LA NASCITA DELL’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA ITALIANA

“L’automobile ha fornito all’uomo uno strumento che, accelerando il ritmo della produzione ed evitando disperdimenti di tempo causati dalla lentezza dei trasporti, ha creato impensate possibilità di ricchezza e di benessere”, così scriveva Carlo Biscaretti di Ruffia, fondatore del Museo Nazionale dell’Automobile in Italia e tra i massimi storici dell’automobilismo. L’automobile balza improvvisamente alla luce della ribalta il giorno in cui il veicolo semovente dell’ingegnere lorenese J.Nicolas Cugnot fa la sua prima apparizione a Parigi nel 1769. Beau de Rochas, Otto, Daimler, Benz porranno poi le basi del veicolo moderno e prodigioso che oggi ha raggiunto il suo pieno sviluppo. Sopraggiunta infatti la rivoluzione industriale del diciottesimo secolo, che metteva a disposizione dei popoli una massa sempre crescente di beni, era assolutamente indispensabile la creazione di un sistema di locomozione sicuro e veloce, che permettesse alle industrie di diffondere per il mondo questa enorme quantità di prodotti, destinati a trasformare di sana pianta il nostro modo di vivere. Ogni paese mobilita i suoi tecnici, i suoi inventori, i suoi studiosi per continuare e perfezionare gli esperimenti già compiuti sulle proprietà del vapore acqueo e sulla sua utilizzazione per la trazione. Nasce così sul finire del 1800 il motore a vapore leggero, economico, poco ingombrante, destinato a dar vita al nuovo veicolo rendendolo capace di eccezionali prestazioni. Ma la vera rivoluzione ha inizio con l’avvento del motore a scoppio, che assume rapidamente il primato detronizzando in pieno le applicazioni del motore a vapore. All’Italia non mancano uomini di genio, inventori di avanguardia, come vedremo; ma le occorreranno molti anni per costruirsi una struttura economica e industriale di pari livello del resto d’Europa. Pesa infatti, nel suo lentissimo sviluppo, una struttura essenzialmente agricola, la povertà di materie prime e la penuria di quei capitali indispensabili per l’impianto di stabilimenti destinati alla lavorazione del ferro e alla produzione dell’acciaio. Nonostante questo, può vantare grandi precursori, come Luigi Pagani, di Bologna, che riuscì a costruire nel 1830 una “Locomotiva a vapore applicabile a diversi usi”, come ci dimostra una stampa dell’epoca. Sei anni dopo iniziano a Torino gli esperimenti del Capitano del Genio Virginio Bordino che dopo una lunga permanenza in Inghilterra per studiare ingegneria meccanica, rientrato in Patria progetta cinque veicoli ad uso militare mossi dalla forza del vapore. Uno di questi é conservato ancora oggi da noi. Va annoverato anche Enrico Pecori che, nel 1891, costruisce un triciclo a vapore (anch’esso conservato nella nostra collezione). Ma, oltre al motore a vapore, l’Italia é grande anche nello sviluppo del motore a scoppio. Il 4 febbraio 1879 Giuseppe Murnigotti da Martinengo consegue un brevetto per l’applicazione di un motore a gas su un veicolo a tre o quattro ruote. E’ un’anticipazione assoluta, precedente a molte altre, sia francesi sia tedesche, che giungono a ben altra rinomanza. Ma si ignora se al progetto abbia fatto seguito la realizzazione. Di anche maggiore rilevanza sono gli studi di due nostri grandissimi inventori, Padre Eugenio Barsanti e Felice Matteucci, su cui avete già sentito parlare in una delle scorse conferenze. Nel periodo che corre dal 1851 al 1858 essi costruiscono un motore atmosferico perfettamente funzionante ed illustrato in ogni particolare in una memoria segreta depositata presso l’Accademia dei Georgofili di Firenze nel 1853 e dissuggellata dieci anni dopo. In essa si stabiliscono alcuni principi basilari del motore a scoppio e cioè: “Impiegare come forza motrice la combinazione detonante del gas e trasformare il moto istantaneo prodotto dalla detonazione in moto regolare successivo, uniforme, ed infine di ottenere il miscuglio detonante al miglior prezzo possibile”. I due scienziati italiani conseguono regolare brevetto il 28 aprile 1854, stabilendo una data importante per il motore a scoppio. Disgraziatamente, però, la morte prematura del Barsanti segna la fine di ogni esperienza. La loro opera é continuata e ripresa in ogni paese da altri uomini quali l’italiano De Cristoforis, il francese Lenoir, il tedesco Otto, il francese Beau de Rochas, le cui teorie sul ciclo a quattro tempi aprono la strada al motore moderno. Ma soprattutto sono le scoperte di Karl Benz e di Gottlieb Daimler che danno l’avvio all’utilizzazione pratica e su vasta scala del nuovo mezzo di locomozione.

