La Nascita Dell'industria Automobilistica Italiana
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LA NASCITA DELL’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA ITALIANA “L’automobile ha fornito all’uomo uno strumento che, accelerando il ritmo della produzione ed evitando disperdimenti di tempo causati dalla lentezza dei trasporti, ha creato impensate possibilità di ricchezza e di benessere”, così scriveva Carlo Biscaretti di Ruffia, fondatore del Museo Nazionale dell’Automobile in Italia e tra i massimi storici dell’automobilismo. L’automobile balza improvvisamente alla luce della ribalta il giorno in cui il veicolo semovente dell’ingegnere lorenese J.Nicolas Cugnot fa la sua prima apparizione a Parigi nel 1769. Beau de Rochas, Otto, Daimler, Benz porranno poi le basi del veicolo moderno e prodigioso che oggi ha raggiunto il suo pieno sviluppo. Sopraggiunta infatti la rivoluzione industriale del diciottesimo secolo, che metteva a disposizione dei popoli una massa sempre crescente di beni, era assolutamente indispensabile la creazione di un sistema di locomozione sicuro e veloce, che permettesse alle industrie di diffondere per il mondo questa enorme quantità di prodotti, destinati a trasformare di sana pianta il nostro modo di vivere. Ogni paese mobilita i suoi tecnici, i suoi inventori, i suoi studiosi per continuare e perfezionare gli esperimenti già compiuti sulle proprietà del vapore acqueo e sulla sua utilizzazione per la trazione. Nasce così sul finire del 1800 il motore a vapore leggero, economico, poco ingombrante, destinato a dar vita al nuovo veicolo rendendolo capace di eccezionali prestazioni. Ma la vera rivoluzione ha inizio con l’avvento del motore a scoppio, che assume rapidamente il primato detronizzando in pieno le applicazioni del motore a vapore. All’Italia non mancano uomini di genio, inventori di avanguardia, come vedremo; ma le occorreranno molti anni per costruirsi una struttura economica e industriale di pari livello del resto d’Europa. Pesa infatti, nel suo lentissimo sviluppo, una struttura essenzialmente agricola, la povertà di materie prime e la penuria di quei capitali indispensabili per l’impianto di stabilimenti destinati alla lavorazione del ferro e alla produzione dell’acciaio. Nonostante questo, può vantare grandi precursori, come Luigi Pagani, di Bologna, che riuscì a costruire nel 1830 una “Locomotiva a vapore applicabile a diversi usi”, come ci dimostra una stampa dell’epoca. Sei anni dopo iniziano a Torino gli esperimenti del Capitano del Genio Virginio Bordino che dopo una lunga permanenza in Inghilterra per studiare ingegneria meccanica, rientrato in Patria progetta cinque veicoli ad uso militare mossi dalla forza del vapore. Uno di questi é conservato ancora oggi da noi. Va annoverato anche Enrico Pecori che, nel 1891, costruisce un triciclo a vapore (anch’esso conservato nella nostra collezione). Ma, oltre al motore a vapore, l’Italia é grande anche nello sviluppo del motore a scoppio. Il 4 febbraio 1879 Giuseppe Murnigotti da Martinengo consegue un brevetto per l’applicazione di un motore a gas su un veicolo a tre o quattro ruote. E’ un’anticipazione assoluta, precedente a molte altre, sia francesi sia tedesche, che giungono a ben altra rinomanza. Ma si ignora se al progetto abbia fatto seguito la realizzazione. Di anche maggiore rilevanza sono gli studi di due nostri grandissimi inventori, Padre Eugenio Barsanti e Felice Matteucci, su cui avete già sentito parlare in una delle scorse conferenze. Nel periodo che corre dal 1851 al 1858 essi costruiscono un motore atmosferico perfettamente funzionante ed illustrato in ogni particolare in una memoria segreta depositata presso l’Accademia dei Georgofili di Firenze nel 1853 e dissuggellata dieci anni dopo. In essa si stabiliscono alcuni principi basilari del motore a scoppio e cioè: “Impiegare come forza motrice la combinazione detonante del gas e trasformare il moto istantaneo prodotto dalla detonazione in moto regolare successivo, uniforme, ed infine di ottenere il miscuglio detonante al miglior prezzo possibile”. I due scienziati italiani conseguono regolare brevetto il 28 aprile 1854, stabilendo una data importante per il motore a scoppio. Disgraziatamente, però, la morte prematura del Barsanti segna la fine di ogni esperienza. La loro opera é continuata e ripresa in ogni paese da altri uomini quali l’italiano De Cristoforis, il francese Lenoir, il tedesco Otto, il francese Beau de Rochas, le cui teorie sul ciclo a quattro tempi aprono la strada al motore moderno. Ma soprattutto sono le scoperte di Karl Benz e di Gottlieb Daimler che danno l’avvio all’utilizzazione pratica e su vasta scala del nuovo mezzo di locomozione. In Italia sono numerosi i brevetti e le priorità acquisite, ma spesso tali eccellenze non trovano pieno riconoscimento. Abbiamo già visto Barsanti e Matteucci; un altro che merita una menzione speciale é il professore veronese Enrico Bernardi. I suoi studi e i suoi meriti sono assai poco conosciuti in Italia e assolutamente ignorati all’estero, nonostante i suoi prototipi possedessero innovazioni e ritrovati tecnici di rilevante