QUATTRO SGUARDI SU MIlAnO Pubblichiamo di seguito brevi anticipazioni dei saggi che compariranno alla fine dell’opera

Guido Martinotti La società milanese all’inizio del terzo millennio

Dal variegato e confuso discorso pubblico su Milano, un unico punto fisso sem - bra emergere con profili accettabilmente chiari: chiunque ne parli finisce prima o poi concludendo che Milano è una città infelice, una metropoli che ha perso la sua “anima” o la sua “identità” e uso questi termini , che trovo retorici e poco illumi - nanti , solo perché sono entrati nel gergo comune. Una Milano , insomma , ben di - versa e quasi speculare rispetto al dinamismo dei futuristi, trasformatosi in puro frastuono e stallo di traffico; o rispetto alla Milano dura, ma speranzosa , dei film di De Sica e Visconti ; oppure alla Milano accogliente e solare di Rabagliati e persino a quella vibrante, anche se sottilmente perversa, della “Milano da bere”. E non si dica che la colpa sta nella diversa qualità degli immigrati di oggi rispetto a quelli di ieri. In quegli anni del dopoguerra infatti Milano accoglieva tutti senza troppe dif - ficoltà e l’arrivo di centinaia di migliaia di persone, guarda caso , coincise con il pe - riodo di massima vitalità della città nel dopoguerra. Ma negli stessi anni, esattamente lo stesso tipo di persone si diresse a Torino , che male sopportava i nuovi venuti, o in Svizzera , dove ancora di recente venivano angariati , mentre la Germania li rele - gava nelle baracche dei Gastarbeiter . no, non è colpa di chi arriva: qualcosa è cam - biato davvero , e profondamente , nella natura della società milanese. Sarebbe però ingiusto, nei confronti di Milano e più in generale , dei lettori, af - fermare che questi mali affliggono solo la metropoli lombarda; anche se qui gran parte della classe dirigente locale non sembra essere particolarmente interessata a comprendere i problemi e a correggerne le conseguenze; Milano, come altre città maggiori, si trova al centro di tre grandi processi sociali che, trasformando radicalmente l’habitat urbano di tutto il mondo, ingenerano profonde inquietu - dini dovunque. Il primo processo è la recessione dei confini . Il XX secolo ha cancellato o fatto ar - retrare gran parte dei confini visivi, fisici e psicologici della specie umana, e questo più generale processo ha investito anche l’ambiente costruito. Muovendo dagli an - tichi limiti fisici delle mura, rese obsolete in quasi tutte le città europee dalle mod - ificazioni delle tecnologie militari, grosso modo a partire dall’assedio di Parigi del 1870, i confini della città recedono progressivamente, sotto la pressione combinata di due traiettorie tecnologiche. In primo luogo quella della mobilità fisica, con l’au - tomobile individuale che permette a milioni di individui e famiglie di collocarsi at - torno ai centri urbani, in una fascia definita dall’equilibrio tra il costo dell’abitazione e quello del trasporto: fascia amplissima, finché il costo dell’energia rimane , come è stato finora, trascurabile. Questa dinamica ha sostanzialmente dis - trutto la città tradizionale immergendola nelle “terre sconfinate” – secondo l’esatta definizione di Michele Sernini – dello sprawl o periurbano metropolitano. E, in sec - ondo luogo, la traiettoria tecnologica dell’informazione, che ha garantito a queste residenze atomizzate la possibilità di distanziarsi , non solo dal pozzo dell’acqua e delle altre fonti energetiche, ma anche dalla origine delle informazioni. Se, come dice una nota vignetta su Tucson (Arizona) , “il garage ha mangiato la città”, la tele - visione ha dovunque trasferito l’agorà nel tinello. Il problema è che i sistemi sociali, come tutti i sistemi viventi, hanno bisogno della pelle: di un tegumento o confine da cui dipende la coesione sociale. Un malato di schizofrenia, dice Oliver Sacks, prova la sensazione di non avere la pelle (e, in positivo, “non si sta nella pelle” anche quando si è molto felici o eccitati): e la recessione dei confini elimina la