In Italia sono numerosi i brevetti e le priorità acquisite, ma spesso tali eccellenze non trovano pieno riconoscimento. Abbiamo già visto Barsanti e Matteucci; un altro che merita una menzione speciale é il professore veronese Enrico Bernardi. I suoi studi e i suoi meriti sono assai poco conosciuti in Italia e assolutamente ignorati all’estero, nonostante i suoi prototipi possedessero innovazioni e ritrovati tecnici di rilevante portata. Studioso in molti campi, il suo contributo alla creazione del veicolo moderno rimane fondamentale. Già fin dal 1894, infatti, egli progetta la sua piccola vettura, ricchissima di anticipazioni e concepita secondo un progetto assolutamente originale. Il Professore tenne per lunghi anni la cattedra di macchine all’Università di Padova e continuò a conseguire brevetti nei campi più svariati, per esempio quello della fotografia, confermando così il suo genio di anticipatore. Ma come spesso succede ai geni, il suo valore è raramente ricordato.

“L’avvenire non è della bicicletta, bensì dell’automobile, quantunque non ci sia dato ancora di precisare, neppur vagamente, il tipo di macchina che trionferà sulle altre”. Così scrive, il 5 ottobre 1895, sulla Gazzetta di Venezia, Mario Morasso, il futuro direttore di “Motori Aero Cicli & Sports”. Dunque gli italiani sono consapevoli del grande avvenire che ha questo curioso ritrovato; ma faticano a darne seguito. Fuori, a Parigi come a Londra, si moltiplicavano gli studi e i tentativi, nascevano le prime riviste (la parigina “Vie Automobile” è del 1894), si discuteva, si costruiva, venivano organizzate persino le prime esposizioni. Il 1895, d’altronde, fu un anno cruciale, denso di avvenimenti che avrebbero avuto grandi conseguenze. E’ l’anno della scoperta dei raggi X da parte del professor Wilhelm Konrad Rontgen; dei primi esperimenti, riusciti, di radiotelegrafia del giovane Guglielmo Marconi; della prima esposizione inglese di autoveicoli, a Turnbridge Wells (in tutto furono presentati quattro veicoli, fra cui un trattore); è l’anno in cui compare, per la prima volta, nella corsa Parigi-Bordeaux e ritorno, il “pneumatico smontabile per automobili Michelin”, adottato dalla Peugeot che si classifica nona, dopo 22 scoppi di camere d’aria; è l’anno, infine, in cui si svolge, sul tragitto Torino-Asti-Torino, la prima corsa internazionale italiana per automobili, con cinque concorrenti in tutto.

