LE LETTURE DEL MOMENTO Elenco degli inviti alla lettura

SAGGI • THRILLER • NARRATIVA

1. Il sentiero dei profumi, Cristina Caboni «Un romanzo italiano già venduto in Europa. Un fenomeno come Il linguaggio segreto dei fiori.» L’Espresso

2. L’assassinio di Pitagora, Marcos Chicot «Un thriller storico che fa sognare tutti gli aspiranti scrittori.» Vanity Fair

3. La misura della felicità, Gabrielle Zevin «Un concentrato di ottimismo e una lettera d’amore per i libri e i lettori.» The Washington Post

4. La prima cosa che guardo, Grégoire Delacourt «Dall’autore di Le cose che non ho, il più grande successo in Francia dopo L’eleganza del riccio.»

5. La sposa silenziosa, A.S.A. Harrison «Lo stupore è continuo, come la suspense, pagina dopo pagina. Harrison scrive con un tocco luminoso, ma nondimeno devastante.» The Guardian

6. Libro, Gian Arturo Ferrari «Una riflessione perfetta, dal manoscritto al digitale, sulla forma di diffusione della cultura più potente.» Il Giornale 7. Non son degno di tre, Jon Rance «Una Bridget Jones al maschile in una brillante commedia romantica capace di commuovere e far sorridere.»

8. Outcast, Alina Bronsky «Splendido» Kerstin Gier, autrice di Red, Blue e Green

9. Questa volta tocca a te, M.J. Arlidge «Un esordio internazionale sconvolgente» The Bookseller

10. Un disastro è per sempre, Jamie McGuire «Un successo del passaparola, venduto in 25 paesi e ovunque in cima alle classifiche.» TTL- La Stampa

11. Un’idea di destino, Tiziano Terzani «Passioni e delusioni senza filtri testimoniati nel diario di una vita e di un amore.» Il Corriere della Sera

12. Un incantevole imprevisto, Marianne Kavanagh «Conteso dagli editori di tutto il mondo. Un vero fenomeno internazionale. Uno dei romanzi più attesi dell’anno.» The Bookseller

13. Vita dopo vita, Kate Atkinson «Sono vite da romanzo: tinte forti, toni accesi. Kate Atkinson attraversa i generi letterari e prova il brivido del romanzo storico e d’amore.» Il Corriere della Sera

CRISTINA CABONI

IL SENTIERO DEI PROFUMI

UN ESTRATTO DEL LIBRO SCELTO DALLA REDAZIONE Prima edizione: maggio 2014

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

ISBN 978-88-11-68291-2

© 2014, Garzanti Libri S.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Printed in Italy

www.garzantilibri.it IL PROFUMO È IL SENTIERO

«Chiudi gli occhi, piccola.» «Così, nonna?» «Sì, Elena. Così. E ora fai come ti ho insegnato.» Con le mani poggiate sul tavolo, in penombra al centro della camera, la bambina tiene gli occhi serrati. Le dita sot- tili scivolano lungo la superficie e si aggrappano al bordo smussato davanti a lei. Ma non sono le essenze conservate nei flaconi che ricoprono la parete ciò che percepisce con più forza. È l’impazienza di sua nonna. È l’odore della propria paura. «Allora?» «Ci sto provando.» La vecchia serra le labbra. L’odore della sua rabbia è acre, ricorda l’ultimo fumo che sprigiona la legna quando è qua- si cenere. Tra un minuto la colpirà e poi andrà via. Elena lo sa, deve resistere ancora un po’, solo un po’. «Impegnati, devi concentrarti. E chiudi gli occhi, ho detto!» Lo schiaffo le sposta appena i capelli. Finto, come tutto il resto. Come le bugie che le racconta sua nonna, e come quelle che Elena a sua volta le dice. «Allora, dimmi cos’è!» Si è stancata di aspettare e ora le agita sotto il naso una fia- la colma di essenze. Ma non è una semplice risposta ciò che desidera da lei. Vuole ben altro. Qualcosa che Elena non ha nessuna intenzione di darle. «Rosmarino, timo, verbena.» Un altro colpo.

11 Le lacrime le bruciano in gola. Ma non cede e, per farsi coraggio, comincia a canticchiare un motivetto. «No, no. Non restare fuori. Entra, cercalo... Fa parte di te, devi sentire ciò che ti suggerisce, devi comprenderlo, devi amarlo. Prova ancora, e questa volta concentrati!» Ma Elena non ama più i profumi. Non vuole vedere i pra- ti lungo il corso del fiume dove sua madre la portava da pic- cola, appena fuori del paese. Non vuole udire il rumore del- l’erba tenera che cresce, né quello dell’acqua che scorre. Non vuole sentire gli occhi delle ranocchie che la fissano da sotto il canneto. Stringe nuovamente le palpebre e serra i denti, decisa a tenere fuori tutto. Ma in quel nero appena punteggiato di chiaro esplode una scintilla. «Il rosmarino è bianco.» La nonna spalanca gli occhi. «Sì», mormora mentre la spe- ranza accende il suo sguardo. «Perché? Raccontami di lui.» Elena apre la bocca, lasciando che le emozioni le scivoli- no dentro, riempiendo la mente e l’anima. Socchiude gli occhi, spaventata. «No! Non voglio! Non voglio!» La nonna impietrita la guarda correre via. Scura in volto, scuote la testa e si abbandona su uno sgabello. Dopo un lun- go sospiro si rialza e apre le imposte. La luce stanca della sera penetra all’interno del laborato- rio che appartiene alle Rossini da più di tre secoli. Lucia raggiunge la credenza in legno massiccio che occu- pa l’intera parete, accarezza i volumi ordinati davanti a lei, poi con calma ne sceglie uno. Lo stringe al petto per un istan- te e, dopo essersi seduta al tavolo di legno lucido, lo apre, sfo- gliandolo con cura. Le dita scorrono sulle pagine ingiallite dal tempo come hanno fatto innumerevoli altre volte. Anche in quel momento sembra che Lucia cerchi qualco- sa. Ma non c’è nulla in quella grafia ordinata che possa aiu- tarla a spiegare alla nipotina che il profumo non è qualcosa che si sceglie. Il profumo è il sentiero. Percorrerlo significa trovare la propria anima.

12 L’ODORE DELL’ODIO

Il primo ricordo di Elena era il sole accecante della Costa Azzurra, il secondo una distesa infinita di lavanda. Verde e blu e rosa e lilla, e poi bianco e ancora e ancora... e poi c’e- ra l’oscurità della bottega, quella dove sua madre lavorava china sui tavoli ricoperti da boccette di vetro e alluminio. Era in Provenza che sua madre lavorava per buona parte dell’anno. Là avevano una casa. E là Susanna aveva ritrova- to un uomo, il suo primo amore. Maurice Vidal. Era stato tra i campi fioriti che Elena aveva appreso i pri- mi rudimenti della profumeria: quali erbe raccogliere, qua- li destinare alla distillazione. Ogni passo era impresso nella sua mente di bambina co- me un’immagine nitida. Nella sua esistenza solitaria il pro- fumo era diventato il linguaggio attraverso il quale poteva comunicare con la sua silenziosa madre, che la portava sem- pre con sé, ma le parlava di rado. Maurice era alto e forte. Era il padrone del laboratorio e dei campi, e adorava Susanna Rossini. L’amava almeno quanto odiava la sua bambina. Elena sapeva perché lui non la guardava mai. Era la figlia di un altro. Ignorava cosa significasse di preciso, ma era di certo una cosa brutta. Aveva fatto piangere la sua mamma. Un giorno era rientrata a casa per fare merenda e aveva sentito sua madre discutere con Maurice. Capitava spesso, non ci aveva badato all’inizio. «È uguale a suo padre, vero? Confessalo... non ti somiglia

34 per niente. Non riesco nemmeno a guardarla. Come puoi chiedermi di tenerla con me? Con noi?» Elena si era fermata, allora. Lo stomaco improvvisamente stretto in una morsa. Era stato il tono della voce dell’uomo a trattenerla. Maurice aveva parlato a voce bassa, come si fa con i segreti. Ma lei lo aveva sentito bene. Era tornata indietro. La porta della camera da letto era aperta. Maurice era seduto su una sedia, la testa china, le mani tra i capelli. «Ho commesso un errore, ma non posso farci nulla. E d’altronde quando sono tornata con lei, hai detto che non ti importava del passato e che volevi ricominciare insieme. Cerca di capirlo. Lei è anche mia figlia.» Sì, lei era sua figlia. Susanna aveva pronunciato quella pa- rola in modo strano. E perché stava piangendo? Non le pia- cevano quelle parole, aveva pensato Elena. Le facevano piz- zicare la gola e gli occhi. Maurice si era coperto il viso con le mani, poi si era alza- to di scatto. «Tua figlia! Tua e di chi? Chi è suo padre?» «Nessuno, te l’ho detto mille volte. Non sa neppure del- l’esistenza della bambina.» Lui aveva scosso la testa. «Non riesco a sopportarlo, Susan- na. So di avertelo promesso, lo so, ma non ci riesco.» In quel momento si era accorto di lei. «Che ci fai qui?» le aveva urlato contro. Elena, ammutolita, era indietreggiata, poi era corsa via. Aveva pianto solo un po’, poi si era asciugata bene il viso, e aveva capito che Maurice si era sbagliato. Lei non aveva mai avuto un papà. Forse doveva dirglielo, così le cose sarebbe- ro andate bene. Ma per quanto nei giorni seguenti ci avesse provato, lo sguardo severo dell’uomo le metteva paura. Le parole si era- no rifiutate di uscire, rimanendo chiuse nella bocca, impi- gliate alla lingua. Allora aveva pensato a un disegno. Le era servito tutto il foglio perché Maurice era molto al- to, ma era riuscita a farcelo entrare. Eccoli loro tre insieme: Susanna la teneva per mano e lì accanto c’era lui, non un al- tro papà.

35 Un giorno che Maurice era davvero molto arrabbiato, Ele- na aveva deciso di regalargli il disegno per farlo felice. Ave- va ignorato quell’espressione cupa che la intimidiva, si era fatta coraggio e gli aveva consegnato il foglio. Lui lo aveva preso senza dire nulla, poi dopo uno sguardo rapido aveva riportato l’attenzione su di lei, il volto contratto dalla rabbia. Elena istintivamente era indietreggiata, i palmi sudati, le dita chiuse sulla stoffa del vestito. Maurice si era voltato verso Susanna che stava preparan- do la cena, brandendo il foglio. «Pensi che questo risolverà le cose tra noi?» aveva chiesto con un tono di voce basso, quasi un sussurro. «La famiglio- la felice... Tu, io e la figlia di... di quello? Adesso ti metti a usare la bambina per convincermi?» Susanna aveva fissato il disegno, poi era sbiancata. «È solo un disegno, smettila», gli aveva risposto con un filo di voce. «Sai perfettamente come la penso!» aveva gridato lui ac- cartocciando il foglio e tenendolo stretto nel grosso pugno. «Perché diavolo non vuoi capire?» aveva gridato prima di lanciarlo in un angolo. Il singhiozzo di Elena aveva spezzato il silenzio teso che era sceso su di loro. Come rendendosi conto solo in quel momento di ciò che aveva fatto, Maurice aveva fissato la piccola, poi lentamen- te aveva raccolto il foglio dal pavimento, lisciandolo con le dita. «Tieni», le aveva detto porgendoglielo. Ma lei aveva scosso la testa. Maurice lo aveva poggiato sul tavolo, si era stretto nelle spalle ed era scoppiato improvvi- samente a ridere. Se si impegnava, se si concentrava, Elena riusciva a ricor- dare ancora, a distanza di tanti anni, quel suono aspro e for- zato. La mattina seguente Susanna aveva fatto i bagagli ed era- no partite. Erano state lontane per tutta la primavera. Ma poi erano tornate. Tornavano sempre, e Maurice era lì. E lì Elena per la pri- ma volta aveva sentito l’odore dell’odio. Freddo, come quel-

36 lo di una notte senza stelle dopo che è piovuto e il vento con- tinua a ululare. L’odore dell’odio fa paura. Qualche mese dopo Elena aveva compiuto otto anni. In autunno erano partite ancora una volta, e lei era rimasta a Firenze con sua nonna.

37 18 ANNI DOPO UN INCONTRO SPECIALE

Il Marais era uno dei pochi quartieri ad aver conservato il carattere della Parigi seicentesca. Elena si aggirava tra i vicoli stretti, in cerca dell’apparta- mento in cui avrebbe cominciato la sua nuova vita. Si fermò accanto all’insegna di una boulangerie, guardan- do per l’ennesima volta il pezzo di carta sul quale aveva se- gnato l’indirizzo. Rue du Parc-Royal, al numero dodici. «Eccoti, finalmente», esclamò poco dopo davanti a un ar- co in pietra. Si tirò dietro il trolley ed entrò nel cortile. La sua amica Monique le aveva mandato un SMS. Era pas- sata nel pomeriggio, le aveva portato un po’ di spesa e ave- va lasciato la porta socchiusa. In teoria lei avrebbe dovuto giusto spingere con un po’ di energia. Con entrambe le mani sul portone, Elena fece come le aveva indicato l’amica. Ma non accadde nulla. Spinse allora, con tutte le sue forze. Il portone si spalancò di colpo, catapultandola in avanti. Cercò di recuperare l’equi- librio, le mani in avanti, il respiro affannato. Lanciò un grido quando l’oscurità sembrò inghiottirla, mentre la sua corsa ter- minava contro un ostacolo e le ginocchia le cedevano. «Che diavolo...?» Un braccio robusto l’afferrò alla vita, frenando la sua ca- duta. «Tutto bene?» A Elena servì qualche secondo per rendersi conto di ciò che era successo. Per fortuna quell’uomo l’aveva afferrata

80 prima che finisse sul pavimento. Le ci mancava solo quello, pensò un po’ stordita. «Sì, grazie», mormorò. Lui non rispose. Elena si agitò, nervosa. «Può lasciarmi ora», gli disse un po’ imbarazzata, mentre lui continuava a tenerla stretta. All’improvviso l’uomo la lasciò andare, facendosi poi da parte. «Non volevo spaventarla», fece brusco. Elena si afferrò alla voce dello sconosciuto, alla nota do- lente in fondo a quella frase. Le emozioni che l’avevano op- pressa un attimo prima si erano dissolte. Erano state sostitui- te da altre, infinitamente più interessanti. C’era del dolore nelle parole di quell’uomo. Una soffe- renza antica, ingiusta. Elena si domandò perché e provò un’inspiegabile frustrazione nel pensare di non poter avere una risposta. Voleva conoscerlo, voleva sapere. Non era qual- cosa di ben definito, si trattava più che altro di istinto. «Non riesco a vederla», gli rispose trovando la sua mano e afferrandosi a lui, tenendolo forte quasi volesse consolar- lo per quell’assurdità. Non l’aveva spaventata, perché poi? Con le dita avvinghiate alle sue, si girò per vedere il suo vi- so. La luce dei lampioni che penetrava dal portone delinea- va la figura massiccia dell’uomo, lasciandolo tuttavia in om- bra. Elena non riusciva a distinguere altro che una sagoma robusta. Era molto alto, la voce un po’ aspra, ma allo stesso tempo cortese, profonda. «Non ho paura di lei», disse. E gli sorrise. Lui non rispose, limitandosi a tenere le dita di lei che non volevano lasciarlo andare. Elena sapeva che era irragionevo- le, era persino assurdo. Ma in quell’ultimo periodo aveva smesso di agire in modo ragionevole. «Ha un buon profumo.» Fu un impulso quella confessio- ne, le parole semplicemente le sfuggirono dalle labbra. Subito dopo arrossì. Cielo, sembrava volesse rimorchiarlo! «Scusi, crederà che io matta. Ma ho avuto una giorna- ta orribile e la prima cosa positiva che mi è accaduta è stato il suo... salvataggio. Se lei non mi avesse afferrato sarei fini- ta distesa sul pavimento, una fine degna di questa giornata

81 tremenda. Ero semplicemente sconcertata perché il porto- ne si è aperto all’improvviso...» «Di cosa?» Elena ammutolì. «Di cosa... che?» «Ha detto che ho un buon profumo. Di cosa?» «Ah, sì», rise, un suono leggero, vellutato. «È un po’ una deformazione professionale.» Ma lui non rideva, continuava a fissarla intensamente. Ele- na sentiva quello sguardo su di sé, percepiva l’importanza di quella risposta e delle parole che quell’uomo, chiunque fos- se, aspettava. Si concentrò, allora, e lasciò che il profumo di lui le parlasse, raccontandole cose che lei sola avrebbe sapu- to cogliere. «Sa di pioggia, di freddo, ma anche di sole. Di parole pen- sate, di lunghi silenzi e di riflessione. Sa di terra e di rose... Lei ha un cane ed è una persona gentile, che si ferma ad aiu- tare e che si addolora per ciò che ha dentro il cuore.» Un altro lungo silenzio. Poi l’uomo ritirò le mani, quasi di scatto. «Devo andare ora. Lasci il portone aperto, la luce dell’an- drone non funziona. Faccia attenzione.» La lasciò, indietreggiando un passo alla volta, senza disto- gliere lo sguardo da lei. Solo una volta raggiunta la porta si voltò e uscì. Elena represse il desiderio improvviso di richiamarlo in- dietro. Sollevò il viso e cercò ancora quel profumo. Era una promessa mantenuta, era la dolcezza della fiducia, il peso e la responsabilità insieme. Era azione e bisogno. Cercò anco- ra nella notte, fiutando l’aria, provando a rintracciare quel filo che andava scomparendo. Ma per quanto desiderasse af- ferrarlo, era svanito, lasciandole dentro quasi un senso di struggimento.

82 UN NUOVO INIZIO

Arrivarono molte persone quella mattina. I dipendenti della profumeria erano tutti impegnati. Dopo aver memoriz- zato una buona parte dei profumi creati da Jacques, Elena raggiunse i banchi di vendita, ma si tenne un po’ in dispar- te. Claudine aveva cominciato a servire un uomo di una cer- ta età che desiderava un profumo speciale. Era palesemen- te irritato, le dita nodose chiuse intorno al manico del lus- suoso bastone da passeggio. «No, questo non mi piace. Sa di vecchio, mi ricorda la naf- talina, buon Dio!» esclamò indignato. «Mi avevano assicurato che sareste riusciti ad accontentar- mi. Un’evidente esagerazione. Perché dovrei sprecare il mio tempo con voi?» Le delicate narici della donna si dilatarono, stava perden- do terreno rapidamente. «Un momento, prego», rispose. Elena aveva assistito alla scena in disparte. L’uomo era ve- stito in modo originale, ma elegante. Era nervoso, ogni tan- to si infilava un dito nel fazzoletto da collo, tentando di al- lentare la tensione. Si guardava intorno, fissava la sua atten- zione sui profumi, e in quello sguardo era concentrato il suo bisogno di nuovo: una seconda giovinezza, qualcosa capace di coprire la vecchiaia, di dargli fiducia. Gli uomini faceva- no questo genere di scelte, cercavano di rinnovarsi speran- do in piccoli miracoli... come un nuovo amore. Elena non sapeva da dove le fosse venuta quell’idea, ma se era così, se ciò che desiderava quell’anziano signore era cambiare, pre- sentarsi con un aspetto olfattivo attraente, sapeva già cosa avrebbe fatto al caso suo.

128 «Posso chiederle quale profumo usava in passato?» gli do- mandò Elena avvicinandosi. Addolcì la voce e, visto che il signore era assorto nei suoi pensieri, gli ripeté la domanda. L’uomo sollevò la testa di scatto, come se solo in quel momento si fosse accorto della sua presenza. Lei gli porse la mano, un po’ imbarazzata. «Mi chiamo Elena Rossini.» «Jean-Baptiste Lagose», le rispose lui. Ma invece di strin- gerle la mano, la prese tra le sue e si chinò in un baciamano come un gentiluomo d’altri tempi. Cuoio, labdano e bergamotto, pensò Elena quando lui si accostò, quasi sfiorandola. Un aroma forte e sofisticato allo stesso tempo, con un sentore di fondo profondamente mu- schiato. Quasi riusciva a vederlo, Jean-Baptiste, mentre os- servava la giostra della vita che ormai lo aveva lasciato a ter- ra. Ne percepiva lo sgomento, il disprezzo istintivo e, celato sotto strati di struggimento, l’acuto desiderio di tornare a farvi parte. «Lei è una commessa?» le chiese. Elena annuì. «Oggi è il mio primo giorno. Lei indossa un chypre, è molto bello, ma se ho ben capito vorrebbe qualco- sa di nuovo.» Improvvisamente Jean-Baptiste mise da parte tutta la sua bellicosità. «Sì, esatto. Volevo un profumo di carattere, qual- cosa di deciso, ma anche originale. Ma quella... ehm... non riesce a capire, non mi ascolta.» Elena pensò a un altro chypre. Certo, si trattava di un pro- fumo classico a base di muschio di quercia, ma poteva dargli un aspetto più frizzante, magari con del limone e del vetiver per renderlo più rotondo e fresco. Quell’uomo lo avrebbe portato benissimo. Sembrava avere gusti decisi e poco con- venzionali. Aveva un’idea ben precisa che intendeva seguire. Il profumo che voleva era una strategia di conquista e per lui era così importante da convincerlo a occuparsene personal- mente. «Perché non sente nuovamente queste fragranze? Potre- mo variarle secondo il suo gusto», gli propose Elena. Aveva

129 bisogno di guadagnare tempo, doveva parlare con Claudine. Era sicura che in negozio avessero un chypre di nuova gene- razione. «Torno subito», gli disse Elena con un sorriso sollevato. «Con comodo, mia cara», rispose lui. Dopo aver raggiunto Claudine le spiegò cosa aveva in mente. «Avete qualcosa che abbia del neroli, pompelmo ro- sa o anche del limone come note di testa, gelsomino, garde- nia, magnolia o un altro mélange fiorito come cuore, ambra, sandalo e muschio? Il vetiver ad esempio sarebbe perfetto...» Claudine ci pensò su. «Sì, è un chypre. Ne abbiamo uno che potrebbe fare al caso suo. Mi pare ci sia anche del cuoio.» Elena non sperava tanto. Il cuoio era un profumo ance- strale, maschile, potente. «Sarebbe il massimo.» Claudine controllò in archivio, trovò ciò che cercava e tornò dall’uomo. Elena la seguiva a poca distanza. Jean-Baptiste si avvicinò alla mouillette. «È per un’occasione importante?» gli chiese allora Elena. L’uomo afferrò la strisciolina di carta con la punta delle dita e la portò al naso. «Sì, molto importante», sussurrò. «Lo aspiri con calma e pensi a ciò che vorrebbe, a quello che le piacerebbe accadesse. Senta se le emozioni sono giu- ste, o se manca qualcosa.» Lui fece come gli era stato consigliato. In silenzio, quasi con riverenza. Poi dopo un po’ cominciò a parlare. «Ci siamo lasciati male, e per nulla. Eravamo giovani, or- gogliosi. Ora... le cose sono cambiate. Io non mi sono mai sposato, lei invece è vedova.» L’uomo continuò a muovere dolcemente la carta imbevuta del chypre. Elena restò in silenzio, affascinata da quella storia. «Non è stata l’unica donna che ho amato, questo no. Ma lei è stata quella per cui ho sofferto di più. Ed è rimasta sem- pre nei miei ricordi, con una costanza sorprendente.» Fece una pausa e agitò la strisciolina di carta. «Testarda in un mo- do davvero fastidioso», protestò accigliandosi ancora. «Ma quando sorrideva... quando sorride, i suoi occhi si illumina- no d’un tratto, il suo sguardo ti arriva dritto all’anima. È bel-

130 la, lo è nonostante tutti gli anni che sono trascorsi. È bellis- sima per me.» Annusò nuovamente il profumo. «Mi ricorda un giardino, non solo di fiori, ma anche di piante. Ho come l’impressione di sentire l’acqua scorrere, limone... o forse si tratta di arance. Una volta siamo stati insieme in un agrume- to. È stata una bella giornata, abbiamo riso tanto, eravamo molto felici in quei giorni. Poi siamo tornati in città.» Era ritornato ai suoi ricordi. Ed era stato grazie a quel pro- fumo. Elena non riusciva a distogliere lo sguardo, gli occhi lucidi dalla commozione. «Lei è mai stata innamorata, mademoiselle?» «No, io... credo di no», sussurrò dopo un lungo istante. Lui le rivolse uno sguardo strano. «Non si preoccupi, lei è carina, gentile. Troverà presto l’uomo giusto. È triste stare da soli, mademoiselle», disse, «l’orgoglio è caldo all’apparen- za, ma poi diventa un gelido compagno. Cerchi di seguire il cuore.» Improvvisamente Elena sentì il bisogno di dire a qualcu- no che il suo cuore provava curiosità per un uomo davvero singolare, che aveva incontrato solo due volte al buio. Non sapeva nemmeno che aspetto avesse davvero. Però il suo odore... quello lo conosceva bene. Sentì un fremito alla ba- se dello stomaco, ma scacciò il pensiero e si concentrò su Jean-Baptiste. «Questo profumo mi piace molto», continuò l’uomo. «Mi ricorda il passato, ma possiede qualcosa di nuovo. Una spe- ranza, ecco. Ed è proprio ciò che volevo. Una speranza. La vita non ha senso senza la speranza, lo sa, mademoiselle?» Sì, che lo sapeva. Era per quello che si era spostata a Pari- gi, quasi senza pensarci. E lo aveva fatto nonostante fosse consapevole che non sarebbe stato facile. E allora perché quel nodo improvvisamente le stringeva la gola? E quelle stupide lacrime avevano preso a bruciarle gli occhi? Le scac- ciò quasi con rabbia e si costrinse a sorridere.

Continua in libreria e in eBook...

131 Elena non si fida di nessuno. Ha perso ogni certezza e non crede più nell’a- more. Solo quando crea i suoi profumi riesce ad allontanare tutte le insicurezze. Solo avvolta dalle essenze dei fiori, dei legni e delle spezie sa come sconfig- gere le sue paure. I profumi sono il suo sentiero verso il cuore delle persone. Parlano dei pensieri più profondi, delle speranze più nascoste: l’iris regala fi- ducia, la mimosa dona la felicità, la vaniglia protegge, la ginestra aiuta a non darsi per vinti mai. Ed Elena da sempre ha imparato a essere forte. Dal giorno in cui la madre se n’è andata via, abbandonandola quando era solo una ragaz- zina in cerca di affetto e carezze. Da allora ha potuto contare solo su sé stes- sa. Da allora ha chiuso le porte delle sue emozioni. Adesso che ha ventisei anni il destino continua a metterla alla prova, ma il suo dono speciale le indica la strada da seguire. Una strada che la porta a Pa- rigi, la capitale del profumo, dove le fragranze si preparano ancora secondo un’arte antica. Le sue creazioni in poco tempo conquistano tutti. Elena ha un modo unico di capire ed esaudire i desideri: è in grado di realizzare il profumo giusto per riconquistare un amore perduto, per superare la timidezza, per ritro- vare la serenità. Ma non è ancora riuscita a creare l’essenza per fare pace con il suo passato, per avere il coraggio di perdonare. C’è un’unica persona che ha la chiave per en- trare nelle pieghe della sua anima e guarire le sue ferite: Cail. Cail che conosce la fragilità di un fiore e sa come proteggerlo e amarlo. Perché anche il seme più acerbo, quando il sole arriva a riscaldarlo, trova la forza di sbocciare. Il sentiero dei profumi è un debutto italiano che è già un fenomeno editoria- le internazionale. Conteso in patria dagli editori, è stato venduto in tutta Euro- pa. Cristina Caboni è un’autrice che conquista ed emoziona, che commuove e stupisce. E lo fa con una storia indimenticabile sulle insicurezze dell’animo umano e sul coraggio per affrontarle. Sulle cicatrici del passato che solo l’a- more più profondo può rimarginare.

Cristina Caboni vive con il marito e i tre figli in provincia di Cagliari, dove si occupa dell’azienda apistica di famiglia. Appassionata coltivatrice di rose, stu- dia da tempo il mondo delle essenze e delle fragranze naturali. Il sentiero dei profumi è il suo primo romanzo. www.ilsentierodeiprofumi.com

Cristina Caboni – autrice

MARCOS CHICOT L’assassinio di Pitagora

Traduzione di Andrea Carlo Cappi

Romanzo

Salani Editore Titolo dell’originale EL ASESINATO DE PITA´ GORAS

ISBN 978-88-6715-737-2

Per essere informato sulle novita` del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

Copyright q 2013 Marcos Chicot Copyright q 2013 Antonio Vallardi Editore s.u.r.l., Milano Copyright q 2014 Adriano Salani Editore s.u.r.l.

Gruppo editoriale Mauri Spagnol Milano

www.salani.it Prologo 25 marzo 510 a.C.

Tra costoro c’e`il mio successore. Pitagora era seduto a terra con le gambe incrociate, il capo chi- no e gli occhi chiusi, in uno stato di concentrazione profonda. Davanti a lui erano in attesa sei uomini. Aveva oltrepassato limiti inimmaginabili, era arrivato a domi- nare lo spirito umano e le leggi del cosmo. Ora il suo obiettivo principale era un altro: far sı` che la confraternita che aveva fon- dato continuasse a sviluppare le proprie capacita`anche quando lui non fosse stato piu` alla sua guida. Inspiro` a fondo l’aria del tempio. Era fresca, con un lieve profumo di mirto, ginepro e rosmarino, le erbe purificatrici bruciate all’apertura di quella riunione straordinaria. Senza preavviso alcuno, la fermezza del suo animo vacillo`. Il cuore perse un paio di battiti. Fu solo grazie a uno sforzo titanico che riuscı` a evitare qualsiasi alterazione del viso e nessuno se ne accorse. Di fronte a lui, i discepoli di piu` lunga data restava- no pazienti in attesa che emergesse dalla meditazione e rivolges- se loro la parola. Non si devono accorgere di nulla, si disse Pitagora, allarmato. Aveva diviso con loro la maggior parte delle sue premonizio- ni, ma non questa. Il presagio era troppo tenebroso. Erano set- timane che lo perseguitava, senza tuttavia che gli si rivelasse al- cun dettaglio. Espiro`lentamente. La forza oscura del presentimento si era

5 moltiplicata, una volta entrato nel tempio. Eppure non c’era niente che facesse pensare a un pericolo immediato. I sei uomini, disposti a semicerchio davanti a lui, vestiti con semplici tuniche di lino, appartenevano al grado piu` alto del- l’ordine, quello di grande maestro. Nel corso del tempo, Pitago- ra aveva maturato nei loro confronti un affetto solido e un or- goglio profondo. Le loro menti erano tra le piu` capaci ed evo- lute dell’epoca e ognuno avrebbe apportato i propri contributi al sistema. Tuttavia, solo colui che fosse stato nominato suo suc- cessore avrebbe ricevuto gli ultimi insegnamenti, salendo cosı` un altro gradino sulla scala tra l’uomo e la divinita`. Ma, oltre a quello spirituale, il suo erede avrebbe acquisito un potere terreno unico nella storia. Sarebbe stato a capo delle ristrette cerchie pitagoriche che, sulla base dei princı`pi etici che il fondatore dell’ordine aveva stabilito, governavano un territo- rio sempre piu` vasto. La confraternita si era estesa ormai ben oltre la Magna Grecia: governava citta`della Grecia continentale e qualche villaggio etrusco, e si stava persino introducendo nella fiorente Roma. Poi sarebbero venute Cartagine, la Persia... Benche´non si debba dimenticare che il potere terreno e`solo uno strumento. Pitagora alzo`piano la testa e sollevo`le palpebre. I discepoli sobbalzarono. Negli occhi dorati del maestro ardeva un fuoco piu` intenso del solito. I capelli, bianchi come la neve, ricadeva- no fluenti sulle spalle e sembravano risplendere, al pari della barba folta. Aveva superato i settant’anni, eppure manteneva pressoche´ intatto il vigore della gioventu` . « Osservate la tetraktys, chiave dell’universo ». La voce di Pi- tagora, soave e profonda, risuono`nello spazio solenne del tem- pio circolare. Nella mano destra teneva una bacchetta di frassi- no, con la quale indico`il pavimento di marmo in mezzo a loro, su cui aveva dispiegato una piccola pergamena. In essa era visi- bile un disegno semplice, una figura triangolare formata da quattro file di punti: quattro alla base, sopra altri tre, poi ancora

6 due, fino alla cuspide di un unico punto. I dieci punti disposti a triangolo erano uno dei simboli fondamentali dell’ordine.

Pitagora continuo`a parlare con la sua maestosa autorita`. « Nei prossimi giorni dedicheremo l’ultima ora ad analizzare il nume- ro che li contiene tutti: il dieci ». Traccio`un cerchio intorno alla tetraktys con la bacchetta. « Il dieci contiene anche la somma delle dimensioni geometriche ». Sfioro`con la bacchetta i diversi livelli segnati sulla pergamena. « Uno, il punto; due, la linea; tre, il piano; e quattro, lo spazio ». Si protese in avanti e aguzzo`la vista. Quando riprese la parola, la sua voce si era fatta piu` grave. « Il dieci, come sapete, simboleggia anche la piena chiusura di un ciclo ». Aveva pronunciato l’ultima frase guardando Cleomenide, il discepolo seduto alla sua destra. Questi deglutı`, provando un moto di orgoglio. Era chiaro che Pitagora stava parlando del proprio ritiro e di chi sarebbe stato il suo successore. Cleome- nide, che aveva cinquantasei anni, sapeva di essere uno dei can- didati principali. Matematico di vaglia, anche se forse non il piu` brillante, spiccava soprattutto per la sua ferrea dedizione alle re- gole morali dell’ordine. Oltre che per il suo peso politico, dal momento che proveniva da una delle maggiori famiglie aristo- cratiche di Crotone e gestiva con abile diplomazia le questioni di governo. Il volto di Pitagora si addolcı`, seppur senza arrivare a un sor- riso. Cleomenide era il primo candidato, ma non era opportuno

7 precipitarsi a una decisione finale. Innanzitutto occorreva ana- lizzare il comportamento di ciascuno dei grandi maestri, una volta saputo che lui stava pensando di scegliere il proprio suc- cessore. Il processo avrebbe potuto durare mesi. Ma in quel momento Pitagora doveva studiare la loro prima reazione, quel- la piu` rivelatrice. Sposto`lo sguardo su Evandro, che gli rispose con un’espres- sione sincera e soddisfatta. Era uno dei membri piu` giovani del- la cerchia dei piu` intimi: aveva solo quarantacinque anni. Il pa- dre era un commerciante di Taranto che si recava a Crotone con regolarita`. Evandro, il secondo dei suoi figli, era solito ac- compagnarlo per imparare il mestiere; ma un giorno di venti- cinque anni prima aveva assistito a un discorso di Pitagora e aveva deciso senza indugio di entrare a far parte dell’ordine. Il padre si era presentato al maestro per protestare con vigore; ma nel volgere di mezz’ora aveva lasciato la comunita` felice di lasciarvi suo figlio, per poi diventare a sua volta un iniziato e un assiduo frequentatore della confraternita, sino alla fine dei suoi giorni. Da allora Evandro aveva mantenuto intatto il proprio fervore, cosı` come qualche bagliore dell’impulsivita` che gli era naturale, per quanto temperata dalla sapienza raggiunta. Ma gli occorre ancora qualche anno di pratica per raggiungere un dominio completo di se stesso. Come dieci erano i punti della tetraktys, cosı` dieci statue di marmo contemplavano il maestro e i suoi discepoli. Alle spalle di Pitagora, la dea Estia teneva ai propri piedi il fuoco sacro che non si spegneva mai. Formava un cerchio perfetto con le altre statue, che rappresentavano le nove muse cui era dedicato il tempio. Di fronte a Pitagora, seduto ai piedi della musa Calliope, Ipocreonte guardava il maestro con sobria deferenza. I suoi ses- santadue anni ne facevano l’allievo di grado massimo e di eta` superiore. Nativo di Crotone, si era allontanato fin da giovane dalle occupazioni della famiglia – la politica e il commercio –

8 per dedicarsi alla filosofia. Aveva una vocazione da eremita e la- sciava di rado la comunita`, benche´ quelle rare volte facesse buon uso del suo particolare carisma per ottenere preziose con- versioni. I suoi rapporti con la famiglia erano di notevole inte- resse per l’ordine: i tre fratelli di Ipocreonte facevano parte del Consiglio dei Trecento, l’organo supremo del governo di Cro- tone, e lui stesso li aveva iniziati all’ordine. Di tanto in tanto si presentavano nella comunita`, della quale seguivano molti pre- cetti, oltre a essere nel novero dei consiglieri pitagorici. Se per natura Ipocreonte non provasse repulsione per la politi- ca come i gatti per l’acqua, potrebbe essere il candidato principale. In pochi anni, il loro movimento avrebbe potuto trasformarsi in un impero: il primo impero filosofico e morale della storia. Colui che ne fosse stato a capo avrebbe dovuto avere grande at- titudine alla politica. Pitagora dovette trattenersi prima di passare al candidato successivo. Chino`il capo sulla tetraktys e chiuse gli occhi. Provo` una sensazione strana alla schiena e sentı` i peli rizzarsi sulle braccia. Annullo` i propri pensieri per consentire al presagio di prendere forma. In un attimo, visualizzo` lo stesso manto di oscurita` delle volte precedenti. Di lı` a poco desistette, non es- sendo riuscito a distinguere nulla. Riprese il controllo di se´e al- zo`lo sguardo. Sotto le magnifiche statue di Polimnia e Melpomene, Oreste si mosse inquieto appena vide su di se´ gli occhi penetranti del maestro. Non riesci a perdonare a te stesso cio`che da tempo hai espiato, si dolse Pitagora, che dai caldei aveva appreso l’arte di interpre- tare l’interiorita`delle persone attraverso i loro gesti, la fisiono- mia, lo sguardo o la risata. In Oreste aveva percepito sin dall’i- nizio il rimorso e il pentimento. Da giovane politico, questi aveva rubato dell’oro, approfit- tando del suo incarico pubblico. Aveva pagato per le sue colpe e in seguito si era deciso a entrare nella comunita`. Pitagora lo

9 aveva esaminato con scetticismo, ma con stupore aveva com- preso immediatamente che Oreste non avrebbe mai piu` com- messo atti immorali. Ancora prima di sottoporsi al processo di purificazione insegnato dal maestro, aveva cancellato dal proprio animo qualsiasi propensione all’egoismo o all’inganno. Una volta completati i tre anni da uditore, asceso al grado di matematico, aveva dimostrato doti eccezionali per i concetti numerici. Chissa`che non sia tu a unire meglio di chiunque altro le capa- cita`matematiche a quelle morali. Tuttavia, se ti toccasse il potere, la macchia del tuo passato sarebbe una pericolosa arma politica contro di te. Il discepolo successivo era Daaruk, nativo di Kosala, uno dei sedici Mahajanapad, i Grandi Regni intorno ai fiumi Indo e Gange. Il colore della sua pelle, piu` scuro di quello dei greci, era l’unico dettaglio che rivelasse le sue origini lontane. Si era stabilito con il padre a Crotone quando aveva undici anni e par- lava greco senza accento. Ora aveva quarantatre´anni, due me- no di Evandro, il che faceva di lui il membro piu` giovane della cerchia. Fin dal principio si era fatto notare per le sue doti in- tellettuali. Nondimeno e`improbabile che nomini lui mio successore. Non era solo perche´ assegnare quel titolo a uno straniero avrebbe potuto creare attrito nell’ordine. Daaruk era dotato di una mente brillante e seguiva fedele le norme etiche, ma, for- se per la sua giovane eta`, piu` di una volta si era mostrato alquan- to vanitoso. E negli ultimi anni aveva sviluppato una tendenza alla pigrizia. L’ultimo del gruppo guardava il maestro con intensita`. Aristomaco aveva cinquant’anni ed era con lui da trenta. Era un matematico straordinario e la sua devozione all’ordine era fuor di dubbio. Non esiterebbe a dare la vita per la causa. Pitagora non aveva mai conosciuto nessuno con una simile

10 ansia di sapere, nessuno che avesse tanta necessita` dei suoi in- segnamenti. Aristomaco aveva assorbito ogni concetto della dottrina come se fosse l’ultima goccia d’acqua prima della sicci- ta`, cominciando ben presto ad apportarvi i propri notevoli con- tributi. Se fosse dotato di una personalita`forte, sarebbe il candidato perfetto. Purtroppo ne era sprovvisto. Aveva cinquant’anni, ma era insicuro e nervoso come un ragazzino di dieci. Cercava di non uscire mai dalla comunita`e ormai da tempo Pitagora stesso non gli chiedeva di tenere discorsi in pubblico. Il fondatore dell’ordine sospiro`e ripercorse il gruppo con lo sguardo in senso opposto, senza soffermarsi su nessuno dei grandi maestri: Aristomaco, Daaruk, Oreste, Ipocreonte, Evan- dro, Cleomenide. Poi chino` la testa. E` probabile che la scelta cada su Cleomenide. Ma prendero`la decisione solo tra qualche mese. Fece un vigoroso cenno di as- senso, pensando ai propri piani per il futuro. Il prescelto cambie- ra`il mondo. Raccolse da terra con entrambe le mani l’ampia coppa che teneva davanti. Conteneva un mosto chiaro, attraverso il quale poteva vedere la figura intagliata sul fondo: il pentacolo, la stella a cinque punte inscritta in un pentagono. Un altro dei simboli sacri dell’ordine, che celava grandi segreti della natura. In que- sto caso, com’era uso frequente fra i pitagorici, su ciascuna delle punte era stata aggiunta una lettera della parola « salute ». Pitagora guardo`davanti a se´. Le ombre dei suoi discepoli on- deggiavano sulla parete al ritmo del fuoco sacro. Tra esse ri- splendevano le muse, che la luce delle fiamme tingeva di un co- lore aranciato. « Leviamo le coppe a Estia, dea della casa; alle muse che ci ispirano; e alla tetraktys che tanto ci rivela ». I sei discepoli presero le coppe e le levarono con deferenza

11 all’altezza degli occhi. Le tennero a mezz’aria per qualche istan- te, poi bevvero tutti contemporaneamente. Pitagora mise a terra il recipiente di ceramica e si passo`una mano sulla barba. Alla sua destra qualcuno depose la propria coppa con un movimento brusco. Il maestro si volto`, seguendo il rumore. Cleomenide lo stava fissando con gli occhi spalancati che sembravano sul punto di uscire dalle orbite. Ma cosa...? Prima che Pitagora potesse completare il suo pensiero, il di- scepolo prediletto si protese verso di lui, cercando di prenderlo per un braccio. La mano, rigida, si fermo` a meta`strada. Cleo- menide cerco`di parlare, ma riuscı` solo a emettere un gorgoglio che gli riempı` la bocca di schiuma. Sul collo, rosso e gonfio, si era formato un grottesco disegno di vene sporgenti. Nel mezzo del Tempio sacro delle Muse, Cleomenide stra- mazzo` privo di vita.

12 Capitolo 1 16 aprile 510 a.C.

Akenon, senza distogliere lo sguardo dalla piccola coppa di ce- ramica che conteneva il suo vino, osservo`l’oste con la coda del- l’occhio: l’uomo si avvicino`al tavolo, si fermo`a due passi, esito` e si allontano`di nuovo. Non gli andava a genio che un avven- tore si trattenesse cosı` a lungo senza neppure finire di bere la prima coppa, ma non osava disturbare lo straniero – di certo un egizio – che, oltre a sovrastarlo di tutta la testa, era armato di una spada ricurva e di un pugnale che non si curava di na- scondere. Akenon torno`a chiudersi nei propri pensieri, isolandosi dal- l’ambiente lugubre della taverna. Era lı` dentro da due ore e vi sarebbe rimasto ancora piu` a lungo. Ma dopo il tramonto sareb- be stato in compagnia di una persona che mai vi sarebbe entrata di propria volonta`. Accarezzo`distratto la coppa e bevve un breve sorso. A sor- presa, il vino si rivelo` piu` che degno. Senza sollevare la testa, percorse l’intera sala con lo sguardo. Entro stanotte sara`tutto finito.

La maggior parte delle leggende si ingigantivano nel tempo, fi- no ad allontanarsi del tutto dalla realta`. Ma nel caso dei sibariti e` quasi tutto vero, penso` Akenon. Sibari era una delle citta`piu` popolose che avesse conosciuto nella sua vita movimentata. Si diceva che contasse trecentocin- quantamila anime e poteva darsi che non fosse un’esagerazione.

13 Nondimeno, gli altri miti trovavano conferma solo nella zona prossima all’importante porto cittadino. Era qui che risiedeva la maggioranza degli aristocratici, proprietari di quasi tutta la fertile pianura su cui sorgeva la citta` e padroni di una flotta commerciale oscurata solo da quella dei fenici. L’aristocrazia di Sibari era proprio come veniva descritta: viveva per il piace- re, il lusso e la raffinatezza. Esigeva la comodita` al punto da proibire nei propri quartieri la presenza di fabbri, calderai e co- niatori. Benche´fuggisse il lavoro come la peste, non disdegnava il controllo sul potere, che esercitava in modo diretto, e sul commercio, che manteneva attraverso dipendenti di fiducia. Erano due secoli che i sibariti accumulavano ricchezze, cosa di cui Akenon era piu` che soddisfatto: grazie a queste gli era sta- ta affidata l’indagine meglio remunerata di tutta la sua vita.

Era scesa da un po’ la sera quando una figura apparve sulla so- glia della taverna, avvisto` Akenon e, dopo avergli rivolto un cenno di saluto, uscı` di nuovo. Un minuto piu` tardi, entrarono alcuni servi, seguiti da un personaggio incappucciato. Ma a po- co gli serviva nascondere il volto. Non era difficile immaginare chi fosse, con le sue lussuose vesti di raso e velluto e un fisico doppio del normale. Uno schiavo si affretto` a sistemare di fronte ad Akenon un ampio sgabello di strisce di cuoio intrecciate, su cui colloco` uno spesso cuscino di piume. L’incappucciato vi prese posto, con l’aria di sentirsi scomodo. I servi lo circondarono, alcuni pronti a obbedire a qualsiasi suo desiderio, altri invece intenti a guardargli le spalle. L’oste fece per avvicinarsi, ma la scorta glielo impedı`. Akenon levo`la coppa al nuovo arrivato. « Ti raccomando il vino, Glauco. E` piuttosto buono ». L’altro fece un gesto sprezzante, mentre si tirava indietro il cappuccio. Beveva solo il miglior vino di Sidone. Akenon osservo`inquieto il suo commensale, che si torceva le

14 mani tozze e umidicce. Dalle pieghe carnose della pappagorgia, dove un tempo si trovava la gola, gli cadevano gocce di sudore. Gli occhi, ingannevolmente benevoli, saettavano a destra e a manca, come se non fossero capaci di soffermarsi da qualsiasi parte. Temo che stasera scopriro`un nuovo Glauco. Akenon fu assalito da un vecchio ricordo sgradevole di quan- do viveva nel natio Egitto, venticinque anni prima. Si era messo in luce portando a termine un’indagine in modo brillante, tanto che era stato assunto dallo stesso faraone Amosi II. In teoria, avrebbe dovuto entrare a far parte della guardia privata del so- vrano. In pratica, il compito affidatogli era stato di investigare su alcuni nobili e membri della corte dalle ambizioni eccessive. Nel volgere di pochi mesi, Akenon aveva portato allo scoperto un complotto ordito da un cugino del faraone. Amosi II si era profuso in congratulazioni e il giovane Akenon si era riempito di orgoglio. Il giorno seguente era andato ad assistere all’interrogatorio del cugino cospiratore; dopo le domande e le minacce di rigore, erano cominciate le percosse. Quindi erano apparsi certi male- fici strumenti metallici e l’interrogatorio si era trasformato in una brutale tortura. Akenon stava cosı` male che aveva lasciato che fossero gli altri a interrogare il prigioniero. Mezz’ora piu` tardi, nessuno si preoccupava piu` di fare domande. Akenon non poteva abbandonare la stanza, perche´ avrebbe dato un inaccettabile segno di debolezza, ma aveva distolto lo sguardo dal cospiratore. Sperava di evitare che quelle immagini da ma- celleria gli si imprimessero nella memoria. Tuttavia non aveva potuto fare a meno di sentire le grida del prigioniero. Dopo tan- to tempo, a volte ancora si svegliava madido di sudore, con l’e- co di quelle urla spaventose nella testa. Non aveva mai piu` vo- luto assistere a un interrogatorio, nemmeno se glielo chiedeva- no, ma quello di rivivere un’esperienza simile era uno dei suoi terrori piu` profondi.

15 Glauco lo richiamo`al presente. « Quanto tempo bisogna at- tendere? » Il volto del sibarita tradiva una disperazione febbrile. « Ci vogliono dalle quattro alle sei ore perche´ abbia effetto con il calore della pelle. Dal momento che fa piuttosto freddo, puo`darsi che occorrano un paio d’ore in piu` ». Glauco gemette e si coprı` il volto con le mani. Doveva anco- ra aspettare ore quando ogni minuto era per lui un tormento insopportabile.

