La Società Milanese All'inizio Del Terzo Millennio QUATTRO SGUARDI SU
Total Page:16
File Type:pdf, Size:1020Kb
QUATTRO SGUARDI SU MIlAnO Pubblichiamo di seguito brevi anticipazioni dei saggi che compariranno alla fine dell’opera Guido Martinotti La società milanese all’inizio del terzo millennio Dal variegato e confuso discorso pubblico su Milano, un unico punto fisso sem - bra emergere con profili accettabilmente chiari: chiunque ne parli finisce prima o poi concludendo che Milano è una città infelice, una metropoli che ha perso la sua “anima” o la sua “identità” e uso questi termini , che trovo retorici e poco illumi - nanti , solo perché sono entrati nel gergo comune. Una Milano , insomma , ben di - versa e quasi speculare rispetto al dinamismo dei futuristi, trasformatosi in puro frastuono e stallo di traffico; o rispetto alla Milano dura, ma speranzosa , dei film di De Sica e Visconti ; oppure alla Milano accogliente e solare di Rabagliati e persino a quella vibrante, anche se sottilmente perversa, della “Milano da bere”. E non si dica che la colpa sta nella diversa qualità degli immigrati di oggi rispetto a quelli di ieri. In quegli anni del dopoguerra infatti Milano accoglieva tutti senza troppe dif - ficoltà e l’arrivo di centinaia di migliaia di persone, guarda caso , coincise con il pe - riodo di massima vitalità della città nel dopoguerra. Ma negli stessi anni, esattamente lo stesso tipo di persone si diresse a Torino , che male sopportava i nuovi venuti, o in Svizzera , dove ancora di recente venivano angariati , mentre la Germania li rele - gava nelle baracche dei Gastarbeiter . no, non è colpa di chi arriva: qualcosa è cam - biato davvero , e profondamente , nella natura della società milanese. Sarebbe però ingiusto, nei confronti di Milano e più in generale , dei lettori, af - fermare che questi mali affliggono solo la metropoli lombarda; anche se qui gran parte della classe dirigente locale non sembra essere particolarmente interessata a comprendere i problemi e a correggerne le conseguenze; Milano, come altre città maggiori, si trova al centro di tre grandi processi sociali che, trasformando radicalmente l’habitat urbano di tutto il mondo, ingenerano profonde inquietu - dini dovunque. Il primo processo è la recessione dei confini . Il XX secolo ha cancellato o fatto ar - retrare gran parte dei confini visivi, fisici e psicologici della specie umana, e questo più generale processo ha investito anche l’ambiente costruito. Muovendo dagli an - tichi limiti fisici delle mura, rese obsolete in quasi tutte le città europee dalle mod - ificazioni delle tecnologie militari, grosso modo a partire dall’assedio di Parigi del 1870, i confini della città recedono progressivamente, sotto la pressione combinata di due traiettorie tecnologiche. In primo luogo quella della mobilità fisica, con l’au - tomobile individuale che permette a milioni di individui e famiglie di collocarsi at - torno ai centri urbani, in una fascia definita dall’equilibrio tra il costo dell’abitazione e quello del trasporto: fascia amplissima, finché il costo dell’energia rimane , come è stato finora, trascurabile. Questa dinamica ha sostanzialmente dis - trutto la città tradizionale immergendola nelle “terre sconfinate” – secondo l’esatta definizione di Michele Sernini – dello sprawl o periurbano metropolitano. E, in sec - ondo luogo, la traiettoria tecnologica dell’informazione, che ha garantito a queste residenze atomizzate la possibilità di distanziarsi , non solo dal pozzo dell’acqua e delle altre fonti energetiche, ma anche dalla origine delle informazioni. Se, come dice una nota vignetta su Tucson (Arizona) , “il garage ha mangiato la città”, la tele - visione ha dovunque trasferito l’agorà nel tinello. Il problema è che i sistemi sociali, come tutti i sistemi viventi, hanno bisogno della pelle: di un tegumento o confine da cui dipende la coesione sociale. Un malato di schizofrenia, dice Oliver Sacks, prova la sensazione di non avere la pelle (e, in positivo, “non si sta nella pelle” anche quando si è molto felici o eccitati): e la recessione dei confini elimina la pelle della comunità urbana, ne demolisce la coesione e stimola l’incertezza e le inquietudini sulle appartenenze. In termini molto più concreti, gran parte della popolazione giovane e attiva si è spostata da Milano , nelle terre sconfinate di una vasta regione che non si riconosce più nella città della cinta daziaria (dove non abita, non paga le imposte locali e non vota) e in cui, al censimento del 2001, rispetto a Roma tro - viamo 50.000 giovani in meno, ma altrettante persone in più con oltre 65 anni. Sono numeri grossi per comuni che hanno tra 1,2 e 2,5 milioni di censiti. la seconda dinamica è la grande diffusione delle PnR, o “Popolazioni non Res - identi ”, pendolari, city users , metropolitan businesspersons , che porta con sé trasfor - mazioni economiche , politiche e sociali di grande peso a carico degli abitanti. È un processo in atto da qualche decennio, legato alla mercificazione e al marketing ur - bano, le cui diseconomie sono state sottolineate da più parti. Ma la maggior parte delle classi dirigenti, soprattutto italiane, si è buttata su