pelle della comunità urbana, ne demolisce la coesione e stimola l’incertezza e le inquietudini sulle appartenenze. In termini molto più concreti, gran parte della popolazione giovane e attiva si è spostata da Milano , nelle terre sconfinate di una vasta regione che non si riconosce più nella città della cinta daziaria (dove non abita, non paga le imposte locali e non vota) e in cui, al censimento del 2001, rispetto a Roma tro - viamo 50.000 giovani in meno, ma altrettante persone in più con oltre 65 anni. Sono numeri grossi per comuni che hanno tra 1,2 e 2,5 milioni di censiti. la seconda dinamica è la grande diffusione delle PnR, o “Popolazioni non Res - identi ”, pendolari, city users , metropolitan businesspersons , che porta con sé trasfor - mazioni economiche , politiche e sociali di grande peso a carico degli abitanti. È un processo in atto da qualche decennio, legato alla mercificazione e al marketing ur - bano, le cui diseconomie sono state sottolineate da più parti. Ma la maggior parte delle classi dirigenti, soprattutto italiane, si è buttata su questa dirompente novità in modo assolutamente spensierato: cioè cercando di ricavarne vantaggi immediati senza pensare alle conseguenze profonde della messa a mercato dei luoghi. Con - seguenze che possono trasformare una comunità urbana nella città interamente mercificata cantata da Kurt Weill e Bertolt Brecht in Mahagonny , o descritta da Frank Capra nella Potterville dell’incubo di Jimmy Stewart in La vita è una cosa mer - avigliosa . Si è promosso un aziendalismo d’accatto che pretende di trattare l’intera città (e non la macchina dell’amministrazione comunale) non soltanto come una entità che è innegabilmente anche economica, ma come una azienda tout court . I ter - mini “azienda paese”, “azienda Milano” non sono soltanto uno scotto di impreci - sione pagato alla puerilizzazione del linguaggio mediatico, ma diventano termini ideologici e corruttori della natura della comunità urbana che, per definizione, non può essere ridotta ad azienda. nel 1992, introducendo il concetto di una “metropoli di seconda generazione”, basata sul consumo, anticipavo che i grandi eventi avrebbero dominato l’economia urbana , ma che, non essendo in larga misura rivolti agli abitanti , bensì ai city-users , avrebbero capovolto un principio più che millenario nella organizzazione della polity urbana, da sempre strettamente definita dagli abitanti. lo sviluppo delle PnR introduce una seconda inquietudine in quanto, vista assieme al primo dai residui abitanti storici della città, comporta un ulteriore grado di incertezza. non solo sono diventati labili i confini fisici, ma anche, all’interno delle mura, per così dire, arrivano altre popolazioni , che non vengono per abitare nella città e condividerne i destini, ma solo per consumare e non di rado consumarla. Prevedevo che vi sarebbero stati conflitti crescenti tra abi - tanti e consumatori dei luoghi e che gli abitanti sarebbero stati sconfitti, in un processo di progressiva limitazione dei loro diritti politici effettivi ( de facto political disenfranchising ). Quasi vent’anni dopo devo constatare senza soverchia soddis - fazione per aver avuto ragione, che è proprio ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi in misura anche maggiore di quanto non avessi pensato allora . Il terzo processo corrisponde alla diffusione della società dell’immagine e in particolare a un meccanismo che Giddens , sulla scorta di Gadamer , chiama “doppia ermeneutica”. non esiste più (almeno nella cultura dominante) una realtà sociale autonoma, che la cultura e la politica hanno il dovere di comprendere, per poter prevedere, prevenire e guidare ( “savoir, pour prevoir , pour pouvoir ”, secondo la classica formulazione comtiana). Esiste solo una opinione pubblica che va peren - nemente stimolata in modo da poterla poi continuamente prendere a pretesto per il perseguimento dei fini dei potenti: “il tot percento degli italiani – americani, francesi, spagnoli eccetera – è