Storia Della Rivolta del 1856 in Sicilia Organizzata dal Barone Francesco Bentivegna In Mezzojuso e da Salvatore Spinuzza In Cefalù

Entrambi traditi, vennero arrestati e fucilati Altre 24 persone ebbero sentenza di morte

Dedicata alla Gioventù Italiana

ROMA Tipografia Econ. Commerciale Piazza Sforza Cesarini 41 A. 1899

Spiridione Franco – Storia della Rivolta del 1856 in Sicilia - Mezzojuso

Alla Gioventù Italiana,

A voi giovani, dedico questo umile mio lavoro, dal quale emerge una breve pagina delle nostre sofferenze per arrivare alla sospirata mèta, l'unità della patria. Onoratelo di un vostro sguardo, e da esso apprenderete che a voi incombe il dovere di reclamare le altre provincie tuttavia soggette allo straniero qualunque sia il sacrifizio che vi possa costare. Non dimenticale che il 12 Gennaio 1848 la gioventù siciliana fu la prima ad insorgere contro la tirannide, seguita poscia dal Piemonte e da Milano. Battuti a Novara: non cessammo per questo di congiurare contro l'aborrita dinastia Borbonica. Lo stalo d’assedio ci opprimeva, come una cappa di piombo, tuttavia ognuno voleva un'arma, e la portava costantemente, per quanto le carceri rigurgitassero, le isole adiacenti fossero tutte popolate di delinquenti politici, molti sfuggissero al capestro esulando e cento altri cadessero sotto il piombo nemico. Fra tanti martiri non va dimenticato Nicolò Garzilli studente di medicina, fucilato in nel gennaio 1850 con altri cinque compagni. Nel novembre 1856 insorse in Mezzojuso, mia patria il barone Francesco Bentivegna, mentre Salvatore Spinuzza sollevava Cefalù. Traditi, entrambi vennero fucilati, il Bentivegna in Mezzojuso il 21 dicembre 1856, e lo Spinuzza in Cefalù il 14 Marzo 1857. Non per questo la bandiera della rivolta non cessava un'istante di sventolare ovunque, finché nel 1860 colla venuta di Garibaldi e dei suoi mille eroi abbiamo vinto. È in onore del martire Francesco Bentivegna che io mi sono indotto a pubblicare queste pagine perché la gioventù impari da lui come si debba contenere in faccia ai tiranni, e come morire intrepidamente per la patria. Non è un libro d'arte che io offro, perché la rivoluzione interruppe i miei studii, né più mi permise di riprenderli, ma è un racconto genuino di tutto quanto ho visto coi miei occhi, essendo stato di tutti gli avvenimenti della mia patria testimonio, e parte. Leggetelo, studiatelo con amore, o giovani carissimi, questo racconto quanto sincero, altrettanto fedele, e così comprenderete quanto dobbiate gelosamente custodire l'unità della patria, che a noi è costata tanto sangue e tanti sagrifizii. L'Autore Spiridione Franco Veterano Siciliano Roma 20 Aprile 1899, Tritone 113

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FRANCESCO BENTIVEGNA ed i moti del 1856 di Mezzojuso (prov. di Palermo)

I

Percorrendo una via di Roma, fantasticando sulle memorie del passato, sulla decadenza del presente, su questa Roma sogno di tante generazioni, e di tanti Eroi, su questa Roma Alma Parens, dove la grandezza del suo nome s'infutura a traverso la gloria del mondo, mi venne fatto di posare gli occhi sopra un volumetto, che stava quasi nascosto fra un mucchio di tomi, e stampe antiche, su di un tavolo di rivenditori. Quel libro portava il titolo seguente: Francesco Bentivegna. Romanzo storico di Rocco Baldanza. Il nome glorioso del martire, e il ricordo dolcissimo dell'amico, e compagno di lotta, mi rinfiorì nella mente lo sfortunato episodio di Mezzojuso mia patria, di cui io fui testimone oculare, cosicché anzioso di costatare se la narrazione corrispondeva alla esattezza della storia di quei fatti, volli farne acquisto. Non nascondo ad onore dal vero, che trovai alcune pagine immaginarie, e molte inesattezze storiche, anzi essendo lo stile piuttosto chiaro e conciso - la narrazione presocchè esatta e scorrevole - quella lettura dico mi procurò delle vere emozioni e non poche lagrime ho versato al racconto della morte intrepida del valoroso martire della libertà, vittima del piombo Borbonico, la cui data gloriosa del 21 Dicembre 1856 in Mezzojuso è registrata nel martirologio Italiano a caratteri immortali. Fu appunto nel costatare qualche inesattezza dei fatti e la forma romanzesca alla narrazione, che mi venne in animo di scrivere anche alcune pagine, sul movimento rivoluzionario di Mezzojuso del 22 Novembre 1856, certo di appagare un desiderio se non espresso sentito dagli amici, non tralasciando di ricordare oltre al prode Bentivegna Salvatore Spinuzza moschettato in Cefalù il 14 Marzo 1857, e gli altri compagni di quel tentativo di Cefalù, i quali molti furono condannati alla pena di morte, che dopo per clemenza del Re tiranno ebbero commutata la pena a 18 anni di carcere duro nel bagno dell'Isola di Favignana. Chi avrà la benevolenza di seguirmi nel racconto sarà benigno verso di me, e se qualche volta si accorgerà che la forma mi avrà tradito ilpensiero, se anche tiene mente ch'io mi sono preoccupato di scrivere della storia esatta, e non un libro d'arte. Del resto non vi sarei di certo riuscito, perché la turbolenta mia gioventù dedita ai moti rivoluzionari del 1848 (di cui sono dietro a scrivere alcune note) mi fece per molto tempo allontanare degli studi

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regolari a me tanti cari. Premesso ciò mi consentirete ch'io vi trattenga anche del cav. Nicolò Dimarco, che nella nostra storia occupa il primo posto dopo la splendida figura del Barone Francesco Bentivegna. Prima però ch'io incominci a narrarvi nei suoi particolari la storia del tentativo rivoluzionario del Novembre 1856 mi permetterete ch'io a larghi tratti vi delinei la figura austera, e nobile, e gloriosa del martire Bentivegna, nonché quella del giovane ardimentoso Cavaliere Nicola Dimarco. Francesco Bentivegna, figlio di Giliberto, e della Marchesa Teresa De Cordova da Palermo, era nato in nel 1820, aveva fatto gli studi in Palermo, i suoi genitori lo tenevano presso di loro occupandolo nell'agenda dì campagna possedendo essi molte terre. Nel 1848, scoppiata la rivoluzione in Palermo il Francesco Bentivegna, ed il fratello Filippo valoroso tiratore di fucile formarono in Corleone una numerosa guerriglia di valorosi ed arditi giovani, si recarono in Palermo a combattere le milizie Borboniche: fu in quei tempo ch'io ebbi il piacere di conoscere ed apprezzare il valore dei fratelli Bentivegna. Quando si diede principio ad organizzare la milizia siciliana, il Francesco Bentivegna ebbe il grado di Maggiore. Aperto il Parlamento Siciliano nel giorno 25 marzo 1848, Francesco Bentivegna fu eletto rappresentante di Corleone, e fu tra i primi che nella seduta del 13 Aprile dello stesso anno che si decretò la decadenza dei Borboni del Regno della Sicilia. Nel 1849 quando, le truppe Borboniche comandate dal Generale Principe di Satriano vincitore di Messina e Catania, si erano avvicinati presso Palermo, il Francesco Bentivegna coi Colonnelli Giacinto e Francesco Ciaccio, di carissima rimembranza, sostennero varii attacchi nei Monti di Menzagno Belmonte, e nelle vicinanze di S.a Maria di Gesù pugnando con molto sangue freddo, dando prova di valore e coraggio. Firmata la capitolazione della resa di Palermo col Principe Satriano, ed i traditori della patria, che da molto tempo erano in segreta corrispondenza col Borbone, il povero mio amico Bentivegna, mentre le regie truppe entravano in Palermo dalla parte orientale, ne usciva dalla parte occidentale pigliando la via di , maturando sempre nel suo pensiero di giungere alfine di liberare la Sicilia del Borbonico giogo. Egli aveva congiurato pure con Nicolò Garzilli nel tentativo rivoluzionario nella sera del 27 Gennaio del 1850 nella piazza della Fieravecchia, oggi piazza della Rivoluzione, che il Garzilli pagò col proprio sangue quel movi- mento ardimentoso e non ancora maturo, è che il giorno 28 Gennaio venne moschettato nello stesso sito con altri cinque suoi compagni.1 II Bentivegna non cessava mai di congiurare, tanto è cosi vero che nel 1854 si univa spesso quasi ogni sera nella Farmacia di certo D. Carlo Romano in via Castro in Palermo, una sera la detta farmacia venne circondata da

1 Nella Fieravecchia trovasi un ricordo dei sei fucilati.

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numerosa forza, e nella dietro bottega venne trovato il Bentivegna con Luigi La Porta ed altri amici, i quali sotto buona scorta coi ferri ai polsi furono condotti nel carcere del Forte Castellammare languendo per molto tempo a pane ed acqua. Il Giudice della Corte Criminale di Palermo, certo Antonio Calabrò che era l'anima del Ministro di Polizia Maniscalco istruì un voluminoso processo contro gli arrestati, la difesa fece delle proteste, e per conflitto giuridico il processo fu rimandato alla Corte Criminale di Trapani. Nel mese di Maggio del 1856, questa Corte rimetteva tutti gli accusati in libertà, non vedendo bene assodata la loro colpabilità. Un elogio a quei Magistrati siciliani integerrimi dei tempi passati, i quali disprezzando le pressioni che loro venivano imposti dal Governo, emanarono una sentenza conforme alla legge e alla propria coscienza. Nicolò Dimarco figlio di Tommaso e di Caterina Battaglia, era nato in Mezzojuso nel 1832, possedeva ottima fortuna, fece gli studi prima nel Collegio Greco di Palermo, e proseguì nel Convitto S. Rocco. Di carattere vivace eloquente, simpatico nella persona, però volubile e leggiero, facile ad impressionarsi dalle cose buone o cattive; nel 1854 chiese ed ottenne di essere fatto Cav. d'onore, corpo che far dovevano la guardia al Re di Napoli quando veniva in Palermo. Il Dimarco aveva sposato la cugina Rosaria Aparo vedova di Filippo Bentivegna la quale possedeva una vasta fortuna. II Francesco Bentivegna uscendo dal carcere di Trapani aveva ricevuto ordine dal Maniscalco non potersi allontanare di Corleone sua patria; ma lui sebbene lontano da Palermo era in segreta corrispondenza col Comitato rivoluzionario di Palermo, presieduto dal Conte Federico, i di cui membri erano Salvatore Cappello, Dottor Onofrio Dibenedetto, Pietro Tordù, Dottor Gaetano La Loggia ed altri. Nei primi giorni di Novembre del 1856 il mio amico Bentivegna riceveva lettera da Palermo, che la sua persona era desiderata colà per affari di negozio; appena questa ricevuta, la notte stessa prese la via per Palermo, e come giunse subito si abboccò cogli amici del Comitato dal quale venne informato, che si erano presi gli accordi coi fratelli di Napoli, e si era stabilito di dare principio alia rivolta nel medesimo tempo incominciando con uccidere Ferdinando II. 2 Bentivegna pazzo della gioia ri- spose che noi ci prepariamo, per essere pronti alla lotta, gli amici del Comitato risposero per questo vi abbiamo fatto chiamare e venire in questa. Ritornate nel vostro paese presto pria che Maniscalco conosce la vostra assenza, e preparate i vostri numerosi amici. No rispose il Bemivegna, prima è necessita che mi rechi a Cefalù a preparare gli amici di quella patriottica Città. La mattina seguente il mio amico di buon mattino uscì dalla casa della cognata divenuta moglie di Nicolò Dimarco, e si portò prima in , parlò con Francesco Gandolfo, uomo di molto coraggio, poscia in Termini Imeresi, si abboccò col Dottor Agostino Quattrocchi, partendo da ultimo per Cefalù, ove giunto si portò nella casa del caldo patriotta Salvatore Spinuzza,

2 L'attentato venne compiuto da Agesilao Milano.

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ebbe pure abboccamento coi fratelli Nicolò e Carlo Botta, anche coi cugini Salvatore ed Alessandro Guarnira, Andrea Maggio, e Cesare Civeddu. Mentre Bentivegna faceva questo giro di propaganda il sotto Intendente di Corleone, aveva saputo la di lui assenza da Corleone, e ne aveva subito avvertito il Maniscalco Direttore di Polizia, il quale insospettito di ciò aveva ordinato ai suoi subordinati di scovarlo ed arrestarlo, promettendo un premio. Il Bentivegna ritornato da Cefalù, a Palermo era rientrato nella casa della cognata moglie di Nicolò Dimarco in Via Linchol, un giorno il Dimarco nel corso fu avvicinato da certo Gennaro Scarlata, figlio di Gaetano Ispettore di Polizia, e gli disse: «Nicola ti avverto una cosa in stretta confidenza, la Polizia cerca Bentivegna e sospetta di essere in casa tua» Dimarco rispose ti ringrazio di tutto cuore che dai prova della nostra amicizia, poi ti assicuro di non essere ciò vero, la Polizia può venire quando vuole, in casa mia non trova Bsntivegna. Il Dimarco divisosi dallo Scarlata, si portò subito in sua casa ed informò il Bentivegna di quanto quegli gli aveva riferito, pensarono di prendere delie precauzioni e all'occorrenza fuggire dalla parte del giardino. Passò in tal modo il giorno sull'attenti, e col timore che la casa venisse circondata dalla Polizia e perquisita. La notte, dopo il tocco Dimarco fece attaccare i cavalli alla carrozza e col Bentivegna partirono per Mezzojuso. Verso l'alba di quel giorno 13 Novembre, il Dimarco lasciava il Bentivegna nel suo giardino detto Deputazione, un miglio sotto il paese ed egli rientrava nella propria casa di Mezzojuso sita nella piazza. Appena giuntovi, fece chiamare lo zio Francesco Romano e lo mise a giorno del motivo della sua venuta. Entrambi decisero di allontanare da quel sito il Bentivegna, perché e locale assai frequentato dalle persone e condurlo invece nel casamento di Ortobarone silo meno frequentato, anche di proprietà del Dimarco. Difatti venne stabilito, che Romano dovesse trovare una persona fidata per rilevare il Bentivegna, e Dimarco preparare il vitto necessario. Il Romano si portò in casa del suo compadre maestro Antonino Bonanno, uomo di molta astuzia, che volentieri accettò l'incarico ricevuto il quale prese le provviste preparate in casa Dimarco, e postele sopra una mula andò a rilevare il Bentivegna conducendolo nel casamento Orto Barone; ma questi vedendosi isolato in quel sito ed incapace di potere agire, pregò il Dimarco di essere condotto in Mezzojuso, ove giunse la sera del 14 Novembre. La sera appresso del giorno 15, Dimarco attendeva lo scrivente ricercato pure dalla Polizìa, nella propria casa, giuntovi venne presentato al Bentivegna che stava in compagnia di Antonino Gugino, e Francesco Romano, e dopo scambiati i complimenti d'uso il Bentivegna prese la parola in questi termini: «Miei cari e vecchi amici vi ho fatto chiamare e venire da me per farvi conoscere i lavori che si preparano in Palermo dal comitato rivoluzionario per la prossima rivolta siamo pure d'accordo coi fratelli Napolitani, e dobbiamo insorgere nello stesso lempo uccidendo il tiranno di Ferdinando II». II Comitato ha preparato, e prepara i mezzi necessari, armi, munizioni, e

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denaro. Sono stato incaricato di raccogliere un buon numero di persone, ed essere pronti quando si darà principio alla lotta, sono stato in Bagheria, , e Cefalù, tutti mi hanno promesso di essere pronti ad insorgere quando si darà principio alla lotta, voi pure uomini di cuori ed ardenti patriotti sarete meco quando si darà principio alla desiderata lotta. Tutti i presenti fecero un segno affermativo, meno lo scrivente che se ne uscì con una risata sardonica. «Nicolò Dimarco crucciato per quella risata rispose» mi reca molta meraviglia di te caro Spiridione, che pel primo avresti dovuto applaudire il Barone Bentivegna anziché, metterlo in burla colla tua risata. Tu ben lo sai che noi siamo due proprietari, e possediamo molto più di te ci giochiamo la vita e le sostanze; non abbiamo processo sulle spalle, tu invece di animarci mi sembra che ci scoraggi? Alchè io risposi «Caro Nicola ammiro il tuo ardimento di volerti giocare la vita e le sostanze; ma non bisogna dare uno schiaffo per perdere dopo il braccio e anco la vita, la mia risata fu cagionata quando il Barone disse che tutto si prepara in Palermo, armi, munizioni, e denaro; allora mi venne in mente i proclami che si stampavano in Palermo in Dicembre 1847 in essi si diceva insorgete il giorno 12 Gennaio 1848 che troverete armi e munizioni per sostenere la lotta. Venuto quel giorno fatale nulla si trovò preparato, si bisognò trovare le armi di casa in casa, però se allora vincemmo lo si deve l'aver di fronte cattivi soldati, e vecchi ufficiali. Insorgendo adesso dobbiamo affrontare due reggimenti Svizzeri di vecchi e valorosi soldati Ciò che adesso dico a voi miei cari amici lo dissi il 21 Gennaio 1850 al mio compagno della Spedizione di del 1848, al compianto Nicolò Garzilli, lo pregai di attendere altro tempo più opportuno! Ma egli giovane ardito volle cimentarsi e ne rimase vittima. Ritornato in Mezzojuso mi abboccai coll'amico Romano qui presente ed altri amici per correre in aiuto della prossima rivolta; la mattina del 27 Gennaio con Santo Romano, montammo a cavallo e siamo andati nel feudo Stallone per sentire se il rombo del cannone giungesse a noi da Palermo. Tutto era tranquillo anche il cielo azzurro senza una nuvola, verso Mezzogiorno comparvero i nostri carrettieri che facevano ritorno da Palermo avvicinammo ad uno di essi, Antonino Barna, ed alla nostra domanda che si dice in Palermo, egli rispose, iersera alcuni giovani attaccarono il fuoco alla Fieravecchia, ma furono circondati dalla forza, e molti furono arrestati. Anzi stamane pria che noi fossimo partiti, si diceva che sei di essi sarebbero stati fucilati in giornata! Allora rientrammo in casa col cuore sanguinante, e l'indomani abbiamo appreso la brutta notizia del povero Nicolò Garzilli ed altri cinque compagni. Il presente Francesco Romano certo lo deve rammentare, «e lui rispose» altro se lo rammento. Miei cari amici, bisogna ponderare bene le difficoltà cui noi certo anderemo ad incontrare, e che noi dobbiamo insorgere dopo che principia Palermo. Se poi miei cari amici credete, che il mio discorso sia spinto di timore o di vigliaccheria, sono pronto a sacrificarmi con voi. Però vi prometto o morto sulla lotta o libero in America, giacché giurai nel Bagno di Nisita non entrare più nel carcere del Borbone, mentre se vi fui allora, mi presero nel mare

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senza difesa. 3 II Dimarco mi rispose, noi qui tutti presenti non potevamo dubitare di te, che hai dato sempre prova di coraggio e di patriottismo; senti cosa ti prego di fare, dimane pria che facesse giorno vieni dalla porta di sopra darai due colpi marcati al battente del por ione, e così ti porterai teco il Barone Bentivegna, e lo condurrai nel mio casamento del Bosco Lacca, che dopo verremo noi tutti, che siamo qui a raggiungervi. Sta bene gli ho risposto un'ora prima che farà giorno sarò in questa; prima che il Dimarco mi abbia congedato offrì a noi tutti un bicchiere di vecchio, ed ottimo Moscato fatto dalle sue vaste vigneti.

II

La mattina del giorno 16 un’ora prima di farsi giorno si bussava difatti al portone di casa Dimarco. Mi rispose il contadino Giuseppe Bonomo al servizio del Dimarco stesso, che dopo di avermi riconosciuto mi aprì la porta. Introdotto nel piano superiore sono entrato nella stanza ove dormiva il Bentivegna assieme al caldo patriotta Filippo Patorno da (che era giunto dopo la mia partenza dalla casa Dimarco) e poi dopo di avere abbracciato l'amico Patorno, mia vecchia conoscenza, sollecitai il Bentivegna a lasciare il letto. Il Patorno assicurava il Bentivegna di essere pronto ad insorgere appena si fosse dato principio alla riscossa. - Io vedendo il temporeggiamento del Bentivegna che non pensava a lasciare il letto, gli dissi: - Barone cercate di lasciare il letto, e fate presto, o altrimenti vado solo perché sta per farsi giorno, Dimarco, con Romano, che avevano inteso le mie minacce dalla seconda stanza, corsero e sollecitarono il Bentivegna a lasciare il letto. Romano diede a costui un cappotto di panno bleù col cappuccio per ripararsi dal freddo, 4 e coprirsi il viso, e così finalmente si uscì dalla vasta casa Dimarco, si prese la via Battagliaria S. Rocco, ma Bentivegna appena usciti nella strada si tolse il cappuccio e camminava a testa scoperta, e per quanto mi fossi adoperato, non fu possibile persuaderlo a coprirsi la testa, e così abbiamo passato il caseggiato. Quando si giunse alla via che porta alla Lacca era già fatto giorno, e stava per alzarsi il sole, si camminava come le formiche, le persone ci guardavano con certa curiosità mirando quella fisonomia novella non conosciuta, io stavo colla testa coperta, e voltava le spalle ai passanti, finalmente dopo due ore si giunse nel casamento Lacca. Quivi giunti abbiamo trovato il custode Luciano Burriesci, che ci attendeva, accese un bel fuoco. Trascorsi pochi minuti dal nostro arrivo, giunsero Francesco Romano, con Antonino Bonanno, il Romano sulla cavalla portava pane, vino, salciccie, il Bonanno sull'asina portava circa 40 chili di piombo, e polvere, e

3 La spedizione Siciliana aveva preso il mare per Corfù fu raggiunta dalla fregata Sfromboli e fatta prigioniera 11 Luglio 1848. 4 II bosco Lacca tiene 1000 inetri sul mare, e fa assai freddo.

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l'occorrente per formare le palle. - Mentre Bonanno si occupava a spezzare il piombo, io chiamai di fuori Romano, gli dissi: Vedete siamo giunti adesso il Bentivegna camminava a testa scoperta egli secondo me non è l'uomo di organizzare un vasto movimento rivoluzionario, tiene il cuore, la volontà, ma le manca l'energia la parola franca affascinante, pensiamo bene alle difficoltà che dobbiamo affrontare, per me sono di avviso di mandare il Bentivegna in Corleone sua patria, così essere pronti ad insorgere quando Palermo darà principio alla lotta « voi iersera mi dovevate appoggiare, ed invece siete rimasto silenzioso». II Romano rispose: «Non parlai innanzi a tutti, ma però quando eravamo soli con mio nepote Dimarco gli dissi che tu avevi ragione di mettere innanzi tutte le difficoltà che dobbiamo affrontare, perché Bentivegna è molto facilista, e sogna sempre la rivolta e la caduta del Borbone. Giungeva poscia tra noi il Cav. Dimarco, che inforcava un bel cavallo baio, accompagnato da Antonino Gugino uomo di alta maffia, assieme al cognato Nicolò Mamola, quest'ultimi montanti due mediocre giumente, di li a poco si preparò la colazione composta di salciccie, caciocavallo, olive ed ottimo vino delle cantine Dimarco. Terminata la colazione, ci posimo al lavoro per costruire le palle, e dopo di averne fatte un buon numero, si tirarono alcuni colpi al bersaglio, quindi si diede principio a formare le cartuccie. Verso le tre pomeridiane ci mettemmo a tavola facendo onore alla buona pasta asciutta, delle salciccie, olive e buon vino. Bentivegna pregava il Gugino di portarsi la dimane in a trovare colà Luigi La Porta e condurlo da noi, il quale son certo, che appena sentirà il mio nome non tarderà a venire subito fra noi, il Gugino rispose di eseguire volentieri l'incarico ricevuto. Bentivegna proseguì col dire: «Adesso bisogna trovare una persona adatta all'incarico per spedirlo in Cefalù, e mentre ciò riferiva i cani avvisarono un nuovo venuto certo Mariano Mazzarese domiciliato nella vicina borgata di , ricercato dalla forza pubblica, perché spesso soleva appropriarsi dei beni altrui il quale nell'avvicinarsi alla casa, Romano «dissi al Bentivegna il fratello di costui che viene è uomo adatto per mandarlo in Cefalù, egli ha coraggio ed astuzia, si offrì al Mazzarese un pò del vitto, e mentre mangiava, il Romano gli disse Mariano, bisogna che ti porti questa sera in tua casa e conduci qui tuo fratello Giuseppe alchè tosto annuì il Mazzarese» Venuta la sera di quel giorno 16, Dimarco, Romano, Gugino, Bonanno, scesero in Mezzojuso Mazzarese partì per la sua casa a chiamare il fratello Giuseppe. Bentivegna, io ed il custode del bosco Burriesci, siamo rimasti nel casamento; Bentivegna raccontava a noi due minutamente quello, che in diversi paesi aveva fatto, per preparare gli amici alla prossima rivolta, son sicuro, egli diceva che questa volta vinceremo, (operibus crediti) io le risposi. Barone ditemi una cosa, in Sciacca esiste una vasta famiglia Bentivegna, che siete forse nel ramo di parentela; egli mi rispose di essere parente, e buoni amici, io soggiunsi nel caso che noi non possiamo vincere ed abbiamo la peggio, possono loro procurarci una barca e condurci in Malta, e così celiando ci sorprese il sonno sdraiandoci sopra un mucchio di erbe secche. La dimane giorno 17 i primi a giungere furono i fratelli Mazzarese

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Giuseppe e Mariano, dopo Antonino Bonanno, Dimarco, Francesco Romano che portò seco il fratello Santo, si riprese il lavoro delle cartuccie, Bentivegna pregò il Mazzarese Giuseppe di portarsi in Cefalù a parlare con Salvatore Spinuzza dicendogli a voce quanto a costui riferire doveva. Il Dimarco gli diede due piastre per le spese del viaggio e subito andò via il Mazzarese. Partito il messo giungevano fra noi Luigi La Porta e Gugino, poscia vennero Davide Figlia con Rosario Ribaudo. Bentivegna raccontò ai novelli giunti i preparativi che si sono fatti, e si fanno del Comitato rivoluzionario di Palermo che siamo pure d'accordo col fratelli Napolitani, e coi nostri amici emigrati, il Marchese Pilo, e Crispi promettono di venire subito in nostro aiuto con buon numero di giovani sollecitava La Porta di preparare i suoi amici per essere pronti alla prossima, lotta. La Porta promise che appena fosse giunto in Ciminna dava principio a reclutare le persone per la prossima lotta; dopo di avere tutti mangiato, La Porta fece ritorno nella sua Ciminna accompagnato dallo stesso Gugino, gli altri al solito venuta la sera fecero ritorno in paese. La notte seguente la compagnia riuscì più animata, perché vi era Mariano Mazzarese, e Santo Romano, usciti con questi al di fuori della casa, ci scambiammo le nostre idee, «entrambi eravamo convinti di fare un gran fiasco, e prepararci se non la morte certo la galera» - Santo rispose - sono qui per contentare mio fratello Francesco contro la mia «volontà - ed io di rimando - senti cosa «dobbiamo fare, dimane come viene tuo fratello Francesco, lo pregheremo di persuadere suo nepote Dimarco, onde questi fare allontanare Bentivegna ed andarsene a Corleone, paese più grande e principiare colà il movimento, in tal modo risparmieremo il nostro paese dalla ferocia della soldatesca borbonica. «La mattina seguente giunse fra noi certo Domenico d'Amico naturale dei sette Cannoli piccola borgata di Palermo, persona fidata del Bentivegna, il quale le chiese se portava i proclami stampati, che un membro del Comitato gli avrebbe dovuto consegnare; II d' Amico rispose, sono andato a trovare la nota persona, mi disse di non essere pronti perché si dovevano ancora stampare. Bentivegna soggiunse Domenico, dopo che ti sei riposato, ed hai mangiato cerca di partire per prendere i proclami, e non tornar qui senza di essi. — Non dubiti su ciò Signor Barone quegli rispose — Dopo di avere ben mangiato e bevuto in abbondanza, il Domenico d'Amico partì per la sua casa, per non più ritornare. Giunto in quella borgata, la sera si recò con alcuni suoi amici a fare una bicchierata, e in tale circostanza si lasciò inconsideratamente sfuggire qualche frase, contro le persone che allora facevano la spia al Direttore di Polizia Maniscalco, che in quel tempo erano assai numerosi (venuto il 60 sparirono). La mattina seguente uscì dalla propria casa per portarsi in Palermo, allorquando uscendo appena fuori l'abitato un colpo di fucile tirato di dietro una siepe lo rese all'istante codavere! Tale fucilata fu vibrata contro il povero d'Amico da persona che spesso si portava dal Maniscalco, e cioè da uno componente la famiglia Lupo; il quale venuto il 60 questo Lupo vedendosi mal sicuro in Palermo che già era

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stato conosciuto come spia, andò a rifugiarsi in Messina, dove venne scoperto e posto nel carcere di quella città. Io lo vidi nell'agosto di quell’anno allorché vi montai di guardia colla mia compagnia che comandava prima della nostra partenza per Capua. I! giorno dopo mentre noi eravamo occupati al nostro lavoro delle cartuccie giungevano fra noi partiti da Palermo Stefano Bentivegna fratello al Francesco, e Emanuele Cammarata. Dimarco domandò loro quale notizie recassero di quella città - cattive rispose lo Stefano per voialtri. Ebbi confidato ier sera che il Capitano Chinnici preparava un buon numero di forza per venire contro di voi stessi, sorprendervi ed arrestarvi; ecco il motivo per cui siamo venuti ad avvisarvelo; lasciate subito questa casa ed andiamo via tutti. Il fratello allora gli chiese se aveva veduto il Domenico d'Amico, ed egli rispose, che mentre passava di quella borgata intese dire di essere stato ucciso con una fucilata, perché la sera avanti aveva bevuto molto e si lasciò sfuggire qualche frase di minacce contro coloro che fanno la spia al Maniscalco. La triste notizia amareggiò tutti e si ritenne come un cattivo augurio secondo gli antichi!

Raccolte le cartucce, e postele dentro due canestre si nascosero dentro una grotta che sta nel bosco Lacca, indi ci siamo divisi in varii gruppi sparpagliati nelle adiacente colline che sovrastano il bosco stesso. Nel mio gruppo vi erano Dimarco, Francesco e Santo Romano, ed io avendoli interpellati in ordine alla notizia recataci da Stefano Bentivegna, riposero di non essere ciò vero quanto aveva egli detto, aggiungendo di essere sempre un giovane esaltato. Allora le manifestai la mia opinione di cercare il mezzo di fare partire per Corleone i due fratelli Bentivegna, e di colà dare principio, quando sarà venuto il tempo del movimento, e noi dopo subito lo raggiungeremo. Dimarco che aveva già incominciato a conoscere le difficoltà dell'impresa, e le spese che faceva giornaliere per tutti, aderì volentieri. Quelli i quali erano rimasti nella casa per custodire il cavallo del Dimarco, e preparare il pranzo, ci avvisarono che questo era già pronto e così scendemmo dalle nostre posizioni per mangiare, per nostra cautela abbiamo lasciato due persone di guardia sulla collina, e darci l'avviso al bisogno. Verso le ore due pomeridiane giunsero i dottori in medicina Giuseppe Bellone, col di lui amico e compagno di studii Giuseppe Brancato da Ventimiglia Sicilia detta Calamigna, il quale promise di essere pronto a seguirci quando si sarebbe dato principio alla rivolta. 5 Dopo che ebbero Bellone e Brancato ripartiti, Dimarco, e Francesco Romano proposero al Bentivegna di recarsi l'indomani a Corleone, ed eseguire colà i suoi lavori di preparazione, al che Bentivegna volentieri aderì. Il giorno 20 Gaspare Corrao giungeva fra noi con tre muli per trasportare in Corleone i fratelli Bentivegna, con Mariano Mazzarese, i quali dopo di avere mangiato bene, si posero alla via onde arrivare di sera senza

5 quando siamo giunti in Ventimiglia si nascose.