Continua in libreria e in e-book

16

La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 001

Gabrielle Zevin

LA MISURA DELLA FELICITA`

Romanzo

TRADUZIONE DI MARA DOMPE`

EDIZIONE FUORI COMMERCIO

TESTO SENZA CORREZIONI DEFINITIVE La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 002

Titolo originale The Storied Life of A.J. Fikry

ISBN 978-88-429-2349-7

Per essere informato sulle novita` del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinitestorie.it

g 2014 by Gabrielle Zevin. All rights reserved g 2014 Casa Editrice Nord s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 005

5

Vieni, mia amata adoriamoci a vicenda prima che non ci sia piu` nulla di te e di me

JALA¯ LAD-DI¯N MUHAMMAD RU¯ MI¯ LA MISURA DELLA FELICITÀ

Un estrao in anteprima La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 062

62 mai pensato di avere un grande talento per la corsa di fondo. Il suo allenatore del liceo gli aveva affibbiato il lirico soprannome di « medio affidabile », per dire che si poteva star certi che A.J. avrebbe terminato ogni gara nelle posizioni medio-alte del gruppo. Ora che non corre da un po’, deve ammettere che era bravo. Nelle sue condizioni attuali, non riesce a fare piu` di tre chilometri senza fermarsi. Raramente corre piu` di otto chilometri in totale e gli fanno male la schiena, le gambe e praticamente ogni altra parte del corpo. Il dolore comunque si rivela una cosa po- sitiva. Un tempo, durante le corse, aveva l’abitudine di rimuginare; adesso il dolore lo distrae da quell’at- tivita` cosı` inutile. Verso la fine della corsa, comincia a nevicare. Non volendo lasciare impronte di fango in casa, A.J. si fer- ma in veranda per togliersi le scarpe. Si appoggia alla porta ed essa si spalanca. Sa di non averla chiusa a chiave, ma e` ragionevolmente certo di non averla la- sciata aperta. Accende la luce. Niente sembra fuori posto. Il registratore di cassa pare intatto. Probabil- mente e` stato il vento ad aprire la porta. Spegne la lu- ce ed e` quasi arrivato alle scale quando sente un urlo, acuto come quello di un uccello. Poi il grido si ripete, piu` insistente. A.J. riaccende la luce. Torna all’ingresso, poi per- corre avanti e indietro la libreria. Arriva all’ultima fi- la di scaffali: la magra sezione bambini e ragazzi. Sul La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 063

63 pavimento e` seduta una bimba: in grembo, aperta a meta`, ha l’unica copia presente in negozio di Nel paese dei mostri selvaggi (uno dei pochi libri illustrati che Island Books si degna di tenere). E` una bimba, non una neonata, pensa A.J. Non riesce a stabilirne l’eta` perche´, a parte se stesso, non ha mai avuto a che fare a lungo con un bambino. A.J. era il figlio piu` piccolo, e lui e Nic non ne hanno mai avuti di loro. La piccola indossa una giacca a vento rosa. Ha un sacco di capelli castano chiaro, molto ricciuti, gli occhi blu scuro e la pelle marroncina, un paio di toni piu` chiara di quella di A.J. E` piuttosto carina. « E tu chi diavolo sei? » chiede A.J. alla bimba. Di colpo, lei smette di piangere e gli sorride. « Maya », risponde. E` stato facile, pensa A.J. « Quanti anni hai? » Maya alza due dita. « Hai due anni? » Maya sorride di nuovo e allunga le braccia verso di lui. « Dov’e` la tua mamma? » Maya ricomincia a piangere. Continua a porgere le braccia verso A.J. che, non avendo alternative, la sol- leva e la stringe a se´. Pesa almeno come uno scatolone di libri rilegati, quanto basta per affaticargli la schie- na. La bambina gli serra le braccia intorno al collo e A.J. nota che ha un buon profumo, un odore di talco e di olio per bambini. Chiaramente non si tratta di La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 064

64 una bambina trascurata o maltrattata. E` amichevole, ben vestita e si aspetta – anzi: richiede – affetto. Di si- curo, il proprietario di quel fagotto tornera` da un mo- mento all’altro con una spiegazione perfettamente sensata. Un’auto in panne, magari? O forse la madre e` stata vittima di un’intossicazione alimentare? Deci- de che deve rivedere la sua politica della porta aper- ta. Aveva pensato che qualcuno potesse rubare qual- cosa, ma non che qualcuno potesse lasciare qualcosa. La bimba lo abbraccia piu` stretto. Da sopra le sue spalle, A.J. nota un pupazzo dei Muppet, Elmo, sedu- to sul pavimento: sul petto rosso, peloso e arruffato, appuntato con una spilla da balia, c’e` un biglietto. Po- sa la bambina e raccoglie Elmo, un personaggio che ha sempre disprezzato perche´ gli e` sempre parso troppo bisognoso di attenzioni. « Elmo! » esclama Maya. «Sı`, Elmo », ripete A.J. Stacca il biglietto e porge il pupazzo alla bambina. Il biglietto dice:

Al proprietario della libreria. Questa e` Maya. Ha venticinque mesi. E` molto in- telligente, e`eccezionalmente loquace per la sua eta`,ed e` una bambina dolce e buona. Voglio che diventi una lettrice. Voglio che cresca in mezzo ai libri e con per- sone che s’interessano a questo genere di cose. Le vo- glio un bene immenso, tuttavia non posso piu` occu- La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 065

65

parmi di lei. Sul padre non posso contare e la mia fa- miglia non puo` aiutarmi. Sono disperata. Grazie, La madre di Maya

Cazzo, pensa A.J. Maya piange di nuovo. Lui la riprende in braccio. Il pannolino e` sporco. A.J. non ha mai cambiato un pannolino in vita sua, benche´ sia un discreto impacchettatore di regali. Nel periodo natalizio, quando Nic era viva, Island Books offriva confezioni regalo gratuite; A.J. suppone che l’abilita` necessaria a fare pacchetti e quella richie- sta per cambiare i pannolini non siano poi cosı` diver- se. Accanto alla bambina, c’e` una borsa. Lui spera con tutto il cuore che sia la borsa dei pannolini. Ed e` pro- prio cosı`, per fortuna. Cambia la bambina sul pavi- mento del negozio, cercando di non sporcare il tappe- to o di non fissare le sue parti intime. L’intera faccen- da richiede una ventina di minuti. A differenza dei li- bri, i bambini si muovono e non hanno una semplice forma squadrata. Maya lo guarda con la testa inclina- ta, le labbra corrugate e il naso arricciato. « Mi dispiace, Maya, ma non e` stata una passeggia- ta neanche per me. Prima smetti di cagarti addosso, prima ci liberiamo di questa incombenza. » « Scusa », dice lei. A.J. si sente subito in colpa. « No, sono io che mi La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 066

66 devo scusare. Non so assolutamente niente di queste cose. Sono un idiota. » « Idiota! » ripete lei e poi fa una risatina. Il libraio si rimette le scarpe da corsa, poi solleva la bambina, la borsa e il biglietto, e si dirige verso il commissariato.

Giacche´ sembra destinato a essere presente in tutti i momenti piu` importanti della vita di A.J., il commis- sario Lambiase e` di servizio, quella sera. Il libraio gli mostra la bambina. « Qualcuno ha lasciato questa in negozio », sussurra, in modo da non svegliare Maya, che si e` addormentata tra le sue braccia. Come nel piu` classico dei thriller americani, Lam- biase sta mangiando un doughnut e cerca di nascon- derlo, imbarazzato dal cliche´. Finisce di masticare, poi rivolge ad A.J. un commento assai poco profes- sionale: « Uh, le sta simpatico ». « Non e` mia figlia », precisa A.J., continuando a sussurrare. « E di chi e` figlia? » « Di una cliente, immagino. » Infila una mano in ta- sca e porge il biglietto a Lambiase. « Oh, wow. La madre l’ha lasciata per lei », esclama il poliziotto. Maya apre gli occhi e gli sorride. « Ma guarda com’e` graziosa. » Lambiase si china su La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 067

67 di lei e la bambina gli afferra i baffi. « Chi ha preso i miei baffi? » dice l’uomo con una ridicola voce infan- tile. « Chi ha rubato i miei baffi? » « Commissario Lambiase, non mi sembra che lei si renda conto della gravita` della situazione. » Lambiase si schiarisce la voce e raddrizza la schie- na. « Okay. Ecco come stanno le cose. Sono le nove di sera di un venerdı`. Faro` una segnalazione ai Servizi per la tutela dei minori ma, considerata la neve, il fine settimana e gli orari del traghetto, dubito che qualcu- no se ne possa occupare prima di lunedı`, a essere ot- timisti. Cercheremo di rintracciare la madre e anche il padre, in caso qualcuno stia cercando questa briccon- cella. » « Maya », interviene Maya. «E` cosı` che ti chiami? » dice Lambiase con voce in- fantile. « E` proprio un bel nome. » Si schiarisce di nuovo la voce. « Qualcuno dovra` badare alla bambi- na durante il week-end. Io e gli altri poliziotti possia- mo farlo a turno qui, oppure... » « No, non c’e` problema », lo interrompe A.J. « Non mi sembra giusto tenere una bambina in un commis- sariato. » « Cosa sa su come tenere un bambino? » chiede Lambiase. «E` solo per il week-end; mica sara` una cosa cosı` difficile, no? Telefonero` a mia cognata. E, se lei non sa qualcosa, lo cerco su Google. » La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 068

68

« Google », ripete la piccola. « Google! Questa e` proprio una parolona! » escla- ma Lambiase. « Ehm. Okay, mi rimettero` in contatto con lei lunedı`. Che strano mondo, eh? Prima qualcu- no le ruba un libro, poi qualcun altro le lascia una bambina. » « Eh », dice A.J.

Quando arrivano a casa, Maya e` in lacrime. Piange forte, emettendo un suono che sta a meta` tra una trombetta di capodanno e un allarme antincendio. A.J. desume che sia affamata, ma non ha idea di cosa dar da mangiare a una bambina di venticinque mesi. Le solleva le labbra per vedere se ha i denti. Ce li ha e li usa per cercare di morderlo. Digita su Google la do- manda: « Cosa do da mangiare a un bambino di ven- ticinque mesi? » La risposta che viene fuori e` che la maggior parte dei bambini di quell’eta` dovrebbe es- sere in grado di mangiare cio` che mangiano i genitori. Google pero` non sa e` che quasi tutto cio` che mangia A.J. e` disgustoso. Il suo frigo contiene una varieta` di cibi surgelati, molti dei quali speziati. Quindi telefo- na a Ismay, la cognata, per chiedere aiuto. « Scusa se ti disturbo, ma mi chiedevo cosa dovrei dare da mangiare a una bambina di venticinque mesi. » « Perche´ te lo chiedi? » domanda lei con voce dura. La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 069

69

Lui spiega che qualcuno ha lasciato una bambina in negozio. Dopo una pausa, Ismay dice che arrivera` subito. « Sei sicura? » chiede il libraio. Ismay e` incinta di cinque mesi e lui non vuole affaticarla. « Sono sicura. Sono contenta che tu abbia chiamato. Il Grande Romanziere Americano e` fuori citta` eio soffro d’insonnia da due settimane. » Meno di mezz’ora dopo, Ismay arriva con una bor- sa di cibarie provenienti dalla sua cucina: il necessario per un’insalata, lasagne di tofu e mezzo crumble di mele. « Il meglio che ho potuto fare senza preavviso. » « No, e` perfetto », commenta A.J. « La mia cucina e` un disastro. » « La tua cucina e` una scena del crimine. » Quando la bambina vede Ismay, si mette a strillare. « Deve mancarle la madre », mormora la donna. « Forse gliela ricordo? » A.J. annuisce, ma pensa che la vera causa di quel pianto sia un’altra. Sua cognata ha di certo spaventa- to la bambina. Ismay ha capelli rossi sparati, tagliati alla moda, carnagione e occhi chiari, braccia e gambe lunghe e sottili. I suoi tratti sono un po’ troppo gran- di, i suoi gesti sono un po’ troppo ampi. Incinta, asso- miglia a un graziosissimo Gollum. Perfino la sua voce potrebbe risultare fastidiosa per un bambino: e` preci- sa, educata dal teatro, impostata in modo da riempire la stanza. Da quando la conosce – una quindicina La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 070

70 d’anni – e` invecchiata come dovrebbe invecchiare un’attrice: da Giulietta a Ofelia, a Gertrude, a Ecate. Ismay riscalda il cibo. « Vuoi che le dia da mangia- re? » chiede. Maya la fissa con sospetto. « No, ci provo io », re- plica A.J. Si gira verso Maya. « Usi le posate? » Maya non risponde. « Non hai un seggiolone. Dovrai creare una strut- tura improvvisata in modo che non cada », spiega Ismay. Lui mette Maya sul pavimento. Con un mucchio di bozze, costruisce tre pareti, poi dispone alcuni cusci- ni lungo quella specie di fortezza. La prima cucchiaiata di lasagne entra senza il mi- nimo sforzo. « Facile », commenta A.J. Alla seconda cucchiaiata, Maya gira la testa all’ul- timo momento, schizzando salsa ovunque: su A.J., sui cuscini, sui muri della fortezza di bozze. Poi la piccola si gira di nuovo verso di lui e gli fa un enorme sorriso, come se avesse fatto uno scherzo incredibil- mente ingegnoso. « Spero che non avessi in programma di leggerle », dice Ismay. Dopo cena, mettono a dormire la bambina sul fu- ton, nella seconda camera da letto. « Perche´ non hai lasciato la bambina al commissa- riato? » chiede Ismay. « Non mi sembrava giusto. » La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 071

71

« Non stai pensando di tenerla, vero? » La donna si accarezza la pancia. « Certo che no. Mi prendo cura di lei fino a lunedı` e poi basta. » « Magari prima di allora la madre si fara` viva, avra` cambiato idea. » A.J. le porge il biglietto. « Poverina », dice Ismay. « Gia`. Io non potrei mai lasciare mia figlia in una libreria. » Lei scrolla le spalle. « Probabilmente quella ragaz- za aveva le sue buone ragioni per farlo. » « Che ne sai che e` una ragazza? Potrebbe essere una donna di mezz’eta` allo stremo delle forze. » « Il tono della lettera mi sembra... giovane. Forse anche la grafia », spiega Ismay. Si passa le dita tra i capelli corti. « E per il resto, come stai? » « Sto bene. » Si rende conto che da ore non pensa al Tamerlane o a Nic. Ismay lava i piatti anche se lui le dice di lasciarli lı`. « Non ho intenzione di tenerla », ripete. « Vivo da solo. Non ho molti risparmi, e, in questo momento, gli affari non sono esattamente in crescita. » « Certo che no », annuisce la donna. « Col tuo stile di vita, non avrebbe senso. » Asciuga i piatti, poi li mette a posto. « Non ti farebbe male, comunque, co- minciare a mangiare un po’ di verdura fresca, di tan- to in tanto. » La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 072

72

Ismay gli da` un bacio sulla guancia. A.J. pensa che e` cosı` simile a Nic, ma cosı` diversa. Talvolta gli sem- brano piu` difficili da tollerare le parti simili (il viso, la figura); talaltra le parti diverse (il cervello, il cuore). « Fammi sapere se hai bisogno di altro aiuto », dice la donna. Pur essendo la piu` giovane, Nic si era sempre pre- occupata per la sorella. Dal suo punto di vista, Ismay era una specie di manuale su come non bisogna vive- re. Aveva scelto un college perche´ le erano piaciute le fotografie sulla brochure; aveva sposato un uomo perche´ lui stava benissimo in smoking e aveva inizia- to a insegnare perche´ aveva visto un film su un inse- gnante ispirato. « Povera Ismay. Finisce sempre per essere delusa », diceva sempre Nic. Nic vorrebbe che fossi piu` gentile con sua sorella, pensa. « Come sta venendo lo spettacolo? » le chiede. Ismay sorride, e sembra una ragazzina. « Caspita, A.J., pensavo che non lo sapessi neppure. » « Il crogiuolo », spiega A.J. « I ragazzini vengono a comprare il libro. » « Ah, ecco. E` un testo davvero brutto, in realta`.Ma le ragazze hanno l’occasione di fare un sacco di urla e strilli, e a loro piace. A me, di meno. Vado sempre alle prove con una boccetta di Tylenol. E magari, in mez- zo a tutte quelle urla e quegli strilli, imparano un po’ di storia americana. Ovviamente il vero motivo per La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 073

73 cui l’ho scelto e` che ci sono molti ruoli femminili: il che significa meno lacrime quando espongo la lista delle parti assegnate. Ma adesso, col bambino in arri- vo, comincia a sembrarmi... be’, insomma, un po’ pe- sante. E` davvero troppo tragico. » Dal momento che si sente in debito con lei, A.J. si offre di aiutarla. « Forse potrei dipingere qualche fon- dale. Oppure magari stampo il programma di sala, eh? » Ismay vorrebbe dirgli: « Non e` proprio da te », ma si trattiene. A parte suo marito, il cognato le e` sempre parso uno degli uomini piu` egoisti ed egocentrici che abbia mai conosciuto. Se un solo pomeriggio con una bambina puo` produrre un tale miglioramento in A.J., cosa potrebbe succedere a Daniel dopo la nascita del loro figlio? Il piccolo gesto del cognato le infonde speranza. Si accarezza la pancia. C’e` un bambino lı` dentro, e loro hanno gia` scelto un nome per lui. E an- che un nome di riserva, in caso il primo non andasse bene.

Il pomeriggio seguente, la neve smette di cadere, co- mincia a trasformarsi in fanghiglia e il mare porta a riva il corpo di una donna, depositandolo sulla lin- gua di terra nei pressi del faro. La carta d’identita` nel- la tasca appartiene a Marian Wallace, e Lambiase non ci mette molto a collegare il cadavere e la bambina. La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 074

74

Marian Wallace non ha parenti ad Alice Island, e nessuno sa perche´ si trovasse lı`, se fosse venuta a tro- vare qualcuno o perche´ abbia deciso di suicidarsi en- trando nelle gelide acque decembrine dello stretto. Nessuno, cioe`, conosce la ragione precisa di quel ge- sto. I fatti sono che Marian Wallace era nera, aveva ventun anni e una figlia di venticinque mesi. A cio` si puo` aggiungere quello che ha scritto nel biglietto lasciato ad A.J. Ne emerge una storia lacunosa ma sufficiente. Le forze dell’ordine concludono che Ma- rian Wallace si e` suicidata, niente di piu` . Durante il week-end, emergono altre informazioni sulla ragazza. Frequentava Harvard grazie a una bor- sa di studio. Era stata una campionessa di nuoto dello Stato del Massachusetts e amava scrivere. Veniva da Roxbury. Sua madre era morta di cancro quando lei aveva tredici anni; la nonna materna era morta l’anno successivo per lo stesso male; il padre era un tossico- dipendente. Aveva trascorso gli anni del liceo pas- sando da una famiglia affidataria all’altra. Una delle madri affidatarie ricordava Marian perennemente china su un libro. Nessuno sa chi sia il padre del bam- bino, nessuno ricorda nemmeno che avesse un ragaz- zo. E` stata messa in congedo dal college perche´, il se- mestre precedente, era stata bocciata in tutti i corsi: le esigenze della maternita` e un rigoroso programma accademico erano diventati troppo pesanti per lei. Era carina e intelligente, il che rende la sua morte La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 075

75 una tragedia. Era povera e nera, per cui la gente dice che c’era da aspettarselo. Domenica sera, Lambiase fa un salto in libreria per controllare Maya e aggiornare A.J. Il poliziotto ha di- versi fratelli minori e si offre di badare a Maya, mentre il libraio si occupa del negozio. « Non le dispiace? » chiede A.J. « Non deve andare da qualche parte? » Lambiase ha divorziato da poco. Aveva sposato la fidanzatina del liceo, il suo tesoro, e gli ci e` voluto molto tempo per rendersi conto che non era affatto un tesoro, e che anzi non era neppure una bella per- sona. Quando litigavano, lei gli affibbiava spesso ap- pellativi tipo « stupido » e « grasso ». Ma lui non e` stu- pido, anche se non e` particolarmente colto e non ha viaggiato molto. E non e` grasso, anche se ha un fisico che ricorda quello di un bulldog: collo grosso e mu- scoloso, gambe corte, naso largo e piatto. Un robusto bulldog americano, non uno inglese. Lambiase non sente la mancanza della moglie, seb- bene gli pesi non avere un posto dove andare dopo il lavoro. Si sistema sul pavimento e prende Maya in grem- bo. Quando la bimba si e` addormentata, racconta ad A.J. tutto cio` che e` venuto a sapere sulla madre. « La cosa piu` strana e` che si trovasse ad Alice Island », commenta il libraio. « Be’, insomma, e` piut- tosto impegnativo arrivare qui. Perfino mia madre e` venuta a trovarmi una sola volta in tutti questi anni. La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 076

76

Lei pensa davvero che non sia venuta a trovare qual- cuno? » Lambiase sposta Maya. « Ci ho pensato. Forse non sapeva esattamente dove stava andando. Forse ha soltanto preso il primo treno che partiva e poi il pri- mo bus e poi il primo traghetto e si e` ritrovata in que- sto posto. » A.J. annuisce, ma non crede nelle azioni casuali. E` un lettore, dunque crede nella struttura. Se nel primo atto appare una pistola, allora, entro il terzo atto, quella pistola dovra` sparare. In altre parole, crede che esista una narrazione. « Forse voleva morire in un bel posto », aggiunge Lambiase. « L’incaricata dei Servizi per la tutela dei minori verra` dunque a prendere questo angioletto lu- nedı`. Visto che la madre non aveva parenti e non si sa chi sia il padre, dovranno trovarle una famiglia affi- dataria. » A.J. conta i soldi nel cassetto. « I bambini che ven- gono affidati a qualcuno non hanno esattamente una vita facile, non crede? » « Forse », dice Lambiase. « Ma questo cucciolo si comportera` bene. » Il libraio conta di nuovo i soldi nel cassetto. « Ha detto che la madre aveva vissuto con famiglie affida- tarie, vero? » Il commissario annuisce. La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 077

77

« Probabilmente pensava che sua figlia avrebbe avuto piu` possibilita` in una libreria. » Lambiase rimane in silenzio. « Non sono un uomo religioso, commissario Lam- biase. Non credo nel destino », dice A.J. dopo un po’. « Mia moglie sı`. Lei credeva nel destino. » In quel momento, Maya si sveglia e allunga le brac- cia verso A.J. Lui chiude il cassetto del registratore di cassa e la prende dal grembo di Lambiase. Al com- missario pare che la bambina lo chiami « papa` ». « Continuo a dirle di non chiamarmi cosı`, ma non ascolta. » « I bambini si fanno certe idee... » mormora Lam- biase. « Le va un bicchiere? » « Certo. Perche´ no? » A.J. chiude a chiave la porta d’ingresso della libre- ria e sale le scale. Posa Maya sul futon e va in soggior- no. « Non posso tenere una bambina », dichiara con fermezza. « Sono due notti che non dormo. E` una ter- rorista! Voglio dire, si sveglia a ore assurde. Si direb- be che la sua giornata inizi alle 3.45 del mattino. Vivo da solo. Sono povero. Non puoi crescere una bambi- na esclusivamente coi libri. » « Vero », dice Lambiase. « Riesco a malapena a badare a me stesso », conti- nua A. J. « Lei e` peggio di un cagnolino. E un uomo come me non dovrebbe avere nemmeno un cane. La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 078

78

Non sa usare il vasino e io non ho idea di come com- portarmi ne´ in questa cosa, ne´ in nessun’altra questio- ne che la riguarda. Inoltre i bambini non mi sono mai piaciuti. Certo, Maya mi piace, ma... La conversazio- ne con lei e` a dir poco stentata. Parliamo di Elmo, che io comunque non sopporto, e a parte questo si parla principalmente di lei. E` totalmente egocentrica. » « I bambini tendono a essere cosı`. Una volta che lei conoscera` piu` parole, la conversazione probabilmen- te migliorera`.» « E vuole leggere sempre lo stesso libro, uno schi- fosissimo libro cartonato. Il mostro alla fine di questo li- bro.» Lambiase non ne ha mai sentito parlare. « Be’, mi creda. Ha proprio gusti orribili in fatto di libri », ride A.J. Il poliziotto annuisce e beve il vino. « Nessuno sta dicendo che deve tenerla. » «Sı`,sı`, certo. Ma lei pensa che potrei avere voce in capitolo sulla sua destinazione? E` una bimba incredi- bilmente sveglia. Per dire, conosce gia` l’alfabeto e so- no riuscito perfino a farle capire l’ordine alfabetico. Mi dispiacerebbe moltissimo se finisse con dei cretini che non apprezzano la sua intelligenza. Come dicevo, non credo nel destino. Ma provo un senso di respon- sabilita` nei suoi confronti. Quella giovane donna l’ha affidata a me. » La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 079

79

« Quella giovane donna era fuori di se´ », gli ricorda Lambiase. « Si sarebbe affogata di lı` a poco. » «Sı`, ha ragione », borbotta A.J., accigliandosi. Uno strillo nell’altra stanza. Il libraio si scusa. « De- vo andare a vedere. »

Prima della fine del week-end, Maya ha bisogno di fare un bagno. Anche se preferirebbe lasciare quel- l’incombenza allo Stato del Massachusetts, A.J. non vuole consegnare ai servizi sociali una Miss Havis- ham in miniatura. Gli ci vogliono diverse ricerche su Google per stabilire le procedure del bagnetto: ap- propriata temperatura dell’acqua del bagno a due anni; una bambina di due anni puo` usare lo shampoo dei grandi?; co- me deve fare un padre per lavare le parti intime di una bam- bina di due anni senza sembrare un pervertito; quanto riempire la vasca per bambina piccola; come prevenire l’af- fogamento accidentale di una bambina di due anni; regole generali per la sicurezza del bagnetto eccetera. Le lava i capelli con lo shampoo alla canapa che usava Nic. Pur avendo regalato o gettato da molto tempo ogni altra cosa della moglie, non riesce a sba- razzarsi dei suoi prodotti per il bagno. Le sciacqua i capelli, e Maya si mette a cantare. « Cosa stai cantando? » « Canzone. » « Che canzone e`?» La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 080

80

« La la. Buu ia. La la. » A.J. ride. « Sı`, queste per me sono parole senza sen- so, Maya. » Lei lo schizza. « Mamma? » chiede dopo un po’. « No, non sono tua madre. » « Andata », dice Maya. «Sı`. Probabilmente non torna. » Maya ci pensa su, poi annuisce. « Tu canta. » « Preferirei di no. » « Canta. » La bambina ha perso la madre. Forse cantare e` il minimo che lui possa fare. Non c’e` tempo di cercare su Google canzoni adatte ai bambini. Prima di conoscere la moglie, A.J. cantava come secondo tenore nei Footnotes, un gruppo voca- le a cappella di Princeton, tutto maschile. Quando si era innamorato di Nic, erano stati i Footnotes a risen- tirne e, dopo un semestre di prove mancate, era stato silurato dal gruppo. Ripensa all’ultima esibizione dei Footnotes, un omaggio alla musica anni ’80. Per la sua performance di fronte alla vasca da bagno, ne se- gue il programma piuttosto da vicino, cominciando con 99 Luftballons, passando poi armoniosamente a Get Out of My Dreams (Get into My Car). E, per finire: Love in an Elevator. Si sente un po’ sciocco. Quando ha finito, lei applaude. « Ancora », ordina. « Ancora. » « Questo spettacolo prevede una sola performan- La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 081

81 ce. » La tira fuori dalla vasca e poi la asciuga, strofi- nando in ogni spazio tra le dita perfette dei piedi. « Luftballon », dice Maya. « Luft b... Luft bene. » « Come? » « Voglio bene. » «E` soltanto l’effetto del coro ’a cappella’. » Lei annuisce. « Voglio bene. » « Vuoi bene a me? Non mi conosci neanche. Non dovresti concedere il tuo amore cosı` facilmente, ra- gazza mia. » L’attira a se´. « Abbiamo percorso un bre- ve tratto insieme. Sono state settantadue ore deliziose e, almeno per me, memorabili. Ma certe persone non sono destinate a rimanere nella tua vita per sempre. » La bambina lo guarda coi suoi grandi, scettici occhi azzurri. « Voglio bene », ripete. A.J. le asciuga i capelli, poi le annusa la testa. « Mi preoccupi. Se vuoi bene a tutti, finirai molto spesso per essere ferita. Considerata la lunghezza della tua vita, probabilmente hai l’impressione di conoscermi da molto tempo. La tua prospettiva del tempo e` assai distorta, Maya. Ma io sono vecchio e ben presto di- menticherai perfino di avermi conosciuto. » Molly Klock bussa alla porta dell’appartamento. « L’assistente sociale e` arrivata. Va bene se la mando su? » A.J. annuisce. Si prende Maya in grembo ed entrambi rimangono in attesa, ascoltando lo scricchiolio delle scale che la La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 082

82 donna sta salendo. « Non avere paura, Maya. Questa signora ti trovera` una casa proprio adatta a te. Meglio di qui. Non puoi passare il resto della tua vita a dor- mire su un futon, sai. E` meglio star lontano da quelli che fanno gli ospiti a vita e dormono su un futon. » La donna si chiama Jenny. A.J. non ha mai cono- sciuto una donna con quel nome. Se fosse un libro, sa- rebbe un tascabile appena uscito dalla scatola: bello asciutto, senza orecchie ne´ grinze sul dorso. Lui avrebbe preferito un’assistente sociale con qualche segno di usura. Immagina la quarta del libro: Quando la coraggiosa Jenny, originaria di Fairfield, nel Connecti- cut, era arrivata nella grande citta` per diventare un’assi- stente sociale, non poteva sapere cosa la aspettava. «E` il suo primo giorno di lavoro? » chiede. « No, lo faccio da un po’. » Jenny sorride a Maya. « Come sei bella. » La bambina affonda il viso nella felpa di A.J. « Voi due sembrate molto legati. » Prende un ap- punto sul suo bloc-notes. « Allora, le cose andranno cosı`. Riportero` Maya a Boston e, in qualita` di sua as- sistente sociale, sbrighero` io le pratiche. Ovviamente non puo` farlo da sola, ah-ah-ah. Sara` valutata da un medico e da uno psicologo. » « A me sembra equilibrata e piuttosto in buona sa- lute. » «E` un bene che lei abbia notato queste cose. I me- dici cercheranno di rilevare eventuali ritardi nello La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 083

83 sviluppo, malattie e altre cose che potrebbero non es- sere evidenti a un occhio inesperto. Dopodiche´ Maya sara` collocata in una delle nostre molte famiglie affi- datarie pre-approvate e... » A.J. la interrompe. « Come fa una famiglia affidata- ria a essere pre-approvata? E` facile come, diciamo, aprire un conto presso un grande magazzino? » « Ah-ah-ah. No, naturalmente, e` una procedura piu` lunga. Richieste, visite a casa... » Lui la interrompe di nuovo. « Quello che voglio di- re, Jenny, e`: come fate a essere certi che non state si- stemando un bambino innocente in casa di uno psico- patico? » « Be’, Mr Fikry, non partiamo certo dal presuppo- sto che chiunque voglia prendere un bambino in affi- damento sia uno psicopatico, ma facciamo un con- trollo approfondito su tutte le nostre famiglie affida- tarie. » « Mi preoccupo perche´... be’, Maya e` molto intelli- gente, ma e` anche molto fiduciosa. » « Intelligente ma fiduciosa. Ottima osservazione. La annotero`. » Jenny annota. « Quindi, dopo averla collocata in una famiglia di emergenza non psicopati- ca » – precisa con un sorriso – « mi rimettero` al lavoro. Verifichero` se qualcuno nella sua famiglia allargata intende accoglierla; in caso contrario, cerchero` di tro- varle una sistemazione permanente. » « Vuole dire un’adozione. » La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 084

84

«Sı`, esatto. Molto bene. » Jenny non e` tenuta a spie- gare tutto per filo e per segno, ma le fa piacere che i buoni samaritani come A.J. abbiano la sensazione che il loro impegno e` stato apprezzato. « Devo proprio ringraziarla, Mr Fikry. Avremmo bisogno di piu` per- sone come lei, disposte a farsi coinvolgere. » Allunga le braccia verso Maya. « Sei pronta, tesoro? » A.J. stringe Maya piu` forte. Inspira profondamen- te. Ha davvero intenzione di farlo? Sı`, pensa. Oddio. « Ha detto che Maya sara` collocata in una famiglia af- fidataria temporanea. Non potrei essere io quella fa- miglia? » Jenny serra le labbra. « Il fatto e` che tutte le fami- glie affidatarie hanno seguito la procedura, facendo richiesta di... » « So che non ho seguito la procedura, pero` la ma- dre mi ha lasciato questo biglietto. » Lo porge a Jenny. « Voleva che fossi io a tenerla, capisce? E` stato il suo ultimo desiderio. E credo sia giusto che io la tenga. Non voglio che sia spostata in qualche famiglia affi- dataria quando ha una famiglia adatta proprio qui. Ho fatto una ricerca sull’argomento su Google, ieri sera. » « Google », ripete Maya. «Sie` fissata su questa parola. Non so perche´.» « Quale ’argomento’? » chiede Jenny. « Non sono obbligato a darla a lei se e` desiderio La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 085

85 esplicito della madre che ce l’abbia io », spiega il li- braio. « Papa` », esclama Maya in quell’istante, con tempi- smo perfetto. Jenny sposta lo sguardo dagli occhi di A.J. a quelli di Maya. Gli uni e gli altri sono determinati. Sospira. Ave- va pensato che il pomeriggio sarebbe filato via liscio; invece stava cominciando a diventare complicato. Sospira di nuovo. Non e` il suo primo giorno, ma ha completato i suoi studi come assistente sociale soltan- to da un anno e mezzo. O e` un’entusiasta, o e` abba- stanza inesperta da volerli aiutare. Tuttavia lui e` un single che vive sopra un negozio. Una quantita`assurda di pratiche da sbrigare, pensa Jenny. « Mi venga incon- tro, Mr Fikry. Mi dica che ha studiato pedagogia o sviluppo infantile o qualcosa del genere. » « Uhm... Prima di lasciare l’universita` per aprire la libreria, stavo per conseguire un PhD in Letteratura americana. Ero specializzato su Edgar Allan Poe. La caduta della casa degli Usher e` un ottimo manuale su co- sa non fare coi bambini. » «E` qualcosa », commenta Jenny, intendendo che e` qualcosa di assolutamente inutile.«E` davvero sicuro di farcela? E` un enorme impegno economico, emotivo e di tempo. » « No, non ne sono sicuro », replica A.J. « Tuttavia penso di poter offrire a Maya le stesse possibilita` di La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 086

86 un’altra famiglia. Posso badare a lei mentre lavoro. Inoltre mi sembra che ci sia una simpatia reciproca. » « Voglio bene », dice Maya. « Continua a ripeterlo. L’ho messa in guardia, le ho spiegato che non bisogna concedere affetto se non lo si e` guadagnato, ma credo che quell’Elmo abbia un’influenza insidiosa su di lei. Lui vuole bene a tutti, sa. » « Conosco Elmo », sospira Jenny. Le viene da pian- gere. Ci sara` una montagna di lavoro burocratico da fare. E non solo per la collocazione in affido. L’ado- zione vera e propria sara` un inferno. E sara` lei a do- versi sobbarcare i viaggi di due ore per Alice Island ogni volta che qualcuno dei servizi sociali vorra` con- trollare Maya e A.J. « Okay. Sentite, voi due, devo chiamare il mio supervisore. » Da bambina, Jenny Bernstein, prodotto di due genitori equilibrati e affet- tuosi di Medford, Massachusetts, amava le storie di orfani come Anna dai capelli rossi e La piccola principes- sa. Negli ultimi tempi, ha cominciato a sospettare che sia stato proprio il sinistro effetto di quelle storie, let- te piu` volte, ad averla spinta verso la professione di assistente sociale. In generale, il lavoro si e` rivelato meno romantico di quanto le avevano fatto credere le sue letture. Il giorno precedente, una sua ex com- pagna di corso aveva scoperto che una donna aveva lasciato quasi morire di fame il sedicenne che le era stato affidato. Il ragazzo ormai pesava poco piu` di La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 087

87 venti chili e i vicini erano convinti che non avesse piu` di sei anni. « Voglio ancora credere che esista un lieto fine, ma sta diventando difficile », le aveva detto la sua compagna di corso. Jenny sorride ad A.J. e a Maya. Che bambina fortunata, pensa.

Quel Natale e per varie settimane dopo, la notizia che A.J. Fikry, il vedovo nonche´ il proprietario della libre- ria, ha accolto una bambina abbandonata attraversa l’isola come un fremito. E` da un po’ di tempo – pro- babilmente da quand’e` stato rubato il Tamerlane – che Alice Island non dispone di un pettegolezzo cosı` suc- coso e il personaggio di Fikry e` al centro dell’attenzio- ne. L’intera cittadina l’ha sempre considerato un in- sensibile snob; sembra inconcepibile che un uomo del genere adotti una bambina soltanto perche´ e` stata abbandonata nella sua libreria. Il fioraio racconta di quella volta in cui aveva dimenticato in libreria un paio di occhiali da sole e quando, meno di un giorno dopo, era tornato a riprenderli, aveva scoperto che A.J. li aveva buttati via. « Ha detto che non aveva spa- zio per gli oggetti smarriti. Ed ecco che fine ha fatto un bellissimo paio di Ray-Ban vintage! » esclama il fioraio. « Immaginate cosa potrebbe succedere a un essere umano! » Nel corso degli anni, poi, erano state innumerevoli le volte in cui il libraio era stato invitato a partecipare alla vita cittadina: gli era stato chiesto di La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 088

88 sponsorizzare la squadra di calcio, di partecipare alla vendita di torte per beneficenza, di comprare uno spazio pubblicitario nell’annuario del liceo. Lui ave- va sempre declinato e non sempre in maniera educa- ta. L’unica conclusione possibile era che la perdita del Tamerlane lo aveva ammorbidito. La madri di Alice Island temono che la bambina sara` trascurata. Cosa puo` saperne, lui, uomo e single, di come si crescono i bambini? Colgono quindi l’occa- sione di passare in negozio il piu` spesso possibile a dispensare consigli e, qualche volta, a portare piccoli regali: abiti, coperte, giocattoli. Notano che Maya sembra sufficientemente pulita, felice e sicura di se´ e ne sono assai sorprese. Solo dopo essere uscite dalla libreria, chiocciano su quanto sia tragico il passato della bambina. Da parte sua, A.J. non e` infastidito dalle visite. Ignora in larga misura i consigli, ma accetta i regali, sebbene li selezioni e li disinfetti non appena le donne se ne sono andate. Sa dei pettegolezzi, ma decide di non badarci. Mette sul banco un dispenser d’igieniz- zante per le mani, accanto al cartello: SI PREGA DI DI- SINFETTARSI PRIMA DI TOCCARE L’INFANTA. Il mondo e` amico di Maya e quindi, per estensione, diventa amico di A.J. Inoltre le donne sanno effettivamente cose che lui ignora: cose sull’educazione al vasino (la corruzione funziona), sulla dentizione (esistono fantasiosi stampi per i cubetti di ghiaccio), sulle vac- La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 089

89 cinazioni (si puo` saltare quella contro la varicella). Viene fuori che, riguardo alla cura dei bambini, su Google si possono trovare un sacco di risposte, ma tutte superficiali. Facendo visita alla bambina, molte comprano an- che libri e riviste. A.J. comincia a tenere certi libri solo perche´ pensa che le donne vorranno discuterne. Per qualche tempo, il gruppo si dimostra interessato alle storie contemporanee incentrate su donne in gamba ma intrappolate in matrimoni difficili. Se la donna ha una relazione – non che loro ce l’abbiano, o am- mettano di averla avuta, ovvio –, e` ancora meglio. Il divertimento sta nel giudicarla. L’idea di una madre che abbandona i figli e` inconcepibile; se invece il ma- rito rimane coinvolto in un orribile incidente, la cosa viene accolta da un certo entusiasmo (il top e` se lui muore e lei trova un altro.) I romanzi di Maeve Bin- chy godono di una certa popolarita` finche´ Margene, che in un’altra vita e` stata una consulente finanziaria, solleva l’obiezione che si tratti di vicende troppo ste- reotipate: « Non ne posso piu` di donne che vivono in opprimenti citta` irlandesi e che si sposano troppo giovani con uomini affascinanti e malvagi! » Incorag- giano A.J. ad aumentare il suo impegno nella scelta dei libri. « In un gruppo di lettura, ci vuole un po’ di varieta` », afferma Margene. « Ah, questo sarebbe un gruppo di lettura? » chie- de A.J. La misura della felicità (Fuori commercio 137 x 205 mm) p. 090

90

« E cosa, senno`? » ribatte Margene. « Non pensera` mica che tutti i nostri consigli su come crescere i bam- bini siano gratuiti, vero? » Ad aprile, Una moglie a Parigi. A giugno, Una moglie affidabile. Ad agosto, La moglie americana. A settembre, La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo. A dicembre, A.J. esaurisce i bei libri con la parola « moglie » nel ti- tolo. Leggono Belcanto. « E non sarebbe male se lei ampliasse la sezione dei libri illustrati », suggerisce Penelope, che ha un’aria sempre esausta. « Anche i bambini dovrebbero avere qualcosa da leggere mentre sono qui. » Le donne si portano appresso i figli perche´ giochino con Maya, dunque la richiesta e` ragionevole. Per non parlare del fatto che A.J. e` stanco di leggere Il mostro alla fine di questo libro. Pur non essendo mai stato particolar- mente interessato ai libri illustrati, decide di diventa- re un esperto. Vuole che Maya legga libri illustrati con un valore letterario... sempre ammesso che ci sia- no. Preferibilmente contemporanei. E preferibilmente femministi. Senza principesse. Scopre cosı` che opere del genere esistono davvero. Si appassiona ai libri di Amy Krouse Rosenthal, di Emily Jenkins, di Peter Sis e di Lane Smith. Una sera, si ritrova a dire: « La verita` e` che un libro illustrato ha la stessa eleganza che ho sempre apprezzato nei racconti. Capisci cosa voglio dire, Maya? » Lei annuisce con aria seria e gira la pagina. Continua in liberia in Continua e in ebook... in e

LA STAMPA ITALIANA SU LE COSE CHE NON HO

« Una storia semplice ma estremamente effi cace » La Repubblica

« Delacourt, con dolcezza e stupore privi di retorica, spinge chiunque a pensare alla propria vita e alle ‘cose che non ha’ » ttL La Stampa

« Un romanzo sensibile e attuale » Il Sole 24 Ore.com

« Una prosa incisiva e una costruzione narrativa perfetta » Famiglia Cristiana

« Arriva dritto al cuore » Gioia

« Libro di pensieri molto femminili, è stato scritto da un uomo » Elle

« Ti lascia domande che ti porti dietro per giorni » Donna Moderna Grégoire Delacourt

LA PRIMA COSA CHE GUARDO

Traduzione di Riccardo Fedriga

Romanzo Titolo originale: LA PREMIÈRE CHOSE QU’ON REGARDE

ISBN 978-88-6715-726-6

Per informazioni sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

Copyright © 2013 Éditions Jean-Claude Lattès Copyright © 2014 Adriano Salani Editore s.u.r.l.

Gruppo editoriale Mauri Spagnol Milano

www.salani.it Per Faustine, Blanche, Grâce e Maximilien La prima cosa che guardo 1-224.indd 6 15 / 04 / 2014 17.57 Can you see the real me preacher? Can you see the real me doctor? Can you see the real me mother? Can you see the real me?

Quadrophenia, Pete Townshend, The Who La prima cosa che guardo 1-224.indd 8 15 / 04 / 2014 17.57 Arthur Dreyfuss aveva l’ossessione delle tette. Di quelle grosse intendo. E l’aveva al punto che più di una volta aveva pen- sato: se fossi nato donna, le avrei avute grosse o pic- cole? Perché la madre le aveva piccole, ma la nonna – perlomeno da quel che si ricordava di abbracci soffocanti – aveva una mercanzia di tutto rispetto. Pensava che avere un bel seno obbligasse a un portamento più fl essuoso, più femminile, ed era la grazia di quelle silhouette in fragile equilibrio ad af- fascinarlo, a turbarlo persino. Ava Gardner nella Contessa scalza, Jessica Rabbit in Chi ha incastrato Roger Rabbit, e compagnia bella. Quelle immagini lo mandavano in bambola e lo facevano arrossire. Tette. Le tette mettevano KO, lasciavano senza fi ato, imponevano rispetto. Non esisteva uomo sulla fac- cia della Terra che non tornasse bambino alla vista di un bel paio di tette. Si poteva persino morirne, a causa di quegli sguardi. Propriamente parlando, simili tesori Arthur Drey- fuss non li aveva ancora toccati con mano, ma ne

9 aveva contemplate innumerevoli versioni in vecchie copie sgualcite di L’Homme moderne scovate da PP, e anche su Internet. A dire la verità, aveva sbirciato più volte quelli della signora Rigautmalopolepszy, che in primavera le debordavano dalla camicetta: due meloni scintil- lanti, così pallidi da lasciar affi orare rivoli verde chiaro, febbricitanti, palpitanti, che prendevano vita all’im prov vi so quando lei accelerava il passo per non perdere l’autobus che si fermava due volte al giorno in Grande Rue (una stradina dove il primo settembre 1944 uno scozzese, certo Haywood, era caduto per la liberazione della città), oppure quan- do il suo ignobile botolo rossiccio la trascinava tutto eccitato verso qualche schifezza. In terza la passione del giovane Arthur Dreyfuss per quei frutti carnosi gli aveva fatto scegliere come compagna di banco una certa Nadège Lepetit la quale, sebbene parecchio sgraziata, aveva il vantag- gio di un’abbondante terza coppa C sulla graziosis- sima Joëlle Ringuet, che però era piatta come una tavola. Pessima scelta. L’ingrata proteggeva gelosa- mente i suoi meloncini e proibiva ai buongustai di avvicinarvisi: a tredici anni la prosperosa ortolana, consapevole delle sue grazie, voleva esser convinta che la si amasse per se stessa, e l’Arthur Dreyfuss suo coetaneo non aveva granché dimestichezza con le parole cortesi dalle rime infi de. Non aveva letto Rimbaud né imparato i versi mielosi delle canzoni di Cabrel o quelli, più datati, d’un certo C. Jérôme (per

10 esempio: ‘Non, ne m’abandonne pas/Non, non, mais donne toi’1). Quando venne a sapere che Alain Roger, il suo amico di allora, aveva tenuto in punta di dita le tetti- ne della graziosa Joëlle Ringuet, poi le aveva sfi orate con le labbra e infi ne se le era messe proprio in boc- ca, credette di uscir di senno e si chiese se non do- vesse rivedere drasticamente le sue pretese mamma- rie... verso il basso. A diciassette anni andò ad Albert (tredicesima cit- tà della Somme) con l’orgoglioso Alain Roger per festeggiare la prima paga. Scelse una passeggiatrice dal balcone lussureggiante ma l’impazienza era tale che onorò all’istan te il cavallo dei pantaloni. Scappò via affranto e pieno di vergogna e, benché se lo fosse ripromesso mille volte, senza nemmeno aver avuto occasione di accarezzare, palpare, strizzare, massag- giare quei tesori opalini. E poi morire. Quell’infortunio calmò i suoi bollenti spiriti. Ridi- mensionò le cose. Lesse due romanzi sentimentali dell’americana Karen Dennis, dove scoprì che il de- siderio dell’al tro si rivela talvolta in un sorriso, in un profumo o persino in un semplice sguardo, come gli successe sei mesi più tardi da Dédé la Frite, il bar- tabacchi-articoli da pesca-lotto-giornali del paese... era soprattutto il bar, quello che interessava ai pe- scatori: nelle albe interminabili e gelide l’insegna rossa Jupiler era per loro come la stella del mattino e attirava i fumatori, perché lì la legge del 2006 non valeva.

11 Da Dédé la Frite accadde questa cosa semplicissi- ma: mentre gli si chiedeva cosa desiderasse, Arthur Dreyfuss levò gli occhi a incontrare quelli della nuo- va cameriera. Li scoprì sconvolgenti, grigi come la pioggia; amò il suono della sua voce, il suo sorriso, le gengive rosa, i denti bianchi, il suo profumo... tutte le grazie decantate da Karen Dennis. Dimenticò di guardarle le tette e per la prima volta non gli impor- tò nulla che fossero discrete o succulente, calma piatta o colline. Ebbe allora una rivelazione. Nella vita non esiste- vano solo i seni a fare la grazia di una donna. Fu il suo primo colpo di fulmine. E la sua prima extrasistole auricolare... una specie di aritmia car- diaca. Ma con la summenzionata cameriera non succes- se niente perché era inutile iniziare una storia d’a- more dalla fi ne e soprattutto perché la servetta dagli occhi di pioggia aveva un innamorato: un camioni- sta che faceva Belgio e Olanda, un tizio grande e grosso, ben piantato, con mani da strangolatore, un marcantonio dal bicipite serissimo sul quale era ta- tuato il nome dell’amata: Éloïse; un tipo possessivo, geloso. Le conoscenze di Arthur Dreyfuss in materia di karate e cineserie erano limitate ai precetti del maestro cieco di Kung Fu (indimenticabile maestro Po) e all’urlo selvaggio di Pierre Richard nel Grande biondo (Yves Robert). Preferì dunque dimenticare la poesia del viso di Éloïse, i grigi occhi umidi, le gengive rosa; non andò più a prendere il caffè il mat-

12 tino e smise persino di fumare per non correre il ri- schio di inciampare nel camionista geloso. Per riassumere questo primo capitolo, a causa di un camionista tarchiato e sospettoso, di un’esistenza nel piccolo comune di Long, 687 abitanti, situato nella Somme (il castello del XVIII secolo, la campa- na della chiesa – eggià – i fuochi di san Giovanni, l’organo Cavaillé-Coll e le paludi preservate ecologi- camente con qualche cavallo della Camargue d’im- portazione), a causa di un lavoro da meccanico che ti lascia le dita nere di grasso, Arthur Dreyfuss, an- che se era un bel ragazzo – Éloïse l’aveva paragonato a Ryan Gosling in meglio – viveva da solo in una ca- setta isolata all’uscita del villaggio, un po’ discosta dalla provinciale 32 che porta ad Ailly-le-Haut-Clo- cher. Per chi non lo sapesse, Ryan Gosling è un attore canadese, nato il 12 novembre 1980, assurto agli onori planetari nel 2011, un anno prima di questa storia, con il magnifi co e nerissimo Drive di Nicolas Winding Refn. Poco importa. Il giorno in cui questo libro comincia, bussarono alla sua porta. Arthur Dreyfuss stava guardando un episodio dei Soprano (stagione 3, episodio 7: ‘Problemi di fami- glia’). Sobbalzò. Urlò: chi è? Bussarono di nuovo. Andò ad aprire. E non credette ai suoi occhi. Davanti a lui c’era Scarlett Johansson.

13 Fatta eccezione per una ciucca memorabile al terzo matrimonio di Pascal Payen, detto PP, il suo capo – sbronza che, per inciso, l’aveva fatto piombare in uno stato di tale rimbambimento che aveva succhia- to un cocomero per due giorni – Arthur Dreyfuss non beveva. Magari una Kronenbourg la sera, di tanto in tanto, davanti a una serie tv. Non si poteva dunque imputare la visione di Scar- lett Johansson sulla soglia di casa a un’allucinazione indotta dall’alcol. No. Fino a quel momento Arthur Dreyfuss aveva avu- to una vita normale. Per farla breve e prima di in- contrare la bomba sexy: nato nel 1990 (l’anno dell’u- scita del romanzo Jurassic Park e dello sconvolgente secondo matrimonio d’amore di Tom Cruise con Nicole Kidman) nel reparto maternità del « Camille Desmoulins » ad Amiens, prefettura della Piccardia e capoluogo di provincia; fi glio di Dreyfuss Louis- Ferdinand e di Lecardonnel Thérèse, Marie, Fran- çoise.

