natura, il Mercato – che, lasciata ai suoi soli mezzi, in qualche modo sa che cosa sia meglio per un certo luogo. La natura e il mercato sono entrambi capaci di autoregolarsi, guidati da una mano invisibile. I fedeli dell’una o dell’altro condividono una profonda sfiducia di stampo puritano nei confronti dell’uomo, e credono – quale atto di fede – che la manipolazione, da parte degli esseri umani, dell’ordine naturale o economico non potrà che pervertirlo. Nessuno dei due partiti riconosce che la propria divinità può anche sbagliare: che oltre alla rosa la natura produce anche il virus dell’AIDS, e che alcuni mercati capaci di generare straordinaria ricchezza possono anche andare in crash. (In realtà, coloro che venerano il mercato sono un po’ più realistici degli adoratori della natura: hanno smesso da molto tempo di fare affidamento sul libero mercato per rifornirci di beni necessari come il cibo e il riparo. Benché non ne parlino volentieri, accettano l’idea che la società debba «coltivare» il mercato come fosse un giardino). Essenzialmente, noi americani abbiamo diviso il paese in due: il regno della natura incontaminata, che governa circa l’8 per cento del territorio; e il regno del mercato, che governa tutto il resto. Forse dovremmo essere grati per l’esistenza di confini sicuri; ma che fanno quelli di noi a cui preme la natura, quando si trovano nel territorio del mercato, cosa che avviene per la maggior parte del tempo? Come si comportano? Quali sono i loro obiettivi? Non possiamo ragionevolmente aspettarci di modificare i confini, a prescindere da quante linee elettriche e quante dighe vengano fatte saltare in aria da Earth First!. No, in quei casi l’etica della natura incontaminata non sarà di grande aiuto. La sua politica è destinata a essere o romantica senza speranza (costituita da progetti impraticabili per la rideterminazione dei confini) o nichilista. Di fronte alle difficili questioni su come affrontare problemi ambientali globali quali l’effetto serra o la deplezione dell’ozono (problemi che non rispettano confini), i fautori dell’etica della natura incontaminata tendono ad alzare le mani in segno di disperazione e a dichiarare la «fine della natura». L’unica cosa che corre realmente il pericolo di finire è un’idea della natura romantica e panteistica, idea che abbiamo inventato noi e il cui tramonto potrebbe benissimo rivelarsi una benedizione sotto mentite spoglie. Utile come è stata nell’aiutarci a proteggere quell’8 per cento consacrato, non è tuttavia riuscita a impedirci di arrecare moltissimo danno al rimanente 92 per cento. L’antica idea probabilmente ci ha insegnato a venerare la natura, ma non a conviverci: ci ha detto più di quanto ci occorresse sapere su verginità e violenza, e quasi nulla sul matrimonio. La metafora della natura divina può ammettere soltanto due ruoli per l’uomo: l’adoratore (il ruolo del naturalista) o il distruttore di templi (lo sviluppatore immobiliare). Ormai, però, il dramma si è concluso. Il tempio, se mai è esistito, è stato distrutto. La natura, se per natura intendiamo qualcosa di separato dall’uomo e dalla confusione della storia, è morta. E adesso che lo è, forse possiamo cominciare a scrivere per noi stessi qualche nuovo ruolo che ci mostri come ricominciare dal punto in cui siamo e non da un immaginario stato di innocenza, e che ci permetta di metter mano al lavoro che ci aspetta.

Thoreau, Muir e i loro discendenti andarono nei boschi e ne riemersero con le componenti della prima etica ambientale americana, che oggi regge ancora, benché un po’ affaticata e malconcia. E se adesso, per edificare un’etica nuova – che non necessariamente sostituisca quella antica, ma che possa offrirci qualcosa di utile da dire quando quella è muta o inutile –, invece che ai boschi dovessimo guardare al giardino? Per approfondire una tale etica, occorreranno pensatori migliori di me. Ma perfino la mia limitata esperienza mi ha convinto che i materiali necessari per costruirla – le nuove metafore sulla natura di cui abbiamo bisogno – possono essere trovati in giardino: un luogo con una lunga esperienza su interrogativi che hanno a che fare con l’uomo nella natura. Qui sotto riporto alcuni appunti provvisori, fondati sulle mie esperienze personali e su quelle di altri giardinieri che ho conosciuto o di cui ho letto gli scritti, riguardanti il genere di risposte che il giardino può dare. 1. Un’etica fondata sul giardino offrirebbe risposte a livello locale. A differenza dell’idea della natura incontaminata, proporrebbe soluzioni diverse in luoghi e tempi diversi, la qual cosa mi pare al tempo stesso un punto di forza e un punto debole. È una debolezza, perché un’etica fondata sul giardino non parlerà mai in modo chiaro o univoco come fa invece l’etica della natura incontaminata. In un paese vasto e con una geografia varia come questo, probabilmente è inevitabile voler favorire idee astratte del paesaggio – reticoli, tappeti erbosi, monocolture, angoli di natura incontaminata – che possano essere applicate a tutto campo, e perfino fatte oggetto di leggi a livello nazionale; tali idee hanno il potere di semplificare e unire. Ma non è proprio questo stesso potere a essere parte del problema? In genere, ogni qualvolta si impongono a un luogo prassi più adatte ad altri contesti, la sua salute ne soffre: in Virginia un tappeto erboso ben curato ha un senso che in Arizona non può avere. Un’etica del giardino comincerebbe quindi con il famoso consiglio di Alexander Pope ai paesaggisti: «Consulta sempre il Genio del luogo». È difficile immaginare che questo motto possa mai rimpiazzare, sugli adesivi applicati alle auto, quello di Earth First! «Nessun compromesso nella difesa di Madre Terra»; né dovrebbe farlo, perlomeno non ovunque. Le parole di Pope, infatti, suggeriscono che, se ascoltato, il «genio» di certi luoghi consiglierà «nessun compromesso». E d’altra parte, quello che è giusto per Yosemite non lo è necessariamente per Cathedral Pines. 2. Il giardiniere comincia proprio da qui: intendo dire che accetta la contingenza, la sua e quella della natura. Non passa un mucchio di tempo a preoccuparsi e a chiedersi se abbia o meno un diritto conferito dal cielo di alterare la natura. Per lui è abbastanza sapere che, per qualche ragione biologica o storica, il genere umano si trova a vivere in luoghi (sei continenti su sette) in cui, per sopravvivere, deve alterare l’ambiente in modo sostanziale. Se fossimo rimasti nelle savane africane, forse le cose sarebbero diverse. E se io vivessi in una zona più calda probabilmente potrei coltivare dei buoni pomodori senza far uso di plastica. Il giardiniere impara a giocare con le carte che gli sono capitate. 3. Un’etica del giardino sarebbe apertamente antropocentrica. Come iniziai a capire quando misi a dimora le mie rose e l’acero, noi conosciamo la natura solo attraverso lo schermo delle nostre metafore; probabilmente, vederla così com’è è impossibile (e non necessariamente desiderabile, come una volta suggerì George Eliot: «Se vedessimo e sentissimo in modo intenso tutta la normale vita umana, sarebbe come udire l’erba crescere e il pulsare del cuore dello scoiattolo, e moriremmo per il frastuono che è al di là del silenzio». Senza l’editing delle nostre percezioni, la natura potrebbe dimostrarsi insopportabile). Melville stava parlando di tutta la natura quando descrisse la bianchezza della balena, la sua «vacuità muta e piena di significato». Anche la natura incontaminata, tanto nelle sue incarnazioni sataniche quanto in quelle benigne, è un’idea storica, fabbricata dall’uomo. Ognuna delle diverse metafore con cui ci riferiamo alla natura – «natura incontaminata», «ecosistema», «Gaia», «risorsa», «terra incolta» – è già una sorta di giardino, un’indissolubile miscela della nostra cultura con qualsiasi cosa sia effettivamente là fuori. Il concetto di «giardino» può suonare d’un antropocentrismo senza speranza, ma forse non possiamo superarlo. Il giardiniere non perde molto tempo con la metafisica, cercando di capire quali caratteristiche possa avere una prospettiva sulla natura più «autentica» (per esempio il biocentrismo o il geocentrismo). Probabilmente fa così perché si è accorto che la maggior parte delle prospettive di portata molto ampia o a lunghissimo termine che di recente ci è stato chiesto di adottare (compresa quella proposta da Nature Conservancy per Cathedral Pines) è indifferente al nostro benessere e alla nostra sopravvivenza in quanto specie. In questo si trova d’accordo con Wendell Berry quando afferma che «non è naturale essere sleali verso la propria stessa specie». 4. Detto questo, però, il giardiniere ha una concezione ampia e illuminata del proprio interesse. Per quanto possa avere un atteggiamento antropocentrico, riconosce che la sua salute e la sua sopravvivenza dipendono da molte altre forme di vita, e quindi sta attento, in tutto ciò che fa, a tener conto anche dei loro interessi. In effetti, è un tipo particolare di paladino della natura incontaminata: perché è quando la rispetta e se ne prende cura nel suo terreno e nelle sue piante, che il suo giardino sembra più prospero. Ha scoperto che lo stato selvaggio [wildness] non sta solo là fuori, ma anche qui, proprio qui: nel suo suolo, nelle sue piante e perfino in lui. L’eccesso di interventi colturali tende a soffocare questa qualità, che l’esperienza gli insegna esser necessaria in tutti e tre i regni. Più che un luogo, però, wildness è una qualità, e benché gli esseri umani non possano crearla, possono alimentarla e prendersene cura. Il che è precisamente quello che faccio quando preparo il compost e poi lo restituisco al suolo; è quello che potremmo fare a Cathedral Pines (non necessariamente abbandonandola a se stessa). Il giardiniere coltiva la natura, ma lo fa in modo attento e rispettoso, nella piena consapevolezza del suo mistero. 5. Quando si tratta della natura, il giardiniere tende a non essere romantico. Che cosa potrebbe mai essere più naturale delle tempeste, delle siccità e delle malattie che fanno scempio del suo giardino? Crudeltà, aggressività, sofferenza: anch’esse sono figlie della natura (e non, come cercò di convincerci Rousseau, della cultura). Probabilmente la natura – che è rimasta indifferente all’arrivo della specie umana, ed è indifferente alla nostra sopravvivenza – non è un buon luogo in cui cercare dei valori. È solo nell’ultimo secolo che sembriamo averlo dimenticato. La nostra infatuazione romantica con la natura è un’idea relativamente recente, prodotta sia dal nuovo concetto dell’èra industriale, secondo cui la natura poteva essere conquistata; sia – probabilmente – dal fatto che ormai pochi di noi lavorano ancora a contatto diretto con la natura. Ma se le attuali previsioni sul clima (una rapida e costante tendenza al riscaldamento, accompagnata da violente tempeste) dovessero dimostrarsi corrette, la nostra infatuazione sembrerà una breve anomalia storica, un momentaneo cedimento del buonsenso. La natura potrebbe tornare a essere ancora una volta pericolosa, capricciosa e indomabile. Quando ciò accadrà, la cotta per lei ci passerà rapidamente. Rispetto al naturalista, il giardiniere non perde mai la testa per la natura – troppe volte l’ha vista distruggere i suoi piani – e ha imparato, necessariamente, a convivere con le sue ambiguità: ha imparato che non è né tutta buona né tutta cattiva; che come prende, così dà. In qualsiasi momento la natura può sfilarci il tappeto da sotto i piedi, può farsi gioco delle nostre intenzioni più nobili. Forse questo spiega perché gli scritti sul giardino tendano a essere spiritosi, e non lirici o elegiaci come quelli sulla natura: il giardiniere non può mai dimenticare del tutto il tappeto che ha sotto i piedi, la possibilità della trappola fuori scena. 6. Il giardiniere sente di avere in corso una legittima controversia con la natura: con erbacce, tempeste e malattie, con la decomposizione e la morte. Oltretutto, quella controversia ha prodotto molte cose di valore non solo in questo luogo (questo giardino, questi frutti) e nel tempo in cui egli vive, ma in tutto il corso della storia occidentale. La civiltà stessa, come Freud e Frazer e molti altri hanno osservato, è un suo prodotto. Allo stesso tempo, però, il giardiniere si rende conto che probabilmente non sarebbe nel suo interesse, né in quello della natura, imporre in modo troppo intransigente le proprie ragioni. Molti aspetti della contesa che il genere umano credeva d’aver vinto – la vittoria del DDT contro gli insetti, per esempio, o l’eradicazione delle malattie infettive ad opera della medicina – si sono rivelate vittorie di Pirro o trionfi illusori. Meglio dunque che la controversia continui, ragiona il bravo giardiniere, piuttosto che ottenere una vittoria assoluta, obiettivo pericoloso da perseguire e comunque probabilmente impossibile. 7. Il giardiniere non dà per scontato che l’impatto esercitato dall’uomo sulla natura sia sempre negativo. Forse ha osservato come il suo giardino abbia migliorato il suo pezzo di terra, perfino secondo gli standard della natura: il lavoro di giardinaggio ha enormemente aumentato la diversità e l’abbondanza delle forme di vita presenti in quel luogo. A parte le molte specie di piante esotiche da lui introdotte, le popolazioni di insetti e di mammiferi, in particolare roditori, si sono sviluppate rapidamente, e ora il suolo sostiene una comunità di microbi ben più ricca di prima. A giudicare con rigore secondo questi standard, a volte la natura compie degli errori. La foresta climax (un luogo in cui il numero e la varietà di esseri viventi sono declinati raggiungendo un livello critico) potrebbe sicuramente essere considerata uno di tali errori, e l’evoluzione è costellata di altri esempi. Per contro, dovremmo riconoscere che a volte gli esseri umani creano ecosistemi nuovi molto più ricchi di quelli rimpiazzati, e non solo sulla scala ridotta dell’orto o del giardino: basti pensare alle praterie a erba alta del Midwest, al paesaggio delle siepi in Inghilterra, alla campagna dell’île de France, o al patchwork di campi e foreste in questa zona del New England. Moltissimi di noi sarebbero felici di definire «natura» tutti questi luoghi, ma così facendo non si renderebbe loro giustizia (né la si renderebbe a noi); in realtà essi sono tutti un tipo di giardino, una seconda natura. Il giardiniere non crede che il fatto di alterare la natura lo collochi in qualche modo al di fuori di essa. Si guarda intorno e vede che ormai le speranze e i desideri umani sono parte integrante del paesaggio. L’«ambiente» non è, e non è mai stato, uno scenario fisso e neutrale; in realtà è vivo, e cambia in continuazione rispondendo a innumerevoli contingenze, una delle quali è la presenza, al suo interno, del giardiniere. E quella presenza, di per se stessa, non è né buona né cattiva. 8. Il giardiniere crede fermamente nella possibilità di compiere delle distinzioni fra i diversi tipi, e la diversa entità, degli interventi umani in natura. La differenza fra l’Île de France e Love Canal, o tra una foresta di pini e una zona residenziale di condomini non basta forse a dimostrare che la scelta non è davvero tra «tutto o nulla»? Il giardiniere non ha dubbi sul fatto che sia possibile discriminare; e sviluppa questa capacità attraverso la sua esperienza in giardino. Grazie a quell’esperienza, è improbabile che – osservando l’inevitabilità di alcuni interventi in natura – egli concluda: «va bene qualsiasi cosa». La sua abilità e il suo interesse stanno precisamente qui: nel determinare che cosa vada bene, e che cosa no, in un luogo particolare. Che cosa è troppo? Che cosa è adatto a questa terra? Come possiamo, in questo territorio, ottenere quello che vogliamo noi, mentre la natura persegue e ottiene quello che vuole lei? Il giardiniere non ha alcun dubbio sulla possibilità di trovare delle buone risposte a queste domande. 9. Di solito il bravo giardiniere mutua i suoi metodi, se non anche i suoi obiettivi, dalla natura stessa. Benché infatti essa non sembri dettare a priori ciò che possiamo fare in un dato luogo – siamo liberi, proprio come l’evoluzione, di provare cose completamente nuove –, alla fine ci farà sapere che cosa funziona e che cosa no. Più di ogni altra cosa, la natura è pragmatica, e altrettanto vale per il giardiniere di successo. Studiando i metodi della natura, costui riesce a trovare risposte a domande come: che cosa funzionerà? che cosa è utile, qui? Questo sembra essere vero a diversi livelli di specificità. In un’area particolare del mio orto – una zona bassa e umida – feci fiasco con tutto quello che piantai finché non mi fermai a considerare che cosa la natura facesse crescere in un’area simile, lì vicino: rovi. E così piantai lamponi, che sono ovviamente una forma di rovo coltivato, e vennero benissimo. Un esempio banale, ma dimostra come l’attenzione alla natura possa aiutarci ad allineare i nostri desideri ai suoi metodi. L’imitazione della natura è ovviamente il principio alla base del giardinaggio biologico. Chi adotta i princìpi dell’agricoltura biologica ha imparato a imitare i metodi della natura per aumentare la fertilità del suolo, per controllare le popolazioni di insetti e le malattie, e per riciclare i nutrienti. Le prassi che definiamo «biologiche», d’altra parte, non sono di per se stesse «naturali»: non più di quanto lo siano i richiami che i cacciatori usano per attirare gli uccelli. Somigliano piuttosto a copie dei processi naturali, fabbricate dall’uomo. Tuttavia, sembrano funzionare e indicano – quanto meno – un modo per accostarsi ad altri problemi: dalla decisione di una comunità sui provvedimenti da prendere in una foresta di pini abbattuta da un tornado, alla scelta tra diverse tecnologie innovative da parte della società. In ciascun caso, alcune alternative porteranno, più di altre, a far coincidere le nostre esigenze e i nostri desideri con i metodi della natura. In effetti, in natura sembra che otteniamo i risultati migliori imitandola: quando impariamo a pensare come l’acqua corrente, o come una carota, un afide, una foresta di pini o un cumulo di compostaggio. Probabilmente, infatti, dopo quasi quattro miliardi di anni di esperienza a suon di tentativi ed errori, la natura ha ormai una vasta conoscenza di ciò che funziona quando si ha a che fare con la vita. Se impareremo ad attingere dalla sua esperienza, invece di cercare di acquisirla in prima persona, ce la caveremo di sicuro meglio: se non altro perché noi non disponiamo di tutto quel tempo. 10. Se la natura è una delle necessarie fonti di istruzioni per un’etica del giardino, l’altra fonte è la cultura. Forse la civiltà è parte del nostro problema con la natura, ma senza di essa non vi sarà soluzione alcuna. Come ha sottolineato Wendell Berry, è la cultura, e di certo non la natura, che ci insegna a osservare e a ricordare, a imparare dai nostri errori, a condividere le nostre esperienze e – cosa forse più importante di tutte – a controllare noi stessi. È solo attraverso lezioni durissime – epidemie, morti in massa, estinzioni – che la natura insegna alle sue creature a frenare i propri appetiti. Nulla sarebbe più naturale, per gli esseri umani, di esercitare una pressione tale sull’ambiente, da renderlo inadatto alla loro stessa vita. In quel caso, a perdere non sarebbe la natura, né essa altererebbe minimamente le proprie leggi: operando come ha sempre fatto, la selezione naturale ci farebbe fuori senza tanti complimenti. Se riusciremo a evitare questo destino, sarà solo perché la nostra cultura – leggi e metafore nostre, la nostra scienza e la nostra tecnologia, il nostro continuo discutere sulla natura e sul posto che l’uomo vi occupa – ci avrà orientato verso un futuro diverso. Non sarà la natura a far questo per noi. In natura, il giardiniere è la più artificiale delle creature, ossia un essere umano civilizzato: capace di controllare i propri appetiti, premuroso nei confronti della natura, consapevole di se stesso e responsabile, memore del passato e attento al futuro, a suo agio con la fondamentale ambiguità della propria condizione – e cioè tale che, pur vivendo nella natura, a rigor di termini non è più parte di essa. Egli sa inoltre che, in questo luogo, né il successo né il fallimento sono preordinati. A quanto pare, la natura è indifferente al suo destino, e questo lo lascia libero – in realtà lo costringe – di fare a modo suo, come meglio può.