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essere osservati in Corleone. Infatti vi giunsero, e si portarono subito da un vecchio amico e confidente certo Nicolò lannazzo, che si spaventò alla vista di essi, perché il Francesco era ricercatissimo dalla forza pubblica. L'amico fece loro intendere di non essere loro sicuri nella sua casa, avvegnacchè questa era stata visitata più volte dalla forza pubblica, e che era quindi mestieri presto allontanarsi da essa casa. Quindi i prevenuti persuasi dalle ragioni addotte dall'amico pria di farsi giorno abbandonarono Corleone per fare ritorno fra noi nel bosco Lacca. Strada fadendo il Bentivegna Francesco istruiva il vetturino Corrao, ed il Mazzarese del linguaggio che loro dovevano tenere allorquando fossero giunti alla Lacca, (come ha fatto il nostro Governo coi prigionieri che ritornarono dall'Africa!) Una persona che stava per guardia presso il casamento avvertì la venuta dei fratelli Bentivegna, Dimarco corse loro all'incontro e dare loro il benvenuto col dire al Barone: Siete ritornati nell'ora del pranzo non vi aspettavamo così presto; avete certo fatto cose buone «e lui di rimando» ho parlato con molti amici, che sono pronti a seguirci appena si darà principio alla lotta. Io però non persuaso dalle parole del Bentivegna, mi abbandonai alle seguenti riflessioni «loro giunsero di sera in Corleone, e quindi non poterono recarsi a trovare i loro amici, e fare il giro delle case loro, sembrami più facile essere stati male accolti colà, per decidersi a fare presto ritorno fra noi. Ho chiamato perciò da parte il Mazzarese, .che sulle prime non voleva confessare la verità, ma dopo stretto dal mio ragionamento, finì col raccontare la verità la cattiva accoglienza ricevuta dall'amico, che in ogni momento faceva vedere la sua casa essere circondata dalla forza, e quindi tutti catturati. Anche Francesco Romano chiamò a se il vetturino Gaspare Corrao, suo stretto confidente, che confermò quanto aveva detto Mazzarese prima a me, il Romano informò pure il Dimarco quanto aveva inteso dal Corrao. «Che cosa allora noi dovevamo fare? rimproverare il Bentivegna per averci occultata la verità, caricarlo di villanie, e lasciarlo solo come un vero matto in balìa del suo destino? Ma la bontà di quell'uomo così buono e generoso, che ciò lo faceva per la sua ardente passione di patriottismo, non abbiamo avuto il coraggio di offenderlo, anzi ci siamo volentieri uniti al suo sacrificio, giocandoci la vita, o la galera. Fallito il primo piano di allontanare il Bentivegna io ne maturava un'altro, quello di mandare il Cav. Dimarco in Palermo, onde abboccarsi coi membri del comitato, prima per sentire da essi se il Bentivegna, era d'accordo con loro, secondo di conoscere l'epoca del movimento». Per un caso fortuito non ho potuto mandarlo ad effetto e ci spinse a dare principio alla rivolta ancora non matura. La mattina del 22 Novembre giungevano fra noi da Ciminna sei persone armate spedite da Luigi La Porta comandate da Maestro Calogero Gattuso (adesso divenuto cieco). Più tardi arrivò pure proveniente da Cefalù il messo Giuseppe Mazzarese, il quale rivoltosi al Bentivegna gli disse: Signor Barone, Spinuzza, ed altri amici lo rispettano? Anzi costui mi assicurò, che

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appena conosceranno di avere ella Signor Barone dato principio alla rivolta, essi subito insorgeranno alla loro volta con buon numero di persone già preparate 6 Bene al messo Giuseppe Mazzarese, rispose Bentivegna e Dimarco. Lieto il Bentivgna del messaggio ricevuto dagli amici di Cefalù, cercava una persona da spedirle in Termini Imerese; mancava perciò il Messo adattato, allorché si fece avanti un giovane ventenne certo Giovanni Dina naturale della borgata di Campo Felice di Fitalia, che rivolto al Bentivegna, disse: Se vuole anderò io in Termini Imerese, tengo in mia casa un buon cavallo; mi dica cosa dovrò fare. Ed egli rispose: Porterai una lettera al medico Agostino Quattrocchi. Ricevuta difatti la lettera il Dina partì per la sua inconbenza, ed eseguì bene l'incarico ricevuto. Lo stesso giorno 22 dopo di avere pranzato, io con Francesco Romano dovevamo parlare al Cav. Dimarco, onde persuaderlo a portarsi in Palermo; un cattivo genio venne a turbare i nostri piani, e precipitare il non maturo movimento. Un tal Giovanni Cuccia nostro compaesano compagno d'armi, 7 della sezione di Corleone, recò la notizia, che in questa giornata passar dovevano dalla sottostante Pianotta di Vicaria, otto compagni d'armi scortanti onze 12 mila, pari a lire Italiane 150000 pernottando dopo nel Fondaco grande di Villafrate; e che catturando queste guardie si sarebbe fatto un grosso bottino per le spese della guerra; una persona rivolta al Cuccia gli chiese, se egli sarebbe stato nel numero di cattuvare le guardie suoi compagni, ed egli, sicuro che vengo, certo vi sarà anche la mia parte. Il Dimarco tutto lieto pensava, che colla sopraddetta somma si sarebbe prima dovuto compensare le spese fatte per il vitto giornaliero somministrato e del resto formare una cassa militare; senza per altro prevenire le funeste conseguenze che avrebbe arrecato la preda di tanto danaro, che sarebbe certo stato diviso fra loro e dopo la preda abbandonarci prima la nebbia venuta nel feudo Marosa. Dimarco che era un giovane entusiasta, ma senza esperienza delle masse popolari, rivolto al Bentivegna disse: Barone, quanto tempo ancora manca per il giorno convenuto alla rivolta? e lui rispose.- Altri pochi giorni. Allora se credete possiamo incominciare subito, riprese a dire Dimarco. Si principiamo pure soggiunse il Bentivegna, ed approfittiamo della somma, che sta per cadere nelle nostre mani. Mariano Mazzarese, onde avere al suo fianco persone fidate proggettó di dare principio dalla vicina borgata di Fitalia, e prendere i fucili che colà esistevano, stante che avrebbero colà trovato le sole donne nelle loro case, gli uomini essendo tutti occupati nei lavori campestri per la semina del grano. Partirono infatti con Mazzarese, Stefano Bentivegna, Emmanuele Cammarata, Pietro Sampieri, 8 Michelangelo Borone, Francesco Paolo Mamola, ed altre persone, in tutto erano 20 guidati dal Mazzarese. La via che porta al casamento del bosco Lacca in quei giorni era

6 I quali ottennero la promessa. 7 Erano le guardie di polizia che custodivano le campagne. 8 Uno dei fucilati del 14 Aprile 1860, dei 13 martiri così detti.

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divenuta un continuo pellegrinaggio, le persone a flotte salivano e scendevano; pane, vino, formaggio, olivi e salsiccie, non vi facevano difetto. Certo don Antonio Battaglia, incaricato dal Dimarco si occupava delle spese giornaliere, e le spediva con un servo muto. Nessuno ne diede avviso al Maniscalco quantunque esistevano alcune spie segrete stipendiate dal governo nel paese. Alcuni dei nostri furono incaricati di scendere in Mezzojuso, onde avvisare i loro amici, e parenti per essere la sera pronti ad unirsi con noi, venne stabilito per punto di riunione il Fondaco di Tavolacci all'uscita dei paese. Verso l’ave Maria giunsero quelli di Fitalia accompagnati da una dirotta pioggia, col rinforzo di altre 20 persone, fra questi vi giunse pure il noto Mazzarese Giuseppe tutti uomini bravi, e valorosi non solo di portar via il denaro scortato dalle guardie; ma anche tutto quello che possedeva Ferdinando secondo al banco di Londra. La pioggia intanto continuava a cadere, ed il buio era assai denso; ma tuttavia non si potè arrestare la nostra marcia divenuta necessaria dopo i fucili presi in quella borgata e per non perdere il tesoro promesso di Giovanni Cuccia. Questi cede la sua cavalla al Barone Bentivegna, il Dimarco salì sopra il suo bel cavallo di battaglia, Francesco Romano, e Gugino inforcarono le loro giumente, in tal modo si diede principio alla scesa per Mezzojuso: Stefano Bentivegna, Emanuele Cammarata, Davide Figlia, ed io percorrevamo la strada a piedi, però, col fitto buio colla pioggia or cadeva uno, poscia un altro animandoci scambievolmente, che al sorgere del sole ci fossimo asciugati ed anche riposati. Ma quale ostacolo sarebbe stato capace ad arrestare la marcia di quella balda gioventù desiderosa di cominciare la lotta contro il tiranno Sovrano di Ferdinando II, però bisogna confessarlo molti compagni che ci seguirono avevano loro altro ideale, cioè il procaccio, che dovevasi trovare nel fondaco di Villafrate! Giunti in Mezzojuso non si pensò affatto ad asciuttarci l’unico obiettivo di tutti era il Fondaco di Villafrate ove stava conservato il tesoro Provinciale che si portava in Palermo. Alcuni si portarono nel carcere liberando quelli che stavano dentro rinchiusi. Quattro dei detenuti ci seguirono, e cioè Salvatore Anzalone, Vito Lobue di Villafrate, Calogero Giuffrida da Corleone, ed un altro di Marsala, che stava in quella prigione, perché esercitava il mestiere di negoziante d'animali, ma senza impiegare nessuna somma di danaro di propria sacca, il quale adesso non mi rammento il suo nome ma penso bene che teneva un solo braccio.

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III

Senza portarmi nella mia casa a disturbare la quiete dei miei genitori, che certo mia madre mi obbligava ad asciugarmi, coi sei Ciminniti ci siamo recati nel sito della riunione cioè il fondaco di Tavolacci per attendere i nostri compagni; fra i primi giunse Rosario Ribaudo con Andrea Perniciaro e Matteo Raimondo ed altri, dopo giunse Antonino Gugino, col cognato Andrea Mamola che ben rammento sulla propria mula portava due lunghe bisacce, per mettere dentro le cassette piene di denaro di Villafrate. Poco dopo giunsero i fratelli Bentivegna, col Cav. Dimarco, Francesco e Santo Romano, dottor Giuseppe e Giacomo Bellone, molte, altre persone, e quelli chiamati da Mazzarese in Fitalia, in tutto circa 140 persone. Allora si diede l'ordine della partenza, mancava il solo Davide Figlia, il quale era rimasto in casa trattenuto dai suoi parenti perché bagnato, e soffriva di dolori reumatici. La pioggia intanto continuava sempre a cadere, e quantunque vi fosse buio fitto pur tuttavia non c'impediva di camminare nello stradale, giunti sopra il Molino, vedemmo luccicare un lume, si fece alto si credette essere la forza pubblica spedita contro di noi. Alcuni dei nostri giovani vaiolosi compagni, s'avviarono verso il lume stesso e raggiuntolo gridarono: Avvicinatevi che è il Mugnaio. Rammento fra i primi a correre verso il lume furono Michelangelo Barone, Vittoriano Guarnaccia, e Biaggio Bonanno vivente. Di fatti avanzammo e poscia siamo entrati nel fondaco della deputazione, allora dal Dimarco per attendere che cessasse la pioggia e formare il piano di guerra per l’assalto al Fondaco di Villafrate. In esso s'intavolò una lunga discussione assai animata, Ribaudo contradiceva spesso ciò che Gugino diceva e poco mancò di venire alle mani tra quegli uomini feroci. Allora io intervenni dicendo; Sapete cosa si deve fare, per avvertire molti paesi che Palermo è in rivolta mandare alcuni dei nostri nella casa daziaria detta la Catena, (che allora si pagava per il transito delle vetture) e allorquando passeranno questa notte le due vetture postali, una che si porta a Caltanissetta, Girgenti, l'altra Catania, Messina catturarle e trattenerle e così non vedendo giungere la posta si accerteranno che Palermo è in rivolta, tutti approvarono il mio piano essere un'ottima pensata. Dimarco allora mi disse: Giacché hai fatto il piano bisogna che tu lo metti in esecuzione, prendi pure le persone che ti occorrono, e parti. Io risposi di non potere accettare l'incarico ricevuto non avendo la vettura, ed essendo tutto bagnato, piuttosto replicai, per quest'affare può essere più utile Gugino, e poi lui tiene la cavalla, che vada quindi Gugino il quale rispose essere pronto a partire, purché venga meco il Franco. Allora si fece avanti mio compare Giacomo Bellone, che si offrì condurli i col proprio cavallo alla Catena. Sembra che tutto sia stato accomodato rispose Nicolò Dimarco, potete perciò partire, e mentre si discuteva chi dovesse dirigere quell'operazione già circa dieci dei nostri compagni erano partiti, e giunsero prima di noi alla Catena. Usciti dalla deputazione io, Gugino, il cognato Mamola e Bellone prendemmo la via stessa percorsa dei primi partiti, per raggiungerli. Ma quelli appena arrivati alla Catena presero il danaro che stava nella cassetta (circa 45 lire) e se le divisero fra loro da buoni amici.

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Sopraggiunti noi e riconosciuti da essi ci venne aperta la porta Gugino entrò la sua cavalla nella piccola casetta, mentre le due cavalcature di Mamola e Bellone rimasero fuori; Gugino interrogò il Catinari se fosse quel giorno passato il Procaccio Provinciale Governativo, n'ebbe risposta negativa, tanto che Bellone e Mamola dolendosi di non potere mettere dentro le vetture con quel tempaccio, tornarono sulla via già fatta, recandosi nel Fondaco della Deputazione. Giuntovi il Bellone Giacomo chiamò a sé il fratello Dottor Giuseppe e lo persuase di condurlo seco nella propria casa ed attendere gli eventi. Anche il Mamola fece loro compagnia ritornando in casa colle bisaccie vuote. Per mezzo del giovane Gaspare Dioguardi mia vecchia conoscenza, che abitava col Catiniere ho appreso del denaro involato della cassetta dai primi nostri compagni colà giunti nella Catena. Quindi li pregai che il denaro non essendo del Governo, ma di persone particolari dei signori Lo Vetere, e Di Bartolo appaltatori, si dovesse restituire, e giacché in caso diverso si spargerebbe l'indomani la voce che noi rubbiamo le persone, e così nessuno degli onesti ci seguirebbe. Animo quindi miei buoni amici mettete fuori ognuno la vostra porzione ricevuta; alchè a mala voglia il danaro venne restituito mancante di poche lire. 9 II Cateniere possedeva un po' di pasta, l'ho pregato di farla cuocere, ed egli subito ordinò al garzone di accendere il fuoco, cotta che fu è stata da noi divorata. Dopo ho istruiti i miei compagni sul modo come facevano le guardie che scortavano le vetture postali quando giungevano alla barriera per fare abbassare la catena e lasciare libero il passo alle vetture; Dopo un poco di parlare fra noi, io con Gugino colla testa appoggiata sul pagliericcio del garzone Dioguardi eravamo addormentati, allorquando siamo stati svegliati da alcuni colpi di fucile, e dalle grida di Anzalone Salvatore che dirigeva alle due guardie che fuggivano, siete fuggiti, ma verrò a trovarvi. Io con Gugino abbiamo rimproverato i nostri compagni, perché loro non avevano bene eseguiti i nostri ordini; dovevate attendere, che loro scendessero da cavallo e venissero a bussare alla porta allora era facile catturarli, come già vi aveva detto. Le due guardie che stavano dinanzi alle vetture vedendo uscire dal casello della Catena persone armate, ritornarono indietro colle vetture postali e si recarono a racchiudersi nel Fondaco Grande di Villafrate ove stava il proprio rilievo dei cavalli postali. Il mio piano era così quasi in parte riuscito perché quel giorno la posta non giunse al suo destino. Di accordo con Gugino si stabilì di fare ritorno presso i nostri compagni nel Fondaco della Deputazione. Col fitto buio abbiamo preso la via Pizzi, contrada Bonito, e giungemmo presso i nostri; ai quali narrammo loro il nostro operato, da tutti si decise di marciare ed attendere le vetture nel Fondaco di S. Lorenzo ove passar dovevano le vetture, che dista dal rilievo un chilometro. Partiti dopo quasi un’ora di marcia siamo entrati nel Fondaco di San Lorenzo. Le due guardie, Fedele Orlando, ed Antonino Licata, dopo di avere

9 ciò può accertarlo il vivente Biagio Bonanno Tanella.

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lasciate le loro cavalcature nel rilievo, si recarono dal Capo Urbano di Villafrate chiedendogli rinforzo. Questo Capo Urbano certo Don Vincenzo Santomauro uomo assai popolare nel paese, lascia subito il letto e portandosi egli stesso di casa in casa degli Urbani 10 ne potè raccogliere circa venti, i quali scesero nel fondaco fecero partire le due vetture, e postosi alla testa assieme delle due guardie ripresero il cammino per S. Lorenzo; i nostri, avvertiti dal rumore si posero sull'attenti, quando furono presso di noi siamo usciti dal Fondaco, furono circondati e disarmati assieme alle due guardie, che furono sbalzati da cavallo disarmati e percossi da Salvatore Anzalone, che voleva assolutamente sopprimere la guardia Licata per vendicarsi dalle battiture ricevute di Alicata quando era stato da costui arrestato, si durò fatica a persuadere Anzalone di non più molestare le guardie anche pel suo bene, nel caso che la rivolta non si riusciva egli avrebbe pagato colla mannaia la morte della guardia; ma egli ciò non comprendeva e seguitava a battere l'Alicata. Alla fine sdegnato dalla condotta di Anzalone che non accettava i buoni consigli, prese le guardie sotto la mia protezione umanitaria, e dissi ad Anzalone guai a te se ancora li molesterai: scortai d'altro canto le guardie per alcuni passi e così ebbero loro aggio di nascondersi in Villafrate. 11 Fra i due Corrieri Postali vi era uno della famiglia Riggio, che dopo venuto il 1860 in Palermo godeva la fama di liberale di Patriotta, per questo a me non reca meraviglia, che molti di coloro che fecero la spia al Governo passato fingendo di dimenticare il passato, come coloro della favola valicando il fiume Leto, questi tali sono divenuti Cavalieri, Commendatori, ed hanno occupato posti elevati! Il conduttore signor Riggio rivolse al Bentivegna queste parole: Signor Barone anch'io sono un liberale, perciò la prego di fare formare due bandiere Nazionali, e le prometto che con esse spiegate faremo la nostra strada; a tal fine però bisogna che lei ci faccia restituire i cavalli presi dalle vetture; Bentivegna prestò fede a quel lupo di liberatone ed i sei cavalli furono restituiti, ed attaccati alle vetture in attesa delle bandiere; Esse vetture rimasero senza scorta nel Fondaco S. Lorenzo. Bentivegna con tutti i nostri entrarono in Villafrate per la via dell'accorciatoio, io mi portai nel Fondaco grande ove stava il rilievo dei cavalli postali, mi ho fatto consegnare un cavallo con sella, quando stava per uscire dal Fondaco vidi passarmi d'innanzi le due vetture a tutta corsa dirigendosi verso Palermo, giunti raccontarono l'accaduto al loro capo, e poscia al Maniscalco. Il negoziante dei tessuti Francesco Brancato si prestò volentieri a formare la bandiera che venne consegnata a Francesco La Barbiera vivente ancora. Io mi sono occupato nella parte bassa del paese detto Casale a raccogliere i fucili, la prima la prese nella casa del ferraio Domenico Manfrè, la seconda a Salvadore Ré, che per salirvi stava una lunga scala costruita al

10 Gli urbani custodivano il paese. 11 I fratelli Romano si cooperarono meco.

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di fuori della porta, allora mi venne in pensiero di fare sentire la voce di Pietro Sampieri che stava meco, lo pregai di pronunciare alcune parole al popolo di Villafrate, egli tutto lieto acconsentì, così incominciò a dire: «Popolo di Villafrate, venite tutti col Barone Bentivegna per andare contro il borbone, però vi avverto, che nessuno deve rubbare o ammazzare dobbiamo essere tutti fratelli, chi manca sarà fucilato ? Bastarono queste poche parole per avere, dopo una sentenza di pena di morte. Giunto innanzi la casa di Pietro Lo Bue mia vecchia conoscienza, egli mi offerse una colazione di ova e formaggio, e mentre egli rivolgeva lo sguardo nella parte superiore mi fece osservare che alcuni dei nostri, ed altri del paese si erano arrampicati nei balconi del Sig. Don Tommaso Traina il quale stava assente di casa. Le due figlie Caterina, e Rosina spaventate erano quasi in contatto coi rampicati, allora sferzai il mio cavallo e subito giunsi fra loro, prima feci scendere le persone che stavano dentro i barconi, poi assicurai le signorine di rientrare nelle proprie stanze assicurandole che nessun male avrebbero sofferto. Formata una sola bandiera fu consegnata al sellaio mastro Francesco Labarbiera. Allora si fece chiamare Giuseppe Stassi l'antica tromba del 1848, che volentieri si unì con noi, un buon numero di giovani di Villafrate si erano uniti con noi, pronti a seguirci, io in quel tempo sciesi per la mia colazione nella casa di Lo Bue; ma appena vi era giunto la tromba suonava la partenza; allora l'amico mi diede un pane casareccio un pezzo di formaggio, e così mi recai a raggiungere i miei compagni, che già avevano lasciato il caseggiato. Mentre noi eravamo per la via di Ventimiglia per trovare il Dottor Brancato, era venuto a raggiungerci la guardia a cavallo Filippo Cuti uomo di alta maffia, che volentieri si volle unire con noi.

IV

Davide Figlia che la sera nella scesa del bosco Lacca si era come tutti noi bagnato, si era portato, in casa, era stato trattenuto dalla vecchia madre, perché soffriva di dolori reumatici. La mattina seguente giorno 23, essendo Domenica molti contadini stanno nella vasta piazza di Mezzojuso, il Figlia persuase Vincenzo Palermo e Salvadore Como di seguirlo, e recatosi nella piazza esorta il numeroso popolo alla rivolta, forma una bandiera, riunisce circa 100 persone la maggior parte colle armi, promettendo loro Ia paga di tarì quattro al giorno (L 1,70) indovinando la nostra mossa si diresse per Ciminna ove giunse prima di noi ben accolto di quel popolo. Giunti noi nelle mura di Ventimiglia si fece suonare la tromba e colla bandiera spiegata si entrò in paese, molti curiosi ci guardavano non conosciendo ciò che noi volessimo da loro, alcuni si portarano in cerca del Brancato, che già si era pentito della promessa fatta alla Lacca e si era nascosto, altri si recarono nel carcere facendo uscire i detenuti, però dei

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liberati nessuno volle seguirci. lo avevo entrato il mio cavallo nel piccolo Fondaco, e diedi principio al pane e al formaggio che tenevo in tasca. Fui raggiunto da Dimarco e i fratelli Romano, e Francesco Bentivegna per collocare dentro le loro bestie stanche a digiuni anche loro vedendomi mangiare vollero dividere meco quell'umile e scarso pasto. Mentre si mangiava venivano verso di noi cinque persone: due preti, e tre gentiluomini del paese, fra questi conobbi solamente uno della famiglia Fazzio «Scusino signori disse uno di essi, chi è fra voi il Barone Bentivegna? «Eccolo rispose Dimarco. «Sig. Barone disse uno di loro» siamo venuti a pregarla di ordinare subito alle persone che porta seco di non salire le case dei nostri cittadini per fare ricerca di armi, altrimenti i nostri sono decisi di fare fuoco addosso. Bentivegna, che avrebbe dovuto rispondere sulle rime a quei signori delle parole adequate arroganti seguitò a mangiare; né tampoco disse cosa il Dimarco che possedeva la parola facile. Io indegnato dal loro silenzio risposi: A loro, cari signori, dal silenzio del barone Bentivegna avete capito bene la risposta alla vostra insolenza, ed io vi aggiungo appena i vostri concittadini tireranno un sol colpo contro i nostri questo Borbonico paese sarà distrutto, saccheggiato, come lo fu Caltanisetta nel 1820; andate signori, e dite ai vostri che tirino pure! Queste parole bastarono a reprimere l'audacia di quelle cinque persone, che andarono via pensierosi. Dimarco dopo che quelli erano partiti, mi disse: Mi piacque molto la tua scappata; io gli risposi che col silenzio nulla si ottiene, bisogna essere energici una volta che ci troviamo, contro la mia voglia; però bisogna partire presto da questo paese per evitare qualche sconfitta. Allora si tece chiamare la tromba, la quale suonò la raccolta, e si diede l'ordine alla partenza per la vicina Ciminna; scoraggiati non solo della cattiva accoglienza ricevuta, ma minacciati come sopra accennai. Giunti alla vista di Ciminna i nostri cuori si sollevarono un poco nel vedere sventolare la bandiera della libertà, che portava Davide Figlia spiegata nelle terre comunali delle Porcalora, e l'ottima banda cittadina che suonava l'inno nazionale del 1848. Luigi La Porta con buon numero di paesani che ci attendeva; Davide Figlia aveva schierato in parata i suoi uomini, e così colla musica alla testa siamo entrati in Ciminna ricevendo affettuose accoglienze, abbiamo posto il nostro quartiere generale nel casino dei civili posto nella piazza. Quanta differenza di principi? li minacciati qui patriotticamente acclamati. Però io sempre pensavo l'avvenire che mi sembrava sempre fosco, e non maturo abbastanza. Davide Figlia allora chiese il denaro al Dimarco per pagare le persone che aveva condotto seco; il quale rispose il denaro lo troveremo qui pigliando quello del Governo qui fra noi vi è il percettore Cascio Grutta che darà quello che ancora tiene senza versato «Sig. Cascio lei deve consegnare il denaro che tiene in cassa, che ancora non è versato; il Cascio rispose essere pronto a volerlo consegnare però previa di una ricevuta scritta per il suo discarico. Allora il Dimarco mi fece chiamare, e mi ordinò di portarmi col Cascio e prendere il denaro dal Ricevitore del Registro, quello

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del lotto e quello del macinato, e cerca colla tua energia, soggiunse, di portare una buona somma ho chiamato per venire meco Vincenzo Palermo Salvadore Como, ed Antonino Bonanno ancora vivente. Eseguiti gli ordini ricevuti col denaro nel sacco, e colle persone che l'avevano consegnato siamo giunti nel casino di campagnia, consegnato il denaro coi miei colleghi della questua siamo usciti per procurarci da mangiare, Dimarco mi chiama e mi dice di rilasciare la dovuta ricevuta alle persone che già avevano dato il denaro. Io risposi essere dolente non poterlo contentare, avevo perduto l'uso di scrivere il proprio nome, e mi sono allontanato. Allora Davide Figlia scrisse quattro ricevute e si firmò come segretario, dopo firmò Francesco Bentivegna come presidente del Comitato rivoluzionario. Bastarono queste quattro firme per avere entrambi sentenza di pena di morte. Sono stato grato e lo sarò ai cittadini di Ciminna, che nessuno fece il mio nome innanzi al Giudice Istruttore nonostante essere conosciutissimo in quella contrada. Un vettorino delle Regie Poste che stava nel rilievo del Fondaco di Manganaro cavalcando un bellissimo cavallo, Merlino era venuto in Ciminna, ed ebbe l’ardire di presentarsi nel casino e trovato il Bentivegna le offrì i cavalli del suo relievo per uso della banda: Bene grazie rispose Bentivegna se mi bisognano accetterò volentieri la vostra generosa offerta; ma il furbo dopo di avere tutto bene osservato la nostra forza, parte da noi, e invece di prendere la via già fatta per il Fondaco di Manganaro d'onde era venuto, prende la via per Palermo giunto la sera si portò subito dal Maniscalco, e gli raccontò quanto egli aveva minutamente osservato in Ciminna. II vetturino per questo servizio ricevette in dono dal Maniscalco cinque scudi L. 25,50, Dopo quando si portò nel suo rilievo a raggiungere i suoi compagni, si lagnava di non essere stato bene rimunerato dal Governo, Durante la mia lunga latitanza aveva appreso questo fatto del vetturino. Venuto poi il 1860 io andava in cerca di conoscere questo tipo di vetturino, da alcuni suoi compagni appresi che veniva chiamato Pippino inglese spione di Bentivegna che stava in quel tempo nascosto. Filippo Cuti per avere un numero di persone sotto il suo comando propose al Bentivegna e Dimarco di volersi portare nella vicina di lui patria, e colà prometteva di riunire un buon numero di persone armate e là domani mattina riunirci noi tutti nel Fondaco detto dei Greci sito nella pianotta di Vicari, allora di proprietà del Dimarco, resta stabilito rispose Bentivegna Francesco. Tutto questo si stabilisce mentre io era occupato per raccogliere il denaro, perchè certo non avrei consentito di stabilire quel sito di riunione col Cuti nel detto Fondaco, sito assai vicino al nostro paese per evitare, che i nostri potessero disertare ma in altro sito onde avvicinarci con quelli di Cefalù non avendo fiducia ai nostri dirigenti. Anche Ribaudo che pensava come me non conobbe nulla di quello che si era stabilito con Cuti essendo occupato di fare il notamente delle persone della nostra banda, che dopo furono pagati secondo la promessa tarì quattro (L. 1,70) a persona prezzo stabilito da Davide Figlia in Mezzojuso. Mentre io stavo nel sito per preparare da mangiare assieme coi

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compagni della questua del denaro, un messo era giunto in Ciminna proveniente da Villafrate, certo Domenico Mucciglia portando una lettera diretta a me, e non vedendomi nel Casino chiedeva dove potermi trovare, Davide Figlia si fece consegnare la lettera, e dopo di averla letta, tutto lieto la fece leggere a Bentivegna, Dimarco e Francesco Romano. La detta lettera diceva così: «Oggi è giunto in Villafrate il procacciolo con onse 164 ch’è stato lasciato in deposito al Sindaco dimane partirà per Palermo, venite questa notte con alcuni vostri amici, che si piglierà e sarà diviso fra noi. F. D.» Dopo la lettura della lettera diverse persone furono spediti alla mia ricerca, ritrovato sono stato avvisato ch'ero desiderato subito nel Casino, che era giunto un messo con lettera a me diretta: direte ai Signori che vi mandano che dopo di avere mangiato verrò subito nel Casino. Terminato il pranzo coi miei compagni mi recai nel Casino. Oh! oh! e qui dicevano tutti gli astanti, che mi attendevano con impazienza; Davide Piglia mi consegnò la lettera e soggiunse bisogna che ti porti in Villafrate a prendere questo denaro. Risposi loro non volermi portare colà per diversi motivi prima che debbo riposarmi un poco che ho molto fatigato tutta la notte ed il giorno, secondo la lettera dice che il denaro si deve dividere fra noi, allora poca somma potrò qui portare, vi consiglio di mandare altra persona più capace di me, e loro ma l'amico scrive a te, e quindi è necessario che vai tu in Villafrate. Bentivegna, Dimarco, Figlia, Romano Gugino, Ribaudo infine tutto il nostro selvaggio Stato Maggiore mi pregarono perché mi recassi in Villafrate, alla fine dovetti cedere alle loro insistenze. Scelsi le persone adatte al bisogno, che furono Vincenzo Palermo, Giovanni Cuccia, Salvatore Corno, Salvatore Mistretta, un vero tipo di maffioso, ed Antonino Bonanno, il solo in vita di quella schiera, tutti ottima gente adatti al cammino notturno! Verso mezzanotte col messo Mucciglia abbiamo preso la via per Villafrate, ove siamo giunti dopo un'ora di cammino. I miei compagni non vollero entrare in paese temendo di qualche imboscata, e vollero rimanere nelle terre Comunali.12 Io col messo siamo andati a bussare la porta di Ferdinando Dimarco l'autore della lettera, li rispose la moglie Maria Rosa che suo sposo ci attendeva nella vicina pagliera; colà giunti l'abbiamo trovato in compagnia del suo fratello Antonino, ed i fratelli Giacomo e Luciano Buccola. Discutendo nella pagliera nel denaro che si doveva prendere, loro volevano che fosse diviso fra noi in eguale porzione, io risposi di non potere acconsentire al loro desiderio, perché mi è stato ordinato da Bentivegna e compagni, che il denaro tutto lo devo portare al Bentivegna, perché la vostra lettera è capitata nelle loro mani prima di me. Per troncare la lunga discussione su tale argomento fatta nella pagliera, si stabilì che preso il denaro, dovessi per ogni persona consegnare 15 piastre (L. 76,50). Usciti noi dalla pagliera abbiamo raggiunto i nostri compagni, e tutti uniti ci siamo diretti nella casa del Sindaco Don Peppino Brancato. Strada facendo ho avvertito tutti, che nessun nome si fosse fatto di