A parte i geni, i precursori, i pionieri che in infelice solitudine macinano le loro priorità, l’Italia da questo punto di vista stava partendo davvero male. Mentre la Francia si arrogava il merito della prima vettura a vapore, quella di Cugnot, già nel 1769; mentre la Germania costruiva la prima automobile a benzina, nel 1886, e con Berta Benz due anni dopo rivendicava il primo viaggio automobilistico con auto a benzina; mentre la Francia rispondeva con il primo “Salon de l’Auto”, reparto di quello del ciclo, e vantava nel 1899 ben 300 fiacres automobiles (ossia vetture pubbliche), mentre succedeva tutto questo…in Italia era ancora in vigore una legge sarda del 1855, poi resa operante anche nella successiva legislazione italiana (1865), che proibiva la costruzione di una strada importante tra due località già unite da una linea ferroviaria. Alla strada veniva lasciato il solo compito di sobbarcarsi il traffico locale; a tutto il resto doveva pensare la ferrovia.

Nella seconda metà dell’Ottocento infatti, in Italia si comincia a pensare allo sviluppo dei trasporti, sì, ma dal punto di vista ferroviario. Vi sarà un vero e proprio boom. La rete passa in pochi anni da 2.000 km a 4.000 sono gli anni in cui vengono realizzati i primi trafori: per esempio quello del Fréjus (1871) che si aggiungono alle due gallerie dei Giovi realizzate fra il 1846 e il 1855; nel 1867 viene aperto il Brennero; nel 1879 la Pontebbana. E poi la Galleria del Gottardo (1882) e nel nuovo secolo quella più lunga di tutte, la Galleria del Sempione (1906). Vengono costruiti 6500 km di nuove strade ferrate in soli quindici anni, e di altri 2500 begli anni tra il 1896 e il 1913. infine, nel 1905, le ferrovie vengono nazionalizzate, favorendo la riorganizzazione della rete e il suo ammodernamento attraverso la progressiva elettrificazione delle linee. Data questa grande attenzione alla ferrovia, ne consegue che altrettanta attenzione non è posta allo sviluppo delle strade. E’ vero che si studia un progetto che prevede la costruzione di 250.000 km di strade, ma non verrà mai realizzato. Ben diversa la situazione negli altri Paesi europei, sempre in quegli anni (i ’70 dell’Ottocento): i nostri 102.000 km di strade mal si confrontano con i 220.000 della Gran Bretagna e i 556.000 della Francia. D’altra parte la geografia non ci aiutava (né allora né oggi): un paese montagnoso e collinoso come il nostro è ben più difficile da collegare rispetto alla douce France, prevalentemente pianeggiante.

Arriviamo ad una legge a favore della mobilità su strada soltanto a partire dal 1904: è un provvedimento che stanzia fondi per l’istituzione di servizi automobilistici nei luoghi che non è possibile raggiungere con la ferrovia (va da sé che dove ci sono le ferrovie i fondi non vengono stanziati perciò le strade non si sviluppano). Le autolinee cominciano a svilupparsi davvero soltanto a partire dal 1908 (con un ulteriore provvedimento): in sette anni arrivano a 160, lungo una rete di quasi 14.000 km e 630 autobus in servizio (quasi tutti ).