favorevole” , oppure “il tot percento dice che ha paura a uscire di sera” , eccetera. la macchina mediatica si mette in moto e spalleggia il caudillo di turno aumentando il senso di insicurezza che verrà a sua volta rilevato dai sondaggi e usato per il prossimo giro: “and so and so on, spinning the spin”. Ma, diranno gli ideologi della growth machine , questa transizione da capitale morale a Mahagonny, è resa necessaria dalla cosiddetta competizione territoriale: il nostro territorio (altra parola, con “capitale morale” più oscuratrice che chiari - ficatrice) deve concorrere, competere con altre realtà. E così tutto il futuro viene puntato sulla cambiale (e speriamo che non sia un assegno in bianco) dei molti milioni di city users che arriveranno con l’Expò a versare il loro obolo ai developers milanesi. Temo, temo molto, che in questo ragionamento, al di là dell’attendibil - ità delle stime, che cominciano a essere riviste via via che, con la crisi, si fa strada una visione più sobria dell’operazione, manchi totalmente la considerazione di una variabile chiave che riguarda la natura e le competenze di quelli che nicolò Costa, uno dei pochi esperti veramente tali del turismo nel nostro paese, chiama serious tourism , cioè il turismo che conta davvero sul piano economico. In una ricerca tanto più ammirevole in quanto fatta con l’intelligenza e non con i soldi, nicolò Costa ha svolto una meta-analisi dei dati di svariate indagini europee sul settore alto delle popolazioni mobili, cercando di misurare la posizione occupata da una serie di grandi città nella considerazione di questa popolazione strategica. Per ciascuna città è stata misurata la notorietà, l’attrattività, la conoscenza diretta e la condivi - sione con altri dell’esperienza. Città come Parigi o Barcellona, e in misura di poco inferiore come Roma, registrano percentuali del 100% su tutte queste variabili. Mi lano invece è sì conosciuta dal 100% dei serious tourists , ma solo il 41% ha avuto modo di visitarla mentre soltanto un misero 13% di costoro desidera ritornarci – e pochissimi ne parlano con gli amici. Conclude Costa, “Milano è rimasta l’unica città italiana ad avere un problema di attrattività: in cui si ‘deve’ andare senza il ‘pi - acere’ di andarci”. Si va volentieri in una città felice, come Berlino o Barcellona, non in una metropoli infelice come Milano e non bastano i pur bravissimi architetti di tutto il mondo impegnati nell’Expò a riempire il vuoto morale della città . Occorre riaffermarlo: parliamo di processi sociali molto generali che investono le città di tutto il mondo, tuttavia, se è vera la sensazione di gran parte dei com - mentatori , la società milanese non vi ha fatto fronte in modo efficiente. Potremo vedere se questo severo giudizio è corretto ed eventualmente quali ne possono es - sere le ragioni, con gli approfondimenti della storia recentissima previsti in questo volume.

Marco Garzonio La politica e le istituzioni dagli anni novanta a oggi

Ripercorrere le vicende di Milano negli ultimi vent’anni è fare la storia di un percorso ricco di travagli. le premesse per un cambiamento che adeguasse le risposte alle necessità di tempi in clamorosa e rapida trasformazione sembrava potessero scaturire proprio dall’essere il capoluogo epicentro della crisi più grave del dopoguerra: Tangentopoli. Resta da valutare se, come e in che misura ciò che è successo nel prosieguo ha risposto ai bisogni della città, alle molteplici attese in fatto di governance e di socialità. lo scandalo delle mazzette scoppiò il 17 febbraio 1992. Già il coraggio della de - nuncia fu ritenuto premessa di una svolta. Sconcerto, indignazione, rabbia, deter - minazione nel far pagare il conto a una classe dirigente infedele alle responsabilità politico-istituzionali, vergogna vedendo la “capitale morale” ridotta a simbolo di corruzione: ecco alcuni sentimenti che turbarono i milanesi nel profondo. Accanto alle reazioni emotive, però, e pur nello smarrimento diffuso, acuito da chi caval - cava