14 Figlio unico fi no al 1994, anno in cui arriva Drey- fuss Noiya. Noiya, che signifi ca ‘bellezza di Dio’. E di nuovo fi glio unico nel 1996 quando Inke, il vigoroso dobermann di un vicino, confonde la ‘bel- lezza di Dio’ con la ciotola della pappa. Il volto e la mano destra della piccola escono dal posteriore del- l’anima le sotto forma di sterco di canis lupus familia- ris, abbandonato all’ombra tiepida della ruota di una Grand Scénic. La comunità si stringe attorno alla famiglia straziata. Arthur Dreyfuss bambino non piange perché le sue lacrime provocano quelle della madre; le fanno dire cose orrende sul mondo, la pretesa bellezza delle cose e l’abominevole crudel- tà di Dio. Il bambino di nuovo fi glio unico tiene per sé il suo dolore, come biglie in fondo a una tasca, pezzetti di vetro. Ci si impietosisce; gli si passano le mani tra i ca- pelli, si mormora ‘poverino’ o ‘povero bambino’ o ‘è dura per un bambino così piccolo’. È un periodo tri- ste e gioioso insieme. A casa Dreyfuss si mangiano un sacco di dolci ai datteri, di baklava e di baba ga- nush e, per non far torto alla cucina piccarda, dolci al formaggio, charlotte al caffè e alla cicoria; lo zuc- chero fa crescere e diluisce il dolore. La famiglia orbata trasloca nel piccolo comune di Saint-Saëns (Seine-Maritime), ai piedi della foresta demaniale di Eawy, dove Dreyfuss Louis-Ferdinand diventa guardia forestale. Certe sere, torna con fa- giani, pernici rosse e altra selvaggina che la moglie piccarda trasforma in pasticci, suprême e spezzatini.

15 Una volta arriva con le spoglie di una volpe per far- ne un manicotto di pelliccia (si avvicina l’inverno), ma Lecardonnel Thérèse urla pallidissima che mai e poi mai metterà le mani in un cadavere. Un giorno il bracconiere esce come tutte le matti- ne; la bisaccia, qualche trappola in spalla. Sulla por- ta, come ogni mattina, esclama: a stasera! Ma nessu- no lo rivede né quella sera, né nessun’altra sera. I gendarmi abbandonano le ricerche in capo a una decina di giorni; è sicura che non avesse qualcuno in città, un’amichetta? Gli uomini spesso scompaiono così: un prurito alle parti basse, una fi ammata di de- siderio, il bisogno di sentirsi vivi, le solite cose. Nes- suna traccia, niente impronte né un corpo. Lecar- donnel Thérèse perde rapidamente la poca gioia di vivere che le rimane, si attacca al Martini la sera, al- l’ora in cui tornava la guardia forestale, poi sempre prima, fi no a cominciare all’ora antelucana in cui lui usciva di casa. Il vermut (18°) al l’ini zio la rianima (Arthur Dreyfuss vi attingerà una certa nostalgia ta- citurna) poi, poco a poco, la fa piombare in una ma- linconia terribile che, come nella Finestra aperta, le farà vedere il fantasma della guardia forestale che ricompare a ore strane. Poi altri spettri. Un quadrupede carnivoro. Un’attrice americana che impersonava Cleopatra. Carne attorno agli avambracci. Palpebre di polvere. Talvolta la sera Arthur Dreyfuss piange nella sua stanza sentendo la voce triste e roca di Edith Piaf

16 provenire dalla cucina e immaginando le tenebre che avvolgono sua madre. Non osa dirle che ha pau- ra di perdere anche lei, di ritrovarsi solo. Non riesce a dirle che le vuole bene, è così diffi cile. A scuola Arthur Dreyfuss è nella media. È un compagnone. Imbattibile agli astragali, un gioco tornato di moda. Piace anche alle ragazze, viene eletto secondo maschio più carino della classe; il pri- mo è un gran tenebroso, dall’aria gotica, la pelle dia- fana, le orecchie forate come la linea tratteggiata per strappare la carta, un tatuaggio attorno al collo (una corda attorcigliata, che si è fatto fare in seguito alla lettura in preda ai fumi dell’alcol della Ballata degli impiccati) e soprattutto poeta: rime scorreggione, as- sonanze scatologiche, parole idiote. Esempio: ‘Vive- re è marcire, per ridere è morire’. Le ragazze l’ado- rano. L’unica debolezza nota di Arthur Dreyfuss è in educazione fi sica: un giorno, mentre guarda una cer- ta Liane Le Goff – una coppa E (due zucche da pau- ra, in stile Jayne Mansfi eld o Christina Hendricks) – saltare al cavallo, sviene. L’arcata sopraccigliare sbatte contro le zampe metalliche dell’attrezzo, la pelle si apre con abbon- dante fuoriuscita di sangue. Fu elegantemente ricu- cito e da allora conserva sul sopracciglio un ricordo discreto di quella meravigliosa vertigine. Non detesta leggere, al contrario, ama guardare i fi lm – soprattutto le serie, perché ha la possibilità di affezionarsi, di voler bene ai personaggi, come a una

17 famigliola – gli piace anche smontare (e rimontare) tutto ciò che è dotato di un motore o di un meccani- smo. Leggerà dunque le istruzioni dei motori e dei meccanismi. La scuola gli troverà un posto da ap- prendista da Pascal Payen, detto PP, offi cina multi- marche a Long, dove un giorno scoprirà un libro di poesie e un mestiere appassionante che lascia le dita nere di grasso, che fa dire alle signore in panne: sei un genio, mio caro, e un bel ragazzo, e ai signori in panne: più veloce, fi gliolo, è l’unica cosa che mi inte- ressa; un lavoro che ben presto gli fa guadagnare de- naro suffi ciente ad accendere un mutuo per una ca- setta (due piani, 67 metri quadri) all’uscita del pae- se, poco discosto dalla provinciale 32 che porta ad Ailly-le-Haut-Clocher dove, nei giorni di vento for- te, la pasticceria Leguiff avvolge l’abitato con il pro- fumo dei croissant caldi e delle brioche con lo zuc- chero di canna – anche se la mattina tragica non ci sarà un fi lo d’aria – una casetta alla porta della quale un giorno busserà Scarlett Johansson. Ed eccoci ritornati fi nalmente al punto.

18 Scarlett Johansson sembrava sfi nita. I capelli, di due colori diversi, erano un disastro. Ricadevano pesanti, come al rallentatore. Sulla boc- ca carnosa non c’era traccia del famoso rossetto. Il rimmel era colato sotto gli occhi come fuliggine, creando occhiaie malinconiche. E con grande infeli- cità di Arthur Dreyfuss, indossava un pullover largo. Un pullover che le stava come un sacco, una vera in- giustizia: non rivelava nulla delle forme dell’attrice, che come tutti sanno benissimo sono da schianto, capaci di stregare. Al braccio portava una Vuitton dai colori acidi che aveva l’aria di essere farlocca. Quanto ad Arthur Dreyfuss, aveva la sua mise da telenovela: canotta bianca e boxer dei Puffi ; lonta- nissimo dall’immagine di Ryan Gosling in meglio. Eppure. Eppure, nel momento stesso in cui si guardarono, scappò loro un sorriso. Si trovarono belli? Rassicuranti? Si era aspettato, quando avevano bussato alla porta, un’emergenza, un giunto di testa che aveva ceduto, una biella rotta,

19 un problema al fl ussometro? Si era aspettata, men- tre lui apriva la porta, un pervertito, una vecchia piena di porri, un viso anziano? Rimane il fatto che quei due, improbabili, si sorrisero come davanti a una bella sorpresa e che dalla bocca secca di Arthur Dreyfuss, in preda al suo secondo colpo di fulmine (mani sudate, tachicardia, velo di sudore, piccoli aghi di ghiaccio nella schiena, lingua ruvida, impa- stata) uscì una parola sconosciuta. Comine. (Per i lettori linguisti esigenti e gli appassionati di geografi a, occorre precisare che esiste effettivamen- te una città che si chiama Comines, sita a Quesnoy- sur-Deûle, nel Nord, vicino alla frontiera belga – probabilmente una cittadina letargica, vi si contano non meno di cinque comitati di feste per tentare di darle uno scrollone – ma detta città non ha niente a che fare con questa storia.) Nel momento stesso in cui vide Scarlett Johans- son sulla soglia di casa, ad Arthur Dreyfuss il timido comine parve la cosa più sensata, la più educata, la più carina da dire dato che, a giudicare dai sottotito- li che la accompagnano nelle serie tv che lui guarda in versione originale, signifi ca si accomodi. E quale uomo di mondo, anche se in canotta e bo- xer dei Puffi , non avrebbe detto si accomodi alla fe- nomenale attrice di Lost in Translation? La fenomenale attrice sussurrò Thank you, facen- do spuntare la punta rosa della lingua tra le labbra nel pronunciare il th, ed entrò.

20 Chiudendo con delicatezza la porta, le mani suda- te, il cuore in preda a un’improvvisa extrasistole au- ricolare – sì, stava per morire, sì, a quel punto poteva morire – lanciò un’occhiata furtiva all’esterno per vedere se c’erano telecamere e/o bodigard e/o una candid camera, poi mise il catenaccio, per niente rassicurato.

21 IN TESTA ALLE CLASSIFICHE IN USA E FRANCIA GRAZIE AL PASSAPAROLA » LA GAJA SCIENZA«

VOLUME 1140

La sposa silenziosa 1-336.indd© 1Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 LA SPOSA SILENZIOSA

Romanzo di A.S.A. HARRISON

Traduzione di ALISA MATIZEN e IRENE ABIGAIL PICCININI

La sposa silenziosa 1-336.indd© 3Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 proprietà letteraria riservata Longanesi & C. © 2014 - Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol

www.longanesi.it

ISBN 978-88-304-3935-1

Titolo originale Th e Silent Wife

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

Copyright © A.S.A. Harrison, 2013 All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form. Th is edition published by arrangement with Penguin Books, a member of Penguin Group (Usa) LLC, A Penguin Random House Company

La sposa silenziosa 1-336.indd© 4Longanesi & C. S.p.A. 15 / 04 / 2014 15.06 PARTE PRIMA Lei e lui

La sposa silenziosa 1-336.indd© 7Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 1 Lei

Sono i primi di settembre. Jodi Brett, in cucina, prepara la cena. Grazie all’open space, il suo sguardo può vagare senza ostacoli per il soggiorno fi no alle fi nestre aff accia- te a est e da lì abbracciare una prospettiva di lago e cie- lo, fusi dalla luce serale in un azzurro uniforme. Una li- nea sottile di una tinta più scura, l’orizzonte, sembra vi- cinissima, quasi la si potesse toccare. Le piace l’arco che si delinea, ha come la sensazione di essere racchiusa in un cerchio. L’impressione di contenimento è ciò che ama di più di quell’appartamento appollaiato al venti- settesimo piano. A quarantacinque anni, Jodi si sente ancora una don- na giovane. Non guarda tanto al futuro ma vive radica- ta nel presente, immersa nella vita quotidiana. Dà per scontato, ma non perché ci abbia rifl ettuto, che la sua esistenza andrà avanti indefi nitamente nel suo equili- brio imperfetto ma del tutto accettabile. In altre parole, non sa che la sua vita sta arrivando al culmine, che la sua resilienza giovanile – lentamente intaccata dai ven- t’an ni di convivenza con Todd Gilbert – si avvicina a una fase fi nale di disintegrazione, che l’idea che ha di sé e di cosa sia giusto è molto meno granitica di quanto immagini, considerato che entro pochi mesi diventerà un’assassina.

La sposa silenziosa 1-336.indd© 9Longanesi & C. S.p.A. 15 / 04 / 2014 15.06 10 Se qualcuno glielo dicesse, non ci crederebbe. La pa- rola omicidio fi gura a stento nel suo vocabolario, è un concetto privo di signifi cato, oggetto di articoli di gior- nale che riguardano persone che lei non conosce e non incontrerà mai. La violenza domestica le sembra del tutto inverosimile, non riesce a concepire che in un nu- cleo familiare i dissidi quotidiani possano aggravarsi a tal punto. Questo genere di incomprensione ha motiva- zioni che vanno al di là della sua personale abitudine all’autocontrollo: ben lungi dall’essere idealista, è con- vinta che nella vita si debba prendere il bello con il brutto, ha un carattere accomodante e non raccoglie fa- cilmente le provocazioni. Il cane, un golden retriever con il pelo biondo e seto- so, le sta seduto ai piedi mentre lei taglia le verdure. Ogni tanto Jodi gli lancia una fettina di carota cruda che lui addenta al volo e tritura contento. Questi lanci rap- presentano un consolidato rituale prima della cena, in- staurato il giorno stesso in cui Jodi lo portò a casa: con quel cucciolotto grassottello voleva distogliere Todd dal desiderio di progenie nato, in apparenza da un giorno all’al tro, intorno ai quarant’anni. L’aveva chiamato Freud, pregustando le battute che avrebbe potuto snoc- ciolare sul quel misogino omonimo che al l’uni ver si tà era stata costretta a prendere sul serio. Freud che fa le puzze, Freud che mangia spazzatura, Freud che si morde la co- da. Il cane, che ha un ottimo carattere, si lascia prendere in giro. Quando pulisce le verdure o trita le erbette, Jodi la- vora con trasporto. Cucinare ha un’intensità che le pia- ce: la pronta risposta della fi amma del gas, il timer che

La sposa silenziosa 1-336.indd© 10Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 11 scandisce i minuti, l’immediatezza del risultato. Immer- sa nel silenzio della casa, pregusta il momento in cui sentirà girare la chiave nella serratura. Cucinare per Todd è ancora un’occasione felice e continua a stupirsi di come è entrato nella sua vita: un evento del tutto ca- suale che non lasciava presagire sviluppi e tantomeno un futuro di cenette appetitose preparate con amore. Era successo in una piovosa mattina di primavera. In quel periodo era davvero esausta. Sotto pressione con gli studi di psicologia, il lavoro di cameriera in un locale la sera, quel giorno stava anche traslocando. Era diretta verso nord, lungo State Street, alla guida di un furgone stipato di tutti i suoi averi. Mentre stava per cambiare corsia da destra a sinistra, forse aveva lanciato un’oc- chiata allo specchietto, forse no. Aveva appena noleg- giato il furgone e alla guida era molto impacciata. Ol- tretutto i fi nestrini erano appannati e all’ultimo semafo- ro aveva mancato per un pelo il verde. Date queste pre- messe, è possibile che fosse distratta: una questione che in seguito era stata ampiamente dibattuta tra loro. Quando lui aveva urtato la portiera del furgone dal lato del conducente mandandolo in testacoda nel traffi co, le macchine in arrivo si erano messe a strombazzare tra gli stridii delle frenate. Ancor prima che lei riuscisse a ri- prendersi dallo spavento, e a rendersi conto di non es- sersi fatta niente, lui si era messo a urlare col naso appic- cicato al fi nestrino. « Ma cosa cazzo stavi facendo? Sei impazzita? Dove hai imparato a guidare? Adesso ti decidi a scendere o pensi di startene lì seduta fi no a stasera? » Quel giorno, sotto la pioggia, le sue esternazioni non

La sposa silenziosa 1-336.indd© 11Longanesi & C. S.p.A. 15 / 04 / 2014 15.06 12 le avevano dato un’impressione favorevole, ma un uo- mo che ha appena avuto un incidente di solito va su tutte le furie anche quando è in torto, e in quel caso lui aveva pure ragione. Perciò, quando un paio di giorni dopo l’aveva chiamata per invitarla a cena, lei aveva ac- cettato di buon grado. La portò nel quartiere greco, dove mangiarono sou- vlaki di agnello innaffi ato con retsina freddo. Il risto- rante era aff ollato, i tavoli molto ravvicinati, le luci for- ti. Si ritrovarono a gridare nel frastuono e a ridere per- ché non riuscivano a sentirsi. La conversazione ruotò intorno a poche frasi succinte: « Buono, questo piatto... mi piace il posto... avevo i fi nestrini appannati... se non fosse capitato, però, non ci saremmo conosciuti... » Non le capitava spesso di uscire per una serata con tutti i crismi. I ragazzi che conosceva al l’uni ver si tà la portavano a prendere una pizza e una birra, pagando solo la loro parte. Le davano appuntamento diretta- mente nel locale, arrivavano trasandati e con la barba lunga, quasi sempre con gli stessi vestiti che avevano a lezione. Todd invece si era messo una camicia pulita, era passato a prenderla in macchina e poi erano andati insieme al ristorante... A tavola lui era stato molto pre- muroso, le riempiva il bicchiere e si preoccupava che tutto andasse bene. Jodi si gustava lo spettacolo, apprez- zando la disinvoltura con cui lui si muoveva, la sua sicu- rezza nel tenere ogni cosa sotto controllo. Le era piaciu- to che avesse pulito il coltello sul pane, come si fa a casa, e che alla fi ne avesse tirato fuori la carta di credito senza guardare il conto. Tornati al pick-up, Todd la portò a vedere il suo can-

La sposa silenziosa 1-336.indd© 12Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 13 tiere a Bucktown, dove stava ristrutturando una vecchia dimora ottocentesca, che per un certo periodo era stata trasformata in una pensione, ma che ora sarebbe torna- ta a essere un’abitazione monofamiliare. Mentre la gui- dava lungo il vialetto malridotto, la tenne leggermente per il gomito. « Attenta adesso. Guarda dove metti i piedi. » Era una specie di casa degli orrori: mattoni sgretolati, intonaci che si sfaldavano e fi nestre strette, con ghim- berghe appuntite che conferivano all’edifi cio una mi- nacciosa spinta verso l’alto. Un’aberrazione in una stra- da di edifi ci squadrati completamente rimessi a nuovo. Sul davanti, al posto della veranda, campeggiava una scala a pioli su cui bisognava salire per entrare, schivan- do un enorme lampadario appoggiato di lato nell’in- gres so. Il soggiorno, tra cumuli di macerie e fi li che pen- devano, assomigliava a una cripta con un soffi tto assur- damente alto. « Prima qui c’era un muro », disse lui, facendole un cenno. « Si vede l’impronta. » Lei guardò il pavimento in parquet a cui mancavano alcune tavole. « Quando l’hanno trasformata in una pensione han- no tirato su un sacco di tramezzi. Adesso torneremo alla confi gurazione originaria. Vedi come sta riprendendo forma? » Per lei era diffi cile immaginare qualunque genere di risultato. L’assenza di illuminazione non aiutava, l’uni- ca luce era un pallido riverbero proveniente dai lampio- ni della strada. Lui accese una candela, che fi ssò su un piattino dopo avervi fatto cadere qualche goccia di cera

La sposa silenziosa 1-336.indd© 13Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 14 liquida. Era ansioso di portarla a fare il giro della casa. Alla luce della candela visitarono i vari ambienti: la cu- cina, poi quello che sarebbe tornato a essere un salotti- no, spazi provvisori defi niti da muri malridotti. Al pia- no di sopra, le vestigia della pensione erano più eviden- ti, le porte delle camere chiuse dai saliscendi e le pareti dipinte di colori improbabili. Si sentiva un forte odore di muff a e c’era una strana atmosfera, con il legno che scricchiolava sotto i piedi e la candela che formava onde di luce proiettando le loro ombre su pareti e soffi tti co- me fossero fantasmi. « Non è una ristrutturazione conservativa, sarà tutto ammodernato », le spiegò. « Pavimenti in rovere, porte interne in massello, fi nestre con i doppi vetri... Sarà una casa da sogno, un edifi cio d’epoca con una spiccata per- sonalità, ma assolutamente solido e funzionale. » Si occupava lui di ogni cosa, le raccontò, imparando il mestiere un passo per volta, senza aiutanti. Lasciata l’università, aveva preso in prestito un po’ di soldi, vi- vendo di credito e ottimismo. Lei capì quanto fosse in ristrettezze quando vide il sacco a pelo arrotolato in una delle camere da letto e nel bagno un rasoio e una bom- boletta di schiuma da barba. « Allora, che ne pensi? » le chiese quando furono di nuovo al pianterreno. « Mi piacerebbe vederla quando sarà fi nita. » Lui rise. « Dimmi la verità. Credi che io abbia fatto il passo più lungo della gamba? » « È un progetto ambizioso. » « Resterai a bocca aperta. »

La sposa silenziosa 1-336.indd© 14Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 15 *

Quando lo sente entrare, il lago e il cielo si sono stem- perati in un crepuscolo vellutato. Spegne la luce centra- le e lascia che siano i faretti a orchestrare un bagliore in- tenso, si toglie il grembiule, si lecca le dita per lisciarsi i capelli alle tempie e intanto tende l’orecchio per ascol- tare i rumori provenienti dal l’in gres so. Todd giocherel- la con il cane, appende la giacca e svuota le tasche nella ciotola di bronzo sulla mensola. Segue un breve silenzio mentre guarda la posta. Jodi sistema una trota aff umi- cata su un piatto nel quale ha disposto un ventaglio di cracker. Todd è un uomo alto e robusto, con i capelli color sabbia, occhi grigio ardesia e un’immensa carica vitale. Quando Todd Gilbert entra in una stanza, le persone si voltano a guardarlo. È questo che direbbe Jodi, se qual- cuno le chiedesse cosa ama di più in lui. E poi aggiun- gerebbe che riesce a farla ridere quando vuole e che, a diff erenza di molti altri uomini, sa fare più cose in una volta: per esempio se sta rispondendo al cellulare riesce ad allacciarle il gancetto della collana o a farle vedere come si usa un cavatappi da sommelier a doppio dente. Lui le schiocca un bacio in fronte, le gira intorno e prende i bicchieri da cocktail dal mobile. « Sembra squi- sito », dice. « Che cos’è? » Si riferisce al pezzo di carne in crosta dorata che è uscito dal forno e troneggia sulla te- glia. « Filetto alla Wellington. L’abbiamo già mangiato, ri- cordi? Ti piace. » Lui ha il compito di preparare i Martini. Mentre si

La sposa silenziosa 1-336.indd© 15Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 16 occupa della marinata per le verdure, Jodi sente gli scricchiolii dei cubetti di ghiaccio e l’aroma intenso rila- sciato dal limone appena tagliato. Lui la urta, sbatte ru- morosamente gli oggetti, sta sempre in mezzo ai piedi, ma a lei piace averlo vicino, la sua mole è per lei rassicu- rante. Jodi annusa l’odore della sua giornata, gravita in- torno al calore del suo corpo. È sempre caldo, un dato signifi cativo per una che ha quasi sempre freddo. Dopo averle messo il Martini sul bancone, lui si por- ta il drink in soggiorno insieme alla trota, si siede met- tendo i piedi sul tavolino e apre il giornale che lei gli ha lasciato lì sopra ben ripiegato. Lei mette i fagiolini e le carotine in due contenitori separati per la cottura al va- pore e prende il primo sorso del suo cocktail: le piace sentire la vodka che va subito in circolo nel suo corpo. Dal divano lui commenta ad alta voce le notizie del giorno: le prossime Olimpiadi, un’impennata dei tassi di interesse, le previsioni di pioggia. Dopo avere man- giato quasi tutta la trota e il fondo del suo Martini, lui si alza e apre una bottiglia di vino mentre lei taglia la carne a fette robuste. Portano i piatti al tavolo, da dove godono entrambi della vista sul cielo lucente. « Com’è andata la tua giornata? » le chiede lui aff on- dando la forchetta. « Ho visto la Bergman », dice lei. « La Bergman. E che cos’aveva da dire? » È concentra- to a divorare il fi letto e parla senza alzare gli occhi dal piatto. « Mi ha ricordato che sono passati tre anni da quando ha fatto la pubblicità del budino. Credo che la sua idea fosse di scaricare parte della colpa su di me. »

La sposa silenziosa 1-336.indd© 16Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 17 Dei pazienti di Jodi lui sa solo i nomi in codice. Con il fatto che vanno e vengono quando lui è al lavoro, non ne ha mai incontrato uno, ma lei lo tiene aggiornato ed è come se Todd li conoscesse tutti a fondo. Lei non ci vede niente di male, fi ntanto che i loro nomi veri ri- mangono segreti. Bergman è il soprannome di un’attri- ce disoccupata il cui ultimo lavoro – la leggendaria pub- blicità del budino – è un lontano ricordo. « Quindi adesso è colpa tua », osserva Todd. « Sa che è la sua disperazione ad allontanare la gente e si chiede perché non l’ho aiutata. Accidenti! Ci abbia- mo lavorato per mesi. » « Non so come fai a sopportarla. » « Se la vedessi capiresti. È forte, una vera combatten- te. Non molla mai e prima o poi cambierà. » « Io non avrei la pazienza. » « Ce l’avresti, se ti importasse di loro. Lo sai che per me i pazienti sono come fi gli. » Un’ombra gli scurisce il viso e lei capisce che il riferi- mento ai fi gli surrogati gli ha fatto pensare ai fi gli veri che non ha. Allora torna a parlare della Bergman: « Mi preoccupo per lei, però. Lei non può credere in se stessa se nessuno l’assume, ma nessuno l’assumerà perché lei non crede in se stessa, e francamente non so se la sto aiutando davvero. A volte mi dico che dovrei interrom- pere e consigliarle di rivolgersi a un altro terapeuta ». « Perché non lo fai? Se tanto non arrivi da nessuna parte... » « Be’, non è che non stiamo andando da nessuna par- te. Come ti dicevo, quantomeno ha capito che cosa sta facendo a se stessa. »

La sposa silenziosa 1-336.indd© 17Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 18 « Questa carne è squisita. Come sei riuscita a farla en- trare nella pasta sfoglia? » Neanche fosse un veliero in una bottiglia, ma Jodi sa che lui non sta scherzando. Per essere un uomo capace di tirare su muri e gettare fondamenta, è incredibilmen- te ingenuo quando si tratta di cucina. « È avvolta. Pensa all’isolamento intorno a una tuba- tura. » Ma lui ha lo sguardo perso e non sembra registrare la risposta. Ha sempre avuto questi istanti di assenza, per quanto lei abbia l’impressione che ultimamente si siano fatti più frequenti. Un minuto è qui, quello dopo è andato, trasportato da una corrente di pensieri, congetture, preoccupazioni, chi lo sa? È possibile che stia contando in silenzio fi no a cento o che stia recitando mentalmen- te i nomi dei presidenti. Ma non può dire niente sul suo umore. Da qualche tempo è decisamente più allegro, più simile all’uo mo di una volta, al punto che Jodi co- mincia a pensare che la depressione sia archiviata. A un certo punto aveva cominciato a temere che non passasse più. Durava da qualche tempo e neppure Freud era ser- vito a scuotergliela di dosso. Freud da cucciolo, con le sue buffi ssime pose, era meglio di un giullare di corte. Durante le cene, Todd era sempre riuscito a fi ngere: faceva scorrere l’alcol, mostrava il proprio lato più aff a- bile, faceva star bene gli altri. Le donne sono sensibili alle parole di Todd, perché sanno che lui è schietto e ge- neroso. Rosalie, hai di nuovo bevuto dalla fontana della giovinezza. Deirdre, sei così bella che viene voglia di man- giarti. Ci sa fare anche con gli uomini, li lascia parlare

La sposa silenziosa 1-336.indd© 18Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 19 senza mettersi in competizione e fa ridere gli altri con le imitazioni: il naturopata indiano (Lei accumula trooppe, trooppe tensioni... deve andare piaano, piano piaano), il meccanico giamaicano (La magghina bisogna due gom- me nuove... alza il gofano, sogio). Ora sta decisamente meglio, è più vitale e di nuovo capace di ridere anche quando sono soli, è più rilassato e disteso, la impensierisce meno, è tornato il Todd dei primi anni... anche se sono passati i tempi in cui se ne stavano nudi a letto a leggere il giornale, a guardare la partita e a condividere una scodella di cornfl akes, con il cartone del latte in bilico sulla colonnina all’e stre mi tà della testiera, lo zucchero che dal sacchetto si rovesciava sulle lenzuola. Allora avevano la libertà di chi ancora non si conosce quasi per nulla; si godevano la tranquilla prospettiva di un futuro con tutte le porte ancora aperte e le promesse ancora da mantenere. « A che cosa stai pensando? » gli chiede. Lui sbatte le palpebre e sorride. « È tutto squisito », dice. Prende la bottiglia del vino già mezza vuota e riempie i bicchieri. « Come ti sembra questo vino? » Gli piace parlare di vino. Qualche volta, su quello che stanno bevendo può ruotare la conversazione del- l’inte ra cena. Ma adesso, invece di aspettare la sua rispo- sta, si batte la mano sulla guancia e dice: « Ah, volevo dirti... i ragazzi stanno organizzando un weekend di pe- sca ». « Un weekend di pesca », ripete lei. Lui ha spazzolato le sue due fette di fi letto in crosta e sta facendo scarpetta con un pezzo di pane. « Partenza venerdì dopo il lavoro. Rientro domenica. »

La sposa silenziosa 1-336.indd© 19Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 20 Todd non ha mai passato un intero fi ne settimana a pescare e, per quanto ne sa lei, neppure gli altri suoi amici. Capisce subito, non ha alcun dubbio, che l’e- spressione « weekend di pesca » nasconde qualcosa. « Ci vai? » gli chiede. « Ci sto pensando. » Ancora a metà del piatto, lei cerca di accelerare. Jodi sa di avere un modo di mangiare – a bocconi minuscoli che tiene prigionieri in bocca – che mette a dura prova la pazienza di Todd. A un certo punto le va di traverso un boccone. Ha un conato di vomito. Todd, intrepido, balza su e le batte sulla schiena, mentre lei tossisce respi- rando a fatica. Il grumo fi nalmente schizza fuori fi nen- dole in mano. Senza guardarlo, Jodi lo appoggia sul bordo del piatto. « Fammi sapere che cosa decidi », gli dice, mentre usa il tovagliolo per asciugarsi gli angoli degli occhi. « Se vai, potrei far pulire i tappeti. E fare la marmellata. » Non ha in progetto nessuna delle due cose; lo dice tanto per dire. Ha sempre considerato un punto a favo- re di Todd che non le racconti bugie, vale a dire che non infi oretti i suoi racconti con il genere di dettagli che li trasformerebbero in bugie. Il problema è che lui non va via nei fi ne settimana, non lo ha mai fatto. « Ehi », dice lui. « Ho una cosa per te. » Esce dalla stanza e torna con un pacchetto: un rettan- golo piatto, grande all’incirca come un libro in edizione economica, avvolto in carta marrone e chiuso. Glielo mette vicino al piatto e torna a sedersi. Le fa spesso dei regali ed è una cosa che a lei piace, ma le piace di meno se il regalo ha lo scopo di placarla.

La sposa silenziosa 1-336.indd© 20Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 21 « Per quale occasione? » gli chiede. « Senza occasione. » Ha un sorriso sul viso ma l’atmosfera è tesa. Dovreb- bero esserci oggetti che volano per la stanza, teste che girano sui colli. Lei prende il pacchetto e lo trova quasi senza peso. Lo apre con facilità e, tra due strati protetti- vi di cartone, Jodi tira fuori un piccolo quadro, un bel dipinto Rajput, originale. La scena, nei toni del blu e del verde, ritrae una donna in abito lungo in piedi in un giardino recintato. È circondata da pavoni e gazzel- le, adorna di gioielli d’oro elaborati, e nessuna preoccu- pazione materiale o inquietudine terrena sembra sfi o- rarla. Alcuni rami creano con le loro foglie un arco pro- tettivo sopra la sua testa e l’erba sotto i suoi piedi è un ampio tappeto verde. Studiano la scena insieme, com- mentano le decorazioni all’henné sulle mani della don- na, il suo piccolo cestino bianco, il suo corpo incante- vole che si intravede attraverso il tessuto velato della gonna. Mentre notano i dettagli raffi nati e i blocchi uniformi di colore, la loro vita torna con discrezione al- la normalità. Ha fatto bene a prenderglielo. Todd ha buone intuizioni. È quasi ora di andare a dormire e lei sparecchia e co- mincia a lavare i piatti. Lui si off re di aiutarla, ma tutti e due sanno che la cosa migliore è lasciare che lei sistemi la cucina mentre lui porta il cane a fare due passi. Non che lei sia così esigente nel rassettare. Non ha standard irragionevoli ma, se ti metti a lavarla, poi la teglia del- l’arro sto non dovrebbe essere ancora unta e soprattutto non dovresti togliere via l’unto residuo asciugandola con lo strofi naccio che userai anche per i calici. È una

La sposa silenziosa 1-336.indd© 21Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 22 questione di buon senso. Lui non è sbadato quando si tratta di edilizia. Se stesse montando uno scaff ale non lo fi sserebbe inclinato in modo che tutti gli oggetti che ci sono sopra fi niscano sul pavimento e si rompano. Ci metterebbe attenzione e farebbe un buon lavoro e nes- suno, osservandolo, lo defi nirebbe un perfezionista o lo accuserebbe di essere puntiglioso e pedante. Non che lei si lamenti. È risaputo che in certi contesti i punti di for- za delle persone si trasformano in epici difetti. L’impa- zienza di Todd per i lavori domestici deriva dal fatto che la sua energia prorompente oltrepassa la scala dei compiti da eseguire. Lo vedi da come riempie una stan- za, da come incombe possente in uno spazio circoscrit- to, ha un timbro di voce forte, i suoi gesti spazzano l’a- ria. È un uomo che deve stare al l’aper to o in un cantie- re, dove il suo fi sico ha un senso. A casa, spesso dà il meglio quando è addormentato di fi anco a lei, la sua mole a riposo e la sua energia acquietata in una specie di confortante assenza. Lavati i piatti, Jodi si aggira per casa, tira le tende, sprimaccia cuscini, raddrizza quadri, raccoglie pelucchi dal tappeto e, in generale, crea lo scenario nel quale vuole risvegliarsi al mattino. Per lei è importante avere tutto serenamente al suo posto quando comincia la giornata. In camera da letto rimbocca le coperte e tira fuori il pigiama per lui e la camicia da notte per sé, liscia il tessuto e li piega in modo che assomiglino di meno a corpi inanimati. Anche così, qualcosa la spaventa: il bordino bianco del pigiama scuro, le stringhe di seta della camicia da notte. Lascia la stanza ed esce sul balco- ne. C’è un vento aspro e, nella notte senza luna, la vista

La sposa silenziosa 1-336.indd© 22Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 23 è di un nero smisurato. Jodi si sporge verso l’oscurità pungente, godendosi il senso di isolamento: indugia fi nché non ci perde gusto e allora torna dentro. È felice della stabilità e della sicurezza della sua vita, è arrivata a dare un grande valore alle libertà quotidiane, all’assenza di ristrettezze e complicazioni. Rinunciando al matri- monio e ai fi gli ha rinunciato ai vincoli, una condizione che le ispira un tonifi cante senso di leggerezza. Non ha rimpianti. I suoi istinti accuditivi trovano sfogo con i suoi pazienti e, dal punto di vista pratico, è come se fos- se regolarmente sposata. Le sue amiche ovviamente la conoscono come Jodi Brett, ma per la maggior parte della gente lei è la signora Gilbert. Le piacciono quel nome e quel titolo; le conferiscono una specie di pedi- gree, una sorta di versatile compendio che la solleva dal dover correggere le persone o fornire spiegazioni o ri- correre a termini sgraziati come compagno e convivente.

Al mattino, dopo che lui è uscito per andare al lavoro, lei si alza, si veste e porta il cane a passeggio sul lungola- go fi no al Navy Pier. Il sole scintilla in una foschia latti- ginosa, spargendo una rete d’argento sull’ac qua. Il ven- to che viene dal lago è pungente, carico di intensi odori di olio del motore, pesce e legno marcio. A quel l’ora il molo è come un gigante addormentato, il battito lento e il respiro fi evole. Non ci sono turisti, solo gente che porta a passeggio il cane o fa jogging mentre le barche ondeggiano nello sciabordio dell’ac qua, la giostra e la ruota panoramica hanno un’aria abbandonata, i gabbia- ni si tuff ano per fare colazione. Quando si gira verso la

La sposa silenziosa 1-336.indd© 23Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 24 città, il profi lo dei grattacieli si erge lungo la riva, illu- minato in modo spettacolare dal sole che sorge. È arri- vata a Chicago più di vent’anni fa per studiare e si è su- bito sentita a casa. Ci abita non solo in senso fi sico, ma anche caratteriale. Dopo le limitazioni di una piccola città, si è entusiasmata per i palazzoni torreggianti, la calca, la gente dalle origini più disparate e persino le in- clemenze meteorologiche. Lì è diventata maggiorenne, forgiando la sua identità, lì è fi orita come donna e come professionista. Aveva cominciato a esercitare nella primavera in cui aveva terminato gli studi. All’epoca viveva con Todd in un bilocale a Lincoln Park. I primi pazienti le erano ar- rivati tramite i contatti dell’uni ver si tà e li vedeva nel soggiorno mentre Todd era al lavoro. Già da studentes- sa ai primi anni aveva deciso che il suo sarebbe stato un approccio eclettico – avrebbe attinto dalle proprie co- noscenze la strategia terapeutica più indicata a seconda del caso –, e perciò praticava l’ascolto attivo, si affi dava alla psicologia della Gestalt per l’interpretazione dei so- gni e sfi dava apertamente gli atteggiamenti e i compor- tamenti controproducenti. Consigliava alle persone di chiedere a se stesse qualcosa di più e di assumersi la re- sponsabilità del proprio benessere. Le incoraggiava e of- friva feedback positivi. Faceva pazientemente procedere le persone col loro passo. Il suo pregio principale era una spiccata e genuina cordialità: i suoi pazienti le pia- cevano e concedeva sempre loro il benefi cio del dubbio, il che li metteva a loro agio. I pazienti parlavano bene di lei e la sua attività cresceva. Per quasi un anno era andata avanti senza intoppi ac-

La sposa silenziosa 1-336.indd© 24Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 25 quistando sempre più fi ducia nel proprio approccio. E poi un giorno un suo paziente, un ragazzo di quindici anni con una diagnosi di disturbo bipolare, un bravo ragazzo che andava bene a scuola e sembrava perfetta- mente a posto – si chiamava Sebastian: capelli scuri, oc- chi scuri, curioso, impegnato, con una passione per le domande retoriche (Perché esiste qualcosa invece del nulla? Come facciamo a sapere qualcosa di certo?) –, questo suo paziente, il giovane Sebastian, era stato tro- vato morto sul marciapiede sotto il balcone del suo ap- partamento al decimo piano, dove viveva con i genitori. Siccome Sebastian aveva saltato una seduta, lei aveva chiamato a casa e appreso la notizia dalla madre. Quan- do l’aveva scoperto, Sebastian era morto ormai da cin- que giorni. « Non deve farsene una colpa », aveva avuto la genti- lezza di dirle la madre. Ma il ragazzo si era buttato pro- prio il giorno della loro ultima seduta. L’aveva visto al mattino e, neanche dodici ore più tardi, lui aveva messo fi ne alla sua vita. Di che cosa avevano parlato? Di un problemino che aveva agli occhi, alla vista periferica, ve- deva cose che non c’erano. Era stato allora che si era iscritta alla Adler School per perfezionarsi e che aveva cominciato a operare una sele- zione sui pazienti. Attraversa Gateway Park, scambia due parole con un vicino e si ferma al Caff è Rom per un latte macchiato da asporto. Legge il giornale mangiando il suo uovo alla coque e il suo pane tostato e imburrato. Dopo colazio- ne sparecchia e tira fuori il fascicolo del primo paziente in programma quel giorno, nome in codice il Giudice,

La sposa silenziosa 1-336.indd© 25Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 26 un avvocato gay con moglie e fi gli. Il Giudice ha alcuni tratti in comune con altri pazienti. È in grave diffi coltà, eppure è convinto o spera che la psicoterapia lo aiuterà. Vuole fare chiarezza dentro di sé, ma non rovescia ad- dosso alla terapeuta più di quanto lei riesca a gestire. Quest’ultimo punto viene valutato durante il processo di selezione. Jodi indirizza altrove chi ha comportamen- ti autodistruttivi. Non segue persone che hanno dipen- denze, siano esse da droghe, alcol o gioco d’azzardo, e rifi uta i pazienti con disordini alimentari, gli schizofre- nici, quelli che soff rono di depressione cronica o hanno pensieri ricorrenti o tentativi di suicidio alle spalle. Per- sone come queste hanno bisogno di cure farmacologi- che o devono rivolgersi a centri di recupero. Ha tempo solo per due pazienti al giorno, prima di pranzo. Chi si rivolge a lei – e passa la selezione – nella vita tende a essere bloccato, si sente perso o insicuro; in genere si tratta di persone che prendono decisioni in ba- se a ciò che si aspettano gli altri, o che credono ci si aspetti da loro. Possono essere molto dure con se stesse – avendo interiorizzato i giudizi di genitori insensibili – e al tempo stesso comportarsi in modo irresponsabile o costantemente sopra le righe. Nel complesso non rie- scono a perseguire i propri scopi, sono incapaci di crea- re legami personali, trascurano quel che è nel loro inte- resse e si sentono vittime. La stanza che usa come studio ospita comodamente una scrivania, uno schedario e un paio di poltrone una di fronte all’al tra su un kilim antico due metri per tre. In mezzo alle poltrone c’è un tavolino su cui stanno il suo blocco per appunti e una penna, una scatola di Kleenex,

La sposa silenziosa 1-336.indd© 26Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 27 una bottiglia d’acqua e due bicchieri. Il Giudice indossa il suo solito completo scuro con scarpe stringate nere e calze a rombi dai colori accesi, che rivela quando è sedu- to e accavalla le gambe. Ha trentotto anni, occhi e lab- bra sensuali su un ovale affi lato. Mentre prende posto di fronte a lui, gli chiede com’è stato dall’ultima volta che l’ha visto, una settimana prima. Lui le racconta di una serata in un locale e di quello che è successo nel corri- doio dell’uscita di servizio. Scende nel dettaglio, forse spera di scioccarla, ma il sesso tra adulti consenzienti non le fa impressione e in ogni caso non è la prima volta che lui mette alla prova la sua pazienza con simili rac- conti. Parla in fretta, saltando da un evento al l’altro, ri- vive l’accaduto, fa del suo meglio per coinvolgerla. « Avevo i pantaloni alle caviglie... pensi se qualcuno fosse... oh, come puzzava l’immondizia. Mi sono con- centrato su quello, l’immondizia, per rallentare le cose, dovevo fare qualcosa. Lui aveva cominciato a fi ssarmi mentre ero al bar. Era uno che avevo già visto lì, ma non pensavo... era un secolo che non andavo in quel locale. » Mentre la storia si esaurisce lui la guarda furtivo, con gli occhi che gli brillano, le labbra umide di saliva. Gli piacerebbe se lei ridesse e gli dicesse che individuo spre- gevole. Ma il suo lavoro non prevede che lei riempia i vuoti nella conversazione o eff ettui salvataggi sociali. Lui aspetta e, siccome lei non parla, cincischia e si guar- da le mani. « Quindi », dice alla fi ne. « Mi dispiace. Mi dispiace proprio. Moltissimo. Non avrei dovuto farlo. » Sono parole che non può dire a sua moglie, per cui le dice alla psicologa. Il suo schema è negazione cui segue soddisfazione cui

La sposa silenziosa 1-336.indd© 27Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 28 segue un nuovo periodo di negazione. Lo stadio della negazione è accompagnato da frasi come: « Io amo la mia famiglia e non voglio farle del male ». Il rimorso è sincero, ma lui non riesce a rinunciare né ai passatempi gay né alla coperta di Linus della vita familiare. Entram- be le cose giocano un ruolo nel soddisfare i suoi bisogni e sono entrambe importanti per la sua identità. Finge con se stesso che il suo interesse per gli uomini sia una fase passeggera e non si rende conto che l’astinenza e il senso di colpa sono modi con cui ricarica le batterie per raggiungere la piena eccitazione. Come molte persone infedeli, gli piace drammatizzare. È più gay di quanto creda. « Sta a lei giudicare », gli dice. Ma lui è ancora ben lontano dall’ammetterlo. Il mercoledì è il giorno degli infedeli. La sua paziente successiva, Miss Piggy, una donna giovane e leziosa con le guanciotte rotonde e le mani piene di lentiggini, so- stiene che avere un amante stimola i suoi appetiti e tie- ne vivo il suo matrimonio. Stando a Miss Piggy, il ma- rito non ha alcun sospetto e, se ne avesse, non avrebbe di che lamentarsi. Non è chiaro perché Miss Piggy sia in terapia o che cosa si aspetti dalle sedute. A diff erenza del Giudice, non ha tormenti di coscienza e con l’a- mante gestisce le cose in modo pratico: si vedono il lu- nedì e il giovedì pomeriggio dopo avere fatto la spesa e prima di andare a prendere i bambini a scuola. Miss Piggy sembra vivere meno confl itti interiori del Giudice, ma dal punto di vista di Jodi rappresenta una sfi da maggiore. La sua ansia scorre sottotraccia in rivoli sotterranei, è raro che emerga o crei interferenze. Inter-

La sposa silenziosa 1-336.indd© 28Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 29 cettarla e portarla nel raggio della sua consapevolezza non sarà facile. Il Giudice invece è un libro aperto, un uomo sensibile che si è cacciato in un pasticcio e alla fi - ne, con o senza l’aiuto di Jodi, il suo problema arriverà a maturazione e si risolverà. Sebbene Miss Piggy pensi che il marito sia all’oscuro di tutto, Jodi è convinta che abbia i suoi sospetti. L’a- dulterio manda sempre dei segnali, come lei ben sa. Per esempio, chi tradisce è spesso distratto o preoccupato e non ama che gli si rivolgano troppe domande; odori in- spiegabili gli rimangono nei capelli e nei vestiti. Odori che possono essere di varia natura: incenso, muff a, erba. Collutorio. Chi usa il collutorio a fi ne giornata prima di rientrare a casa? Una doccia può eliminare odori corpo- rei rivelatori, ma il sapone trovato nel bagno dell’alber- go sarà diverso da quello di casa. E, come se non bastas- se, ci sono i soliti indizi: uno sporadico capello rosso o biondo, macchie di rossetto, vestiti sgualciti, telefonate furtive al cellulare, assenze senza spiegazioni, misteriosi segni sul corpo... senza considerare le strane acquisizio- ni – il portachiavi carino o la bottiglia di dopobarba – che sbucano dal nulla, specie a San Valentino. Perlomeno Todd fa del suo meglio per essere discreto e di regola non si fa avanti con le sue amiche, anche se ci sono state eccezioni. C’era una coppia che frequenta- vano tanto tempo prima, li avevano conosciuti durante una vacanza ai Caraibi e avevano fatto amicizia tra un Margarita e un’immersione. Gestivano una ditta che vendeva cottage prefabbricati, roba per cui Todd non provava che disprezzo. Comunque sia, per alcuni inver- ni consecutivi si erano messi d’accordo per incontrarsi

La sposa silenziosa 1-336.indd© 29Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 30 in qualche villaggio vacanza. Lei aveva avuto il sospetto che tra Todd e Sheila ci fosse qualcosa, ma aveva rimos- so il pensiero fi no al pomeriggio in cui erano scomparsi dal bordo della piscina ed erano ricomparsi dopo un po’ con l’aria dei gatti che si sono appena sbafati una grossa ciotola piena di panna. Fosse stato solo per quello forse non l’avrebbe notato, ma nei calzoncini da bagno di Todd erano avvenuti cambiamenti impercettibili, e uno schizzo gelatinoso gli brillava tra i peli del petto. Eppure, non fa niente. Non importa se di tanto in tanto lui scopre le sue carte, perché lei sa che lui la tra- disce e lui sa che lei lo sa. Il punto è che la fi nzione è cruciale e va mantenuta, così come l’illusione che tutto vada bene e proceda senza intoppi. Fintanto che i fatti non emergono, fi ntanto che lui parla per eufemismi e circonlocuzioni, fi ntanto che le cose fi lano lisce e la cal- ma regna in superfi cie, lei e Todd possono andare avan- ti a vivere le loro vite: perché è risaputo che per vivere bene bisogna scendere a una serie di compromessi, ac- cettare i bisogni e le idiosincrasie di ciascuno, sapendo che non sempre è possibile ritagliare la personalità altrui in base ai propri gusti o a retrive regole sociali. Le perso- ne vivono le proprie vite, si esprimono e perseguono il piacere, ognuno secondo i propri modi e tempi. Com- metteranno errori, prenderanno qualche cantonata e sbaglieranno i tempi, imboccheranno strade sbagliate, assumeranno abitudini sgradevoli e talvolta andranno alla deriva. Se ha imparato qualcosa grazie ad Albert El- lis, padre della svolta cognitivo-comportamentale in psicoterapia, è questo: gli altri non sono qui per soddi- sfare i nostri bisogni o le nostre aspettative, e non ci

La sposa silenziosa 1-336.indd© 30Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 31 tratteranno sempre bene. Chi non lo accetta svilupperà rabbia e risentimento. La serenità mentale viene accet- tando le persone come sono e valorizzandone gli aspetti positivi. Gli infedeli prosperano; molti di loro, quantomeno. E anche se non prosperano, non cambieranno perché, di regola, le persone non cambiano: non senza una forte motivazione e uno sforzo continuativo. I tratti basilari della personalità si sviluppano nei primi anni di vita e nel corso del tempo si fanno inviolabili, radicati. La maggior parte delle persone impara poco dal l’e sperien- za, di rado pensa a correggere il proprio comportamen- to, si convince che i problemi vengano dagli altri e con- tinua a comportarsi, malgrado tutto, nel bene e nel ma- le, come al solito. Un infedele rimane tale esattamente come un ottimista rimane un ottimista. Un ottimista, dopo essere stato investito da un ubriaco al volante, avendo tutte e due le gambe maciullate e pure un’ipote- ca sulla casa per pagare il conto del l’ospeda le, dirà: « So- no stato fortunato. Avrebbe potuto ammazzarmi ». Per un ottimista, questa è un’aff ermazione sensata. Per un infedele ha senso vivere una doppia vita e allo stesso tempo rigirare continuamente la frittata. Quando sostiene che le persone non cambiano, Jodi intende dire che non cambiano in meglio. Quanto a mutare in peggio, quello non si discute. La vita tende a esigere il suo tributo dalla persona che pensavi di essere. Lei una volta era una donna gentile, gentile in tutto e per tutto, ma ormai non può più sostenerlo. Una volta ha lanciato il cellulare di Todd nel lago, con tanto di messaggio da un contatto femminile che lo chiamava

La sposa silenziosa 1-336.indd© 31Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 32 « lupacchiotto ». Un’altra volta gli ha messo i boxer in una lavatrice di roba colorata. Non va fi era della sua condotta. Le piacerebbe pensare di essere superiore, di accettarlo così com’è, di non essere una di quelle donne che, pur avendo scelto consapevolmente, sentono che i loro uomini sono in debito; però considera le proprie trasgressioni delle bagatelle in confronto alle libertà che lui si concede senza limitazioni. Dopo avere accompagnato Miss Piggy alla porta, scende alla palestra nel seminterrato del condominio, dove fa pesi e dieci chilometri di bicicletta. Dopo un pranzo con un avanzo di verdure condite con la maio- nese, si fa una doccia e si veste per un giro di commis- sioni. Prima di uscire scrive le istruzioni a Klara, che viene a fare le pulizie il mercoledì pomeriggio. Il tran tran quotidiano è il grande balsamo che la mantiene su di spirito e tiene insieme la sua vita, scongiurando la paura esistenziale che può coglierti a tradimento in qua- lunque momento non appena ti concedi di dubitare, ri- cordandoti l’enormità del baratro che hai davanti. Te- nersi occupati è il trucco della middle class: un espe- diente pratico ed effi cace. A lei piace tenersi occupata con gli appuntamenti dei pazienti, mandando avanti la casa e tenendosi in forma e in ordine. Le piacciono le cose regolari e prevedibili e si sente sicura quando il suo tempo è programmato nei dettagli in anticipo. È un piacere sfogliare l’agenda e vedere quello che l’aspetta: gli appuntamenti al centro benessere e dal parrucchiere, le visite mediche di controllo, le lezioni di pilates. Va a quasi tutti gli eventi organizzati dalla sua associazione professionale e si iscrive a qualunque corso la interessi.