E’ un circolo vizioso: le strade sono poche, e la mobilità su strada poco incoraggiata, perché le automobili sono poche. Le automobile sono poche anche perché le si scoraggiano in ogni maniera. La prima automobile a circolare in Italia, la prima ad essere venduta, è la Peugeot tipo 3 consegnata nel gennaio 1893 a Gaetano Rossi di Schio (titolare delle Industrie Lanerossi). Deve passare un anno perché arrivi in Italia la seconda vettura, una Panhard Levassor acquistata dal marchese Carlo Ginori di Firenze. La curiosità popolare guardava con simpatia le evoluzioni dei primi automobilisti: un giornale milanese del 1894 dedicò largo spazio alle evoluzioni rapide e repentine di Carlo Brena sulla sua Benz, a largo Cairoli, sottolineando che la macchina si fermava “quasi istantaneamente”. Questo stesso Brena, con la sua macchina che come dicevano i cronisti “percorreva il km in due minuti”, fece nel 1895 un lungo giro attraverso la penisola – Milano, Roma, Napoli e ritorno, via Genova e Torino – accolto ovunque entusiasticamente. Ma anche questo concorse a risvegliare l’interesse, e i sospetto, delle autorità. Non potendo applicare i regolamenti in vigore per la circolazione delle vetture a cavalli – perché proprio i cavalli mancanti differenziavano questi veicoli dagli altri – si pensò bene di equiparare le automobili alle biciclette. Non era una decisione di poco conto. La bicicletta era vista malissimo dai consigli comunali, che si esercitavano spesso a imporre regolamenti assurdi. Non a caso nel 1894 era sorto il Touring Club Italiano, nato per diffondere la cultura del turismo, inizialmente proprio in bicicletta. Tre anni dopo nacque il Club Automobilisti Italiani, primo sodalizio automobilistico italiano e terzo del mondo, dopo quelli di Francia (1895) e d’Inghilterra (1896). Ce n’era bisogno. Tre mesi dopo la costituzione del CAI (16 marzo 1897) il Comune di Milano votò il suo regolamento per la circolazione degli automobili, prescrivendo che il proprietario di un’automobile dovesse chiedere preventivamente, per iscritto, l’autorizzazione alle autorità comunali, per ogni uscita del veicolo, indicando l’ora e le strade che intendeva percorrere. Le proteste furono vibranti, e fortunatamente tra i soci del Cai vi erano alcuni esperti in diritto, che contestarono la competenza amministrativa del comune di Milano, e riuscirono a dimostrare che sulle automobili poteva solo applicarsi la legge del 1881 sulla circolazione stradale. L’argomento ebbe successo, e due furono i risultati: il regolamento comunale venne abrogato, e la tassa di circolazione, che era stata immediatamente prevista, finì avocata allo Stato. Fu comunque anche questo un risultato positivo, perché – perso l’incentivo fiscale – diminuì l’interesse dei comuni a occuparsi dell’automobile.

Permane comunque un grande ritardo in Italia rispetto al resto dell’Europa, e fu un ritardo che si colmò davvero soltanto un cinquantennio più tardi. In Francia l’industria automobilistica aveva prodotto nel 1897 più di tremila veicoli, per un valore di 15 milioni di franchi (diciamo 10 milioni di euro odierni). In Germania la situazione era analoga. Le consegne, per il grande numero di ordini, venivano dilazionate di sei mesi, talvolta anche un anno. In Italia per avere tremila veicoli prodotti toccherà aspettare fino al 1904, sette anni più tardi. Ancora nel 1899 circolano appena 111 veicoli, che salgono a 2174 nel 1905, e 7762 nel 1910. Nel 1915, anno della nostra entrata in guerra, sono balzati a quasi 25.000.

Torino é la città in cui il motorismo si sviluppa più rapidamente e più grandiosamente. Dimostra infatti una vivacità imprenditoriale unica nel panorama italiano. D’altronde, la disponibilità di energia idraulica (e poi idroelettrica), grazie alla presenza di quattro fiumi, la vicinanza a collegamenti ferroviari cruciali, per esempio con la Francia (il traforo del Fréjus è del 1871), la tradizione di lavoro industriale, la presenza dell’industria del legno (che favorì l’insediamento delle carrozzerie automobilistiche), l’esistenza di una manodopera specializzata grazie alle numerose fabbriche d’armi insediatesi nella città capitale del regno di Sardegna, la disponibilità di energia elettrica a bassi costi, le agevolazioni fiscali di vario tipo, la presenza di scuole specializzate, la rete di trasporto pubblico (che agevola gli spostamenti da una parte all’altra della città anche dei lavoratori), le stesse lungimiranti politiche delle amministrazioni locali, attente a creare le migliori condizioni per far ritrovare a torino una sua identità dopo il trauma della perdita di ruolo politico, sono tutti elementi che non è facile trovare radunati tutti insieme e tutti contemporaneamente nella stessa area geografica, come invece è stato per Torino.