Che cosa ci consiglierebbe di fare, a Cathedral Pines, un’etica fondata su queste idee, sull’idea del giardino? Non so abbastanza sull’ecologia del luogo per dirlo con sicurezza, ma credo di avere una certa percezione di come potremmo procedere sotto la sua guida. Ovviamente, cominceremmo consultando il «Genio del luogo». Tra le altre cose, esso ci direbbe che Cathedral Pines non è un angolo di natura incontaminata, e pertanto non andrebbe trattato come tale. È invece un paesaggio al tempo stesso culturale e naturale, ed escludere dai nostri progetti per questo luogo i desideri di chi abita nella zona sarebbe artificioso. Trattare oggi Cathedral Pines come se fosse un’area di natura incontaminata significa imporre a questo luogo un’idea astratta e aliena. Consultare il Genio del luogo significa anche indagare su che cosa la natura ci permetterà di realizzare in esso: «ciò che in sé quella regione produce, ciò che rifiuta», come scrisse Virgilio nelle Georgiche. Sappiamo fin dall’inizio, per esempio, che questa terra può sostenere una splendida foresta di pino strobo. La natura non avrebbe nulla da obiettare se decidessimo di ripiantare la foresta di pini. Anzi, dal punto di vista ambientale, questa sarebbe una mossa perfettamente ragionevole e sensata. Se scegliessimo di percorrere questa via, intraprenderemmo un’opera abbastanza semplice di «restauro ecologico». Questa scuola di ambientalismo, relativamente nuova, ha le sue radici nel tentativo pionieristico, da parte di Aldo Leopold negli anni Trenta, di ricreare una prateria a erba alta sui terreni dell’Arboretum della Wisconsin University. Leopold e i suoi seguaci (che tuttora continuano a conservare la prateria ripristinata) pensavano che non sempre è sufficiente conservare la terra, e che a volte è auspicabile e possibile che l’uomo intervenga sulla natura per migliorarla. In particolare, l’uomo dovrebbe intervenire per ricreare gli ecosistemi danneggiati: fiumi inquinati, foreste disboscate, praterie cancellate e laghi morti. I fautori del restauro ecologico credono anche, e in questo mi ricordano il pollice verde, che il modo migliore per imparare i metodi della natura consista nel cercare di imitarli (e in effetti molto di ciò che sappiamo sul ruolo degli incendi nella creazione e nel mantenimento delle praterie viene dai loro sforzi). Il contributo più importante di questa scuola, però, è stato quello di proporre, per gli esseri umani, un ruolo positivo e attivo in natura: ruolo che, nella loro concezione, è in parti uguali quello di un giardiniere e di un guaritore. Mi sembra che l’idea del restauro ecologico sia coerente con un’etica del giardino, e forse anche con il giuramento di Ippocrate. Grazie ai sostenitori del restauro ecologico, oggi sappiamo che è possibile saltare gli stadi della successione ecologica, e manipolarli. Probabilmente costoro ci consiglierebbero di bruciare il legname al suolo: un atto che, sebbene a rigor di termini non «naturale», servirebbe da efficace analogo del processo naturale di rigenerazione della foresta. Gli incendi da noi appiccati rinvigorirebbero il suolo (promuovendo così quella natura incontaminata) e allo stesso tempo eliminerebbero le specie infestanti, le giovani latifoglie e gli arbusti. In tal modo, avremmo imitato le condizioni in cui nasce una foresta di pino strobo; i pini potrebbero allora fare ritorno a Cathedral Pines da soli. O altrimenti – fa poca differenza – potremmo piantarli noi. A quel punto, il nostro lavoro sarebbe finito, e adesso la foresta potrebbe prendersi cura di se stessa. Occorrerebbero molti decenni, ma il restauro di Cathedral Pines non abuserebbe né delle nostre capacità, né della sopportazione della natura. E nel far ciò, avremmo anche restaurato i buoni rapporti esistenti, in questo luogo, tra esseri umani e natura prima della tempesta e della polemica che ne seguì. Non sarebbe cosa da poco. La natura non precluderebbe soluzioni più innovative per Cathedral Pines: è probabile che in questo sito crescerebbero rigogliosi anche altri tipi di giardini-foresta o di parchi. Ma poiché Cornwall ha tradizionalmente considerato Cathedral Pines come una sorta di istituzione locale, permeata di memoria condivisa e significato storico, secondo me il Genio del luogo qui esclude che si provi qualcosa senza precedenti. In questo caso particolare, il passato è la nostra guida migliore, e non solo sulle questioni di ecologia. Ripiantare la foresta di pini, però, non è l’unica buona opzione per Cathedral Pines: in questo sito, infatti, potremmo voler ripristinare anche un’altra foresta, anch’essa in armonia con la sua storia e il suo significato per la città. Prima della tempesta, andavamo a Cathedral Pines e immaginavamo che il suo aspetto fosse lo stesso con cui le foreste nel Nuovo Mondo accolsero i primi coloni. Oggi sappiamo che con ogni probabilità le foreste precolombiane erano un po’ diverse: tanto per cominciare, non erano esclusivamente di pini. È concepibile, tuttavia, che noi si possa riportare Cathedral Pines a qualcosa di molto somigliante alla sua effettiva condizione precoloniale. Studiando le descrizioni storiche, gli anelli di crescita degli alberi caduti, i granuli di polline fossile seppelliti nel terreno, potremmo ricostruire la varietà e la composizione delle specie che vivevano qui nel 1739, anno in cui i coloni vi si insediarono per la prima volta e fondarono Cornwall. Sappiamo che la natura, avendolo già fatto una volta, probabilmente ci permetterebbe di avere qui una foresta di quel tipo; e grazie ad alcune delle tecniche di restauro ecologico più avanzate, è anche probabile che ricreare in questo sito una foresta precoloniale rientri nelle nostre capacità. Se lo facessimo, non sarà perché avremo deciso di essere fedeli allo «stato di natura» di Cathedral Pines ma, molto semplicemente, perché la foresta precoloniale significa moltissimo per noi. È una pietra miliare nella storia di questo piccolo paese, per non parlare della nazione intera. Una camminata in una versione restaurata della foresta precoloniale potrebbe riportarci alle prime impressioni decisive esercitate dall’America sulla nostra cultura, ai nostri pensieri quando ci imbattemmo in quello che Fitzgerald chiamò il «seno fresco, verde, del nuovo mondo». Nella contemplazione di quella scena potremmo essere spinti a riconsiderare ciò che accadde poi: a noi, agli indiani che un tempo cacciavano qui, e alla natura di quest’angolo di America. Se avessimo fatto un’assemblea comunale per decidere che fare a Cathedral Pines, sostanzialmente mi sarei alzato a dire questo. Di certo un’assemblea sarebbe stato un modo appropriato per decidere la questione, in armonia con il Genio di questo luogo, ovvero di un piccolo centro del New England. Posso facilmente immaginare i discorsi e le argomentazioni. I rappresentanti di Nature Conservancy avrebbero difeso l’idea di lasciare il sito a sé, per «lasciare che la natura faccia il suo corso». Richard Dakin, il primo consigliere comunale, e John Calhoun, che risiede più vicino di chiunque altro alla foresta, avrebbero messo in guardia circa i pericoli di incendio. E poi probabilmente avremmo ascoltato altri punti di vista. Io avrei cercato di spezzare una lancia a favore del restauro, parlando di come trattare il sito alla stregua di un giardino. Posso immaginare Ian Ingersoll, un bravo ebanista di Cornwall, parlare accorato della perdita di tutto quel legname pregiato, e della prospettiva di ritrovarsi seduti, per la cena del Ringraziamento, a una tavola sulla quale siano visibili gli anelli di accrescimento formati all’epoca della Rivoluzione americana. Forse una donna avrebbe raccontato come le mancassero le passeggiate domenicali nella foresta, osservando quanto sia desolato, adesso, l’aspetto del luogo. Uno scienziato della Yale School of Forestry avrebbe magari cercato di spiegare, con pazienza – come in effetti fece uno scienziato di Yale rivolgendosi alla stampa – perché «per me non è meno bella adesso di quanto lo fosse prima». Questo è lo stesso tale che aveva detto «a quel punto potreste anche farci dei condomini». Io non posso immaginare che qualcuno proponga davvero questo, o qualsiasi altro tipo di sviluppo immobiliare a Cathedral Pines. Se qualcuno lo facesse, però, è probabile che verrebbe zittito, perché abbiamo troppo rispetto per questo luogo; inoltre, le nostre simpatie e i nostri interessi sono molto più complicati di quanto economisti e ambientalisti sembrino sempre pensare. Probabilmente, prima di uno sviluppatore immobiliare ascolteremmo qualcuno parlare in nome della fauna della foresta: delle specie perse nella tempesta (per esempio i rapaci notturni), ma anche di quelle per le quali non far nulla sarebbe una manna (i coleotteri). E così verrebbero presi in considerazione anche i diversi interessi degli animali; in effetti, mi aspetto che la «natura» – con tutti quei punti di vista diversi (e contraddittori) – sarebbe ben rappresentata in quest’assemblea. Forse è ingenuo da parte mia pensarlo, ma confido che, nel corso di una conversazione pubblica e democratica sul destino di Cathedral Pines, alla fine saremmo arrivati a una soluzione che avrebbe al tempo stesso soddisfatto noi senza offendere la natura. Purtroppo non è questo ciò che accadde. Il futuro di Cathedral Pines fu deciso a settembre, in un incontro a porte chiuse tenuto nella sede di Nature Conservancy, dopo una serie di negoziati con i consiglieri comunali e i proprietari dei terreni adiacenti. Il risultato fu un compromesso che sembra non aver soddisfatto nessuno. Gli alberi caduti non saranno toccati, tranne che in una fascia di quindici metri intorno al perimetro della foresta: un frangifuoco inteso a tranquillizzare i proprietari di alcune case vicine. L’unico interesse umano di cui si è tenuto conto, nella decisione, è stato il timore degli incendi. Un giorno, nel tardo autunno, sono andato laggiù in auto per dare un’occhiata, per capire a che cosa avesse portato la tregua fra Nature Conservancy e la comunità. Che spettacolo triste! Involontariamente e a dispetto delle buone intenzioni da ambo le parti, Conservancy e i consiglieri hanno cospirato alla creazione di un paesaggio che è un simbolo perfetto del nostro rapporto distorto con la natura. La fascia frangifuoco, più che a qualsiasi altra cosa, somiglia a una terra di nessuno in un’area di guerra, una minacciosa porzione di terreno piagato che delimita quel poco che resta di Cathedral Pines. Il paesaggio che abbiamo creato qui è grottesco; eppure è il logico risultato del confronto fra un’idea astratta e sbagliata degli interessi della natura da un lato; e un’idea ben misera e avvilente degli interessi nostri, dall’altro. Probabilmente non dovremmo sorprenderci se il risultato di un tale confronto non è un angolo di natura incontaminata, e nemmeno un giardino, ma una zona demilitarizzata.

4. Nello sviluppare alcune delle idee per questo capitolo, ho attinto da una discussione tra esperti, a proposito di etica ambientale, nella quale ho fatto da moderatore per il numero di aprile 1990 di «Harper’s Magazine». I partecipanti erano James Lovelock, Frederick Turner, Daniel Botkin, Dave Foreman e Robert Yaro. Questo capitolo deve moltissimo anche alle opere di Wendell Berry, René Dubos, William Cronon, William Jordan III e Alston Chase. INVERNO XI «PERDERE LA TESTA PER I PRETENZIOSI CATALOGHI»

L’inverno, in giardino, è la stagione della speculazione, un momento in cui la neve sul terreno è una tela vuota che invita al pigro seminare e riseminare, da adesso al disgelo primaverile, infiniti orti e giardini ipotetici. Ed è anche una stagione di speculazione nel senso di Wall Street, perché è adesso che si fanno grandi scommesse, in termini di tempo e spazio da dedicare al giardinaggio, sulla base di meri frammenti di informazioni: un desiderio intenso, una fotografia su un catalogo, un seme. Noi giardinieri abbiamo sempre avuto difficoltà a seguire il saggio consiglio ottocentesco di Henry Ward Beecher, di «non perdere la testa per i pretenziosi cataloghi di fioristi e venditori di sementi». Nel giro di qualche mese, l’estate emetterà il suo giudizio sul valore o sulla follia dei nostri progetti di gennaio, ma adesso tutto sembra possibile. Il giardino d’inverno è un luogo astratto, senza terra, dove a fiorire sono soltanto delle rappresentazioni: listini di stagione, schemi, cataloghi e semi (i quali, ovviamente, sono rappresentazioni create dalla natura). Per quanto sembrino prive di sostanza, in realtà, per il giardino d’estate queste rappresentazioni sono vitali come l’acqua, l’humus e la luce del sole. Infatti, ogni anno a ringiovanire il giardino importandovi geni e combinazioni nuovi, sono i traffici del giardiniere con questi simboli, non diversamente dai traffici estivi dei bombi. Il bombo consulta i suoi fiori e il giardiniere i suoi cataloghi: i quali, in questa stagione, sbocciano generosamente attirandolo con le loro fantasie a quattro colori di fiori e abbondanza. I cataloghi sono al cuore del giardino d’inverno. Attraverso le loro pagine, il giardiniere, che per tutta l’estate ha lavorato nell’isolamento, si addentra nel mondo del giardinaggio su più ampia scala e ne torna con un ricco archivio di nuove informazioni: genetiche, orticolturali e culturali. L’informazione genetica, naturalmente, è nella forma dei semi in vendita, mentre l’informazione orticolturale si presenta in quella di preziosi consigli contenuti in molti cataloghi (ho imparato molto sulle piante perenni dal testo paziente e didascalico di White Flower Farm; e da Seeds Blum ho appreso tutto sulla conservazione dei miei semi, e su come farli germinare). Per quanto riguarda l’informazione culturale, infine, il giardiniere deve leggere fra le righe, ma eccola lì: molti cataloghi di semi e piante sono sottili compendi (a volte neanche troppo sottili) di istruzioni sociali, politiche e morali. Dopo aver letto una buona decina di cataloghi, si comincia a capire che le loro differenze non stanno tanto nelle varietà delle piante e dei semi offerti, aspetto in cui vi è una sovrapposizione considerevole, quanto nel diverso modo in cui ciascuno di essi sceglie di immaginare l’orto e il giardino. I quali sono, fra le altre cose, una forma di espressione di sé, e noi sfogliamo i vari cataloghi cercando gli elementi di un vocabolario adatto a noi, che possa dare corpo ai nostri desideri. Da White Flower Farm o da Wayside Gardens possiamo procurarci una bordura di perenni permeata di distinzioni di classe, testimonianza floreale della nostra raffinatezza; da Harris, da Park o da Gurney’s possiamo ordinare un giardino da classe media che annunci orgogliosamente al vicinato lo spirito di iniziativa, l’indipendenza e l’unione della nostra famiglia; da Johnny’s Selected Seeds o da Pinetree Garden Seeds possiamo procurarci un giardino che rispecchi la nostra consapevolezza ambientale; e da Seeds Blum o J.L. Hudson uno che proclami le nostre convinzioni politiche, in particolare il nostro entusiasmo nel proteggere la diversità genetica del pianeta dai saccheggi messi a segno dalle multinazionali. Il giardino esiste in molte versioni, ciascuna con i suoi sostenitori sparsi nel mondo e con un paio di cataloghi che fanno di loro una comunità; la quale, come tutte le comunità, tende a definire se stessa per contrapposizione. Se si trascorre qualche tranquilla serata d’inverno in compagnia di questi cataloghi non-troppo- tranquilli, si comincia a capire che, subito sotto la sua placida superficie, il giardino è tutto un ribollire di controversie sociali e politiche.