La sposa silenziosa 1-336.indd© 32Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 33 La sera, se non è impegnata a cucinare per Todd, cena con le amiche. E poi ci sono le due lunghe vacanze – una d’estate e una d’inverno – che lei e Todd fanno sempre insieme. Al volante della sua Audi Coupé, abbassa il fi nestrino e si immerge nel trambusto cittadino, le piacciono il chiasso, la confusione e tutto quello che succede in giro: venditori, musicisti di strada e mercati, e persino la fol- la, le sirene e gli ingorghi del traffi co. Una ragazzina con un mazzo di palloncini balla per strada. Un uomo con un grembiule bianco sta seduto nella posizione del loto sui gradini di un ristorante. Jodi si ferma dal corniciaio con il quadretto Rajput, prende un libro di viaggio, ac- quista una bilancia da cucina per sostituire quella rotta e, prima di rientrare, si siede con un frappuccino al suo Starbucks dietro casa, calcolando che ha tempo per por- tare a spasso il cane e arrostire una braciola per cena pri- ma di andare al suo corso di composizione fl oreale.

La sposa silenziosa 1-336.indd© 33Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 2 Lui

Gli piace iniziare la giornata di buon’ora e negli anni ha ridotto la sua routine mattutina all’essenziale. Con una doccia fredda stronca la tentazione di indugiare, per far- si la barba usa bomboletta di schiuma e rasoio usa e get- ta. Si veste nella penombra della camera da letto mentre Jodi e il cane dormono ancora. A volte Jodi apre un oc- chio e dice: « Le tue camicie sono tornate dalla lavande- ria » oppure: « Quei pantaloni si stanno sformando », al che lui le risponde: « Torna a dormire ». Butta giù un multivitaminico con una sorsata di succo d’arancia, si lava i denti da parte a parte nella maniera sbagliata ma più rapida e trenta minuti dopo essersi alzato dal letto è nell’a scen so re che lo porta giù al garage. Non sono ancora le sette ed è già seduto alla sua scri- vania al quarto e ultimo piano di un palazzo sulla South Michigan, sotto la Roosevelt. L’edifi cio – di mattoni e pietra con il tetto piatto e i serramenti in acciaio con i doppi vetri, che erano all’avanguardia quando Todd li aveva installati – è stata la sua prima ristrutturazione su larga scala dopo dieci anni di stupide casupole e prima che la mania dei condomini del South Loop facesse schizzare i prezzi degli immobili alle stelle. Quando l’a- veva comprato, il palazzo era in stato di abbandono e lui ne aveva fi nanziato la riconversione in appartamenti

La sposa silenziosa 1-336.indd© 34Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 35 a uso uffi cio con tre ipoteche e un fi do bancario, il tutto lavorando fi anco a fi anco con gli operai che aveva in- gaggiato. Avrebbe potuto fare tutto da solo, ma se aves- se fi nito i soldi a cantiere ancora aperto le banche gli avrebbero pignorato la proprietà. Nel suo ramo, con l’e- stinzione delle ipoteche, le tasse e le assicurazioni da mettere in conto, il proverbio secondo cui il tempo è denaro è vero alla lettera. Lo spazio che ha tenuto per sé non è eccessivo, due uffi ci, una piccola reception e un bagno. Il suo uffi cio, comunque, è quello più grande e dà sulla strada. L’arredamento è moderno e sobrio, con superfi ci spoglie e tende avvolgibili, niente oggetti d’an- tiquariato e cianfrusaglie come sarebbe piaciuto a Jodi. La prima telefonata della giornata è per la gastrono- mia da cui ordina la colazione, chiede sempre due pani- ni col bacon, lattuga e pomodoro e due caff è grandi. Mentre aspetta prende dal cassetto una vecchia scatola di tabacco, solleva il coperchio e ne rovescia il contenu- to sulla scrivania: cartine Bugler, una scatola di fi ammi- feri, un sacchetto con un po’ di marijuana. Nel periodo della depressione si era reso conto che, se prima di met- tersi al lavoro fumava dell’erba, emergeva dalla sua apa- tia e si concentrava meglio. La cerimonia di rollare e ac- cendere è ormai un’abitudine e a lui piace cominciare la giornata in modo rilassato. Con la canna in mano, si di- rige alla fi nestra e soffi a fuori il fumo. Non è aff atto un segreto che gli piaccia farsene una o due, la mattina, pe- rò è anche vero che la tjg Holdings non deve puzzare come un centro sociale. Un tempo dalla sua fi nestra aveva la vista libera sul cielo, mentre adesso vede soltanto una piccola chiazza

La sposa silenziosa 1-336.indd© 35Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 36 azzurra irregolare che fl uttua tra i palazzi dall’al tro lato della strada. Sempre meglio di niente, e non sarà di cer- to lui a criticare il boom edilizio. In ogni caso la sua at- tenzione si concentra sulle persone in attesa alla fermata dell’autobus. Alcuni stanno al riparo della pensilina, nonostante la mattina sia limpida e tiepida e lì sotto sia pieno di rifi uti. Todd si compiace di riconoscere qual- che habitué: la ragazzina con le cuffi e e lo zaino che ascolta sempre la musica, il vecchio pelle e ossa col cap- pellino da baseball che fuma una sigaretta dopo l’altra, la donna incinta con il sari e la giacca di jeans. Quasi tutti scrutano il traffi co per vedere se arriva l’autobus. Come sempre una o due persone sono scese dal marcia- piede in strada per vedere meglio. E quando fi nalmente avvistano l’autobus, la tensione si allenta. Mentre cerca- no i soldi per il biglietto, da scompaginata congrega si compattano in un’irrequieta colonna. Todd ovviamen- te aveva scorto l’autobus quand’era ancora ad alcuni isolati di distanza. A volte si sente un po’ come Dio, las- sù al quarto piano. Il garzone della gastronomia gli porta la colazione al- la scrivania e prende i soldi già contati sotto il fermacar- te. Todd gli fa un cenno del capo mentre continua a parlare al telefono con Cliff York. Sta prendendo ap- punti, anche se non ne avrà bisogno. Per lui non è un problema tenere a mente nomi, date e cifre, orari e luo- ghi, persino numeri di telefono. Il progetto di cui stan- no discutendo, una palazzina di sei appartamenti a Jef- ferson Park, è a metà dei lavori. Gli ostacoli iniziali – progetti, permessi, fi nanziamenti – sono stati superati e tutti gli alloggi sono ormai sventrati. Lui e Cliff , il suo

La sposa silenziosa 1-336.indd© 36Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 37 impresario edile, stanno parlando della pressione del- l’acqua. Decidono a che ora vedersi nel pomeriggio per dare un’occhiata ai lavori e sentire cos’ha da dire l’i- draulico. Addentando la colazione, Todd trova che il pane to- stato sia un po’ molliccio, anche se il bacon è croccante. Dopo aver fi nito i due panini e uno dei due caff è torna al telefono, questa volta con il suo agente immobiliare, che ha trovato un potenziale cliente. È una buona noti- zia. La palazzina è un progetto intermedio. Todd sareb- be anche disposto ad affi ttare gli appartamenti, ma il piano d’azione prevede di vendere ciascuna unità im- mobiliare e usare il capitale per la sua prossima impresa, un palazzo di uffi ci su scala più larga, forse il progetto più ambizioso della sua storia professionale. Stephanie arriva alle nove e venti. Si dà una sistemata senza fretta e, quando si presenta nel suo uffi cio col bloc-notes e le pratiche avvicinando la sedia alla propria scrivania, si sono fatte le nove e mezzo. Stephanie ha un’aria da ragazzina, porta bene i suoi trentacinque an- ni, ha folti capelli legati in una coda di cavallo. Todd è sempre curioso di vedere come e dove lei si siederà, se direttamente di fronte a lui, da dove può vederla solo dalla vita in su, o alla sua destra, dove lei tende a incro- ciare le gambe e a posare l’avambraccio sul tavolo per prendere appunti. L’ovale della scrivania poggia su una base rettangolare lasciando ampio spazio per le gambe, perciò quando lei decide di mostrarle, qualunque sia la ragione, per lui è un giorno fortunato. Se Stephanie in- dossa i jeans, Todd può ammirare il profi lo dell’inguine e delle cosce; se ha la gonna, si soff erma invece sulle gi-

La sposa silenziosa 1-336.indd© 37Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 38 nocchia e sui polpacci. Sembra che lei non si accorga che lui le guarda le gambe ogni volta che le accavalla o le scavalla, oppure non ci bada. Oggi ha i jeans, ma si siede al lato più distante della scrivania, così lui deve ac- contentarsi dei due airbag che premono contro i bottoni centrali della camicetta. Stephanie non arriva al metro e sessanta di statura, e forse è anche per questo che le di- mensioni del suo seno appaiono tanto impressionanti. Oggi Stephanie ha portato con sé una pila di docu- menti e una lista di questioni in sospeso da sottoporgli: i preventivi per i ventilatori a soffi tto, gli indirizzi web degli architetti da contattare, le fatture con qualche vo- ce di spesa controversa. Todd vuole essere informato su tutto ciò che non è strettamente di routine. Non è arri- vato tanto in alto trascurando i particolari o lasciandosi sfuggire di mano gli aff ari. Gestisce l’intera macchina da solo e non ha margini di profi tto smisurati, il che si- gnifi ca che ogni dettaglio è importante. Dà un’occhiata al l’oro logio, tanto per farle capire che il suo ritardo non è passato in cavalleria. « Niente da Cliff ? » le chiede, quando arrivano alle fatture. « Non ancora. » « Fammela vedere quando arriva. L’ultima volta ci ha caricato i costi di materiali che in realtà fornivamo noi. Ti ricordi di cosa si trattava? » « Piastrelle per il bagno. » « Giusto. Piastrelle per il bagno. E malta. Mi ha fat- turato anche la stramaledetta malta. » Stephanie ha fatto la ricerca sui water che lui le aveva commissionato qualche tempo prima e a quel punto gli

La sposa silenziosa 1-336.indd© 38Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 39 porge le brochure. « I modelli a basso consumo d’acqua costano meno di quelli con il doppio scarico, ma non sono affi dabili. » « Cos’hanno che non va? » « A volte lo sciacquone non sciacqua. » « Deve sciacquare. » « Non sempre la manda giù. » « Cliff li ha installati altre volte. » « Non correrei il rischio, visto che poi potresti anche affi ttare. Dovresti dare un’occhiata ai modelli con il doppio scarico. » Lui aggrotta le sopracciglia e chiede: « Quanto costa- no? » « Niente di tragico. Ce ne sono di buona qualità a cinquecento dollari. » « Fa tremila cocuzze, per degli stramaledetti water. Possiamo andare da Home Depot e comprarli a cin- quanta dollari l’uno. » « Potresti, ma non lo farai. » « Cos’altro? » « Devi pensare ai frigoriferi e ai piani cottura. Potreb- be volerci un po’ per la consegna. » « Fammi avere qualche preventivo. Se prendiamo tutto dallo stesso fornitore, riusciamo ad avere un po’ di sconto. » « Come faccio a sapere le misure? » « Guarda i progetti. » « Non ce li ho i progetti. Li hai portati a casa. » « Fatteli dare da Carol della Vanderburgh. Gli appar- tamenti non sono tagliati tutti uguali. » Dopo che lei ha raccolto i documenti e gli ha off erto

La sposa silenziosa 1-336.indd© 39Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 40 la vista del suo culo in ritirata, lui si lascia un po’ anda- re, ascoltando distrattamente i rumori provenienti dal- l’uffi cio accanto, dove lei si è messa al lavoro. La mente di Todd abbraccia ogni aspetto del lavoro, circoscrive in un unico colpo d’occhio il suo mondo, come fosse un campo da baseball su cui lui avesse appena battuto un home run sfrecciando da una base all’al tra senza mai perdere di vista la palla. È arrivato al punto di godersi quello stato di costante apprensione, il rischio che corre con ogni minima decisione, lo stress di essere sovrae- sposto, la tensione di giocarsi il tutto per tutto nell’im- presa in corso. In un certo senso l’ansia che sente è ras- sicurante, gli dice che è vivo e che le cose vanno per il verso giusto. È un’ansia mista al piacere dell’attesa, alla curiosità di scoprire il passo successivo, all’interesse per l’evoluzione delle cose. È questo che lo sprona per tutta la giornata. Nel periodo della depressione non aveva più quello slancio. In eff etti, la perdita dello slancio era proprio all’origine del disagio. Era stato un periodo senza sfu- mature né infl essioni, sempre uguale, minuto dopo mi- nuto, giorno dopo giorno. Ma lui non provava aff atto quel senso di fallimento o d’inutilità di cui tanto blatera la gente quando parla di depressione. Semplicemente, lui non era lì, era un fenomeno d’assenza, come un po- sto vuoto a tavola. Guarda l’ora e fa una telefonata. La voce assonnata che lo saluta gli provoca un sussulto di piacere, risve- gliandogli le gonadi. « Non sarai ancora a letto? » « Mmm. »

La sposa silenziosa 1-336.indd© 40Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 41 « Ma non avevi lezione? » « No, più tardi. » « Brutta viziata. » « Lo spero bene. » « Cos’hai addosso? » « Secondo te? » « Sei come ti ha fatto la mamma. » « Perché lo vuoi sapere? » « Secondo te perché lo voglio sapere? » « È uffi ciale? » « Confi denziale. » « Me lo dovrai mettere nero su bianco. » Vanno avanti per un po’. Lui se l’immagina a letto, avviluppata nelle lenzuola nell’angusta cameretta del- l’appar ta men to che divide con le sue coinquiline, in North Claremont Avenue. Ci è andato una volta, agli inizi, quando ancora c’erano punti del suo corpo che non aveva toccato. Poi, in cucina, le coinquiline l’ave- vano circondato e gli avevano fatto un sacco di doman- de indiscrete, soprattutto sulla sua età e su sua moglie. Dopo quella volta, avevano cominciato a incontrarsi al Crowne Plaza di Madison Avenue, dove il personale è immancabilmente riservato e cortese. Mentre le parla, è tormentato da sentimenti che per- cepisce come vagamente estranei e si chiede se non sia ormai diventato un altro: non Todd Gilbert, ma un uo- mo che si è insediato nel suo corpo durante i mesi in cui lui era assente. Nel breve periodo della loro frequenta- zione, lei gli ha restituito la sua vita. Ecco cosa le deve, il dono della vita, con tutti i sentimenti che rendono compiuto l’essere umano: non solo amore, ma avidità,

La sposa silenziosa 1-336.indd© 41Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 42 lussuria, desiderio... e tutto questo con il suo naturale fermento, con la sua turbolenza. Persino l’impazienza è un dono, l’urgenza di stare con lei che lo assilla tutto il giorno. Persino la gelosia è un dono. Sa che lei ha il di- ritto di avere un innamorato più giovane e teme che sia solo questione di tempo prima che se ne renda conto. Con tutta la soff erenza che ciò comporta, almeno Todd si sente nel mondo dei vivi. La gelosia è un sentimento nuovo per lui; era abitua- to a essere sicuro di sé con le donne. Secondo Jodi, que- sta fi ducia in se stesso gli viene dal fatto che è fi glio uni- co ed è cresciuto con una madre che stravedeva per lui, un’infermiera che aveva preferito lavorare part-time, benché la famiglia non navigasse nell’oro, solo per poter passare più tempo a casa e occuparsi del fi glio: il suo modo per compensare le mancanze del marito, un alco- lizzato che ogni tanto faceva lavoretti stagionali nei par- chi per conto del comune. Quando era ancora al liceo, Todd aveva cominciato a provvedere alla madre dando- si da fare per guadagnare un po’ di soldi, assumendosi le proprie responsabilità, e per questo tutti lo coprivano di lodi, non solo sua madre, ma anche le amiche di sua madre, le insegnanti e le ragazze che conosceva. Alle donne lui piace. Piace perché sa come prendersi cura di loro. E infatti si prende cura anche di Natasha, ma con Natasha c’è un problema. La sua presenza gli ricorda che il proprio corpo invecchia e perde vitalità. Non per qualcosa che lei dica o faccia; solo perché è giovane e desiderabile e insaziabile. È ancora al telefono quando Stephanie torna con un mazzetto di assegni da fi rmare. Todd, che si aggirava

La sposa silenziosa 1-336.indd© 42Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 43 per la stanza col cellulare in mano, ora si ferma accanto alla fi nestra. Lei mette gli assegni sul tavolo, restando in vigile attesa. Ha una penna in mano e gliela punta ad- dosso come per sfi darlo a duello. Todd sa che Stephanie non ha dubbi su come stiano le cose tra lui e Natasha, che una volta è entrata in quell’uffi cio con una faccia da mangiarselo vivo. Parole di Stephanie. Ma è normale che un’assistente parli in quel modo al suo capo? Peral- tro, negli ultimi tempi, sembra proprio che Stephanie si diverta a entrare nell’uffi cio di Todd nel bel mezzo delle sue telefonate con Natasha, non lasciandogli altra scelta che interrompere di colpo la conversazione. Ed è acca- duto anche oggi. A metà giornata, prima di uscire dall’uffi cio, Todd telefona a Jodi per dirle che non tornerà a casa per cena. Ma è solo una chiamata di cortesia, Jodi sa benissimo che lui stasera vede Dean. Però gli piace farle sapere che la pensa. È un uomo fortunato e non se lo dimentica. Con la sua snella fi gura impreziosita dai capelli scuri, Jodi è ancora una bellissima donna e, pur essendo una vera pantofolaia, sa che lui non può passare le serate chiuso in casa. Alcuni amici di Todd devono essere a ca- sa per cena tutte le sere. Altri non possono neanche an- darsi a prendere una birra dopo il lavoro. Per fortuna, lui frequenta una vasta cerchia – includendo di fatto tutti quelli con cui ha lavorato fi nora – e molti sono sin- gle o divorziati, sicché quasi sempre riesce a trovare un compagno di bevute. Non che gli dispiaccia una sera da solo, quando capita. Lui e Dean Kovacs si conoscono dai tempi del liceo. Dean è il suo amico di sempre ed è l’unico che ha cono-

La sposa silenziosa 1-336.indd© 43Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 44 sciuto suo padre. Quando Todd dice che suo padre era un vecchio stronzo bastardo, Dean sa perfettamente co- sa intende. Dean è uno di famiglia, praticamente un fratello. Ma è anche il padre di Natasha, e questo po- trebbe essere un problema. O forse no. È diffi cile preve- dere come reagirà Dean quando lo scoprirà. Sicuramen- te ne sarà sconvolto, ma poi, quando avrà avuto modo di farsene una ragione, chi lo sa? Magari ci rideranno sopra insieme, Todd lo chiamerà « papi » o « babbo » e Dean potrà mandarlo all’inferno. Magari andrà tutto li- scio. E comunque non è lui a dovergliene parlare. È compito di Natasha. E lei glielo dirà quando riterrà che sia arrivato il momento giusto. Hanno deciso così. La giornata è calda e gli odori salgono dal manto stra- dale. Todd ama questa città fi no al suo midollo di ce- mento, ne apprezza la pura fi sicità, la stazza degli edifi ci enormi, e ancor di più il potere e l’arrivismo, il culto degli aff ari, i cartelli vendesi che spuntano ovunque e il profl uvio di opportunità. Mentre percorre i tre isolati fi no al parcheggio privato in cui lascia l’auto, Todd si sente terribilmente fortunato a essere dov’è, in questo posto, in questo tempo. Invece di dirigersi direttamente verso Jeff erson Park, gira in Roosevelt Avenue e si ferma da Home Depot. Se dovesse calcolare il tempo complessivo che ha passato in quel negozio, scoprirebbe di averci speso interi mesi della propria vita. Ci tiene all’arredamento degli inter- ni. La somma dei particolari è determinante per la riu- scita o il fallimento di un progetto. Cliff sarebbe felice di fornire anche vernici, piastrelle, tappeti, impianti va- ri, sui quali ricaricare il suo dieci per cento, però poi

La sposa silenziosa 1-336.indd© 44Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 45 Cliff non è lì quando il potenziale acquirente se ne va perché il colore o le fi niture non gli piacciono: Cliff è abituato a incassare i suoi soldi qualsiasi cosa succeda. Todd no, lui rischia. Esce dal negozio senza aver comprato nulla e imboc- ca l’autostrada con i fi nestrini abbassati e l’autoradio che trasmette Nevermind. L’unico posto in cui ha il co- raggio di cantare è la macchina, con il vento nelle orec- chie e il rombo del motore non sente la propria voce. Conosce a memoria le parole di tutte le sue canzoni preferite e, quando prende velocità, le canta sempre a squarciagola. Ora, quell’ di vent’anni prima lo ri- porta al ragazzo presuntuoso di un tempo, infatuato dalle proprie capacità e di belle speranze. Ha conosciuto Jodi l’anno in cui i Nirvana avevano scalzato Michael Jackson in cima alla classifi ca; ogni canzone di quel pe- riodo è come una macchina del tempo che lo riporta in- dietro all’esplosione del loro amore. La prima volta che la vide fu in State Street, i loro vei- coli incidentati che bloccavano le due corsie in direzio- ne est, il traffi co alle loro spalle paralizzato, i clacson che strombazzavano, la gente che si accalcava, la pioggia che scrosciava, i capelli bagnati di lei appiccicati al viso, la maglietta fradicia che la faceva sembrare nuda dalla vita in su. Ma per quanto fulgidi fossero i suoi seni – piccoli ma perfetti, con i capezzoli dritti come guglie nella pioggia scrosciante – a folgorarlo fu il suo portamento, il suo essere così fredda e imperturbabile, regale e digni- tosa. Non ha mai incontrato una donna che avesse metà della classe di Jodi. In cantiere trova Cliff che fuma davanti all’in gres so

La sposa silenziosa 1-336.indd© 45Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 46 nella sua tuta da lavoro polverosa, con la cintura porta- attrezzi tenuta larga. È un uomo tarchiato, che parla lentamente e dà sempre l’impressione che stia mettendo radici nel punto in cui si trova. Ha la stessa età di Todd, ma porta dei baff etti sale e pepe che lo invecchiano di dieci anni. Quando arriva l’idraulico sul suo furgone, i tre uomini entrano nell’edi fi cio e passano in rassegna gli appartamenti. La conversazione è incentrata su condut- ture, tubi di scarico e affi ni, temi pressanti quando sei Todd Jeremy Gilbert della tjg Holdings e ti ritrovi in- debitato fi no al collo. Il palazzo era quasi fatiscente quando l’ha comprato e ha dovuto sfrattare gli inquili- ni, cosa che non gli ha fatto piacere, ma ora il progetto sta cominciando a prendere forma. Gli operai che in- contrano nel loro giro stanno portando fuori vecchi ca- vi e installando nuove travi, anche se non c’è esattamen- te quel viavai frenetico che Todd vorrebbe. Sebbene la- vori con Cliff da quasi vent’anni, Todd deve ancora stargli con il fi ato sul collo: i costi da sostenere – quello che Todd spende ogni giorno soltanto per gestire quella proprietà e tenere alla larga la banca e il municipio – ba- sterebbero a sfamare un villaggio africano per un anno. Mentre torna in centro, chiama Natasha nella spe- ranza di pranzare insieme, ma lei sta già mangiando un panino. « Mangi mentre parliamo? » « Ho scartato il panino e sto per dargli un morso. » « Mettilo via e andiamo al Francesca’s. » « Non posso. Devo andare a lezione. » « Ci possiamo vedere dopo il lavoro? » « Faccio la babysitter dalle quattro alle sette. »

La sposa silenziosa 1-336.indd© 46Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 47 « Passo a trovarti. » « Non è una buona idea. » « Lo sai che dopo ho da fare. » « Pranziamo insieme domani. » « Questo vuol dire che oggi non ti vedo. » « Pensi che sopravviverai? » « Com’è il tuo panino? » « Al salame, con il pane di segale. Di Manny’s. Con rinforzo di senape. » « Sei seduta da qualche parte? » « Te l’ho detto, sto andando a lezione. » « Stai andando a lezione proprio in questo momen- to? » « Sono in Morgan Avenue. Ho appena superato la bi- blioteca. E arriverò in ritardo se non mi lasci andare. » « Dimmi cosa indossi. » Si fi nge infastidita, ma lui sa che le piace. Le piace quel grado di attenzione estrema con tutte le sue sfuma- ture erotiche. Se la immagina con lo zainetto carico, le bretelle che le tirano sulle spalle, i denti perfetti che af- fondano nel pane soffi ce imbottito di aff ettato. È all’ul- timo anno e in primavera prenderà la laurea di primo livello in storia dell’ar te. Non ha ancora pensato a cosa farà da grande; le piacerebbe sposarsi e mettere su fami- glia. A proposito, gli ha detto che sarebbe un ottimo pa- dre. Lui lo prende come un incoraggiamento, perché vuol dire che non ha intenzione di mollarlo per uno più giovane, ma Todd non pensa al futuro se non per am- mettere con se stesso che tra lui e Natasha è diverso, non è quello che defi niresti un fl irt. Per lui un fl irt è come un passatempo, una forma di svago che non interferisce

La sposa silenziosa 1-336.indd© 47Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 48 con il tuo modo di vivere né ti fa perdere la bussola. In- vece questa storia è intricata, impegnativa, gli crea di- pendenza e lo riempie di angoscia. A volte giura che ri- gherà dritto, ma perlopiù si sente come un uomo inna- morato della spuma del mare nella quale sta aff ogando. L’idea della fuga nel fi ne settimana è stata di Nata- sha. È stata lei a trovare l’albergo sul fi ume Fox con i suoi sette ettari di bosco, la piscina riscaldata, il cuoco francese, e sempre lei ha prenotato la stanza e ha caldeg- giato l’idea. Potranno tornare a letto dopo colazione e fare la doccia insieme prima di cena. Potranno passeg- giare nel bosco e fare l’amore in una radura assolata. In- vece di fare le cose a spizzichi e bocconi come al solito, alla chetichella, potranno soddisfare i loro appetiti in tutta calma: questo è il progetto. « O preferisci stare a casa con Jodi? » gli ha chiesto. Avrebbe preferito che non tirasse in ballo Jodi. La sua vita con la moglie appartiene a un ambito che non ha niente a che fare con lei, un universo parallelo dove le cose fi lano lisce e continueranno a farlo, dove anni se- reni si estendono con dolcezza verso il passato e serena- mente verso il futuro. Una volta ha commesso l’errore di dire a Natasha che Jodi a letto è un pezzo di ghiaccio. L’idea non era quella di off endere Jodi ma di rassicurare Natasha. È un uomo generoso che nel suo comodo ab- braccio assorbe un mondo di imperfezioni, in particola- re quando si tratta di donne. Ha la straordinaria capaci- tà di accettare le cose come sono e adattarsi. Cose di Jo- di. Cose di Natasha. Una cosa di Jodi alla quale si adatta è che abbia una sfi lza di titoli di studio. Non solo una laurea di primo

La sposa silenziosa 1-336.indd© 48Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 49 livello come quella che prenderà Natasha, ma un dotto- rato e un paio di master. Non gli importa che sia intel- ligente, ma lo infastidiscono le prese in giro degli amici sul fatto che Jodi abbia una marcia in più di lui. Non che per lui una sfi lza di titoli di studio costituisca un va- lore di per sé. L’istruzione serve solo a conquistare pote- re: il rischio è che se non vai a scuola fi nisci a lavorare al McDon ald’s. Sono i soldi, e non l’istruzione, il sacro Graal in America. Si ferma per pranzo in un pub in stile inglese e trat- tiene la voglia di ordinare una birra. Quando torna in uffi cio, Stephanie gli consegna i preventivi che lui le aveva chiesto e un elenco di chiamate da fare. Todd si sdraia sul divano a telefonare, poi si fa un pisolino. Quando si sveglia sono le quattro e mezzo; a quel punto va in palestra. L’attività fi sica è una novità. Ha cominciato ad anda- re in palestra per combattere la depressione, quando il dottore gli ha spiegato che l’esercizio fi sico intenso ge- nera endorfi na, il naturale analgesico del corpo. All’ini- zio non sentiva l’endorfi na e faceva fatica a non fermar- si al bar mentre andava in palestra, ma da quando ha in- contrato Natasha le cose sono cambiate. Ora si fa segui- re da un personal trainer, si allena con i pesi liberi al po- sto delle macchine, indossando polsini e canotta spor- tiva. Dopo averci dato dentro per più di un’ora, si sente ricaricato e vagamente eccitato. Dopo la doccia si avvol- ge un asciugamano attorno alla vita e chiama Natasha, anche se lo spogliatoio è aff ollato e una conversazione privata è fuori questione. A dirla tutta, anche i suoi pen-

La sposa silenziosa 1-336.indd© 49Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 50 sieri hanno bisogno di essere tenuti a freno perché non vorrebbe che il suo ardore provocasse un alzabandiera in una stanza piena di uomini nudi. Lascia che lei dica pronto tre volte di fi la prima di parlare. « Cosa sei, un maniaco? » chiede lei. « Esatto: è proprio quello che sono », risponde lui. « Ma lo sai che vedo il tuo nome e il tuo numero sul display. » La prossima volta, decide, userà un telefono pubblico.

Quando entra nel bar del Drake Hotel dopo avere con- segnato la Porsche all’addetto al parcheggio, Dean Ko- vacs è già lì, seduto al bancone. Il locale, con i suoi arre- di d’epoca in pelle bordeaux e legno lucido e un tocco di eleganza virile da vecchia Europa, è un posto caldo e seducente che ti fa sentire a casa. In quel momento è strapieno di gente appena uscita dal lavoro, un frastuo- no di voci che si alza e si abbassa mentre Todd si fa stra- da per la sala, dà una pacca sulla spalla di Dean e occu- pa lo sgabello libero alla sua sinistra, più simile a una poltrona. « Amico mio », dice Dean, tracannando l’ultimo goc- cio del boccale di birra. « Ho cominciato senza di te. » « Brutto bastardo », replica Todd. « Sei avanti di una. » « Sono sempre stato avanti rispetto a te. » Dean fa cenno al barista sventolando due dita. Continua a mettere su chili e, con quella faccia piena e il doppio mento, somiglia a un bambinone paff uto. Indossa un completo estivo con una camicia che gli si

La sposa silenziosa 1-336.indd© 50Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 51 apre sulla pancia prominente, lasciando intravedere una canottiera bianca pulita. La cravatta appallottolata gli spunta dal taschino della giacca. Negli ultimi dodici an- ni si è guadagnato da vivere come direttore vendite in un’azienda di materiali plastici, un lavoro che tutto sommato gli piace. Il barista posa due pinte davanti a loro. Todd dà una prima lunga sorsata e si pulisce la schiuma dalle labbra col dorso della mano. Sfi ancato dall’allenamento, vuole solo starsene seduto ad assorbire passivamente l’alcol e l’atmosfera circostante. Dean è un venditore nato e Todd, per farlo parlare, non deve fare altro che chieder- gli dei rendimenti. « L’ultima volta che ci siamo visti eravate in una fase di fl essione », dice, lanciandogli l’e- sca. Dean abbocca volentieri tenendo banco sulle quote di mercato e sulla competitività, permettendo a Todd di rilassarsi e di ascoltare con un orecchio solo. Preferi- rebbe sentire qualcosa sui prodotti e sui nuovi materiali – persino la plastica ha il suo fascino – ma Dean è preso dagli obiettivi, dalle quote e dagli utili. Todd vede Dean due, forse tre volte all’anno. È sem- pre Dean che lo chiama per combinare ma, se non lo fa- cesse lui, sarebbe Todd a prendere l’iniziativa. Pur vi- vendo in mondi diversi, il passato è un legame forte. Sono cresciuti ad Ashburn, nella zona sudoccidentale della città, insieme hanno frequentato la Bogan High School e giocato a hockey, si sono sbronzati e hanno perso la verginità. La perdita della verginità è avvenuta durante un appuntamento in doppia coppia nel camper dei genitori di Dean. Fagli bere uno o due bicchieri e Dean tirerà sicuramente in ballo quella storia. Per Dean

La sposa silenziosa 1-336.indd© 51Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 52 è importante avere condiviso con Todd quell’e spe rien za seminale, avere sentito i vocalizzi del passaggio di Todd al l’età virile, e che l’amico abbia sentito i suoi. Anche per Todd è importante, però non vuole che lo venga a sapere tutto il bar. Prima che la cosa degeneri, chiede il menu e costringe Dean a concentrarsi sulla cena. Dopo gli hamburger, passano dalle birre ai superal- colici, e questo è il momento in cui Dean comincia a re- suscitare sua moglie, morta dieci anni fa. « La donna migliore del mondo. Una donna così ti capita una volta sola nella vita », attacca. Poi raddrizza la schiena per darsi un tono e lascia ballonzolare convulsa- mente la testa avanti e indietro come uno di quei pu- pazzetti che si attaccano in macchina. « Una volta sola », ripete, tamburellando con le nocche sul bancone. « Se sei fortunato. » « Era una brava donna », annuisce Todd. « Quella donna era una dea, cazzo », dice Dean. « E cazzo se la veneravo, io. E tu lo sai. » Aspetta la conferma di Todd, che è ben felice di dar- gliela. Non vede alcuna contraddizione tra gli attuali sentimenti di Dean e il fatto che, quando la moglie era ancora viva, lui avesse molteplici relazioni extraconiu- gali. « Sapeva quanto l’amavi. Tutti lo sapevano. » « È così », dice Dean. « Veneravo quella donna, e la venero ancora. Se non fosse così, mi sarei risposato, e invece non l’ho fatto. » Negli ultimi anni Dean ha avuto una sfi lza di fi dan- zate, nessuna delle quali all’altezza della sua perfetta moglie ormai defunta e nessuna con la benché minima

La sposa silenziosa 1-336.indd© 52Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 53 speranza di sostituirla. A Dean va benissimo così, gli piace il gioco della caccia e della conquista e la sensazio- ne di potere che gli dà tenere sulle corde una donna do- po averne catturato l’interesse. Cicchetto dopo cicchetto, Dean passa dalla fase sdol- cinata a quella di piantagrane. La folla si è diradata, il chiasso si è ridotto a un brusio e Dean sta perlustrando con sguardo interessato la sala. Piegandosi e girandosi sulla sedia, scorge una giovane donna all’incirca dell’età di sua fi glia, con i capelli neri rasati e labbra rosso fuo- co. Fingendo di rivolgersi a Todd, comincia a sprolo- quiare ad alta voce su quello che vorrebbe farle e quello che vorrebbe che lei facesse a lui. Seduta a una certa di- stanza, assorbita dalla conversazione, lei non si accorge che Dean la sta prendendo di mira, ma la gente seduta a portata d’orecchio si sta girando quasi tutta a guardarlo. Nel frattempo Todd è scivolato in un mondo tutto suo. La parte più benevola e munifi ca di sé si è dilatata ed espansa fi n quasi a raggiungere le dimensioni della stanza. Nella sua magnanimità Todd non giudica e non esclude nessuno, nemmeno Dean e i nemici che l’amico è impegnato a procurarsi. Tutti i presenti sono conte- nuti nella bolla della benevolenza di Todd. Lui è così quando beve: si immerge in una silenziosa condizione sacerdotale grazie alla quale assolve e redime tutta l’u- manità. Perso l’interesse per la ragazza dalle labbra rosse, Dean si gira verso la donna seduta al bancone alla sua destra. È sovrappeso e non è giovane come l’altra ma, nelle tene- bre del suo cervello obnubilato dall’alcol, questo signifi - ca con buona probabilità che potrebbe interessarsi a lui.

La sposa silenziosa 1-336.indd© 53Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 54 Il fatto che lei stia parlando con il suo cavaliere, seduto- le accanto dall’al tra parte, è un’informazione che a Dean evidentemente sfugge: avvicina la sua bocca al seno sini- stro e tira fuori la lingua mimando una leccata. Lei si è già accorta di lui e ha allontanato lo sgabello. Ora gli lancia un’occhiata disgustata e gli dice di andare a farsi fottere. Alla parola fottere Dean drizza le antenne e ripar- te alla carica con una proposta, al che lei e il suo accom- pagnatore – un tipo volpino con gli occhiali di marca – si alzano e cambiano posto. L’uomo, che ora si frappone come una barriera tra Dean e la donna oggetto delle sue attenzioni, non gli ha detto nulla, ma Dean protesta per principio dandogli un buff etto nelle costole. « Stavo solo esercitando i miei diritti di maschio della specie. » « Be’, vai a esercitarli da qualche altra parte », replica l’uomo. Dean si gira verso Todd: « È un mondo libero que- sto, o no? » Todd ha assistito alle baruff e di Dean fi n dal liceo. Se avesse veramente intenzioni bellicose, lo frenerebbe e lo trascinerebbe fuori, ma in questo caso è convinto che l’atteggiamento di Dean sia innocuo. « Cerca di tenerti fuori dai guai », è l’unica cosa che gli dice. Al che Dean risponde a voce alta: « Tanto è un cesso. Posso fare di meglio ». Todd ride. « Così mi piaci », commenta, e Dean, a sua volta, si lascia andare a una risata compiaciuta. Todd sa che Dean si comporta così solo quando be- ve. Ci sono persone che reggono bene l’alcol; il suo ami- co non è tra queste. Sembra incredibile ma Dean è dav-

La sposa silenziosa 1-336.indd© 54Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43 55 vero emotivo, uno di quelli dalla lacrima facile. Alla fi ne del liceo era entrato nei Marines, ma non aveva avuto abbastanza fegato per fare sul serio e se n’era andato pri- ma che gli assegnassero una destinazione. Poi era diven- tato un venditore. Tutto sommato Dean è un tipo tran- quillo. È uno che può perdere le staff e, si sa, ma ce ne vuole per provocarlo. Quindi, riguardo a Natasha, tutto dipende dall’impatto che la notizia avrà su di lui, fattore che però Todd non riesce a prevedere. Spera solo che Natasha gli comunichi con tatto la no vità. Verso mezzanotte Todd è di nuovo in macchina, chiama uno dei suoi numeri speciali e dopo un breve scambio di parole si dirige al Four Seasons, a pochi iso- lati di distanza. La donna è una di quelle che lui chiama all’occorrenza, di quelle che hanno abbastanza classe da essere accettabili in un hotel a cinque stelle e sono di- sponibili senza preavviso, specialmente quando a chie- derlo è un uomo della sua generosità. È in serate come queste, quando non ha visto Natasha ed è troppo carico di energia, troppo pieno di grazia per tornarsene diret- tamente a casa, che gli piace approfi ttare dei beni e dei servizi di lusso che la città mette a disposizione.

La sposa silenziosa 1-336.indd© 55Longanesi & C. S.p.A. 11 / 04 / 2014 14.43

«Credevamo che il libro fosse qualcosa di permanente, forse di perenne. Destinato a durare per sempre. Non ci sembrava immaginabile né una vita senza libri né una forma diversa del libro» (p. 11). «L’idea che i libri manchino, che non tutti verranno raggiunti, che non tutti verranno letti è consustanziale all’idea di libro. Amare i libri vuol dire anche non averli, non averli tutti» (p. 190).

«In un futuro, che va oltre le nostre oneste prospettive e rischia di rientrare invece nelle aborrite previsioni, è probabile che il libro si troverà a convivere con molte forme di testualità. Riuscirà, nel brulicare d’infiniti e minuscoli replicanti, a sopravvivere?» (p. 205). © 2014 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol isbn 978-88-339-8270-0 www.bollatiboringhieri.it

Prima edizione digitale: aprile 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Su il sipario

Il libro ci appariva perfetto. Non migliorabile, con- cluso, definitivo. Naturale, come qualcosa che non può essere altrimenti da com’è. Come un oggetto antico e fa- miliare, semplice e levigato dal tempo. Come un cucchiaio, è stato autorevolmente detto. Una forma compiuta. Credevamo che il libro – il nostro libro, quello che maneggiavamo tutti i giorni – fosse qualcosa di perma- nente, forse di perenne. Destinato a durare per sempre. Non ci sembrava immaginabile né una vita senza libri né una forma diversa del libro. E d’altra parte il fatto che qualcosa che aveva assunto la forma di libro due- mila e cinquecento anni fa continuasse a esistere, e non solo nel senso puramente passivo di un reperto muse- ale, ma in quello ben più vitale di un oggetto di compra- vendita, ci pareva una prova inconfutabile e una garan- zia di sopravvivenza. Ma nel libro vedevamo anche una sorta di talismano, una promessa (o un’illusione) di durata, forse di eternità. Ed è stata questa, probabil- mente, la ragione profonda che ha spinto personaggi i più disparati – cui la vita non aveva certo negato ogni genere di soddisfazioni – a voler comunque scrivere un libro. Per restare, per durare. Ci sembrava soprattutto che il libro – con quella sua aria dimessa e un poco austera, con il suo racchiudere

11 qualcosa sostanzialmente privo di qualità sensibili e, per contrasto, con la sua immensa capacità evocativa – fosse il simbolo, oltre che il tramite concreto, della vita intellettuale e spirituale dell’umanità. Forse il simbolo e l’unica incarnazione sensibile dell’anima. Per questo, anche se i libri possono essere – e spessissimo sono – stupidi, futili, volgari, cattivi, il libro mantiene una sua nobiltà, crea intorno a sé un alone di rispetto, persino di reverenza, quasi segnalasse di appartenere a un or- dine di realtà diverso e superiore. Con anche tutte le conseguenze negative, è ovvio: la distanza, la separa- tezza, la difficoltà, infine l’estraneità. E con tutte le pretese mal riposte. Quella di una superiorità etica del libro in primo luogo, facilmente quanto indebitamente estesa a chi i libri li scrive e a chi i libri li legge. Con la conseguenza ultima di avvolgere il libro in un’atmo- sfera zuccherosa e devozionale. Peggio ancora, di collo- carlo autoritativamente nella sfera del dovere, o, futil- mente, in quella del piacere, entrambe categorie, il moralismo e l’edonismo, estranee al libro e alla sua es- senza. Ma trascurando questi che sono tutto sommato particolari, resta – o forse restava – l’aura di valore che circonda il libro. Un’unica luce, frazionata e riflessa dalle innumerevoli sfaccettature degli innumerevoli li- bri. La luce, a ben vedere, dell’umanità. Abbiamo creduto che anche il mondo del libro in cui siamo nati e cresciuti fosse immutabile, che facesse parte dell’ordine naturale delle cose. Ancora vent’anni fa il problema più dibattuto era la concentrazione edi- toriale e il timore più acuto quello che i prodotti dell’e- ditoria di massa – i cosiddetti bestseller – potessero soffocare l’editoria di cultura. Ancor più in generale molto si paventava l’avvento di una civiltà (civiltà?)

12 dell’immagine, sterminate masse di bruti televedenti a circondare gli isolati castelli dei forti e nobili lettori. Non sapevamo che il futuro – cioè quello che ora è di- ventato presente – ci avrebbe riservato la più grande fioritura mai vista della parola scritta. Con le stermi- nate masse di cui sopra trasformate in legioni di scri- venti. Scriventi a chiunque, a ogni ora, su qualsiasi argomento, con qualsiasi dispositivo. Altro che imma- gine... Vent’anni fa comunque le prospettive concrete del libro e della sua industria, l’editoria libraria, erano più che rosee. È vero che i più accreditati analisti finan- ziari e consiglieri d’investimenti storcevano il naso di fronte ai libri, perché non ottemperavano al comanda- mento di essere advertising driven cioè, in parole povere, basati sulla pubblicità. (E si è poi visto a quali belle conseguenze abbia portato questa brillante conce- zione...) Ed è anche vero che il capitale americano si stava ritirando quasi completamente dall’editoria libra- ria, cosa che avrebbe dovuto far riflettere. Ma il quadro strutturale rimaneva straordinariamente favorevole. Su circa sei miliardi di abitanti del pianeta, solo uno/due erano se non partecipi dei libri, almeno esposti ai libri. Mentre era chiaro che i restanti, nella competizione per assicurarsi migliori forme di vita, comunque dai libri, innanzitutto scolastici e di seguito tutti gli altri, avreb- bero prima o poi dovuto passare. Dunque l’orizzonte del libro, il futuro del libro, era tranquillamente pensa- bile nella modalità prediletta dal pensiero occidentale da oltre mezzo millennio. Come espansione e conqui- sta. Come diffusione dei lumi allietata da qualche cor- poso interesse. Loro finalmente acculturati e noi bene- ficiari di un cospicuo, cospicuissimo, allargamento del mercato. Tutti felici e contenti.

13 E invece... e invece le cose non sono andate così. È comparsa qualche minuscola crepa (tutt’oggi in Italia le vendite di ebook sono meno del tre per cento, un’ine- zia). È caduto qualche calcinaccio, niente di grave. Ma è quel rombo lontano che preoccupa, quel senso di mo- vimento tellurico, laggiù nel profondo. Un brivido di ansia percorre i fragili nervi della comunità dei libri. Quando? Quando arriverà, se arriverà, la grande scossa? Che cosa resterà in piedi e che cosa, esattamente, scom- parirà? La realtà è che abbiamo avuto in sorte (fortuna? disgrazia?) di assistere al tramonto di un mondo e alla nascita, probabile ma ancora indiscernibile, di uno nuovo. Un viaggio verso l’ignoto più che una rivolu- zione, termine abusato che in realtà significa tornare al punto di partenza. Non intravediamo ancora nulla, non sappiamo a quali forme approderà il sommovimento che è in corso. Ma se non altro l’imminenza e il timore del pericolo ci fanno guardare con occhi nuovi a quel che fino a ieri ci appariva ovvio, scontato. Dove vede- vamo un processo naturalmente cumulativo e progres- sivo, lineare, scorgiamo una formazione storica com- plessa, irregolare, contorta. Quel che credevamo peren- ne si rivela labile, soggetto a dissolversi così com’è ve- nuto a nascere. Oggi che siamo obbligati a uscire dalla falsa naturalità del libro, possiamo anche vederlo, forse per la prima volta, nella fisionomia che gli è più propria e reale. Non come un culmine e un coronamento, ma come la forma sinora più rilevante – e comunque solo un tratto – nella lunga parabola della comunicazione scritta. Dobbiamo molto al libro. La vita intellettuale degli uomini ha avuto nel libro il suo utensile più versatile e insieme il suo emblema più glorioso. La vita emotiva,

14 interiore, degli uomini ha trovato nei libri quella com- prensione, quel colloquio, quell’intima rispondenza a sé che non sempre gli altri uomini – quelli concreti, in carne e ossa – sono stati in grado di offrire. Un simile riconoscimento che confina con la riconoscenza non ci autorizza però né a perseverare nelle illusioni né ad av- volgere noi stessi e il libro in una nebbiosa retorica. Al contrario, possiamo usarlo – lui, il libro, e anche questo modesto libro che s’intitola «Libro» – per fare quello che gli è sempre riuscito meglio. E cioè indagare, ricer- care, discernere e, alla fine, capire, conoscere. E preser- vare, salvare. Questo, infatti, è stato il suo ufficio, la sua fortuna e la sua gloria. Sin dagli inizi, sin dal primo grande libro in prosa della nostra cultura, che si presen- tava proprio così: «Questa è l’esposizione dell’indagine di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravi- gliose... non restino senza fama...». Di questo il libro è stato davvero insieme l’umile tramite e l’eroe, della ca- pacità prensile sul reale, dell’afferrare e dominare le cose, della volontà di scoprire e di sapere. Il resto, cioè il futuro, è oltre le nostre capacità di comprensione. «È ignoto a tutti – come diceva Socrate nel libro di Platone intitolato Apologia, che fingeva di non essere un libro, ma un discorso parlato – tranne che al dio».

15 Introduzione Tre libri

Da circa cinquantamila anni Homo sapiens – vale a dire noi medesimi, la nostra specie – ha terminato di occupare l’intero globo terracqueo e nello stesso tempo di eliminare le altre specie di Homo che erano fin lì esistite. Da circa cinquantamila anni dovunque sul pia- neta gli unici uomini siamo noi. Nell’ultimo decimo di questi cinquantamila anni, cioè da cinquemila anni (un po’ di più in realtà, dal 3300-3200 a.C.) gli uomini, che già da lunghissimo tempo lasciavano volontariamente tracce visive della loro presenza – prima immagini e rappresentazioni, poi segni –, hanno imparato a codifi- care i segni in veri e propri sistemi di scrittura. Nell’ul- timo ventesimo, cioè negli ultimi duemila e cinque- cento anni, hanno prima inventato, poi perfezionato quell’entità a tutti noi ben nota denominata libro. Nell’ultimo centesimo di questa vicenda umana, corri- spondente a un quinto, anch’esso l’ultimo, della vi- cenda del libro, cioè negli ultimi cinquecento anni (un po’ di più in realtà, dal 1450-60 d.C.) i libri hanno as- sunto la veste, a noi tanto familiare che a volte, sba- gliando, pensiamo sia «la» veste tout court del libro, quella cioè del libro a stampa. O, per essere più precisi, del libro stampato a caratteri mobili su carta. Infine, e per concludere, proprio oggi sta nascendo sotto i nostri

17 occhi un nuovo libro, quello denominato a volte elet- tronico – abbreviato in e-book o ebook (e noi adotte- remo quest’ultima grafia) – a volte digitale. Di sicuro un nuovo supporto fisico, ma di sicuro anche molto di più. E questo perché la storia sta lì a mostrarci che nel delicato equilibrio del libro un cambiamento della fisi- cità finisce sempre per provocare un cambiamento non solo nella natura di quel che è scritto, ossia in quel che viene usualmente chiamato contenuto, ma anche nel modo in cui questo contenuto viene organizzato, strut- turato e presentato, cioè nella forma libro vero e pro- pria. Da ultimo, cambiano anche i destinatari di quella particolare comunicazione denominata libro, ossia il pubblico cui il libro è indirizzato. Ed è proprio il cam- biamento contemporaneo di tutti e quattro i principali aspetti del libro – fisicità, contenuto, forma libro e pubblico – a provocare quella non piacevole sensazione di capogiro, di lieve nausea, che affligge di questi tempi tutti coloro che per un verso o per l’altro di libri si occupano. Dunque di libri, a ben vedere, ce ne sono tre. Il primo è il libro scritto a mano, che nasce attorno al 500 a.C., vive in solitudine per quasi duemila anni, fino attorno al 1450 d.C. e sopravvive in compagnia del libro a stampa, ma sempre più stentatamente, fino a scomparire del tutto a cavallo della Rivoluzione francese. Il secondo è il libro stampato, che compare alla metà del xv secolo e viene mano mano crescendo e prosperando fino ai giorni nostri, in una parabola espansiva che pareva non conoscere limiti. Espansiva ma non lineare, nel senso che la vicenda del li- bro stampato è composta di due segmenti assai diversi. Nel primo, il più lungo, quello del libro è un mestiere, nel secondo – che inizia nei primi decenni dell’Ottocento, ma

18 s’impone universalmente negli ultimi dell’Ottocento e nei primi del Novecento – quella del libro diventa un’indu- stria. E sono proprio i prodotti dell’industria libraria nella sua ultima versione, quella del secondo dopoguerra, i libri che ci hanno circondato e ci circondano quotidianamente e che noi siamo, erroneamente, portati a ritenere «i» libri per antonomasia. Il terzo e ultimo libro è l’ebook, che, come l’alieno del film di Ridley Scott, adesso, proprio sotto i nostri occhi, sfonda con la sua mostruosa testolina il petto del mite astronauta che l’ha fin lì ospitato e nu- trito. Vale a dire, fuor di metafora, il libro a stampa. Il tutto però con molto meno sangue e molta minor ferocia, visto che il libro a stampa non solo non è ancora morto, ma gode di una discreta (anche se inquieta) salute. E d’al- tra parte il neonato alieno non sembra poi così aggres- sivo e spietato, intento com’è (per ora) più a esplora- re il suo habitat che a conquistarlo e ad annichilire il predecessore. Essendo dunque tre i libri, questo nostro libro, o li- bretto, sarà a sua volta diviso in tre parti, che chiame- remo Libro primo, Libro secondo e Libro terzo e che avranno rispettivamente come tema il primo libro (quello più antico, manoscritto), il secondo libro (quello a stampa) e il terzo libro (il nascente ebook). Una simile struttura non deve però indurre aspettative di comple- tezza. Questa non è una storia del libro, ma una rifles- sione su alcuni suoi aspetti, ovvi e meno ovvi. Non è una voce di enciclopedia, ma un tentativo di suggerire qualche prospettiva inaspettata. Non ha aspirazioni si- stematiche e non è neppure una collezione di aneddoti, anche se forse ci si potrà trovare qualche episodio cu- rioso. Infine, inutile aggiungere che si parlerà solo della tradizione occidentale del libro. Siamo tutti a giorno

19 del fatto che il primo libro a stampa conosciuto sia con ogni probabilità il cosiddetto Sutra dei diamanti, stam- pato nell’868 d.C. in Cina e attualmente conservato, cosa anche questa assai istruttiva, presso la British Li- brary. Così come nessuno è tanto eurocentrico (e démodé) da trascurare che nel x secolo, durante il regno di al-Hakam II, la biblioteca reale di Cordoba contava circa quattrocentomila volumi mentre quella del fa- moso monastero di San Gallo si fermava a quattro- cento. Ma queste e altre simili notizie o curiosità sparse non possono mascherare la sostanziale ignoranza di chi scrive sulla cultura cinese, sulle culture estremo orien- tali, sulla cultura araba e islamica in generale. E soprat- tutto sul ruolo in esse rivestito dai libri.

20 Nota bibliografica

L’opera che si è presa a riferimento è The Oxford Companion to the Book, a cura di M. F. Suarez, S.J. e H. R. Woudhuysen, Oxford Uni- versity Press, Oxford 2010, 2 voll. Quando non altrimenti indicato, le informazioni provengono dal Companion o sub voce o dai saggi monografici che lo introducono.

Su il sipario L’autorevole assimilazione del libro al cucchiaio si deve a Umberto Eco, che l’avanzò la prima volta (per poi tornarvi a varie riprese) nel discorso di chiusura dell’edizione 2003 della Scuola per librai Um- berto e Elisabetta Mauri, «Librai e millennio prossimo», ora in Vent’anni di Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, a cura di Silvana Ottieri Mauri, Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, Milano 2003, pp. 359-70. «Il libro appartiene a quella generazione di strumenti che una volta inventati non possono più essere migliorati. Appartengono a questi strumenti la forbice, il martello, il coltello, il cucchiaio e la bicicletta: nessuna barba di designer danese, per tanto che cerchi di migliorare la forma di un cucchiaio, riuscirà a farla di- versa da com’era duemila anni fa... Il libro è ancora la forma più ma- neggevole, più comoda per trasportare l’informazione». Il passo di Erodoto è una specie di frontespizio, come si vede dal fatto che non rientra nella numerazione in capitoli. La chiusa dell’au- todifesa di Socrate in Ap. 42A.

Introduzione. Tre libri La conquista del mondo da parte di Homo sapiens è efficacemente descritta in G. Chelazzi, L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica, Einaudi, Torino 2013. Ma si veda anche G. Manzi, Il

209 grande racconto dell’evoluzione umana, il Mulino, Bologna 2013. L’o- pera di riferimento, anche se un po’ datata, è R. G. Klein, The Human Career. Human Biological and Cultural Origins, The University of Chi- cago Press, Chicago and London 2009 (terza edizione). La contrappo- sizione tra la biblioteca reale di Cordoba e quella del monastero di San Gallo – soprattutto tra i quattrocentomila volumi della prima e i quattrocento della seconda – si trova in D. Sassoon, La cultura degli europei dal 1800 a oggi, Rizzoli, Milano 2008, p. 31.

Libro primo. Il primo libro, il libro manoscritto Nascita in un magazzino L’opera di riferimento per quanto riguarda cultura e scrittura del Vicino Oriente Antico rimane L’alba della civiltà. Società, economia e pensiero nel Vicino Oriente Antico, tre volumi a cura di vari autori, utet, Torino 1976. In particolare il volume terzo, «Il pensiero» a cura di P. Fronzaroli, S. Moscati, G. Garbini e M. Liverani e ancor più in particolare i due saggi di Fronzaroli «La trasmissione della cultura» (pp. 3-92) e «L’espressione letteraria» (pp. 95-212). Su Uruk la sintesi più documentata e recente è il catalogo della mostra Uruk. 5000 Jahre Megacity tenutasi a Berlino presso il Pergamonmuseum tra il 25-4 e l’8-9-2013, catalogo pubblicato con lo stesso titolo, Michael Imhof Verlag, Petersberg 2013.

Nascita dei testi, nascita degli scribi La presentazione completa dell’epopea di Gilgamesh in La saga di Gilgamesh a cura di G. Pettinato, Mondadori, Milano 2004. In La storia del mondo in 100 oggetti di N. MacGregor, Adelphi, Milano 2012, si possono vedere sia una tavoletta dell’epopea, la cosiddetta Tavoletta del Diluvio, proveniente da Ninive (alla pagina 100), sia il Papiro Rhind, proveniente da Luxor (alla pagina 105). Sono entrambi conservati al British Museum.

Nascita dell’alfabeto Das Alphabet. Entstehung und Entwicklung der griechischen Schrift, a cura di G. Pfohl, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1968, raccoglie tutti i principali contributi sul tema dagli anni trenta

210 agli anni sessanta. Il legame della scrittura con la magia in G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975 (nuova edizione). Il dito scrivente di Dio in Es. 31,18.

Nonchalance greca Eraclito deposita il proprio libro nel tempio di Artemide a Efeso in Diogene Laerzio IX 6 (22 A 1 DK). Il libro di Anassagora venduto al mercato in Platone Ap. 26D (59 A 35 DK). Il medesimo, con ogni probabilità, è il libro con disegni, e dunque illustrato, in Clemente Alessandrino Strom. I 78 (59 A 36 DK). I Traci di Salmidesso in Se- nofonte An. VII 5, 12-14.

Parola viva, lettera morta Il testo capitale sul rapporto oralità/scrittura in Grecia è E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari 1973, traduzione italiana – con un molto oppor- tuno cambiamento di titolo – dell’originale Preface to Plato, Harvard University Press, Cambridge 1963. Più in generale, sul rapporto tra società prive o dotate di literacy, il testo inaugurale è J. Goody, The Domestication of the Savage Mind, Cambridge University Press, Cam- bridge 1977. Il «patrimonio perenne» in Tucidide, I 22, 4.

Nascita del lettore La notizia sull’appellativo «il lettore» dato da Platone ad Aristo- tele si trova in una biografia di Aristotele detta Vita Marciana al capi- tolo 6. La Vita Marciana dipende dalla versione araba di una biografia ellenistica opera di un certo Tolomeo denominato in arabo Tolomeo el-Garib, ossia «il forestiero». L’opera di Tolomeo è, con ogni proba- bilità, la fonte principale della tradizione biografica su Aristotele.

Nascita (alla buon’ora!) del libro Ancorché applichi disinvoltamente al mondo antico – e non solo nel titolo – categorie tipiche e proprie di quello moderno, come «edi- tore» e «pubblico», la miglior sintesi di partenza è Libri, editori e pubblico nel mondo antico, a cura di G. Cavallo, Laterza, Roma-Bari

211 1975 (quarta edizione aggiornata 2004). In particolare E. G. Turner «I libri nell’Atene del v e iv secolo a.C.», pp. 5-24. Sulla Biblioteca di Alessandria e su tutti i temi connessi, il testo di gran lunga più ricco, attendibile e piacevole è L. Canfora, La biblioteca scomparsa, Sellerio, Palermo 1986 (quattordicesima edizione riveduta 2013).

Copie infedeli La notizia del rogo dei libri di Protagora in Diogene Laerzio, IX 52 (80 A 1 DK), poi ripresa in Esichio e in Eusebio (A 3 e A 4 DK).

Il libro vivo Il testo di riferimento è Libri e lettori nel Medioevo. Guida storica e critica, a cura di G. Cavallo, Laterza, Roma-Bari 1977. Sul passaggio dalla concezione monastica del libro a quella urbano-universitaria e sul conseguente cambio di sensibilità, fondamentale il saggio di F. Alessio Conservazione e modelli di sapere nel Medioevo in La memo- ria del sapere, a cura di Pietro Rossi, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 99-133.

Il mondo in forma di libro Il riferimento classico, e tutt’oggi insuperato, è E. R. Curtius, Let- teratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992 (ma l’edizione originale tedesca è del 1948), in particolare il capitolo sedi- cesimo, «Il libro come simbolo», pp. 335-85.

Libro secondo. Il secondo libro, il libro stampato Un libro nuovo Le due interpretazioni più influenti – e per questo imprescindi- bili – del complesso di fenomeni legati alla comparsa della stampa, sono da un lato L. Febvre e H.-J. Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 2011 (ma la prima edizione italiana è del 1977, mentre l’edizione originale francese è del 1958); dall’altro lato Elizabeth L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di muta- mento, il Mulino, Bologna 1986 (ma l’edizione originale inglese è del 1979). La Eisenstein è poi tornata sul tema, correggendo in parte le

212 proprie precedenti convinzioni, con Le rivoluzioni del libro. L’inven- zione della stampa e la nascita dell’età moderna, il Mulino, Bologna 1995 (ma l’edizione originale inglese è del 1983). La citazione di Curtius in cit., p. 363.

Che cos’è la stampa Il miglior glossario tecnico della stampa libraria classicamente in- tesa (precedente quindi l’introduzione di ogni mezzo elettronico, compresa la fotocomposizione) è G. A. Glaister, Glossary of the Book, Allen and Unwin, London 1960. Per gli aspetti specifici legati soprat- tutto all’incisione dei punzoni e alla configurazione dei caratteri (cioè dei tipi), resta ancora insuperato J. R. Biggs, An Approach to Type, Blandford Press, London 1949. Una rassegna accurata dei principali trenta (tra le molte migliaia) caratteri, o font che dir si voglia, in A. Lawson, Anatomy of a Typeface, Godine, Boston 1990. Molto utili e ricche di acute osservazioni le sei lezioni raccolte in H. Tuzzi, Libro antico libro moderno. Per una storia comparata, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2006. Un inquadramento accurato e fattuale della stampa entro la storia della tecnica nel saggio di M. Clapham, «L’arte della stampa», in Storia della tecnologia, a cura di C. Singer, E. J. Holmyard, A. Rupert Hall e T. I. Williams, III: Il Rinascimento e l’incontro di scienza e tecnica, Boringhieri, Torino 1963, nuova edi- zione 2013 (ma l’edizione originale inglese è del 1957), pp. 385-424.

Il tipografo La lettera «tipografica» di Alessandro Manzoni in Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, Adelphi, Milano 1986, I, pp. 574-75. Nel mede- simo volume, passim, tutte le informazioni correlate.

L’editore L’osservazione sul passatismo della scelta editoriale che è all’origine della produzione d’incunaboli, proviene dal saggio illuminante (è il caso di dirlo...) di Neil Harris «Ombre della storia del libro italiano», in The Books of Venice. Il libro veneziano, a cura di L. Pon e C. Kallendorf, La musa Talìa-Oak Knoll Press, Venezia 2008, pp. 455-516. L’osservazione su quella che Harris chiama «inerzia testuale» si trova alle pp. 462-63.

213 Nascita delle novità La vicenda del Sidereus nuncius, la novità per antonomasia, è rico- struita con precisione ed eleganza in M. Bucciantini, M. Camerota e F. Giudice, Il telescopio di Galileo. Una storia europea, Einaudi, Torino 2012.

Censura L’ordine di sequestro della Procura di Milano concernente L’amante di Lady Chatterley è riprodotto in Album Mondadori 1907-2007, Mon- dadori, Milano 2007, p. 229. La messa all’Indice della Bibbia in volgare come una tra le cause principali della mancata diffusione della lettura in Italia nel saggio citato di Neil Harris, pp. 505-06.

L’editoria industriale La meccanizzazione della stampa e di tutti i procedimenti connessi nel saggio di W. Turner Berry, «Tipografia e arti grafiche» in Storia della tecnologia cit., V: L’età dell’acciaio, pp. 694-726.

Pubblico, mercato, generi Cui dono lepidum novum libellum / arida modo pumice expolitum? «A chi dono (dedico) il mio grazioso nuovo libretto / appena levigato dalla ruvida pomice?» (si intende ai bordi del rotolo avvolto), Catull. 1.

Scienza, politica, soprattutto romanzi La frase di Aristotele è quella che apre la Metafisica, 980 a, 21. Le vicende legate alla pubblicazione da parte di Necker del Compte Ren- due in S. Schama, Cittadini. Cronaca della Rivoluzione francese, Mon- dadori, Milano 1989, pp. 78-86.

L’autore e i suoi diritti Le notizie sulle dissipatezze di Balzac in Honoré de Balzac, La commedia umana, Mondadori, Milano 1994, I, 1, alla p. lxiii della «Cronologia» a cura di P. Minsenti.

214 Quattro numeri in croce Dati, cifre e calcoli derivano, con qualche minore modifica, dal saggio di G. A. Ferrari «Libri e futuro» in XXI Secolo, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2009, V, pp. 185-203.

Il mondo della conoscenza In questo e nei successivi paragrafi, tutti i dati che si riferiscono alle performance economiche delle società e dei gruppi editoriali deri- vano da Le Classement de l’édition mondiale, rassegna pubblicata an- nualmente da «Livres Hebdo» in Francia (per il 2012 nel numero 959 del 21 giugno 2013) e ripresa in Germania da «Buchreport», negli Stati Uniti da «Publishers Weekly», nel Regno Unito da «The Book- seller» e in Brasile da «PublishNews Brazil».

Tensioni. Forma libro e contenuto Il paradosso del sorite è usualmente attribuito a Eubulide di Mi- leto, filosofo di scuola megarica, cui si fa a volte risalire anche il più noto paradosso del mentitore. Ma mentre quest’ultimo ha una strut- tura logica che fu, infatti, chiarita da Bertrand Russell, il sorite non riguarda il vero e il falso, ma l’impossibilità di connettere termini linguistici alla realtà e dunque di conoscerla.

Libro terzo. Il terzo libro, il libro elettronico Un quadro generale del cambiamento che è derivato e deriverà nella dimensione conoscitiva e in senso lato culturale dall’avvento delle tecnologie digitali e della rete in R. Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, Milano 2012. Per quanto invece riguarda specificamente il libro, la sintesi migliore è G. Roncaglia, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Laterza, Roma-Bari 2010.

215 I sampietrini

«Una storia del libro, un ragionamento filosofico su cosa sia un libro, e una riflessione su cosa diventerà il libro». Roberto Cotroneo

«Un’importante riflessione sul libro e il suo destino». «Corriere della Sera»

Gian Arturo Ferrari, dopo la laurea in Lettere classiche all’Università di Pavia (dove era alunno del Collegio Ghislieri) ha perseguito per un certo tratto una doppia vita. Da un lato l’insegnamento universitario, come professore di Storia del pensiero scientifico, sempre presso l’Università di Pavia. Dall’altro l’apprendistato editoriale, prima con Edgardo Macorini alla est Mondadori, poi per un decennio, come stretto collaboratore di Paolo Boringhieri. Editor della Saggistica Mondadori nel 1984, direttore dei Libri Rizzoli nel 1986, rientrato in Mondadori nel 1988, con il 1989 ha scelto l’editoria libraria come propria unica vita e si è dimesso dall’Università. Direttore dei Libri Mondadori nei primi anni novanta, è stato dal 1997 al 2009 direttore generale della divisione Libri Mondadori, che comprendeva, oltre a Mondadori, Einaudi, Electa, Sperling&Kupfer, Edumond e, più tardi, Piemme. Dal 2010 al 2014 ha presieduto il Centro per il libro e la lettura, presso il Ministero dei Beni e delle Attività culturali. Dal 2012 è editorialista del «Corriere della Sera».

www.bollatiboringhieri.it

NON SON DEGNO DI TRE

Romanzo di JON RANCE

Traduzione di ANNAMARIA RAFFO www.longanesi.it

facebook.com/Longanesi

@LibriLonganesi

www.illibraio.it

PROPRIETA` LETTERARIA RISERVATA Longanesi & C. F 2014 – Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-304-4085-2

Titolo originale: This Thirtysomething Life

In copertina: Art Director: Stefano Rossetti Illustrazione: Riccardo Gola / PEPE nymi

Copyright F Jon Rance 2013 The right of Jon Rance to be identified as the Author of the Work has been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988. All rights reserved.

First published in Great Britain in 2013 by Hodder & Stoughton An Hachette UK Company

Prima edizione digitale 2014

Quest’opera e` protetta dalla Legge sul diritto d’autore. E` vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. NON SON DEGNO DI TRE Alla mia adorata moglie per il milione di cose oltre quelle che potrei mai raccontare in un libro e perche´ sopporta la mia « capacita` di disattenzione ». Ti amo. GENNAIO 8 9

Domenica, 1o gennaio, ore 14.00

In cucina. Emily e` di sopra. Nuvoloso. Potrebbe piovere.

Non e` passato neppure un giorno di questo anno nuo- vo di zecca e sono gia` in rotta con Emily. Cos’ho fatto di sbagliato? Non ne ho la piu` pallida idea. So solo che lei si comporta in modo molto strano e che e` arrabbiata per qualcosa. Un quarto d’ora fa ho sentito tirare lo sciacquone, ma per il resto silenzio. Ho paura a salire. Possibili motivi per cui potrebbe essere incazzata con me:

1. Potrei aver fatto qualcosa di terribile ieri sera, di cui non ho ricordo. Ero davvero cosı` ubriaco? E` possibile. In effetti ho vomitato in giardino, ho fat- to pipı` nella vasca da bagno e sono riuscito a ad- dormentarmi con i calzoni infilati col davanti die- tro. Tutti pessimi indizi. 2. Potrebbe essere arrabbiata perche´ non ho ancora messo in ordine il capanno. Sono mesi che mi chiede di farlo ma, visto quanto e` intrattabile, de- v’essere qualcosa di molto, molto piu` serio. 10 3. Mestruazioni? Diventa di umore particolarmente instabile quando viene a trovarla la « zia Flo` ». De- vo controllare il calendario del ciclo. 4. Che sia arrabbiata con me perche´ ho comprato quei pupazzetti di Guerre stellari su eBay? Emily non capisce che sono un investimento. Per lei io ho comprato vecchi giocattoli su Internet. Ho cercato di spiegarle che potrei portarli all’Anti- ques Roadshow, ma mi ha detto « Non me ne fre- ga un cazzo di Antiques Roadshow,Harry.Soso- lo che hai speso cinquecento sterline per dei pu- pazzetti! » 5. Potrebbe essere una delle sue tipiche reazioni irra- gionevoli, come quella volta che non mi ha parlato per tre giorni e mi ha definito « un imbecille im- maturo ed emotivamente inetto, che non capireb- be il significato della parola ’romantico’ neppure a calci nei testicoli ». Certo, avevo dimenticato il no- stro anniversario, ma credo che abbia un tantino esagerato. Va detto che lei aveva perso un sacco di tempo a preparare un album con le nostre foto, la compilation con tutte le nostre canzoni e una ce- na di sei portate, ma era proprio il caso di mettere quell’annuncio sul giornale per scambiarmi con un modello migliore? La cosa peggiore e` che non ha ricevuto neanche uno straccio di risposta.

Ore 16.00 Emily e` ancora di sopra e presumibilmente ancora in- cazzata. Scendera`, prima o poi? Riusciro` a trovare il co- raggio di salire? E` il primo di gennaio e quest’anno 11 sembra gia` triste e deprimente come un romanzo di Dickens. Mi sembra davvero di vivere in una « Casa de- solata ».

Ore 16.40 Ora basta. Ho deciso di salire ma ti confesso, caro dia- rio, che preferirei andare incontro a un fuoco di sbarra- mento dell’artiglieria tedesca piuttosto che affrontare Emily quando e` di cattivo umore. Ho gia` controllato il calendario del ciclo per vedere se e` in fase premestrua- le (negativo) e le ho preparato una tazza di te`. Come dice sempre la mamma, « comincia l’anno nuovo come vorresti che proseguisse ». A giudicare dalle prime dodi- ci ore, sara` un anno difficile.

Ore 17.30 Sto fumando una sigaretta fuori dalla porta sul retro. Emily e` di sopra e si sta preparando. Ha appena comin- ciato a piovere. Sono salito con la mia offerta di pace (un te` di PG Tips) e l’ho trovata che leggeva un libro a letto. Ho po- sato il te` sul comodino. « Ecco, Em, una bella tazza di te`. » Lei non ha detto una parola e ha continuato a leg- gere in un silenzio carico di tensione. Non volevo accet- tare passivamente il suo atteggiamento. « Scusami » le ho detto. Non sapevo bene per quale motivo, ma in ogni caso e` sempre meglio scusarsi. Qualunque cosa avessi fatto di sbagliato, lei mi stava facendo chiaramen- te intendere che, per tornare nelle sue grazie, ci sarebbe voluto ben altro che una tazza di te` e qualche parola di scusa. 12 Alla fine, quando la sua freddezza si e` tramutata in gelo polare, ha chiuso il libro con un colpo secco, si e` girata verso di me e mi ha fissato con uno sguardo hi- malayano. I suoi profondi occhi scuri irlandesi mi han- no rivolto un’occhiata che pareva dire: La faccenda e` se- rissima, Harry, e non pensare neppure di cavartela con una delle tue solite battute cretine. E` una cosa impor- tante e sara` meglio che tu mi stia a sentire. « Voglio avere un bambino, Harry. » « Ma, Em... ne abbiamo gia` parlato. » Per ben due volte, l’anno scorso, ha tirato fuori l’ar- gomento, e in entrambi i casi e` finita allo stesso modo. Io non sono pronto. Non so perche´, esattamente, ma non sono pronto a rinunciare a quello che abbiamo. Forse sono egoista, ma a me piace la nostra vita cosı` co- m’e`. Mi piace sapere che se volessimo potremmo passa- re il weekend a Dublino, Dubrovnik o Du¨sseldorf. E` vero, ultimamente non abbiamo viaggiato molto nel weekend, e io non ho alcun desiderio di andare a Du¨s- seldorf, ma e` bello sapere che, volendo, potrei farlo. Purtroppo, a Emily non importava nulla dei week- end. Era stanca del suo lavoro. Un tempo le piaceva, ma ultimamente si sentiva impantanata ed era pronta per un cambiamento. Era pronta a metter su famiglia e a diventare quello che forse ha sempre sognato di es- sere. Una mamma. « Be’, io voglio parlarne di nuovo. Voglio una fami- glia. Sono pronta. » « Ma... » « Ma, cosa? Dammi un valido motivo per cui non possiamo. » 13 La verita` e` che non avevo un valido motivo. Non avevo motivi, ne´ validi ne´ del tutto inaccettabili. L’egoi- smo non e` un motivo sufficiente? Probabilmente no. E la paura di crescere e` un argomento valido per non ave- re figli? Decisamente no. Paura irrazionale? Forse avrei dovuto dirle quanto la amavo e spiegarle che io, un giorno, avrei senz’altro voluto una famiglia. E sarebbe stata la verita`. Desidero avere dei figli, portarli a scuola, magari comprare una monovolume e girare per casa in pantofole. Desidero tutte queste cose, ma non adesso. Pero` non potevo confessarlo a Emily, e cosı` ho detto la prima cosa che mi e` venuta in mente. « E il nostro viaggio in Italia? Avevamo detto che lo avremmo fatto prima di avere dei figli. » « E possiamo farlo, Harry. Possiamo andare nei pros- simi due mesi, te lo prometto. Ti prego, dimmi che ci penserai. E` importante. » Ho scelto la via piu` facile e ho acconsentito. Questo mi ha fruttato qualche coccola e un bacio. Le donne so- no davvero subdole. E gli uomini sono deboli. Perche´ metter su famiglia mi spaventa cosı` tanto? Perche´, quando tutte le persone intorno a noi sfornano figli con l’entusiasmo della famiglia Trapp, io prendo tem- po con la scusa di un’immaginaria vacanza di cui si era parlato durante una cena di San Valentino in cui ero ubriaco perso? Temo di essere sull’orlo di una precoce crisi di mezza eta`. E, per sfregare sale su una ferita aperta, questa sera andremo a cena a casa di Steve e Fiona, a Worcester Park. Non solo hanno avuto tre bambini, ma anche il coraggio (o l’ottusita`) di chiamarli tutti con nomi che 14 iniziano con la lettera J (Jane, Joseph e James). E` o non e` da malati di mente?

Lunedı`, 2 gennaio, ore 9.00 Bank holiday

Sul divano. Sto mangiando un sandwich con il bacon. Emily dorme ancora. Nuvolo.

Che serata orrenda. Steve e Fiona aspettano un altro fi- glio. Una quarta J da aggiungere alla loro ciurma di J. Quando si fermeranno? Ce lo hanno comunicato men- tre mangiavamo il guacamole. A Worcester Park de- v’esserci qualcosa nell’acqua (o magari nel guacamole). Conosciamo Steve e Fiona dai tempi dell’universita` e un tempo uscivamo sempre tutti e quattro insieme. Erano normali, fino a sette anni fa, quando hanno an- nunciato di essere incinti. All’inizio non e` stato poi cosı` male, ero persino vagamente felice per loro, ma poi, man mano che la loro collezione di J aumentava, una serie di cambiamenti ha cominciato a minare il nostro rapporto. Steve e Fiona non potevano piu` uscire, e cosı` eravamo sempre noi a dover andare da loro per cena, che solitamente si concludeva prima delle otto con Ste- ve e Fiona addormentati sul divano. Per due volte gli abbiamo gettato addosso una coperta e ce ne siamo an- dati zitti zitti. Sono anche diventati (molto in fretta) lo stereotipo delle persone con figli. Sono passati da una elegante Audi quattro porte a una monovolume che sembra un cubo. Sono ingrassati cosı` tanto da risultare 15 fisicamente attraenti solo l’uno per l’altra. Hanno co- minciato a vestirsi come se gli abiti fossero semplici teli per ripararsi dal vomito dei loro figli, e l’ultima volta che siamo andati a casa loro per cena Steve mi ha detto (giuro, non me lo sto inventando): « Papi deve andare a fare pipı` nel vasino grande! » E` stata la goccia che ha fat- to traboccare il vaso. Ovviamente, il loro annuncio ha portato all’inevita- bile domanda su quando ci decideremo a fare un bam- bino. Occhiate di frustrazione e avvilimento da parte di Emily. A questo ero pronto, ma il seguito mi ha com- pletamente spiazzato. Io e Steve siamo usciti a fumare una sigaretta in giardino. Per la precisione, io sono usci- to a fumare una sigaretta e Steve mi ha seguito per ri- cordarsi com’era fumare (Fiona l’ha costretto a smette- re quando hanno avuto la prima J). Mi stavo godendo il silenzio e la tranquillita`, quando Steve ha detto, inalan- do il fumo di seconda mano: « Allora, Harry, vecchio mio, qual e` il problema? » « Prego? » « Perche´ non vuoi avere bambini? I bambini sono fantastici! » Avevano coinvolto anche Steve. Quella era una co- spirazione. Lui era una di loro. Una donna sotto le mentite spoglie di un uomo! « Non sono pronto. Tutto qui. » « Neanche io lo ero, ma ora sto per avere il numero quattro e non potrei essere piu` felice. Ti cambiano la vita, sai. » « Anche la calvizie ti cambia la vita, e non sono pron- 16 to neanche per quella » ho risposto, e me ne sono tor- nato dentro. Il resto della serata e` stato un vero disastro. Un’allu- sione dietro l’altra. A ogni occasione mi passavano una delle loro J per giocarci, nella speranza che capissi il mio errore e annunciassi: « Sono pronto a metter su fa- miglia! » Perche´ tutti i genitori del mondo sono convinti che non si possa essere felici senza figli? Io non gli telefono alle undici di ogni domenica mattina per informarli che me ne sto a poltrire a letto. Non mando sms ogni volta che sono al pub a farmi una pinta, mentre loro sono a casa a cambiare pannolini, e non mi vanto tutte le volte che facciamo sesso, sapendo che probabilmente loro non lo fanno da mesi. I genitori sono i testimoni di Geova dei tuoi trent’anni: ti perseguitano per farti soc- combere al potere supremo della genitorialita`. Lasciate- mi in pace, sant’Iddio.

Ore 10.30 Nuovi vicini nella casa accanto. Ho dato una sbirciatina veloce dalla finestra mentre facevano il trasloco ed e` un pensiero terribile, lo so, ma avevano l’aria dei terroristi. Mrs Crawley del civico 4 (capo del comitato di quartie- re) e` uscita immediatamente in giardino a curiosare. Non ho dubbi che vorra` indire una riunione straordi- naria. Purtroppo, faccio parte del comitato. Devo andare a Canary Wharf, mi vedo a pranzo con Ben, il mio miglior amico. Speriamo che mi tiri un po’ su. 17 Ore 15.00 In cucina. Osservo uno scoiattolo scorrazzare per il giardino. Mi sento un tantino brillo dopo il pranzo con Ben.

E` stato bello passare un’ora con qualcuno che non sia fissato con la procreazione. Abbiamo parlato di calcio, dei bei vecchi tempi e della sua ultima avventura in Pe- ru´. Abbiamo fumato, bevuto e mangiato bene, poi Ben e` tornato al lavoro. Prima che se ne andasse, pero`,gliho raccontato della discussione che ho avuto con Emily e lui mi ha detto: « E` perfettamente naturale, amico. Siete sposati da... quanto? Sei anni, giusto? Lei ha passato i trenta. Prima o poi doveva succedere. Se non sei pronto a fare il padre, devi scoprire il motivo e presto, perche´, fidati, quando si tratta di figli le donne diventano mol- to impazienti. C’e` un tizio, al lavoro, Rupert Strang... Era sposato da cinque minuti appena e ha divorziato. Sua moglie voleva un bambino e lui no. Certo, lui si scopava anche la segretaria, ma insomma... hai capito cosa voglio dire ». Capito benissimo. Osservo uno scoiattolo correre per il giardino e mi domando se non sono un tantino irragionevole. Forse Ben ha ragione. E` un processo naturale, non si diventa piu` giovani. Dovrei dare un figlio a Emily comunque, che io sia pronto o no? Saro` mai pronto? A volte penso che sarebbe piu` semplice essere uno scoiattolo, perche´ lui deve preoccuparsi solo delle sue noci. Forse, dopotutto, non siamo cosı` diversi. 18 Martedı`, 3 gennaio, ore 10.00

Nello studio. Ascolto i Beatles. Emily e` al lavoro. Rove- sci temporaleschi in arrivo da nord (secondo il meteo- rologo della BBC).

Ieri sera quando Emily e` tornata a casa, le ho preparato una cena sontuosa a base di tonno scottato al limone con noodles croccanti, erbe e peperoncino (grazie, Ja- mie Oliver). Mi e` parsa favorevolmente sorpresa. Ho stappato una bottiglia di vino rosso italiano e ho cercato di avviare una conversazione civile sul fatto di avere un bambino. Sono stato aperto e sincero e tutto quello che secondo lei non sono. Le ho detto del mio pranzo con Ben e dello scoiattolo, cosa che, a essere sinceri, sembra averla un po’ confusa, ma e` stata ad ascoltarmi con at- tenzione e quando ho finito mi ha detto con molta cal- ma: « Harry, devo... devo dirti una cosa ma, ti prego, cerca di non... di non sclerare subito. Sono... sono in- cinta ». « Cosa? Io... io... non capisco, Em... come...? » « Tre settimane fa. Eravamo stati ai party di Natale con i nostri rispettivi colleghi. » « Io non me lo ricordo. » « Sono tornata a casa ubriaca. Tu stavi mangiando un kebab d’agnello. » « Ah, sı`, shish d’agnello... » «E` questo che ti ha rinfrescato la memoria? Comun- que, quella mattina avevo dimenticato di prendere la pillola e abbiamo fatto casino con il preservativo. » « Merda. » 19 « Sabato ho fatto il test di gravidanza ed era positi- vo. » « Sei sicura? Perche´ lo sanno tutti che i test di gravi- danza sono difficili da interpretare... Righe azzurre, ri- ghe rosa, righe singole, righe doppie, chi ci capisce e` bravo. » « C’era scritto che sono incinta, a parole. » « Ah. » « Sono sicuramente incinta, Harry. Diventerai pa- dre. » Non c’e` niente al mondo che possa prepararti a quel- le parole. Diventerai padre. Tu, Harry Spencer, trenta- due anni, presto diventerai responsabile di un piccolo essere umano. Mi e` passata davanti agli occhi tutta la vita e lei non aveva ancora finito di pronunciare le pa- role che, con mia grande meraviglia, sono scoppiato a piangere. Non me l’aspettavo, e neppure Emily, credo. La cosa che mi ha lasciato piu` perplesso, pero`,e` che non sono del tutto sicuro dell’origine di quelle lacrime. E` difficile classificarle perche´ ero sicuramente felice, ma anche terrorizzato, e di colpo mi si e` seccata la bocca. Ma quando lo shock iniziale si e` lentamente trasforma- to in sorpresa, le ho chiesto: « Ma se eri gia` incinta, per- che´ mi chiedevi se volevo diventare padre? Perche´ tutte quelle scene a casa di Steve e Fiona? Perche´ non me l’hai detto subito? Sono confuso, Em ». Per la cronaca, lo sono tuttora. « Perche´ sapevo che sarebbe stato uno shock e pensa- vo che in quel modo potessi abituarti all’idea. Mi di- spiace, Harry, ma lo sai come sei. » (Sı`, acuto.) « Sei contento? » 20 Ecco, me lo aveva chiesto. Doveva farlo, suppongo, e a essere sinceri, lo ero. Non pensavo che sarei stato fuori di me per la gioia, ma la realta` era molto diversa dall’in- cubo che mi ero immaginato. Forse, dopotutto, ero pronto a diventare padre. L’ho guardata e ho sorriso. « Certo che sono contento, Em. Avremo un bambi- no. » Ci siamo baciati, abbracciati, lei ha pianto, io ho smesso di piangere, finche´ poco a poco il terrore si e` in- sinuato nella mia mente. Diventero` padre per sempre. E se fallissi? E se fossi un pessimo padre? E se non amas- si mio figlio? E se... Avrei potuto andare avanti all’infi- nito, ma mentre Emily se ne stava rannicchiata contro di me e le sue lacrime di gioia mi colavano lentamente sulla camicia, non riuscivo a liberarmi dalla paura. Mi ci erano voluti tre tentativi per superare l’esame per la patente – e avevo studiato molto – ma per la paternita` non esisteva un manuale e avevo una sola possibilita` per far bene. « Sarai pronto? » ha detto Emily, o qualcosa del gene- re, perche´ ero scivolato in una specie di coma tipica- mente maschile. Emily ha continuato a parlare (per lo meno, le sue labbra si muovevano), ma io sono rima- sto chiuso nel mio piccolo mondo finche´ lei mi ha ri- portato alla realta` con uno schiocco delle dita. « Harry, mi stai ascoltando? » « Scusa, stavo pensando. » « So che e` un trauma, ma questo non e` il momento per una crisi di mezza eta`.» « Quale crisi? Io non ho nessuna crisi di mezza eta`.» « Perche´ l’ultima cosa di cui ho bisogno in questo 21 momento e` che tu perda il contatto con la realta`.Tu sarai pronto, vero, Harry? » Saro` pronto? Certo che no. Ho una crisi di mezza eta`? Del tutto possibile. Non sapevo cosa dire. Purtroppo, mentre riflettevo su questa eventualita`, sono scivolato in un altro coma maschile e, prima di capire cosa stava succedendo, Emily stava di nuovo schioccando le dita. « Harry, Harry... » « Scusa, cos’hai detto? » « Ho detto che avro` bisogno di te. Non posso farcela da sola. » « Lo so, e io saro` qui accanto a te, in ogni momen- to. » « Me lo prometti? » « Te lo prometto. »

Ore 13.00 Sto ancora aspettando i rovesci temporaleschi da nord. Intanto mangio un pacchetto di salatini al cocktail di gamberi. Fuori, lo scoiattolo si fa beffe di me con la sua spensieratezza. Dolore al fianco.

Nel tentativo di ritardare l’insorgere della pancetta di mezza eta` e prepararmi psicologicamente alle fatiche della paternita`, ho cercato di fare qualche flessione e so- no quasi svenuto. Da allora ho un dolore continuo al fianco. Ho cercato « dolore al fianco » su Internet e po- trebbe essere qualunque cosa, da una semplice fitta a un tumore del rene, da un fuoco di Sant’Antonio a un at- tacco di cuore! Fantastico. Ho provato a fare esercizio e questo potrebbe portarmi a una morte prematura. 22 Ho fatto anche un elenco dei pro e dei contro del fat- to di avere un figlio:

PRO 1. I bambini sono carini e in genere sono considerati una cosa buona. 2. Mia madre sara` la mamma piu` felice del mondo. 3. Emily sara` la moglie piu` felice del mondo. 4. Potrebbe rendere felice persino me. 5. Avremo qualcuno che si prendera` cura di noi quando saremo vecchi e tristi. 6. Avro` qualcuno da plasmare a mia immagine. 7. Potrebbe essere divertente. 8. Non divento piu` giovane.

CONTRO 1. Sono costosi. 2. Pannolini da cambiare. 3. Mancanza di sonno. 4. Limitera` seriamente la nostra liberta`. 5. Non potremo piu` poltrire a letto nei weekend. 6. E se distruggesse la nostra vita sessuale? 7. E se distruggesse il nostro matrimonio? 8. Non mi sento per niente pronto. 9. Sono troppo giovane. 10. Abbiamo una bella vita, due lavori sicuri e una bella casa in un bel quartiere di Londra. Sono pronto a mettere a repentaglio tutto questo per un bambino? 11. Ultimo (e piu` importante, credo): tutte le coppie con figli che conosciamo sono le persone piu` noio- se sulla faccia della terra. Non sanno parlare d’altro 23 che dei loro figli. Tipo: « La scorsa settimana An- gus ha fatto la sua prima cacca a forma di banana. Adorabile ». Sono pronto a diventare cosı`? Sono pronto a parlare apertamente di popo` con le perso- ne a me piu` care?

Vincono i contro, 11 a 8. Non e` un buon segno, cazzo.

Ore 21.00 Emily e` a letto. Ancora nessun segno dei misteriosi ro- vesci temporaleschi da nord. Fumo la sigaretta quoti- diana fuori dalla porta sul retro. Dolore pulsante al fianco.

Strani colpi dalla casa accanto. Forse stanno fabbricando una bomba! Cosa si deve fare se si pensa che i propri vi- cini possano essere potenziali terroristi? Sono tentato di non fare nulla, ma se fossero veramente dei terroristi e facessero saltare in aria il Parlamento? Resterei per sempre quello che poteva fermarli e in- vece non ha mosso un dito. La mia foto finirebbe sulla prima pagina di tutti i giornali del paese: PROFESSORE DI STORIA COINVOLTO IN ATTENTATO ESPLOSIVO! Mi sembra gia` di vedere la delusione sul volto dei miei genitori.

Mercoledı`, 4 gennaio, ore 14.00

Da Starbucks. C’e` il sole. Ancora nessun segno dei rove- sci temporaleschi da nord. Il dolore al fianco peggiora. 24 Questa mattina ho parlato con i miei genitori di un nipote in arrivo. Erano entrambi molto eccitati, spe- cialmente la mamma. C’e` voluto un quarto d’ora per- che´ smettesse di piangere e strillare contemporanea- mente, mentre papa` contribuiva con il suo solito, laco- nico commento: « Ben fatto, ragazzo ». Passeranno a farci visita questo fine settimana. Forse avrei dovuto consultarmi con Emily prima di mettere in giro la vo- ce. Gliene parlero` stasera. Sono sicuro che non ci sa- ranno problemi.

Ore 19.00 Qualche problema c’e`. A cena ho accennato casualmen- te al fatto che ho detto ai miei del bambino e lei e` an- data su tutte le furie. A quanto pare, anche se non me ne ha mai fatto parola, aveva in programma di invitare le nostre famiglie per una grande festa durante la quale avrebbe dato l’annuncio ufficiale. Doveva essere un po’ come la cerimonia d’apertura dei giochi olimpici. Mi sono scusato, ma lei non ha voluto sentire ragioni e da allora non mi rivolge piu` la parola. Dovro` prendere un appuntamento con il dottor Pra- kish per il dolore al fianco. Sta peggiorando. Non vo- glio morire per colpa di qualche flessione. Interessanti sviluppi riguardo ai cosiddetti rovesci temporaleschi da nord. Questa sera il meteo non ne ha neppure parlato. Le previsioni per i prossimi cinque giorni sono buone. Ho perso ogni fiducia nelle previ- sioni del tempo. Non e` una grande serata. A peggiorare ulteriormente le cose, domani e` il primo giorno del se- condo quadrimestre. Non ho voglia di tornare a scuola 25 dopo la pausa natalizia. Speriamo che arrivino presto le prossime vacanze.

Giovedı`, 5 gennaio, ore 22.00

In soggiorno con una bottiglia di vino vuota, sei lattine di birra vuote e due pacchetti vuoti di patatine. Emily e` nel Buckinghamshire. Tutto tranquillo sul fronte di Wimbledon.

Che giornata! Il rientro a scuola e` stato un disastro. Ho costretto gli alunni dell’ultimo anno a guardare un vi- deo e meta` classe si e` addormentata. Gavin Haines rus- sava cosı` forte che i ragazzi rimasti svegli non riuscivano a sentire la televisione. Lo avrei svegliato ma, a essere sincero, non ne avevo la forza. La terza si e` beccata le diapositive sul Medioevo (senza commento). All’ora di pranzo ho fumato una sigaretta con Rory Wilkinson (arte) e gli ho raccontato del bambino e del- la mia lite coniugale. « Certo che ormai non si puo` piu` tornare indietro, no? » ha commentato Rory. « Ma cosa posso fare? Non so se sono pronto. » « Be’, puoi passare i prossimi nove mesi a rimugina- re, oppure puoi accettare la cosa e prepararti a fare il pa- pa`.» « Sono le sole opzioni che ho? » « Potresti scappare, ma non credo che sia una gran mossa. Anche se Paul Gaugin ha prodotto alcune delle sue opere migliori dopo aver lasciato la moglie ed esser- 26 si trasferito in Polinesia » ha detto, e poi ha aggiunto: « Pero` e` morto di sifilide ». « Ti saluto, Rory. » Ho passato il pomeriggio a riflettere sulla nostra con- versazione e ho deciso che non voglio passare i prossimi nove mesi ingrugnito ne´ morire di sifilide. Devo dimo- strare a Emily che posso cambiare, crescere ed essere il marito e il padre che lei disperatamente desidera. Sono finalmente pronto per diventare quell’uomo. Ero impa- ziente di tornare a casa per dirglielo, ma il mio entusia- smo e` durato poco perche´ quando sono rientrato a casa da scuola lei non c’era. Ho trovato un biglietto sul fri- go. Ero stato abbandonato.

Harry, capisco che non era tua intenzione agire da imbe- cille sconsiderato quando hai detto del bambino ai tuoi genitori. Capisco anche che sei terrorizzato all’i- dea di diventare padre, ma questa e` una cosa che dobbiamo fare insieme. E` un momento difficile e io devo sapere se tu ci sarai per me e per nostro fi- glio. Vado dai miei per un paio di giorni. Spero che questo ti dia il tempo per riflettere. Ti amo. Baci, Emily

Non potevo crederci. L’ho chiamata immediatamente, ma ha risposto suo padre. Derek e` un ex poliziotto ed e` un tipo che incute timore. E` alto due metri e largo piu` o meno lo stesso, e ha passato trent’anni a pattugliare le 27 strade di East London. Non e` uno con cui si scherza. La conversazione non e` andata nel migliore dei modi. « Salve, Derek. C’e` Emily? » «Sı`.» « Posso parlarle? » « In questo momento no. » « Perche´?» «E` turbata e credo che voglia parlare con noi. » « Del bambino? » « Bambino? Quale bambino? » Oh, cazzo. Evidentemente non gliel’aveva ancora detto. Mi avrebbe odiato. « Ehm... oh merda. » « Emily e` incinta? » E` stato allora che ho sentito Emily in sottofondo. « Emily vuole parlarti. » Gesu`... « Ma cosa diamine hai nella testa? » mi ha urlato al telefono. « Io... scusami... » « Agghh! » e mi ha sbattuto giu` il telefono. Questo e` successo cinque ore fa. Da allora ho fatto fuori sei lattine di birra, mezza bottiglia di vino e un pacchetto di sigarette. Ho guardato su YouTube la tra- gica uscita dell’Inghilterra dall’Euro ’96 ai rigori contro la Germania (perche´ Gareth Southgate, perche´?) e un classico di Baddiel and Skinner, Three Lions. Ho ascol- tato anche un intero album di James Blunt. E` stata una serata triste. Sono patetico. L’unica cosa positiva e` che sono cosı` ubriaco che non sento piu` il dolore al fianco. 28 Venerdı`, 6 gennaio, ore 4.00

Svegliato da un forte rumore di trapano proveniente dalla casa accanto. Forse dovrei andare da loro. Devo dare un’occhiata dentro prima di chiamare l’MI5. Non voglio sprecare denaro dei contribuenti, caso mai stessero semplicemente effettuando qualche ripa- razione in casa. Dinamitardi o amanti del bricolage?

Ore 9.00 A casa. Sto mangiando un sandwich con i wurstel. Emi- ly e` ancora nel Buckinghamshire. Il dolore al fianco non e` mai stato cosı` forte.

La scorsa notte ho fatto un sogno erotico sulla ragazza che vive al civico 7. Ha solo diciotto anni, ma e` uno schianto. Eravamo nel capanno in giardino, che era molto in disordine (devo assolutamente mettere a po- sto), e lei era nuda, ma quando mi ha tirato giu` le mu- tande io ero senza pene! Piatto come Action Man. Poi e` entrato il mio vecchio professore di matematica, Mr Rogers, che brandiva un batacchio enorme, e i due se ne sono andati insieme. Cosa vorra` dire? Oggi mi sono dato malato. Non riuscivo ad affron- tare la scuola con il mio matrimonio a pezzi. Ho pro- vato a chiamare Emily stamattina, ma dormiva ancora (a sentire sua madre). Devo vedere Ben alle dodici. Speriamo che almeno lui abbia una soluzione. 29 Ore 13.00 Canary Wharf. Ho appena finito una gustosa bistecca e un pasticcio di rognone. Ben e` fuori, al telefono. Emily ancora nel Buckinghamshire.

Ben sta organizzando una serata per soli uomini. Gli ho raccontato tutto e lui ha decretato che ho bisogno di « prendere le distanze da quel dramma e sbronzarmi alla grande ». Credo che Ben sia un vero genio. Adesso e` al telefono e sta chiamando a raccolta la cavalleria. Questa sara` la mia prima serata fuori da tanto, tanto tempo. Sa- ra` fantastica. Non dovro` preoccuparmi del bambino, di una moglie incazzata o dei vicini di casa potenziali ter- roristi. Stasera pensero` solo agli amici, a ubriacarmi e a divertirmi. Proprio come ai vecchi tempi!

Sabato, 7 gennaio, ore 11.00

A casa (per un pelo). Mi fa male la testa (tanto). Mi fa male il fianco (piu` della testa). Nausea mattutina (da dove viene?). Emily dorme al piano di sopra.