12 II vivente Antonino Bonanno può accertarlo.

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noi per evitare delle noie che facile potrebbero accadere. Abbiamo fortemente bussato la porta del Sindaco, allora fu chiesto cosa si volesse dal Sindaco, vogliamo il denaro che tiene del procacciolo, alchè egli rispose il denaro essere stato consegnato al Capo Urbano Don Vincenzo Santomauro (mia vecchia conoscenza). Bussata la porta del Capo Urbano rispose che il denaro trovavasi presso il Percettore Comunale mio genero Francesco Cartabellotta. Bussata la porta di quest'ultimo nessuno rispondeva. Fu necessità lanciare alcune pietre nelle finestre, allora si che abbiamo inteso la voce del Percettore, che diceva: cosa volete signori da me, da lei nulla vogliamo, rispose Vincenzo Palermo però vogliamo il denaro che tiene del Procacciolo, ce lo deve consegnare per ordine del Barone Bentivegna, il Percettore rispose di essere pronto a consegnarlo a persona di sua conoscenza perché aveva veduto stamane molti suoi amici che seguirono Bentivegna - Antonino Bonanno rispose - a noi ci manda il Barone Bentivegna e ciò basta, o ci da il danaro o lo prenderemo colla forza, e lui, temo di aprire la porta a persone che non conosco - e Palermo - non bisogna che apra la porta prenda una fune e lo scenda giù dalla finestra. Dopo 5 minuti, comparve il Percettore col paniere legato ad un laccio e scese il primo sacchetto di monete d'argento, il secondo, ed il terzo, In questi tre sacchetti vi è la somma di onse 164 (L. 2091). La buona notte signor Percettore si ritiri. Il denaro fu posto sul mio cavallo, e tutti siamo usciti dal paese ed abbiamo fatto alto nel sito detto il Calvario, ho buttato sulla terra il mio cappotto e versai un sacchetto di monete consegnai quindici piastre a persona a quei di Villafrate come era stato convenuto. Dopo noi abbiamo preso la via del Feudo Palmieri, sito di riunione stabilito con i nostri che dovevano venire da Ciminna: giunti nel casamento non si voleva aprire la porta, ma dopo riconosciuto Salvatore Como dalle persone che stavano dentro la porta è stata aperta. Abbiamo collocate le nostre bestie nella stalla e noi buttati sopra alcuni sedili ci siamo addormentati tranquillamente. Non tardò a venire il giorno, che i nostri giunsero da Ciminna, fui subito circondato dal nostro stato maggiore, desiderosi di conoscere l'esito; raccontai loro quello che aveva fatto in Villafrate, dopo consegnai la somma che stava in mio potere, che avevamo ricevuto dal Precettore, denaro è stato preso e collocato nella vettura di Stefano Bentivegna. Si diede l'ordine, della Partenza pel sottostante fondaco dei Greci per attendere Filippo Cuti da Vicari, io camminai vicino il mio veccio amico e compagno Luigi La Porta, il quale era mesto e taciturno chiese cosa avesse rispose che pensava alla vecchia di sua madre, quando stamane sono venuti a chiamarmi per la partenza, quanto pianse mi stringeva fortemente nelle braccia . -Nò mio caro Luigi non ti lascio partire i tuoi amici ti portano alla perdizione, non devi partire nò! Quelle parole mi straziavano il cuore: ma vinto dal sentimento dell'onore, di non venir meno alla promessa data a Bentivegna, lasciai piangendo la mia affezionata madre, e sono veduto con voi. Così celiando siamo giunti verso le 9 ant nel Fondaco, giorno 24 Novembre in attesa del Cuti, come si aveva promesso in Ciminna. Esso Cuti però era stato dissuaso da molti distnti personaggi del paese (oggi divenuti

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Commendatori) di starsene tranquillo e non prendere parte alla rivolta. Il Cuti che non aveva il sentimento del patriottismo! ma altra scuola, mancò alla promessa. Mentre noi eravamo da molto tempo in attesa del Cuti, sicuri della sua venuta non capace di mancare alla promessa, passavano molti carri provenienti da Palermo, alcuni si fermarono innanzi a noi, uno di essi prese la parola: Signori questa mane siamo usciti dal fondaco di Oghiastro oggi detto , e colà giungevano molti soldati da Palermo dicevano di essere mandati contro la banda di Bentivegna, se siete voialtri restate avvertiti - Grazie buoni amici. Ora incominciano le dolenti note. La cattiva novella che già si attendeva fu subito conosciuta da tutti i nostri, ed incominciarono a riunirsi a tre, a quattro fra loro, per consigliarsi a vicenda quale partito dovrebbero prendere. Alcuni si nascosero nel vasto Fondaco senza essere osservati. Noi i più compromessi che rappresantavamo come capi ci siamo riuniti in consiglio per trattare le misure che si dovessero prendere, questa riunione fu composta dai fratelli Bentivegna, Dimarco, i fratelli Romano, Figlia, La Porta, Gugino, Ribaudo, e lo scrivente Franco. Ribaudo che aveva passato molti anni nel carcere si credeva una mente elevata, un gran pianista, prese il primo la parola: certo i soldati che vengono si porteranno in Mezzojuso, noi essendo più vicini arriveremo i primi ci porteremo nella vasta cantina del Marchese Rudinì (defunto) ci metteremo in allegria come fecero gli Svizzeri in Messina, piglieremo i nostri posti ed attendiamo la venuta dei soldati che sono sicuro li metteremo in fuga; rispose il Dimarco ne manderanno un numero maggiore e certo saccheggeranno le nostre case, come sempre hanno fatto coi deboli. Io vi consiglio di prendere la via per Corleone, ove certo molte persone ci seguiranno con certezza molti verranno credetemi rispose Bentivegna Francesco. Allora io presi la parola e dissi: Desidero prima che io vi manifesti il mio piano, che voi Barone Bentivegna dicevate ai nostri compagni, che nessuno deve lasciarci. Chi fugge sarà fucilato, altrimenti credetemi molti ci lasceranno; ebbene rispose il Bentivegna Francesco, diteci prima i vostri piani. Il primo è partire subito per Vicari, trovare Filippo Cuti, e condurlo con noi, che certo colla nostra presenza non verrà meno alla promessa, dopo marciare per Monte Maggiore e così ci avvicineremo cogli amici di Cefalù, e percorremmo nell'interno sino al giorno della rivolta stabilita coi fratelli di Napoli. Il secondo è di avvicinarci a Palermo, prenderemo subito la via pel molino di sotto, poi lo stradale, saliremo pel , dopo passeremo per Marineo ove saremo ingranditi con Filippo Patorno ed i suoi amici come promise, quando è venuto in Mezzojuso, molte persone verranno da Bagheria, e di tutte le borgate vicino a Palermo, come fecero nel 1848. Senza dire che saremo certo raggiunti da quelli di Cefalù, e di Termini Imerese. Luigi La Porta che sino a quel punto era rimasto silenzioso rispose: II vero piano è quest'ultimo del mio vecchio amico e compagno Spiridione Franco. Bisogna eseguirlo specialmente perché le borgate saranno certo con noi. Con questo concetto si ordinò la partenza, per la via Principessa, molino di sotto, e quando eravamo nel punto di prendere lo stradale vicino al Ponte

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di Godrano quando comparve una carrozza che veniva da Palermo. Alla nostra vista le persone che vi stavano dentro, prese da timore fecero mettere i cavalli alla corsa. I nostri insospettiti di quella corsa si diedero ad inseguire la carezza, e per quanti sforzi si fecero tutti corsero dietro la carrozza per raggiungerla e per quanto ci siamo adoperati noi dello stato maggiore per trattenerli, non ci siamo riusciti e siamo rimasti soli in quel sito del Ponte Godrano.

V

La carrozza fu raggiunta nella salita vicino al paese. Dentro vi erano persone che ritornavano da Palermo, che sconoscendo la squadra politica, e credendo di essere aggrediti da malfattori si erano dati alla corsa. Pensammo ad altro. Il nostro ritorno in dietro era pericoloso assai per noi calcolando il tempo che le Regie truppe dovevano impiegare nel cammino per venire in Mezzojuso potevamo certo incontrarle nel piano di Scorciavacchi ed in questo caso saremmo stati distrutti all'aperto dalla cavalleria. Ma pochi ci avrebbero seguiti! giacché i malvolonterosi alla vista di questa carrozza ne crearono un vero motivo onde allontanarsi dalla squadra dei liberali pensanti! In questo istante di alternativa e di trepidazione, si risolvette di marciare per Corleone come già aveva detto Nicolò Dimarco. Per tanto fu ordinato di salire pel bosso Lacca, ove giunti si disse, agli uomini, che riceverebbero la promessa paga, e ciò per adescarli a seguirci. Alcuni chiesero il permesso eli entrare in paese per sistemare gli affari di casa colla promessa di fare ritorno fra noi, promessa che si fece invano attendere, anzi assistettero all'entrata delle truppe in paese, facendosi vedere da molte persone riguardovoli, che, in appresso potessero accertare che loro erano nelle proprie case, e non essere molestati.13 Io e Santo Romano siamo rimasti nell'imboccatura dello stradale che conduce alla Lacca. Per fare salire le persone della squadra che stavano dietro e cercavano di sbandarsi. Il Santo Romano aveva scorto nella parte bassa dove noi eravamo, e propriamente vicino la casa Ciro Termini, Don Ercole Figlia, che parlava col fratello Davide: Guarda mi disse il Romano, come gesticola Don Ercole, son sicuro che consiglia il fratello di allontanarsi da noi; non voglio credere che lo faccia ho risposto. Egli è molto compromesso tanto qui Mezzojuso, che spinge il popolo alla rivolta, quando poi in Ciminna, dove firmò nella qualità di segretario le quattro ricevute del denaro del governo, da me raccolto, e che io non volli firmare, converrà quindi attenderlo anche per nostra norma. Stefano Bentivegna con alcuni dei nostri entrarono in paese e fecero acquisto di pane, vino, e formaggio, che dopo i sudori e le stanchezze

13 Di questi valorosi ve ne sono ancora viventi.

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serviva per mangiare, e nello stesso tempo riposarci. Esso Bentivegna pagò tutto col denaro ricevuto da me nel feudo Palmieri, dopo l'acquisto del vitto si recò pure nella casa di Leonardo Manno guardia a cavallo collega di Giovanni Cuccia, che venne condotto seco loro nel bosco Lacca. Giunse pure fra noi l'aspettato Davide Figlia, al quale il Romano chiese che notizia gli dava suo fratello Ercole che col movimento delle braccia sembrava un predicatore di chiesa. Rispose mio fratello, mi diceva di attenderlo in questa vicina casa di Battaglia, mentre lui si sarebbe recato da nostra madre, che desiderava ardentemente vedermi forse per l'ultima volta, salite che dopo di avere abbracciato mia madre verrò con voi. Confesso che fummo gonzi nell'avere creduto le parole di quel furbo, e siamo saliti nel luogo prefisso della Lacca, malgrado la stanchezza, e la fame che ci opprimeva. Il Figlia vedendosi solo prende la via che conduceva in senza essere da noi osservato: passato il fiume di Guddemi, piglia la via che conduce nel Feudo Malfarina sito indicatogli dal fratello Ercole; ed è lì che va a nascondersi, dove prima di lui si erano nascosti Vincenzo Palermo, Salvadore Como, e molti della banda che il Figlia aveva raccolto in Mezzojuso la mattina del 23 Novembre. Come siamo giunti alla Lacca ci posimo a mangiare un poco di pane e formaggio, quando mi si avvicinò la guardia Leonardo Manno: Veda Sig. Franco come sono dimagrito, sono stato ammalato molti giorni a letto adesso essendo convalescente non posso venire assieme con voi altri, mi tremano le gambe, la prego quindi di farmi ritornare nella mia casa Dimmi Manno gli risposi io: chi si prese la briga di venire nella tua casa a prenderti? Al che rispose: E stato don Stefano Bentivegna, che spinto dal mio collega Giovanni Cuccia che vorrebbe rovinarmi con lui. Intenerito di quelle parole del Manno, e conosciuta la difficoltà di essere incapace di poterci seguire in quella lotta politica; lo presi meco e lo condussi in una via opposta, additandogli un viottolo che conduce alla brigna, gli dissi seguilo, che giungerai in casa senza essere veduto dai nostri. Il Manno nel dipartirsi mi giurò eterna gratitudine pronto a qualunque sacrificio per me ne diede dopo non dubbie prove. Giovanni Cuccia che aveva osservato il Marino in colloquio con me e non vedendolo più fra noi il Manno, è venuto a chiedermi ove questi fosse andato; Al che risposi il Manno che tu cerchi invano a quest'ora sta per giungere in casa sua. Sono stato io stesso che lo feci partire, perché lui per speciali ragioni non poteva seguirci. Tu non contento di averci tutti rovinati volevi pure rovinare il tuo compagno. Mentre noi eravamo nel bosco Lacca, assai scemati di numero le Reggie truppe erano giunte nel piano di scornavacchi, avevano fatto alto, perché temevano di avvicinarsi nel paese, tanto che per assicurarsi partirono alcuni preti, gentiluomini col sindaco, assicurando che il paese era stato sempre tranquillo, e sarebbero bene accolti da tutta la cittadinanza. Noi dopo qualche ora di riposo e mangiato un poco di pane, e formaggio ritornando a nuova lena, si ordina la partenza alla volta di Corleone. La via scelta per essere più corta fu quella della collina di Acqua

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del Genco, che sta al di sopra del bosco Lacca, senza tromba ne bandiera fra i primi disertati, Francesco Labarbiera che portava quella formata in Villafrate la mattina del 23 afferma che egli fu sempre con noi sino alla fine, anzi aggiunse che quella bandiera fu da lui conservata in un vaso di creta, e dopo riuscito dal carcere di Favignana, rinvenne la conservata bandiera, la quale fu dedicata alla tomba del martire Francesco Bentivegna in Corleone, illustre ed imperituro ricordo di quella madre chiesa del nazionale risorgimento. Quando siamo giunti alla collina abbiamo osservato nello stradale nel piano di Scorciavacchi le reggie truppe che in quel sito stavano al riposo, uno dei nostri che il primo aveva posti i suoi occhi in quel sito disse, vedete i soldati mi sembra essere un buon numero, un'altro soggiunse essere più di mille e poi vi è pure della cavalleria. Io Interpetrando quelle osservazioni, mi accertai con sicurezza del loro abbandono, e ne avvertì Dimarco, perché tutti usassimo molta energia e sorveglianza sui nostri compagni, affine di evitare che disertassero. Mentre a quei tali nostri compagni sembrava quella schiera una grande armata essa temeva di entrare in paese, ed aveva fatto in quel sito un lungo riposo, per attendere la numerosa commissione uscita dal paese, composta del Sindaco dai due parroci, Greco, e Latino e buon numero di gentiluomini, i quali assicurarono il Comandante Colonnello Chio, che il paese è stato sempre tranquillo, e che sarebbero gentilmente accolti da tutta la popolazione. Il Colonnello Chio ordina la marcia per Mezzojuso, verso le ore 22. del giorno 24. Novembre, essa truppa fece la sua entrata in paese. Il Colonnello Chio prese stanza nel vasto palazzo del Marchese di Rudinì, padre dell'attuale Deputato. Due pezzi di montagna furono collocati innanzi il vasto portone del palazzo or cennato, e furono prese misure strategiche di quella valorosa armata? Ritornando alla fedele relazione dei fatti, dirò che mentre la truppa batteva la strada per entrare in paese, noi facevamo il nostro cammino per Corleone, tracciando la strada di Pizzo di Case, feudo , e mentre si camminava fra loro si consigliavano se ci dovessero seguire, o sbandarsi, qualche uno di essi diceva se siamo pazzi, o ciechi li seguiremo per farci ammazzare da tanti soldati che mandarono contro di noi, anche hanno cannoni e cavalleria, basta quando viene la notte ne parleremo. Giunti nel feudo Marosa conticuo al Giardinello una densa nebbia scese dalla soprastante montagna di Busambra, che ci oscurò la via, i nostri assoldati valorosi compagni, approfittando di quella oscurità venuta così propizia incominciarono a sbandarsi, alcuni si nascosero nei piccoli tuguri che formano i nostri agricoltori, altri nei boschetti numerosi di quel feudo Marosa, e poscia sicuri di non essere osservati presero la via del paese, alcuni di essi giunsero in tempo ad assistere l'entrata della truppa in paese, avendo costoro prima nascosto le loro armi. Noi eravamo giunti alla fine del feudo Marosa, nel sito detto quattro Finaiti, quando la nebbia si era dissipata, colà abbiamo fatto alto per attendere quelli che stavano dietro.

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Ma ahi! delusione? Comparve un solo giovanotto, Dimarco gli chiese se venissero gli altri e se avesse veduto il suo custode della Lacca. Il giovinetto rispose, che nessuno veniva più, e che tutti se ne erano fuggiti e volevano che io andassi con loro, soggiungeva: Anche il custode della Lacca andò insieme coi fuggiaschi. lo mi sono rifiutato di accompagnarmi con loro e sono venuto a trovarvi. Bravo giovinotto come ti chiami disse Dimarco ? Carmelo Mamola le rispose egli. Venuto il 1860 fece parte nella nostra guerriglia e sempre era fra i primi; dopo divenne un gran maffioso, tanto che fece parte della famosa banda del Lobardo, ossia Angelo Puglisi. Francesco Bentivegna e Dimarco passarono la rassegna eravamo rimasti che 36 persone, mentre in Ciminna il numero ascendeva a 464 e tanti furono pagati; Bentivegna con questo piccolo numero insisteva di condurci a Corleone. Alcuni dei nostri risposero di essere l'impresa assai ardimentosa per affrontare la sola forza che esisteva colà, e se fosse sopraggiunta altra forza saremmo certo tutti massacrati. Si disse allora di portarci nel vicino Casamento del Feudo Pirrello ed a questo effetto abbiamo preso la via che conduce in detto Feudo, e colà siamo entrati nel Casamento. Abbiamo collocato i nostri animali, ai quali fu dato da mangiare delle fave. Per noi ci fu dato il solito pranzo, pane nero, formaggio, ed un poco di vino, tutto però pagato col denaro fatto colla mia raccolta. Alcuni dei nostri mentre mangiavamo quel poco dì pane maledicevano il Dimarco, perché aveva seco portato il Bentivegna da Palermo, e per averci tutti rovinati. L'affare diveniva sempre più serio, e poco mancò che mettessero mano al Dimarco, e Bentivegna, che sarebbe stata la massima vergogna. Per terminare quindi la questione abbiamo preso parte io, i fratelli Romano, e Gugino, dicendo loro: Cari amici, nessuno di noi è stato preso colla forza, per venire noi a fare parte di questa banda patriottica. Come noi anche voi siete uniti volontariamente. Ognuno di noi, giacché la sorte non sorride soffrirà un poco. Per voi che non comparite come capi avete nulla, o poco da temere; la pagheranno i capi; animo! adunque amici, siamo tutti giovani, la patria presto ci accoglierà insieme. Io per rompere quei tristi dialoghi, dissi agli astanti: Adesso mando un messo in Mezzojuso. Chi è il messo che mandate? mi fu risposto. Adesso lo vedrete, ho preso un pezzette di carta e scrissi ai miei genitori le sguenti parole: Sto bene cogli amici, state tranquilli che non mi farò prendere dalla sbirraglia, l'America mi attende. Legato il biglietto e strettolo in una pezza di tela fu allacciato al collo del mio fedele cane; il quale al mio comando partì subito, e portò il biglietto al suo destino, recando un gran sollievo ai miei genitori che benedissero il cane, già assuefatto a questo mestiere da lungo tempo. La notte era assai buia, cadeva una pioggia leggiera. Alcuni dei nostri favoriti dal tempo, a due, a tre per volta si diedero alla fuga. Durante quella notte più di venti persone presero il volo. Gugino più di tutti insisteva di lasciare qel sito, perché temeva che la casa venisse

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circondata dalla forza e presi tutti nella trappola. Il giorno 25 pria che venisse giorno abbandonammo il Casamento di Pirrello prendendo la via del Feudo Ramusa. Lasciammo quivi un cattivo cavallo, che venne dopo la nostra partenza reso libero, il quale si pose sulla nostra traccia; raggiuntoci saltò sopra la cavalla di Francesco Romano, che rimase accoppato. Il fratello Santo vedendo in pericolo il suo caro fratello Francesco tira una fucilata al cavallo che cadde gravemente ferito sulla terra. Passati pochi minuti si rialza sebbene, traforato da parte a parte, dalla palla colpitagli, vienen novamente a raggiungerci; ma allora altre due fucilate le furono tirate al cattivo cavallo, che cadde per non rialzarsi più. L'unico fuoco che abbiamo fatto fu contro un molesto cavallo, in quel movimento rivoluzionario non ancora maturo. Dopo siamo entrati nel casamento del Feudo Marosella di proprietà dei fratelli Bentivegna sito assai opportuno per noi, il feudo era tenuto in affìtto da Tommaso Lomonte da Mezzojuso, vi abitava il figlio Antonio, vivente. La forza spedita contro di noi era impoponente, ciò è un battaglione di cacciatori composto di sei compagnie ciascheduna delle quali di 150 soldati, che in tutto formavano di 900 uomini, più due squadroni di cacciatori a cavallo. Portavano pure due pezzi da montagna coi rispettivi artiglieri, oltre una mezza compagnia del genio. Il capitano Giorgio Chinnici con gran numero di compagni d'armi, Gaetano Scarlata con buon numero di sbirri, comandali dal Colonnello Ghio, scherzi della sorte dopo le patrie battaglie del 1860 lo vidi prigioniero nel forte di Sant'Elmo in Napoli, un vero tipo di soldato. Scarlata essendo quasi nostro concittadino teneva parenti e molte conorcenze in paese, aveva subito appreso che la banda era quasi disciolta e tutto lieto ne informò il Chio, il quale ordinò che la dimane con metà della forza si andasse in cerca del rimanente della banda stessa, e cercare di arrestare il tanto temuto Francesco Bentivegna. Ordinò pure che fosse chiamato un banditore con tamburro. Questi fu un certo Dovico banditore Comunale, il quale fu istruito della musica da suonare nelle strade del paese, e le parole che doveva dire: bra bra, bra, a ordini del Governo, tutti quelli che sono stati con Bentivegna si presentassero fra tre giorni, poiché arrestati saranno fucilati, con tale musica fece il giro del paese di Mezzojuso, ed anche negli altri Comuni da noi percorsi si fece la stessa musica. Il giorno 25 pria che facesse giorno, come era stato ordinato dal Chio, due compagnie un squadrone di cavalleria ed il Capitano d'armi Chinnici furono spediti alla nostra ricerca. Giunti nei boschetti del feudo Marosa abbiamo inteso le loro trombe, perché già avevano circondato uno dei boschetti stessi. Dopo presero la via per Corleone. Noi che stavamo nel casamento Marosella, che sta a mezzogiorno del feudo Marosa, abbiamo osservato le loro mosse, e temendo che ci circondassero dalle spalle abbiamo effrettato la nostra colazione composta del solito pane nero e formaggio apprestatoci da Antonio Lomonte ancora in ottima salute da noi pagato. Nicolò Dimarco che già aveva previsto la prossima nostra divisione, aveva formato diversi involti di denaro composti di 25 piastre per cioscheduno (L. 127,56) prima ne diede due ai fratelli

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Bentivegna, un altro a Luigi La Porta, ai fratelli Romano, Gugino, e Ribaudo, ed uno a me, ai Capi di quella banda i pochi rimasti ebbero una piccola porzione. Dopo l'uno dopo l'altro siamo usciti dal casamento di Morosella; Alcuni dei nostri rimasti fedeli sino al fine come sarebbero Giovan Battista Criscione, Mazzarese, Giuseppe di Modica scesero giù per Rocca di Lapa. Noi dello Stato Maggiore abbiamo fatto alto sopra il casamento del feudo Mandorla Grande; Francesco Bentivegna insisteva di condurci in Corleone - credetemi diceva lui, colà molti ci seguiranno, una tale asserzione, per nulla persuadeva, tanto che il Dimarco rispose - Così diceste la prima volta, che tutti erano pronti, mentre siete stato malamente quella sera accolto dal vostro amico. Ora voi reste condurci al macello. Questa osservazione del Dimarco venne appoggiata da Ribaudo, che disse al Bentivegna, volete Barone sagrificarci senza gloria? Dopo del Ribaudo presi la parola io dicendo: Permettete caro Barone Bentivegna, che io, vi parli forse per l'ultima volta da vero vostro amico, senza rancori e recriminazioni. In questo momento terribile pensiamo alla nostra salvezza dei più compromessi. Fra noi il primo siete voi, il secondo Dimarco, indiscutibilmente il terzo sono io. Più di una volta quando la sera eravamo soli seduti accanto al fuoco nel bosco Lacca mi diceste che col vostro stesso cognome tenete parenti nella città di Sciacca. I maggiori compromessi adunque portiamoci in Sciacca, ove colà i vostri parenti ci potranno procurare una barca e condurci in Malta, e così saremo salvi da Malta potremo ritornare quando fra breve scoppierà la rivolta stabilita, Ma egli Francesco Bentivegna, che il crudo fato lo attentava rispose: Io vado in Corleone, chi di voi mi vuole sequire venga meco, chi non vuole vada pure ove meglio gli piaccia.14

VI

Francesco, e Stefano Bentivegna; Liborio Giuffrìda, e Pietro Sampieri presero la via del Feudo Molara, diriggendosi alla volta di Corleone. Io con Dimarco, i fratelli Romano, Gugino, Ribaudo la Porta, coi due giovanotti Mamola, e Anzalone, prendemmo per la parte bassa del feudo Guddemi, facemmo alto nella casa del feudo Papeo, tutto il giorno senza altro cibo, per attendere la notte e andar via senza essere osservati. Per sodisfare il desiderio dei miei cortesi lettori sequiró esattamente il cammino dei fratelli Bentivegna, Liborio Giuffrida quando fu nelle vicinanze di Corleone, lasciò i due fratelli come giunse in Corleone si costituì al sotto Intendente, di colà, Pietro Sampieri prese la via di , ove teneva una conoscenza, rimase nascosto alcuni giorni, poscia si costituì alle autorità. I due fratelli Bentivegna rimasti soli pensarono di nascondersi. A tale scopo si portarono nella contrada Batticane nel vasto fondo di proprietà allora di Vincenzo Catinella, uomo di gran cuore generoso e cavalieresco, che accolse bene i due fratelli, i quali rimasero in quel sito tutta la settimana

14 Questo potrà accertarlo Santo Romano vivente.

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sino al giorno 29 giornata di Sabato. Nella sera di sabato quasi tutti i lavoranti della terra si partano in paese come usanza, il Catinella temendo che qualche persona adescata dal premio promesso dal Governo potesse denunziarli, progettò ai due fratelli di nasconderli nella propria paglira in Corleone. Ciò stabilito la sera il Catinella coi lavoranti prese la via per Corleone, lasciando per guida ai due fratelli un certo Giuseppe Maritata, con due muli per il loro trasporto. Dopo qualche tempo la partita dei primi, anche essi presero la via per Corleone. Ma perché il povero Francesco era afflitto da due bobboni, che da molto tempo lo tormentavano non potevasi reggere a cavallo fu necessità entrare nella vicina Casina del Barone Milone sito in contrada S. Filippo, ove vennero bene accolti da quel Castaldo. La Maritata fece ritorno in Corleone ove era atteso da Catinella, giuntovi raccontò ove aveva lasciato i due fratelli. Il tradimento e l'arresto di Francesco dopo due giorni passati tranquilli nella casina del Milone, i due fratelli avevano consumato il pane del Castaldo, pregarono quest'ultimo di portarsi in Corleone per fare acquisto di viveri, pasta carne e pane. Il Calstaldo prese la sua mula e subito partì per Corleone, giuntovi portò la mula nella stalla del padrone, il quale in quell'ora stava in casa, e gli chiese il perché era venuto in paese, il Castaldo credendo il padrone incapace di commettere un tradimento gli confidò il motivo della sua venuta. Il Milone sulla prima si turbò ma dopo cambiò altro condegno e rispose al Castaldo, va e compra tutto quello che loro bisognava, e quando li rivedrai me li saluterai tanto. Il Milone dopo partito il Castaldo era indeciso a qual partito appigliarsi, se di mantenere il segredo come certo sarebbe dovuto stare un gentiluomo, o pure denunziarli. Volle prendere consiglio, uscì di casa e si recò in Casino, ove si abboccò con un suo fidato amico, e gli confidò quanto aveva appreso dal suo Castaldo chiedendogli consiglio, l'amico gli rispose tu bensai che il Governo vuole l'arresto dei fratelli Bentivegna, ed adopera tutti i mezzi di catturarli se percaso saranno sorpresi nella tua Casina potrai anche tu essere arrestato come manutengolo. Per parte mia ti consiglio di portarti di nascosto dal Sotto Intendente e gli confiderai tutto! Dopo questo consiglio il Milone si decise a denunziarli. Perciò venuta la sera il Milone fece quanto aveva stabilito coll'amico, si portò dal sotto Intendente e gli confidò che d'alcuni giorni, i fratelli Bentivegna stavano nella sua casina in contrada S. Filippo. Quel Funzionario era pazzo dalla gioia che rendeva così un gran servigio al suo Governo. Promise al Milone di farlo rimunerare dal Governo per si grande servigio. Il Milone lo pregò di usare il massimo silenzio e non fare palese il suo nome per non soffrire qualche malanno dai vasti amici della famiglia Bentivegna. Appena il Milone si era allontanato dalla casa di quel funzionario, fece chiamare i migliori poliziotti fra i quali si trovava pure l'Ispettore Gaetano Scarlata, ordinò di riunire un buon numero di forza onde recarsi la stessa notte nella contrada S. Filippo nella casina del Barone Milone, ove stavano occultati i fratelli Bentivegna, arrestarli e condurli in Corleone, e ciò sotto la loro responsabilità. Come si comprende furono riuniti compagni d'armi, gendarmi e cavallo, ed un buon numero di guardie Urbane, e partirono nel sito designato