Nel mondo del giardinaggio, al vertice della gerarchia sociale come due grandi famiglie aristocratiche, troviamo i cataloghi di White Flower Farm e di Wayside Gardens, con sede rispettivamente a Litchfield nel Connecticut, e a Hodges nel Sud Carolina. Entrambi sono stampati interamente a colori su carta patinata, ed entrambi offrono un’impareggiabile selezione di perenni e arbusti di alta qualità, accompagnata da generose garanzie e dal tipo di servizio impeccabile che uno si aspetta a quei prezzi, in alcuni casi vertiginosi. Le somiglianze però si fermano qui, perché Wayside e White Flower, pur vendendo molte delle stesse piante, propongono però una concezione del tutto diversa del giardinaggio di alto profilo, all’incirca la stessa differenza che ci si aspetta di riscontrare confrontando lo stile delle grandi famiglie yankee e di quelle degli stati del Sud. È Amos Pettingill, il personaggio fittizio che firma il catalogo di White Flower (catalogo che peraltro non si autodefinisce tale – sarebbe troppo mercenario – bensì The Garden Book, il libro del giardino), a dare il tono alla casa: affabilmente eccentrico, presuntuoso, prudente, distaccato dal commercio, affetto da una grave forma di anglofilia e ironicamente modesto ma al tempo stesso coercitivo sulle questioni di gusto (un trabocchetto da cui sanno guardarsi solo le persone di buona famiglia). Qui dovrei dire subito che io Amos Pettingill non riesco proprio a sopportarlo. Detesto la sua prosa edoardiana affettata, il modo in cui parla di una rosa rampicante come di una pianta dalla «denominazione spiacevolmente impropria» o del clima nelle regioni più rigide del paese come «d’un freddo proprio bestiale». Detesto quando cerca di adularmi riferendosi al mio giardino come alla «vostra tenuta». E detesto le sue digressioni entre-nous: «È possibile, naturalmente, che un bravo giardiniere sia impaziente, ma nel corso degli anni abbiamo riscontrato che tutti i giardinieri impazienti dispongono di denaro. Acquistano il tempo sotto forma di esemplari di piante, e creano un giardino nel giro d’una notte, probabilmente traendo da questa creazione affrettata la stessa soddisfazione [e qui l’ago del poligrafo ha un sussulto] di quelli di noi che creano più con il tempo che con il denaro». Qui c’è la classica distinzione tra la ricchezza antica e quella nuova, salvata per un pelo dall’accusa di snobismo grazie alle garbate frottole condiscendenti di Pettingill. Naturalmente, se è diventata abbastanza in fretta un’azienda da otto milioni di dollari, White Flower Farm lo deve ai ricavi ottenuti con i giardinieri impazienti, tutti quei nouveaux riches senza educazione che il catalogo si dà tanta pena a istruire. Quello che credo di detestare sopra ogni altra cosa, però, è l’invito incluso in ogni catalogo primaverile di unirsi a Pettingill e allo staff di White Flower Farm in occasione del loro Open House annuale «per qualche sandwich ai cetriolini e tè freddo sul prato di fronte alla nostra sede». Quest’estate il grande evento avrà luogo il 14 luglio, il giorno della presa della Bastiglia. Nulla mi farebbe più felice di poter passare il mio invito a Abbie Hoffman o a qualche altro meritorio sans-culotte. Che cosa non darei per guardare John Belushi dare fondo a un mucchio di quei piccoli sandwich, o sentire Hunter Thompson che chiede da bere qualcosa di un po’ più forte del tè freddo. Datemi i fratelli Marx! Riuscite a immaginare il tipo di persona che si presenta a un evento del genere? Ho una visione da incubo di un vasto manto erboso sul quale vanno e vengono pantaloni con i ricamini delle balene acquistati da Brooks e gonne a portafoglio di Talbots, tutti intenti a parlare di Gertrude Jeckyll o del caldo proprio bestiale che c’è da queste parti. Probabilmente dovreste anche sapere che nulla di tutto questo mi ha impedito di fare acquisti da White Flower Farm. Gran parte di quello che so sulla coltura delle perenni l’ho appreso ai piedi di Amos Pettingill. Quando dice che Fama è «la più bella cultivar di scabiosa perenne», o che, sebbene «il portamento lasco di Veronica latifolia richieda qualche tutore o ramo di supporto per apparire al meglio, ne vale decisamente la pena. Piantatene diverse accanto a dei papaveri orientali bianchi e sostenetele con una Caryopteris», io mi fido implicitamente di lui. Forse perché faccio giardinaggio nelle vicinanze, nello stesso clima e nello stesso contesto geografico e paesaggistico (se non sociale), trovo che Pettingill ha quasi sempre ragione; per quanto sia spesso suscettibile e reazionario, do retta al suo giudizio. White Flower è notoriamente lenta a introdurre nuove cultivar (e se ne fa un vanto in modo irritante: «In un mondo dipendente dal cambiamento fine a se stesso...», ecc.); ma quando alla fine appoggia una coreopside Moonbeam, o un’emerocallide Stella d’oro, possiamo piantarle tranquillamente. Nessuno entra nel club di Pettingill senza essere stato sottoposto a un esame scrupoloso. Nel catalogo di White Flower, «nuovo e migliorato» è una condanna, un sarcastico insulto scagliato contro i tipi più audaci ed esaltati del mondo del giardinaggio. Qui, una rosa antica appena riscoperta ha sempre maggiori probabilità di ammissione di un ibrido nuovo fiammante. Quando si tratta dei geni delle piante, un certo snobismo è spesso giustificato – quanti ibridi nuovi fiammanti mantengono le loro promesse? –, ma a volte in realtà è soltanto un modo per mascherare una forma di snobismo decisamente meno innocuo, riguardante la società e il lignaggio degli esseri umani. Prendiamo per esempio il tema del colore, un argomento che in giardino sembra quasi entrare in risonanza con questioni di status. Perché White Flower Farm? Perché, come dice il fondatore dell’azienda (attingendo da Vita Sackville-West), «I fiori bianchi sono l’incubo di tutti i giardinieri, tranne che dei più esperti e raffinati». Nella gerarchia dei colori, il bianco è indiscutibilmente al vertice: a tal punto, dice Eleanor Perényi (in giardino un arbitro del gusto su cui si può sempre fare affidamento), che «se bianco, perfino un gladiolo può andare – per il rotto della cuffia – mentre di qualsiasi altro colore sarebbe inaccettabile». (Ma un momento: che cos’è questa faccenda dei gladioli? Be’, sembra che siano... problematici, come svela un’attenta lettura del catalogo di White Flower: «Nella bordura, i gladioli devono essere usati con prudenza,» avverte Pettingill «perché la maggior parte di essi è alquanto fredda e... volgare»). Lo spettro dello snobismo vegetale – dal bianco all’azzurro, al rosa, al giallo, al rosso, all’arancio e infine al magenta, il fin troppo ordinario emblema delle erbacce, il proletariato della natura – è implicito in ogni pagina del catalogo di White Flower Farm. Vi predominano infatti i bianchi e gli azzurri, e sebbene compaiano anche fiori dalle tinte più calde, questi ultimi sono centellinati con saggezza, sempre nelle tonalità più delicate disponibili e spesso accompagnati da un richiamo alla misura da parte del giardiniere-in-capo. La bordura di perenni creata dal catalogo di White Flower è un qualcosa di fine e sobrio, come si conviene considerando che proviene dal New England (dove le regole si allentano solo in autunno, quando necessariamente la finezza va a farsi benedire; a settembre un giardino di White Flower darà spazio perfino alle dalie più sgargianti – «concorrenti mozzafiato nella competizione con le prime foglie d’autunno»). La bordura estiva di White Flower è ideata per abbinarsi al meglio con antichi muri in pietra e superfici esterne rivestite in legno; se commette un peccato, sarà per la troppa austerità, mai per eccesso. Questa è un’estetica fatta per piacere anche a un puritano. Se White Flower propone un giardino adatto ai Cabot e ai Lodge, quello di Wayside farebbe impazzire Rossella O’Hara. Bastano le sole fotografie per distinguere l’estetica sobria di Amos Pettingill, tipica del Connecticut, da quella più dimostrativa adottata a Hodges, nel Sud Carolina. A Wayside piace fotografare i propri fiori quando sono nel pieno della fioritura, completamente aperti, e quasi oltre il picco, come in una di quelle nature morte olandesi in cui le corolle sono proprio sul punto di sfiorire e la decadenza incombe nell’aria. I fiori di Wayside premono dalla pagina provocatoriamente, in molti casi liberandosi dei margini delle fotografie quasi come di un corpetto. L’effetto è francamente sensuale e tuttavia mai veramente pacchiano – salvo, forse, per un occhio puritano. Immagino che la voluttà del catalogo Wayside scandalizzi la concorrenza yankee su a Litchfield, dove i fiori sono invece fotografati sempre a una distanza discreta, e diversi giorni prima del picco. Ho qui davanti a me una fotografia di Wayside e una di White Flower, dello stesso soggetto: una rosa Madame Hardy. Nell’immagine di White Flower, essa appare vagamente pudica, con gli innumerevoli petali bianchi non ancora del tutto dischiusi: qualcosa è trattenuto. Nella fotografia di Wayside, lo stesso fiore è fotografato diversi giorni dopo, con i petali adesso completamente aperti, a mostrare il bottoncino verde degli stami, all’interno. Il catalogo Wayside esalta il suo «leggero rossore», la «deliziosa fragranza» e i fiori «prodotti generosamente in giugno». Dal canto suo, White Flower evita effusioni, riferendo con toni obiettivi che «Mme Hardy si è guadagnata un posto, sul retro del Moon Garden adiacente alla nostra sede, dove è una presenza più che gradita». Wayside va a nozze con la sensualità dei propri fiori, ammettendo il richiamo che essi esercitano sui nostri sensi. White Flower non oserebbe fare altrettanto; preferisce pensare ai suoi fiori come a ricche zie vedove, o a brave figliole, ma mai come a oggetti sessuali. Se Amos Pettingill dovesse pensare ai fiori in quel modo, probabilmente gli salterebbero i bottoni. Eppure, nonostante tutto il suo sensazionalismo, il catalogo di Wayside non permette mai a nessuno di perdere di vista i suoi contatti con l’alta società: un talento, questo, che credo sia tipico del Sud. Fiducioso del suo status e senza l’inibizione del calvinismo yankee, il giardino del Sud sembra potersi concedere i fiori e i colori più caldi ed emotivi senza il minimo cenno di imbarazzo. Nella sua impudenza, Wayside presenta piante i cui nomi basterebbero a mettere Amos Pettingill in una condizione di tormentoso disagio: rose denominate Cupcake, Rose ’n’ Shine e Gina Lollobrigida; e un giglio color caramella che si chiama Strawberry Shortcake. Inoltre, il catalogo di Wayside attinge alle scorte di inchiostro magenta del tipografo con la stessa liberalità mostrata da White Flower con il ciano. Questo perché, secondo le regole di questo mondo particolare, un fiore può essere vistoso, attraente o civettuolo senza disonorare il nome della famiglia: considerando chi è suo padre, la fanciulla può farla franca. E infatti il catalogo di Wayside dedica al tema delle origini una spropositata quantità di spazio. Ci informa che tutte le sue piante hanno un «pedigree», perché «voi volete piante che, in quanto a purezza e raffinatezza orticolturali, siano di un livello superiore. Nelle piante, come negli animali, l’unico modo per assicurarsi ceppi puri dalle qualità costanti, ed esemplari da primo premio, è l’incrocio selettivo». Se nel mondo di White Flower lo status è questione di gusto e discriminazione, in quello di Wayside dipende dalle origini e dai titoli. Immancabilmente Wayside ci racconta chi sono i genitori delle sue rose e annota con puntiglio la data del loro debutto in società. Un rododendro presentato lo scorso anno – una frivola creazione rosa, eccessiva come una sottana da ballo anteguerra – richiama la nostra attenzione perché è stato selezionato, nientedimeno, da Fred Peste, il «botanico tanto stimato» dello stato di Washington, dove «vi è una lunga tradizione di selezione di splendidi rododendri». Questa esclusiva Wayside «comprende fra i suoi antenati R. yakushimanum, uno dei rododendri più importanti nella selezione moderna, dal quale trae il suo portamento compatto, la fioritura generosa e i colori sorprendenti». Nessuna meraviglia, dunque, se «a dispetto di una durissima concorrenza» questa esclusiva Wayside è stata «scelta per ricevere un riconoscimento nel corso di una cerimonia speciale a Olimpia nel 1989». Che importa com’è la fanciulla? Io me la sposo! Non troppo sorprendentemente, qualsiasi pianta vanti la più leggera relazione con le teste coronate europee conquisterà il cuore di Wayside. La rosa Princesse de Monaco, un ibrido bicolore in avorio e rouge che si sta «ora dimostrando una rosa di eccezionale bellezza per il tavolo dell’esposizione» (il che nel codice dei cataloghi significa «in giardino è un disastro») è un’altra esclusiva Wayside. Tirate fuori i fazzoletti: «La tragica dipartita della principessa Grace di Monaco ha messo in luce la toccante storia personale di questa rosa. Dopo il matrimonio del principe Ranieri con Grace Kelly, nel 1956, tra la famiglia reale e casa Meilland, per anni uno dei più importanti ibridatori di rose del mondo, si è sviluppata una stretta amicizia ... Nel 1973, Meilland dedicò una nuova rosa alla principessina Stéphanie, mentre il principato nel 1976 intitolò a Francis Meilland un giardino di rose, e nel 1981 ospitò il primo Salon International de la Rose. «Tra le nuove rose che i Meilland portarono a quell’esposizione vi era una bicolore con boccioli rouge e crema, che si aprivano in fiori perfetti pieni, di color avorio denso, tinto di un rosa carico (i colori del principato) ... Inizialmente esposta con il nome di “preference”, nobilitò le sue credenziali con il fatto di avere, tra i suoi antenati, la rosa “Peace”, famosa in tutto il mondo. La principessa Grace la indicò immediatamente come sua preferita, e Alain Meilland decise di rinominarla “Princesse de Monaco”». Se Wayside pone sul pedigree un’enfasi tanto maggiore rispetto a White Flower (Amos avrebbe deciso, con tutte le ragioni, che la principessa Grace non capiva nulla di rose, e l’avrebbe chiusa lì), probabilmente è perché l’azienda investe moltissimo nei nuovi ibridi, che nel mondo del giardinaggio sono un tema della massima delicatezza. In generale, il fatto che un giardiniere tolleri gli ibridi moderni indica che ha il gusto tipico di una persona di cultura media. Gli ibridi moderni sono i parvenu del mondo del giardino, prole di dubbie unioni che minacciano di diluire i lignaggi della società vegetale. L’estetica di Wayside favorisce il tipo di colore intenso e la frivolezza resi possibili dall’ibridazione, ma supera la potenziale condanna sociale appoggiando solo gli «incroci migliori»: la prole di matrimoni scrupolosamente combinati tra le famiglie più illustri.

I grandi cataloghi tradizionali di sementi – Burpee, Park, Harris, Stokes, Gurney’s – non hanno di tali riserve sugli ibridi. Anzi, non vi è nulla che piaccia loro più di un nuovo incrocio: più è improbabile, meglio è. Più grande, più buono, più nuovo, o soltanto semplicemente più diverso: questi sono i valori supremi di quelli che io considero i cataloghi della classe media. Ovviamente, occorre fare qualche distinzione, giacché la classe media americana è un edificio a molti piani: al momento Burpee si colloca in una fascia abbastanza alta, visto che offre perfino qualche ortaggio europeo e alcune rose antiche; all’altro estremo dello spettro c’è Gurney’s: un catalogo-tabloid, impaginato e redatto nello spirito del «National Enquirer», che si rivolge alla fascia di mercato più bassa. I cataloghi di Park, Harris e Stokes si trovano da qualche parte fra questi due estremi. Quello che li accomuna tutti è la venerazione per il nuovo; nel bene o nel male, essi rappresentano, in giardino, il trionfo del progresso e del gusto della classe media. All’inizio di ciascuno di questi cataloghi, si trova immancabilmente una sezione molto inchiostrata e con un taglio decisamente pubblicitario, fittissima di nuove offerte: le superbe creazioni (spesso brevettate) dei selezionatori e dei genetisti della casa. Gli sforzi di questi maghi in camice bianco sembrano incanalarsi in due direzioni: o verso la liberazione di una pianta cara al pubblico da un tratto presumibilmente debilitante; o verso il suo arricchimento con qualche nuova fantastica caratteristica. Nella prima categoria ricadono le zucchine con i gambi lisci («Guarda mamma!» esulta il catalogo Park. «Niente graffi!»); i cetrioli «che non “tornano su”» (un altro problema di portata mondiale risolto dal know-how americano); e le angurie senza semi. Sono tuttavia gli aspetti da record escogitati ogni anno da queste aziende – aspetti completamente nuovi ed esclusivi – a ottenere la maggior quantità di inchiostro del catalogo, attirando nel contempo gli strali più pesanti da parte dei tradizionalisti del giardinaggio. A volte le innovazioni dell’industria hanno un senso: meloni capaci di crescere in Alaska, emerocallidi che fioriscono tutta l’estate, cavolfiori autosbiancanti, pomodori resistenti alle malattie. A prescindere dal fatto che questi ibridi siano o meno all’altezza di quanto promettono, è possibile coglierne la base razionale. Molti nuovi ibridi, però, sono meno comprensibili. A partire almeno dagli anni Cinquanta, i produttori di sementi si sono dati da fare per creare zinnie che sembrano dalie, dalie che sembrano zinnie, crisantemi che sembrano margherite o cacti o zinnie, zinnie che sembrano crisantemi, il tutto in colori precedentemente mai visti. «I crisantemi adesso mi piacciono,» scriveva Katherine White nel 1958 con una nota di esasperazione «ma perché far somigliare le zinnie ai crisantemi?». Da molto tempo, ormai, Burpee ha una particolare ossessione per lo sviluppo di un tagete senz’ombra di giallo. A cominciare dagli anni Cinquanta, l’azienda ha offerto diecimila dollari a chiunque fosse incappato in un tagete bianco – quello che in gergo è definito uno «sport», o una mutazione casuale. Il premio venne infine reclamato da un fortunato giardiniere nel 1975 e nel catalogo di quest’anno Burpee offre orgogliosamente, su base esclusiva, il suo tagete Snowdrift: «Il coronamento di trent’anni investiti nella ricerca del tagete bianco». Guardando la fotografia, c’è da chiedersi se lo sforzo sia valso la candela: il tagete Snowdrift ha esattamente lo stesso aspetto di un crisantemo bianco. Di certo però il prodotto più inutile di tutti i tempi scaturito dalla scienza degli ibridatori è l’ultimo trionfo di Park, il girasole Sunspot. Sul catalogo, la fotografia di questa innovazione «sorprendente e incantevole» mostra un bambino d’un paio d’anni che, letteralmente, svetta su un campo di girasoli. Per ragioni che non riesco neanche lontanamente a immaginare, Park ha piazzato fiori di girasole di dimensioni normali in cima a steli d’una sessantina di centimetri. Il risultato è una pianta strampalata, una creatura pigmea dall’aria goffa che potrebbe essere stata ideata solo da chi non si sia mai fermato a considerare che cosa sia un girasole: vale a dire, prima e soprattutto, in ogni senso e per ogni verso, un fiore alto. Se Amos Pettingill dovesse mai degnarsi di inserire nel suo catalogo piante annuali e ortaggi, di certo glisserebbe sul girasole Sunspot e sul tagete Snowdrift. Su basi estetiche, sono d’accordo con lui. D’altra parte, le alte sfere del giardinaggio danno voce alle proprie obiezioni su questi ibridi con una tal veemenza da far pensare che forse qui sia in gioco qualcosa di più del buon gusto. Gli ibridatori, brontola Eleanor Perényi, «hanno introdotto volgarità in precedenza inedite nel mondo del giardino»; e confessa il proprio «disprezzo per gli ibridi più grossolani». Come Katherine White e Amos Pettingill, Perényi deplora qualsiasi fiore sia spinto a un comportamento «innaturale»: «narcisi chartreuse, emerocallidi malva, non-ti-scordar-di- me rosa e tutti quei bicolori infilati dappertutto». Il fatto è che la vecchia guardia del giardinaggio, di tendenze WASP, proprio non può sopportare il melting pot orticolturale che ribolle nelle pagine dei cataloghi per il pubblico di cultura media: tutti quei discutibili matrimoni tra fiori che hanno dimenticato quale sia il posto che loro compete nel mondo. La sfacciataggine di una dalia che comincia a comportarsi come fosse una zinnia o un crisantemo! E che ci fa tutta agghindata in malva quell’ordinaria emerocallide? Quel colore è proprietà privata dei lillà! Cerchiamo di evitare tutti questi incauti scambi di geni, altrimenti ben presto non avremo più autentici ceppi puri. Sbaglio a cogliere qui una punta d’ansia sui matrimoni misti? Incuranti di questi guardiani della purezza genetica, i cataloghi della classe media continuano a esibire spensieratamente ogni anno le loro varietà migliorate con un entusiasmo che è difficile non apprezzare. Il progresso è la loro religione, e se a volte produce un fiasco come il girasole Sunspot, ci ha anche regalato molte belle cose, per esempio il pisello mangiatutto. Questo legume dal baccello commestibile divenne uno degli ortaggi-novità più popolari degli anni Ottanta, con buona pace di Eleanor Perényi e dei suoi commenti indignati («roba scadente», «immangiabili»). Nel mondo dell’orto, il pisello mangiatutto è l’equivalente del tegame con il rivestimento in Teflon o del forno a microonde: molto più rapidi a far proseliti nella classe media che non tra gli snob del cibo. Alla fine però la nouvelle cuisine diede il proprio appoggio al nuovo pisello, e adesso troviamo questo arrampicatore sociale persino in cataloghi di semi di fascia alta come Cook’s e Shepherd’s, fornitori di cuochi seri. Nella loro forma migliore, i cataloghi per i lettori di media cultura colgono qualcosa dello sconfinato ottimismo del Secolo Americano, che nelle loro pagine può sembrare preservato come in una capsula del tempo. Qui, ancora pieni di vita, si trovano sani esemplari della famiglia nucleare, ragazzini ammodo apparentemente più propensi a dare una mano in giardino a papà e mamma piuttosto che a gingillarsi con i videogiochi al centro commerciale o sperimentare con le droghe. Anche qui, la promessa della tecnologia americana brilla tuttora luminosa, e in nessun luogo più che nell’importantissimo settore dello sviluppo del pomodoro. Gli ultimi ibridi hanno tutti dei nomi aerodinamici, da èra spaziale, cose come Supersonic, Ultra Boy, Jetstar, Starshot – e Fireball, che suona un po’ radioattivo. L’ultimo catalogo di Stokes è gonfio di orgoglio perché la NASA ha selezionato il suo nuovo pomodoro Lunch Box come «possibile varietà per l’alimentazione del personale della nuova stazione spaziale». Potrebbe sembrare una promozione non troppo credibile (dopo tutto, questa è la stessa gente a cui dobbiamo le polverine Tang per fare le bibite alla frutta e il manzo alla Stroganoff liofilizzato); d’altra parte, devo presumere che Stokes conosca la sua clientela meglio di me. Il mio catalogo preferito, per il ritorno al passato, è quello di Gurney’s, una ditta con sede a Yankton (Sud Dakota): un allegro tabloid indirizzato a un pubblico senza pretese, stampato in colori saturi su carta economica non patinata. Nulla sembra esser cambiato, qui, da prima della guerra, nemmeno i prezzi (cuore di Maria, trentanove centesimi con qualsiasi ordine). Sfogliare il catalogo di Gurney’s significa rivisitare un’America più semplice, forse più ingenua, un paese del «poter fare» dove i valori del risparmio, dell’indipendenza e della famiglia non hanno perso nulla del loro smalto. Immagino questo catalogo aperto sul tavolo di cucina nelle fattorie degli anni Trenta e Quaranta, magari anche nel Kansas di Dorothy. I clienti di Gurney’s allestiscono giardini non perché cercano un’affermazione sociale, ma per fare economia, per ravvivare un po’ l’ambiente (per una casa, dice il catalogo, «i fiori sono come la glassa»), e per tenere i figli alla larga dai guai. «Negli ultimi due anni, con i semi di anguria Cobb Gem di Gurney’s,» recita una delle numerose testimonianze ristampate sul catalogo «io e i miei figli abbiamo vinto diversi primi premi alla fiera del Tennessee». Nelle pagine di Gurney’s si possono ancora trovare le istruzioni per un orto di guerra; in effetti, qui c’è tutta la vecchia polverosa attrezzatura dell’Ideale Agrario. Quello di Gurney’s sembra essere un mondo in cui la sera a cena si servono regolarmente hamburger, magari insieme a pannocchie di mais. Quest’anno il catalogo è particolarmente su di giri per la sua Walla-Walla, la «cipolla formato hamburger» ritratta in copertina, dove un trio di queste bionde bellezze sono mostrate mentre spingono l’ago di una bilancia poco al di sotto di due chilogrammi. «Queste fette extra-large coprono facilmente il panino, anche su hamburger da oltre un etto. Mai più morsi di solo pane: ogni boccone avrà la sua cipolla!». (Un autentico lusso, pensare che questo sia un problema). In effetti gran parte delle voci del catalogo riguardanti le cipolle fanno riferimento agli hamburger, evidentemente la raison d’être di qualsiasi cipolla che si rispetti. La domenica, tuttavia, Gurney’s imbandisce anche qualche cena di alta classe: una piramide di asparagi Jersey sormontata da un nastro di salsa olandese fa mostra di sé in un piatto (inesplicabilmente affiancato da diversi pezzi di un servizio da tè placcato in oro). Il catalogo dichiara orgoglioso che la sua lattuga Tom Thumb viene attualmente servita all’hotel Waldorf Astoria di New York, un luogo che, visto da Yankton, Sud Dakota, deve brillare da lontano come un El Dorado dell’eleganza. Lo stile della prosa di Gurney’s – com’è prevedibile – tende all’iperbole; l’influenza letteraria fondamentale qui sembrerebbe essere Ripley’s Believe It or Not, e i punti esclamativi germogliano dalla pagina come erbacce dopo la pioggia. Gurney’s è orgoglioso di offrire l’anguria più grande del mondo (Cobb Gem, «un cocomero colossale che di certo farà strabuzzare gli occhi ai vostri vicini!»); la zucca più grande del mondo (Atlantic Giant, che raggiunge l’immensità di 340 chilogrammi); il pomodoro più grande del mondo (Delicious, attuale detentore del primato); e perfino il ravanello più grande del mondo (German Giants, che «diventa grande come una palla da baseball!»). Più grande vuol dire più buono, e per far capire quanto siano più buoni gli ortaggi di Gurney’s, le fotografie inquadrano spesso qualche pratico riferimento visivo per aiutare a stabilire la scala: una monetina, una tazza, un piatto da tavola con sopra un mucchio di pannocchie di mais, un bambino d’un paio d’anni, tutto felice, che sbircia dietro un’enorme zucca. Tra le altre cose, nel mondo di Gurney’s il giardinaggio è una forma di intrattenimento, e moltissimi articoli sono novità da lasciare a bocca aperta: il pomodoro bianco, il pisello senza foglie («un paradiso per chi deve raccoglierli!»), la rosa azzurra, il melo cinque-in- uno (cinque diverse varietà innestate su un singolo albero) e la dionea, la solita vecchia attrazione esotica. Benché, devo ammetterlo, questo catalogo di Gurney’s mi piaccia, più che usarlo per farci acquisti, lo sfoglio. Gran parte delle sue offerte sembrano troppo belle (e troppo a buon mercato) per essere vere. Può darsi che sia perché ormai il mondo di Gurney’s è tanto lontano e antiquato, ma trovo quasi impossibile credere che quei semi siano disposti a germinare nel presente, nell’America in cui vivo io. Quel catalogo è il fantasma del giardinaggio passato. Da nessuna parte questo è più evidente che nella sezione sul controllo degli organismi nocivi, che mostra un netto orientamento pre-Primavera silenziosa. Nelle pagine di Gurney’s i miracoli della chimica moderna non hanno perso nulla del loro fascino. Il lungo elenco di prodigi petrolchimici comprende «Corry’s – Lo Sterminatore di Lumache e Chiocciole»; grossi sacchi di una miscela insetticida non meglio specificata denominata semplicemente «Polvere per Insetti»; e il CPF – veramente inquietante –, un insetticida che viene mescolato alle vernici per tinteggiare le pareti in modo da trasformare «la casa, il garage e i fabbricati esterni in giganteschi dispositivi per uccidere gli insetti». Questo tipo di fede acritica nella tecnologia sta scomparendo dal mondo del giardinaggio (in effetti, in America ha cominciato a perdere aderenti molto prima che altrove), e le aziende tradizionali più lungimiranti (Burpee, tanto per dirne una) hanno iniziato a prendere le distanze dalle sostanze chimiche e a raccomandare approcci di ispirazione più biologica. Se non l’ha ancora fatto, ben presto la storia si lascerà Gurney’s alle spalle (insieme a diversi altri cataloghi tradizionali rivolti alla classe media), in uno sbuffo di Polvere per Insetti.