NON BERRO` MAI PIU` ! Quasi certamente la peggior notte della mia vita. E` cominciata bene, con qualche pinta a Covent Garden, ma arrivati in discoteca tutto ha co- minciato ad andare a rotoli. Eravamo sulla pista da ballo a fare gli stupidi. Simon (Bano) Bannister (squalo di professione) ce la metteva tutta per rimorchiare ogni ragazza del locale. Richard (Ritchie) Dennis (commercialista e candidato al titolo 30 di individuo piu` serio del mondo) stava dando a una povera ragazza alcuni consigli sui suoi investimenti. Ben aveva attaccato bottone con una ragazza al bar e io ero cosı` ubriaco da non reggermi in piedi. Poi, verso mezzanotte, e` scoppiato il casino. Una delle ragazze con cui stava ballando Bano aveva un fidanzato. Il quale era appena entrato con un paio di amici. Per farla breve, si sono sentite delle urla e un attimo dopo abbiamo visto Bano volare sulla pista. L’ora seguente e` stata un pande- monio, col risultato che siamo stati tutti arrestati e ab- biamo passato la notte alla stazione di polizia. E questa, purtroppo, non e` la parte peggiore della serata. Per qualche motivo, quando mi hanno chiesto chi contattare ho dato il numero di Emily e la mattina, quando la luce e` entrata dalla finestra della cella, ho visto lei e suo padre che aspettavano per riportarmi a casa. Non mi sono mai sentito cosı` in imbarazzo. Il viaggio in auto verso casa si e` svolto in silenzio. Quando siamo arrivati, Derek se n’e` andato (con un’occhiata minacciosa) ed Emily ha detto (con quel suo tono terrificante, tipico di quando non si capisce quanto sia arrabbiata): « Speravo che avresti usato questi due giorni per crescere. Non mi aspettavo di dover tornare per venire a prenderti in una stazione di polizia. Dire che sono delusa e` dire poco. Adesso menevadoaletto,sudisopra.Chenontivengain mente di raggiungermi ». Come se non bastasse, i miei dovrebbero arrivare en- tro un’ora per festeggiare il loro primo nipotino. Fan- tastico.

ASSAGGIO DI LETTURA IN ANTEPRIMA In libreria dal 24 aprile Titolo originale: Spiegelkind Traduzione dall’originale tedesco di Leonella Basiglini

In copertina: foto © David Terrazas Morales / Getty Images Grafi ca Linda Ronzoni / Rumore Bianco

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infi nitestorie.it

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

Copyright © 2012 Arena Verlag GmbH, Würzburg www.arena-verlag.de through Giuliana Bernardi Literary Agency All rights reserved

Casa Editrice Corbaccio è un marchio di Garzanti Libri S.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol

© 2014 Garzanti Libri S.r.l., Milano

www.corbaccio.it

ISBN 978-88-6380-528-4 Prologo

« Devi aiutarmi » dice lui. « Senza di te sono perso. Se ac- cetti, se resti con me, se mi salvi, non te ne pentirai mai. Non ti pianterò mai in asso, te lo prometto. Io ti protegge- rò. » « Sai cosa succede se non mantieni la promessa » replica lei. « Non me lo sono inventato io, è la Legge a stabilirlo. » « Corre voce che vi facciate da soli le vostre Leggi. » « È una bugia. » Silenzio. « Andiamo, so che lo vuoi anche tu » conclude lui. Lei tace. Siedono all’ombra, lei è più giovane di adesso. Non rie- sco a vedere i loro volti, ma il modo in cui lei china la te- sta, il modo in cui lui alza le spalle... li riconoscerei ovun- que. La ragazza è mia madre. L’uomo è mio padre. Apro gli occhi, è notte, sono nel mio letto, sotto le co- perte. Le cicatrici sulle spalle mi prudono. Non era un so- gno. Sono stata non so dove, ho visto cose che non avrei dovuto vedere. Cose legate a quello che sono. Cose che non dovevo sa- pere.

3 La scomparsa

« Meglio se non vedi » disse mio padre sbarrandomi la strada. « Perché? » domandai, cercando di infi larmi sotto il suo braccio appoggiato allo stipite. C’ero quasi riuscita, quan- do mi sentii afferrare per il cappuccio. « Ora meglio di no. » « Ma perché? » Scossi la testa per liberarmi dalla presa. Di solito evitava ogni contatto fi sico. Lasciò andare il cappuccio, ma in compenso mi afferrò per le spalle. Sentii il peso delle sue mani. Papà era alto e magro, non certo un tipo robusto, piuttosto direi una spe- cie di salice piangente. Si chinò verso di me per guardarmi negli occhi. Ricambiai lo sguardo, e lui distolse il suo. « Che signifi ca? » Mi liberai dalla sua stretta. « Che ci fai qui? » « Juli » disse, stavolta senza guardarmi. « Devo dirti una cosa. » L’avevo capito, si comportava in modo troppo strano. E poi, che ci faceva a casa nostra? Era la settimana della mamma. Quando era il suo turno, papà non doveva farsi vedere in giro, e viceversa. Era l’accordo stabilito dagli av- vocati, i miei genitori l’avevano sottoscritto in tribunale. Avrebbe perso di validità solo in caso di necessità. Il cuore cominciò a martellarmi contro le costole, mi sembrava di aver inghiottito Zero, il nostro canarino. Mi dominai per nascondere la paura che mi cresceva dentro. « Juli, fi glia mia. » Parlò con una dolcezza insolita. « De- vo dirti una cosa. È successa una cosa orribile. » Detti uno strattone e riuscii a entrare in casa. Corsi lungo il corridoio buio, tutte le porte erano chiu-

4 se. Riuscivo a malapena a vedere, fuori il sole era accecan- te. Inciampai sulle scarpe lasciate dai miei fratelli, Jaro e Kassie. Nelle settimane in cui era di turno la mamma, ogni cosa era fuori posto. Nelle settimane in cui era di turno papà, le scarpe erano nella scarpiera, le tazze nella creden- za, con i manici rivolti tutti nella stessa direzione, e i gior- nali nel portariviste ordinati secondo la data d’uscita. Spalancai la porta del soggiorno. Nemmeno io, la mamma e i miei fratelli avremmo mai potuto fare un caos simile. I giornali erano sparpagliati sul pavimento. I vasi dei fi ori rovesciati, la terra sparsa qua e là, gli steli spezzati e i petali sospesi nell’aria donavano alla stanza un’allegria fuori luogo. Le mensole dei libri erano vuote, i cassetti ti- rati fuori. La gabbia di Zero era aperta. A parte la piuma gialla che svolazzava attaccata alla grata, era vuota. Mi appoggiai allo stipite della porta, mi lasciai scivolare a terra e mi morsi le mani per l’agitazione. Ladri. C’erano stati i ladri. Papà mi raggiunse e mi si accovacciò accanto. « Non dovresti vedere uno spettacolo così orribile » disse. Mi voltai a guardarlo e lui si allontanò. Non so quando è successo, ma a un certo punto qual- cosa nel nostro rapporto è cambiato. Quando ero piccola, veneravo mio padre. Poi dall’adorazione sono passata al- l’affet to e, un bel giorno, mi sono ritrovata a commiserar- lo. Quando la mamma decise di lasciarlo, fu un duro col- po per lui. Dopo la separazione scoppiava a piangere già a colazio- ne. Succedeva al l’improv vi so, al che io e i miei fratelli, im- barazzati, abbassavamo lo sguardo sui croissant. Se gli ca- pitava di incrociare per strada il vicino, si sfogava anche

5 con lui, dicendo che la mamma si era comportata male ad abbandonare come un fulmine a ciel sereno la nostra bella famiglia unita. Se fosse stato qualcun altro ad agire così, l’avrebbe giudicato vergognoso. La storia del fulmine a ciel sereno non era per niente vera: da anni in casa c’era aria di temporale, l’atmosfera era carica di elettricità, i tuoni brontolavano all’orizzonte. La mamma aveva lasciato papà, ma non la famiglia. Jaro, Kassie e io c’eravamo ancora e la mamma non aveva certo intenzione di trascurarci. Ciononostante, sulle prime mi ero arrabbiata con lei per tutte le sofferenze che doveva patire papà per colpa sua. Un giorno, però, persi la voglia di consolarlo. Entrò una volta di troppo in camera mia, io ero quasi addor- mentata, mi svegliò per raccontarmi che si sentiva solo e che, in quanto fi glia maggiore, avrei dovuto dedicarmi an- cora di più a lui. Un controsenso, visto che fi no a quel mo- mento non aveva fatto che ripetere che avrei dovuto go- dermi spensierata gli ultimi anni dell’infanzia, prima che arrivasse la parte seria della vita. Al contrario di lui, dove- vo solo preoccuparmi di andare a scuola e di imparare qualche regola. A suo tempo, per lui non era stato così, dovevo ritenermi fortunata. Probabilmente aveva ragione: a parte la separazione dei miei, per anni non avevo avuto grandi motivi di stress. Andavo a scuola in autobus e tornavo a casa. Avevo la sensazione che le faccende domestiche si facessero da so- le. Nessuno mi chiedeva di badare ai miei fratelli: ci pen- savano papà e mamma o i nonni. Non andavo mai a fare la spesa, non cucinavo. Dovevo solo tenere in ordine la mia stanza. A volte quasi mi annoiavo. Quando papà cominciò a pretendere il mio sostegno,

6 sulle prime cercai di accontentarlo. Facevo del mio meglio per prendermi cura di lui. Gli permettevo di accarezzarmi la testa e di piagnucolare che ero « il suo tesoro più gran- de », anche all’una e mezzo di notte correvo a portargli i fazzolettini profumati che produceva la sua ditta: in casa ne avevamo in gran quantità e di ogni fragranza. A poco a poco, però, smisi di credergli. Sapevo fi n troppo bene che aveva molte facce. Faceva l’amministratore della Hydragon, una ditta di prodotti per l’igiene, e da piccola era sempre un’emozione quando avevo il permesso di andarlo trovare. Fu lì che scoprii che sapeva cambiare il tono di voce a seconda dell’interlocu- tore. Con la segretaria era freddo o dispotico. Con alcuni colleghi talmente affettuoso che parevano membri della nostra famiglia. Una volta, poi, assistetti a una scena al li- mite dell’incredibile: durante il colloquio con un uomo minuscolo e rugoso, incrociando curiosamente le gambe e piegandosi su se stesso era riuscito ad abbassarsi di una spanna senza darlo troppo a vedere. Stava parlando con un pezzo grosso della ditta. A un certo punto, quando papà arrivava con la valigia per iniziare la sua settimana con noi e, prima che la mam- ma se ne andasse, si fermava in cucina a parlare con lei di cose importanti, io cominciai ad andare in camera mia. Loro la chiamavano « la consegna », neanche fossimo pac- chetti con su scritto « Attenzione, fragile! »

« Tua madre è scomparsa » annunciarono papà e i poli- ziotti che fotografavano con i loro fl ash tutto quel caos. Una volante parcheggiò davanti alla porta di casa e un uo- mo ci raggiunse in cucina. Mi avevano detto di restare se- duta e lasciar lavorare in pace gli agenti, perciò ero in cu- cina insieme a uno dei poliziotti che mi parlava del nipote,

7 che aveva pressappoco la mia età, tredici anni, e che era un asso del tennis. « Io non ho tredici anni, ne ho quindici! » dissi seccata. « E mia madre non è scomparsa. Qua dentro è successo qualcosa di terribile, lo vedrebbe anche un cieco. » Sui successi al tennis del nipote, avrei sorvolato anche in cir- costanze migliori: odiavo il tennis. Purtroppo non ero brava in nessuno sport. Ma il poliziotto sembrava non sentire. Probabilmente si era specializzato nel ridurre in poltiglia il cervello di adolescenti traumatizzati, in modo che non disturbassero durante i rilievi. Io, però, volevo essere d’aiuto. Volevo che si mettesse- ro subito all’opera e che ritrovassero mia madre. Le per- sone non possono sparire di punto in bianco, di certo non in pieno giorno e in casa propria. Non nella nostra era: l’era della Normalità Assoluta. Perciò correvo in continuazione dai poliziotti che pas- savano al setaccio la casa, alzavano tappeti e giravano specchi, come se sotto o dietro ci fosse nascosta mia ma- dre. « Stamattina era tutto ok, la mamma ci ha preparato la colazione, era di buonumore e voleva dipingere tutto il giorno. » Poiché ogni minimo particolare poteva essere importante, rovistavo nel cervello alla ricerca di ogni mi- nuzia che potesse condurre a una spiegazione. Non mi ascoltarono. Come se non esistessi. Si riuniro- no in soggiorno, si scambiarono occhiate e cosa fecero? Non credevo ai miei occhi. Cominciarono a mettere a po- sto. Raccolsero i libri e li riposarono sulle mensole. Papà fece una smorfi a: avrebbe preferito che li sistemassero in ordine alfabetico, ma i poliziotti non potevano certo sa- perlo. Uno di loro arrivò con uno scopino. Che scena ridicola

8 vedere quel gigante chino a spazzare via la terra dei vasi dal pavimento. Un altro raccolse i giornali e li ammucchiò sul davanzale. Un altro ancora guardò sbalordito la gab- bia di Zero, quasi stentasse a credere che fosse davvero vuota. Poi richiuse la porticina con un’espressione elo- quente. Corsi in soggiorno a riaprire la porta della gabbia. « De- ve restare aperta, se Zero torna » dissi. Capitava spesso che Zero andasse in giro, la mamma gli apriva sempre la porta e lui aveva sempre ritrovato la via di casa. Papà mi guardò scuotendo la testa. « Ti ho detto di re- stare in camera tua ». « Credevo che avessi detto in cucina ». La mamma era sparita, qualcuno aveva devastato casa nostra: che impor- tanza aveva in che stanza fossi? « E credevo anche che non si dovessero distruggere le impronte sulla scena di un delitto ». Parlai a bassa voce, ma sentirono lo stesso. Di colpo, sembrò che sulla stanza fosse calata una cortina di gelo. Per un attimo tutti smise- ro di spazzare e riordinare cronologicamente i giornali, e concentrarono gli sguardi su di me. « Chi ha mai parlato di delitto, tesoro? » domandò uno dei poliziotti, un tipo grassoccio con una pelata rosa e tre stelle sul braccio. Cercai di ricordarmi le lezioni di Legislazione al liceo, anche se erano più utili i polizieschi che ogni tanto papà guardava sui canali di intrattenimento. Da quando avevo compiuto quattordici anni, avevo il permesso di vederli an ch’io. « Quando una persona viene portata via con la forza, è un delitto » tentai di dire. « Ma chi dice che sia stata portata via con la forza, pic- cola mia? »

9 Guardai i poliziotti, le loro facce lucide. Nessuno mi aveva mai parlato in questo modo. « Io » dissi. « Lo dico io. Hanno portato via mia madre e ne hanno approfi ttato per ribaltare la stanza. È chiaro come il sole. » I poliziotti si scambiarono occhiate e risate. Sembrava- no mansueti, ma qualcosa in quelle loro risate mi faceva paura. Il tipo grassottello e pelato mi si avvicinò. La scelta di starmi così appiccicato fu un errore strategico. Era piutto- sto basso, mentre io ero più alta di quasi tutti i compagni di scuola. Perciò buona parte della sua altezzosità sparì nel momento esatto in cui, dopo avermi dato una pacca sulla spalla, mi disse in tono bonario: « Non c’è il minimo, il benché minimo indizio che tua madre sia vittima di un atto violento, bambina mia ». « Ma è evidente che è sparita. Nel nulla. O sbaglio? » Tentai di sembrare ragionevole e calma, anche se non era per niente facile. Il tizio si illuminò ancor di più e mi dette un’altra carez- za. Ebbi un sussulto. Avevo paura che le sue dita scivolas- sero giù fi no a toccare la cicatrice accanto alla scapola si- nistra. Se fosse successo, lo avrei colpito di rifl esso: non c’era punto del mio corpo più sensibile di quello. Ma non doveva succedere, per nessun motivo. Mi ero presa già troppe libertà. In fondo, potevo solo sperare che la smettessero di prendermi in giro come se nulla fosse successo e cominciassero a cercare mia madre. Quindi do- vevo darmi un contegno e essere almeno gentile. Una delle materie complementari insegnate al liceo era « Elusione dei confl itti ». Si trattava di un corso facoltati- vo, ma papà aveva insistito perché lo frequentassi. La le- zione consisteva principalmente nel formulare frasi colle-

10 gate fra loro ma talmente contorte che alla fi ne l’interlocu- tore aveva dimenticato l’argomento della discussione. Se- condo papà si trattava di una delle capacità più importan- ti nell’era della Normalità. E intanto mi serviva a evitare battibecchi sia a scuola sia a casa. Probabilmente « Elusione dei confl itti » era stato il cor- so preferito di papà a scuola, perché quando litigava con la mamma non faceva mai un fi gurone. Lei, invece, urlava a gran voce. Certe volte i piatti volavano e fi nivano sul tappeto, papà si proteggeva la testa con le mani e la mam- ma, urlando a squarciagola, ci ricordava che nel nostro quartiere le pareti delle case erano sottili. Come se, in mo- menti simili, fosse lucida. « Tua madre non è qui, e allora? » mi disse il poliziotto. « Lo sai, piccola, a volte capita che alle mogli passi la vo- glia e se ne vadano. Lo capirai meglio quando sarai gran- de. » Rise. « E, allora, chi ha lottato qua dentro? » domandai. « Dove? » L’uomo in divisa si guardò intorno. Seguii il suo sguardo ed ebbi la sensazione di essere fi nita in un tranello. Nel frattempo la stanza era tornata quella di sem- pre, mancava solo il cinguettio di Zero. « Ma io l’ho visto con i miei occhi » dissi. « Era tutto sottosopra. » « Ma no » replicò il poliziotto facendo un gesto di di- niego con la mano. « È stato solo un ladruncolo, un pove- ro Freak che si è arrampicato dalla fi nestra in cerca di sol- di e computer. Probabilmente gli sono girate le scatole perché non ha trovato quello che sperava e vi ha lasciato un bel ringraziamento. Di casi simili ne conosciamo anche troppi. Il consumo di droga tra i Freak è un problema sempre più grave. » Il poliziotto sospirò e raccolse la costa

11 strappata di un libro che il collega aveva dimenticato a terra. Rimasi in silenzio. Che cosa potevo rispondere? Un ladro che penetra in una casa del quartiere, a un’ora del giorno in cui le casalinghe sono ai fornelli e possono vedere dalla fi nestra della cucina la targa delle auto di pas- saggio? Anche se fosse, sarebbe stato un ladro molto stu- pido. O fuori di testa. « Per sicurezza, cambiamo la serratura e poi tornerà tutto come prima » disse il poliziotto, e i denti d’oro rese- ro così sfavillante il suo sorriso che dovetti chiudere gli occhi. « E mia madre? » domandai. « Be’, le mamme vanno e vengono. » La sua risata fu troppo fragorosa persino per mio padre. « Va’ in camera tua a fare i compiti » mi disse in tono brusco, come se fosse tutta colpa mia. Obbedii, perché non volevo che vedessero le mie lacrime.

Una Fata

Volevo tanto credere che la mamma se ne fosse andata di sua spontanea volontà e che presto sarebbe tornata. Ma per quanto mi sforzassi di farlo, mi sembrava un’assurdi- tà. Non avevo nemmeno le chiavi di casa e lei lo sapeva. Non usciva quasi mai. Al mattino aveva in programma di dipingere tutto il giorno, fi no a che non rientravamo noi da scuola. Prima Kassie e Jaro, di solito quel giorno io avevo lezioni anche nel pomeriggio, ma stavolta erano sal-

12 tate. Per quanto papà cercasse di dipingerla come una che alla sera non sa più cosa ha detto al mattino, la mamma era una persona affi dabile. « Smetti di parlare così di lei! » gli urlai, quando la sera dopo la scomparsa lo sorpresi a dire ai miei fratelli che molto probabilmente era partita per un viaggio. È una dalle idee strane, spiegò, magari ha conosciuto uno, va a sapere cosa le passa per la testa. La mia era sul punto di esplodere per la rabbia. Papà e i miei fratelli erano seduti al tavolo della cucina – Jaro gli con occhi sgranati, teso come un arco, Kassie abbandonata sulla sedia, un occhio strizzato. Papà stava raccontando quel che era successo, la sua versione dei fat- ti. O almeno cercava di farlo. Passai oltre, non ce la facevo ad ascoltarlo. « Tutte balle. La mamma non si sarebbe mai volatilizza- ta così! Era sempre contenta quando arrivava il suo turno di stare con noi, e quando toccava a te le mancavamo! Lei non si lamentava tutto il tempo come fai tu! » Papà si interruppe e mi guardò con un misto di rabbia e sorpresa. I miei fratelli restarono muti e impauriti, e per- sino io mi stupii di come mi ero rivolta a mio padre. Non avevo mai usato un tono simile con lui. In fondo, ero una liceale modello, una ragazza ben educata. Appena arrivati a casa, Jaro e Kassie si erano gettati al collo di papà. Per quanto poco convinto, aveva dichiarato di avere tutto sotto controllo, ma anche loro intuivano che era successo qualcosa di brutto. Al contrario di me, crede- vano a ogni sua parola. A quanto pare, però, questo non bastava a consolarli. In realtà mi ero ripromessa di tenere la bocca chiusa. Il sospetto che alla mamma fosse accaduto qualcosa di brut- to volevo tenerlo per me, non volevo piangere, non volevo

13 arrabbiarmi, per non spaventare ancor di più i miei fratel- lini. Non dovevano provare il mio stesso senso di abban- dono, non dovevano stare male. Ciononostante, non pote- vo sentire le stupide bugie di papà su nostra madre. « Se lo ripeti un’altra volta, non ti parlo più » sibilai, prima che prendesse in braccio Kassie. Amava portarsela in giro. Quando c’era papà, lei si comportava come una bambinetta, ma era una gran furba. Non so come, riuscii ad arrivare viva alla fi ne della gior- nata, mangiai un paio di panini per cena, mi lavai i denti e mi infi lai a letto. Dopo aver girato più volte la chiave nella toppa, mi raggomitolai sotto le coperte. Era la prima volta che mi chiudevo a chiave nella mia stanza. Sentii Jaro piangere in corridoio. Bussò alla mia porta, ma avevo infi lato la testa sotto il cuscino per prendere sonno. Jaro continuava a bussare, ma non mi mossi dal letto. Non potevo occuparmi anche di lui, stavo già abba- stanza male per conto mio. Finii per restare sveglia tutta la notte a rimuginare. Rinunciai a ogni tentativo di prendere sonno. Non fa- cevo che pensare a quello che era successo durante la giornata, a partire dall’attimo in cui avevo capito che qual- cosa era andato storto. Probabilmente era stato l’istante esatto in cui avevo vi- sto papà sulla porta. Non ero contenta di vederlo, non era la sua settimana. Ero preparata a un litigio tra i miei geni- tori, sulle prime avevo pensato che papà avesse violato di nuovo gli accordi. Capitava che si facesse vivo quando era di turno la mamma « solo per dire ciao! » Si aggirava per la cucina, voleva parlare con noi, ci faceva innervosire. Quando se ne andava, eravamo al settimo cielo. In fondo esisteva un accordo, e di solito papà aveva la fi ssa degli ac- cordi, specie se scritti.

14 Più rimuginavo, più stentavo a credere che alla mamma fosse successo qualcosa di brutto. Mi rifi utavo di crederlo. Partivo dal presupposto che era tutto un malinteso, maga- ri un piccolo incidente, uno stupidissimo ladruncolo che la mamma aveva... colto sul fatto? In un modo o nel l’al tro, la situazione si sarebbe chiari- ta, la mamma sarebbe tornata a casa, papà se ne sarebbe andato e avrebbe cominciato il suo turno settimanale un giorno più tardi, per compensare questo giorno extra. Era previsto dagli accordi: ciascun genitore era tenuto a recuperare il tempo perso causa forza maggiore. Ultima- mente, per esempio, papà spesso stava male e così era la mamma a occuparsi di noi anche durante il suo turno. Poi, per recuperare, lui si tratteneva due settimane di se- guito. Rifl ettevo sotto le coperte: non avevo ancora capito che quella sera, nel preciso istante in cui ero tornata a casa e avevo trovato papà invece della mamma, il mio mondo aveva cominciato a stravolgersi. Per quanto vaga, l’idea che quella che avevo vissuto fi nora non era stata la mia ve- ra vita mi spaventava. Mi tirai la coperta fi n sopra la testa, un sipario che si abbassava su pensieri che mi turbavano. Non volevo cambiamenti. Avrei aspettato fi no all’indo- mani, ma poi, per favore, tutto doveva tornare come pri- ma. Non volevo un’altra vita. La mia era ok, d’accordo, niente di eccitante, ma era pur sempre la mia vita. Probabilmente il cambiamento era iniziato proprio quella sera. Ma forse non me ne ero resa conto, visto che non pensavo neanche lontanamente a cambiare me stessa. Ero sempre stata Juliane Rettemi, liceale modello, la se- conda più alta del mio anno, con le guance paffute che mi facevano sembrare anche più piccola, e parecchio sotto la media quanto a inviti alle feste di compleanno.

15 Avevo capelli normalissimi (castani, lunghi fi no alle spalle, leggermente scalati), avevo fatto le stesse vaccina- zioni dei miei coetanei, avevo i denti sani e una cartella fabbricata da uno dei più stimati artigiani del cuoio. Quan- do, durante l’ora di attività sportiva, ci mettevamo in riga davanti a uno specchio, l’unica cosa che mi permetteva di emergere tra la massa di studentesse era l’altezza. L’unico mio segno distintivo erano le due cicatrici sim- metriche e lunghe circa tre centimetri che avevo sulle sca- pole. Mi ero ferita cadendo da piccola, ma ormai me ne ero dimenticata. A volte le cicatrici mi davano il prurito. Nell’ora di nuoto indossavo un costume con spalline mol- to larghe, così che nessuno potesse vederle. Le cicatrici erano una cosa da Freak, loro le trovavano così chic. Una volta papà mi aveva raccontato che i Freak amano ferirsi con coltelli e marchi a fuoco per farsi notare ancora di più. Non c’è da stupirsi, quindi, se cercano sempre di sbronzarsi, l’alcool serve a sopportare meglio. Non mi piaceva sentire papà che parlava di questa setta, mi dava il voltastomaco. Da quando i miei genitori avevano deciso di non abita- re più sotto lo stesso tetto, ma di darsi il cambio ogni set- timana, la mia vita era un po’ più rilassata. A dire il vero, nelle settimane della mamma non era cambiato granché, a parte il fatto che erano cessati i litigi e i silenzi. E anche se nelle prime settimane con papà ero lacerata dalla compas- sione, era sempre meglio che sopportare l’atmosfera re- spirata durante tutti gli anni in cui avevano cercato di re- stare insieme per il bene dei fi gli. Dopo la separazione, mio fratello Jaro e mia sorella Kassie stavano anche meglio, o almeno così credevo. Era- no gemelli, avevano sette anni e in estate avevano iniziato

16 la prima elementare. Il mio liceo, come tutte le scuole se- condarie, cominciava a partire dal quinto anno. A differenza di me, i gemelli potevano vestirsi normal- mente. Invece, io nell’armadio avevo due uniformi: una nera per tutti i giorni, e un’altra composta da una giacca e una gonna a quadretti blu e rossi per le feste. E poi alcune camicie bianche. La gonna arrivava quasi al ginocchio, e quando indossavo l’uniforme nera somigliavo a una cor- nacchia. Era raro trovare una ragazza che stesse bene ve- stita in quel modo, ma il preside un giorno sì e un giorno no ci diceva che dovevamo essere orgogliose dell’unifor- me: chiunque guardandoci avrebbe capito che frequenta- vamo una scuola d’élite e che il futuro della Normalità era nelle nostre mani. A me il futuro non interessava, se non per una doman- da: quando avrei rivisto mia madre?

Continua in libreria e in eBook...

17 La trama

Quando Juli rientra da scuola trova la polizia e la casa sottoso- pra. Sua madre Laura è scomparsa. Sconvolta, si rende conto che nessuno, nemmeno suo padre, da cui Laura si è separata, si stupisce e si preoccupa che possa essere accaduto qualcosa di terribile. Con l’aiuto di una nuova amica, una ragazza un po’ strana e piena di inspiegabili risorse, Juli si lancia nell’avventu- rosa ricerca di sua madre. Scoprirà una realtà inaspettata, che da sempre le era stata nascosta: Laura è un’artista e i suoi qua- dri, che Juli pensava fossero rimasti solo entro le mura dell’ate- lier casalingo, sono in realtà molto apprezzati e custodiscono al loro interno un incredibile segreto. Ma non basta: Laura non è considerata una donna come tutte le altre e quelle come lei, che hanno poteri speciali, nell’era della normalità assoluta sono te- mute e al tempo stesso disprezzate. Per Juli la verità apre im- provvisamente nuovi orizzonti e il mondo nel quale era vissuta fi no a quel momento, rigido e convenzionale, inizia a starle stretto. Outcast è la storia di una ragazza che si sta affacciando al mondo adulto, della sua ricerca di identità e della sua ribellione all’ordine di un mondo solo apparentemente perfetto.

L’autore

Alina Bronsky, classe 1978, era una studentessa di medicina e copywriter pubblicitaria fi no al giorno in cui inviò il suo mano- scritto ricevendo immediatamente un’offerta da tre editori. Outcast, il suo romanzo d’esordio è stato subito apprezzato dal pubblico e dalla critica tedesca più prestigiosa, ricevendo no- mination per importanti premi quali il German Book Award e il German Juvenile Literature Award. Lo Spiegel ha defi nito Alina Bronsky « una delle voci più promettenti della nuova ge- nerazione ». I suoi romanzi sono in via di pubblicazione in più di 15 paesi, tra cui gli Stati Uniti. «Uno splendido romanzo. Un libro intelligente. Lo consiglio a tutti!» Kerstin Gier, autrice dei bestseller Red, Blue e Green

«Un libro forte, un’autrice che sa tenere i propri lettori con il fi ato sospeso.» Frankfurter Allgemeine Zeitung

«Vi basteranno le prime pagine per innamorarvi di questo libro.» NDR È NATO IL NUOVO RE DEL THRILLER CHE FARÀ CROLLARE TUTTE LE TUE DIFESE www.questavoltatoccaate.com

Volevi lasciarti il passato alle spalle Volevi dimenticare le tue origini Ma hai sbagliato i tuoi conti

DAL 15 MAGGIO IN LIBRERIA

M.J. ARLIDGE QUESTA VOLTA TOCCA A TE

ROMANZO

«Un esordio internazionale sconvolgente» The Bookseller

M.J. Arlidge

QUESTA VOLTA TOCCA A TE

Romanzo

Traduzione di Giovanni Arduino

Un estratto in anteprima

In libreria dal 15 maggio

www.questavoltatoccaate.com Titolo originale: Eeny Meeny

Traduzione dall’originale inglese di Giovanni Arduino

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it Il sito di chi ama i libri

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

Copyright © M.J. Arlidge, 2014 Th e moral right of the author has been asserted All rights reserved First published in Great Britain in the English language by Penguin Books Ltd.

Casa Editrice Corbaccio è un marchio di Garzanti libri S.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol

© 2014 Garzanti Libri S.r.l.

www.corbaccio.it

ISBN 978-88-6380-763-9 Sam dorme. Potrei ucciderlo ora. È voltato dall’al tra parte: non sa- rebbe diffi cile. Se mi sentisse, forse reagirebbe? Proverebbe a fer- marmi? O sarebbe solo contento per la fi ne di un incubo? Meglio non pensarci. Devo concentrarmi su ciò che resta di ve- ro e di buono. Però, quando sei prigioniera, i giorni sembrano in- fi niti e la speranza è la prima a morire. Mi scervello alla ricerca di ricordi felici per allontanare i pen- sieri più cupi, ma sono sempre più faticosi da evocare. Siamo qui da appena dieci giorni (o undici?) e la vita normale pare già lontanissima. Quando è successo, stavamo tornando in autostop da Londra dopo un concerto. Diluviava e una processio- ne di automobilisti ci aveva sorpassati senza degnarci di un’oc- chiata. Eravamo fradici fi no al midollo e pronti a gettare la spugna quando fi nalmente si era fermato un furgone. L’interno era caldo e asciutto. Ci venne off erto del caff è da un thermos. Il profumo ba- stò a tirarci su di morale. Il gusto si rivelò ancora meglio. Senza sa- perlo stavamo assaporando la libertà per l’ultima volta.

Ripresi i sensi con una feroce emicrania. Avevo la bocca impastata di sangue. Non ero più nel furgone ma in un posto gelido e buio. Stavo sognando? Un rumore alle mie spalle mi fece sobbalzare. Era solo Sam che cercava di alzarsi barcollando. Eravamo stati derubati. Derubati e mollati chissà dove. Gli oc- chi si abituarono all’o scu ri tà. Arrancai carponi, graffi ando le pare- ti che ci circondavano. Mattonelle dure e fredde. Urtai Sam, sor- reggendolo per un attimo, respirando a pieni polmoni quel suo odore che adoravo. Poi tutto fi nì e mi resi conto dell’orrore della nostra situazione.

5 Eravamo in una piscina in disuso. Dimenticata, cadente, denu- data dei trampolini, dei cartelli e persino delle scalette. Avevano arraff ato l’arraff abile, lasciandosi dietro una profonda vasca liscia dalla quale era impossibile arrampicarsi fuori. Qualcuno stava ascoltando le nostre urla? Probabile. Non ap- pena ci zittimmo, suonò un cellulare e per un breve, fantastico momento pensammo che qualcuno stesse arrivando a salvarci. Poi lo schermo di un telefonino brillò sul pavimento della piscina, giu- sto di fi anco a noi. Sam restò immobile e così scattai di corsa. Per- ché io? Perché doveva toccare sempre a me? « Salve, Amy. » La voce dall’al tra parte era distorta, feroce. Avrei voluto chiede- re pietà, spiegare che avevano commesso un terribile sbaglio, ma il fatto che conoscessero il mio nome frenò qualsiasi iniziativa. Non risposi nulla mentre la voce proseguiva, calma e implaca- bile. « Vuoi vivere? » « Chi sei? Che cosa ci hai fat... » « Vuoi vivere? » Sono muta. Ho la lingua bloccata. E dopo: « Sì ». « Vicino al cellulare troverai una pistola. Caricata con una sola pallottola. Destinata a te o a Sam. Il prezzo della libertà. Uccidere per non morire. Vuoi vivere, Amy? » Non riesco ad aprire la bocca. Mi viene da vomitare. « Allora, sì o no? » Il cellulare si spegne. « Che cosa hanno detto? » mi chiede Sam.

Lui mi dorme accanto. Potrei farlo ora.

La donna gridò di dolore per poi fermarsi. Strisce rosso porpora iniziarono a sollevarsi lungo la schiena. Jake rialzò lo scudiscio e lo

6 fece calare con uno schiocco. Lei si dibatté, lamentandosi, e alla fi - ne sussurrò: « Ancora ». Di solito non diceva altro. Non era loquace, a diff erenza del re- sto dei clienti. I dirigenti, i ragionieri e gli impiegati intrappolati in relazioni dove il sesso era un miraggio morivano dalla voglia di co- municare, di piacere al Master che li castigava in cambio di denaro. Quella donna era diversa, un vero mistero. Non gli aveva mai rife- rito come l’avesse trovato. O perché venisse da lui. Con chiarezza e decisione elencava istruzioni e desideri, esortandolo a sbrigarsi. Jake iniziava sempre legandole stretti i polsi con due cinghie di cuoio borchiato, in modo da fi ssarle le braccia alla parete. Ceppi di ferro attorno alle caviglie le bloccavano i piedi al pavimento. Gli abiti erano messi da parte con cura sull’apposita sedia e lei se ne stava lì, con la sola biancheria intima, nell’attesa di venire punita. Niente giochi di ruolo. Nessun « per piacere non farmi del ma- le, paparino » o « sono una ragazzaccia cattiva ». Voleva solo essere picchiata. In un certo senso per Jake era un sollievo. Dopo un po’ qualsiasi lavoro si trasforma in routine ed era piacevole non essere obbligato ad assecondare le squallide fantasie di aspiranti schiavi. Però era anche frustrante che lei rifi utasse un vincolo canonico. La fi ducia è l’elemento basilare di ogni incontro BDSM. I sottomessi devono capire di trovarsi in mani sicure, che il Master conosce la loro personalità e le loro richieste, in modo che il rapporto sia ap- pagante e senza rischi per entrambi. Senza tali premesse, l’incon- tro può rapidamente degenerare in un’aggressione o addirittura una violenza: un’eventualità che l’uomo non intendeva nemmeno considerare. E così se l’era lavorata un po’ alla volta, una domanda occasio- nale qui, un commentino là. Con il passare del tempo aveva sco- perto l’essenziale: che non era originaria di Southampton, non aveva una famiglia, si stava avvicinando alla quarantina ma non le pesava. Dai loro appuntamenti aveva anche appurato che adorava il dolore. Non le interessava il sesso. Non voleva essere stuzzicata

7 o titillata. Il suo unico desiderio era venire punita. Le scudisciate non erano mai state eccessive, ma brutali e senza tregua. Alta, to- nica e muscolosa, aveva un fi sico in grado di sopportarle, e i segni di vecchie cicatrici lasciavano intendere che non fosse una novelli- na del giro BDSM. Però, nonostante le insistenze e le caute domande, Jake era si- curo di un solo particolare. In un’occasione, mentre la donna si ri- vestiva, un tesserino di riconoscimento le era scivolato dalla tasca del giubbotto. Lei l’aveva raccattato dal pavimento in un batter d’occhio, erroneamente convinta che l’uomo non l’avesse visto. Jake pensava di essere bravo a inquadrare le persone, ma quella cliente era stata capace di sorprenderlo. Se non avesse notato il tesserino, mai avrebbe immaginato che era una poliziotta.

Amy è accovacciata a qualche metro da me. Non si sente più a di- sagio e orina sul pavimento senza ombra di imbarazzo. Osservo il sottile getto di piscio irrorare le mattonelle e spruzzarle di rimbal- zo le mutandine luride. Solo poche settimane fa mi sarei voltato, ma ora è diverso. Il rivolo giallo scende lento e tortuoso per unirsi alla pozzan- ghera stagnante e putrida che si è allargata sul fondo della piscina. Ne fi sso il percorso come ipnotizzato ma alla fi ne l’ultima goccia scompare e lo spettacolo ha termine. Lei torna a rintanarsi nel suo angolino. Non una parola di scuse, non un cenno di riscontro. Sia- mo diventati due animali, non ci preoccupiamo più di noi stessi o degli altri. Non è stato sempre così. All’ini zio eravamo furiosi, sprezzanti. Convinti che non saremmo crepati qui, che insieme avremmo po- tuto cavarcela. Amy mi è salita sulle spalle, le unghie che le si spez- zavano mentre artigliava le mattonelle, sforzandosi di raggiungere il bordo. Quando non ha funzionato, ha cercato di spiccare un

8 balzo direttamente dalla mia schiena. Purtroppo la piscina è pro- fonda quattro metri e mezzo, forse di più, e la salvezza non sembra essere a portata di mano. Abbiamo provato a usare il cellulare, ma era bloccato con il PIN e, dopo avere tentato una serie di combinazioni, si è scaricato completamente. Abbiamo urlato e strillato fi no a sgolarci. Per tut- ta risposta, solo la nostra eco che si prendeva gioco di noi. A volte sembra di trovarsi su un pianeta lontano, senza altri esseri umani nel raggio di chilometri. Natale è alle porte, di sicuro qualcuno ci sta cercando, ma è diffi cile credere che siamo qui, circondati da un silenzio eterno e spaventoso. Fuggire è impossibile e ci accontentiamo di sopravvivere. Ci siamo rosicchiati le unghie fi no a farci sanguinare le dita, per poi succhiarle avidi. All’alba abbiamo leccato la condensa dalle matto- nelle, ma i crampi di stomaco non si sono alleviati. Abbiamo con- siderato di mangiarci i vestiti... per poi ripensarci. Di notte si gela e non moriamo assiderati solo grazie ai nostri pochi stracci e al nostro calore reciproco. È la mia immaginazione o i nostri abbracci si sono fatti più tie- pidi? Più incerti? Fin dal l’ini zio ci siamo tenuti stretti giorno e notte, spronandoci a resistere, con il terrore di restare abbandona- ti in questo luogo tremendo. Ci inventiamo sciocchi passatempi, immaginandoci che cosa succederà quando arriveranno a salvarci: che cosa mangeremo, che cosa racconteremo a mamma e papà, che cosa riceveremo in regalo per Natale. Lentamente questi gio- chetti si sono fatti più rari, mentre ci rendiamo conto che siamo stati portati qui con uno scopo preciso e che per noi due non ci sa- rà nessun lieto fi ne. « Amy? » Silenzio. « Amy, per favore, dimmi qualcosa. » Non mi guarda. Non mi parla. L’ho persa per sempre? Cerco di indovinare i suoi pensieri, ma invano.

9 Forse non è restato niente da dire. Abbiamo tentato di tutto, perlustrato ogni centimetro della nostra prigione alla ricerca di una possibilità di fuga. Solo la pistola è rimasta inviolata. Immobi- le, pare chiamarci. Sollevo il capo e sorprendo Amy che la fi ssa. Incrocia il mio sguardo e subito dopo abbassa il suo. Sarebbe capace di stringerla in pugno? Due settimane fa lo avrei ritenuto assurdo. Ma adesso? La fi ducia è qualcosa di fragile, diffi cile da guadagnare e semplice da perdere. Non sono più certo di nulla. So unicamente che uno di noi due è destinato a morire.

Helen Grace inchiodò davanti alla stazione centrale della polizia di Southampton. Il palazzo avveniristico di vetro e arenaria tor- reggiava sopra di lei, stagliandosi imponente sulla città e il porto. Aveva solo un paio d’anni e come tana di sbirri faceva indubbia- mente colpo. Strutture di detenzione all’avanguardia, attrezzatura per i test forensi della SmartWater, un distaccamento interno del CPS, il Servizio giudiziario della Corona: tutto ciò di cui un poli- ziotto moderno aveva bisogno. Parcheggiò la moto ed entrò. « Dormi sul lavoro, Jerry? » L’agente del banco informazioni fi nì bruscamente di sognare a occhi aperti, assumendo un’aria indaff aratissima. Gli altri si driz- zavano sempre sulla sedia quando lei arrivava. Non solo perché era un’ispettrice ma anche per il suo portamento. Fasciata nel completo di pelle da motociclista, era un metro e ottanta di pura ambizione ed energia. Mai in ritardo, mai malata, mai con i postu- mi di una sbronza. Viveva e respirava per il suo lavoro con un fer- vore che i colleghi potevano soltanto sognarsi. Helen puntò dritta agli uffi ci della squadra anticrimine. Il fi ore all’occhiello della polizia di Southampton poteva anche essere qualcosa di rivoluzionario, ma la città che proteggeva non era

10 cambiata. Controllando il numero dei casi, l’ispettrice rimase sco- raggiata dalla loro prevedibile banalità. Una lite domestica sfociata in un omicidio, con due vite a pezzi e un bambino preso in custo- dia. Il tentato omicidio di un tifoso dei Saints da parte dei sosteni- tori in trasferta del Leeds United e per ultimo il brutale assassinio di un ottantaduenne durante uno scippo andato storto. Gli aggres- sori avevano abbandonato il portafoglio fuggendo dalla scena del crimine, regalando alla polizia un’impronta digitale perfetta e la possibilità di un’identifi cazione istantanea. Il responsabile era una vecchia conoscenza delle forze dell’ordine cittadine, uno dei tanti balordi che aveva distrutto una famiglia ignara appena prima di Natale. Quel mattino Helen avrebbe dovuto ragguagliare il CPS sui dettagli del caso. Aprì il dossier, determinata ad accertarsi che le accuse contro quel piccolo teppista fossero a prova di bomba. « Non metterti troppo comoda. C’è del lavoro in arrivo. » Le si avvicinò il sergente Mark Fuller. Uno sbirro piacente e in gamba, aveva lavorato fi anco a fi anco con Helen per gli ultimi cin- que anni. Omicidi, sequestri di minori, stupri, prostituzione: lui l’aveva aiutata a risolvere parecchi casi sgradevoli e lei aveva ini- ziato a contare sullo zelo, la dedizione e l’audacia dell’uo mo. Ulti- mamente un brutto divorzio aveva avuto il suo peso e Fuller era diventato imprevedibile e inaffi dabile. Helen restò amareggiata notando che puzzava di nuovo d’alcol. « Una ragazzina che sostiene di avere ucciso il fi danzato. » Il sergente sfi lò una foto dalla cartellina e gliela consegnò. Sull’ango- lo superiore destro, il timbro inconfondibile dell’uffi cio persone scomparse. « La vittima si chiamava Sam Fisher. » La donna abbassò lo sguardo sull’istantanea di un giovane dalla faccia pulita. Aspetto curato, ottimista, forse leggermente ingenuo. Mark restò in silenzio per un attimo, dandole il tempo di esa- minare la foto, prima di passargliene una seconda. « La nostra in- diziata. Amy Anderson. » Lei non riuscì a nascondere la propria sorpresa mentre studiava

11 l’immagine. Una bella ragazza dall’aria anticonformista, al massi- mo ventunenne. Con i lunghi capelli sciolti, gli stupendi occhi blu cobalto e le labbra delicate, sembrava il ritratto della giovinezza e dell’innocenza. Helen raccattò il giubbotto. « Non ci resta che andare. » « Vuoi che guidi io o... » « Lascia fare a me. » Scesero al parcheggio senza scambiarsi una parola. Lungo la strada, l’ispettrice recuperò un’agente dell’investigativa che da tempo collaborava con l’Uffi cio persone scomparse. La spumeg- giante Charlene « Charlie » Brooks era un ottimo elemento, effi - ciente e coscienzioso, che si rifi utava categoricamente di vestirsi da sbirro. Il piatto forte di quel giorno erano un paio di pantaloni aderenti di pelle. Non era compito di Helen riprenderla per il suo abbigliamento, anche se ne fu tentata. In auto il puzzo di alcol stantio dell’alito di Mark era ancora più forte. La Grace lo guardò di traverso prima di abbassare il fi nestri- no. « Che cosa abbiamo? » chiese. Charlie aveva già spalancato il suo dossier. « Amy Anderson. Ne è stata denunciata la scomparsa poco più di due settimane fa. Vista per l’ultima volta a un concerto a Londra. Ha mandato un’e- mail alla mamma la sera del due dicembre, avvertendola che sa- rebbe ritornata in autostop con Sam prima di mezzanotte. Da allo- ra più nessuna notizia. È stata la madre a telefonarci. » « E poi? » « Salta fuori stamattina al Parco delle Meraviglie, racconta di avere ammazzato il suo ragazzo e dopo si chiude a riccio. Comple- tamente muta. » « E dov’è stata tutto questo tempo? » Mark e Charlie si scambiarono un’occhiata. « Ne sappiamo quanto te », rispose alla fi ne il sergente.

Continua in libreria... UN THRILLER ENIGMATICO HIGH CONCEPT GIÀ DIVENTATO CASO EDITORIALE UNO DEGLI ESORDI PIÙ DESIDERATI DI QUESTA STAGIONE LETTERARIA ALLA FIERA DI LONDRA HA GIÀ STREGATO LA STAMPA, I LETTORI E GLI EDITORI DI TUTTO IL MONDO L’AUTORE È UNO DEI MAGGIORI SCENEGGIATORI TELEVISIVI INGLESI DEL MOMENTO CON LO STILE DEI GRANDI MAESTRI DEL THRILLER WWW.QUESTAVOLTATOCCAATE.COM

Prima edizione: aprile 2014

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

Traduzione dall’inglese di Adria Tissoni

Titolo originale dell’opera: A Beautiful Wedding

© 2013 by Jamie McGuire

ISBN 978-88-11-68760-3

© 2014, Garzanti Libri S.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol

www.garzantilibri.it 1. L’ALIBI

ABBY Lo sentii arrivare: un malessere ostinato, intenso, che si diffuse a poco a poco in tutto il corpo. Più cercavo di igno- rarlo, più diventava insopportabile. Era come un prurito ir- refrenabile, un urlo che salisse in gola dal profondo. Se- condo mio padre il forte istinto di scappare quando la si- tuazione si faceva critica era una specie di tic, un meccanismo di difesa innato negli Abernathy. Lo avevo av- vertito pochi istanti prima dell’incendio, e lo avvertivo an- che ora. Seduta nella camera di Travis, poche ore dopo l’incen- dio, avevo il cuore che mi batteva all’impazzata e i muscoli scossi da spasmi. L’istinto mi diceva di guadagnare la porta, di andarmene, di fuggire, di rifugiarmi in qualsiasi altro posto ma non lì. Eppure, per la prima volta in vita mia, non volevo andarmene sola. Non riuscivo quasi a concentrarmi su quella voce che amavo tanto, su Travis che mi stava rac- contando quanta paura avesse avuto di perdermi, e quanto fosse stato vicino alla salvezza quand’era corso nella direzio- ne opposta, verso di me. Erano morte tante persone, molti sconosciuti dello State, ma altri erano ragazzi che vedevo in mensa, in classe, agli altri incontri. Noi in qualche modo ce l’eravamo cavata e ora ci trovava- mo a casa sua a elaborare i fatti. Provavamo paura e senso di colpa nei confronti di chi non ce l’aveva fatta. Mi sem- brava di avere i polmoni pieni di fiamme e di ragnatele, e non riuscivo a togliermi dal naso l’odore acre di pelle bru- ciata. Era persistente, e malgrado mi fossi fatta una doccia,

9 lo sentivo ancora, misto al profumo di menta e lavanda del sapone che avevo usato per ripulirmi. Altrettanto indimen- ticabili erano i rumori. Le sirene, i gemiti, le voci agitate e terrorizzate, le urla di quanti arrivavano sul posto per poi scoprire che i loro amici erano ancora dentro. Erano tutti uguali: sporchi di fuliggine, con la stessa espressione di sconcerto e di disperazione sul volto. Era stato un incubo. Nonostante faticassi a concentrarmi, sentii Travis dire: «L’unica cosa di cui ho paura è una vita senza di te, Pi- geon». Eravamo stati fin troppo fortunati. Anche in quella stan- za buia di Las Vegas, aggrediti dagli scagnozzi di Benny, ave- vamo avuto la meglio. Travis era davvero invincibile. Ma far parte del Cerchio e dare una mano a organizzare incontri in condizioni non sicure, che avevano causato la morte di numerosi ragazzi…be’, quella era una sfida che neanche lui poteva vincere. La nostra relazione aveva retto a tante cose, però ora Travis rischiava il carcere. Forse ancora non lo sapeva, ma era l’unico ostacolo che avrebbe potuto sepa- rarci. L’unico su cui non avevamo alcun controllo. «Allora non hai niente da temere», dissi. «Siamo uniti per sempre.» Lui sospirò e avvicinò le labbra ai miei capelli. Non cre- devo fosse possibile provare un sentimento simile per una persona. Mi aveva protetto. Ora toccava a me farlo. «Ecco», affermò. «Cosa?» «Nell’istante stesso in cui ti ho conosciuto, ho sentito che in te c’era qualcosa di cui avevo bisogno. Ma non era qual- cosa. Eri tu.» A quelle parole mi sciolsi. Lo amavo. Lo amavo e dovevo fare tutto il possibile per aiutarlo, al di là di quello che avrebbe comportato e per quanto sembrasse assurdo. Dove- vo convincerlo. Mi appoggiai a lui, premendogli la guancia sul petto. «Siamo noi due, Trav. Niente ha senso se non siamo insie- me. Lo sai?» «Ma se te lo sto dicendo da un anno! È ufficiale: ragazze

10 stupide, incontri, separazioni, Parker, Las Vegas…incendi persino. La nostra relazione può sopravvivere a tutto.» «Las Vegas?» feci. In quell’istante mi venne in mente l’idea più folle che avessi mai concepito, eppure quando guardai nei suoi in- tensi occhi castani mi sembrò perfettamente logica. Quegli occhi rendevano tutto logico. Aveva il viso e il collo ancora sporchi di sudore e di fuliggine, il che mi ricordò quanto fossimo stati vicini a perdere tutto. La mia mente era un turbine di pensieri. Bastava l’indi- spensabile: saremmo potuti uscire nel giro di cinque minu- ti. Gli abiti li avremmo comprati là. Prima fossimo partiti, meglio sarebbe stato. Nessuno avrebbe pensato che due persone prendessero un aereo subito dopo una tragedia si- mile. Era illogico, il che era esattamente il motivo per cui dovevamo farlo. Dovevo portare Travis lontano per una ragione precisa e plausibile, malgrado sembrasse una follia. Ma in fondo folli un po’ lo eravamo. E se avessero avuto la prova che alcune ore dopo ci trovavamo a Las Vegas per sposarci, gli investi- gatori avrebbero forse messo in dubbio la testimonianza delle decine di ragazzi che avevano visto Travis combattere a Keaton Hall quella sera. Era un’assoluta pazzia, ma non sapevo che altro fare. Non avevo il tempo di studiare un piano migliore. Avremmo già dovuto essere su quell’aereo. Travis mi stava fissando in attesa, pronto ad accettare in- condizionatamente qualsiasi cosa mi fosse uscita dalle lab- bra. Maledizione, non potevo perderlo ora, non dopo tutto quello che avevamo passato per arrivare fin lì. A detta di tutti eravamo troppo giovani per sposarci, troppo impreve- dibili. Quante volte ci eravamo feriti, quante volte avevamo litigato per finire a letto subito dopo? Però avevamo appe- na visto quanto fosse fragile la vita. Chi sapeva quando sa- rebbe giunta la fine? Lo guardai, decisa. Travis era mio, e io sua. Se avevo capito qualcosa, era che solo questo contava. Travis s’incupì. «Sì?» «Hai mai pensato di tornarci?»

11 Lui sollevò le sopracciglia. «Non credo che sia una buo- na idea.» Alcune settimane prima gli avevo spezzato il cuore. L’im- magine di Travis che inseguiva l’auto di America quando aveva capito che era finita era ancora vivida nella mia men- te. Voleva combattere per Benny a Las Vegas e io non ero disposta a tornarci, neanche per amor suo. Aveva passato un momento terribile lontano da me. Mi aveva supplicato in ginocchio di non lasciarlo, ma io ero tanto decisa a non riprendere la mia vecchia vita in Nevada che lo avevo pian- tato là. Ero un’emerita idiota a chiedergli di tornarci. Mi aspettavo quasi che mi mandasse al diavolo per il solo fatto che gliel’avessi proposto, ma era l’unico piano che avessi ed ero disperata. «E se ci andassimo solo per una notte?» Una notte era tut- to ciò che ci serviva. Ci bastava essere da qualche altra parte. Lui si guardò attorno, scrutando l’oscurità e cercando di capire che cosa volessi sentirmi dire. Non volevo compor- tarmi come quelle ragazze che, per poca sincerità, finisco- no per creare spaventosi malintesi. Però non potevo nem- meno rivelargli il vero motivo per cui glielo chiedevo. Non avrebbe mai accettato. «Una notte?» Non sapeva chiaramente cosa rispondere. Con molta probabilità credeva fosse una prova, ma l’unica cosa che desideravo era che mi dicesse di sì. «Sposami», dissi senza esitare. Lui aprì la bocca, esterrefatto. Passò un’eternità prima che vedessi le sue labbra piegarsi in un sorriso e avvicinarsi alle mie. In quel bacio percepii un’ondata di emozioni di- verse ed ebbi la sensazione che la testa mi scoppiasse, tanto forti erano i sentimenti di sollievo e nel contempo di pani- co. Avrebbe funzionato. Ci saremmo sposati, Travis avrebbe avuto un alibi e sarebbe andato tutto bene. Oh, cavolo. Accidenti. Merda. Cazzo. Mi sarei sposata.

12 TRAVIS Abby Abernathy era famosa per una cosa: la sua totale impassibilità. Poteva commettere un crimine e sorridere come se niente fosse, senza lasciar trapelare nulla. Solo una persona era in grado di scoprire il suo segno rivelatore, e a un certo punto aveva dovuto decidere se volesse farlo dav- vero . Quella persona ero io. Abby aveva perso la sua infanzia e io mia madre, quindi al di là delle tante divergenze c’era qualcosa che ci accomu- nava. Ciò mi aveva aiutato, e dopo essermi dedicato per qualche mese all’impresa, ero giunto una conclusione: il segno rivelatore di Abby era il fatto di non averne. Forse a chiunque altro sembrerà assurdo, ma a me no. Ed era stata proprio l’assenza di segni rivelatori a tradirla. La serenità dello sguardo, la dolcezza del sorriso, la postura rilassata delle spalle: da questo avevo capito che c’era qual- cosa che non andava. Se non l’avessi conosciuta bene, avrei pensato che fossi- mo giunti al lieto fine, invece Abby stava architettando qualcosa. Seduto nel terminal in attesa di prendere l’aereo per Las Vegas, con lei accoccolata contro di me, sapevo che sarebbe stato facile far finta di niente. Continuava a solleva- re la testa, a fissare l’anello che le avevo comprato e a sospi- rare. Una donna di mezza età di fronte a noi la osservava sorridendo, probabilmente persa nel ricordo di un tempo in cui anche lei aveva tutta la vita davanti. Non sapeva che cosa significassero davvero quei sospiri; io viceversa mi ero fatto un’idea. Con l’immagine di tutti quei morti in testa era difficile es- sere felici per quanto stavamo per fare. O meglio, sopra la testa: un televisore a muro stava trasmettendo il telegiorna- le locale. Sullo schermo scorrevano le immagini dell’incen- dio e gli ultimi aggiornamenti. Avevano intervistato Josh Farney. Era coperto di fuliggine e aveva un aspetto orribile, ma ero contento che ce l’avesse fatta. Quando l’avevo visto prima dell’incontro, era piuttosto sbronzo. Gran parte del- le persone che frequentavano il Cerchio arrivavano ubria-

13 che o facevano il pieno aspettando che io e il mio avversa- rio ci prendessimo a pugni. Quando però le fiamme aveva- no iniziato a diffondersi, l’adrenalina era fluita a fiumi e anche i più brilli erano tornati in sé. Come desideravo che non fosse successo! Avevamo perso tanti compagni, e dopo una sciagura del genere chi poteva aver voglia di pensare a sposarsi? Sapevo per esperienza che spesso i ricordi di una tragedia venivano distorti. Associare quella data a un’altra che avremmo festeggiato tutti gli anni era un modo per imprimercela indelebilmente nella mente. Dannazione, stavano ancora estraendo i corpi e io mi com- portavo come se fosse una banale seccatura. C’erano genito- ri che non sapevano se avrebbero rivisto i loro figli. Quel pensiero egoistico mi scatenò il senso di colpa, e il senso di colpa m’indusse a dissimulare. Comunque, era un miracolo che ci sposassimo. Non volevo che Abby pensasse che non fossi più che entusiasta all’idea: conoscendola, avrebbe frainteso e cambiato idea. Perciò mi concentrai su di lei e su quello che stavamo per fare. Volevo essere super- emozionato come qualsiasi futuro sposo: Abby non si meri- tava niente di meno. Non sarebbe stata la prima volta che avrei ignorato qualcosa che non riuscivo a togliermi dalla testa, e la prova stava proprio lì, rannicchiata accanto a me. Sullo schermo la giornalista teneva il microfono con en- trambe le mani davanti a Keaton Hall. «…di chi è la colpa? Si chiederanno le famiglie delle vittime. A te la linea, Kent», concluse, corrucciata. D’un tratto mi venne la nausea. C’erano stati tanti morti e ovviamente avrebbero cercato il responsabile. Era colpa di Adam? Sarebbe finito in prigione? O ci sarei finito io? Strinsi Abby con forza e la baciai sui capelli. Una donna dietro un banco prese un microfono e iniziò a parlare, e il mio ginocchio a dondolare incontrollabilmente. Se non ci fossimo imbarcati subito, avrei preso Abby e sarei corso a piedi fino a Las Vegas. Avevo quasi la sensazione che avrei fatto prima dell’aereo. La hostess ci diede le istruzioni per l’imbarco. La sua voce si alzava e si abbassava leggendo l’annuncio apposito per la milionesima volta. Sembrava

14 l’insegnante di Charlie Brown: annoiata, monotona, inde- cifrabile. L’unica cosa che avesse un senso era il pensiero che mi girava in testa: sarei diventato il marito della seconda don- na che avessi amato in vita mia. Era quasi l’ora. Maledizione. Merda, sì! Cazzo, sì! Mi sarei sposato!

Continua in libreria e in eBook...

15 Dopo il fenomeno editoriale di Uno splendido disastro e Il mio disastro sei tu

ARRIVA IL ROMANZO PIÙ ATTESO DELL’ANNO SUBITO AI VERTICI DELLE CLASSIFICHE ITALIANE TRE EDIZIONI IN UNA SETTIMANA «Jamie McGuire crea dipendenza. Preparatevi: Abby e Travis vi invitano al loro matrimonio.» «Usa Today»

JAMIE McGUIRE ARRIVA IN ITALIA PER PRESENTARE L'ULTIMO ROMANZO UN DISASTRO È PER SEMPRE

8 maggio a Milano Libreria Feltrinelli di piazza Piemonte, ore 17

9 maggio a Torino Salone Internazionale del Libro Arena Bookstock, ore 16

Segui gli eventi online con l'hashtag #McGuireTour

www.longanesi.it

facebook.com/Longanesi

@LibriLonganesi

www.illibraio.it

PROPRIETA` LETTERARIA RISERVATA Longanesi & C. F 2014 – Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-304-3948-1

Per essere informato sulle novita` del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

Prima edizione digitale 2014

Quest’opera e` protetta dalla Legge sul diritto d’autore. E` vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. © Longanesi & C. UN’IDEA DI DESTINO

di TIZIANO TERZANI

Prefazione di ANGELA TERZANI STAUDE

A cura di A`LEN LORETI 22 febbraio 1984, Pechino. Lettera al « Fratello ». Caro Fratello (« fratello » perche´ se avessi un fratello cinese saresti tu, « fratello » perche´ questa e` la parola in codice che con Angela usiamo quando parliamo al telefono), quindi: Caro Fratello, questa e` una lettera difficile perche´ a differenza di quelle che ti ho scritto mentalmente durante le lunghe ore di detenzione e interrogatori, questa deve essere dattiloscritta e in qualche mo- do le parole scritte, con la loro inevitabile precisione, fanno vio- lenza alle cose informi che si provano, alle espressioni non for- mulate che ci vagolano per la testa. Sei stato importantissimo per me perche´ ti ho tenuto costan- temente presente. Eri la traccia, il punto di riferimento. Con te ho silenziosamente discusso, ti ho consultato e nella nebbia del- l’abbandono che il non dormire, il non bere, il non mangiare e lo stress inducono, ho addirittura pensato di essere te, perche´ ho sempre saputo che, un giorno o l’altro, questo poteva suc- cedere a te e sarebbe stata la fine. Invece e` successo a me. La mente e` un oceano pieno di navi colate a picco e lo stress degli interrogatori, l’altalena di minacce e promesse, i momenti quieti tra una sessione e l’altra riportano lentamente a galla i dimenticati detriti della vita: il nostro primo incontro nel set- tembre 1976 alla Bank of China per la cerimonia funebre di Mao; le chiacchierate sulle nostre vite e cio` che in esse era giu- sto e sbagliato. Piacevoli rimasugli del passato, mentre le orecchie sono riempite di una voce metallica che giunge da una bocca distorta in un sorriso sardonico: « Confessa. Non hai altro modo. Sap- piamo tutto di te, vogliamo solo che confessi. Le masse ti han- no sorvegliato da lungo tempo e ci hanno informato. Cono- © Longanesi & C. sciamo i tuoi crimini. Vogliamo solo conoscere il tuo atteggia- mento. Se e` buono, il governo popolare ti trattera` con clemen- za; altrimenti la punizione sara` severissima. Vogliamo aiutarti. Il nostro dovere e` di rieducarti. Confessa ». Ora dopo ora. Il mondo e` lontano. Si guardano i rami di un albero contro il cielo grigio di Pechino e si pensa a quel che fanno in quel momento tutte le persone che si conoscono. « Sei un criminale. Devi confessare i tuoi crimini. » Un po’ ero contento, un po’ dispiaciuto che finisse presto. Finalmente si era aperta per me una piccola finestra sulla Cina vera e non volevo si richiudesse troppo in fretta. Quale privilegio, poter guardare nella pancia della balena, avvicinarsi al cuore di tenebra! Ho pensato di essere un cinese e mi sono sentito disperare. Nessuna terra ferma su cui stare, nessuna legge da citare, nessun diritto da invocare. Solo da chiedere perdono: non a un Dio lontano che una volta conoscevo, ma a un altro uomo che non ha alcuna particolare verita` da spacciare, eppure e` potente grazie alle sue insinuazioni. « Ci e` stato detto che... » Si passano in rassegna gli amici e li si immaginano tutti co- me potenziali traditori. Nessuno regge ai dubbi e ci si trova soli con i nostri aguzzini o salvatori. « Apriti a noi. Dicci cosa pensi e ti aiuteremo a riformarti. » Quindi? Amo la Cina di meno. Al contrario, mi sento piu` vicino a essa. Ed e` per questo che mi e` stato facile essere come un cinese, vivere come un cinese, magari pensare come un cinese. Del socialismo? Davvero non saprei che dire. Con Orville Schell si parlava proprio alcune settimane fa del nostro vecchio entusiasmo per Mao, per la Rivoluzione cultu- rale e « la rivoluzione » in generale. « Ci siamo sbagliati, ma non mi fido di quelli che hanno avuto ragione », diceva. Sono d’accordo. Ma eccoci qua, ancora intrappolati tra due errori, incapaci di immaginare una via nuova, impotenti nel plasmare una societa` che rispetti l’uomo singolo anziche´ « il po- polo », lasciati senza una scelta, a parte quella di confessare e di © Longanesi & C. ritrovare casa nell’anonima moltitudine degli altri da cui spun- teranno gli accusatori del futuro. Lo sai, Fratello? Solo per un momento in quelle ore ho avu- to davvero paura: quando tutto d’un tratto ho pensato che po- tessi essere tu il burattinaio dietro le quinte. Allora quell’idea mi e` stata insopportabile. Ancor piu` intol- lerabile mi e` oggi pensare che nel nome di grandi ideali venga- no costruite societa` in cui questi pensieri sono possibili. Grazie di tutto il tuo sostegno, della tua amicizia e soprattut- to di capire la distanza da cui ti parlo. Con affetto, Tiziano

***

5 agosto 1990, Daigo. I giorni passano. Ho perso il conto e non m’importa. Ancora 12 ore di sonno tranquillo, pieno di resti di tante cose di tanto tempo fa. Nella pace tornano a galla i resti di tanti ricordi, di tanti naufragi. Bellissima corsa all’alba con Baolı` anche lui al massimo della felicita`, sempre a caccia di topi appena annusati, sempre inteso a rispondere alla voce di quel cagnaccio lontano che e` la sua eco. Sono continuamente in compagnia di Lafcadio che ha fatto il monumento a questo Giappone che sento essere stato qui at- torno e che e` scomparso. Alla curva di una strada che passa in una piccola gola cementata, qualcuno ha rizzato quel che resta di una bella statua di Buddha dalle mani alzate. All’ombra di un boschetto di bambu` spicca ancora una pietra dedicata al « dio della forza del cavallo », coi bei caratteri colorati di blu. Una poesia scomparsa di cui ancora godono questi giapponesi che mi circondano. Mi viene continuamente nella testa d’essere felice. Forse lo sono davvero. Quasi me ne vergogno a pensare ad Angela che per salvarmi e` nel mezzo dei problemi della famiglia. Ma qui e` davvero il paradiso: non sento che rumori di natura, voci di uccelli, stridii di cicale. Nessuno mi chiama, nessuno vuole niente da me, al massimo Baolı` e a quello posso dare un calcio se mi pare. Per- © Longanesi & C. 6 sino la vanita` e` soddisfatta: mi abbronzo, dimagrisco, mi diver- to a vedere la palla tonda della nuca rapata sulla quale ora ri- spuntano delle stoppie bianche. Mi spalmo la crema della far- macia di Santa Maria Novella e godo al pensiero di poter fare esattamente quel che lo stesso farmacista riteneva impossibile (per questo lui stesso era calvo): darsi questa roba puzzolente (ma sanissima) per un mese senza mai lavarsi. Splendido. Lo sto facendo. Forse perche´ non la conosco come quella dell’Orsigna dove mi pare di sapere di ogni sentiero, di sentire la voce di ogni bo- sco, la natura qui mi intriga coi suoi suoni, col cangiare dei suoi verdi. Mi perdo ore a fissare nel bosco di cedri dinanzi a casa, ad ascoltare l’abbaiare delle cornacchie, lo sfrigolare delle cica- le, il ronzare disperato delle decine di mosche, mosconi, libel- lule, calabroni, mosconi d’oro che si affannano a trovare un’impossibile via d’uscita dalle mie vetrate. Godo del silenzio, del telefono che non squilla, del fatto che non sento nessuno soffiarmi sulla schiena, del fatto che nessuno si aspetta nulla da me, quasi nemmeno io da me stesso. Penso al Giappone, ne parlo coi pochi amici-libri che mi son portato dietro, scrivo nell’aria il libro, ma chi sa quando nel computer? In compagnia di Fou Ts’ong, che suona il suo Cho- pin in sottofondo, e di Baolı` che ignora tutto e ronfa sotto il tavolo al quale non mi siedo. Sono stato a godermi il prematuro calare del sole dietro la collina davanti a casa (sono appena le 16.45), prima insoppor- tabile agli occhi, bruciante, poi come un risplendente diamante fra le vette degli alberi che si fanno sempre piu` scuri. Si alza un leggero vento che scuote le chiome degli aceri rossi e fa cinguet- tare gli uccelli. Che errore e` stato allontanarsi dalla natura! Nella sua varieta`, nella sua bellezza, nella sua crudelta`, nella sua infinita, inegua- gliabile grandezza c’e` tutto il senso della vita. Se mai vi viene a mancare, come mi stava succedendo, basta tornare qui, alla na- tura, alle origini di tutto, all’albero da cui siamo saltati giu` avant’ieri, uomini miei vestiti di boria e di gessato grigio. Risalgo le scale verso la mia cuccia pregustando i resti di altri ricordi che affioreranno col sonno. © Longanesi & C. 7 ***

24 settembre 1992, Bangkok-Phnom Penh. All’aeroporto. La vi- sta di un khmer con passaporto americano che mi guarda con complicita` mi rattrista. Vestito di seta nera, si accomoda con- tinuamente come avesse un tic il fazzolettino che gli sbuca dal taschino della giacca. Viaggia con due racchette da badminton che gli escono dalla borsa. Lo sento parlare di investimenti con il suo vicino di posto, un francese che vende materiale per ospe- dali. Penso sempre a scrivere un pamphlet contro l’economia. Perche´ dobbiamo essere governati da uomini d’affari? La loro logica e` quella che esclude ogni moralita`, che tiene conto solo del criterio del profitto che da qualche parte vuol dire sfrutta- mento di qualcuno. La Cambogia oggi e` un buon esempio: e` un paese spazzatura in cui vengono vendute medicine non te- state, macchine che da altre parti vengono ritenute pericolose. Chi le vende fa dei buoni affari. Nessuno rimprovera loro di farli. Non ci sono leggi. Niente e` formalmente illegale. Torno da correre e a parte il sudore che gronda, sento addos- so la paura di quei vecchi fantasmi della depressione sempre pronti a riprendermi alla gola. Capisco che all’origine avevano le loro ragioni anche nella politica. Tornare in Cambogia e` la riprova di quel che sono andato dicendo: che tutto e` inutile, che la vita non ha senso, che non c’e` grande significato nel passare da qui. L’ONU sta creando un mostro dominato dall’ingordigia e dall’ingiustizia. La citta` e` inquinata, macchine di lusso che sen- za targa strombazzano per le strade intasate di poveri per por- tare i loro grassi e protervi padroni all’appuntamento con cui creare ancora piu` ricchezza per se´ epiu` ingiustizia per i piu`. Se e` questo il nuovo ordine del mondo che ci sta davanti bi- sogna cominciare a combatterlo, ora. Mi ricordo quanta piu` aria di giustizia e di compassione c’e- ra quando arrivai qui nella Cambogia occupata dai vietnamiti. C’era un senso di una vita che ricominciava, che i cattivi ave- vano perso. Ora di nuovo tutto e` confuso, marcio, indecifrabi- le, uno si sente disorientato e io sento i vecchi fantasmi in ag- © Longanesi & C. 8 guato. Forse debbo decidermi a lasciare l’Asia. Ma come posso, prima di aver fatto i conti? Un romanzo dovrei venire a scrivere e nient’altro. Non resta che sublimare questa roba in qualcosa che non sia l’articolino. Non trovero` il tempo?

***

12 agosto 1993, in treno a Novosibirsk (Siberia, Russia). Cullato dal treno e leggermente gassato dalle esalazioni dell’amico mongolo che mangia e beve, ma non defeca, ho dormito otto ore. Il risveglio alla prima luce e` quello di sempre negli ultimi giorni: betulle, pali della luce e rotaie. Ancora betulle, betulle, betulle. Il viaggio e` bellissimo per la sua avventura umana, ma dopo l’ingresso in Siberia il paesaggio e` monotono e poco av- venturoso. Mi vien sempre di piu` da pensare a quant’e` peccato che sia toccato a questi eroici cosacchi colonizzare la Siberia: una tale bella natura sprecata a fare cose banali. Dovunque emerge il so- gno materialista di mettere in piedi una societa` di beni, di fer- ro, di case, di acciaio, di treni, di tralicci. Forse e` stata l’influen- za della guerra, forse la banalita` dei sogni di chi ha dovuto sem- pre combattere contro gli elementi della natura, ma il fatto e` che questa Siberia resta identica a se stessa da un capo all’altro del continente, sempre fatta di capanne di legno, che diventano casermoni prefabbricati e abitati da gente che sembra non cam- biare mai di vestito, di gesti, di poverta`. Vedo una donna che mi pare il simbolo di tutto: all’alba, con una pezzola gialla in testa e un cappotto, trascina un car- rettino su una stradina fangosa a passo spedito, come se oggi davvero quella sua borsa si dovesse riempire finalmente di un tesoro. Mi colpiscono a volte i gesti gentili fra coppie. Spesso li vedo a braccetto, vecchi poveri e uniti nell’accogliente fetore delle lo- ro casupole. Sulla pensilina le scene sono piu` infernali che altrove. La fol- la, come una belva, si butta contro il treno, corre, ansima. Mi addormento con questa immagine del popolo russo. Una © Longanesi & C. 9 nazione inquieta, in corsa, insoddisfatta, irata, ma per il mo- mento ancora timida, ancora intimorita dai manganelli di due poliziotti con un berretto a padella con striscia rossa. E domani? Non puo` della gente cosı` restare a lungo repressa, insoddi- sfatta, docile dinanzi alla miseria, al sopruso. E dei cinesi cosa dire, cosı` anche loro in corsa, cosı` vincenti? Cosı` tronfi di se´, ancor piu` vedendo questi miseri russi dipen- dere dalla loro industria per coprirsi le carni bianche, pompate di grasso e di pane poco sano? Due grandi popoli ora al centro di grande instabilita`. L’Eu- ropa ha da preoccuparsi, da ripensare. Quanti si rendono conto? Quanti politici viaggiano su questi treni, vedono queste scene? Debbo riuscire a spiegare questo fenomeno.

***

12 settembre 1996, Dharamsala. Gli eremiti. Partiamo alle dieci con la guida. Il trekking parte da lı`, ai piedi di una modesta montagna co- perta di luce verde, ora che la foresta e` stata tagliata. Si passano alcune case di contadini indiani con degli enormi bufali nei cortili, dei bambini mocciosi, dei cani petulanti, e presto si ar- riva a una capanna di sassi ben messa sull’orlo di un pendio con una splendida vista sulla valle. Il primo « eremita » viene fuori dalla sua piccola porta di le- gno. Tashi, 63 anni, originario del Tibet e poi finito nel mo- nastero di Gyuto. E` qui da 12 anni, per modo di dire. Ogni quindici giorni, quando ci sono delle lezioni a Dharamsala, va a sentire e fare provviste. La sua vita qui e` felice, dice, ci sono orsi e a volte delle tigri che sono cosı` pesanti che si sente il loro calpestio sulla terra. « Ho cominciato a morire e ora guardo avanti, alla prossima vita. » Dice che quando va giu` gli prende una certa inquietudi- ne, si perde nel gossip su quello che fanno gli altri monaci, sulle « voci » che corrono, vede tutta la roba nei negozi e gli viene vo- glia di questo e di quello, vede tutto il mangiare che c’e` al mer- cato e gli viene voglia di rimpinzarsi. © Longanesi & C. 10 « Qui tutte queste tentazioni non esistono e si e` molto piu` felici, molto piu` sereni e calmi. Qui non ho ’attrazioni’ e posso dedicarmi a pulire il mio cuore. Appena comincio a salire la montagna mi sento sollevare, sono felice, perche´ mi lascio tutto dietro. » Continua a parlare delle « attractions » che prendono l’uomo nel mondo e che creano infelicita`. Lui e` diventato monaco al- l’eta` di nove anni. « Se riesco a pulire bene il mio cuore in que- sta vita, nella prossima potro` avere delle visioni. » I soldi per le provviste gli vengono dati dall’ufficio privato del Dalai Lama. Quando qualcuno muore, i monaci fanno il servizio funebre, la gente paga e quei soldi vanno a tenere in vita gli eremiti. Ce ne sono diciassette al momento sulla collina. Si alza la mattina prima del sole, fa le sue genuflessioni, legge i testi sacri che tiene avvolti in dei pezzi di stoffa rossa e gialla in una teca. La sua capanna e` magnifica, i muri esterni sono come quelli di un rifugio nella valle dell’Orsigna, sassi tenuti assieme con del fango, dalla parte della tramontana ha messo, un po’ distante dal muro, una paratia fatta di lamiere di vecchi busso- lotti dell’olio. Il tetto e` di ondulina di ferro, l’interno della ca- panna e` piu` piacevole, le pareti fatte di fango lisciato e dipinto di un verde pisello, il letto e` sotto una piccola perfetta finestra che guarda la valle, stretto tra due legni che ne fanno come una bara. Dorme su due materassini coperti di cotone, e si avvolge con una bella coperta violetta e un cappotto dalle maniche violette, con l’interno giallo di finta pelle di pecora. Sulla parete, contro la finestra, dei calendari con immagini buddhiste, delle stampe di tanka, una foto del Dalai Lama incorniciata da un kata bian- co. Dietro al letto, su una mensola, una serie di piccole cioto- line (sette o multipli di sette) in cui al mattino offrire la cosa piu` pura e di meno valore dell’acqua. Sulla terra battuta, delle lastre di pietra, sulle lastre una sorta di coperta-tappeto. Ordine e pulito. Lui e` un vecchio carino e sereno. Ci fa il te`. La cucina e` iso- lata dalla stanza da una porta e da una grossa coperta che pende davanti alla porta. Sul fornello, un’apertura nel tetto con un ve- tro da` la giusta luce. Prima usava la legna per cui tutta la cucina © Longanesi & C. 11 e` nera, ma ora qualcuno gli ha regalato una bombola di gas. Mi ricordo che a cena Rinpoche ha detto di voler dare agli eremiti un pannello per l’energia solare. Camminiamo ancora una mezz’ora e raggiungiamo una pic- cola piana con un’ultima casa di contadini, un bel bove, una donna, a pochi passi due capanne di sassi, sulla soglia di una un monaco piccolo e vecchio con l’asma, in una giacca di feltro europea con su scritto in piccolo « Patagonia ». E` il monaco che, dal 1979, ogni due anni va in Italia. Ecco allora un altro « eremita » che va avanti e indietro fra Dharam- sala e l’Italia. Ha 70 anni, e` entrato a dieci nel monastero di Sera in Tibet, ci e` stato per circa vent’anni. Nel 1960 e` venuto in India, e` qui a « fare l’eremita » da vent’anni. C’e` qualcosa di falso in lui e mi irrito. Questo « eremita » non mi piace. Dice che gli italiani che vanno a sentirlo, al settanta per cento diven- tano credenti. Quando Folco gli chiede quali sono le piu` grandi difficolta` del vivere, risponde solo che la vita da « eremita » e` dura, biso- gna aver forza. Io sbotto a dire che la vera vita dura, difficile, e` quella laggiu`, nelle citta`, con mogli e figli da nutrire, con problemi da risol- vere. La sua vita di « eremita » e` facile, comoda, non ha da pre- occuparsi di nulla, da fare nulla. Lo provoco ancora per vedere come reagisce, si irrita, non e` tranquillo e alla fine dopo una mezz’ora dice: « Bene, ora vi basta? » e ci caccia. Fuori piove, ma ce ne andiamo lo stesso. Facciamo pochi passi e incontriamo altri due « eremiti » che stanno salendo ver- so le loro capanne. Uno ha in un orecchio l’auricolare di un walkman. Ripassiamo davanti alla capanna dei contadini. La sola dif- ferenza fra loro e gli « eremiti » e` che i primi debbono lavorare per vivere. Anche Folco e` deluso, dice che forse bisogna ritor- nare alla scienza, che avremmo dovuto dargli uno schiaffo per mettere alla prova quanto era riuscito a raggiungere compren- sione e compassione. Mi fanno di nuovo rabbia i miei colleghi. Ricordo Tim co- me mi aveva parlato di questa scoperta degli « eremiti »: era an- dato a piedi per delle ore assieme al figlio di Rinpoche per rag- © Longanesi & C. 12 giungere questi posti, caverne nella montagna, magnifica gente, davvero particolare... Che inventori di miti! Perche´ ne abbiamo cosı` bisogno? Al ritorno vogliamo fermarci di nuovo dal primo eremita per lasciargli dei regali, ma l’eremita questa volta non viene fuori dalla sua capanna. E` occupato a ricevere altri due « eremiti ». Gli lasciamo pacchi d’incenso e del latte fuori nel cortiletto. Il tema con Folco e` come questo posto, che dal resto del mondo e` visto come una Mecca, come la fonte di una qualche grandezza, non sia altro che una misera meta per turisti, come ci sia crisi, divisione, come molto di quel che da lontano si so- gna sia qui senza tanto senso. « Mi viene da ridimensionare tutta questa storia », dice Fol- co, che ha appena finito di leggere Hitchens su Madre Teresa. Di tutti gli eremiti resta la conversazione col primo vecchino che bene spiega l’orrore della societa` dei consumi, che per ne- cessita` deve vendere quel che produce, che per questo deve fare pubblicita`, il che vuol dire creare desideri che non esistono e con cio` seminare continuamente infelicita`.

***

1o novembre 1997, mezzogiorno, New York. Ems, ce la faccio appena a sedermi a scrivere due righe. Ancora una giornata dura, ma – credimi – pacifica. Comin- cio a capire come debbono soffrire gli altri, quelli a cui la che- mio arriva nel profondo e non trovano la pace che io ho la for- tuna di vedermi sempre davanti. Chi sa perche´? Ho dormito nove-dieci ore, ogni ora alzandomi, ma sempre come in trance, come ubriaco, con appena la forza di ricadere nel letto: stranissimo. Alla fine rotolo giu` dal letto, le ossa fan male, specie la` dove la gamba entra nel bacino, in gola come un boccone che sto sempre per rivomitare, la faccia gialla – mi ac- corgo che la pelle sotto la gola e` tutta un frinzello, piena di grinze, come quella delle vecchie di cent’anni. Non mi tocca. Il cielo e` grigio, piove leggero e fitto. Mi forzo a vestirmi, il parco e` bellissimo – fai presto per goderti ancora l’incredibile © Longanesi & C. 13 combinazione dei gialli, dei rossi, gli arancioni, gli ultimi verdi e i tronchi umidi e neri, fai presto a venire prima che sia tutto spoglio – anch’io, ma quasi non ne godevo. Sono andato nel profondo del bosco selvaggio, poi e` venuta una pioggia a dirotto, poi al ritorno non riuscivo ad attraversare la strada del parco: era invasa da migliaia e migliaia di marato- neti che domani parteciperanno alla grande gara che finisce proprio qui, nel mio parco, passando davanti a casa. Era strano vedere tutta quella bella, tantissima gente, sana, forte, che correva, sudava sotto la pioggia con le bandiere di tutto il mondo. Non avevo nostalgia: mi veniva in mente l’im- magine di me che correvo davanti al ritratto di Mao sulla piazza Tienanmen e vedevo un vecchio cinese col cancro che da qual- che parte allora mi guardava, pensando quel che penso io ora e a cui veniva in mente un’immagine di se´. Il mondo continua e gli uomini tutto sommato mi danno speranza. Gia`. Mi volto indietro e ripenso che e` da Calcutta, con la breve, magnifica, saggia e fortunata interruzione di Hong Kong, che non vivo piu` normalmente. Parigi, Bologna, mesi al Contadino, poi qui ed eccomi qui ancora per settimane. E non mi angoscia. Non ho nulla da fare, nulla da sognare, nulla da sperare. Solo la pace, il silenzio e questa magnifica giornata tranquilla che ho davanti e in cui nessuno mi cerchera`, non dovro` andare da nessuno... Stai bene, Ems. Io sto! tiz p.s. mi piace l’idea di scrivere di questo cancro guardando l’America dalla finestra.

***

14 aprile 1999, Kottakkal. Incredibile notte. Ho dormito benis- simo nel costante, ininterrotto sbatacchiare di tamburi e cem- bali e piatti, e nel cantare monotono e ossessivo di un uomo dopo l’altro. Non capisco nulla ma ho l’impressione che nel corso di questo festival ci sia come un impegno a non interrom- pere per un solo secondo l’inneggiare agli dei, a impedire a qualsiasi costo l’intervenire di un solo secondo di silenzio. © Longanesi & C. 14 La notte passa cosı` col battere frenetico di strumenti a per- cussione sotto la mia finestra, finche´ il primo sole dell’alba, che fa uscire dall’ombra file e file di alberi di cocco, non mi fa al- zare a godere lo strano confuso paesaggio che si apre ai miei piedi, le facciate di mattoni, alcuni camini da cui esce del fumo, e un costante odore di erbe medicinali assieme al tambureggia- re e al tintinnare di sonagli. L’elefante e` sempre sul piazzale. Al tramonto, nella spianata davanti all’ospedale si addensa una bella folla di gente, famiglie con bambini, vecchi che si ten- gono a malapena in piedi, notabili cui viene di corsa offerta una sedia. La spianata e` coperta da un grande tendone di paglia in- trecciata. Una grande troupe di suonatori e attori ha messo le tende negli edifici dietro il samadhi del vecchio fondatore del- l’ospedale. Si vedono, puliti ad asciugare, dei grandi pentoloni in cui la troupe ha cucinato, le casse dei vestiti, le lampade vo- tive, dei giovani attori che parlano, un vecchio seduto come in meditazione su un muro. All’ingresso della cappella della dea due bei tronchi di bana- no tagliati di fresco sono messi come stipiti alla porta con ca- schi di banane ancora attaccate. E` l’ora in cui dei vecchi accen- dono le decine di piccole lampade a olio, quelle in piccole cop- pe di pietra inserite nei muri, quelle nei vari ripiani delle grandi lampade d’ottone tipiche di qui. Odore di olio bruciato spaz- zato via da dolcissime zaffate di medicinali che vengono dalla fabbrica accanto. Il rumore dei bambini, soffocato da un insi- stente, ossessionante tambureggiare e sibilare di uno di quei pifferi da incantatori di serpenti, che un vecchio lezioso e vane- sio suona con maestria e perdizione mentre la lettrice della ma- no, cacciata dalla polizia dal suo posto di ieri, si accomoda po- chi metri piu` in la`. Suoni, luci, odori. Mi pare davvero di essere in un altro tempo.

***

13 dicembre 1999, Hong Kong. Mia carissima Saskia, grazie infinite del tuo messaggio. Ne avevo bisogno per sa- pervi tutti tornati a casa, ma anche per ricordarmi che ho an- © Longanesi & C. 15 cora, almeno in famiglia, delle stelle su cui orientare il mio sempre piu` confuso e labirintico cammino. Ieri mattina – una di quelle domeniche grigie, ma non fred- de della Hong Kong invernale – mi son messo in cammino dal- l’universita`, dove sto, a piedi giu` per la collina fino al lungoma- re e poi al traghetto per Macao. Volevo passare due giorni a Macao e respirarne l’aria prima che questo primo lembo di so- gni occidentali in Asia sia, fra una settimana, anche l’ultimo ad ammainare una bandiera cristiana sulle sponde d’Oriente. Viaggiavo con in tasca un libretto su Macao, una lettera d’amo- re che Philippe Pons con una generosa amicizia, che io ho dif- ficolta` a imitare, mi ha pubblicamente dedicato con la scritta « A` Tiziano, cette ville en partage ». Mi immaginavo di leggerlo sulla veranda della Pousada, sul- le panchine della Praia Grande. Mal me ne incolse! L’idrovo- lante, freddo come le celle frigorifere in un obitorio pieno di cadaveri non reclamati, mi ha scaricato in una citta` di cui rico- noscevo solo il nome, in cui non avevo nessuno da vedere, nes- suno sulla cui spalla piangere. Il solo con cui sono riuscito a di- scutere era padre Minella, quello che hai conosciuto anche tu, morto il 31 gennaio 1999 e sulla cui tomba, nel cimitero dietro la facciata della cattedrale, ho passato un’ora. Sono scappato a Hong Kong col primo idrovolante su cui son riuscito a salire, alle 3.45, e mi son messo a letto coprendo- mi bene per non farmi assaltare dai fantasmi e con una doman- da in testa a cui non riesco a trovare risposta: che cosa e` una citta`? Le case? La luce? I cammini che ci si sono fatti come le linee del destino sul palmo di una mano? O la memoria che si ha delle emozioni che ci si sono avute? Forse le fantasie che il solo nome suscita ancor prima di esserci stati? Macao. Macao per me e` parte della mia vita, per me Macao e` la fe- licita` di quell’essere lontano, il ricordo di voi piccoli sul triscio` lungo la Praia Grande, le notti insonni passate ai vecchi tavoli da gioco, o quelle serene a dormire nei letti dalle reti sfondate nella Pousada, e poi al Bela Vista, odorosi di storia e di muffa. Tutto a Macao e` stato rifatto, ricementato. Da nessuna parte ho sentito una zaffata di quell’odore di morte che era la sua vi- © Longanesi & C. 16 ta. Per un giorno avrei voluto essere cieco, sordo e senza olfatto, tanto ogni sensazione mi feriva. Credo che ho raggiunto il fondo del mio viaggiare in questa Asia. Penso all’India come a una grande consolazione e ancor piu` a San Carlo che la solita fortuna dell’istinto mi ha fatto de- cidere di riaprire come porto sicuro per tutte le memorie. Ah... Saskia. Che cosa e` una citta`? E Firenze? Firenze che co- sa rappresenta nell’immaginario di uno che ne e` fuggito ragaz- zo, pur tenendola in petto come faro di orientamento, termine di paragone anche per gustare tutto « l’altro »? E tu dove hai la tua stella? In quale memoria trovi il tuo orientamento? Dove la tua sicurezza? A quale immagine di citta` ricorri quando vuoi sapere chi sei? Quando vuoi trovare la forza di sentirti diversa dal montare della marea altrui? Il vantaggio di noi europei e` almeno quello di avere ancora delle citta` in cui riconoscersi, in cui non tutti i punti di riferi- mento sono cambiati, in cui si puo` ancora voltare un angolo e sapere che ci si para dinanzi una chiesa o una colonna, un al- bero o il portone sempre dello stesso colore di una vecchia casa. A Macao non c’era neppure piu` il mare a rassicurarmi col suo monotono respiro delle onde contro il muro di pietre sotto i grandi alberi. Anche il mare e` stato portato via! Ah, Firenze, Firenze! Mi chiedo se abbia ragione Theroux di cui mi scrivi. Certo che ci sono ancora delle spiagge dove andare, degli alberghi boutique in cui i ricchi potranno permettersi di stare lontani dagli aussies, ma non e` questo il punto. Il punto e` che e` finito il senso dell’avventura, il « gusto del- l’altro » che ancor avant’ieri era dovunque. Nelle nostre chiac- chierate da digiunatori dissennati abbiamo con Poldi deciso di rifare il mondo eliminando i passaporti, ritirando tutti quelli che esistono e lasciando che il viaggiare sia di nuovo una que- stione di vita o di morte... o di una raccomandazione. Ti abbraccio, mia Saskia, e grazie ancora d’aver battuto un colpo. So che ci sei da qualche parte nel mondo e quel sapere mi consola. t. © Longanesi & C. 17 ***

22 gennaio 2000, Binsar. Una silenziosa luna illumina le mie spalle, le fronde degli alberi, la foresta, la cresta di una collina e, dietro, quella di altre ombre di colline e montagne nel piu` limpido dei cieli. Guardo il fuoco e la luce tremula di due lam- pade a petrolio. Seduto per terra su una coperta di lana bianca scrivo queste righe. Sono felice. Mi pare davvero di aver fatto il primo passo di un grande viaggio, di avere la chance di una nuo- va, bella avventura. Il silenzio attorno e` immenso e la possibilita` di ascoltare la propria voce la piu` grande che ho mai avuto.

***

15 febbraio 2000, Binsar. Esco di casa urlando dalla gioia. Sono le sei e mezzo e la piu` incredibile alba sta avvenendo. Il sole sor- ge sotto uno strato di nuvole nere che diventano rosse di fuoco, le montagne escono dall’oscurita` cosmica con toni di giallo, viola, azzurro come il mare. Mi metto sopra il pigiama giallo il berretto di lana, tre coperte, ed esco a camminare quasi scalzo sulla neve gelata. E` semplicemente meraviglioso. Penso alla Sa- skia che ho portato ad Angkor per poterle mettere nel cuore la misura della grandezza umana, vorrei che fosse qui per sentire la grandezza del... Creatore! L’Himalaya sembra venirmi incontro con i contrafforti che si illuminano di giallo, le vette restano nell’ombra, poi una stri- sciata di sole come una colata d’oro sulle onde delle montagne piu` basse. Che spettacolo, questo del mondo che ogni giorno ricomin- cia e spazza via le paure della notte!

***

28 settembre 2000, New York al mattino. Accendo la mia tv, pas- so da un canale all’altro: un condannato a morte in Texas, un candidato presidenziale, poi un altro, la notizia che i teenager non dormono abbastanza. Un astronauta cinese reclamizza un sito web che aiuta anche chi non sa usare un computer a creare © Longanesi & C. 18 un sito di e-commerce (« Potrai da lı` vendere di tutto, dalla tua autobiografia ai tuoi balocchi in legno... »). Tutto e` pubblicita`, soldi, prodotti, lavoro... sorrisi. E tutto sembra funzionare. Sono venuto in America a curare il mio corpo, ma e` chiaro che dovevo andare in India a curare la mia anima. Forse, se avessi tempo, dovrei davvero scrivere dell’America, di questa fortissima, certo stimolante contraddizione. Apro le tende di chintz della camera e un bel sole sorge su distese di macchine parcheggiate; vedo le fusoliere scintillanti degli aerei che mi passano a pochi metri dalla testa coi carrelli gia` pronti a toccare la pista.

***

30 gennaio 2001, Binsar. Mia cara, cara Angelinchen, il Divino Artista mi ha accolto a Binsar con uno spettacolo commovente. C’era aria d’inverno, delle nuvole nere cariche di pioggia pesavano sulla foresta e le montagne erano scomparse, avvolte in grandi nebbie fredde, quando improvvisamente la` dove il sole tramonta il cielo si e` aperto, le nuvole alte si sono da sotto accese di fuoco e una stupenda, strana striscia color la- pislazzuli si e` creata a fare da sfondo al ritaglio preciso dell’ul- tima fila di vette. Mi son rimesso la giacca e ho fatto la tua stra- da fino a dove il muro e` rotto e la vastita` del mondo ti appare a portata del cuore. Era bellissimo e tu eri con me. Mi sono seduto su uno dei balzi e mi sono come dimentica- to. Per un attimo, in quell’incredibile silenzio nel quale solo il vento respirava lontano, m’e` parso che non c’era differenza fra la mia vita e la mia morte, fra l’esserci e il non esserci. Poi ho visto i fili gialli dell’erba tremolare e sono come tornato lı` per terra, pesante col corpo che ancora ho.

***

5 novembre 2001, Quetta. Questa guerra non e` un videogioco per quelli lontani, ne´ parte di un adventure tourism per quelli che vengono qui. © Longanesi & C. 19 Stiamo passando una giornata di burocrazia per avere il visto per andare nel posto di frontiera con l’Afghanistan, come fa- cemmo dal Passo Khyber, che anche da qui, come da Peshawar, e` lontano tre ore di macchina. Forse, dopo tante chiacchiere e citazioni e sorrisi, riusciamo ad andarci domani. Altrimenti aspettiamo. Questo e` un posto interessante, anche se stravolge stare, co- me ho fatto ieri, in un ospedale a parlare con bambini fatti a pezzi dalle nostre bombe mentre giocavano al pallone!!! Una vergogna, questa guerra, e alla tv sento che ora anche l’Italia vuole mandare soldati ed elicotteri qui. Una vergogna. Solo per avere Berlusconi seduto a tavola a Downing Street ieri sera. Una vergogna. L’Europa dei banchieri dell’Euro e` finita, e tutti questi pic- coli Gomulka e Honecker del nuovo stalinismo di Bush corro- no dal padrone e dal suo rappresentante londinese. E` una ver- gogna. Sento il mio essere qui come una missione, ma, come capisci bene tu, difficilissima, perche´ si tratta di dire senza dire, far ca- pire senza assordare... e senza farsi mettere sul rogo. Grazie di esserci, mio amore, tiz

CONTINUA IN LIBRERIA E IN eBOOK

© Longanesi & C. 20 DI COSA PARLA IL LIBRO:

« Cosa fa della vita che abbiamo un’avventura felice? » si chiede Tiziano Terzani in questa eccezionale opera inedita, che rac- conta con la consueta potenza riflessiva l’esistenza di un uomo che non ha mai smesso di dialogare con il mondo e con la co- scienza di ciascuno di noi. In un continuo e appassionato pro- cedere dalla Storia alla storia personale, viene finalmente alla luce in questi diari il Terzani uomo, il padre, il marito: una persona curiosa e straordinariamente vitale, incline piu` alle do- mande che alle facili risposte. Scopriamo cosı` che l’espulsione dalla Cina per « crimini controrivoluzionari », l’esperienza de- ludente della societa` giapponese, il passaggio professionale dal- la Repubblica al Corriere della Sera, i viaggi in Thailandia, URSS, Indocina, Asia centrale, India, Pakistan non furono sol- tanto all’origine delle grandi opere che tutti ricordiamo. Furo- no anche anni fatti di dubbi, di nostalgie, di una perseverante ricerca della gioia, anni in cui dovette talvolta domare « la belva oscura » della depressione. E proprio attraverso questo conti- nuo interrogarsi (« tutto e` gia` stato detto, eppure tutto e` da ri- dire »), Terzani maturava una nuova consapevolezza di se´, affi- data a pagine piu` intime, meditazioni, lettere alla moglie e ai figli, appunti, tutti accuratamente raccolti e ordinati dall’autore stesso, fino al suo ultimo commovente scritto: il discorso letto in occasione del matrimonio della figlia Saskia, intriso di no- stalgia per la bambina che non c’e` piu` e di amore per la vita, quella vita che inesorabilmente cambia e ci trasforma.

© Longanesi & C. 21 L’AUTORE

TIZIANO TERZANI nasce a Firenze nel 1938. Per oltre tren- t’anni, dal 1972 al 2004, vive in Estremo Oriente con la moglie Angela e i figli Saskia e Folco. Corrispondente del settimanale tedesco Der Spiegel, collabora anche a L’espresso, la Repubblica e al Corriere della Sera. I suoi libri, tutti editi da Longanesi e tra- dotti in molte lingue, raccontano le grandi storie di cui e` stato testimone. In Pelle di leopardo (1976) la fine della guerra in Vietnam; in La porta proibita (1984) la Cina del dopo Mao in Buonanotte, signor Lenin (1992) il crollo dell’Unione Sovie- tica; il volume In Asia (1998) raccoglie le sue migliori corri- spondenze dai paesi d’oriente. Con Un indovino mi disse (1995), Lettere contro la guerra (2002) e Un altro giro di giostra (2004) affronta i temi che riguardano direttamente l’uomo e raggiunge un vastissimo pubblico. Muore a Orsigna nel luglio 2004. Nel 2006 esce postumo La fine` e il mio inizio, a cura di Folco Terzani; nel 2008 Fanta- smi. Dispacci dalla Cambogia, con uno scritto di Angela Terza- ni Staude; nel 2010 Un mondo che non esiste piu`, fotografie e testi scelti da Folco Terzani. Alla sua memoria sono dedicati il Premio letterario interna- zionale dell’Associazione vicino/lontano di Udine, il Premio nazionale per l’umanizzazione della medicina di Bra, e il sito www.tizianoterzani.com.