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contrada San Filippo. II viottolo che conduce alla Casina essendo disseminato di ciottoli, il calpestio dei cavalli, e delle guardie Urbane, che cadendo o pure fingendo di cadere facevano rumore, diedero l'avviso al Castaldo che subito uscendo dalla casa ed accertandosi, che persone si avvicinarono alla stessa casa, sollecitò i fratelli Bentivegna, onde si diedero alla fuga. Il Francesco venne sorretto dalle braccia del fratello Stefano, e del Castaldo, e così riuscirono a fuggire la prima volta dalla parte opposta ove si sentiva il rumore. Minuti doqo la fuga dei nostri amici la casa venne circondata dalla forza pubblica e perquisita, non trovarono la preda desiderata, però qnei vecchi sbirri non disperarono di scoprirli e raggiungerli, conoscendo che Francesco non poteva fare lunga via quella notte, e continuando le ricerche nei vicini casamenti. Il Francesco come dissi sorretto dal fratello e dal Castaldo disperava di giungere in Corleone e nascondersi nella casa Catinella, ma non poterono che a stento arrivare nella casina del Prete Gaetano Palermo. La forza intanto continuando le ricerche era arrivata vicino la casina stessa ed era disposta a circuirla. I rifuggiati per tanto riconobbero la disparità della lotta, e quindi il Castaldo prese il primo la fuga seguito da Stefano Bentivegna, che per non essere ancora raggiunti si diedero alla corsa. Lo sventurato Francesco si sarebbe suicidato se possedeva armi; ma rimase impavido ad attendere la sbirraglia. Entrate tranquilli disse loro: Che trovate a chi andate in cerca? Un brutto ceffo di sbirro un nuovo cannibale compagno d'armi certo Vincenzo Giannusa di Corleone ebbe la vigliacca audacia di dargli due schiaffi: aggiungendo per ironia: quando viene il 48 mi farete ammazzare dei vostri amici. Per questa iniqua azione il Manescalco capo di quella abborrida sbirraglia concesse al Giannusa una medaglia d'argento. Io ho appreso qui in Roma da un vecchio amico Corleonese bene informato delle cose della sua patria, che il valoroso schiaffeggiatore Giannusa venuto il 1860 si nascose per molti mesi. Il Signor Giuseppe Bentivegna fratello al compianto Francesco, dimenticando l'offesa fatta al fratello, lo adebiva per custodire i propri interessi nel feudo Gelso di sua proprietà. Ai lettori gli apprezzamenti, quantunque io sappia che chi si vendica col beneficio suscita doppia gloria. L'arrestato Francesco condotto prima in Corleone venne poi spedito sopra un rozzo carro nel forte Castellammare di Palermo da lui ben conosciuto. Il fratello Stefano rimase altri giorni vagando nelle campagne ricercatissimo dalla forza, ma non avendo la pazienza e l'esperienza che bisogna in simili casi così difficili, e consigliato eziandio da qualche amico che gli dava ricovero con paura di essere arrestato come manutengolo, fece chiedere un salvocondotto e poscia si costituì in Corleone; da dove per la stessa via crucis fu trasportato a raggiungere il fratello nel forte di Castellammare. Dopo furono giudicati, ma di tali sentenze, e della tragedia di Francesco tornerò a parlare più tardi. Noi rimasti tutto il resto di quel giorno nella casa di quel feudo senza altro cibo, discutevamo sulla sorte dei fratelli Bentivegna, e non meno sulla nostra, discutevamo il modo di sfuggire per non cadere nelle mani della sbirraglia. La Porta osservava, altra via secondo me non ci resta che ognuno procuri alla meglio di nascondersi e

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non farsi arrestare, rivoltosi al Gugino lo pregò di volerlo accompagnare vicino Ciminna, perché da queste campagne non sapeva qual via prendere. Gugino rispose che venuta la notte, per essere più sicuri avrebbe volentieri soddisfatto all'espresso desiderio. Venuta la notte, pria di metterci in cammino Nicolò Dimarco consegnò il suo cavallo ad un villano di Fitalia per condurlo in Mezzojuso nella propria casa. Bada però nel caso che sarai chiesto come, dove e da chi ti sia dato il cavallo dirai di averlo trovato errante, al quale contadino per ricompensa gli diede due piastre. Dopo ci siamo posti in cammino, per la portella di Papeo, scesimo nel feudo Montagnola, feudo Petrosa. Il buio era fitto, tutto era tristezza e melanconia conforme al nostro morale! Gugino batteva la via il primo e stava per cadere in un burrone; il giovanotto Mamola che stava dietro si accorse del pericolo e gridò: Gugino fermatevi, altrimenti vi perdete, voltate e venite dietro di me. Il Mamola si pose il primo come guida e ci condusse nel fiume Farra. La Porta acompagnato da Gugino prese la via per Ciminna, noi abbiamo consegnati i cavalli postali ai giovanotti Mamola e Anzalone per condurli nel vicino stradale e poscia abbandonarli: Essi eseguirono bene i nostri ordini e prima che fossero da noi partiti ebbero 5 piastre per ognuno. Dopo di che, siamo saliti nel casamento del vigneto Farra di proprietà allora del Marchese Rudinì (padre) oggi appartenente al Policastrelli genero. Ivi giunti Francesco Romano chiamò il castaldo certo Giuseppe Labarbiera, che subito ci aprì la porta, e nel vederci così affranti ci offrì pane, olivi e vino. La stanchezza ormai ci vinceva il morale assai abbattuto; e quindi ci lasciammo cadere sopra un mucchio di erbe secche, abbiamo passato così la notte cruda del 25 novembre. Ai gaudenti ai numerosi commendatori dovrei ricordare quanti sacrifizi? quante privazioni nostre? Noi eravamo ridotti cinque, Nicolò Dimarco, i due fratelli Romano, Ribaudo, e lo, scrivente, non potevamo stare a lungo in quella casa assai frequentata dai numerosi lavoranti. Venuto il giorno il Castaldo ci diede del pane ed olivi, siamo usciti l'uno dopo l'altro da una certa distanza, presimo la volta per la contrada Valle di Bruca, ove nel fondo di un certo Nicolò Sciolara esisteva un magnifico tugurio capace di contenere 20 persone. Giunti che fummo, le nostre menti lavoravano per trovare il mezzo di salvarci dall'arresto. L'unica cosa dicevamo, sarebbe di trovare una barca ande condurci in Malta, e questa somma chi la tiene per fare questa operazione soggiunse Ribaudo, Dimarco osservava: Cari amici per questo affare bisogna trovare prima la persona incapace di tradirci, e che prepari il legno; per il denaro penserò io, tengo un peculio di argento in mia casa. Mentre noi eravamo assorti in questi pensieri di salvezza coi cervelli offuscati, passarono innanzi al tugurio due ragazzi che raccoglievano olive ed avvicinati nel tugurio ci videro; Francesco Romano chiamò i due ragazzi e li fece entrare; Ragazzi raccontateci cosa fanno i soldati, e li sbirri in paese. Dopo che arrivarono dissero loro: fecero bandizzare di presentarsi tutti, e molti si sono presentati, stamane si presentò pure il Salvatore Como che sta vicino di noi e cammina libero nel paese, Francesco Romano, per essere meglio informato disse ai due ragazzi, ora partiti pel paese, trovate Como e gli direte che io l'attendo subito qui badate a non parlare con nessuno di averci veduti e diede loro tari

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due (C. 85) Vi raccomando di essere silenziosi ragazzi soggiugeva ; al che loro risposero di stare tranquilli su ciò. Partiti i due ragazzi per nostra cautela si decise che uno di noi si postasse a fare la guardia nel vicino poggetto detto Cozzo del Triario, sito da cui si scopre bene a lunga distanza la via che porta, e viene dal paese. Giunti che furono i due ragazzi in Mezzojuso trovarono il Como nella propria casa e lo fecero consapevole di quanto erano stati incaricati da don Ciccio Romano, e designarono il sito dove eravamo, il Como subito cavalcando la sua mula si recò da noi. Il Santo Romano che stava di guardia sul poggetto viene da noi ad avvisarci la venuta di Como, Dopo pochi minuti Como giunse nel tugurio fra noi. Che notizie ci porti Como ? gli disse Francesco Romano, cosa hanno fatto i sbirri ? Come arrivarono - rispose Como - fecero gettare un bando di presentarsi tutti coloro che fecero parte con Bentivegna perché arrestati saranno fucilati. Io mi sono presentato per mezzo di don Gaetano Scarlata; tengo un salvacondotto quando termina vado a presentarmi. Io osservai, hai fatto male a presentarti; perchè tu non eri con Bentivegna, ma eri con don Davide Figlia ed entrambi siete fuggiti i primi Francesco Romano disse, seguita Como, cosa fa l’amico Gaetano Scarlata? Porta un notamento delle persone compilato dallo sbirro Ignazio Spallita ed un libro stampato col quale gira le case dei parenti dei ricercati e quel libro dice che la legge assicura che nessuno può essere condannato, (era l'articolo 137 del codice napolitano) fuori dei capi, e chi abbia fatto altri delitti. Cari amici, io vi consiglio di chiedere il salvacondotto e presentarvi vi è tanta forza che gira nelle campagne, che non starete molto di essere arrestati. Io, e Ribaudo abbiamo risposto: qualunque cosa accada noi non anderemo nel carcere coi nostri piedi. Francesco Romano dopo un poco di riflettere disse al Como, mi farai il piacere come giungi in paese portati subito da mio padre e gli dirai che appena dopo l'Avemaria si faccia trovare presso la casa di Lampiasi al Pigno, quanto lo consiglieremo. Certo vi consiglierà di presentarvi, soggiunse il Como. Va via Como, riprese a dire Romano portati da mio padre, bada però che invece di mio padre trovereremo altre persone. Ella mi conosce da molto tempo, rispose il Como (quasi offeso) mi crederà capace di una simile infamia. Appena giunto in paese, si recò dal vecchio don Ignazio Romano, il quale cominciò di giorno pian piano ad avvicinarsi nel sito per non dare sospetto. Poscia si nascose dalla parte di sopra della siepe che circonda la casa per attendere la nostra venuta. Noi verso l'Ave abbiamo lasciato il tugurio e prendemmo la via del Pigno, dopo venti minuni di cammino siamo giunti nel sito designato, ed abbiamo trovato il vechio Romano, che ci attendeva, però fu sorpreso quando ci vide tutti e cinque armati ed esclamò: Ma proprio volete essere fucilati figli miei? se vi prendono colle armi alla mano nessuno può risparmiarvi dalla cruda morte! Rassicurati papa che le armi saranno lasciate; gli disse Romano Francesco, il quale continuava a dire: Che ci consigli di fare? Vi consiglio a chiedere il salvo condotto e presentarvi, così potete molto sperare e potete essere liberati secondo l'articolo 137 del Codice, così del resto non potete stare lungamente nelle

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campagne, perché al rigor dell'incalzante stagione, si uniscono le ricerche attive della Polizia. Penseremo ciò che ci conviene di fare; risposero i figli e Dimarco. Il vecchio genitore strinse al seno i suoi tìgli col Dimarco, salutò me e Ribaudo, e si partì da noi col cuore amareggiato della nostra triste situazione. Partito il vechio genitore tristo e malinconico, anche noi ci siamo messi alla via, ed abbiamo passato per la vicina contrada di Corticchio, contrada Corsa, e Ponte, e poscia siamo giunti nella contrada Frattina, sito opposto ed assai distante dal tugurio donde eravamo partiti; ci siamo fermati nella casa di Maestro Nicolò Desalvo, ove esistevano, e credo che tuttora esistono, un gran deposito di Api, nel vano dei fascelli abbiamo nascosto le nostre armi, poscia per maggior nostra cautela ci siamo allontanati da quella casa, e siamo andati nella sottostante casa di Basilio Lampiasi, casa che trovasi in riva al fiume, e coperta di alberi, che da lungi non si osserva, essendo chiusa sono salito sulle tegole, penetrai nella casa ed ho aperto la porta ai miei compagni. Così buttati sulla nuda terra abbiamo passata la notte. Venuto il novello giorno abbiamo diviso il poco pane che tenevamo, però mancava l'appetito! Più di tutti in simile affliggente posizione soffriva il Dimarco, mai aveva sofferto nella sua vita, ma nessuno di noi mandò fuori un lamento. Io incoraggiava il Dimarco di starsene lieto che secondo diceva - Bentivegna scoppierà l'incendio, in Napoli al Vesuvio, qui in Sicilia in Moncibello, ossia l'Etna, e così ripigliererno le nostre armi e ci porteremo sul campo della gloria. Dimarco rispose: Stanno bene tutte queste speranze, ma per avere il pane domani come faremo? Francesco Romano rispose: Questa sera abbiamo pane ed alloggio nel vicino paese di Godrano: colà abita un nostro compaesano certo Andrea Lampiasi, la moglie fa la levatrice, lui tiene bottega di pane, vino, formaggio, tiene un cavallo e tiene la pagliera divisa dalla casa, ove egli abita, lo pregheremo di nasconderci per qualche tempo, son certo che lui non si negherà essendo un uomo di guai e di principi di maffia. Dimarco soggiunse: d'altronde sarà largamente rimborsato da me. Venuta la sera, tutti e cinque provvisti di bastoni siamo saliti nel soprastante Godrano; colà giunti siamo rimasti dietro una porta di casa piena di paglia. Santo Romano ebbe l’incarico di portarsi nella casa del Lampiasi, il quale come vide entrare il Santo Romano in sua casa si spaventò. Il Santo lo pregò di chiudere la porta pria di parlare; Don Santo disse l'amico Lampiasi come vi siete azzardato di entrare in paese senza lume? qui vi è ordine dal governo che chi cammina senza lumi deve essere preso a fucilate. Ieri sera il povero Schiddizzi non conoscendo questa disposizione camminando senza lumi è stato ucciso con una fucilata da certo Fucarino. Ebbene Don Santo qual'é il motivo della vostra venuta ? Santo rispose: Mi manda mio fratello Ciccio, e il Gav. Nicolò Dimarco che rimasero fuori il paese, primo per comperare del pane, secondo per chiedervi un gran favore quello cioè di nasconderci nella vostra pagliera che sarete largamente ricompensato dal Cav. Dimarco. Caro don Santo, mi dispiace non poter accettare la vostra proposta, perché in questo paese gli abitanti sono tutti una canaglia e spioni, non posso compromettere voi e me saremo tutti arrestati, prendete tutto ciò che vi bisogna e partite; il Santo vedendo di essere inutile l'insistere si riempì le

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tasche di pane, e formaggio, uscì da quella casa al buio palpitante di ricevere qualche fucilata come lo Schiddizzi, e giunto fra noi ci raccontò la recisa negativa ricevuta dal Lampiasi, rifiutando qualunque promessa, purché non fosse stato molestato, molto l'aveva scosso la morte del povero Schiddizzi. Col cuore gonfio, e scoraggiati dal rifiuto ricevuto dal Lampiasi, col fitto buio, e colla pioggiarella abbiamo preso la via rifatta e siamo entrati nella stessa casa, da dove eravamo partiti; abbiamo dato principio al nostro pranzo dal Godrano, conservando metà del pane per l'indomani: così abbiamo passato la seconda notte in quella casa. Venuto il novello giorno, si mangiò il resto del pane e formaggio: Dimarco diceva come faremo per avere del pane necessario e non morire di inedia? risposi ho previsto perciò questa sera lasceremo questa casa, e ci porteremo nella contrada Pizzi. Vicino le terre del Collegio di Maria esiste un tugurio nel fondo di Nunzio Franco mio parente, che guarda il paese; quando saremo giunti io mi porterò nella casa Pizzi, e colà procurerò il pane necessario. Ottima pensata, risposero i miei compagni, venuta la sera dopo che i lavoranti di campagna avevano presa la via per recarsi in paese, noi abbiamo lasciata quella casa. Giunti nella contrada Ponte del fondo Pravatà, il Santo Romano disse al fratello di volersi portare in paese per vedere la sua donna, e sistemare i suoi affari domestici, promettendo che la dimane ci raggiungerebbe nel tugurio appena fatto giorno e che avrebbe portato pure del pane. Il fratello Francesco non voleva che il Santo si fosse allontanato, per timore che fosse arrestato; ma il Santo non volle sentire i consigli del fratello, e prese la via di Mezzojuso. Noi rimasti in quattro prendemmo la via del tugurio. Appena giunti mi recai nella Casina Pizzi, ove in quell'epoca abitata del mio vecchio amico, e confidente Marco Dioguardi coi suoi figliuoli, il quale subito mi diede un pane di due chili, ed oliva nere, avvertendomi che quella casa ere stata visitata della forza pubblica per la mia ricerca. Santo Romano come giunse in paese si portò nella casa di Gaspare Corrao padre della sua donna, fece chiamare il vecchio genitore, il quale persuase il Santo a presentarsi, ottenne un salva condotto e la mattina seguente comparve nella piazza, come i credenti che ritornano dopo di avere ricevuto la benedizione Papale. La stessa sera, che il Santo era partito da noi, giungevano da Palermo, la moglie e la sorella del Dimarco, ed avendo ottenuto dallo stesso direttore Manescalco, un salvacondotto per lui, e lo andavano cercando dova lo si potesse ritrovare; ma quando intesero che Santo Romano si era già presentato, lo fecero subito chiamare, il quale senza farsi molto pregare indicò il sito ov'eravamo. La donna Peppina, sorella del Dimarco, donna energica tutt'ora in vita, ordinò al soprastante Antonino Siracusa, di preparare una mula con sella ed attenderla fuori l’abitato. Io che stavo di vedetta dietro la siepe per vigilare le mosse della forza, osservai che una donna a cavallo, vestita di nero, accompagnata da una persona, si dirigeva verso di noi, chiamai il Dimarco osserva gli dissi quella donna che viene: Oh! certo è mia sorella Peppina e viene diretta a noi, come succede ciò? Facile ad indovinarlo, certo Santo si è presentato. Come giunse fra noi, il saluto che diede al fratello fu: Sei contento adesso? hai tolto la corona al re? Ora piangi le tue pazzie. Ecco qua il tuo salvacondotto, che a

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noi ci diede ieri lo stesso Manescalco, e ci promise di darti tutta la sua agevolezione, qualora ti presenti, altrimenti se vieni arrestato, sarai fucilato col tuo amico Bentivegna, che ti portò alla rovina. Il Dimarco disse allo zio Francesco Romano: che cosa pensate di fare? e n'ebbe in risposta, faccio ciò che fate voi, cosa ne dite voi ch'io faccia? Ribaudo rispose: Mio caro cavaliere, le chiavi della prigione si trovano quando si entra, poi si perdono quando si deve uscire, poi il motto dice: Meglio piede in bosco, che piede in ceppo; allora la sorella del Dimarco, tutta adirata, rispose: Voi Ribaudo con questi sentimenti volete rovinare mio fratello. Ribaudo rispose: Signorina in questo caso, posso dirle che è stato suo fratello che ha rovinato tutti noi: io ho manifestato soltanto la mia opinione, ma ciascuno di noi, è padrone di fare come meglio gli conviene. Per me, continuava Ribaudo non vado in carcere coi miei piedi. Anch'io sono del parere di Ribaudo, ho dichiarato, e non mi costituirò come alcuni già hanno fatto. Basta, rispose il Dimarco, tronchiamo queste mutili discussioni. Tu cara sorella, come giungerai in paese, farai avere il salvacondotto per lo zio Francesco, poi a mezzanotte farai trovare la mia carrozza alla Deputazione, e partiremo per Palermo, per evitare la curiosità di vedermi in paese. La sorella se ne partì da noi tutta contenta per avere persuaso il fratello a presentarsi, Appena gianse in paese fece chiamare Nicolò Romano fratello di Francesco, onde ottenere dal Colonnello Chio il salvacondotto pel fratello Francesco, che subito gli venne accordato. Poscia chiamò il vettorino ordinandogli di preparare la carrozza per la notte. Il Dimarco dopo partita la sorella ci fece conoscere il motivo per cui aveva accettato il salvacondotto, come giungerò in Palermo, cercherò con tutti i mezzi di trovare una casa dove potermi nascondere, e dopo sacrificando qualunque somma, potrò trovare un'imbarco per l'Estero, perché son sicuro che passerò la mia vita nel carcere. Io risposi, il tuo piano è ottimo, però ne sono certo che tua sorella verrà teco e non ti lascerà un momento solo e ti porterà con lei da Maniscalco. Io in quel giorno feci i miei piani, stare nelle campagne nell'inverno, così ricercati, è cosa assai difficile manca il necessario per vivere, esposti sempre al pericolo di essere arrestati, anche io posso procurare una casa nella vasta Palermo per mezzo di mio fratello il prete e nascondermi, e cercare l'imbarco per l'America, venuta la sera mi portai la seconda volta nei casamento Pizzi. Scusate miei buoni amici, disse loro, se vengo a seccarvi la seconda volta, ma vi assicuro che sarà l'ultima volta che vengo. Noi siamo stati due giorni in un tugurio col Cav. Dimarco, suo zio Romano, e Ribaudo questa notte Dimarco e Romano partiranno per Palermo e vanno a presentarsi, io rimarrò con Ribaudo contro il mio volere. Voi mio vecchio amico mi dovete liberare di percorrere con lui le campagne, voi dimane dovete partire per Palermo, ove troverete mio fratello il prete, che abita nella via dell'Orologio Olivella n. 12 consegnerete questo denaro che vi lascio, e lui deve trovare una casa dove potrò nascondermi, vi do queste due piastre per spese del vostro viaggio. Questo mio amico Marco Dioguardi, venuto il giorno cavalcando la sua mula, si portò in Palermo presso mio fratello, eseguendo bene l'incombensa ricevuta.

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Ritornato presso i miei compagni nel tugurio si attendeva l'ora fissata per l'arrivo della carrozza, che doveva condurre il Dimarco in Palermo. Era la sera del 2 Dicembre, giorno fatale per l'arresto di Francese Bentivegna. Verso le undici abbiamo tutti quattro lasciato il tugurio, prendemmo la via di Serrata e siamo scesi nella contrada Ponte, prendemmo lo stradale, e siamo giunti nel sito stabilito dalla Deputazione. Colà giunti ci sedemmo, direi quasi tranquilli nel sedile aspettando la venuta dell'accennata carrozza, che non passò molto ad arrivare, colla moglie e sorella del Dimarco, in compagnia di Antonino Siragusa, al quale fu ordinato di soddisfare alle nostre richieste, e dopo di averci Dimarco e Romano entrambi abbracciati, presero la via di Palermo. Io, Ribaudo e lo stesso Siragusa, abbiamo preso lo stradale per Mezzojuso, e quantunque il pericolo sovrastasse, pure eravamo tranquilli senza paura di essere sorpresi ed arrestati. Vicino al paese il Siragusa richiese cosa si volesse da lui ; Voi tenete le chiavi della casa grande di donna Sara, gli abbiamo detto, noi dobbiamo stare per qualche tempo in quella casa, voi ci porterete del pane col nostro denaro. Il Siragusa era un uomo dello stampo antico, e pieno di esperienza, perciò rispose non essere prudenza in quell'ora entrare in paese colle numerose pattuglie che girano le strade, lasciate che incominci il movimento delle persone, allora è il caso di entrare in paese ed entrare nella casa certo senza essere osservati. Per ora portatevi entrambi costeggiando l'abitato nel giardino di Sanfllippo, inteso Ba- stianeddu, dove verrò io stesso a chiamarvi alzando tre volte questo lume, che tutti dovremo portare per effetto delle attuali rigorose misure militari. La casa dove noi dovevamo entrare, il primo piano era occupato da Don Ignazio Battaglia, persona non capace di tradirci, se nel caso conoscesse la nostra dimora. In alcune stanze vi era del frumento, il rimanente erano vuote. Il Siragusa fedele alla promessa venne e fece segno col lume, subito corremmo verso di lui, il quale si pose il primo in cammino e si entrò nella casa desiderata pel nostro riposo, che fu di breve durata. Colà abbiamo trovato paglia di lino, e di fronte alla nostra stanchezza, sembrandoci letti di piume ci siamo posti a dormire tranquillamente, dopo il Siragusa portò del pane. Nicolò Dimarco come giunse nella propria casa in Palermo col Romano, si pose a dormire dopo molti giorni di stanchezza senza vedere il letto. La sorella, donna Peppina, era uscita di casa ed aveva appreso l'arresto del Bentivegna nelle campagne di Corleone, ritornata in casa fece consapevole il fratello dell'avvenuto arresto, esortandolo a recarsi da Maniscalco onde ringraziarlo. Il Dimarco alla triste novella cambia di opinione e prende i consigli della sorella recandosi dal Maniscalco insieme col Romano e la sorella. Il Maniscalco lo accolse con gentilezza e gli disse: Cavaliere, avete fatto bene a presentarvi, il vostro Barone Bentivegna è stato arrestato, voi certo senza passar molto avreste seguito la stessa sorte. Quando termina il vostro salvo condotto vi costituirete in carcere. Io e Ribaudo stavamo tranquilli in quella vasta casa, nella quale dalla parte superiore osservavamo la casa dei Rudinì, ove alloggiava il Colonnello Chio, vedevamo entrare, ed uscire i capi di quella sbirraglia. Un giorno venne

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da noi il Siragusa e ci recò la notizia ehe il suo padrone Cav. Dimarco era entrato nel carcere con Romano, e che in paese era giunto il Giudice Istruttore per formare il processo contro le persone della banda. Mi fu assicurato, soggiungeva il Siragusa, che la forza deve perquisire tutte le case del mio padrone per vedere se trovino carte compromettenti; restate avvertiti. Questa notizia non poteva non destarci impressione, e perciò gli dicemmo: credete necessario di uscire adesso di giorno? Credo di no rispose il Siragusa, perché certo, il Giudice, e la forza, prima si porterà nella casa abitata certo dal padrone. Io adesso metterò di guardia mio figlio, sarete avvertiti, e subito uscirete. Ribaudo quantunque amareggiato che un nuovo pericolo ci affliggeva mi disse: Vedete tengo questa chiave del vicino magazzino di vino del colleggio di Maria, questa sera quando viene il Siragusa voi lo mandate a comperare del pane, ed io vado ad aprire la porta del magazzino ove attenderò la vostra venuta. Arrivata la sera giunse fra noi Siragusa per darci lo sfratto perché per lui era un pericolo. Così siamo scesi tutti e tre. Io pregai il Siragusa di comperarci del pane, e formaggio per non morire di fame. Partito il Siragusa Ribaudo va ad aprire la porta del magazzino ed io rimasi nascosto dietro il portone. Venuto il pane feci partire il Siragusa; poscia mi portai nel magazzino e feci colà pure il mio ingresso senza essere osservato. In quel magazzino esisteva un poco di vino guasto, si mangiò per due giorni, io posi una botte dietro la porta stessa, per impedire di essere osservati da un buco che esiste nella porta medesima, e così facevamo le nostre lunghe passeggiate in quel vasto fabbricato, abbiamo tolto un coperchio ad una grossa botte e stavamo li dentro a dormire se non comodamente riparati almeno del freddo.

VII

Il Giudice Istruttore spedito dal governo fu l'Avv. Don Giovanni Barcia da , Giudice della Corte Criminale di Palermo. Appena giunto si pose al lavoro per istruire quel voluminoso processo. Quasi tutti presentati furono più di quattrocento interrogati, come componenti della banda, oltre più di duecento come testimoni. Molti di questi signori pria di presentarsi dicevano: per tari quattro vado in galera, fra questi tali vi fu Frencesco La Barbiera, (che lo disse in Villafrate). Domandate dal Giudice Istruttore, perché si erano uniti a far parte della banda di Bentivegna rispondevano: Noi seguimmo lui, e gli altri per guadagnare da mangiare; perché loro ci promisero una buona paga giornaliera, non conoscevamo cosa si dovesse fare, ma quando abbiamo appreso che si doveva andare contro il Governo siamo fuggiti lasciandoli soli. A richiesta dall'Istruttore dichiararono pure, che oltre del Barone Bentivegna, e di lui fratello, vi erano altri capi. Il Giudice allora disse: Palesate alla Giustizia chi erano gli altri capi della banda al che loro rispondevano: II Cav.