A prendere il loro posto negli ultimi anni è emerso un gruppo piccolo ma rigoglioso di cataloghi della «controcultura», che si autodefiniscono per contrapposizione ai grandi produttori tradizionali di sementi. Forse con appena una nota di ipocrisia, Vermont Bean Seed Company, Johnny’s Selected Seeds e Pinetree Garden Seeds (le ultime due aziende con sede nel Maine) raccomandano prassi biologiche, prendono le distanze dai nuovi ibridi, ed evitano con cura ogni vanagloriosa retorica in merito a primati mondiali. Questi cataloghi hanno un sapore distintamente rurale che però, a differenza di Gurney’s, qui è visto a distanza di una generazione, filtrato attraverso la disillusione dell’esperienza urbana. Immagino che siano scritti da ex hippie che negli anni Settanta tornarono alla terra, e ci restarono. Qui troviamo tutte le virtù rurali, adesso però ottenute deliberatamente e presentate come un garbato rimprovero verso i comportamenti moderni. «Noi non dimentichiamo mai» attacca Rob Johnston di Johnny’s all’inizio di un recente catalogo «che, oltre all’esigenza della produttività, il cibo deve essere consumato, e dovrebbe essere piacevole e nutriente. Ed è questo lo spirito che alimenta il nostro lavoro». «Sono i vostri ordini a consentirci di fare il lavoro interessante e piacevole che facciamo» scrive Dick Meiners, proprietario di Pinetree. «Voi, i nostri clienti, siete sempre nei nostri pensieri come individui e come gruppo». Non sembra esattamente il tipo di azienda dalla quale avrebbero potuto acquistare i loro semi Jimmy e Rosalynn Carter? Tutto, in questi cataloghi, mi colpisce come un prodotto nettamente anni Settanta, infatti la maggior parte di essi nacque proprio allora: modesti e sinceri, diffidenti nei confronti delle multinazionali e della tecnologia, scrupolosi verso l’ambiente, e decisamente sobri. Nelle pagine di questi cataloghi non si percepisce tanto il Secolo Americano, quanto il risveglio del giorno dopo. Molto più aggiornati e meno provinciali dei cataloghi di Johnny’s o Pinetree sono quelli di Cook’s, con sede nel Vermont, e Shepherd’s, con sede nella California settentrionale. Queste due boutique di semi sono specializzate in ortaggi di importazione, partendo dal presupposto che le varietà ibride offerte dai cataloghi convenzionali siano insipide e tutte uguali come quelle del supermercato. Nella loro ricerca di novità culinarie, Cook’s e Shepherd’s non guardano tanto al laboratorio quanto all’Italia, alla Francia o al Giappone, paesi che sembrano averci superato nella qualità degli ortaggi e della tecnologia. Queste aziende mirano a salvare il sapore e la salubrità degli ortaggi dai peccati della tecnologia e della produzione di massa; si collocano, rispetto a Gurney’s e Stokes, come Alice Waters nei confronti di Ray Kroc (e lo stesso vale per i prezzi). Qui la lattuga iceberg è outré come un gladiolo. Troveremo invece haricots verts, radicchio, misticanza, rucola, valerianella e, nel catalogo di Cook’s, non meno di nove varietà di basilico. Ma non una sola cipolla da hamburger. Tutti e cinque questi cataloghi sono critici nei confronti dell’ibrido, ma non si tratta della stessa critica avanzata dall’alta società del mondo del giardino. Sebbene le considerazioni di status abbiano ovviamente un peso in Cook’s e in Shepherd’s, in generale l’argomentazione dei controcataloghi a scapito degli ibridi verte non tanto su questioni sociali quanto su temi vagamente morali e politici: proviene più da sinistra che non da destra. La premessa di queste aziende relativamente nuove è che i produttori di semi interessati al mercato di massa hanno dimenticato chi ha un piccolo terreno. La maggior parte degli ibridi presenti sul mercato è stata selezionata per soddisfare le esigenze degli agricoltori su scala industriale, ai quali il sapore e la salubrità di un ortaggio importano molto meno della sua capacità di reggere il raccolto meccanico e la spedizione da un capo all’altro del paese. Se si ordinano i semi da Cook’s o Johnny’s, si spezza una lancia a favore di un approccio più sano e all’antica. Nell’economia nazionale, queste aziende occupano quella stessa crepa (che evidentemente va espandendosi) in cui si collocano Ben & Jerry’s, le librerie indipendenti e L.L. Bean. Se appoggiare questo genere di azienda trasmette un vago fremito morale, da Seeds Blum e J.L. Hudson – i radicali del giardinaggio sui cui cataloghi, quest’inverno, mi sembra di aver passato più tempo – può arrivare una scossa politica ben più potente. Nelle loro pagine, la battaglia contro gli ibridi e le grandi aziende che li promuovono si eleva, se non al livello di crociata morale, quanto meno a quello di lotta politica. La posta in gioco in questa lotta si coglie al meglio nel testo paziente e accessibile (perfino un po’ sciatto) di Seeds Blum. Questo catalogo ha esattamente lo stesso aspetto della rivista letteraria del mio liceo – inconfondibilmente fatto in casa, nell’identico formato A4, con la carta ruvida e gli stessi disegnini hippie (immaginate i California Raisins disegnati da R. Crumb). Seeds Blum – fondata nel 1982 a Boise, in Idaho, da Jan Blum – è specializzata negli ortaggi appartenenti alle cosiddette varietà tradizionali, ovvero nei semi di antiche varietà andate ormai perdute nella corsa alla creazione e alla commercializzazione di nuovi ibridi F1. I semi da cui si sviluppa un ibrido F1, spiega Blum, sono prodotti come prima generazione di un nuovo incrocio. Le piante che si sviluppano da questi semi saranno tutte geneticamente identiche, ma i loro semi – i semi della seconda generazione – non conserveranno quei caratteri: infatti, saranno sterili, oppure esprimeranno i tratti meno desiderabili dell’uno o dell’altro ceppo parentale. Queste caratteristiche fanno dell’ibrido F1 la via grazie alla quale il capitalismo avanzato invade l’orto, il giardino, e anche le coltivazioni su scala maggiore. Un campo di mais o di pomodori geneticamente identici non è soltanto perfettamente uniforme nel gusto e nell’aspetto (soddisfacendo, in questo, le esigenze del mercato di massa); maturerà anche tutto in una volta, il che consente all’agricoltore di effettuare il raccolto in modo efficiente, servendosi delle macchine. Contribuendo a introdurre nei campi le tecniche della produzione di massa, l’ibrido F1 rende possibile la moderna agricoltura industriale. Per i produttori di sementi, il vantaggio degli ibridi è ancora più grande: come spiega il catalogo Seeds Blum, in parole esplicite al pari di quelle di Marx ed Engels, «la ragione per cui gli ibridi esistono è di proteggere quanto investito nell’ibridazione dal produttore di sementi». Un nuovo ibrido F1 può essere brevettato: è una forma di proprietà privata. E poiché di per se stessi i semi prodotti da tale ibrido sono privi di valore, le aziende detentrici dei brevetti sono riuscite a fare dell’agricoltore e del giardiniere altrettanti loro dipendenti: hanno insomma acquisito il controllo dei «mezzi di produzione». L’ibrido F1 ricrea pertanto la natura a immagine del capitalismo. Ma perché questa dovrebbe essere necessariamente una cosa negativa? Le obiezioni di Jan Blum sembrano stringenti: oltre che noiosa per il consumatore e il giardiniere, l’omogeneità delle colture ibride è anche pericolosa, giacché l’uniformità genetica favorisce le epidemie. Quando in una di tali coltivazioni totalitarie una pianta soccombe a una malattia o a un insetto, è molto probabile che tutte le altre la seguano. Oggi gli agricoltori americani seminano solo pochi ibridi di mais e, come emerse nel 1970, un’unica epidemia fungina è sufficiente per decimare l’intero raccolto della nazione. Riducendo la base genetica della nostra agricoltura, l’abbiamo resa molto più vulnerabile e pertanto più dipendente dalle difese chimiche (non è una coincidenza se diversi grandi produttori di sementi appartengono a industrie chimiche). La stessa uniformità che spiana la strada al capitalismo contraddice anche uno dei princìpi cardine della natura: la diversità genetica. Con la conservazione e la diffusione di semi di antiche varietà che vengono «impollinate sul campo» (in altre parole che possono riprodursi in natura – benché, come qualsiasi essere vivente che si riproduca sessualmente, mai due volte allo stesso modo), noi contribuiamo a preservare un vasto pool genico. Nel corso degli anni, molte di queste varietà sono state tenute in vita da singoli coltivatori che hanno selezionato e salvato i semi di piante particolari, dotate di tratti considerati di valore: l’idoneità a crescere in particolari condizioni locali (aspetto di cui ai produttori di sementi su scala nazionale non potrebbe importar di meno), la resistenza alle malattie e, cosa più importante di tutte, il sapore. Trasmettendo i semi di generazione in generazione, questi coltivatori hanno agito, letteralmente, come una forza della selezione naturale, permettendo l’evoluzione di decine e decine di eccellenti varietà, e di infiniti tratti, dai quali un giorno potrebbe dipendere la sopravvivenza della nostra agricoltura. Oggi, il loro lavoro cumulativo costituisce una miniera di informazioni genetiche che, se non fosse per Jan Blum e altri come lei, potrebbe altrimenti andare ben presto perduta. Il catalogo di Blum, in parti uguali sermone e raduno orticolturale, arruola il coltivatore coinvolgendolo nella missione di mantenere in vita queste specie. Vi posso acquistare i semi della zucca Sibley, una varietà nativa americana, i pomodori Purple Calabash, e Jenny Lind, il pregiato melone dell’Ottocento. Sempre sul catalogo di Seeds Blum posso trovare come far germinare i semi; come conservare, il prossimo autunno, i semi di mia produzione; e perfino come scambiarli con altri produttori. Tra le altre cose, infatti, Seeds Blum funziona come una sorta di cooperativa per la conservazione dei semi, incoraggiando orticoltori e giardinieri a condividere i frutti del loro lavoro attraverso la sua rubrica «Trading Post» (nonostante questo servizio al lettore debba ridurre la quantità di semi che Jan Blum riesce a vendere). Nel mondo dell’orto e del giardino, Seeds Blum è l’equivalente dei Grateful Dead, i quali, non senza un consistente sacrificio economico, incoraggiano i propri fan a scambiarsi le registrazioni dei concerti. Qui non si tratta di denaro, ma di piante – e della visione, secondo Jan Blum, di un’epoca in cui «i semi torneranno ad appartenere alla gente, e non ai produttori di sementi». Se Jan Blum è una radicale degli anni Sessanta scesa in giardino e nell’orto, J.L. Hudson si legge come un irritabile attempato anarchico degli anni Trenta, e in effetti in questo catalogo austero e un po’ minaccioso, Emma Goldman è citata a piene mani. The Ethnobotanical Catalog of Seeds, con le sue quasi cento pagine riempite da un margine all’altro di caratteri in corpo 6, è un documento straordinario. Oltre ai semi di più di un migliaio di piante diverse (moltissime delle quali disponibili soltanto qui), l’Arrabbiato di Redwood City (California) farcisce il suo catalogo di citazioni tratte dai suoi filosofi preferiti (che spaziano da Goldman a Bob Dylan e William Burroughs, a Lydia Hyde Bailey e Lao-Tzu), come pure dai suoi stessi trattati, taglienti e illuminanti, su argomenti quali il «trasferimento genico interspecifico» e «il valore della diversità umana», e da una personalissima selezione di libri, non tutti riguardanti direttamente semi o giardinaggio. Oltre a The Useful Native Plants of Australia e Ethnobotany of the Hopi, vi si trova questo: «Costituzione americana, peso 1 oncia, costo 1 dollaro. Tutti dovrebbero avere una copia della Costituzione a casa propria. È sorprendente leggere il Bill of Rights (i primi dieci emendamenti) considerando quanto siano pochi quelli tuttora rispettati dal governo. Leggere e piangere». La visione dell’orto e del giardino proposta da J.L. Hudson è del tutto originale. Comincia con la stessa critica radicale contro gli ibridi avanzata anche da Jan Blum, ma poi si espande fino a comprendere il significato dell’evoluzione e il giusto ruolo degli esseri umani sul pianeta. Stando al quadro filosofico che riesco a ricomporre a partire dal testo del catalogo, Hudson sposa un tipo caratteristico di politica-e-genetica libertarie. Secondo lui, la più nobile vocazione di Homo sapiens è di essere una sorta di bombo o di colibrì di ordine superiore, con la missione di disseminare i geni vegetali sulla faccia della Terra, così da far avanzare il lavoro dell’evoluzione. Chiunque ostacoli tale lavoro – i grandi produttori di sementi, gli ecologisti malconsigliati – si guadagna il suo disprezzo. «Quest’anno» esordisce nella sua introduzione all’ultima edizione del catalogo «vorrei parlare dell’idea diffusa secondo cui le specie “non native” sarebbero in qualche modo pericolose, e le “specie esotiche aggressive” potrebbero invadere gli ecosistemi e distruggere le specie “native”». Hudson afferma che non vi è alcuna validità biologica in queste idee, e sulla faccenda è alquanto suscettibile: «Per me è paradossale ascoltare persone di origini europee accusare altri organismi di essere “esotici invasivi, che sostituiscono le specie native”». (Di certo ci penserei due volte prima di pronunciare la parola «erbaccia» in presenza del signor Hudson). «Al contrario,» continua «l’aiuto che abbiamo offerto alle altre specie nei loro spostamenti in giro per il mondo è servito ad aumentare la diversità a livello globale e locale. Si tratta di una delle poche attività umane rivelatesi benefiche per il resto del creato. Non può essere distinta dal movimento delle specie per azione del vento o delle correnti oceaniche, né dall’aiuto offerto dalle altre specie, come nel caso della dispersione dei semi ad opera degli uccelli migratori». Nonostante tutte le colpe dell’umanità (e Hudson sa essere durissimo con la propria specie), attualmente noi siamo uno dei più importanti vettori nel «trasferimento genico interspecifico», un processo essenziale per il progredire dell’evoluzione. E anche se Hudson tende a pensare in termini di tempi lunghi, evolutivi, parla della nostra missione con la massima urgenza: «Disponiamo, nella storia, di un breve momento soltanto, in cui i combustibili fossili continueranno a permetterci di viaggiare rapidamente in giro per il mondo. Usiamolo saggiamente». Qui il testo si ispira a William Burroughs: «migrazioni di scimmie nella crisi petrolifera storica». La fede di J.L. Hudson nel valore dei semi mi colpisce come una cosa nobile, addirittura commovente. Chi altri venderebbe i semi di comuni erbacce (perdonatemi) come il verbasco e l’ortica, accanto a quelli delle sequoie giganti (!) o del teosinte messicano, il venerato mais selvatico che gli indios conservarono nei loro campi per migliaia di anni al fine di rinvigorire il mais da seme? Qui, in un catalogo, troviamo le istruzioni per creare una bordura di perenni inglesi o il giardino di un indio zapoteco: più di cinquanta varietà di ortaggi e piante ornamentali raccolte dall’ultimo guaritore di questo popolo di Oaxaca («è difficile descrivere il lavoro umano riversato nell’impresa di offrirvi questi semi»). Il contenuto del catalogo di Hudson forma una vasta e brulicante democrazia di semi: semi comuni e semi rari, utili e inutili, alcuni facili da coltivare e altri con esigenze così inflessibili che, egli avverte, potranno occorrere due anni per vederli germinare. Ma non è una buona ragione per escluderli: non se uno crede, come evidentemente crede Hudson, che siamo noi a lavorare per i semi, e non viceversa. Dietro le pagine di questo catalogo di semi, probabilmente, c’è un visionario. Hudson parla del potere dei semi usando la stessa reverenza e la stessa ammirazione con cui i Padri Fondatori scrivevano sul potere delle parole in una democrazia (in effetti, Thomas Jefferson – il quale una volta scrisse che «il più gran servigio che può essere reso a qualsiasi paese è quello di aggiungere una pianta utile alla sua cultura» – avrebbe indubbiamente ammirato e cercato J.L. Hudson). I semi hanno il potere di conservare le specie, di aumentare la diversità non solo genetica ma anche culturale, di contrastare il monopolio economico e di frenare l’avanzata del conformismo su tutti i suoi numerosi fronti. «Conservazione attraverso la dispersione dei semi» è il credo di Hudson, un principio che pone (devo dirlo?) ben al di sopra del profitto: Hudson esorta i suoi abbonati a conservare e scambiare semi, con lui e fra di loro; arriva al punto di fornire nomi e indirizzi di aziende sue concorrenti, produttrici di semi, delle quali ha stima. Dalla lettura del catalogo di Hudson si esce convinti che i Padri Fondatori abbiano commesso una seria svista nel formulare il Bill of Rights senza prevedere la libertà dei semi.