la crisi immaginando vantaggi dal crollo di equilibri consolidati, si fece strada un pragmatismo tutto ambrosiano. È virtù, quella dell’ambrosianità, che trova radici nella tradizione plurisecolare d’una città che “sta nel mezzo” ( Mediolanum , appunto), terra ambìta (di confluenze, scambi, domini, riscatti), snodo di relazioni (fra nord e Sud e tra Oriente ed Occidente) e cantiere perennemente aperto in funzione della sua gente e di chi vi cerca fortuna. lo spirito pratico di Milano, unito alla tensione ideale che le viene dal patrono Ambrogio (alto magistrato del - l’Impero prima d’esser fatto vescovo) comporta di guardare in faccia agli avveni - menti e di non subirli, di sperimentare modi adeguati alle nuove condizioni, di guardare avanti. Così mentre segretari di partito, assessori, imprenditori presero a frequentare Palazzo di Giustizia, e molti di loro proseguirono per il carcere di San Vittore sotto l’impietoso obiettivo di telecamere e fotografi, ci fu chi si rimboccò le maniche. E se la magistratura finì per occupare i vuoti lasciati dalla politica, questa non sembrò tutta compromessa o “sporca”. In Comune nacque la “giunta di responsabilità civica” guidata da (giugno 1992). In essa i partiti fecero un passo indietro. novità assoluta in Italia, il governo della città si aprì ad assessori es - terni (7 su 16), personalità competenti, non di schieramento. Anche in Regione la lunga crisi provocata dagli scandali alla fine fu superata e nel dicembre ’92 venne eletta presidente per la prima volta una donna, Fiorella Ghilardotti, già sindacalista della Cisl e poi esponente del Pds (erede del Pci). Guidava una giunta di mino - ranza formata da postcomunisti, ambientalisti, socialdemocratici e liberali, con Dc e Psi per prima volta in maggioranza ma senza rappresentati nel governo. la spinta a voltar pagina serpeggiò e contagiò società civile, forze economiche, cultura. nella Milano dell’orgogliosa riscossa etica spiccava la Chiesa. Metafora del lavacro collettivo e della possibile rigenerazione fu un episodio. Cesare Romiti am - mise la vergogna per il sistema tangentizio che aveva coinvolto anche la Fiat e ri - conobbe le responsabilità delle imprese, oltreché della politica. Alla fine di settembre del ’92 l’allora amministratore delegato dell’industria torinese parlò da - vanti a imprenditori, dirigenti, manager, invocando un “codice morale ben saldo”, che garantisse regole per la “correttezza e trasparenza del mercato”. Il mea culpa pubblico aveva un interlocutore che gli sedeva accanto, il cardinale Martini, “mas - sima autorità morale” attestò Romiti. In effetti, il presule aveva bollato la corruzione come “peste moderna” sin dal 1984, accusando poi in più occasioni i partiti di di - vorare le istituzioni e di rubare il futuro ai giovani. Ma non aveva risparmiato pun - goli agli industriali, tesi a perseguire il profitto come successo individuale e non risorsa condivisa, trascurando la salvaguardia dei diritti dei lavoratori e delle loro famiglie e la promozione del bene comune. Già, perché nel decennio precedente erano scattate le ristrutturazioni industri - ali, processo che avrebbe trasformato il volto e l’anima di città e area metropoli - tana. Venivano ridimensionate o ammainate bandiere: Alfa Romeo, Ansaldo, Breda, Pirelli, Marelli, Brown Boveri. nel contesto in cui mutavano in modo radicale com - posizione sociale delle popolazioni, equilibri di forza, tutela dei diritti (posto di la - voro, casa, servizi sociali, scuola), la politica era apparsa altalenante. Maggioranza e opposizione sembravano spesso tese a verificare l’impatto sul consenso elettorale più che a governare crisi e transizione con leggi di modernizzazione dei meccanismi pubblici sclerotizzati e fonte di arretratezze. la situazione era in bilico. Cominciò presto a risultare chiaro che Tangentopoli era un sintomo, grave certo, ma non la malattia. Milano e la lombardia locomotiva del paese soffrivano di un pesante deficit di riforme: Pubblica Amministrazione, ordinamento statuale, mercato del lavoro, istruzione, giustizia, fiscalità, uso del suolo, ricerca. la cor - ruzione aveva prosperato annidandosi nei gangli di inefficienze e opacità. Sarebbe bastato guardare alle ipotesi di reato dei pubblici ministeri contro esponenti di par - tito, amministratori, industriali. la politica nazionale, anch’essa allora decimata dagli scandali, diede una risposta alla domanda di cambiamento: elezione diretta del sindaco per aumentare efficienza e credibilità nell’istituzione locale. Votato dal popolo avrebbe dovuto cavarsela lui, senza troppe mediazioni, col governo della città: immigrazione, giovani, finanza lo - cale, urbanistica, servizi sociali, inquinamento. A Milano vinse Marco Formentini (giugno ’93), primo sindaco della lega. Sull’onda della polemica antiromana e della protesta contro i partiti decimati da Mani Pulite, la città si ripiegò ferita. Vennero bloccate nuove linee della metropolitana, in quanto era stata teatro di tangenti; il Co - mune rinunciò a riscattare l’area della Fiera, perché fosse restituita all’uso pubblico; venne cullata l’immagine del sindaco-borgomastro, bonario e popolare. Anche ai vertici della Regione arrivò intanto un presidente della lega: Paolo Arrigoni, nel giugno del ’94. In giunta col Carroccio entrarono Partito popolare, Psi e un in - dipendente ex Pci. Esperienza di passaggio: un anno. Intanto da Milano partiva l’al - tra novità politica dopo la lega: Forza Italia, il “partito-azienda”, che, ai guasti dei professionisti della politica, voleva sostituire il fare e l’efficienza. Così Milano, mag - gio ’97, ha avuto il primo sindaco di tale schieramento: . Gli in - teressi si misero in moto: scattarono le privatizzazioni delle municipalizzate, vecchio orgoglio di funzionalità e socialità ambrosiane; partì il trasferimento della Fiera a Rho-Pero, con cessione dell’area in città per realizzare tre nuovi grattacieli; Milano si riempì di scavi per parcheggi e in periferia sorsero grandi cantieri in aree dismesse. Albertini si definì come “amministratore di condominio”. nel 2006 ecco la prima donna con fascia tricolore. diviene subito il sindaco dell’Expò, del la - vorio per ottenere l’assegnazione dell’appuntamento del 2015 e degli infiniti scon - tri interni alla coalizione di governo per occupare i posti che contano. Proprio i lavori per la rassegna internazionale fan sì che ora la Magistratura accenda i fari sugli appalti e sulle possibili infiltrazioni della ’drangheta, che a detta dei giudici a Milano conterebbe molto. Tangentopoli non è servita, dunque? nessuna generaliz - zazione, per carità; né paragoni impropri. Ma Milano resta il simbolo di un paese in cui, se non si fanno le riforme, sviluppo e futuro rischiano di diventare problem - atici, chiunque governi. Per conto suo, poi, o recupera in ”ambrosianità”, o il ri - formismo di cui ha menato vanto per anni rischia il ruolo di “incompiuta”.

Franco Rositi La cultura

Milano ha perso qualcosa diventando, da capitale industriale e finanziaria, metropoli che mantiene solo i quartieri generali della finanza e il vivace sviluppo del terziario. Come tutti ormai sanno, essa non è più la “capitale morale” del nos - tro paese. Forse siamo entrati in un’epoca in cui hanno cessato di esistere le capi - tali di tipo appunto morale. Parigi stessa non è più la città di Sartre, Camus, lévi-Strauss, Foucault. Forse, ancora forse, l’interruzione dello sviluppo lineare e continuo che aveva caratterizzato i paesi occidentali, Italia compresa, dal 1945 al 1970 circa, è la ragione intima della perdita dei punti-luoghi focali del nuovo umanesimo, laico, progressista, ottimista. È come se una generazione che aveva conosciuto le tragedie dell’Europa dei fascismi, e sperimentava un forte senso di rinnovata libertà, avesse allora trovato nella crescita economica e nel welfare una nuova base di lancio per ulteriori mete di emancipazione. Dai luoghi in cui sem - brava garantita la civiltà si poteva guardare con partecipazione attiva alla “miseria del mondo” (il titolo di un libro antologico di Bourdieu) e indicare la meta di una nuova più alta civiltà. Al culmine, il ’68 europeo e americano era questo umanes - imo: laico, progressista, ottimista. Dura da quasi 40 anni, con alterne vicende e con continui alti e bassi, lo stress dell’interruzione dello sviluppo lineare e continuo. Si sono succedute due-tre crisi economiche in questo periodo, è emerso il rischio ecologico, la prosperità ameri - cana degli anni ’90 appariva già allora iperstimolata, poi la concorrenza asiatica e le minacce fondamentaliste, infine il terremoto finanziario tutto occidentale del 2008. In questo contesto si rafforzano e si moltiplicano i vincoli per un qualsiasi progetto di civiltà, i grandi messaggi e le grandi speranze perdono voce, la cultura di élite si fa riflessiva e metodologica, la stessa cultura di massa ripiega a decorazione della mediocrità quotidiana, la politica oscilla fra avventurismo e ingegneria am - ministrativa. la nostra civiltà non era evidentemente preparata a gestire una crisi lunga e strisciante. Milano capitale morale è tutta dentro quei 20-25 anni “magnifici” fra 1945 e 1970. non dovrebbe meravigliare che, nella decadenza generale delle grandi es - perienze etico-politiche, essa sia decaduta da quel primato. Tuttavia per il nostro paese il fatto che Milano abbia perduto la sua missione egemonica ha avuto con - seguenze gravi. In altri paesi era tale l’accumulazione di civilizzazione moderna (democrazia, cittadinanza, buona amministrazione, cultura media, “buone maniere”) che l’eclissi di qualche centro di irradiazione avrebbe indotto una stasi più che un regresso. la società italiana era, invece, alla fine degli anni ’60, ancora quasi tutta da costruire: intere zone sottosviluppate, livelli di istruzione media car - enti rispetto ai bisogni funzionali dello sviluppo, ibridismi sgraziati fra cultura da strapaese e velleità di modernizzazione, una amministrazione pubblica non effi - ciente, aspettative crescenti, ceti medi evoluti ma inquieti e non appagati. Ma al prestigio che la città aveva accumulato agli occhi degli italiani, innanzitutto in ra - gione della sua rara combinazione di ricchezza materiale e di intelligenza morale, non corrispondeva alcuna élite politica locale che davvero volesse assumersi l’onere di una guida dell’intera nazione nel processo di modernizzazione. Emersero altri gruppi, estranei alle più radicate cerchie dirigenti, intellettuali, economiche e re - ligiose, della capitale lombarda (Craxi, Comunione e liberazione, gli stilisti, i pub - blicitari, Fininvest). Alle incipienti difficoltà del welfare le nuove élites risposero con la parola “modernizzazione”, riempiendo questo flatus vocis di significati impropri, essenzialmente incoraggiando il “rampantismo” di nuovi ceti medi e dilapidando le risorse pubbliche (una sorta di keynesismo per la classe agiata). Quando si parla di decadenza culturale di Milano non ci si riferisce, ovvia - mente, alle statistiche sui consumi culturali, sui livelli di istruzione, sulla numerosità delle mostre, sulla quantità della carta stampata. Su questi dati è ancora oggi facile per Milano mantenere il primato. la parola cultura qui è assunta non nel senso di patrimomio infruttifero, ma nel senso della mobilitazione di risorse intellettuali per la crescita di civiltà. Si parla di decadenza perchè non è più dato osservare quella capacità di irradiamento. In parole semplici: Milano non fa più tendenza, diviene anzi il centro di una cultura politica regressiva. Esprimendo tale giudizio si deve essere consapevoli che così non si fa giustizia della vitalità culturale ancora presente in questo angolo d’Italia (così come in molti altri luoghi del nostro paese), ma che così si esprime innanzitutto un rammarico per aver mancato un compito che solo questa città avrebbe potuto assumere, la guida di una vera mod - ernizzazione dell’Italia. Conviene riflettere sulle ragioni di questo fallimento, e in - nanzitutto raccontarlo.

Carlo Fontana L’esperienza della Scala

Milano e la Scala: un rapporto del tutto particolare, forte, istituzionale, quello che accompagna sin dalla nascita la città e il suo teatro. Infatti, proprio con lo stesso atto di nascita della Scala, con gli avvenimenti che portarono dal 1776 al 1778, dopo l’incendio del Teatro Ducale, alla costruzione del nuovo edificio con il distacco dalla tradizione nobiliare del tempo, la proficua collaborazione tra i palchettisti e Maria Teresa d’Austria, tra “cittadini” e “corona” quindi, prende le mosse un per - corso che progressivamente afferma l’idea di teatro come tempio laico della città. Un’identità accentuatasi negli anni del Risorgimento dove essa stessa è “teatro” dei grandi sconvolgimenti politici preunitari, per proseguire poi sino al secondo do - poguerra quando il sindaco della liberazione, Antonio Greppi, avvia la ri - costruzione della città partendo proprio dalla Scala, riconoscendo in essa il luogo simbolo dell’anima di Milano. la Scala rappresenta dunque un unicum nel panorama delle istituzioni cultur - ali milanesi, occupa nella storia di Milano un posto tutto suo e merita di con - seguenza una trattazione specifica. Gli anni oggetto della nostra attenzione sono i turbolenti anni novanta del secolo scorso, interamente vissuti nella mia sovrinten - denza durata dal 1990 al 2005. Ho sempre pensato che ogni sovrintendente scaligero, dal secondo dopoguerra a oggi, sia stato “figlio” del proprio tempo: An - tonio Ghiringhelli incarnò lo spirito fattivo che segnò la ripresa degli anni cinquanta e sessanta; Paolo Grassi rappresentò la svolta “democratica” e artistica - mente innovativa dei settanta e Carlo Maria Badini si adeguò all’ottimismo conta - gioso degli ottanta. A me toccarono gli anni novanta, con tutto ciò che quel periodo significò per Milano sotto il profilo politico, sociale ed economico: la mia testimo - nianza racconta questa ricca esperienza, della quale, credo, obiettivamente non potrà non esserne riconosciuta in sede storica la singolare valenza. Uno scenario difficile e complesso quello nel quale il 3 ottobre 1990, nominato sovrintendente dopo l’elezione quasi unanime da parte del consiglio comunale, venni chiamato ad operare. le restrizioni utili a conseguire i parametri economici per l’ingresso in Europa e l’instabilità politica che conteneva in sé i germi della fine della cosiddetta Prima Repubblica, producevano una situazione particolar - mente problematica. In un quadro di drastica riduzione del Fondo unico dello spettacolo e di una carenza legislativa fortemente avvertita perché alla legge istitutiva del Fus, la legge madre, non seguirono come previsto le leggi di settore, la Scala non poteva non af - frontare il problema del rinnovamento istitutivo del teatro e del suo finanziamento. Subito fu necessario affrontare questi due problemi a cui ne aggiunsi un terzo, quello dell’adeguamento tecnologico del palcoscenico per renderlo più efficiente e produttivo. Oltre ad assicurare agli artisti le condizioni di lavoro più favorevoli a esprimere la loro creatività, tutta la mia gestione fu così caratterizzata dallo sforzo di accompagnare alla riforma istituzionale il rinnovamento strutturale. Gli ostacoli da superare per conseguire l’ambizioso obiettivo riformatore non erano semplici alla luce, soprattutto, della situazione economica dei primi anni no - vanta. Come s’è detto, questa situazione non consentiva che i bisogni della Scala trovassero la loro sostenibilità con il solo finanziamento pubblico ed era pertanto assolutamente necessario rendere continuativo e organico all’istituzione l’inter - vento di soggetti privati, aziende in primo luogo. la “privatizzazione” dell’ente, trasformato in fondazione di diritto privato, divenne perciò lo strumento idoneo a promuovere l’ormai indispensabile alleanza tra “pubblico” e “privato” a fini di pub - blica utilità, fermo restando che comunque il finanziamento privato doveva essere considerato aggiuntivo rispetto a quello del Fondo unico e degli enti locali. Il 16 novembre 1997 la Fondazione venne costituita e con questo provvedi - mento legislativo la Scala aveva nella sostanza realizzato surrettiziamente una “legge Scala”, che riannodava i fili con la propria storia centenaria richiamando positive esperienze “pubblico/privato” quale fu quella a cavallo tra Otto e novecento della Società anonima per l’esercizio di Guido Visconti di Modrone. Se la Scala in tutti questi anni, anche quelli recenti, non di mia competenza, è riuscita a raggiungere l’equilibrio di bilancio lo si deve proprio all’apporto finanziario, di assoluto rilievo, dei soggetti privati che hanno contenuto la progressiva diminuzione dei contributi pubblici, irrinunciabili per l’attività operistica. È venuto così meno quell’equilibrio tra finanziamento “pubblico” e “privato” che era l’asse portante della trasfor - mazione proprio a garanzia delle finalità pubbliche dell’Ente. E questo aspetto dovrebbe essere materia di una ampia e doverosa riflessione . l’altra sfida, il “nuovo” palcoscenico, ebbe un’accelerazione dall’urgenza in - differibile del rispetto delle norme che disciplinano l’agibilità dei teatri d’opera. Avevo pensato la ristrutturazione al fine di aumentare significativamente il numero delle recite per soddisfare una domanda di pubblico che rimaneva inevasa per oltre il 30%. Sono sempre stato convinto che gli alti costi della Scala trovino gius - tificazione solo se vissuti come un investimento il cui ritorno è un incremento del servizio culturale per la collettività. Posso con orgoglio sostenere che ogni scelta da me compiuta è stata fondata su questa convinzione: la Scala è un bene comune che appartiene a tutti, tutti concorrono al suo mantenimento e tutti ne devono poter fruire. l’emergenza sopra richiamata determinò la chiusura della Scala che venne ri - aperta, nel pieno rispetto dei tempi di restauro, dopo un intervento radicale che non ha riscontro nella vita del Teatro. Sempre nell’ambito del rinnovamento strutturale di quegli anni vanno ricor - dati altri importanti conseguimenti, quali la nuova sede della Scuola di ballo in un palazzo ottocentesco del centro, riadattato, e, soprattutto, i laboratori scenotecnici trasferiti nei padiglioni dell’Ansaldo, esempio di archeologia industriale coniugata straordinariamente con le esigenze della “fabbrica” teatrale. Un risultato unico nel mondo teatrale nazionale e internazionale, e che anche recentemente è stato messo in valore da un nuovo libro e da una mostra fotografica della Triennale all’Ansaldo dedicata. Sotto il profilo artistico gli anni novanta sono stati gli anni della direzione mu - sicale di Riccardo Muti, il quale dà un segnale forte a un pubblico che doveva es - sere incoraggiato a scoprire e decretare il successo per una musica meno frequentata e conosciuta e tuttavia di respiro europeo. Gluck, Cherubini, Spontini sono gli autori, prima trascurati, che vengono riproposti; e l’esecuzione quasi per intero del catalogo delle opere di Mozart si traduce nell’affermazione della Scala come palcoscenico mozartiano di autorità internazionale. negli stessi anni, nella sala del Piermarini si alternano grandi direttori quali Solti, Ozawa, Colin Davis, Prêtre, Maazel, Gavazzeni, Sinopoli, Chailly, Gatti, tra gli altri; registi come Strehler, Zeffirelli, Ronconi, Peter Stein, Vick, Carsen, Herzog, De Hana, per non ricordarne che alcuni; allo stesso modo i cantanti più autorevoli del tempo – che non vengono menzionati per non incorrere in spiacevoli omissioni – colgono successi trai più significativi della loro carriera, e pure il balletto con Alessandra Ferri, la Guillem, Bolle e Murru, questi ultimi due promossi “sul campo” primi ballerini, conosce un periodo tra i più felici. Grande merito della programmazione artistica resta innanzitutto quello di aver sconfitto l’eredità del pregiudizio divistico, che di fatto aveva portato a escludere la rappresentazione del repertorio più popolare, in primis verdiano, a cominciare dalla trilogia romantica Traviata , Rigoletto , Trovatore , proprio per sfuggire ai confronti con le ombre del passato. la Scala torna così ad essere il teatro nazionale per eccel - lenza, acquisendo e rafforzando una perentoria identità nella salvaguardia e val - orizzazione del nostro patrimonio melodrammatico, senza tralasciare di ampliare i propri orizzonti con le nuove creazioni annualmente commissionate ai più signi - ficativi compositori italiani. la conclusione di una lunga vicenda così ricca di risultati artistici e gestionali, l’un l’altro strettamente connessi, va ricercata nella riapertura della Scala restaurata il 7 dicembre 2004 con Europa riconosciuta di Antonio Salieri, che il 3 agosto 1778 l’aveva tenuta a battesimo. Ancora un inizio, un passaggio di testimone, a una nuova e diversa Scala in perfetta sintonia con il nostro tempo presente.