S t o r i a e c u l t u r a l o c a l e G e n i u s L o c i

Miniere e società dall’Annuario 2004 di Consultacultura: :

Tracce… Percorsi storici, culturali e ambientali per Santa Fiora 2004 Annuario di Consultacultura di Santa Fiora -Anno IX, 2004 Direttore (Coordinamento redazionale e direzione editoriale) Lucio Niccolai Piazza del Borgo 6, 58037 Santa Fiora, e-mail [email protected] Progetto grafico C&P Adver Effigi Impaginazione: Rossella Cascelli Stampa Tipografia Ceccarelli di Grotte di Castro, luglio 2004 I testi originali, le foto e le immagini sono di esclusiva proprietà degli autori. Ogni collaborazione è stata fornita a titolo gratuito. Redazione: Consultacultura , Via Marconi 93, 58037 Santa Fiora tel. 0564 977113, e-mail [email protected] Immagini e documenti : Lucio Niccolai, Consultacultura, C&P Adver, Pietro Cicaloni, Severino Meloni, Romano Micai e Lucia Durazzi Archivio foto ciacciaie : Lando Nistri Correzione bozze : Hardy Reichelt Sbobinatura e battitura testi : Maria Angela Iannelli Impaginazione Web: Sergio Menicucci (2006)

Indice Renzo VERDI, Sindaco di Santa Fiora, Introduzione p. 5 CONSULTACULTURA, Guida alla lettura p. 6

Miniere e società: dal “memoriale unico” alla strage di 1. Pasquale IUSO, Miniere e società p. 9 2. Silvano POLVANI, Il “Memoriale unico” e la grande lotta sindacale del 1919 p. 13 3. Lucio NICCOLAI, Dal “memoriale unico” alla crisi mineraria degli anni ’30. p. 31 4. Adolfo TURBANTI, Resistenza e minatori. Il caso grossetano p. 41 5. Lucio NICCOLAI, Resistenza e guerra di liberazione sul Monte Amiata p. 53 6. Gastone PIZZETTI, Luciano MARTELLINI E Stelio OLIVELLI, Profilo di due protagonisti: Fausto Pizzetti e Guido Martellini p. 65 7. Mauro STAMPACCHIA, Il giovane Fernando Di Giulio tra Università, lotta partigiana, impegno politico p. 71 8. Bruno TRAVAGLINI, Dall’Amiata a Niccioleta… e ritorno p. 79 9. Ferruccio PALMIERI, Una testimonianza p. 84 10. Paolo PEZZINO, Il caso Niccioleta p. 87 11. Leoncarlo SETTIMELLI, Nella miniera è tutto un baglior di fiamme. La figura del minatore nella canzone popolare e d’autore p. 91 12. CONSULTACULTURA, I minatori (e le miniere!) nella poesia popolare santafiorese p. 119 Introduzione Renzo Verdi Sindaco di Santa Fiora

Ho tenuto a battesimo, nove anni fa, come Assessore alla Cultura del Comune di Santa Fiora, il primo numero di Tracce … nato dalla fantasia e dalle capacità di elaborazione di Consultacultura che, allora, non era ancora un’associazione, ma uno strumento di consultazione e di supporto all’Assessorato che dirigevo. Tanta ne è passata di acqua sotto i ponti: Consultacultura è diventata un’associazione autonoma e questo le ha permesso, da una parte, di conservare i rapporti costruttivi e propositivi con l’Amministrazione comunale e con il mio Assessorato in particolare, dall’altra di avviare un proprio percorso che le ha consentito di attivare collaborazioni e rapporti con Enti e Associazioni, anche indipendentemente dall’Amministrazione, e di costruire con determinazione e caparbietà una propria specifica identità che è ormai una delle peculiarità santafioresi, apprezzata e riconosciuta da tutti, e che può vantare qualificate e sempre nuove collaborazioni (come dimostrano i numeri di Tracce … usciti in questi anni). Nel contempo, senza aver mai fatto mancare il mio apporto e la mia disponibilità al dialogo negli anni del mio assessorato, mi trovo oggi a introdurre questo nono annuario santafiorese, in qualità di Sindaco. Potrei dire che insieme, ognuno nel proprio ambito, siamo cresciuti, ci siamo assunti maggiori responsabilità. C’è da augurarsi che il percorso possa continuare e sicuramente il prossimo anno, che consacrerà il decimo appuntamento con l’annuario Tracce …, dovremo viverlo, sia l’Amministrazione comunale che la Consultacultura , nel migliore, più creativo e fattivo modo possibile. Per quanto riguarda questo numero di Tracce …, se ne può apprezzare, come il solito, la qualità, l’alto livello di ricerca e di impegno, l’attento lavoro redazionale che permettono di fotografare aspetti sconosciuti della nostra storia e della nostra cultura di documentare elementi importanti delle dinamiche economiche e territoriali, la capacità di riportare alla luce e far conoscere documenti altrimenti di difficile reperimento, come da sempre, tenendo fede agli obiettivi originari, nelle sue intenzioni. Di più si può dire che, nel corso degli anni, Tracce … è cresciuto, non solo come numero di pagine, ma anche come puntualità nella ricerca e nella corrispondenza con le aspettative del territorio e i suoi bisogni. Vorrei segnalare, a questo proposito ed in particolare, tutta la prima parte di questo volume che ci fornisce motivi di riflessione e di approfondimento sul rapporto tra miniere e società, perché testimonia anche di un metodo di lavoro (la condivisione degli obiettivi, la collaborazione tra enti e associazioni) che ci auguriamo possa continuare nei prossimi anni. In questa direzione potremo pensare, per il prossimo futuro, a molti positivi momenti di incontro, all’apertura di più percorsi che possano permetterci di fare luce su altri aspetti della nostra storia e della nostra cultura, che ci consentano di meglio capire le peculiarità dell’ambiente, ma sempre in un’ottica progettuale di crescita e di proposta utile anche a chi governa per meglio indirizzare e promuovere una adeguata valorizzazione e recupero delle risorse, in senso lato, del territorio.

Renzo Verdi Sindaco di Santa Fiora

Miniere e società Pasquale Iuso Fondazione Di Vittorio, Prof. Associato Storia Contemporanea, Università di Teramo, Facoltà di Scienze Politiche

La domanda che viene da porsi in relazione alle due giornate amiatine di studio su “miniere e società” è in che modo la storia delle miniere e degli uomini che hanno lavorato in esse si allaccia e si intreccia con quella, ancor più ampia, della società italiana nel corso del ’900. Le risposte possono essere tante, ma un elemento sembra emergere con forza: gli interventi di queste giornate, così come di altri momenti di riflessione storica e storiografica dedicati al mondo delle miniere, hanno posto e pongono al centro il concetto di “lavoro”; un “lavoro” inteso in senso ampio con le sue tante sfaccettature, con lo sfruttamento, le lotte, la Resistenza al fascismo, le conquiste ma anche con il suo patrimonio di uomini, di culture, di tradizioni. Un’accezione del legame tra le miniere e la società che dobbiamo quindi collocare nella cosiddetta “Labour history”, una categoria interpretativa con la quale si intende non tanto e non solo il lavoro in senso industriale, quanto una storia del lavoro con elementi di analisi sociale, antropologica, politica che affronta i comportamenti dei gruppi di lavoratori nelle loro articolazioni comunitarie e microcomunitarie, abbracciando e legando conflittualità e strategie sindacali alla dimensione familiare/individuale, alla fabbrica (nel nostro caso alla miniera), alle relazioni sociali, ai grandi momenti di confronto e di scontro che ha vissuto la storia italiana e – più in particolare – quella del movimento sindacale e dei lavoratori, definendosi come elemento strutturale ed ineludibile delle vicende che hanno attraversato il Novecento. Un approccio, ribadito in modo differente nei riferimenti particolari e in quelli più ampi di profilo generale, attraverso il quale si colgono, si percepiscono, si intuiscono tanti elementi, decisivi per collocare correttamente il rapporto tra le miniere e la società italiana lungo il processo di industrializzazione e di fine dell’Italia fordista: la storia economica con le vicende legate allo sfruttamento industriale delle risorse minerarie; la storia sociale di una comunità formatasi nel lungo periodo, in cui le donne svolgevano un ruolo importante; la storia delle idee politiche che hanno scandito le vicende dei minatori; la storia sindacale della conquista e della difesa dei diritti e della rappresentanza, segnata da tragedie come Niccioleta e , in cui le responsabilità sono legate allo sfruttamento indiscriminato del lavoro in miniera ed all’assenza di diritti; infine la storia del territorio della sua trasformazione e della sua distruzione, del nascere e sparire di frazioni e paesi, del suo recupero compatibile. Larga parte degli studiosi, sia in queste due giornate di studio, sia in ambiti di studi e ricerche, sono concordi nell’individuare alcuni tratti del processo di modernizzazione economica e sociale dell’Italia novecentesca in quel processo di sviluppo verticistico dell’economia, legato solo ad alcuni settori del mondo economico in grado, per la loro forza contrattuale, di imporre la loro visione il loro modello di sviluppo. Questa dinamica – che diviene evidente nel secondo dopoguerra e negli anni che conducono al boom economico – è già presente all’avvio del ’900 e, con essa, quei tratti di sfruttamento, di “non diritti”, di tragici incidenti sul lavoro, di altissimi costi sociali. I minatori, la loro storia, la loro comunità fanno parte di questo processo. I molti spunti che sono emersi nell’ultimo periodo riguardo ai minatori (dal convegno per i cento anni del sindacato minatori che si è svolto a nel 2002, a queste giornate di studio, così come all’anniversario della tragedia di Ribolla), hanno confermato questa impostazione ed hanno permesso una lunga serie di approfondimenti. Riflessioni ed interventi che mi hanno convinto come l’elemento centrale sia, nei diversi periodi storici (dall’Italia giolittiana, al fascismo, all’Italia della ricostruzione postbellica a quella del boom economico fino ai decenni più recenti), il peso e la dimensione storica del lavoro in miniera. Un lavoro che non si fermava all’interno delle gallerie ma continuava – se così possiamo dire – nella comunità, nella società più o meno ristretta che ruotava attorno alla miniera. Una comunità ed una società con tratti ed elementi di forte identità culturale, politica, sindacale tali da definirne i contorni in termini assolutamente particolari, forse unici se escludiamo – rispetto alla durezza del lavoro, al sacrifico, alla precarietà, all’assenza di diritti, alle lotte ed allo sfruttamento – quell’altro mondo così particolare rappresentato dai braccianti. Altro elemento che emerge con forza è quello relativo al fatto che la storia degli uomini e delle comunità delle miniere è una storia al tempo stesso politica e sindacale, ma anche di cultura e identità: i minatori ma hanno profonde differenze ma anche tratti comuni e identificativi di rilievo, un forte senso di appartenenza che si ritrova nei vari comparti minerari dell’Italia del ’900. Tante storie locali – nella loro lettura e ricostruzione positiva e non particolaristica – che compongono una complessa vicenda legata all’industrializzazione italiana nella quale i minatori e la storia delle miniere, concorrono decisamente al decollo industriale divenendo per certi aspetti i protagonisti di quell’avvio e della trasformazione del sistema economico italiano. Storie forse poco note al di là degli studiosi e dei territori dove si sono sviluppate, ma che fanno parte di un patrimonio e di una storia molto più ampia: non si è trattato di una storia particolare di tante società e comunità locali o parcellizzate, ma di uno dei tratti caratterizzanti la trasformazione industriale, politica e sindacale della società italiana. Si evidenzia così – nel lungo periodo – come si sia creata attorno alle miniere una forte saldatura tra la società, il lavoro, la vita quotidiana; allo stesso modo di come la conquista dei diritti, l’opposizione al fascismo, la Resistenza e le lotte sindacali del secondo dopoguerra hanno scandito la parabola del lavoro in miniera, definendo contorni e caratteristiche della vicenda politica e sindacale dei minatori. Il lavoro, quindi, che assume un valore sociale di riconoscimento, di identità, di comuni obbiettivi di lotta e di tutela non circoscritti soltanto al comparto minerario, bensì legati alla storia del movimento operaio e sindacale al cui interno – pur trovandoci di fronte ad un lavoro che scompare dal panorama italiano – i minatori hanno avuto un ruolo storico importante. Un valore sociale del lavoro che segna la storia italiana. Se infatti scorriamo velocemente la geografia dell’Italia delle miniere, vediamo subito come il minatore ha rappresentato molto di più del lavoro in galleria. In questa citazione di Balducci, penso si possano riassumere molti degli elementi cui ho fatto cenno: finiva un mondo, ma non doveva sparirne la memoria; una memoria di lungo periodo propria di chi ha una identità e la ritrova, riconoscendosi, in una dimensione popolare al cui interno trovano spazio ballate e canzoni ma anche – se non soprattutto – il ruolo svolto da elementi solo in apparenza secondari rispetto al lavoro in galleria: le donne. Identità e storia, memoria e cultura di un mondo scomparso, episodi piccoli e vicende più grandi, che trovano – in queste come in altre occasioni di dibattito e studio – una loro piena dimensione non solo nelle storie delle comunità, ma soprattutto nel quadro del valore che questo lavoro ha avuto e in ciò che esso ha portato (in termini di conflitto, rappresentanza e tutela) alla storia delle organizzazioni del lavoro e del movimento operaio italiano. Note 1 Rielaborazione dell’autore delle conclusioni svolte a Castell’Azzara il 6 marzo 2004, in occasione della prima giornata di studio su “Miniere e società”.

Il “Memoriale unico” e la grande lotta sindacale del 1919 Silvano Polvani Studioso del movimento operaio - Segr. della Filcea Cgil

Indubbiamente il 2003 è stato l’anno dei minatori, anno nel quale abbiamo ripercorso la storia e le vicende del movimento dei minatori, indagandone il radicamento nella società. A Massa Marittima il 18 gennaio del 2003 si è svolto, per iniziativa della Filcea Cgil e della Fondazione Di Vittorio, un convegno storico nazionale sulla nascita del sindacato minatori che proprio a Massa ebbe origine nell’aprile del 1902. È stato un convegno importante dove docenti universitari, storici e studiosi del movimento operaio ci hanno consegnato un ulteriore livello di conoscenza, dove si sono incontrate e intrecciate le realtà dei bacini minerari italiani per la prima volta a confronto, facendoci comprendere come in Maremma o in Sardegna, in Sicilia o sull’Amiata, sul Vald’Arno o in Val di Cecina la categoria dei minatori per tutto il Novecento in quei territori ne ha plasmato e definito l’economia, la storia le tradizioni. Una storia, ripetiamo, fatta di sacrifici, di fatica, di lutti, di grandi battaglie sindacali in nome dell’emancipazione del movimento operaio. Una storia segnata da sconfitte e vittorie ma anche da valori decisivi quali: la dignità, la solidarietà, l’equità sociale. C’è da attendersi che anche il 2004 sarà nel segno dei minatori. Pochi mesi fa a Castell’Azzara e a Santa Fiora si sono svolte le celebrazioni di Santa Barbara che hanno visto le premiazioni ai vecchi minatori; il 4 maggio saranno cinquant’anni dalla tragedia di Ribolla dove 43 minatori persero la vita; a giugno sarà la volta dei sessant’anni dall’eccidio di Niccioleta, anche qui si ricorderà il sacrificio di 83 minatori, a difesa della loro miniera fucilati da nazifascisti. Saranno queste ulteriori tappe per l’approfondimento e la conoscenza della storia dei minatori. La nostra stessa giornata di studio “Miniere e società: dal memoriale unico del 1919 alla strage di Niccioleta” si muove in questa direzione, il ruolo e il protagonismo della presenza delle miniere e dei minatori nella società. Il tema che mi è stato assegnato è di sicuro agevolato dal fatto che proprio a fine mese presenterò un libro “Fonditori tornitori e… minatori nella città di Follonica” nel quale l’indagine storica è incentrata sul “Memoriale unico”. Molto di quanto è stato oggetto di quella ricerca cercherò di riportarlo in questa relazione.

Nessuna legge e nessun sindacato proteggeva i minatori all’inizio del secolo; a Gavorrano come nell’Amiata si sopportavano turni di 10 ore di lavoro più il viaggio a piedi, l’assistenza sanitaria era quasi inesistente, gli infortuni e le invalidità venivano ripagate con poche lire e sempre con la perdita del lavoro; si lavorava con l’acqua al piede e in occasione di infortuni mortali si aprivano collette fra i minatori per dare una prima assistenza alle famiglie. È proprio in questa situazione che si assiste alla lenta formazione di una coscienza politica e sindacale. Nel 1902 prende avvio, per iniziativa delle leghe minatori toscane, la Federazione nazionale minatori; nell’anno successivo, al primo congresso nazionale, parteciperanno anche i minatori sardi. Ma il 1903 lo si ricorda anche perché si iniziano ad aprire le prime sezioni socialiste: 10 iscritti si contano a Santa Fiora, 14 ad Abbadia. Sempre nel 1903 a Castell’Azzara si costituisce la Lega di resistenza tra i minatori; nel 1904 il primo vero sciopero è organizzato fra i minatori di Abbadia; nel 1907 un imponente sciopero per richiedere più salario, l’abolizione del turno notturno e il riposo settimanale si protrae per 38 giorni; nel 1913 i minatori del Siele e del Morone ingaggeranno una dura lotta per due mesi contro la direzione, lotta che fu repressa dall’intervento della polizia e dalla minaccia dei licenziamenti. Sono questi gli anni nei quali i nuclei operai saldamente organizzati in provincia appaiono i minatori della pirite e del mercurio, i fonditori di Follonica e i contadini del mancianese. Con la mobilitazione bellica 1915/1918 le agitazioni si fermano, ma le organizzazioni operaie resistono.

1918. I Congressi dei minatori Sin dall’inizio del secolo Follonica è parte attiva nella storia politica e sindacale dei minatori, molto spesso, infatti, viene indicata come sede per lo svolgimento delle assemblee operaie e dei congressi dei minatori.

…Nella sede sociale dei socialisti di Follonica, domenica 21 Luglio 1918, ebbe luogo il congresso dei minatori. …Oggi a Follonica si radunano a congresso i lavoratori del sottosuolo. Il proletariato socialista e le organizzazioni economiche di questo piccolo centro operaio salutano col cuore aperto alla più grande speranza i compagni di fatica di tutti i paesi della Maremma. Follonica proletaria, ormai conquistata alle sublimi idealità di redenzione, accoglie oggi con gioia i minatori, come ieri accolse con giubilo i contadini, e quale vigile sentinella, osserva con tanta soddisfazione il movimento proletario di questa ricca e industriale Regione, infondendo ad esso l’ardore indispensabile per le battaglie odierne e per le immancabili vittorie di oggi e di domani. Ormai gli operai delle miniere, dei campi e delle officine si sono persuasi dell’efficacia dell’organizzazione e stanno lavorando alacremente per rafforzare, ove esistano, a costituire ovunque le singole leghe per riunirle in un sol fascio che dovrà dare una forza poderosa alla Camera del Lavoro. I nostri compagni stanno esplicando, in questo campo, un’instancabile attività mentre i lavoratori danno alla causa delle genti affaticate l’opera continuata di tutti i giorni per rendere consapevole e forte la compagine operaia che si accinge a pugnare per la conquista di un domani migliore. Ben vengano dunque i minatori a Follonica, insieme al saluto di questo proletariato, abbiano quello del Risveglio che ha costantemente difeso le loro ragioni e i loro diritti e vuole ora esprimere la sua incondizionata solidarietà nelle deliberazioni che stanno per prendere, nei riguardi dello sviluppo rigoglioso della Camera del Lavoro.

Numerosi lavoratori, in rappresentanza degli oltre 2500 minatori organizzati nel sindacato di categoria, erano presenti per ascoltare l’on. Giovanni Merloni e il segretario camerale Pietro Ravagli. È dal “Il Risveglio”, che ricaviamo le notizie, il settimanale socialista della provincia di che aveva in città la redazione e l’amministrazione sin dal 1909, anno della sua fondazione, e che tanta parte ha avuto nel sostegno, nella formazione e nell’avanzamento della classe operaia, in particolare quella dei minatori. Non a caso con l’avvento del fascismo e l’entrata di questi in Grosseto il 30.06.1921 la tipografia de “Il Risveglio” fu fra le prime, assieme alla Camera del lavoro, all’abitazione di Primo Lessi, segretario della Camera del Lavoro, e al circolino dei ferrovieri a subire gli esiti della distruzione fascista. Il 2 dicembre 1918, è Pietro Ravagli, in qualità di segretario dei minatori, a convocare questi a congresso sempre a Follonica:

…nell’ambito salone dei socialisti di Follonica, additato mille volte dai soliti detrattori sistematici quale sinedrio di complotti colposi, in questa vasta caserma di popolare pacifismo – baluardo indistruttibile di comuni aspirazioni – dove si organizzano i nostri coloni, le nostre donne e le nostre numerosissime sezioni; in questo giorno, auspicante prossime e trionfali battaglie civili, vada il saluto fervido ed augurale dell’intero partito socialista ai fieri e coraggiosi minatori della nostra Maremma convocati a congresso. […] I minatori sanno che essi possono in breve assicurarsi un’esistenza più umana unendosi fortemente per lottare contro i vampiri della miniera. Essi comprendono che organizzati in Sindacato costituiscono una grande forza sociale. Tutti gli eterni brontoloni che si lamentano ad ogni piè sospinto dovrebbero far parte del rispettivo sindacato di mestiere. Solo il sindacato può dare agli operai i mezzi per conquistare quei miglioramenti che essi attendono o sperano e rivoluzionare l’attuale assetto sociale.

È un sindacato in crescita questo dei minatori alla fine del 1918, un sindacato che pensa di nuovo alla costituzione di un sindacato nazionale dei minatori dopo che l’esperienza del 1902 – a Massa Marittima si erano riuniti i rappresentanti delle leghe di , Tatti, Castelnuovo Valdarno e Montecatini Val di Cecina per costituire la Federazione Nazionale delle miniere che si autosciolse nel 1906 – era naufragata da lì a pochi anni. Un sindacato che, prima dell’intervento del paese in guerra con i minatori della pirite delle e i minatori del mercurio del Monte Amiata, rappresentava, assieme ai fonditori di Follonica e ai contadini del mancianese, la struttura organizzativa e di riferimento per il mondo del lavoro. I minatori sembrano essere maturi per iniziative che abbiano nell’unità d’azione la propria forza, una comune piattaforma di lotta sembra essere possibile, la determinazione che essi sanno esprimere, il ruolo che vanno acquisendo nella società, essendo per molti sul versante politico un punto di riferimento, fa sì che il 6 di aprile del 1919 si ritrovino per definire richieste unitarie a tutte le direzioni minerarie. I tempi sono maturi per la definizione di una piattaforma unitaria, il Memoriale unico , come sarà chiamato.

Il “Memoriale unico” Il 6 aprile 1919 rispondono in molti e con entusiasmo all’invito che il segretario interprovinciale dei minatori, Pietro Ravagli, rivolge alle singole organizzazioni Federate. Intervengono al convegno indetto, nella ormai tradizionale casa dei Socialisti di Follonica, i seguenti delegati:

Nannini e Tufacchi, per la lega di Massa Marittima; Lazzi Francesco, per la lega di ; Guerrini Ezio, per la lega di ; Frati e Petrini, per la lega di Ravi; Martinelli Enrico, per le leghe di Spoleto; Giugni Francesco, per la lega di ; Rognoni Angelo, per la lega di Boccheggiano; Bozzi Ugo, per la lega mista di ; Finaù Masotti, per la lega di ; Lazzerini Domenico, per le leghe di Castellazzara e ; Pettini Buonaventura, per la lega di (miniera Acquanera); Righetti e Mura, per la lega di Gavorrano; Cardini e Contorni, per la lega di Abbadia San Salvatore; Bucci Assuero, per la lega di Tatti; Piastri Emilio, per la lega di Monte Follonico. È presente assieme al segretario federale Pietro Ravagli, l’on Giovanni Merloni. Dalla verifica che viene fatta si può constatare che i delegati partecipanti al convegno rappresentano oltre 2500 operai organizzati ed aderenti alla Federazione Interprovinciale dei Minatori.

…È acclamato, con triplice salva di applausi, a presidente del convegno l’on. Merloni il quale avverte, con indovinate ed acconcie parole, gli intervenuti a discutere con tutta calma e serietà l’unico comma inscritto all’ordine del giorno per essere equiparati, quanto prima, ai compagni delle massime organizzazioni, nelle conquiste che giustamente stanno per richiedersi nel campo politico, economico, igienico e sociale del lavoro. È applaudito. Il segretario Federale, Pietro Ravagli, spiega minutamente, a nome del Comitato Esecutivo, le ragioni del Convegno. Parla del riconoscimento da esigersi dagli industriali, per l’organizzazione dei lavoratori di miniera, delle commissioni permanenti delle maestranze operaie, per dirimere i conflitti che sorgono di sovente fra capitale e lavoro; del rispetto che i dirigenti dei vari bacini minerari devono, doverosamente, osservare per le vigenti leggi protettrici del lavoro presentando ai convenuti uno schema di Memoriale unico riflettente i desiderata da richiedere prossimamente a tutte le Associazioni che gestiscono le industrie nelle varie zone minerarie… …È adesso la volta di concordare il MEMORIALE UNICO da presentarsi agl’industriali quanto prima. Sopra tale interessantissimo quesito parlano a più riprese tutti i delegati. Viene stabilito che i desiderata di carattere locale siano aggiunti dagli interessati di ogni singola località al Memoriale che dovrà, per tutti, però contenere i desiderata che seguono:

1 - Riconoscimento dell’organizzazione operaia e della federazione interprovinciale dei minatori da parte di tutti gl’industriali esercenti bacini minerari. 2 - Istituzione per ogni miniera di commissioni interne elette a metà fra industriali ed operai per dirimere, in caso di alterchi o conflitti, le controversie emergenti. 3 - Istituzione da parte degl’industriali, di miniera, di una Cassa per sovvenire le malattie professionali da equipararsi agl’infortuni sul lavoro. Tal fondo dovrà sovvenire altresì le malattie ordinarie – con il 50 per cento di mercede – a datare dal quinto giorno, con retroattività in caso di prolungamento di malattia accertata dal medico fiduciario della miniera. 4 - Rispetto assoluto ed applicazione immediata, alle leggi vigenti, del Riposo festivo come a quelle dell’Arbitrato sul lavoro delle donne e dei fanciulli, Ispettorato e vigilanza di miniera. Probiviri ecc. 5 - Istituzione di farmacie ed infermerie adeguate ai bisogni dei lavoratori adibiti in bacini minerari di somma importanza e residenti in zone malariche lontane dai paesi dove esistono le istituzioni che sopra. 6 - Indennità di chilometraggio o trasporto gratis con i camion degl’industriali, per tutti gli operai lontano dalla residenza mineraria. La distanza e l’indennità da fissarsi spetteranno alle Commissioni elette all’uopo dagli operai. 7 - Abolizione dei cottimi e del lavoro straordinario o quanto meno fissarli, di accordo comune, fra operai e dirigenti. 8 - Orario di lavoro: 7 ore per tutti gli operai interni e 8 ore per quelli d’ambo i sessi e di qualsiasi categoria, adibiti ai lavori esterni di miniera. 9 - Minimo di mercede da fissare per ogni categoria dalle commissioni singole elette da ciascuna organizzazione delle varie miniere. 10 - Concessione da parte degli industriali di un locale adatto ed indispensabile agli operai per le loro necessarie riunioni. 11 - Per tutti gli stabilimenti che hanno lavoro a fuoco continuo la relativa mercede e l’orario di lavoro saranno fissati dalle commissioni locali. …Raggiunta in tal modo la soddisfazione completa di tutti gl’intervenuti, con la comune e prossima speranza di raggiungere trionfalmente le giustissime richieste dei presenti, il convegno fu, fra il più grande entusiasmo, dichiarato sciolto dall’ottimo ed indimenticabile Martinelli.

È sempre da “Il Risveglio” che ricaviamo la notizia che il Comitato esecutivo della Federazione Interprovinciale dei minatori, in un’adunata che si tenne il 4 maggio 1919 nella sede federale di Roccatederighi, deliberò di aggiungere ai suddetti undici punti i tre di seguito che riportiamo proposti dal dott. Ettore Zanellini:

12 - Il principio che nella valutazione di un danno subito da un operaio per infortunio sul lavoro intervenga un tecnico fiduciario dell’operaio stesso. 13 - Il principio che un operaio infortunato non possa essere licenziato se a tutela dei suoi interessi creda di ricorrere alle vie giudiziarie. 14 - Il principio che un operaio infortunatosi possa essere licenziato solo quando in seguito all’infortunio permangano lesioni tali che diminuiscano in un grado molto alto la sua capacità lavorativa.

1919: l’anno grande Queste aggiunte furono necessarie in quanto ci si accorse che i punti concordati il 16 aprile 1919 a Follonica non contemplavano gli infortuni sul lavoro. Saranno gli stessi Ravagli e Zanellini a darne spiegazione attraverso le pagine del Risveglio . •La stesura e l’approvazione del “Memoriale unico” rappresenta un momento assai importante nella storia della classe operaia delle miniere. Scrive Maurizio Ruffini nel suo saggio – Camere del lavoro, leghe, federazioni: l’organizzazione operaia e contadina in Maremma dal 1890 al 1921 – presente nel volume Le nostre orme .

…Importante perché per la prima volta, pur lasciando un ampio margine alle rivendicazioni locali, si intende superare la frammentazione che aveva caratterizzato l’azione di questi operai nel periodo precedente. Per prima cosa si chiede il pieno riconoscimento dell’organizzazione sindacale sia interna che esterna alla fabbrica e la costituzione della Commissione interna come organismo di mediazione per le controversie con i dirigenti. Quindi si individuano richieste relative a quei problemi che sin dall’inizio dell’attività mineraria si erano presentati come fondamentali: cottimi, minimi salariali, orario, riposo festivo, trasporti. Infine, su suggerimento del medico socialista Ettore Zanellini, vengono presi in considerazione i problemi della salute attraverso le richieste di sovvenzione per le malattie professionali e di provvedimenti in difesa dell’operaio infortunato. Tuttavia, a questa intelligente articolazione tematica, non corrispondeva una lista di obiettivi realmente raggiungibili, basti pensare alla richiesta di sette ore di lavoro per i minatori interni e a quella, ancor più estrema, dell’abolizione del cottimo su cui si fondava da sempre l’intera organizzazione del lavoro. Così questa piattaforma servì da bandiera comune per combattere poi, una volta in più, per obiettivi diversi. La lotta fu lunga e aspra: le società del massetano, la Montecatini e la Marchi, giunsero all’accordo assai favorevole agli operai nell’agosto 1919, dopo tre mesi di mobilitazione e di scioperi, mentre nel bacino amiatino si tornò al lavoro solo nel novembre, dopo centotrentacinque giorni di sciopero. La “vittoria” proclamata dai socialisti forse non era del tutto limpida, come mugugnavano i repubblicani dalle pagine di Etruria Nuova , ma lo sviluppo di un movimento di tale portata a livello provinciale, capace di resistere per mesi e di non lasciarsi fiaccare né dalle minacce né dalle lusinghe, era un segnale per tutti i lavoratori di un mutamento dei rapporti di forza tra le classi che andava ben al di là della singola battaglia sindacale.

L’unità dei minatori in tutta la provincia è ricostruita, anzi allarga il suo fronte con la presenza dei minatori del bacino mercurifero dell’Amiata.

…i repubblicani che lamentarono gli scarsi risultati di una mobilitazione operaia così ampia e prolungata nel tempo, dimenticavano – scrivono M. Ruffini e S. Vitali – che per la prima volta nella storia i minatori erano riusciti a far pesare nei rapporti di forza interni alla miniera la loro importanza sociale, ad usare il loro retroterra politico per resistere contro le Società ed imporre alcuni obiettivi. Per questa ragione il 1919 può essere definito “l’anno grande” del movimento operaio delle miniere della Maremma, l’occasione in cui capacità politica e forza sindacale s’intrecciarono per produrre un momento di effettivo progresso economico e sociale. Inoltre, la mobilitazione e la lotta dei minatori, anche al di là degli obiettivi concreti che raggiungeva, s’inseriva in un quadro politico e sociale, quale quello del biennio 1919-1920, caratterizzato da grandi aspettative di cambiamento e da forti speranze di tipo rivoluzionario, affiancando così l’azione socialista di propaganda e attivazione degli strati sociali più esposti alla crisi post-bellica: i giovani, le donne, i contadini, i reduci. Quel tessuto socialista che si era andato costituendo sin dagli inizi del secolo, a protezione di un mondo subalterno che viveva in modo spesso fideistico l’ideale socialista e che considerava l’azione politica in termini di spazi sociali conquistati, cresciuto e trasformato dall’esperienza bellica, assumeva ora i tratti di un contropotere fondato sulla solidarietà e sull’organizzazione, ma capace di esprimersi anche sul piano dell’amministrazione locale. Le elezioni politiche del 1919 e le amministrative del 1920 danno un quadro assai chiaro dell’egemonia socialista nella provincia di Grosseto. Alle politiche i socialisti ottennero la maggioranza in tutte le sezioni elettorali ad eccezione di quella di Isola del Giglio, portando con oltre quindicimila voti un decisivo contributo alla vittoria socialista nell’intera circoscrizione Arezzo-Siena-Grosseto e l’elezione di cinque deputati su dieci […]. Alla fine del 1920, quella che i fascisti chiamarono più tardi la “dittatura bolscevica” sembrava completamente realizzata e tuttavia, proprio in quell’anno, la stretta organizzativa dell’Associazione Agraria e la fondazione a Siena del Consorzio Industriale delle miniere, una federazione di industriali “che potesse trattare e star di fronte alle Federazioni minatori” indicavano già una decisa volontà di rivincita da parte delle Società minerarie e dei latifondisti che vedevano scosso il loro sistema di potere.

Con il “Memoriale unico” si cercò di contrastare le gravi condizioni di lavoro e di salute che la miniera richiedeva. Nessuna legge, come già ho ricordato in premessa a questa relazione, proteggeva il lavoro in miniera all’inizio del secolo. A Ribolla come nell’Amiata si sopportavano turni di lavoro di 10 ore, alle quali bisognava aggiungere le ore di viaggio, a piedi, per recarsi alla miniera, a volte distante anche quattordici chilometri. L’assistenza sanitaria era quasi inesistente, gli infortuni, quando riconosciuti, venivano pagati con poche lire, ma soprattutto significavano la perdita del lavoro. Si lavorava con l’acqua al piede, le esalazioni velenose dei gas erano quotidiane, si dovevano sopportare minacce e ricatti. Era una vita tremenda, Pietro Ravagli e Ranieri Santoni la descrivono sulle pagine de “Il Risveglio” del 16 dicembre 1912. Assieme fanno visita ad una miniera, non indicano di quale si tratti. Di quel viaggio, riporto alcuni stralci.

…La discesa fu assai malagevole; un terreno limaccioso, cosparso di pietre taglienti e sassi e rocce sconnesse: degli scalini in parte fatti con tavoloni trasversali di quercia, in parte con pietre, alte e disuguali, conducevano rapidamente verso il fondo. Mano mano che si scendeva sempre più profondo, un ruscello di mota nerastra accompagnava la scala; le pareti luccicanti di stalattiti mandavano guizzi e bagliori, ogni tanto dei goccioloni d’acqua, quasi bollita, cadevano sulle vesti e sul collo. Incespicando, di sovente la gabbia, ci rendeva paurosi, e guardinghi, mentre più si scendeva. Ad ogni 25 metri una rozza porta, chiudendo la galleria, tentava di ostacolare la forte corrente di aria gelata che sprigionava la ventola dall’alto. Un rombo strano, assordante, invadeva le gallerie, e lontano si udiva qualche grido lungo o gutturale, come un avviso, dei tonfi sordi e profondi, qualche luce fioca, un fischio, un richiamo, … e si scendeva, si scendeva sempre, mentre l’aria diveniva grave, pesante e calda. Un denso vapore saliva dal basso, occupava le gallerie, prendeva le vesti, i capelli, la persona tutta, e il calore crescendo ci dava l’oppressione angosciosa dell’incubo … ed eravamo a soli cento metri di profondità e a 38 gradi di calore. Veniva dalle acque torbide e melmose un fragore continuo, un odore nauseante di muffa, l’aria grassa, umida, carica di esalazioni, rendeva sempre più difficile il respiro, cresceva il fango caldo, il rigagnolo diventava un pericolo e il rombo continuava come una minaccia, e le lampade non riuscivano a vincere la nebbia sempre più densa, e le rotaie c’inseguivano, ci sorprendevano lungo una discesa, fuggenti sotto un antro, sbucanti da tunnel, esse erano un pericolo permanente… E fra la stanchezza ed il sudore opprimente, veniva il desiderio di adagiarsi sul fango, d’appoggiarsi alle pareti, di chiudere gli occhi; tanta era la gravità dell’ambiente mefitico che ci tormentava. Era tanta l’oppressione, la stanchezza e il caldo, che fummo costretti a dare il segnale d’allarme temendo una illusione ottica. Nella brevissima sosta avvenuta osservammo i morbidi e candidi panneggiamenti dei funghi minerari, crescenti nelle volte e nelle pareti della tenebrosa voragine del pozzo d’estrazione che, con striature dorate e flessibili, sporgevano come piumini di cipria, o rose di Gerico… tramandando attorno a noi quell’odore acre e delizioso conforme alla loro natura, alla loro ragione di esistenza. Scendevamo ancora quando il nostro orecchio avvertiva il monotono e sordo rumore dei picconi che battevano sul macigno poco discosto da noi. Due uomini seminudi riposavano addossati ad una trave di sostegno mentre altri 3 minatori avevano già cominciato una “Camera di abbattimento” di quattro metri per lato. Qui la temperatura era più calda, il minerale era scottante e delle piccole correnti di grisou ardevano indisturbate. La discesa era terminata a 150 metri di profondità. Madidi di sudore uscimmo dalla gabbia e c’incamminammo col dorso piegato fra scoscese muraglie di lignite e di terreno arenareo dalle quali stillava un’acqua calda e copiosa. La soneria elettrica squillava alternativamente rompendo l’assordante rumore delle acque e dei vagoni correnti sulle rotaie. Ogni tanto tre o quattro uomini muniti di lanterne, carponi, o protesi, e arrampicanti sulle “Camere di abbattimento”, ansavano lavorando. Dissi uomini?… Errai. I torsi ignudi, ignude le gambe e le braccia, un sudore correva copioso sulle loro carni arrossate dallo sforzo, macchiate di lividure e di fango, sformate dalla fatica. I capelli appiccicati sulla fronte e sulla nuca non avevano più colore, e gli occhi smorti, affondati nell’orbita, lasciavano cadere delle lacrime fatte di acqua, polvere, sudore e pianto, e quelle lacrime moleste cadevano sui baffi, sulla barba, sulle mani incallite e deformate dalla fatica, e nessuno le tergeva, sembrava quasi che dessero loro sollievo. Guardavamo come istupiditi a quelle fisionomie, e quei profili che rudemente emergevano dalla nebbia più densa. Erano come sordi, smarriti ebbri!… le bocche cadenti, le guance rilasciate, tutti i muscoli abbandonati sullo scheletro sorretto dai piedi traballanti; alcuni stavano piegati in arco, altri appoggiati pesantemente alle pareti scottanti, altri immobili con gli occhi chiusi, e il loro corpo fumava… fumava come in ebollizione, fumava come fumano certi cavalli dopo una gran corsa. – Buon giorno!… Buon giorno!… Nessuna risposta al nostro saluto. Gli occhi senza espressioni fissarono la nostra visita insolita, come se alcuno fosse presente al loro travaglio.

Lavoravano supini e ritraevano le mani e le braccia insanguinate dalle acute punte della lignite che strappava loro la pelle e la carne, senza che dessero un lamento, come in una tacita e formidabile lotta che li rendeva crudeli e violenti, suggestionandoli fino all’esasperazione. Battei sulle spalle e, cortesemente, domandai ad uno di essi che, per un istante, prendeva fiato dal pesantissimo lavoro. «Quante disgrazie mortali avvengono normalmente, durante l’anno, in questi lavori? anti costretti a visitare le gallerie montanti sono soppressi dallo scoppio del grisou e restano ustionati e deformi? » «Talvolta – ci rispose – una ventata spegne le lampade, e noi sperduti nel buio, nel dedalo delle gallerie, c’inoltriamo fino all’estremo limite della miniera urlando, chiamando fra il fragore delle acque e dei vagoni trainanti… e perdiamo con la via, la speranza di ogni salvezza, finché avvelenati dalle esalazioni cadiamo attraverso alle rotaie, o precipitiamo annegando nei pozzi di rifiuto delle acque. Tal’altra – continuò ancora l’intervistato – le “Camere di abbattimento” crollano d’improvviso, la lignite essiccata cede alla prima impressione e si resta schiacciati sul colpo». Quando queste sventure si avverano il rombo si arresta; a fatica ingegneri, impiegati, capi cottimo ed operai, possono attraversare la calca delle donne e dei bambini che urlano ed imprecano all’imbocco della miniera. Essi tentano ogni sforzo per ostacolare l’opera di salvataggio, nell’antica superstizione che la miniera non vuole restituire i suoi morti se non sono più di tre. … Otto ore di lavoro al giorno, otto ore in questa fornace buia, malsana, deprimente, fra il rombo dei macchinari, il fragore delle acque, le esalazioni del grisou , otto ore di sudore, di sforzo, di pericolo per strappare la terra di stratificazioni di lignite che rappresentano la ricchezza altrui, otto ore di inebetimento, di avvelenamento del sangue, a 150 metri di profondità per lire 3,50, in media, al giorno!… È la civiltà, è l’industria, è il progresso, è il Ministero di S. E. Nitti che esige tutto ciò?… E sia!