Per tutti questi motivi Torino sarebbe cresciuta con l’automobile e per l’automobile. Nel 1901 su 335mila abitanti, i metalmeccanici sono 15 mila, ma solo poche centinaia si occupavano dell’auto. Nel 1904 Torino é la città del Regno con il maggior numero di vetture, 497, un primato piuttosto modesto se paragonato alla mole di biciclette, quaranta volte più diffuse sul territorio cittadino (si era passati dai 1000 ciclisti del 1894 ai 7500 nel 1899 e ai 20mila nel 1904). Nel 1905 é fondata la Scuola Torinese per meccanici e conduttori, allo scopo di fornire una preparazione teorico-pratica sul funzionamento dei veicoli a motore. Ce n’è bisogno davvero: nel 1908 sono in attività a Torino 27 società automobilistiche (contro le 11 di Milano, le 5 di Genova, le 4 di Napoli, le 2 di Roma e Bologna). Dal 1898 al 1908 si costituiscono a Torino 47 marche per la produzione di automobili (contro le 32 di Milano, le 8 di Roma, le 5 di Genova). Altro grande punto a favore è la Scuola di Ingegneria, fiorentissima in quei tempi, ricca di giovani studiosi, che sforna generazioni di tecnici capaci di seguire le orme degli specialisti stranieri e di affiancarsi a loro nella preparazione del nuovo mondo meccanizzato. Ma non solo dal Politecnico escono i più brillanti nomi dell’imprenditoria torinese, come Alberto Balloco, Giulio Cesare Cappa, Giovanni e , Giovanni Enrico, Aristide Faccioli, Guido Fornaca, Michele Lanza. A loro vanno aggiunti i nomi di giovani e coraggiosi esponenti del mondo industriale e borghese, quali , Roberto Biscaretti di Ruffia, Emanuele di Bricherasio, Cesare Goria Gatti, Enrico Marchesi, Emanuele Rosselli e tanti altri, che rischiano le proprie capacità e i propri capitali nella nuova industria del secolo. L’azione di tutte queste forze riesce a destare nella vecchia capitale piemontese l’entusiasmo per l’automobile. Fioriscono iniziative, piccole officine si attrezzano per importare macchine, sorgono dappertutto uffici di rappresentanza. Ma quel che più conta compaiono le prime fabbriche specializzate.