questa dirompente novità in modo assolutamente spensierato: cioè cercando di ricavarne vantaggi immediati senza pensare alle conseguenze profonde della messa a mercato dei luoghi. Con - seguenze che possono trasformare una comunità urbana nella città interamente mercificata cantata da Kurt Weill e Bertolt Brecht in Mahagonny , o descritta da Frank Capra nella Potterville dell’incubo di Jimmy Stewart in La vita è una cosa mer - avigliosa . Si è promosso un aziendalismo d’accatto che pretende di trattare l’intera città (e non la macchina dell’amministrazione comunale) non soltanto come una entità che è innegabilmente anche economica, ma come una azienda tout court . I ter - mini “azienda paese”, “azienda Milano” non sono soltanto uno scotto di impreci - sione pagato alla puerilizzazione del linguaggio mediatico, ma diventano termini ideologici e corruttori della natura della comunità urbana che, per definizione, non può essere ridotta ad azienda. nel 1992, introducendo il concetto di una “metropoli di seconda generazione”, basata sul consumo, anticipavo che i grandi eventi avrebbero dominato l’economia urbana , ma che, non essendo in larga misura rivolti agli abitanti , bensì ai city-users , avrebbero capovolto un principio più che millenario nella organizzazione della polity urbana, da sempre strettamente definita dagli abitanti. lo sviluppo delle PnR introduce una seconda inquietudine in quanto, vista assieme al primo dai residui abitanti storici della città, comporta un ulteriore grado di incertezza. non solo sono diventati labili i confini fisici, ma anche, all’interno delle mura, per così dire, arrivano altre popolazioni , che non vengono per abitare nella città e condividerne i destini, ma solo per consumare e non di rado consumarla. Prevedevo che vi sarebbero stati conflitti crescenti tra abi - tanti e consumatori dei luoghi e che gli abitanti sarebbero stati sconfitti, in un processo di progressiva limitazione dei loro diritti politici effettivi ( de facto political disenfranchising ). Quasi vent’anni dopo devo constatare senza soverchia soddis - fazione per aver avuto ragione, che è proprio ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi in misura anche maggiore di quanto non avessi pensato allora . Il terzo processo corrisponde alla diffusione della società dell’immagine e in particolare a un meccanismo che Giddens , sulla scorta di Gadamer , chiama “doppia ermeneutica”. non esiste più (almeno nella cultura dominante) una realtà sociale autonoma, che la cultura e la politica hanno il dovere di comprendere, per poter prevedere, prevenire e guidare ( “savoir, pour prevoir , pour pouvoir ”, secondo la classica formulazione comtiana). Esiste solo una opinione pubblica che va peren - nemente stimolata in modo da poterla poi continuamente prendere a pretesto per il perseguimento dei fini dei potenti: “il tot percento degli italiani – americani, francesi, spagnoli eccetera – è favorevole” , oppure “il tot percento dice che ha paura a uscire di sera” , eccetera. la macchina mediatica si mette in moto e spalleggia il caudillo di turno aumentando il senso di insicurezza che verrà a sua volta rilevato dai sondaggi e usato per il prossimo giro: “and so and so on, spinning the spin”. Ma, diranno gli ideologi della growth machine , questa transizione da capitale morale a Mahagonny, è resa necessaria dalla cosiddetta competizione territoriale: il nostro territorio (altra parola, con “capitale morale” più oscuratrice che chiari - ficatrice) deve concorrere, competere con altre realtà. E così tutto il futuro viene puntato sulla cambiale (e speriamo che non sia un assegno in bianco) dei molti milioni di city users che arriveranno con l’Expò a versare il loro obolo ai developers milanesi. Temo, temo molto, che in questo ragionamento, al di là dell’attendibil - ità delle stime, che cominciano a essere riviste via via che, con la crisi, si fa strada una visione più sobria dell’operazione, manchi totalmente la considerazione di una variabile chiave che riguarda la natura e le competenze di quelli che nicolò Costa, uno dei pochi esperti veramente tali del turismo nel nostro paese, chiama serious tourism , cioè il turismo che conta davvero sul piano economico. In una ricerca tanto più ammirevole in quanto fatta con l’intelligenza e non con i soldi, nicolò Costa ha svolto una meta-analisi dei dati di svariate indagini europee sul settore alto delle popolazioni mobili, cercando di misurare la posizione occupata da una serie di grandi città nella considerazione di questa popolazione strategica. Per ciascuna città è stata misurata la notorietà, l’attrattività, la conoscenza diretta e la condivi - sione con altri dell’esperienza. Città come Parigi o Barcellona, e in misura di poco inferiore come Roma, registrano percentuali del 100% su tutte queste variabili. Mi lano invece è sì conosciuta dal 100% dei serious tourists , ma solo il 41% ha avuto modo di visitarla mentre soltanto un misero 13% di costoro desidera ritornarci – e pochissimi ne parlano con gli amici. Conclude Costa, “Milano è rimasta l’unica città italiana ad avere un problema di attrattività: in cui si ‘deve’ andare senza il ‘pi - acere’ di andarci”.