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don Nicolò Dimarco, don Francesco, e don Santo Romano, don Davide Figlia, Antonino Gugino, Rosario Vibaudo, don Spiridione Franco, e un certo don Luigi La Porta da Ciminna, a carico dei quali le persone che furono interrogati la maggior parte fecero questa dichiarazione, pochi furono coloro che mantennero un contegno dignitoso. Fra coloro che seguirono Davide Figlia la mattina del 23 Novembre in Mezzojuso, vi fu un rondiere Municipale certo Ignazio Spallitta, il quale lasciò la squadra fra i primi e si costituì al giudice locale facendogli le prime dichiarazioni. Poi venuto il Colonnello Chio, che gli promise di liberarlo qualora rivelesse i nomi di tutti coloro che fecero parte con Bentivegna, pensò per meglio riuscire nell'opera infame di prendere per compagno certo Giuseppe di Salvo, inteso da noi Vartulozzu che animato pure dall'Ispettore Gaetano Scarlata di liberarlo, entrambi si posero all'opera, nominando quasi tutti i componenti la squadra. Sicché ognuno vede, che senza l'opera di questi due infami, molte persone sarebbero sfuggiti tranquillamente senza essere ricercati e sottoposti alle dure prove della Borbonica polizia, e condotti innanzi al Consiglio di Guerra. Davide Figlia animato dalla venuta del Giudice Barcia, amico è collega del di lui fratello Giudice don Giuseppe Figlia, chiese ed ottenne il salvocondotto, lascia il suo nascondiglio e si porta in Mezzojuso a costituirsi. Fra i nominati capi ricercati eravamo rimasti, Gugino, Ribaudo, ed io, e Luigi La Porta; al quale lo Zio don Vincenzo gli aveva procurato un buon nascondiglio, ove rimase, direi sepolto sino al 1860. Gugino si rifugiava nelle campagne or qua,or là per sfuggire alla continua ricerca della polizia. lo e Ribaudo stavamo tranquilli nel magazzino sopra cennato. Davide Figlia credendo fare un'atto affettuoso verso di me si recò da mia madre, che era pure di lui cugina, onde persuaderla di cercare il mezzo di farmi presentare per avere salva la vita: Badate, le diceva; che se vostro figlio verrà arresgato sarà fucilato; mia, madre donna di coraggio, ed altiera, gli rispose: Se siete stato imbecille voi a presentarvi - credetemi che non sarà ugualmente mio figlio, il quale è deciso a non volersi presentare qualunque cosa gli accadesse. Ier sera che lo viddi di volo dissemi, che appena sarà propizio il tempo si porterà in America; quindi vi prego caro Cugino, di non prendere cura di mio figlio lasciatelo pure fucilare! Una sera mi recai dallo Zio Davide per dargli il buon viaggio. Egli nel vedermi credette ch'io fossi andato da lui per prendere consiglio a presentarmi, senza discussione Io prevenni, ch'ero andato solamente per augurargli un buon viaggio ed un prossimo ritorno in famiglia, giacché le repressioni del Governo del Borbone non sono che lievi strali di cenere sul «vivo fuoco, che presto divamperà nel continente». Se avrò la fortuna di partire per l'America, ci rivedremo quando sarà compiuta la rivoluzione, voi però quando sarete nel carcere conservate un

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posto vicino al vostro nel caso mi toccasse di essere arrestato, saremo vicini. Il Davide e la sorella Eudosia, quest'ultima ancora in vita, mi chiesero cosa ne fosse del denaro ch'esisteva. Io rispose a loro, è stato diviso l’indomane della vostra partenza, fra noi che rimanemmo sino alla fine? La sorella tutta crucciata osservava; mio fratello era uno dei veri capi, come va che non ebbe danaro? Certo se vostro fratello fosse stato presente, le risposi, avrebbe avuto la sua porzione; ma egli per consiglio dello zio Ercole fuggì quasi primo di tutti? a rivederci buon viaggio e coraggio. Nel pomerigio del 6. Dicembre 16 carri erano pronti per tradurre un buon numero dei nostri amici, e compagni nel carcere di Palermo. I rispettivi parenti correvano piangenti per le strade, onde salutare i loro cari. In ogni carro stavano 12 arrestati coi ferri ai pulsi e ben custoditi con dodici soldati che circondavano ogni carro. Io per vedere la loro partenza mi arrampicai sopra le botte vuote e mi posi dietro la crata di legno dalla quale si osservava bene la chiesa del S.S. Crocifisso, e lo stradale che mette fuori del paese, dal quale punto i carri dovevano transitare. Ebbi l’aggio infatti di vedere passare i nostri amici e compagni e contai il numero dei carri. Quante sciagure, e quante lagrime in pochi giorni! miei cari Cavalieri e Commendatori del Regno Italiano! ! Vi furono dopo altre spedizioni da noi non veduti, perchè dovetti mo lasciare il magazzino del Collegio costretti da nuove crescenti necessita, i nostri compagni giunti nel carcere di Palermo molti furono racchinsi in camera serrata al buio, perche più compromessi come Dimarco, Davide Figlia, i fratelli Romano, Vincenzo Palermo, e il dottor Bellone, ed altroché innanzi l'Istruttore avevano mantenuto un contegno dignitoso. I due fratelli Bentivegna stavano racchiusi nel forte Castellammare aspettando il duro fato. Io e Ribaudo, racchiusi nel megazzino, eravamo privi di pane essendoci terminato quello comprato dal Siracusa, Come fare? ben presto una mattina, quando le persone battevano le strade, siamo usciti, e siamo entrati dal fornajo Michele Azzarello, inteso Bobbia, uomo anche di maffia non capace di tradirci. Egli ci diede il pane necessario, poi ci comprò del formaggio fresco, pregandolo di farci trovare della salciccia cotta ad altri tre giorni. Pagato il pane e formaggio ci siamo ritirati se non tranquilli, rassegnati nel Magazzino; dopo tre giorni, siamo ritornati dal fornaio, pronta la commissione, vi trovammo la salciccia, col possesso della quale siamo rincasati. Leonardo Manno, il birro così detto compagno d'armi, il quale era stato pure un vecchio compagno di carcere dei Ribaudo: avea inteso un dialogo fra il Capitano d'armi Giorgio Chinnici e l'Ispettore Gaetano Scartala. Il primo diceva: Il famoso Gugino è stato veduto in diversi punti nelle campagne; ma del Franco e Ribaudo nessuna notizia. Scarlata soggiunse: sono certo e ricuro che saranno nascosti qui in paese? Questa notte faremo delle ricerche in varie case, cercheremo di

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scovarli. Il Manno che aveva tutto inteso, e volendoci giovare, e farci del bene, come avevami promesso alla Lacca, uscendo nelle strade, vide il nostro fornaio, Azzarello. Michele, gli disse ti vedo appunto ti devo fare una stretta confidenza da uomo che sei! che questa notte si dovranno perquisire molte case nel paese per trovare Franco, e Ribaudo. Se tu conosci ove loro sieno, avvisali di allontanarsi del paese. Il fornaio rispose ti ringrazio della confidenza che mi fai, però ti dico che io fo il fornaio e questo mestiere mi dà il pane, e non voglio sentire di altra cosa per non compromettermi. Quel furbo fornaio, sebbene tenne quel linguaggio col Manno, pensò di farci avvertire, trovò Michelangelo Ribaudo, e gli disse: Come viene la sera portati nel Magazzino grande del Collegio, colà sta tuo fratello, Rosario avvisato di lasciare quel sito essendovi dei sospetti. Quel giorno una ragazza figlia d'Isidoro Battaglia, oggi moglie di Giuseppe Battaglia, che abitava innanzi il magazzino aveva introdotto un ferro tra la porta e l’anto, in modo che era difficile la nostra uscita, ed eravamo sventuratamente rimasti prigionieri. Venuta la, sera di quel giorno 7 Dicembre, mentre la gente si recava al vespro dell'Immacolata, s'intese da me una voce, sottomessa che diceva: Rusulino, poi cessava, era il fratello Michelangelo che chiamava e poi si allontanava quando passavano le persone: Ritornava poscia a chiamare, allora il mio compagno Ribaudo si avvicina alla porta e conobbe il fratello Michelangelo. Cosa voi gli disse. Fuggite subito rispose l'altro. Non possiamo ci affrettammo a dire, senza che sia tolto il ferro della porta. Allora Michelangelo, si allontana, ritorna. Toglie il ferro e noi siamo usciti; pigliando pel solito giardino Sanfllippo, prendemmo per la Lacca, ove pernottammo quella fredda notte in una casetta, che non offriva neppure il conforto del riposo. Fatto giorno siamo saliti vicino il feudo cirasa, ove abbiamo fatto conoscenza col custode, certo Gaspare Macaluso, che ci offrì del pane e formaggio fresco, meno male che abbiamo trovato quell'uomo generoso, ma dove erano scomparse le carezze dei miei genitori! Il vitto, il letto in seno della Famiglia? Dopo incontrammo Gugino, e Mazzarese Mariano parlavano della nostra critica posizione in cui noi ci trovavamo; ma non ci mancò mai la fede per la rivolta. Il Giudice Istruttore Barcia, aveva lasciato Mezzojuso, dopo di avere inteso molte persone. Era passato in Villafrate, e dopo in Ciminna, ove, intese molte persone, aveva fatto ritorno in Palermo consegnando il voluminoso processo al Procuratore Generale allora Pinelli (un bravo carnetta). Ripartiva poscia per Cefalù, per istruire l’altro processo detto dalla banda Spinuzza. Quest'altro prode, e vittima della libertà della patria, conosciuto di nostro movimento, giusta, la promessa fatta al Bentivegna ed al messo Giuseppe Mazzarese, insorse in Cefalù coi fratelli Nicola e Carlo Botta, coi cugini Salvatore e Alessandro Guarniero, con Andrea Maggio e Cesare Civeddu, in Grattieri insorse pure Francesco Bonafede, che raggiunse Spinuzza in Cefalù. Riunirono essi un buon numero di persone armate, col piano di unirsi con noi, ma nel vedere sapraggiungere molta forza

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per per mare e per terra, molti si sbandarono rimanendo pochi dei più compromessi, come è facile comprendere si erano allontanati da Cefalù, e si erano recati nei monti delle Caronie, appartenenti al di Pettineo nella casina del Signor Glorioso; Salvatore Spinuzza per avere denaro dalla famiglia spedì una lettera al fratello Antonino in Cefalù, il quale era stato tratto in arresto, il portatore della lettera pensò bene di consegnarla al cognato Clemente Marsiglia, che la riconsegnò al di lui suocero Signor Vincenzo Fratantoni ricevitore distrettuale in quell'epoca. E questi per rendersi benemerito all'abborrito Governo dei Borboni ed ottenere una qualche Commenda a prezzo di sangue, andò subito a portarla al Sotto Intendente Signor Caffaro, che subito mandò numerosa forza contro i fuggiaschi. La casina venne circondata da ogni parte, dopo chiesero la resa, ma quei valorosi giovani risposero colle fucilate, che durò per molte ore, ma finita la munizione fu necessità la resa. Caddero quindi prigionieri, Spinuzza Nicolò e Cario Botta, i cugini Salvatore ed Alessandro Guarniera Andrea Maggio. Un decreto del Re bombardatore aveva riaperto il Consiglio di Guerra, col rito subitaneo, da molti anni abolito, (dopo di avere fatto molte vittime in Sicilia) per giudicare le persone delle due bande di Mezzojuso e Cefalù e dare l'esempio a quei popoli col sangue di Francesco Bentivegna in Mezzojuso e di Spinuzza Salvatore in Cefalù. Gli avvocati di Bentivegna, già avevano compreso le mire del Governo che voleva del sangue, fecero perciò un motivato ricorso giuridico alla Suprema Corte di Giustizia, (oggi Cassazione) Signori, si esponeva, da molti anni nella nostra Isola è cessato lo stato di guerra, Bentivegna e compagni in dritto giuridico debbono essere giudicati dalla Corte Criminale, al più col Rito Speciale. Eravamo sopra le campagne che sovrastano il paese, luoghi montuosi e boschivi. Verso metà del mese di Decembre, ci siamo uniti con Gugino, e Mazzarese Mariano, il fratello Giuseppe era già in carcere. Un giorno tutti quattro siamo saliti sopra una collina che tiene la forma di piramide; essa sta in mezzo al Feudo Cirasa ed il bosco di Mezzojuso, la vetta è coperta di arboscelli di quercia, colà esiste una profonda grotta da lungi non osservata. Io stavo lì nella parte esterna osservando il mare dalla parte di Solanto. I miei tre compagni nella grotta facevano i loro piani strategici del loro mestiere, giacché tutti e tre avevano la stessa scuola, io stava a contemplare l'azzurro mare e desiderava di valicarlo per essere libero su quella bianca nave che si vedeva da lungi, quindi aveva poco prestato orecchio ai loro piani. Però disturbandomi nelle mie preoccupazioni vollero sentire il mio parere sopra i medesimi piani, risposi: Vedete sul mare quella nave, il mio parere è che vorrei trovarmi dentro quel legno, e che mi trasportasse in qualche paese libero,in invidiabile condizione! I vostri piani li lascio a voi, non contate su di me. Chi del lettori della presente monografia abbia conosciuto in quell'epoca

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gl'individui, coi quali per i fatti che ho narrato io mi trovavo compagno, comprendeva i piani che loro formavano: Disse Mazzarese il più giovane ciarlone, che senza conoscere bene il mio passato motteggiò essere io un galantomicchio pauroso. Ebbene, gli risposi, se volete conoscere se sia veremente pauroso, io vi formo altro piano. Corre la voce, e Dio la disperda, che il nostro amico Bentivegna fra breve sarà giudicato dal Consiglio di Guerra, e verrà fucilato nel nostro paese. In tale caso che io tremo ad annunziarlo lo condurranno di notte, noi attenderemo il suo passaggio nel punto sopra i bagni di Cefalà Diana, luogo come già conoscete assai propizio, attaccheremo la scorta e tenteremo di poterlo liberare. Ma questo piano ardito e generoso non piacque a quei compagni coraggiosi, sembrando assai azzardato e pericoloso. Io guardo il mare nello stesso tempo facevo voti di lasciare simile compagnie, perchè loro aveano altro ideale, contrario alle mie aspirazioni. Quando il sole era sul tramonto uno dopo l'altro abbiamo lasciato la grotta. Giunti dalla parte bassa, Gugino ha esternato il suo vivo desiderio di volersi la sera recare nel paese, onde vedere sua figlia, che stava nascosta da quando erano venuti i soldati, in casa di una famiglia amica, per non essere insultata dalla sbirraglia. Io gli feci riflettere di non essere prudenza recarsi nell'abitato prima perchè poteva essere arrestato, sia pure perchè la figlia avrebbe potuto essere efficace da persuaderlo a presentarsi, come già aveva fatto la moglie quando egli era fuggito dal carcere di Palermo. Mazzarese soggiunse che avrebbe lui accompagnato Gugino in paese e non lo avrebbe fatto presentare. Tutti quattro adunque scesimo verso il paese, quando fummo giunti sopra la piccola chiesa della Brigna disseminata di alti annosi alberi, e di cespugli i due amici presero commiato da me, e Ribaudo, dandoci appuntamento per la dimane sera nello stesso sito, io con Ribaudo siamo rimasti lì stesso a contemplare i lumi della sottostante piazza di Mezzoiuso, a sentire il cicolio delle persone, della numerosa soldatesca. Lasciando quel sito abbiamo passata la notte, ed il nuovo giorno in una casetta in contrada Croce. Venuta la sera scendemmo nel sito stabilito per attendere Gugino, e Mazzarese. Ma trascorsa l'ora stabilita e non comparendo, abbiamo sceso vicino i muri del paese, e ci siamo fermali nella vicina grotta. Eravamo senza pane perciò Ribaudo, volle per procurarne, che io mi portarsi dal vicino suo compare Francesco Paolo Barcia, che faceva il mestiere del beccaio. Appena entrato chiuse la porta trovai il Barcia colla sua numerosa famiglia seduta a tavola che mangiavano dei piedi, ed Interiore di castrato cotte. Vollero che io accettassi quel desinare e così mi posi con loro a mangiare. In altro tempo sarebbe stato per me assai rozza, e sdegnosa pietanza, ma in quella sera mi sembrò un piatto prelibato all'Inglese. Mentre noi mangevamo in quella stanza a pian terreno si fece udire un calpestio di più persone ed una voce, Francesco Paolo che fai? al che rispose mangio; vogliono entrare, e nel mentre mi fece segno di mettermi sotto la vasta tavola

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e corre ad aprire la porta. Entrate signori, vi è roba per tutti; E loro grazie Francesco Paolo ed andarono via. Era una pattuglia di venti Urbane comandata dal Sotto Capo Urbano fratello di mio padre. Dopo che le guardie si allontanarono, Barcia prese un grosso pane ed un pezzo di formaggio venne meco con l'occasione a salutare il il compare Ribaudo. Il Barcia intanto ci raccontò di avere veduto nella piazza di Mezzojuso, Gugino e Mazzarese che già si erano presentati. Ciò corrispose alle mie provvigioni, cioè che la figlia di Gugino, avrebbe persuaso il padre a presentarsi. Per noi, non lascio di dire essere stato buono, perchè Gugino siasi presentato, perche godeva fama di gran maffioso, e perchè rimanendo pochi ci potrebbero dimenticare. Il Barcia teneva in affitto un vasto fondo di castagneto, detto del Canonico, che confina col feudo Cirasa. Là esiste una casa con due stanze, ci fu indicato il posto in cui teneva la chiave nascosta, ed egli ci disse: La notte potete stare tranquilli, il giorno lo passerete nelle vicine colline. Partito il Barcia abbiamo salito la Brigna camminando nel mezzo di cespugli per timore di essere sorpresi nel viottolo, e così col fitto, bujo dopo un'ora siamo giunti nel castagneto che dista quattro chilometri. Trovata la chiave siamo entrati nella casa, ove abbiamo acceso un buon fuoco, dopo ci siamo adagiati, come si poteva, sopra un pagliericcio, che stava in quella casa, pieno di piccoli topi, che ci molestavano, ma la dimane ne facemmo strage. Il Barcia teneva una bottega di carne, l'indomani il Sotto Capo Urbano si recò da lui, Francesco Paolo e gli disse. Che carne mi dai questa mattina? Per lei un buon pezzo di castrato asciutto rispose, poi giacché siamo soli, le dirò ch’Ella quando jeri sera è venuto in mia casa, avrebbe potuto rendere un buon servizio al Governo, poiché sotto la tavola in cui mangiavamo stava nascosto un pezzo grosso. Tu scherzi Barcia, col pezzo grosso. Signore creda che non scherzo; momenti prima era entrato suo nipote, Don Spiridione a chiedermi del pane, e mentre io venni ad aprire la porta, esso si nascose sotto la tavola. Barcia hai fatto bene, soggiunse il sotto capo, però ti prego di mantenere il segreto. Ciò si capisce, e va senza detto, rispose il Barcia. Questo aneddoto io lo seppi dallo stesso Barcia, quando giorni dopo é venuto a rivederci nel castagnteto, io gli dissi che avrebbe potuto risparmiare quel dialogo e raccontare al Sotto Capo Urbano l'accaduto. Egli mi rispose, lo fece a ragione studiata per vedere che impressione gli facesse; ma vostro zio, mi diceva il Barda, si mostrò assai dolente dicendomi: che sciagura sarebbe stata la mia, se avessi dovuto arrestare il figlio di mio fratello.! Una notte, mentre eravamo buttati sul paglione, abbiamo inteso bussare alla porta; il cuore ci palpitava, credendo di essere presi senza scampo. Io corsi aprii la porta nessuno vi stava; la persona che aveva bussato era sparita. Però ad ogni buon fine, e per nostra cautela e prudenza abbiamo lasciata la casa e ci siamo diretti per la grotta che sta nella salita del Raiddu. Io camminava il primo, si doveva possare uno stretto uscello, perciò col mio bastone, toccai l'opposta riva, che ben raggiunsi mercé un salto al quale mi affidai. Ribuado però volendo fare altrettanto cadde nell'acqua, e si bagnò fino

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ai ginocchi, prese un bagno freddo, quando in quella rigida stagione occorreva il canforto del caldo. Giunti poi nella grotta per quanti sforzi abbia fatto non si potè accendere il fuoco. Allora presi i miei gambali di pelle di pecora e li diedi al Ribaudo, che se li strinse nelle gambe, e cosi passò quella penosa notte. Venuto il giorno siamo ritornati nella casa, si accese del fuoco e così Ribaudo si asciuttò i panni bagnati. Dopo è venuto l'amico Gaspare Macaloso custode del feudo Cirasa, e ci portò pane, e formaggio fresco. Era quasi mezzogiorno, quando abbiamo inteso la forte voce di Nicolò Lopes oh: Rocco, oh Rocco, era il segno che chiamava noi sotto questo nome di Rocco. Ribaudo al solito, perchè rimpetto a me era più grande di età mi disse; Volete portarvi dal Lopes e vedere che cosa desidera? Egli rimase col Macaloso ed io mi diede a rampicare quella salita per trovare il Lopes, che stava seduto sulla vetta del sito Raiddu. Dopo un lungo ed affannoso cammino giunsi nel sito dove mi aspettava l'amico. Dopo di esserci salutati mi disse: Sono stato incaricato da mio fratello Paolino di ritrovarvi. Egli ieri è ritornato da Palermo, ha veduto vostro fratello il Prete che lo ha incaricato di farvi conoscere, che già ha trovato il sito in Palermo ove potrà occultarvi, il quale sito è fuori le porte, dove avete pranzato con lui l’anno passato. Gli affidò cinque piastre, che vi consegno, pregandovi che io ignori dove dovete andare. Ho così adempito all’incarico di mio fratello, ora riflettete voi cosa dovete fare. Ringrazio voi, e vostro fratello, io gli dissi - però prima che io mi decida alla partenza desidero parlare con vostro fratello; Alche egli rispose; mio fratello in questi tempi non viene nelle campagne perchè il Governo lo crede manutengolo, e passa tutte le ore in piazza per essere visto dalla sbirraglia. Allora verrò io questa sera in sua casa gli dissi, avvisatolo, che appena la campana di S. Nicola suonerà i tocchi di un'ora di notte, io sarò dietro il portone che lascerete aperto per entrare più comodamente. Egli rispose: Mi metterò io ad aspettarvi dietro il portone, dicendomi apre Rocco restiamo intesi, a rivederci questa sera. Dopo che l’amico Nicolò Lopes era partito scesi per ritrovare il mio compagno Ribaudo, che ansioso mi attendeva per conoscere quale fosse stato lo scopo della chiamata di Lopes. Giunto da lui, lo fece consapevole del colloquio avuto, e che la sera mi sarei recato in paese onde parlare con Paolino Lopes, essendo uomo più serio del fratello Nicolò e molto riflessivo capace di darmi ottimi consigli, Ribaudo disse: Allora voi certo partirete per Palermo, così l'uno dopo l'altro ci dividiamo. La sera siamo scesi, e siamo nascosti nel boschetto Battaglia sopra l'antica fabbrica di sapone, sito assai vicino la casa Lopes ed io stavo ad attendere, che la campana, come dissi, vibrasse i suoi rintocchi di un'ora di notte, il che non si fece assai, attendere. Ci siamo dato il nostro appuntamento con Ribaudo, nel tugurio del piano della cartella nel bosco di Mezzoiaco, ove stava la mandria di pecore del Lopes. Venuto l'aspettato tono di campana con pochi e marcati passi fui dietro il Portone di Lopes. Nel breve tragitto guardo, a destra, e sinistra se

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mai fossi stato osservato. Il Nicolò che stava colà pronto mi aprì il portone, ed il fratello Paolino che mi attendeva nel piano superiore; ma al rumore della chiusura del portone è venuto ad incontrarmi, e mi fu largo di gentilezze; mi confermò quanto mi aveva detto il fratello; però quando dovete partire dovete prendere altra via, e non quella che si batte giornalmente da noi per non essere osservato, la via che dovete percorrere è più lunga: ma più sicura certo, ecco la via che dovete prendere di notte. Passato il bosco di Ficuzza, piglierete lo stradale di Piana dei Greci, dopo circa quattro miglia di cammino vi è la così detta portella di San' Agata a destra vi è il Casamento sotto vi è una via seguite questa via, che vi porterà nel boschetto di Maluveddo, seguitando la via vi porterà nel feudo Rubbuttoni, e dopo nel feudo Casale, passato questo vengono i fondi di Mensagno Belmonte, e dopo troverete il paese, tenetevi a sinistra che vi è una via che vi porta nella scala senza entrare in paese, quando sarete giunto in quel sito troverete Palermo sotto di voi e seguirete il vostro cammino: badate soggiunse il Paolino; di non essere riconosciuto ed arrestato, altrimenti sarete fucilato come lo sarà domani Francesco Bentivegna, ed a proposito ieri in Palermo parlandosi di lui si diceva che verrà fucilato in questa nostra piazza. Oggi diceva il Lopes partirono molti testimoni per Palermo per trovarsi dimani al Consiglio di Guerra; bisogna confessarlo, sulla sorte che toccava al Bentivegna quelle parole mi scossero; mi turbarono tanto per lui, che per me, al pericolo al quale mi esponeva da quel lungo cammino che doveva intraprendere. Subito però la mente mi suggerì un ritrovato, sapete, cari amici dissi loro scelgo un mezzo per cui non possa essere fucilato, se nel caso fossi arrestato lungo la via. E sarebbe? risposero i fratelli Lopes. Egli è di formare una lettera in vostro nome, diretta al Commissario Scartata, dicendogli che io mi porto da lui onde presentarmi. Benissimo risposero entrambi, mi fu dato l'occorrente, e scrissi la seguente lettera. Ill.mo Signor Scarlata Commissario di Polizia in Palermo. Ritornato in questa, mi sono recato in campagna per osservare le mie faccende, ov'ebbi l'occasione di vedere il porgitore della presente lettera che lei ben conosce, Sig. Spiridione Franco, ed ho avuto la fortuna di persuaderlo a volersi presentare. Si reca quindi da lei onde le faccia ottenere un salvo condotto, e dopo lo condurrà dal Direttore di Polizia. Ella certamente sarà lieta di rendere un buon servigio al Governo, e nello stesso tempo ai suoi amici. Mezzoiuso 19 dicembre. Suo aff.mo Paolino Lopes Così nel caso fossi arrestato nella via mi farò condurre dallo Scarlata e gli presenterò la lettera, voi nel caso siete richiesto confermerete di avere scritta la lettera, e così proverò che mi portava a presentarmi e di non essere certo fucilato la mia difesa dirà; Franco veniva a presentarsi. Benissimo risposero i fratelli Lopes ora vi travestiremo da capraio, e direte che state al servigio di Don Emilio Arcuri alla Ficuzza onde curare i suoi animali. Mi furono portati dei rasoi, mi tolsi la barba, mi acconciai i capelli, m'indossarono una vecchia casacca di panno, un'altra di pelle. Lasciai il mio mantello, ed invece mi fu dato uno vecchio. Così vestito sembrava un meschino pecoraio. Mi fu fornito da mangiare ed essendo l'ora

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avanzata rimasi la notte in quella casa. L’indomani quando le persone incominciarono a circolare per le strade, il novello pecoraio uscì dalla casa Lopes, e si porta tranquillamente nel punto stabilito con Ribaudo, dopo giunse Nicolò Lopes, il quale prese un capretto l'uccise, e lo mise al fuoco, dopo averlo mangiato, il Lopes mi chiese quando era deciso alla partenza, risposi: Fra breve minuti mi metterò alla via mi avvicinerò alla Ficuzza per attendere che venga la notte e così farò il mio viaggio. Il Lopes mi diede un pane nero un buon pezzo di formaggio fresco detto tuma, che mi fu posto dentro un vecchio saccone: dopo di avere abbracciato i due amici, presi la via pel pericoloso viaggio. Giunto nel feudo Valle di Maria, che confina colla Ficuzza rimasi il resto del giorno nel tugurio della mandria di pecore di Giuseppe Cuccia. Venuta la notte, ripresi il mio cammino indicatomi dai fratelli Lopes. In tanta sventura, fui soltanto fortunato, che malgrado il bujo pesto ho indovinato la via come un vecchio conoscitore di quelle contrade, meglio ancora delle guide del Generale Albertone in Africa? Stava per sorgere il nuovo giorno quando giunsi nel paese di Belmonte. Arrivato nella via detta Scala, mi era frammischiato con alcuni contadini che si portavano in Palermo. Il tempo era bello, sorrideva agli uomini felice; ma io avrei desiderato la pioggia per non essere osservato dai passanti. Quando alla fine della scala trovai una fonte dove pensai di riposarmi un poco per acquistare nuova lena e per essere pronto al bisogno. Sedutomi là, presi il pane ed il formaggio, e costrinsi me stesso a mangiarlo. Vidi che scendeva un uomo dirigendosi verso di me. Era armato di fucile, alcuni segni rossi nei calzoni indicavano essere uno sbirro del paese. Bisogna acquistarlo dissi fra me. Egli nel passare mi salutò, buon giorno amico, buon giorno gli risposi, e poi mi vuole onorare di prendere un boccone con me? Grazie, accetto volentieri, mi rispose e si pose a mangiare: Amico mi disse, questo pane é di masseria, certo sarete impiegato. Io gli risposi che stava impiegato col signor don Emilio Arcuri alla Ficuzza, e vado a trovare il mio padrone; amico soggiunse, come vi chiamate? per pigliare amicizia. Io mi chiamo Giuseppe Durso e vossia come si chiama? Alche mi rispose: Ignazio Capizzi, impiegato alla giustizia in Belmonte (scanzami dissi tra me) e vado a portare un plico al Direttore di Polizia. Dopo di aver mangiato, entrambi ci incamminammo, giunti nel fiume Oreto, l'amico voleva prendere la via del Ponte della Guadagna, entrare per porta S. Antonino, che veramente era la via più corta e più retta per giungere in S. Francesco da Paola ove abitava il direttore Manescalco. Quella via per me era molto pericolosa, per la frequenza continua dei miei paesani, e poteva essere riconorciuto, pregai l'amico di prendere per la sesta Casa, ed uscire fuori Porta di Castro. Egli volentieri acconsentì, allora rimpetto Porta di Castro allora caseggiato, in una,di queste case abitava il Capitano d'armi Vernace, nelll’entrata stavano seduti pronti al bisogno cinque brutti ceffi di compagni d'armi. Io voltai loro le spalle per non farmi osservare da loro, e mi posi estatico a guardare il Palazzo Reale e

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Porta di Castro cone persona non mai venuta in Palermo; intanto tendeva l’orecchio a loro, uno di que' sbirri chiese: Ove andate compare Ignazio, ed egli rispose che andava a portare un plico al Direttore Manescalco, mi sembrava che portavate l'amico che sta con voi a presentarlo? L'amico che sta meco, rispose, è un buon giovane e sta col Signor Arcuri. Il mio novello amico salutò i compagni d'armi, e cosi noi riprendemmo il nostro camino. Per giungere nel luogo ove era diretto doveva percorrere altri quattro chilometri: Io mi sentiva molto stanco per aver camminato tutta la notte e percorsi circa quaranta chilometri. La compagnia di compare Ignazio che mi piacque nel viaggio, incominciava a tediarmi per i miei fini, perciò pensai dirgli. Sapete il motivo per cui vengo a trovare il mio padrone? tengo di mia proprietà venti capre, e vorrei portarle al pascolo nel monte Pellegrino, e vendermi il latte in Palermo lasciando un mio fratello per supplire me presso il mio padrone, adesso mi porto sul monte Pellegrino per stabilire il prezzo del pascolo, dopo anderò dal mio padrone, perchè a quest'ora sarà ancora in letto per far presto vorrei chiamare un carrozzineddo di questi che stanno qui vicino. Faccia vossia il prezzo, l'amico fece segno al vetturino, che subito si avvicinò, stabilito il prezzo di tari tre (L. 127.) Posti sul legno siamo giunti in San Francesco di Paola, l'amico scese innanzi al portone del Manescalco, colla promessa da me fatta, che la dimane passando da Belmonte dovrei recarmi in sua casa. Il legno prese la via del Molino a vento, percorsi il piano della Prigione, ove col pensiero diedi un'addio ai miei compagni politici che stavano dentro. Arrivati alla casa del Signor Giaccheri, fece fermare il legno, prese una moneta due tari C. 85, vedete ancora dovete camminare abbastanza, volete contentarvi di questa moneta, altrimenti spezzate questa piastra. Il vetturino mi guardò bene, e poi mi disse: Mi dia questa moneta se poi gli bisogna la tenga pure. Il vetturino fu più scaltro dello sbirro di Belmonte, perche sotto quelle vesti riconobbe la esistenza di altra persona. Partito il vetturino, ed avendolo veduto allontanare, prese la via della casa Rammacca, ove rimpettu vi era un sentiero che conduce alla villa dei Greci, ove io ero atteso dal castaldo zu Andrea Locasto il quale giunto che fui mi apri la stanzetta destinata per mio zio Papas Andrea Cuccia (quale parroco e Rettore del Seminario Greco). Mi buttai subito sul letto a riposarmi le membra oltremodo stanche. Mio padre era stato chiamato più volte dal Colonnello Chio e minacciandolo di arrestarlo se non si adoprasse per la mia presentazione. Per togliersi da questa specie di propotenze e seccature, i miei genitori avevano lasciato Mezzojuso, e si erano recati in Palermo. Dopo il mio arrivo, il Castaldo si portò subito in Palermo ad avvertire del mio arrivo i miei genitori e fratelli, la qual cosa riesci loro di grande allegrezza e conforto. Dopo è venuto a trovarmi mio fratello Agostino assieme al Cav. Distefano, il quale promise di procurarmi un sito più sicuro; ma in fatto nulla fece...