La miniera Marchi Il lavoro in miniera rimarrà sempre un duro lavoro: l’ambiente inospitale, i pericoli e gli infortuni, lo sfruttamento, le paghe basse lo caratterizzeranno nel corso di tutto il secolo. Solo a Campiano, ma siamo già negli anni ’80, vi saranno dei miglioramenti ambientali significativi. Di quanto fosse duro lavorare in miniera abbiamo la testimonianza più recente dei minatori della miniera Marchi i quali diedero alla stampa un memoriale dal titolo “Quello che accade alla miniera Marchi”, un memoriale indirizzato all’opinione pubblica, agli istituti competenti e alle autorità, perché sapessero e intervenissero. È del dicembre 1958, ma quando gli stessi minatori occuparono la miniera per due mesi nell’autunno del 1963 per contrastare il licenziamento di 160 lavoratori sui 250 occupati, la situazione non era affatto migliorata. Quanto avveniva alla Marchi era comune a tutte le miniere della Montecatini. Il padronato in quegli anni sembrava non conoscere limiti. Contratti, leggi e regolamenti erano violati in omaggio alla legge del massimo profitto. Il 1963 è l’anno dell’occupazione della miniera Marchi di Ravi, un gesto davvero clamoroso con la permanenza, per mesi, dei minatori in fondo al pozzo del Vignaccio; un fatto che commosse ed esaltò il mondo del lavoro suscitando grandi manifestazioni di solidarietà in tutto il paese. Pur collocandosi in un momento politico e sindacale a suo modo favorevole (di fatto la vertenza di Ravi, come sostenne il regista Beppe Ferrara nel documentario dedicato a quella vicenda sindacale ed umana, anticipò i fermenti unitari del ’68) l’occupazione della Marchi non sortì l’effetto voluto:la definizione della vertenza, praticamente finita in un nulla di fatto, coincise con i giorni della presentazione in Parlamento del primo Governo di centro-sinistra e, eccezion fatta per il PCI e per la componente comunista della CGIL, c’era una diffusa volontà politica e sindacale per insabbiare la vicenda in quanto, se fosse stata ardente durante il dibattito per la formazione del nuovo Governo per l’eco avuta dall’occupazione delle gallerie, avrebbe rappresentato una contraddizione con lo slogan “I lavoratori al Governo” con il quale il Partito socialista si apprestava all’operazione, mentre quelli di Ravi erano a protestare in fondo ai pozzi. Una vicenda, quella dell’occupazione della miniera di Ravi, che richiamò la partecipazione degli studenti. A Grosseto come a Follonica gli studenti scesero in piazza a sostegno dei minatori, una vicenda che per molti aspetti – come sottolineava Rolando Sartori – ricordava la chiusura delle miniere negli anni ’90 che avviene, come allora, in un momento politico particolare (e tutto questo la controparte lo sapeva e lo sfruttava). La vertenza Ravi, di certo, meriterebbe maggiore attenzione e approfondimenti, andrebbe scomposta nei suoi aspetti, in particolare quelli politici. Noi al momento cerchiamo di conoscerne la miniera.

…Se i dirigenti del Distretto Minerario e quelli dell’Istituto Infortuni dovessero un giorno transitare quel tratto dell’Aurelia che va dal Capoluogo di Provincia alla ridente cittadina di Follonica, si ricordino che, circa a metà strada, volgendo lo sguardo a sinistra in direzione del monte ‘Calvo’, si vedono degli immensi capannoni ricoperti di grigia lamiera che nelle giornate piovose d’inverno si confonde e si perde con il colore del cielo carico di pioggia. Imboccando allora il Bivio di Ravi, dopo circa due chilometri, si arriva finalmente ad uno dei più tristi e caotici posti di lavoro: la miniera ‘Marchi’ di Ravi. Forse per i più è questo un semplice nome, ma per quei trecento operai che vi lavorano questo nome vuol dire miseria, paura, pericoli a non finire, repressione e discriminazione, vuol dire dimenticarsi, per lunghe otto ore, di essere degli uomini, degli esseri umani. Può darsi che a chi non è mai disceso nel fondo di una miniera, ed in particolar modo qui, alla ‘Marchi’, queste brutte e tristi parole sembrino un tantino esagerate, oppure scritte solo per polemica. Non è così. Esse sono dettate solo dal desiderio di fare luce all’opinione pubblica sulla nostra condizione, e di far luce ai dirigenti del Distretto Minerario e dell’Istituto Infortuni, perché abbiano la cortesia di scendere giù con noi all’interno della miniera e perché non si limitino, come hanno sempre fatto, ad una passeggiata coi dirigenti della ‘Marchi’ per le migliori gallerie. Con noi, dunque, vedrete quello che non avete ancora visto. Quello che sta dinanzi a noi, che si innalza diritto e maestoso verso il cielo, è il pozzo di estrazione, che serve anche per calare il personale, il materiale e tutto quel che occorre. A vedere quel grigio traliccio, alto quasi venti metri, con le funi metalliche penzoloni alle quali sono attaccati, come panieri, le gabbie, sentiamo come un brivido scorrere lungo la schiena. «E se quelle funi si strappano?» Già, se si strappano – rispondiamo – se ciò dovesse avvenire, sarebbe allora la fine, la morte orribile di dieci minatori, i quali affidano ogni giorno la loro vita alla sorte, a quel pezzo di corda d’acciaio. Voi ci chiederete: «Ma esiste un apparecchio di sicurezza?» – Esiste, però esso non viene mai riguardato, controllato e provato. Le funi metalliche, per la pessima manutenzione, sono addirittura lucide. Non parliamo poi del guidaggio che, come vedrete, si regge a mala pena per mezzo di piccoli bulloni distanti fra loro circa tre metri. Così, alla partenza e all’arrivo, il guidaggio, sul quale dovrebbe agire l’apparecchio di sicurezza, è del tutto mancante. «Ma che razza di pozzo è questo?», potrete dire. Ce lo siamo chiesti tante volte anche noi. Ci siamo chiesti anche qual’è l’organo competente che ha autorizzato la Direzione a far passare attraverso esso e ad affidargli la vita di tanti minatori. Potete dirci qualcosa voi, signori del Distretto Minerario? Entriamo ora nelle “gabbie”. Vengono chiusi i cancelli, suonano due colpi di campanello, poi la gabbia discende: ci sentiamo mancare il fiato! «Ma perché scende così forte?» Ci siamo più volte chiesti anche questo, ma la Direzione ha fretta, molta fretta, gli preme la pirite più della vita del minatore. Il guidaggio, storto e malfermo, fa sobbalzare la “gabbia”, come se un carro percorresse a forte andatura un’acciottolata strada di campagna, facendoci sbattere l’uno contro l’altro. Vediamo rapidamente passare i vecchi portelloni, così vicini che qualche volta si avverte un sussulto avendo la gabbia sfiorato qualcuno di essi. «Non potevano metterli quattro dita più distanti? », dirà qualcuno, e così è, ma anche i misteri della tecnica sono infiniti. Ci sentiamo ancora mancare il respiro; una frenata brusca e poi la “gabbia” si ferma. Siamo arrivati al livello “meno 10”. Passiamo attraverso alcune porte, incamminandoci per una lunga galleria. Le lampade a carburo si distinguono appena, tanto sono fitte, qui, la nebbia (non quella di Milano) e il fumo prodotti dalle mine. Questa è una galleria di riflusso, dove cioè circolano le polveri, i fumi e l’aria viziata, mentre da un’altra parte dovrebbe, ripetiamo dovrebbe, entrare l’aria pulita. Il problema dell’aria è uno dei più seri, qui alla ‘Marchi’. Come vedete, in mezzo a quel denso nebbione si intravedono, come in un girone dell’Inferno dantesco, alcuni operai con il dorso grondante di sudore, non tanto per l’eccessivo sforzo quanto per la mancanza d’aria. Quegli uomini lavorano da anni in queste condizioni ambientali, come è da anni che la Direzione promette loro non tanto più salario ma almeno più aria da respirare, con ventilatori e con un’altra galleria per il riflusso. Siamo finalmente arrivati alla “zona sud”, che noi chiamiamo più semplicemente “zona nuova”, da dove partono le famose discenderie “Pozzuoli ed Orsinghi”. Quanti sacrifici e pericoli esse sono costate agli operai ve lo saprebbero dire solo coloro che vi hanno lavorato. Ed ora che esse sono ormai finite, i pericoli e i sacrifici sono cento volte aumentati. Si, proprio così; alla ‘Marchi’ tutto aumenta: il lavoro, il sacrificio, la paura, il pericolo, le multe, la repressione che si fa sempre più violenta, ma non il salario! Se provate a domandare a quei lavoratori che hanno fatto tali scenderie, essi vi diranno senz’altro che la loro paga non è pari neppure a quella di un semplice spazzino di uno dei più scalcinati comuni d’Italia. Scendiamo adesso giù a picco per una delle scenderie: le scale sono di legno, umide e malsicure, i passamani sudano e grondano ancorpiù degli uomini e i piedi fanno così male come se fossero posati sopra una lama tagliente. Eppoi, diciamo la verità non è bello vedere quei carrelli carichi di pirite scorrere su e giù come fossero impazziti, mentre passa il personale! Per esempio, pochi giorni orsono ad uno dei carrelli scapparono addirittura le ruote. A qualsiasi macchina può scappare una ruota, ma che questo avvenga per la ragione che l’asse sul quale giravano si era logorato fino in fondo senza che la Direzione avesse provveduto a cambiarlo, a noi pare un po’ troppo grave. Noi, ormai, non ci facciamo quasi più caso. Il senso della misura, qui alla ‘Marchi’, diviene sempre più relativo; tutto diviene ogni giorno più peso, più grande, più difficile. (E se quelle ruote si staccassero ora? No non si staccheranno ora, resisteranno ancora un po’!) Ma la questione non è quella delle ruote. Noi crediamo cioè che dovrebbe essere severamente proibito il transito del personale mentre scorrono i carrelli carichi di pirite. Si scendono ancora decine e decine di scale, si passano i livelli 35, 60, 85… Come sono faticose queste scale! Eppure, alcuni operai devono farle: per più di una volta al giorno. Ci troviamo ora al livello “meno 110”. È questo il livello più basso della miniera. Si respira un po’ meglio, l’aria non è più grossa e pesante come ai piani che abbiamo fino ad ora visitato. Camminiamo per alcune centinaia di metri lungo una galleria dove si svolge tutto il carreggio della “zona sud”. Lo si capisce dallo sferragliare che si avvicina sempre più. Poi appare un faro e si vede la sagoma di un locomotore che traina una decina di vagoni: forse sarebbe detto meglio trascina, poiché in ogni galleria che si rispetti, qui alla ‘Marchi’, la ferrovia è completamente ricoperta di fango, il quale non viene mai tolto per mancanza di personale. Questa, come vedete, è una gran buffa miniera: si cammina per ore ed ore e si riesce a vedere sì e no circa una ventina di operai. Non si riesce a capire, a prima vista, come possa uscire tanto minerale con così poca manodopera. Questo però può rimanere difficile per chi scende fin qui per la prima volta, ma per i minatori che lavorano alla ‘Marchi’da anni è una cosa molto semplice. Per esempio, pochi anni orsono ogni operaio aveva una qualifica ed una mansione, mentre oggi il lavoro è centuplicato, le qualifiche non vengono più rispettate ed ogni operaio deve correre da un posto all’altro della miniera facendo i più disparati lavori: dall’armatore al vagonaio, dal boccaiolo al macchinista, come pure da portatore di legname a ferratore, da ripienaio a tubista. Così esce tanto minerale con poca manodopera e non – come vuole far credere l’ing. Majorana – per l’avanzata meccanizzazione Ma se anche lo sfruttamento così bestiale può avere una qualsiasi giustificazione, anche quella più bietta di trarre sempre maggior profitto a danno dei lavoratori, non trova nessuna giustificazione il clima di paura e di terrore, e si giustificano malamente le intimidazioni, la discriminazione e la repressione che oggi, qui alla ‘Marchi’, sono state elevate a sistema. Le multe che vengono inflitte a centinaia per i più futili e sciocchi motivi, le minacce continue di licenziamento, le retrocessioni di qualifica, le lettere di scarso rendimento tipo ‘Bedau’, le decurtazioni sulla paga e persino la multa agli operai che scioperano, senza contare il paternalismo che la Direzione fa per mezzo dei suoi ‘lacchè’: è quanto di più vergognoso si possa verificare in una Nazione che crede di essere civile. Si licenziano gli operai per poi riassumerli con contratto a termine, si fanno firmare le retrocessioni di qualifica, si vieta alle maestranze di riunirsi nel cantiere per discutere i loro problemi, come prevede il contratto di lavoro, si vieta, in pratica, alla Commissione Interna di svolgere i suoi compiti. Si vedono minatori con venti e anche trenta anni di servizio passare alla qualifica di manovali comuni, venendo così a perdere tutti quei diritti morali e materiali che, durante quei lunghi anni di duro lavoro, si erano giustamente guadagnati, mentre ancor peggior sorte è riservata a coloro che sono vittime di un grave infortunio, a coloro cioè che non sono più in grado di rendere il cento per cento come vuole la Direzione. Sono questi gli operai che, essendo rimasti menomati nel fisico per arricchire la ‘Marchi’, vengono licenziati come degli esseri inutili e per ciò considerati come di solo peso per l’economia dell’azienda. Siamo giunti quasi senza accorgersene alla “zona nord”, che noi chiamiamo “zona vecchia”. Esistono qui gallerie e interi cantieri di lavoro che rifiutiamo di descrivere minuziosamente, tanto è arduo il compito. Vi daremo solo qualche cenno. Dire che questa zona appare come terra di nessuno forse non rende chiara l’idea, ma ci sembra che questa possa essere la definizione giusta. Ovunque volgiamo lo sguardo non si vedono che armature pericolanti, ferrovie completamente sommerse dall’acqua, essendo mancanti le fossette, mucchi di legamaccio, tubi e rotaie sparsi un po’ dovunque senza il minimo ordine. Però, quello che più annienta il nostro spirito è il vedere il posto dove i minatori consumano, o per meglio dire strappano coi denti un pezzo di pane. Carte, polvere di carburo, scarpe vecchie e stracci che emanano un tanfo così acuto da invitare al vomito, rendono ancorpiù problematico il magro pasto. Nei lavori di ripulitura un tempo venivano impiegati gli operai menomati dalla silicosi, oppure coloro che erano invalidi del lavoro: pulivano i posti dove gli operai mangiavano, facevano le fossette di scolo, accatastavano in appositi posti il legname, ripulivano i binari di transito rendendo meno faticoso il lavoro del vagonaio e facevano tanti altri umili ma utili lavori. Noi li chiamavamo scherzosamente quelli della “commenda”, ma ripensando a quei poveri vecchi dai polmoni rosi dalla silicosi non possiamo far altro che provare il più profondo sdegno verso coloro che licenziandoli non solo gli hanno tolto il pane, ma anche l’orgoglio di essere ancora degli esseri utili, facendoli diventare, tutto ad un tratto, dei poveri vecchi che aspettano solo la morte, che non tarderà molto. Finalmente si vedono le famose pale meccaniche: saranno sì e no quattro o cinque e ci sembra che se la meccanizzazione – in barba alla quale sono stati licenziati gli ultimi, per ora, 39 operai – si riduce a questi ferri vecchi, allora è ben poca cosa. Le vediamo lavorare, queste macchine, e osservando la gigantesca bocca d’acciaio agguantare il minerale e sollevarlo per scaricarlo dentro il vagone, abbiamo quasi un brivido, tanto quella manovra ci appare pericolosa. Sono in funzione in questa zona pure delle macchine per fare le ripiene, ma anche tali macchine recano vantaggio solo alla Direzione: gli operai, in fondo, hanno dovuto aumentare il loro sforzo ed hanno visto accrescere i pericoli che già li circondavano. Pensate che per sollevare i pesanti tubi che servono al passaggio del breccino, occorrerebbero tre ed anche quattro operai, mentre la Direzione pretende che tale pesante lavoro sia fatto da due soli operai. Ecco dunque come la ‘Marchi’ risparmia personale. Visitando cantiere per cantiere, alla 25a, 10a, 16a e 2a compagnia, vediamo intere gallerie ridotte a semplici “buchi”, con le armature rotte e pericolanti che avrebbero bisogno di alcune decine di operai per essere sistemate, mentre sono adibiti a tale lavoro sì e no quattro o cinque operai per gita. Senza poi contare il lavoro che richiederebbero i passaggi per il personale, ora pieni di polvere, con le scale mancanti di scalini e con l’armatura che sembra voler cedere da un momento all’altro. Per di più i palchetti sono ingombri di materiale, tanto da rendere alle volte difficile il passaggio di una persona. Domandate a questi lavoratori se viene rispettato il contratto di lavoro laddove dice che più il cantiere è piccolo e difficoltoso e più basso deve essere il minimo dei vagoni richiesto dalla Direzione. Le cose sembrano andare per altro verso: si conosce una sola legge, quella del massimo sfruttamento possibile, quella della ‘Marchi’. iscendiamo ora ad uno ad uno per i fornelli, fino alla “galleria del 110”, che conduce al pozzo per il quale siamo entrati e, strada facendo, ci troviamo proprio di faccia al pozzo N. 5. A noi, in primo tempo, era parso si trattasse di una cascata, tanto era fitta l’acqua che veniva giù e chi sa da quale altezza. Tanto è vero che sbattendo in fondo si provocava un rumore così forte da creare una nube di pulviscolo umido, da dare l’impressione di essere proprio in presenza di una cascata e non in un pozzo. Fu qui che perirono, per la rottura della fune metallica a cui è appesa la “gabbia”, cinque minatori i quali, nel difficile periodo bellico erano scesi fin laggiù per strappare all’acqua, che per mancanza di corrente elettrica cresceva di ora in ora, i motori e le pompe che la Direzione intendeva salvare ad ogni costo. Visitare, o meglio dire salire per questo pozzo è cosa pressoché impossibile, non tanto per l’acqua quanto per il pessimo stato di manutenzione di esso. Basti dire che, nello spazio di poco tempo, la fune metallica si è rotta ben due volte. La Direzione ha proibito il passaggio nel pozzo, levandosi così ogni responsabilità, ma gli operai addetti allo scarico del legname devono, per necessità di lavoro, posare i piedi sulla “gabbia” tanto che se per fatalità, o meglio per trascuratezza e per mancanza di personale, dovesse ancora rompersi la corda, un operaio farebbe una delle più orribili morti e forse la ‘Marchi’ se la caverebbe. Siamo ormai alla fine del nostro giro e udendo un rumore assordante volgiamo lo sguardo rendendoci subito conto di cosa si tratta. Sono tre enormi pompe che succhiano l’acqua da un vasto deposito per poi gettarla fuori dalla miniera. Spesso si guastano e, non essendoci alcun operaio realmente adibito alla loro custodia, se non saltuariamente, anche un piccolo guasto che potrebbe essere riparato in cinque minuti, magari facendo con un pezzo di corda un premistoppa, diventa un grave inconveniente, col rischio di far fondere la pompa, come è accaduto qualche tempo fa. Proprio così avvengono i risparmi alla ‘Marchi’. Si toglie il lavoro e con esso il pane ad un operaio, mentre dall’altra parte si spendono milioni per macchinari che vanno distrutti per mancanza di manutenzione e che poi finiscono accantonati in qualche tratto di galleria, come è nel caso delle macchine del “Fronte”, che servono oggi agli operai per scarburarvi la propria acetilene. Anche il pozzo che ora ci sta dinanzi ha registrato il suo “fattaccio”, che per fortuna non ebbe conseguenze mortali. Fu un lunedì mattina. Dieci operai scesero come al solito in miniera. Quando la gabbia sulla quale si trovavano arrivò in fondo ebbero la sgradita sorpresa di trovare la galleria completamente allagata, a causa di un guasto alle pompe, perché come al solito la domenica non vi era nessuno che badasse al loro funzionamento. Lasciamo immaginare a voi ciò che passò per la testa di quei minatori, rinchiusi dentro quella “gabbia”, senza la minima speranza di poterne uscire e nel sentirla discendere sempre più sotto l’acqua, che gli arrivò in breve alla cintola, poi alla gola e, su su, fino a sommergerli completamente. Gridavano o tentavano di gridare e si urtavano l’uno con l’altro, ma chi poteva udirli? Solo loro, forse, potrebbero dire quello che provarono in quegli istanti. Qualcuno avrà invocato la mamma, qualche altro quel Dio nel quale ancora credeva. Ma a salvarli da quell’orribile morte fu ancora una volta il caso, la fortuna, alla quale come di solito, qui alla ‘Marchi’, è affidata la vita dei minatori. Per la perizia e l’intuito dell’arganista, è difficile dirlo, la “gabbia” cominciò a risalire e non appena quegli operai, ormai ridotti come stracci, rividero l’aria, caddero letteralmente per terra, ma salvi. Ecco, ancora, cosa porta risparmiare un operaio! Siamo di nuovo in “gabbia”, questa volta però per tornare alla luce, che ci investe così spingendoci per un istante a chiudere gli occhi. “Non abbiamo mai desiderato la luce come in questo momento”, ci ripetiamo ogni volta che torniamo alla superficie. Per descrivere quello che avviene ai cinquanta operai addetti ai lavori esterni ci vorrebbe senz’altro un intero volume. Vi diremo solo che qui, all’esterno, regna la confusione, l’ingiustizia, la paura e la provocazione, e in modo tale che si può dire che i lavoratori corrono il pericolo di finire al manicomio. Guardiamo quegli operai correre da un posto all’altro, cambiando rapidamente di mansione, sempre inseguiti e minacciati dai sorveglianti, che hanno perso anche il senso della misura e dell’educazione, e, non potendoci fermare per incoraggiarli, per rassicurarli che cercheremo di fare qualcosa per loro, cerchiamo di farlo con lo sguardo, facendogli capire tutta la nostra comprensione e il nostro affetto. Diciamo alle Autorità competenti, all’opinione pubblica, ai diretti responsabili che la scienza e la tecnica, il progresso in generale devono essere messi “anche” al servizio degli operai, i quali si rendono conto benissimo di tutte le difficoltà che incontrano i minatori, non chiedono cioè di fare della miniera un paradiso terrestre, ma solamente un posto di lavoro nel quale regni pienamente la libertà, sia ben organizzata la sicurezza e sia assicurato il pane e insieme ad esso la tranquillità, sia data la fiducia di poter uscire ogni giorno dalle viscere della terra, per rivedere su in alto brillare ancora le stelle o il sole. Chiudendo questa nota, esprimiamo dal profondo del nostro cuore l’augurio sincero che questo 1958, che è appena iniziato, sia per noi, oscuri e modesti operai, l’anno in cui finirà per sempre la paura, l’abuso, il pericolo di licenziamento ed ogni altra ingiustizia, facendo di questa piccola miniera sperduta e dimenticata in questa nostra civilissima Maremma, una grande famiglia alla quale ogni minatore si sente orgoglioso di appartenere, consapevole com’è di contribuire col suo faticoso e umile lavoro allo sviluppo ed alla prosperità dell’azienda, della propria famiglia e della Nazione.

Socialisti maremmani Pietro Ravagli Da questo memoriale, che ci hanno consegnato gli operai della Marchi, ne esce un quadro del lavoro e della vita in miniera non tanto diverso da quanto abbiamo già visto nella descrizione che ne fanno Ravagli e Santoni nel 1912. Su Ravagli, in particolare, vorrei intrattenermi prima di chiudere questa relazione. È fra i personaggi dei primi del Novecento che meritano attenzione. Come segretario interprovinciale dei minatori appare, dai resoconti che ne fanno “Il Risveglio” e “La Martinella”, come instancabile organizzatore in tutte le iniziative che i minatori prendono. La sua firma è citata in tutti gli accordi sindacali di quegli anni, di certo non è un leader carismatico come altri lo furono, tuttavia la fiducia dei lavoratori non gli venne mai meno in particolare ne apprezzavano la modestia e la tenacia. Non sono molte le notizie che abbiamo di lui, a differenza di altri personaggi quali Antonio Gamberi o Telemaco Nistri. Con Antonio Mori (dott. Amor) per la prefazione che ha curato ai “Sonetti della disciplina” e con Fabrizio Boldrini con la sua tesi di laurea “Il movimento operaio tra i minatori del bacino di Massa Marittima: dalle origini alla prima guerra mondiale” oltre alla personale consultazione di quanto rimane dei settimanali “La Martinella” e “Il Risveglio” possiamo tracciarne un profilo biografico. Pietro Ravagli nacque il 1 settembre 1864 a Scarlino, uno dei centri maggiormente influenzati dal movimento democratico-risorgimentale, da padre bolognese, perduto all’età appena di 13 anni, e fin da bambino dovette piegarsi al lavoro: andare alla fonte per l’acqua, alla macchia per la legna; a spigolare il grano nell’estate, a raccattare le olive nell’inverno. Dopo la morte del babbo venne assunto come operante nei lavori di campagna più leggeri, insieme alle donne; poi per vari anni, fu garzone dell’Arciprete del paese, dal quale apprese nozioni di letteratura, di storia e di sociologia. All’età di 20 anni andò militare, ma essendo di seconda categoria, prestò servizio solo per due mesi. Al suo ritorno, si dedicò al mestiere di falegname, che ha sempre continuato fino alla sua morte avvenuta in Roccatederighi nel 1948. Nel luglio del 1890 trasportò le sue tende a Roccatederighi, dove trascorse tutta la sua vita di lavoro e di studio. Pietro Ravagli è figura preminente nello scenario sindacale dell’inizio del Novecento. Tutta la sua azione sindacale e politica si svolge a Roccatederighi. Nell’ottobre 1896, all’età di 32 anni, assieme al maestro elementare Gaetano Poli, il benestante Fabio Vecchioni e con l’appoggio dei minatori il Ravagli è fra i fondatori della Camera del Lavoro di Massa Marittima, la prima in provincia di Grosseto, fra le prime in Italia. Il suo impegno prosegue non solo nell’organizzazione di questa come centro di orientamento per le classi più deboli, ma anche nella costituzione di sezioni locali nei centri minori. Il 27 aprile del 1902 a Massa Marittima è fra i fondatori del sindacato nazionale minatori ricoprendo incarichi di primo piano sino ad assumere l’incarico di segretario nazionale nella segreteria di Telemaco Nistri. Assieme a Gamberi e Capri il Ravagli è animatore instancabile delle azioni politiche e sindacali dell’epoca. Nelle elezioni politiche del 1913 il Partito socialista, a cui con convinzione e slancio il Ravagli aderiva otteneva una significativa vittoria. Dal 1909 al 1921 collabora al Il Risveglio , il settimanale socialista che diverrà strumento di collegamento e di organizzazione per i minatori. Per il Partito socialista svolse un’intensa propaganda; candidato alle elezioni amministrative nel comune di Roccastrada fu consigliere dal 1905 al 1921 ricoprendo anche la carica di vice sindaco; fu poi eletto consigliere provinciale. Nel maggio del 1915 è segretario della Federazione interprovinciale (Grosseto-Siena) dei minatori. Nella veste di segretario interprovinciale partecipa attivamente alla stesura del “Memoriale unico” “desiderata generali dei minatori”; attivista di primo piano nel biennio rosso 1919/1920. La sua firma è presente in tutti gli accordi per le miniere del versante grossetano e senese al pari della sua presenza negli scioperi e nelle agitazioni dei minatori (occupazione della miniera per tre mesi a Ravi, 135 giorni a Castell’Azzara, due mesi in quella di Gavorrano). In tutti questi anni Ravagli, oltre all’impegno politico, aveva maturato anche un profondo amore per la poesia, un interesse che del resto non aveva scisso dall’impegno sociale; per questo ricostruì in rima la storia della setta dei “Flagellanti” presenti numerosi e da lungo a Roccatederighi. Dopo lo scoppio della guerra, da lui tenacemente avversata, Ravagli fu organizzatore del movimento “Pro pace” e della solidarietà con le famiglie dei caduti. Fece infine parte del “Comitato di mobilitazione industriale” della Toscana presieduto dal generale Carpi. Nel dopoguerra si interessò di nuovo dei minatori dando vita, assieme a Marino Magnani, alla Federazione provinciale dei minatori che poi divenne nazionale, aderendo alla FIOM in attesa di avere la forza sufficiente per vivere autonomamente. Eletto segretario nazionale, Ravagli viaggiò molto per l’Italia a comporre vertenze e, nel 1919, guidò una lunga lotta dei minatori Toscani e Umbri. In questa sua attività ottenne numerosi vantaggi economici e normativi per i minatori, trattando direttamente con l’allora Ministro del lavoro Arturo Labriola, ma venne anche sottoposto a dure critiche per l’atteggiamento troppo cauto e moderato, specie quando rifiutò, sempre nel 1919, la candidatura al Parlamento per il P.S.I. Con l’avvento del fascismo si ritirò a vita privata, coltivando solo il proprio interesse per la poesia: nonostante ciò venne più volte molestato dai fascisti locali e sottoposto al fermo di polizia. Nel 1926 fu arrestato e assegnato per tre anni al confino di polizia a Bitti (Nuoro). Dall’esilio scrisse alcune lettere a Mussolini esaltando il suo ruolo moderatore nei conflitti sociali, specie durante il periodo della “scioperomania”. Ciò nonostante negli ambienti fascisti di Roccatederighi veniva ancora ritenuto elemento “infido”, anche se non pericoloso. Gli ultimi anni del fascismo videro l’ormai anziano Ravagli racchiuso nel più totale silenzio. Caduto il regime rientrò nel P.S.I. svolgendo ancora qualche conferenza di propaganda. Il 21 ottobre del 1945 “Il Risveglio” gli dedicava un fondo esaltandone le doti di poeta e politico dal titolo “Socialisti Maremmani”.

Rintracciare Pietro Ravagli a Roccatederighi non è cosa difficile. Basterà affacciarsi alla sua bottega di falegname per scorgerlo curvo al lavoro. Entrate, salutatelo ed egli vi accoglierà cordialmente. Mostrandovi i suoi vari utensili, spiegandovi come anche per i falegnami sono anni di crisi. Perché è da sapersi anche questo: Ravagli è un operaio puntuale e laborioso. Lavora per conto proprio, ma egli è rispettoso dell’orario come una recluta in una caserma. Ha quarantun’anno per gamba! Segaligno e diritto come un I, con un timbro di voce ancora giovanile e sempre disposto al motto ilare e gaio. Pietro è amico delle muse, Pietro è poeta! Alternando lo studio col lavoro ed il lavoro con lo studio questo vecchio falegname ha potuto farsi una vastissima cultura. La filosofia, la storia, la letteratura italiana e straniera gli sono familiari. Con una memoria di ferro che gli permette di recitare di filata tutti i versi della Divina Commedia , ha potuto non solo conservare, ma amalgamare, digerire, tutte le letterature per farne cosa distinta dalla memoria ed utilizzarle in tutte le circostanze della sua molteplice attività. Molte poesie del Ravagli furono a suo tempo pubblicate da giornali e riviste socialiste, ma egli vi mostrerà uno scaffale dove sono accatastati dei quaderni che contengono la sua produzione poetica. Se non sarete pressati da altre faccende il nostro Ravagli vi leggerà con grazia alcune di queste: quelle che lui ritiene le migliori. Diciamolo subito: il bersaglio preferito dei suoi versi è la superstizione, il prete politicante, il capitalista sfruttatore. Ma quei versi esprimono anche un’amore infinito per i lavoratori, per la giustizia e per la libertà. Se la lettura continuerà, voi vi accorgerete che non tutta la poesia del Ravagli è oro di 18 carati. Nessuno potrebbe pretenderlo. Ma voi resterete incantati della fluidità delle rime e della piena dei sentimenti e dei pensieri che queste rime contengono. È Ravagli un poeta solitario e scontroso, finto misantropo? Nemmeno per sogno. Il nostro poeta è amico degli amici, combattivo, societario ed all’occorrenza polemista. Egli è tutto contento quando può, alla sua non più tenera età, esercitare la penna polemizzando sul quadro murale del suo paese. Aggiungete che Pietro Ravagli è sindaco di Roccatederighi e lo fu per lunghi anni avanti il periodo fascista. Gli abitanti della contrada vi diranno in proposito che il nostro poeta è anche sagace amministratore, diligente ed accorto magistrato. Le relazioni assidue col Parnaso non impedirono al Ravagli di darsi alla vita politica ed al sindacalismo. Come socialista primeggiò nella nostra provincia, e, se non ci inganniamo, fu Vice Presidente del consiglio provinciale. Collaboratore apprezzatissimo in prosa ed in versi nei giornali proletari, rivelò delle qualità giornalistiche assai pronunciate. Ravagli fu ed è anche oratore. Egli parla col cervello e col cuore. La ragione ed il sentimento sono le fonti della sua eloquenza, semplice, piana, convincente. Anche ora, più che ottantenne parla con voce senza raucedine, con frequenti citazioni, come nulla fosse ed il pubblico estasiato ascolta ed applaude. I giovani della nostra Maremma hanno tutto da imparare da questa vita di studio, di lavoro e di probità. Pietro Ravagli, acquistando attraverso lo studio, virtù e conoscenza, ha additato ai nostri giovani operai la via mediante la quale essi possono farsi una vita morale e spirituale. Possono essi imitarne l’alto esempio facendosi più buoni, più capaci, più disposti al lavoro per sé e la Nazione. Arrivederci Ravagli. Gli stringemmo la mano scarna e nervosa e sortimmo dalla sua bottega. Alla porta ci voltammo. Egli era già curvo sul lavoro colla sgubbia alla mano ed in quel momento forse, Orazio e Virgilio, suoi poeti preferiti, pascevano e scaldavano già la mente di questo vegliardo instancabile.

Se questo è il nostro passato, ecco allora che questo appuntamento, come gli altri che verranno, merita tutta la nostra attenzione, per una storia ricca di eventi significativi e di grande umanità, da riportare alla memoria, da far conoscere alle nuove generazioni, per consegnare loro i valori della solidarietà, della dignità della persona nella sua qualità di uomo e di lavoratore, per renderli partecipi con quanti non si rassegnano a subire ma intendono sempre migliorare le proprie e altrui condizioni di lavoro e di vita. Ricordando i minatori dell’Amiata, parlando di miniere e minatori attraverso iniziative, conferenze, dibattiti, mostre, non solo ripensiamo il passato ma possiamo progettare il futuro. Il parco museo delle miniere del Monte Amiata , il parco minerario di Gavorrano sono lì a testimoniare che il futuro, e quindi il rilancio sociale ed economico dei bacini minerari, di quelli che una volta erano i “villaggi minerari”, passa anche attraverso il recupero di quella che è stata l’epopea mineraria, di quella che una volta era un’attività fiorente e della quale oggi rimangono solo le rovine, le vecchie strutture degradate, i pozzi, le officine, le case abbandonate, tenute a distanza dai reticolati, suggestive testimonianze di un passato rigoglioso e laborioso di quei centri di vita che hanno saputo resistere ai drammi e alle tristezze, avanzando nella solidarietà e nella dignità, e che oggi si tramandano nella memoria e nella vita di quanti sono stati i suoi artefici.

Bibliografia Il Risveglio , Settimanale socialista della provincia di Grosseto ADRIANO ARZILLI, Dal 1910 al 1920 ADRIANO ARZILLI, Il 1919 il 1920 nella provincia di Grosseto , 1998 Vieri, Roccastrada SIMONETTA SOLDATINI, Gli archivi della Camera del lavoro di Grosseto , Edzioni Cantagalli, Siena, 2002 MAURIZIO RUFFINI, Camere del lavoro, leghe, federazioni: l’organizzazione Operaia e contadina in Maremma dal 1890 al 1921 , in AA.VV: “Le nostre orme”, Roma Ediesse 1988 M. RUFFINI - S. VITALI, in Siderurgia e miniere FABRIZIO BOLDRINI, Il movimento operaio tra i minatori del bacino di Massa Marittima: dalle origini alla prima guerra mondiale , Tesi di laurea, Pisa. ANTONIO MORI (Dott. Amor), Prefazione a “I sonetti della Disciplina” di Pietro Ravagli, Comune di Roccastrada 2002 ROLANDO SARTORI , Uno stillicidio lungo trent’anni , “ Il Tirreno”, 4 marzo 1992 •

Dal “Memoriale unico” alla crisi mineraria degli anni ’30 Lucio Niccolai Consultacultura

Il “biennio rosso” Subito dopo il “Convegno delle leghe federate dei minatori” di Follonica del 6 aprile del 1919 (1) , al quale avevano partecipato per l’Amiata le organizzazioni di Castell’Azzara, Selvena e Abbadia San Salvatore, la Federazione provinciale promosse, il 15 aprile, un incontro dei minatori di Castell’Azzara, Santa Fiora, Selvena e Saragiolo per discutere degli obiettivi del “Memoriale unico” (che era stato approvato in quella sede) e le conseguenti strategie di lotta. Il 27 giugno, davanti al rifiuto delle Società minerarie di accogliere le richieste operaie iniziò lo sciopero di tutta la categoria che investì tutti i bacini minerari e si protrasse per più mesi. Contemporaneamente, a testimonianza del clima di forte contrapposizione e di marcato rivendicazionismo sociale, anche l’Amiata veniva coinvolta nelle proteste contro il caroviveri che interessarono vaste aree della Toscana. Il 28 giugno “sette giovani scalpellini e “operai minatori” di Santa Fiora ( 2) […] si presentarono alla porta del convento della SS. Trinità per chiedere pane. Il parroco e il padre superiore consegnarono «due interi pani», ma i giovani reclamarono anche il companatico” ( 3) . Davanti al rifiuto dei conventuali, i giovani si sarebbero abbandonati a urla, imprecazioni e atti offensivi per i quali poi furono arrestati e processati. Lo sciopero proseguì per oltre tre mesi: dopo 95 giorni, il 9 ottobre, capitolava la ‘Società Anonima Monte Amiata’, sottoscrivendo un accordo che interessava 850 operai (miniere di Abbadia San Salvatore, Morone e Cornacchino), mentre ancora rimanevano in agitazione i 230 dipendenti della società ‘Siele’ che continuarono lo sciopero per altri 40 giorni (lo sciopero più lungo della storia sindacale dell’Amiata), fino al 9 novembre 1919, quando finalmente anche la Direzione del “Siele” si decise a firmare l’accordo. Tra gli obiettivi raggiunti dai lavoratori c’erano il riconoscimento della organizzazione sindacale, l’istituzione delle commissioni interne, il rispetto e l’applicazione immediata delle leggi vigenti sugli infortuni, l’adozione delle percentuali già praticate per gli stabilimenti metallurgici e siderurgici per il lavoro straordinario, la riduzione dell’orario di lavoro giornaliero… Non era invece stata accettata, da parte padronale, la richiesta del trasporto gratuito sul luogo del lavoro (che, dunque, rimaneva a carico dei lavoratori e che, come ampiamente testimoniato, si realizzava a piedi o in bicicletta, anche per distanze di oltre 10 km. (4) . La situazione, peraltro, all’interno delle stesse miniere, non tornò subito alla normalità se è vero che nella miniera dell’Abetina le attività ripresero solo nel 1922, mentre alle Solforate (Monte Civitella), secondo quanto sostiene Strappa, “le agitazioni operaie e lo sciopero del 1919” avevano recato “gravi danni alla miniera” tanto da determinare il franamento del “pozzo Enrico nell’estremità NW della miniera” (5) . Intanto, nelle elezioni politiche del 16 novembre dello stesso anno, le prime a suffragio universale, il PSI (6) otteneva nella circoscrizione Siena-Arezzo-Grosseto il 46% dei voti e 5 deputati con una netta affermazione in tutti i comuni del bacino minerario dell’Amiata.All’inizio del nuovo anno, l’8 febbraio del 1920, i delegati dei minatori maremmani e amiatini, in rappresentanza di oltre duemila lavoratori, si riunirono a Congresso a Grosseto per discutere in merito all’esito della lunga stagione di lotta e sui contenuti del nuovo contratto di lavoro, nonché sulla ipotesi della costituzione di una nuova Federazione nazionale dei minatori (7 ). Per l’Amiata, parteciparono al Congresso le Leghe dei minatori di Castell’Azzara, Abbadia San Salvatore e Selvena. Il 13 giugno dello stesso anno, la Federazione convocava, a Santa Fiora, una riunione dei lavoratori a cui parteciparono le Leghe di Abbadia San Salvatore, Castell’Azzara, Santa Fiora, Selvena e Selva, per discutere e approvare i nuovi obiettivi di lotta e nuove ipotesi rivendicative. Continuavano e si riaccendevano, nel frattempo, vari focolai di agitazione: ad Abbadia San Salvatore fu ottenuta la riassunzione in servizio di alcuni operai licenziati perché ritenuti capi o organizzatori della Lega; i minatori del ‘Morone’ presentavano, il 25 giugno, un loro memoriale e, davanti all’indisponibilità padronale ad una trattativa, decisero di invadere la miniera; analoghe agitazioni ed occupazioni avvennero nelle miniere limitrofe del versante senese appartenenti alla stessa società ( 8) . La vertenza si risolse solo il 19 luglio con una nuova, quanto effimera, vittoria dei lavoratori che ottenevano un’integrazione salariale sui cottimi. Proprio nell’estate del ’20, un fatto gravissimo accaduto ad Abbadia San Salvatore già segnalava, e in parte anticipava, l’evoluzione che avrebbero presto preso le cose. Il 15 agosto, in occasione del giorno festivo, per di più domenicale, la “lega proletaria fra mutilati e invalidi di guerra” decise di promuovere una grande manifestazione per inaugurare la propria bandiera. Dopo la festa (svoltasi in Loc. Maddalena, fuori dal paese), i militanti socialisti, furono accolti, al loro rientro in paese, da una pistolettata sparata dalla finestra della propria abitazione da una guardia comunale politicamente vicina al Baiocchi, azionista della Soc. Monte Amiata e uomo chiave del fascismo badengo (e senese). Ne seguì una sassaiola che provocò l’intervento dei carabinieri (di ritorno dalla processione religiosa), che non esitarono, a loro volta, a fare uso di armi da fuoco: rimase ucciso il giovane socialista Ovidio Sabatini. Due carabinieri riportarono ferite di arma da taglio. Si accendeva intanto una furiosa rissa davanti alla Chiesa di S. Croce (dove era confluita la processione della Madonna) tra socialisti e clericali, nella quale, oltre a numerosi feriti, cadeva ucciso il frate Angelo Galassi. In conseguenza di questi fatti, i carabinieri decisero di procedere ad una vasta operazione di rastrellamento del centro storico (il “paese vecchio”), senza lesinare l’uso di armi: ne rimasero uccisi il piccolo Libero Pinzi (che si trovava in braccio alla nonna), Giuseppe Coppi (impiegato della Soc. Monte Amiata) e il bracciante Giovanni Vagaggini, tutti estranei ai fatti. 15 persone (poi assolte) furono arrestate. Il 31 agosto, primo sull’Amiata, nasceva il Fascio di Abbadia San Salvatore che, in vista delle elezioni amministrative del 19 settembre del 1920 promuoveva una coalizione, il “Blocco”, comprendente anche il PPI, che ottenne 431 voti. Ma i socialisti riconfermavano il loro primato elettorale in tutta l’area mineraria (9) . Ad Abbadia ottennero 806 voti, mentre, nel versante grossetano, questi furono i risultati elettorali: I PRPLI PPI Il PPI ottenne significative affermazioni a Santa Fiora e Piancastagnaio (10 ), testimoniando la presa che la chiesa e il clero avevano nell’area amiatina, anche tra i minatori e i braccianti agricoli.