portata. Studioso in molti campi, il suo contributo alla creazione del veicolo moderno rimane fondamentale. Già fin dal 1894, infatti, egli progetta la sua piccola vettura, ricchissima di anticipazioni e concepita secondo un progetto assolutamente originale. Il Professore tenne per lunghi anni la cattedra di macchine all’Università di Padova e continuò a conseguire brevetti nei campi più svariati, per esempio quello della fotografia, confermando così il suo genio di anticipatore. Ma come spesso succede ai geni, il suo valore è raramente ricordato. “L’avvenire non è della bicicletta, bensì dell’automobile, quantunque non ci sia dato ancora di precisare, neppur vagamente, il tipo di macchina che trionferà sulle altre”. Così scrive, il 5 ottobre 1895, sulla Gazzetta di Venezia, Mario Morasso, il futuro direttore di “Motori Aero Cicli & Sports”. Dunque gli italiani sono consapevoli del grande avvenire che ha questo curioso ritrovato; ma faticano a darne seguito. Fuori, a Parigi come a Londra, si moltiplicavano gli studi e i tentativi, nascevano le prime riviste (la parigina “Vie Automobile” è del 1894), si discuteva, si costruiva, venivano organizzate persino le prime esposizioni. Il 1895, d’altronde, fu un anno cruciale, denso di avvenimenti che avrebbero avuto grandi conseguenze. E’ l’anno della scoperta dei raggi X da parte del professor Wilhelm Konrad Rontgen; dei primi esperimenti, riusciti, di radiotelegrafia del giovane Guglielmo Marconi; della prima esposizione inglese di autoveicoli, a Turnbridge Wells (in tutto furono presentati quattro veicoli, fra cui un trattore); è l’anno in cui compare, per la prima volta, nella corsa Parigi-Bordeaux e ritorno, il “pneumatico smontabile per automobili Michelin”, adottato dalla Peugeot che si classifica nona, dopo 22 scoppi di camere d’aria; è l’anno, infine, in cui si svolge, sul tragitto Torino-Asti-Torino, la prima corsa internazionale italiana per automobili, con cinque concorrenti in tutto. A parte i geni, i precursori, i pionieri che in infelice solitudine macinano le loro priorità, l’Italia da questo punto di vista stava partendo davvero male. Mentre la Francia si arrogava il merito della prima vettura a vapore, quella di Cugnot, già nel 1769; mentre la Germania costruiva la prima automobile a benzina, nel 1886, e con Berta Benz due anni dopo rivendicava il primo viaggio automobilistico con auto a benzina; mentre la Francia rispondeva con il primo “Salon de l’Auto”, reparto di quello del ciclo, e vantava nel 1899 ben 300 fiacres automobiles (ossia vetture pubbliche), mentre succedeva tutto questo…in Italia era ancora in vigore una legge sarda del 1855, poi resa operante anche nella successiva legislazione italiana (1865), che proibiva la costruzione di una strada importante tra due località già unite da una linea ferroviaria. Alla strada veniva lasciato il solo compito di sobbarcarsi il traffico locale; a tutto il resto doveva pensare la ferrovia. Nella seconda metà dell’Ottocento infatti, in Italia si comincia a pensare allo sviluppo dei trasporti, sì, ma dal punto di vista ferroviario. Vi sarà un vero e proprio boom. La rete passa in pochi anni da 2.000 km a 4.000 sono gli anni in cui vengono realizzati i primi trafori: per esempio quello del Fréjus (1871) che si aggiungono alle due gallerie dei Giovi realizzate fra il 1846 e il 1855; nel 1867 viene aperto il Brennero; nel 1879 la Pontebbana. E poi la Galleria del Gottardo (1882) e nel nuovo secolo quella più lunga di tutte, la Galleria del Sempione (1906). Vengono costruiti 6500 km di nuove strade ferrate in soli quindici anni, e di altri 2500 begli anni tra il 1896 e il 1913. infine, nel 1905, le ferrovie vengono nazionalizzate, favorendo la riorganizzazione della rete e il suo ammodernamento attraverso la progressiva elettrificazione delle linee. Data questa grande attenzione alla ferrovia, ne consegue che altrettanta attenzione non è posta allo sviluppo delle strade. E’ vero che si studia un progetto che prevede la costruzione di 250.000 km di strade, ma non verrà mai realizzato. Ben diversa la situazione negli altri Paesi europei, sempre in quegli anni (i ’70 dell’Ottocento): i nostri 102.000 km di strade mal si confrontano con i 220.000 della Gran Bretagna e i 556.000 della Francia. D’altra parte la geografia non ci aiutava (né allora né oggi): un paese montagnoso e collinoso come il nostro è ben più difficile da collegare rispetto alla douce France, prevalentemente pianeggiante. Arriviamo ad una legge a favore della mobilità su strada soltanto a partire dal 1904: è un provvedimento che stanzia fondi per l’istituzione di servizi automobilistici nei luoghi che non è possibile raggiungere con la ferrovia (va da sé che dove ci sono le ferrovie i fondi non vengono stanziati perciò le strade non si sviluppano). Le autolinee cominciano a svilupparsi davvero soltanto a partire dal 1908 (con un ulteriore provvedimento): in sette anni arrivano a 160, lungo una rete di quasi 14.000 km e 630 autobus in servizio (quasi tutti Fiat). E’ un circolo vizioso: le strade sono poche, e la mobilità su strada poco incoraggiata, perché le automobili sono poche.