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VIII

Mentre mi riposava non senza turbati pensieri nel mio novello nascondiglio (giorno 20 Dicembre ) Il martire amico e compagno Francesco Bentivegna, sedeva sul banco dei malfattori dentro il forte Castellammare per essere giudicato dai Consiglio di Guerra eretto con forma subitanea. Presideva un tal Consiglio il Colonnello Giordano, faceva da publico Ministero il Capitano Cesare Schittini; il Colonnello dichiara aperta la seduta; gli avvocati di Bentivegna fecero le loro proteste. Il valente avv. Giuseppe Puglia prese la parola: Signor Presidente, d'alcuni giorni abbiamo fatto un ricorso alla Suprema Corte di Giustizia sul merito di questa causa documentata dalla nostra legge del Regno, e sino a che quei vecchi magisrtati non daranno il loro risponso, voi Signori, questa oggi non avete il diritto di giudicare l'imputato, e prego che si rimandi la causa ad altro tempo. Le ragioni di diritto di quel culto giureconsulto qual fu l'avv. Puglia non valsero per nulla. Il Presidente rispose: Ho ricevuto l'ordine dal Governo di giudicare oggi il Bentivegna, e non indugierò di un'ora, si prosiegua il dibattimento. Imputato alzatevi ! Ogggi come già vedete si fa la vostra causa, se avete cosa da dire per la vostra discolpa chiedetemi la parola che vi sarà accordata. Quante armi evete? Bentivegna con gentilezza ringraziò il Presidente ; ma ne sia certo diceva egli, che io non domanderò mai la parola, sarebbe un fiato inutilmente sprecato, sono bene persuaso che le mie ore sono contate ! Il presidente allora ordina di sentire i testimoni. Il primo fu inteso il vice Sindaco della borgata di Campofelice di Fitalia, certo Cirrincione, il quale disse che il giorno 22 Novembre alcuni uomini armati giunsero nella piccola borgata e presero i fucili nelle case dicendo per ordine del Barone Bentivegna per fare la guerra contro il nostro Re. Buongiorno disse lo stesso; si chiamarono i testimoni di Mezzojuso, Villafrate, e Ciminna, che confermarono come già avevano dichiarato all'Istruttore, che il vero capo di quella banda era il Barone Bentivegna, il quale rivolgendosi al Bresidente disse: cercate di accorciare non sentite più testimoni, quando vi dico che sono stato io il capo di quella banda ciò vi basti a condannarmi come lo sono nelle vostre menti prima del tempo. Il presidente con tuono serio rispose: Noi qui non facciamo sentenza prima del tempo, noi seguiamo la legge. Segretario leggete i rapporti delle autorità. Essi tutti confermano come il principale capo fu Francesco Bentivegna seguito dal fratello Stefano: dal Cav. Nicolò Dimarco, Davide Figlia, i Fratelli Francesco e Santo Romano, Gugino, Ribaudo, Luigi La Porta e Franco, che abbraccia questa manografia. Tutti i rapporti informativi contenevano la medesima giaculatoria, che usava la maledetta sbirraglia Borbonica. Prese la parola il Commissario del Re, Capitano Schittini Cesare. Signori, il giudicabile, secondo me, è un delinquente nato, egli nacque nel 1820 quando la Sicilia era in rivolta, nel 1848 prese le armi contro il nostro Sovano, come deputato in quell'epoca, fu uno dei primi che iniziò la

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decaduta del nostro Sovrano, congiurò con Nicolò Garzilli nel Gennaio 1850. Dopo si univa nel 1854 nella farmacia Romano via Castro ove venne arrestato. Non appena uscito dal carcere di Trapani, da principio alla propaganda rivoluzionaria, lascia di nascosto Corleone, e fa il giro di Bagheria, Termini Imerese, e Cefalù ove trovò alcuni illusi, che si rivoltarono dopo il 22 Novembre, per effetto della notizia ricevuta, che il giudicabile Bentivegna era sul campo di battaglia; del resto l'avete inteso testé, dalla propria bocca del giudicabile, che il capo affettivo era lui. Per sì fatti motivi chiedo che venga applicato al giudicabile l'art. 123 del nostro Codice, che infligge la pena di morte mercè la fucilazione, e che sia eseguita questa pena nella piazza di Mezzojuso in fra le ore 24 come publico esempio. Son certo che tutto il consiglio ad unanimità accoglierà le mie conclusioni dettate dalla legge e dalla coscenza. Il giudicabile mentre parlava contro di lui il suo carnefice accusatore, guardava un altro uomo inchiodato sulla Croce; Gesù Nazzareno ch'era morto per salvare il genere umano, lui offriva la propria vita per liberare un popolo oppresso ! Dopo di avere terminato di parlare il pubblico Ministero il Presidente da la parola alla difesa. L'Avv. Piglia, pallido e convulso di pena disse: Signori del consiglio, prendo la parola contro la mia voglia, il fo soltanto per il decoro della toga, e del foro Palermitano, non si dirà giammai nel nostro regno e specialmente all'estero, che sarà mandato un uomo alla morte senza difesa, io non entro nel merito se il giudicabile sia reo, o innocente, voglio solamente rammentarvi, che noi abbiamo una legge sanzionata dal Sovrano, che tutti dobbiamo rispettarla, insisto in nome della legge di attendere il parere ovvero la sentenza della Corte suprema, astenendovi oggi di prounciare la vostra sentenza; ma accortosi l'avv. ch'erano parole buttate al vento, incomincia colla sua efficacia a portare esempi di valorosi penalisti contrari alla pena di morte, come il Beccaria, il Fila- niceri, ed altri. Alla fine per scuotere quegli animi induriti alla vendetta, conchiuse piangendo: Bentivegna non combatteva per sé; ma per altri, in nome dell'umanità, quindi vi prego di accordargli le circostanze attenuanti e se ciò non volete fare raccomandatelo alla Sovrana Clemenza. «Imputato Bentivegna» disse il presidente, avete il diritto di parlare, se volete a vostra discolpa, ricordatevi che dalla munificenza Sovrana, si può essere perdonati, rivelando le trame segrete. Insorse di scatto allora il Bentivegna con sorriso convulso, che usci dalla sua bocca serrata dicendo: siete vili ed ipocriti affrettate il mio supplizio, spegnete la mia vita, ma non ardite offendere la mia coscienza. Torturatemi ancora quanto volete, ma con le zozze vostre insinuasioni non lordate la mia persona. Se vi è lecito di togliermi la vita l'asciatemi l'onore. Non sperate giammai, che io scendo nella tomba contaminato, ed imparate come si muore per una causa patriottica, e santa. I componenti del consiglio scossi dall'audacia di quell’uomo di volontà di ferro, di fronte all'onore che spreggiava la vita, come belve assetate di sangue entrarono nella camera delle deliberazioni e dopo venti minuti uscirono colla crudele sentenza in mano. Il Segretario la lesse, eccone il

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testo: II consiglio di guerra visto l'articolo 123 del Codice Penale, ritenuto che il giudicabile Bentivegna Francesco, avrebbe voluto distruggere con la rivolta la forma del nostro governo, condanniamo, a parità di voti il Barone Francesco Bentivegna nato in Corleone nel 1820 alla pena della fucilazione, da eseguirsi tra le ore 24 nella publica piazza di Mezzojuso come grado di publico esempio. Il condannato era piuttosto lieto di quella sentenza, perchè colla di lui morte poneva fine ad una vita strazziata di tante torture sofferte, e che sarebbe stato il soggetto dell'odio contro l'abborrito governo, che affrettava come successe la propria caduta! L'infelice di sua madre Marchesa De Cordova era ritornata da Napoli eveva ottenuto un'udienza dal sovrano si era prostrata ai di lui piedi del Sovrano Ferdinando II a implorare con amorose lacrime di avere salva la vita del proprio figliuolo. L'umiliazione, e le lagrime non valsero ad intenerire quel pio Monarca (come ardiscono chiamarlo alcuni preti) vedremo Signora fu la risposta di quel re, sitibendo di sangue nulla promise, e nulla fece. Terminato il Consiglio l'orgoglioso martire Bentivegna, era stato racchiuso nella sua cella per attendere l'ora della partenza. La madre aveva ottenuto il permesso dal Luogotenente Generale del Re, Principe di Castelcicala per potere abbracciare per l'ultima volta il suo diletto figlio. Fu fatta entrare nella cella ov’egli stava racchiuso, ai vostri pietosi cuori miei cari lettori il valutare, l’impressione dolorosa di quella madre infelice, giacché taluni affetti si sentono, ma non si possono esprimere! La desolata Marchesa, strinse di un fiato il suo diletto figlio, quel figlio, che la dimane doveva ricevere dieci palle sul candido petto, e sparire da questo mondo per sempre!! di quale fortuna per la madre, se avesse potuto dividere la sorte toccata al figlio. Questi cogli occhi di un Nazzareno guardò la sua infelice madre, e poi gli disse: Confortati mia cara madre, dimostrati grande come le donne degli antichi romani si una novella Cornelia, pensa di essere mia madre, io muojo per la libertà del popolo oppresso, il mio sangue germoglierà, e farà libero il popolo oppresso, confortati e spera nell'avvenire.15 Partita la madre infelice, nell'acerbo dolore, nell'angoscia il condannato chiese di abbracciare il suo fratello Stefano che stava racchiuso poco distante da lui in altra oscura prigione, neppure un tal conforto gli venne concesso! Una vettura di campagna stava pronta innanzi la porta del Castello, un gran numero di compagni d'armi comandati dal Capitano Giorgi Chinnici, altrettanti gendarmi a cavallo col Capitano Desidome, attendevano l'uscita del condannato, uscito che fu lo fecero salire sul legno bene carico di ferri, anche il Desimone prese posto nella vettura. La via tracciata fu fuori porta Carbone, passeggio a mare, oggi Foro Italico, , Misilmeri, Ogliastro; sull'alba del giorno 21 Dicembre 1856, giunsero in Mezzoiuso sito stabilito pel sacrificio di quel martire. Lo fecero entrare nella piccola chiesa delle Anime Sante, che già si

15 Questo dialogo mi fu riferito dalla madre venuto il 1860.

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trovava aperta e preparata per attendere il condannato. Un buon numero di armati circondavano la chiesa, e le strade convicini. Venne fatto chiamare il prete Greco Don Gaspare Cavadi (non un monaco cappuccino come alcuni scrissero) il quale con dolci ed amorevoli parole confortava il Bentivegna a soffrire rassegnato là di lui fine; caro Barone, gli diceva l'assistente Prete, il vostro martirio vi aprirà la porta del Santo Paradiso, a godere colà la vita eterna; per ottenere ciò bisognano due cose, il pentimento sincero dei vostri peccati, e perdonare di tutto cuore i vostri nemici, sì rispose il Bentivegna chiedo perdono a Dio dei miei peccati, e perdono di tutto cuore i miei nemici, ed i miei traditori, (alludendo al Milone) però credetemi caro padre desidero un caffé per ultimo mio cibo, ed un Notaio. II buon prete si avvicina al Desimone quel brutto ceffo di vero boja, e le manifesta il desiderio di Bentivegna: Rispose il caffè verrà subito, pel Notaio non credo di poterlo soddisfare: Il Prete soggiunse, se lei trova delle difficoltà, consultiamo il qui vicino Notaio don Gaspare Franco, venuto questi assicurò il Desimone, che, il condannato può per legge fare il suo testamento, se vuole riscontrare la legge vado a prendere il codice, aveva detto il Notaio. Il Desimone soggiunse una volta, che lei la accerta faccia pure il Testamento. Fatto venire un tavolo e l'occorrente per scrivere, il Notaio sedutosi vicino al Bentivegna, gli chiese ciò che desiderava di fare; voglio fare un testamento di proprio carattere sotto la vostra dittatura, lascio tutto ciò che mi appartiene ai miei due Fratelli Stefano e Giuseppe, però vi prego di tralasciare la solita ciacolatoria regnando ecc. ecc. Ho capito Barone daremo altre forme, e tralasciamo la ciacolatoria per contentarvi. Bentivegna prese la penna e scriveva sotto la dittatura del Notaio, con mano ferma, sangue freddo, e dissinvoltura mai veduta in coloro che hanno fatto la stessa fine, quando il Notaio doveva pronunciare le parole sagramentali. E questa la mia ultima volontà, non s'intesero che monosillabe ed i suoi occhi si riempirono di lagrime: Il Bentivegna veduto il Notaio così commosso gli disse coraggio Notaio mi sembra che voi siete il condannato ed io il Notaio. 16 Dopo firmato il Testamento lo consegnò al Notaio per essere conservato nelle sue minute. Piegato il testamento il Notaio strinse affettuosamente la mano di Bentivegna, e tutto turbato rientrò nella sua vicina casa fissandosi nel pensiero, che quell'uomo così buono e generoso non aveva che pochi minuti di vita, attendendolo una morte, che il moschettato della tirannide borbonica fece violenta e truce! Però, bisogna oggi confessarlo, quel testamento, quelle lagrime sparse, il turbamento del Notaio Gaspare Franco, ebbero il suo premio, un poco tardi però. I nostri governanti, che qualche volta non lascino senza quiderdone le buone azioni anni fa, gli conferirono l’onorificenza di Cav. della Corona d'Italia; ma certo i più meritevoli sono dimenticati, perche nulla chiedono, e non insistono per ottenerli? Dopo l’uscita del Notaio della Chiesa, il Desimone avvertì il Bentivegna, che mancavano ancora 20 minuti all'orario per lesecuzione. Il paziente rispose tranquillo, sono pronto possiamo subito partire: Non ancora

16 Il Notaio è ancora vivente e spesso lo racconta tiene 83 anni.

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soggiunse il famoso Capitano Desimone, devo stare all'orario stabilitomi, perchè potrebbe darsi che giungesse qualche messo, e portasse la sospensione della Sentenza, ed io mi troverei compromesso. Oh! stia pur tranquillo, rispose il Bentivegna, la mia sorte è stata decisa da molti giorni. Avvicinatasi l'ora del sacrifizio fu ordinata l’uscita del condannato, il quale camminava con passo fermo; a destra stava l'assistente Prete, a sinistra il Desimone, circondati da due fila di soldati, e da molta sbirraglia, comandati dal Capitano Giorgio Chinnici, e dell'Ispettore tanto conosciuto Gaetano Scarlata nella nostra storia. Nella vasta Piazza stava schierato in quadrato il battaglione comandato dello stesso Colonnello Chio, si giunse nel sito destinato alla esecuzione, il portone della casa del Cav. Dimarco. Fu quello momento di silenzio e di terrore non mai provato! Dieci soldati erano pronti, al muto segno il Prete si discostava. Fu ordinato il fuoco, ed il Bentivegna in men che si dica, cadde fulminato sulla nuda terra inverso nel proprio sangue, innanzi di quella casa, ove noi avevamo tenuta la prima riunione della congiura rivoluzionaria (consumatum est). Il trafìtto corpo sanguinante posto su quattro assi di legno detto fra noi cataletto, senza ornamento che indicasse essere corpo umano veniva osservato dai soldati e d'alcuni imbecilli monelli del paese. Per evitare questa vista, una donna, pietosa certa Caterina Calagna, si tolse dalle spalle il suo manto nero e coprì il miserando cadavere di quel martire della libertà Italiana! 17 Dopo con buona scorta la salma fu trasportata nella Chiesa del Convento del padri Francescani, e fatta aprire la fossa comune, che serviva allora per la povera gente, fu gettato giù nemmeno col riguardo di una misera cassa, tutto ciò venne ordinato da quell’abborrito Governo, che volle compiere l'ultima ed odiosa vendetta all'apostolo della libertà! Questi crudeli fatti indignarono i cuori di quei frati del Convento. Io sebbene non sono stato amico del corpo monastico, perchè li ritengo un corpo parassiti, però come in tutte le classi sociali vi sono dei buoni, cosi tra i frati, vi sono ottimi sacerdoti caritatevoli, verso il prossimo veri seguaci di Gesù Cristo. Nell'epoca di cui scrivo, vi era guardiano di quel Convento, un certo padre Antonio Bellina, nativo da Lercara dei Friddi; uomo assai umano e caritatevole, indignato di quella condotta inumana, e del disprezzo fatto a quel nobile corpo dei satelliti della tirannide Borbonica; venuta la notte, prendendo delle precauzioni per non essere scoperto fece aprire la fossa vi fece scendere un frate, che portò seco una fune, fece legare il trafitto corpo del martire, furono compiute l’esumazioni. Dopo di ciò fece aprire la migliore sepoltura; fece collocare il corpo steso in una vecchia cassa, aspettando di rilevarlo in tempi più fortunati, che non tardarono molto tempo a venire. 18 Questi fatti mi vengono spesso rammentati in Palermo dal prete Giuseppe Capra di Monreale, che in quel tempo stava nel convento di

17 Per formare un gran numero di decorati non meritevoli. 18 Alcuni dicono, che il guardiano fu pregato dalla cognata del Bentivegna e da Nicolò Romano, che spedirono persona dal guardiano.

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Mezzojuso come chierico novizio. Per ora tralascio di scrivere il seguito delle condanne di morte del consiglio di Guerra, e racconterò ai miei pietosi lettori le onoranze fatte nel 1860, dai Corleonesi, e di molte persone dei vicini paesi, alle spoglie immortali di Francesco Bentivegna. I di lui fratelli Giuseppe e Stefano Bentivegna liberati dalla catena, che da parecchi anni portavano, accompagnati da un gran numero di Corleonesi, corsero in Mezzojuso ripresero con grande pompa funebre, i sacri avanzi di quella salma, e li condussero nella chiesa madre di Corleone, tutti gli abitanti di ogni ceto di persone, andarono fuori della Città, ad incontrare riverente il mesto, ma glorioso convoglio. Le campane di tutte le chiese battevano il lutto, la banda cittadina suonava la marcia funebre. La commozione ed il pianto furono generali, il dolore era immenso nel popolo quella acerba piaga, il tempo solo lenir la può, sanar giammai! Celebrati i funeri onori, che mai si sono visti in quel paese, chiusa e sigillata la cassa, fu degnamente collocata nella madre chiesa che viene spesso visitata da coloro che giungono in Corleone. Sulla tomba sovrasta una bandiera, quella stessa che il Bentivegna fece costruire in Villafrate il giorno 23 Novembre 1856 che portava e conservò Francesco Labarbiera come ho detto più sopra. Il Signor Angelo Paternostro fratello del Senatore Francesco, un vero tipo di gentiluomo e di patriotta in quel tempo Governatore di quel Distretto, di felice ricordanza, decretava un magnifico monumemento in marmo, che fu eseguito dallo scultore Salvadore Valenti di purissima architettura Greca. Lavoro dell' ingegnere Giuseppe Damiani, che seppe trasformare la sua anima di artista all'amore di libertà, infine riuscito magnifico. Vi si leggono incise in carattere d'oro le seguenti iscrizioni, affettuosamente dettate dall'Avvocato Antonio Morvillo.

ITALIA LIBERTÀ DALLA CARITÀ CITTADINA ABITI QUESTO MONUMENTO O FRANCESCO BENTIVEGNA ED AMMIRINO I FUTURI IL CUORE CHE TI FÉ GRANDE IL MARTIRIO CHE TI FÉ ETERNO NACQUE IN CORLEONE MDCCCXX VISSE ALLA PATRIA CUI DIÈ GLORIA E SPERANZA TENTÒ REDIMERLA INSORGENDO TRADITO FU MOSCHETTATO IN MEZZOJUSO IL XXI DICEMBRE 1856 LE RELIQUIE SUE SOTTRATTE ALLA MANO LIBERTICIDA QUI DORMONO

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Io ed altri vecchi amici e compagni del moschettato, abbiamo voluto eternare la di lui memoria, mercé un bellissimo medaglione in marmo che abbiamo fatto scolpire dal valente artista Palermitano Delisi, di felice ricordanza, riuscito di vera rassomiglianza nella persona, che fu collocata nella piazza del Popolo di Mezzojuso, accanto al portone ove venne eseguita la barbara sentenza, in quella casa allora del cav. Nicolò Dimarco, ove da pochi di noi fu tenuta la prima congiura come prima ho detto. Un tale ricordo storico viene spesso religiosamente ammirato dai forestieri, che giungono in paese, e dalla novella gioventù, che dovrebbe prenderne patriottico esempio.

IX

II Presidente del Consiglio di Guerra di accordo col Commissario Capitano Cesare Schittini, dopo la seduta e condanna del Bentivegna, per acquietare la loro scossa coscienza presero, alcuni giorni di riposo, e nel frattempo studiavano il voluminoso processo delle vittime che dovevano condannare alla pena di morte, e venne pure stabilito di giudicare le persone (dieci per seduta) mettendo a capo fila colui che doveva essera condannilo alla pena di morte. I miei fratelli impressionati dalla orribile fine del Bentivegna si posero al lavoro per trovarmi l'imbarco. Il vecchio mio zio Papas Andrea Cuccia si portò nella casina del Principe Belmonte all'Arinella a trovare il suo vero amico l'Abate Ragusa, che per ragioni politiche si era lì amaramente confinato, sfuggendo così le ire Borboniche, essendo stato uno dei capi di quella rivolta del 1820 dì Palermo, e colà studiando sempre era divenuto una celebrità scientifica. Parlando dell'Abate Ragusa, so di essere ben compreso da tutti coloro che lo conobbero, giacché non vi era forestiere che coltivasse le scienze, che non si portava a visitarlo e consultarlo. II detto mio zio pregò caldamente l’amico Ragusa di cooperarsi per il mio imbarco, che volentieri accettò l'incarico ricevuto dal vecchio amico, anzi soggiunse: attendo fra breve una famiglia inglese che viaggia col proprio Jacch, se viene come già ho ricevuto avviso, vostro nepote si trasformerà da marinaro inglese, e partirà colla stessa famiglia viaggiatrice. Il Curatolo della Villa ove io era rifugiato disse che anche lui poteva farmi emigrare trovandosi amico del barbiere del Borgo, certo Alessandro Cutino, il quale teneva tre figli in America conosceva molti capitani di legni Americani presso i quali andava a tosare la loro barba; così che con qualche sommetta certamente mi avrebbe fatto partire. Recatevi dal barbiere, gli dissi offritegli per lui 50 piastre, lire 255 pel capitano del legno 100 piastre lire 510. Subito il Curatolo si portò dall’amico barbiere che volentieri accettò l'incarico ricevuto, e si pose alla fatica per trovarmi l'imbarco che io anzante attendeva. Nel mese di Febbraio 1857 il Consiglio di Guerra diede principio e giudicare le persone della banda di Mezzojuso. Dopo Bentivegna fu giudicato mio zio Davide Figlia capolista assieme ad altri nove compagni. Il

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commissario di guerra fece la sua accusa provando come si stava in processo che il giudicabile nella mattina del 23 Novembre 1856 in Mezzojuso giorno di domenica ove tutti i lavoranti della terra stavano in piazza li spinge alla rivolta ed infatti ne riunisce un buon numero promettendo la paga giornaliera di tari 4 al giorno (L. 170) con buon numero di queste illuse persone, la maggior parte armate si mosse per il paese di Ciminna ove doveva attendere l'altra banda di Bentivegna, quivi fu preso il denaro del Governo, il Giudicabile firmò quattro ricevute del denaro preso come quietanze. Segretario del Presidente Francesco Bentivegna, il giudicabile aveva spinto il popolo alla rivolta per cambiare la forma del governo. Perciò pregò il Consiglio di applicargli l'articolo 123, che porta alla pena di morte, raccomandandolo alla sovrana clemenza. Il consiglio fece eco alle conclusioni del Pubblico ministero, e Davide Figlia fu condannato alla morte raccomandato alla clemenza. Gli altri compagni posti in libertà secondo l'articolo 137, del Codice Penale di quel tempo. II povero Figlia che temeva di fare la fine del Bentivegna stava molto accasciato durante il dibattimento si rianimò quando intese essere raccomandato alla clemenza. Nel terzo venne giudicalo Stefano Bentivegna, condannato alla pena di morte e raccomandato alla sovrana clemenza. Vennero pure condannati in quella seduta Salvadore Anzalone a 25 anni di lavori forzati, per omicidio mancato alle due guardie a cavallo che scortavano le due vetture postali in Villafrate venne condannato ancora Salvadore Como ad 8 anni di ferri come complice del denaro preso in Villafrate dal Procacciolo Governativo nella casa del Percettore. Era già ritornato in Palermo il Giudice Istruttore Barcia dopo di avere compito il processo di Cefalù, contro Salvadore Spinuzza e compagni, un altra vittima era stata destinata alla Dea della vendetta (Nemesi). Il giorno 12 Marzo del 1857 il Consiglio di Guerra si occupò a giudicare Salvadore Spinuzza; ritenuto capo di quella banda di Cefalù; il commissario di Guerra Schettini fece una lunga ed accanita requisitoria affermando con prove estratte dal processo, che dopo la figura rivoluzionaria di Bentivegna viene quella del giudicabile, il quale era d'accordo col Bentivegna che insorgendo questi, doveva insorgere il giudicabile, come già insorse appena apprese il movimento del 22 Novembre, in Mezzojuso. «Difatti il detto commissario del Re accusava Spinuzza di resistenza alla forza pubblica fatta in Cefalù, dopo nella casa ove venne tratto in arresto, e tutto ciò per volere distruggere la forma del Governo del nostro Sovrano. Per si fatti motivi chiedo che si applichi l’articolo 123, che porta alla pena di morte da eseguirsi fra le ore 24. in Cefalù come pubblico esempio, e prego il consiglio di uniformarsi alle mie coscienziose conclusione». La difesa dello Spinuzza si limitò a chiedere al consiglio di volersi begninare di raccomandarlo alla clemenza Sovrana come già aveva fatto coi giudicati, Figlia e Stefano Bentivegna nelle precedenti sedute; ma furono parole sprecate al vento, un'altra vittima era destinata, e fu involata, nella persona di Salvatore Spinuzza.

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Come era a prevedersi il consiglio dopo entrato nella sala della deliberazione, dopo pochi minuti esce. Il Segretario lesse la sentenza lo Spinuzza Salvadore a grande maggioranza viene condannato alla pena di morte da eseguirsi fra 24 ore in Cefalù. La mattina del giorno 13 un legno da Guerra giungeva nella spiaggia di Cefalù, portando la seconda vittima che immolare si doveva; ma il mare essendo grosso quel giorno non si potè effettuare la scesa, l'indomani giorno 14. il mare essendo più calmo, fecero scendere la vittima con molta pompa di sbirri e col solito de Simone, dopo due ore di cappella il secondo martire della libertà cadde fulminato dalle palle borboniche immerso nel proprio sangue, dopo due mesi e 24 giorni con quanta perfidia avevano trafitto il Bentivegna in Mezzojuso. Il Pio Sovrano Ferdinando II come ancora chiamavano alcuni seguaci soddisfatto del sangue di Bentivegna, e Spinuzza, prese la via della clemenza di accordo coi suoi sanguinari ministri. Dopo immolata la seconda vittima il consiglio di guerra seguitò a giudicare la banda di Mezzojuso come prima aveva dato principio giudicando Stefano Bentivegna e Davide Figlia che furono condannati alla morte, in seguito furono condannati alla stessa pena. Antonino Gugino, Vincenzo Palermo, Pietro Sanpieri che vedendo piangere sua moglie dopo la lettura della sentenza, le disse stai tranquilla, moglie mia che col tempo questa sentenza ti farà portare il cappello. E fu ben vero dopo quattro anni riuscirono parole fatidiche. Dalla borgata di Campa Felice di Fitalia furono pure condannati alla pena di morte raccomandati alla clemenza. 2. I fratelli Giuseppe e Mariano Mazzarese, 3. Onofrio Moscato, 4. Antonino Loria, 5. Nicolò Gambino, 6. Giovanni Dina, tutti imputati di avere preso i cavalli del rilievo delle Reggie Poste. Dalla Comune di Villafrate furono condannati alla morte, i Francesco Cali per avere preso un fucile dalla casa di Pasquale e Francesco Tavolacci, ciò non fu vero! 2. Francesco Labarbiera che portò la bandiera. Salvadore Ansalone invece ad anni 25 per omicidio mancato dalle Guardie Orlando ed Alleata. Del Comune di Ciminna condannati alla morte, e raccomandati alla clemenza. 1. Caloggero Gattuso già morto in Genuajo cieco. 2. Metteo Scimeca. 3. Andrea La Paglia. 4. Onofrio Giancola. 5. Luigi Farace, Terminato il processo di Mezzojuso il consiglio occupossi nuovamente della banda di Cefalù. Vennero condannati alla morte, e raccomandate alla clemenza del Re bombardatore. Fratelli Nicolò, e Carlo Botta. I due cugini Salvadore, ed Alessandro Guarniera, Andrea Maggio, Francesco Bonafede da Grattieri il solo Cesare Cividdo sfuggì dalla pena

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perché prese il volo per l’estero. Dirò un cenno come avvenne l'arresto di questi baldi giovani, abbandonati di coloro che avevano fatto parte alla rivolta, Spinuzza, coi fratelli Botta, ed il Gugini Guarniera ed Andrea Maggio, si erano rifugiati presso i monti delle Caronie nel Comune di Pitteneo nella casina di un certo Glorioso. Spinuzza per avere denaro dalla famiglia spedì una lettera al fratello Antonino in Cefalù, il quale era stato tratto in arresto, il portatore pensò bene di consegnarla al cognato Clemente Marsiglia, che la riconsegnò al di lui suocero signor Vincenzo Fratantoni, ricevitore distrettuale di quell'epoca. E questi per rendersi benemerito all'aborrito Governo dei Borboni, ed ottenere qualche commenda a prezzo di sangue portò subito la lettera ricevuta al Sotto Intendente che subito mandò molta forza contro i fuggiaschi, i quali accerchiati dalla forza opposero accanita resistenza ma terminata la munizione fu necessità la resa. Venuto il 1860 nella chiesa della Mercé in Cefalù detta oggi chiesa Nazionale per cura di quel Municipio fu inaugurato un mezzo busto in marmo al moschettato Salvadore Spinuzza colla seguente iscrizione: «Qui Borbone assassinava la libertà, è qui libertà sacra un monumento di patria devozione al martire Cefalutano Salvadore Spinuzza. Moschettato il 14 marzo 1857.» Un altro bellissimo monumento è stato innalzato anni fa in Cefalù alla memoria del compianto amico e compagno Nicolò Botta. Dopo venne giudicato Nicolò Dimarco dalla banda di Mezzojuso, accusando sempre di essere infermo, e che una forte emozione avrebbe potuto costargli la vita. I suoi parenti, i suoi avvocati ebbero tutto il tempo di preparare il terreno per poterlo liberare. Finalmente venne il giorno del suo giudizio; seduto nel banco dei giudicabili, quel simpatico biondo giovane si attirò la benevolenza della maggioranza dei componenti del Consiglio, e col denaro promesso per la sua liberazione fu più simpatico ancora. Il Dimarco nel suo interrogatorio riversò tutta la colpa a Francesco Bentivegna. Se fece parte della banda egli diceva, è stata necessità di seguirla, perché come Cav. di onore di sua Maestà se avessi ricusato di seguirli mi avrebbero manomeso. Molti testimoni valevoli del paese confermarono quanto aveva detto il Dimarco; che la sua persona, la sua casa sarebbe stata distrutta se non avesse seguita la banda. Il Commissario di Guerra sostenne l'accusa con energia, e con forti argomenti contro l'accusato: Signori del Consiglio diceva, vi proverò che dopo Francesco Bentivegna viene il giudicabile Dimarco; fu egli che nascose nella propria casa in Palermo i Bentivegna, fu egli dopo che lo fece condurre nella casa di sua proprietà nel sito denominato bosco Lacca, ove poi divenne il centro delle operazioni rivoluzionarie. II Dimarco non solo somministrava il vitto ai fratelli Bentivegna, ma a tutte le persone che si portavano in quel sito per preparare la rivolta onde distruggere la forma del nostro Governo. Poi molte persone che fecero parte nella banda dichiararono di essere il Dimarco un capo dirigente, tutti i rapporti dell'autorità conferirono, che il Dimarco fu uno dei capi più dirigenti di

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quella rivolta. Per tali motivi diceva il Commissario del Re prego il Consiglio di applicare al giudicabile l'art. 123 che porta alla pena di morte raccomandandolo alla Sovrana clemenza. La difesa del Dimarco confutò con forti argomenti l'accusa del Commissario di Guerra, provando che il Dimarco fu spinto da forza maggiore per seguire la banda, essendo minacciato di vita, e perdere le sue sostanze, se non avesse seguito quel movimento trovandosi Cav. di Onore di Sua Maestà. Rientrato il Consiglio nella sala delle deliberazioni vi fu fra loro una lunga discussione; ma venuto alla votazione il Dimarco venne assolto con due voti di maggioranza. Il Maniscalco crucciato di tale sentenza trattenne il Dimarco nel carcere oltre due anni per misure di Polizia. Tutti quelli condannati alla pena di morte ebbero commutata la pena a 18 anni di ferri da scontarli nel bagno dell'Isola di Favignana. Alcuni liberati dal Consìglio di Guerra furono spediti nelle vicine Isole a domicilio coatto. Dalla nostra banda creduti come capi eravamo rimasti tre; Luigi La Porta, Rosario Ribaudo, e lo scrivente. Il Maniscalco riceveva spesso rimproveri dal Ministro Cassisi da Napoli, perché noi ancora non eravamo in carcere: Allora il Maniscalco pensò di bandire la taglia di ducati 300 (L. 1275) per il nostro arresto, ma con tutta la taglia nulla ottenne nessuno ci tradì da si fatta rigorosa misura.