Nascita e affermazione del fascismo Ma ormai il fascismo era alle porte. Fra febbraio e marzo del 1921 cominciarono le azioni squadriste anche sull’Amiata. La prima uscita pubblica delle camicie nere (i fasci di Gretini e di Bagnolo) si ebbe il 3 febbraio 1921 a Santa Fiora (fu anche la prima della provincia di Grosseto) e il 21 aprile, sotto l’incalzare della minaccia fascista, la giunta socialista di quello stesso paese rassegnò, prima tra le amministrazioni amiatine, le proprie dimissioni (11) A fine marzo, un’altra dimostrazione di forza si verificò a Piancastagnaio, dove le squadre fasciste aggredirono e uccisero l’operaio Novaro Angelici. La violenza, ormai divenuta sistematica, oltre che contro le Amministrazioni comunali (l’obiettivo dei fascisti era quello di ottenere le dimissioni di tutti i sindaci socialisti eletti democraticamente) si indirizzò contro le Leghe dei lavoratori e le Cooperative, con il fine di disconnettere il tessuto associativo che, grazie all’impulso e all’esempio dei minatori, si era venuto a creare negli anni precedenti sull’Amiata: a Bagnolo furono aggrediti i socialisti della “Lega proletaria combattenti” ( 12) ; ad Abbadia una banda di squadristi incendiò la Cooperativa e uccise Tito Prezzolini; a Piancastagnaio toccò ai dirigenti della “Lega ex combattenti” che furono “costretti a fuggire dal paese” ( 13) ; a Saragiolo, nel corso delle violenze fasciste, cadeva ucciso un anziano (un certo Bechini). La Cooperativa di , fu distrutta con il fuoco il 13 giugno del 1921 ( 14) : nello scontro che ne seguì, un fascista di Piancastagnaio, Filippo Serafini, fu ferito a rasoiate e nel corso di una spedizione punitiva al Saragiolo, cadeva il fascista badengo Aldo Franci. I fascisti soranesi si occuparono dei minatori di Castell’Azzara (1921); poi, con l’aiuto dei loro colleghi pitiglianesi, nel 1922 distrussero la loro Camera del lavoro ( 15) . Nelle elezioni politiche del maggio del 1921 il “Blocco nazionale”, una lista apertamente reazionaria, all’interno della quale avevano un ruolo di primo piano i fascisti, riscosse, anche sull’Amiata, un inquietante successo:

e PSI Blocco nionale PRI’I Il Partito socialista rimaneva, è vero, in molti casi, il primo partito, ma il Blocco espugnava Castel del Piano e Santa Fiora, mentre i Popolari confermavano un discreto radicamento ad Abbadia S. Salvatore (23%), Piancastagnaio (20%) ( 16) e Santa Fiora (17,5%) (in quest’ultimo paese il Partito Comunista di Gramsci non ottenne, a differenza degli altri centri minerari, neppure un voto) ( 17) . Le Società minerarie potevano finalmente riprendersi la rivincita sulle conquiste dei minatori degli anni precedenti: ad Abbadia San Salvatore, ad esempio, fra fine maggio e i primi di giugno, la Società Monte Amiata procedette, da prima ad una serrata, quindi a massicci licenziamenti (800 operai su 935. A 70 di loro, i più attivi e combattivi nelle organizzazioni politiche e sindacali, fu preclusa la possibilità di rientrare comunque in miniera). Ma gli operai più politicizzati non rinunciarono, anche in quell’occasione, a mobilitarsi: ne nacque uno scontro che, iniziato davanti alla Chiesa di Remedi, si spostò poi e continuò nelle vie del centro storico. Diversi sindacalisti e militanti socialisti furono arrestati. Ma non molto diversa doveva essere la situazione nelle altre miniere. Il giornale fascista “L’Era Nuova” del 3/7/21 riferiva che “ultimamente furono licenziati dalle miniere 1.400 operai, di cui solo 250 furono ripresi Gli altri in parte sono disoccupati” ( 18). La destrutturazione delle organizzazioni politiche e sindacali era ormai giunta al suo epilogo, anche se il fascismo non aveva del tutto domato, la volontà di resistenza dei nuclei più politicizzati: “Purghe, schiaffi, offese erano roba di tutti i giorni. I licenziamenti e le persecuzioni determinarono una forte emigrazione: un gruppo andò a Roma ove alcuni (fra i quali Tigrino Sabatini, fucilato durante la resistenza a Forte Boccea) continuarono a battersi assieme agli Arditi del popolo; altri in America e in Francia, ma la grande maggioranza andò in Maremma” ( 19) . D’altra parte, lo stesso sindacato fascista, per ottenere consensi tra i minatori, fu costretto a strappare, nel 1924, un accordo alla Società Monte Amiata per l’aumento della paga oraria dai lavoratori “da lire 1,60 a 2,10” e regolare il cottimo “in modo da garantire, per sette ore di lavoro, un salario giornaliero variabile fra le 17 e le 23 lire” ( 20) L’ultimo sciopero comunque di cui si abbia notizia fu quello delle miniere di Montebono nel 1924 ( 21) (la miniera fu poi definitivamente chiusa nel 1928).

La visita di Mussolini nel 1924 Nell’agosto del 1924, a suggello della fascistizzazione ormai avvenuta, l’Amiata ebbe l’onore di una visita di Mussolini. Fu una delle sue prime uscite pubbliche dopo l’assassinio di Matteotti (10 giugno 1924), che aveva minato la credibilità del fascismo e, ne aveva messo un po’ in crisi l’immagine. Nel discorso alle maestranze di Abbadia San Salvatore, Mussolini coglieva l’occasione per avvertire che “le opposizioni, tutte insieme… sono assolutamente impotenti. Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere” ( 22) . La lapide a ricordo dell’evento, che la Società Monte Amiata fece collocare all’interno degli stabilimenti, è, davvero significativa: “In un’ora grigia della patria, quando i morituri di vecchi partiti insanamente il ricordo e le speranze tentarono di cancellare della gloriosa marcia di Roma, qui, dinanzi alle anime rudi e semplici dei nostri minatori, all’ombra della grande montagna, nel giorno 31 agosto 1924 tuonò alta e ammonitrice la voce del Duce chiamante alla riscossa i fedeli ed additante alle vecchie e nuove falangi fasciste le grandi vie consolari che, percorse dai vincitori di Vittorio Veneto, infallibilmente dovranno ricondurre l’Italia alla grandezza del romano dominio.

La società proprietaria delle miniere in un’unica entusiastica fede col popolo tutto di Abbadia San Salvatore, oggi che mirabile creazione fascista fioriscono i sindacati olivo di pace duratura e cosciente tra lavoratori e datori, volle perpetuare la memoria del luogo” ( 23) .

La brace sotto la cenere Dopo il decreto di scioglimento delle associazioni sindacali non fasciste (2 ottobre 1925) e l’approvazione delle leggi “fascistissime” del 1926, il disegno della instaurazione della dittatura si era compiutamente dispiegato, i fascisti cercavano di occupare ogni possibile interstizio della vita sociale, politica ed economica. Non sappiamo come andarono le cose nei paesi dell’Amiata e, nello specifico, nelle miniere, anzi, è del tutto evidente che una ricostruzione storica, un’analisi dei documenti e una ricerca sulle testimonianze del periodo fascista, sarebbe quanto mai necessaria e urgente. In particolare, ci si chiede che fine abbiano fatto tutti quegli operai che erano cresciuti politicamente nel periodo delle lotte del biennio rosso. Componenti antifasciste sicuramente sopravvissero, come dimostrano anche i casi personali di Fausto Pizzetti o di Guido Martellini (che citiamo ad esempio in questo stesso volume). E se la miniera veniva loro preclusa, in conseguenza dei licenziamenti selettivi, non di meno trovavano comunque l’occasione di mantenere viva la “brace sotto la cenere” nella taverna, nell’osteria o nella piazza (più ancora che nella famiglia, come è testimoniato ampiamente per Niccioleta): “la vita di paese poteva offrire, ben più della miniera, una molteplicità di occasioni di incontro fuori del controllo diretto delle strutture del regime. […] Spesso il luogo di ritrovo era costituito dalle osterie e dai bar dei paesi […la cui] frequentazione […] forniva occasione per incontri e scambi collettivi di idee e riflessioni sulla propria condizione di vita e di lavoro […]” ( 24) . Un fatto particolarmente significativo che testimonia della non sopita capacità di resistenza dei minatori amiatini fu quello che si verificò nel 1929 ad Abbadia San Salvatore. La Società mineraria aveva deciso di licenziare 29 operai per far posto ad altrettanti ex combattenti. Ma oltre trecento operai si riunirono nel piazzale per chiedere la revoca dei licenziamenti; poi, in corteo, si indirizzarono verso il Palazzo comunale per proseguire la protesta. Giunsero ad Abbadia rinforzi dei carabinieri e, mentre le agitazioni continuavano, furono operati una trentina di arresti. Negli stessi anni, mentre, nel resto della provincia di Grosseto, neppure nei bacini minerari, c’erano “tracce consistenti di una presenza antifascista organizzata” ( 25) , ad Abbadia San Salvatore veniva scoperta una cellula clandestina comunista, collegata con l’organizzazione nazionale (26) . La crisi degli anni ’30 e l’emigrazione a Niccioleta Nel 1928 la concorrenza del mercurio spagnolo creò seri problemi alla produzione amiatina. La crisi del ’29, poi, ebbe sostanziali ripercussioni anche sul mercato del mercurio, per cui, secondo i dati ufficiali riportati da Strappa (27) delle 9 miniere di mercurio aperte nel 1927, solo 4 sopravvissero nel 1933: Abbadia, Solforate, Abetina e Cerretopiano (quest’ultima nel comune di Scansano). Pesantissimi furono i contraccolpi occupazionali ( 28) : anni occupati anni occupati anni occupati

Molti operai amiatini (ed è facile immaginare che i primi ad essere espulsi dai processi produttivi fossero quelli più invisi al regime) furono costretti dunque a cercare lavoro nelle miniere maremmane. E qui, subito, furono coinvolti e parteciparono ( 29) alla lotta contro l’introduzione del “metodo Bedaux” per il calcolo del salario individuale ( 30) . “La protesta contro il Bedeaux assunse anche l’aspetto di esplosioni di collera spontanee e violente. A Gavorrano l’introduzione del nuovo cottimo e ripetute riduzioni di personale, culminate nel luglio del ’32 nel licenziamento di 250 operai, formarono una miscela esplosiva. Il 30 luglio durante il cambio del turno di lavoro gli operai si radunarono, come nell’ottobre precedente, davanti alla Direzione della miniera e improvvisarono una manifestazione di protesta […] invasero e danneggiarono l’ufficio del Bedeaux” ( 31) . Un episodio simile si ripeté l’anno successivo a Boccheggiano. La protesta ebbe successo: la Montecatini riassunse i 250 licenziati che furono trasferiti a Niccioleta, che proprio in quel periodo cominciava la produzione a pieno regime. A seguito di queste agitazioni, gli operai di alcune miniere delle Colline metallifere, fra cui anche quelli di Niccioleta, chiesero di non essere più iscritti al sindacato fascista ( 32) . E così Niccioleta diventò una delle tappe del viatico dei minatori amiatini. Tra i minatori che arrivavano a Niccioleta molti erano dichiaratamente antifascisti: tra gli altri ricordiamo Mauro Capecchi ( 33) , arrestato l’11 luglio 1935 per avere ‘specie nella ricorrenza del 1° maggio’ cantato Bandiera rossa assieme ad altri tre operai in un camerotto della miniera di Niccioleta e per aver sputato e rivolto, sempre nella stessa occasione, ‘parole oltraggiose’ nei confronti della fotografia del Duce…” ( 34) , che così ricorda:

Alla fine dell’ottobre del 1935 venni a sapere che cercavano minatori alla miniera di pirite di Niccioleta. Non c’erano altre alternative, non potevo non lavorare. Insieme ad altri compagni mi recai nella predetta località, pur senza avere nessuna esperienza di quel tipo di lavoro. Venimmo alloggiati in capannoni, dove dormivamo per terra sulla paglia, come al solito. Ci organizzammo, comprammo le pentole e tutto quello che ci serviva. Stabilimmo dei turni per svolgere le faccende domestiche e cercammo di fare il possibile per rendere più umana possibile quella vita. Arrivavano operai dai paesi vicini, obbligati a scegliere anche loro tra la miniera e la disoccupazione. Il lavoro era duro e in mezzo a noi erano presenti spie fasciste, ma anche operai che, in caso di necessità, si sarebbero prestati al gioco dei fascisti, gente debole, paurosa e soprattutto affamata. […] Mi ricordo che la domenica andavamo a Massa Marittima, dove si ritrovava la maggior parte degli operai; si faceva merenda e si beveva il vino, che era la medicina che faceva riprendere le energie a chi era costretto a fare un lavoro così pesante ( 35) .

Altri antifascisti passati per Niccioleta furono: Primo Vagnoli (arrestato con Capecchi), Bruno e Elvezio Pizzetti (licenziati entrambi nel 1937 perché “svolgevano opera deleteria” e “inculcavano nell’animo dei compagni sentimenti antifascisti”), Corrado Forti, uno dei componenti, nel 1930, della cellula comunista clandestina di Abbadia San Salvatore, Guido Martellini di Santa Fiora, arrestato nel 1938 per aver inscenato il “carnevale morto” e molti altri.

Alcune ipotesi di lavoro Dallo studio del periodo in questione emergono una serie di indicazioni e, soprattutto, di carenze di ricerca e di conoscenza che è necessario colmare per poter meglio valutare gli avvenimenti e comprendere ciò che successe e come. Pochissimo infatti si sa sul periodo del fascismo (nascita e affermazione sull’area amiatina) e scarsissime, se si esclude quella più volte citata di Fortunato Avanzati, sono le memorie e le testimonianze scritte che consentano di far luce sulla dinamica degli avvenimenti e sugli atteggiamenti anche personali. Fondamentale potrebbe essere una ricerca finalizzata, anche sulle fonti orali (testimoni e protagonisti). In secondo luogo sarebbe necessaria una raccolta e uno studio delle biografie dei minatori che avevano partecipato alle lotte del 1919 per capire i loro percorsi individuali successivi (le violenze subite, i licenziamenti, l’emigrazione in Maremma, ecc.) fino alla costituzione di una sorta di “dizionario biografico”, del tutto assente per l’area grossetana (a differenza di quella senese e segnatamente di Abbadia San Salvatore (36). In particolare, di grande interesse, possono risultare le biografie personali e familiari di chi alla fine approdò a Niccioleta per capire quale fosse il back ground di molti di questi minatori, tra i quali sicuramente, molte delle vittime dell’eccidio.

Bibliografia essenziale AA. VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale , Ediesse, Roma 1988 AA. VV., Lo strano soldato , La Pietra editore, Milano 1976 AA. VV., Miniere e minatori. Il lavoro, la vita, le lotte nelle miniere della Maremma grossetana , Electa, Milano 1985 AA. VV. (a cura di I. TOGNARINI), Siderurgia e miniere in Maremma tra ’500 e ’900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio , All’insegna del giglio, Firenze 1984 AA. VV. ( a cura di I. TOGNARINI), Una tradizione senese. Dalla Pirotechnia di Vanoccio Biringucci al Museo del mercurio , Edizioni scientifiche Italiane, Napoli 2000 V. ABATI (a cura di), La nascita dei “Minatori della Maremma” , Giunti, Firenze 1998 A. ARZILLI, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo. Situazione socio-economica. Mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti , Roccastrada 1998 A. ARZILLI, Il 1919 e il 1920 nella provincia di Grosseto. Lotte sindacali, elezioni politiche e amministrative Amministrazione provinciale e comunale di Grosseto , Roccastrada 1998 F. AVANZATI, Gente e fatti dell’Amiata. Abbadia S. Salvatore fra storia, mito e memoria 1900-1937 , La Pietra, Milano 1989 E. BACCI, Fortuna e declino del mercurio nell’area amiatina . Implicazioni ambientali , Regione Toscana, Dipartimento Ambiente, Firenze 1995 E. BALDUCCI (a cura di L. NICCOLAI), Il sogno di una cosa , ECP, Fiesole 1993 V. BASARRI, Il villaggio operaio di Niccioleta . Tesi di laurea R. BIANCHI, Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919 , Olshki Editore, Firenze 2001 L. BIANCIARDI, C. CASSOLA, I minatori della Maremma , Ed. Laterza, Bari 1956 F. BOLDRINI, I minatori del bacino minerario di Massa Marittima dalla riapertura delle miniere alla prima Guerra Mondiale , in AA.VV. (a cura di I. TOGNARINI), Siderurgia e miniere in Maremma tra ’500 e ’900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio , All’insegna del giglio, Firenze 1984 M. CAPECCHI, Autobiografia di un operaio comunista (1913-1967). La resistenza in provincia di Siena , Centro editoriale Toscano, Firenze 1997 N. CAPITINI MACCABRUNI (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo , Grosseto 1985; G. CONTINI (a cura di), Un’isola in terra ferma. Storia orale di una comunità mineraria dell’Amiata , ed. Il Leccio, Siena 1995 H. CORSI, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922) , Edizioni cinque lune, Roma 1973 F. DOMINICI, Cent’anni di storia Sorano 1860-1960 , Stampa Alternativa, Roma 2001 G. MAIOCCO, S. e S. MAMBRINI, I. TOGNARINI, La miniera di mercurio di Abbadia San Salvatore , Alsaba, Siena 2002 G. MAIOCCO, S. e S. MAMBRINI, I. TOGNARINI, Parco - Museo minerario Abbadia San Salvatore , Alsaba, Siena 2001 M. MAMBRINI, L. NICCOLAI, M. PAPALINI, Un secolo di storia sociale , Coop unione amiatina, 2000 P.V. MARZOCCHI, Passi in avanti. Pagine di storia sociale e politica in Maremma 1900-1970 , Nuova CSF, Roma 1995 M. MEARINI, Partiti di sinistra e organizzazioni dei lavoratori dell’Amiata dalla fine del secolo all’avvento del Fascismo (1890-1920) , Tesi di laurea, Università di Firenze, a.a. 1980-81 L. NICCOLAI, “La brace sotto la cenere”. Amiata: dall’epopea mineraria alla cultura della pace , in “1902 2002 Cento anni di storia del Sindacato minatori. Lavoro, diritti, solidarietà”, Atti a cura di S. Polvani, Roccastrada 2003 I. PAPITTO CASINI, Alba di maggio. I primi dieci anni della festa dei lavoratori in Maremma 1890-1900 , ARCI, Grosseto 1988 S. POLVANI (a cura di), 1902 2002 Cento anni di storia del Sindacato minatori. Lavoro, diritti, solidarietà , Atti, Roccastrada 2003 A. RIPARBELLI (a cura di), Gli archivi storici delle miniere del Siele, Solforate e Abetina , Ed. Franco Angeli, Milano 1991 M. ROMEI, Le miniere del monte Amiata , M. RUFFINI, La tradizione anticlericale della Maremma e i tre volti dell’anticlericalismo socialista nell’età giolittiana , “Bollettino della Società Storica Maremmana”, n. 50, Grosseto 1986 M. RUFFINI, L’Amiata e le miniere: immagini del processo d’industrializzazione , in “Tracce…” 2000 M. RUFFINI, Camere del lavoro, leghe, federazioni: l’organizzazione operaia e contadina in Maremma dal 1890 al 1921 , in AA. VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale , Ediesse, Roma 1988 M. RUFFINI, S. VITALI, Per una storia dei minatori maremmani fra le due guerre , in AA.VV. (a cura di I. TOGNARINI), Siderurgia e miniere in Maremma tra ’500 e ’900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio , All’insegna del giglio, Firenze 1984 O. STRAPPA, Storia delle miniere di mercurio del M. Amiata , in “Industria mineraria”, 1977 Note 1 Si veda su questo argomento e sul “Memoriale unico” in questo stesso volume la relazione di S. POLVANI. 2 Angelo Becherucci, Giuseppe Brugi, Costantino Galli, Catone Mascagni, Gino Meloni, Ermenegildo Panichella, Nello Pierallini. 3 R. BIANCHI, Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919 , Olshki Editore, Firenze 2001, pp. 109-110. 4 Cfr. A. ARZILLI, Il 1919 e il 1920 nella provincia di Grosseto. Lotte sindacali, elezioni politiche e amministrative. Amministrazione provinciale e comunale di Grosseto , Roccastrada, Tip. Vieri, 1998, p. 62-63. A proposito del trasferimento ai luoghi di lavoro si ricorda la testimonianza di Ernesto Balducci: “La mattina, verso le quattro o le cinque, sentivo il richiamo del gruppo dei minatori; mio padre scendeva con l’acetilene e partivano a piedi per fare quattordici chilometri e raggiungevano la miniera. Vi si calavano dentro. La sera, quando imbruniva, stavo alla finestra in attesa che si vedessero gli acetileni – i lumi dei minatori che tornavano … la mattina presto, al buio, ripartiva.”, in Il sogno di una cosa , p. 31. 5 O. STRAPPA, Storia delle miniere di mercurio del Monte Amiata , Estratto da “Industria mineraria”, 1977, p. 18 6 D’altra parte, ad Abbadia, nel 1919 ben 700 dipendenti della “Monte Amiata” sarebbero stati iscritti al Partito. 7 La precedente Federazione, fondata a Massa Marittima nel 1902, si era sciolta nel 1905. Cfr. S. POLVANI (a cura di), Cento anni del sindacato minatori. Atti , Tip. Vieri, Roccastrada 2003. 8 A. ARZILLI, Il 1919 e il 1920 nella provincia di Grosseto, op. cit, pp. 170-171. 9 Cfr. P.V. MARZOCCHI, Passi in avanti. Pagine di storia sociale e politica in Maremma 1900-1970 , Nuova CSF, Roma 1995, p. 72/3. 10 “A Piancastagnaio, l’occupazione delle terre troverà proprio in una lega contadina “bianca” l’organizzazione e la guida più determinata; nelle elezioni del novembre 1919, la lista di nove candidati presentata dal Partito popolare nella circoscrizione di Siena-Arezzo-Grosseto conterrà i nomi di due amiatini: Silvio Celata, dirigente della Lega contadina “bianca” di Piancastagnaio, e Umberto Savoia, direttore della Società mineraria “Monte Amiata”, in G. SERAFINI , I ribelli della montagna, Amiata 1948: anatomia di una rivolta , Editori del Grifo, Montepulciano 1981, pp. 81-82. 11 Cfr. H. CORSI, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922) , Edizioni cinque lune, Roma 1973. L’amministrazione di Abbadia fu l’ultima giunta socialista amiatina a rassegnare le proprie dimissioni (15 settembre 1922). 12 M. MEARINI, Partiti di sinistra e organizzazioni dei lavoratori dell’Amiata dalla fine del secolo all’avvento del Fascismo (1890-1920) , Tesi di laurea, Università di Firenze, a.a. 1980-81, p. 377. 13 Idem, p. 433. 14 Cfr. M. MAMBRINI, L. NICCOLAI, M. PAPALINI, Un secolo di storia sociale. 15 F. DOMINICI, Cent’anni di storia Sorano 1860-1960 , Stampa Alternativa, Roma 2001, p. 111. 16 Ivi . Il dato provinciale del PPI era molto più basso: 10%. 17 P.V. MARZOCCHI , Op. cit., p. 77. 18 Citato in F. AVANZATI, Gente e fatti dell’Amiata , La Pietra, Milano 1989, pp. 81-82. 19 Testimonianza di Corrado Bisconti, pubblicata in F. AVANZATI, Op. cit p. 83. 20 F. AVANZATI, Op. cit ., p. 93. 21 F. DOMINICI, Op. cit, p. 111. 22 Ivi, p. 105. 23 AA.VV., La miniera di Mercurio di Abbadia San Salvatore , Alsaba, Siena 2002, p. 182. 24 Idem , pp. 215-216. 25 Cfr. M. RUFFINI, S. VITALI, Op. cit . 26 L’arresto di un comunista che svolgeva il lavoro clandestino delle cellule di Partito a livello nazionale, portò alla scoperta (19 settembre 1930), e alla successiva incriminazione, di gran parte (alcuni scamparono all’arresto e continuarono l’attività clandestina) del gruppo comunista composto da Aristeo Banchi, Elio Bianchi, Benedetto Visconti, Francesco Ghilardi, Alessandro Fabbrini, Corrado Forti. Secondo Avanzati, anzi, “negli anni 1929-1930 furono costituite ben 7 cellule, ciascuna delle quali composta da 5 membri, con un comitato direttivo che sovrintendeva anche al Soccorso rosso per aiutare materialmente e moralmente le vittime della reazione fascista. Militanti furono reclutati a Vivo d’Orcia, a Campiglia d’Orcia, a Santa Fiora (dove fu costituita una cellula) e in altre località amiatine”. Cfr. F. AVANZATI, Op. cit ., p. 135. 27 O. STRAPPA, Storia delle miniere di mercurio del Monte Amiata , Estratto da “Industria mineraria”, 1977, p. 24. 28 Ivi , p. 25 29 O addirittura si trovarono alla testa, come sostiene AVANZATI, Op. cit ., p. 127. 30 Cfr. M. RUFFINI, S. VITALI, Op. cit ., p. 212. 31 Idem , pp. 212-213. 32 Idem , p. 213. 33 Con il nome di battaglia di “Faro” sarebbe diventato il comandante del VII Distaccamento “Ovidio Sabatini” della Brigata partigiana garibaldina “Spartaco Lavagnini”. 34 AA.VV., La miniera ecc ., cit., p. 198. 35 CAPECCHI, testimonianza in F. AVANZATI, Op. cit ., p. 220. 36 Mi riferisco, in particolare, alla pubblicazione delle Schede del Casellario giudiziario fatta da Ivan Tognarini nel volume G. MAIOCCO, S. e S. MAMBRINI, I. TOGNARINI, La miniera di mercurio di Abbadia San Salvatore ,

Resistenza e minatori Il caso grossetano Adolfo Turbanti Isgrec, Grosseto

Una premessa (pensando a Ernesto Balducci) Sappiamo che il tempo della storia non sempre coincide con il tempo cronologico, perché non è solo il calendario a scandirlo ma anche la nostra percezione dei legami che uniscono il presente al passato. La stessa cosa accade per la memoria. Non so quanto possa giovare alla comprensione del passato proclamare, ad ogni fatto che provoca emozioni profonde e largamente condivise, la fine di un’epoca, e l’inizio di un’altra diversa da tutte le altre che l’hanno preceduta. Accade tuttavia che avvenimenti tragici e inimmaginabili, come quello recente di Madrid, come il precedente dell’11 settembre 2001, facciano di colpo allontanare nel tempo eventi significativi della nostra storia, che pure fino a quel momento ci erano apparsi vicini, perché intrecciati al nostro presente: alla nostra idea di presente. Ad un tratto i punti di riferimento del nostro passato sembrano perdere la loro capacità di strumenti idonei a interpretare il presente e a orientare il futuro; sembrano retrocessi in un’altra epoca. Anche gli eventi che qui si rievocano, la resistenza, la storia dei minatori, possono subire questa sorte. Non è il trascorrere oggettivo degli anni a provocare tutto ciò, o almeno lo è in minima parte: piuttosto vediamo emergere un mondo che ci disorienta e ci costringe a immergerci in una storia che non riconosciamo più come la nostra storia. Le fratture traumatiche che l’Occidente ha vissuto nel Novecento, per quanto fossero distruttive, restavano comunque tutte dentro alla sua storia. La stessa guerra del Vietnam, pur riguardando un paese dell’estremo oriente, è stata una tragedia occidentale: si potevano stabilire solidarietà internazionali, addirittura, a migliaia di chilometri di distanza, ci si poteva identificare con il vietcong. L’emergenza che abbiamo di fronte invece non lo consente; ma non perché non si trovi in Occidente chi potrebbe volerlo. Il rifiuto, di cui il terrorismo è una manifestazione devastante ma, per fortuna, minoritaria, riguarda globalmente la nostra storia e la nostra civiltà: non prevede distinzioni. Il rifiuto coinvolge insomma la nostra stessa possibilità di scegliere. Non è questa libertà del resto un elemento costitutivo della civiltà dell’Occidente? Non è il fondamento della politica? Siamo dunque in un vicolo cieco.È il vicolo cieco in cui l’Occidente si è cacciato e da cui invano cerca di uscire mettendo in campo le sue tecniche più sofisticate. Tecniche di politica e tecniche di guerra: tecniche che ogni giorno di più si dimostrano inefficaci, anzi controproducenti, nella misura in cui accelerano il corto circuito tra le masse che subiscono dall’Occidente ingiustizie e quanti si sono messi sulla via del rifiuto globale e dell’odio senza distinzioni. In questa situazione non resta che enunciare una convinzione, una speranza: l’Occidente ha in sé le energie per tentare strade diverse fondate sulla libertà e sulla pace; sulla tolleranza e sul dialogo, sulla comprensione e sulla condivisione: sulla politica intesa non come semplice tecnica del potere, ma come progetto collettivo per il futuro. Queste energie, questi valori, sono patrimonio dell’Occidente, ma derivano all’Occidente essenzialmente dalla storia delle sue classi subalterne, che è parte integrantee, alla fine, non divergente di quella storia. Solo se l’Occidente tornerà a orientare su quei valori i propri comportamenti, riscoprendo così il senso della propria civiltà, potrà sperare di stabilire una comunicazione con chi si sente diverso e tale vuole rimanere. Ecco dunque un motivo possibile, dopo Madrid, per continuare a narrare le storie delle classi subalterne in Occidente, quindi anche della Resistenza e dei minatori, per ritrovare la nostra storia.

Una breve stagione Per esporre il “caso grossetano”, mi soffermerò su un episodio della guerra di liberazione avvenuto nella zona delle Colline metallifere: il sabotaggio del castello del pozzo di estrazione Baciolo della miniera di Boccheggiano. Perché un solo episodio? Bisogna dire che non ne sono avvenuti molti nel nostro territorio che mostrino un rapporto diretto tra la miniera, intesa come luogo della produzione, come organizzazione produttiva, e la guerra di liberazione. Ne ricordo un altro, che riguarda Abbadia S.Salvatore: l’esecuzione di un sottufficiale tedesco adibito al controllo della produzione in quella miniera ( 1) . Può darsi che l’allargamento della ricerca archivistica (quella sulle fonti orali può considerarsi conclusa) allunghi la lista degli avvenimenti di questo genere. Ricordo che archivi importanti, come quello del CLN provinciale, conservato nella sede dell’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, attendono ancora di essere studiati a fondo. Si deve comunque tenere presente che la resistenza nella Toscana meridionale è un evento che si esaurisce in pochi mesi: le bande partigiane, che pure furono numerose, divennero pienamente operative solo tra l’inverno e la primavera del 1944; di lì a poco, nel mese di giugno con il passaggio del fronte ebbe fine la loro esperienza. Una breve stagione dunque, anche se sufficiente a creare seri problemi di carattere militare ai tedeschi e ai fascisti in ritirata: le prime vere difficoltà attribuibili non alle truppe regolari alleate ma alla resistenza italiana. Verso la fine di quella stagione, avvenne la strage dei minatori di Niccioleta. Ad essa dedicherò una breve riflessione al termine di questo intervento, ma osservo intanto che essa si colloca su un cerchio più ampio rispetto a quello della lotta armata, riguardando persone che con le bande partigiane avevano in ultima analisi scarsi legami. Una tendenza, tra gli storici, allarga il concetto di resistenza fino a comprendere gran parte della popolazione del nostro paese, che, di fronte alla guerra guerreggiata in casa, maturò rapidamente il rifiuto del regime che di quella tragedia era il re sponsabile diretto (2) . Fu questa maturazione, probabilmente, l’esperienza collettiva decisiva, quella su cui si fondò in seguito, per alcuni decenni, la democrazia italiana. Credo tuttavia che qui valga la pena di concentrare l’attenzione sul cerchio più ristretto: quello appunto della lotta armata. È da questo, del resto, che si produssero concentricamente gli altri, quello dell’appoggio logistico alle bande, quello della copertura politica e istituzionale (la rete dei CLN), fino all’antifascismo di massa. Senza la lotta armata, la rabbia verso chi aveva condotto l’Italia al disastro sarebbe rimasta un fenomeno privo di identità politica, né vi sarebbe stata assunzione di responsabilità autonome nella conduzione della vita civile, come invece ci fu sia nella fase dell’occupazione tedesca, sia successivamente nei confronti degli alleati. Non è detto però che i partigiani godessero di unanime consenso tra la popolazione civile che pure era giunta alla rottura con il fascismo. D’altra parte tutte le forze politiche antifasciste avvertirono l’esigenza di essere presenti nella lotta armata. Per quanto resistenza armata e resistenza non armata siano quindi collegate, esse non sono la stessa cosa e richiedono analisi distinte (3) . Il primo elemento da tenere presente è dunque la brevità della resistenza armata nella Provincia di Grosseto, mentre nel nord ci fu più tempo per consolidare rapporti con le città, con i paesi e con le fabbriche.

La miniera: sabotaggio o salvataggio? Sul sabotaggio del pozzo Baciolo ho trovato due racconti e una relazione tecnica, che muovono da tre diverse prospettive: quella dei partigiani che posero le mine, quella dei minatori di Boccheggiano che lavoravano in quel pozzo e vivevano in quel territorio e quella della Montecatini.

Ci preparavamo a calare su Montieri, quando all’alba del 18 marzo fummo svegliati da potenti boati che scossero l’alta val di Merse e la val di Cecina. Capimmo subito che Franco, Pentolo, Giannino, Marcello, Cicca, Colle e gli altri compagni del distaccamento di Fogari finalmente erano riusciti: come ci fu confermato il giorno stesso, la miniera di Boccheggiano non avrebbe prodotto pirite per un bel pezzo e i suoi vagoncini non sarebbero più arrivati al Puntone di Follonica per finire portati in Germania.

Questo è ciò che ricorda Fortunato Avanzati, comandante della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini” (4) . Quella che segue è invece una conversazione tra Anuello Lorenzoni e Bandino Pimpinelli, registrata a Boccheggiano nel 1996 da Gloria Giacobetti:

Lorenzoni: Ma la notte che doveva saltà il castello di Baciolo? Pimpinelli: Si faceva le azioni partigiane, capirai partigiani non c’erano a Boccheggiano , ma ci s’era noi della cellula. Lorenzoni: E insomma quella notte ci fu un gran botto, e la mattina dovevo andà al lavoro, e ti vidi (Bandino) che entravi anche te con Ideale, io ero lì che levavo quei vetri rotti. Giacobetti: E la notte avevate fatto saltare il castello? Pimpinelli: No non s’era stati noi, ognuno aveva la su’ funzione. L’azioni le faceva quelli della macchia che ricevevano le informazioni e gli ordini da noi. Loro non si sapeva chi fossero, arrivavano, facevano quello che dovevano fare e scomparivano (5) . Questa infine la segnalazione alquanto sbrigativa che si legge in una relazione della Montecatini, all’indomani del passaggio del fronte: “La miniera di Boccheggiano ha potuto restare indenne negli impianti, salvo alcune demolizioni che si possono riparare” (6) È difficile stabilire, riguardo alla valutazione dei danni effettivi, quale versione sia la più attendibile, dal momento che i tre resoconti sono dettati ciascuno da motivazioni diverse e si rivolgono a interlocutori diversi in tre momenti ben distinti, a distanza di molti anni uno dall’altro. È comprensibile ad esempio che la Montecatini, o meglio la dirigenza locale del gruppo, poiché i contatti con la direzione centrale di Milano erano interrotti, tendesse a minimizzare le conseguenze negative delle azioni partigiane a confronto dei danni provocati dai tedeschi, credendo forse di adeguarsi così al mutato clima politico. L’enfatizzazione di quelle azioni e dei loro esiti poteva invece inquadrarsi, trent’anni dopo, nella polemica aperta in quel periodo dai gruppi collocati alla sinistra del Partito comunista italiano, che su alcuni temi, come appunto l’antifascismo, mirava a incrinare la compattezza di quel partito. L’episodio rimanda comunque al problema generale del rapporto tra sabotaggio e difesa degli impianti industriali che è una costante nel movimento di resistenza. Claudio Pavone si sofferma su “questo groviglio, che era insieme politico e morale” osservando che “il sabotaggio […], che colpiva insieme e i tedeschi e i padroni, se condotto fino in fondo contrastava con l’obiettivo del salvataggio degli impianti”. Per questo motivo gli appelli al sabotaggio “incontra[va]no critiche in alto e perplessità alla base” (7) . Si può comprendere come quel rapporto si presentasse in modo diverso a seconda delle fasi della vicenda bellica. Fino a quando i tedeschi ebbero il pieno controllo sulla produzione industriale, poté sembrare un’azione anti-tedesca qualsiasi intervento teso a contrastare il regolare svolgimento del processo produttivo. Con l’inizio della ritirata e all’approssimarsi del fronte, divenne invece prioritario sottrarre le attrezzature e i macchinari alla distruzione sistematica che le truppe in fuga mettevano in atto allo scopo di impedire agli alleati di trarre vantaggio dalla capacità produttiva ancora esistente. Più che le esigenze strategiche immediate dovettero contare tuttavia, già in quel periodo, le preoccupazioni riguardo alle difficoltà che si sarebbero incontrate nella fase di ricostruzione. Schematizzando, si può parlare insomma di un difficile passaggio dal sabotaggio alla difesa degli impianti, passaggio che in Maremma si presenta più confuso che altrove, dati i tempi ristretti entro cui necessariamente si sviluppò (8) . Sull’obiettivo del salvataggio degli impianti si trovarono uniti dirigenti delle miniere e operai e i risultati furono apprezzabili, visto che le demolizioni da parte dei tedeschi furono tutto sommato limitate. Problemi maggiori derivarono dall’interruzione dell’erogazione di energia elettrica a causa della distruzione della centrale di Larderello che forniva elettricità a tutto il bacino minerario. L’allagamento della maggior parte delle miniere non poté essere evitato e non restò altro da fare che mettere in salvo i macchinari che si trovavano nel sotterraneo: questa volta non dai tedeschi, ma dall’acqua che, non funzionando le pompe, invadeva progressivamente pozzi e gallerie. Talvolta le direzioni aziendali adottarono esse stesse forme di sabotaggio. Questo accadde ad esempio nelle miniere della Monte Amiata, dove la limitazione della produzione fu dovuta, come dovunque, a mancanza di materie prime e manodopera, ma anche alla decisione della società di danneggiare i pozzi per impedire, per quanto possibile, che i tedeschi si appropriassero del mercurio prodotto (9) La problematica del salvataggio degli impianti, che pure è decisiva, perché su di essa si fonderà il cosiddetto “produttivismo” e la stessa esperienza dei Consigli di gestione nella successiva fase di ricostruzione, rimase estranea al movimento partigiano in Maremma. Con l’atto di sabotaggio, compiuto a Boccheggiano nel modo più clamoroso possibile, sembra quasi che la resistenza avesse esaurito il proprio compito rispetto all’ambiente industriale. Eppure non sembra che il comandante della Spartaco Lavagnini volesse limitarsi alla testimonianza o alla propaganda quando, all’inizio dell’attività della brigata, aveva posto esplicitamente l’obiettivo del coinvolgimento dei minatori: “Insistei su un punto già discusso e concordato al momento della creazione del distaccamento: il problema dei minatori e della miniera di Boccheggiano” (10). La resistenza si assunse, non senza quella “perplessità alla base” di cui parla Pavone, il compito del sabotaggio, ma non fu in grado, oppure le fu impedito, di compiere il passaggio successivo. Prevalse insomma una sorta di divisione dei ruoli, in verità non sempre lineare né pacificamente accettata, tra l’apparato militare, che almeno nella “Lavagnini” aveva raggiunto un’apprezzabile strutturazione, e l’apparato politico, che il movimento operaio cercava faticosamente di definire calibrando le spinte spontanee, i richiami alla tradizione e le esigenze di raccordo e di coordinamento.

Minatori e partigiani L’impressione che si ricava dalla testimonianza che sopra ho riportato, è di una separazione piuttosto netta tra minatori e partigiani, motivata sicuramente dalle esigenze della clandestinità e attenuata appena dalla necessità di passare informazioni sulla miniera per consentire la posa delle mine sul traliccio. Certo è che l’affermazione: “partigiani non c’erano a Boccheggiano” non corrisponde alla realtà e viene subito dopo parzialmente contraddetta dagli stessi intervistati. La “Spartaco Lavagnini” ebbe infatti un distaccamento in quella zona, l’8°, che tuttavia, per ammissione dello stesso Avanzati, “agiva […] in modo autonomo” (11). Questo coincide con un’altra testimonianza trascritta nel bel lavoro di Gloria Giacobetti. L’intervistato questa volta è Bino Malossi:

Malossi: […]Qui c’era una brigata autonoma. Giacobetti: E come si chiamavano? […] Malossi: […] Si chiamavano Brigata Autonoma Amiata, erano collegati con quella del Monte Amiata, questa era una formazione un po’ anarcoide. Ma questi erano autonomi, per qualcosa dipendevano dall’Amiata ma per la gran parte no (12) .