Ogni anno il giardino che prende forma nelle mie fantasticherie invernali è un po’ diverso, giacché riflette la somma dei successi e dei fallimenti della stagione precedente, insieme alle idee più strane seminate nelle mie serate trascorse tra i cataloghi, durante i miei viaggi invernali nel mondo del giardino su più ampia scala. Un anno si trattò della bordura di perenni inglesi, nella mia fantasia piantata da Amos Pettingill in gennaio, e poi ripiantata da me nel mio terreno, in maggio, benché con risultati decisamente meno straordinari. L’anno dopo fu una bordura di rose antiche ispirata dalle affascinanti presentazioni e dalle voluttuose fotografie di Wayside. Lo scorso gennaio ho progettato un orticello europeo, con ordinate colonne di porri simili a quelle che avevo visto in certe fotografie fatte in Francia, teste ricce di lattuga Lollo Rosso provenienti dall’Italia (tramite Cook’s), uno skyline di gabbie addobbate con pomodori dorati Mandarin Cross importati dal Giappone da Shepherd’s, e poi mazzi di carote Mokum e teste di radicchio allineate come palle da baseball rosse lungo i vialetti. In parte, tutto questo viene e va; ho raccolto abbastanza Lollo Rosso per darne via intere ceste a Manhattan; abbastanza, mi piace pensare, da aver ridotto le vendite da Balducci’s, che la propone a 54 dollari al chilo. Ma il radicchio non è cresciuto né fitto né rosso, e si è rivelato perlopiù troppo amaro per essere commestibile. Quest’anno continuerò a curare tutti e tre questi ambienti verdi: un grosso ordine deve arrivarmi da Wayside la terza settimana di aprile, e i miei semi di ortaggi acquistati da Cook’s stanno già germogliando su un davanzale assolato in soggiorno. Come ormai avrete capito, però, quest’inverno le mie speculazioni si sono concentrate su un giardino di antiche cultivar. Ho perso la testa per i cataloghi di Jan Blum e J.L. Hudson. Ed è a questo che sto pensando adesso: al mio giardino come a una sorta di archivio fiorito, un luogo d’incrocio trans-storico, multiculturale, in cui le zucche Sibley un tempo coltivate dagli indiani d’America mettono radici nello stesso terreno di Madame Hardy, la bianca rosa damascena ottenuta nel 1832 da Monsieur Hardy, giardiniere alla Malmaison. E in questo appezzamento di terreno ordinario del Connecticut sarà anche benvenuto l’amato melone ottocentesco Jenny Lind, dolcissimo e dalla polpa verde, oggi non più in commercio (soltanto perché – si dice – la sua scorza non era abbastanza robusta da consentirne il trasporto), ma che sarà salvato da conservatori di semi come... be’, come me! Incredibile – non pensate? – avere due donne dell’Ottocento così diverse, commemorate nello stesso giardino: la moglie del giardiniere di Joséphine, certamente tra le creature senza volto dimenticate dalla storia; e l’«usignolo svedese», Jenny Lind, forse la donna più famosa del suo tempo, un soprano idolatrato su entrambe le sponde dell’Atlantico, la Madonna del secolo. Si dice che con la sua bellezza e i suoi virtuosismi canori mandasse in delirio milioni di persone. A giugno, quando quei meloni cominceranno a ingrossarsi, io penserò a lei: e al suo seno, credo, altrimenti per quale motivo uno darebbe a un melone il nome di un sex symbol? E sempre qui, levandosi come torri di comando sul mio giardino, ci saranno le piante di malvone che ho coltivato dai semi ottenuti in cambio di quelli delle mie zucche Sibley, semi che il mio corrispondente spiega di aver raccolto da piante i cui semi aveva ottenuto da un pittore di Long Island, il quale aveva raccolto i suoi nel giardino di Monet a Giverny: una complicata catena di dispersione che copre tutto il cammino da Giverny a Long Island, a Manhattan fino a Cornwall, in cui i semi sono portati non dagli uccelli o dagli alisei, ma da auto Toyota e Boeing 747 – in effetti nello scenario della «crisi petrolifera storica». E non è uno scambio da poco: una vecchia zucca indiana verrucosa in cambio di un fiore la cui bellezza attirò lo sguardo di Claude Monet. Che luogo! – un posto in cui gli impressionisti francesi prendono il sole insieme agli indios americani, e certi meloni famosi sorseggiano la pioggia insieme a rose di alto lignaggio. E nel pomeriggio tutti accoglieranno come la benvenuta quel poco di ombra offerta dai due meli antichi che ho ordinato dal catalogo del Southmeadow Fruit Garden di Lakeside, nel Michigan: un Ashmead’s Kernel, che produce una mela rossiccia, a quanto pare la più amata nell’Inghilterra del Settecento; e un Esopus Spitzenberg, dalle mele rosse picchiettate di grigio, un albero in cui Thomas Jefferson credeva fermamente al punto di piantarne decine a Monticello. E a svolazzare e sfrecciare sopra la mia testa ci saranno milioni di delicate crisope verdi e di coccinelle, graziose mercenarie che ho reclutato (passando per il catalogo del National Gardening Research Center di Sunman, nell’Indiana) affinché pattuglino il giardino e lo tengano libero da afidi e altre presenze indesiderabili. Gli ordini sono partiti – a Jan Blum di Boise, a quelli che vendono gli insetti a Sunman, e al tizio delle mele nel Michigan – e già la posta ha consegnato le prime bustine di semi e un sacchettino di larve di crisopa che stanno al fresco in frigo. Adesso sto aspettando che la posta, la Fed Ex e la UPS mi consegnino i pacchetti di informazione genetica che daranno forma al mio giardino. Non solo informazione genetica, però, giacché in questi semi è impressa anche cultura: i semi delle zucche Sibley divulgheranno, con i loro frutti, i gusti e le prassi colturali di indiani ormai morti da tempo; e i semi del melone Jenny Lind, che proprio adesso stanno articolando i cotiledoni sul mio davanzale, articoleranno anche qualcosa di ciò che la parola «melone» evocava nella mente di un Walt Whitman o di un Chester Arthur: qualcosa di molto diverso, pare, da ciò che la stessa parola evoca in noi. Anche le larve degli insetti in frigo contengono, codificati, dati inintelligibili ma preziosi: la somma totale della conoscenza evolutiva accumulata in alcuni milioni di anni sui dettagli della caccia agli afidi. E tutto questo che cosa fa di me, l’uomo che sfoglia i cataloghi, inoltra gli ordini telefonici, firma gli assegni e fa germinare i semi? Una sorta di bibliotecario, forse, il cui lavoro consiste nel raccogliere e organizzare questi volumi di informazione provenienti da luoghi lontani (nel tempo e nello spazio), nel collocare le rose della Francia del Secondo Impero lungo questa parete, e la zucca degli indiani d’America lungo quell’altra. Ma l’idea del bibliotecario non è proprio esatta: non del tutto, perché quello che io sto facendo, qui, non è un mero catalogo, un archivio di ciò che è antico. Si tratta piuttosto di qualcosa che, nella giustapposizione e nell’accostamento, non ha precedenti: qualcosa di nuovo. Non ci sono decimali Dewey da queste parti, e che nessuno venga qui a cercare la quiete o l’ordine di una biblioteca. D’estate, questo luogo sarà più simile a un mercato in fermento, a una città portuale brulicante, poliglotta, libera, dove personaggi vari e diversi di ogni genere – immigranti provenienti da vicino e da lontano, dal passato e dal presente, dall’Oriente e dall’Occidente, da sopra e da sotto – si incontreranno e si mescoleranno e si fonderanno in combinazioni in precedenza inimmaginabili. Mi aspetto che qui J.L. Hudson si sentirebbe a casa sua, e Amos Pettingill per niente: probabilmente troverebbe il vicinato un po’ troppo pericoloso, così turbolento ed eterogeneo da spingerlo a toccarsi, nervosamente e in continuazione, il portafoglio. E il mio ruolo qual è? Be’, qua intorno senza di me non accade molto, non all’inizio almeno, perché la maggior parte degli abitanti di questo giardino – come la maggior parte delle piante coltivate – dipende per la propria sopravvivenza dal giardiniere, proprio come i fiori dipendono dalle api e gli alberi dagli scoiattoli. Senza di noi che raccogliamo, proteggiamo e ripiantiamo i loro semi, i fagioli scompaiono; la zucca, il mais e le mele spariscono completamente. Ecco dunque che cos’altro è un giardino: un relitto che preserva, una sorta di arca (chiamatemi Noè!) a bordo della quale i geni di Jenny Lind sono portati nel futuro. Può darsi che Hudson abbia ragione e che io debba pensare a me stesso non come al signore di questa città di piante, ma come al suo servitore: vettore nel trasferimento genico interspecifico, trasportatore di informazione attraverso grandissime distanze di spazio e tempo, strumento per realizzare fini evolutivi mai immaginati. Ronzare da un catalogo all’altro, disperdere semi grazie alle poste, accostare geni distanti in combinazioni nuove: avevo sempre pensato di fare tutte queste cose per il mio piacere personale, ma forse la realtà non è così semplice. Forse, dovreste chiamarmi Bombo. XII IL «GARDEN TOUR»

Adesso capisco che mio padre, il giorno in cui tracciò con la falciatrice le sue iniziali nel prato incolto davanti alla nostra casa di Long Island, stava rappresentando quella che potrebbe essere considerata una scena primaria del giardinaggio americano. Stava dichiarando ai suoi vicini: Io respingo le convenzioni che voi mi avete imposto per sistemare questa terra (la mia terra!); adesso statemi a guardare mentre stabilisco il mio personale rapporto con lei. Scrivendo nell’erba con la sua Toro, mio padre stava apponendo al luogo il proprio sigillo e, cosa quasi altrettanto importante, tracciava un confine per contenere quell’abbozzo di natura selvaggia che ormai era diventato il suo prato. In altre parole, stava creando una sorta di giardino, per quanto non bello. A me sembra che la maggior parte del giardinaggio inizi con un gesto del genere: opporsi da un lato alle convenzioni e dall’altro alla natura selvaggia. In America sembra che la prima mossa sia la più difficile. Fare di testa propria nella gestione di un appezzamento di terra, «progettarlo» secondo il proprio gusto o la propria fantasia, significa voltare le spalle alla comunità, flirtare – in questa nazione di prati ben curati – con l’antinomismo. Qui, in effetti, perfino parlare di estetica a proposito della terra è stato storicamente considerato (salvo forse che tra le persone abbienti) come un atto dal vago sapore antiamericano, quasi blasfemo. Come potrebbe mai, un uomo solo, migliorare il paesaggio creato da Dio? Quale arroganza! Se abbiamo intenzione di modificare questa terra, lo faremo tutti insieme come congregazione, motivati non dalla bellezza ma dall’utilità, meglio se adottando un semplice stile protestante. Così abbiamo srotolato su tutto questo paese infinitamente vario un unico manto erboso americano, e in buona sostanza la faccenda si è chiusa lì. Parlare della terra con una voce sola: questo non è creare giardini, no davvero. E infatti gli americani hanno attribuito a quella parola – garden – un significato decisamente peculiare, come per ammettere una certa ambivalenza nei confronti dell’idea. Avevo appena cominciato a fare giardinaggio quando mi accorsi che garden, in letteratura e nel linguaggio quotidiano, indicava due cose completamente diverse. Nei libri si tratta sempre di un luogo, un posto dove è possibile entrare e passeggiare (e anche ambientare delle scene), mentre nel linguaggio comune il significato della parola garden si è stranamente contratto: di solito si riferisce a un’aiuola o a un appezzamento di terra che è possibile indicare – ecco il giardino dove coltivo i miei fiori [flower garden]; laggiù c’è il mio orto [vegetable garden]. Quello che tutti gli altri, nel resto del mondo, chiamerebbero «giardino», noi lo chiamiamo semplicemente e senza orpelli il nostro «yard». In America, entrambi – garden e anche yard – sono luoghi non in cui essere ma da guardare. Noi ammiriamo le nostre aiuole standocene nel prato, e sistemiamo i terreni non cintati di fronte alla nostra casa in modo che possano essere ammirati dalla strada. A quale altro scopo potrebbe servire il cosiddetto «foundation planting», la messa a dimora di piante ornamentali lungo il perimetro della casa? Invece di creare uno spazio esterno vivibile (risultato che si otterrebbe sistemando le stesse piante lungo la strada), questa prassi si limita ad abbellire l’edificio, proprio come la montatura esalta una pietra preziosa. L’America dei sobborghi è stata disegnata in modo da avere il suo aspetto migliore non dalla prospettiva dei suoi abitanti, ma da quella dell’automobilista di passaggio. «Dicono che i sobborghi delle città americane siano i più belli del mondo... da attraversare in auto» dichiarò un architetto paesaggista negli anni Venti. «Potrebbe darsi, per un elogio, una specificazione più eloquente di quella frase finale?». Io sono convinto che il giardinaggio – il giardinaggio vero, non semplicemente il predisporre aiuole di fiori o pomodori – cominci con l’allontanamento del proprio terreno dallo sguardo dell’automobilista, con la secessione dal prato nazionale. Questo potrebbe voler dire cintare il terreno con una siepe o una staccionata, lasciare che il tappeto erboso si trasformi in prato spontaneo, oppure togliere del tutto l’erba e sostituirla con qualcosa di completamente diverso. Ma una volta fatto questo, una volta consumato il grande atto di rottura, occorre prepararsi a sentirsi molto soli. Perlomeno, io mi sentii così quando infine recintai il prato antistante alla casa e ne rimossi ampie porzioni sul retro; esiliato dal manto erboso nazionale, mi ritrovai all’improvviso in una terra sconosciuta, incerto sulla prossima mossa. E adesso che faccio? Scoprii immediatamente che le guide o i modelli rilevanti da seguire sono straordinariamente pochi. Nonostante le centinaia di libri di giardinaggio che si pubblicano ogni anno in questo paese, soltanto alcuni si spingono oltre l’interesse per la pianta o l’aiuola. Come osservò una volta Edith Wharton, i giardini americani sembrano esistere a beneficio delle nostre piante e non – come dovrebbe essere – viceversa. Vi sono moltissimi libri americani su come coltivare le piante perenni e anche alcuni su come disporle piacevolmente nelle bordure; ma quasi nessuno che discuta i princìpi della progettazione paesaggistica in termini applicabili a un piccolo appezzamento di terra. A quanto pare, senza i nostri prati siamo perduti, e parlare di estetica – dell’aspetto del nostro giardino e di come ottenerlo – ci mette ancora a disagio. Dal testo di quasi tutti i libri inglesi di giardinaggio è possibile farsi un’idea del giardino dell’autore (che il più delle volte è splendido e, per ragioni di clima e di economia, impossibile da replicare qui). Ma anche il lettore più attento di autori americani come Allen Lacy o Eleanor Perényi o Henry Mitchell chiuderà il libro senza avere la minima idea dell’aspetto reale del loro giardino. Ma perché dobbiamo essere così inibiti a parlare del progetto dei nostri giardini – a parlare di essi come luoghi e non solo come insiemi di piante? Probabilmente perché in questo paese giardinaggio e questioni morali sono sempre stati strettamente intrecciati. Dopo tutto, noi discendiamo da una stirpe di distruttori di giardini. I puritani disprezzavano il giardinaggio ornamentale e, in Inghilterra, nel periodo in cui furono al potere, devastarono molti dei grandi giardini dei Tudor. Consideravano la progettazione del paesaggio come violazione di una prerogativa di Dio. In questo paese, creare giardini perseguendo espressamente il piacere dei sensi è sempre stato considerato vagamente decadente, addirittura una prova di tendenze antidemocratiche. Nell’Ottocento, quando i ricchi americani crearono alcuni grandi giardini, si affannarono a disegnarli non come luoghi di piacere ma come «aziende agricole modello». Questi giardini jeffersoniani avevano la pretesa di arrecare un beneficio alla giovane repubblica sviluppando e introducendo nuove cultivar utili; invece delle piante ornamentali, vi predominavano gli alberi da frutto, all’epoca considerati le piante più «repubblicane». Come spiega lo storico John R. Stilgoe, «Le grandi tenute abbellite in modo superbo avrebbero potuto suscitare le critiche dei demo-repubblicani, se non fosse stato che gli alberi portavano frutti». Non è facile progettare un bel giardino avendo sul collo il fiato di moralisti, puritani, demo-repubblicani e, oggi, anche dei fautori dei diritti delle piante. L’assurdità di questa situazione mi colpì non molto tempo fa, d’inverno, durante una visita a casa di un famoso ambientalista a Brooklyn Heights. Quest’uomo è un giardiniere appassionato, e si dedica a un invidiabile terreno assolato dietro la sua brownstone vittoriana. Come aveva disposto il suo giardino? L’uomo stabilì che si sarebbe irradiato da un punto centrale visibile dal soggiorno, forse pensando che l’ambientazione urbana richiedesse una certa formalità. Ma invece di usare una statua, una piccola vasca, o magari anche una meridiana, per istituire quel punto focale nel centro esatto della sua composizione, così che tutto il mondo lo vedesse, piazzò il suo cumulo di compostaggio. Non essendo sicuro di quale sarebbe stata la sua risposta, non osai chiedergli se si trattasse di una sorta di scherzo, d’una sua nota autoironica. Dubito che lo fosse. No, ho il sospetto che fosse soltanto un altro esempio del trionfo, nel giardino americano, del moralismo sull’estetica. Non credo che le considerazioni etiche saranno mai del tutto assenti dal giardino americano, né dovrebbero esserlo. Ma non riesco proprio a capire perché non possiamo anche prestare attenzione all’estetica; perché i nostri giardini non possano raccontare anche qualche altro tipo di storia, oltre ai soliti morality tales. Tornando a casa da Brooklyn Heights in metropolitana, mentre immaginavo che cosa avrebbero avuto da dire Capability Brown o Le Nôtre a proposito del giardino dell’ambientalista, decisi che quell’estate avrei provato a considerare il mio da un’angolazione leggermente diversa, che avrei prestato più attenzione al disegno complessivo. Come si fa a trovare una via d’uscita dal prato americano che conduca in un luogo più interessante – e più gradevole – del cupo allestimento creato con il compost dall’ambientalista o dello stile «autografo» un po’ stridente di mio padre? Conscio o meno che ne sia il giardiniere, comunque il suo giardino non può non avere un disegno, convenzionale o personalissimo, ricevuto in eredità o frutto d’una scelta. E quel disegno racconterà una storia – su chi è il giardiniere, come pure sui suoi rapporti con il vicinato da un lato, e con la terra dall’altro. Era tempo di riflettere un po’ sul tipo di storia che avrei ascoltato facendo un giro nel mio giardino.

A distanza di sette anni da quando lo acquistammo, questo luogo sta finalmente cominciando ad aver l’aria di un giardino e non solo d’un insieme di piante, aiuole e bordure. Nel parlare del suo disegno, ammetto una certa esitazione. Tanto per cominciare, essendo americano, non posso fare a meno di credere che vi sia qualcosa di un po’ pretenzioso (o forse decadente?) nel parlare di un angolo di natura in termini di recinzioni e prospettive, di forme rettilinee e curvilinee, della «funzione dell’acqua» e della desiderabilità di «sorprese» nel paesaggio. Inoltre, questo genere di discorso a proposito di un luogo tende a evocare nella mente del lettore l’immagine di una proprietà grandiosa, e la mia non lo è: sul serio, proprio no. Sottolineo questo punto perché sono cosciente di quella irritante convenzione – la falsa modestia – presente in moltissimi scritti di giardinaggio. Un lettore ingenuo, scorrendo le vecchie rubriche di Vita Sackville-West sull’«Observer» di Londra, avrebbe potuto trarne l’impressione che Sissinghurst fosse una proprietà suburbana di dimensioni decorose, e non il castello che di fatto è. Quella che nella maggior parte dei libri inglesi sui giardini passa per una «casetta di campagna» in realtà è una dimora padronale che nella zona dove vivo io è quotata dai tre ai quattro milioni. Bene, la mia proprietà è veramente una «casetta di campagna», una fattoria degli anni Venti decisamente alla buona, oggetto di lavori di restauro e giardinaggio con un budget minimo, senza aiuti pagati (a parte il ragazzo che falcia il prato). Questa non è Sissinghurst. Fatte queste premesse, mi sono tuttavia convinto che le questioni estetiche di cui parlano i paesaggisti si applicano, o possono applicarsi, anche ai nostri luoghi più modesti. Quest’inverno, dopo aver passato un po’ di tempo a leggere libri sui grandi giardini del mondo e a guardare le loro fotografie (le occupazioni invernali del giardiniere, oltre a sfogliare cataloghi), rimasi sorpreso nel constatare quanto avessero da insegnarmi su quello che avevo già fatto (spesso senza pensarci) e quello che ancora dovevo fare (giacché sono ancora nel pieno della creazione di questo giardino, e probabilmente lo sarò sempre). Non nei dettagli – le stanze comunicanti, con le pareti di tasso, di Sissinghurst; le opere in pietra di Boboli; le prospettive di Stourhead –, ma negli obiettivi e nei significati di questi luoghi, nello spirito che li informa, possiamo trovare elementi che su piccola scala ben si applicano al nostro giardino. (I giardinieri inglesi devono averlo sempre saputo, altrimenti perché i proprietari di cottage – gente della classe media – si sarebbero presi il disturbo di leggere ogni settimana sui giornali i dispacci di Sackville-West da Sissinghurst?). Probabilmente ciò andrebbe di traverso ad Alexander Pope, tuttavia il progetto di questo luogo rispecchia, in parte, i consigli che egli diede al conte di Burlington nella sua famosa epistola, e cioè che il giardiniere deve consultare sempre il «Genio del luogo» su tutte le questioni; che «meglio riuscirà chi piacevolmente confonde, / sorprende, varia, e nasconde i confini»; e che farebbe bene a seguire questa esortazione: «inizia anche dalla difficoltà, avvantaggiati dal caso». Leggevo cose come queste e pensavo che per me – un americano proprietario di un piccolo terreno lasciato andare e di un portafoglio molto smilzo – questi scritti avessero la stessa rilevanza di un manuale medioevale di cavalleria o di arte politica. Se però ci si accosta ad essi nello spirito giusto (e non pedissequamente), la nostra conversazione con i loro autori e con gli architetti paesaggisti classici può insegnarci qualcosa sia su come individuare il Genio dei nostri piccoli luoghi, sia su come mettere a punto stili di giardinaggio adatti ad essi, a noi e a questo paese.5