Il primo di questa lunga teoria di coraggiosi progettisti è Michele Lanza, a cui oggi è intitolato nella nostra città il sottopasso di corso Massimo d’Azeglio (cosa che molti torinesi ignorano). Giovane imprenditore torinese, Michele Lanza, portato dal suo lavoro a frequenti viaggi all’estero, soprattutto a Parigi, si lasciò presto ammaliare da questa atmosfera febbrile che percorreva l’Europa. Erede di una affermata “Manifattura di candele steariche e Fabbrica di sapone”, Michele Lanza ci appare, nel fisico e nel morale, come il tipico personaggio piemontese di fine secolo. I suoi bisnonni venivano da Fobello, nell’Alta Val Sesia, origine di curiosa importanza, perché la stessa di Vincenzo , fondatore nel 1906 dell’azienda omonima; e a sottolineare questa comune provenienza, e magari anche una parentela, sta di fatto che il nome, all’origine, era lo stesso, Lancia. Quando, trasferiti a Torino, i bisnonni di Lanza pronunciarono il proprio nome (“Lancia”) all’impiegato dell’anagrafe, si espressero in dialetto(“Lansa”), e questi, per italianizzarlo, lo trascrissero come “Lanza”. Lanza rimasero, e con questo nome fondarono nel 1832 una fabbrica per la produzione di candele ed affini. Michele, subentrato ai suoi genitori nella cura dell’azienda, nutriva con una vivace curiosità per il mondo esterno e lo dimostrò progettando e costruendo, nel 1895, la prima vera automobile a quattro ruote realizzata in Italia; fondando, nel 1898, una Fabbrica di automobili; continuando ad ideare e a studiare prototipi sempre diversi; brevettando (1899) un nuovo tipo di carburatore; fondando, il 1° dicembre 1898, insieme a Roberto Biscaretti e Goria Gatti, l’Automobile Club; e infine dando vita, quattordici giorni dopo, alla rivista “L’Automobile” primo periodico del genere in Italia. Si dimostrò, insomma, assolutamente, appassionatamente, cocciutamente convinto che anche in Italia si potesse e dovesse tentare l’avventura dell’automobile abbracciata con entusiasmo e intelligenza in altre parti d’Europa. Nel 1903 però la Lanza automobili chiudeva. Di vetture costruite, sembra ce ne siano state sei o sette. Di vetture effettivamente consegnate ai clienti forse nessuna. Di riconoscimenti, tributi, onori, neanche a parlarne. Un nome dimenticato come tanti altri, se non fosse per quell’assonanza con una “Mira Lanza” (di cui tutti coloro che hanno più di trent’anni hanno ricercato i miracolosi “punti” negli anni Sessanta) e per quelle scatole di detersivo in polvere ora prodotte dalla multinazionale tedesca Benckiser, che ancora fanno mostra di sé sugli scaffali degli odierni supermercati. Fu per l’Italia, nel suo slancio iniziale, sul piano di ciò che sono stati Panhard, Levassor, Daimler e Benz per Francia e Germania: l’inventore di un veicolo con motore a scoppio, in grado di muoversi da solo su quattro ruote (il Bernardi, nel 1894, aveva costruito un triciclo, e dunque risulta prioritario ma ancora lontano da una più moderna concezione di automobile). Preciso il suo obiettivo: “Costruire una automobile in grado di coprire almeno cento chilometri senza pannes” e impegnare i propri guadagni, la propria credibilità, le proprie relazioni, nel tentativo di arrivare, utilizzando tutte le capacità e risorse della sua città, ad un risultato concreto. Se fu Lanza a ideare e progettare la sua prima “wagonnette” (tipo di carrozzeria simile al break) a sei posti, furono i fratelli Martina, di largo Vanchiglia a Torino, titolari di un’officina di macchinari, a realizzarla, basandosi sul progetto generale di Lanza e sui disegni tecnici elaborati da Giuseppe Stefanini, a sua volta destinato a lasciare grande ricordo di sé all’Isotta Fraschini in anni successivi. Il motore era un due cilindri orizzontali e paralleli, di 8 CV, con l’accensione a tubetti di platino. La potenza veniva trasmessa a un semplice cambio a due velocità, senza retromarcia, tramite una frizione a cono, con comando a pedale; da un contralbero si effettuava il passaggio finale, a mezzo di catene, alle corone dentate e applicate alle ruote posteriori. Queste erano ruote da carretto; la “sterza” si otteneva ruotando tutto l’avantreno con un volantino a manopola, installato su un piantone verticale dove erano situati i comandi delle marce e dell’acceleratore a mano. I pedali erano soltanto due, frizione e freno; curiosamente, il freno d’emergenza era a leva collocata all’esterno, sulla destra della vettura e perciò poteva essere azionata soltanto dal passeggero seduto vicino al conducente, essendo il posto guida a sinistra. Evidentemente il Lanza non temeva la solitudine; d’altra parte, una delle poche foto arrivate fino a noi (quella che vediamo) ci mostra una wagonnette carica al pieno delle sue possibilità, che ospita in un colpo solo, il Lanza al volante e al suo fianco Luigi Damevino, uno dei futuri fondatori della Fiat; dietro, i due fratelli Martina, (che insieme a Giovanni Agnelli, ai e a Vincenzo Lancia seguiva con passione l’opera del Lanza, ansioso di imitarlo) e lo Stefanini. Nel 1898 il Lanza fonda la sua “Fabbrica di Automobili” . Nello stesso anno partecipa alla Esposizione Internazionale di Torino con un Phaeton 4 posti, sul quale gareggia anche alla Torino-Alessandria-Torino. Poche altre vetture, sempre in esemplare unico poi il silenzio. Un silenzio in realtà intessuto di una miriade di altre voci: perché nel frattempo sono nate decine di altre Case automobilistiche sulla scia di Lanza; la Fiat, innanzitutto. Si racconta infatti che qualche anno prima il cavalier Agnelli avesse esclamato, osservando i coraggiosi tentativi del Lanza: “Se io avessi i suoi soldi, sì che metterei su una fabbrica come dico io”. E i “criteri” industriali di Agnelli si rivelarono effettivamente un’altra cosa.