© Longanesi & C.

Prima edizione: maggio 2014

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

Traduzione dall’inglese di Roberta Scarabelli

Titolo originale dell’opera: For Once in My Life

© 2013 by Marianne Kavanagh Published by arrangement with Il Caduceo Agenzia Letteraria and Annette Green Literary Agency

ISBN 978-88-11-68741-2

© 2014, Garzanti Libri S.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol

www.garzantilibri.it «Ti piacerebbe», disse Kirsty. Era seduta in una posizione yoga, le gambe lunghe avvolte in direzioni opposte intorno al corpo. «Chi?» chiese Tess. «George», rispose Kirsty. Era sabato mattina e stavano bevendo il caffè nel loro sog- giorno malridotto; Kirsty per terra, Tess raggomitolata sul divano sfondato. Dalla grande finestra a bovindo una debo- le luce spuntava riluttante, quasi si scusasse di rivelare tanta polvere. C’erano effetti personali sparsi ovunque: felpe con cappuccio, borse, libri, auricolari, cuscini gonfiabili, calze rosa extralarge. Avevano spesso ospiti nel loro appartamen- to: vecchi compagni di Manchester venuti a trovarle, amici che dopo il pub avevano perso l’ultimo metrò. Nelle giorna- te storte, quando Tess rientrando trovava il frigo vuoto e un alone di sporcizia intorno alla vasca da bagno, si domanda- va se non stessero esagerando con l’accoglienza. Quella mattina avevano la casa tutta per loro. Kirsty era appena tornata, ma non aveva l’aria di una che era stata in giro per locali tutta la notte. I lunghi capelli neri erano lisci e lucenti, gli occhi perfettamente truccati, alla Cleopatra. «Ci risiamo», disse Tess. «Cosa?» «Non ti piace Dominic», spiegò Tess, «così continui a pro- varci, a presentarmi altri ragazzi.» Kirsty sembrò offendersi: «Quando mai ho detto che non mi piace Dominic?» «Da quando lo conosci?» Università di Manchester. Primo semestre del primo an-

3 no. Tre ragazze in un appartamento con un bagno in comu- ne da cui Dominic era emerso indossando solo un piccolo asciugamano bianco. Kirsty, volgendo lo sguardo da lui a Tess, aveva sollevato un sopracciglio con un arco perfetto. Ma Tess non aveva spiegazioni da dare. Perché un uomo che sembrava un modello di biancheria intima aveva tra- scorso la notte nel suo letto? «Dominic è fantastico», disse Kirsty. Tess, diffidente, rimase zitta. «Ma George è la tua anima gemella», continuò Kirsty. «La mia anima gemella.» «Ti piacerebbe un sacco. È un musicista. Adora l’arte.» «Come molta altra gente», replicò Tess. «Ed è all’antica.» «Io non sono all’antica.» «Disse la ragazza ossessionata dal vintage.» Tess, che aveva passato tutta la mattina a leggere una co- pia del 1944 della rivista «Woman» (5 ricostituenti primaverili per i vostri vestiti!), fu messa a tacere. «Ti garantisco che è il tuo tipo», disse Kirsty. «E come sarebbe il mio tipo?» Kirsty la guardò dall’alto in basso con le palpebre soc- chiuse, come una ragazzina che stia per dire una parolaccia. «Diverso da Dominic.» Tess aprì la bocca per protestare ma si affrettò a richiu- derla. Quello era un tormentone costante. «Allora, dove sei stata stanotte?» chiese Tess. «In un locale», rispose Kirsty. «Vicino a Smithfield.» Si fermò, soprappensiero. «È un po’ strano camminare per Smithfield a notte fonda. Si continua a inciampare nelle car- casse di maiale.» Per un attimo Tess visualizzò nella mente l’immagine di Kirsty circondata da file di costine. «George suonava le tastiere ed era proprio bravo. Tutti continuavano ad alzarsi in piedi urlando e battendo le mani. Poi siamo tor- nati a casa di Rhys a Hackney, ci siamo fatti un tè e siamo ri- masti lì seduti a chiacchierare, e io pensavo: “A Tess piace- rebbe un sacco. A Tess piacerebbe un sacco George”.» Tess si sforzava di non sembrare interessata. Kirsty aveva

4 un sesto senso per le persone. Se si metteva a parlare con uno sconosciuto a una fermata dell’autobus alle tre di not- te, saltava fuori che era un attore dell’Old Vic o qualcuno che lavorava con Vivienne Westwood. Così Tess si limitò a di- re, con aria indifferente: «Lo dicono tutti». Kirsty posò la tazza di caffè e sciolse la posizione a gambe incrociate. «Lo dicono tutti cosa?» «Che George è il mio tipo.» «Chi lo dice?» «Ellie e Lauren. Lo hanno conosciuto quando ancora sta- vano a Manchester.» «Com’è possibile?» chiese Kirsty. «Lui se n’è andato pri- ma che noi iniziassimo l’università.» «Non lo so», rispose Tess. «Tramite amici di Lauren. Sai com’è lei, la regina degli intrallazzi.» «Ecco, vedi, allora», disse Kirsty. «Tutti i prerequisiti di una relazione perfetta. Siete andati alla stessa università, a- vete amici in comune, siete entrambi liberi e single.» Tess raddrizzò la schiena. «Ti stai dimenticando Dominic.» Kirsty si alzò con un agile scatto. Rimase lì in piedi, aggra- ziata, composta. «È facile dimenticarsi di lui», disse.

5 L’appartamento era stracolmo, così pieno di gente che si vedevano a malapena le pareti a cui erano appesi enormi quadri quasi completamente arancioni. Lasciarono i cap- potti in un piccolo studio che, con tutti quei mucchi di se- ta, pelle e mohair, aveva già l’aria di un negozio dell’usato a King’s Road; poi tornarono in mezzo alla ressa che scop- piava di energia, gridando da tutte le direzioni. Si sentiva appena la musica, un misto di canto sussurrato e flauti su- damericani. George, già spaesato – a casa ma non a casa –, si guardò attorno un po’ in ansia. Quello era proprio il ge- nere di invitati che lo faceva sempre sentire a disagio in una festa: così in anticipo sulla moda che sarebbe apparsa sulle riviste patinate da sembrare quasi rétro. Non riconob- be nessuno. «Beviamo?» chiese Rhys. «Sì.» «Cosa vuoi?» «Qualunque cosa», rispose George. «George?» Si voltò. «Conosci Tess, vero?» disse Rhys.

Quello era George. Lo sapeva. Lo riconobbe, anche se non l’aveva mai visto. Aveva intorno, da ogni parte, gente che lo schiacciava, gridava sopra la sua testa, lo spintonava, eppure lui era rimasto immobile, a fissarla, con aria total- mente familiare. Rimase scioccata da quel lampo di riconoscimento. Ma al

6 tempo stesso si sentì rassicurata, perché lui era esattamente come si aspettava sarebbe stato. Tutte le volte che se lo era immaginato, lo aveva visto così: un metro e settantacinque, un metro e settantotto circa, capelli castani, occhi azzurri. Carnagione chiara di chi non prende mai il sole. Rughe sot- tili intorno agli occhi, come se ridesse molto, o forse si preoccupasse molto. La faccia ruvida con un accenno di barba. “Non c’è niente in lui”, pensò Tess, “che ti spinga a fermarti a guardarlo: non è né grasso né magro, né alto né basso. Non ha segni particolari né piercing, né barba o ta- tuaggi. Persino i suoi vestiti non sono niente di speciale: una camicia blu scuro, stropicciata come se si fosse dimenti- cato di stirarla o l’avesse indossata tutto il giorno, o si fosse addormentato sul divano, e il calore del suo corpo avesse creato nuove pieghe.” “Ma forse è lui che vuole essere così”, pensò. “Forse non vuole attirare l’attenzione.” (Nessuno, d’altronde, aveva mai lasciato intendere che George amasse le luci della ribalta.) “Si tiene in disparte e osserva tutti, e l’unica cosa che attira lo sguardo è quella sua aria imbarazzata. C’è una tensione in lui, come se fosse in attesa, come se non fosse sicuro che sia una buona idea dire o fare qualcosa, perché potrebbe non essere il momento giusto, o potrebbe non essere gradi- ta, o sarebbe meglio se venisse detta da qualcun altro. Que- sto lo fa sembrare cauto e vulnerabile. Al tempo stesso, però, è come se porgesse un invito. La sua espressione sem- bra dire: ‘Di’ qualcosa e capirò ciò che intendi’. Anche i suoi occhi comunicano la stessa cosa: ‘Di’ qualcosa e so che sarà spiritosa, intelligente e divertente’. E poi, in segno di apprezzamento di tutta quella brillantezza, sorriderà. I suoi occhi si incresperanno agli angoli e intorno alla bocca appa- riranno le rughe della risata.” “Ed è questo che rende George particolare”, pensò Tess. “È questo che lo rende diverso. Che lo fa risaltare tra la fol- la. Lui vuole che tu abbia successo. Vuole che tu splenda. Vuole che tu sia felice.” Nessun gesto era appropriato. Come si saluta qualcuno che conosci già ma non hai mai incontrato?

7 «Tess», disse George. “Sapevo che la tua voce sarebbe stata così”, pensò lei. “Più calda e più profonda di quanto ti aspetteresti da uno della tua corporatura. Però sembri perplesso. Sembri confuso.” «Alla fine ci siamo incontrati», disse George. Tess scosse la testa. «Allora come faccio a conoscerti?» Erano racchiusi in una piccola bolla indipendente di bea- titudine, e si sorridevano. «Però ci siamo quasi incontrati», disse George, «molte volte.» «Molte volte», ripeté Tess. «Una volta dovevi venire a cena da noi», aggiunse Tess. «Avevo cucinato lo shepherd’s pie.» «Davvero?» Tess annuì, con gli occhi che brillavano. “Mi guarda”, pensò George, “come se pensasse che sono interessante, che sto per farla sorridere.” «Rhys continuava a dirmi che ti conoscevo», continuò George. «Ogni volta. Alla fine ci ho quasi creduto.» Tess rise. «E Kirsty ci ha provato in tutti i modi.» Lei continuava a guardare la sua bocca. Aveva voglia di al- zarsi in punta di piedi e baciarla. George, perso, stava osservando ogni centimetro della sua faccia. «Kirsty però non mi ha detto che ci saresti stato anche tu oggi.» George si ricordò di parlare. «Infatti non lo sapeva. Le ho fatto una sorpresa.» «Una sorpresa di compleanno.» Il sorriso di George scomparve. «Cosa c’è?» chiese Tess. «Non le ho preso il regalo.» «Lei non vuole regali.» «No?» «Io le ho comprato un cappello.» «Un cappello?» «Le piacciono.»

8 George tornò a sorridere. «Sta benissimo con i cappelli. In verità sta benissimo con tutto.» «Non lo sapevo che eri così carina.» Tess ammutolì. George si fregò la barba incolta sul men- to. Aveva dita bellissime. “È un pianista”, pensò Tess. “Ora mi ricordo che suona il piano.” «Mi dispiace», disse George. Tess sorrise, un po’ titubante. «Va tutto bene.» «Non volevo metterti in imbarazzo.» «Non sono imbarazzata.» «Invece sì.» Tess rise. «Oh, okay, allora. Un po’ sì.» «Intendevo solo che in tutto questo tempo in cui non ci siamo incontrati nessuno me l’ha detto.» I suoi occhi non abbandonavano la faccia di Tess. «Nessuno mi ha detto com’eri.» «Avrebbe fatto qualche differenza?» Ma a quel punto l’espressione di George era così triste che lei smise di sor- ridere. Abbassarono entrambi lo sguardo, fissandosi i piedi. «Possiamo uscire da qui?» suggerì George. Tess lo guardò, sorpresa. «Non ti sento. Andiamo da qualche altra parte», le spiegò. «Non posso. È il compleanno di Kirsty. Non posso andar- mene. Non ci sono ancora stati i fuochi d’artificio.» Si guardarono con aria impotente. «Sul retro», propose Tess. «C’è un cortiletto sul retro. Fuori dalla cucina.»

Si dimenticarono di Rhys, che stava lottando corpo a cor- po per recuperare i loro margarita. Avanzavano piano. Tess si stampò in faccia un sorriso lu- minoso ma vago e continuò a fare cenni affabili, come la re- gina, per assicurarsi di non essere coinvolta in qualche con- versazione. Aveva voglia di allungare una mano e prendere

9 quella di George, che si faceva strada a spallate, ma natural- mente si trattenne. Perché non lo conosceva. Non conosceva affatto George. Non puoi prendere la mano di qualcuno se non lo conosci. Così camminò nella sua scia, cercando di stargli vicino, cer- cando di tenere a bada quel subbuglio di emozioni che la invadeva, minacciando di erompere dalla bocca in una spe- cie di ululato animale. Perché conosceva George. Lo conosceva bene. Era così familiare, così carino, era evidentemente qualcuno che lei avrebbe dovuto incontrare tempo prima. Non capiva nien- te, ma al tempo stesso aveva tutto perfettamente senso. Quello era George. Le apparteneva. E non poteva averlo. Rimase scioccata che quel pensiero fosse così grande, così nitido, così sfrontato. Le gridava a lettere cubitali come un’esplosione di tre metri su un cartellone pubblicitario. NON PUOI AVERLO. Perché ormai era troppo, troppo tardi. “E in ogni caso”, pensò con il cuore pesante come un maci- gno, mentre guardava George abbassare la maniglia di una portafinestra che si aprì, miracolosamente, sul buco nero di un cortile posteriore trascurato, “lui vive a New York. Quest’uomo che ho appena incontrato, ma che conosco da molto tempo, vive a migliaia di chilometri di distanza. Il che significa”, considerò, mentre lo seguiva fuori nel minu- scolo patio circondato da muri alti tre metri che si ergeva- no, come scogliere scure, tutto intorno a loro, “che molto presto tornerà in capo al mondo. Stasera parliamo. Doma- ni parte.” “Quindi”, concluse, mentre George si voltava verso di lei, solo l’ombra di un uomo alla luce fioca, vana, riluttante che usciva dalla cucina nel seminterrato di un appartamento a Kennington, “tutto questo è totalmente inutile.”

“Nell’attimo in cui ti ho visto”, pensò George, “ho capito chi eri. Mi sembrava di averti già incontrata moltissime vol- te. Ma non sapevo, fino a stasera, che eri così. Capelli scuri, occhi scuri. C’è una morbidezza in te che mi fa venire voglia

10 di allungare una mano e toccarti. Sembri così familiare. Mi sembra di averti parlato ieri. Ma non c’è mai stato nessun ie- ri. Allora perché mi pare di conoscerti? Conosco persino la tua voce, come se avessimo passato ore a chiacchierare. Co- nosco le tue espressioni, ognuna di loro. Quel piccolo sguardo perso che hai quando ti viene in mente un pensie- ro che ti fa sentire sola e spaventata. Il modo in cui ti mordi il labbro quando sei agitata. La luce nei tuoi occhi prima di sorridere. Come faccio a conoscere queste cose se non ti ho mai incontrato prima di stasera? Hai un sorriso così bello. Fai venire voglia anche a me di sorridere.” «Non riesco a vederti», proruppe George. «Lo so», affermò Tess. «C’è troppo buio.» I sensi di George si sentirono defraudati di lei. Da un angolo del cortile spuntò una piccola luce. Allar- mato, lui guardò la cucina affollata. Kirsty salutò con la ma- no, ma poi voltò le spalle. Adesso George riusciva a vedere Tess. Stava tremando di freddo. Lui voleva togliersi la giacca per dargliela, ma non ce l’aveva. L’aveva lasciata dentro, da qualche parte, su un mucchio di cappotti costosi. «Hai freddo», disse. «È solo lo sbalzo di temperatura», rispose lei. «Faceva cal- dissimo dentro.» Si sfregò le braccia con le mani per scal- darsi. George si sentì terribilmente egoista per averla trasci- nata lì fuori. Arrivavano i rumori dalla strada, le macchine che sfrecciavano a sud verso Brixton, Streatham e Penge. «Eppure devo averti già incontrato», continuò George. «Dobbiamo esserci incontrati da qualche parte.» Tess scosse la testa. Lui aveva uno sguardo ansioso. «Tu suoni il piano?» «Lo suonavo. Adesso insegno.» «Suonavi quando eri a Londra.» «Ero più giovane quando ero a Londra», disse George in tono secco. «Prima o poi bisogna crescere.» Tess non disse nulla. Il silenzio era come l’enorme bocca spalancata di uno squalo, che aspettava di divorarli vivi.

11 «Non credo a una parola di quello che ho appena detto», si corresse George. «Che sollievo», sospirò Tess. «Stavo cominciando a odiar- ti.» Sorrise. “Che bei denti regolari” pensò George. “Tutto di lei è pic- colo e perfetto.” «Non credo che dovresti rinunciare ai tuoi sogni», ag- giunse Tess. «No», convenne George. «Hai ragione.» «Sono ciò che ti rende unico.» Lui annuì. Ci fu una pausa. «Sono un’ipocrita», continuò lei. Lui voleva gettarsi in sua difesa, anche se era Tess ad accu- sarsi da sola. «Io ho rinunciato ai miei sogni.» Aveva un tono triste e stanco. «Ho sempre pensato che avrei aperto un negozio di vestiti vintage. Li colleziono da anni. Da quando mia nonna mi raccontava le storie della seconda guerra mondiale. Li ho sempre adorati. Anche se aprissi un negozio, ne terrei qualcuno. Perché sono bellissimi. Ma non vorrei un museo. Vorrei guadagnarmici da vivere.» «È piuttosto difficile», disse George, «avviare un’attività.» «Non cercare scuse per me.» «Ma è così», insistette George. «Si rischia molto.» Tess sorrise. «Come quando rinunci a un reddito fisso per suonare jazz.» E a quelle parole sorrise anche lui, ed erano tornati nella loro bolla di reciproca comprensione. «Mi ricordo che hai suonato alle nozze di Tim e Lily.» George sembrò sorpreso. «C’eri anche tu al matrimonio? Non ti ho vista.» «Nemmeno io.» “Ci saremmo potuti incontrare”, si rammaricò lui, “tanto tempo fa.” «Ti ricordi il discorso del fratello di Tim?» chiese lei, e le si illuminarono gli occhi. George scosse la testa. Non si ricordava nessun discorso.

12 «Suonavate il bebop», disse Tess. «Conosci il bebop?» «Si intona con i vestiti», rispose Tess. «Charlie Parker. Mi- les Davis. Max Roach.» «Thelonious Monk», aggiunse George. «Round Midnight.» George la guardò, stupito. «Straight, No Chaser», continuò Tess. «Brilliant Corners.» «Non riesco a crederci che le conosci.» «Non si alzava sempre a ballare quando suonava?» «Non riusciva a stare fermo», disse George. «Gli si muove- va tutto il corpo.» «Lo fai anche tu?» gli chiese con uno sguardo canzonatorio. «Sono troppo represso.» «Represso?» «O forse depresso», precisò George, mentre gli angoli de- gli occhi si increspavano in un sorriso. Lei scoppiò a ridere. Rimasero lì immobili a guardarsi. “Se stessimo insieme io e te”, pensò George, e quell’illuminazione lo colpì con tan- ta lucidità che ne rimase abbagliato, “la mia vita cambiereb- be completamente. Tu capisci. Non devo fare fatica per spiegarmi. Tu sei già qui, ad aspettarmi a metà strada.” «Per un po’ ho provato», disse titubante, «a cercare qual- cosa di diverso.» «Di diverso?» «Non so... Qualcosa oltre Thelonious Monk.» Gli occhi di Tess erano seri. «E cos’è successo?» «Ho smesso.» «Perché?» «Non saprei», rispose. «La vita si è messa in mezzo.» “Oh, so cosa vuoi dire”, pensò Tess, figurandosi la lama d’acciaio di un raschietto sotto una tappezzeria difficile da togliere, vernice lucida bordeaux, zoccolini sbeccati. Sentì crollare tutte le domeniche del suo recente passato nell’a- mareggiato ricordo del fai da te, tempo buttato via nella spazzatura, irrecuperabile. “Come ho potuto lasciare che

13 succedesse? Perché mi sono comportata come se non m’im- portasse di ciò che facevo della mia vita?” Dopo un po’, Tess disse: «Me ne sarei dovuta andare mol- to tempo fa». «Dal tuo lavoro?» Ci fu un lungo silenzio. «Scusa», disse George. Tess alzò lo sguardo. «No, è una bella domanda. Solo che non so la risposta.» “Ho voglia di baciarla”, pensò George. “Cosa farebbe se la baciassi?” La portafinestra che dava sul cortile si aprì all’improvviso. «Oh», disse uno. «Non sapevo ci fosse qualcuno qui fuori.» «Non c’è problema», disse Tess. «Sono uscito a fumare.» «Stavamo rientrando.» «Ah, sì?» chiese George. «Credo che Rhys ci stia cercando.» Altre persone stavano uscendo in cortile. George e Tess rimasero uno di fianco all’altra aspettando che si aprisse uno spiraglio nel traffico della festa. Prima che gli mancasse il coraggio, George disse: «Possia- mo rivederci?». «Quando?» «Prima che io riparta.» Tess esitò. «Ti prego», insistette George.

continua in libreria e in e-book...

14 Tess e George non potrebbero essere più diversi, eppure so- no anime gemelle. Lei è la classica brava ragazza, ordinata e per bene, lui fa il musicista, ha un’anima solitaria e qualche se- greto di troppo. Eppure sono fatti l’uno per l’altro, solo che non si conoscono ancora. Vivono a Londra. Hanno frequentato la stessa università. Hanno amici in comune che cercano di farli incontrare. Ma ogni volta che stanno per conoscersi a un con- certo, a un matrimonio, a una festa, una serie di imprevisti li al- lontana, e il fatidico momento sembra non arrivare mai. Fino al giorno in cui, per caso, finalmente le loro strade si in- crociano. Non c’è bisogno di nessuna parola, di nessun gesto. Basta uno sguardo e Tess riconosce George, anche se non l’ha mai visto. In quegli occhi che la fissano immobili, c’è tutto il loro mondo, tutto il loro futuro e la certezza di stare insieme da sempre. Solo che adesso è troppo tardi. La vita li ha portati lontani l’u- no dall’altro e ci sono ancora molti ostacoli a dividerli. Devono affrontarli insieme, devono trovare il modo di difendere quello che hanno di più prezioso: un amore senza uguali, un amore scritto nelle stelle. Costi quel che costi. Un incantevole imprevisto è un esordio potente e unico. Con- teso dalle principali case editrici di tutto il mondo, ancor prima della pubblicazione è diventato un fenomeno editoriale senza precedenti, attesissimo dai librai e dalla stampa. Un romanzo pieno di vita. La storia di due ragazzi destinati ad amarsi nonostante tutto. La storia di due anime unite nel profon- do, che niente potrà dividere. La storia di quell’amore magico e misterioso, che fa tremare lo stomaco e mancare il respiro. Per- ché quando si incontra la propria anima gemella non si hanno più dubbi. Quando è scritto nelle stelle, basta uno sguardo per riconoscersi.

Marianne Kavanagh è una giornalista che lavora per impor- tanti testate inglesi. Il suo primo romanzo, Un incantevole impre- visto, è in uscita in numerosi paesi come un esordio d’eccezione.

ANTEPRIMA Dal 22 m aggio in lib reria

MIGLIOR ROMANZO DELL'ANNO PER THE NEW YORK TIMES, THE GUARDIAN, TIME E MOLTI ALTRI K a t e A t k i n s o n

V I T A D O P O V I T A

R o m a n z o

T R A D U Z I O N E D I A L E S S A N D R O S T O R T I

Vita dopo la vita_ristampa.indd 3 25/03/14 15.56 Titolo originale Life After Life

ISBN 978-88-429-2385-5

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it

In copertina: foto © Ilona Wellmann/Millenium Images, UK Jacket design by Keith Hayes Jacket © 2013 Hachette book group, Inc.

Grafica: pepenymi

Copyright © 2013 by Kate Costello Ltd. All rights reserved

© 2014 Casa Editrice Nord s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Vita dopo la vita_ristampa.indd 4 25/03/14 15.56 Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Que- sta vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte […]»? Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina!»?

FRIEDRICH NIETZSCHE, La gaia scienza*

πάντα χωρει˜ καὶ ου̉δεν ̀ μένει. Tutto si muove e nulla sta fermo. PLATONE, Cratilo

E se avessi la possibilità di rivivere più volte la tua vita, finché non venisse come deve? Non sarebbe splendido?

EDWARD BERESFORD TODD

* Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, libro quarto, aforisma 341; traduzione di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano, 2013. (N.d.T.)

Vita dopo la vita_ristampa.indd 9 25/03/14 15.56 S I A T E U O M I N I D I V A L O R E

Vita dopo la vita_ristampa.indd 11 25/03/14 15.56 Novembre 1930

Entrando nella caffetteria, fu investita da un’aria carica di umi- dità e fumo di tabacco. Fuori pioveva e c’erano ancora delle goc- ce che tremavano come rugiada delicata sui giacconi di pelliccia di alcune delle avventrici. Un reggimento di camerieri in grem- biule bianco si affaccendava a ritmo serrato per venire incontro alle necessità di svago dei Münchner: caffè, dolci e pettegolezzi. Lui era seduto a un tavolino nel fondo, attorniato dalla so- lita corte di leccapiedi. C’era una donna che lei non aveva mai visto, una bionda platinata con un trucco pesante; un’attrice, a giudicare dalle apparenze. La biondina si accese una sigaretta, facendo di quel gesto uno spettacolo volgarmente allusivo. Tut- ti sapevano che lui prediligeva donne contegnose e morigerate, preferibilmente bavaresi. Tutti quei dirndl e le calze al ginocchio, Dio ci scampi. Il tavolo era stracarico. Bienenstich, Gugelhupf, Käsekuchen. Lui si stava mangiando una fetta di Kirschtorte. Li adorava, quei suoi dolci. Non c’era da meravigliarsi, se aveva quell’incarnato tanto cereo, era sorprendente che non gli fosse venuto il diabete. Un corpo mollemente ripugnante, che a lei ricordava la pasta, celato dai vestiti e mai esposto alla vista. Un mezzo uomo. Non appena la scorse, le sorrise e accennò ad alzarsi, dicen- do: «Guten Tag, gnädiges Fräulein». Indicò la sedia accanto a lui, occupata da uno dei suoi adulatori, che balzò in piedi per far- le posto. «Unsere Englische Freundin», proseguì lui, rivolto alla biondina. La donna soffiò lentamente il fumo e la squadrò, ma senza un vero interesse, infine le disse: «Guten Tag». Una berlinese. Lei posò a terra la borsetta, appesantita da ciò che conteneva, accanto alla sedia. Poi ordinò una cioccolata. Lui volle a tutti i costi che assaggiasse lo Pflaumen Streusel.

Vita dopo la vita_ristampa.indd 13 25/03/14 15.56 14

«Es regnet», disse lei, tanto per fare conversazione. «Sta pio- vendo.» «Sì, sta piovendo», le fece eco lui, con un accento pesante. Poi rise, tutto contento della propria performance. Risero anche tutti gli altri. «Bravo», disse qualcuno. «Sehr gutes Englisch.» Lui, di buon umore, tamburellò con il dorso del dito indice sulle labbra, con un sorriso divertito, come intento ad ascoltare una melodia che esisteva solamente nella sua testa. Lo Streusel era una delizia. «Entschuldigung», mormorò lei, infilando una mano nella borsetta. Ne estrasse un fazzoletto orlato di trina e con le iniziali ricamate, UBT, un regalo di compleanno di Pammy. Si tamponò educatamente le labbra per ripulirle dalle briciole di Streusel, poi si chinò per riporre il fazzoletto e prendere il pesante og- getto che aveva portato: la rivoltella d’ordinanza di suo padre, una Webley Mark V della Grande Guerra. Una mossa che lei aveva provato cento volte. Un solo sparo. La rapidità era essenziale, eppure, dopo che lei ebbe estratto la pistola e l’ebbe puntata al cuore di lui, ci fu un istante, una bolla sospesa nel tempo, in cui tutto parve fermarsi. «Führer», gli disse, spezzando l’incantesimo. «Für Sie.» Intorno al tavolo, molte altre pistole vennero sfilate di scatto dalle fondine e puntate verso di lei. Un solo respiro. Un solo sparo. Ursula premette il grilletto. Caddero le tenebre.

Vita dopo la vita_ristampa.indd 14 25/03/14 15.56 N E V E

Vita dopo la vita_ristampa.indd 15 25/03/14 15.56 11 febbraio 1910

Una corrente d’aria ghiacciata, un soffio gelido sulla pelle ap- pena esposta. Senza preavviso, eccola fuori, il suo mondo tropi- cale si è improvvisamente volatilizzato. Esposta agli elementi. Sgusciata come un gambero, come una noce. Non c’è respirazione. Tutto il mondo si è ridotto a questo. Un solo respiro. Polmoni piccolini come ali di libellula, da gonfiare dell’atmosfera estranea. Niente aria nella trachea serrata. Nella minuscola perla arricciata dell’orecchio, il ronzio di mille api. Terrore. La bambina che annega, l’uccello che precipita.

*

«Doveva esserci il dottor Fellowes», gemette Sylvie. «Come mai non è ancora arrivato? Dov’è?» Grosse gocce di rugiada sulla sua pelle, un cavallo che si avvicina al traguardo di una corsa diffici- le. Il camino della camera divampa come la fornace di una nave. Le pesanti cortine di broccato tirate a dare riparo dal nemico, la notte. Il pipistrello nero. «Vostro marito sarà rimasto bloccato dalla tormenta, immagi- no. C’è un tempo da lupi, signora. La strada sarà chiusa.» Sylvie e Bridget erano da sole, alle prese con la loro ordalia. La cameriera Alice era in visita alla madre inferma. E Hugh, naturalmente, era à Paris, a riacchiappare quell’incorreggibile ochetta di sua sorella Isobel. Sylvie non aveva la minima voglia di rivolgersi a Mrs Glover, che russava come un maiale da tartu- fo nella sua camera in mansarda: avrebbe preteso di comandare tutti a bacchetta, come un sergente maggiore in una piazza d’ar- mi. Sylvie si era aspettata un parto tardivo, come i precedenti, e invece il bambino era prematuro. I conti senza l’oste, come si suol dire.

Vita dopo la vita_ristampa.indd 17 25/03/14 15.56 18

«Oh, signora», gridò Bridget tutt’a un tratto. «È tutta blu.» «Una femminuccia?» «Ha il cordone avvolto intorno al collo. Oh, santa madre di Dio, è rimasta strangolata, povera piccolina.» «Non respira? Fammela vedere. Dobbiamo fare qualcosa. Che si può fare?» «Oh, Mrs Todd, l’abbiamo perduta. È morta prima di poter vivere. Mi dispiace tantissimo. Ora sarà sicuramente un piccolo cherubino, lassù in cielo. Oh, se ci fosse Mr Todd. Quanto mi dispiace. Devo svegliare Mrs Glover?»

Il cuoricino. Un piccolo cuore indifeso che batte all’impazzata. Fermato all’improvviso, come un uccellino caduto dal cielo. Un solo sparo. Caddero le tenebre.

Vita dopo la vita_ristampa.indd 18 25/03/14 15.56 N E V E

Vita dopo la vita_ristampa.indd 19 25/03/14 15.56 11 febbraio 1910

«Per amor di Dio, ragazzina, piantala di correre in giro come una gallina decapitata e vai a prendere dell’acqua bollente e delle salviette. Non sai proprio niente? Sei cresciuta in mezzo a un campo?» «Perdonatemi, signore.» Bridget fece un inchino di scuse, come se il dottor Fellowes fosse stato un membro della famiglia reale. «Una femminuccia, dottor Fellowes? Posso vederla?» «Sì, Mrs Todd, un bel bocciolo di bimba.» Sylvie pensava che il dottor Fellowes stesse calcando un po’ troppo la mano, con quel complimento allitterante. Dire che non tendeva alla bonarietà era un eufemismo. Sembrava cre- dere che la salute dei suoi pazienti, in particolar modo il loro arrivo o la dipartita, avesse il solo scopo d’infastidirlo. «Il cordone stretto intorno al collo l’avrebbe uccisa. Sono ar- rivato a Fox Corner all’ultimo minuto. Letteralmente.» Il dot- tore levò le forbici da chirurgo affinché Sylvie le ammirasse. Erano piccole, lucide, con punte acuminate incurvate all’insù. «Zac zac», disse. Sylvie si ripromise – pur blandamente, date la sua condizio- ne di affaticamento e le circostanze che l’avevano causata – di comprare un paio di forbici identico, qualora si fosse presenta- ta un’emergenza simile. (Improbabile, peraltro.) O un coltello, una bella lama affilata da portare sempre con sé, come la figlia del brigante nella fiaba La regina delle nevi. «Per voi è una fortuna che io sia arrivato in tempo, prima che la neve rendesse impraticabili le strade», proseguì il dottor Fellowes. «Ho chiamato Mrs Haddock, la levatrice, ma credo che sia impegnata da qualche parte, appena fuori da Chalfont St Peter.»

Vita dopo la vita_ristampa.indd 21 25/03/14 15.56 22

«Mrs Haddock?» Sylvie si accigliò. Bridget scoppiò a ridere rumorosamente, poi si affrettò a mormorare: «Scusate, scusate signore». Sylvie pensò che lei e Bridget dovevano essere sull’orlo dell’isteria. E non c’era di che stupirsene. «Stracciona di un’irlandese», borbottò il dottor Fellowes. «Perdonatela, Bridget è soltanto una sguattera, appena una ragazzina. Devo soltanto ringraziarvi. È accaduto tutto tanto in fretta…» Sylvie pensò a quanto voleva restare da sola. Non ci riusciva mai. «Immagino che dovrete rimanere fino a domatti- na, dottore», aggiunse con riluttanza. «Mah, penso di sì», rispose il dottor Fellowes, con altrettanta riluttanza. Sylvie sospirò e lo invitò ad andare in cucina a farsi dare un bicchiere di brandy e magari un po’ di prosciutto e qualche cetriolino sottaceto. «Penserà Bridget a servirvi.» Voleva liberarsi di lui. Il dottore l’aveva aiutata a partori- re tutt’e tre (tre!) le volte e non le piaceva nemmeno un po’. Quell’uomo aveva visto cose che soltanto un marito dovrebbe vedere. Aveva palpeggiato e pungolato con i suoi strumenti le parti più delicate e intime di lei. Ma avrebbe preferito se fosse stata una levatrice di nome Haddock, a far nascere sua figlia? Ci sarebbe voluto un medico donna, per curare le donne. Un’e- ventualità improbabile. Il dottor Fellowes tentennò, mormorando e borbottando, mentre sorvegliava la concitata Bridget, intenta a lavare e ad avvolgere nelle fasce la nuova arrivata. Bridget era la maggiore di sette fratelli, dunque sapeva bene come fasciare un neonato. Aveva quattordici anni, dieci meno della padrona. A quell’età, Sylvie portava ancora la gonnellina corta ed era innamorata del suo pony, Tiffin; non aveva idea di come nascessero i bambini, addirittura era rimasta frastornata durante la prima notte di nozze. Sua madre Lottie le aveva dato qualche cenno in merito alla questione, ma era stata poco prodiga di dettagli anatomici: per lei, i rapporti fra marito e moglie erano misteriosamente legati alle allodole che si alzavano in volo all’alba. Lottie era una donna riservata, qualcuno l’avrebbe definita narcolettica. Suo marito Llewellyn Beresford, il padre di Sylvie, era un ar-

Vita dopo la vita_ristampa.indd 22 25/03/14 15.56 23

tista del bel mondo, ma tutt’altro che bohémien: niente nudità in casa sua, né atteggiamenti equivoci. Aveva ritratto la regina Alessandra quando era ancora principessa, diceva che era una donna molto piacevole. Abitavano in una bella casa di Mayfair, Tiffin era allogato in una stalla vicino a Hyde Park. Nei momenti di malinconia, Sylvie soleva rinfrancarsi d’animo immaginandosi in quel pas- sato assolato, seduta composta sulla sua sella per signora, sulla piccola e larga groppa di Tiffin, a trottare lungo la Rotten Row in una tersa mattina di primavera, con i colori vivaci dei boccioli sugli alberi. «Gradite del tè caldo e una bella fetta di pane tostato e im- burrato, Mrs Todd?» chiese Bridget. «Sì, Bridget, grazie.» La bambina, fasciata come una mummia egizia, arrivò final- mente fra le braccia di Sylvie, che accarezzò delicatamente le guance di pesca. «Ciao, piccolina.» Il dottor Fellowes si voltò per non assistere a quelle mielose manifestazioni di affetto. Se fosse stato per lui, tutti i bambini sarebbero stati cresciuti in una nuova Sparta. «Oh, be’, forse una piccola colazione fredda non sarebbe fuor di proposito. Per caso c’è un po’ di quel delizioso piccalilli di Mrs Glover?»

Vita dopo la vita_ristampa.indd 23 25/03/14 15.56 Q U A T T R O S T A G I O N I C O L M A N O L A M I S U R A D E L L ’ A N N O*

* John Keats, Four seasons fill the measure of the year; in Keats, Poesie, tradu- zione di Silvano Sabbadini, Mondadori, Milano,1986. (N.d.T.)

Vita dopo la vita_ristampa.indd 25 25/03/14 15.56 11 febbraio 1910

Sylvie venne destata da una scheggia di luce solare che trapas- sava le tende come una spada d’argento luccicante. Era langui- damente distesa fra i merletti e il cashmere, quando entrò Mrs Glover, reggendo con fierezza un enorme vassoio da colazione. A quanto pareva, solo un’occasione di una certa importanza poteva attirarla a tanta distanza dal suo covile. Sul vassoio c’era una boccetta che conteneva un bucaneve semicongelato. «Oh, un bucaneve!» disse Sylvie. «Il primo fiore a levare la testolina dal terreno. Che temerario!» Mrs Glover, poco convinta del fatto che i fiori possedesse- ro temerarietà – né, quanto a ciò, nessun altro attributo umano, encomiabile o no –, era una vedova che risiedeva a Fox Corner soltanto da poche settimane. Prima del suo arrivo, c’era stata Mary, una donna dalla postura cadente, incapace di cucinare un brasato senza bruciarlo. Invece Mrs Glover, semmai, tendeva a cuocerlo troppo poco. Nell’opulenta dimora in cui era cresciuta Sylvie, la cuoca veniva chiamata “cuoca”; Mrs Glover, invece, preferiva “Mrs Glover”. La rendeva insostituibile. Eppure, Syl- vie continuava a pensare a lei come alla “cuoca”. «Grazie, cuoca.» Mrs Glover batté le palpebre lentamente, come una lucertola. «Mrs Glover», si corresse Sylvie. Lei posò il vassoio sul letto e andò ad aprire le tende. La luce era straordinaria, il pipistrello nero era sgominato. «Che riverbero», disse Sylvie, schermandosi gli occhi. «Quanta neve.» Mrs Glover scosse la testa in un gesto che poteva essere di meraviglia come di repulsione. Non era sem- pre facile interpretare le sue espressioni. «Dov’è il dottor Fellowes?» chiese Sylvie. «C’è stata un’emergenza. Un contadino travolto da un toro.» «Spaventoso.»

Vita dopo la vita_ristampa.indd 27 25/03/14 15.56 28

«Sono venuti degli uomini dal paese, a cercare di liberare la sua automobile dalla neve, ma alla fine è arrivato il mio George, che gli ha dato un passaggio.» «Ah», disse Sylvie, come se avesse improvvisamente trovato la soluzione di un dilemma che l’aveva assillata. «E hanno il coraggio di misurare la potenza in cavalli!» gru- gnì Mrs Glover, finendo per somigliare lei stessa a un toro. «Ec- co cosa si guadagna, a fidarsi di quelle diavolerie moderne.» «Mmm», commentò Sylvie, restia a mettere in discussione opinioni impugnate tanto saldamente. La stupiva il fatto che il dottor Fellowes se ne fosse andato senza visitare né lei, né la bimba. «È entrato a darvi un’occhiata. Voi dormivate», disse Mrs Glover. Talvolta Sylvie si domandava se non fosse una telepate. Un pensiero veramente orribile. «Prima ha fatto colazione», proseguì la donna, manifestan- do approvazione e riprovazione nella medesima emissione di fiato. «Di appetito ne ha, parola mia.» «Io potrei mangiarmi un cavallo», rise Sylvie. Naturalmen- te no, non poteva. L’immagine di Tiffin le balenò nella mente. Sollevò le posate d’argento, pesanti come armi, preparandosi ad affrontare i rognoni pepati di Mrs Glover. «Deliziosi», disse (ma lo erano?) La donna però era già intenta a ispezionare la bambina nella culla. «Paffutella come un maialino da latte.» Sylvie rivolse un torpido pensiero a Mrs Haddock, doman- dandosi se fosse ancora bloccata da qualche parte vicino a Chal- font St Peter. «Mi hanno detto che per poco non moriva», disse Mrs Glover. «Be’…» Era tanto sottile, il confine tra la vita e la morte. Il padre di Sylvie, ritrattista di società, era scivolato su un tappeto d’Isfa- ha-n ai piedi della scala del primo piano, dopo una libagione serale di pregiato cognac. L’avevano trovato morto soltanto al mattino. Nessuno lo aveva sentito cadere o gridare. Aveva ap- pena iniziato un ritratto del conte di Balfour. Mai terminato, ovviamente.

Vita dopo la vita_ristampa.indd 28 25/03/14 15.56 29

A quel punto, si era scoperto che, quanto a finanze, era stato più prodigo di quanto non si fossero rese conto moglie e figlia. Segretamente dedito al gioco d’azzardo, con debiti in tutta la città, non aveva disposto nessun provvedimento in caso di mor- te prematura, dunque in breve tempo i creditori avevano preso d’assedio la bella casa di Mayfair. Che si era rivelata un castello di carte. Bisognava rinunciare a Tiffin. Sylvie con il cuore spez- zato, in lutto più per lui che per il padre. «Credevo che il suo unico vizio fossero le donne», aveva detto sua madre, momen- taneamente appollaiata su una delle casse per il trasloco, nella postura di una modella che posa per una pietà. Erano affondate in una povertà distinta e cortese. La madre di Sylvie si era fatta scialba e tediosa, le allodole non si levavano più in volo, mentre lei appassiva e deperiva. Sylvie, diciasset- tenne, era stata salvata da un destino di modella per pittori da un uomo conosciuto al bancone dell’ufficio postale: Hugh, stella nascente del florido settore bancario, l’archetipo della rispettabi- lità borghese. Che cosa poteva sperare di più, una ragazza bella ma priva di mezzi? Lottie era morta con meno lagnanze del previsto e Hugh e Sylvie si erano sposati senza troppo clamore il giorno del diciot- tesimo compleanno di lei. «Ecco», aveva detto Hugh. «Così non ti dimenticherai mai l’anniversario di matrimonio.» Avevano trascorso la luna di miele in Francia, una incantevole quinzaine a Deauville, per poi stabilirsi in un idillio semirurale non lontano da Beaconsfield, in una casa in stile vagamente Lutyens. C’era tutto ciò che si poteva desiderare: un’ampia cucina, un salotto buono con porte a vetri che davano sul prato, una graziosa sala della colazione e svariate camere da letto in attesa di riempir- si di bambini. C’era perfino una stanzetta sul retro, che Hugh avrebbe adibito a studiolo. «Ah, il mio covo», rideva lui. A una distanza che garantiva riservatezza, c’erano altre case simili. C’erano un prato, un bosco ceduo e un boschetto pieno di campanule attraversato da un ruscello. La stazione ferroviaria, in realtà una fermata priva di edificio, avrebbe permesso a Hugh di raggiungere la sua postazione in banca in meno di un’ora. «La valle addormentata», aveva riso Hugh, sollevando cavalle- rescamente Sylvie per portarla oltre la soglia. Era un’abitazione

Vita dopo la vita_ristampa.indd 29 25/03/14 15.56 30

relativamente modesta, nulla di paragonabile a Mayfair, e mal- grado ciò un poco al di là delle loro possibilità, un’avventatezza finanziaria che sorprendeva ambedue.

«Dovremmo darle un nome», aveva detto Hugh. «Gli Allori, I Pini, Gli Olmi.» «Ma in giardino non abbiamo nessuna delle tre cose», aveva osservato Sylvie. Erano in piedi davanti alla portafinestra della villa appena acquistata, a osservare il viluppo del prato incolto. «Dobbiamo trovarci un giardiniere», aveva detto Hugh. Le voci riverberavano nella casa vuota. Non avevano ancora cominciato a riempirla con i tappeti Voysey, le fodere Morris e tutti gli altri lussi estetici di una dimora del XX secolo. Sylvie avrebbe preferito abitare a Liberty, anziché nella residenza co- niugale ancora da battezzare. «Acriverdi? Bellavista? Prato Aprico?» aveva suggerito Hugh, avvolgendo un braccio intorno alla sposa. «No.» Il precedente proprietario della casa senza nome aveva ven- duto tutto ed era andato a vivere in Italia. «Immagina», aveva detto Sylvie, trasognata. Lei c’era stata, in Italia, da ragazza: un Grand Tour con suo padre, mentre la madre era a Eastbourne per curarsi i polmoni. «Piena di italiani», aveva obiettato Hugh, sdegnoso. «Altroché. È lì il suo bello.» Sylvie si era liberata dal suo braccio. «Gli Spioventi? Il Podere?» «Oh, finiscila.» Una volpe era spuntata dalla sterpaglia e aveva attraversato il prato. «To’, guarda», aveva detto Sylvie. «Sembra mansueta, dev’es- sere abituata a vedere questa casa senza nessuno.» «Speriamo che non abbia qualche cacciatore alle calcagna. È tutta pelle e ossa.» «È una femmina. Ha appena avuto i piccoli, vedi le tettine?» Hugh aveva battuto le palpebre, nel sentire un frasario tan-

Vita dopo la vita_ristampa.indd 30 25/03/14 15.56 31

to rustico dalle labbra della sposina illibata. (S’immaginava. Si sperava.) «Guarda», aveva bisbigliato Sylvie. Nell’erba erano compar- si due cuccioli, che giocavano ruzzolando l’uno sopra l’altro. «Che graziose creaturine!» «Nocive, piuttosto.» «Forse per loro siamo noi, a essere nocivi. Fox Corner, ecco come dovremmo chiamare questo posto. Nessuno ha una casa con quel nome, e questa mi sembra già una buona ragione.» «Ah, sì?» Hugh era dubbioso. «Un tantino stravagante, non trovi? Sembra il titolo di un romanzo d’appendice, La casa dell’Angolo delle Volpi.» «Un pizzico di stravaganza non ha mai ammazzato nessuno.» «E oltretutto, per amor di precisione, come fa una casa a essere un angolo? Semmai si trova in un angolo.» Ecco cos’è il matrimonio, aveva pensato Sylvie.

Due bimbetti fecero capolino dallo stipite, guardinghi. Sylvie sorrise. «Ah, eccovi. Maurice, Pamela, venite a salu- tare la nuova sorellina.» Cautamente, si avvicinarono alla culla, come dubbiosi circa il suo contenuto. Sylvie ricordò di aver provato un’emozione simile quando aveva guardato il corpo di suo padre nell’ela- borato feretro in rovere e ottone, caritatevolmente pagato dagli altri membri della Royal Academy. O forse la loro circospezione era dovuta alla presenza di Mrs Glover. «Un’altra femmina», disse Maurice, in tono lugubre. Aveva cinque anni, due più di Pamela, ed era lui l’uomo di casa, finché Hugh era via. Per affari, come diceva Sylvie alla gente, anche se in realtà suo marito aveva attraversato la Manica con gran premura per strappare la sorella minore dalle grinfie dell’uomo sposato con cui era scappata a Parigi. Maurice spinse un ditino in faccia alla bambina, che si sve- gliò e diede uno strilletto allarmato. Mrs Glover gli pizzicò un orecchio. Sylvie trasalì, ma Maurice sopportò stoicamente il dolore. Sylvie pensò che, non appena si fosse rimessa, avrebbe dovuto dire due paroline a Mrs Glover.

Vita dopo la vita_ristampa.indd 31 25/03/14 15.56 32

«Avete deciso che nome darle?» «Ursula», rispose Sylvie. «La chiamerò Ursula. Significa ’piccola orsa’.» Mrs Glover annuì distrattamente. Le classi medie avevano consuetudini tutte loro. Il suo robusto figliolo era inequivocabil- mente un George, che in greco significava “contadino”, a detta del parroco che lo aveva battezzato. E George faceva davvero il dissodatore, nella vicina tenuta di Ettringham Hall, come se il suo nome fosse bastato a forgiargli un destino. Non che Mrs Glover avesse una particolare tendenza a rimuginare sul desti- no. O sui greci, se era per questo. «Bene, è ora che mi dia da fare», disse Mrs Glover. «Per pran- zo ci sarà una bella steak pie. Seguita da un budino egiziano.» Sylvie non aveva idea di che cosa fosse il budino egiziano. Immaginò qualcosa a forma di piramide. «Dobbiamo tutti rimetterci in forze», chiosò Mrs Glover. «Già, infatti. Motivo per cui dovrei forse allattare di nuovo Ursula!» Sylvie stessa fu infastidita da quell’invisibile punto esclamativo. Per ragioni oscure perfino a lei, spesso si sentiva sollecitata a adottare un tono eccessivamente brioso nel parlare con lei, come nel tentativo di ristabilire una sorta di equilibrio naturale nel bello spirito del mondo. Mrs Glover non riuscì a trattenere un lieve fremito alla vista dei seni di Sylvie, pallidi e venati di azzurro, che fuoriuscivano dallo spumeggiante peignoir di pizzo. Scacciò in tutta fretta i bambini e uscì di gran carriera anche lei. «Porridge», annunciò, minacciosa.

*

«Sicuramente il Signore avrebbe rivoluto questa bambina», dis- se Bridget quando, in tarda mattinata, tornò nella stanza con una tazza di brodo di carne fumante. «Siamo stati messi alla prova», rispose Sylvie. «E siamo stati giudicati meritevoli.» «Per stavolta», aggiunse Bridget.

Vita dopo la vita_ristampa.indd 32 25/03/14 15.56 Guarda il booktrailer e scopri di più su www.vitadopovita.com