X

Il barbiere Catino non dormiva per parare il mio imbarco, e guadagnarsi il premio offertogli. Egli aveva ottenuto la promessa da un capitano di un legno americano di condurmi seco nel nuovo mondo, però qualora avessi potuto completare l'intiero carico in Palermo, se poi dovessi recarsi in Messina o pure in Napoli lo stesso legno diverrebbe certo difficile condurmi seco. Il Castaldo della Villa ebbe ciò riferito dal barbiere Cutino, che tutto lieto era venuto a dirmelo, additandomi da lungi il grosso legno, che stava ancorato vicino alla Lanterna del Molo colla bandiera spiegata sulla poppa. I miei parenti preparavano l'occorrente per la mia prossima partenza; il barbiere Cutino aveva scritta una lunga lettera di raccomandazione ai suoi figli a New Jork. Io guardava con anzia dalla loggia del mio ricovero quel legno che mi doveva trasportare nel lontano soggiorno, che mi avrebbe dato certo la libertà; ed aspettava impaziente la partenza, ma dopo pochi giorni svanì la mia speranza, una colonna di fumo che s'innalzava dal tubo della machina del designato Piroscafo mi rese dotto, che già il legno era in partenza, e dopo pochi minuti il legno prese la rotta per Napoli, ed io ricaddi in una dura delusione. Da molto tempo i miei genitori erano ritornati in Mezzojoso senza essere più molestati; il mio compagno Ribaudo passeggiava nelle campagne

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senza essere più accanitamente perseguitato; tutta la forza si era ritirata, pochi compagni d'armi erano rimasti a perlustrare le campagne. Io stavo il giorno racchiuso nel mio camerino, che guardava il mare, passavo il tempo studiando la grammatica Inglese, e fare calzette, giornalmente veniva la figlia del Curatolo a portarmi il vitto, e quando essa rimaneva meco veniva subito chiamata dalla madre. Questa fanciulla soffriva nel lasciare la mia compagnia per lei tanta piacevole, perché coll'avvicinarmi giornalmente aveva incominciato a nutrire un amoretto nel suo cuore. Il padre di ciò se ne preoccupava, da qualche tempo si mostrava assai freddo verso di me, io indovinando il motivo di quella freddezza un giorno lo fece salire da me e gli dissi -voi da qualche tempo vi mostrate freddo verso di me, vi prego di farmi conoscere la causa di tale vostra freddezza, e se non volete dirmela voi, ve la dirò io. Voi credete che io essendo giovane possa fare un torto al vostro onore seducendo vostra figlia, Zu Andrea state sicurissimo che non sono persona di mancare al dovere di amico e di gentiluomo, vi prego di stare tranquillo su ciò. Se poi non restate tranquillo e non siete convinto delle mie sincere parole io parto subito e così resterete in piena quiete d'animo. Il povero uomo convinto dalla mia dichiarazione, mi rispose riposo sulla sua parola che credo di essere un gentiluomo, non capace di offendermi, io riposo tranquillo, e non voglio che ci lasci. Già era trascorso metà del mese di Maggio del 1857, e la nave che mi doveva trasportare in altra terra non era ancora costruita né tampoco l’amico Inglese dell'Abbate Ragusa era venuto in Palermo col suo legno. La mia mente era travagliata da due cose, la prima la passione che aveva acceso il cuore della ragazza per me, pronta a qualunque sagrificio, ed io avrei potuto mancare alla promessa fatta al padre così buono, secondo il padre in un momento di parosismo avrebbe potuto segretamente denunziarmi e prendersi il premio promesso dal Governo pel mio arresto. Alle quali cose si aggiunse un altro motivo, i seminaristi Greci venivano spesso nella Villa e salivano alle stanze superiori che stavano, tutte aperte faceva loro meraviglia trovare il mio camerino chiuso, e facevano forza per aprirlo. Difatti un giorno tutti uniti facevano forza purché fosse aperta la porta, la quale tritolava, dalla forza vigorosa dei giovani, io stavo appoggioto coi piedi al muro per sostenerla, va bene inteso che sarebbe stata rotta se il Curatolo non avesse annunziato la venuta del Rettore Papas Andrea mio zio, che tanto terrore tenevano i giovani, tutti fuggirono cosi la porta rimase chiusa. Fra i giovani più accaniti e di forza Erculea, vi era Giuseppe Bennici già Professore e direttore dell'Istituto Tecnico. Feci chiamare mio fratello Agostino il Prete, quando esso è venuto gli manifestai la mia risoluzione di lasciar la Villa, essendo quella abitazione per diversi motivi, dopo 5 mesi di dimora divenuta pericolosa; egli mi rispose giacché volete partire fate un buon viaggio, e cercate di essere cauto, io gli raccomandai di brigare sempre onde trovarmi rimbarco. Il giorno 22 Maggio del 1857, provvisto di un poco di carne cotta, pane

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e 4 limoni, prima che si facesse giorno lasciai la Villa ospitale; sul far del giorno passai Porta S. Antonino, giunto nel ponte della Guadagna le gambe mi dolevano per la prolungata inerzia, mi sembrava difficile fare quel non breve viaggio; feci il primo riposo, il secondo lo feci nella fonte a pie della scala del Minsagno. Quando già aveva fatto alcuni giri di quella alpestre via venivano di fronte il capitano Giorgio Chinnici con quattro suoi satelliti. Lo confesso alla vista di Chinnici, che mi conosceva ebbi un momento di timore, certo non poteva evitare l’incontro; ma subito mi venne una favorevole idea. Mi distaccai di pochi passi dalla via fingendo un bisogno corporale, mi accoccolai calandomi i pantaloni e voltai il sedere ai miei passanti; uno di essi disse, che culo bianco tiene quel villano. Fra me alleorico dissi: brutti sbirri vi ho gabbati; seguitai la via che prima aveva fatto di notte, riposandomi spesso, così giunsi verso le ore 22, nel bosco Lupo, che forma parte del bosco Ficuzza. Lì vi era un contadino che vangava la terra per la futura semina del grano, teneva un bell’asino, io pregai di portarmi sull'asino nel bosco di Mezzojuso, offrendogli due tariì (cent. 85), mi rispose non volermi contentare, io di rimando gli dissi; ti pago devi portarmi sull'asino altrimenti me lo porto via; se poi farai chiasso ti bastono ben bene, brutto cane che sei; dopo tale minaccia quel sozzo uomo prese l’asino e mi condusse nel sito stabilito. Essendo ancora giorno mi posi, dentro un tronco di grossa guercia, che formava un piccolo tugurio, dove tempo prima aveva passate alcune notti: Quanti ricordi! quante reminiscenze quando dopo il 1860, visitai quei luoghi? Non più Quercie, quasi nulla di quel bosco tutto era stato distrutto carbonizzato dall’on. Marchese di Rudinì, quantunque la maggior parte sotto vincolo forestale. (parte morale). Venuta la sera ripresi la via; quando giunsi vicino al paese mi buttai nel boschetto Battagia per attendere l’ora propizia, verso le ore 11 presi le vie meno frequentate e giunsi nella casa paterna. Il fedele cane diede l'avviso ai miei genitori del mio arrivo. Mia madre venne ad aprirmi. Rimasi alcuni giorni presso di loro, dopo ripresi la campagna e ritrovai l'amico Ribaudo. Era venuto il mese di Giugno esistevano ancora delle fave, dei piselli, delle ciliege e si dormiva al cielo aperto burlandoci del Ministro di Polizzia, e di tutti i suoi sbirri. Così era passata la stagione: alcuni stati assolti dal Consiglio dì Guerra, avevano fatto ritorno nella loro patria, altri erano stati spediti nelle vicine isole. I condannati alla pena di morte che ebbero; come abbiamo detto commutata la pena a 18 anni attendevano di essere trasportati nel bagno penale di Favignana. Vi fu fra questi, che pria di lasciare il carcere di Palermo, mi volle fare dei complimenti scrivendo una lettera al capo dei sbirri di Mezzojuso certo Nicolò Pravatà, dicendogli di stare in guardia perché il latitante Don Spirilione Franco vi deve uccidere; il povero uomo ricevuta la lettera la portò subito al capo Urbano D. Ignazio Battaglia, che da uomo di esperienza gli disse di essere uno scherzo dei carcerati come sogliono fare. Dopo altri giorni gli fu spedita altra lettera aggiungendo, che complice del Franco vi è maestro Antonino Bonanno, che pria di lasciare questo carcere lo confidò ad alcuni di

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lui amici. Il capo Urbano chiamò mio padre e lo fece sciente delle due lettere venute dal carcere, mia madre era nata Pravatà e col capo guardia esisteva un ramo di parentela, lo fece chiamare in casa, e lo assicurò di starsene tranquillo, che nessun male gli sarebbe fatto dal suo figlio, e poi non vi è motivo di farlo: tranquillatevi vi prego; egli usci soddisfatto dalle parole di mia madre. Una sera camminando per le strade di Mezzojuso ho incontrato il capo Guardia, lo fermai; sulle prime egli si scosse nel vedermi. Amico rassicuratevi e state tranquillo, che nessun male riceverete da me, e non ho motivo di farlo, glli dissi, egli se ne partì contento; e cosi ebbero fine le due lettere dei miei compagni, che dopo la vergognosa fuga usarono la infamia contro di me; son quasi certo che lo autore delle due lettere gode la pensione dal Governo; e quando leggerà questo scritto si rammenterà dell'infamia fattami! Durante la mia lunga latitanza credo di avere tenuta una condotta da gentiluomo, non attentai nè alla vita, né alle sostanze altrui, solamente mangiavo dei frutti ove esistevano rifugendo sempre da qualsivoglia indelicatezza. Ve ne do un'esempio. La notte del 16 agosto 1858, ero buttato sotto un'albero del mio vigneto in contrada Pizzi, verso mezzanotte fui svegliato dal mio cane e intesi che nel vicino stradale, molti carrettieri che si recavano in Palermo erano stati assaliti. Allora presi il mio fucile mi sono alquanto avvicinato ai grassatori e feci fuoco contro di loro, che al fischio delle palle subito si diedero a precipitosa corsa, così i carrettieri liberati ripresero il loro cammino. Giunti nella vicina Villafrate si portarono ad avvisare il caporale dei compagni d'armi certo Giuseppe Labarbiera di quanto era accaduto e così dissero. - I vostri compagni ci liberarono dal pericolo di essere stati rubati, ma le loro palle ci fischiavano da vicino. Il Caporale sapeva bene che nessuna guardia si trovava in quel sito, allora si persuase di essere stato io colui, che avevo fatto fuoco contro i grassatori. Venuto il giorno si pose a fare la mia ricerca, finalmente mi trovò e mi ringraziò molto dicendomi: Lei mi ha risparmiato severi rimproveri e forse castigo. Io gli risposi di non comprendere quei ringraziamenti non meritati. Labarbiera soggiunse, giacché non e stato lei, saranno stati gli spiriti che camminano di notte! Fu allora che ridemmo entrambi e ci siamo intesi. Il Direttore di Polizia Maniscalco veniva spesso rimproverato da Napoli perché noi eravamo ancora nelle campagne, spesso chiamava a sé il comandante di Termini Imerese e lo sollecitava pel nostro arresto, il Comandante venne più volte in Villafrate ed aveva rimproverato il caporale Labarbiera, perché usava poca energia per il nostro arresto. Signor comandante, rispondeva Labarbiera, gli sembra cosa facile arrestare Ribaudo e Franco, nessuno li tradisce; sono avvisati subito dalle nostre mosse, loro non molestano nessuno, Ribaudo domanda del pane, glielo danno volentieri. Franco mangia del suo, poi ove sta lui non si rubba, e in ciò dire gli raccontò l'affare della grassazione respinta. Il comandante dopo di avere pensato un poco dissegli: caporale siate sincero con me, sono certo che voi qualche volta avete parlato con Franco; signore non posso negarlo, dopo la grassazione ch'egli respinse io feci del tutto per vederlo affinchè lo

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ringraziassi, e poscia cercare se mi poteva far conoscere i nomi dei grassatori; per mezzo di un comune amico ebbi il piacere di rivederlo e ringraziarlo. Ebbene, voi domani partite e cercate di trovarlo e gli direte che ho molto piacere di avvicinarlo, assicuratelo che venendo egli da me, viene a trovare un amico, un gentiluomo, non capace di commettere una cattiva azione. Il detto caporale l'indomani, si pose alla mia ricerca senza potermi trovare, il secondo giorno ci siamo veduti, perché io mi avvicinava loro quando era solo che camminava, senza nessun timore di essi. Egli mi disse: II mio comandante desidera avvicinarla, assicurandola di giammai commettere una cattiva azione, verso di lei, poi le assicuro che il mio superiore è un vero gentiluomo non capace di una cattiva azione. Direte al vostro superiore, io gli risposi, che cercherò di appagare il suo desiderio. Partito il caporale montai sulla mia veloce cavalla e mi portai nel feudo Palmieri a trovare Ferdinando Dimarco cognato del caporale Labarbiera gli raccontai il desiderio del comandante; risposemi: II comandante è un vero gentiluomo incapace di fare un tradimento. -lo allora soggiunsi questa sera ci porteremo in vostra casa in Villafrate, voi andate a chiamare il comandante e lo condurrete con voi. Venuta la sera, montammo sulle giumente, e giungemmo nella casa del Dimarco, il quale si recò subito nella casa di Don Tommaso Traina ove alloggiava il comandante, che lo condusse nella propria casa. Nel vedermi mi colmò di gentilezze, mi ringraziò di avere posto in fuga i grassatori: dopo mi esortò a volermi presentare promettendomi tutto il suo appoggio; lo ringraziai delle gentilezze usatemi, poi soggiunsi: mi trovo in questo stato contro il mio volere, cercai di evitare queste sciagure, feci parte della banda per non essere preso per vigliacco, promisi agli amici di morire, o di andare in America, e spero di partire pel nuovo mondo. Il comandante mi fece complimenti di ottimi sigari; alla sua presenza io presi la mia cavalla e sono partito. Dopo qualche tempo il comandante si recò in Palermo presso il Maniscalco, e parlando dei fugiaschi Ribaudo e Franco, gli raccontò la grassazione respinta da me, assicurando il Maniscalco che per parte del Franco, il Governo non può ricevere cattive azioni, essendo il Franco un vero gentiluomo, e che sempre spera portarsi in America. Noi quantunque abbiamo sofferto molto, fame, freddo, buttati sulla nuda terra, il tanto temuto Maniscalco, non ebbe il piacere di portarci nel carcere e mandarci nella Favignana a raggiungere i nostri compagni, ed anco il Barone Giovanni Nicotera che stava colà dopo i fatti di Sapri. Davide Figlia aveva scritto il mio nome vicino al suo letticciuolo, qui si aspetta Spiridione Franco: ma quel posto rimase vuoto.

XI

Se qualche amico e compagno, che fece parte di quella banda di Mezzojuso dalla quale ve ne sono buona parte in vita dirà; anche lui parlando

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di me, alla fine si è presentato rispondo, che mi decisi a presentarmi, dopo di essere stato assicurato dal Presidente del Consiglio di Guerra Colonnello Brigante, e del Commissario capitano Cesare Schittini, che presentato mi avrebbero liberato. Ecco come fu il fatto. Il mio fratello maggiore Agostino era stato educato in Roma nel collegio di Propaganda Fide ordinato prete ritornò in patria, dopo fu proposto superiore nel Collegio Greco di Palermo, nel mese di Maggio del 1858 fu chiamato in Roma dal Papa Pio IX nel mese di Giugno venne consacrato vescovo Greco destinato in San Benedetto in Calabria. Nel mese di ottobre di quell'anno venne in Mezzojuso per vedere i genitori, passando da Palermo si portò nel forte Castellamare per visitare il presidente del Consiglio di Guerra colonnello Brigante, lo pregò d'esaminare il mio carico, e liberarmi nel caso che non mi avesse trovato molto colpevole nel processo. Promise che d'accordo col commissario Schittini avrebbero studiato il processo e l'avrebbe avvertito fino alla casa di mio fratello. Fedele alla promessa passati pochi giorni il Colonnello si portò da mio fratello, prima per rendergli la visita, nello stesso tempo disse: Faccia presentare il fratello, che sarà liberato, siamo d'accordo col Schittini, bisognano però alcuni teste e discarico ci metteremo d'accordo col difensore di suo fratello. Detto mio fratello si recò pure dal commissario Schittini, dal quale ebbe le stesse promesse. Dopo ciò si portò dal Maniscalco Direttore di Polizia, gli fece conoscere di essere venuto espressamente in Sicilia per persuadere me a presentarmi, non essendo decoroso, che io andassi ancora nelle campagne. Il Maniscalco gli rispose: Monsignore, fate benissimo ed io ammiro in lei l'affetto che nutre per il Governo, e a sua Ecc. il Luogotenente ed io per quanto potrò cercherò di agevolarlo, perché suo fratello ha tenuta ottima condotta durante la sua latitanza. Mio fratello soggiunse, qualora egli sarà liberato, la prego di rimetterlo subito in libertà. Non dubiti per questo, rispose il Maniscalco. Giunto mio fratello in patria raccontò ai miei genitori le pratiche fatte per me in Palermo, e li pregò di cooperarsi a farmi presentare. Una sera procurai poterlo vedere in casa detto mio fratello Monsignore il quale mi raccontò ciò che aveva, fatto per me soggiungendo. -Bisogna presentarvi che sarete liberato. Anche i miei genitori vollero di presentarmi. Fu allora che venne stabilito che finita la vendemia dovevo fare il sagrificio di presentarmi, ed infatti finita che fu mio fratello si porta in Palermo ed ottiene un salvacondotto di un mese dal Direttore Maniscalco, che tutto lieto ne diede avviso al Ministro in Napoli. Era la fine di Ottobre quando mi fu comunicato il salvocondotto pensai di fare una cacciata con certo Lorenzo Dichiara e figlio celebre in questo mestiere, che riuscì abbondante. Posta la caccia sulla mia cavalla mi diressi per Viilafrate volendo partire colla vettura postale, ho passato per il casamento contrada Pizzi ove pregai Marco Dioguardi, che venisse meco in Villafrate per prendersi la mia cavalla, e mentre era in attesa della vettura innanzi il rilievo postale in compagnia di Matteo Dimarco, e Dioguardi, si avvicinò Pasquale Tavolacci, che assieme al figlio Fracesco avevano dichiarato all'Istruttore che Francesco Cali e don Spiridione Franco gli

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avevano preso un fucile nella propria casa, che mai ne avevano posseduto, per tale dichiarazione il povero Cali era stato condannato alla morte e trovavasi nella Favignana; diede un segno ai miei due amici, e poi mi rivolsi ai Tavolacci: amico voi tenete un carretto me lo volete affittare sino a Palermo! Rispose. Il mio carretto l'attendo adesso carico di Zolfo non posso servirlo, noi caro Tavolacci siamo vecchi amici, scaricate lo Zolfo e mi date il carro; ed egli prima che questo non posso farlo di scaricare lo Zolfo, secondo è questa la prima volta che vi vedo, e conosco a lei. Tavolacci rammentatevi bene che ci siamo veduti più volte. Ed egli: giuro sull'anima mia che questa è la prima volta che vedo lei. Amici, avete inteso già che Pasquale Tavolacci giura di essere la prima volta che mi vede; allora come va che voi, e vostro figlio avete dichiarato che Cali e Franco vi presero un fucile nella vostra casa, che voi non avete mai posseduto, il Franco sono io che voi non conoscete? Un freddo pallore coprì il viso di quell'imbecille. Signore, mi deve perdonare siamo stati ingannati da un gentiluomo del paese senza conoscere il male che facevamo. Frattanto la vettura postale era giunta ed io presi il mio posto e partii per Palermo ove giunto ho distribuito la caccia agli amici. L'indomane ho comprato un vestito decente mi recai dal Direttore Maniscalco nella propria casa, il quale senza farmi molto attendere mi ricevette con gentilezza. Lo ringraziai del lungo salvocondotto accordatemi; ed egli rispose come termina voi stesso vi porterete nel carcere. Dopo mi recai dal Presidente Colonnello Brigante, e dal Commissario Schiumi, che visitava spesso durante il salvocondotto. Avvicinai pure il Sergente Nicola Scola Segretario del Consiglio di Guerra, divenni così stretto con lui in amicizia tanto che spesso portava la sua moglie e figli a passeggio. Mio fratello dopo di avere riveduto il Presidente, ed il Commissario Schettini, partì per Calabria. Terminato il salvocondotto e provisto dal necessario mi recai nel carcere; mi presentai all'Ispettore di Polizia Sferlazzo, il quale mi fece accompagnare in una sala terrena in cui io non volli entrare, dissi alla guardia dite al vostro superiore non essere questo il mio posto mi deve mettere nel civile coi gentiluomini, la guardia ritornò e mi disse quando l'Ispettore parla al Direttore Generale sarà rilevato. L'indomane l'Ispettore informò il Maniscalco, il quale ordinò di essere posto nel civile. Di fatti sono stato posto nella stessa stanza col Cavalier Dimarco; il quale nel vedermi tutto lieto mi abbracciò, e poi mi disse: tu solo fosti Profeta noi tutti siamo stati ciechi, sono trascorsi due anni che languo qua, e non so, quando mi manderanno via. Caro Nicola gli dissi sei stato fortunato di essere stato assolto il che io non credevo, e lui, però la mia liberazione mi costa 50000 lire. Lo sai se lo ignori apprendilo pure. Un detenuto certo Giannetta ci faceva il pranzo assieme col Dimarco, il quale ordinava alla moglie del Gennotta ciò che doveva comprare, ogni mattina sino a mezzogiorno avevamo il colloquio coi parenti, in una stanza a pian terreno, una sola inferriata ci divideva, si davano strette di mano e si baciavano i parenti, non come adesso che si parla in distanza e dal buco, il carcere di quel tempo chi

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teneva i mezzi poco soffriva, si mangiava, si beveva a volontà il vino, si fumava, si cantava si stava in compagnia, si giuocava alle carte. La sera solamente venivamo chiusi nelle nostre stanzette sino al novello giorno. La mattina del 27 Dicembre Ì858, una guardia era venuta nella mia cella a sollecitarmi di lasciare il letto, dicendomi, che cinque guardie si trovavano giù per condurmi al Consiglio di Guerra, risposi: Dite alle guardie, che la giornata della mia causa è stata postergata ad altro tempo, altrimenti mi troverebbero di già pronto, mi fa meraviglia come loro sono venuti. Scese la guardia a riferire quanto io gli aveva detto, rispose il Caporale. Io non so di rimando, ditegli che venga presto; e non mi faccia molto attendere, di ritorno la guardia dissemi; Loro non sanno di rimando che faccia presto a vestirsi. Dimarco dissemi va pure e prendi un d'aria fresca. Mi affrettai a vestirmi e scesi giù ove stavano le guardie, che mi attendevano, il Caporale con voce altiera mi disse: Ci voleva tanto a venire Signorino? Caro amico, la mia causa è stata rimandata perchè tre compagni d'armi testimoni oggi non possono essere presenti altrimenti i miei fratelli sarebbero venuti col permesso del Direttore, di essere condotto libero, e in carozza come mi ha promesso quando mi sono presentato. Guardia, riprese il Caporale metti le manette al Signorino: Caporale vi prego di condurmi libero, sono venuto coi miei piedi non temete che possa fuggire, la guardia induggiava a mettermi i ferri e lui: metti le manette ti ho detto. Mi furono poste le manette ai polsi, e collocato nel mezzo alle cinque guardie abbiamo, passato il vasto piano, e presa la popolata via del Borgo, nel passare le persone mi guardavano e compiangevano. Bravo giovane dicevano, lo portano al Consiglio di Guerra, Signore aiutatelo voi, non lo fate condannare alla morte! e così compianto siamo entrati nel Forte Castellammare. Il Colonnello che stava seduto più sotto si accorse che io tenevo i ferri ai polsi e grida: Caporale vieni qui, come giunse lo sgridò, canaglia perché hai posto i ferri a quel signore? va subito a levarli, corse da me ed ordina di togliermi le manette. Caporale adesso tocca a me non farle levare. Ma io debbo eseguiere gli ordini ricevuti dal Colonnello. Allora toglietele pure. Dopo tolte le manette avvicinai il Colonnello, lo ringraziai dal riguardo avutomi e delle sue gentilezze. La guardia che nel carcere induggiava a mettermi le manette fu assai lieto del rimprovero ricevuto il Caporale, e così gli dissi: Voi Caporale non conoscete le persone di riguardo. Io a prima vista conobbi essere un signore. Usciti dal Forte il Caporale tutto sommesso mi chiese se volesi essere condotto in legno. Io risposi: Entriamo tutti in qualche osteria e poi ne parleremo. Siamo entrati al borgo in una osteria abbiamo mangiato carne in arrosto e pesce fresco ed ottimo vino, dopo col Caporale ed una sola guardia sono entrato nel carcere. Il Caporale nel dipartirsi mi promise di ottenere di venire lui il giorno della causa, e condurrai lui stesso con tutti i riguardi. Il giorno 10 Gennaio 1859 sono venuti le cinque guardie quelle stesse della prima volta per accompagnarmi al Consiglio di Guerra. Mio fratello Gaspare di felice ricordanza, era venuto nel carcere coll'ordine del Direttore

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Maniscalco di essere trasportato libero, ed in vettura. Uscito dal carcere, ho preso a nolo due vetture; nella prima ho salito con mio fratello, nell'altra salirono le cinque guardie separate da noi. Giunti nel Forte Castellammare proprio nel vasto piano trovai i miei testimoni a discarico, e parecchi amici e parenti vi trovai pure il compianto Simone Cuccia, allora studente. Rimasi a parlare con loro, il testimonio a mio carico Francesco Tavolacci si era trasmischiato fra noi, egli era per vedere il giudicabile, chiese se fosse venuto il detenuto, ho riposto di essere giunto da molto tempo, se poi volete vederlo portatevi in quella parte a sinistra e lo troverete circondato dalle guardie; egli si porta subito in quel sito da me indicato e trova il banco vuoto; ritorna dicendo: Ma in quel sito non vi stava. «Certo che non vi sta» risposi io, «perché mentre voi siete partito, egli è venuto qui e trovasi immezzo a noi, guardate bene che lo vedrete». Guarda a destra, a sinistra, e non sa conoscere l'imputato. Allora io diriggendomi con Matteo Dimarco e Marco Dioguardi, quelli di Villafrate, che furono presenti al dialogo del padre, numero due, padre e figlio, non conoscono l'imputato. Basta Tavolacci non cercate più, si vede bene, che voi, e vostro padre avete deposto contro l'imputato senza averlo veduto, né conosciuto la persona che cercate? sono io stesso. Ma ditemi una cosa: come va che assieme a vostro padre avete fatto una dichiarazione all’istruttore senza vedermi? Credetemi, questo giorno sarò libero, e voi sarete condannato come falso testimonio. Signore, ha tutta la ragione di dolersi, egli disse, siamo stati ingannati da Don Tommaso Traina, che per non fare comparire le sue figlie innanzi al Giudice Istruttore persuase noi di fare quella brutta dichiarazione senza conoscere il danno che si faceva, abbia pietà, se non per me, per i miei figli; questi detti furono pronunciati in modo che toccarono agli astanti il proprio cuore. Il vecchio amico, il testimonio a mio discarico Matteo Dimarco mi disse: siate generoso con questo imbecille, «Ma caro amico» risposi, «egli oggi si trova in brutta condizione; se conferma la sua prima dichiarazione colpisce me e voi tutti, qui presenti, dovete smentirlo, se nega il consiglio lo condanna come testimonio falso; basta, ho trovato il modo di poterlo salvare: che si allontani subito e non apparisca all'udienza. Il Tavolacci così rianimato prese il volo. Il Presidente del Consiglio usciva dal suo gabinetto e si portava nel sito del consiglio di guerra, allora io corsi, e mi portai a sedere nel banco dei giudicabili macchiato del sangue di tante vittime sin dal 1849. Aperta la seduta incomincia il mio lungo interrogatorio, che durò tre ore precise, dovendo il Segretario scrivere le mie domande e le mie risposte. lo calmo, ed indifferente confutai tutto il mio carico, che stava scritto nel processo «Signori del Consiglio» conchiusi, «quello che vi ho detto lo vedrete confermato dai miei testimoni a discarico». II Commissario Capitano Schittini prese la parola, e così da principio alla sua arringa: Signori di questo Consiglio, dal processo risulta che il giudicabile nella banda di Bentivegna fu uno dei capi, che prese e cavalcò un cavallo delle RR. Poste nel rilievo postale di Villafrate; tutte le autorità dicono nei loro rapporti di essere il giudicabile uno dei capi di quella banda, molti di

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coloro che fecero parte di quella banda hanno dichiarato che il giudicabile era stato pure uno dei capi di quella banda. Per sì fatte ragioni voglio che venga applicato al giudicabile l'articolo 123; però signori mi riservo di modificare la mia accusa dopo di avere inteso i testimoni a di carico. (Lo Schittini ciò me lo aveva prevenuto in sua casa). Tutti i componenti del Consiglio entrarono nella seconda stanza per fare la loro colazione Schittini mi fece scendere e mi fece sedere nel suo tavolo facendomi portare la mia porzione della colazione; fu meraviglia di tutti gli astanti di questa cortesia usatami, certo non per me ma per il mio fratello Vescovo. In tanti consigli nessuno dei giudicati ebbero simili onori. Rientrato il Consiglio presi subito il mio posto, si chiamarono i testimoni a discarico, risposero tutti bene come erano stati preparati, raffermarono la mia dichiarazione. Furono chiamate le guardie, Orlando, ed Alleata, dissero, che senza l'aiuto del Signor Franco sarebbero stati assassinati da Salvatore Anzalone in Villafrate, che pose in cimento la propria vita per salvare la nostra. Dopo fu inteso la guardia Leonardo Manno; Signori disse, ero stato ammalato in quel tempo, e mi trovavo in mia casa convalescente, quando vennero una turba di armati e mi condussero seco nel bosco Lacca, contro la mia volontà, colà vidi il Signor Franco lo pregai di farmi partire, si mi dissi vieni meco, e dopo alquanti allontanati per non essere veduti dagli altri, mi disse: prendi questo viottolo e sarai in paese senza essere veduto, Signori; senza il suo valido appoggio sarei stato rovinato. Terminata la mia discolpa; si alza la seconda volta lo Schittini, e così dice: Signor Presidente, Signori del Consesso, avete inteso le dichiarazione dei testimoni a discarico e quelli dei tre compagni d'armi, che il giudicabile cimentò la propria vita, per salvare la vila altrui. Manno disse quel giorno il Franco mi fece da padre, avete inteso come i testimoni hanno rafforzato ciò, che disse il giudicabile nel suo interrogatorio, cosa unica signori in tante sedute che ho l'onore di assistere da molti anni in questa assemblea. Onde è che per si fatti motivi di diritto e di giustizia ritiro la mia accusa, e prego il Consiglio di fare un'atto di giustizia di eseguire il mio esempio; però voglio che sia posto alla cauzione di ducati 600, pari oggi a L. 2550. Il mio Avvocato Nicolò Schirò, prende la parola, ringrazia il pubblico Ministero, per avere ritirata l'accusa facendo un'atto di giustizia, poi con molta efficacia pregava il Consiglo di non applicare la chiesta cauzione, Signori dovete essere generosi col mio difeso, egli diceva, come lo fu per salvare la vita dei tre compagni d'armi. II Consiglio entra nella sala delle deliberazione, il Presidente dichiara, che lui si uniformava alla conclusione del Commissario di Guerra, e credo diceva, che tutti siete meco di accordo. Un Capitano di Artiglieria rispose, non essere di accordo a lasciare libero l’imputato. Gli si dia almeno una pena anche leggera. Il Presidente gli rispose, noi abbiamo due articoli di potere applicare al Giudicabile l'articolo 123, se risulta essere Capo, se non risulta come sembra di non essere, si deve applicare l'articolo 137. Dica lei Signor Capitano quale articolo potrà applicare per dare una pena leggera come lei desidera: Signor Presidente alla votazione alcuni risposero; il Capitano soggiunse: Per me sono convinto, che il giudicabile era uno dei capi, e la

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prova sta che non poteva salvare le guardie se non faceva da superiore lo fece per sentimento di umanità, e per lo spirito di gioventù, rispose il Presidente, ai voti, ai voti. Passata la votazione il solo Capitano fu contrario. Il Segretario esce il primo, e mi fece il segno convenuto, dissi fra me sono libero. Il Consiglio a grande maggioranza mi metteva in libertà, però sotto la cauzione di ducati 600 come aveva chiesto il Commissario Schittini. Quando sono uscito dal Consiglio la famiglia del Presidente mi fece segni di congratulazione. Ho molto desiderio di vedere qualche membro della famiglia del Presidente. Venuto il 1860 da Generale venne assassinato dai propri soldati nelle Calabrie, molto dolore intesi per la tragica fine del mio salvatore. Dopo la sentenza il Segretario del Consiglio si portó in casa del mio Avvocato, e si prese ducati 300, che ne fece parte a quei del Consiglio, che dissero ai voti Signor Presidente, e così col mio denaro fecero un lauto banchetto.

XII

Il Ministro Gassisi da Napoli sollecitava, spesso il direttore di Polizia Maniscalco per l'arresto di Luigi La Porta, e Rosario Ribaudo che percorreva, quest'ultimo le campagne di Mezzoiuso, il detto Maniscalco aveva appreso dai suoi numerosi confidenti, che spesso frequentava le vaste tenute del Marchese Di Rudinì defunto, e spesso si faceva vedere nella casa del vasto vigneto in contrada Farra, pensò bene di collocare in quel sito un suo confidente nativo di , uomo coraggioso ed astuto. Il Marchese Spaccaforno Direttore dell'Interno amico del Rudinì, che quasi ogni sera lo riceveva in casa, ottenne di fare mandar via il custote Giuseppe Labarbiera; e collocare il suo raccomandato nella casa del vigneto Farra, il quale aveva ricevuto ordine di finirla col Ribaudo in qualunque maniera si fosse. Il nuovo custote venuto al suo posto, non passò molto ad essere conosciuto chi fosse, dalle persone che lavoravano nel vigneto, e ne avvertirono il Ribaudo, che non volle prestar fede agli amici, perché spesso si portava a bere il buon vino di quella contrata. Un giorno nei primi di Gennaio del 1859 Ribaudo si porta nel casamento Farra. ove stava solo il custode, buon giorno amico, buon giorno Ribaudo, vedo che siete sudato, volete un poco di vino? Se me lo date, l'accetto volentieri, rispose Ribaudo, adesso vado a prendere il fiasco e si portò nella seconda stanza,comparisce col fiasco e fucile, Ribaudo alla vista del fucile uscì fuori e si die alla corsa, il custode allora gli fa fuoco addosso, e lo ferisce nel sedere coi pallini da caccia avendolo sbagliato la palla; e mentre ricaricò l'arma, il ferito si era allontanato; per sua fortuna incontra una persona, che passava la quale teneva una buona mula lo mette sopra e lo porta via dal pericolo, che senza questo ajuto sarebbe stato raggiunto ed ucciso; la sera si portò presso i miei genitori a chiedere, soccorso, che gli

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venne dato da un mio fratello studente in medicina, che sì trovava in famiglia. Lascio ai miei intelligenti lettori, il compito di giudicare se il Marchese Di Rudinì sia stato tratto in buona fede, o pure fosse consapevole di ciò che dovesse eseguire il novello custode del vigneto Farra? il custode La Barbiera, fu mandato via senza commettere nessuna colpa, e sempre lo ripete essendo ancora in vita. Questo fatto successo nel vigneto Farra tanto clamoroso, certo lo deve rammentare il già Presidente del Consiglio, che certo in quell'epoca, aveva oltrepassati più di quattro lustri della sua età. Fallito il colpo, il sicario governativo si portò subito in Palermo e racconta il fallito colpo al Maniscalco, il quale spedisce subito un buon numero di compagni d'armi i più valorosi, a fare una minuta rigorosa ricerca per trovare il ferito Ribaudo, giacente in Mezzojuso; si danno a perquisire le case dei creduti amici del Ribaudo, ed alcuni vennero tratti in arresto, fra questi il nostro fornaio Michele Azzarello, che dopo fu spedito in Caltanisetta al domicilio coatto. Mia madre vedendo quasi guarito il Ribaudo, lo esorta di lasciare la nostra casa, perché lui spesso voleva vedere sua moglie, e qualche suo amico, compromettendo così la nostra famiglia. Uscito dalla nostra casa si portò da Maestro Domenico Disalvo, ove passò altri giorni. Il fratello Giuseppe Ribaudo gli aveva procurato un ricovero, distante dal paese ove poteva nascondersi. Fu stabilito che il Ribaudo doveva uscire dal suo nascondiglio e portarsi nel bosco di Mezzojuso nel sito detto Serra del Castellano, ed attendere un certo Carmelo Schirò che portar doveva mutande e denaro, il Ribaudo giunto prima in quel sito, per precauzione si era distaccato da quel locale. Lo Schirò l'aveva denunziato, e quel sito veniva occupato dalla forza pubblica. Ribaudo accortosi di essere stato tradito si da alla corsa ed entra nel vicino bosco di Ficuzza, ma venne accanitamente perseguitato, e gli furono tirate un buon numero di fucilate, e per fortuna non venne colpito. La sera si portò nel paese di Marineo dall'amico Gaetano Lo Galbo, che lo consigliò di partire per Palermo a presentarsi. La mattina seguente sulla mula di un certo Buttacavoli venne condotto in Palermo nella casa dell'avvocato Nicola Schirò, che così lacero lo condusse da Maniscalco, il quale gli diede sei giorni di salvacondotto, si recò in famiglia prima, dopo fece ritorno in Palermo ed entrò nel carcere. Ho appreso che il feritore di Ribaudo venuto il 1860 è stato ucciso perché aveva indossato l'abito da sbirro. Dopo che il Ribaudo era giunto nel carcere ci siamo veduti da lontano, perché lui stava in altro sito colle masse, e io nel scomparto nobile detto il civile. Una guardia venne nel carcere e portò l'ordine della mia uscita, raccolti i miei oggetti abbracciai l'amico Dimarco, il quale commosso mi disse: Tu sei venuto ultimo ed esci per il primo, chi sa per quanto tempo mi faranno languire in questo carcere! «Fatti animo che verrà certo il tuo giorno» salutai gli altri colleghi di quel carcere e sono uscito col proposito di non più rivederlo. La guardia aveva ricevuto l'ordine di condurmi nella Prefettura di Polizzia, mi permise di lasciare i miei oggetti in famiglia presso i miei fratelli

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studenti, poscia ci portammo dal Prefetto Sign. Don Giuseppe Denaro olim repubblicano nel 1848, e dopo Prefetto nel 1849, non appena un anno di Mazziniano! però bisogna essere giusti; il Denaro mi accolse gentilmente; e mi disse: mi duole di doverle comunicare un ordine ricevuto dal mio superiore. Ella deve partire fra otto giorni per Canicattì a domicilio forzoso. «Io spero di non partire» risposi perché fra mio fratello il Vescovo, ed il Direttore Maniscalco fu stabilito prima che mi fossi presentato, che qualora il consiglio di guerra mi poneva in libertà non dovevo essere molestato; ed egli: che cosa posso dirle io su ciò? vada dal Direttore, e mi faccia rinvocare l'ordine ricevuto. Sarò lieto se l’otterrà. La dimane mi recai nella casa del Direttore Maniscalco, il quale non mi fece molto attendere, mi accolse con piacere. In prima lo ringraziai poi mi dolsi della misura presa contro di me diversamente alla promessa data a mio fratello Monsignore! Egli mi guardò crucciato dal mio rimprovero, e risposemi: Senta, sono sempre abituato a mantenere qualsiasi promessa: ma quando le autorità che lo conoscono più da vicino, chiedono un provvedimento il Governo si deve uniformare ai loro voleri: Ubbidisca, e le prometto, che fra pochi mesi sarà ritornato in paese presso i suoi genitori. Signor Direttore gli dissi, invece di mandarmi in Ganicattì credo di essere meglio che mi porti presso mio fratello Monsignore. Vada pure da suo fratello mi rispose, Allora vado subito a scrivere onde mi mandi i mezzi del viaggio, la prego di avvisare il Signor Prefetto onde non mi molesti: Stia più che tranquillo per questo; ci conchiudeva. Temporeggiai a scrivere al fratello per attendere che si facesse la causa di Rìbaudo, mi recai dal Presidente del Consiglio, Colonnello-Brigante, lo ringraziai per avermi liberato. Egli mi fece una paterna ammonizione e dissi l'uomo liberale e nemico dal Re, che si vuole distruggere, dal Popolo, e di se stesso, quando avete voi sofferto, che cosa potevate sperare (aumento dei dazi) vi esorto di fare i fatti-vostri non sempre troverete me a giudicarvi, voi dovevate essere condannato ed invece vi abbiamo liberato d'accordo col Capitano Schittini. Ringraziai di tutto cuore, poscia lo pregai di liberare il povero Ribaudo. Dopo mi portai a ringraziare il vecchio Schittini, il quale ridendo mi disse ti ho fatto paura quado prima ti voleva mandare alla morte ciò lo doveva fare per mio riguardo, basta gli risposi adesso sono in vita però caro vecchietto mi dovete fare un'altro miracolo, dovete liberare il povero Ribaudo. Poscia dal Segretario Scuola che era divenuto meco molto intimo pregandolo per Ribaudo, che non tardò molto di essere giudicato ed assolto. Venuta la lettera di mio fratello da Calabria, che con piacere mi attendeva, mi recai dal Maniscalco per ordinare la mia partenza. Egli mi rispose, il Governo non può permettere che ella parta per Calabria, ove è stata colla spedizione del 1848 scelga altra residenza se non le aggrada quella di Canicattì. Allora bisogna, che scrivo un'altra volta a mio fratello, gli dissi per mandarmi qui i mezzi del viaggio, scrivete pure mi rispose. La famiglia teneva una casa in Palermo, abitata da mia sorella e due fratelli studenti, e colà io riposava e godeva la vita in mezzo ai piaceri di cui da molto tempo n'ero privo per i lunghi anni trascorsi nelle grotte, e nei tuguri,

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con grande disagio e con privazioni più grandi. Un giorno rni sono incontrato col Capitano Giorgio Chinnici, il quale si congratulò tanto per l'ottenuta mia libertà; dopo mi disse: noi abbiamo ammirato, che nella vostra lunga latitanza vi siete comportato da vero getiluomo qual siete. Capitano gli dissi noi ci siamo incontrati nella scala io saliva, e voi colle guardie scedevate, allora io finsi un bisogno coporale e mi distaccai dalla via. Quando lasciai le campagne della mia patria vestito con pelle che sembravo un vero pecoraio, nella scala incontrai lo Zu Ignazio Capizzi, che lo accompagnai sino alla casa del Direttore Maniscalco, quando lo vedrete gli direte quel giovane che una volta vi diede da mangiare pane, e tuma, era un bandito politico, dicendovi di essere impiegato col Signor Arcuri. Si vede dissi il Chinnici che siete stato un giovane scaltrito e furbesco, addio caro Franco. Alla fine di Aprile del 1859 la Polizia tanto vantata andava in cerca di me senza trovarmi l'Avvocato Schirò si era recato dal Maniscalco per affare di sua professione; Mi dica Avvocato ha veduto da vicino il suo difeso Franco, rispose l'Avvocato quasi ogni giorno viene in casa mia - gli dica che pensi a partire e subito, e che non indugi più pel suo bene. La sera il servo di Schirò mi avvisò, che il suo padrone mi attendeva in casa, subito mi ci recai. Mi disse quanto aveva inteso da Maniscalco, come pure mi trattenne del pari sullo scoppio della Guerra tra il Piemonte Francia, contro l'Austria. Mi soggiunse qui certo vi saranno delle dimostrazioni, ti potrai compromettere perciò parti subito. Risposi ella mi prepara una lettera per lo Zio Sciales, che parto per Caltanisetta. Mi recai dal Prefetto chiesi il foglio di via e dopo lo pregai di assicurare il Maniscalco che sarei partito per Caltanisetta l'indomani. Presi un posto nella vettura, consegnai la mia cassetta al vetturino, e gli dissi dimane ci rivedremo nel rilievo di Villafrate. La sera sopra una mula mi recai in Mezzojuso di nascosto per abbracciare i miei genitori, la mattina sono uscito di casa senza essere osservato, e raggiunsi la vettura, la sera del 3 Maggio 1859 giunsi in Caltanisetta, ove mi presentai alla autorità locale. Don Girolamo Sciales Conservatore delle Ipoteche zio dell'Avvocato Schirò ed amico della mia famiglia, mi presentò nel vasto casino di campagnia dai Civili, che mi accolsero gentilmente, ho trovato anche colà Antonino Spinuzza fratello del moschettato, ed Emanuele Camerata dalla nostra banda, prese conoscenza con molti onorevoli famiglie. I fratelli Bartoccelli spesso mi portavano in campagna, ad uccidere i conigli, e lepri, e pernici. Strinsi pure amicizia col tenente medico certo Daniele anche lui affezionato alla caccia, spesso uscivamo assieme nelle campagne, e quando lui non poteva venire, mi dava il suo fucile facendomi accompagnare dal suo soldato fuori l'abitato, la sera faceva ritorno senza essere osservato. Moriva in quel tempo, cioè il 22 Maggio di quell'anno 1859 Ferdinando II con malattia che dalle sue carni impure uscivano migliaia di schifosi insetti, giusta punizione divina pel sangue che aveva fatto spargere a tante migliaia di persone, tra fucilati e periti sotto le fabbriche distrutte dalle bombe. Fu allora che si lesse sulle cantonate il proclama del figlio Re Francesco, uomo sciocco ed inutile a tutto, in cui disse essere fortunato

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seguire le orme di suo padre. Alcuni ufficiali esclamarono: Imbecille che sei, non conosci il vento che spira, il novello Re figlio della Santa ci vuole proprio farci massacrare, ma la sbaglia di certo. Un giorno verso il tramonto mentre ero seduto nel casino, mi chiama un vecchio signore certo Cosentino, il quale mi condusse seco fuori l'abitato; passata pure la chiesa di S. Michele siamo entrati in una vigna, egli prese una lettera dalla sua sacca proveniente da Torino, impostata in Messina che diceva: «Caro amico, dopo la battaglia di Magenta il Ministro Conte Cavour mi portò seco in quel sito, giunti colà abbiamo visto l'umana carneficina; quanti valorosi sono caduti! un lungo fossato si prepara per la loro tomba, ho veduto il corpo del valoroso Generale Francese Espinas, al quale, ove cadde si sta costruendo una discreta tomba, per me è stata una vista dolorosa, però vi assicuro che questo sangue sparso ci farà fra breve riabbracciare». Vostro Filippo Cordova. «Che ve ne sembra di questa lettera? » mi disse il Cosentino, io risposi che fra breve si darà addosso al Re di Napoli. Conservata la lettera siamo ritornati in città, dopo egli andò via. Lasciato il Cosentino mi sono avvicinato a Spinuzza e lo informai della lettera, egli rispose: Son certo che non passerà molto tempo e vendicheremo il sangue di mio fratello, e di Bentivegna e faremo uscire dal carcere di Favignana i nostri amici. Nel mese di Settembre di quell'anno nel Comune di Villabate, che dista cinque chilometri da Palermo, alcuni di quei abitanti tirarono una sera alcuni colpi di fucile contro la forza pubblica, i creduti autori si diedero alla campagna, fra questi rammento Rosario Fontana, ed i fratelli Pitarresi. In Palermo il Comitato lavorava per preparare la rivolta, l'avv. Salvatore Mondino Palermitano, ma che da parecchi anni abitava in Caltanisetta, trovandosi in Palermo in quel mese aveva fatto promessa al Comitato, che appena giunto in Caltanisetta avrebbe rivoltata quella provincia, mettendosi lui alla testa. Giunto che fu chiamò me, e Spinuzza, il quale aveva molte persone lavoranti sotto i suoi ordini, e dei solfatai delle vaste miniere del Barone Trabanelli presso cui stava impiegato, ed avrebbe voluto il Mondini che noi avessimo insorto e sollevata la popolazione. Noi abiamo risposto lei ha fatto promessa al comitato di Palermo ebbene si metta avanti lei alla testa dei movimento che noi lo seguiremo. Io ho ricevuto dal Presidente del consiglio di guerra una paterna ammonizione, egli mi disse non venga più ad essere giudicato dal consiglio di guerra perché non troverà sempre me a giudicarlo; poscia sono sotto cauzione, quindi se non vedo bene ingrandita la rivolta non posso prender parte. Allora il Mondini rispose prepariamoci ed aspettiamo il tempo opportuno e ci separammo. Che te ne sembra del discolpo dell'amico? dissi io allo Spinuzza, rispose gli avvocati vogliono fare la guerra colle ciarle e da noi vogliono i fatti. Un giorno dopo i fatti accaduti nel paese di Vittafrate trovardomi seduto nel solito Casino mi si avvicinò l'Ispettore di Polizia un certo Gerbino Palermitano una vecchia volpe di sbirro di quei tempi, Signor Franco venga

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con me che faremo due passi assieme, sono pronto Signor Ispettore; e fra me pensai: cosa vuole con quest'invito? certo non mi darà notizie buone come il Cosentino, stiamo allerta, prese la via della mia abitazione, e così principiò: mi dica conosce, lei un certo Michele Russo, e se abbia avuto corrispondenza col lui? risposi giorni prima di lasciare il carcere di Palermo era venuto il Russo in nostra compagnia, diceva di essere di questa città, di avere il padre, un fratello ed una sorella maritata col signor Migliore, fratello uterino del Direttore Maniscalco. Quando lui sentì che mi trovava in questa città era uscito dal carcere, mi scrisse una lettera per sollecitare il padre a spedirgli del denaro dopo un telegramma. Tiene questa lettera? chiese l'Ispettore. Allora me la faccia vedere: giunse nella mia stanza, aperta la cassetta la presi e gliela consegnai. Dopo di averla letta mi chiese del telegramma, risposi di averlo consegnato al padre del Russo il quale richiesto lo consegnò all'Ispettore. Scusino signori disse l'Ispettore e se ne partì. Dopo il padre mi disse di avere spedito al figlio onse cinque pari a L 63,75. Quel telegramma speditomi dal Russo recò molto dolore ai miei genitori e parenti. Il povero giovine Michele Russo uscito dal carcere, dopo i fatti di Villabate, ricevuti i danari del padre aveva preso la via di Corleone, passata la Ficuzza si pose a camminare a piedi, per riposarsi, pensò di entrare nel casamento del feudo Casale di proprietà allora di Don Natale Cammarata, ove stava per custode un giovane certo Gesuè Macaluso, che vedendo il Russo vestito con decenza credette che possedeva qualche buona somma e l'uccise. Venuta la notte trasportò il cadavere nel vicino feudo Cicio. Le guardie a cavallo di Corleone scoprirono tale cadavere, e ne avvisarono il loro comandante, il quale si recò sul posto. Perquisito il cadavere si trovò la ricevuta del telegramma, in cui stava scritto il mio nome: Bastò questo per spargere la triste notizia di essere io l'assassinato trovato nel feudo Cicio. Dopo 40 anni sono venuto a conoscere chi sia stato l'assassino del giovane Michele Russo qui in Roma da una parsona di Corleone che conosce bene i fatti passati, il quale mi disse pure, che il Gesuè Macaluso, l'uccisore del Russo, era già morto ucciso; Qui Claudio ferit, Claudio perit. Il comandante di Corleone certo Fiorentino, uomo quasi inalfabeto, voleva portare al Maniscalco questa novella. Giunto in Marineo trovò Nicolò Stratigò mio compaesano, con buon numero di sbirri, il quale aveva la missione d'Ispettore di Polizia per rintracciare quelli datisi alla campagna di Villabate; intese dal Fiorentino la mia morte. Il quale lo Stratigó pensò bene di recarsi in Mezzojuso per vedere i suoi genitori, e spargere in paese la mia morte. Appena ivi giunto sparse la infausta notiza. In un baleno tutto il paese fu penosamente impressionato sapendo ch'io fossi stato ucciso nel Feudo Cicio. Mia zia Petronilla sorella di mia madre corse dallo Stradigò, il quale le narra quanto aveva inteso dal Fiorentino, e le carte trovate addosso, accertano di essere suo nepote l’interdetto. Signora dissi lo Stratigò così doveva finire quel giovane senza cervello, dato solo alla rivoluzione ed alle fantasticherie liberali! La zia affezionata esce di quella casa tutta turbata e si recò dalla sorella della madre mia, la quale vedendola cosi mesta le chiese cosa

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avesse, e perché altri parenti erano lì riuniti. Per me cara sorella, non ho nulla rispose. Allora siete venuti tutti da me riuniti per darmi qualche cattiva notizia rispose mia madre, parlate presto non mi fate soffrire. Si è sparso in paese, che si è trovato morto nel feudo Ciciò, una persona e dicono, che rassomiglia tuo figlio, speriamo che non sia lui, ciò l'intese in Marineo Don Nicolò Stratigò! Mia madre con alterigia rispose - la notizia che ha sparso stù sbirroni di Stratigò è falsa, perché noi jeri abbiamo ricevuto lettera di mio figlio, non poteva certo mettersi le ali, e portarsi in quel sito, poi certo si avrebbe fatto vedere da noi. Presa e letta la lettera si dava ragione a mia madre, tanto che due amici volevano recarsi in Corleone per vedere il cadavere, e mia madre non volle. Alcuni parenti per meglio accertarsi, spedirono un messo a Palermo allo zio Papa Andrea, onde telegrafare in Caltanisetta all'amico signor Sciales per mie notizie. Lo Sciales mandò subito il servo alla mia ricerca, apprese di essere in campagna cogli amici. La sera appena giunto mi recai dallo Sciales, iI quale telegrafò, vostro nepote sia benissimo, e ritorna adesso da campagna, ecco il ritardo. I parenti a questo ritardo del messo stavano coIl’animo sospeso. Appena giorno arriva il messo aspettato, dove passava era chiesto: che notizia portate? rispondeva, è vivo, e sta benissimo. Una turba di parenti, di amici, e curiosi si affollarono presso il messo, e vennero presso i miei genitori a congratularsi. Letta la lettera ed il telegramma che portò il messo, mia madre. Vedete se aveva ragione di dire essere stata una cattiva invenzione del Poliziotto di Nicolò Stratigò, il quale rimproverato acerbamente, dai suoi genitori prese la via rifatta di Marineo. Non credono i miei cari lettori che questo incidente sia del tutto, terminato resta altra coda per essere finito che resterà come chiusura del nostro racconto Storico, che abbiamo voluto narrare minutamente i fatti successi.

XIII

Erano trascorsi cinque mesi della mia dimora in Caltanisetta, nè tampoco Maniscalco pensava di richiamarmi come aveva promesso, né io volli mai umiliarmi a volerlo supplicare, forse lui ciò desiderava. Mio fratello Monsignore lascia la Calabria e si porta in Palermo, poscia va dal Luogotenente Generale Principe di Castelcicala, gli disse: Maniscalco mi ha fatto una burla, promisi di non molestare mio fratello, e lo manda a domicilio forzato, gli promisi allo stesso mio fratello, che dopo poco tempo lo avrebbe richiamato, ed intanto non gli si pensa. Io passando da Napoli avrei potuto farlo richiamare, non lo feci per riguardo di lei. Pensi ella ora, che mio fratello ritorni presto in famiglia. Rispose, Monsignore, non dubiti, che suo fratello sarà presto richiamato. Allontanatosi mio fratello, il Luogotenente fece chiamare a se il Direttore

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Maniscalco, ed ordina subito il mio richiamo. La sera del 26 Ottobre 1859 la vettura postale portava l'ordine del mio rimpatrio il Segretario Generale di quella Intendenza Duca di Alpino scese nel vicino Casino di compagnia come era sua consuetudine. Sedutosi col Barone Trabunella e Barrile disse loro la mia liberazione, e che voleva comunicarmela, con riserva; difatti, chiamò un cameriere, vedi se vi sia il signor Franco e lo preghi che al più prestò possibile venga da noi. Avvertito fece presto e disse: Signori, sono a vostra disposizione, in che cosa debbo servirvi? rispose il Duca d'Arpino, vi darò una buona novella però colla preghiera di non pubblicarla questa sera. Colla posta di questa sera è venuta la vostra liberazione, dimane sarete chiamato dall'Intendente e vi sarà partecipata formalmente. Ho ringraziato sentitamente il Duca D'Arpino della gentilezza usatami, il quale rispose, i gentiluomini hanno sempre il suo riguardo. L'indomani, infatti fui chiamato dall'Intendente, che mi comunicò l'ordine ricevuto: adesso siete libero mi disse, potete andar quando volete. Ringrazii l'Intendente, che mai prese misura di sorveglianza. Egli apparteneva a nobile famiglia palermitana, un vero tipo di gentiluomo. Alcuni amici che stavano seduti nel casino furono informati da me, che fra breve lasciava Caltanisetta, e li ringraziai della loro affettuosa ospitalità, e gentile accoglienza ricevuta. Risposero di congratularsi della mia liberazione; ma erano dolenti di doverli abbandonare. Alcuni vollero darmi dei pranzi. Scrissi ai miei genitori il giorno del mio arrivo nel fondaco dei greci nome conosciuto sopra dei miei lettori punto più vicino alla mia patria Mezzojuso. Dopo di aver preso parte a quattro pranzi, ho lasciato quella città, che mi ospitò gentilmente, e che spesso la rammento e spero di rivederla pria che scendo nella fossa. Giunto nel fondaco suddetto ho trovato i miei due fratelli Giuseppe e Gaspare, che mi attendevano colle cavalcature. Nel ricordare i nomi di quei due cari fratelli che immaturamente, mi furono rapiti dalla cruda morte, io provo ahimè! uno strazio indescrivibile. Educati a severi studi erano poi uno avvocato valente, dottore in medicina col grado di tenente medicò l’altro, prestava servigio nella marina di guerra. Entrambi in sepolcro, non più per la patria, non più per la famiglia! Giunto in paese corsero tutti i parenti, ed amici venne pure il cav. Nicolò Dimarco, che da pochi giorni era stato liberato. La seconda sera del mio arrivo, un messo giunse in casa mia da Vlllafrate, un certo Francesco Calì, spedito dall'amico Ferdinando Dimarco, annunziandomi che otto guardie a cavallo erano pronte pel mio arresto la stessa notte: Ma come lo sa il tuo padrone forse sbaglia; al mio padrone le venne confidato dalla guardia a cavallo Gaetano Cucchiara: mia madre rispose, non vorrei che il tuo padrone sta per divenire matto, no madre mia le persone che nomina sono amici, e uomini seri: basta, Francesco salutami il tuo padrone, penserò io cosa debbo lare. Il sergente Pizzolante incaricato del mio arresto lo aveva detto al

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Cucchiara, il quale rispose di non conoscermi, anzi sarebbe meglio di attendere dimane che giunga la guardia Nicolò Bisulca, suo compaesano, senza dirgli, nulla prima della nostra partenza.19 Io aveva preso le mie precauzioni per non cadere nelle loro mani, la mattina era giunta una carrozza da viaggio da Palermo per prendere una famiglia, a furia di preghiere ottenne il posto col vetturino, alle ore due pom. prendemmo lo stradale, nella salita detta allora di Perricone un chilometro sotto il paese comparvero di sotto fronte le otto guardie, a destra vi era il Cucchiara che voltò subito il volto per paura d'essere da me salutato, a sinistra vi era la guardia Nicolò Bisulca, che mi salutò. Appena passate le guardie pregai il vetturino di sferzare i cavalli, perché queste guardie che avete veduto vanno in cerca di me, i nostri vetturini che hanno un pò di maffia pose subito i cavalli al trotto. Il Bisulca pria d'entrare in paese ebbe la curiosità di guardare in dietro, e vide la corazza che aveva fatto molta via. Giunte le guardie in paese, e dopo di avere collocate le loro bestie nel fondaco, il sergente Pizzolante chiama a se il Bisulca; sotto,la vostra corresponsabilità si deve arrestare don Spiridiore Franco! Il Bisulca rispose essere dolente non conoscere prima quest'ordine di arresto altrimenti a quest'ora sarebbe nelle nostre mani: Egli era sulla carrozza nel posto col cocchiere, adesso è diffìcile raggiungere la carrozza, perché correva; ma non dubiti, che penserò io al suo ritorno di arrestarlo. Giunto in Palermo l'indomane sono andato dal direttore Maniscalco, lo ringraziai prima per essere stato richiamato poi soggiunse mentre io stavo tranquillo in Caltanisetta i suoi subordinati mi fecero trovare morto invece del giovane Michele Rosso nel feudo di Cicio, lascio a lei di valutare il dolore recato ai miei genitori. Ora appena ritornato in famiglia si mandano le guardie per arrestarmi! Ma voi come lo sapete tutto ciò, o pure credo che sognate? mi disse: non sogno signor direttore, la mia condotta da gentiluomo, che ho fatto sempre del bene mi fa usare dei riguardi, faccia osservare se vi sia cosa dimenticate su di me. Il Maniscalco chiamò il segretario Favoloro: Vedete nei registri se vi sia cosa dimenticata di questo signor Franco. Dopo pochi minuti ritorna il Favoloro: e dire che esiste un mandato di cattura spiccato quando si disse che aveva abbandonato il domicilio. Oh! oh bella davvero signor direttore se già ero morto mi dovevate pure arrestare? rispose egli si vede bene di essere un giovane sventurato, avete la ragione di dolervi, fate i fatti vostri, che nessuno più vi molesterà; e voi segretario scrivete al comandante di Termini Imeresi di non molestare questo signore. Signor direttore ripresi io, dimane dabbo ritonare in patria non vorrei, che giunto in Villafrate le guardie comandate dal sergente Pezzolante mi arrestassero: e lui direte al Sergente, che siete stato da me, e ciò basta per non essere molestati. Presi un posto nella vettura, e l'indomane circa mezzogiorno giunsi in Villafrate, vi erano due guardie nello stradale, uno era l'amico Cucchiara, che

19 quest'avvertenza mi liberò di essere arrestato.

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finse non conoscermi. Chiesi loro che doveva parlare al suo superiore, e quindi recatemi da lui, con un colpo d'occhio rassicurai il Cucchiara, che tutto era finito, perché lui credeva di cadere nella trappola coi miei piedi; e loro come dobbiamo dire chi è lei? ditegli il signor Franco, che lui stesso desidera vedermi. Sergente ritornate in patria, mi portai in Palermo l'altro ieri credo di avermi veduto sulla Carrozza, per ringraziare il direttore Maniscalco, il quale per maggior mia cautela ordinò se vi fosse cosa dimenticata sul mio conto. Il segretario rispose di esistere un mandato di cattura quando si disse di avere abbandonato il domicilio, ordinò subito al vostro superiore di non molestarmi, e se qualche guardia vi molesta, egli mi disse ditegli che avete parlato con me, e ciò basta per non essere molestato. Se poi tenete difficoltà, io rimango con voi sino che vi giungerà l'ordine del vostro superiore. Il sergente allora un poco titubante rispose so che lei è un gentiluomo non capace di mentire vada pure in sua casa, che spero di avvertirla subito quando ho ricevuto l'ordine del mio superiore. Dopo due giorni è venuta da me la guardia Nicolò Bisulca ad avvisarmi, che il sergente mi rispettava, e che gli era giunto l'ordine da Termini di non molestarmi; aggiungendo che lui finge non conoscermi quando stavo sulla carrozza credendo farmi un favore, mentre io conoscevo diversamente. Se non caddi arrestato lo debbo alla guardia Gaetano Cucchiara nativo da Lercara dei Friddi. Egli mi raccontò che una sera trovandosi in Mezzojuso col suo superiore Bonadonna, questi la condusse seco in casa dei parroco greco di quel tempo parente del Bonadonna, e parlando della mia scomparsa, il parroco disse, suppongo di. essere in Palermo, e nascosto nella villa greca sotto monte Pellegrino, il Cucchiara rispose: la sua è una supposizione non è certezza, niente certezza replicò il parroco, allora io stavo là. Dopo ritornato da Palermo sono stato chiamato dal giudice Ciprì l'autore del mio allontanamento, obbligandomi di prestare la cauzione stabilitami dal Consiglio di Guerra perlaquale si offerse generosamente don Giuseppe Lampiasi ancora di buona salute. E cosi è terminalo il mio esatto racconto di quel sciagurato movimento dì Mezzojuso del 1856. Colla morte di due patriotti, ed altri 24 condanne di morte. Il solo Luigi Laporta rimase nascosto. Dopo pochi mesi di riposo il 5 Aprile 1860 ho ripreso le armi per vendicare i moschettati, e liberare i compagni racchiusi nel bagno di Favignana, e distruggere l'abborrita dinasta borbonica lordata da tanto sangue, e torture. Roma 10 giugno 1S99 Franco Spiridione Capitano dell'armata Siciliana 1848, 1860 Garibaldino.

N. B. Fra breve uscirà una 2 edizione riveduta e corretta, con altre interessanti pagine aggiunte, sui moti di Cefalù.

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