Il Genio di questo luogo: per me, ha significato principalmente due cose, una storica (un tempo questa era una fattoria), l’altra topografica. La configurazione di questa terra è troppo esplicita e, in certi punti, troppo difficile da ignorare. Un giardino o la metterà a frutto, o ne sarà sconfitto. Se si immagina una fetta di torta posata sul pendio di una collina, ci si fa un’idea dei problemi di drenaggio che mi trovo ad affrontare. La parte più larga è alla base della collina; il terreno va poi restringendosi verso nordest, con un dislivello di oltre trenta metri da un estremo all’altro. Il pendio sale rapidamente, effettuando di tanto in tanto solo brevi soste e distribuendo poi qualche terrazza. Questi tratti in piano, che il fattore aveva disboscato allo scopo di creare pascolo per le mucche oppure spazio per i suoi fabbricati, sembrano quasi aggrapparsi con le unghie al versante insofferente della collina, conferendo al paesaggio una nota di precarietà. Quando arrivammo qui, era in uso soltanto uno di questi pianori, quello su cui sorge la casa con il suo piccolo giardino sul davanti e sul retro; tutto coperto dal prato, formava una piccola isola suburbana pianeggiante in mezzo a un paesaggio altrimenti turbolento e in abbandono. Da qualsiasi altra parte si guardasse, la fattoria sembrava ridissolversi nella collina, mentre la foresta di seconda crescita avanzava e lo sviluppo degli arbusti, insieme al crollo dei muri di contenimento in pietra, cominciava a cancellare i confini e i terrazzamenti disegnati con tanta fatica dal fattore. Su quasi ogni pianoro c’erano macchine agricole arrugginite e le rovine di un fabbricato coperte di erbacce – un pollaio, una baracca, una stalla: in tutto undici strutture, la maggior parte delle quali stava riaffondando nel denso mare verde del fogliame, come navi in cui si fossero aperte delle falle. Al principio, tutto quello che potemmo fare fu di prenderci cura della piccola isola suburbana, tosare il prato e mettere a dimora qualche pianta aromatica vicino alla porta sul retro: il resto del terreno era talmente fuori controllo e pieno di vegetazione che era scoraggiante anche solo il tentativo di pensare a questo luogo come a un tutto unico. Sapevamo però che alla fine, in un modo o nell’altro, avremmo cominciato ad appropriarcene. Non eravamo venuti qui alla ricerca dei sobborghi; entrambi eravamo cresciuti in quell’ambiente, e non ci piaceva molto; ad attrarci in questa terra erano state le parti (i fienili, la sequenza di pascoli collegati, i vecchi meli) che ricordavano una fattoria in attività. Essendo frutto di un’altra storia, la famiglia dalla quale acquistammo questa casa vedeva il luogo in modo un po’ diverso da noi, a giudicare da come aveva trattato la terra nei quattro anni passati da quando l’aveva a sua volta rilevata dal vecchio fattore. Erano originari di New Mildford, un piccolo centro posto quasi cinquanta chilometri a sud di Cornwall (e in direzione dell’espansione metropolitana), dove l’agricoltura era entusiasticamente sacrificata a impieghi della terra più moderni e remunerativi. Per loro, che erano cresciuti più vicini di noi all’odore di letame e povertà delle stalle, l’agricoltura aveva ben poco fascino. (Questo valeva chiaramente anche per i due figli del fattore, che abitavano in fondo alla nostra stessa strada, in case suburbane curatissime). Da queste parti, stare in una fattoria significava vivere nel passato, mantenersi con il sudore della propria fronte, minacciati da un probabile fallimento. Un sobborgo lindo e moderno, d’altro canto, ti offriva una destinazione luminosa, orientandoti direttamente verso la classe media. Dall’ascia all’aratro alla falciatrice: questa fattoria raccontava sostanzialmente la stessa storia di «progresso» che si narra in tutto il New England. In un luogo come questo, è possibile misurare – in termini di superficie di prato ben curato e improduttivo – la distanza che i proprietari hanno coperto lungo la via che porta dall’agricoltura alla rispettabilità della classe media. E, quando noi arrivammo qui, ormai il prato era stato posato su questo terreno come un coperchio sul suo passato agricolo. A poco a poco, ci accingemmo a sollevare quel coperchio, e ogni volta che lo alzavamo il passato della fattoria traboccava spumeggiando dal terreno, come un ritorno del represso. In questi paraggi, parte del piacere che si prova nel creare una nuova aiuola sta nel non sapere che cosa affiorerà non appena si rimuove una sezione di prato e si comincia a scavare. Abbiamo dissotterrato scheletri di cani e di cervi, un aratro, diversi copertoni di trattori in disfacimento, un paio di coltelli da caccia arrugginiti, giocattoli, flaconi di medicinali, damigiane per l’acquavite di mele, attrezzi agricoli, bossoli di proiettili e, stranamente, moltissimi denti, presumibilmente di animali. I reperti più piccoli e meno inquietanti sono allineati su uno scaffale in cucina, dove ci aiutano a evocare i fantasmi della casa. La nostra archeologia, però, ha restituito anche oggetti di valore materiale: la riserva di letame bovino compostato che trovai vicino al fienile e che contribuì molto a migliorare il terreno delle aiuole del mio orto; e poi un piccolo patio in pietra grezza vicino alla porta sul retro e un sentiero di beole vicino all’ingresso, i quali giacevano entrambi fossilizzati sotto uno spesso manto di prato. Un luogo come questo è una sorta di palinsesto, e gran parte del nostro lavoro di giardinaggio è stato un processo di messa a nudo dei segni lasciati su questa terra dalle mani che ci hanno preceduti. È in questi segni che abbiamo riconosciuto parte del Genio del luogo, e ce ne siamo serviti come guida per il nostro progetto del giardino. Uno dei nostri primi obiettivi fu di ampliare il patio in pietra grezza ed esporre il sentiero, pure in pietra, che conduceva dal portico davanti all’ingresso, giù fino alla strada, tagliando in due il piccolo prato. Questo sentiero passa tra due cespugli ribelli di ortensie, tagliati a zero dal nostro immediato predecessore nella sua frenesia di sottomettere il paesaggio. La disposizione mi fa pensare che un tempo, qui davanti alla porta di casa, possa esserci stato uno di quei giardinetti pieni di fiori che in una fattoria del New England la padrona di casa usava accudire nello spazio cintato tra il portico e la strada. Mentre curavamo le ortensie restituendo loro la salute e ripulivamo il sentiero, dal prato uniforme cominciò a emergere l’immagine del vecchio giardinetto, un po’ come una stampa fotografica acquista definizione nel bagno dello sviluppo. Il passato – della terra e del giardiniere – esercita una certa pressione in tutti i giardini; molti di essi, effettivamente, possono essere letti quasi come una forma di commentario storico o biografico. Possiamo interpretare i prati ben curati che abbiamo ereditato qui come un rifiuto del passato della fattoria, e il mio strapparli via come un ripudio del mio passato personale nei sobborghi. Questa idea, e cioè che un giardino commenti l’uso della terra che se ne è fatto in passato, era stata ben compresa da Alexander Pope e dai suoi contemporanei quando – nel Settecento, in quel singolare momento storico in cui le menti migliori di una generazione si dedicavano ai problemi di progettazione dei giardini – cominciarono a concepire lo stile pittoresco. Il nuovo gusto per un paesaggio più «naturale» – per giardini non recintati con lunghe prospettive, sentieri tortuosi e corsi d’acqua «serpeggianti»; in altre parole per giardini che cercavano di non sembrare affatto giardini – era in parte una reazione verso la conquista della campagna inglese da parte dell’agricoltura, un processo che all’epoca di Pope era quasi compiuto. Fu la delimitazione dei campi di tutto il paese in un’ordinata scacchiera disegnata da siepi (cosa che William Gilpin, un divulgatore del nuovo termine picturesque, dichiarò «altamente orrenda») a ispirare un senso di nostalgia per forme di paesaggio precedenti, più naturali. Più la campagna tendeva a somigliare a un giardino formale, più i giardini tendevano a somigliare alla campagna. Come il coperchio di prato posto dai nostri predecessori su questa fattoria, il giardino pittoresco era un’espressione di dissenso contro l’agricoltura, un brusco scostamento da essa; organizzando la terra in vista del consumo e non della produzione, si poteva dimostrare la propria distanza dalla fattoria e dalla sua bassa posizione sociale.6 Benché per molti versi fosse una creazione artificiale, il giardino pittoresco era in parte un’opera di restauro ecologico. Uno dei suoi modelli era la campagna pastorale che precedette la prassi della recinzione dei terreni, un paesaggio dolcemente irregolare di pascoli e boschi cedui, parte del Genio del luogo che Pope consigliava ai proprietari terrieri di assecondare. (Lancelot «Capability» Brown si guadagnò il suo soprannome perché insisteva fondamentalmente sullo stesso tema: sulle «capacità» di un certo appezzamento di terra). A volte mi sono chiesto che cosa mi consiglierebbe di fare, Pope, in questo luogo: mi incoraggerebbe ad allontanarlo ancora di più dal suo passato agricolo, spingendolo in direzione dei prati curati dello stile pittoresco, o forse si guarderebbe intorno osservando il paesaggio locale, e capirebbe che la fattoria, almeno oggi, qui nel New England, è abbastanza speciale e rara da fornire al giardiniere un modello di passato affascinante e utilizzabile? Probabilmente Pope si dichiarerebbe a favore del primo approccio; per lui e per i suoi contemporanei, l’apprezzamento estetico del terreno agricolo sarebbe stato un’idea bizzarra proprio come l’apprezzamento della terra coperta di foreste lo sarebbe stato per i puritani o per l’uomo che un tempo coltivava questo luogo. A prescindere da quale avrebbe potuto essere effettivamente il suo consiglio, sono incline a propendere, più che per la lettera, per lo spirito della prima legge di Pope sul giardinaggio: spirito che può considerare la «fattoria» come Genio di questo luogo, come passato che vale la pena di riafferrare. Di questi tempi, le fattorie del New England sono minacciate allo stesso modo in cui ai tempi di Pope lo erano i paesaggi aperti: forse, per la prima volta, è possibile pensare nei termini di quella che potremmo chiamare «estetica agraria». Certo non sono il solo a trovare della bellezza in una fattoria del New England; oggi moltissimi di noi converrebbero che vi è più bellezza lì che nell’aspetto sciatto di un bosco ceduo o di una foresta di seconda crescita (per non parlare del territorio suddiviso in parti tutte uguali) che stanno rapidamente prendendo il posto delle fattorie qui intorno. I giardini sembrano sempre opporsi a qualsiasi cosa costituisca il paesaggio comune della loro epoca: oggi non si tratta più della fattoria ma della foresta e, in misura crescente, dei sobborghi. Per me, qui, creare un giardino tenendo in qualche considerazione un’estetica agraria ha significato, prima di tutto, un bel po’ di lavoro di restauro. Ovunque fosse possibile, ho cercato di recuperare ed enfatizzare la disposizione impartita a questo luogo dal fattore, con i suoi sentieri, i muretti in pietra e tutte le strutture salvabili. Ho anche lavorato per ripristinare (in genere per mezzo di potature energiche e concimature) quello che resta delle piante che aveva messo a dimora: le due ortensie; una fitta macchia di lillà, forsizie, spiree e cletracee lungo la strada; e un vecchio, esile caprifoglio che probabilmente se ne sta lì a perder tempo sulla porta d’ingresso dagli anni Venti. Una grossa fetta del nostro budget finì in tasca all’uomo che ingaggiammo per rimettere in sesto gli antichi meli; le loro sagome nodose e intricate si erano perse in un groviglio di polloni e nell’eccessiva crescita della chioma. Oggi i meli sono tornati a fruttificare. Nell’estendere a poco a poco il giardino dall’area immediatamente dietro alla casa verso i prati spontanei sovrastanti, abbiamo più o meno seguito il sentiero che le mucche del fattore imboccavano ogni mattina per andare al pascolo. Quel sentiero, che si snoda da ovest verso est, scorre lungo uno stretto pianoro che è diventato l’asse principale del giardino. A sinistra di chi cammina, allontanandosi dalla casa, si erge un muro di contenimento in pietra grezza che sostiene la terrazza su cui si trova il fienile; fu proprio lungo la base di questo muro che piantammo la nostra prima bordura di perenni. Poiché il sentiero si snoda dalla relativa civiltà del patio dietro alla casa verso aree di natura selvaggia che il nostro lavoro deve ancora conquistare, piantammo la bordura in modo da enfatizzare (in realtà, ammettere) questa graduale diminuzione di controllo: specie fini e relativamente delicate quali l’aquilegia, la veronica e i papaveri orientali, collocate vicino alla casa, cedono gradualmente il terreno a personaggi più tosti, come la rudbeckia, le emerocallidi, la malva, l’enagra e, infine, al Lythrum e all’artemisia, due piante felicissime di giocarsela senza aiuti esterni con le erbacce e i cespugli locali. Alla destra di chi percorre questo sentiero, il terreno digrada di due-tre metri, e sotto si vede l’orto: cinque aiuole rialzate, con le sponde in legno, sistemate nel mezzo di un prato rettangolare recintato, come fossero tavoli di un banchetto in una grande sala verde, ciascuno con un melo nano che tiene banco a capotavola. (Sul lato più lontano del prato cintato c’è un acquitrino che facciamo del nostro meglio per ignorare). L’orto è accessibile dal sentiero principale grazie a una scala in pietra che ho scavato nel ripido terrapieno; quest’ultimo, fittamente coperto di solidagini e vecce, ha l’effetto di conferire ai due piani che divide un’aria ancor più tranquilla e accogliente. Quanto meno, questo è ciò che mi ripeterò finché non avrò trovato che cosa farne. Ogni anno spingiamo la frontiera del giardino un po’ più lontano, lungo quest’asse. All’inizio, il sentiero si limitava, più o meno, a esaurirsi in un intrico ostile di rovi e alberelli: non una gran destinazione, per una passeggiata in giardino. Così, qualche anno fa, ingaggiammo qualcuno che eliminasse i giovani alberi e gli arbusti; adesso, guardando il sentiero dalla casa, è possibile vedere chiaramente il nostro prato spontaneo e, sopra di quello, d’un verde ancora più intenso, il campo di fieno del nostro vicino che un tempo faceva parte di questa stessa fattoria. Una motosega e un machete ci hanno dunque regalato il nostro primo panorama, una serie di pascoli e siepi che salgono come una scalinata, incorniciata da un lato da una vecchia quercia bianca curva, e dall’altro da un frassino. Mi piace soprattutto il fatto che siamo riusciti a incorporare nella nostra visuale il campo di qualcun altro: il fatto di esserci appropriati, per il nostro godimento, della sua terra e della sua fatica. In questo, facciamo nostra la lezione degli architetti del Settecento, i cui paesaggi «oltrepassavano con un balzo la recinzione del giardino» creando panorami che ignoravano i confini di proprietà e lasciavano così intendere che essa fosse più vasta di quanto era in realtà. Una motosega ha trasformato i miei due ettari in quattro, tornando a riunificare questa fattoria, se non di fatto, almeno in prospettiva.

Gli architetti che disegnavano i giardini pittoreschi – Kent, Repton e Capability Brown – consideravano essenziale nascondere alla vista non solo i confini, ma anche ogni terreno produttivo: un pregiudizio che noi perpetuiamo nelle nostre proprietà suburbane, la cui progettazione discende infatti dalla tradizione del pittoresco. Chi abita nei sobborghi, se ha un orto o un frutteto, immancabilmente li relegherà dietro alla casa, lasciando che il terreno sul davanti faccia la propria parte in quel parco pittoresco che i prati confluenti del vicinato aspirano a rievocare. Qui, invece, io ho cercato di mantenere le parti produttive bene in vista, e non per una convinzione particolare, ma perché l’aspetto della terra coltivata mi piace – le file fitte di piantine di ortaggi allineate nell’orto; la parata delle annuali coltivate nell’aiuola per i fiori da recidere, fuori dalla finestra della cucina; i meli e i peschi disposti in un reticolo tra la casa e la strada. Quello che mi piace, in un terreno così, è esattamente ciò che irritava gli architetti dei giardini classici: tradisce lo sforzo umano riversato nella sua creazione, anzi, ci invita a trarre piacere dalla consapevolezza dell’abilità che vi è stata applicata. D’altra parte, se incorporando nel mio progetto qualche area coltivata sfido i canoni del gusto romantico, è anche vero che sto onorando la storia di questo luogo e, in un certo senso, la mia. Finora mi sono soffermato sull’impronta che il passato del paesaggio lascia sull’aspetto di un giardino, ma naturalmente anche il passato del giardiniere esercita un’influenza almeno altrettanto forte. Nel Sakuteiki, un antico trattato sulla progettazione del verde scritto da un nobile cortigiano nel Giappone dell’undicesimo secolo (e parafrasato, in inglese, in The Poetics of Gardens), l’autore ci consiglia di considerare, quando creiamo un giardino, «la disposizione della terra e dell’acqua. Studia l’opera dei proprietari che ti hanno preceduto e richiama alla mente i luoghi di grande bellezza che conosci. E poi, nel sito che hai scelto, lascia che parlino i ricordi». I giardini prendono forma dai nostri ricordi almeno da quando Nabucodonosor, nell’intento di lenire la nostalgia della sua sposa per la campagna ondulata della sua infanzia, creò i giardini pensili di Babilonia. Esiste forse un qualsiasi giardino che non getti uno sguardo indietro, che non acquisti significato alludendo ai luoghi del nostro passato? Può essere qualcosa di vago come il profumo di un lillà che ci riporta a un rifugio segreto della nostra infanzia, oppure qualcosa di ambizioso come il trenino a grandezza naturale ricreato da Walt Disney a Disneyland, ma in ogni giardino c’è l’ombra di un Eden privato. Che cosa potrebbe esserci di più ovvio in essi, o di altrettanto meraviglioso? Forse è questo sguardo retrospettivo che spiega perché la progettazione dei giardini sia una forma d’arte tanto conservatrice. In Occidente, tremila anni hanno prodotto essenzialmente tre modelli fondamentali di giardino: l’hortus conclusus, a pianta squadrata; la geometria aperta di cui Le Nôtre fu un pioniere nella Francia rinascimentale; e il giardino romantico o pittoresco, inventato nell’Inghilterra dell’età augustea, che incredibilmente resiste ancora come l’ultimo sviluppo significativo, lo stato dell’arte. A questi temi sono state apportate infinite variazioni, ma poche innovazioni autentiche, in quella che è una singolarità della storia quasi sicuramente da ricondursi al particolare potere esercitato, nei giardini, dal passato. Ecco un luogo in cui l’ultima cosa che desideriamo è la novità rivoluzionaria, un luogo la cui stessa essenza sembra precludere il moderno. Questa è forse un’altra causa del disagio degli americani riguardo ai giardini: per tradizione noi abbiamo guardato al paesaggio come una via di fuga dalla storia – per cogliere il divino presente nella natura incontaminata, o per un nuovo inizio in terre di frontiera. I giardini, però, continuano a riportarci indietro al passato, alle età dell’uomo. Ho il sospetto che nel mio giardino la memoria parli anche in altri modi, oltre quelli di cui sono consapevole. Di certo però essa è la fonte della mia passione per la terra produttiva, e la ragione per cui sono approdato relativamente tardi al giardinaggio ornamentale. Inutile dire che, nella mia testa, l’Eden somiglia moltissimo al giardino di mio nonno a Babylon (Long Island), o che la prima aiuola che ho dissodato su questo terreno era destinata a degli ortaggi. Deve essere stato là, in quel giardino di Babylon, dove alberi da frutto e ortaggi condividevano la scena con rose e rododendri, che ho acquisito un tropismo, un’inclinazione, per l’estetica agraria. Entrando in un qualsiasi giardino, il mio occhio sembra sempre individuare per prima cosa il frutto maturo: le viti che tengono strette le loro manciate di biglie, i cardinali rossi appollaiati sui pomodori, la dolce moltitudine delle pesche nel frutteto agostano. Ma come hanno potuto, Le Nôtre, Pope e Capability Brown, esiliare dal giardino piante tanto belle? («Che zotici!» avrebbero detto ridacchiando fra loro e accennando a me e a mio nonno). Quasi fin dal principio ho avuto un orto abbastanza grande da assicurarmi un surplus, e ho assaporato lo stesso piacere – quell’orgoglio da contadino – che mio nonno traeva nel regalare ceste di ortaggi. Confesso, anche, occasionali fantasie jeffersoniane sulla trasformazione di questo luogo in un orto a scopo commerciale («Vediamo un po’... se Balducci’s può ricavare 54 dollari per un chilogrammo di lattuga Lollo Rosso al dettaglio, che superficie dovrei seminare per poter lasciare la città e vivere del ricavato di questa terra?»): un vero orto commerciale, nulla di simile a quell’aiuola di fragole che Jimmy Brancato e io piantammo a Long Island, impresa incoraggiata da cospicue sovvenzioni e dipendente dal fatto che mia madre acquistasse il surplus, alla stregua di un collaborativo dipartimento dell’Agricoltura. Anche adesso, una fragola particolarmente fragrante richiamerà d’un tratto alla mente quell’orto, insieme a un’immagine di Jimmy Brancato curvo sulla sua zappa. Come tutti sanno, i giardini dell’infanzia sono evocati non tanto dall’occhio, quanto dal naso. Quale memoir d’infanzia, per oltrepassare d’un balzo la recinzione del tempo, non si volge a considerare, a un certo punto, il profumo di un pisello dolce, di un prato appena tosato o di una siepe di bosso? Qui, credo, sta la fonte più profonda del potere esercitato dal passato in giardino: il giardinaggio è una delle pochissime arti (la cucina è un’altra) a fare uso del senso dell’olfatto, a sfruttare la sua misteriosa capacità di sbrigliare la memoria. Le madeleines sono ovunque in giardino (e Proust è di certo il suo spirito guardiano). Per me l’odore chimico pungente della Ortho Rose Dust ha ancora il potere di evocare un pomeriggio agostano nel giardino di mio nonno. Non è molto romantico, ma tant’è. Proust scrisse da qualche parte che la ragione per cui a volte, nella realtà, certi luoghi stupendi ci deludono è che l’immaginazione può impossessarsi solo di ciò che è assente: non tratta dati sensoriali, ma ricordi, sogni e desideri. Un giardino ci colpirà nella misura in cui impegna non solo i sensi, ma anche l’immaginazione. Tra le varie cose, un giardino è un varco che porta Altrove: nel passato personale e condiviso evocato dai suoi profumi, in luoghi remoti ai quali le sue forme alludono. I giardini non esistono soltanto nel qui e ora, ma anche nel laggiù e allora. Quelli ben riusciti sembrano cogliere un equilibrio piacevole o interessante tra lo spazio vicino e lontano, il qui e il laggiù; quelli deludenti, invece, vagano insistendo sull’uno o sull’altro versante. Un giardino che sia tutto «laggiù» (un prato, un giardino zoologico) probabilmente viene percepito come qualcosa di freddo e astratto, imposto alla terra; un giardino interamente «qui» (come quelli più «naturali» o «spontanei») tenderà a essere trascurato o insipido, indistinto dal paesaggio circostante. Un altro modo di dire la stessa cosa è che i giardini sono, al tempo stesso, siti reali e rappresentazioni. Essi uniscono, in un unico luogo, la natura e le nostre idee su di essa. Ci offrono delle immagini della natura, proprio come i paesaggi dipinti; ma come spiega il critico d’arte Robert Harbison, «a differenza dei dipinti, [i giardini] ci permettono di dimenticare che oltre di essi vi è qualcosa». Vi è poi anche la differenza nei materiali, tra la pianta – che cresce, si modifica e muore, insistendo di continuo sulla propria letteralità – e il tubetto di colore, relativamente arrendevole. Eppure, per quanto possa essere letterale, quella pianta può, come il colore, indicare qualcosa al di là di se stessa. Come mi ha insegnato il mio acero, in giardino un albero è anche una metafora. Ma provate a immaginare: una metafora che dona un’ombra reale.

Inizialmente, qui, i miei spazi verdi mancavano di questa duplicità, o risonanza, e adesso mi rendo conto che probabilmente era per questo motivo che non riuscivano a fare molta impressione: né sui visitatori, né sulla terra. Nella mia mente, magari, le aiuole dell’orto emettevano certi echi piacevoli, ma per chiunque altro, per moltissimo tempo, le mie opere di giardinaggio sembrarono essere più o meno invisibili. Quella bordura di perenni, con la sua lunga graduale dissolvenza nell’ambiente circostante, era così scrupolosamente contestualizzata da finire quasi per scomparire (e non aiutava, poi, il fatto che le infestanti locali avessero cominciato in men che non si dica ad avvantaggiarsi del mio approccio accomodante). Tutt’attorno, il paesaggio sembrava sopraffare queste sottigliezze; la sua predominanza impediva sempre al giardino di elevarsi al di sopra del qui e ora, di impegnare l’immaginazione. Un giardino dovrebbe darci la sensazione di essere entrati in uno spazio privilegiato – un luogo non solo separato, ma riecheggiante –, e a me sembra che, per ottenere questo, il giardiniere debba dare una sua interpretazione del paesaggio esistente, convertire la sua prosa in qualcosa di più vicino alla poesia. Deve conferirgli un’intonazione, e questo era qualcosa che io non avevo ancora fatto. Più per caso che non seguendo un progetto, scoprii che un certo grado di formalità poteva cominciare a fornire quell’elemento mancante. Per formalità non intendo grandi pergolati e fontane, o siepi di bosso e parterres; qui intorno quel tipo di formalità sarebbe ridicolo. In realtà, quello che ho in mente credo sia forma: linee rette e rettangoli, ripetizioni e occasionali simmetrie, qualche semplice citazione di quello che Le Corbusier definì il linguaggio dell’uomo: la geometria. Credo d’aver compreso per la prima volta la soddisfazione di tracciare una linea retta in natura quando, saggiamente, abbandonai l’assurdità della mia aiuola «naturale» di piante annuali, in seguito al trionfo conseguitovi dalle infestanti. Mi piacque subito il modo in cui il terreno appena lavorato intorno a una fila di piante spiccava sul territorio ondulato tutt’attorno, la sua immobilità contrapposta a tutto quel tumulto. Quell’attrito fra la linea piatta tracciata dall’uomo e la propensione, tipica del paesaggio, per le linee curve e il movimento sembra conferire a un giardino una certa tensione stimolante, donargli – in modo del tutto letterale – un contorno incisivo. Comincia a suggerire che un luogo possa avere una storia da raccontare. Eppure, per quanto possa sembrare innocua, ho scoperto che in giardino la linea retta è una questione controversa. Dopo aver pubblicato un articolo in cui raccontavo delle mie vicissitudini con l’aiuola delle annuali, ricevetti lettere da ambientalisti e architetti paesaggisti che mi criticavano in termini violentissimi per la disposizione formale che avevo infine adottato. «Accettando le attuali convenzioni estetiche» – ovvero, seminare le piante in file, all’interno di un rettangolo – stavo agendo in modo «irresponsabile» mi accusò un paesaggista dal Massachusetts. Secondo lui, la mia aiuola fiorita stava contribuendo al degrado dell’ambiente, perché fare giardinaggio secondo le «attuali convenzioni» implicava un eccessivo ricorso a fertilizzanti, erbicidi e pesticidi. Ora, benché sia vero che in certi luoghi il perseguimento di un manto erboso perfetto richiederà l’uso pesante di sostanze chimiche, la cosa non dipende tanto dall’estetica quanto dalla geografia, in altre parole dal fatto che spesso i prati sono inadatti al clima americano e quindi, se vogliamo che abbiano un bell’aspetto, devono essere accuditi (con sostanze chimiche, eccetera). In realtà non vi è alcuna ragione intrinseca perché il giardino più formale debba essere necessariamente meno responsabile nei confronti dell’ambiente di un cosiddetto giardino naturale. Su questo punto Eleanor Perényi ha assolutamente ragione: «Io contesto l’idea che solo una replica della natura incontaminata possa qualificarsi come ambiente ecologicamente corretto». Un giardino «spontaneo» non è intrinsecamente più sano, né preferibile per la natura, di un parterre ben curato. Il fatto che un giardino sia o meno ecologicamente corretto dipende esclusivamente dai metodi del giardiniere; i suoi criteri estetici non hanno nulla a che fare con la questione. Questa idea romantica (e insensata) – e cioè che in qualche modo la natura preferisca uno stile di giardinaggio all’altro – fu avanzata per la prima volta dai paesaggisti del Settecento. «La natura aborre la linea retta» dichiarò William Kent, liquidando così in sei parole striminzite ogni singolo giardino precedente (e, nel modo più plateale, Versailles). Come ha fatto chiunque intendesse portare acqua al proprio mulino, almeno da Rousseau in poi, Kent e colleghi stavano invocando l’indiscussa autorità della «natura» per sostenere il loro punto di vista: una tattica, questa, che merita sempre di essere esaminata da vicino. Dire che la natura aborre la linea retta potrebbe sembrare giusto, ma è effettivamente vero? Si potrebbe sostenere in modo plausibile che la natura ami le linee rette, altrimenti perché sarebbe tanto entusiasta della gravità? Quella famosa mela, nella sua caduta verso il cranio di Newton, non accennò minimamente a una «serpentina». Sono incline a pensare che in realtà la natura sia indifferente alla questione delle linee rette, e che non le interessi affatto se pianto i miei astri in file ordinate o in macchie dall’aria improvvisata. Furono gli architetti del pittoresco a creare gran parte della «naturalezza» dei loro paesaggi, e questo probabilmente rende conto della forte impressione che essi esercitarono su americani come Andrew Jackson Downing, Frank Scott e Frederick Law Olmsted, i tre uomini in larga misura responsabili del carattere dell’architettura paesaggistica americana. Per gli inglesi, però, la «natura» non era tanto un modello ordinato da Dio (come sarebbe poi diventata in America), ma quasi una sorta di raffinata figura retorica. La sarcastica descrizione del movimento, resa da Horace Walpole, lo mette bene in chiaro: «Non vi è un residente che non si dia da fare a torturare il suo acro e mezzo, così da crearvi delle asperità, più di quanto lui stesso un tempo si prodigava per renderlo liscio come il foulard che ha al collo». Per ottenere i loro effetti naturali, gli architetti del pittoresco impiegavano moltissimi artifici; semplicemente, si davano un gran daffare a tenerli lontani dalla vista. «Non si dovrebbe mai consentire all’arte di metter piede nel dominio della natura,» consigliava Shenstone «se non clandestinamente e nottetempo». È chiaro che tutti costoro ci accompagnano al romanticismo solo per un tratto di strada: Wordsworth o Thoreau, infatti, non avrebbero mai commentato – come si dice abbia fatto un architetto cultore del pittoresco osservando per la prima volta il corso serpeggiante di un tratto del Tamigi – «Ingegnoso». La perfetta sineddoche del giardino pittoresco – e del suo rapporto un po’ malizioso con la natura – è lo «ha-ha», che è anche la tecnologia che lo rende possibile. Lo ha-ha, il cui impiego in Inghilterra fu introdotto da William Kent, è essenzialmente una recinzione costruita in un fosso in modo da risultare invisibile da lontano e da non guastare la prospettiva a distanza. Senza di esso, gli architetti paesaggisti non avrebbero mai potuto oltrepassare con un balzo la recinzione del giardino, perché quasi sicuramente le mucche li avrebbero seguiti. Come suggerisce il nome dato nel Settecento a questo ingegnoso artificio, gli architetti del pittoresco non dimenticarono mai che la natura non è necessariamente naturale, e che a volte può dover essere creata, più che scoperta. Nel loro entusiasmo per la natura vi è una certa ironia giocosa che in seguito i romantici (e soprattutto gli americani) avrebbero abbandonato. Senza dubbio in quanto rappresentanti dell’avanguardia, i primi architetti romantici compresero che l’apprezzamento per la natura «selvaggia» è in realtà un gusto quanto mai coltivato. Come essi ben sapevano, di certo non sbocciò perfettamente formato in Inghilterra, dalla contemplazione della terra incontaminata. Come implica il nome, lo stile pittoresco fu ispirato non dall’osservazione della terra, ma dalla contemplazione di paesaggi dipinti, soprattutto quelli di Lorrain e Poussin. I quali, oltre a essere stati fortemente influenzati dagli scritti classici sull’Arcadia, dipingevano entrambi scene idealizzate della campagna italiana: guarda caso, uno dei paesaggi europei più profondamente modificati dall’uomo. E così accade che un giardino americano apparentemente «naturale» come Central Park possa essere ricondotto dal progetto ottocentesco di Olmsted e Vaux, raffinatissimo e tecnologicamente complesso, alle teorie estetiche di Kent e Pope, nel Settecento, ai dipinti secenteschi di Lorrain e Poussin, fino alla poesia classica di ispirazione arcadica. In questa vertiginosa regressione di influenze, è difficile dire con precisione dove si collochi la natura. Ma io credo si possa affermare tranquillamente che il tipo di discorso ipocrita oggi legato allo stile romantico di progettazione dei giardini non esprime tanto le preferenze e le antipatie della natura quanto quelle dell’uomo. Lunga vita alle linee rette.

Dai tempi della mia prima controversa incursione nell’artificio, nell’aiuola delle annuali, ho aggiunto diverse altre citazioni geometriche nel mio giardino, la più esplicita delle quali è l’orto di piante officinali che ho recentemente allestito dietro il fienile. Nel disegno di un giardino di solito la formalità è ritenuta un tratto aristocratico ma, come sosteneva Thomas Jefferson, poteva anche esistere un formalismo repubblicano, fondato sulle buone intenzioni del reticolo e sulla razionalità della fila e del campo rettangolare. Finora, le mie aiuole geometriche inconsapevolmente rendevano omaggio a queste idee jeffersoniane (che passarono di moda sotto l’offensiva del romanticismo ottocentesco), ma questo nuovo orto sembrava il luogo in cui tentare qualcosa che si avvicinasse un po’ di più al Vecchio Mondo. Alcuni anni fa, rifacemmo il fienile e il nuovo edificio occupava solo la metà frontale delle fondamenta originali in pietra grezza. Dietro di esso rimase così un perimetro in pietra, perfettamente quadrato, approssimativamente di nove metri per nove. Lo riempimmo di terriccio per portarlo al livello del pavimento del fienile, creando così una sorta di palcoscenico che è posto ben al di sopra del terreno adiacente. (Il che è una buona cosa, giacché subito sotto regna il caos: rovi, ortiche, solidagine, grossi sassi). Chiamammo poi un muratore che posasse, nel mezzo di questa piattaforma, un patio di mattoni, rotondo, del diametro di circa cinque metri e mezzo: un cerchio nel quadrato. E intorno al patio in mattoni mettemmo delle erbe officinali ornamentali – lavanda, mentuccia, alchemilla, salvia purpurea, perovskia, due tipi di artemisia, calamintha e verbasco –, insieme ad alcune perenni che facessero loro compagnia: digitale, giaggiolo siberiano, malvone, coreopside della varietà Moonbeam, salvia e ligularia. In realtà, piantammo il nostro orto dei semplici due volte. La prima, quando ancora facevamo giardinaggio sotto l’influenza di un’estetica «naturale», evitammo studiatamente ogni cenno di simmetria nella disposizione delle piante, affinché il giardino non avesse un aspetto troppo artificiale. Seguimmo solo le regole di progettazione più elementari; in particolare, tenere le piante basse sul davanti, quelle alte dietro, e piantarle tutte in grandi «macchie»: mai meno di tre di un tipo insieme, in modo da evitare quell’effetto insignificante che una pianta sola e abbandonata può creare. Qua e là ripetevamo un raggruppamento particolarmente efficace (quartetti di lavanda, coreopside Moonbeam, mentuccia e alchemilla funzionavano particolarmente bene), ma nella sostanza il giardino era un guazzabuglio. Anche se la geometria ben definita delle parti in muratura gli impediva di cancellarsi del tutto, nondimeno aveva un aspetto trascurato. Lo scorso inverno comprai un rotolo di carta millimetrata, qualche matita colorata e un compasso e misi a punto un piano per rifare l’aiuola. Stabilii che probabilmente, considerando il suo bordo quadrato in pietra e l’enfasi sulle piante officinali, questo giardino doveva essere molto più formale. Ormai avevo letto abbastanza, sulla storia dei giardini, per sapere che il mio aveva qualcosa in comune con quelli del Medioevo e del primo Rinascimento, che era una sorta di hortus conclusus... non conclusus. Questi giardini cintati da mura, dove comunemente si coltivavano erbe apprezzate per le loro virtù mistiche o medicinali (il giardinaggio esclusivamente ornamentale non comparve prima del Seicento), offrivano una sorta di rifugio, un luogo ben protetto e tenuto scrupolosamente in ordine, separato dal mondo pericoloso e caotico che si trovava subito al di là del muro. In tempi medioevali, oltrepassare la recinzione, superandola con un balzo, era l’ultima cosa che uno desiderasse fare. Questi giardini, che spesso erano adiacenti ai monasteri, erano luoghi cerebrali – decisamente più ermeneutici che edonistici. In essi ogni pianta aveva un significato allegorico e, proprio come la letteratura e la pittura allegoriche dell’epoca, il loro pieno significato era accessibile solo alle persone istruite, a coloro che possedevano la chiave. Il rosmarino simboleggiava la fedeltà degli amanti (poiché si pensava che aiutasse la memoria), la salvia la vecchiaia, l’alloro (Laurus nobilis) il lauro che incorona il poeta, eccetera. Proprio come Boezio rappresentò una chiave d’accesso a Dante o Chaucer, il Gerard’s Herball diede accesso all’hortus conclusus. Grazie alla loro forte carica allusiva, questi luoghi trascendevano i loro spazi angusti, e univano da un lato l’essere qui, e dall’altro l’immaginazione del laggiù, di domini remoti, metafisici. Benché a partire da Le Nôtre sia stata in larga misura dimenticata, la meditazione è un altro modo per andare oltre il muro del giardino, un modo a volte più affascinante (e anche più praticabile) della conquista di tutto il territorio. Il nostro giardino di piante officinali confina con il mio ufficio e con lo studio di mia moglie, ed è un luogo in cui di solito veniamo a leggere o a sciogliere i nodi del nostro lavoro; l’orto dei semplici medioevale sembrava quindi offrire un modello adatto: un giardino contemplativo, riparato dal mondo, un luogo adatto alla lettura e alla meditazione. Disegnai un progetto enfatizzando gli elementi che conferivano a quei giardini classici il loro fascino. Ovviamente, se doveva offrire un rifugio, il mio giardino avrebbe dovuto avere un muro, così inserii, tutt’attorno al perimetro, una siepe di rose antiche: rose alba e bourbon che alla fine avrebbero raggiunto il metro e ottanta, dando un senso di chiusura senza far sembrare il luogo claustrofobico. Più vicino, immediatamente intorno al pavimento di mattoni, decisi di limitarmi a piantare erbe tradizionali: lavanda, alchemilla, mentuccia, salvia, betonica e artemisia. Queste sono tutte piante relativamente discrete – nessuna ha fiori molto vistosi –, ma il loro fogliame ha carattere e molte di esse emanano forti profumi evocativi. (A quanto pare, più mi occupo di giardinaggio, meno importante è per me il fiore di una pianta quando ne stimo i meriti – anche se non ho ancora raggiunto la superiore indifferenza di Russell Page, che liquidava i fiori come tutta quell’«erba colorata»). Inoltre, i colori di queste erbe sono tenui, perlopiù grigi e azzurri, inframmezzati qua e là, per far contrasto, con alcuni dei gialli più freddi e con una macchia di verde intenso. Nulla di troppo vistoso o grandioso, insomma, il che è proprio ciò che si desidera in un giardino inteso come scenario per la lettura e la meditazione. Quasi tutte le piante sono disposte seguendo un semplice schema simmetrico, assolutamente non intricato come un giardino di erbe aromatiche elisabettiano, ma bilanciato con attenzione in modo che un lato sia l’immagine speculare dell’altro. Troppa simmetria può annoiare, ma in questo paesaggio ce n’è talmente poca da farmi credere che qui sarebbe stata la benvenuta, un riposo per l’occhio. La scorsa primavera ho trasferito il mio giardino dei semplici dalla carta al terreno e – anche se occorrerà qualche anno prima che si riempia del tutto e che le rose crescano abbastanza da formare una siepe – già da ora esso forma un luogo distinto, con un carattere diverso da tutto il resto della proprietà. Insieme alla freschezza e alle delicate tessiture delle piante, il disegno circolare conferisce al giardino una cert’aria di tranquillità. Più di qualsiasi altra cosa, però, credo che a dar l’impressione di fermare il movimento e suggerire il riposo sia la sua simmetria, l’equilibrio preciso delle sue piante. Venire in questo luogo dopo una camminata nel paesaggio turbolento qui intorno equivale a percepire che alla fine si è trovato un approdo, capitando sulla più tranquilla e ordinata delle isole. Pope e Kent non avrebbero mai approvato il mio piccolo hortus conclusus, tuttavia sospetto che perfino loro avrebbero compreso il mio desiderio d’un po’ di ordine qua intorno. Entrambi capivano che un giardino può essere troppo irregolare, e che in una qualche misura il piacere estetico sembra dipendere da una certa dose di forma, sia pur vaga o impercettibile. Kenneth Burke, una volta, definì la forma come una sorta di ritmo in cui le aspettative sono prima suscitate e poi in qualche modo soddisfatte o appagate. Naturalmente Burke stava parlando della forma letteraria, ma la sua definizione si applica altrettanto bene al giardino. Una volta imboccato, il sentiero deve portarci da qualche parte, e poi sarà bene che ci riporti a casa. Dopo aver individuato in un angolo del giardino il freddo grigio di un ciuffo di betonica, l’occhio andrà poi a cercare la sua controparte; se non la trova, registrerà una certa insoddisfazione – anche se forse non saremo mai consapevoli della causa. Una volta che il giardiniere ha iniziato qualcosa, in altre parole, farà bene a trovare il modo di portarla a compimento. È probabile che la simmetria sia il tipo di forma più fondamentale che si può impartire a un giardino: una sequenza di aspettative visive che vengono rapidamente e prevedibilmente soddisfatte, come se le piante fossero i versi in rima di un distico. Forme così semplici hanno un fascino tutto loro, ma a quanto pare il nostro piacere spesso aumenta con l’introduzione di complessità e, specificamente, di incertezza: di un qualche dubbio sulla possibilità che le aspettative suscitate vengano mai soddisfatte. Mettere a repentaglio la forma stessa: anche questo sembra conservare vivo il nostro interesse, tenere sveglia la nostra mente. (Invece dei facili distici in rima, pensiamo alla rima imperfetta, o al succedersi di versi sciolti, con caratteristiche metriche spinte fin quasi al punto di non ritorno). I bei giardini sembrano avere spesso questa qualità: di un ordine in presenza di una certa pressione, di una selvaticità a malapena contenuta. Essi si avvalgono della resistenza che la natura sembra opporre alle nostre forme; mettono a frutto questo fatto del destino. Per quanto imperfetta sia stata la sua realizzazione, sto cominciando a pensare che il tema principale del mio giardino possa essere proprio questo. Facendo una passeggiata nella proprietà ci si fa strada tra quelle poche aree coltivate e le molte altre ribelli – tutte quelle che ancora devo portare sotto il mio controllo. Ma adesso che ho visto come il mio orto dei semplici si contrappone con il suo ordine al terreno circostante, non sono più tanto sicuro che lo farò. Invece di addomesticare interamente il paesaggio, potrebbe essere preferibile sfruttare il suo eccessivo rigoglio – ascoltare il consiglio di Pope, «inizia anche dalla difficoltà, avvantaggiati dal caso». Perché, quale che essa sia, la spettacolarità di questo giardino sembra accendere le tensioni fra due tipi di spazio, fra il terreno ponderato e il terreno incurante – tra le prove attentamente costruite della fatica mia (e, prima ancora, di quella del vecchio fattore) e l’incessante tendenza del paesaggio a negarle. È probabile che tali margini siano il tema di questo luogo – il suo Genio –, ed estendere il controllo a tutto quel territorio ancora non domato, di fatto portare a compimento il mio giardino, potrebbe guastare la storia che esso ha da raccontare.

La forma più importante che un giardino può assumere – sosteneva di solito Capability Brown – è quella di un itinerario, il quale dovrebbe svilupparsi gradualmente in modo più simile a un racconto, che non a un’unica immagine come accade a Versailles (immagine che si può cogliere con un unico colpo d’occhio dalla finestra della camera da letto del re). Invece di quell’unica impressione di ampio respiro – un’impressione di potenza regale, che poi è la storia principale che Versailles ha da raccontare –, dovrebbe esserci una successione di impressioni più circoscritte: scene di mistero, malinconia, amore romantico, umorismo e anche di terrore sublime, tutte legate dal sentiero del giardino. Per «leggere» il paesaggio pittoresco, dobbiamo avventurarci al suo interno – intraprendere un piccolo viaggio. Trovo che l’idea di un itinerario sia particolarmente appropriata per il giardino americano, se non altro perché i paesaggi che sembriamo amare di più sono quelli nei quali possiamo fare qualcosa: luoghi in cui esplorare, colpire una palla, fare un giro o un’uscita in auto. Forse questo spiega perché alcuni dei nostri spazi verdi più riusciti (o perlomeno gli unici che il resto del mondo sia interessato a emulare) sono campi da golf, parchi a tema e viali alberati panoramici. È stato quando ho afferrato il suo itinerario che finalmente il mio giardino ha assunto una forma definita, che ha cominciato a sembrare davvero un giardino. Ero giunto alla conclusione che, come principio organizzatore, la vista sul prato naturale non fosse di per se stessa sufficiente: doveva esserci una buona ragione per camminare in quella direzione, qualcosa che spingesse ad andare oltre la bordura delle perenni e l’orto, e ad addentrarsi nelle zone più inquietanti del paesaggio. Gli architetti che seguivano lo stile pittoresco – avevo osservato – mettevano sempre in lontananza qualche artificio: una statua, un rudere, una traccia d’arte per chiamarci a percorrere i loro sentieri. Kent li chiamava «eye catchers», elementi che catturano lo sguardo. E così, oltre la bordura delle perenni, dove sembrava che nessuno volesse mai spingersi, costruii una piccola pergola in legno e la coprii di clematidi. E per essere assolutamente sicuro che nessuno si lasciasse sfuggire il mio punto focale, misi sopra di esso, in cima a un palo di quasi due metri, una casetta bianca per le rondini, visibile da qualsiasi punto della proprietà, come un campanile. Mi occorreva ancora, tuttavia, una destinazione, un modo per soddisfare le aspettative suscitate da un sentiero che conduceva sotto a una pergola. Certo, da lì si poteva proseguire salendo verso il prato; io però volevo offrire qualcosa di un po’ più sorprendente: qualcosa che, come diceva Pope, avrebbe piacevolmente confuso le aspettative create dal colpo d’occhio, il quale suggeriva una regolare progressione dal giardino al comune territorio circostante. Subito dopo la pergola, quindi, con una curva un po’ brusca a sinistra, creai un sentiero di beole in pietra, e un corrimano fatto con degli alberelli per invitare a salire su un piccolo rilievo, al pianoro dove sorge l’orto dei semplici. Fino a questo punto il tour del mio giardino si è avventurato sempre più lontano, in territori sempre meno accoglienti: le perenni hanno lasciato il passo alle ortiche e a gigantesche bardane, l’ampio sentiero erboso è stato sostituito da una fila di beole che costeggia un acquitrino e a un certo punto passa perfino sotto un mucchio di massi dall’aria precaria. È un vero sollievo, quindi, imbattersi in quell’isola ordinata che è il mio orto dei semplici, questo luogo immobile in mezzo al mare verde, agitato e sciabordante. Quale destinazione del mio garden tour, il giardino dei semplici dà la sensazione di salvarci in extremis dalla natura trasandata e selvaggia che sta più sopra: un inaspettato lieto fine. Tutti i garden tours dovrebbero concludersi con una nota del genere, mi pare, perché l’attraversamento di un giardino non dovrebbe essere un’impresa rischiosa – non sul serio – ma uno svago: avere un carattere più comico che eroico. Un garden tour è, come indica il termine stesso, un circuito, un tracciato circolare che promette di riportarci sani e salvi al punto di partenza. Strada facendo ci viene raccontata una storia, perché il sentiero del giardino è come il filo di una trama o di un ragionamento. E la storia di questo mio giardino? Be’, suppongo che stia agli altri interpretarla. Sembra tuttavia che effettivamente abbia qualcosa da dire sulla creazione di un luogo in seno alla natura, e su un uomo ottimista, un americano, che suggerisce una serie di forme a dispetto di un paesaggio recalcitrante e indifferente. È la mia storia, certo, ma contiene anche tracce di quella del vecchio fattore. Soprattutto, questo giardino sembra raccontare la storia del suo stesso formarsi. Ed è per questo, credo, che non nasconde il suo travaglio (là, a destra di chi emerge dalla pergola, al sicuro sotto i rami di un frassino, c’è il mio cumulo di compostaggio fumante) e che non sembra neanche lontanamente compiuto; e con ogni probabilità è ancora per questo che deve terminare in un luogo in grado di sottolinearne con tanta enfasi il carattere di «giardino». Finire in un acquitrino o nel bosco sarebbe stato troppo malinconico, almeno per questo luogo e per questo particolare giardiniere; avrebbe implicato che, in ultima analisi, un giardino – quella riconciliazione in cui speriamo – è impossibile. Una storia a lieto fine sugli esseri umani e sulla terra: quella forma, che è poi la forma del garden tour, non dovrebbe mai essere messa seriamente in dubbio, benché fingere che lo sia può certo mantenere vivo l’interesse. Nel mio giardino, questo è sicuro, la finzione ha sempre minacciato di sfuggirmi di mano. Sospetto che le aree «selvatiche» di questo luogo avrebbero impressionato Pope e i suoi amici in quanto spiacevolmente letterali. («Farete bene a usar prudenza nell’adoperare termini come “naturale” e “selvatico” in presenza di questi americani: hanno la tendenza a prendervi alla lettera»). Quello là dietro, infatti, non era l’ostacolo di un campo da golf, innocua metafora del pericolo, ma una palude reale, con insetti e serpenti veri. A volte mi chiedo che cosa penserebbe mio nonno, se potesse fare un giro oggi nel mio giardino. Credo che molte cose disturberebbero anche lui. In effetti, l’unica parte che senza dubbio troverebbe accettabile è l’orto. Soprattutto considerando i miei primi cimenti a Long Island, la geometria squadrata e senza erbacce del mio orticello di sicuro lo rallegrerebbe. Conoscendolo, però, so che la sua attenzione non si fermerebbe a lungo tra quelle file scrupolose. Alzerebbe lo sguardo sull’acquitrino, proprio là, dall’altra parte della recinzione, e vorrebbe sapere che cosa ho in mente di farci: ho intenzione di prosciugarlo e seminarci della fienarola, oppure di scavarci un laghetto? Non so come potrei spiegargli che intendo lasciarlo esattamente com’è; che ho finito per apprezzare il contrasto tra acquitrino e giardino, l’incontro fra i cavoli disciplinati, tutti in fila per due come fossero in gita scolastica, e la marmaglia ingovernabile di Eutrochium e tife scoppiate che si azzuffano più in su. All’incirca a questo punto mi aspetto che farebbe la sua offerta in denaro contante. Per comprare un laghetto, o un bel prato come si deve – qualsiasi cosa, ma non questa palude. Lo ringrazierei per la sua generosità, e poi forse proverei un altro approccio. Qualcosa sull’importanza di lasciare indisturbate le zone umide, per via della complessità e della fragilità della loro ecologia. Vorrei dirgli che forse oggigiorno i giardinieri farebbero bene a essere più rilassati nei confronti delle espressioni locali della natura selvaggia, quando sono così fortunati da averne un poco, superstite sulla loro terra. E che forse, comportandoci così troveremmo un modo per dare ai nostri giardini un carattere un po’ più originale: per renderli più americani, e forse anche più contemporanei. Senza consegnarli alla foresta o a un’assenza di forma – cosa che non porta da nessuna parte –, ma semplicemente impegnandoci un poco a onorare il passato del paesaggio e quanto di selvatico vi è rimasto. Il giardiniere sa quanto sia precario il suo controllo sulla natura, soprattutto qui in Nord America, dove la terra può sembrare decisamente ingovernabile. E allora perché deve darsi tanta pena a nascondere questo dato di fatto, ad ammantare un territorio così riottoso con tutto quel prato? Magari è ora che cominciamo a riconoscere quella precarietà, forse addirittura a evocarla, nel disegno dei nostri giardini. Lasciandone in uno stato selvatico alcune parti, e facendo virtù della loro giustapposizione con aree più formali, possiamo introdurre in essi un’ombra di dubbio circa il nostro controllo sulla natura, e questa probabilmente sarebbe una buona cosa. Quello che vogliamo, però, non è un’ulteriore infatuazione romantica sulla natura incontaminata, non è questo che sto dicendo: piuttosto, si tratta di un approccio ironico ai giardini, a questi luoghi che noi creiamo in natura. Proprio come i paesaggisti del pittoresco erano sempre attenti a includere nei loro progetti qualcosa che ricordasse la nostra mortalità – un rudere, a volte perfino un albero secco –, l’atto di lasciare alcune parti del giardino incolte, e di richiamare l’attenzione sui suoi confini, sembra minare qualsiasi pretesa di saggezza, o di controllo totale, da parte del giardiniere. I confini dei nostri giardini possono anche essere delle figure retoriche, ma si tratta di figure di ironia, più che di trascendenza: antidoti, in effetti, contro la nostra hybris. Forse è proprio nei confini dei nostri giardini che possiamo scoprire nuove vie per portare a coincidere, in modo significativo, la nostra estetica e la nostra etica riguardanti la terra.

Lo so, lo so: mio nonno penserebbe che questo è il più colossale e assurdo mucchio di scuse mai sentito per giustificare il giardiniere che batte la fiacca. Ma io vorrei almeno cercare di fargli capire la tensione presente in questo luogo che io ho finito per apprezzare, il vantaggio che esso ricava dalla parzialità del mio controllo. Guarda come tutte le forme che ho introdotto qui – le linee rette, le pareti e le pergole; le simmetrie, le ripetizioni e i sentieri – sembrino approfittare del contrasto con il territorio circostante più turbolento, acquistando un carattere che altrimenti forse non avrebbero avuto: un’intensità emotiva, quasi, che quelle stesse forme di solito non hanno nei giardini del Vecchio Mondo. Può darsi che questo tipo di ironia sia ciò che il paesaggio americano e il nostro tempo hanno da offrire al giardino, ciò che noi abbiamo da aggiungere alla sua storia. Ma non è solo il giardino che ha da guadagnare dall’accostamento con il territorio impervio: quello che è ancora più sorprendente è come quest’ultimo sembri anch’esso approfittare del contrasto. La cascata di sassi e arbusti selvatici che si trova subito dietro al mio orto dei semplici è resa molto più interessante dalla giustapposizione di cui ora si trova a esser parte; potrebbe quasi rappresentare le acque infide al di là del porto sicuro di questo giardino, il mondo esterno fuori da questo hortus conclusus. Perfino l’acquitrino, insidioso e informe, ha acquisito una nuova definizione grazie alla prossimità con quell’ordinata aula scolastica che è il mio orto. Forse anche la natura incontaminata ha bisogno di una cornice, del contrasto con l’artificio umano.

So che la prova migliore, e anche la più semplice, di questa idea può essere costruita con una falciatrice e un appezzamento di erba un po’ troppo alta – più è incolto, meglio è. Guardare un sentiero appena tracciato con la falciatrice in un prato spontaneo, osservare come esso disegni un confine umano tanto netto e sintattico nell’erba tenera, trascurata e ondeggiante significa – credo – comprendere il dono del giardino alla natura incontaminata e la sua affascinante reciprocità. Questa, almeno per me, è stata una scoperta abbastanza recente. Dopo aver disposto la siepe lungo la strada, decidemmo di lasciare che il nostro grande manto erboso esposto a sud diventasse un prato spontaneo. Avevamo pensato di farci qualcosa di più ambizioso, ma con il passare del tempo capimmo che probabilmente il nostro giardino si sarebbe sviluppato non scendendo in direzione della strada, ma arretrando dalla casa verso la collina. In quella direzione vi è una maggior privacy, e in ogni caso i giardini che si sviluppano verso l’alto sembrano più interessanti di quelli che digradano verso il basso. Per questo luogo particolare, l’angolo più basso e umido della proprietà, un prato spontaneo sembrò l’approccio migliore. Al principio, però, il prato fu una delusione. Più le graminacee vi crescevano alte, più quell’angolo appariva trasandato: somigliante a un lotto di terreno vacante o al prato lasciato in abbandono da mio padre a Long Island, più che al prato di campagna che avevo in mente io. Quel qualcosa che fa di un terreno ordinario pieno di erbacce un prato spontaneo, a prescindere da che cosa sia, qui mancava. Nondimeno, ero determinato a non riprendere il lavoro di falciatura. Avendo disertato tanto rumorosamente il prato americano, non avevo alcuna intenzione di tornare sui miei passi implorando il suo perdono, non volevo chiedere di esservi riammesso. Non erano possibili ripensamenti, almeno non per questo giardiniere. Ecco perché fu un giorno davvero fortunato quello in cui scoprii che potevo regolare la lama della falciatrice sul massimo e tagliare nell’erba alta un sentiero che trasformò d’un colpo quel triste appezzamento di erba e infestanti in qualcosa di completamente diverso: un prato spontaneo. Quel sentiero, almeno ai miei occhi, è una cosa di incomparabile bellezza, soprattutto quando è stato appena falciato. Non so esattamente che cosa sia, ma quel margine netto e pulito cambia tutto: crea un luogo dove in precedenza non c’era. Dove prima in una certa misura l’occhio spaziava irrequieto sulle cime dell’erba troppo alta in cerca di un oggetto su cui posarsi, adesso trova un ingresso invitante, un percorso chiaro e leggibile attraverso la confusione verde – percorso che non può fare a meno di seguire. Il sentiero chiama, rendendo tutt’a un tratto allettante l’intera area. (Perfino il mio gatto, che non è mai stato infastidito dall’erba alta, adesso si fa un dovere di seguire il sentiero). Si sono aperte nuove possibilità: adesso c’è la prospettiva di un piccolo viaggio. In un sentiero c’è il principio di una narrazione, che è un segno sicuro e accessibile della presenza umana. Ma non è un segno ostentato o brutale, almeno non qui: dopo tutto, questo è un sentiero da percorrere a piedi, tracciato con la falciatrice nel terreno davanti all’ingresso di casa mia, e non un’autostrada nella foresta, o la scritta stizzosa disegnata nell’erba da mio padre. La storia che questo sentiero ha da raccontare non riguarda la battaglia dell’uomo contro la natura – non è un racconto di conquista o sottomissione. Un sentiero che passa nell’erba è una cosa del tutto diversa da un prato curato. Certo, adesso mi tocca di nuovo falciarlo ogni settimana; e – sì – l’erba sembra intenzionata a cancellare il mio amato confine. Nondimeno, questa non è una battaglia campale, Falciatrice vs Erba, combattuta settimanalmente. Somiglia di più al battibeccare dei vecchi amici, o di marito e moglie dopo tanti anni, un bisticcio rinnovato settimana dopo settimana, senza che se ne veda la fine, e senza che la si cerchi neppure. Sto esagerando l’importanza del mio sentiero nel prato? Forse. D’altra parte, più lo falcio, più riesco a vedere in quel semplice sentiero – nel modo in cui sembra declinare il terreno, conferirgli qualcosa di noi senza sminuirlo – tutto il mio giardino. Quando l’ho appena tagliato, il sentiero sembra limpido e convincente come una dimostrazione geometrica, come una bella linea apollinea tracciata contro tutto ciò che nel mondo è indefinito o polimorfo, un freno che si oppone all’entropia, un’orgogliosa dichiarazione di identità a dispetto di tutta quell’erbosa indifferenza. Ecco il mio autografo, allora, scarabocchiato su questa pagina verde con la mia Toro ruggente, autentica prora della cultura! Stilo della volontà occidentale! Certo, anche le erbe hanno i loro giorni fortunati, di solito dopo una pioggia a dirotto, quando l’inchiostro della mia firma si spande e la nuova crescita verde dissolve il margine netto e ben definito del mio sentiero. Non più della natura stessa, quest’erba non ha il mimino riguardo per nessuna forma di identità umana, nemmeno per il più verde dei nostri pensieri. E allora?! Posso falciare il mio sentiero ogni settimana, proprio come estirpo le erbacce dalle aiuole e dalle bordure, rinnovando queste forme umane, questo intero giardino, ancora una volta e poi ancora, a dispetto di tutta la sua indifferenza. Il semplice fatto che la natura avrà l’ultima parola – continuerà a spingere nuovi germogli fuori da questa terra molto tempo dopo che io avrò smesso di estirparli o falciarli – non è un buon motivo per chiudere adesso la conversazione. La natura tende davvero verso l’entropia e la dissoluzione – lo so, lo so –, ma io non posso fare a meno di pensare che contenga anche una tendenza contrapposta, una qualche inclinazione verso forme di sempre maggior complessità: verso di noi e le nostre creazioni, intendo. Verso di me, verso questa falciatrice e verso la bellezza, altrimenti inspiegabile, di un sentiero in un giardino.

5. Oltre a quelli di Pope, mi sono avvalso soprattutto – tra i «classici» – degli scritti e dei progetti di William Kent, Francis Bacon, Horace Walpole, Joseph Addinson, Capability Brown, Humphry Repton e Vita Sackville-West. L’introduzione contemporanea più stimolante a tutti questi personaggi è The Poetics of Garden di Charles W. Moore, William J. Mitchell e William Turnbull Jr (MIT Press, Cambridge, 1988). Sulla storia della progettazione dei giardini è eccellente anche Eleanor Perényi, Green Thoughts, Random House, New York, 1981 [L’alfabeto dei fiori, trad. it. parziale di F. Marzotto Caotorta, La Tartaruga, Milano, 2001].

6. La nuova estetica aveva anche un sottotesto politico: fra le altre cose, lo stile pittoresco rappresentava una reazione di stampo Whig contro il gusto dei realisti per i giardini formali stranieri; allestire un giardino simile a un paesaggio naturale significava spezzare una lancia a favore della libertà inglese. Si veda, a tal proposito, il capitolo sulla potatura nell’Alfabeto dei fiori di Perényi. NOTA ALLA TRADUZIONE

Diamo qui di seguito l’elenco delle opere citate da Pollan di cui è disponibile la traduzione italiana e dalle quali sono state tratte le citazioni presenti nel volume.

Burroughs, William S., La macchina morbida, trad. it. di K. Bagnoli, Adelphi, Milano, 2003 (ed. orig. The Soft Machine, Olympia Press, Paris, 1961).

Cronon, William, La terra trasformata: indiani e coloni nell’ecosistema americano, trad. it. di R. Arrigoni, Selene, Milano, 1993 (ed. orig. Changes in the land Indians, colonists, and the ecology of New England, Hill and Wang, New York, 1983).

Eliot, George, Middlemarch, trad. it. di M. Manzari, Rizzoli, Milano, 2008 (ed. orig. Middlemarch, 1874).

Emerson, Ralph W., Natura, trad. it. di I. Tattoni, Donzelli, Roma, 2010 (ed. orig. Nature, 1836).

Fitzgerald, Francis Scott, Il grande Gatsby, trad. it. di F. Cavagnoli, Feltrinelli, Milano, 2011 (ed. orig. The Great Gatsby, Charles Scribner’s Sons, New York, 1925).

Hopkins, Gerald Manley, Poesie e prose scelte, trad. it. di A. Guidi, Guanda, Parma, 1987.

James, William, Discorsi agli insegnanti e agli studenti sulla psicologia e su alcuni ideali di vita, trad. it. di F. Stara, Armando, Roma, 2003 (ed. orig. Talks to teachers on psychology, 1892). Keats, John, Lettere sulla poesia, trad. it. di N. Fusini, Mondadori, Milano, 2005.

Marvell, Andrew, Liriche d’amore, poesie metafisiche, pastorali e celebrative, trad. it. di M. Corrente, La Quercia Fiorita, Gorgonzola (MI), 2011.

Melville, Herman, Moby Dick o la Balena, trad. it. di C. Pavese, Adelphi, Milano, 1987 (ed. orig. Moby Dick, 1851).

Page, Russell, L’educazione di un giardiniere, trad. it. di C. Novero, Allemandi, Torino, 2010 (ed. orig. The Education of a Gardener, Atheneum, New York, 1962).

Perényi, Eleanor, L’alfabeto dei fiori, trad. it. di F. Marzotto Caotorta, La Tartaruga, Milano, 2001 (ed. orig. Green Thoughts, Random House, New York, 1981).

Rorty, Richard, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà, trad. it. di G. Boringhieri, Laterza, Roma-Bari, 1989 (ed. orig. Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, 1989).

Ruskin, John, La poesia dell’architettura, trad. it. di D. Prunetti, Solmi, Milano, 1909 (ed. orig. The Poetry of Architecture, 1893).

Shakespeare, William, I drammi romanzeschi, Mondadori, Milano, 1995.

Shakespeare, William, I drammi storici, vol. I, trad. it. di V. Gabrieli, Mondadori, Milano, 1996.

Shakespeare, William, Le tragedie, Mondadori, Milano, 1976. Shakespeare, William, Sonetti, trad. it. di A. Rossi e G. Melchiori, Einaudi, Torino, 1965.

Stevens, Wallace, Harmonium, trad. it. di M. Bacigalupo, Einaudi, Torino, 1994 (ed. orig. Harmonium, A.A. Knopf, New York, 1923).

Stuart Thomas, Graham, Le rose antiche da giardino, trad. it. di M.S. Sapegno, Rizzoli, Milano, 1981 (ed. orig. The Old Shrub Roses, Phoenix House , London, 1954).

Thomas, Keith, L’uomo e la natura: dallo sfruttamento all’estetica dell’ambiente 1500-1800, trad. it . di E. Negri Monateri, Einaudi, Torino, 1994 (ed. orig. Man and the Natural World, Allen Lane, London, 1983).

Thoreau, Henry David, Camminare, trad. it. di M.A. Prina, Mondadori, Milano, 2009 (ed. orig. Walking, 1861).

Thoreau, Henry David, Walden, ovvero vita nei boschi, trad. it. di P. Sanavio, Rizzoli, Milano, 1988 (ed. orig. Walden, 1854).

Virgilio, Le Bucoliche - Le Georgiche, trad. it. di A. Richelmy, Einaudi, Torino, 1970.

Whitman, Walt, Foglie d’erba, trad. it. di E. Giachino, Einaudi, Torino, 1993 (ed. orig. Leaves of Grass, 1855).