Nella stessa intervista Malossi racconta di come venne concordato con gli inglesi un lancio di armi destinate ai partigiani di Boccheggiano e come questi, in almeno due occasioni, si trovarono ad affrontare fascisti e tedeschi. Anche le altre informazioni che emergono nella conversazione con Lorenzoni e Pimpinelli, a proposito della banda di Boccheggiano, confermano da una parte una certa difficoltà di integrazione tra l’organizzazione militare della resistenza e la realtà locale, e dall’altra la mancanza di un coordinamento efficiente anche dal punto di vista politico tra il distaccamento e il comando della brigata:

Lorenzoni: Invece questa formazione partigiana era chiamata “Undicesima banda autonoma raggruppamento Amiata”, come dirigente ci s’aveva un tenente dei carristi e un certo Battistelli di Follonica, ma poi si fece tutto da noi. Pimpinelli: Quelli vennero qui pensando che s’era chioccoli [ sic ], ma erano loro chioccoli, erano monarchici, e invece vennero e come s‘affiancarono a noi per essere organizzati. Lorenzoni: E insomma ci hanno decorato per questa formazione. Giacobetti: Quindi quando sono arrivati gli alleati voi qui vi eravate già liberati da soli? Pimpinelli: Non solo, s’era già aperto anche la sezione del partito. […]

Mauro Tognoni, in seguito dirigente di spicco del Pci, ricorda contatti con altre formazioni partigiane avvenuti prima dell’episodio del pozzo Baciolo. Egli stesso, insieme con un gruppo di altri giovani boccheggianesi renitenti alla leva, fu accompagnato da alcuni compagni più anziani, tra i quali suo fratello Ideale, al , dove si trovava la base della formazione di Mario Chirici ( 13) . Dopo lo sbandamento, seguito al rastrellamento avvenuto in quella zona il 16 febbraio, di cui molto si è in seguito discusso, il gruppo tornò nei pressi di Boccheggiano, dove, a quanto riferisce Tognoni, operavano altre unità partigiane formatesi nel frattempo. Questa pluralità di gruppi dall’identità politico-militare non sempre definita, è probabilmente all’origine di una certa confusione che si nota nei ricordi dei testimoni. Tognoni formula alcune valutazioni critiche, che, al di là delle responsabilità personali rilevabili in questo e quell’episodio, spiegherebbero “leggerezze” ed “errori tattici” compiuti dalle formazioni che operarono sulle Colline metallifere. La scarsa esperienza militare dei quadri politici, unita alla difficoltà, da parte dei comandanti provenienti dalle forze armate, di adeguarsi alle modalità specifiche della guerra per bande, condusse a gravi sconfitte come fu appunto quella del Frassine, dopo le quali tuttavia le formazioni seppero riorganizzarsi fino a rappresentare, grazie al numero di effettivi e anche alle armi finalmente fornite dagli alleati, un avversario di tutto rispetto per le truppe tedesche e repubblichine. Alle valutazioni di Tognoni, che si riferiscono in realtà all’intero movimento partigiano, se ne possono aggiungere altre più attinenti alla situazione locale. Tra le diverse bande presenti, la brigata “Spartaco Lavagnini” rimase la più numerosa, la meglio organizzata e quella più caratterizzata politicamente; tuttavia, nonostante le intenzioni dei suoi dirigenti, si mantenne sempre ai confini del comprensorio minerario, senza riuscire a consolidare in profondità la sua presenza. Il motivo principale fu sicuramente la distanza dai luoghi (Siena e Abbadia San Salvatore) in cui quell’esperienza partigiana era stata concepita, da cui riceveva il sostegno politico e organizzativo e verso cui era destinata perciò a gravitare. Contò anche la maggiore complessità politica del comprensorio delle Colline metallifere rispetto al Monte Amiata e forse anche rispetto a Siena. La componente repubblicana era qui ancora una realtà non trascurabile anche tra gli operai e i repubblicani non erano certo disposti a tollerare una esplicita egemonia comunista, come quella verso cui la “Spartaco Lavagnini” nettamente propendeva. La scissione che avvenne nella formazione comandata dal repubblicano Chirici mostra proprio questa situazione (14) . Del resto gli stessi comunisti di Boccheggiano, Massa Marittima e dei paesi vicini, come si nota dalle testimonianze riportate, erano alquanto gelosi della propria autonomia, fino al punto di prendersi un po’ gioco dei partigiani venuti da fuori, anche quando questi godevano di grande prestigio, sia per le capacità militari, sia per il fatto di avere un contatto più stretto con il centro dirigente del partito, com’era appunto il caso della “Spartaco Lavagnini” e del suo comandante. A questo proposito è indicativo un curioso episodio narrato da Aristeo Banchi (Ganna). Egli aveva avuto l’incarico dal Comitato militare di Grosseto di prendere contatti con i partigiani che avevano posto la propria base nella macchia del Belagaio (si trattava appunto della “Lavagnini”):

Insieme arrivammo alla macchia del Belagaio: qui, nascosta la moto, cominciammo una faticosa camminata a piedi fino a uno spunzone di roccia, che dominava la valle dell’Anso. Sul cucuzzolo stava di guardia un giovane partigiano armato. Con facilità lo aggirammo e, senza che egli se ne accorgesse, giungemmo alle sue spalle. “Ehi! - gli gridai, facendolo sobbalzare - E meno male che facevi la guardia!”. Poi gli spiegai che volevamo incontrare il suo comandante (15) .

Accadde quindi che il Banchi e il suo compagno fossero presi per spie e ricevessero il trattamento del caso, fino a quando non intervenne lo stesso Avanzati. Ganna aggiunge che:

Nei mesi seguenti la formazione di Viro [nome di battaglia di Fortunato Avanzati] ebbe più di un’occasione per collaborare con la Gramsci di Roccastrada, anche se – a onor del vero – non mancarono incomprensioni e screzi di una certa gravità, riconducibili soprattutto al Pecci [commissario politico della Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci”], che era uno stravagante e aveva un carattere molto difficile (16 ).

Complessità politica del territorio e desiderio di autonomia: due facce della stessa medaglia, cui non era estranea una vena insopprimibile di anarchismo, assente invece nell’esperienza amiatina e che doveva essere giudicata con grande severità da dirigenti, come l’Avanzati, che avevano ricevuto una formazione politica di stretta osservanza terzinternazionalista (17) . Ho accennato dunque ad alcune ragioni che possono spiegare le difficoltà a un radicamento più profondo della lotta armata per bande nel comprensorio delle Colline metallifere: la brevità del tempo a disposizione, le distanze geografiche, la presenza di tendenze politiche variegate, la difesa dell’autonomia decisionale e organizzativa. Bisogna inoltre considerare che il lavoro in miniera aveva consentito a molti di evitare l’arruolamento e aveva permesso quindi di vivere un po’ da lontano, rispetto a chi era sotto le armi, il dramma dell’8 settembre. Mancò, o non fu presente come in altro luoghi, quella spinta a prendere le armi contro i tedeschi manifestata spesso da chi aveva avuto una qualche esperienza militare e in particolare da chi aveva sperimentato lo sbandamento seguito all’armistizio ( 18) . Naturalmente si presentò ben presto, per i più giovani, il problema dell’arruolamento nella RSI e qui, come ovunque nelle regioni occupate dai tedeschi, la renitenza alla leva fu la fonte principale di reclutamento della resistenza. Tenendo presente tutto ciò, si deve riconoscere che alla resistenza armata sfuggì il cuore della realtà economica e sociale di quel territorio: la miniera, come luogo della produzione, sistema di potere industriale e fulcro dei rapporti sociali fu sottratta all’intervento dei partigiani e mantenne sostanzialmente inalterate la gerarchia di comando e le stesse modalità delle dinamiche conflittuali. Le direzioni delle miniere conservarono insomma il controllo delle unità produttive, adottando quella flessibilità che, se già allora fu considerata opportuna, di lì a pochi mesi si sarebbe mostrata indispensabile, per assorbire rapporti di forza effettivamente mutati, se non addirittura rovesciati, sul piano delle relazioni sociali sul territorio. Il movimento operaio dei minatori individuò del resto nella permanenza della struttura direzionale delle aziende la garanzia per una sollecita ripresa del lavoro e della produzione, tant’è vero che gli stessi episodi di epurazione furono poi isolati e si rivolsero prevalentemente verso i quadri medio-bassi della gerarchia locale. Su questo terreno i partigiani non ebbero possibilità di intervenire; si può dire che essi contribuirono a creare le condizioni affinché il movimento dei minatori emergesse e tornasse ad operare, ma di fatto vi fu una sorta di divisione dei compiti. Il blocco completo della produzione avvenne quando ormai il fronte era vicino: fino a quel momento gli apparati direzionali svolsero il loro compito, nonostante le difficoltà derivanti dalla mancanza di materiali e dalla mancanza di operai, sfollati in gran parte con le loro famiglie verso luoghi ritenuti più sicuri. Subito dopo si pose il problema della ricostruzione e di una rapida ripresa produttiva. La linea prevalente su cui si mosse il movimento operaio fu dunque quella del produttivismo e della collaborazione. Essa cominciò ad essere tracciata ancor prima della liberazione, quando la stagione del sabotaggio era già sfumata e con essa ogni possibilità, da parte della resistenza armata, di incidere in qualche modo all’interno della miniera. Il rapporto tra lotta di liberazione e lotta di classe, che, come ha mostrato Pavone, costituisce uno dei principali criteri interpretativi della Resistenza ( 19) , trovava dunque in Maremma, riguardo almeno ai minatori, quella soluzione.

Il nemico di classe: le direzioni delle miniere Merita una riflessione il processo che condusse il personale dirigente della Montecatini a cambiare atteggiamento nei confronti degli operai e anche delle loro organizzazioni, man mano che queste venivano alla luce e si diffondevano. Si tenga presente che si veniva da una situazione in cui l’organizzazione della Montecatini era perfettamente integrata con il regime fascista, non solo in riferimento alla politica economica, ma anche al ruolo sociale dell’impresa e al modo in cui questo era perseguito. Basta pensare al modello del villaggio minerario, di cui si ebbero in Maremma alcuni esempi, che esprimeva un’ideologia del tutto coerente con il corporativismo fascista, i cui caratteri prevalenti erano da una parte il paternalismo e dall’altra il pieno controllo sui rapporti di lavoro e sulla vita sociale. Oltre ai motivi generali legati all’andamento della guerra e alla manifesta incapacità del regime di governare quella situazione, che in breve tempo condussero gran parte della popolazione italiana a cambiare opinione riguardo al fascismo, dovette essere decisiva l’esperienza specifica della invadenza tedesca nella gestione produttiva, che fu vissuta non solo come un’evidente negazione del patriottismo fino ad allora professato, ma anche come aperta sconfessione del ruolo e del prestigio sociale di cui le direzioni di miniera avevano ampiamente goduto. Sul direttore della miniera di Niccioleta, ad esempio, il CLN di Massa Marittima espresse un giudizio tutt’altro che negativo, sottolineando che pur essendo stato squadrista non aveva aderito alla RSI e anzi aveva fornito esplosivi e materiali alla lotta antifascista e antitedesca. “In opposizione alle disposizioni delle forze armate tedesche – così si espresse il CLN – ha occultato salvandoli dalla rapina e dalla distruzione, macchinari, impianti, e materiali preziosi per l’efficienza della miniera” (20) . La stessa direzione centrale, del resto, di cui erano noti gli strettissimi legami con le gerarchie fasciste ai massimi livelli, tentò di prenderne infine le distanze e di aprire vie di dialogo con il fronte opposto (21) . Ciò non valse, com’è noto, ad evitare l’epurazione a Donegani con gravi conseguenze per la sua persona, ma lanciò sicuramente un segnale preciso ai dirigenti periferici. La costituzione a Roma di una seconda Direzione centrale rappresentò infine, per le aziende maremmane, una sicura garanzia di continuità. È interessante il confronto con la situazione della maggiore società mercurifera, la Monte Amiata, perché in quel caso la nuova linea fu resa ancora più esplicita. Il cambio della guardia alla direzione generale, avvenuto nel marzo 1943, predispose il terreno ad accogliere le novità che di lì a poco si sarebbero determinate nel quadro politico nazionale (22) . I lavoratori furono riconosciuti come soggetto contrattuale e tale condizione non venne meno neppure durante i mesi dell’occupazione tedesca. “ D’altra parte – sottolinea Luciano Segreto – la società offrì aiuti concreti alla resistenza, fornendo esplosivi, prodotti medicinali e garantendo assistenza ai partigiani e ai lavoratori che si erano allontanati dal lavoro per entrare a far parte della Brigata Garibaldi «Spartaco Lavagnini»” (23) .

Dopo la liberazione la miniera poté riaprire entro breve tempo, grazie anche qui alla collaborazione offerta dagli operai e alle assunzioni di un buon numero di partigiani concordata tra il CLN e la Direzione. Non vi furono neppure difficoltà ad accogliere le proposte di allontanamento degli iscritti al PNF e di esclusione dai rapporti con le maestranze del vice-direttore, che ricopriva quel ruolo fin dai tempi della più rigida politica anti-operaia.

Scioperi o manifestazioni di piazza? La maggiore disponibilità della direzione della Monte Amiata nei confronti dei suoi operai, anche nella forma del supporto concreto alla lotta armata, spiega forse, almeno in parte, la migliore integrazione della resistenza nella realtà mineraria amiatina. Essa rafforza tuttavia l’impressione che, anche qui, la modalità principale di tale integrazione fosse quella della collaborazione piuttosto che del conflitto. Le manifestazioni più esplicite di antifascismo si svolsero infatti sulla scena del paese, più che su quella della miniera. Avanzati ricorda ad esempio che “in occasione degli scioperi del marzo 1944, organizzati dal Partito comunista” la popolazione di Abbadia diede vita ad un movimento di protesta “per reclamare l’aumento della razione del pane”. “La lotta – continua Avanzati – culminò nella grande manifestazione del 4 marzo che vide un migliaio di donne, più numerosi giovani e minatori riversarsi nelle strade, portarsi davanti al Comune e invaderlo al grido di «Pane, pane!»”. “Anche se la gente gridava solo “Pane!” – conclude – era chiaramente una esplosione di collera proletaria e di odio contro fascisti e tedeschi” (24) . Già nei mesi precedenti si erano avute del resto ad Abbadia esplosioni di protesta popolare e altre si verificarono successivamente. Secondo Avanzati le manifestazioni delle donne badenghe ebbero grande importanza per la ripresa e il rafforzamento del movimento partigiano in tutta la provincia di Siena (25) . Non si può fare a meno di notare però che, mentre nelle zone industriali del nord gli scioperi del marzo 1944 fecero delle fabbriche luoghi di resistenza e furono il vero segnale dell’adesione della classe operaia alla lotta di liberazione, qui fu la sollevazione del paese a svolgere questo ruolo, tant’è vero che non vi fu sciopero in senso proprio (26) . Uno sciopero c’era stato invece nel massetano l’estate precedente:

Lorenzoni: […] quando si fece lo sciopero per la pace, perché Badoglio disse: “La guerra continua”. E noi invece si proclamò lo sciopero perché si voleva la pace. E si partì in corteo tutti gli operai dai pozzi. Pimpinelli: Ci si trovò a Rigagnolo, perché si voleva fa’ smette anche quelli della laveria, perché loro non si erano fermati. Si arrivò laggiù e si trovò i carabinieri. C’era anche il mi’ babbo, che era il vecchio sindaco del passato e corse dai carabinieri laggiù a Rigagnolo e gli disse: “Non fate ride più nessuno perché ora non è più tempo”. […] Lorenzoni: Ma quelli arrestarono due o tre compagni (27).

Maggiori notizie su quello sciopero si trovano nel libro di Katia Taddei su Niccioleta (28) . Fu un’iniziativa importante che dimostrò la capacità dei comunisti di stabilire un solido collegamento tra un tema tradizionale del movimento operaio italiano, qual è quello della pace, le emergenze di una difficile situazione politica e la tendenza spontanea della popolazione, alimentata dalle sofferenze che la guerra aveva provocato, a esprimere il proprio disagio. In quell’occasione la miniera fu effettivamente coinvolta, ma su un tema generale esterno ad essa. D’altra parte la sintonia allora realizzata tra il movimento spontaneo e gli obiettivi politici generali dell’antifascismo non tornò a riprodursi con pari intensità e chiarezza, come si è visto e come del resto era logico aspettarsi, nella fase successiva della lotta armata.

I contadini: un paradosso Tutto sommato il rapporto della resistenza con i contadini fu più facile: in particolare con i mezzadri. Non solo i poderi sparsi nella campagna costituirono le basi di sostegno delle bande partigiane, ma il problema degli approvvigionamenti alimentari consentì un rapporto costante fra partigiani e contadini che si risolse il più delle volte in una estensione e in un consolidamento della rete di solidarietà alla resistenza. Non di rado, per questa via, i partigiani riuscirono a intervenire nei rapporti con i proprietari imponendo soluzioni favorevoli ai mezzadri. In questo caso si ebbe quindi una presenza reale su problemi legati alla produzione materiale, attorno ai quali ruotava l’organizzazione sociale dell’agricoltura. L’ operaismo , a cui i capi partigiani comunisti aspiravano in virtù della formazione che avevano ricevuto al confino, fu nei fatti sopraffatto a causa della capacità, che essi stessi seppero fornire alle bande, di muoversi e di operare nella campagna appoderata Questo è uno dei paradossi dell’esperienza partigiana tra le province di Siena e Grosseto: uno dei tanti casi in cui i fatti finiscono per tradire le intenzioni, che ebbe però un grande peso per le vicende politiche del dopoguerra.

Niccioleta Benché non si verificasse un pieno coinvolgimento dell’ambiente industriale maremmano, inteso come luogo e come sistema organizzativo della produzione, nella lotta armata, ovvero, dalla prospettiva opposta ma equivalente, non ci fosse adeguata penetrazione della lotta armata in quell’ambiente, il cerchio della solidarietà attorno alla resistenza si allargò rapidamente. alla campagna il sostegno materiale ai partigiani si estese ai paesi minerari, a partire, com’è ovvio, dal rifiuto di massa opposto dai giovani e dalle loro famiglie al reclutamento di Salò. Nei paesi, soprattutto, si consolidò la copertura politico-istituzionale al movimento partigiano, rappresentata dalla rete dei CLN. Su questo cerchio di più ampio raggio si scatenò l’azione repressiva e dissuasiva dei tedeschi e dei fascisti, adottando quella strategia di “guerra ai civili”, che puntualmente si è presentata in tutte le guerre succedutesi da allora fino ad oggi. L’intenzione era quella di creare “terra bruciata” attorno alle bande partigiane, nel tentativo di impedire il reclutamento, di spezzare la solidarietà e di deviare verso di esse, secondo la logica distorta della rappresaglia, le responsabilità delle atrocità commesse. Che la maggiore di queste atrocità sia avvenuta a Niccioleta non è casuale, mentre è evidente che i motivi allora addotti non erano altro che pretesti. Se obiettivo della Resistenza, nella sua versione operaista , fu il coinvolgimento dei minatori, non c’è da stupirsi che proprio questo esito fosse temuto da fascisti e tedeschi e che essi si adoperassero per scongiurarlo. A Niccioleta si presentò l’occasione buona per incidere a fondo nel rapporto fra guerriglia e popolazione civile: un’occasione “facile”, dal momento che quel rapporto era ancora lontano dall’essere consolidato in termini di organizzazione militare; un’occasione da cogliere subito, perché, qualora quel rapporto si fosse consolidato, avrebbe rappresentato una minaccia considerevole per i tedeschi e soprattutto un esempio per gli altri paesi minerari. Anche dal punto di vista geografico l’isolamento di Niccioleta rendeva più facile l’operazione mentre la sua omogeneità sociale poteva esaltarne il carattere esemplare. Un’azione, insomma, di “guerra preventiva”, come si direbbe oggi, rivolta contro civili, anzi contro un villaggio esattamente individuato e una categoria di lavoratori ben definita: contro un universo sociale il cui grado di pericolosità era da considerare evidentemente molto elevato. Un’azione che può essere interpretata come estrema tattica difensiva o, all’opposto, come momento di una strategia di attacco, nell’ipotesi che la resistenza armata avesse bisogno vitale del villaggio minerario come supporto logistico e comunque non potesse sussistere senza il sostegno della popolazione: colpita alle radici, la resistenza armata si sarebbe inevitabilmente inaridita. È curioso constatare che il “villaggio operaio”, la realizzazione sociale di cui in Maremma il regime e la Montecatini avevano menato il maggior vanto, esempio di tranquilla operosità e di pace sociale (29) , incarnasse ora la minaccia maggiore, agli occhi almeno di quanti ancora continuavano a illudersi riguardo alle sorti della guerra. La strage non fu infatti un atto sconsiderato, dettato dalla disperazione sotto l’incalzare del nemico, ma fu un’iniziativa meditata, compiuta da un esercito ancora efficiente, in vista di un rovesciamento dell’andamento della guerra. Niccioleta resta dunque il simbolo della partecipazione dei minatori alla resistenza, nonostante che né le vittime né l’intero paese avessero legami diretti e stabili con la lotta armata. Non basta a stabilire un rapporto di questo tipo la circostanza che qualche minatore di Niccioleta fosse alla macchia e che talvolta facesse ritorno alla propria casa, né che alcuni capifamiglia decidessero del tutto autonomamente di organizzare una guardia armata a difesa del paese (30) . Fu piuttosto la volontà degli autori della strage, dettata dalla paura della sconfitta o dall’illusione della rivincita, a stabilire inequivocabilmente questo legame, sulla base del principio astratto che chiunque impugnasse un’arma, anche da caccia, doveva essere considerato un nemico. In realtà essi avevano intravisto in quel villaggio una minaccia o forse un’opportunità: una valutazione che secondo una logica strettamente militare non aveva alcun fondamento. Dal loro punto di vista fu comunque una valutazione corretta, perché essi stessi vedevano con evidenza che sul loro destino gravava non solo l’esito della vicenda militare, ma anche il desiderio di libertà e di pace della maggioranza degli italiani: questo era ormai il nemico più difficile da sconfiggere.

Note 1 Testimonianza di Alvaro Sabatini (Marco), in: Lo strano soldato. Autobiografia della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini” , Milano, La Pietra, 1976, p.335. 2 Il riferimento d’obbligo è a P. SCOPPOLA , 25 aprile, liberazione , Torino, Einaudi,1995, soprattutto p. 48 e ss. 3 Non mi è possibile affrontare qui il ruolo del Partito comunista, che invece fu determinante fin dalla decisione di intraprendere la lotta armata, poi nell’organizzazione e nel sostegno delle formazioni partigiane nella Toscana meridionale. Mi limito a sottolineare che l’analisi di questo ruolo, e delle sue diverse modalità tra il Monte Amiata e le Colline metallifere, sarebbe di grande importanza per comprendere non solo la resistenza, ma anche gli sviluppi politici nel dopoguerra nelle province di Siena e Grosseto. 4 Lo strano soldato , cit., p. 50. 5 Università degli studi di Siena, Facoltà di Lettere e filosofia, anno accademico 1997/98, Boccheggiano. Un paese e una miniera , tesi di laurea di Gloria Giacobetti, relatore: Prof. Pietro Clemente; il corsivo è mio (a.t.). 6 Ing. G. CARLI, Capo gruppo delle miniere di Maremma, Relazione sulle principali questioni che interessano le miniere , Archivio di Stato di Grosseto, fondo Regia Prefettura. Il testo della relazione è riportato in: A.Turbanti, La Montecatini in Maremma dal 1924 al 1962: la tecnologia e le relazioni industriali , in: AA.VV., La Maremma grossetana tra il ’700 e il ’900 , Roma, Labirinto, 1989, vol. II, p. 362 e ss. 7 C. PAVONE, Una guerra civile , Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 349. 8 Ho affrontato questo argomento in Consigli di gestione e Commissioni interne nell’esperienza dei minatori maremmani , in: AA.VV., Le nostre orme , Roma, Ediesse, 1988, pp. 218-219. 9 Cfr.: L. SEGRETO, Monte Amiata ,. Milano, F.Angeli. 1991, p. 144. 10 Lo strano soldato , cit., p. 50. 11 Lo strano soldato , cit., p. 64. 12 Boccheggiano. Un paese e una miniera , cit. 13 M. TOGNONI, Visi sporchi, coscienze pulite , Grosseto, Il Paese reale, 1979, p. 32. 14 Dopo la battaglia del Frassine, dalla banda di Chirici si staccò un gruppo comandato da Paolo Stoppa, che si chiamò Brigata Garibaldi “Boscaglia”. 15 A. BANCHI (Ganna), Si va pel mondo. Il Partito Comunista a Grosseto dalle origini al 1944 , a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto, 1993, p. 88. 16 Ivi , p. 89. La ”Gramsci” fu la formazione a cui più di frequente fece riferimento il Banchi nella sua intensa attività di organizzazione e di collegamento tra i paesi del grossetano allo scopo di rafforzare la resistenza armata e di ricostituire il Partito comunista. Amedeo Pecci era stato compagno di cella di Gramsci. 17 È interessante notare come l’Avanzati sia sempre molto attento a respingere tutte quelle interpretazioni (ce ne sono di molto autorevoli: da Hobsbawn allo stesso Togliatti!) che indicano il “lazzerettismo” fra le ascendenze del movimento operaio amiatino. 18 Si consideri comunque che i primi nuclei resistenti si formarono a Massa Marittima subito dopo l’8 settembre. 19 C. PAVONE, Una guerra civile , cit., p.313 e ss. 20 Memorandum per l’AMG di Grosseto , 8 luglio 1944, Archivio comunale di Massa Marittima. La storiografia recente ci offre una versione più verosimile (Katia Taddei, Coro di voci sole , Il Ponte editore, Firenze, 2003, p.22): “Il sentimento antifascista che animava gli operai aveva trovato probabilmente una sorta di acquiescenza nel direttore Mori Ubaldini che non operò scelte azzardate, ma si tenne inizialmente in disparte, ben sapendo che i suoi operai avevano iniziato a sottrarre materiale esplosivo per i partigiani, e successivamente acconsentì, non sappiamo quanto spontaneamente, a rifornire questi ultimi di materiale, vestiario e cibarie”. Più avanti la Taddei ricorda il difficile confronto che Mori Ubaldini ebbe a sostenere con i tedeschi nei giorni drammatici che precedettero la fucilazione di 83 minatori di Niccioleta. 21 Cfr.: V. CASTRONOVO, La storia economica , in: Storia d’Italia , V. 4*, Einaudi, Torino, 1975, p. 343. 22 In una lettera del 1° novembre 1944, pubblicata da La Repubblica mentre sto scrivendo queste note (25 aprile 2004), Raffaele Mattioli parla del ruolo svolto nell’IRI dal presidente della Monte Amiata, Giovanni Malvezzi, “…la cui decisa e rischiosa attività antitedesca era a noi nota”, per scindere gli interessi dell’Istituto da quelli dei tedeschi e della RSI. 23 L. SEGRETO, Monte Amiata , cit. p. 145. La testimonianza di Fortunato Avanzati a questo proposito si può leggere in: Lo strano soldato , cit. p. 22. 24 Lo strano soldato , cit., p. 23. Si veda anche la testimonianza più ampia di Bruno Flori, Ivi , p. 151 e ss. 25 Ivi , p. 24 26 “Gli scioperi del marzo 1944 segnarono comunque una svolta nel rapporto fra lotta in fabbrica e lotta armata, nel senso che alla seconda verrà da quel momento dato dai comunisti un peso maggiore”. Così C. PAVONE, Una guerra civile , cit., p. 386. 27 Boccheggiano. Un paese e una miniera . Cit. 28 KATIA TADDEI, Coro per voci sole , cit., pp. 29-30. 29 Per una descrizione ancor oggi efficace dei villaggi minerari: L. BIANCIARDI-C. CASSOLA, I minatori della Maremma , Cernusco L., Hestia, 1995, p. 53 e ss. 30 Per il parere contrario cfr.: KATIA TADDEI, Coro di voci sole , cit., pp. 30-31. Resistenza e guerra di liberazione sul Monte Amiata (ottobre 1943-giugno 1944) Lucio Niccolai Consultacultura

Tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943

Il 25 luglio e nei giorni seguenti, dopo la caduta del fascismo, in molti avevano sperato che la guerra sarebbe finita presto. Il 18 agosto del 1943, i minatori (fra i quali molti amiatini) di Niccioleta avevano scioperato per chiedere la pace: la polizia badogliana arrestò alcuni di loro e li trasferì alle Murate. Solo a settembre, ma già ormai troppo tardi per impedire che i tedeschi occupassero gran parte d’Italia (1) , il governo Badoglio firmò l’armistizio imposto dall’avanzata e dai bombardamenti degli angloamericani. La notizia, diffusa dal Comando alleato l’8 settembre, in assenza di indicazioni certe sui comportamenti da tenere (l’Italia, di fatto, cambiava fronte e alleanze) determinò, come è noto, lo sbandamento dell’esercito ed espose le truppe italiane alla rappresaglia tedesca. Nelle zone sottoposte all’occupazione tedesca – l’Amiata era fra queste – cominciarono a formarsi i gruppi di resistenza composti da militari fedeli al governo legittimo (che, nel frattempo, il 13 ottobre, aveva dichiarato guerra alla Germania) e al Re, renitenti alla leva, che rifiutavano di rispondere ai bandi di arruolamento lanciati dalla Repubblica Sociale (solo il 40% dei richiamati rispose ai bandi di arruolamento: presumibilmente nelle nostre aree, più vicine al fronte, la percentuale dei renitenti fu anche più alta), da prigionieri di varie nazionalità sfuggiti ai tedeschi, da cittadini che rispondevano con la mobilitazione agli appelli del CLN, dei rinati partiti antifascisti e del Generale Alexander, comandante delle truppe alleate.

I primi segnali della Resistenza amiatina Sull’Amiata la prima banda di cui si abbia notizia (settembre 1943) fu quella del Savelli a Seggiano. Il 25 ottobre 1943 ad Arcidosso si costituì il “Fronte nazionale interno di Resistenza”, a cui aderivano Carlo Colombini, rappresentante della Democrazia cristiana (poi sequestrato dai tedeschi il 10 giugno 1944) e il Serg. Mag. Lamberto Mazzi, da cui sarebbe successivamente, a dicembre, per iniziativa della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, nato il Comitato di Liberazione. Anche a Castel del Piano, nell’ottobre, si formava, composto da Jader Ginanneschi per il PCI, Aldo Innocenti per il Pd’A e Giovacchino Ciri per la DC, il CLN al quale aderì, per la componente militare, il Ten. Arrighi, comandante del Distaccamento “Sforzi Attilio (2) ” di Castel del Piano. Lo stesso giorno i fascisti compivano un rastrellamento nella zona di Santa Fiora durante il quale veniva assassinato, “mediante colpi d’arma da fuoco e ferite d’arma da punta e taglio” (3) il colono Pietro Nuti. In novembre prendeva corpo, con il supporto dei due CLN di Arcidosso e Castel del Piano, la formazione “Alta Amiata” diretta dal tenente colonnello Sebastiano Gambosu (4) e dal sottoten. Adelmo Arrighi con la quale collaborò anche il Fronte Nazionale Interno del Serg. Magg. Lamberto Mazzi operante in Arcidosso.

La banda di Castel del Piano fu facile costituirla: nel novembre 1943 entrai in contatto con il S. Tenente di complemento Arrighi Adelmo, giovane molto intelligente, il quale svolgeva e faceva svolgere attiva propaganda nei paesi di Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora, Roccalbegna, Seggiano, , , Monticello. Fu deciso che la banda avrebbe dovuto essere costituita da elementi scelti, escludendo la zavorra. […] Presi senz’altro in mano le redini in nome delle formazioni militari. La banda si costituì con un nucleo più forte a Castel del Piano e distaccamenti in alcuni paesi. La zona a ovest dell’Amiata non era battuta se non sporadicamente da reparti tedeschi; capivo tuttavia che, costituendo la strada Santa Fiora-Arcidosso-Castel del Piano-S. Quirico d’Orcia, un raddoppio della via Cassia, in caso di ritirata delle truppe tedesche avrebbe assunto grande importanza militare (5).

A Santa Fiora l’iniziativa per l’organizzazione di un primo gruppo di resistenza veniva presa dai comunisti:

Si era nell’ottobre del ’43 a Siena. Con me si trovavano Guglielmo Nencini, certaldese, responsabile per la zona di Grosseto, e Renato Bitossi, membro del Comitato militare toscano. Si decise in quella circostanza di organizzare sul Monte Amiata un incontro per prendere contatto con i paesi dei versanti grossetano e senese di quella zona. Impiegammo per mettere in piedi l’iniziativa alcuni giorni, ostacolati dalla pochezza dei mezzi di trasporto e dalle necessarie cautele, imposte dalla clandestinità. La località prescelta fu Bagnare di Santa Fiora, il locale un ristorante di un comunista del posto. Lì giunsero, partendo da Arcidosso, Mazzoncini, Barbini, Raffaello Bellucci. Io, Antonio Meocci, Albo Bellocci e il Nencini partimmo da Castel del Piano. Con noi si trovava un altro compagno, di nome Dario, che doveva essere ucciso più tardi a Firenze. Io e Nencini in bicicletta proseguimmo per Santa Fiora dove in un caffè della piazza principale incontrammo 4 comunisti, 2 di Abbadia e due del posto. Uno di questi ultimi era il grossetano Tancioni, che abitava da anni nella località, l’altro era un giovane di una ventina d’anni (6) . Non gli chiesi il suo nome; lui illustrò, come se già fosse un veterano del lavoro clandestino, la situazione della zona (7) .

Figura di spicco dell’antifascismo storico a Santa Fiora fu Fausto Pizzetti, minatore al Siele e perseguitato politico, che rappresentò un importante elemento di collegamento tra i minatori del Siele e i gruppi degli antifascisti che sarebbero confluiti nel Distaccamento della Brigata garibaldina che si andava costituendo in montagna. Infatti, verso la fine del 1943, con una riunione in montagna, a cui parteciparono Fortunato Avanzati (Viro), comandante della Brigata garibaldina “Spartaco Lavagnini”, Gino Tagliaferri, ispettore militare della Toscana, e Mauro Capecchi (Faro), fu decisa la formazione del VII Distaccamento (8) , cui fu dato il nome di Ovidio Sabatini, in ricordo dell’operaio ucciso dai carabinieri ad Abbadia negli scontri del 1920.

Come base operativa fu scelta la zona di Fonte delle Monache - Le Metatelle; per l’alloggio e il ricovero dei partigiani, furono costruiti “dei capanni con zolle di terra e robuste travi di legno, che potevano contenere da sei a sette persone, dove si dormiva per terra su foglie di faggio. Facemmo costruire anche un forno per cuocere il pane, da uno scalpellino …” (9) . Un’altra banda, che raccolse giovani provenienti anche dai comuni amiatini (Castell’Azzara, Selvena, Santa Fiora e Piancastagnaio) si formò nella zona di Montebono (10) .

Febbraio ’44: le prime azioni Nel mese di febbraio si registrano i primi scontri armati. Il 4 i partigiani del gruppo di Montebono rapivano il segretario del fascio di Selvena che veniva poi giustiziato il 17 dello stesso mese (11) . Ad Abbadia San Salvatore, mentre da una parte falliva “il programma fascista di intervento nei confronti delle maestranze operaie” della miniera, dall’altra cominciava ad operare la Resistenza muoveva i primi passi:

il 7 febbraio veniva effettuata la prima importante azione di sabotaggio contro uno degli obiettivi strategicamente più importanti per i tedeschi. Il cavo telefonico Roma-Nord, con incluse le linee internazionali, veniva reciso “a colpi di scure, previo scasso stradale”, in località Crocine nel comune di Castiglione d’Orcia a pochi chilometri dal Monte Amiata. A tre giorni di distanza, il 10 febbraio, militari tedeschi sorpresero un individuo intento ad asportare circa 200 metri di filo telefonico, precedentemente reciso, nella zona tra Abbadia S. Salvatore e Piancastagnaio. L’autore riusciva a sfuggire alla cattura. Il comando germanico di Abbadia imponeva il coprifuoco anticipato alle ore 18 in tutto il Monte Amiata.[…] Gruppi di partigiani si venivano costituendo anche nel versante grossetano del M. Amiata e nei giorni 23 e 24 febbraio si verificarono due requisizioni alla fattoria agraria della S.A. del Siele e alla miniera della medesima società a Piancastagnaio (12).

Il 26 febbraio si verificò uno scontro a fuoco a Castell’Azzara: “un piccolo nucleo di partigiani a cavallo si imbatteva in un’autovettura tedesca con a bordo 3 militari. I partigiani spararono una quindicina di colpi senza colpire il nemico. Finita la sparatoria i partigiani si dileguarono nella vicina boscaglia” (13) . Sempre a Castell’Azzara i partigiani assaltarono la caserma dei carabinieri: disarmarono 14 militi e 5 carabinieri e sequestrarono armi e munizioni. La banda era composta da un partigiano livornese, un soldato neozelandese ed uno russo e, tra gli altri, da Luigi Papalini e Calvino Gagliardi (quest’ultimo rimarrà ucciso in uno scontro a fuoco con i tedeschi il 16 maggio).

Marzo ’44: le prime vittime e i rastrellamenti tedeschi e fascisti La situazione si fece ancora più tesa e drammatica nel mese di marzo:

Il 1 marzo del 1944 il comitato femminile [di Abbadia] organizzò una manifestazione di protesta per l’aumento della razione del pane e per la fine della guerra. L’agitazione era forse un po’ prematura perché anche i minatori stavano organizzando la loro per il medesimo giorno e sarebbe stata meglio rinviarla, però si decise di andare avanti per le forti spinte dal basso. La protesta raggiunse il suo culmine il 4 di marzo quando le donne manifestarono contro il podestà, a cui portarono una corona funebre, e contro il segretario del fascio. Al termine del corteo le donne ed un gruppo di giovani cantarono Bandiera Rossa al seguito di una popolana che aveva issato uno straccio rosso su di un bastone. Il giorno successivo, per ritorsione, Chiurco mandò ad Abbadia i suoi briganti vestiti di nero, con a capo il famigerato Rinaldi. I repubblichini spararono per le vie del paese e molti colpi raggiunsero le finestre. Su indicazione dei fascisti locali, furono arrestate una decina di donne, tra cui Adalgisa Sabatini ed Olga Fabbrini ed alcuni operai, padri e fratelli di antifascisti che non erano stati trovati. La gendarmeria tedesca intervenne in prima persona organizzando un vasto rastrellamento in tutta la zona dell’Amiata che si prolungò per qualche giorno (14) .

In effetti nei primi giorni di marzo, tutta l’area amiatina fu investita da azionidi rastrellamento: il 2, i fascisti grossetani, “con intenso uso di armi da fuoco” (15) nella zona dei ; il 3 a Santa Fiora, con la costituzione e il funzionamento di un Tribunale speciale (16) ; il 5 a Cinigiano. Il 7, i tedeschi catturavano due partigiani amiatini nella zona di Pitigliano:

Il 7 marzo, i tedeschi che continuavano il rastrellamento catturarono due giovani partigiani, Libero Stolsi nato ad Abbadia nel 1924 e Florindo Guerrini nato a Piancastagnaio nel 1924, coloni renitenti alla leva trovati in possesso di armi. Su di loro si scatenò la violenza delle autorità germaniche. Furono fucilati la mattina dell’8 marzo alle due a Piancastagnaio, impiccati ad un albero del comune e tenuti esposti fino alle 17 come ammonimento alla popolazione. Da Pitigliano erano stati ricondotti sulla montagna per dare prova di forza: “Il comando germanico di Abbadia S. Salvatore ha proceduto alla fucilazione di due partigiani che, a quanto si è potuto sapere, avevano aggredito una pattuglia tedesca in Pitigliano. L’esecuzione è avvenuta alle ore 2,30 in Piancastagnaio angolo via Mini-viale Roma. Dopo la fucilazione i corpi sono stati legati per il collo ad una pianta in prossimità delle suddette strade e sono rimasti così esposti alla vista del pubblico fino alle ore 17 per ordine dell’autorità tedesca” (17) .

Il 10 marzo i fascisti di Grosseto compivano un rastrellamento nell’area dell’Aquilaia con “conseguenti violenze e uso di armi da fuoco contro i contadini”(18) . I proclami e le minacce non riuscivano, peraltro, a convincere i giovani in età di leva a presentarsi alla chiamata alle armi: anzi, si moltiplicavano i casi di renitenza. Il 22 marzo, a Maiano Lavacchio i fascisti riuscivano a sorprendere nel sonno 11 giovani renitenti che, seppur disarmati, dopo un processo sommario, furono giustiziati. Tra loro Alfiero Grazi, di 19 anni, di Cinigiano, e Mario Beccucci, originario di La Spezia, antifascista 38enne, residente a Cinigiano, che il 27 febbraio, nella pubblica piazza del paese, aveva sbeffeggiato una repubblichina venuta a fare propaganda. Si salvò, invece, scappando, Gunter Frichugsdorf, un disertore austriaco, che poi fu ospitato come un figlio dai genitori del Grazi (19) . Poco mancò che la stessa sorte dei “Martiri d’Istia” non toccasse anche alla ventina di giovani amiatini che si erano rifugiati in montagna, a Fonte alle Monache: sorpresi dal rastrellamento fascista il 27 marzo, riuscirono a sganciarsi. Successivamente, molti di questi giovani, aderirono alle bande partigiane: alcuni al VII Distaccamento, altri alla banda del tenente Gino, che operava tra Scansano, Manciano e Montauto. Intanto, il 6 aprile, il comune di Santa Fiora (n. protocollo 1483) pubblicava il seguente avviso della Repubblica Sociale Italiana, Prefettura di Grosseto:

È necessario che tutti i rurali di Maremma, ingannati da una propaganda falsa e bugiarda sappiano chi sono coloro che, sotto il nome di partigiani, si atteggiano a futuri salvatori del popolo Italiano. Essi sono i fuggiaschi di tutte le razze, negri, neo zelandesi, russi e simili, quei prigionieri ai quali si sono uniti ex ufficiali Italiani di dubbia moralità civile che cercano di sfuggire alla giustizia, atteggiandosi a grandi patriotti. I partigiani sono gli attuali svaligiatori di case, gli assassini dell’imboscata, i fratelli di colore che distruggono con i bombardamenti le nostre città, macchiandosi del sangue delle nostre donne e dei nostri ragazzi. Poiché le bande si sostengono con i viveri che vengono forniti da rurali di Maremma, è opportuno si sappia che chi aiuta i partigiani si rende complice di essi quindi passibile delle più gravi pene; è necessario che si sappia che qualora i rifornimenti non finiscano, il Comando Germanico troncherà il male dalla radice, adottando i più severi provvedimenti. (20) Il 17 maggio, la Prefettura di Grosseto (Ufficio di P.S. in Paganico) faceva diffondere questo comunicato (datato originariamente 10 aprile):

Alle ore 24 del 25 maggio scade il termine stabilito per la presentazione ai posti militari e di Polizia italiani e Tedeschi degli sbandati ed appartenenti alle bande. Entro le 24 del 25 maggio gli sbandati che si presenteranno isolatamente consegnando le armi di cui sono eventualmente in possesso non saranno sottoposti a procedimenti penali e nessuna sanzione sarà presa a loro carico secondo quanto è previsto dal decreto del 18 aprile. I gruppi di sbandati, qualunque ne sia il numero, dovranno inviare presso i comandi militari di Polizia Italiani e Tedeschi un proprio incaricato che prenderà accordi per la presentazione dell’intero gruppo e la consegna delle armi. Anche gli appartenenti a questi gruppi non saranno sottoposti ad alcun processo penale e sanzioni. […] Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione alla schiena.

Proprio in quei giorni, la formazione “Alta Amiata”, per provvedere al proprio armamento, attaccò la sede stessa della Prefettura di Grosseto a Paganico:

Allo scopo di crescere l’armamento alcuni patrioti, al comando del Serg. All. Uff. Del Fa Aldo e Benucci Eugenio, furono inviati alla sede della Prefettura di Grosseto in Paganico. Con un colpo ben riuscito pervennero ad impadronirsi delle armi contenute nel magazzino, asportando un mitra Breda 37 con 3000 colpi; un fucile mitragliatore; 30 tra moschetti e fucili 91 con abbondante munizionamento; una cassa di bombe a mano. Da notare che il magazzino era custodito da una guardia armata di 60 uomini che aprì violento fuoco. Il materiale fu trasportato a spalla e distribuito anche alle formazioni di Roccastrada e Montenero. La formazione “Alta AMiata” attaccò. Continuavano, intanto, e si estendevano le azioni militari (21) .

I fascisti, per ritorsione, misero in pratica le minacce annunciate nei loro bandi: il colono Eusebio Mecattini di Montenero, reo di aver dato alloggio alla pattuglia partigiana che rientrava verso l’Amiata, fu fucilato il 20/5/44 in località Macchia Alta. I raggruppamenti partigiani, anche in risposta alle violenze compiute dai fascisti e dai tedeschi, crescevano numericamente: a maggio gli effettivi del VII distaccamento erano una settantina (22) ; ai primi di giugno 150. Inoltre il Distaccamento poteva contare sul sostegno dei minatori (23) e aveva rapporti (24) con le direzioni minerarie, interessate a salvaguardare gli impianti contro la minaccia di una loro distruzione da parte dei tedeschi in ritirata (25) .

Un giugno radioso e drammatico Il 4 giugno fu occupata dai partigiani la caserma dei carabinieri di Santa Fiora: “Partimmo dal campo in una quarantina e raggiungemmo il paese verso mezzanotte. Cominciammo a visitare le case dei fascisti più noti, di cui avevamo l’elenco, limitandoci a sequestrare le armi. […] Finite le perquisizioni, le squadre si ritrovarono intorno alla caserma dei carabinieri” (26) . Le truppe alleate intanto avanzavano verso l’Amiata e uno dei compiti dei partigiani fu quello di ostacolare la ritirata tedesca:

Conosciuto l’ordine di agire, il 6 giugno nel tardo pomeriggio ed in sole due ore furono compiute cinque abbattute di grossi castagni nei pressi di Passo Lajole. Le abbattute furono fatte da 50 esperti boscaioli del luogo, protette da pattuglie di patriotti. Le autocolonne tedesche sopraggiunte all’imbrunire dovettero fermarsi e malgrado il forzato impiego di squadre di civili fatte giungere in automezzo per lo sgombero, allo spuntare del giorno gran numero di automezzi permaneva sul luogo in confusione offrendo facile bersaglio all’aviazione alleata, che li mitragliò senza risparmio. I tedeschi, per ritorsione, attaccarono con camionette l’abitato di Arcidosso, uccidendo Elvio Farneschi di 17 anni di Arcidosso e Santini Dante di Arcidosso. Furono anche ferite 9 persone. L’indomani 7 giugno furono tentate due interruzioni: una alla Madonnina del Drago e l’altra al Ponte della Lama. Sopraggiunta una colonna di polizia tedesca, vi fu un combattimento, in cui tre ufficiali tedeschi furono feriti e la loro automobile, targata O.T., venne catturata. I tedeschi feriti furono trascinati indietro dai loro uomini che si liberarono con un contrattacco. […] La sera stessa una pattuglia di 7 uomini del distaccamento di Montelaterone attaccava sulla strada Montegiovi-Montelaterone tre autovetture tedesche. Una macchina venne immobilizzata. Fu ucciso un tedesco e uno gravemente ferito. I documenti catturati furono in seguito consegnati al capitano francese Claintepie. Inviavo ogni giorno pattuglie poco numerose di patriotti sulle rotabili principali, per dare l’impressione al comando tedesco di forze ribelli assai numerose; vi riuscii tanto che negli ultimi giorni dell’occupazione la questione dei partigiani era diventata un’ossessione per i tedeschi, che non si allontanavano più dalle rotabili principali e presidiavano queste nei punti dove era più facile l’insidia (27) .

L’8 giugno il Distaccamento di Roccalbegna della formazione di Gambosu, comandato da Santi Bindi (che già il 6 giugno aveva disarmata la G.N.R. di Roccalbegna, requisendo 11 moschetti, 3 fucili, 1 pistola e munizioni), occupava il paese:

La sera dell’8 giugno, con la collaborazione del Gruppo di Semproniano, dopo aver isolato il paese mediante l’interruzione delle linee telegrafiche e telefoniche ed aver bloccato le due strade provinciali, veniva occupato il paese di Roccalbegna e alla popolazione veniva distribuito olio e formaggio. Alle prime ore del 9 giugno un reparto dell’esercito repubblichino composto da un plotone della 2° compagnia O.P. e di un plotone della Compagnia territoriale della G.N.R. di sede in Arcidosso, bene armato, occupava il paese di Roccalbegna, dove in quel momento non si trovavano partigiani, sparava all’impazzata nel paese e due civili, tra i quali lo squadrista e fascista repubblichino Pollini Paolino, decedeva in seguito alle ferite riportate (28) .

Quando il 10 i fascisti abbandonarono il paese furono attaccati dai partigiani che sequestrarono molte armi. Ma il giorno successivo arrivarono in paese le truppe tedesche (circa sessanta uomini): nello scontro con i partigiani che seguì caddero Santi Lazzerini, Roberto Bizzarri, Imolo Bindi, Livio Polemi, Ariberto Margiacchi e Pio Pierini, tutti di Roccalbegna, di cui due partigiani (Polemi e Bizzarri) e gli altri civili. Il 9 giugno il VII Distaccamento attaccava, distruggendola (29) , una stazione radio tedesca presidiata da circa 60 soldati installata nell’area della vetta, che doveva servire come posto di osservazione per dirigere il tiro d’artiglieria (30) . Lo stesso giorno giungeva al Distaccamento la notizia che Arcidosso era in mano alla popolazione. Kiro, uno dei comandanti, con 34 uomini raggiunse il paese per aiutare la popolazione insorta contro i tedeschi.

Per precedenti azioni svolte contro il nostro distaccamento dal presidio della Guardia Nazionale Repubblicana di Arcidosso, vennero chiesti rinforzi che giunsero la mattina del 7 giugno, consistenti in 80 effettivi di una compagnia di O.P. armati di mitragliatrici pesanti, leggere e fucili mitragliatori. Circondarono tutto il paese, spararono come pazzi per intimidire la popolazione con l’idea di eseguire un rastrellamento che non venne fatto per la presenza in zona della nostra formazione. La notte del 9 giugno i rinforzi partirono e con essi alcuni militi del presidio di Arcidosso. Nelle successive ore del mattino ci fu possibile occupare la caserma impossesandoci delle armi e delle munizioni. Poiché l’esercito alleato avanzava a gran passi il Commissario prefettizio e le altre autorità abbandonavano il paese. Fu preso così possesso del Comune, della Casa del Fascio e degli altri edifici pubblici, nonché il controllo del centralino telefonico, del telegrafo e del blocco di tutte le strade. Mentre il Comitato di Liberazione assumeva il controllo e il governo civile del paese, il distaccamento, come era in suo dovere, provvide alla parte militare. Furono formati e successivamente concentrati in zona detta “I Poggi” i fascisti locali più in vista alla cui custodia venne provvisto con una parte del distaccamento. Verso le ore 17 del 9 giugno i tedeschi eseguirono azione di mitragliamento con camionette e con uomini appiedati sulla popolazione civile. Rimase ucciso il giovane Farneschi Elvio e feriti Fatarella Angelo – appartenente al distaccamento – e altre 4 persone tra i civili. Verso le 20 dello stesso giorno i tedeschi rinnovarono l’azione di mitragliamento sulla popolazione, a seguito dello sbarramento effettuato dalla nostra formazione a nord di Arcidosso sulla strada provinciale che da Santa Fiora conduce ad Arcidosso, per arrestare il transito delle autocolonne tedesche in ritirata. Vennero ferite 5 persone fra le quali un carabiniere (Menghi Egidio) ed uno dei feriti – Sabatini Dante – morto dopo due giorni. Nelle ore pomeridiane del 10 giugno Arcidosso venne bombardata dall’aviazione alleata: si ebbero 92 morti (31) .

Il 12 giugno il comando del XIV corpo corazzato tedesco si stabiliva a Santa Fiora (32) : gli aerei americani, con l’obiettivo di colpire il comando di Kesselring, bombardarono il paese colpendo un gruppo di abitazioni, poco distanti dalla piazza centrale, e provocando la morte di una ventina di civili. Negli stessi giorni si compiva il dramma di Niccioleta. Lo scontro sull’Amiata Quando il corpo di spedizione francese giunse alle pendici del Monte Amiata, il 16 giugno, incontrò un’accanita resistenza tedesca alla sua avanzata. I tedeschi avevano minato le principali vie di accesso e sistemato batterie di artiglieria che sparavano in direzione del Monte Labbro e dell’Aquilaia, a S. Lorenzo, nei pressi del cimitero di Castel del Piano, a sud dell’abitato di Montegiovi nei pressi del bivio di Montelaterone (32) . Compito dei partigiani fu quello di tagliare i fili che collegavano gli osservatori alle postazioni di artiglieria. Inoltre intensificarono le azioni di guerriglia contro i tedeschi. Il 14 giugno, a seguito di uno scontro armato, in cui fu ucciso un soldato tedesco, i tedeschi catturavano 17 ostaggi tra i civili dei quali fucilavano Benvenuto Fazzi di Castel del Piano. Il 16 giugno combattimenti avvenivano a Triana, Arcidosso, Castell’Azzara e Santa Fiora mentre, dovunque fosse possibile, “furono attaccati automezzi, portaordini, pattuglie isolate. Anche queste azioni costarono sangue: vi lasciarono infatti la vita Pieri Maria di Castel del Piano, e un civile simpatizzante, Tiberi Franco” (34) . Da parte loro i comandi tedeschi avvertivano la minaccia rappresentata dalle azioni partigiane, e ammettevano: “Alle difficoltà sul fronte se ne aggiunse un’altra, fino a quel momento a noi sconosciuta. Il territorio alle spalle delle divisioni combattenti era reso malsicuro dalle bande. Ogni giorno si registravano aggressioni. […] L’imperversare delle bande con attacchi su singoli automezzi, l’azione di disturbo verso il servizio d’informazioni e l’interruzione delle strade di rifornimento con esplosioni e sbarramenti diventano sempre più gravi e avvengono in forme sempre più pericolose” (35) . Alle truppe francesi occorsero tre giorni per penetrare nell’Amiata: Santa Fiora fu liberata il 18; il 19, alle ore 11.30, le avanguardie marocchine della 3° Divisione si presentavano tra Arcidosso e Castel del Piano. Abbadia fu liberata dai partigiani il 18. Come ebbe a notare Pavolini :

[La provincia di Grosseto] … estenuata dal mitragliamento, pervasa dal ribellismo bene armato dal nemico e favorito dal terreno, con forze fasciste e repubblicane esigue, le uccisioni dei fascisti e dei militi avevano progressivamente ridotta la zona di nostro effettivo dominio, imponendo il ripiegamento e la concentrazione delle forze. A un dato momento, sotto una spinta dei ribelli in parte a carattere militare (in vista del congiungimento con gli anglo-americani avanzati) in parte a carattere insurrezionale comunista, la provincia, capoluogo compreso, è caduta in mano di avversari, e l’esodo dei fascisti e delle ultime autorità fra aggressioni e inseguimenti (36) .

Resistenza e minatori Tratteggiate così, per grandi linee, le principali vicende, della Resistenza nell’area amiatina, resta ora da vedere quale rapporto sia esistito, e in che misura, tra le bande partigiane e i minatori e quale sia stato ad esempio il senso della loro presenza. Secondo R. Battaglia e G. Garritano,

D’origine operaia è la maggior parte dei nuclei o delle ‘formazioni-madre’; in prima linea sono dappertutto i minatori; anzi possiamo senz’altro affermare che la dislocazione delle bande coincide abitualmente con le zone minerarie, e che, individuate quest’ultime in una carta geografica della Toscana, possiamo essere certi che lì è sorto un primo nucleo di combattenti, che poi è riuscito a resistere tenacemente in mezzo alle più gravi difficoltà. Fra Siena e Grosseto i minatori […] alimentano la lotta sul Monte Amiata, leggendaria roccaforte del movimento partigiano; […] e poi ancora gli operai delle Colline metallifere fra il Massese e la Val di Cecina (37) . Ma se è vero che spesso la geografia delle bande partigiane si sovrappone a quella degli impianti minerari, non sempre è vero che le formazioni siano di origine operaia e composte prevalentemente da minatori. Tra le principali formazioni amiatine, una, il raggruppamento “Alta Amiata”, comandata da ufficiali dell’Esercito italiano, composta prevalentemente da militari e renitenti, operava nell’area occidentale dove non c’erano miniere e quindi non aveva particolari rapporti con i minatori. Al contrario, nel VII Distaccamento, di orientamento comunista, che operava a cavallo della montagna alta e dei paesi minerari, il ruolo dei minatori era rilevante.

Fortunato Avanzati (Viro), comandante della formazione, rivendica, proprio nella pagina introduttiva della sua memoria pubblicata ne “Lo strano soldato”, le sue origini minerarie (“il nonno materno era un minatore”). Molti dei principali protagonisti del VII Distaccamento, spesso provenienti da nuclei familiari antifascisti, erano di origine operaia o minatori loro stessi (oppure lo sarebbero diventati), come Mauro Capecchi (Faro), già a Niccioleta, Aladino Pizzetti (Bob), che inizialmente aveva aderito alla formazione di Montebono, Alvaro Sabatini (Marco), Bruno Scalacci, Adriano Coppi (anche lui già a Niccioleta) e decine di altri. Poco sappiamo dei partigiani provenienti dal versante grossetano, per mancanza di studi specifici e raccolta di testimonianze e biografie. È noto però che fu Fausto Pizzetti, minatore del Siele, a indirizzare i giovani antifascisti santafioresi verso il Distaccamento. Tra i partigiani di Castell’Azzara alcuni provenivano da famiglie operaie e furono minatori loro stessi, come ad esempio Luigi Papalini. Minatori divennero alcuni dei renitenti (poi partigiani) scampati alla retata di Fonte alle Monache, come ad esempio Leonardo Lazzeroni. Inoltre, come mostrano le testimonianze raccolte nel libro “Un’isola in terra ferma”, molto diffusa era la collaborazione attiva dei minatori (e dei paesi minerari) alla Resistenza, che si esprimeva in diverse maniere: con il sostegno aperto, la ricerca dei viveri, le azioni di staffetta e collegamento. Interessante, mi sembra, ed estremamente significativa a questo riguardo, la testimonianza di Alvaro Sabatini (Marco), partigiano combattente, caposquadra nel VII Distaccamento:

La collaborazione delle popolazioni amiatine e soprattutto lo stretto legame con la classe operaia badenga furono alla base dei successi ottenuti dal VII Distaccamento della “Lavagnini”. L’unità d’azione fra operai e partigiani fu tale, che resta difficile distinguere il contributo degli uni da quello degli altri. I minatori di Abbadia nascosero le macchine dello stabilimento, migliaia di bombole di mercurio e materiali di ogni genere, sottraendoli alla distruzione e al saccheggio delle truppe tedesche in ritirata. Gli operai dell’officina meccanica, oltre ad assicurarci vettovagliamento e materiale da campo, ci fornivano potenti bombe a mano che essi stessi costruivano. Tra i minatori furono costituite le SAP (squadre d’azione partigiana). Fra le tante azioni compiute da queste squadre è da segnalare la cattura, avvenuta all’interno dell’officina della Monte Amiata, del sergente tedesco Walter. Costui, destinato dai suoi superiori a operare nello stabilimento con funzioni di controllo e per ottenere con ogni mezzo la collaborazione degli operai nella produzione… la ottenne: condotto al nostro accampamento dagli operai armati, fu sottoposto a processo e giustiziato (38) .

Anche Mauro Capecchi (il comandante Faro) ricorda quasi con le stesse parole che “gli operai dell’officina meccanica, oltre ad assicurarci vettovagliamento e materiale da campo, ci fornivano potenti bombe a mano che essi stessi costruivano” e riferisce ugualmente l’episodio del sergente tedesco Walter che “condotto al nostro accampamento dagli operai armati, fu sottoposto a processo e giustiziato”(39). Il VII Distaccamento, nella fase finale della Guerra di liberazione, poté contare anche sul discreto sostegno della Direzione della Società Monte Amiata:

Si chiese alla Montamiata il contributo di 250.000 lire per il mantenimento della formazione ed anche dei mezzi di trasporto con autisti di nostro gradimento, che furono Libero Visconti e Guido Avanzati, onde trasportare grano dai magazzini della Val d’Orcia in montagna. Il direttore acconsentì alle nostre richieste. Il grano veniva portato al Bagnolo nel mulino di Omero Rossi che pensava a macinarlo; la la farina veniva poi inviata nottetempo in montagna utilizzando i muli, in depositi differenti in modo che qualora ne fosse stato scoperto uno si sarebbe potuto attingere ad un altro (40) .

Niccioleta: minatori e/o partigiani Ancora più documentati, i rapporti tra minatori e formazioni partigiane nel caso di Niccioleta, messi forse in ombra dal dibattito sulle responsabilità (si veda a questo proposito l’intervento di Pezzino nelle pagine che seguono) e dalla ricostruzione dell’eccidio divulgata dallo Zannerini – che si preoccupava soprattutto, e giustamente, di evidenziare l’efferatezza della rappresaglia compiuta contro civili inermi. Premesso che la valutazione corretta sull’episodio mi sembra quella che propone, nella sua relazione Adolfo Turbanti (la determinazione cioè, da parte dei nazifascisti, di colpire un luogo-simbolo, che non ha stretta relazione con responsabilità oggettive dei minatori, cosa tanto più confermata dal fatto che alcuni operai furono massacrati indipendentemente dalla loro appartenenza o credo politico – Alvaro Sabatini ricorda tra i martiri un minatore santafiorese che, negli anni del regime, sarebbe stato membro del direttorio del fascio di Niccioleta), non di meno è utile e interessante cercare di capire se, e in che misura, i minatori di Niccioleta abbiano collaborato con la Resistenza e se ne siano sentiti parte integrante. Secondo Mauro Tanzini, custode del cippo dei martiri a Castelnuovo Val di Cecina e partigiano combattente nella formazione del Chirici, dopo lo sciopero per la pace del 13 agosto del 1943 (che a Niccioleta “fu totale”),

il Comitato antifascista dei minatori tenne delle riunioni in una galleria della miniera di Niccioleta, adibita a rifugio antiaereo. In dette riunioni venne stabilito di lanciare un appello alle popolazioni delle Colline metallifere facendo presente la necessità di creare nella zona mineraria dei gruppi armati. […] I minatori di Niccioleta e Boccheggiano dettero sempre il loro contributo per tutto il periodo resistenziale alle due formazioni quando si rese necessario l’uso degli esplosivi (41) .

In particolare Tanzini, ricorda una riunione svoltasi nella miniera di Niccioleta, il 20 settembre 1943, alla quale parteciparono anche Elvezio Cerboni e Otello Gattoli, a seguito della quale, i “Ragazzi della Torre”, primi tra i gruppi italiani, aderendo all’invito del Comitato, avrebbero iniziato la propria azione. Molti minatori di Niccioleta, specialmente quelli in età di leva (si ricordi che la miniera era considerata ausiliaria e quindi i minatori esentati dal servizio militare), in quei mesi avevano preferito abbandonare la miniera (anche per non dover collaborare con i tedeschi) e avevano aderito alle formazioni partigiane. Anche la squadra partigiana che il 9 giugno del 1944 entrò in paese era formata soprattutto da ex minatori e, anzi, un operaio, proprio in quell’occasione, aderì alla formazione e si allontanò dal villaggio con i partigiani. Mi sembra opportuno, a questo proposito, riportare integralmente la ricostruzione di Pezzino:

Un altro drappello della sezione “Gattoli”, da dieci a venti uomini a seconda delle testimonianze, comandati da Marco Checcucci, venerdì 9 giugno 1944, verso le ore 17, entrò a Niccioleta. L’occupazione temporanea di una miniera non era un avvenimento insolito, e già ai primi di aprile partigiani guidati da un membro del Comitato di liberazione nazionale di Belforte avevano occupato la miniera di Querceta. Anche questo tipo di operazioni aveva subito un’intensificazione in quei giorni: a fine maggio era stata occupata la miniera di Boccheggiano, da uomini della 23.ma e della “Spartaco Lavagnini”; il 2 giugno il distaccamento di Noni della banda di Chirici aveva assaltato i magazzini della miniera “Delle capanne”; il 4 giugno era stata occupata la miniera di antimonio delle Cetine, sempre ad opera della 23.ma e della Guardia nazionale di Montalcinello. Tuttavia l’entrata a Niccioleta dei partigiani dipendenti da Chirici – fra i quali vi erano anche alcuni ex operai della miniera – rappresentò una sorpresa per i minatori attivi nell’organizzazione di resistenza antifascista, che avevano contatti soprattutto con i partigiani della 23.ma, stanziati sul soprastante altipiano delle Carline, ai quali avevano richiesto di occupare il villaggio, ricevendone la risposta che sarebbero stati avvertiti quando fosse arrivato il momento opportuno. Nessuno era stato invece informato preventivamente dell’azione degli uomini di Chirici, mentre le azioni su Monterotondo e , che questi avrebbero effettuato nel giorno successivo, erano state invece concordate con i Comitati di liberazione nazionale locali. Temistocle Coppi dichiarò in seguito di essersi risentito con Checcucci, che comandava quel drappello di partigiani, per quell’azione progettata a insaputa sua e degli altri componenti dell’organizzazione clandestina di Niccioleta, e di averne ricevuto la risposta che lui aveva solo seguito degli ordini. Ma è improbabile che i partigiani di Chirici non avessero dei propri referenti a Niccioleta: alcuni minatori facevano parte del drappello, e Giuseppe Bralia avrebbe manifestato la convinzione che l’intervento dei partigiani, da lui considerato “prematuro e intempestivo”, fosse stato provocato da qualcuno del paese, che a suo avviso aveva “molta parte di responsabilità” per ciò che sarebbe avvenuto in seguito. Secondo il parroco di Niccioleta (che subito dopo l’8 settembre aveva messo in comunicazione il direttore della miniera con il Comitato di liberazione nazionale di Massa Marittima) correva in effetti voce che quei partigiani fossero stati chiamati a Niccioleta dai fratelli Ado e Alizzardo Sargentoni. Del resto lo scopo di quell’azione, secondo il partigiano che la diresse, era “disarmare il picchetto dei carabinieri e impossessarsi delle armi, e perquisire le abitazioni di alcuni fascisti, che ci avevano riferito essere in possesso di armi”, e quindi è da ritenere che le perquisizioni fossero state preventivamente suggerite (“ci avevano riferito”) da alcuni degli operai di Niccioleta, che avevano fatto in qualche modo pervenire ai partigiani la richiesta di occupare la miniera. È certo che alcuni minatori accompagnarono i partigiani durante le perquisizioni, indicando le case dei fascisti da controllare, dove peraltro non fu trovato niente di rilevante: al figlio di Calabrò fu sequestrato un fucile, in casa di Maggi furono gettati dalla finestra alcuni capi della divisa fascista, ai quali fu poi dato fuoco, provocandole ire della moglie, che si lasciò andare a frasi minacciose; a Soppelsa, che proprio il 9 era arrivato a Niccioleta in motocicletta, essendosi trasferiti al Nord gli uffici della questura di Grosseto, nei quali prestava servizio come ausiliare, fu sequestrata da Ado Sargentoni una rivoltella, che Soppelsa sosteneva essere fuori uso; a Torrini fu sequestrata una pistola e tre nerbi, e la moglie nell’occasione si lasciò andare a imprecazioni e minacce indirizzate alle persone raccolte davanti alla sua casa. I partigiani si recarono anche dal direttore, e l’incontro, anche se non minaccioso, non fu certo gradevole per il dirigente, schernito dai suoi ex operai: “«Toc toc» «chi è» «la forza… oh signor direttore, ’un mi riconosce?» gli dissi. - Vado all’attaccapanni mi metto il suo cappello, s’era io e Marco, ci aveva altre cose «il signor direttore ci ha anche il binocolo!». Dopo di noi vennero anche altri, Vito e gli disse «chiami il capo magazziniere, noi stasera si viene a prendere le scarpe, gli indumenti e tutto quel che ci abbisogna per la nostra formazione». Verso la 10 arriva il capo magazziniere e io dissi «Quando lavoravo io ’un me le dava mai le scarpe, ora guardate quest’altro ce le dà per tutti». Le scarpe erano per i minatori, ma non gliele davano mica a loro!” (42) .

Ettore Sargentoni di Selvena, membro del Comitato antifascista, fu una delle prime vittime della rappresaglia nazifascista. Anche i suoi figli furono uccisi con lui: sarebbero stati tra i più attivi nella collaborazione con la squadra partigiana che fece ingresso in paese il 9 giugno, e forse ne avrebbero sollecitato l’intervento. Ado, secondo la testimonianza del Paglierini (pubblicata nelle pagine che seguono), era considerato, dai ragazzi che abitavano nello stesso edificio, un partigiano combattente. Collegamenti con i partigiani da parte dei minatori del villaggio, come abbiamo visto nella lunga citazione di Pezzino, non mancavano, e sono inoltre confermati anche dalla citata testimonianza del Paglierini relativamente al padre e allo zio. Tra i promotori della guardia armata (alla quale aderirono decine di minatori) troviamo Carlo Pizzetti, fratello di Fausto, il minatore del Siele che, come abbiamo visto, grande importanza ebbe nella organizzazione del GAP santafiorese.

Nel caso di Niccioleta, quindi, il rapporto tra lotta partigiana, Resistenza e minatori è decisamente significativo e ci aiuta a comprendere le ragioni della scelta del villaggio di Niccioleta per il compimento di quella che fu la prima strage operaia della Guerra di Liberazione. Fu una vendetta contro operai ostili al fascismo della R.S.I. e agli occupanti tedeschi, e un monito terribile per tutta la classe operaia che, pochi mesi prima, nel marzo del 1944, anche a Firenze non aveva esitato a scioperare (e ad affrontare la reclusione e, spesso, la morte nei campi di concentramento tedeschi) pur di manifestare la propria opposizione al nazifascismo.

APPENDICE

Il profilo di un antifascista: Fausto Pizzetti

Se dovessi fare un consuntivo della vita di mio padre e, di conseguenza, della mia famiglia in modo aridamente matematico (dare – avere), penso che dovrei essere largamente a credito. Certo a distanza di così tanti anni sia i ricordi personali miei, sia quello che mio padre mi ha raccontato del periodo precedente la mia nascita, sono un po’ sfumati nella mia mente, ma qualcosa è rimasto, anche se di quel periodo posso ricordare i fatti, ma non datarli con precisione. Comincia con la Prima Guerra Mondiale. A 17 anni era sul Carso con i suoi coetanei (i ragazzi del ’99) dei quali pochi tornarono a casa vivi, e quello che ebbero in cambio fu una polizza e la disoccupazione. Penso che questo stato di disagio abbia influito sulla sua adesione prima alla Gioventù Socialista, poi, dopo la scissione al Congresso di Livorno del 1921, al Partito Comunista. I primi anni dopo l’avvento del Fascismo furono anni di dura contrapposizione con i fascisti locali; e dovette riparare a Roma dove trovò lavoro come muratore. Ma anche lì per le sue idee e per aver aderito a scioperi degli edili, e a manifestazioni di protesta, conobbe il fermo di Polizia e diverse volte finì nel carcere di Regina Coeli. Verso la fine degli anni ’20 tornò nel suo paese di origine. Con l’aiuto della sua famiglia cercò di avviare un’attività di osteria-trattoria37, ma i fascisti locali, dopo che aveva avviato questa attività, con la scusa che il suo locale era frequentato da oppositori del regime (covo di comunisti) lo facevano chiudere. Lui, testardo, ne riaprì altri due, sempre con lo stesso esito. Finché stanco di queste continue vessazioni, andò alla bonifica delle paludi Pontine, dalle quali tornò sempre con le tasche vuote ma in compenso con la malaria. Il persistere della grande crisi del ’29 costrinse le famiglie della montagna a cercare lavoro ovunque fosse possibile e, anche la famiglia di mio padre non ebbe altra scelta: una femmina restò ad Abbadia (una era morta durante l’epidemia della Spagnola); i maschi due a Niccioleta, uno in Trentino e mio padre con una ditta che curava l’elettrificazione della linea ferroviaria Firenze-Roma. Qui comincia la parte che personalmente ricordo. Purtroppo però mio padre si portava dietro l’etichetta di “sovversivo” e, questo certo non ci facilitava la vita. Oggi potrei paragonare la nostra vita a quella dei “Rom”. Questi i paesi nei quali abbiamo risieduto lungo la linea Firenze-Roma: Fabbro-Ficulle- Allerona-Attigliano-Monterotondo (dove è nata una mia sorella), ed infine Roma. Come nomadi, sempre con la valigia in mano, ed in ogni paese camera con uso di cucina, finché non venivano i carabinieri, ogni volta ad intimarci di andare via perché sgraditi secondo l’informazione della questura. Poi un breve ritorno ad Abbadia nel 1938. Finalmente un lavoro stabile alle miniere del Siele, dovuto in parte a qualche raccomandazione (anche allora erano in auge) e in parte al fatto che il direttore, ing. Spirak, era contrario al regime. Certo essere contrario al regime comportava delle conseguenze, essere considerati “sovversivi” voleva dire subire tante piccole angherie: niente colonie per i figli, niente befana e infine essere sempre controllati. Tutto ciò non comportava un rilassamento della lotta clandestina da parte di mio padre. Ricordo le riunioni che avvenivano in casa mia, i medicinali e qualche arma, che poi dirottava verso i partigiani che operavano in montagna38. Un avvenimento in particolare mi è rimasto in mente: la venuta di Hitler in Italia. Mio padre era al lavoro in miniera. La sera non tornò a casa; dopo alcuni giorni sapemmo cosa era successo. I carabinieri lo avevano prelevato dal lavoro con un altro operaio di cui mi sfugge il nome e li avevano portati nella prigione mandamentale di Arcidosso per prevenire attentati. Restarono in prigione per tutto il periodo che Hitler stette in Italia cioè 15 giorni, poi li rimisero in libertà. Ricordo anche alcuni nomi di persone che operavano nella clandestinità: Tancioni, Diecinè, Prianti e Fernando Di Giulio. Di tanti altri purtroppo non ho più ricordo. Mio padre non disconobbe mai la sua origine operaia e comunista, fu sempre attivo sia nel sindacato, in cui ricoprì cariche direttive, che nel partito comunista. Un fatto mi torna in mente. Credo che lui ed altri abbiano attuato quello che potrebbe essere la prima riforma agraria. Infatti ottennero per ogni capofamiglia di Santa Fiora la concessione di un piccolo appezzamento di terreno per uso familiare da parte del grande proprietario terriero Pellegrini-Bandi. In fondo lo potrei definire un idealista. E infatti il suo ideale di libertà e di giustizia lo portò alla liberazione di Santa Fiora, avvenuta ad organizzare un nucleo di volontari, nel C.V.L., poi inquadrati nel gruppo di combattimento “Cremona”. Certo ci lasciò in una situazione poco simpatica per persone senza nessun mezzo di sostentamento, tanto è vero che il comandante della divisione “Cremona”, gen. Clemente Primieri ci spedì 3500 lire per aiutarci. Tutto questo fino alla ritrovata libertà. Poi il 1948, un anno di prigione. Ma questa è un’altra storia. Da mio padre ho avuto una grande eredità, non soldi, non beni, ma qualcosa in cui credere: libertà, giustizia e onore.

Gastone Pizzetti

Il profilo di un antifascista amiatino a Niccioleta: Guido Martellini

Guido Martellini è uno dei minatori di Niccioleta uccisi a Castelnuovo Val di Cecina. Ricostruendo alcune notizie biografiche, quella che emerge è la figura di un antifascista più volte perseguitato e oggetto di violenza. Il nipote Luciano Martellini, racconta:

Mio zio – che abitava in Borgo, nella piazza di S. Agostino, dove ora sta il Sauro – durante la guerra era stato sergente istruttore. Apparteneva ad una famiglia di antifascisti: mio nonno era di sinistra, ma aveva tendenze anarcoidi. Una volta i fascisti avevano fatto una lotteria: vinse lui ma il premio non glielo vollero dare. Allora mio nonno disse “Dallo a quel muso nero [Mussolini]”. Quando nel ’34 inaugurarono le Scuole elementari, mio zio, che aveva lavorato con l’impresa, disse qualche parola di troppo e i fascisti lo picchiarono. I fascisti di Montecatino erano loro nemici dichiarati. La domenica non li volevano in giro e li mandavano a casa, perché a volte c’erano delle risse (se i fascisti formavano una squadraccia erano dolori, ma se si affrontavano alla pari, nei bar o nelle osterie, i fascisti le prendevano sempre). Poi – qui il lavoro per gli antifascisti non c’era, i miei andarono a Cerretopiano – lui andò a Niccioleta, e fu ospite della sua zia, che era la mamma di Stelio (Olivelli). E lì prese a frequentare gli antifascisti dell’Amiata. Una sera, nel 1938, si trovarono quattro o cinque ragazzi di Santa Fiora e vollero fare il Carnevale morto, che è una tradizione santafiorese. Vestirono il carnevale con una camicia nera, il fez e ‘gni cosa e quando uscirono fuori, i fascisti lo presero per quello che era, e ci fu una grossa scazzottata [il caporione del fascio cadde a terra, con il sangue che gli usciva dalla bocca], e la notte i carabinieri andarono ad arrestare mio zio. Ma il babbo di Stelio – che era un antifascista (Pensa che, insieme ad altri, andava sempre in Peschiera il Primo maggio, durante il periodo del fascismo, e arringava le folle dicendo: “Compagni, alziamo le mani callose!”) – quando stavano per mettergli le manette, gli disse: “No, le manette in casa, non gliele mettete”. E poi lo portarono al carcere mandamentale di Massa Marittima, dove stette una ventina di giorni [ma inizialmente la condanna era a 60 giorni].

Stelio, che era allora un ragazzo, racconta a questo proposito:

Guido venne a Niccioleta, mi pare verso il ’37 (noi si stava già lì dal ’35) e venne ad abitare con noi, dormiva in camera con me e mio fratello [anche lui ucciso a Castelnuovo Val di Cecina]. Una volta c’era un veglione organizzato dai fascisti nella stanza grande del dopolavoro, e loro – Guido e i suoi amici – fecero una rappresentazione del carnevale morto. E quando arrivarono alla festa non li volevano fa’ entra’. Insomma ci fu un po’ di … si letigarono. E la notte, mi svegliai e c’erano i carabinieri in fondo al letto. “Via, via” – io ero impaurito, avevo una decina d’anni – e di fatti si vestì e lo portarono a Massa Marittima. Li tennero una ventina di giorni in prigione. Mia mamma, la zia di Guido, andava tutti i giorni a Massa Marittima: faceva otto km a piedi, andata e ritorno, per trova’ questo nipote. Quando li liberarono – intervenne anche il Dottor Mori per chiedere la liberazione, perché erano bravi operai – rivennero a Niccioleta e c’era un posto chiamato Poggio della Madonna, un podere con grandi querci. E si ritrovarono tutti su – familiari, amici – e fecero una merenda. Cantavano… Tanto è vero che quando tornai a casa chiesi che cosa cantavano. Era un motivo, una canzone che non conoscevo, non sapevo. E ’l mi’ babbo, dopo un po’ di tempo mi disse che era “L’internazionale”. Però non si vide nessuno. Dopo Guido sposò e stava in una casa da solo.

Bibliografia essenziale AA. VV., 1943-1945. La liberazione in Toscana. Testimonianze ricordi dai comuni toscani , Ed. G. Pagnini, Firenze 1994 Aa. Vv., Guerra per bande. Dalla Val d’Orcia all’Amiata , Ed. Il ponte, Firenze 2003 AA. VV., La Resistenza sul Monte Amiata tra memoria individuale e ricostruzione storica , Luda edizioni, Napoli 1999 AA. VV., Lo strano soldato , La Pietra editore, Milano 1976 AA. VV., Roccalbegna 11 giugno 1944. Un giorno di un tranquillo paese tra la Maremma e l’Amiata, Comune di Roccalbegna-Ed. effigi, Arcidosso 2004 A. D’ALFONSO, Le ragioni della costanza , Ed. Vangelista, Milano 1984, AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI GROSSETO, La Provincia di Grosseto alla macchia , Grosseto, 1965 E. BALDUCCI, Il sogno di una cosa , ECP, Fiesole 1993 C. BARONTINI - F. BUCCI, A Monte Bottigli contro la guerra: dieci “ragazzi” un decoratore mazziniano un disertore viennese , A.N.P.I Grosseto, Grosseto 1995 C. BARONTINI - F. BUCCI, A Monte Bottigli contro la guerra: dieci “ragazzi” un decoratore mazziniano un disertore viennese . Fra oralità e storia , Ed. La Ginestra, Follonica 2003 R. BATTAGLIA - G. GARRITANO, La Resistenza italiana. Lineamenti di storia , Roma 1974 L. BIANCIARDI - C. CASSOLA, I minatori della Maremma , Ed. Laterza, Bari 1956 C. BISCARINI, La battaglia del Monte Amiata (16 - 25 giugno 1944), in “Amiata storia e territorio”, n. 11, Agosto 1991 L. CASELLA, La Toscana nella guerra di liberazione , Ed. La Nuova Europa Editrice, Carrara 1972 M. CAPECCHI, Autobiografia di un operaio comunista (1913-1967). La resistenza in provincia di Siena , Centro editoriale Toscano, Firenze 1997 N. CAPITINI MACCABRUNI (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo , Grosseto 1985 CENTRO STUDI “FERNANDO DI GIULIO”, (a cura di L.N.), Resistenza e liberazione. Documenti e testimonianze dell’area amiatina , Santa Fiora 1995 T. GASPARRI, La Resistenza in provincia di Siena , Ed. Olscki, Firenze 1976 L. NICCOLAI, M. MAMBRINI E M. PAPALINI, La memoria di Niccioleta , Coop Unione Amiatina, Effigi Ed., Arcidosso 2003 I. ORIGO, Guerra in Val d’Orcia. Diario 1943-1944 , Le Balze, Montepulciano 2002 P. PEZZINO, Storie di guerre civili. L’eccidio di Niccioleta , Ed. Mulino, Bologna 2001 G. SERAFINI, I ribelli della montagna , Ed. Del Grifo, Montepulciano 1981 M. STAMPACCHIA , Di Giulio, lo studente comunista del Collegio Mussolini che Togliatti volle con sé a organizzare il partito , in “Sant’Anna News”, Newsletter dell’Associazione Ex-Allievi Scuola Superiore S. Anna. Pisa, Numero 6, Dicembre 1995 K. TADDEI, Coro di voci sole , Ed. Il Ponte, Firenze 2003 M. TANZINI, Sui martiri di Niccioleta , “Tracce… ’98”, Santa Fiora 1998 E. ZANNERINI, Il Massacro della Niccioleta , Federazione Provinciale Minatori, ripubblicato dall’Amministrazione provinciale di Grosseto, 1999 Note 1 Cfr. IRIS ORIGO, Guerra in Val d’Orcia, diario 1943-44, Montepulciano 2000. 2 Attilio Sforzi è uno dei renitenti alla leva assassinato dai fascisti a Maiano Lavacchio il 23 marzo 1944. 3 N. CAPITINI MACCABRUNI (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo , Grosseto 1985, p. 217. 4 Così racconta il comandante Gambosu: “Nella seconda quindicina di settembre del 1943 incontrai a Roma il Ten. Col. di S. M. Bernabò Sire, col quale subito fu stabilito quale dovesse essere, in linea di massima, il nostro atteggiamento e la nostra opera in relazione alla situazione politico-militare del momento. Rimanendo d’accordo d’organizzarci militarmente, di svolgere opera di propaganda deleteria per i nazifascisti, di compiere atti di sabotaggio e di intervenire con le armi contro i tedeschi e i fascisti ogniqualvolta se ne presentasse l’occasione. Sfuggito a Roma per mero caso ad alcuni tentativi di cattura mi allontanai dalla città, e dopo burrascose peregrinazioni, stabilii il mio centro di azione nella Maremma toscana. Lì mi dedicai ad un duplice compito: - rifornimento delle bande esistenti; - organizzazione di una banda con centro di azione a Castel del Piano sull’Amiata”. 5 Relazione Gambosu 6 Si trattava di Fernando Di Giulio. 7 Testimonianza di Aristeo Banchi, membro del Comitato Militare clandestino del Comitato di Liberazione. 8 M. CAPECCHI, Autobiografia di un operaio comunista (1913-1967) , p. 107. 9 ivi , p. 111. 10 Cfr. F. DOMINICI, Cent’anni di storia Sorano 1860-1960 , Stampa Alternativa, Roma 2001, pp. 161 e segg. 11 Ivi , p. 164. 12 T. GASPARRI, La Resistenza in provincia di Siena , pp. 131/3. 13 F. DOMINICI, Op. cit ., p. 161. 14 M. CAPECCHI, Op. cit ., p. 98. 15 N. CAPITINI MACCABRUNI, Op. cit., p. 218. 16 Ivi, p. 214. 17 T. GASPARRI, O p. cit ., pp. 136/7. 18 N. CAPITINI MACCABRUNI, Op. cit. , p. 217. 19 Si fermò presso di loro per circa 4 anni e affrescò la cappella dove riposa Alfiero, nel cimitero di Cinigiano. 20 P.V. MARZOCCHI, Op. cit ., p. 90 21 S. GAMBOSU, Relazione , In 22 “La formazione era ormai consolidata; eravamo una settantina di persone. Il comando era costituito da me, comandante militare, da Sestilio Pedani, commissario politico, da Enzo Nizza, vice comandante militare, e da Fernando Di Giulio, vice commissario. Nizza e Di Giulio erano due giovani intellettuali, ma erano anche molto bravi come partigiani …”, in M. CAPECCHI, Op. cit ., p. 113. 23 Cfr. CAPECCHI, Op. cit ., p. 118-9. 24 Cfr. M. CAPECCHI, Op. cit ., p. 119 25 Probabilmente i rapporti con la Società Monte Amiata erano favoriti anche dal fatto che il Direttore Malvezzi avesse un figlio partigiano. 26 E. NIZZA, in AA.VV., Lo strano soldato , La Pietra, p. 271-2 27 S. GAMBOSU, Relazione, cit. 28 Relazioni partigiane, citate in CENTRO STUDI “FERNANDO DI GIULIO” (a cura di L.N.), Resistenza e liberazione., Documenti e testimonianze dell’area amiatina , Santa Fiora 1995, p. 40. 29 A seguito di questa azione, per rappresaglia, i tedeschi, il 10 giugno, fecero saltare la croce monumentale della vetta dell’Amiata. 30 T. GASPARRI, Op. cit ., p. 264. 31 Relazioni partigiane, citate in CENTRO STUDI “FERNANDO DI GIULIO” (a cura di L.N.), Resistenza e liberazione. Op. cit, p. 38. 32 T. GASPARRI, Op. cit . 33 S. GAMBOSU, Relazione, cit. 34 S. GAMBOSU, Relazione 35 T. GASPARRI, Op. cit. , pp. 264/272 36 Alessandro Pavolini, Lettera al Duce del 18 giugno 1944 , in N. CAPITINI MACCABRUNI (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo , Grosseto 1985, p. 192. Pavolini fu uno dei principali ispiratori della politica fascista della “terra bruciata”, che aveva prodotto, tra le altre, la strage operaia di Niccioleta. 37 R. BATTAGLIA e G. GARRITANO , La Resistenza italiana. Lineamenti di storia , Roma 1974, p. 90. 38 A. SABATINI, Testimonianza in AA.VV., Lo strano soldato , La Pietra, Milano 1976, pp. 334-335. 39 M. CAPECCHI, Op. cit ., p. 118-9. 40 Ivi, p. 119. 41 M. TANZINI, L’eccidio dei minatori di Niccioleta , in “La Spalletta”, 14 giugno 2003. 42 P. PEZZINO, Storie di guerre civili. L’eccidio di Niccioleta , Il Mulino, Bologna 2001, pp. 53-55 43 L’osteria era un punto di ritrovo per antifascisti, come ricorda Corrado Bisconti in una testimonianza pubblicata da Avanzati in Gente e fatti del Monte Amiata . Cfr. p. 110 44 Aldo D’Alfonso, che fu comandante del GAP di Santa Fiora, così ricorda Fausto Pizzetti: “Un minatore che aveva incontrato andando su e giù per la piazza del paese, la prima domenica dopo che era arrivato lì. Un giorno, era la fine del 1943, lo aveva avvicinato e lo aveva portato a passeggiare verso il ponte. “Senti – gli aveva detto – non occorrono tanti preamboli. Sappiamo che sei dei nostri, che la pensi come noi per quanto riguarda il fascismo”. Quella prima persona plurale non aveva bisogno di spiegargli chi rappresentasse, era il suo partito, i suoi compagni. “E tra noi sei quello che ha maggiore conoscenza di armi, di comando di uomini. A quindici chilometri da qui, in montagna, c’è un gruppo di ragazzi, di renitenti alla leva che non vogliono andare con i repubblichini. Organizzali e portali alla lotta”. Così, con una semplicità che l’ultima frase un po’ retorica non aveva guastato. E lui con la stessa semplicità, con l’incoscienza dei diciotto anni – ma questo lo aveva pensato dopo – aveva detto di sì, va bene. E il giorno dopo era partito.” […] Secondo la testimonianza di D’Alfonso, era Fausto Pizzetti che distribuiva al Siele un giornalino comunista battuto a macchina dallo stesso D’Alfonso e Di Giulio: “Una sera, con sette otto copie del giornale sotto la camicia […] era arrivato a casa di Fausto, una stanza da letto e una cucina, giù nel Borgo. Gli aveva consegnato le copie, un rapido scambio di notizie, due parole, così di fretta perché era bene non farsi notare insieme. “Avete fatto uscire anche questo numero – gli aveva detto Fausto – bravi. Ora mi metto qui, in piedi, sotto la lampada e leggo la mia copia. Così domattina posso dar via anche quella. È sempre una copia in più.” Lo aveva colpito quella frase: “Perché in piedi sotto la lampada?”. Gli aveva sorriso e con la solita calma semplicità gli aveva spiegato: “Vedi. Sono tornato da poco dal Siele. Sedici chilometri in bicicletta. E domattina altri sedici chilometri e poi otto ore in fondo ad un pozzo. Sono robusto, ci sono abituato al lavoro e alla bicicletta anche se in montagna i chilometri, specialmente alcuni, pesano. Ma leggere per me è fatica. Non che scriviate in modo difficile, ma certe frasi, certi ragionamenti, è peggio che spicconare in un cunicolo stretto. Insomma, se mi metto a sedere rischio di addormentarmi e non arrivo alla fine. Invece voglio leggere tutto. Sai, ho fatto solo la seconda elementare e tanti anni fa. In piedi è diverso. Se ti si chiudono gli occhi, ti mancano le gambe, ti risvegli. Capisci?”

Il giovane Fernando Di Giulio tra Università, lotta partigiana, impegno politico* Mauro Stampacchia Ordinario di Storia del movimento operaio e sindacale Facoltà di Scienze Politiche Università di Pisa Dipartimento Scienze della Politica

“Spiccata attitudine agli studi economici, unita a forza logica e a buona preparazione”: con questo giudizio lo studente di secondo anno di Giurisprudenza Fernando Di Giulio conclude il colloquio interno previsto come uno degli obblighi di studio nel “Collegio Mussolini”, svolto trattando del tema: “benessere economico ed interventi statali” (1) . Siamo nel maggio del 1943, e il giovane studente che, non ancora diciottenne, nato a Grosseto il 27 aprile 1924, ma proveniente dal liceo classico di Salerno, si iscriveva alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa evinceva il concorso nazionale per la ammissione al Collegio universitario a suo tempo voluto da Bottai e da Mussolini come fucina degli degli intellettuali del regime, avrebbe potuto, in quel lusinghiero giudizio, trovare più di un buon motivo per puntare ad una carriera di studio e di ricerca. Malgrado la intitolazione e i progetti del regime, quel Collegio, naufragata la tensione filo corporativa, era diventato luogo di intenso dibattito e di opposizione al fascismo. Lo ha recentemente rievocato con grande attenzione un altro collegiale, Emilio Rosini, di qualche anno più anziano, anche lui poi deputato comunista, il quale ha sottolineato come gran parte dei collegiali di quella sua stessa generazione siano poi diventati esponenti del ceto politico post-fascista, equamente distribuiti tra democristiani, socialisti e comunist (2) . Anzi, in qualche passaggio cruciale della storia politica repubblicana, come nella decisione del partito socialista di presentarsi con una lista unitaria di Fronte Popolare insieme ai comunisti nella prime elezioni politiche si trovarono, all’interno della dirigenza del partito socialista, a fronteggiarsi proprio due ex collegiali, Giovanni Pieraccini e Achille Corona, il primo contrario e il secondo favorevole (3) . Di Giulio, malgrado gli inizi decisamente favorevoli negli studi universitari, non intraprese la carriera dello studioso. Gli eventi della storia e la propria personale scelta (si era iscritto al Partito Comunista sin dal 1942, poco dopo la sua iscrizione all’Università) lo porteranno lontano da quegli esiti, anche se la giovanile formazione apparirà tutt’altro che superflua negli incarichi politici sempre più gravosi e delicati che andrà a ricoprire, e nei quali porterà la corposa presenza di una preparazione teorica di primo piano. Poco, comunque, il giovane Fernando condividerà del percorso che aveva portato tanti della sua generazione e moltissimi di quel Collegio da un generico “fascismo di sinistra” al liberalsocialismo e poi alla adesione ai partiti della sinistra. Egli appare già sicuramente orientato, come testimonia la sua iscrizione, che precede quella di un normalista, Alessandro Natta, che ritroverà poi nel ceto dirigente del Partito Comunista. Caso mai il suo percorso ricorda quello di un altro collegiale, Ermenegildo Moretti, il quale, anni prima, era stato individuato come iscritto al partito comunista, ed era dovuto fuggire precipitosamente, fino in Spagna, dove combatterà nella guerra civile. Al momento del concorso di ammissione il giovane Fernando aveva, nel redigere il profilo degli studi compiuti e degli interessi culturali richiesto per il concorso, scritto del suo “gran bisogno di chiarire a se stesso problemi di vita, di pensiero e d’arte” e della sua preferenza per “i problemi di prassi contemporanea in quanto … più rispondenti all’esigenza di consentire e di contrastare con altri cervelli ed altre attività di questo suo tempo”; scrive anche di essere attratto dagli studi di storia e filosofia “come mezzo per poter risolvere problemi politici, sociali ed economici al lume di una tradizione fortemente vissuta e di un pensiero chiaro e costruttore” e di sentire il bisogno di ampliare la propria cultura “in senso europeo” anche mediante l’apprendimento delle “maggiori lingue d’Europa (4) ”. Vince con lui lo stesso anno l’anconetano Carlo Smuraglia (5) , che diventerà nel dopoguerra un giuslavorista di fama, e poi senatore per molte legislature per il Partito Comunista Italiano, e il goriziano Francesco Verzegnassi. In quegli anni è ormai esaurita la fase più alta del Collegio Mussolini, nell’originario progetto di nido d’elezione di quella che sarà definita la “covata di Bottai”. Caduto l’impegno culturale militante a sostegno del progetto corporativo, ristrutturata dal nuovo direttore Carlo Alberto Biggini la Scuola di Scienze Corporative in senso più professionale che teorico, serpeggiano ormai fermenti culturali e politici di segno diverso, o in direzione di un “estraniamento dal regime” o invece in senso già esplicitamente antifascista. Bottai è adesso Ministro dell’Educazione Nazionale, ma il suo impegno, dopo il 1938, riguarda le leggi razziali e la loro applicazione nelle Università e a Pisa la sua influenza si fa ormai sentire per le insistenti circolari che il Ministero da lui diretto manda all’Ateneo per stimolare la epurazione. L’ultima “nuova fiammata di politicizzazione e di entusiasmo” si lega all’entrata in guerra nel giugno 1940, ma il rischio della “illusione”, sia pur “estrema” è palese (6) . Fernando Di Giulio appare però del tutto estraneo agli atteggiamenti “entristi” di tanti, pur antifascisti, negli ambienti gufini a Pisa, con collaborazioni a “Il Campano”, rivista del Gruppo Universitario Fascista, in un certo momento controllata di fatto dagli antifascisti, oppure alla più compassata e teorica “Archivio di Studi Corporativi” che era stata tenuta a battesimo dallo stesso Bottai nel 1932, e che aveva visto la presenza determinante di Ugo Spirito (prima che fosse trasferito all’Università di Messina). La sua già ricordata adesione al Partito Comunista ha il senso di una scelta inequivocabile. Il colloquio dell’estate 1943, al quale corrisponde un curriculum universitario di tutto rispetto7, doveva rivelarsi una delle ultime occasioni nelle quali a Di Giulio sarebbe stato consentito di dedicarsi a quella sua fortemente sentita vocazione. Il 25 luglio cade Mussolini, e alla fine di quella estate l’armistizio dell’8 settembre divide in due, politicamente e anche geograficamente, l’Italia, con la fondazione della Repubblica sociale del redivivo fascismo. Anche per evitare di dover servire in armi la Repubblica fascista, Di Giulio compie una scelta che moltissimi della sua generazione decisero di fare, e va nella Resistenza. In un primo tempo costituisce, insieme ad Aldo D’Alfonso, un “gruppo di azione patriottica” a Santa Fiora nel paese della madre, Agostina Diecinè, dove era solito di recarsi tutte le estati, e pubblica un giornale clandestino, Il comunista dell’Amiata . Un suo compaesano, Ernesto Balducci, che lo conosce in quelle estati, di lui ricordava, in una commemorazione del 1991, la “intelligenza lucida, cartesiana, dell’analisi” e “il livello di struttura mentale” che già allora manifestava. Nel maggio del 1944, per una delazione, sale in montagna, militando nella formazione “Ovidio Sabatini”, VII Distaccamento delle formazione intitolata a Spartaco Lavagnini, il cui raggio di operazioni si estende dalla zona del Monte Amiata sino alla Val d’Elsa (8) . “La cosa che più lo impegnava era lo studio, indossava un cappotto militare dell’esercito italiano, con delle grandi tasche rigonfie di libri, ricorda Aladino Pizzetti, che lo descrive, a sfatare lo stereotipo del “secchione” anche come “un tipo comunicativo, allegro, sorridente, sereno” (9) . In quella grande avventura generazionale e nazionale, Di Giulio non manca di spirito di adattamento, o di capacità militari. E conosce una giovane santafiorese, Wanda Parracciani, destinata a diventare sua moglie. Liberata nel giugno del 1944, con l’arrivo delle truppe alleate, la zona dell’Amiata, la preoccupazione di Di Giulio sembra comunque rivolta a riprendere l’interrotto cammino degli studi. Dalla federazione comunista di Grosseto, già il 14 giugno, scrive all’amico Pier Giovanni Verrucoli, che era stato “matricola” al Collegio nel 1942, quando lui era, sempre nel linguaggio goliardico, “fagiolo”, delle difficoltà incontrate nel riprendere gli studi, e incaricandolo di piccole incombenze legate a questo suo desiderio: “Scusami se ti do tante noie, ma noi del Collegio ci si aiuta, vero?” (10) In effetti Di Giulio si era recato a Pisa ma aveva trovato il Collegio chiuso e nessuna notizia sulla sua prossima riapertura, aveva cercato di ottenere il trasferimento a Siena, più accessibile da Grosseto con i trasporti dell’epoca, ma non c’era riuscito. Nemmeno era chiara la sua posizione rispetto al Collegio, o alla stessa iscrizione universitaria. “Io ora sto bene, ma ti garantisco che quando penso ai vecchi tempi mi viene un nodo alla gola che non riesco a mandar giù: non è retorica, credi, ho realizzato quasi tutti gli obiettivi che mi proponevo un tempo ma mi è rimasta un orrenda nostalgia di quando si facevano le matricole, si scherzava a fare gli antifascisti, si studiava e soprattutto si aveva il cuore pieno di belle speranze… (11) ”. Malgrado tutte le agevolazioni per i partigiani ed ex combattenti (12) i propositi di riprendere gli studi non raggiungono risultati, se ancora nell’aprile del 1945 Di Giulio può recarsi a Pisa solo saltuariamente per gli esami: cade così ogni possibilità di ricreare la desiderata comunità collegiale1(13) Pesano motivi di carattere logistico: la famiglia ha avuto la casa saccheggiata dai tedeschi, ma anche di altro e ben diverso tipo: il giovane studente universitario, dopo essere stato membro del CLN provinciale sta assumendo sempre maggiori responsabilità dirigenti nella Federazione comunista della provincia di Grosseto e si distingue a tal punto che nel maggio del 1947 viene chiamato a Roma alla Commissione centrale di organizzazione del partito da Togliatti in persona, attentissimo alle figure di intellettuali nuovi che stanno emergendo, e sensibilissimo alle capacità, non solo politiche, ma anche intellettuali, dei nuovi quadri del partito, per le quali attingerà ampiamente dalla Scuola Normale e dall’ormai ex-Collegio “Mussolini”, come è testimoniato anche dalla vicenda, personale e politica, di Alessandro Natta, di Furio Diaz, e di molti altri ancora. L’Università, per Fernando Di Giulio, finirà quindi in secondo piano e occorrerà qualche anno ancora perché arrivi la laurea. La tesi è in Diritto del Lavoro, relatrice Luisa Riva Sanseverino, e tratta de “Il diritto di sciopero e le sue limitazioni”. In questa ultima prova di carattere accademico Di Giulio non indulge in articolate analisi dottrinali o giurisprudenziali, ma stende un testo agile, ma sempre con grande rigore analitico e chiarezza espositiva. Dovendo indicare una preferenza interpretativa e di inquadramento teorico del diritto di sciopero, egli difende il principio della autodifesa dei lavoratori, legato ad una interpretazione storico politica: “Il diritto dei lavoratori di difendersi in modo autonomo, perché nessuno al di fuori di se stesso può difenderli: ecco la base del diritto di sciopero. Non diritto quindi degli individui ma di un gruppo sociale, il proletariato. Diritto non concesso dallo Stato, ma strappato allo Stato, perché diretto anche contro di esso dalle lotte dei lavoratori” (14) . Contenuto e taglio della tesi sono decisamente emblematici sia della personalità che Di Giulio aveva maturato, ancora ricca di asprezze teoriche e di riferimenti classisti, che dell’epoca in cui è stata redatta. E veramente significativa anche la data nella quale la tesi è depositata in segreteria: il 13 luglio 1948, esattamente un giorno prima di un evento cruciale nella storia del dopoguerra e momento di grande impegno per l’apparato di cui ormai Di Giulio fa parte. Il 14 luglio, uscendo dalla Camera, Palmiro Togliatti viene ferito da colpi di pistola, sparati da uno studente, e questo scatena reazioni popolari particolarmente forti (e l’amiatino è in primissima fila) impegnando a fondo la struttura del partito che deve orientare ma anche contenere la protesta. La parte successiva della vita di Di Giulio appartiene a buon diritto alla storia del partito di cui ha scelto di far parte, e quindi anche alla storia politica italiana nel suo complesso. Nel partito comunista egli è nella ristretta cerchia di quella che verrà chiamata la “seconda generazione”, rappresentata dagli Amendola, Ingrao, Bufalini, Berlinguer, Alicata, Macaluso, Pecchioli, Cossutta, Galluzzi, Chiaromonte, Trivelli, di coloro i quali avevano aderito al partito ancora sotto il fascismo, e che veniva immediatamente dopo la prima generazione, il nucleo storico dei fondatori, e prima di quella degli iscritti dopo la caduta del fascismo (15) Per poco, Fernando Di Giulio sopravanzerà il normalista Alessandro Natta, che quando va via da Pisa, mentre Di Giulio vi arriva, è ancora su posizioni sì antifasciste ma sostanzialmente liberalsocialiste (16) . Con l’VIII Congresso, nel 1956, Di Giulio entra nel Comitato Centrale, nel 1962 è cooptato nell’Ufficio di Segreteria, e nel 1966, al XI Congresso, è eletto nella Direzione, entrando a far parte così del nucleo più ristretto della dirigenza comunista, per la quale è responsabile della sezione “lavoro di massa”. È dunque uno dei protagonisti della fase espansiva della capacità del movimento operaio di “aggregare ampi settori sociali e quindi incidere in profondità negli equilibri di potere” (17) . L’originaria connotazione classista ed antagonista degli anni post bellici è diventata capacità di analisi ed azione politica e sociale a 360 gradi, nel solco della evoluzione dello stesso partito comunista. La strategia della “lotta per le riforme” cioè l’utilizzo della forza rivendicativa e di lotta degli operai anche al di fuori della fabbrica per sostenere obiettivi di carattere generale (pensioni, sanità, casa, scuola, etc.), trova in lui uno degli artefici più convinti. E sulla base della sua preparazione economica e sociale degli anni universitari, rende azione politica sulla base di analisi sociale ed economica l’antica e giovanile tematica del “benessere economico e interventi statali” di cui abbiamo detto. Nel maggio 1972 viene eletto deputato per la circoscrizione di Siena-Arezzo-Grosseto e sarà riconfermato in tutte le successive legislature, nel 1976 come vicepresidente del gruppo parlamentare diretto da Alessandro Natta, nel 1979 assumendo direttamente la presidenza (18) Nel risultato elettorale del 1976, che porta il Pci a sfiorare la maggioranza relativa con il 34,4% dei suffragi, confluiscono anche gli effetti della politica delle riforme così fortemente propugnata da Di Giulio, e questo determina una sua accresciuta responsabilità nella nuova fase politica che si apre con il terzo governo Andreotti sul programma del quale il Pci si schiera per la astensione. Di Giulio è il tramite tra partito e presidenza del consiglio, che contatta attraverso il sottosegretario Franco Evangelisti. Da quell’osservatorio privilegiato, egli è in grado di individuare i primi segni di esaurimento della politica di solidarietà nazionale, che andrà a concludersi, dopo il rapimento Moro, con la decisione del Pci, nel gennaio del 1979, di uscire dalla maggioranza. La riconsiderazione e il ripensamento della politica di quegli anni è affidata alle pagine del libro, scritto a due mani con il giornalista Emanuele Rocco, Un ministro ombra si confessa (Rizzoli, 1979), nelle quali Di Giulio parla di “ingenuità programmatica” del suo partito che non avrebbe tenuto sufficientemente conto che, oltre che nelle istituzioni, il potere che aveva svolto la più strenua resistenza rispetto alla collaborazione di governo con il Pci si annidava nei luoghi più gelosamente custoditi ed appartati, dai servizi segreti alla P2, nelle consorterie legate alla corruzione. È la tematica dei “poteri occulti” e della “questione morale”, sollevata con grande enfasi da Enrico Berlinguer, e da Di Giulio presentata in interventi sulla stampa di partito, su riviste specializzate, come l’intervista- colloquio con Antonio Baldassare su Democrazia e Diritto del maggio 1981, o l’editoriale di Politica ed Economia del luglio agosto di quello stesso anno su “poteri occulti e alternativa democratica” nel quale si sottolinea la pericolosità di un’associazione come la P2 e si mette in relazione l’emergenza “morale” con quella economica con parole che non solo conservano tutta la loro attualità ma stanno a testimoniare come vi fosse stato chi avesse anticipato e quasi preveduto lo sviluppo abnorme di quelle pratiche di corruzione e di quegli intrecci perversi che sfoceranno poi nella stagione di Tangentopoli, con tutte le influenze negative sulla governabilità e sulla tenuta del sistema politico. “Viviamo in una situazione economica gravissima, nella quale si sommano cause internazionali ed interne. Per fronteggiarla occorrono misure serie, impossibili senza un ampio consenso sociale. Ma come costruire questo consenso senza provvedimenti che indichino una chiara volontà di risanare l’apparato dello stato, garantire la democrazia, spezzare i poteri occulti? Affrontare la questione morale è premessa indispensabile se si vuole affrontare l’emergenza economica; altrimenti è tutto illusorio”( 19) . Di Giulio individua in questo passaggio uno dei nodi più controversi del momento politico ma evidenza anche i nessi tra governabilità ed egemonia da una parte e lotta ai poteri occulti dall’altra in una maniera che appare tanto profetica quanto, a tutt’oggi, impraticata. Ma doveva questa elaborazione politica essere anche una sorta di testamento politico. La repentina scomparsa di Fernando Di Giulio, nell’agosto del 1981, a soli 57 anni, chiude un percorso politico ancora suscettibile di ulteriori tappe, e tre anni dopo, nel giugno del 1984 muore anche Enrico Berlinguer. Manca a tutt’oggi uno studio biografico esauriente su quella che, insieme a Berlinguer, è una delle figure più innovative e lucide della storia del partito comunista italiano del secondo dopoguerra Questa sintetica nota si limita quindi a cogliere gli elementi di continuità dal giovanile impegno di studente a quello più gravoso di dirigente politico di portata nazionale, rinviando ai necessari più approfonditi studi. Note * Questo intervento aggiorna e amplia il mio articolo Di Giulio, lo studente comunista del Collegio Mussolini che Togliatti volle con sé ad organizzare il partito , comparso in “S. Anna News”, n. 6, dicembre 1995, pp.20-21. 1 Processo verbale colloqui interni allievi Collegio Mussolini, a. 1942-43, in Archivio Storico della Scuola Normale Superiore (d’ora in poi A.S.S.N.S.), busta 78. La commissione, presieduta da Lorenzo Mossa, è composta da Jannaccone, Bruguier, Funaioli, Miele e Melzignano. Nel colloquio del primo anno Di Giulio aveva trattato di un argomento di storia delle dottrine economiche, riferendo su “Antonio Serra e il mercantilismo”, relatore Bruguier. 2 EMILIO ROSINI, L’ala dell’angelo. Resoconto di un comunista perplesso , Ed. Storia e Letteratura, Roma, 2003. “il Collegio Mussolini negli anni trenta e nei primi anni quaranta diede la prima formazione e futuri professori ed avvocati di vaglia e funzionari di altissimo livello, ad almeno una dozzina di futuri parlamentari (parecchi, se si considera che dal 1932 al 1943 i collegiali furono complessivamente un centinaio), molti per più legislature e in posizioni di prestigio. Ce ne sono ancora, dopo più di mezzo secolo da quegli anni. Alcuni di loro hanno fatto parte di vari governi: Giovanni Pieraccini, Mario Ferrari Aggradi, Antonio Maccanico, Danilo De Cocci… Fernando Di Giulio quando morì prematuramente ricopriva la carica di presidente del gruppo comunista alla Camera dei Deputati (p. 52)”. 3 ibidem, p. 52. Rievocando il clima politico ed intellettuale di quella comunità collegiale, Rosini scrive: “Quella che conobbi io era, al Collegio e alla Scuola Normale Superiore (nel 1939-40 la nostra sede fronteggiava, in Piazza dei cavalieri, quella assai più maestosa della Normale), un’altra leva di antifascisti: Alessandro Natta, Mario Spinella, Giorgio Piovano, Mario Baratto, Marco Aurelio Giardina, Giovanni Pieraccini, Raffaele Di Primio, Vittorio Frosini, e i più anziani Ruggero Amaduzzi e Achille Corona. Nessuno di loro proveniva dal corporativismo di sinistra, e dopo la liberazione militeranno tutti nel partito socialista o nel partito comunista o nei dintorni così come quasi tutti quelli che sono entrati al Collegio con me o dopo di me (Bruno Amaduzzi, Raimondo Ricci, Emilio Dusi, Francesco Pinardi, Carlo Smuraglia, Antonio Maccanico, Fernando Di Giulio) E tutti, per quanto ne so, parteciparono alla Resistenza (p. 47)”. 4 In Fascicolo personale Fernando Di Giulio, in Archivio corrente studenti Scuola Normale Superiore. Di Giulio, studente del Liceo Classico “Tasso” di Salerno, era stato ammesso a sostenere la maturità un anno prima alla fine della seconda liceo perché promosso con una media superiore a otto decimi. Per l’esame di maturità si era preparato, secondo le sue dichiarazioni, “in gran parte da solo”, con l’ausilio della lettura de “La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea” di Bertrando Spaventa. Al concorso di ammissione al Collegio aveva svolto la prova scritta su “significato storico e valore filosofico del Principe di Machiavelli” e affrontato la prova di tedesco, una versione da Novalis (A.S.S.N.S., busta 62, Elaborati 1941). 5 Come riferisce PAOLO SIMONCELLI, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa , F. Angeli, Milano, 1994, pp. 144- 5, Smuraglia aveva attirato la attenzione della polizia per la sua frequentazione di un gruppo antifascista clandestino denominato “la tabaccheria”, di cui facevano parte Raffele Causa, Emilio Tolaini, Giancarlo Taddei, Franco Russoli ed Ettore Pallone. Nel novembre 1942 Smuraglia si difendeva, in una lettera al Direttore della Scuola Normale, da cui dipendeva il Collegio “Mussolini”, il filosofo Giovanni Gentile, che le sue dovevano intendersi come “critiche costruttive”. 6 Bruno Toniolatti, La Scuola Normale Superiore e la direzione di Giovanni Gentile (1928-43) , tesi di laurea a.a. 1984-5, Facoltà di Lettere, Università di Firenze, pp. 466-501 e, per gli ambienti universitari e “gufini”, Paolo Nello, “Il Campano”. Autobiografia politica del fascismo universitario pisano (1926-1944), Nistri-Lischi, Pisa, 1983, pp. 231-60, mentre sulla Normale torna Paolo Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso (1928-1938), F. Angeli, Milano, 1998. 7 Nel suo primo anno universitario Di Giulio sostiene ben dieci esami, di cui sette nella sessione estiva, tutti con la massima votazione e in sei di essi con la lode. Tra i suoi docenti Giovan Battista Funaioli per Diritto Privato, G. Nicoletti per Storia delle dottrine politiche, Bruguier per la storia delle dottrine economiche e Biggini per il diritto costituzionale. Nel secondo anno il curriculum degli esami si arresta il 19 giugno 1943 con cinque esami tutti a pieni voti (e quattro lodi). 8 ALDO D’ALFONSO, “La formazione partigiana di Santa Fiora”, in Resistenza e Liberazione. Documenti e testimonianze dell’area amiatina , a cura del Centro Studi “Fernando Di Giulio”, Arcidosso, pp. 1995, pp. 25-28, Fa menzione della militanza partigiana di Di Giulio Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano. V. La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino, 1973, p. 358. 9 ALADINO PIZZETTI, “Nando partigiano: con le tasche rigonfie di libri”, in Centro Studi, cit .. 10 F. DI GIULIO a P.G. VERRUCOLI, 14 giugno 1944, in Fascicolo “Fernando Di Giulio”, cit. Verrucoli, insieme a Leonardo Saudino di Sarzana, Guido Guasco di Torino e Antonio Maccanico di Avellino, fa parte dell’ultima infornata, quella del 1943-44, del Collegio d’anteguerra, e diventerà professore presso l’Ateneo pisano. Nel dopoguerra il Collegio riaprirà i battenti con la intitolazione a Giuseppe Mazzini. 11 ibidem . 12 Un bando di concorso, a firma del Direttore della Scuola Normale Luigi Russo e del Ministro per l’assistenza post- bellica Emilio Lusso, in data 4 novembre 1945 (A.S.S.N.S., b.85) prevedeva che nella graduatoria dei vincitori dei posti fossero compresi, di diritto, chi già fosse stato ammesso al Collegio e fosse stato costretto ad “interrompere gli studi per causa di guerra e dipendenti dalla guerra”. 13 SERAFINO DI GIULIO a Direttore della Scuola Normale Superiore, 14 aprile 1945, in Fascicolo personale, Archivio corrente S.N.S. 14 L’originale della tesi di laurea di Fernando Di Giulio è rintracciabile presso la Biblioteca Universitaria di Pisa, in un fondo di rilevante interesse in corso di schedatura. 15 C. SEBASTIANI, “Organi dirigenti nazionali: composizione, meccanismi di formazione e di evoluzione, 1945-79, in Il Partito Comunista Italiano. Struttura e storia dell’organizzazione 1921-1979 , a cura di M. Ilardi e A. Accornero, Annali Feltrinelli, a. XXI, 1981, pp. 387-443. 16 NATTA, per usare le sue stesse parole nell’intervento al convegno Il contributo dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore alla lotta antifascista e alla guerra di liberazione , Pisa, 24-25 aprile 1985, ora in Atti , a cura di Filippo Frassati, Giardini, Pisa, 1989, pp. 216-17, era stato “dentro tutto” quanto si muoveva contro al regime in quegli anni a Pisa, ma aveva rifiutato la adesione al Pci che gli era stata proposta da Bruno Pontecorvo. 17 Dizionario biografico degli italiani , ad vocem , (a cura di F.M. Biscione). 18 Sulla attività parlamentare, F. Di Giulio, Discorsi parlamentari , Roma, Grafica Editrice Romana, 1986. 19 L’editoriale e l’intervista sono ora ripubblicati in Lotta politica e potere occulto , a cura del Centro Studi “Fernando Di Giulio”, Arcidosso, agosto 1993, che comprende anche due interventi, di Guido Quercini e di Silverio Corvisieri, e la orazione funebre pronunciata da Alessandro Natta alle esequie di Di Giulio. Una prima bibliografia provvisoria, opera della dott.ssa Morazzini per conto del Centro Studi “Fernando Di Giulio”, registra gli interventi di Di Giulio sulla stampa di partito, L’Unità, Rinascita, Critica Marxista, Politica ed Economia . Di particolare interesse la serie degli editoriali su quest’ultimo periodico, organo del Centro Studi sulla Politica Economica, con i quali, tra il 1971 e il 1981, sottolinea e commenta le scelte politiche più importanti sul terreno della politica economica.

Dall’Amiata a Niccioleta … e ritorno Bruno Travaglini

Alla fine dell’Ottocento la popolazione amiatina era estremamente povera ed isolata. La Cassia che era l’unica grande strada di comunicazione che passava ai piedi dell’Amiata, era collegata con i paesi montani da strade impervie e scoscese che avevano fermato quelle popolazioni a stili di vita perpetuatisi nel tempo. L’economia si basava su una difficile e povera agricoltura ed anche il bosco che era la risorsa più grande della montagna era sfruttato solo per i bisogni locali. Le condizioni di vita della gente erano quindi molto precarie, fondate su un’economia di pura sussistenza e questo costituì la base del fenomeno migratorio stagionale legato ai lavori agricoli in “maremma” con il suo corollario, la malaria. Questa era la situazione economico-sociale alla fine dell’Ottocento ed agli inizi del Novecento, quando con l’apertura delle miniere di mercurio in tutta la zona amiatina vi fu un profondo sconvolgimento dell’assetto economico, sociale e culturale. Artigiani, contadini, braccianti, boscaioli, pastori si trasformarono in minatori, in fornaciai, in manovali, in magazzinieri, in carpentieri, ed il salario da precario e stagionale si trasformò in reddito fisso. Il tenore di vita divenne quindi più tollerabile anche se la malaria della Maremma fu sostituita dai pericoli della miniera e dal veleno dei vapori di mercurio. Comunque tutto si mise in moto. Anche le attività indotte dalla miniera subirono nel tempo una brusca accelerazione. Il bosco forniva il legname per armare le gallerie e quindi i boscaioli ebbero lavoro, le grandi riserve di trachite affioranti su tutta la montagna fornirono agli scalpellini le pietre per il loro rivestimento, i barrocciai e i mulattieri intensificarono le loro attività, mentre i minatori salirono a 824 unità nel 1900, a 1005 nell’anno successivo, per essere 1377 nel 1906 e 1491 unità nel 1912 (questi dati sono tratti dal volume “La miniera di Mercurio di Abbadia San Salvatore” edito da Protagon editori toscani a cura dell’Amministrazione Provinciale di Siena). Nacque così sull’Amiata quella classe operaia che nel corso della prima metà del Novecento si organizzò in società di mutuo soccorso e Leghe, prese coscienza politica, lottò per migliorare il proprio tenore di vita, per ottenere diritti e dignità, si batté contro la prima guerra mondiale che nel solo paese di Abbadia San Salvatore, su una popolazione di circa 4000 abitanti, ebbe 91 caduti al fronte. E soprattutto la classe operaia amiatina si oppose e contrastò con più vigore di ogni altra, il fascismo nascente frutto degli interessi e delle alleanze tra gli industriali e gli agrari che ve devano nella nascita dei partiti socialisti e sindacati operai un pericolo ai loro privilegi. Poi venne la crisi del ’29, la situazione amiatina si aggravò e nell’agosto del ’32 chiuse la miniera di Abbadia, mentre nel novembre fu chiusa definitivamente anche la miniera del Siele. Oltre 1500 operai si trovarono quindi senza lavoro. Iniziò così la grande migrazione dei minatori dell’Amiata nella miniera di pirite di Niccioleta appena aperta e nella miniera di carbone di Ribolla. Ecco, siamo arrivati al tema: dall’Amiata a Niccioleta e viceversa, aggiungo io, e in condizioni estremamente drammatiche come vedremo poi. Su questo argomento ho scritto un libro dal titolo “Un luogo un tempo” edito dal “Il Ponte” di Firenze, che parla dei minatori amiatini giunti nel 1934/1935/1936 in quel villaggio minerario chiamato Niccioleta, che deriva il proprio nome da un vecchio toponimo relativo ad una località poderale dove scorreva un torrente ai cui lati crescevano rigogliose le piante di nocciolo. Nel villaggio che andava nascendo in quegli anni attorno alla miniera, il cui sfruttamento era appena iniziato dopo la scoperta di una grossa lente di minerale di pirite, i minatori amiatini, disoccupati per la chiusura delle miniere di mercurio, vi trasfererirono le loro famiglie dopo aver vissuto da soli nei “camerotti” in attesa della costruzione delle case. Il libro parla della loro vita, delle loro speranze, del distacco doloroso dai paesi di origine in cerca di una vita migliore per le loro famiglie. Il libro parla della nascita del villaggio, dell’arrivo quasi giornaliero di nuove famiglie, della vita felice dei ragazzi in mezzo ai boschi e alle miniere, miniere al plurale perché sul territorio della Niccioleta vi era anche un’antica miniera di ferro appartenente alla Società “ILVA” mentre la nostra miniera di pirite era della “Montecatini” Il libro parla della guerra sopraggiunta, della fame che attanagliò il villaggio, delle speranze di tutti noi suscitate dalla caduta del fascismo, dell’impegno dei minatori nella liberazione dai nazifascisti.Il libro parla, purtroppo, della loro morte. Naturalmente, essendo un libro autobiografico tutto ciò è visto con gli occhi del bambino che io ero agli inizi della storia e poi del ragazzino al suo epilogo. È unamemoria rimasta viva nella mente perché fissata dall’evento della feroce strage compiuta dai nazifascisti in quel lontano giugno del 1944 e rivissuta da me tante volte, alla ricerca del perché, anche alla luce della sopraggiunta maturazione politica e culturale. Ma io quella storia l’ho voluta scrivere non con il senno di poi, ma lasciando rivivere, parlare, ricordare, ricostruire, a lui, a quel ragazzino quella vicenda. Vissuta prima con gioia, poi con stupore, infine con profondo dolore. Io sono stato l’ultimo a vedere mio padre, a parlare con lui ad abbracciarlo. Mandarono me a portargli qualcosa da mangiare, dentro il rifugio dove erano tenuti prigionieri tutti gli uomini del villaggio, mia mamma aveva partorito da pochi giorni e non aveva la forza di muoversi. Vidi tutti quegli uomini ammassati in quella galleria al lume delle acetileni. Lessi la paura nei loro occhi.Non erano più quelli che ricordavo giocare a bocce e scherzare con me, ma erano altre persone, mi sembravano degli estranei. Cercai il babbo, lo trovai, ci abbracciammo e lui mi raccomandò la famiglia. Quella fu l’ultima volta che l’ebbi vicino. Poi tutto il resto che voi conoscete bene, il trasferimento a Castelnuovo, l’attesa terribile sulla loro sorte, la divisione in tre gruppi e la fucilazione di quello più numeroso. Io non volevo credere alla loro morte, mi rifiutavo di crederci, fino a che, quasi con la forza, mi portarono a vedere la fossa comune a Castelnuovo. Questa è sì la storia della mia famiglia, ma è anche la storia di tutta la comunità, della vita e la morte dei minatori di Niccioleta.

Lo storico Pietro Scoppola, venuto a conoscenza del manoscritto, ha voluto scriverne la prefazione ed io di questo lo ringrazio, perché ha arricchito e dato forza, con l’autorevolezza del suo pensiero, ad una voce anonima come la mia.

Scrive, tra l’altro, Pietro Scoppola nella sua prefazione al libro:

Quanto mai suggestivo è in queste pagine il graduale passaggio dal mondo spensierato e gioioso dell’infanzia alla graduale presa di coscienza della realtà della guerra, con la caduta delle illusioni alimentate dalla propaganda fascista, la maturazione progressiva di un antifascismo sempre più consapevole, con una frattura sempre più profonda fra gli italiani, l’emergere di una solidarietà popolare profonda e intensa di fronte alle terribili prove della guerra. Vedrei qui una conferma di una tesi a me cara: bisogna riscoprire, contro le tesi revisioniste, tutta l’ampiezza dell’esperienza della Resistenza nel quadro del dramma epocale della seconda guerra mondiale. La Resistenza non fu solo lotta armata fra due minoranze di italiani, i partigiani da un lato e gli aderenti alla Repubblica sociale dall’altro, fu coinvolgimento profondo di tutto un popolo che, attraverso quelle prove e la spontanea solidarietà con cui a esse fece fronte, riscoprì una propria identità dopo la caduta dei miti alimentati dal fascismo. Solo così si ricupera il vero fondamento storico della Costituzione, la quale ha dato forma giuridica a speranze, sentimenti, idee, comportamenti, a quelle forme molecolari di solidarietà, presenti e operanti nel vissuto popolare. Così il testimone non fornisce solo, con i suoi ricordi, documenti per la storia, ma entra anch’esso dal suo punto di vista, diverso da quello dello storico, nel processo di formazione della memoria collettiva e dell’identità a essa connessa.

Quando mi decisi a scriverlo il libro, dieci anni orsono, il manoscritto porta la data del 1994, avevo molte perplessità e non ero certo di arrivare ad un risultato finale accettabile. Fra i molti dubbi quello che mi preoccupava di più era il timore di non riuscire a descrivere la realtà di quel tempo e di quel luogo, gli avvenimenti singolari e drammatici di quella vicenda, gli aspetti umani delle persone e dell’intera comunità. Ma una molla mi spingeva. Volevo togliere dall’oblio quella vicenda! Volevo che qualcuno si accorgesse che c’era stato il silenzio colpevole di tutti. Delle Istituzioni, della stampa, della televisione. Mai una citazione, mai un servizio giornalistico per ricordare gli 83 minatori della Niccioleta fucilati dai nazifascisti, che forse, fu la prima e sola strage di un così forte nucleo di classe operaia nel nostro Paese. Solo le comunità locali hanno celebrato ogni anno i loro morti. Un altro motivo che mi ha fatto decidere a scrivere a ricordare era quello del revisionismo storico degli anni novanta sul significato dell’8 settembre e della Resistenza. I fascisti ed i partigiani messi sullo stesso piano morale e politico, due fazioni che si combattevano in una guerra civile fratricida, dimenticando che la Resistenza al nazismo ed al fascismo che avevano aggredito il mondo era una lotta mortale fra la libertà e la schiavitù, dimenticando i milioni di morti provocati in Europa e nel mondo dalla guerra scatenata dai nazifascisti, dimenticando l’olocausto degli ebrei, dimenticando da che parte combattevano i partigiani e da che parte combattevano i fascisti, ridotti come nel caso della Niccioleta a fare il lavoro sporco agli ordini dei tedeschi, perché dietro le mitragliatrici che falciarono i minatori c’erano loro, i fascisti e non i tedeschi.

Io leggevo e rileggevo l’elenco dei nostri morti e di ognuno rammentavo qualcosa, ricordavo i loro figli con i quali avevo giocato, ricordavo le loro famiglie, ricordavo da dove venivano, da Santa Fiora, da Castell’Azzara, da Abbadia San Salvatore, da Massa. Ognuno di quei morti aveva una famiglia come la mia, quindi se riuscivo a raccontare la storia della mia famiglia, raccontavo la storia di tutti. E se oggi siamo qui a parlare ed ascoltare anche dei minatori della Niccioleta vuol dire che forse ci sono riuscito. Certo non l’ho saputo fare con l’efficacia del vostro illustre concittadino Padre Ernesto Balducci quando parla dei suoi compagni di scuola fucilati a Niccioleta, in quel bellissimo articolo pubblicato sull’ Unità nel lontano 1984 e opportunamente ripreso e fatto conoscere nel libro recentemente pubblicato qui a Santa Fiora ad opera di Niccolai, Mambrini e Papalini. Permettetemi anche qui di citare un periodo di quell’articolo. È troppo bello il suo pensiero per non avere la tentazione di citarlo, soprattutto in quel punto dove dice:

I miei compagni non ebbero modo né tempo di scrivere lettere. Ma non avrebbero saputo cosa scrivere, dato che non sono morti per la patria, non sono morti per la libertà, sono morti perché hanno fatto, nel luogo di lavoro quello che dovevano fare. La miniera era il loro inferno, dove morivano un po’ ogni giorno, ma era anche il pane delle loro famiglie. Era la morte e la vita, il luogo della loro servitù e della loro potenza virile. Gli impianti che volevano salvare erano del padrone, ma erano anche parte di loro, gli strumenti della loro fecondità. Morendo per salvarli ci hanno lasciato un messaggio che sarebbe toccato a noi tradurre in un nuovo diritto di proprietà.E invece i padroni si ripresero le miniere. Anzi si ripresero l’Italia Quando le 23 bare, qualche anno dopo, [qui Balducci fa un errore, non qualche anno dopo, ma nello stesso anno 1944, nell’ottobre] vennero portate al nostro paese, un urlo si levò dalla folla. Io ero stretto fra la gente, non ero uno spettatore. Ero un traditore. Me ne ero andato per un’altra strada dove uno passa per rivoluzionario perché scrive un articolo coraggioso che potrebbe perfino impedirgli la carriera. Quando più alto si fa in me il fastidio morale per questo mondo, mi capita di tornare a quegli anni lontani, in quella piccola scuola invasa dalla tramontana, dove l’ideologia della prepotenza cercava di corromperci. Non c’è riuscita. Ma mentre Eraldo, Mauro, Luigi e gli altri hanno pagato con la vita la fedeltà al vero, io, noi sopravvissuti, che andiamo facendo? Celebriamo la Resistenza, che fu un immenso, glorioso sogno di pace, e nel frattempo lasciamo che i “nazisti dell’anno Duemila” vadano disseminando su tutto il pianeta gli ordigni della morte. Questo sì che è un tradimento.

Ho voluto citare questa parte dell’articolo di Balducci, oltre che per la sua coinvolgente verità e per il suo grande e attuale significato, anche perché in quella piazza di Santa Fiora in quel lontano ottobre 1944, assieme alle 23 bare dei vostri concittadini, (quella di mio padre non c’era, sarebbe arrivata in seguito), assieme ai vostri morti, dicevo, ero arrivato anche io, arrampicato proprio su quelle bare nel cassone del camion perché in cabina non c’era posto e, probabilmente quel bambino è solo ed impaurito che doveva poi proseguire per Abbadia San Salvatore con un sacchetto di panni in mano, si è trovato quella mattina al fianco di Padre Balducci. Ero lì, tredicenne, che ne dimostrava dieci, perché mandato dalla mamma in avanscoperta verso il paese di origine per cogliere le castagne, per farne farina in modo di far svernare la famiglia che sarebbe arrivata ad Abbadia nel gennaio successivo. Ed io da buon soldatino, non di piombo perché ero leggero come una piuma, riuscii ad assolvere il mio compito, malgrado la castagnatura fosse ormai alla fine, piano piano, cercando sotto le foglie riuscii a raccoglierne tante da farne quasi un quintale di farina. Ora voglio concludere, così come ho sempre fatto, ogni volta mi è stata data l’opportunità di esprimere il mio pensiero, chiedendomi e chiedendo: i minatori morti a Niccioleta hanno avuto giustizia dallo Stato, dalle Istituzioni? No! Non l’hanno avuta e badate bene, io per giustizia non intendo solo il processo ai responsabili, ma intendo anche il riconoscimento pubblico del loro sacrificio, il riconoscimento delle Istituzioni. Ed invece anche quello, che non costa niente, non l’hanno avuto, sono stati misconosciuti, cancellati. Nessuno sa che sono morti, perché sono morti e da parte di chi. Ecco perché, dieci anni fa ho voluto scrivere questo libro, perché i testimoni, per ragioni di età se ne vanno ad uno ad uno e di loro, della loro morte non rimane traccia se non quella dei monumenti. Il tenente tedesco Emil Block, di Hannover classe 1909, che comandava il reparto che compì la strage e che io credo di aver guardato negli occhi, perché il tedesco che venne ad arrestare mio padre assieme a due militi italiani era un giovane con il berretto da ufficiale, guanti e pistola alla mano. Il nome di questo tedesco, dei suoi superiori, del reparto cui appartenevano è stato reso noto nel libro “Guerra ai Civili” degli storici Michele Pezzino e Paolo Battini e della loro giovane collaboratrice la professoressa Katia Taddei di Castelnuovo che, cercando e ritrovando gli atti del processo contro i fascisti di Niccioleta, responsabili della delazione ai tedeschi e ad alcuni militari italiani del reparto che compì la strage, constatarono che quei nomi erano noti fin da allora. Il processo si aprì a Pisa il 7 novembre 1949 e dagli atti non risulta che quel tribunale, pur conoscendo nomi, cognomi, grado, reparti di appartenenza e città di provenienza, abbia mai compiuto alcun atto istruttorio volto a rintracciare i tedeschi responsabili della strage. Si trattò allora di una grave omissione che rientrava, probabilmente, in quella politica che portò ad insabbiare tutto ciò che concerneva le stragi compiute dai tedeschi in Italia come dimostra l’ormai famoso armadio della vergogna. Della Taddei, come saprete, è uscito di recente sull’argomento un libro: “Coro di voci sole” che è stato presentato il 13 di questo mese [marzo] a Larderello. Libro che raccoglie le testimonianze dei superstiti della Niccioleta e dei testimoni oculari della strage e non solo. È un libro importante che tutti dovremmo leggere e far conoscere, perché ognuno dei testimoni con il suo ricordo ricostruisce un pezzo di quella realtà e ci permette di avere una visione di insieme dei fatti accaduti. Quindi questo libro, come il mio spero, deve servire a far conoscere, soprattutto alle nuove generazioni, che la libertà garantita dalla nostra Costituzione è il frutto anche del loro sacrificio. Purtroppo dobbiamo concludere che i minatori della Niccioleta non hanno avuto giustizia né dai tribunali penali, né dalle Istituzioni che li hanno dimenticati. Quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario della loro morte. Questa nostra manifestazione, come le precedenti del 6 marzo a Castell’Azzara e del 13 a Larderello e Castelnuovo, sono sul solco anche di questa commemorazione. Continuiamo ad impegnarci tutti affinché questo anniversario sia celebrato nel modo più consono e solenne possibile, facendolo conoscere attraverso la stampa e la televisione ed invitando a parteciparvi oltre le autorità locali anche quelle regionali e nazionali. Io, per parte mia, ho mandato copia del mio libro al Presidente Ciampi, perché insieme alle altre istanze possa facilitare la partecipazione del Presidente alla cerimonia. Speriamo che questo possa accadere. Sarebbe un atto riparatore verso i nostri morti.

APPENDICE

Una testimonianza: ricordo di mio padre, ucciso a Niccioleta Ferruccio Palmieri

Nel 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale, mio padre lavorava nella miniera di Niccioleta in qualità di minatore. Era un periodo, come tutti quelli che l’hanno vissuto sapranno, di intensa miseria. Mio padre Palmieri Leo e mio zio Castagni Flaminio, per poter sbarcare meglio il lunario, si arrangiavano a tagliare il bosco. Una sera di marzo o aprile, mio padre con mio zio furono catturati in un rastrellamento dai nazifascisti. Quella sera, mia madre, non vedendo tornare a casa mio padre, che era sempre stato puntuale, cominciò a preoccuparsi, e sapendo i tempi che erano, iniziò a piangere attirando l’attenzione del vicinato che cercava di consolarla. Finalmente verso le 23 mio padre rientrò a casa e raccontò a mia madre ciò che gli era accaduto, dicendole che l’avevano catturato e che dovevano attendere che arrivasse il capo per sapere se li conoscesse e se fossero persone affidabili. Finalmente dopo diverse ore di attesa arrivò questo famoso “capo” che, con sorpresa di mio padre, era Calabrò, il quale li fece rilasciare immediatamente. Il mattino seguente i nostri vicini vennero subito a sentire quando era rientrato mio padre; mia madre raccontò loro quanto era accaduto. Dopo qualche settimana, come facevo tutti i dodici del mese, accompagnavo mio padre a lavorare alla miniera per portare a casa il suo stipendio e il carburo che gli davano per l’illuminazione ad acetilene. Arrivati davanti ad una piccola bottega, che era gestita da un parente del Calabrò, un certo Nicola, il Calabrò fermò mio padre e gli disse: «Tu sei andato a raccontare in giro quello che è successo quella sera», mio padre si giustificò dicendo che l’aveva solo detto con mia madre, e che forse era stata lei a raccontarlo ai vicini. Il Calabrò a quel punto disse queste testuali parole: «Ricordati Leo, che prima di morire io, a Niccioleta ne devono morire tanti», come infatti fu. Verso i primi di giugno nel villaggio di Niccioleta vennero i partigiani, come era di consueto a quei tempi, a liberare il villaggio dai fascisti. La gente fu molto euforica e fecero festa. La mattina del 13 giugno subito dopo l’alba fecero irruzione nel villaggio tedeschi e fascisti, passando di casa in casa, prelevando tutti gli uomini e li fecero mettere tutti sotto una quercia davanti al palazzo dove io abitavo. Ricordo che io e un certo Carlo Vagaggini giocavamo in strada davanti al palazzo e alcuni soldati, gridando, ci mandarono in casa. Dal mio balcone vidi una scena molto crudele: due militi che sparavano ai piedi di un certo Barabissi, senza colpirlo, solo per il gusto di farlo saltare. Seppi dopo che gli avevano trovato un fazzolettone rosso dentro i pantaloni alla zuava; è per questo che fu fucilato poco dopo a Niccioleta. Al piano superiore della mia casa abitava la famiglia Sargentoni, composta da padre, madre, due figli e una figlia. Uno dei due figli era partigiano alla macchia. La notte del 13 giugno rientrando per salutare la mamma fu sorpreso in casa dai militi fascisti e non avendo avuto il tempo di sbarazzarsi della sua pistola la nascose in un vaso di fiori, che purtroppo trovarono. Quando fu chiesto a chi appartenesse la pistola Ado disse che era la sua per salvare il padre e il fratello. Io ero sulle scale quando lo portarono via e vidi una scena atroce: veniva colpito a pugni e calci. Gli puntarono la pistola alla testa facendo finta di sparare. L’ho udito dire «Sparate pure così finisco di soffrire, ma la guerra ormai l’avete persa». Di lì a poco prelevarono anche il padre e il fratello e tutti e tre furono fucilati a Niccioleta. uesto è quanto ricordo e ho visto quel 13 giugno 1944. Mio padre e mio zio furono uccisi il 14 giugno 1944 a Castelnuovo Val Di Cecina assieme ad altri 75. L’ultimo della famiglia a vedere mio padre prima che lo caricassero sul camion per portarlo via fui io. Ricordo gli portai una scatoletta di tonno. Quando dopo qualche tempo ci fu il processo a Pisa, visto che io ero minorenne per cui non potevo partecipare al processo, vennero a casa mia Carabinieri e Avvocati per sapere quello che avevo udito, e ripetei loro ciò che aveva detto il Calabrò a mio padre. Non so se possa interessare la mia testimonianza, ma dopo tanti anni, vale a dire nel 1961, mi sembra in primavera inoltrata, io lavoravo in miniera a Niccioleta, e il mio sorvegliante era Boni Aldemiro (un santafiorese). Una sera mentre stavo per iniziare il mio turno di notte, il mio compagno di lavoro era assente e il sorvegliante mi mandò ugualmente sul lavoro da solo, facendomi presente che dopo il giro di controllo delle altre compagnie, sarebbe venuto. Andai sul mio posto di lavoro, verso le ore 2 quando venne il sorvegliante avevo già finito quello che dovevo fare. Aldermiro che mi aveva conosciuto fin da bambino, visto che dovevamo aspettare le ore 6 del mattino, mi disse: «Ormai sei un uomo, ti devo dire alcune cose che da troppi anni ho sullo stomaco»; cominciò a raccontarmi quando lui e mio padre facevano il collegamento con i partigiani attraverso i boschi, delle paure e dei rischi che avevano corso assieme Mi fece scoprire, anche se non ne avevo bisogno, un’altra cosa importante: le qualità umane e di onestà di mio padre. La cosa più tragica fu però che Aldemiro, dopo avermi fatto per circa tre ore tale confessione, il giorno dopo venne colpito da infarto e cessò di vivere. Ora è sepolto nel cimitero di Santa Fiora ed io l’ho sempre impresso nella mia mente come in quella notte che ci abbracciammo e si pianse insieme.

Il caso Niccioleta Paolo Pezzino (1) Docente di Storia contemporanea Facoltà di Lettere e Filosofia Università di Pisa

Il mio libro Storie di guerra civile L’eccidio di Niccioleta è uscito nel giugno di due anni fa (2001) e si è giovato di una serie di fonti prima non consultate, tra l’altro le fonti del processo di Pisa, che sono depositate all’Archivio di Stato di Firenze, e tutte le indagini svolte in relazione al processo che durarono molto a lungo perché il processo ebbe una vicenda molto travagliata. Noi siamo abituati oggi a politici che litigano perché vogliono trasferire i processi altrove e a magistrati che entrano in conflitti di competenza perché ognuno rivendica il diritto a fare il processo. Il processo per i minatori di Niccioleta, invece, nessuno lo voleva fare: fu rimandato tra la Corte d’Assise Straordinaria di Pisa, al Tribunale Militare di La Spezia, alla Corte d’Appello di Firenze e, alla fine, fu la Cassazione che, dopo un anno e mezzo di incredibile balletto, decise che il processo si tenesse a Pisa. Nessuno voleva fare il processo perché era un processo scomodo, che metteva sotto accusa degli italiani, quegli italiani che operarono a Niccioleta. Noi sappiamo chi erano e a quale reparto appartenevano: non erano le 16° SS., ma un reparto di polizia che si chiamava III Polizei Freiwilligen- Bataillon «italien» composto da “volontari” italiani, cioè da quei soldati che, dopo l’8 settembre, catturati dai tedeschi e internati nei campi di prigionia tedesco, avevano accettato di continuare la guerra sotto divisa tedesca. Pochi furono gli internati militari italiani, 650 mila: l’80 per cento di loro si rifiutò di arruolarsi e preferì continuare a stare nel campo di internamento in condizioni difficilissime pur di non combattere con i tedeschi. Alcuni di quelli che invece accettarono, furono arruolati in questo battaglione di polizia che fu costituito nel ’44, mandato in Italia e naturalmente adibito alle operazioni peggiori, alle operazioni più sporche come il rastrellamento di partigiani o, come nel caso di Niccioleta, di civili. Si trattava quindi di italiani in divisa tedesca, con ufficiali che erano per la maggior parte tedeschi mentre i sottoufficiali erano a volte italiani a volte tedeschi. Era un reparto tedesco composto da italiani. Le indagini che furono, subito dopo l’eccidio, portate avanti dal Comitato di liberazione nazionale di Massa Marittima e che poi sfociarono nel processo che si tenne a Pisa, avevano consentito di individuare i responsabili. Ci furono una quarantina di italiani, che erano presenti prima a Niccioleta e poi a Castelnuovo Val di Cecina, i quali furono individuati, arrestati ed indagati. Però l’esito del processo fu assolutamente deludente, nel senso che i giudici non riuscirono a provare quale ruolo avessero avuto, ognuno di questi quaranta italiani individualmente nel compimento dell’eccidio.

Naturalmente è molto difficile, in una situazione del genere, sapere chi materialmente ha sparato, chi materialmente stava dietro la mitragliatrice che sterminò i minatori nel vallino di Castelnuovo Val di Cecina, chi contribuì con i rastrellamenti nelle case a farli arrestare.

La maggior parte di loro fu assolta in istruttoria, soltanto uno di loro – che aveva avuto la scalogna per lui di essere stato riconosciuto da un operaio che aveva arrestato perché portava inciso il suo nome nel fucile – fu condannato. Gli altri furono tutti assolti in istruttoria in base ad un principio – che ancora oggi dobbiamo contestare – quello cioè che i soldati non possano non ubbidire agli ordini, anche se questi ordini sono evidentemente e chiaramente illegittimi, anche se questi ordini si inseriscono all’interno di una politica – nei confronti del territorio, della popolazione e anche dei combattenti partigiani – che è chiaramente una politica criminale e terroristica. Ebbene, i giudici ritennero che, ove non fosse possibile provare il ruolo attivo ricoperto e giocato da ciascuno degli imputati nell’episodio di Niccioleta, questi andavano assolti in quanto soldati e in quanto, disse un giudice, il soldato è nelle sue azioni irresponsabile Questo tema dell’irresponsabilità del soldato e di chi, vestendo una divisa, ha un’autorità particolare nell’esercizio della violenza, è un tema che noi abbiamo sentito richiamare spesso e non solo per i minatori di Niccioleta, ma anche per migliaia e migliaia di altri episodi in Italia e in Europa nei quali sono stati massacrati civili in nome di principi militari. Ognuno dei responsabili individuati, quei pochi che sono stati individuati, perché la maggior parte non fu neanche ricercata, si è trincerato dietro ad ordini ricevuti E l’esercito ha una catena gerarchica, in cui è sempre possibile rinviare ad un ordine superiore, anche se l’ordine viene dal comandante in capo, come nel caso dell’Italia con le forze armate tedesche del Maresciallo Kesselring. Kesselring emanò una serie di ordini, ma sostenne poi che quegli ordini provenivano direttamente da Hitler che, nel frattempo, era morto. Con questo principio dell’irresponsabilità, nessuno è responsabile di crimini collettivi. Ed è quello che purtroppo si è verificato in Italia, tranne alcune eccezioni. Vorrei sottolineare una seconda cosa nel caso di Niccioleta. Questo è uno dei pochi casi in cui le indagini del Comitato di Liberazione Nazionale di Massa Marittima avevano permesso di individuare con assoluta esattezza l’unità responsabile dell’eccidio e cioè il Terzo Battaglione di Volontari di Polizia «Italia», e di individuare, tramite le testimonianze degli italiani che militavano in quel battaglione e furono arrestati, esattamente il nome del comandante tedesco che portò avanti l’operazione. Fin dal ’46 si sapeva chi era questo comandante e si conosceva anche da quale città proveniva: quindi sarebbe stato facilissimo per le autorità chiederne l’estradizione e processarlo. Ebbene gli italiani furono processati – poi l’esito del processo è stato deludente ma perlomeno un processo c’è stato – i tedeschi, il comandante e gli altri di cui si riuscì ad individuare esattamente l’identità e la provenienza, non furono mai ricercati. D’altra parte, l’indagine del CLN di Massa Marittima – e forse non poteva che essere così: eravamo un paese che era nel bel mezzo di una guerra civile – sposò il principio della responsabilità collettiva dei fascisti di Niccioleta per l’eccidio. Il direttore della miniera, Mori Ubaldini, era un personaggio di grande ambiguità che negli ultimi mesi del passaggio del fronte si era barcamenato tra i tedeschi e i partigiani. Dopo la guerra potrà esibire lettere della 23° Brigata garibaldina in cui lo si ringraziava per l’opera di finanziamento e vettovagliamento. Mori Ubaldini fu indagato più che altro perché il figlio, pur essendo presente nelle liste di guardia, non era stato catturato ma era scappato e fu accusato di aver nascosto alle famiglie di Niccioleta, quando tornò da Castelnuovo Val di Cecina, quello che lì era successo. Fu anche arrestato, ma liberato, dopo un mese giusto, per l’intervento degli americani. Il punto era la comunità di Niccioleta: furono individuati una cinquantina di nomi, quasi tutti marito e moglie. Per alcuni le prove erano reali e si riferivano ad episodi di connivenza con i tedeschi; per altri le uniche prove erano che erano fascisti. Di una donna si disse che se la spassava con i tedeschi. Era dunque un criterio di responsabilità oggettiva della comunità fascista che ebbe un certo peso nell’orientare esclusivamente nei confronti dei fascisti la ricerca del colpevole e nel mettere in secondo piano il ruolo dei tedeschi. Si dice ad un certo punto nel memoriale del CLN che i reali responsabili erano i fascisti e i tedeschi furono soltanto degli strumenti dei fascisti di Niccioleta. La mia interpretazione complessiva dell’episodio diverge da questo punto, nel senso che io sono convinto che i tedeschi siano arrivati lì non perché chiamati dai fascisti di Niccioleta, ma nell’ambito di una serie di operazioni di rastrellamento che questo battaglione di polizia ha compiuto in quei giorni in tutta l’area. Certamente va però riconosciuto al CLN il merito di aver contribuito, con l’avvocato Tommaso Ferrini – un democristiano, una persona seria, un personaggio importante – a cercare giustizia. D’altra parte, è chiaro, il clima era quello: i colpevoli erano i fascisti, che erano visti nel loro insieme come una comunità compatta. Questo, fra l’altro, mise anche in secondo piano il fatto che alcuni dei fascisti di Niccioleta furono essi stessi rastrellati e poi deportati in Germania. Il caso di Niccioleta è un caso esemplare di memoria cancellata, un po’ anche perché non c’è stata dietro una comunità che ha sostenuto la richiesta di giustizia di queste vittime. Il villaggio di Niccioleta, lo avete visto, era un villaggio minerario e considerato un villaggio modello allora. Andare a vivere a Niccioleta era per i minatori vincere una specie di terno al lotto: c’erano i bagni, c’era l’acqua nelle case. Dopo l’eccidio le famiglie dei minatori ritornarono alle loro comunità di origine per lo più qui nell’Amiata. Poi la miniera ha chiuso, ormai il villaggio di Niccioleta è solo un luogo residenziale che non ha una sua memoria propria. La memoria è stata coltivata nelle zone di origine delle famiglie dei minatori, ma il fatto che questi fossero dispersi nell’Amiata, che poi l’eccidio sia avvenuto in un’altra terra ancora, Castelnuovo Val di Cecina, fa sì che la strage di Niccioleta, come altre in Italia, sia stata ben presto dimenticata e la giustizia per le vittime di quella strage, per i loro parenti, per tutti coloro che hanno sofferto, non sia mai venuta. Io credo che uno dei modi di rendere giustizia sia proprio quello di far conoscere i fatti, di indagare e ricercare, scrivere libri di storia, fare documentari – come ha fatto Luigi Faccini (2) –, portare avanti con libertà la ricerca storica, mantenere la memoria dei sopravvissuti e dei testimoni oculari. Le stragi si situano in un contesto che è quello che fondamentalmente si apre con la primavera avanzata del ’44 e con la ritirata tedesca, un periodo che ha attraversatol’Italia e la Toscana in particolare, le nostre zone, e che ancora oggi è essenziale per capire l’Italia successiva. Per capire, innanzitutto, perché la Costituzione che quell’Italia si è data è stata una Costituzione che ha proclamato solennemente il proprio nascere in opposizione al regime fascista, perché quella Costituzione non può che essere nata dall’antifascismo e dalla Resistenza, perché quella Costituzione che nasce dall’antifascismo e dalla Resistenza non può che continuare a garantire oggi la libertà e la democrazia del nostro paese. Proprio esaminando episodi come quello di Niccioleta noi riusciamo a capire quello che è successo dopo, riusciamo a capire il 25 aprile, riusciamo a capire il 2 giugno del ’46, riusciamo a capire il primo gennaio del ’48, la data in cui la Costituzione entra in vigore, quindi anche proclamare con forza che il patrimonio di valori che quella Costituzione ha rappresentato è stato fondato sul sangue di decine di migliaia di italiani, anche dei minatori di Niccioleta. Questo è un modo per rendere giustizia a quelle povere vittime che ancora aspettano un processo che condanni i responsabili materiali dell’eccidio.

Note 1 Intervento a Santa Fiora in occasione della manifestazione per la celebrazione del 59° anniversario della strage di Niccioleta, il 15 giugno 2003 a Santa Fiora. Non rivisto dall’autore ma pubblicato con il suo consenso. 2 LUIGI FACCINI, Canto per il sangue dimenticato , Film prodotto con il finanziamento dell’Amministrazione provinciale.

“Nella miniera è tutto un baglior di fiamme” La figura del minatore nella canzone popolare e d’autore Leoncarlo Settimelli musicologo

Alla memoria di Mauro Gandolfi, minatore e marinaio che suonava il basso-tuba nella banda di Santa Fiora e aveva i polmoni come un colabrodo

Mia madre cantava molto, in casa, magari la sera per addormentare me e mio fratello. Ed una canzone tra le altre le era particolarmente cara, lei trecciaiola e cappellaia, quindi operaia. Era una canzone – avrei scoperto dopo – cantata dal tenore Gabré, assai in auge dopo la prima guerra mondiale, che raccontava di una tragedia in miniera, in un paese lontano, dove un minatore dal volto bruno si sacrificava per salvare tutti gli altri. Da adulto giudicai quella canzone, firmata da Bixio Cherubini e da Cesare Andra Bixio – la coppia più celebre della canzone italiana – un condensato di ruffianeria e di facile esotismo, con quel suo andamento di tango, con le strofe in tonalità minore e il ritornello in tonalità maggiore, con quel ritrarre bettole messicane dove tutti danzano al suono dell’hawajana (cioè l’ukulele che, suonato con una barretta metallica sulla tastiera, provoca dei suoni particolarmente struggenti); e solo un uomo, di fronte a quella scena (che tra le righe sembra essere giudicata disdicevole) si esprime con un canto accorato: è un emigrato, un italiano dal volto bruno, che di fronteall’incendio scoppiato in miniera decide che egli può perdere la propria vita per salvare quella degli altri. E così avviene. Com’era arrivata questa canzone nel “repertorio” di mia madre? Attraverso i dischi a 78 giri? Ma i miei non avevano un grammofono. Attraverso la radio, che dal 1927, data di diffusione del brano, trasmetteva quelle canzone? Ma gli apparecchi allora in circolazione erano pochi e in poche case e in ogni caso i miei non avevano neppure una casa (in quel tempo mio padre era nel carcere delle Murate di Firenze, come conseguenza di uno scontro con le squadracce nere di Dumini) e la radio l’avrebbero avuta solo nel secondo dopoguerra. Evidentemente, dunque, la canzone era rapidamente circolata nel popolo che la sentiva propria, poiché esprimeva sentimenti largamente condivisi: il dramma dell’emigrazione, non certo ridimensionato dall’avvento del fascismo al potere; il lavoro in miniera, giudicato il più terribile di ogni altro; l’orgoglio nazionale, che faceva di un italiano il più coraggioso di tutti, aspetto questo su cui Mussolini amava far leva. In più era corredata di quegli elementi comuni alle canzoni del tempo che ne assicuravano il successo popolare: un cielo di stelle, le danze, un casolare (ma si dovrebbe immaginare che un emigrato avesse una povera dimora), una mamma. E il tutto con l’andamento del tango, danza allora di moda:

MINIERA di Cherubini-Bixio

Allor che in ogni bettola messicana danzano tutti al suono dell’havajana vien di lontano un canto così accorato è un minatore bruno laggiù emigrato la sua canzone sembra d’un esiliato

Cielo di stelle cielo color del mare tu sei lo stesso cielo del mio casolare portami in sogno verso la Patria mia portale un cuor che muore di nostalgia

Nella miniera è tutto un baglior di fiamme piangono bimbi spose sorelle e mamme ma a un tratto il minatore dal volto bruno dice agli accorsi “se titubante è ognuno io solo andrò laggiù che non ho nessuno”

E nella notte un grido solleva i cuori “Mamme son salvi! Tornano i minatori” Manca soltanto quello dal volto bruno ma per salvare lui non c’è nessuno (finale) Va l’emigrante ognor con la sua chimera lascia la vecchia mamma e il suo casolare e spesso la sua vita in una miniera

Insomma, un grande successo ed accadeva che su un tema come quello della morte in miniera, nel salotti buoni muniti di grammofono si ballasse il tango. Un successo che si è ripetuto nel tempo, poiché quasi tutti i grandi tenori hanno inciso il brano nei loro dischi, dando al tema della miniera e dei minatori una popolarità che non si è ancora del tutto conclusa. Contro la retorica del brano, si sarebbe scagliato più tardi Renato Rascel, che sul finire degli anni ’30 iniziò la sua opera di demolizione dei luoghi comuni e in particolare di quelli della coppia Cherubini-Bixio. Ed eccolo infatti, vestito da gaucho, nella seconda strofa di È arrivata la bufera (1940) cantare:

(parlato) “Secondo strapazzo…” (cantato) Nel suo morbido lettino dorme placido Pierino e suo zio che è di Voghera sta danzando l’habanera mentre infuria il temporal

Il suo babbo è minatore e ogni dì gli batte il cuore ma se un dì non batterà quasi certamente, forse, chi sa, può darsi che morirà

È arrivata la bufera …(9)

Ma si trattava di un riferimento comprensibile ai pochi che potevano apprezzare i nonsense e il surrealismo di un artista allora irriverente, mentre tutto intorno fiorivano canzoni con strade nel bosco, chiesette d’amore, elegie campagnole orientate dalle campagne rurali del fascismo. Se vogliamo osservare un minimo di cronologia, i primi accenni cantati alla miniera li troviamo nell’innodia del lavoro e delle lotte sociali. Così nel Canto dei lavoratori (1886) abbiamo

La risaia e la miniera ci han fiaccati ad ogni stento come i bruti di un armento siam sfruttati dai signor mentre nella Marsigliese del lavoro (1896) troviamo

Nelle officine sui monti e piani giù nelle mine sudiam sudiam ma delle nostre fatiche immani il frutto intero non raccogliam e anche nell’ Internazionale (il testo italiano è del 1901), sia pure in forma indiretta, la miniera è presente Noi non siamo più nell’officina entro terra , nei campi, in mar a testimoniare che tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo la miniera è una realtà considerevole, posta sullo stesso piano del lavoro nelle officine e nei campi. Tant’è vero che persino il già citato Bixio Cherubini, quello del minatore dal volto bruno, aveva posto questa figura a centro dello scontro politico e sociale con una canzone del 1923, Leggenda rossa , musicata da Fragna, nella quale fascismo e antifascismo venivano rappresentati da due ragazzi:

Sulla veranda in fior Si bacian due tesor Due fanciulletti biondi come il sole Gastone è il pargoletto d’un signore E Gianni ch’ha il suo babbo minatore

Ora, a parte il sospetto di un rapporto omosessuale che l’autore lancia nella seconda riga, è difficile pensare che il figlio di un signore e quello di un minatore si trovino a giocare sulla stessa veranda. Tuttavia, la canzone prosegue descrivendo la crescita dei due: Gastone diventa dottore mentre Gianni, ad onta dei giochi comuni in veranda, diventa minatore come il babbo e alla fine

Feriti di pugnal giacevan due rival Gastone e accanto Gianni il minator l’aurora li destò il cuore sussultò e piansero, quei visi di pallore fu un pentimento un patto e in ogni cuore tornò la pace e uccise quel rancore

La canzone probabilmente non piacque ai gerarchi fascisti, forse perché poneva il minatore come simbolo dell’antifascismo e il fascismo veniva rappresentato da un rampollo della borghesia. E poi, si sa, Mussolini preferiva legionari, balilla, romanità, impero, mascelle volitive e cuori saldi, come si evince da una strofa dell’ Inno al genio , genio inteso, si badi bene, come disciplina militare:

Frangi le zolle rude zappatore e la roccia tenace il cielo della Patria o minatore scuoti col rombo della mina audace

Sembra D’Annunzio, altro che Cherubini con le sue verande in fior! Una figura eroica, come si conveniva alla retorica fascista, cui è facile contrapporre una realtà come quella descritta nei fogli volanti , che ci precipitano in un girone infernale, dove le figure vengono spogliate di ogni mitizzazione e collocate nel gradino più basso dell’umanità.

IL MINATORE di M.A. Compiangetemi signore e signori nel vedermi una gamba di legno da vent’anni ero un buon minatore tutto privo non ero d’ingegno

Fin da bimbo girai le ferrovie il mio pan guadagnai con sudor per forar le più gran gallerie sotto l’acqua il fumo il calor

Una notte il burgallo di un fuoco già le mine annuncian scoppiar allontanarmi non posso che poco che un gran rombo si intese tuonar

E d’un sasso rimasi già preso un secondo alla schiena mi colpì fui gettato a terra disteso e l’orribil disgrazia seguì

Dai vicini compagni dolenti al vedermi soffrir ’sì gran mal nella mia guarigione fidenti son portato all’ospedal

Coll’oppio mi hanno addormentato e per miracolo son vivo ancor dormii lungo e appena svegliato d’una gamba mi vidi privo allo r Dai compagni dolenti lontano Santo Cielo che debbo io far? Morir? Son solo quaggiù e pur debbo la vita campar Dalla fatica la carcassa è già stanca e per vivere mi tocca mangiar tante volte, il pane mi manca in tal caso che debbio io far?

Buona gente che il povero amate che nel petto avete il buon cuor il minatore sfortunato aiutate la mercede daravvi il Signor (2)

Lo stesso protagonista della disgrazia, probabilmente, si era fatto comporre e stampare la storia e andava vendendo il foglio volante per fiere e mercati, mostrando la propria infermità. Ciò appare evidente in un altro foglio volante, recante in calce la dicitura I MINATORI Molinari Angelo e Baucero Felice:

NUOVA CANZONETTA sopra le Vittime delle Gallerie

O mamma mia son disgraziato una gamba m’hanno tagliato

Una mina di galleria mi ha rovinato per tutta la vita o mamma, son disgraziato

O compiangete signori e signore il poveretto il minatore

Fin da giovinetto fu il mio mestiere passar la vita nelle miniere

E volentieri ho lavorato fin che una mina m’ha rovinato

Ora lavoro più io non trovo Deh compiangetemi s’io vi commovo

O bona gente che il povero amate il minatore deh! Aiutate

La mercede vi renderà il Signore perché fate il bene pel suo amore (3)

Composizioni, come si sospettava, molto imperniate sull’obiettivo di destare compassione e farsi lasciare un obolo. Prive di quella capacità descrittiva che è dell’autentico cantastorie, come vedremo più avanti. Si tratta con tutta probabilità di minatori itineranti, assoldati per scavare le gallerie ferroviare, quindi con un lavoro a termine svolto ora qua ora là, com’è testimoniato anche da questa canzone, raccolta in Valtrompia e cantata sull’aria de La tradotta :

ERAVAMO IN VENTINOVE (Anonimo)

Eravamo in ventinove solo in sète siam torna’ e li altri ventidue soto i colpi son resta’ Farem far d’un cimitero quattrocento metri quadra’ per soterare quei minatori soto i colpi son resta’

E le povere vedovèle le va ’n chiesa per pregar per la perdita del marito trentamila le g’à ciapa’

Maledet sia ’l Gotardo gl’ingegneri che l’an disegna’ per quei poveri minatori soto i colpi son resta’ (4)

Zona di forte emigrazione, la Valtrompia, cosicché tra le canzoni dei minatori troviamo Cara moglie di nuovo ti scrivo che ben racconta la vita di colui che si trova all’estero ma non trova lavoro:

CARA MOGLIE DI NUOVO TI SCRIVO (Anonimo)

Cara moglie di nuovo ti scrivo che mi trovo al confin dela Francia anche quest’ano c’è poca speranza di poterti mandar del danè La cucina l’è molto asai cara e di paga si piglia asai poco e i bresiani se ne vano al galoppo questa vita la poso più far

Cara moglie di nuovo ti scrivo di non darla né preti né a frati e dalla pure ai più disperati che nel mondo la pace non ha (5)

Probabile che l’ultima quartina fosse nata in osteria e servisse a sdrammatizzare la realtà. Certo che non tutti i minatori emigrati erano di così larghe vedute e sarebbero stati d’accordo su questa, diciamo così, evoluzione del proprio matrimonio. Infatti in un componimento del cantastorie Marino Piazza si racconta con crudo realismo la storia de La moglie infedele :

Franceschini Otello partiva per il Belgio a lavorare in miniera e con la moglie così gli diceva abbia cura del nostro figliol

Il denaro che lui guadagnava lo spediva alla sua sposina perché facesse una buona dozzina e qualcosa poter risparmiar Lei invece con questi quattrini andava in lusso al cine e al teatro a divertirsi da un ballo all’altro di un bel giovane si innamorò…

Quale la conclusione, dopo ventidue quartine? Che il Franceschini Otello torna e

Prende il fucile e un pezzo di corda e al paese lì poco distante trova sua moglie insieme all’amante ad una pianta i due legò

Alla moglie gli disse squaldrina mi hai tradito e rovinato il bambino con tuo amante che hai lì vicino con quest’arma vendetta farò (6)

Ma torniamo in galleria per trovare una nuova composizione registrata in Valtrompia, metà racconto e metà preghiera. Il raccoglitore Bruno Pianta la definisce “la più famosa canzone di minatori”. In essa appare la citazione di Santa Barbara, patrona dei minatori, dei marinai e dei vigili del fuoco, con una intonazione finale a dir poco sbarazzina:

ANCHE MIO PADRE (Santa Barbara) (Anonimo)

Anche mio padre sempre me lo diceva di star lontano dela miniera

Ed io testardo ci sono sempre andato finché di una mina mi ha rovinato

Finché una mina di quella galleria mi ha rovinato la vita mia

Non c’è né medici nemmeno professori che fan guarire quei giovani minatori

O Santa Barbara o santa Barberina dei minatori sei la regina (7) Non c’è miniera dove non ci sia una statuetta di Santa Barbara e non c’era casa di minatore che non ne avesse una raffigurazione in porcellana che si richiamava alle opere dei Della Robbia. Non tocca a noi raccontare a cosa sia dovuto il culto di questa santa, tuttavia vogliamo ricordare che volendosi fare cristiana sotto i romani, Barbara ne fu impedita dal padre che la rinchiuse in una torre. Barbara invocò allora il cielo perché punisse il genitore e un fulmine scaturì dalle nuvole e incenerì l’uomo. Sicché chi maneggi il fuoco o la scintilla ha scelto Santa Barbara come protettrice e nei paesi minerari le chiese, come in quella del Suffragio di Santa Fiora, ne ospitano l’effige in forma di statua che poi portano in processione il 4 dicembre, mentre il prete benedice – anche da lontano – i luoghi dove si trovano le miniere.Esiste anche una preghiera cantata vera e propria, stampata su un santino. Noi possediamo quello di Niccioleta, ma è evidente che la stessa preghiera è usata altrove col solo cambio del nome della località, come abbiamo constatato a Santa Fiora (Suor Bernardina possiede appunto la versione santafiorese):

INNO A SANTA BARBARA (Anonimo)

Salve gloriosa martire ascolta la preghiera che a Te festanti innalzano i figli di miniera Proteggi Santa Barbara i nostri minatori salvali dai perigli guardali nei lavori

Dovunque si commemora oggi il Tuo nome o Santa da tutti quei che credono Ti si festeggia e canta Proteggi Santa Barbara…

Sostan le gabbie e cessano i rombi dei motori mentre le mine scoppiano del giorno ai primi albori Proteggi Santa Barbara…

Di Niccioleta il popolo ti elegge a sua Patrona fidente già Ti venera e tutto a Te si dona Proteggi Santa Barbara…

Proteggi i cari giovani gli adulti ed i vegliardi conforta quei che soffrono dei Tuoi celesti sguardi Proteggi Santa Barbara…

Giacché parliamo di santi, conviene subito citare una delle più belle canzoni di miniera, nate dal gruppo torinese dei Cantacronache ed ispirate alla tragedia della miniera di zolfo di Gessolungo, l’ultima di una serie avvenute tra il 1957 e il 1958 in Sicilia. Ne sono autori Michele L. Straniero e Fausto Amodei, che è anche l’autore di Per i morti di Reggio Emilia . Il brano ha un andamento poderoso e solenne ed arriva a porre i minatori accanto a Dio, mentre denuncia le responsabilità dei proprietari:

LA ZOLFARA (Michele L. Straniero-Fausto Amodei)

Otto sono i minatori ammazzati a Gessolungo Ora piangono i signori e gli portano dei fiori

Hanno fatto in Paradiso un corteo lungo lungo da quel trono dov’è assiso Gesù Cristo gli ha sorriso

Spara prima la mina mezz’ora si guadagna me ne infischio se rischio che di sangue poi si bagna Tu prepara la bara minatore di zolfara

Hanno fatto un gran corteo con i quattro evangelisti tutti quanti li hanno visti con San Marco e San Matteo

con San Luca e San Giovanni e i compagni che da prima lavorando nella mina sono morti in questi anni

Spara prima…

Dopo la dimostrazione Gesù Cristo li ha chiamati con la sua benedizione li ha raccolti tra i beati

Poi levando poco a poco la sua mano giustiziera con un fulmine di fuoco ha distrutto la miniera (8)

Gli anni Cinquanta furono in effetti gli anni delle grandi tragedie minerarie, come quelle di Ribolla, nel Grossetano e di Marcinelle, in Belgio. Alla prima fanno riferimento due fogli volanti che hanno la pretesa, in gran parte assolta, di ricostruire con precisione i fatti:

LA SCIAGURA NELLA MINIERA DI RIBOLLA (foglio volante di Ghelaldini Alvaro)

Nella provincia nostra di Grosseto s’è vista in processione una gran folla correre che ormai il fatto non è vieto della straziante strage di Ribolla c’ora qui appresso, meglio vi spiegherò perché è rimasto a tutti, lutto di gran dolor.

Per questo la favella un’ò sicura mi tremula la mano il cor mi noce in tutta Italia è impressa la sventura che nel cantare mi trema la voce lacrime e pianti, di spose e genitor per i padri di famiglia, morti per il lavor

Il quattro maggio circa l’otto gliera nella località nomata sopra entrati l’operai nella miniera per guadagnarsi il merito dell’opra di lì il carbone venivano a scava’ materia delle prime, di gran necessità

Purtroppo mentre intenti a lavorare al banco del carbone o dove sia questo gasse grisù venne a scoppiare crollando avanzamento e galleria in lugubre tomba si trasformò laggiù e i cari minatori non risortiron più.

La vampa fulminea corse di volo dando alla luce esterna i primi avvisi il cataclisma giù nel suttosuolo quelli che trova ve il lascia uccisi Pozzo Camorra, lo chiamano così martiri del lavoro, vivi li seppellì.

Pronti soccorsi subito ammuniti gli cala l’arganista e si prevale alla raccolta di tutti i feriti per trasportarli in fretta all’ospedale tutte le cure, gli vennero a prestar medici e professori per poterli salvar

Per l’esplosione aspra soffocante muoiono minator quarantadue mentre corse la voce anche distante dove risiede le famiglie sue con tutti i mezzi si portaron colà sul luogo dei misfatto, gravoso e di pietà

Ecco la folla al pozzo si raduna mentre che i primi morti estrar si pole non c’era sguardo o lacrima digiuna ogniuno strepitando si condole chi piange il figlio, chi il caro genitor e chi l’amato sposo, che riveder non po’

Tre giorni vi durò quell’estrazione e sempre i famigliari ad attendere i propri quale martirio povere persone e quale forza occorre che si adopri per resiste senza avvilirsi lì che mi si spezza il cuore, solo a sentirlo dir

Or giunti siamo al quarto dì seguente le salme nel teatro son portate dove gli è fatta la camera ardente da famigliari ed altre circondate i funerali ora descriverò gente di tutta Italia vi ci partecipò

La folla che gremiva ogni viale nell’ora della fredda condoglianza membri del comitato nazionale e di province ogni rappresentanza è innumerevole, da non poter contar la gente sopraggiunta nella località

Con tutti i mezzi che si può dispone uomini donne in tutte le maniere avevano centinaia di corone ed una selva aperta di bandiere col nastro nero che pendolava in lor significava il lutto ai cari minator

E dietro ancora poi tutte le bare su i camion a lento passo si avanzava per tutto era un versar lacrime amare mentre la marcia funebre suonava presso alla chiesa poi si fermaron lì il Vescovo di Grosseto le salma benedì La muta folla lo riprese il corso e si riferma dove sono scesi i morti ché gli fecero il discorso prima di riportarli ai suoi paesi tre deputati col sindaco parlò gli espresse il cordoglio poveri minator

Chiuso il libro di vita i poveretti spenta la volontà lor laboriosa lasciando solo dietro ai suoi cospetti di mamme di orfanelli o della sposa vago ricordo che son vissuti qui e quella morte ingiusta presto ce li rapì

Mamme le vostre lacrime un son lievi gocciano il cuore a tutti i cittadini se qualcheduno è reo risponder deve giustificando per qual mali fini e se è il destino vogliasi deviar che una tragedia umana non possa ritornar (9)

Più stringata e pregevole la composizione di una figura ben conosciuta, quella del cantastorie Eugenio Bargagli. Il suo foglio volante è concepito come un giornale, con titoli, sottotitoli e un grande disegno:

IL POZZO DELLA MORTE (E. Bargagli) La tremenda sciagura mineraria di RIBOLLA presso Grosseto – La violenta esplosione di “grisou” a 354 metri di profondità – La coraggiosa e difficile opera di soccorso – Oltre 40 le vittime del lavoro – Il lutto e la desolazione delle famiglie A Ribolla vicino Grosseto c’è una vasta e profonda miniera si lavora dall’alba alla sera e si scava carbone a quintal

Ogni giorno discendon le squadra a trecento e più metri sotterra su quegli uomini l’ombra si serra è in agguato un nemico mortal

Vita dura fra tutte più dura è la vita del buon minatore il suo pane che sa di sudore sa di rischio e di morte anche più

Può crollar la miniera o inondarsi può talvolta un incendio avvampare ma l’insidia terribile appare quando scoppia d’un tratto il “grisù” Il “grisù” si miscela con l’aria quasi mai fa notar la presenza quindi esplode con somma violenza fiamme, frane, rovine, terror

Quattro maggio. Nel mentre nei campi splende il chiaro tepor mattinale giù nel pozzo profondo e fatale già da un’ora s’è preso il lavor

Poco lungi in un pozzo vicino da tre giorni un incendio è scoppiato ma si spera tenerlo imbrigliato e poterlo alla fine domar Il volere dell’uomo non basta il nemico, il “grisù” sta in agguato un enorme e violento boato fa la terra all’intorno tremar

La fiammata lampeggia e si spegne poi che lascia? Le travi spezzate le macerie le volte crollate la rovina ha portato laggiù

Tutta quanta la squadra è restata prigioniera dei massi franati quanti mai se per tempo salvati torneranno ancor vivi di su?

Si organizza il soccorso: gli audaci van sul posto dell’aspra sciagura: in quei petti non c’è la paura pur se stringe l’angoscia ogni cuor

E la terra ridona man mano le sue prede, le vittime umane che l’onesto guadagno d’un pane han rapito alla vita, all’amor

Su l’allarme, qual triste messaggio va di casa in casetta veloce: mamme e spose non hanno più voce solo il pianto si vede parlar

Passan l’ore con grave lentezza tutti sperano ancor ma stavolta nel fragor della terra sconvolta sol qualcuno è potuto scampar

Così chiude la vita terrena chi sovente la seppe più amara: un elmetto sta sopra a la bara dentro è il cuore dei suoi familiar

Porti pace il Signore a chi cadde e lo accolga nel cielo infinito dia conforto a chi venne colpito da una tale sciagura il pregar! (10)

Alla seconda sciagura, quella di Marcinelle, sulla quale è stato girato di recente anche un film televisivo, dedicò una lunga composizione il poeta siciliano Ignazio Buttitta, che la affidò a vari cantastorie, uno dei quali – Ciccio Busacca – la fece conoscere in tutta Italia ed anche all’estero. È una composizione omerica, di grande ispirazione, dovuta ad un poeta che ha cantato la Sicilia, gli operai e i contadini in maniera forte, asciutta, di grande espressività. È qui che la cronaca si trasfonde in poesia e resuscita i grandi archetipi: il viaggio come odissea, la madre, le forze della natura, la morte. Ma anche di insospettabile modernità, nell’inserire ad un certo punto la voce della radio. Un capolavoro. Se l’inizio è folgorante, si badi all’immagine finale, con Turi Scordu incollato al finestrino nella incerta luce dell’alba:

LU TRENU DI LU SULI (I. Buttitta)

Turi Scordo, surfataru, abitanti a Mazzarinu cu lu trenu di lu suli s’avvintura a lu distino

Chi faciva a Mazzarinu si travagghiù nun ci nn’era fici sciopiru ’na vota e lu miseru ’n galera

Una tana la so casa, quattro ossa la muggheri e la fame lu circava cu li carti dell’usceri

Sette figgi e la muggheri, otto vucchi e otto panzi e lu cori un camiuni carricatu di dugghianzi

Nni lu Belgio, ’nveci ora, travagghiava jorni e notti a la mogghi ci scriveva: “Nun manciati favi cotti”

Cu li sordi chi ricivi compra roba e li linzola e li scarpi pi li figgi, pi putiri iri a scola

Li mineri di lu Belgiu li mineri di carbuni sunnu niri niri niri comu sangu di dragoni

Turi Scordu, un pezzu d’omo, a la sira dormi sulu ’ntra lu lettu a pedu fora smaniava comu un mulu

Cu li fimmini ’tintava, ma essennu analfabeta nun aveva pi ’ncantarle li paroli di poeta

E faceva penitenza Turi Scordu nni lu Belgiu senza tonaca e né mitra ci pareva un sacrilegio

Certi volti lu pinseri lu purtava ’ntra la tana e lu cori ci sunava a martoriu la campana

Ca si c’era la minestra di patati e di fasoli ‘nni dda tana c’era festa pi la mogghi e li figghioli

Comu arvulu scippato senza radichi e ne fogghi si sinteva Turi Scordu quannu penza figgi e mogghi

Doppu un annu di patiri finalmente si decisi: “Mogghi mia, pigghia la roba, venitinni a stu paisi”

E parteru matri e figgi, salutaru Mazzarinu li parenti pi d’appressu ci facevano fistinu

Na valiggi di cartuni cu la corda pi traverso nni lu pettu lu nutricu chi sucava a tempu persu

Pi davanti la cuvata di li zingari camina trusci e sacchi nni li mani, muntarozzi nni la schina

La cuvata cu la ciocca quannu fu supra lu trenu nun sapeva s’era ’ncelu, si tuccava lu tirrinu

Lu paisi di luntanu ora acchiana e ora scinni e lu trenu ca vulava senza ali e senza pinni

Ogni tantu si firmava pi ’nfurnari passeggeri emigranti, surfatara, figgi patri e li mugghieri

Patri e matri si prisentanu, li fa amici la svintura l’emigranti na famigghia fannu dintra la vittura

“Lu me nomu? Rosa Scordu. Lu paisi ? Mazzarinu” “Unni iti?” “Unni jamu? Unni voli lu distino!”

Quantu cosi si cuntaru! Ca li poveri si sapi hanno guai a miliuna: mursicati di li lapi!

Quannu vinni la nuttata, doppu Villa San Giovanni una radiu tascabili addiverti nichi e granni

Tutti sentinu la radiu l’havi ’ manu n’emigranti li carusi un hannu sonnu fannu l’occhi granni tanti

Rosa Scordu ascuta e penza: cu lu sapi chi va a trova n’ata genti e nazioni una storia tutta nova

E si strinci pi difesa lu nutricu ’nsunnacchiatu mentre l’occhi teni ’ncoddu di li figgi a lu so lato

E la radiu tascabili sona musica di ballu un discorso di ministru, un minutu d’intervallu

Poi detti li nutizi era quasi menzannotti sunnu l’ultimi notizii, li nutizii di la notti (parlato) “Ultime notizie della notte. Una grave sciagura si è verificata in Belgio, nel distretto minerario di Charleroi. Per cause non ancora note una esplosione ha sconvolto uno dei livelli della miniera di Marcinelle. Il numero delle vittime è assai elevato…”

Ci fu un lampo di spavento chi siccò lu ciatu a tutti Rosa Scordu sbarra l’occhi, focu e lacrimi s’aggiutti (parlato)

“I primi cadaveri riportati alla superficie dalle squadre di soccorso appartengono a nostri connazionali emigrati dalla Sicilia. Ecco il primo elenco delle vittime: Natale Fatta, di Riesi, provincia di Caltanissetta; Francesco Tilotta, di Villarosa, provincia di Enna; Alfio Calabrò, di Agrigento; Salvatore Scordu….”

Un trimotu: “Me maritu! Me maritu!” grida e chianci e li vuci sangu e focu dintra l’occhi comu lanci

Cu na manu e cento vucchi addumata comu torcia si lamenta e l’ugna alunna ’ntra li carni e si li scorcia

L’autra manu strinci e ammacca lu nutricu stramurtutu ca si torci mentri chianci afucatu e senza aiutu

E li figgi? cu capisci, cu capisci e cu ’un capisci annigati nmmenzu a l’unni di ddu mari senza pisci

Rosa Scordu sventurata nun è fimmina e né matri e li figgi sunnu orfani di la matri e di lu patri

Misi attornu l’emigranti ca non sannu zoccu fari sunnu puru nmmenzu a l’unni strascinati di du mari

Va lu trenu nni la notti, chi nuttata longa e scura! Nun ci fu lu funerali, è la fossa la vittura

Turi Scordu a la finestra a lu vetru mpiccicatu senza occhi, senza vucca, è ’nu schelitru abbruciatu

L’arba vinni senza lustru, Turi Scordu dda ristava Rosa Scordu lu stringeva ’ni li razza e s’abbruciava (11)

Sicilia terra di zolfatari. E a Caltanissetta ne restano le tracce, attraverso un canto riportato alla luce da Alberto Favara e riproposto da Antonio Ganduscio:

Caltanissetta fa quattro quartieri la meglio gioventù gli zolfatari

La domenica tutti hanno i soldi il lunedì in miniera debbono scendere

Con un pezzo di pane e una lucerna dovranno passarvi tutta la settimana (12)

Il finale di ogni verso veniva rafforzato da un colpo di voce, a significare che il canto era nato come conseguenza di un uso ritmico della melodia. Anche Domenico Modugno, negli anni Cinquanta, dedicò due canzoni alle miniere siciliane. Era il tempo in cui l’autore di Volare si fingeva siciliano (era invece nato a Polignano a Mare, in Puglia) ed era riuscito ad ottenere dalla RAI di condurre una trasmissione sulle realtà dell’Isola. Scrisse Lu pisci spada e scrisse Minatori , imperniato sulla figura di un uomo addetto a piazzare la dinamite nelle miniere di zolfo, un carichino:

MINATURI (D. Modugno)

S’alza lu minatori alla matina a li tri cu micci e bummi ’ncoddu va a fatiari

Suda suda suda suda sutta a lu suli cucenti cucenti rumpi rumpi ’a montagna ’agna e metti li mini li micci li bummi e grida “Ahhh-ttenzione a li bummi!”

Si spacca la montagna la terra si strascina…

Suda suda… Ma la montagna è forti e qualche ghiuornu amaru a casa chiù nun turna

Suda suda… (13)

Modugno si accompagnava con la chitarra ed otteneva un effetto di grande drammaticità. Poi descrisse la fine di un cavallo impegnato nel trasporto dei vagoni di carbone nel buio della miniera. Gli animali venivano accecati proprio per essere destinati a passare tutti i loro giorni nel buio delle gallerie. Nella canzone il cavallo, ormai vecchio, viene mandato al macello e il minatore lo accarezza e infine gli esplode contro un colpo di pistola. E c’è la grande trovata della galoppata finale, insieme con i suoi simili, che fa lievitare la canzone fino alle vette della poesia:

CAVADDU CECU DE LA MINERA (D. Modugno) Cavaddu cavaddu cecu de la minera ca tiri tiri centu carretti chini ’e cravuni e ’nginucchiuni vieni e ndi vai Cavaddu cavaddu cecu de la minera nenti chi vidi tuttu canusci passu pi passu passano l’anni Quannu si vecchiu ca torni a lu suli a chiddu suli ca nun vidi cchiù e ’nchiana ’nchiana ’nchiana ’chiana centu metri, mille metri a lu suli

’Nu mari di luci e l’adduri di l’erba e ti ricordi quann’eri forti ca galoppavi galoppa galoppa galoppa galoppa

Cavaddu cavaddu cecu de la minera mo senti sulu, sulu e malatu abbandunatu, cerchi la vuci

E si mette ’na cosa l’incosta a ’n’aricchia ’na cosa fridda ’ntra ’na manu ’na manu ca trema e senti ’nbaaaaaaa…

L’omu te guarda e t’encarizza ma tie nun senti tie galoppi galoppi galoppi galoppi… (14)

Negli anni Settanta, trionfo del beat e dei complessi. I New Trolls, gruppo emergente genovese, dedicano un loro brano al minatore, nello stile dell’epoca, cioè con un piccolo racconto che mette in luce soprattutto il rapporto tra un “lui” e una “lei”:

UNA MINIERA (New Trolls)

Le case le pietre ed il carbone dipingeva di nero il mondo il sole nasceva ma io non lo vedevo mai laggiù era buio nessuno parlava, solo il rumore di una pala che scava che scava

Le mani la fronte hanno il sudore di chi muore negli occhi nel cuore c’è un vuoto grande più del mare ritorna alla mente il viso caro di chi spera questa sera come tante in un ritorno

Tu quando tornavo eri felice di rivedere le mie mani nere di fumo bianche d’amore

Ma un’alba più nera mentre il paese si risveglia un sordo fragore ferma il respiro di chi è fuori paura terrore il viso caro di chi spera questa sera come tante in un ritorno

Io non ritornavo e tu piangevi e non poteva il mio sorriso togliere il pianto dal tuo bel viso

Tu quando tornavo eri felice di rivedere le mie mani nere di fumo bianche d’amore

E sull’Amiata, terra di miniere e minatori, che cosa si cantava? Nel 1913 Gino Galletti trovò alcune terzine che si riallacciano alla presenza delle miniere, come questa:

Io sto alle zolfarate e sto pensando e sempre penso allo mi’ amor che ’ntendo stasera un bel saluto glie lo mando

Si trattava di un giovanotto che passava sotto le finestre della bella e voleva farsi riconoscere, evidentemente. La terzina seguente apre invece un capitolo molto più interessante, introducendo alcuni protagonisti del lavoro in miniera fin qui assenti: le donne.

E lo mio amore ch’è delle miniere e se lo gode la miniera cane l’avanzaticcio delle zoccolone (15)

Sul termine zoccolone si sono fatte molte ipotesi: questo termine veniva già usato spregiativamente per designare le donne di malaffare? O il riferimento era all’uso degli zoccoli, necessari per lavorare alla selezione del materiale da mandare ai forni? O entrambe le cose? Gino Galletti sosteneva che il termine designava le donne di Castell’Azzara verso le quali – scriveva – le santafioresi nutrivano “una gelosia profonda, un odio feroce” perché “lavoravano alle Zolfarate e innamorarono perdutamente di sé gli uomini di Santa Fiora… Poi gelosia e odio divamparono e le santafioresi si recarono a turbe alle Zolfarate, dove successe una scena facile a immaginarsi, con urla, fischi, schiamazzi, ingiurie atroci da una parte e dell’altra. Si venne alle mani e quelle di Castell’Azzara ebber la peggio”. Tenendo conto che il Galletti stava scrivendo un libro su Santa Fiora, questa cronaca dovrebbe avergliela riferita qualcuno del paese, e si può quindi supporre una mancanza di obiettività. Cioè, la faccenda potrebbe essere andata così come la racconta il Galletti ma anche diversamente, e all’opposto. Ma chi erano le donne di Castell’Azzara? E perché innamoravano di sé i santafioresi? E la gelosia delle donne di questi ultimi non era determinata semplicemente dal fatto che quelle di Castell’Azzara erano più libere, spavalde, autonome di loro, grazie all’improvviso distacco dalla famiglia, alla conquistata autonomia, quindi alla prospettiva di una vita radicalmente diversa dal tradizionale ruolo di moglie-madre-custode della casa, tutti fatti nuovi e dirompenti da essere guardati con sospetto e riprovazione? Altrove abbiamo cronache che ne parlano diffusamente: “La fabbrica mutò concretamente la condizione femminile proprio in quanto istituì uno spaziotempo nel quale le donne erano sottratte al controllo della famiglia, del padre, del marito… Da questa novità la morale tradizionale si difende, resiste, con una condanna della fabbrica come corruttrice dei costumi delle donne”. Dice una testimone: “le chiamavan le fabbrichine, l’era come una che la cominciasse una carriera poco onesta, dice «sa, l’è fabbrichina», come dire… Insomma la donna onesta bisognava la stesse a casa”. Ecco allora il sottoscritto irrompere non richiesto nell’epopea delle canzoni sulle miniere. Ho provato a pensare chi fossero queste donne ed ho scritto una marcetta che tenesse conto anche del linguaggio delle donne dell’epoca, come si può ascoltare nelle canzoni delle mondine o in quelle della filanda. La canzone è stata eseguita l’estate scorsa nel corso della manifestazione MAGMA di Selvena, i cui abitanti hanno orgogliosamente rivendicato al loro paese le zoccolone: LE ZOCCOLONE (L. Settimelli) Siamo le donne di Castellazzara che lavoriamo giù alla zolfatara scegliamo i pezzi da mandare al forno e fatichiamo duro tutto il giorno

Siamo le donne che vanno in miniera usciamo all’alba ritorniamo a sera e per la strada andiamo ormai da sole siamo operaie anche se montagnole

Siamo le zoccolone siamo guardate male perché ora s’è imparato che non è l’uomo il centro del creato

Siamo le zoccolone e siamo chiacchierate perché ora s’è capito si può campare anche senza un marito

Siamo le donne di Castellazzara che lavoriamo giù alla zolfatara qualcuno dice che siamo leggere perché di uscire sole siamo fiere

Siamo le donne che vanno in miniera usciamo all’alba ritorniamo a sera questa fatica è una liberazione non è un marito a farci da padrone

Siamo le zoccolone… In loco, altri, prima di me, hanno dedicato alla miniera le loro nuove canzoni. Come Alfio Durazzi, che ha scritto una dichiarazione d’amore alla montagna, nella quale si legge il filigrana anche la vicenda che ruota attorno al mercurio:

IL MONTE AMIATA (A. Durazzi) O Monte Amiata cuore della Maremma il Dio Mercurio sostò nelle tue vene le tue ricchezze donasti di buon cuor ai tuoi villani ben poco gli restò

Montagna verde in ottobre d’or bianca d’inverno tu sei il mio amor Prima gli etruschi scavarono il cinabro trascorse il tempo cambiarono i padroni ti han rapinato ma senza ripagar il minerale portavan via di qui

Montagna verde… I bei paesi distesi sui tuoi fianchi hanno una storia ed un parlar diverso ma in ogni cuore c’è sempre tanto amor per il tuo monte che vita di donò Montagna verde… (16)

Qualche anno fa, per allestire una mostra su miniere e minatori a Santa Fiora, mostra poi distrutta e ricostruita tenendo conto più delle miniere che dei minatori, raccolsi una serie di testimonianze dalla viva voce dei lavoratori. Dal loro racconto derivai una canzone. La prima strofa è quasi la citazione letterale di una testimonianza di Padre Ernesto Balducci. Stessa cosa per le altre parti: l’odore che avevano i minatori me lo raccontava la figlia di uno di loro; il bagno nella tinozza, un minatore stesso. Insomma, è una canzone costruita sulle testimonianze, che poi valga qualcosa è un altro discorso. Se non altro servirà di documentazione:

TORNANO I MINATORI (L. Settimelli)

Io che aspettavo i’ babbo da dietro la finestra per avvertire la mamma di buttar giù la minestra

Poi giù in fondo alla valle vedevo le fiammoline eran le acetilene sembravano cuccioline

Tornano i minatori e il buio li accompagna come giù in galleria dove c’è l’aria morta che ristagna

Tornano i minatori si siedono a mangiare con quell’odore addosso che non son mai riuscito a cancellare

L’acqua della fontana scaldata sopra i’ foco in piedi nella tinozza che bello lavarsi un poco

La moglie l’aiutava co’ i’ sasso strusciava forte come si fa col maiale dopo che è andato a morte

Tornano i minatori ’na lotta dobbiam fare laggiù a dugento metri che schifo gli è restare pe’ mangiar e S’attacca i’ tascapane a un filo ciondoloni per evitar che i topi ti mangin tutto mentre tu picconi

I’ sabato la paga pienava un po’ le tasche quanti finivano conci (17) co’ i’ vino nelle frasche

La mamma preoccupata cavava i maccheroni “corri a pigliare i’ babbo tiralo pe’ i’ calzoni”

Tornano i minatori coi buchi nei polmoni tossiscono pensando almeno ci daranno le pensioni Se vivo me la godo se moio i soldi andranno alla moglie ai figlioli del mio lavoro almeno camperanno

Miniere e minatori che breve e lunga storia ora ci buttan la terra per cancellar la memoria

Ho lasciato per ultimo, anche per chiudere in allegria, un canto corale che si è cantato molto a Santa Fiora e che testimonia anche l’orgoglio dei minatori. Orgoglio di essere una parte forte della classe operaia, orgoglio di fare un lavoro pericoloso e nel quale occorre essere svegli e forti. Naturalmente, con quel tanto di maschilismo che non può non affacciarsi in un lavoro che è stato quasi totalmente maschile. Il canto è La pucina , che allude alla “piscina”, cioè alla Peschiera di Santa Fiora. Ma chi è il protagonista? Il minatore che canta la canzone o la ragazza che lo incontra? O entrambi?

LA PUCINA (Anonimo)

Un giorno andando a spasso alla pucina trovai ’na compagnia di minatori le[mi] disse dove vai o signorina in compagnia dei minator

Ninetta va in filanda a lavorare pe’ guadagnallo[rsi] il pane col sudore l’ho vista ieri sera a fa’ l’amore in compagnia dei minator

Chi dice i minatori son leggère (18) portan le scarpe grosse e stivaloni quando vanno a fora’ la galleria montagne in aria fanno salta’

C’è una chiara allusione sessuale in quel perforare la galleria, allusione che del resto ritroviamo ben più esplicita anche nella versione della stessa canzone raccolta in Valtrompia:

A I DIS CHE I MINATORI SON LINGERI (Anonimo) A i dis che i minatori son lingeri portan le braghe larghe e stivaloni e apena i g’ha fura’ la galeria e i pianta il pinf e punf e poi i va via

Minator io voi sposar perché il mond mi fa girar e invece il contadin dove nasce ti fa morir La g’ha la bicicletta streta streta el pasa l’urtula’ co la careta l’ho vista ier di sera e l’hoi baciata compagnia compagnia dei minator

Contadino no voglio sposar polenta e patate mi toca mangiar e invece i minator i mangia e i bevs cume i signor – se i ghe n’ha

Quando vedo te ’l paradiso mi par di veder quando vedo la ’n mezo al mare mi par di volar (19)

Insomma, il minatore gira il mondo e guadagna bene, altro che il contadino! E del resto anche qui sull’Amiata essere minatore significava, tra le altre cose, essere un partito molto ambito dalle ragazze. Anche perché, rispetto al contadino, in miniera “non ci piove e non ci fiocca”. E vi par poco?

Note 1 In TUTTORASCEL, 1993, Roma, Gremese Editore 2 Foglio volante recante in calce il numero 233, l’indicazione Milano - Tip.Ranzini, Via S. Sisto 4 e “Il catalogo della Musica tascabile e Cartoline illustrate con Musica si spedisce a chi ne fa domanda”. Pubblicato in UN SECOLO DI CANZONI, Parenti Editore, Roma, 1961. Il FOGLIO VOLANTE, corredato di disegni assai primitivi, era stampato su carta multicolore e veniva venduto spesso direttamente dagli autori nelle fiere e nei mercati e sostituiva in qualche modo il giornale. 3 idem 4 In REGIONE LOMBARDIA, Documenti della cultura popolare 5, I protagonisti, Minatori della Valtrompia . 5 idem 6 in Il Cantastorie , Rivista di tradizioni popolari, Luglio 1976 7 In REGIONE LOMBARDIA, cit. 8 In CANTACRONACHE, Un’avventura politico musicale degli anni Cinquanta, DDT e Scriptorium associati, Torino 1996. 9 Il foglio volante reca un disegno diviso in tre parti che raffigurano il crollo, i soccorsi e la veglia in chiesa; in alto la seguente iscrizione Supplemento al GIORNALISSIMO DELLA CANZONE – Edizione straordinaria – N.56 – Anno 42° e il calce Stab.Tipo-Litografico G. CAMPI – FOLIGNO Inviato alla Procura della Repubblica l’[illeggibile] – 5 – 1954 ai sensi della Legge sulla Stampa È PROIBITA LA RISTAMPA . Tratto da Poesia estemporanea a Ribolla 1992-2001 , a cura di Corrado Barontini e Alessandro Bencistà, Toscana Folk, Editrice Laurum, 2002, Pitigliano . L’editore G.Campi di Foligno stampava fino agli anni Cinquanta i Fogli volanti, i calendari della canzone e i testi delle stesse. Fu anche il fondatore di Sorrisi e canzoni , che infatti conserva ancora oggi – per un antico accordo con gli editori di musica – i testi delle canzoni di Sanremo. 10 idem 11 Pubblicato in vari dischi e libri. Per questa versione ci siamo rifatti a Canzoni italiane di protesta 1794 -1974, a cura di Giuseppe Vettori, Newton Compton italiana, 1974, Roma. 12 in Canti del lavoro , I dischi del Sole, a cura di Roberto Leydi. 13 in Modugno, la storia , Editore Curci, 1995, Milano. 14 idem 15 Su questo tema e su La pucina , vedi il mio Bella mi’ Santa Fiora , edito dal Comune di Santa Fiora, 1995. 16 Tratto da una cassetta audio dello stesso Durazzi. 17 ubriachi 18 “leggère”, in genere riferito a donne dal comportamento poco serio. 19 In REGIONE LOMBARDIA, cit.

I minatori (e le miniere!) nella poesia popolare santafiorese Consultacultura

Consultacultura ha avuto, qualche mese fa dall’Amministrazione comunale di Santa Fiora, l’incarico di redigere due antologie poetiche, una di Leo Pasqualini l’altra di Eldorado Vestri (il progetto è tutt’ora in corso, e presto i due volumi vedranno la luce). Consultando i diversi testi, ci è sembrato interessante lo spazio che ambedue hanno dedicato alle miniere e ai minatori. Ne abbiamo tratto pretesto per allargare, anche (ma molto superficialmente, più come un inizio di lavoro che una conclusione) ad altri autori locali la ricerca. Ne emerge un quadro che, per quanto parziale e appena abbozzato, è comunque interessante. Partiamo dalla trilogia di Leo dedicata alle lotte dei minatori del 1958/59:

MINATORI

Come potrei dimenticar la notte che venni a farvi visita in miniera nella boscaglia, con le scarpe rotte, giammai mi scorderò di quella sera! Uniti vi trovai, tutti compagni allegri nella lotta e negli affanni.

Due chilometri feci a testa china al lume scialbo d’una ’cetilene e quando finalmente giunsi in cima compresi qual saldissime catene affratellano voi lavoratori intenti a difendervi i… sudori.

Eravate riuniti al camerone affratellati nella dura lotta. ispirate conforto, in riunione, mentre in vento sbatteva qualche porta. discutendo problemi e voi vitali parlando di miseria e capitali.

I vostri volti li ho scolpiti in petto: Livrano, Giovanni, Giulio, Fosco e quelli a cui mi lega pure affetto: Fernando e Primo, e pur l’uccel di bosco, il Nistri, per poco disertore rientrato da bravo minatore.

E Bache, nella cuccia accovacciato, e Remo, Fiorindo, il Dondolini e Beppe Coppi, sempre indaffarato, Renato e Carlo Testi e Vagaggini di Santa Fiora, Bagnore e Bagnolo, Castell’azzara, Piano e Saragiolo.

È bene che ricordi, in quest’incanto, l’emozione provata da Livrano, dimostrata sovente in lieto pianto, e il pinzetto, orgoglio di sovrano di Nanni del Ciompi, poveretto, che tutti chiamate, ora, Ricciardetto

Di Polvere e di Piombo – Canterini – di Capecchi, Nucciotti e Sargentoni io mi ricordo e pur di Papalini gente incontrata lungo i cameroni. A nome tutti vi vorrei chiamare. a tutti un bacio vorrei poter dare.

E ricordo del vostro attaccamento alla lotta giustissima intrapresa vincolato da sacro giuramento, della costanza nella vostra attesa. Noi tutti v’auguriamo la vittoria che cessi il pianto e torni alfin la gloria.

Leo Pasqualini, Novembre 1958

DURA È STATA LA MIA LOTTA

Ho scavato tutta la vita. Ho messo in luce tante ricchezze, che ho soltanto visto e consegnato al padrone. Per questo ho costruito chilometri e chilometri di gallerie, ho costruito un’immensa città sotterranea. Ho lavorato al freddo più crudo tremando al ritmo del martello, e al caldo più torrido versando sudore, tanto sudore per quanto minerale prezioso scaturisce da cento cotture dei forni. Ho inghiottito tanta polvere che i miei polmoni son divenuti roccia e mi comprimono il cuore. Ho visto i miei compagni di lavoro travolti dalle frane. Ho raccolto l’ultimo respiro di coloro che il gas stroncava nel più profondo pozzo. Con quei sacrifici ho costruito chilometri e chilometri di gallerie, ho costruito l’immensa città sotterranea, ho messo in luce tante ricchezze che ho soltanto visto e consegnato al padrone. Ho lottato contro le rocce, infrangendo la loro resistenza; e sono andato avanti. Ho lottato contro il padrone, che voleva sempre più ricchezze, sempre più profitti. E la mia lotta è stata dura, perché il cuore del padrone è più duro della roccia, più duro della roccia dei mie polmoni che mi comprime il cuore e non comprende e non capisce con quanti sacrifici ho costruito l’immensa città sotterranea per mettere in luce tante ricchezze, che ho soltanto visto e consegnato al padrone. E la lotta si è fatta dura. Sempre più dura. E io sono rimasto nelle gallerie, ho occupato l’immensa città sotterranea. Sono diventato avaro. Avaro come il padrone, che vuole diminuire il salario, che non comprende con quanti sacrifici ho scavato e scavato tutta la vita, ho messo in luce tante ricchezze, che ho soltanto visto e consegnato al padrone.

Leo Pasqualini, 1958

LA LUNGA NOTTE

È bello il sole sull’Amiata verde di abeti di castagni e di cipressi, quando i raggi dorati suoi disperde sopra i paesi, alle pendici messi!

Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora, Piancastagnaio, Abbadia, Castell’azzara. Un popolo che soffre e che lavora nel sottosuolo. Chiuso come in bara!

Da secoli le snelle ciminiere han salutato il sorgere del sole con fumate biancastre, grigie, nere, un saluto già caldo di parole!

Il saluto del mesto minatore stanco per la fatica disumana minato nelle membra e più nel cuore che un poca di luce chiede e brama! Triste è la vita giù nella miniera prigionieri d’anguste e buie volte dove la morte attende, tetra e nera e di vite già stanche, molte ha colte!

Quanto sudore e quanto sangue ha chiuso nelle viscere ricche, questa terra! Quante volte alla luce uscì deluso il minator, a seguitar la guerra!

Per questo è tutto rosso il minerale! Contiene tanto sangue generoso sparso dal minator, reso animale, che nella vita non godé riposo!

Lottato ha per la vita ed il pane, per un tozzo di pane spesso amaro regalando al padrone tanto oro, rimanendo rinchiuso al cimitero!

Solo il sole del monte ha pregustato; quel sole che per tutti sorge ancora, quel sole che il signore ha regalato a tutti, specialmente a chi lavora!

Da giorni pure questo v’è negato, asseragliati giù nella miniera, per avere un lavoro assicurato, il vostro giorno è notte, notte nera!

La vostra lotta è giusta, sacrosanta, la vostra lotta è lotta che v’onora, Noi che godiamo il sole che ci scalda v’auguriamo il successo, la vittoria.

Leo Pasqualini, 27/5/59

Nella fase delle lotte contro la chiusura delle miniere, anche Leo partecipò alla composizione di una canzone, scritta a più mani, che, sulla base di un vecchio motivo popolare ( La Lega vincerà ), esprimeva la protesta contro la chiusura delle miniere e la richiesta di interventi sostitutivi per garantire il lavoro. Il Coro dei minatori la interpretò alla RAI, alla trasmissione “Voi e io, punto e a capo” condotta da Ernesto Balducci, il 22 gennaio del 1977.

VENITE SULL’AMIATA

Venite sull’Amiata, terra di gran tesori però qualche ricchezza sia dei lavoratori

Dai dai dai e l’Amiata risorgerà.

I minatori sono in cassa integrazione se non ci so’ i lavori sarà l’emigrazione

Dai dai dai…

Allora addio montagna, poveri montagnoli ci resteranno solo cinghiali e caprioli

Dai dai dai…

Pe’ riprodurre il pane non fate più la guerra fate nitrati e chimici per lavorar la terra

Dai dai dai… Partiti e sindacati unite le bandiere salvate il Monte Amiata riaprite le miniere

Dai dai dai…

Secondo Ennio Sensi, la strofa scritta da Leo sarebbe questa: Più fatti e men parole, meno demagogia, solo così si salva, la nostra democrazia. Anche Edoardo Vestri in uno dei suoi quadretti paesani, ricorda la miniera soprattutto come luogo di lavoro, di pena e di fatica:

LA VITA DI MINIERA

Il minatore va nella miniera con l’elmetto in testa e ’cetilene ma quando che risorte sulla sera ha già scontato tutte le sue pene.

Chilometri lui fa di galleria con il martello pala ed il piccone e il minerale deve portar via spingendo tutto il giorno il suo vagone.

Come una talpa sotto terra vive però ci ha occhi che lui può vedere è tutto vero quello che lui scrive quanto si soffre dentro le miniere.

Entri giù dentro e il buio ti avvolge intorno e l’aria non rivedi fino a sera non sai se è mezzanotte o mezzogiorno questa è la triste vita di miniera.

Ed a cinquanta metri sotto terra giù dove il gas ti si avvolge ai piedi preferiresti a volte essere in guerra almeno il tuo nemico lì lo vedi.

Il silicio che appare ogni momento e respirare ti fa sempre bocconi pietrificato vien come il cemento e la rovina è dei tuoi polmoni.

Chi ha lavorato dentro la miniera dentro quei pozzi tetri e paurosi ancor giovane si chiude la carriera ed a morir si va di silicosi.

Edoardo Vestri, 1 dicembre 1990

Il riferimento alla silicosi, alle malattie e allo sfruttamento (in chiave sicuramente molto più politica e sindacale), si trova anche in una poesia di Morbello Vergari che riportiamo per un’utile comparazione:

IL MINATORE SILICOTICO

OHI ohi, nun ce la fo, mi manca ‘l fiato, eppure voglio andacci in tutti i modi, a costo di crepà e nun tornà a casa; voglio andà lì davanti e rivedella in faccia la mignera.

Ecco, da qui mi basta, mi sdraierò di fianco su ’sto mucchio di marna che i mi’ compagni hanno portato fòri dal ventre umido e caldo de’ la terra.

Ah, terra terra, quanta fretta hai?! come mi tiri giù, mi calamiti! Come mi tiri giù, ma sta’ tranquilla, ormai c’è più pochino poi cascherò come ’na pera marcia, mi incastrerò dentro di te, vedrai; allora si diventerà tutt’uno come quando ’na goccia casca in mare.

Ecco la galleria, eccola, guarda lì che bocca aperta pronta pe’ ingollà tanti minatori, succhialli e risputalli via spremuti. Eppure un giorno t’ho voluto bene e te ne voglio ancora, dopo tutto.

’Sta piovra maledetta! Hai succhiato ’l mi’ sangue, mi capisci?! Hai succhiato ’l mi’ sangue per vomitallo trasformato in oro dentro a le tasche de’ commendatori!

Quando la mamma degli orfani miei si vestirà di nero qualche puttana d’un commendatore metterà al collo ’na collana d’oro.

Che bella fregatura, mondo ladro! Tutto ’l mi’ sangue trasformato in oro dentro a le tasche de’ commendatori e i mi’ polmoni diventati pietra tutti per me, tutti per me soltanto.

Morbello Vergari

Il tema della malattia e dello sfruttamento si ritrova anche in quest’altra poesia del Vestri:

DICE IL MINATORE A SANTA BARBARA Il giorno dei Santi andai nel cimitero là vidi tanti fiori e luci accese a me sembrava un paradiso vero fra tanto lusso e non bada a spese.

Ma in mezzo vi è una tomba abbandonata senza una luce e senza nessun fiore e là fra l’erba scritta vi è una data qui giace solo un vecchio minatore.

Che tutta la vita ha dato alla miniera passando giorno e notte sotto terra e là restava da mattina a sera qui giace ora per la vita eterna.

E là tra ricchi conti e fra baroni dorme sperduto il vecchio minatore però guardato mal da quei signori e vorrebbe ritornar tra i minatori.

Dissero i ricchi al bravo minatore: «Che stai a far qui fra mezzo a noi lo sai che qui nessuno ti ci vuole piglia i tuoi panni e va per i fatti tuoi».

Ma il minatore che era sporco e stanco ascoltò paziente le brutte parole svegliato disse con un dolce canto e meglio di voi è lo sporco minatore.

Poi il minatore disse a quei baroni signori col cilindro e gli stivali sappiate qui non servono i milioni in questo mondo qui siam tutti uguali.

E a quei signori disse con sorriso fra i minatori vi è la brava gente e poveri e sporchi andranno in Paradiso e voi all’inferno con le luci spente.

Edoardo Vestri, 4 dicembre 2002

…e di un’altra strofa scritta in occasione della festa di Santa Barbara (protettrice dei minatori) del 2000:

SANTA BARBARA PROTEGGI LA TUA GENTE

Il minatore Il minatore soffre e non guadagna e come lombrico sotto terra vive come una talpa fora la montagna a colpi di picca, pala e dinamite e il sangue si congela nelle vene alla fioca luce di un acetilene. […]

Edoardo Vestri, Santa Barbara 2000

In occasione della festa di Santa Barbara del 2003 (in cui furono consegnati ai minatori di tutta l’area – per iniziativa dei comuni e del Parco minerario – delle pergamene e delle medaglie con l’effigie Santa, oltre al libro, offerto dalla Coop sui Cento anni del sindacato minatori , Adolfo Papalini di Castell’Azzara, così scriveva:

SANTA BARBARA Festa dei Minatori 2003 Oggi giorno di festa, e per i minatori ricorrente, rimasta impressa nei pensieri e nella mente per tutto il tempo passato in galleria con sacrificio, rimpianto e nostalgia. La chiusura delle miniere dell’Amiata pur avendo questa zona impoverita, ha ridato la salute a tanta gente perduta sotto terra assai tragicamente.

A Santa Barbara che onorevolmente festeggiamo una fulgida e dolce preghiera rivolgiamo affinché ci protegga ed assista con amore poiché, l’immagine sua, è scolpita in ogni cuore.

Il monumento eretto alla Loro Memoria di tutti i caduti e periti nella storia, un commosso inchino di pace reverente essendo Essi presenti e scolpiti nella mente.

Il popolo per ricordarsi, con tanta pace e con amore, ad ogni occasione ce lo lascia un fiore, ripensando a quel tempo ormai passato, ma che nei nostri cuori mai dimenticato.

Un grazie di cuore all’Amministrazione Comunale, per questa promozione assai geniale, la quale troverà tutti d’accordo con una pergamena e una medaglia ricordo, rilasciata ai Minatori ancora in vita, riconoscenza accolta, e da tutti assai gradita.

Paghi perciò di queste semplici e lodevoli meraviglie, un saluto ed un augurio anche a tutte le famiglie.

Adolfo Papalini

Infine, anche Isabella Cicaloni, nel suo libro Lo sguardo dell’anima del 1998 inseriva una poesia dedicata alla miniera:

LA MINIERA

Elemetto, piccone, lanterna, stivaloni: il montacarichi è pronto, il minatore scende, scende, andrà là a scavare quell’ammasso di cinabro. L’aria pesante e gravosa, i polmoni respirano a fatica, stasera altra silicosi si sarà aggiunta a quella che c’è già e il respiro affannoso e la tosse impediranno il riposo al minatore. Oh miniera fonte di dura vita nonché di morte. Il minatore per quel tozzo di pane rischia la vita tutti i giorni, alla fine scianterà e tu dura miniera vernosa resterai là pronta ad ingoiare e a seppellirne altri.

Isabella Cicaloni