Degli esordi con i tanti fratelli Ceirano, della nascita della Fiat avete già sentito parlare nelle scorse conferenze. Adesso preme sottolineare come la nascita della Fiat trascini con sé la fondazione di innumerevoli altre industrie automobilistiche, soprattutto a Torino. Per esempio la Lancia, fondata da quel Vincenzo che, grande pilota Fiat, nel 1906 decise di dar vita ad una fabbrica che portasse il suo nome, come fecero anche, con minor fortuna, altri due grandi piloti Fiat, Nazzaro e Storero. Ma nacquero anche l’Aquila Italiana, la Junior, la Diatto, la Fiat Ansaldi, la Gallia, l’, la Padus, la Rapid, la Rosselli, la Scat, la Spa, la Stae, la Standard, la Taurinia, e sono solo alcune. Lo stesso fervore imprenditoriale pervade in breve tutta l’Italia, particolarmente Milano il cui apporto é notevolissimo, e di cui si possono ricordare, tra i costruttori ed innovatori, Luigi Brigatti, Alessandro Carcano, Luigi Figini, il barone Franchetti, i fratelli Fraschini, Corrado Frera, Cesare Isotta, Federico Johnson, Luigi Meda, Ottolini, Giuseppe Ricordi e tanti altri. Anche questo gruppo di uomini diede vita ad un superbo gruppo di fabbriche, come la Edoardo Bianchi, che doveva poi assurgere a tanta rinomanza con le sue automobili e i suoi motocicli, la Carcano, la Devecchi & Strada, la Figini, la Frera, la Isotta & Fraschini, l’Officina Majocchi, le Officine Meccaniche, la Otav, la Prinetti & Stucchi, la Ricordi & Molinari, la Serpollet Italiana, la Sive, la Turinelli, la Zust, che si deve considerare l’antesignana della OM. Tra tutte primeggia l’azienda che, fondata nel 1910 come Anonima Lombarda Fabbrica Automobili, rilevataria degli stabilimenti della Darracq Italiana, venne assorbita agli inizi della prima guerra mondiale dalla Soc. Ing. Nicola Romeo, assumendo la nuova denominazione .

Un denominatore comune può essere facilmente evidenziato in molte di queste imprese, come in molte imprese europee: la spinta all’internazionalizzazione, che scaturisce dalla ristrettezza del mercato nazionale e dalla omogeneità delle caratteristiche sociali degli acquirenti. Questo è tanto più vero in Italia, in cui il mercato interno, come abbiamo visto, era particolarmente ristretto. Produrre per esportare diventa un obiettivo comune a Fiat, Itala, Lancia, Alfa Romeo: tanto più che la domanda non si differenziava granchè, tra paese e paese (proprio per quella omogeneità sociale degli acquirenti) e anzi, molto spesso veniva acquistato soltanto lo chassis, che in seguito veniva fatto carrozzare ad hoc in relazione a specifiche esigenze del cliente. Si può tranquillamente affermare che le opportunità di sviluppo di una casa automobilistica, in Italia, risultano strettamente legate alla sua capacità di far assumere alle esportazioni il ruolo di fattore trainante della propria offerta. Ma questo non poteva essere fatto facilmente da piccole imprese a cui mancava la struttura essenziale di vendita, di assistenza, di trasporto, di relazioni, per poter lanciarsi sui mercati esteri. Ciò può spiegare facilmente la posizione rapidamente assunta dalla Fiat nel quadro dell’industria automobilistica nazionale.

