Michael Pollan Una Seconda Natura
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Michael Pollan Una seconda natura EDUCAZIONE DI UN GIARDINIERE Traduzione di Isabella C. Blum Adelphi eBook TITOLO ORIGINALE: Second Nature A Gardener’s Education Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata In copertina: Varietà di mele classificate secondo il sistema Diel-Lucas Prima edizione digitale 2016 © 1991 MICHAEL POLLAN © 2016 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-7794-7 UNA SECONDA NATURA INTRODUZIONE Questo libro è la storia della mia educazione in giardino. I giardini, in realtà, sono due: uno più o meno immaginario, l’altro pervicacemente reale. Il primo è il giardino dei libri e dei ricordi, quella vagheggiata utopia all’aria aperta, senza moscerini e sempre in fiore, dove la natura risponde ai nostri desideri e noi immaginiamo di sentirci perfettamente a nostro agio. Il secondo giardino è un luogo reale, a Cornwall, nel Connecticut: circa due ettari di terreno collinare roccioso e difficile da gestire, per coltivare il quale mi sto arrabattando ormai da sette anni. Molto separa questi due giardini, tuttavia ogni anno li porto un po’ più vicini a coincidere. Entrambi hanno avuto moltissimo da insegnarmi, e non solo sul giardinaggio. Ho capito subito, infatti, che non avrei imparato a occuparmi molto bene della mia terra se non avessi appreso anche qualche altra cosa: sul ruolo che mi spetta in natura (rientrava nei miei diritti uccidere la marmotta che mi aveva saccheggiato l’orto durante tutta la primavera?); su certi atteggiamenti alquanto peculiari nei confronti della terra, innati negli americani (com’è che i miei vicini nutrono un interesse tanto profondo per le condizioni del mio prato?); sui tormentati confini tra natura e cultura; e sulla nostra esperienza dei luoghi, sulle implicazioni morali della progettazione del paesaggio e su diversi altri temi che il desiderio di raccogliere qualche onesto pomodoro non mi aveva preparato ad affrontare. Può darsi che sia nella mia natura complicare le questioni in modo indebito, cercare grandi significati nelle piccole cose, d’altra parte sembrava effettivamente che in giardino ci fosse molto di più di quanto mi fossi aspettato di trovare. Cominciai a occuparmi di giardinaggio per gli stessi motivi che di solito spingono la gente a farlo: la soddisfazione di estrarre bei mazzi di carote dalla propria terra; il desiderio di rendere un appezzamento più accogliente o produttivo; il bisogno di riappropriarsi di un luogo che ricordiamo dall’infanzia; e la fondamentale necessità di impedire alla foresta di inghiottire la nostra casa. Nel 1983, quando mia moglie e io acquistammo la nostra prima proprietà – una piccola porzione di una fattoria abbandonata, sul margine orientale della Housatonic Valley –, vivevamo da qualche tempo a Manhattan, in un appartamento che riceveva all’incirca novanta minuti di sole al giorno, e la prospettiva di coltivare qualche fiore e un po’ di ortaggi sembrava straordinaria. C’era poi anche la questione della foresta che avanzava minacciando effettivamente di inghiottire la nostra casa, un piccolo cottage in stile Cape Cod costruito nel 1929 con un kit di Sears, Roebuck & Co. Se speravo di tenere a bada il bosco, dovevo fare qualcosa: o tosare quel campo di erbacce che passava per prato, o allestire un vero e proprio giardino. Penso si possa dire, quindi, che a spronarmi fu la foresta. Mescolate alle mie motivazioni, però, c’erano anche le soddisfazioni che ricordavo d’aver provato nei giardini della mia infanzia. Da bambino, nei primi anni Sessanta a Long Island, avevo accudito una serie di aiuole e orticelli in vari angoli della proprietà suburbana dei miei genitori, e avevo passato molti sabati ad aiutare mio nonno nel suo giardino, ben più vasto, a qualche chilometro da noi (il capitolo I è un ricordo di quei luoghi). Adesso avevo un po’ di terra tutta mia, e prendermene cura sembrava un modo naturale di trascorrere i fine settimana, un passatempo per il quale forse avevo anche un certo talento. Judith era di altro avviso. Alla fine le sue posizioni si sarebbero ammorbidite; all’inizio, però, era una nemica giurata del giardinaggio, essendo stata costretta a dedicarcisi da bambina. Credo anche che le parti in abbandono della nostra proprietà la turbassero meno di quanto turbavano me, giacché trovava una certa bellezza nell’avanzata dei cespugli in un campo di fieno trascurato o nella crescita, eccessiva e sbilanciata, di un melo bisognoso di un’energica potatura. E così, mentre lei cominciò a dipingere paesaggi, io – con risultati un po’ meno spettacolari – cominciai a crearli. Non passò molto tempo prima che scoprissi di non essere affatto preparato per il lavoro che avevo intrapreso. Il paesaggio locale del New England – un patchwork di fattorie abbandonate rapidamente reclamato dalla foresta secondaria – si dimostrò, nei confronti dei miei progetti, decisamente meno ben disposto di quanto lo erano stati i docili terreni dei sobborghi della mia infanzia. Qui c’erano grossi animali ingordi, infestanti che dettavano legge, qualche miliardo di esemplari di ogni specie d’insetto descritta nella mia guida, gelate letali a giugno e settembre, e sassi inconcepibilmente pesanti e numerosi. Vi erano però anche altri ostacoli di natura molto diversa, che si dimostrarono altrettanto esasperanti: gli atteggiamenti verso la natura, mai ponderati, che avevo portato con me in giardino. Come la maggior parte degli americani quando stanno all’aria aperta, io ero figlio di Thoreau. Ma il modo di considerare la natura che avevo ereditato da lui, e tutta la tradizione letteraria del nature writing che egli aveva ispirato, non sembravano applicabili alle mie esperienze. Nel confrontarmi con le marmotte locali, o nel decidere se fossi o meno obbligato a tosare il mio prato, o fino a che punto potessi permettermi di essere tollerante con le erbacce, ero di certo completamente assorbito dalla natura; i miei sentimenti su di essa, però, per quanto intensi, non erano così romantici o adoranti. Un’estate, quando mi imbattei nell’argomentazione di Emerson secondo cui le «infestanti» (che proprio allora stavano soffocando le mie piante annuali) altro non sarebbero che un difetto di percezione da parte mia, provai una certa dissonanza cognitiva. Tutti scrivevano su come essere nella natura, su che genere di percezioni avere, ma nessuno parlava di come agire in quei contesti. Eppure, a differenza del naturalista, il giardiniere deve, anzi vuole, agire. Ora è vero che il giardiniere perplesso ha a disposizione un’infinità di volumi pieni di consigli pratici; io però sentivo anche il bisogno di una guida filosofica. Prima di scatenare un attacco incendiario contro la tana di una marmotta, preferisco avere dalla mia anche un po’ di teoria. Eppure, per la maggior parte, gli americani che scrivono sulla natura non parlano di orti e giardini: non dicono nulla sui paesaggi creati dall’uomo e sui processi della loro creazione. Si tratta di un’omissione curiosa; infatti, anche se a prima vista il giardinaggio può sembrare privo, per esempio, della drammaticità o della nobiltà dell’alpinismo, è proprio dal lavoro in giardino che la maggior parte di noi ricava le esperienze più intime e dirette della natura: riguardanti le sue gratificazioni, la sua fragilità e la sua forza. Nondimeno, quando abbiamo voluto riflettere sui nostri rapporti con la natura, abbiamo quasi sempre guardato a luoghi selvaggi, non contaminati dalla presenza umana. Thoreau, in effetti, è stato l’ultimo importante autore americano a scrivere di natura e ad aver qualcosa da dire sul giardinaggio. A Walden seminò un campo di fagioli e dedicò un capitolo al racconto delle esperienze che ne seguirono. Quel campo di fagioli (di cui parlo nel mio capitolo sulle erbacce) gli diede però ogni sorta di problemi. A causa dell’infatuazione per la natura selvaggia, si sentiva in colpa nel discriminare le erbacce (nel libro si scaglia contro la necessità di tali «ingiuste distinzioni») e non riusciva a capire che cosa gli desse un maggior diritto di godere dei prodotti del suo orto rispetto alle marmotte e agli uccelli locali. Preso nel terribile groviglio delle contraddizioni fra le proprie esigenze e le prerogative della natura, Thoreau dovette abbandonare il campo di fagioli, dichiarando infine di preferire la più tetra palude a qualsiasi orto o giardino, i quali, con quella dichiarazione, furono essenzialmente banditi dagli scritti americani sulla natura. Io credo che sia un peccato, e non solo perché in giardino ho bisogno di validi consigli. Gli americani hanno l’abitudine profondamente radicata di considerare natura e cultura contrapposte in modo inconciliabile; diamo automaticamente per scontato che ogni qualvolta una delle due guadagna, l’altra debba perdere. Costretti a scegliere, solitamente optiamo per la natura (almeno nei libri). Fu questa scelta, che io ritengo artificiosa, ad allontanare Thoreau e i suoi eredi dal giardino. Certamente la natura incontaminata ha molto da insegnarci: la nostra insuperata tradizione di nature writing ne è una prova sufficiente. La mia esperienza in giardino mi induce tuttavia a pensare che vi siano molte cose importanti, sul nostro rapporto con la natura, che non possono essere apprese in luoghi non contaminati da esseri umani. Tanto per cominciare, oggi più che mai abbiamo bisogno di imparare come servirci della natura senza danneggiarla. Cosa che probabilmente non si può fare fintanto che continuiamo a considerare natura e cultura come mere antagoniste. Come faremo allora a trovare una terra di mezzo fra le due? A soddisfare le nostre esigenze e i nostri desideri senza spogliare la natura? La premessa di questo libro è che probabilmente il luogo in cui cercare parte delle risposte a queste domande non sia nei boschi, ma in giardino. Benché non sia uno scritto polemico, questo libro è permeato dal conflitto: tra me e questo pezzo di terra esasperante, e anche tra me e alcuni dei modi tradizionali di considerare la natura qui in America; mi rendo conto che passo un mucchio di tempo a litigare con Thoreau.