Certo l’euforia dei primi anni si spense rapidamente, e le crisi economiche ricorrenti, ultima quella terribile della fine degli anni venti, rimbalzata in Europa dagli Stati Uniti, fece strage delle imprese più fragili. Troppi, persino senza una solida base tecnica, si erano lanciati nell’impresa di costruire automobili, incoscienti delle difficoltà a cui sarebbero andati incontro. Già la prima guerra mondiale fu fatale a queste aziende; ma fu soprattutto nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale che la successiva ondata di aziende senza base tecnica e finanziaria si infranse dolorosamente di fronte alla concorrenza di organismi più forti, come Fiat, Lancia, Alfa Romeo, , in grado di costruire prodotti eccellenti e impiantare una rete commerciale e di post vendita efficace.

Ecco un elenco dei più importanti studi e dei brevetti conseguiti dagli scienziati italiani fino al 1890 e riferentisi particolarmente al motore a scoppio ed alle prime automobili.

1776 Volta – pistola a gas metano con accensione elettrica 1841 De Cristoforis – motore atmosferico a gas e vapori di nafta (funzionante) 1851 Barsanti e Matteucci – Esperienze sull’accensione di miscele gassose 1853 Barsanti e Matteucci – motore atmosferico (memoria depositata presso l’Accademia dei Georgofili di Firenze) 1854 Barsanti e Matteucci – brevetto inglese per un motore atmosferico 1856 Barsanti e Matteucci – motore costruito presso le Officine Benini di Firenze e funzionante 1856 Barsanti e Matteucci – 1° brevetto italiano di un motore atmosferico 1858 Barsanti e Matteucci – 2° brevetto italiano e brevetto francese per un motore a pistoni concorrenti 1859 De Cristoforis – motore a combustione continua 1861 Barsanti e Matteucci – 3° brevetto italiano con unione con Babaci 1863 Barsanti e Matteucci – motore a sistema misto costruito presso le officine Bauer 1868 Babacci – motore a doppio effetto 1874 Bernardi – motore a gas 1878 Bernardi – motore atmosferico (sistema Otto) 1879 Murnigotti – brevetto di motore a 4 tempi 1882 Bernardi – motrice a benzina “Pia” 1891 Faccioli – motore a idrocarburi per vetture 1892 Faccioli – applicazione dei motori a gas per trazione vetture 1893 Bernardi – motore ad alto regime (600 giri) a 4 tempi 1894 Castellazzi e Farina – motore Optimus a compressione variabile 1895 Bernardi – Motore a benzina “Lauro” 1896 Adami – motore a miscela tonante 1896 Miari e Giusti – motore a scoppio applicabile ad un veicolo 1897 Lanza – motore a scoppio con nuovo carburatore 1898 Adami e Bini – motore Elsa 1899 Rosselli e Castellazzi – motore a scoppio adattabile a veicoli leggeri o a biciclette 1899 Soc. It. Bernardi – nuovo motore a scoppio per autoveicoli

Brevetti e costruzioni di veicoli a motore

1830 Pagani – vettura a vapore applicabile a diversi casi 1854 Bordino – vettura a vapore (funzionante ed esistente) 1859 Bordino – autotreno e vettura a vapore 1873 Riva – vettura a vapore a tre ruote 1879 Murnigotti – applicazione del motore al velocipede o alla vettura 1891 Pecori – triciclo a vapore (funzionante ed esistente) 1895 Lanza e Martina – vettura a vapore 1896 Faccioli e Carrera – nuova vettura automobile 1899 Ceirano Giovanni – vettura Welleyes

Donatella Biffignandi Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino