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Giorgio Orelli e il "lavoro" sulla parola. Atti del Convegno internazionale, 13-15 novembre 2014 a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando

DANZI, Massimo (Ed.), ORLANDO, Liliana (Ed.)

Abstract

Actes du colloque international de Belinzone sur ( 1921-Belinzone 2013), le plus important poète, traducteur, narrateur et critique littéraire de la Suisse italienne du XXe siècle et certainement aussi un des plus remarquables poètes en langue italienne de la deuxième moitié du XXe siècle.

Reference

DANZI, Massimo (Ed.), ORLANDO, Liliana (Ed.). Giorgio Orelli e il "lavoro" sulla parola. Atti del Convegno internazionale, Bellinzona 13-15 novembre 2014 a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando. Novara (Italie) : Interlinea, 2015

Available at: http://archive-ouverte.unige.ch/unige:84153

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1 / 1 Giorgio Orelli e il “lavoro” sulla parola Convegno internazionale di studi

COMITATO SCIENTIFICO Simone Albonico (Università di Losanna) Ottavio Besomi (Politecnico Federale di Zurigo) Massimo Danzi (Università di Ginevra) Pietro De Marchi (Università di Zurigo) Uberto Motta (Università di Friburgo) Liliana Orlando (Liceo Cantonale di Bellinzona) (Università della Svizzera italiana) Niccolò Scaffai (Università di Losanna) GIORGIO ORELLI E IL “LAVORO” SULLA PAROLA Atti del convegno internazionale di studi Bellinzona 13-15 novembre 2014 a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando

INTERLINEA Volume pubblicato con il sostegno della Fondazione Ulrico Hoepli di Zurigo, del Fondo generale dell’Università di Ginevra e del Contributo del Cantone derivante dall’Aiuto federale per la salvaguardia e promozione della lingua e cultura italiana

© Novara 2015, Interlinea srl edizioni via Mattei 21, 28100 Novara, tel. 0321 1992282 - 612571 www.interlinea.com [email protected] Stampato da Italigrafica, Novara ISBN 978-88-6857-058-3

In copertina: fotografia di Yvonne Böhler Sommario

Massimo Danzi, Introduzione p. 7

Stefano Agosti, Giorgio Orelli e l’istanza della lettera » 15 Maria Antonietta Grignani, Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori » 23 Silvia Longhi, Le sillabe di Orelli » 37 Clelia Martignoni, Per Giorgio Orelli narratore » 51 Pietro Gibellini, Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori » 63 Gilberto Lonardi, Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio » 77 Alice Spinelli, “Attraversando” Valeri. Aemulatio e (co-)intertestualità nel Goethe di Orelli » 87 Massimo Danzi, Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” » 111 Christian Genetelli, Per il critico e per il poeta. Giorgio Orelli lettore di Leopardi » 133 Niccolò Scaffai, Un’altra fedeltà: Orelli e Montale » 151 Giovanni Fontana, «Gli occhi attenti, contro stipiti saldi, duraturi». Orelli e Luzi » 169 Georgia Fioroni, Orelli e Sereni: un possibile dialogo » 187 Yari Bernasconi, Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli » 209 Ottavio Besomi, Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore » 223 Pietro de Marchi, L’orlo della vita di Giorgio Orelli. Notizie sull’inedito e proposta editoriale » 243 Pietro Montorfani, «Wer redet, ist nicht tot». Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli » 255 , Una testimonianza » 295 Autografo di Primavera a Ravecchia (aprile 2013) poi divenuta L’uomo da marciapiede.

6 Introduzione

In occasione della festa per i novant’anni di Giorgio Orelli, svoltasi in questa stessa sala nel maggio del 2011, in diversi c’eravamo detti che occorreva affron- tarne il lungo “lavoro” letterario in una sede scientifica. Ora che Orelli ci ha la- sciato, questo compito è parso anche più urgente. Sappiamo tutti la velocità con cui il presente diventa passato; e questo si perde inesorabilmente. Quando, nel 2008, Orelli ricevette l’importante premio della Banca della Svizzera italiana, toccato in precedenza a Contini, Isella, Amerio, Pozzi e altri studiosi, a tenere la laudatio fu chiamato il romanista Cesare Segre, da molti anni amico del poeta. Segre ha lasciato una sua autobiografia, nella quale a un certo punto si chiede che cosa dei nostri studi sarebbe rimasto dopo la morte. E la conclusione era una: occorre sempre ricominciare, perché nella memoria collettiva come nel diritto dei popoli nulla è iscritto per sempre. Questo è il compito di chi rimane, di operare cioè perché il rapporto tra presente e passato non venga cancellato dalle sirene dell’attualità e chiara, o più chiara possibile, resista la coscienza della nostra storia, delle nostre radici. Giorgio Orelli credeva nella forza delle radici, non solo di quelle leventinesi o bellinzonesi (pur così importanti per lui); ma di quelle che, in un artista, emergono con il lavoro “onesto” degli anni che non è altro che lo sforzo per essere se stesso tirando l’acqua al proprio mulino: lavoro “onesto” perché fedele alla natura e alla propria profonda aspirazione. Concepiva, Orelli, e lo ha scritto parlando di artisti che ha amato, un lavoro in- tellettuale come chiarimento di sé, dei propri motivi esistenziali e della propria ansia conoscitiva: «A un artista», scrisse a proposito del bleniese Ubaldo Moni- co, «preme di consegnare nient’altro che l’immagine che porta nell’anima». E, a proposito dello scultore Giovanni Genucchi, altro bleniese ma questa volta nato a Bruxelles, osservò: «La forza di Genucchi è nella ricchezza (devo proprio dir così) della sua povertà, della sua umiltà, nella profonda onestà che gli permise di non recitare farse con se stesso, prima che con gli altri, tradendo le proprie radici. Veramente la sua anima si prolunga nelle opere». Viene in mente un autore molto caro a Orelli, che si interrogava sul nuovo “ordine” che l’artista impone alle cose: «Comment une œuvre remarcable sortirait-t-elle de ce chaos», scriveva Paul Valéry, «si ce chaos qui contient tout ne contenait aussi quelques chances sérieuses de ce connaître soi-même?» (ed. Pléiade, vol. I, p. 1335). In Italia, queste parole ci riportano a un poeta come Saba, che Orelli incontrò a Milano, in un’osteria di via XX Settembre per la mediazione di , un’«unica indimenticabile volta» (così ricorda in Quasi un abbecedario, p. 53)

7 Massimo Danzi e alla sua «poesia onesta», che per il poeta triestino significava «non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore». «Benché esser originali e ritrovar se stessi siano termini equivalenti, chi non riconosce», scriveva Saba in Quello che resta da fare ai poeti (del 1911 ma pubblicato solo nel 1959), «che il primo è l’effetto e il secondo la causa?» C’è molto di Saba in questa posizione di «poesia onesta» brandita da Orelli, in quel suo (è ancora Saba) «mantenersi puri ed onesti di fronte a se stessi» senza paura di «ripeter se stessi». Lo si rilegga e si capirà perché, e quanto, quell’unico incontro milanese restò fissato nella memoria del poeta. Un tale modo di vedere le cose attesta naturalmente (e così era anche in Saba) una posizione morale, in cui “barare” è, prima di tutto, “barare con se stessi”. Ciò vale anche per i poeti, la cui personalità risulta negli anni da un “lavoro” che rende lo stile vieppiù personale e riconoscible. Di questo “lavoro”, teso a far emergere la propria profonda natura e ispirazione, ha scritto sempre Valéry sottolineandone la complessità e la completezza. E, dalla sua Firenze, il poeta e francesista Mario Luzi, amico da sempre di Orelli, gli ha fatto eco, ri- cordando il «lavoro enorme che attende [il poeta] per ritrovare il suo suo gesto, la sua voce essenziali» (L’inferno e il limbo, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 14). Solo a questo prezzo, di un “lavoro” condotto senza fretta (come voleva Orelli), l’opera che risulta è poi il «prolungamento dell’anima del poeta».

Il convegno che si apre oggi fa centro su un poeta che in molti abbiamo cono- sciuto. Per una ragione o per un’altra (il destino è sempre per metà frutto del caso e per metà altra cosa) a vari di noi è toccato in sorte di frequentarlo. Ad altri, tra Bellinzona e Prato, di incontrarlo e scambiare parole, che poi – con lui – due non erano mai perché Giorgio Orelli è stato un interlocutore straordi- nario, posseduto da un «bisogno di esprimersi» nel quale Segre ha riconosciuto senz’altro «la prima spinta all’invenzione critica e alla poesia». Questo non è dunque solo un convegno “accademico” (quale anche sarà), ma un’assemblea di amici che alle ragioni della letteratura uniscono quelle di una lunga e amisto- sa fedeltà all’autore, per la prima volta espondenole al pubblico. Un pubblico – sappiamo – non fatto solo di specialisti e che ha, negli anni, sentito la figura di Orelli, e ora forse con maggior forza la sente, come parte del suo mondo. Il mondo di Orelli è stato un mondo di uomini e di rapporti umani, prima che di libri e di letteratura: di scavo e di ricerca interiore perché, come ha scritto con grande semplicità, «uno scrittore consapevole che la vita è una sola, sa che fuori dalla conoscenza di sé non c’è scampo» (Quasi un abbecedario, p. 32). Anche fuori del suo borgo e della scuola, dove ha insegnato per quarant’an- ni, Orelli era amato: ricordo l’amicizia con poeti come Montale, Sereni, Luzi o Fernando Bandini. O con studiosi come , suo maestro friburghese, Cesare Segre, Maria Corti, Stefano Agosti o lo storico dell’arte Ro- berto Longhi; e da noi, fra tutti, Virgilio Gilardoni, creatore, qui a Bellinzona, dell’“Archivio Storico Ticinese” e storico tra i più esposti e vigili del nostro Paese. Ma potrei ricordare anche un buon numero di artisti: Cavalli, Moni-

8 Introduzione co, Genucchi, Selmoni, Bolzani; ma anche Boldini, Carrà, Rosai o Italo Valen- ti, che disegnano una “storia” parallela e altrettanto ricca del poeta. Accanto però a questi amici, Orelli faceva posto anche a persone che non immaginiamo. Nell’ultimo libretto Quasi un abbecedario, parlando molto seriamente della scar- sa considerazione in cui i commenti ai poeti tengono il fatto acustico, strizza con ironia l’occhio al portinaio della Scuola di Commercio (che molti di noi ricorda- no) e con il quale, dopo le lezioni, si intratteneva spesso. Sentite il tono delle sue parole: «È curioso (tristemente significativo, diceva il portinaio della mia scuola) che nei commenti si ignori questo fatto» ecc. Questo era l’uomo.

A lato di questo convegno, abbiamo voluto una mostra che raccogliesse i fili e gli intrecci anche di quest’altra storia “culturale” che, come accade nei migliori momenti, travalica i confini del Cantone per incunearsi negli spazi di una cultura senza muri. Qui i fili s’intrecciano, perché ciò che la mostra documenta è posto sotto la lente del convegno: penso all’attività del traduttore, del critico, del poeta o del narratore. Uomo sostanzialmente legato a due soli luoghi, Bellinzona e Prato Leventina, Orelli ci invita, in realtà, a un dialogo costante con l’Italia di Gadda, Sereni, Montale, la Germania di Goethe o dell’amato Hölderlin o la Francia di Baudelaire, Mallarmé, Valéry o René Char. Da critico, poeta o traduttore Orelli ha trovato editori illuminati, che hanno saputo rispettare i tempi e lo spirito che erano i suoi: Scheiwiller, Casagrande, Mondadori, Garzanti o Einaudi. Con tutti ha dialogato nei suoi scritti intensamente durante decenni. Vi invito dunque a percorrere la mostra, che si aprirà dopo le relazioni di questo pomeriggio. Ma torno alla poesia e alla letteratura, il campo che Orelli ha arato, seminato e nel quale ha raccolto il frutto di settant’anni di “lavoro”. Con la doppia ap- partenenza dello svizzero italiano, Orelli è entrato, dopo gli anni universitari di Friborgo, nel Novecento italiano con il passo sicuro di un “lavoro” nutrito dalla fede nella poesia. Da anni, è riconosciuto come une dei «poètes véritables» del secondo Novecento, nonché riferimento certo per chi scrive, fino alle generazio- ni attuali. Per questo, la parola “lavoro” compare nel titolo di questo convegno e della mostra. Travail è stata parola molto cara a Valéry che con essa esprimeva la sua decisa opposizione alla nozione, troppo vaga e fumosa, di “ispirazione”. E la parola trattiene, anche per Orelli, tutto il segreto, l’industrioso segreto dell’ar- tigianato verbale del poeta. L’accostamento di “poesia” e “lavoro” risulta forse ancora ostico a qualcuno. L’idea un poco metafisica dell’“ispirazione” che di colpo invade il poeta è dura a morire. Non contentava critici come Valéry, che le aveva preferito la nozione (decisiva anche in Orelli) di faire: «faire des vers». Così come non accontentava molti poeti e scrittori. Sentite cosa scrive al proposito Gottfried Benn, ricordan- do come i giornali del suo tempo ospitassero spesso le poesie dei lettori: nel nostro paese vi è una vasta schiera d’individui che se ne stanno a scriver versi da inviare ai giornali; e i giornali, a loro volta, sembrano convintissimi che il pubblico dei lettori desideri poesie, se no impiegherebbero altrimenti il loro spazio. Non mi occu- però, oggi, di tali poesie occasionali […] ma sono partito da questo spunto perché alla

9 Massimo Danzi base di tale fatto sta una ragione d’essere collettiva: […] la maggioranza del pubblico vive ancora con la convinzione che una poesia nasca semplicemente così: ecco un paese selvaggio o un tramonto del sole, ed ecco un giovane o una ragazza d’umore un po’ me- lancolico. Ebbene, no! così non nasce nessuna poesia; una poesia sorge, in genere, molto di rado, una poesia viene “fabbricata”: «ein Gechicht wird gemacht» nell’originale (in “Aut-Aut”, 9, 1952, p. 199).

Lo scritto di Benn ci parla del “lavoro” del poeta, della consapevolezza e del con- trollo che richiede la composizione di un testo e che il poeta tedesco sentiva come un «tratto decisamente moderno», estendendolo, del resto, alla musica, alla pittu- ra, all’arte. Anche per Benn, la sperimentazione dell’artista è sperimentazione es- senzialmente “formale”. Nei grandi autori, in poesia come nella musica e nell’arte, è la “forma” a individuare uno stile, a profilare e rendere riconoscibile un artista. Si pensa ancora a Valéry, così decisivo nel secolo che è stato di Orelli: «Une allian- ce intime du son et du sens, qui est la caractéristique essentielle de l’expression en poésie, ne peut s’obtenir qu’aux dépenses de quelque chose, – qui n’est autre que la pensé. Inversement, toute pensée qui doit se préciser et se justifier à l’extrême se désintéresse et se délivre du rythme, du nombre, des timbres» (I 455). In questo sta, per Valéry, il singolare lavoro di traducteur del poeta, che «traduit le discours ordinaire, modifié par une émotion, en “langage des dieux”»; un “lavoro”, che «consiste moins à chercher des mots pour ses idées qu’à chercher des idées pour ses mots et ses rythmes prédominants» (ed. Pléiade, vol. I, p. 212). “Poesia”, “pro- sa”, “suono”, “senso”, “ritmo”: siamo davanti ai concetti cardine del “lavoro” e della riflessione di Giorgio Orelli.

Ho ricordato Benn, perché (con Hölderlin e Goethe) è fra i poeti frequentati da Orelli. Ma l’idea che una poesia non nasca ma sia “fabbricata” si trova prima che in lui nell’amato Dante che parla di fabricatio trattando della canzone antica nel De vulgari eloquentia. E ritorna poi, di nuovo, in Valéry, che parla di «fabri- cation de l’oeuvre». Un’idea, insomma, che era di alcuni e che, sentendo l’opera come il risultato di un artigianato (di «artefatto» parla Orelli) segna un equili- brio maggiore tra momento compositivo e risultato raggiunto, interpretando il “fare” come viatico al perfezionamento del testo: «ce travail d’approximations» come diceva ancora Valéry. Giorgio Orelli è stato, in questo senso, un grande artigiano della parola. Ha lavorato a perfezionare poesie, racconti, traduzioni per anni, senza pubblicarli o pubblicandone pochi e scartandone molti. La radice di questa lentezza, che il poeta rivendicava nella scrittura come nella lettura che doveva essere (con aggettivo continiano) “minuziosa”, spiega certo le numerate raccolte poetiche da lui licenziate. Ma forse più spiega che egli si annoveri senz’altro tra i poeti del secondo Novecento che più hanno accompagnato il “fare” con un’alta “coscien- za del fare”: il mestiere con uno sguardo attento sul mestiere. Non era questo un fatto scontato nell’Italia degli anni cinquanta, quando ancora pesava il giu- dizio di Croce sui capostipiti di quella riflessione, i vari Mallarmé, Valéry ecc.,

10 Introduzione bollati come «cerretani dalle idee pseudofilosifiche». Anni fa, Alfredo Giuliani, poeta del Gruppo ’63 e curatore dei Novissimi, testo fondamentale della neo- avanguardia italiana, affidava a una provocatoria stroncatura del grande poeta Thomas Stearns Eliot questa considerazione, malgrado tutto, ancora attuale: «Faccio notare», scriveva Giuliani liquidando come snobistica l’attenzione di Eliot alla tecnica e alla retorica della poesia, «che in quell’epoca prestrutturali- sta, presemiologica, ottusamente “realistica”, del mestiere, da noi non parlava pressoché nessuno. A sentire i critici e gli stessi poeti, sembrava che la poe- sia discendesse direttamente dalla Grazia» (Eliot nella terra desolata. Quasi una stroncatura, in “la Republica”, 18 settembre 1988). Orelli è dunque stato tra i non molti poeti del Novecento che del proprio mestiere hanno scritto a fondo e con passione, accompagnando il suo lavoro di poeta e narratore con la lettura attenta di altri scrittori e poeti. E gli siamo grati. Appena possiamo immaginare cosa sarebbe la conoscenza di Dante senza la sua riflessione linguistico-retorica o l’esegesi leopardiana senza le aperture dello Zi- baldone o la poesia del Novecento (e non solo) senza le riflessioni di Mallarmé, Eliot, Valéry o Pound. In Italia, una tale “coscienza del fare” inizia con Dante e passa poi per Petrarca, Tasso, Leopardi o Montale. Sono autori che Orelli, forse non per caso, ha privilegiato nelle sue raffinate “auscultazioni” critiche. Ma lo stesso, mi pare, vale per il traduttore: non è un caso che Goethe, abbia costituito per lui un vero “laboratorio” o che si sia provato, lasciando poi in gran parte inediti quei testi, a tradurre il difficile Mallarmé.

La modernità letteraria, che Baudelaire inaugura, è stata anche il tempo della riflessione sul “lavoro” letterario. Da Mallarmé, Proust o Valéry è derivata a noi – nani sulle spalle di giganti – quella moderna “coscienza del fare”, che in vari campi della creazione artistica è tra gli acquisti più vivi della cultura euro- pea. Allievo di Gianfranco Contini, che aveva scritto di Proust e Mallarmé fin dal 1947, Orelli si era familiarizzato per tempo con questa riflessione, che nel maestro si accompagnava a una dimensione militante della letteratura. Altri fatti aveva annusato col fiuto del poeta. Nel 1943, l’esordio del saggio di Contini sulle “correzioni” del Petrarca volgare lo aveva certo segnato: «La scuola uscita da Mallarmé e che ha in Valéry il suo teorico considera la poesia nel suo farsi e l’interpreta come un “lavoro” perennemente mobile, di cui il poema “storico” rappresenta una sezione possibile, non necessariamente, l’ultima». Contini pen- sava certo al caso del Cimetière marin, che Jacques Rivière sottrae un bel giorno a Valéry, mentre l’autore vi sta lavorando, e pubblica in rivista fissandone così il testo. Ma anche su altri fronti, la formazione friborghese era stata ricca. Se pensiamo al rilievo della linguistica di Ferdinand de Saussure, alla conoscenza che Contini ebbe presto di Roman Jakobson e all’amicizia con l’esule Emile Benveniste o, per altro verso, al rapporto diretto con quelli che chiamava i «big four» – Saba, Cardarelli, Ungaretti, Montale – intuiamo l’apporto e la sensibilità che agli allievi veniva in dono dal maestro friborghese.

11 Massimo Danzi

Gli ambiti che convegno e mostra toccano sono stati da Orelli sentiti come pro- fondamente connessi e complementari. Prosa e poesia ai suoi occhi non corre- vano su binari troppo diversi e un poeta era per lui, come ancora Valéry voleva, prima di tutto anche un critico. Così, la sua poesia è andata negli anni verso il racconto e la prosa si è liricizzata, mentre il traduttore toccava nel vivo la lingua sulle pagine dei grandi autori. Di ciò un convegno doveva tenere conto. Lo abbiamo fatto con gli interventi che il programma evidenzia: nel pomeriggio di giovedì la poesia, venerdi mattina prosa, traduzioni e critica letteraria, nel pomeriggio il dialogo con i poeti moderni; sabato una serie di “lavori in corso”, che apriranno su quella parte dell’opera che l’autore non ha potuto licenziare in vita e alla quale lavorava alacremente ancora nei giorni della sua scomparsa. A render conto di questa lunga attività intellettuale e di questo intreccio di piani saranno colleghi a lui legati, negli anni, da sicura amicizia. Con una parti- colare affettuosa menzione per il cugino Giovanni Orelli, vicino a Giorgio per molti motivi e che qui ha accettato di essere presente con una testimonianza. Che mi sia concesso, ora, mentre andiamo verso la prima relazione dovuta al più caro amico di Giorgio, di ringraziarli per l’entusiasmo con cui hanno aderito a questa iniziativa. Ringrazio, insieme ai relatori, anche il comitato scientifico, formato dai colleghi delle Università della Svizzera italiana, di Losanna, di Fri- borgo, dell’Università e del Politecnico di Zurigo, che con me hanno disegnato la mappa del convegno; e in particolare Enrico Lombardi e Fabio Pusterla, che hanno pensato alla “serata” di lettura di venerdì 14 novembre; e quanti hanno collaborato all’organizzazione, con una concordia e accelerazione che ha avuto, nelle ultime settimane, del meraviglioso: particolarmente Liliana Orlando, Pie- tro Montorfani e Sveva Frigerio. A Lucas Häfliger e Fabrizia Gendotti, autori del manifesto che reca la bella fotografia di Yvonne Böhler, va la nostra grati- tudine per un lavoro svolto, spesso, in tempi brevissimi. Ma un convegno non poteva farsi senza il contributo generoso degli sponsor: ringrazio in particolare il Dipartimento Cultura del Canton Ticino e i membri della “Commissione cul- turale” per il contributo finanziario derivante dal “Supplemento federale per la promozione della Cultura e della lingua italiane”; la città di Bellinzona, nelle persone del responsabile del Dipartimento cultura Roberto Malacrida e di Bar- bara Perini-Venzi; il Comune di Prato Leventina, sensibile e fiero nell’omaggio al suo poeta. Finanziamenti ci sono venuti anche dalle Universtà di Ginevra, della Svizzera italiana e di Friborgo, che nel 1991 ha conferito a Orelli il dotto- rato h.c. E un apporto decisivo da quelle di Losanna e Zurigo, che con il Politec- nico Federale sono presenti nel Comitato scientifico. Ricordo infine e ringrazio per il generoso sostegno e la sensibilità dimostrataci il “Gruppo Coop”, pre- sente con la direttrice della Sezione cultura Monica Piffaretti e con Samantha Dresti; e con esso due Fondazioni benemerite: la “Fondazione Carlo Danzi per lo sviluppo dell’alta Leventina” e la “Fondazione per la cultura del Locarnese”. Infine, ultimi solo per le leggi dell’ospitalità, la Scuola cantonale di Commercio e il Liceo cantonale di Bellinzona, istituti dove Giorgio Orelli ha insegnato tutta la vita e che ci premeva vedere coinvolti in questo omaggio. A tutti, istituzioni,

12 Introduzione enti pubblici e privati, nonché al pubblico presente va la nostra gratitudine, nella speranza che la manifestazione si riveli all’altezza dell’uomo che abbiamo inteso onorare e della passione che, per tutta la vita, lo ha animato.

Massimo Danzi

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STEFANO AGOSTI Giorgio Orelli e l’istanza della lettera

In questa comunicazione commemorativa mi occuperò solo della poesia di Giorgio Orelli, anche se la titolazione che esibisce la «lettera» come perno del discorso potrebbe convenire, con pari legittimità, a quello che è stato il suo lungo percorso critico. E per déblayer le terrain circa il senso, il valore, la funzione della lettera nel testo, e in particolare nel testo poetico, mi affiderò subito ad alcune citazioni, atte ad eliminare ogni sovrabbondanza esplicativa. E, per esempio, a questa, da Mallarmé (tratta dalla grande prosa che porta il titolo significativo diLe Mystère dans les lettres, ove «les lettres» sono, sì, sinonimo di letteratura, ma in quanto si riferiscono proprio alle “lettere dell’al- fabeto” di cui è fatta quest’ultima, e al loro “mistero”): la profondità del testo, il segreto della sua profondità, che Mallarmé designa attraverso l’espressione squisita di «miroitement, en dessous», tal segreto è (cito) «peu séparable de la surface concédée à la rétine»: tradotto in termini volgarmente comunicativi questo significa: la superficie del testo incorpora la sua stessa profondità (il che può ricordare altresì quanto Valéry, nel suo provocatorio gusto del paradosso, affermava circa il corpo umano, e, in definitiva, circa l’organismo: «la profon- deur de l’homme, c’est sa peau»). Su questa profondità di cui la lettera si fa depositaria, allineo ora tre straor- dinarie dichiarazioni di Lacan, dal volume postumo Autres Écrits. La prima: «la pratique de la lettre converge avec l’usage de l’inconscient»: affermazione che possiamo considerare del tutto corrispondente, sia pure in termini psicoanalitici, alla citazione mallarméana; la seconda riferisce, in formulazione stupenda, come il dire più proprio del Soggetto sia quello sottratto al suo stesso sapere: e corrisponde sia alla parola as- sociativa dell’analisi sia alla stessa parola poetica, in quanto di questa permanga un resto (sottolineo questo vocabolo) situato fuori dalla competenza riflessa del Soggetto: «tout ce qui est de l’inconscient, ne joue que sur des effets de langage. C’est quelque chose qui se dit, sans que le sujet s’y représente [traduco: è qual- cosa che viene detto senza che il soggetto vi sia rappresentato], n’y qu’il s’y dise [né che vi si esprima] ni qu’il sache ce qu’il dit [né che sappia quello che dice]». Qui rinvio a quanto, dianzi, ho affermato circa il «resto», il «residuo» del dire sottratto al Soggetto; ed ecco la terza citazione, ove si sottolinea, del tutto sintomaticamente per noi, proprio l’ambiguità di una parola – associativa e/o poetica – di cui una parte non è altro che la materia stessa del dire, nella quale si pronuncia quella

15 Stefano Agosti profondità di cui il Soggetto è proprietario senza esserne il “maître”: «le dire, le dire ambigu de n’être que matériel du dire [traduco: quel dire ambiguo che è solo il materiale, la materia del dire], donne le suprême de l’inconscient dans son essence la plus pure». Del resto, di una «pratica della lettera» come connaturata al proprio dettato poetico, Orelli espone lui stesso l’istanza nella bandella editoriale, firmata con sigla, di Il collo dell’anitra: in particolare sul valore e il senso della lettera /i/. Entrando ora, dopo queste premesse, nel cuore del discorso, devo avvertire che, inizialmente, parlerò, anzi ri-parlerò (avendone già trattato in precedenti interventi) soprattutto di due modalità secondo le quali si svolge questa «pratica della lettera». La prima modalità è quella che, ancora Mallarmé, designa come «allittera- zione dissimulata», e il cui esempio per noi è fornito da una lettura effettuata da Ungaretti su Leopardi, e precisamente su un punto di A Silvia, nel quale egli individua il segreto della «musica» leopardiana. Il punto è il seguente:

Mirava il ciel sereno le vie dorate e gli orti: ove il gruppo timbrico /OR/ figura distribuito diversamente nei due vocaboli che lo ospitano: in «orti», è in posizione di sillaba compiuta, provvista di ac- cento tonico-ritmico; mentre, in «dorate» risulta spezzato e distribuito su due sillabe, atona e accentata. Ed ecco a raffronto l’incipit del famoso Frammento della martora (da L’ora del tempo), in cui l’allitterazione dissimulata si esercita (non certo casualmente) su affine gruppo timbrico, incorporando, per di più, il lessema della titolazione del volume:

A quest’ora la martora chissà dove fugge: ove il gruppo /ORA/, costitutivo del sostantivo in forte posizione ritmico-accen- tuativa, si ripresenta in «martORA», ma in posizione totalmente atona. La seconda modalità della «pratica della lettera» in Orelli, è quella che, al- trove, abbiamo definito della «lettera comenodo di senso»: è il lacaniano “si- gnificante” in quanto «noeud de signification». Di fatto, si tratta di una catena simbolica che incalza il Soggetto (ecco il “dire” citato prima, del quale il Sog- getto non è direttamente consapevole), catena in cui il Soggetto – proprio come Edipo – si trova irretito. Qui Lacan, pur non frequentato da Giorgio, sembra inserirsi nel cuore del suo operare poetico, della sua, chiamiamola pure, “ossessione” della verbalità. Ora, la catena simbolica precitata risulta spesso, anzi quasi sempre, mime- tizzata nelle pieghe dell’ironia, e magari del sarcasmo o dell’amarezza. E tutta- via a volte si pronuncia – sicuramente grazie alla complicità o al consenso del

16 Giorgio Orelli e l’istanza della lettera

Soggetto – come manifestazione, o sintomo, della sua costituzione morale più propria: quella che ha la radice nel tragico – spesso dissimulato e magari quoti- diano – dell’esistere. Tale, ad esempio, è la catena simbolica che emerge, sia pure per segmenti, in una delle bellissime poesie della sezione Con Mimma, nel Collo dell’anitra. Si tratta della poesia che inizia: «Non conosco l’azzurro / tuo preferito», ove la serie cromatico-simbolica circoscrive successivamente, come «nodo della lette- ra», o anello della catena, non più l’azzurro ma il colore giallo: quello, però, non di forsizia o mimosa – dice il testo –, ma di ginestra o corniolo, finendo poi per incarnarsi nella (cito)

nuova farfalla che a un tratto ritorna gialleggiando con altra dove lucertole vagano liete fra i nostri resti mortali.

Si tratta, in definitiva, dello stesso nodo (e qui torno a ripetermi) rappresen- tato dall’immagine «fitti argenti» che figura nella poesia Dopo Lucca (da Sinopie), e che, successivamente a varie migrazioni sulle cose e sugli aspetti del mondo, si conclude e si fissa (ancora in riferimento a uno dei più sublimi emblemi del tra- gico, il sarcofago di Ilaria del Carretto, a Lucca, di Jacopo della Quercia), si fissa dunque (cito) sulle «punte dei piedi d’Ilaria / toccate da una luce di bufera». E vengo, finalmente, alla parte nuova di questo intervento. Essa riguarda una poesia, Ragni, pubblicata in una preziosa plaquette d’arte, con serigrafie di Nathalie du Pasquier, inviatami da Mimma insieme a un bigliet- to per me, scritto da Giorgio, il «giorno prima» (dice Mimma) di «passare di là». Naturalmente quanto sto dicendo è autorizzato da Mimma, cui esprimo di nuovo, qui, tutta la mia riconoscenza, soprattutto per il dono che mi ha fatto del citato biglietto di Giorgio. Eccone il contenuto, che trascrivo con emozione:

Bellinzona, 8 nov. 2013 Caro Stefano, questi Ragni (:) aspettano te quelque part. Con affetto Giorgio

Ebbene, ho assunto le parole di Giorgio come una sorta di legato testamen- tario, cui ottempero ora, proprio in rapporto ai citati Ragni, con la presente relazione o, meglio, lettura. Dico lettura in quanto la poesia Ragni presenta una tale rete di rapporti della lettera (allitterazioni, orizzontali e verticali, iterazioni di timbri, rime interne

17 Stefano Agosti ecc.) che immediatamente mi rimanda alla lettura eseguita da Giorgio sul Sabato del villaggio (Per leggere «Il sabato del villaggio», in Accertamenti verbali). Nel Sabato, la lettura di Giorgio rileva infatti una (cito) «così fitta […] rete di rime, assonanze, chiasmi ecc. che quasi tutte le parole del Sabato [vi] sono intricate». Ebbene, lo stesso si verifica qui, ove quasi tutte le parole del testo sono im- plicate – come si è detto – in un reticolo fittissimo di relazioni, delle quali sarà proprio la «lettera» – nei valori che le abbiamo assegnato – a determinare la profondità. Si riconfermerebbe così la citazione da Tolstoj avanzata da Giorgio al prin- cipio della sua lettura, citazione ricavata da Lotman, e che qui riproponiamo per la sua stupefacente pertinenza al caso: «quell’infinito labirinto di concate- nazioni, nel quale consiste l’essenza dell’arte» (in Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1972, p. 18). Di questo reticolo, di queste «concatenazioni», che provvediamo a eviden- ziare con la maiuscola nei loro svariati occorrimenti – cui fa séguito, in espo- nente, il numero del verso –, do ora un regesto, solo essenziale, unitamente alla riproduzione del testo.

Ragni

Da quando? se da giorni e giorni, mesi ormai, mentre riposo li osservo e scordo e non senza stupore riscopro: ombre d’acheni, 5 più piccoli di mezza formichetta smarrita nell’acquaio: sempre lì, lontano quanto basta dalla lampada che ha bruciato l’incauto calabrone, diàfani a furia di guardarli, quasi 10 trascoloranti in rosa: chi sa mai se lo sanno d’essere l’uno a una spanna dall’altro come due nèi su una schiena, inquilini abusivi del soffitto, 15 strani compagni della mia vecchiaia: sempre lì, sempre soli, senza preda, una volta soltanto è arrivato dal Nord un ragno d’altro rango, 20 quasi robusto, nerastro, è passato col fare inquisitorio d’un commissario tra i due come se fossero sorvegliati speciali, 25 senza distrarli, è sparito in fretta nel gran bianco,

18 Giorgio Orelli e l’istanza della lettera

e dunque non li ha visti sincronici calarsi, sostare penzolando 30 nel vuoto dove nemmeno si sognano di cercare un appiglio per una tela: intenti alle filiere troppo presto esaurite e come saggiando il peso d’essere, il mistero, 35 già pronti a risalire divorando filo e distanza: per fingersi di nuovo due punti nei dintorni di me. 40

Da1 – quanDo1 – Da1 giORni1 – giORni2 – ORmai2 – scORdo4 – stupORe4 ripOSo3 – OSServo3 sCOrdo4 – risCOpro5 – aCHEni5 – piCCOli6 – formiCHEtte6 – aCQUAio7 – QUAnto8 – inCAUto9 – CAlabrone9 – QUAsi10 lontAno quAnto bAsta dAlla lAmpAdA i tre endecasillabi, vv. 8,9,10 che hA bruciAto l’incAuto cAlAbrone scanditi ritmicamente dalla diAfano a furia di guardArli, quAsi lettera /a/ quasi : rosa (rima impf.) : vv. 10-11 quaSi10 – roSa11 – Sa12 – Sanno12 – d’eSSere13 sANNo12 – spANNa13 Uno13 – Una13 – dUe14 – sU14 – Una14 NÈI14 – schIENa14 (palindromo) InquIlInI abusIvI del soffItto stRANI16 – compAGNI16 (-- RAGNI) SEMPRE lì SEMPRE lì SENza PREda17 una vOLTA sOLTAnto18 un RAGNO d’altro RANGO20 (anagramma) AlTRO20 – nerAsTRO21 (sostituzione di lettera) robuSTo – neraSTro21 arrivATO19 – passATO22 (rima interna) inquisitORIO22: commissARIO23 (rima impf.) SPeciali25 – SParito26 speciALI25 – distrArLI26 viSTi28 – soSTare30 nel vuoto dove nemmeno si sognano31 unico endecasillabo di 7ma, e immune da relazioni timbriche calARsi29 – sostARe30 sostARE30 – cercARE32 (rima interna) per una TEla inTEnTi alle filiEre33 allitterazione e accentazione ritmica sulla /e/

19 Stefano Agosti

Troppo presTo esauriTe34 riprende l’allitterazione sulla dentale sorda del verso prece- dente, ma su posizioni atone troPPo34 – Presto34 – Peso35 Saggiando il peSo d’eSSere il miStero35 saggiANDO35 : divorANDO36 (rima interna) FIlo37 – FIngersi38 DIstanza37 – DI nuovo38 – Due39 – DIntorni39 – DI me40 allitterazione continua sulla dentale sonora /d/, la stessa dell’incipit

Del reticolo evidenziato, sottolineerò ora alcuni fatti ove l’eminenza della let- tera, pur nelle funzioni che le abbiamo assegnato, si associa ad effetti particolari. Così, ad esempio, l’allitterazione dell’incipit sulla dentale sonora, la /d/, «da quando? se da giorni», viene ripresa – come abbiamo segnalato – nei versi finali con effetto, appunto, di strutturazione timbrica circolare del testo: «per fingersi di nuovo / due punti nei dintorni / di me». Circolarità ribadita per di più dal- la rima «giorni» : «dintorni», che risulta inoltre l’unica rima in senso proprio dell’intero componimento. Oppure si pensi ai tre splendidi endecasillabi in successione (vv. 8-10), già sottolineati nel regesto, tutti ineccepibilmente scanditi, dal punto di vista ritmi- co-timbrico, sulla lettera /a/ (probabilmente sulla traccia, o dietro il ricordo, di alcune memorabili sillabazioni, proprio sulla lettera /a/, di Petrarca, quale ad esempio, «piága per allentár d’árco non sána», sillabazione corroborata dall’oc- corrimento centrale, sulle sillabe sesta e settima, dell’allitterazione /TAR/ - / D’AR/,associata alla variante della dentale, sorda-sonora). Ecco i tre versi, con coda di settenario con accento portante ancora sulla /a/, il primo scandito se- condo uno stupendo ritmo giambico:

lontano quanto basta dalla lampada che ha bruciato l’incauto calabrone, diàfani a furia di guardarli, quasi trascoloranti in rosa.

Ma si può segnalare anche, per una sorta di prova a contrario, l’unico verso del componimento che risulta immune da quello che possiamo anche chiamare il “lavoro della lettera”. Si tratta del verso 31, notificato nel regesto:

nel vuoto dove nemmeno si sognano.

Ebbene, si tratta – ripetiamo – del solo endecasillabo presente nel testo con accento di 7ma. Che è, se vogliamo, il tipo più raro di endecasillabo, cui si affi- dano, da Dante a Foscolo a D’Annunzio, funzioni ritmico-espressive svariatissi- me. Nel caso di Giorgio, possiamo notare che, in questa stessa comunicazione, ci siamo già imbattuti in un endecasillabo di 7ma. E precisamente in quella poe-

20 Giorgio Orelli e l’istanza della lettera sia dedicata a Mimma che abbiamo citato, e di cui abbiamo evidenziato i nodi della struttura simbolica:

dove lucertole vagano liete fra i nostri resti mortali.

E tuttavia, il «nodo della lettera», in Ragni, detiene una valenza tutta particolare. Nell’ultimo libro scritto, La chambre claire. Note sur la photographie, dedica- to alla memoria della madre ed esattamente all’immagine di lei, che tuttavia non viene mai mostrata, Roland Barthes distingue due elementi nella rappresenta- zione fotografica: lo studium e il punctum. Lo studium è il quadro formale entro il quale si dispone l’immagine stessa: la luce, la composizione, l’inquadratura ecc.: è, insomma, quanto definisce la foto come produzione riflessa e, per lo meno nelle intenzioni, d’ordine artistico. Il punctum è, invece, quanto esorbita dallo studium: più precisamente, è quel dettaglio magari non previsto dall’operatore, che fuoriesce dallo studium, e toc- ca, anzi “punge” (punctum, precisa Barthes, viene dal verbo pungere) l’osserva- tore: il dito fasciato della bambina, le scarpe con il cinturino del personaggio femminile nella foto di una famiglia negra americana ecc. (Rinvio per una disamina più approfondita dei due elementi, al libro di Barthes). Ebbene, per ritornare al testo, in Ragni, se lo studium può essere assimilato al reticolo calcolatissimo della lettera che abbiamo notificato, il punctum, che toc- ca e punge il lettore, e cioè, per riprendere la nostra terminologia, il nodo della lettera che apre il testo alle più riposte profondità del Soggetto, è rappresentato dalla raffigurazione dei “ragni”. E cioè, in un primo occorrimento, dai «due nèi su una schiena» (v. 14); i quali nèi, nei due ultimi versi del testo, si trasformano nei «due punti», cui viene associato, in stretta contiguità, l’omografo del sostantivo, vale a dire la preposi- zione articolata «nei». Così, i ragni finiscono (cito)

per fingersi di nuovo due punti nei dintorni di me.

(Sono i due punti tra parentesi (:) che Giorgio inseriva nel suo biglietto). E qui credo proprio di poter chiudere il mio intervento. Il grafema interpuntivo (i due punti) è di solito adibito ad aprire un elenco, una serie. Tuttavia, la sua adibizione, per così dire, canonica, è quella dell’aper- tura del discorso diretto: due punti, virgolette ecc. Ebbene, nel nostro caso, l’enunciazione finale del Soggetto ove i ragni fini- scono (cito)

per fingersi di nuovo due punti nei dintorni di me,

21 Stefano Agosti ebbene, qui, l’enunciazione del Soggetto del grafema interpuntivo, i due punti, non costituisce altro che l’enunciazione stessa di un discorso che si apre sulla propria interruzione. Tale è il messaggio che, in Ragni, il Soggetto ha affidato – sotto la soglia della coscienza – all’istanza della lettera. Ma sarà proprio questa parola non detta, questa lettera che manca, che prov- vede a irradiare a ritroso l’intera opera di Giorgio Orelli di quella luce straor- dinaria che è la luce del postumo: «Tel qu’en lui-même enfin»…: dando inizio a quella che sarà non diciamo la gloria del Poeta ma piuttosto la sua vita futura.

22 MARIA ANTONIETTA GRIGNANI Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori

Io sento la vita che scappa, sento il furto del tempo, a cui è difficile sottrarsi, ma ho ancora molte cose da fare. Sono arrivato ai 90, an- che se mi sono sentito sempre provvisorio e credevo di scollinare giovanissimo. (Intervista rilasciata a Paolo Di Stefano, in “Corriere della Sera”, 19 giugno 2011)

Io sono walseriano per la pelle. […] Il pregio fondamentale di Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo (G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014, p. 61)

Come forse in nessun altro poeta del secondo Novecento, in Orelli le parole della civiltà letteraria si fondono con quelle dell’attualità, senza finta innocenza e senza virtuosismi esposti, in una miscela polifonica che va dalle sfumature re- gionali (e da prove in dialetto) a intarsi con lingue altre d’Europa. Orelli è poeta coltissimo, ma non schiavo della cultura: nelle sue poesie le suggestioni, le cita- zioni e gli omaggi all’alta letteratura si innestano su occasioni spesso apparente- mente feriali.1 Il suo linguaggio ha sul lettore un effetto fresco, diretto, e spesso quasi materico, pur essendo lavorato nei riferimenti ai modelli – ora espliciti ora ammiccanti – e nelle derive ritmico-timbriche intertestuali; fa vedere il mondo come se si offrisse per la prima volta allo sguardo o addirittura balzasse dallo sfondo al primo piano. , nella conferenza Mondo scritto e mondo non scritto (1983), aveva notato come l’approccio dei poeti del nostro tempo all’esperienza sia dominato – più di quanto non accada alla prosa – dall’osser- vazione del dettaglio trasparente, dall’investire oggetti minimi, piante o animali che fossero, come identificatori di realtà e di significato, dal William Carlos Wil- liams del ciclamino a Marianne Moore del nautilus a dell’an- guilla. Ne deduceva questa lezione utile anche alla narrativa:

La vera sfida per uno scrittore è parlare dell’intricato groviglio della nostra situazione usando un linguaggio che sembri tanto trasparente da creare un senso d’allucinazione, come è riuscito a fare Kafka.

Che la poesia di Giorgio colpisca l’emotività, per dire così primaria, di pro- fessionisti di norma addetti a notomie raffinate su fenomeni complessi della te-

23 Maria Antonietta Grignani stura verbale e metrica lo mostra la poesia di uno dei critici più solidali con le idee estetiche di Giorgio, Stefano Agosti; il quale ingloba in una delle sue rare poesie date alla stampa, Il prato di margherite nel volumetto La riconoscenza, un omaggio all’immagine del bimbo Matteo che bruca le margherita nella splendida poesia Che fa Matteo Delbrück (in Spiracoli), tutta piena di colori e di rinvii, già in esergo e poi nel finale, alle meraviglie lucreziane del visibile: «perché tutto / è nuovo per il figlio di mia figlia, / tutto è meraviglia». Agosti inscrive addirittu- ra il nome nel testo: «Tu intanto / stai preparando l’insalata / che brucheremo come Matteo Delbrück, / carponi sul prato, le margherite».2 Uno dei motivi che rendono memorabile la poesia di Orelli è quello dello stupore di fronte all’esistenza, una meraviglia che si offre all’adulto e riattiva in lui l’incanto tipico dell’infanzia nella scoperta e nel presentarsi alla percezione di quel che si vede.3 Pier Vincenzo Mengaldo ha parlato di «sorridente capacità di suggerire la natura sfuggente di quanto ci circonda»,4 aggiungerei non tanto attraverso lo sfumato quanto tramite una nitida “pedagogia” dello sguardo, che ci invita a riconoscere due direzioni e due percorsi di va-e-vieni: innanzi tutto la direzione dal soggetto verso l’oggetto e, al contrario, quella dall’oggetto in di- rezione del soggetto ricevente; e poi la dimensione che va dal dettaglio minimo alla presa grandangolare e viceversa. Si direbbe che in rapporto a questi doppi movimenti delle apparizioni del “reale” stia un altro tema, anch’esso originario e perdurante: la mutua perme- abilità e permutabilità tra vita e morte. Basta pensare ai titoli delle raccolte Si- nopie e Spiracoli molto indicativi, l’uno della sovrimpressione tra vivi e defunti e l’altro dell’apparire di ciò che non è più, o non è palese, per fessure e spifferi; oppure a qualche passo anche antico come «I morti sono più vivi dei vivi» (Nel cerchio familiare); «la vita che noi morti qui viviamo»; e ancora: «pensare che la vita / dev’essere viva, cioè vera vita, o la morte la supera / incomparabilmente di pregio» (SI);5 infine al titolo e al testo de La trota argentea di montaliana memo- ria, la quale – simbolo di vita – sfugge alla mano di chi l’ha catturata e in questo modo, non tanto “si salva”, quanto letteralmente «torna al suo fiume, ci salva». La fluidità tra i vari dominî del mondo, cose, animali, umani vivi o trapassati, si appoggia sovente a elementi coloristici, con maggior frequenza rispetto alla media della poesia contemporanea. I colori in Orelli sono un supporto essenziale di quell’atteggiamento che ho appena chiamato, in mancanza di una definizione migliore, pedagogia dello sguardo. Ci viene incontro, nel risvolto di copertina dell’ultima raccolta edita Il collo dell’anitra, la nota d’autore:

Dal collo dei colombi di Lucrezio a quello dell’anitra, è continua meraviglia il trasmutare dei colori a seconda della luce: così è della vita, degli spettacoli anche minimi del mondo.

A tale nota, che ne è quasi sintesi, corrisponde il testo posto ad aprire il volume, traduzione da De rerum natura II, 798-805, con il solfeggio di rosso- azzurro-smeraldo tra tenebre e luce:

24 Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori

Quale colore permettono le cieche tenebre? Già nella luce stessa trasmuta un colore se rifulge perché lo percuote obliqua o diritta; così cambiano al sole le piume dei colombi che di torno alla nuca coronano il collo, e infatti talvolta sono rosse di fulgido piropo e paiono talaltra mischiare all’azzurro il colore dei verdi smeraldi.

Gilberto Isella, in un recente suo saggio molto acuto, ha osservato che «le gamme cromatiche ricoprono un ruolo attivo e in larga misura euforizzante, nella produzione del senso». Il che è vero non solo per il ruolo attivo che que- ste gamme ricoprono, ma anche per come lo ricoprono, con quali declinazioni linguistiche.6 La percezione della forma e del volume nell’Orelli poeta è molto spesso subor- dinata alla evidenza cromatica, esattamente il contrario di quanto – poniamo – fa il Manzoni correggendo il Fermo e Lucia e dandoci un romanzo di volumi, ma prevalentemente in bianco e nero e relative sfumature intermedie.7 Ricorro a un esempio tra i molti. In A Giovanna sulle capre (SI) le capre, elemento naturale, per effetto della luce perdono volume e diventano macchie nere, assumendo la pura forma bidimensionale della chiazza in quanto tale, che padre e bambina potrebbero attraversare stagliata contro il cielo. La «fissità un po’ smaterializzata che potremo chiamare araldica», secondo l’efficace formula- zione di Mengaldo (p. 193), è data dalla figuratività cromatica:

e in giorni come questo luminosi, vedi, non hanno corpo, non sono che macchie nere sul greppo; e quella, immota contro il cielo, potremo attraversarla tenendoci per mano.8

Sicura e costante la dominanza dei colori basici che, a quanto dicono gli esperti, equivalgono ai fenomeni emotivi primari (sono dunque pan-human per- ceptual universals?), anche se la loro semiologizzazione varia nelle varie culture: bianco, nero, rosso, verde, giallo, azzurro/blu, marrone, viola/porpora, rosa, arancione, grigio. Sono i basici a prestarsi ancora oggi a varie estensioni e neo- formazioni.9 Il campo lessicale del giallo e quello dell’azzurro producono nelle raccol- te mature l’estensione dell’aggettivo/sostantivo alle forme derivative verbali e quindi danno alla resa del colore una sfumatura di processo o di evento in du- rata. Per azzurreggiare: «vedi un azzurreggiare / limpido» (Per Agostino, SP); «da tanto biondeggiare azzurreggiare» (Come quando di là dal Gottardo, CA). Per gialleggiare: «il muro dove gialleggia la buca / delle lettere» (Cardi, II, SP); «più non gialleggia la buca / delle lettere» (La buca delle lettere, in forma di implicito rinvio interno al precedente, in un testo reso noto dell’imminente ul- tima raccolta L’orlo della vita). Secondo una ricerca di Rita Fresu condotta sulle

25 Maria Antonietta Grignani cinque edizioni della Crusca, per gialleggiare esistono esempi antichi, tra i quali nel 1384 il Libro di viaggi di Pier Del Nero («La gente, che dimora appreso questa fiumana, verdeggiano e gialleggiano»). Il verbo nelGrande Dizionario della Lingua Italiana è attestato in Leonardo, Frugoni, Pindemonte, Carducci, D’Annunzio, Soffici, Gadda.10 Vasta in italiano la duttilità dei cromonimi, di norma lemmi con funzione nominale o aggettivale. La tipologia delle flessioni riguarda i procedimenti di lessicalizzazione analitica, ossia associazione dei colori con pietre, metalli, flora, fauna, realtà gastronomiche e sostanze che li hanno suggeriti, dato che il rosa, il viola, l’arancio dimenticano – oppure possono riallacciare – il legame origi- nario con il fiore o frutto cui sono associati. Perfino fatti storici e guerreschi sono generatori di colori. Ricordo il montaliano Nubi color magenta, che non colleghiamo d’acchito con il rosso particolare, attestato fin dal 1862 e ispirato purtroppo al luogo del bagno di sangue che nel 1859, con la vittoria dell’esercito franco-sardo su quello austriaco, concluse la seconda guerra di indipendenza: un rosso cruento, detto appunto color Magenta. Non stupisce in Cardi II (SP) il «rosso Gaudenzio» delle magnolie, dentro un tripudio di viola, bianco, arancio, azzurro e giallo; associazione caritatevolmente postillata da Orelli come suggestione dei colori del ciclo di Gaudenzio Ferrari a San Cristoforo di Vercelli:

Da bianche magnolie o d’un rosso Gaudenzio, sul viola, due tortore vanno non senza gioconde esitazioni (il bianco ripete il breve ventaglio della coda) nell’araucaria che uncina con troppi rami morti un balcone. Le solite onoranze del sambuco. Un pensionato dà la prima mano di minio al suo cancello. Un cane vestito di stracci e di vuoto rincorre l’autocarro della Nettezza Urbana. Mi saluta in arancio un addetto sempre in piedi di dietro con occhi d’intensissimo azzurro. […] il muro dove gialleggia la buca delle lettere. […]

Veniamo ora a un’analisi blandamente diacronica, partendo da L’ora del tem- po, perché anche da una specola apparentemente secondaria si coglie l’evoluzio- ne dello stile di Orelli. In questa prima fase della poesia l’aggettivo di colore è spesso preposto al sostantivo, secondo la disposizione agg + sost tipica della tradizione: «candido braccio» (Paese); «argenteo pulviscolo» (Colgo questo paese); «verde primavera»

26 Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori

(Gli occhi che un poco muoiono se guardano); «verde traiettoria» (Lettera da Bel- linzona). Ma è già più frequente la posizione posposta, meno tradizionale: «Ai boschi bruni, alle pietre più grige / ci riconosceremo» (Per Agostino); «splen- dono bacche rosse» (Perché il cielo è più ingenuo); «barbagli azzurri» (Il lago); «fronde sempreverdi» (Natale 1944); «aria rosata» (Lettera da Bellinzona). Nella forma sostantiva si trova: «il primo verde / di robinia» (Assenza); «il più giovane verde» (A una bambina tornata al suo mare); «dove incupisce nel suo verde il pino» (Lo stagno); «lungo il verde proteso d’infanzia» (Nel dopo- pioggia); «l’azzurro che viene / dal Nord» (Il lago). Già compaiono i verbi derivati in -eggiare: «tra i calcestri / biancheggianti del passo» (Campolungo), dove calcestro, frequente nel Ticino, vale “roccia cal- carea”. Anche l’apposizione sostantivale compare e indirizza verso quell’astrazione dal volume a vantaggio del puro colore, che ho ricordato sopra per le macchie nere delle capre: «ritrovo, grigio appeso, lo spauracchio / che somiglia un fan- ciullo» (Novembre 1944). Riporto alla fonte del colore, cioè alle entità botaniche che diedero nome a due colori, in questo passo: «le gazze curiose, lasciando a piè degli alberi / il loro sterco come un reciticcio / d’arance e di viole?» (Dicembre a Prato). Fin dalle prime poesie che vanno a comporre OT, i cromonimi, colori della natura e di certi animali, sono serie definite una sullo sfondo dell’altra per stac- chi netti. La scolopendra «dal roseo ventre / ch’agita folle i piedi nell’azzurro» introduce un frammento di meraviglia-colore, campito sull’azzurro del cielo; mentre il Frammento della martora, come ha messo in evidenza De Marchi e ha confessato Orelli stesso, è stato scritto per ridare vita e dinamismo – in virtù della parola poetica che riprende nel colore il legame originario con il frutto – all’unica martora da lui vista, e purtroppo uccisa, in un episodio di cui parla una antica prosa di Un giorno della vita: «A quest’ora la martora chi sa / dove fugge con la sua gola d’arancia».11 Procedimento portato al massimo in «Grida un tacchino i suoi coralli» (Lettera da Bellinzona). Altro primo piano dei colori in versione sostantivata e in sintassi nominale è nella Lettera da Bellinzona, che inizia con l’immagine del castello più alto della città, dato attraverso il primo piano di due colori, il grigio e il verde, fuori da qualsiasi allettamento di naturalismo:

Una fascina d’anni, una collina. E il castello più alto. Tutto il grigio all’altezza dei colombi, tutto il verde che scorre fino al grigio… […]

Ma secondo la poetica di allora, che amava gli infiniti e le analogie esplicite, il colore è talora indicato solo in negativo (Né bianco né viola):

27 Maria Antonietta Grignani

Nulla più chiedo. Contemplare il cielo che trasfigura la mia terra. Lontano dagli incantevoli luoghi di nausea dove l’anima è fredda, simile a un crisantemo né bianco né viola.

Gli «incantevoli luoghi di nausea», simbolo della vita metropolitana e proba- bilmente di un lutto storico – la guerra in Europa – hanno un’anima mortuaria e indistinta, di contro al cielo che trasfigura la terra d’origine. Inseguiamo per un attimo la nuance bianco-viola. Sempre in OT in Epigram- ma pisano troviamo il «falciatore in Piazza dei miracoli» e il pescatore fissato da sempre nella sinopia di Pisa, ma il primo è simbolo di morte con la sua falce e il colore del lutto: «viola stinto con falce lungo il muro del Campo». Negli anni ottanta – significativamente – gli stessi due colori (bianco e viola), indicatori del lutto, vengono ripresi e trasferiti in essenze sostitutive: «Oh nigritelle oh lividi nel gelo» si legge in A un ragazzo perito in montagna (SP), dove il viola e il bianco assumono la materialità di sostanze, la nigritella alpestre e il gelo mi- cidiale della montagna. La preferenza per il primo piano della forma nominale della qualità cromatica si legge, nella stessa raccolta, per un’amica di gioventù scomparsa (Ah dopo tanti bianchi il lillà):

Ah dopo tanti bianchi il lillà così viola intravisto contro il muro della tua casa in montagna, Carlotta che m’hai guidato leggera nei primi tanghi su piste ai margini del bosco, leggera sei passata di là!

SI non offre gran quantità di cromonimi, dato il taglio polemico o “narrati- vo” di molti pezzi. Participio presente nei ginocchi lucenti della ragazza che va in altalena e nella gomma biancicante che a richiesta porge (Ginocchi). Il verbo biancicare e il participio presente relativo, oggi rari, si trovano dal Tesoretto di Brunetto Latini fino al Foscolo e al Pascoli. Nella scarsità di aggettivi di colore preposti o posposti al nome, spiccano le forme sostantive, tipo «nebbia tinta d’azzurro»; «l’arancio della calendula». Spesso emerge la “motivazione”, come qui, con la giunta del luogo di riferi- mento: «Il cielo in qualche zona / ha l’azzurro nutrito dal ferro / delle ortensie sul Ceneri» (Quadernetto del bagno Sirena, I). Notevoli le definizioni indirette tramite analogia: «setter color sasso» (La trota). Attribuzione coloristica in me- tonimia ardita in questo esempio, ancora col viola del lutto: «i vecchi padroni senza figli / dormivano violetti, foderati d’abete» Frammento( dell’ideale).

28 Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori

Interessante il seguente fenomeno, che possiamo chiamare un non detto cro- matico, l’omissione del colore per ricorso all’enciclopedia dantesca del lettore: «nell’ombra dove vanno, più che burro, due oche» (In riva al Ticino), con rinvio a Dante, Inf. XVII, 63: «mostrando un’oca bianca più che burro», lì descrizione di una impresa araldica. Il ventaglio di soluzioni appena ricordato preannuncia l’esito in totale astra- zione della poesia intitolata STOP (SP), dove la rupe e i colombi si imbucano in «un buio verde immaginario» (quale dei due – buio / verde – il sostantivo? quale l’attributo?), simile a una cruna d’ago per chi osserva; i piccioni si alzano dal basso dell’asfalto, sul cui colore (in perifrasi: «colore d’asfalto») erano schiac- ciati o sovrapposti in riposo, e si appropriano, aprendo le ali, del bianco di uno stop stradale («macchiati di STOP»), in totale straniamento dal “realismo” figu- rativo. È questo un procedimento di attribuzione metonimica, tra l’altro molto produttivo nelle attuali coniazioni della langue:12

D’improvviso una frotta di colombi volò sopra di noi verso la rupe spogliata del castello e allungandosi in fila sparì nel buio verde immaginario d’una cruna.

Ma non diceva nulla alla signora che avevo salutato e ormai piccioni ce n’era a bizzeffe, colore d’asfalto e nell’alzarsi macchiati di STOP.

Per indugiare ancora su SI, i colori resi materia sono passaggi primari attra- verso la percezione di oggetti che mutano o si muovono in una loro specificità difficile da individuare. In Dopo Lucca appare innanzi tutto un cromonimo- sostanza, l’argento, che poi si rivela qualità coloristica di un branco d’acciughe:

Tu credevi che fosse uno scherzo del vento controcorrente: fitti argenti, scompigli d’un attimo, là, presso gli scogli del molo. Ma erano le acciughe: […]

La distanza del tempo può riallacciarsi al presente attraverso un colore dota- to di una apposizione metaforica; ed è il rosa vecchio regalato al centro di Urbi- no, col palazzo individuato in cima a una valle, chiazzata come le mucche di Pied Beauty di Hopkins, una valle «stupendamente pezzata, sparsa di / lingotti d’oro bianco»: «scorgemmo, rosa vecchio, Urbino» (Quadernetto del bagno Sirena: inc. «C’era davvero il duca?»).13 Nel mondo dei bambini, così congeniale a Orelli, si accampano colori smalta- ti, che precedono o vicariano i soggetti cui sono attribuiti, quasi ne portassero la quiddità in quanto soterici. Sono il palloncino rosso e le gialle forsizie, portati in

29 Maria Antonietta Grignani dono da una nonna, a ridare vita e salute a un interno di penombra, tono su tono per metonimia rispetto alla bambina malata di morbillo («tutto quel giallo […] l’altro giallo») in Sera di San Giuseppe, con una suggestione botanico-coloristica derivata da un passo di Benn che tornerà poi in CA ne Le forsizie di Bruderholz:

[…] Col palloncino rosso e un fascio di fiori gialli che altro non erano che le forsizie di cui lessi in Benn, per fortuna è venuta tua madre: sùbito così nonna, così sagra nella nostra penombra al primo piano che non potevo darle un bacio. Del resto, qualcuno doveva pur liberarla da tutto quel giallo perché potesse abbracciare l’altro giallo: balzata al trambusto dal letto col pigiamino giallo, veramente Giovanna.14

Colori di cose e animali si scambiano le parti in SPI, dove prevale l’aggettivo posposto al sostantivo, secondo l’uscita definitiva della poesia italiana dai modi del lirismo di tradizione. In Alter Klang, intitolato come un quadro di Klee, tro- viamo corvi turchini, mirtilli rossi, formiche ora rosse ora nere, farfalle brunicce, oltre alla sostantivazione in «cavallette d’un grigio deprimente»; oppure in «roc- ce / chiazzate di giallo lichene e nerastro». La sostantivazione cromatica crea un animale-colore, la ghiandaia, definita citazionalmente, da Il riverbero di Govoni: «quel celeste impossibile di fianco, striato di nero».15 Stefano Agosti a suo tempo ha notato che talvolta il colore guarda e parla al soggetto, come appunto in Alter Klang dove una delle ghiandaie, dal suo «celeste impossibile», a un certo punto – si legge – «mandò breve un saluto».16 Questa bestiola a sua volta sollecita uno sguardo di rimando in chi la ricono- sce felicemente. Subito dopo un altro animale guarda sorpreso e domanda al soggetto «chi sei?»; è la faina, con sua livrea coloristica in accusativo alla greca: «balzò sul mio sguardo / inclinato agli steli paglierini tremanti sull’orlo / del precipizio, bianca la gola, la faìna». Metafora con la sola provenienza del valore cromatico per un ragazzo defini- to dantescamente «fresco smeraldo in l’ora che si fiacca» Ascoltando( una rela- zione in tedesco).17 Si deve far ricorso all’induzione del lettore pure in quest’altro caso: «Col silenzio di cento ramarri» (Cardi, VI), sinestesia virtuale per un colore implicito nel suo portatore eponimo (è espressione comune “verde ramarro”). Tra un enunciato come «senza giallo di mimosa» (Blu di metilene) e un altro che suona «in un giallo di forsizie» (Le bottiglie vuote), la bellissima poesia Che fa Matteo Delbrück, con l’esergo dal De rerum natura V, 18 innesca una catena di colori netti, binati o in sintesi pittorica, mentre il neologistico denominale volpeggiare suggerisce una zona permeabile tra mondo meccanico e mondo ani- male, secondo la percezione “animistica” tipica dell’infanzia:

30 Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori

Come sorride alla rissa dei merli tra le ruote del passeggino, ai treni giallorossi che volpeggiano filando verso Flüh, al becco rosa che tanto si svia dal fuso bianco e nero della cicogna […].

Colori fondamentali giallo, rosso, blu a sconfiggere una giornata nebbiosa in Nebelzone, mentre, in sinestesia cromatica sostantivale (giallo) rispetto a una sensazione tattile (viscido), si presenta D’autunno:19

Al ritorno la patria non odorava più di letame, la strada luccicava di mica e nella nebbia eri tu che ci passasti accanto con un lepido camion di giocattoli gialli, rossi, blu.

Felinamente in giallo viscido di salamandra tra siepe e asfalto: neanche la faccia gli ho visto al ragazzo che in bici quasi m’investe a uno svolto. […]

Il culmine del primo piano dei colori a danno dei volumi lo presenta la stu- penda poesia Certo d’un merlo il nero. All’interno della sintassi nominale, per di più senza punteggiatura, i colori balzano su, come sostantivi (tranne all’inizio il «nero / mazzo di fiori»: tuttavia nero è in punta di verso separato dal nome per via di enjambement e sta quasi come sostantivo a sé). La forma del merlo spiaccicato sull’asfalto muta rapidamente in riprese metaforiche, dal nero-rosso del mazzo di fiori alla «farfalla / enorme d’un nero / punteggiato di rosso»); il «giallo aranciato» del becco è irreperibile; i successivi metaforizzanti suggeri- scono colori in obliquo o per implicito: crosta… squame… eczema dell’asfalto (grigio), girasole (giallo), raschietti di spazzacamino (nero). Se si ripensa al più naturalistico «ricci furono, ora misera pelle / e sangue sull’asfalto» (dantesco, Inf. XIII, «Uomini fummo ed or siam fatti sterpi») di Mezzogiorno a C. di SI, si coglie la natura molto più ardita delle figurazioni coloristiche di SP:

Certo d’un merlo il nero mazzo di fiori d’un rosso sorpreso dalla morte nel breve buio d’un sottopassaggio l’indomani farfalla enorme d’un nero

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punteggiato di rosso nessuna traccia del giallo aranciato il terzo giorno crosta sfaldantesi in squame eczema dell’asfalto il quarto girasole dai petali rari raschietti di spazzacamino

In CA, a parte la sezione Altri cardi che essendo di impianto polemico non comporta come l’omologa di SP aggettivi di colore, prevale – come ci si aspetta a questa altezza cronologica – la posizione posposta (becco azzurro, ghiaia viola, magnolia viola ecc.). Ancora elementi cromatici, quasi più protagonisti rispetto al mondo animale cui appartengono, attivano un movimento verso il campo visivo di chi presta loro lo sguardo. Ecco un micio bicolore: «Il gatto disteso bocconi / sul muretto, che aveva preso a fissarmi / dal bianco dal nero»; poi un corvo che stava «a un palmo dalla nera / metà», sottinteso: del gatto (Favoletta):

Il gatto disteso bocconi sul muretto, che aveva preso a fissarmi dal bianco dal nero, un corvo partito da un tetto poco lontano con suo cra senza grazia gli s’è posato accanto, a un palmo dalla nera metà, ma non gli ha fatto perdere un ette della grande calma.

Come si ricordava all’inizio, il primo testo del libro, traduzione da Lucrezio, si riferisce al trascolorare delle piume dei colombi per effetto della luce: «e infat- ti talvolta sono rosse di fulgido piropo / e paiono tal altra mischiare all’azzurro il colore / dei verdi smeraldi».20 L’anitra, animale totemico del titolo di Orelli, simbolo della poesia, torna in un pezzo dedicato a un bambino, con il prediletto accusativo alla greca: «riac- cesa il collo / di verde malachite / due volte ti fa festa / uncinando se stessa» (Scappa scappa il micetto).21 Nel ventaglio dei colori spiccano l’azzurro (questa volta egiziano) e il giallo mediterraneo cari alla moglie: «il tuo giallo: / non forsizia o mimosa, ma se mai / ginestra» (Non conosco l’azzurro) e poi l’arancione iconico della farfalla bruna, che aprendo le ali, ha «mostrato / un 8 limpidissimo, arancione» (Quelle far- falle brune); oppure, con figura allitterativa paretimologica, «Le fragole in Val Sementina! / Ma non rosseggia, non fragra» (Le fragole in Val Sementina!).22 Abbondano i verbi derivati dall’aggettivo o dal nome del colore nella sez. VIII dedicata ai bambini: biondeggiare, azzurreggiare (Come quando).

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Le forsizie del Bruderholz chiude la raccolta, prendendo spunto dall’episodio di certe infermiere di Lainz che davano la buona morte agli anziani ricoverati, tornato alla mente durante una visita all’ospedale di Basilea. Nel passaggio dalla versione nella “Nuova Antologia” del 1989 all’antologia bilingue e poi al volu- me, il testo si arricchisce di colori (e di particolari presi dal rapporto di polizia).23 Ma le forsizie del giardino ospedaliero, legate con “etimologia poetica” con il Forse dell’attacco e con quello del finale (rispettivamente «Forse triste non è la pasquetta» e «forse parla d’amore»), offrono occasione a un auspicio vitale, nel candido piede e negli occhi azzurrissimi dell’infermiera in riposo e soprattutto in questa sinestesia, con la consueta inversione tra determinato e determinante: «le avvolge / folta una gioia gialla di forsizie / attutita da merli perfetti». Ignoro cosa sarà L’orlo della vita. Ma tra i testi anticipati, che attendono la stampa in volume, vedo in data 2003 Un gatto,24 in cui il poeta apostrofa un felino bianco e nero che l’ha seguito, deludendone le aspettative e dicendogli di “fiottare” via il lustro del suo nero nel verde intenso: «e dunque è meglio / che te ne torni nel verde più verde / donde mi hai visto passare, / fiottandovi lustro il tuo nero».25 In un’altra anticipazione, Ragni, domina l’aspetto diafano, quasi trascolorante in rosa, dei due mini-ragni appesi al soffitto bianco dell’ap- partamento e compagni della vecchiaia casalinga di Orelli, che diventano non a caso figuralmente e quasi graficamente «due punti nei dintorni / di me».26 I due inquilini minuscoli (ricordo che Orelli li indicò sul soffitto in una visita a Bellinzona in cui mi lesse anche la poesia) sono la figura estrema di un dire che resiste e di una poesia che ha fiducia nella comunicazione:

Ultimamente ho scritto una poesia sui ragni in un’atmosfera pessoiana, credo d’averla finita. Dove per la prima volta assegno all’interpunzione una funzione iconica. In questa poesia il due punti […] sono i due ragni.27

Dal nostro mondo, una realtà variamente affascinante ma anche spavento- samente contraddittoria, in cui si è svolta la sua lunga esperienza di affetti, di cultura, di studio e di impegno civile, Giorgio ci lascia in eredità la declinazione formale di un orecchio assoluto per i ritmi e i suoni e i colori della poesia, capace di riallacciare antico e moderno. A me piace pensare anche che il suo andirivieni tra illustre e quotidiano, umano e non umano, adulto e bambino, lontano e vicino, massimo e minimo, questo suo aggirarsi tra evidenze vitali ed esperienze visive macro e microsco- piche abbia compensato, per miracolo laico, il transeunte e l’angoscioso della vita, indicando al cerchio familiare cui rimase fedele e a quello largo dei lettori le avventure e l’insegnamento della percezione visiva di chi guarda sapendo di essere guardato, privilegio di un soggetto prensile e ricettore attento, fabbro ineguagliabile della parola.

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1 Superfluo citare lavori critici sulle “fonti” e le tecniche del “riuso” di Orelli. Del resto esempi di comprovata intertestualità si leggono, in questo stesso volume, negli studi di Gil- berto Lonardi, Christian Genetelli, Georgia Fioroni, Giovanni Fontana; clamorosi prelievi lessicali dal Fiore, studiato intensamente da Orelli soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita come appare dal saggio di Ottavio Besomi, sono illustrati in poesie destinate a L’orlo della vita dal contributo eccellente di Silvia Longhi, Le sillabe di Orelli, qui alle pp. 37 ss. 2 S. Agosti, La riconoscenza, Coup d’idée-Edizioni d’Arte, Alba 2014, p. 44. 3 Indicazioni in sigla: NB (Né bianco né viola, 1944); OT (L’ora del tempo, 1962); SI (Si- nopie, 1977), SP (Spiracoli, 1989), CA (Il collo dell’anitra, 2001). 4 P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli, in G. Bonalumi, R. Martinoni, P.V. Mengaldo, Cento anni di poesia nella Svizzera italiana, Armando Dadò Editore, Locarno 1997, pp. 189-196. Ivi si aggiunge, sui caratteri che individuano lo stile: «Il primo è la sicurezza netta e sobria nel mettere a fuoco colori e meglio linee della realtà (è stato detto: “incide a graffito secco”), quasi alternando continuamente cannocchiale e microscopio […]», p. 190. 5 Ecco Orelli: «Prendo dai poeti. Né Dante né Petrarca stringono a vita un aggettivo solidale come viva; con la “vita” che dev’esser “viva, cioè vera vita” la prosa di Leopardi fa pensare a un cielo invaso a poco a poco dal tramonto più bello», in G. Otter, Ritratti della Poesia. I vasi comunicanti, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 1998. 6 G. Isella, Per Sinopie e Spiracoli, in punta di penna, in “Bloc Notes”, 64 (2014), mag- gio, p. 88. 7 M.L. Altieri Biagi, Semantica e sintassi dell’aggettivo nei “Promessi Sposi”, in Manzoni “l’eterno lavoro”, Atti del congresso internazionale della lingua sui problemi e del dialetto nell’opera e negli studi del Manzoni (Milano 6-7-8-9 novembre 1985), Casa del Manzoni, Milano 1987, pp. 255-284. 8 In A Vittorio Sereni (CA) nella seconda strofa appare di schiena un ragazzo con berretto viola stinto, «un ginocchio / alto piegato a spostarmi / l’occhio dal lago alla neve dei monti, / così lucente a tratti / che in corpo non pareva più vivo». 9 B. Berlin, P. Kay, Basic Color Terms: Their Universality and evolution, University of California Press, Berkeley 1969; M. Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino 1999, pp. 26 ss.; vi si nota naturalmente che nella chiesa cristiana e nei paramenti sacri nero/bianco, verde, viola hanno assunto connotazioni simboliche riassorbite dal sentire comune; R. Fresu, Neologismi a colori. Per una semantica dei cromonimi nella lingua italiana, in “Lingua italiana d’oggi”, III (2006), pp. 153-157. In generale e per la bibliografia cfr. http://www.treccani.it/ enciclopedia/termini-di-colore. 10 Per le varianti linguistiche del giallo cfr. R. Fresu, Giallo, giallume, gialleggiare. Processi di derivazione da cromonimi della Crusca, in Atti convegno ASLI su Il Vocabolario degli Acca- demici della Crusca (1612) e la storia della lessicografia italiana, a cura di L. Tomasin, Cesati, Firenze 2013, pp. 167-181. 11 P. De Marchi, Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002, pp. 26-27. G. Orelli, Ampelio, in Id., Un giorno della vita, Lerici, Milano 1960, p. 13: «O d’una martora? L’unica da lui veduta era stata uccisa da un vecchio cacciatore mentre fuggiva su un pino; ne ricordava soprattutto la gola, color d’arancia». 12 M.L. Rodotà, in “La Stampa”, 3 marzo 2001, a p. 8, registra un «color tangenziale». L’esempio è citato in G. Sergio, Parole di moda. Il «Corriere delle dame» e il lessico della moda nell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 244-256. 13 Ma già un esempio di questo tipo lo si è trovato in NB: «ritrovo, grigio appeso, lo spau- racchio / che somiglia un fanciullo» (Novembre 1944). 14 Sera di S. Giuseppe e Par. XII, 79-81: «O padre suo veramente Felice / o madre sua veramente Giovanna, / se, interpretata, val come si dice» (cioè: domini gratia). 15 Rovesciamento semantico della citazione di Govoni in Odette: «schiudendo un azzurro credibile». 16 S. Agosti, Poesia italiana contemporanea, Bompiani, Milano 1995, pp. 81-87. Stesso fenomeno in Cardi VII: «Grato del saluto di due ghiandaie più un’altra / inaspettata, anche più largitrice di azzurro».

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17 Purg. VII, 75. 18 Questa la citazione: «unde oriebantur risus dulcesque cachinni, omnia quod nova tum magis haec et mira vigebant». 19 Per la salamandra cfr. Assenza in OT: «o la lenta / salamandra che mena per i ciottoli / la sua inusata allegrezza di polvere». 20 Orelli insiste su -i- di anitra, lettera della luminosità e della trafittura, rinviando a due luoghi di Dante analoghi non per tema ma per ritmo e accenti metrici: «non altrimenti l’ani- tra di botto, / quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa», Inf. XXII, 130, sui barattieri, e Par. XXVI, 100: «e similmente l’anima primaia», dove Adamo è paragonato a un animale con piume. Del resto si ricordi la poesia tutta giocata sulla -i- Imber. 21 Qui anche «falbo / strato di foglie» con rinvio a Montale, Gloria del disteso mezzogior- no, ove «parvenze falbe». 22 Verbo magari pascoliano: «Fragri la rosa e il timo dell’Imetto». 23 Si aggiunge nell’edizione Garzanti: «nelle notti di guardia quando si fa più vivo / il niente aiuterà / (con dosi improprie, eccessive, mortali, / d’insulina o sonnifero che astuto / si disperda nel corpo senza lasciarvi traccia, / o altro, farmaci paralizzanti, / aria iniettata nelle vene», ecc. Anche l’ultima strofa diventa più lunga con maggiori particolari sulla infermiera sdraiata, ove Orelli aggiunge note di colore: «fissa con occhi azzurrissimi / l’acqua, allunga un candido piede», mentre nella lezione precedente si leggeva soltanto: «col piede nudo». 24 Uscita in Un inquieto ricercare. Studi offerti a Pio Caroni, Casagrande, Bellinzona 2004, p. 4. 25 In altri due testi, anticipati in una plaquette di Lithos 2013, sembra confermata la rile- vanza della componente cromatica. In La buca delle lettere, l’incipit reimpiega la gamma dei colori trattati come sostanze cari a Orelli, nonché il dinamismo conferito dalla resa in forma di verbo: «Dove mirabilmente / giallo su prima mano / di rosso anche d’autunno / resistono ardite parole […] più non gialleggia la buca / delle lettere […] ove adesso si leva / un altro giallo, l’arancio dei cachi / […] nel suo caldo colore». 26 Cito da La buca delle lettere. Ragni, libro d’artista con due poesie di Giorgio Orelli e serigrafia originale di Natalie Du Pasquier, Edizioni Lithos, Como 2012. 27 G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014, p. 48.

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SILVIA LONGHI Le sillabe di Orelli

Quotiens sillabas contorsimus, quotiens verba transtulimus

(Francesco Petrarca, Familiares X 3, 21)

1. Annunci matrimoniali (leggendo il Fiore) Con una lettera del 15 giugno 2003, Giorgio Orelli mi ringraziava di un breve saggio sulla raccolta Il collo dell’anitra, che gli avevo sottoposto per avere il suo giudizio prima di pubblicarlo.1 Caloroso e spiritoso, come era sua natura, si divertiva a snidare allegramente altri riscontri in aggiunta; e mi mandava come dono due graziose poesie, a quella data inedite. Le due poesie sono autografe, trascritte con un’inclinazione diagonale al centro di un foglio; sono precedute da una nota in parentesi: «[da “rendezvous”, fascina in italiano, francese e te- desco]»; e portano un numero d’ordine che segnala la loro appartenenza a un insieme maggiore (rispettivamente I e VII): Possibile che non ci sia (due strofe di sei versi ciascuna); Né giovane né malbalita (una strofa di sei versi). Anche così nude e sole, si leggono subito come un’imitazione dei piccoli annunci giornali- stici di chi cerca, come si suol dire, l’anima gemella. Vengono pubblicate la prima volta da Orelli nella miscellanea in onore di Pier Vincenzo Mengaldo (2007),2 insieme con altre due della medesima serie (numerate VIII e XVIII): Non sei più giovanissima e folletta; e Sarà che non son io. Tre su quattro (Né giovane né malbalita; Non sei più giovanissima e folletta; Sarà che non son io) figurano nel bellissimo omaggio postumo a Orelli della rivista “Poesia”, a cura di Pietro De Marchi e Pietro Montorfani. Insieme ad altri componimenti di diverso carattere, rappresentano un anticipo della nuova raccolta, L’orlo della vita, che era in fase avanzata di elaborazione al momento della morte del poeta.3 Trascrivo qui le quattro poesie:

«Possibile che non ci sia in questo felice paese un uomo libero serio solare con un po’ di cultura che abbia desiderio di combattere con me la solitudine

Ho 52 anni, una biondina ero, sono tuttora bella saggia cortese

37 Silvia Longhi

un tantino lunare adoro la Natura hobby tarocchi pendolo MAGIA».

*

«Né giovane né malbalita cerco un gentile compagnone che stia comeco non dico per tutta la vita, che sarebbe meta ardita, ma per provare come va, se va come per tutta la vita».

*

«Non sei più giovanissima e folletta ma sempre un po’ volaggia? Volaggiamente provo ad esibirmi e far quel che ti piace tralasciando le infinte druderie che insegnano alla scuola dell’amore. Non conta che tu sia d’angelico sembiante, ricca e ben foderata, e in erbaggio i capelli tinga e all’uovo. Io non sono che un oste trapassante, ma son presto ad aprire la maletta».

*

«Sarà che non son io, non son io che ti manco, donna smagata e matura, ma posso starti al fianco perfino con dolcezza, purché tu non sia dura come Condoleezza che quel che vuole ottiene, magari con doglienza; sì che t’aspetto, senza rincorrermi però, nella speranza di passare insieme questo tempo che passa, che non ho».

È sempre emozionante raccapezzarsi all’interno di un insieme mobile, anco- ra non del tutto assestato: ma a orientarmi tra edito e inedito, programmato e incerto, è stato indispensabile l’aiuto cortesissimo di Pietro De Marchi. A pro- posito dello stato variabile di questa coroncina dei Rendezvous mi informa:

38 Le sillabe di Orelli

Ora, nel dattiloscritto del volume rimasto inedito e incompiuto, e cioè L’orlo della vita, la sezione che raccoglie le poesie che fanno il verso alle inserzioni per cuori solitari è collocata (provvisoriamente?) alla fine e porta un altro titolo, o un titolo nuovo, se si vuole: Riserva protetta. Le poesie comprese in tale sezione sono solo undici, e tra di esse Possibile che non ci sia è in seconda posizione; Né giovane né malbalita in quarta; Non sei più giovanissima e folletta in undicesima. Mimma Orelli dice che l’estate scorsa Giorgio aveva ripreso in mano il dattiloscritto delle sue poesie, togliendo alcuni testi che non lo convincevano fino in fondo. Tra le sacrificate o eliminate, o almeno sospese nel limbo, c’era anche Sarà che non son io, che pure compariva nella miscellanea per Mengaldo. A parte, rispetto al dattiloscritto con- servato in un raccoglitore, Mimma ne ha trovate per ora due: Tu viaggi sui 70 e Sarà che non son io, la prima con il n. IX e la seconda con il n. XI (numeri romani, questa volta). Dove siano finite le altre, non saprei (forse nel cestino). Un’altra cosa che forse ti può servire: Riserva protetta è accompagnata da un’epigrafe tratta dalla lettera di un emigrante ticinese in America: «Il mondo è corioso e lo sarà sempre ed io non ho voglia di mangiarmi il fìdaco» (Lettera dall’America). Era una frase che Giorgio ripeteva spesso con gusto (in particolare per via quel corioso con la o e per il fìdaco). Che dirti d’altro? Delle 11 sopravvissute, quelle che portano ora il numero 1, 3, 5, 7 e 8 sono in tedesco; la numero 10 contiene un paio di espressioni in francese.

Un grande grazie a Pietro De Marchi; e grazie alla signora Mimma Orelli. E dunque: la coroncina plurilingue si è ridotta nel corso del tempo da 18 a 11 elementi; qualcosa ancora era in sospeso nel giudizio dell’autore; e il titolo più diretto Rendezvous era intanto cambiato nel più metaforico Riserva protetta. Come andrà inteso? Mi pare che più d’uno sia il significato possibile. Una ri- serva protetta (parchi, aree protette ecc.) ha lo scopo di difendere flora e fauna, proteggendo in particolare specie viventi in pericolo di estinzione: Orelli allude forse agli individui che scrivono, o meglio scrivevano, questo tipo di annunci, e alla pratica stessa? Una pratica che ormai sta cadendo in disuso, soppiantata da altre forme di comunicazione e ricerca più funzionali, in numerosi siti on line di dating; e che quindi è un relitto del passato. Per coincidenza, sfogliando “la Repubblica” di martedì 18 febbraio 2014, ho incontrato un articolo riguardante la rivista “Le chasseur français”: storica rivista di natura e caccia, attiva dal 1885, che ha sempre pubblicato annunci matrimo- niali. Si parla di un libretto appena uscito, La grande histoire des petites annonces (pubblicazione hors série della rivista stessa), che valuta l’imponenza di questa produzione (qualcosa come 450 000 inserzioni); ed esamina come siano cambiati nel corso degli anni gli annunci, nella sostanza delle richieste e nello stile, a spec- chio del mutamento della società e dei costumi. Un’escursione assai divertente. Vien da pensare che Riserva protetta possa significare anche “riserva di cac- cia” (zona in cui sono regolamentate le limitazioni e le modalità imposte all’eser- cizio venatorio): posto che la caccia, come la guerra, con tutto l’armamentario connesso, è da sempre campo metaforico preferenziale della tematica amorosa. Ma istituire un’area protetta ha avuto spesso anche implicazioni archeolo- giche: assicurare alla conservazione – oltre che gli ultimi frammenti di passati ecosistemi naturali – anche tracce della cultura umana: arte, storia, insediamenti

39 Silvia Longhi e attività tradizionali. E allora la Riserva protetta di Orelli può mirare a man- tenere un ecosistema non naturale ma letterario. Quale? Con ogni evidenza il linguaggio a base quotidiana e neutra di queste “inserzioni” (costruite su schemi convenzionali di descrizione di sé e di richieste al partner auspicato) si impenna ripetutamente su vocaboli e sintagmi preziosi della lingua letteraria delle Origi- ni. Un impressionante ricalco di linguaggio, e di grande coerenza, una volta che ci si accorge che Orelli deruba, anzi saccheggia il Fiore di Dante (che il Fiore sia opera di Dante, per lui è incontestabile).4 Cominciamo, per maggiore efficacia dimostrativa, con il secondo testo della nostra scelta, la poesia della malbalita:

«Né giovane né malbalita cerco un gentile compagnone che stia comeco non dico per tutta la vita, che sarebbe meta ardita, ma per provare come va, se va come per tutta la vita».

Malbalita è un francesismo, significa “malridotta”, ed è prelevato da due luoghi del Fiore: 24, 10 e gli dirén com’e’ fia malbalito, e 98, 2 la Santa Chiesa si è malbalita. Quindi abbiamo un equivalente della formula cara a Orelli né giovane né vecchio, agghindata all’antica. Anche il gentile compagnone, nel senso di “no- bile amico”, viene dritto dal Fiore 70, 5 Ma sì·tti priego, gentil compagnone. E dallo stesso sonetto 70, 10 viene la forma assimilata comeco: e menerò comeco tal aiuto (anche a 80, 2; 99, 5; 192, 13). La grazia di questa poesia sta nella misura del suo breve giro scandito di echi insistenti (la vita… la vita; come va, se va; le tre rime in -ita); e nel garbo di quell’attenuazione: «non dico per tutta / la vita […] come per tutta la vita». E ora la voce maschile, nel terzo testo:

«Non sei più giovanissima e folletta ma sempre un po’ volaggia? Volaggiamente provo ad esibirmi e far quel che ti piace tralasciando le infinte druderie che insegnano alla scuola dell’amore. Non conta che tu sia d’angelico sembiante, ricca e ben foderata, e in erbaggio i capelli tinga e all’uovo. Io non sono che un oste trapassante, ma son presto ad aprire la maletta».

L’impertinente folletta “spensierata, pazzerella” discende dall’incipit di Fiore 148, 1 I’ era bella e giovane e folletta (dove parla la Vecchia, che ricorda i suoi bei

40 Le sillabe di Orelli tempi); mentre il gallicismo volaggia “volubile” si tira dietro l’avverbio volaggia- mente nel sonetto 61, 5-6 E se·ttu ami femina volaggia / volaggiamente davanti le vieni. Orelli deve aver adorato queste parole «alate», come usava dire. E la voce continua – entro un dominante ritmo endecasillabico – a sciorinare le sue risorse, tesori prelevati dall’arca del Fiore: le infinte druderie sono le false tenerezze, le simulate smancerie, che la Vecchia consigliava alla giovane Bellacoglienza in 169, 14 e fa co·llui infinte druderie. Anche un sintagma apparentemente neutro come scuola dell’amore ha il suo riscontro, nel già citato sonetto 148, 2 ma non era a la scuola de l’amore. Tralasciamo pure angelico sembiante, un topos di repertorio; invece il verso «e in erbaggio i capelli tinga e all’uovo» è proprio ricalcato su Fiore 166, 5-6 Se non son bionde, tingale in erbaggio / e a l’uovo (sì perché le belle bionde treccie, v. 4, devono essere bionde per forza). Naturalmente in erbaggio significa- va nel Duecento “con infusi d’erbe”, e significa adesso una colorazione vegetale, che non fa danno ai capelli. Infine, il nostro uomo conclude gloriosamente la sua inserzione proponendosi con due memorabili endecasillabi: «Io non sono che un oste trapassante, / ma son presto ad aprire la maletta». Dove oste trapassante è il “forestiero di passaggio” di Fiore 169, 9 Né non amar già oste trapassante (che là però è sconsigliato come amante); e la maletta è la “borsa”, da 171, 8 s’e’ non iscio- glie prima la maletta. Perfino l’attitudine son presto “sono pronto, sono disposto” è calco di Fiore 2, 9 Ed i’ risposi:«I’ sì son tutto presto» (e 132, 14). L’ultimo testo dei quattro è quello dal destino rimasto in sospeso:

«Sarà che non son io, non son io che ti manco, donna smagata e matura, ma posso starti al fianco perfino con dolcezza, purché tu non sia dura come Condoleezza che quel che vuole ottiene, magari con doglienza; sì che t’aspetto, senza rincorrermi però, nella speranza di passare insieme questo tempo che passa, che non ho».

Certo, il nome di Condoleezza Rice,5 su cui tutto il componimento ruota fonicamente, è una brusca intrusione dell’attualità politica che non concorda col resto. Si sa dalle biografie della Rice che il suo nome deriva dall’espressione con dolcezza, una delle indicazioni, in lingua italiana, impiegate nella musica classica. Nella poesia si trapassa da con dolcezza a con doglienza: parrebbe sull’esempio di Fiore 4, 13 un’ora gioia avrai, altra, doglienza. Mentre donna smagata, cioè “disillusa”, potrebbe venire da Fiore 2, 1 Sentendomi ismagato malamente (dove però l’aggettivo vale “indebolito”). Qualcosa comunque stona nella compattez- za dell’insieme; tanto più che l’inizio della poesia «Sarà che non son io, / non

41 Silvia Longhi son io che ti manco» ricorda piuttosto un verso ariostesco, di un luogo famoso: Non son, non sono io quel che paio in viso (il lamento di Orlando che sta impaz- zendo, Orlando furioso XXIII 128, 1). Ci rimane da considerare rapidamente il primo testo:

«Possibile che non ci sia in questo felice paese un uomo libero serio solare con un po’ di cultura che abbia desiderio di combattere con me la solitudine

Ho 52 anni, una biondina ero, sono tuttora bella saggia cortese un tantino lunare adoro la Natura hobby tarocchi pendolo MAGIA».

Questo ha connotati più scialbi, e si adegua più tranquillamente al linguag- gio di repertorio delle inserzioni per la ricerca di un compagno: come dichiara l’abituale formula combattere con me la solitudine. Solo grazie al legame con gli altri individui della serie, a riscontro di una biondina / ero si può richiamare Fiore 143, 10 e ’n su le treccie bionde; o 166, 4 le belle bionde treccie. E per bella saggia cortese funziona Fiore 18, 5-6 ch’egli è giovan e bello e avenante, / cortes e franco; oltre a 143, 13-14 e disse: «Vien’ qua, figliuola cortese. / Riguàrdati se·ttu se’ punto bella», e 146, 7 com’i’ era cortese e gente e bella. Come possiamo definire queste poesie? Non vorrei chiamarle una parodia del Fiore. Piuttosto un esercizio di imitazione. Il Fiore è la storia di una con- quista amorosa, la lenta, combattuta, travagliata vicissitudine di una conquista amorosa. I due lunghi discorsi di Amico (sonetti 49-72) e della Vecchia (sonetti 144-193) sono pura ars amandi, precettistica di seduzione, rispettivamente a vantaggio dell’uomo e della donna. Orelli si diverte a mettere alla prova la du- rata plurisecolare di quel linguaggio seduttivo. Certo, una corretta lettura della coroncina Riserva protetta richiederà – quando i testi saranno disponibili – che si esamini e valuti la serie nella sua interezza. Per restare alla mimesi del Fiore, è utile considerare anche una poesia estra- nea a questa serie, ma ugualmente destinata alla raccolta L’orlo della vita: quella intitolata Sasso Corbaro (leggendo il «Fiore»):

Sulla soglia di Sasso Corbaro mia figlia esultante avrebbe voluto spogliare ogni rovo, cogliere tutte le drupe, le coccole, le bacche, specialmente le rosse d’agrifoglio,

42 Le sillabe di Orelli

e lontano i bagliori del fiume che si perde nel lago. Le piaceva infogliarsi anche più su delle caviglie con voglia di castagne che si stanno sdiricciando; fermarsi a contemplare la nuda meraviglia d’un albero foltissimo di cachi. Ma il sole basso l’abbagliava, la costringeva a schermare gli occhi con la mano; finché non l’attrasse uno scompiglio d’ombre scagliate da una sùbita famiglia di corvi, ed esultante disse: «Ci giacigliamo nelle foglie».6

Questo esperimento virtuosistico di uso del garbuglio, dove il nesso GL si appoggia a diverse combinazioni vocaliche, in alternanza vorticosa (oglia - iglia - oglie - oglio - aglio - iglie - aglia - iglio), si ispira a parecchi sonetti del Fiore (spe- cialmente il trio 47-49; e inoltre 36, 69, 103). Un esempio: «Non ti maravigliar s’i’ non son grasso, / Amico, né vermiglio com’i’ soglio, / ch’ogne contrario è presto a ciò ch’i’ voglio» (48, 1-3). Sono tre gli studi principali che Orelli, in veste di critico, ha dedicato al Fiore, importanti per il contributo dei numerosi riscontri e dettagli nuovi a fa- vore della paternità dantesca: sulla quale, a suo giudizio, non è lecito nutrire dubbi.7 La sua frequentazione del poemetto resta intensa fino agli ultimi anni. Si può trovare ancora su Internet il filmato del colloquio con Maurizio Canetta, intitolato Stupore e meraviglia (trasmesso sulla Rete Svizzera La2, il 24 maggio 2011, per festeggiare i novanta anni del poeta): vediamo un Orelli invecchiato, ma pieno di energia, brillante, divertito nel raccontare aneddoti, stringato nelle osservazioni critiche, senza esaltazioni, con una sua semplicità esatta, sempre fedele a se stesso («pratico tutti i giorni la critica inventata da Contini, critica verbale; continuo su questa strada perché non ce n’è un’altra»). Subito all’inizio è inquadrato il suo tavolo: su cui stanno le sue carte, gli occhiali, la penna, la macchina da scrivere Olivetti Lettera 22; e il libro del Fiore, aperto alla pagina del sonetto 202, che per un attimo si distingue contornato da un reticolo di segni e postille. Alla fine dell’intervista, Orelli è al lavoro, e lavora sulFiore , battendo a macchina dei riscontri.8

2. Petrarca, oralità, memoria Come omaggio e ricordo, dopo la scomparsa del poeta, si è reso disponibile on line un tesoro di riproposte della RSI, la Radiotelevisione Svizzera: si raggiungono facilmente interviste, colloqui e lezioni, sia recenti sia più lontani nel tempo. Una

43 Silvia Longhi meraviglia, per riavere la sua viva voce o addirittura la vista e la presenza. Qui mi importa parlare della voce. L’ho riascoltata nella registrazione di cinque trasmis- sioni della rete LA1, Obiettivo Petrarca (19-22 ottobre 2004): cinque lezioni sul Canzoniere petrarchesco (si tratta dei sonetti 35 Solo et pensoso i più deserti campi; 180 Po, ben puo’ tu portartene la scorza; 9 Quando ’l pianeta che distingue l’ore; 335 Vidi fra mille donne una già tale; 364 Tennemi Amor anni ventuno ardendo), di dieci minuti l’una, indimenticabili. La voce di Orelli, immutata negli anni, recita i testi con misurato pathos. Nel recitare scandisce e separa le singole sillabe, che vengono potenziate. L’eleganza sobria delle definizioni adibisce un lessico critico personale (che ospita anche espressioni di Contini, Mallarmé, Valéry). Nel ritmo alacre della pronuncia orale, le sue definizioni acquistano spessore, paiono cre- ate, inventate sul momento. Qualche esempio: svelto spostamento delle sillabe; sdrucciolo che ha dell’inesorabile; scansione di dolente gravezza; riprende torcendo (e tutta la declinazione di torcere, torsioni); una frotta di parole; asperitas dei gruppi /tr/ e /sc/; concentrare la sostanza fonica delle parole; una scrittura fatale; gruppo alato; passaggio dal corporeo all’incorporeo. Una tesi più volte affermata: la forte inclinazione isofonica dei grandi poeti che rafforza il significato. I modi preferiti di formulare le proprie reazioni di lettore: non sembra insulso dire; non è stolto aspettarsi; non tardiamo ad avvederci; me ne sono accorto. In questa dimensione orale, il critico Orelli è persuasivo e avvincente: nei saggi scritti, gli accertamenti risultano spesso così intricati e molteplici da fra- stornare; mentre nella lezione solo i fenomeni più vistosi sono selezionati con una speciale efficacia. Proviamo a fare una piccola verifica. Nel primo libro cri- tico, Accertamenti verbali, sono due i saggi di materia petrarchesca: Un verso del Petrarca (si tratta di 303, 5 fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi), e Dantismi del Canzoniere.9 Noto di passaggio che in tutto questo volume il lin- guaggio attinge allegramente a un registro naturalistico e venatorio: Dante piglia almeno due rigogoli a un fico (p. 14); mi limito a scuotere la rete (p. 68); incorag- giando (per così dire) gli uccelli di passo come me ad assaltare altri frutti (p. 159); poesie… vive come lucertole al sole (p. 169). Nel libro successivo Il suono dei sospiri, Orelli rifonde quei due primi espe- rimenti in un insieme più ampio e organico, riservato soltanto a Petrarca.10 Ci importa sapere se vi siano esaminati testi che saranno commentati a distanza di tempo nelle lezioni alla radio del 2004. In sostanza non c’è ricalco di materia, salvo quattro casi, di cui due molto parziali. Si incontra nel libro il sonetto 335, considerato solo per la disseminazione sillabica della parola ALma (pp. 6-7); e il sonetto 9, di cui è analizzato accanitamente solo l’ultimo verso primavera per me pur non è mai (pp. 12-14). C’è invece, come oggetto di indagine di un intero capitolo, il sonetto 35 Solo et pensoso (pp. 45-50). E c’è il sonetto del Po, 180 (pp. 63-68). Le esecuzioni dei testi in comune appaiono molto diverse: il dispie- gamento analitico, minuziosissimo, degli accertamenti nei saggi lascia il posto, nelle lezioni orali, a una visione sintetica: qui Orelli gerarchizza i fenomeni, «tira dritto» (per usare una sua espressione) su una quantità di riscontri minuti e minimi, addita solo le linee di forza della struttura. Commenta il contenuto con

44 Le sillabe di Orelli rapidi cenni riassuntivi, elegantissimi. Non viene meno, anzi si intensifica, il pa- ragone continuo con la Commedia: la lingua poetica di Dante appare l’alimento che Petrarca ha trasformato in sua carne e sue ossa.11 Ormai indistinguibile, se non fosse che Orelli lo distingue benissimo. E si rallegra, si congratula con se stesso, quando con soddisfazione uncina un riscontro sempre passato inosserva- to prima. Insomma, non è solo una questione di tempo, i minuti contati a dispo- sizione, che obbligano l’autore a «crudamente contrarre» il suo discorso: ma è la natura diversa dell’oralità, che prescrive una comunicazione più graduata, ed evidente, e affabile: e l’esame ci guadagna assai. Del resto, motivando il titolo Il suono dei sospiri nella prima pagina del vo- lume («Intitolo questo esercizio Il suono dei sospiri […] giusto per attirare col poeta stesso l’attenzione sull’accordo profondo di suono e senso»), Orelli tro- vava opportuno citare un passo di una delle epistole di Petrarca (Sen. II 3): «Quando poi quel che tu hai concepito sarà interamente trasformato in parole o in scritture continuate, leggi ad alta voce, sì che tu possa ascoltarti, e quasi tu non fossi l’inventore ma il giudice, chiama in tuo aiuto l’orecchio e l’animo». E così ci si imprime nella mente la sua voce, che con devozione ed entusia- smo, con ammirazione infinita per il grande artefice, sillaba quei versi petrar- cheschi in cui il lavoro della lettera realizza «una scrittura fatale»: per esempio il sonetto 335, definito «sonetto de l’alma», perché tutto imperniato sul sintagma l’alma, con il suo «nesso alato» AL. Nella seconda quartina, il verso 7 è detto «brace sibilante»:

Nïente in lei terreno era o mortale, sì come a cui del ciel, non d’altro, calse. L’alma ch’arse per lei sì spesso et alse, vaga d’ir seco, aperse ambedue l’ale.

In generale si può affermare che il critico Orelli attua decine di riconosci- menti. Individua campi di tensione, e correnti di parole come corsi d’acqua. Gli riesce facile la scoperta delle parole nascoste sotto, o in mezzo ad altre parole: les mots sous les mots di Saussure e Starobinski.12 Ricordiamo un caso bellissi- mo: si accorge che dietro il reiterato Addio di Promessi sposi VIII, si cela il nome Adda, ultima parola del capitolo.13 E poi produce nella sua poesia legami analoghi: parole segrete nascoste den- tro altre parole. Constatiamo che nei titoli Il cOllo dELL’anItRa e L’ORlo dELLa vIta è contenuto per intero il suo nome, ORELLI (parziale in L’ORa deL tEmpo, e in SpiRacOLI). Forse anche per questa firma interna agisce il modello di Pe- trarca, visto quello che Orelli scrive del primo sonetto del Canzoniere:

Ma, nelle solide borchie del verso che chiude la fronte, non sarà paragrammato il nome del poeta? Il primo a dirmelo è stato Furio Brugnolo dell’Università di Padova. Il so- netto essendo proemiale, inclino a crederlo anch’io: spPEro TRovAR pietà, non CHE perdono (PE-TR-AR-CHE).14

45 Silvia Longhi

Ricordiamo bene certi suoi grovigli di anagrammi: È grama, Mauro, al Muro di Grammont!; le dure mele di Kafka, due merli.15 Le catene di sillabe ripetute, in versi come sei scosceso per costa così subdola e Certo d’un merlo il nero; o magari un intero componimento artificioso, che sembra una delle strofette di Toti Scialoja:

Un giorno caldo di luglio un corvo dopo accurate curve digradanti si accorse che non c’erano carcasse tra quei tronchi e scusandosi quasi lasciò che mi corresse il sole in pace.16

Orelli era dotato di una memoria fuori del comune, anche perché allenata fin dall’inizio. Una volta ha raccontato in un’intervista che il suo dominio della metrica era dovuto al fatto che conosceva e recitava a memoria le Odi di Orazio. Una memoria “parlata”, dunque: in grado di resuscitare e sgranare sul momento centinaia di versi danteschi. Queste pregevoli abitudini scolastiche purtroppo si sono perse. Quando ero al liceo “Alessandro Volta” di Como, il professore di italiano ci imponeva di imparare a memoria lunghe tirate di terzine: un’interro- gazione poteva consistere nella recita di un canto della Commedia, che lui ascol- tava rapito, a occhi chiusi. Si chiamava Gelpi, Giacomo Gelpi. La mia mente è rimasta impressionata per sempre da questo esercizio.

3. Parole animate, parole come azioni, e la parola «cosa» Orelli tratta le parole, che dànno corpo fisico al «disegno del pensiero»,17 alla stessa stregua di esseri animati: usa «fare festa» agli animali – che lo ricambia- no con perfetta reciprocità – e ugualmente «festeggiare» (verbi entrambi ben suoi)18 un nesso, un costrutto, una rima, un dantismo. Per lui le parole fanno azioni concrete: pungono, scottano, si chiamano, si inseguono, si attraggono, si attaccano, fanno coppia, si torcono, si aggrovigliano, e via dicendo. In un’intervista del 2012, Orelli ripete una definizione dantesca della poesia che gli è cara, e che ha citato in varie occasioni: «Fabricatio verbo- rum armonizatorum. Costruzione di parole armonizzate. In poesia le parole si chiamano. Questo è uno dei segreti della poesia ed è di importanza enorme. A volte è inconscio, a volte consapevole. È un’avventura mai finita».19 Sfogliamo l’ultimo libro di critica, La qualità del senso,20 e puntiamo l’atten- zione sui saggi ariosteschi, alla ricerca di esempi che mostrino questa consape- volezza delle parole che compiono azioni. Occupandosi della prima ottava dell’Orlando furioso, Orelli devia sull’inizio della Gerusalemme liberata: per misurare la differenza tra il discreto io canto col- locato in una posizione riparata dall’Ariosto, e l’esibito Canto piazzato del Tasso nella posizione più esposta; quindi soppesa e valuta il secondo verso tassiano: «un verso tra i più scricchianti che si conoscano, che il GRan sepolCRo liberò di

46 Le sillabe di Orelli

CRisto, atto (si direbbe) a scoperchiare il sepolcro consumando fin dal principio l’impresa» (p. 34).21 A proposito del verso ch’in bel giardin su la nativa spina (Orlando furioso I 42, 2) Orelli annota: «subito colpisce l’attività straordinaria di /i/, lettera della luminosità e della trafittura» (p. 45). Una precisazione: questa sensibilità agli effetti della lettera i è una costante. In Sinopie si legge questo passo intarsiato di dialetto del Mendrisiotto e di latino:

gli chiede una ragazza da un muretto Che ur a in? dalla u alla i quasi come in Virgilio o nel Folengo: barathrùm oculìs; e la i della massaia che forse litiga col marito, Dìu Dìu (dopo un silenzio, crepa), trafigge anche più in dentro.22

E nel libro Il suono dei sospiri è intitolato Sonetto in «i» il capitolo dedicato a Petrarca 191 Sì come eterna vita è veder Dio. Con massima evidenza poi, in una delle lezioni su Petrarca, Orelli scandisce e prolunga con enfasi quella che chiama la «figura perVI » di un luogo dantesco: Dal primo giorno ch’i’ VIdi il suo VIso / in questa VIta, infino a questa VIsta (Par. XXX, 28-29); e si rallegra dell’effetto speciale, quasi ridendo: «è incredibile! è incredibile!» Aggiungo pochi altri prelievi ariosteschi di La qualità del senso: ci sono paro- le scivolose, come il «viscido» (p. 55) del sintagma peSCI uSCIr nel verso Alcina i pesci uscir facea de l’acque (Orlando furioso VI 38, 1).23 E ci sono parole pesanti, come il grosso tonno di vi venìa a bocca aperta il grosso tonno (Orlando furioso VI 36, 2): «Dopo la lunga riga dei delfini trionfano /o/ e /a/ per questo tonno molto divertente: grosso tonno è sintagma compatto e grave che fa dimenticare la mezzaluna della coda» (p. 62). Come ultima curiosità, vorrei sostare sulle implicazioni di una parola impre- cisa, indistinta, e massimamente accogliente, la parola cosa. Che impiego ne fa Orelli? Nelle sue poesie è una parola primaria, del linguaggio iniziale: una paro- la tipica dell’uso dei bambini. Esempi divertenti in Sinopie: «Devo dire una cosa alla tua ascella / una cosa pochissimo da ridere» e «Vedo una cosa che comincia per gn / Cosa? / Gnente» (Dal buffo buio, pp. 36-37); «Mia figlia ha un bel dir- mi: dimmi una cosa / che comincia con la r in mezzo» (Strofe di marzo, p. 71).24 Come lettore, Orelli prende in considerazione gli usi della parola cosa nei suoi grandi modelli: Petrarca e Dante. In Il suono dei sospiri (p. 52), commen- tando il sonetto petrarchesco Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, accosta al v. 9 «Non era l’andar suo cosa mortale» il rinomato «e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra» di Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare, vv. 7-8. Più avanti (p. 139), si ferma sul nesso cosa-oscuro-(n)ascondere nel finale del sonetto 218 «tanto et più fien le cose oscure et sole, / se Morte li occhi suoi chiude et ascon- de»: «cose – afferma – è subito ingoiato da OSCurE, a sua volta prolungato come

47 Silvia Longhi caligine da aSCOndE». E porta il riscontro di Par. XXIII, 3 la notte che le COSE ci NASCONDE, e dei primi versi dell’Inferno, dove selva OSCURA rima con COSA dura. Ma l’indagine più proficua riguarda Manzoni, col saggioUna cosa manzonia- na.25 Nel capitolo VI dei Promessi sposi, i dialoghi perplessi e incerti tra Agnese, Renzo e Lucia si avvolgono ripetutamente intorno a uno stesso sintagma, la cosa: che sostituisce (velandolo, tenendolo a distanza) un concetto difficile da pronunciare a chiare lettere, il cosiddetto “matrimonio di sorpresa”, cioè l’e- spediente estremo che Agnese raccomanda, che Renzo accoglie con eccitazione, ma a cui Lucia oppone resistenza. Di battuta in battuta: «la cosa è facile», «la cosa mi par troppo bella», «i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene», «Se è cosa che non istà bene, non bisogna farla», «quand’è così, la cosa è fatta», «o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perché non dirla al padre Cristoforo?», «vedo che, per far questa cosa, come dite voi, bisogna an- dar avanti a furia di sotterfugi, di bugie, di finzioni». L’analisi insistita di Orelli mostra come una parola così neutra si colmi di allusioni ambigue, di timori, di pensieri riposti. Noto, per controprova, che il termine evitato, matrimonio, sottinteso a tutto l’insieme, esce fuori di necessità solo in contesti esplicativi: come quando Renzo (sempre nel capitolo VI) illustra a Tonio il servizio che vuole da lui, cioè che gli faccia da testimone:

Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il mio ma- trimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che, presentandosegli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell’e fatto.

Vorrei insinuare che, a partire dalla proibizione dell’inizio «questo matri- monio non s’ha da fare», l’interdizione di fare diventi anche veto e censura, o almeno grosso ostacolo, a dire. Mi permetto anche un’osservazione scherzosa: I promessi sposi è un titolo reticente, evasivo, che non dice niente dell’azione. Manzoni avrebbe ben potuto intitolare il romanzo: Il matrimonio impedito, sull’esempio di La Gerusalemme liberata, o La secchia rapita; oppure Le nozze di Renzo, come Le nozze di Figaro (data la sua familiarità con il libretto di Lorenzo Da Ponte, in cui Figaro e Susanna sono, appunto, «promessi sposi»). Nel seguito del suo saggio, Orelli snida una seconda occasione di impiego “forte” della parola cosa, entro i capitoli XXVI e XXXVI: dove la cosa, questa cosa, significa il voto di Lucia, che è un fatto penoso, difficilissimo da comunica- re alla madre, e poi a Renzo. Una cosa che una volta fatta è fatta, «una cosa che, quand’anche dispiacesse, non si può cambiare»; e che – dopo la sopraffazione di un prepotente – costituisce il secondo impedimento della storia al matrimonio dei due promessi. E dunque cosa di nuovo è parola piena di paura e di angoscia.

48 Le sillabe di Orelli

1 S. Longhi, Anitre, acqua e fonti letterarie, in “Quaderni di critica e filologia italiana”, 1 (2004), pp. 257-268. La raccolta poetica esaminata è Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001. 2 G. Orelli, Da «Rendevous», in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, vol. I, pp. 9-10. 3 Id., L’orlo della vita, a cura di P. De Marchi e P. Montorfani, in “Poesia”, 289 (2014), gennaio, pp. 30-38: i testi che ci interessano a p. 36 (senza numero d’ordine). 4 Mi servo dell’edizione: Dante Alighieri, Il Fiore – Detto d’Amore, a cura di L.C. Rossi, Mondadori, Milano 1996, di cui sfrutto anche il ricco commento. 5 Consigliere per la Sicurezza nazionale di George W. Bush dal 2000 e poi Segretario di Stato degli Stati Uniti dal 2005 al 2009. 6 Riprodotta nel già citato numero della rivista “Poesia”, p. 38. 7 G. Orelli, Un sonetto del «Fiore», in Id., Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978, pp. 33-50; Tornando al «Fiore», in Carmina semper et citharae cordi. Etudes de philologie et de métrique offertes à Aldo Menichetti, a cura di M.-C. Gérard-Zai, P. Gresti, S. Perrin, Ph. Vernay, M. Zenari, Slatkine, Genève 2000, pp. 261-279; Dante del «Fiore»: son. CVII, in La ricerca e la passione come metodo. Omaggio a Romano Broggini, a cura di G. Margarini, F. Panzera, A. Sargenti, Alberti Editore, Verbania-Intra 2005, pp. 471-476. Ma una delle novità maggiori che emergono dal presente convegno è il ponderoso studio inedito sul Fiore di cui dà conto Ottavio Besomi. 8 Della sua vecchia Olivetti parla la poesia In memoria, in Il collo dell’anitra, p. 29. 9 G. Orelli, Accertamenti verbali, pp. 51-65 e 67-81. 10 Id., Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990. 11 Petrarca riconosceva questa appropriazione per altri autori (Virgilio, Orazio, Boezio, Cicerone), da lui letti non una volta ma mille, e entrati nel suo sangue, e fatti tutt’uno con il suo ingegno, in un passo celebre delle Familiares (XXII 2, 12-13): Orelli lo ricorda in Il suono dei sospiri, p. 125. 12 J. Starobinski, Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, Galli- mard, Paris 1971. Orelli fa menzione di questo saggio in Accertamenti verbali, p. 129 e nota. 13 G. Orelli, Quel ramo del lago di Como e altri accertamenti manzoniani, Casagrande, Bellinzona 1990, p. 63. 14 Id., Il suono dei sospiri, p. 29: ma Gilberto Lonardi rivendica questa trouvaille. Di por- tata generale lo studio di P. De Marchi, Petrarca nella poesia di Giorgio Orelli e di altri poeti della Svizzera italiana, in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, Atti del convegno (Roma 4-6 ottobre 2001), a cura di A. Cortellessa, Bulzoni, Roma 2004, pp. 255-270. 15 G. Orelli, Il collo dell’anitra, pp. 21 e 75. 16 Id., Spiracoli, Mondadori, Milano 1989, pp. 49, 95, 71. 17 Negli Accertamenti verbali, il primo capitolo si intitola Ritmi, timbri, il disegno del pensiero. 18 Ripeschiamo il verbo nel Fiore 172, 14 Po’ dimora con lui e fagli festa (“fagli festose accoglienze”). 19 Intervista rilasciata a Guido Grilli, apparsa su “La Regione Ticino” del 21 aprile 2012, in occasione dell’uscita del libro La qualità del senso (vedi la nota seguente). L’intervista è accessibile sul sito delle Edizioni Casagrande. 20 Id., La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi, Casagrande, Bellinzona 2012. 21 Già lo affermava in Il suono dei sospiri, p. 11: «Del pari accade che il 2° verso della Liberata, che il GRan sepolCRo liberò di CRisto, sembri espressionistico nel consumare, come fa, scricchiando tre volte – come stessimo di colpo davanti al sepolcro nell’attimo che lo scoperchiano –, tutta l’attesa psicologica e metafisica che la crociata importa, e la crociata stessa». 22 Id., Sinopie, Mondadori, Milano 1977, p. 29.

49 Silvia Longhi

23 Orelli aveva una predilezione anche per il sintagma appiccicoso tenace pece dell’arzanà dei Veneziani (Inf. XXI, 8), «che sembra designare, si direbbe continuare materialmente […] la sozza merce appiccicaticcia in cui poi vediamo immersi i barattieri» (Accertamenti verbali, p. 11; e vedi Il suono dei sospiri, p. 161). 24 Sempre in Sinopie, ma su un registro serio: «Certo, se penso cose tristissime […] se penso / cose bellissime» (A un filologo, p. 45). 25 Id., Quel ramo del lago di Como, pp. 65-80.

50 CLELIA MARTIGNONI Per Giorgio Orelli narratore

Versatile e raffinato, Giorgio Orelli è soprattutto poeta di prima grandezza (nonché saggista finissimo, e superbo traduttore), che in più di settanta anni di poesia con riserbo ed eleganza ha edito nella sostanza quattro libri poetici (mon- dadoriani salvo l’ultimo, per Garzanti), quattro come Sereni: L’ora del tempo (1962), frutto di selezione del lavoro dai vent’anni ai quaranta; Sinopie (1977), Spiracoli (1989), e Il collo dell’anitra (2001).1 Sanno gli orellisti che Giorgio Orelli ha lasciato i materiali, non perfettamente finiti, ma lungamente elaborati, di una quinta raccolta, L’orlo della vita (titolo dantesco – Purg. XI, 128 – come già L’ora del tempo), di cui aspettiamo l’edizione dal fedelissimo Pietro De Mar- chi, che ce ne parlerà in questi giorni. Qui ho scelto di inoltrarmi nel settore meno battuto della prosa narrativa, abbastanza esigua per mole, nel desiderio – tra esperti di lunga data come i pre- senti – di limitarmi in sentieri laterali però ben congiunti ai primari, come hanno ben illustrato tutti i critici e lettori. Segnalo in particolare un saggio molto ricco di Massimo Danzi, letto a Losanna nell’87, ed edito su “Autografo” nel 1989;2 più recentemente l’intervento di Pietro De Marchi, che introduce la benemerita riedizione zurighese bilingue (2012) di Un giorno della vita (il testo di De Mar- chi è ripreso con incremento di note nel numero speciale di “Bloc notes” del maggio 2014),3 e si aggiungano le incisive pagine di Alberto Nessi nello stesso “Bloc notes”. De Marchi ha anticipato in altra sede (“Poesia”, 289, gennaio 2014, scri- vendo per la scomparsa del poeta), che L’orlo della vita include anche «alcune prosette narrative, sapide di aneddoti e di ritratti di personaggi rustici e vitali, specie dell’Alta Leventina»: come già avveniva nel Collo dell’anitra, a marcare gli sconfinamenti poesia/prosa e le intime contiguità. Due dati bibliografici: Un giorno della vita esce nel 1960, Milano, Lerici edi- tore, ma attenzione alla collana: “Narratori italiani” diretta da due illustri amici toscani, Romano Bilenchi e Mario Luzi, con cui Orelli respira aria di famiglia. «Toscano di Svizzera» fu definito argutamente da Contini, primopatron delle sue poesie, in opposizione all’etichetta «lombardo di svizzera» coniata da Lu- ciano Anceschi per la sua controversa antologia Linea lombarda del ’52.4 Così ricorda Orelli in un pezzo raccolto nel postumo Quasi un abbecedario (Casa- grande, Bellinzona 2014) che Yari Bernasconi ha derivato in parte da conversa- zioni orali, e che per noi ha particolare interesse anche se le trenta “voci” sono difformi, ellittiche, di linguaggio confidenziale.5

51 Clelia Martignoni

Qui è inclusa appunto la voce “Toscano di Svizzera”, dove si citano le intui­ zioni di Contini negli anni quaranta, in margine non alle poesie ma alle prose («quei magri raccontini» che Orelli ricorda di aver dato in lettura al Maestro nei corridoi dell’Università di Friburgo). La diagnosi di Contini fu fulminea: Cassola, La visita. Orelli aggiunge: Bilenchi, ed Emilio Cecchi (di cui altrove nell’Abbecedario ricorda l’intensa America amara), quel Cecchi amato, sotto- lineo in margine, persino dal moderno e inquieto Calvino, che ne apprezzava, nonostante il conservatorismo ideologico complessivo certo non condiviso, ap- punto l’inquietudine, la vena sulfurea e incandescente, lo stile straordinario, citando l’abbagliante incipit dei Pesci rossi.

Un giorno della vita precede di poco il sintonico L’ora del tempo: due libri dicia- mo “verdi” e paralleli, da leggere insieme. “Verdi” sia per la giovinezza dell’au- tore (i pezzi raccolti vanno in entrambi dai vent’anni alla quarantina) sia e più ancora per la comune ambientazione en plein air, sottilmente agreste-boschiva. Alberto Nessi appunta finemente in “Bloc notes”: «Orelli prosatore alla fine degli anni cinquanta tesse reti di ragno nelle quali restano impigliate mosche, cetonie, anche qualche cavolaia», e cita con ragione un altro nitido prosatore to- scano, Nicola Lisi. La metafora della ragnatela di Nessi ha fitti appigli testuali in Orelli (la relazione di Stefano Agosti ha commentato ora con magistrale finezza poesie recenti sul tema) e rinvia inoltre all’elegante epistola in versi di Contini premessa a Né bianco né viola (1944),6 costruita su ragno e ragnatela attraverso ben tre passaggi: 1) un autoritratto dell’autore, che si assimila a «quei ragni verdi, trampolieri in bilico / su otto filamenti»; 2) la poesia «infinitesima» di Orelli (riluttante allo «specchio di Narciso») sarebbe «strappata dalle viscere / come il ragno fa dello stame»; 3) la «ragnatela» di Orelli è «sistema esatto però fragile», da maneggiare con cautela (e si noti anche l’insediamento del concetto di «sistema», esperito in anni contigui dal fondatore della critica delle varianti). Un elemento-chiave di Un giorno della vita è la coincidenza di tasselli tra prosa e poesia, già ben sondata nello studio di Massimo Danzi sino a Sinopie, ed estesa da De Marchi alle raccolte poetiche seguenti, Il collo dell’anitra e testi più recenti. Il caso più celebre, che cito per affezione ma già molto interrogato dai lettori precedenti, è la splendida martora con la «gola d’arancia» de L’ora del tempo, uno dei luoghi più affascinanti, dantescamente nutrito, della poesia orelliana.7 Importanti gli anticipi sparsi dei testi (dal ’45 via via negli anni cinquanta anche a ridosso dell’edizione in volume, cui nessuna prosa arriva inedita),8 e non meno interessanti le riprese successive, come in particolare Pomeriggio bel- linzonese del 1978,9 esito di Pomeriggio d’estate, con dilatazione testuale molto significativa. Tornerò su entrambi i casi, anticipi e riprese. Se è ovvia l’autosufficienza delle prose-racconto, per converso va ribadito che il libro del ’60, aereo e fluido nel timbro, è interconnesso in macrotesto grazie a isotopie di più tipi: tematico-ambientali, strutturali e “narrative”, con personaggi ricorrenti, condivisi con le poesie stesse (Zalèk, Pasquale, il padre),

52 Per Giorgio Orelli narratore e grazie a chiare convergenze tipologiche e di registro. In quest’ultimo senso, indicherò come modulo privilegiato del libro (ricorrente anche nelle poesie) la “passeggiata”, con o senza bicicletta: passeggiata sentimentale ma ironica, svagata ma di vivo realismo, divagante, affabulante, a zonzo con ilare vitalità paga di sé attraverso campagna e montagna, lungo il fiume o verso la città. Pas- seggiata alla Robert Walser, per intenderci: e Walser emerge non una sola volta nel senile zibaldone Quasi un abbecedario. A Walser rêveur e promeneur, mite e lievemente anarchico, di psicologia molto fragile che ne tormentò via via l’e- sistenza, si deve almeno l’incantevole Passeggiata primonovecentesca, tramata di leggerezza, dove come in Orelli non succede nulla, nulla si conclude, ma che sul filo del caso e in schema modulare-lineare brulica di incontri, visioni, rumo- ri, svaghi, momenti evanescenti, increspature emotive e sensoriali (per Orelli si annetta senza divergenze la “passeggiata” in treno, pure aperta a fortuite occa- sioni). La struttura testuale deriva da, e coincide con, la passeggiata stessa, nel fantasioso vagabondaggio: il modulo è accogliente, ed è insieme tema e forma stilistica, combinatorio a piacere. Lo vedremo per stralci nei passaggi varianti- stici, in particolare nell’evoluzione dal Pomeriggio d’estate del volume al Pome- riggio bellinzonese del 1978. Ecco nell’Abbecedario, stralciando dalla voce dedicata a Walser:

Io sono walseriano per la pelle. Lo leggo in italiano e in tedesco. Anche le poesie. Le sue qualità sono tali da non temere incrinature nei secoli dei secoli. Il pregio fondamentale di Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo. […] Ottenere molto con poco è uno dei grandi desideri dell’artista: del pittore, del poeta… E Walser ne è maestro.

Se alla “passeggiata” di Orelli compete più di tutto il marchio nitido di Wal- ser (tanto che sarebbe utile riservare sondaggi comparati – anche in lingua ori- ginaria – al rapporto testuale tra i due, per rilevare precisi prelievi), neppure va trascurata la frequenza di tale tecnica-tema in Palazzeschi poeta, caro a Contini e al gruppo friburghese, con gusto più spiccatamente sperimentale-beffardo-da- da (e con rinvio pure a certe modalità di Apollinaire). In Orelli concorrono poi altri apporti tonali: la malinconia amarognola dei racconti del diletto Čechov, la grazia anche crudele di Bilenchi, specie nel clima campagnolo e pensoso del Conservatorio di Santa Teresa.10 (Dietro, l’ombra grave e sofferente di Tozzi). Senza scordare la scarna e primitiva letizia di Lisi.

Osservando da vicino il libro: tredici i racconti, quasi sempre gestiti da un io narrante (che somiglia molto all’autore), tranne quattro casi (Ampelio, Serale, Veronica, Un giorno della vita, tutti con protagonisti maschili). L’ultimo dei tre- dici dà il titolo alla raccolta (che è, quasi alla lettera, una citazione da Luzi). Le misure dei testi non divergono granché: molto brevi l’iniziale Scherzo (quasi un sogno, con clima alla Grand Meaulnes, romanzo-culto del 1913 della NRF, mol- to influente in cerchia toscana all’epoca di “Solaria” e oltre, sospeso tra sogno/

53 Clelia Martignoni veglia/fiaba), di sole tre pagine, come, al centro,Per un filino d’erba. Più distese e articolate le due suites contigue dal titolo musicale (come già Scherzo): in par- ticolare la Suite provinciale. Fitte e realistiche sono la topografia e la toponomastica, la botanica e il be- stiario, quasi accaniti. I luoghi sono nominati con tanta insistenza, nei suoni non di rado aspri, da far desiderare a un lettore non ticinese il conforto di una minu- ta mappa del luogo. Alberto Nessi, che è nativo di Mendrisio, scrive infatti: «La rete orelliana si tende da nord a sud del nostro angolo di mondo, dalla leventina al mendrisiotto […] dai prati in ripido declivio del paese del padre alla conca dolce dov’è nata la madre», con competenza che piacerebbe condividere. Nelle escursioni fuorivia il taglio non cambia. Vedi Cristina: al mare con gli amici, nella ligure Riva Trigoso, che assicura una degustazione verbale tipica- mente orelliana (p. 46: «Dopo Riva non par vero che ci sia una parola ingorda come Trigoso»), e vede anche un omaggio all’amico Bo («Riva Trigoso, pensai, chi m’ha detto, che è il paese di Carlo Bo?»). Da rilevare il titolo malizioso,11 di assenza ed ellissi. Cristina è infatti il nome della donna che mai si vede, evocata lungo tutto il racconto. Sosta al lago d’Iseo: altra gita lombarda, con personaggi un po’ bislacchi come spesso in Orelli, ben caratterizzati, al pari della simpatica e impropria colloquialità (nella battuta femminile registrata in discorso diretto, la «donnina dal naso a saltamartino» dice all’io narrante: «Un uomo come lui dovrebbe sposarsi […] Lui avrà trent’anni, scusi neh», p. 62, corsivi nel testo). Un giorno della vita, eponimo e finale, trasporta in «Alemannia» (metà in tre- no metà nella visita al convento del protagonista Antonio per visitare la sorella Ausilia che lì studia), con inconcludenza distratta ed evanescente come il viso femminile tracciato dal protagonista con il dito sul finestrino del treno. Signifi- cativo l’explicit, nel segno del non concluso, che è nel contempo l’infinitamente ripetibile, agro e dolce:

Fuori, il buio gli dà un senso di tepore dimenticato dall’adolescenza, e a braccetto delle due ragazze, per la campagna segnata di poche luci, ecco che racconta perfino delle storie, brevi storie d’inverno, come meglio può nella lingua della Rosemarie (p. 238).

Come nella poesia, il libro è gremito di riferimenti a fatti del «de re rustica»: abitudini, cicli, stagioni, riti, animalità e naturalità vegetale mista a umanità, con tangibile e ingordo gusto dell’esistenza (tra i lemmi più ricorrenti: “allegria”, “ilarità”, “contentezza”, con sinonimi e derivati). La naturalità diffusa acco- glie anche trapassi quasi metamorfici, come nel consentaneoL’ora del tempo, ospitando rassegne e presenze infinitesime, per riusare l’aggettivo opportuno di Contini, captate al microscopio. Sui transiti umano-animale-vegetale (dentro un clima di comparazione domestica), si veda solo qualche campione: la betulla di Ampelio (p. 22) «sembrava non osasse appoggiarsi contro un nero masso liscio»; il cuccù fa un «grido concavo e sempre solitario», p. 22; e le «enormi ortensie» di Scherzo «parevano navigare nel loro verde serale», p. 18,12 attestando più in generale un animato analogismo diffuso, talora di registro lieve talora rilevato e

54 Per Giorgio Orelli narratore saliente,13 affidato non solo a frequenti similitudini e metafore, ma anche al vei- colo dei verbi parere/sembrare. Ancora: il vecchio di Pomeriggio d’estate salta come «un uccello che emettesse dei gridi freschi e naturali solo in apparenza», p. 34; per converso la scimmia ha la «testa da giudice», p. 30; e «le pietre del- la riva […] biancicavano come ossa», p. 34; in Cristina, «la macchina sembra un’enorme cetonia», p. 42, e un’altra, ivi, «ha un cuore che sfarfalla con fedeltà commovente», p. 44; la bicicletta ha la sella «molto rialzata e sottile, simile a uno strano uccello», p. 52; le turiste straniere sono dette «nordiche uccelle dal lungo collo, biancorosate» (Sosta al lago d’Iseo, p. 58); il padre chiama «con un fischio breve di marmotta», ivi, p. 68; e in Suite provinciale così si legge di un personaggio: «Somigliava sempre più, il mio amico, a certi funghi forse velenosi, parlava tra il viola e un giallastro», p. 152. Se per decifrare la topografia si è evocato l’ausilio di una mappa dei luoghi del passato e del presente, così e tanto più (consentendo con il discorso di fondo di Pietro Gibellini) si desidererebbe per Giorgio Orelli uno scavo antropologi- co, tra i materiali della civiltà montana e contadina,14 che ne racconti i segreti e il senso profondo, portando alla luce riti, costumi, canti, locuzioni, linguaggio e dialetti.15 Penso alla stessa forte insistenza del motivo feroce e arcaico della caccia, in specie nel violento La morte del gatto, dall’agro odore di vita cattiva, alla Tozzi. Se ne veda la conclusione:

Il gatto non ha avuto bisogno di girarsi gran che perché Basilio gli spruzzasse i pallini in faccia. – I gatti hanno nove vite, – dice poi, – e io volevo ammazzarlo con la prima cartuccia. Questo lo do al Pèpi prestinaio, che è un pezzo che mi dice se posso dargli un gatto per una cena. La pelle, vedrò (p. 148).

Ed ecco in Cristina come si presenta l’affittacamere con pseudo urbanità piccolo-borghese:

Vera Machiavelli arrivò dopo, avevamo finito di mangiare e accettò volentieri una sigaretta. – Scusino, – disse, – se vengo solo adesso. Ho dovuto sgozzare tre vitelli stamane. Piantata davanti a noi, le maniche rimboccate, le braccia forti come quelle d’un boscaio- lo: Lady Machiavelli, pensai, costei è lady Machiavelli. Non mi sarei stupito di discernere tracce di sangue sulle sue mani (pp. 52-53).

Dall’intreccio di tanti fattori il libro ricava nell’insieme un quasi-autobiogra- fismo di ruvida materialità antropologica, ironizzato e arguto, a tratti favoloso, ciarliero e affabulante, ma non idillico. Alcuni testi (specie Ampelio, lo stesso fiabesco Scherzo) sono vicini anche al gusto del racconto di formazione (bilen- chiano, già aspramente tozziano, e molto solariano). Approfondendo il discorso sulla struttura “passeggiata”, ne possiamo osser- vare il felice impiego in Orelli esaminando qualche campione testuale e verifi- candone la tenuta negli interessanti passaggi variantistici. I nostri spogli sono

55 Clelia Martignoni ampi, ma parziali e duplici, coinvolgendo sia il cospicuo recupero di Pomeriggio d’estate dal volume del 1960 alla ripresa del 1978 Pomeriggio bellinzonese (cfr. qui nota 9), sia l’evoluzione di una serie di testi dagli anticipi in rivista all’edizio- ne in volume. Partiamo dal caso di Pomeriggio d’estate, nonostante sia seriore, perché molto illuminante, e poi vedremo i campioni dell’altro tipo. Nella versione in volume Pomeriggio d’estate accumula linearmente una serie di bizzarri incontri minimali, di freschi “improvvisi”, tutti dotati di grande reali- smo ma con accenti anche fantasisti-surreali, ognuno dei quali soppianta lieve- mente il precedente. Li elenco in breve: un io narrante spensierato e fanciullesco raccoglie per strada una gran quantità di biglie, mentre esce in bicicletta di casa (la città si esplicita in Bellinzona solo nella ripresa del ’78); gli balza sul portapacchi una scimmia, dalla «testa da giudice che ha appena tenuto giudizio o lo terrà fra poco», p. 30, che poi scappa;16 il protagonista evoca un gufo in cui si era imbattuto giorni prima; vede una donna distesa al sole (la Cleopatra) «che nell’ombelico ha un ciuffo di prezzemolo», ibidem, con cui scambia un saluto; arriva un vecchio magrissimo, padre di un amico morto in giovane età, che gli si unisce per un tratto parlando fittamente e lo accompagna sul fiume, l’io narrante se ne congeda; ripre- sa la pedalata incontra una giovane che gli racconta di sé e di sue sciagure familia- ri, il protagonista le commissiona pietosamente un paio di calze; sopraggiunge di corsa una ragazza del paese in bikini che ha perduto gli abiti (l’io narrante pensa a un furto dalla scimmia); si rivede il vecchio solo e silenzioso; l’io narrante rien- tra in città e sale verso casa. Il rifacimento del 1978 è espanso con inserzione di divagazioni o apparizioni, che la struttura modulare accoglie con agio, accrescen- dosi di molte pagine. Qualche esempio delle consistenti aggiunte. Nell’incipit, la descrizione della città, inizialmente breve e sforbiciata ritmicamente da virgole, è inciampata e protratta da dettagli a profusione, germinanti impressionisticamente e con slancio deittico da sensazioni, ricordi, visioni, analogie. Ecco i due testi a confronto (nel secondo segnalo con il corsivo i tasselli aggiunti):

L’altrieri la nostra piccola città pareva tutta vuota, e andando per vicoli e piazzette, ecco, qua e là, in un poco d’erba, su uno scalino, ma specialmente per terra, io altro non tro- vavo che biglie, biglie tutte di media grossezza, variegate (p. 30).

L’altrieri la nostra piccola città pareva tutta vuota, e andando per vicoli e piazzette, da un monumento all’altro, e sul Viale della Stazione da una banca all’altra (bisogna che un qualche dì le conti: l’ultima l’hanno scavata dentro alla roccia del castello di mezzo), ecco che qua e là, in un poco d’erba, su uno scalino, ai piedi d’una statua, ma specialmente per terra fra dadi sconnessi, altro non trovavo che biglie, biglie tutte di media grossezza, va- riegate, dentro alle quali frugavo con gli occhi per rintracciarvi chi sa che. Eh finito il tempo che soldi trovavo, monete da cinque, che sembrano da cinquanta, e da dieci, venti, cin- quanta centesimi improvvisamente luccicanti, o quietamente opache, dimesse, o sporche, tartassate; ma una volta ho trovato un franco che mi aspettava dalla parte dell’Elvezia su dal porfido, me lo ricordo come se profumasse di mughetto perché giusto in quel momento nella breve vampa di caldo artificiale (era dunque d’inverno) all’entrata dell’Innovazione passava una signora che da sempre si mette il profumo di mughetto, l’unico che le piaccia. Finito il tempo del denaro fiorito per strada, dove, quasi per un misterioso disegno com-

56 Per Giorgio Orelli narratore pensativo, nei giorni caldi (giravo intorno allo stadio per veder perdere la nostra squadra), vedevo come non m’era mai capitato lucertoline appena nate che guizzavano un po’ da per tutto come i bambini di Xuan Loc sul finire della guerra nel Vietnam (p. 3).

Un inserto molto più esteso è incuneato subito dopo, prima che balzi la scimmia sul portapacchi: la marcia in bicicletta sul sentiero lungo il fiume intro- duce cumuli di apparizioni e divagazioni, in un cicaleccio frizzante abilmente mimetico dell’oralità. Ecco ancora a confronto i due testi, ma, dato l’incremento massimo, qui segnalo in corsivo nel testo del 1978 i pochi elementi conservati, scusandomi della lunga citazione:

Ne riempii le tasche [di biglie] e intanto uscivo in bicicletta di città, m’avviavo al fiume. || Ma anche lungo il fiume non vedevo che biglie, biglie d’uguale grossezza, variegate: ormai non le raccoglievo più (p. 30).

Ho tolto e rimesso in tasca le biglie, e intanto con la nuova bicicletta d’argento e blu Giscard uscivo dal centro detto storico (anche per via dei topi) e mi avviavo senza fretta al fiume, lungo il quale scorgevo ancora qualche biglia d’uguale grossezza, variegata: ormai non le racco- glievo più. Andavo senza quasi pensare a nulla sul sentiero accidentato, o meglio devastato dai cavalli dei ricchi, badando di non sbattere contro le radici che sporgono dal terreno con quella specie di caparbietà e più d’una volta, mentre gettavo occhiate a destra e a sinistra, mi han fatto trabalzare e cadere al di sopra del manubrio come un fantino. Finora mi è andata bene e naturalmente mi dico che non devo profittarne, anche se, data la velocità minima, al massimo mi rompo un polso, non come quelle teste di casco dei motociclisti dell’Honda che sull’autostrada di là dal fiume passano via come saette con un fischio dell’altro mondo. Da un ponte all’altro, cemento, ferro, aspettandomi d’incontrare sotto un ciliegio il mio droghiere che somiglia a Yul Brinner e ha mandato un mucchio di soldi a Padre Pio, sempre lì in costume da bagno, in piedi come un benedettino nella sua cella, a prendere il sole fin quando non se ne va dietro alla montagna abbastanza vicina, anzi «troppo vicina»; i due vecchi che colgono i fiori d’un tiglio foltissimo, lei da terra, lui nascosto nell’albero, lei la prima volta mi ha detto: «il mio uomo lo beve anche freddo il tè», forse per farmi capire che c’era anche lui là dentro; la famiglia dell’immigrato calabrese che ha superato lo stadio dello stagionale, così al picnic possono prender parte anche i figli minorenni;…, se vado a destra; se invece prendo a sinistra, dove c’è più alberi più prato il camping il Percorso Vita il ponte che ha pensato bene di fermare e trattenere quasi ormeggiandolo il nostro collega suicida, poco ma sicuro che nel primo tratto arruffato incontro quella, pure in bicicletta con veste perlopiù azzurra straordinariamente svolazzante, che se le dico in tono tutt’altro che di fauno «si fermi signorina per favore! chi sa com’è vellutata lei! faccia vedere che le sarò riconoscente!», guarda come spaventata e scappa, certo scappa più da se stessa che da me perché non ha tempo, perché (con voce stridula, sì, da matta) cerca la vita su un altro pianeta, questo Percorso non le dice un bel niente; mentre più addentro nella boscaglia da una stazione all’altra del Percorso dà conforto e pace quasi già ultraterrena la vista della Fonsa che una volta faceva rallentare i camion gonfi di soldati acclamanti di sotto ai caschi «Fonsa! Fonsa!», una pelle d’occhi che le succhiavano in fuga un po’ del suo miele famoso, «famoso? macché famoso signor iddio, vede com’è la gente qui da noi che una volta battez- zati non c’è più niente da fare anche se tra le parole e i fatti c’è molta differenza», adesso a dir la verità non verrebbe neanche al fiume, non fosse per il cane prenderebbe il sole a casa

57 Clelia Martignoni sua; a buon conto né a destra né a sinistra, puoi star tranquillo, mai che salti fuori un uomo politico: gli onorevoli non onorano di loro presenza il fiume. I soldati sì, dalla caserma nuo- va al fiume è uno scherzo, nei giorni più strapazzati dalla sferza del sole anche il caporale più stupido e zelante conduce il suo manipolo di reclute al Ticino (pp. 59-61). La prosa qui si fa sempre più spigliata, condotta a rotta di collo quasi a gara con la passeggiata in bicicletta. Il testo iniziale è una griglia minima cui si appiccano le più varie irruzioni con scompiglio buffonesco e ilare. Sul piano dello stile, oltre alla dilatazione della struttura, si osserva come si diceva il gusto puntuale del parlato (già ottimo, ma molto più parco, nel libro del 1960, e in- crementato frattanto nelle raccolte poetiche), con affioramenti di battute altrui, e con usi tipici del discorso orale, come i “che” polivalenti, i frequenti sintagmi nominali, le locuzioni colloquiali, gli spostamenti di costrutto e visuale. La sin- tassi si espande in campate lunghe o lunghissime (si veda in particolare il felice virtuosismo di un solo periodo da «Da un ponte all’altro» a «gli onorevoli non onorano di loro presenza il fiume»), in parallelo si diradano i segni interpuntivi forti, sostituiti da punti e virgola scansionanti, e dalla prevalenza al caso di vir- gole (ma si vedano anche i punti sospensivi per allusioni lacunose). Esplorando l’intero racconto, emergono analoghe e stabili procedure estensive. Dalla griglia iniziale si diramano continui segmenti con le medesime modalità: cumuli di ap- parizioni, tipi, dettagli, e costante accrescimento del parlato, in un cicaleccio anche corale.17 Questo, come si diceva, in parallelo con l’evoluzione dello stile poetico, ma qui in totale sbrigliatezza desultoria. Passando ora brevemente agli anticipi in sedi sparse raffrontati con gli esiti in volume, le collazioni fanno emergere ancora inserti sistematici a tasselli (spes- so con incrementi anche sul piano del costume contadino) che non alterano e non intaccano nella sostanza la griglia iniziale, sottoposta a varianti puntuali interessanti ma esigue. L’espansione risulta nell’insieme notevole, ma ben in- feriore rispetto alla gran floridezza raggiunta in anni avanzati da Pomeriggio bellinzonese, cui si guarderà come a un’importante sperimentazione che salvo smentite parrebbe isolata. Non insisto oltre, riservando sperabilmente analisi dettagliate a «indispensa- bili tesi di laurea» (Contini). Più in generale preme sottolineare che la struttura digressiva e affabulante del racconto-passeggiata è la più idonea a reggere an- nessioni e tasselli vari, che non ne disturbano né la linearità né la leggerezza. Del resto già il Walser dell’omonimo racconto chiedeva comprensione della prolis- sità inevitabile.18

Un breve indugio sui finali. Quello di Pomeriggio d’estate con il rientro a casa è inconcluso in modo brillante, rinviando allusivamente alla ripetitività dell’esi- stenza, senza divergere in sostanza da Pomeriggio bellinzonese:

Meglio a piedi, stavolta. E appoggiarmi alla bicicletta. Non dalla parte del marciapiedi, ma dall’altra, a strapiombo su un torrente quasi asciutto, dove pareva che da tanto tem- po bambini e rifiuti non si chiamassero più (p. 40).

58 Per Giorgio Orelli narratore

Già si sono visti l’explicit svagato di Un giorno della vita; e la cruda battuta fi- nale della Morte del gatto, sempre ancorata al ritmo quotidiano dell’esistenza e del suo ripetersi. L’explicit di tutti i racconti testimonia nella forma differita e sospesa la natura volatile di questa scrittura, tanto più notevole in questo luogo testuale profondamente significativo. Anche in contrasto con il tratto fermo della scrittura, con la strenua precisione lessicale del grande stilista, con l’esattezza onomastica, ornitologica e botanica, comune a poeta e prosatore. Qualche altro esempio expli- citario: dall’amorosa passeggiata in coppia con le due bici di Serale:

– Te la racconterò un’altra volta, – disse. – Girammo una mezz’ora per le strade di Varese […]. Prometto di raccontarti tutto la prossima volta. Ciao. – Arrivederci, – disse l’Adriana (p. 84).

O da Veronica (dove il protagonista Giuseppe, segretario comunale di Martinen- go, segnala il figlio di una vecchia contadina, la Veronica del titolo, ma senza esito):

Più volte, pensando alla vecchia, avrebbe voluto mandarle in ricordo la copia della let- tera all’alto funzionario delle Ferrovie. Il quale non ha risposto mai. O perché non si degna, o perché teme di far errori d’ortografia (p. 98).

Da Primavera a Rosagarda:

Talvolta non incontro nessuno per il paese, Pasquale sarà con le bestie alla Spina, o a lavorare con l’impresa; vado a salutare il suo cavallo; vado a guardare il mio paese da tutte le parti; canticchio, fischio, colgo erbe o fuscelli, ne mastico; fingo di cacciare alla pastura qualche vaccherella o qualche capra (p. 132).

Dagli archivi arriveranno poi come sempre altri dati e altre scoperte, anche credo dai ricchi epistolari. Accenno brevemente, perché sembra un caso notevole, alla lettera riprodot- ta nella plaquette per i novant’anni del poeta I giorni della vita.19 A p. 34 è ripro- dotta una lettera a Contini del ’51. Così la chiusa: «E aspetto la primavera […]. Desidero uno strepito fitto d’elitre. Mi sento proprio un insetto, provvisorio come un insetto». L’immagine si ritrova puntualmente ne L’ora del tempo, Passo della novena («Poi, sul passo, guardare, stancarsi di guardare, / chiudersi nel rumore fitto d’elitre»), testimoniando l’osmosi ininterrotta non solo tra poesia/ prosa; ma anche tra scrittura privata ed epistolare e invenzione. Interconnesso nell’intera opera, coltissimo e di memoria scintillante, ricco anche per questo di implicazioni intertestuali più o meno segrete, sia lessicali sia metrico-ritmico-foniche sia culturali, che nulla tolgono alla sua sigla personale, Giorgio Orelli merita altri accertamenti e indagini, come queste giornate di stu- di confermano con nitida passione.

59 Clelia Martignoni

1 Numerose e notevolissime, come è noto, le plaquettes di anticipi e i libretti parziali: il tutto è censito ora da Pietro Montorfani, con la collaborazione di Yari Bernasconi, nell’utilis- sima Bibliografia di Giorgio Orelli, Edizioni Cenobio, 2014. 2 Cfr. M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in “Autografo”, 18 (1989), ottobre, pp. 3-20. 3 “Bloc notes”, 64 (2014), maggio, Bellinzona, pubblica un ricco Dossier a cura di Jean- Jacques Marchand: Ricordo di Giorgio Orelli, con interventi di: J.-J. Marchand, Y. Bernasco- ni, A. Buletti, P. De Marchi, S. Frigerio, G. Güntert, G. Isella, F. Medici, P.V. Mengaldo, A. Menichetti, A. Nessi, Giovanni Orelli, M.M. Pedroni, A. Roncaccia. 4 Nella voce “Anceschi” dell’Abbecedario Orelli, pur testimoniando affettuosa amicizia e gratitudine per l’inclusione nella Linea lombarda con altri amici, scrive però con finezza: «lui era più un teorico che non un critico nel senso che intendo io: cioè di vero e proprio lettore di testi poetici». 5 Nella Nota introduttiva Yari Bernasconi precisa la genesi, legata a un’inchiesta della rivista “Viceversa Letteratura” tra 2010 e 2011, e la natura dissimile delle voci, alcune stese direttamente da Orelli, altre trascritte dalla sua amabilissima conversazione. 6 Poi in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, a cura di R. Broggini, prefazione di S. Sal- vioni, Salvioni, Bellinzona 1981. 7 Nella prosa Ampelio di Un giorno della vita, «la martora, dalla gola color d’arancia» in fuga «su un pino» è colpita da un cacciatore (nella poesia: «fugge con la sua gola d’arancia»). Un’autolettura di Orelli del Frammento della martora, prezioso e fittissimo “accertamento verbale” (per la rivista svizzera “Quarto”, giugno 2000) è riprodotta in coda a Quasi un abbe- cedario. 8 Tutti i dati sono censiti nella Bibliografia di Giorgio Orelli. Dal lemma 1960. 7, p. 17, e dai relativi rinvii appare che molti anticipi avvennero sul “Corriere del Ticino” – il primo è Ampelio, 13 aprile 1945 – e su altre poche sedi ticinesi), o spesso nell’amichevole area fioren- tina (“La Chimera”, “Letteratura”, e soprattutto “Paragone”); ma anche in “Palatina”, sul “Verri” dell’amico Anceschi, e nell’“Approdo letterario” di Angioletti e Betocchi. 9 Nel bel libro a cura di Virgilio Gilardoni, Luci e figure di Bellinzona negli acquerelli di William Turner e nelle pagine di Giorgio Orelli, Casagrande, Bellinzona 1978. 10 Il bambino del racconto Serale, fratellino ipersensibile della fidanzata Adriana dell’io narrante, si chiama Sergio: un caso forse, ma Sergio è il nome del protagonista del Conserva- torio, ragazzo delicatamente in formazione, schivo e assorto, diviso tra l’affetto di mamma e zia, e ritratto con entrambe in lente passeggiate campestri 11 Che nella Chimera del 1955 era più referenzialmente Viaggio d’estate (cfr. Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 14). 12 In qualche modo vicina ad altra immagine: «i castelli sulle colline erano navi pronte per andarsene», Suite provinciale, p. 152, decisamente ripresa dall’amato Cardarelli: «Le chiese sulla riva paion navi / che stanno per salpare», Sera di Liguria (stabile nelle Poesie Mondadori, ma già in Giorni in piena 1934). 13 Come sono spesso salienti e intense sintassi e interpunzione, che andrebbero studiate analiticamente. 14 Vedi infatti per la poesia come l’enigmatica Sera a Bedretto (che prende spunto da una partita a tarocchi in famiglia) sia spiegata con acutezza particolare dall’intimo Giovanni Orel- li, nel numero di “Bloc notes” citato, pp. 120-123. Ma si veda già G. Orelli, Lettura di Sera a Bedretto, nella plaquette per i novant’anni di Giorgio: G. Orelli, I giorni della vita, a cura di P. De Marchi, con la collaborazione di S. Soldini, Casa Croci, Mendrisio 2011, pp. 15-18. 15 Per i canti, penso, sempre nell’Abbecedario, sotto la voce “militare (servizio)”, al cenno ai canti militari, emersi dal «Ticino spiritoso», come quello «della Manon», che non si riferi- sce all’opera di Puccini, ma a una canzonetta popolare. 16 Scimmia che a Nessi ricorda Daumier. 17 Su cui estrapolo almeno un segmento vivacissimo: dopo l’apparizione preesistente del gufo, si aggiunge ex novo un uccello misterioso: «C’è poi un uccello di cui parla tutta la falda del quartiere alto, che di notte, sempre alla stessa ora, verso mezzanotte, canta, per pochi

60 Per Giorgio Orelli narratore minuti, e nessuno, compreso l’ornitologo (capo caseggiato in caso di guerra atomica), è mai riuscito, non dico a vederlo, ma a sapere che razza d’uccello sia, non civetta come molti di- cono, no no, non allocco, o forse sì un allocco, macché allocco, ti dico io che è una tortora, domandi alla signora Benvenga come fanno a cantare le due tortorelle nel suo giardino, no no, questo qui fa un verso continuo né lungo né breve, appena più alto all’inizio, e dopo un cinque secondi un altro verso spezzato in due, brevissimo nell’avvìo e diverso dal primo, non nego che possano essere due gli uccelli, maschio e femmina che si chiamano e rispondono, chissà» (p. 62). 18 Cfr. dall’edizione adelphiana 1976 (trad. Emilio Castellani), p. 47: «Per tutte le lungag- gini, divagazioni e prolissità […] chiedo in anticipo umilmente scusa». 19 Cfr. nota 14. Contiene anche testi inediti di Orelli, e la ristampa di alcuni suoi “ricordi”.

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PIETRO GIBELLINI Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori

1. Oggetto, limiti e intenti L’oggetto del mio intervento è circoscritto, e almeno in apparenza assai limitato: si tratta della prosa Autunno a Rosagarda, pubblicata nel 1975 nel volume Pane e coltello che riuniva, con quello di Giorgio Orelli, altri quattro «racconti di paese» scritti da Piero Bianconi, Giovanni Bonalumi, Plinio Martini e Giovanni Orelli. Il fine, invece, è assai ambizioso, o forse scontato: caratterizzare la scrittura in prosa di Giorgio Orelli come quella di un narratore-poeta a confronto con quat- tro narratori-narratori (o narratori-saggisti), proponendo di leggere Autunno a Rosagarda come virtuale sequenza di “sinopie” in prosa, di “spiracoli” sul suo paesaggio esterno e interno. Il sottotitolo, Un poeta tra quattro narratori, l’ho scelto per chiarezza didattica, senza intenti provocatori: è naturalmente sempli- ficatorio, perché narratore seppur rapsodico era e sarebbe stato anche Giorgio (lo chiamerò così non per eccesso di confidenza ma solo per distinguerlo dal cu- gino Giovanni); d’altra parte anche Plinio Martini aveva iniziato verseggiando, e Giovanni era destinato ad assecondare anche la sua vena di poeta in dialetto e in lingua, al punto da bilanciare nella maturità la sua non rinnegata vocazione narrativa. Quanto a Bianconi e a Bonalumi, il loro profilo si presentava allora come quello di due critici e saggisti prima e più che narratori, ché del primo non poteva dirsi romanzo l’Albero genealogico (1969), “cronache” di emigranti stese con taglio memorialistico e storico e di cui la variazione offerta in Pane e coltello isola il motivo centrale, mentre il secondo, che pur aveva alle spalle un romanzo non privo di meriti e riconoscimenti (Gli ostaggi, 1954), era più noto come studioso di letteratura e docente nell’ateneo di Basilea. Il metodo che cerco qui di seguire non è propriamente quello degli «accerta- menti verbali» prediletto e praticato da Giorgio; non indugerò infatti sul signifi- cante verbale, sul «suono dei sospiri» (ne escono anche fra le righe di Autunno a Rosagarda), ma cercherò di caratterizzare, per dirla con il sottotitolo di Pane e coltello, il “paese” reale e mentale di Giorgio, ponendolo a confronto con i “paesi” degli altri quattro scrittori; metterò a fuoco le cose da loro guardate e la diversità dei loro sguardi. La piccola investigazione poggerà su tre mots-clés, o più modestamente mots-clous, tre chiodi cui agganciare il filo per stendere i panni delle osservazioni, esposte al vento che potrebbe farle svolazzare qua e là: Memoria, Passeggiata, Risentimento.

63 Pietro Gibellini

2. Pane e coltello, 1975

Correva dunque l’anno 1975; la Svizzera, come e più di altre parti d’Europa, vi- veva il momento della grande espansione economica, quando usciva dall’editore locarnese Armando Dadò quel volume quadrato ed elegante, dalla rigida coper- tina telata, di color verde oliva chiaro, con le pagine in carta patinata per acco- gliere le fotografie di Alberto Flammer, perfettamente intonate al soggetto (un sesto racconto, fatto per immagini). Poteva sembrare una strenna simile ad altre che editori con il gusto del bel libro preparavano nell’imminenza delle feste. Ma titolo e sottotitolo, ancor prima che il cast degli scrittori raccolti, facevano capire subito che l’intento non era quello di donare un libro-oggetto ispirato al dolcia- stro clima natalizio in cui domina un sentimento spesso superficiale di letizia. Il Chiarimento di apertura, siglato P.B. (certo Piero Bianconi, riconosciuto decano della pattuglia, come mi conferma Giovanni), dissipava il possibile equivoco:

Pane e coltello: quest’ultima parola non deve evocare truci immagini di sangue, l’espres- sione viene a dire semplicemente (con bella energia e non senza ironia), pane asciutto, pane solo: senza nemmeno la poca consolazione del facchino di Parigi, qui mangeait son pain à la fumèe du raust: come racconta Pantagruel a Panurge in mal di matrimonio, nel capitolo XXXVII del Tiers Livre. Pane e coltello; o come dice la nostra gente, pan e spüda, pane e saliva. Ed è espressione che viene a dire povertà, se non miseria: «Pane e coltello non empie mai il budello», suona il proverbio; e come titolo di nobiltà si può aggiungere che la si incontra in Ma- chiavelli: «un pascersi di pane e coltello». Comunque l’espressione bene si attaglia a far da titolo, se non a tutti, a parecchi degli scritti raccolti in questo volume: di scrittori tutti notoriamente non di estrazione borghese, bensì di popolo, e che hanno mantenuto del loro mondo di origine una memoria incancellabilmente affettuosa: anche se le mutate condizioni gli consentono companatico più sapido del nudo coltello.

Sintesi perfetta, nella sua concisione! Val la pena però di storicizzare l’impatto di quel libro su chi, allora trentenne, aveva rapporti con il Cantone ma viveva in Italia. Quel Ticino, che ai nostri occhi appariva l’emblema dello stato in vertigino- so progresso di ricchezza, gettava lo sguardo su un passato che credevamo remoto ed era invece prossimo; vissuto anzi in prima persona dai cinque scrittori che vi erano inclusi, invitati a una passeggiata nel proprio territorio e nei propri ricordi. Ma quella silloge fissava tacitamente un canone diauctores , proponendo il fiore degli scrittori elvetici di lingua italiana di una generazione compresa fra il 1899 di Piero Bianconi da Minusio, il fine critico d’arte, e il 1928 di Giovanni Orelli da Bedretto, Giovanni Bonalumi da Muralto (classe 1920), Giorgio Orelli, nato ad Airolo nel 1921, e Plinio Martini da Cavergno, classe 1923. Ora, in tutti questi, pur nella diversità della misura e della scrittura, del taglio ideologico e del registro di stile e di genere, coesisteva una risposta, ironica o accorata, a questo rapido trapasso, al tramonto di un mondo plurisecolare, una povera montagna tutt’altro che idillica, ma dignitosa con le sue ombre e le sue luci, violentata nel paesaggio, negli affetti, nei valori dal trionfo del vetrocemento,

64 Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori dall’invenzione dei turisti e dall’irruzione della finanza; una valanga non meno insidiosa di quella che minacciava i villaggi alpestri. Trapasso troppo rapido per non suscitare reazioni satiriche o accorate, le prime nella forma della polemica o dell’ironia, le seconde oscillanti fra pietà ed elegia, mai sfumanti in astratta nostal- gia di un mondo pur pieno di durezze, di sofferenze, di repressioni. Si tratta di uno scenario antropologico-letterario che diede titolo a un mio scritto, Due Svizzere in conflitto (1979), in cui rifondevo le recensioni stese a caldo all’Albero genealogico di Bianconi, al Requiem per zia Domenica di Martini e alla Festa del ringraziamento di Giovanni (dei primi due libri gli autori offri- vano in Pane e coltello una sinopia e un frammento). Fu forse per questa mia attenzione alla cultura del Cantone che il libro arrivò tra le mie mani: lo riapro, trovandovi la dedica del donatore («All’amico Piero / Romano Broggini») e rileggendo i racconti, di cui darò un cenno del soggetto e qualche stralcio, per dare un assaggio concreto della scrittura: il tutto vòlto al confronto finale con il testo di Giorgio.

3. Piero Bianconi, Fatiche di donne Così Bianconi apre le sue Fatiche di donne, descrivendo una fotografia che tro- viamo in Albero genealogico, libro fatto di parole e immagini proprio come Pane e coltello (un dato che assieme alla sigla del Chiarimento prefatorio individua in Bianconi l’ideatore o il regista del libro collettivo):

La sola immagine che conservo della mia nonna materna è una fotografiuccia grande come un francobollo: dove la si vede curva sotto un carico di legna, appoggiata a tirare il fiato a un muricciuolo, col misero corpettino sulla camicia candida e ruvida, il grembiule allacciato alto: gli occhi spauriti e come imploranti sotto la gronda nera del fazzoletto. La fotografia deve avergliela fatta un bravo turista tedesco già allora a caccia di aspetti “pittoreschi” del Ticino: che Dio gliene renda il giusto merito. Da quella minima imma- gine la tardiva pietà dei figli aveva fatto ricavare un ingrandimento che rendeva spettrale la striminzita figura: uno di quegli ingrandimenti a carboncino (modo di spillar soldi alla buona gente, facendo leva sui buoni sentimenti, la memoria dei morti, dei poveri morti: industria che fioriva e certo ancora fiorisce un po’ dappertutto nei paesi depressi, Mer- goscia come Barbiana, se ne vedono tracce appunto nelle lettere di don Milani).

Parte di qui l’andirivieni memoriale di Piero Bianconi, che rievoca i suoi antenati emigrati dalle povere valli locarnesi alla volta dell’Australia o della Ca- lifornia, spinti dal bisogno, contagiati anche dall’illusoria febbre dell’oro e sfiniti dal lavoro per mandare una manciata di soldi alle mogli rimaste a casa con i figli a faticare come bestie. E stupore per la condizione servile delle donne ticine- si manifestavano, segnala Bianconi, tanti viaggiatori nordici, da Bonstetten a Ruskin. Memoria personale e letture ad ampio raggio concorrono a rievocare la generale miseria di quelle valli e a seguire l’esodo dei suoi maiores scorrendo la corrispondenza fra gli uomini emigrati e le loro donne rimaste a penare. Scritto-

65 Pietro Gibellini re-saggista, Bianconi ne incastona passi per colorare la prosa con quella scrittura da dignitosi semidotti, oscillante tra forme impettite e slittamenti dialettali, uno stile che non suscita sorriso ma rispetto: quei montanari si mettono allo scrittoio con la stessa compunzione con cui posano per il ritratto fotografico. E il cammi- no nel tempo diventa odissea nello spazio. Alle traversate oceaniche (altro che passeggiate!) si intreccia il commento riflessivo dell’autore, che rende omaggio a quelle generazioni dignitose e dolenti, e si interroga anche sull’hic et nunc, sul confronto fra loro e sé, sulla propria inspiegabile stanchezza, che sente come colpevole accidia ma che ha forse in quel passato la sua causa e la sua scusante:

E mi pare, così cercando, mi par di capire che si tratta di una stanchezza non mia per- sonale, ma di una stanchezza ancestrale, ereditata, la stanchezza delle remote fatiche dei miei antenati, da loro non potuta smaltire: perciò me l’hanno legata in eredità, che provvedessi io, infingardo nipote, a esorcizzarla. Ecco perché, quasi a scongiurare quelle fatiche, ecco perché scrivo di mia nonna appena conosciuta, del mio prozio morto prima che io nascessi: e con loro penso alle umiliate donne del nostro paese, ai tanti emigranti andati a faticare e a morire in terra aliena.

Così si chiude il racconto di Bianconi, che muove da una pietas erga parentes a suo modo ereditata da suo nipote, Renato Martinoni, studioso valente ma anche scrittore vero, che ripercorrerà in modo originale materia e documenti di quella saga familiare nelle sue «storie di emigrazione alpina» (Il paradiso e l’inferno, 2011). Se lo scritto di Bianconi è un omaggio al coro dei suoi antenati, quello di Giorgio (vedremo) è l’agnizione di una voce che non può più accor- darsi con il coro dei suoi compaesani.

4. Giovanni Bonalumi, “Ai castagni” Mentre nella prosa di Bianconi l’io-narrante coincide con l’autore che compulsa le carte di famiglia, solo fittizia è la prima persona dello scritto di Bonalumi, quello cui calza meglio l’etichetta di racconto, e che è anche il più lontano dal- la Rosagarda di Giorgio. Nulla sembra accomunare l’io-narrante all’autore: un pittore di strada che vive tra Basilea (unico tratto accostabile allo scrittore, che nella città renana svolgeva il suo insegnamento universitario), la luminosa Pro- venza dove si sposta per dipingere, e la villa ticinese di Rosaria, la escort morta misteriosamente, l’«amante per un giorno, amica per tutta la vita», dal cui ritrat- to dipinto con trasporto non si staccherà mai. La struttura è quella di un giallo, seppure modernamente irrisolto (Gadda e Dürrenmatt docunt). Il ritmo, incal- zante, interciso da brevi dialoghi e svelte descrizioni, rivela il temperamento da romanziere. Se ne veda un esempio, appena dopo l’inizio:

Certo che al commissario non ho mica detto tutto quello che sapevo. Primo, perché mol- te di quelle domande si riferivano a quisquilie, a particolari: secondo, perché a parlare

66 Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori con un poliziotto (con quel mio mestiere di pittore in piazza, poi) c’è solo da perderci. No, proprio non mi andava di compromettermi, di farmi inchiodare in quella stanzetta per giorni, magari per settimane. Parlargli, che so, della casa, della villa di Contra, della lite scoppiata un paio di mesi prima tra lei e Karl? Una storia che a raccontarla mi ci sarei perso. Lui che le pagava l’affitto dell’appartamento a Basilea, ma che esige la metà almeno di quanto incassa ogni mese. Poi di mezzo c’è l’ipoteca sulla villa, una spesa inizialmente spropositata. La villa; il terreno che era di lei, ereditato a vent’anni da una vecchia zia. Cinquemila metri, bosco, vigneto, un posto incantevole che oggi come oggi non ha prezzo. La villa era intestata a lei, Rosaria, ma nel contratto, così m’è sembrato d’indovinare da certi suoi discorsi, dovevano esserci delle clausole, delle condizioni. «È mia, sì, a patto che io continui a rendere. Anche in questo ci sono delle scadenze!», così le è scappato di dire, una volta. E allora, finalmente, sia pure in confuso ho capito la stizza che la prendeva quando l’uno o l’altro dei clienti non si faceva più vedere o anche solo rimandava l’incontro d’una settimana.

Passo dopo passo, tra un flash-back e un nuovo incontro, entriamo nella sto- ria con informazioni centellinate ma foriere di nuovi dubbi. Era davvero sua la lussuosa villa “Ai castagni” (eponima del racconto) o era di Karl, sorta di padrone-protettore che ivi organizzava incontri di uomini misteriosi e facolto- si? Squali della finanza in cerca di un’orgia o appuntamenti per loschi traffici? E poi, Rosaria è stata uccisa o è morta naturalmente? E quel distinto signore tedesco di nome Karl che a Basilea vuole acquistare il ritratto di Rosaria è lo stesso misterioso amante-sfruttatore di Rosaria? Il pregio del racconto è quello di avvincere il lettore con una trama da giallo che risulta però opera aperta, un nodo che spetta al lettore-detective di sciogliere; certo è che se la lussuosa villa è collocata in quel di Contra, in nessun modo quello di Bonalumi può dirsi “rac- conto di paese”, tutto giocato com’è sulla Svizzera che ha scordato le sue radici montane. L’escursione di Bonalumi è topografica, quella memoriale è delegata al personaggio, interna alla finzione semipoliziesca ed essenzialmente sincronica. Il “paese”, insomma, non c’è più.

5. Plinio Martini, I funerali di zia Domenica Tutt’altra china è quella scelta dal racconto di Martini. Il quale è narrato in ter- za persona e ha per protagonista Marco, trasparente portavoce dell’autore, del quale condivide l’esperienza valligiana di un Ticino povero e arcaico, con la sua etica severa impersonata da zia Domenica, protagonista del Requiem, il roman- zo di cui offre nei Funerali di zia Domenica la primizia e il nucleo. “Racconto di paese” in senso proprio, la prosa intreccia narrazione e memoria nel perimetro del paesello in val Bavona, Sonlerto, dove (ragazzo) vide arrivare da Locarno la figlia quindicenne di un lontano parente, Giovanna, vivendo con lei la pri- ma fiamma amorosa. Un innamoramento ostacolato nel suo sperato sviluppo dalla vigile e sessuofoba zia; la quale ora, dalla bara, finisce per rinnovare il suo ruolo di interditrice, impedendo l’incontro amoroso tra i due diventati adulti,

67 Pietro Gibellini nuovamente vicini per assistere alle esequie. Al tragitto spaziale, tra Sonlerto e Locarno, si sovrappone l’andirivieni della memoria fra un nunc e un tunc che re- trocede anche oltre la fiamma dell’amore adolescenziale, come vediamo nell’at- tacco del racconto:

Nella grande cucina di zia Domenica, Marco aveva ritrovato l’atmosfera di quando a sei anni lo trascinavano alle veglie dei morti. Allora la salma del defunto, composta sulla ba- rella comunale e ricoperta di un lenzuolo in attesa che il falegname finisse d’inchiodare la cassa, era posata in mezzo a una stanza da cui era stato tolto il povero mobilio, in modo che tutt’intorno potessero disporsi i parenti i vicini di casa e gli amici; gli adulti seduti su seggiole prese in prestito e ordinate contro le pareti, sotto le foto di famiglia e i ricordi della prima comunione; i ragazzi accucciati su sgabelli a pochi palmi dal morto. Quello spazio esiguo, riscaldato da tanti corpi, graveolente degli odori che i contadini portano dai campi e dalle stalle, non era sufficiente per la gente convenuta, e pertanto erano occupati anche i corridoi e le scale, di donne soprattutto, che magari si erano portate da casa il cuscino da aggiustarsi sotto il sedere in un angolo di scalino; e dal suo posto tra gli altri ragazzi, Marco, che all’entrare aveva inutilmente pregato chi l’accompagnava di metterlo altrove, lontano dal cadavere, le invidiava.

Nel continuo vai-e-vieni fra descrizione e ricordo, che è anche soprassalto emotivo, in linea con l’etimo che associa la memoria al cuore, sua sede segreta, tornano le frasi latine della liturgia, la minaccia contro il peccato più grave, quel- lo del sesso, nell’ottica risentita di Marco adulto, che crede di essersi svincolato da quel mondo, ma che viene ancora una volta frustrato, ché zia Domenica cala nella fossa, ma l’explicit del racconto suggerisce che l’incontro con Giovanna re- sta virtuale, tacitamente immaginato, limitato al tocco del braccio, a uno scarto prossemico dagli altri:

Giovanna lo aspettava fuori, e la prese per un braccio, tremante ma non rigida, per sco- starla dagli altri e indirizzarla verso la campagna soprastante. Si fermarono, lei si lasciò guardare senza dir nulla; era diversa di come la ricordava, il volto teso e dimagrito, gli occhi più pensosi, forse più bella; poi si voltarono entrambi a guardare il camposanto che era ormai vuoto: l’ultimo gruppetto di persone stava avviandosi all’uscita, lasciando alle spalle quattro ragazzi intorno ai becchini che riempivano la fossa.

6. Giovanni Orelli, Anche l’inferno è nei cromosomi? E il diavolo? (Da quaresime lontane)

Simile e diverso è l’atteggiamento di Giovanni Orelli nei confronti della educa- zione religiosa tradizionale, simile il giudizio fortemente critico, diverso il tono emotivo, più portato all’umorismo che al risentimento. Anche qui valga come esempio testuale l’esordio:

68 Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori

C’era una volta la prima comunione, il nostro primo incontro con Gesù. C’era l’esame. Il prete, perché gli zucconi ci dessero sotto, dava i punti: cinque, dieci, venti, fino a cento punti se la domanda era molto difficile. Ma si poteva anche tornare indietro. L’Albino, che a tre giorni dalla classifica finale era a quota 762, perse in un colpo mille punti e andò sottozero. Gli aveva chiesto chi ti ha creato, e lui: la zia Mafalda. Una risposta così era una grave offesa a Dio che ci aveva creati. Che ci aveva creati per? Asini, per conoscerlo amarlo servirlo; e goderlo per sempre in paradiso.

Il racconto in prima persona è affidato a un trasparente sosia dell’autore, migrato dal nativo villaggio alpestre nella città del boom economico. Il dialogo con i figli, che conduce alla scuola di danza e alla palestra di judo, lo induce a un continuo confronto con la sua infanzia; il tutto giocato con ironia che non risparmia se stesso adulto e le sue perplessità. La forma interrogativa del tito- lo, così come l’indicazione del sottotitolo (Da quaresime lontane) che, aggiunto all’incipit favolistico («C’era una volta»), indica che la modesta distanza tempo- rale tra l’allora e l’adesso corrisponde a una smisurata distanza antropologica tra il mondo contadino cui l’autore si sente legato e la realtà borghese in cui si trova spaesato e mentalmente esule. La sua sorridente critica si esercita dunque sui valori o disvalori di una odierna società schiava del denaro e dell’apparire mondano così come colpisce l’antica educazione penitenziale e repressiva, ab- bandonata con lo spostamento in città e l’evoluzione del suo pensiero, ma di cui l’io-narrante serba tracce indelebili. Sì, perché se aspra era la critica mossa all’oppressione e all’iniquità del paese antico, anche nella Svizzera delle banche e del vetro-cemento il narratore si sente spaesato: eccolo in bonaria frizione con i figli e la moglie più savia e realista; eccolo avverso ai riti e ai ritmi della classe borghese, alle signore supponenti e ignoranti impermeabili al sorriso; eccolo smarrito di fronte alle certezze pedagogiche di una maestra di danza omofoba. Fra il retaggio di una formazione soppiantata da un pensiero immanentista, il persistere di interrogazioni supreme: il titolo, anche per questo, appare eloquen- te, chiedendosi dove stia l’inferno e sulla sua possibile sede nei cromosomi: in- ferno e genealogia sono termini che caratterizzano anche la saga familiare nella doppia rivisitazione di Bianconi e Martinoni (Albero genealogico, Il paradiso e l’inferno) e che alimentavano nel giovane Plinio Martini un terrore e un conse- guente risentimento assai diversi dall’umorismo satirico di Giovanni. Analoga e diversa, rispetto all’amico Martini, è anche l’opzione sperimentale dello stile: più gaddiano in Plinio, giocato com’è su intarsi plurilingui con il latino e su enu- merazioni lessicali, più bachtiniano ante litteram in Giovanni, giocato invece su una focalizzazione cangiante, su una polifonia assorbita nel monologo autoriale.

7. Giorgio Orelli, Autunno a Rosagarda Ed eccoci finalmente adAutunno a Rosagarda, al “racconto di paese” di Giorgio Orelli. Inutile, anzi impossibile riassumerlo, poiché l’intento di mostrarne la sottesa natura poetica che lo caratterizza e lo differenzia dagli altri quattro scritti

69 Pietro Gibellini esige una lettura integrale del testo, rallentata e iterata. Rammentiamone tutt’al più le sequenze: che sembrano poesie virtuali, o, mi si passi il bisticcio, sino- pie di sinopie, spiracoli sul mondo esterno e interno dell’autore. L’io-narrante, chiara proiezione di Giorgio (anche se l’unica volta in cui la sorella lo nomina lo chiama Francesco) è tornato al paese. Spacca la legna in presenza del padre, che ha l’aria di un vecchio sceriffo in pensione. Il dialogo tra i due è faticoso; cominciano le intermittences du coeur. Ben altro il rapporto con la madre: di complice sintonia anche nei silenzi, nel fraseggio dei puri gesti. Poi lo sguardo si estende ad altre figure del paesello, parenti, conoscenti: la cagionevole zia Santa e la zia Romilda che gli portava l’uovo fresco, la vecchia Letizia che sta perden- do la vista, il probo e forte Pasquale, Medardo con la figlia mascolina, il roccioso Gustavo dei Sassi, e soprattutto Alessio, («giovane e argutissimo cugino»‚ mi segnala Lucia, figlia dello scrittore), formidabile cacciatore già con il tirasassi e ora con il flobert. La sequenza finale è un ritorno nell’orto di casa: un uccello si posa sul melo, la madre glielo addita, lui imbraccia il fucile come allora, ma dentro non si sente più cacciatore, esule per sempre da quel piccolo mondo antico; mentre punta l’arma, arriva, liberatorio, lo sparo del più rapido Alessio. Il racconto finisce con i due che sparano a vuoto su uccelli che si allontanano svolazzando nella bruma serale, «finché non ci vediamo più». Il timbro poetico della scrittura di Orelli, giocata fra delicatezze liriche e voluti abbassamenti tonali, potremmo trovarlo nella musicalità del dettato, vi- stosa nel fitto uso di soluzioni eufoniche, dai troncamenti («dar fastidio», «far bello», «fender legni», «far la torta», «strappar erba») agli abbondanti apostrofi («Innz’ieri») o all’epentesi desueta («in Isvizzera»). Spuntano qua e là nomi di scrittori («Lucrezio», «Giuseppe Zoppi»), citazioni riconoscibili («la vigna di Renzo», «ed è subito sera») ma anche criptiche (ricordando «l’anno della va- langa» a Bedretto Giorgio allude all’evento trattato nel romanzo omonimo del cugino bedrettese Giovanni, L’anno della valanga, 1965). La «faccia larga» di zia Romilda «in cui non c’è pericolo di conoscere la M tra gli occhi» si spiega con il passo di Dante che in Purgatorio legge nei volti scarniti dei golosi la parola omo che incorpora le o delle occhiaie negli spazi della m come tra naso e arcate dei sopraccigli («Parean l’occhiaie anella sanza gemme: / chi nel viso de li uomini legge “omo” / ben avria quivi conosciuta l’emme», XIII, 30-32). Non evoca for- se i pregiudizi su Rosso Malpelo la moglie di Medardo, una «di quelle rosse che si può ben dire che neanche il diavolo le conosce»? La vista di una pianta non gli richiama forse «la rima betulla-fanciulla»? Sono i lustrini che occhieggiano in un grigio che vuol presentarsi nelle vesti semplici di una scrittura dimessa, in sordina: che si finge grigia, ed è perlacea. Di qui i contatti del racconto con la scrittura poetica di Giorgio, globalmente considerata. Chi ignora ad esempio la funzione di basso-continuo che hanno i colori nelle poesie di Giorgio, che titolò Né bianco né viola la sua raccolta d’e- sordio? La tavolozza di Autunno a Rosagarda ce ne offre una gamma assai ricca: ecco il «rosso cupo» della rosa solitaria, la mela «d’un rosso quasi innaturale», «Alessio, rosso come le mele», la «rossa melissa nell’orto di Pasquale», i «luma-

70 Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori coni rossi che fanno schifo», il «rossastro» dei caprioli: ecco il «verdino» della vecchia poltrona, la siepe «che resta verde, forse d’agrifoglio»: il «legno scurito, quasi vellutato» della vecchia casa con «un tetto di piode nerastre, spruzzate di muffa verde»: e poi la «terra scura su cui piovono i petali del melo», e Zia Romilda «rotonda, violetta», e ancora: qualche «uccello di un’altra razza, più scuro o più chiaro»: la «polverina bianca», le «càmole bianchicce», la «gazosa bianchiccia», «le venature pallide» degli stecchi di legno «che quasi rincresce di bruciarli». Dal rosso al violetto lo spettro solare trascolora, fin al bianco e al nero, con preferenza per la loro contaminazione, quel grigio adatto al tono di- messo del quotidiano ma lampeggiante di preziosi riflessi (Beatrice vestiva panni di tinta umile ma il suo viso gareggiava con il color di perla): al «larice ingrigito» del legno risponde il «grigio del soffitto» (non scrive «grigio soffitto», si badi, in linea con il linguaggio poetico post-simbolista che inverte il ruolo fra sostanza e accidente, promuovendo a sostantivo l’aggettivo e abbassando il nome a epiteto: così, i gialli fiori di tarassaco sono per Orelli «il giallo dei fiori del diavolo»). Del resto non «luccica» come un gioiello il rotolo di fil di ferro con cui Francesco ripara il manico della scure? Altrettanto vistoso è il ricco bestiario che popola i versi orelliani. Ebbene, nelle poche pagine del racconto troviamo un vero giardino zoologico popolato da ballerine, camole, camosci, caprioli, cervi, chiocciole, corvi, cesene, cutret- tole, francolini, galli, lumache e lumaconi, marmotte, scoiattoli, stornelli, topi, tordi, uccelli non identificati, vacche, viscarde. Vero è che, a dispetto di quanto appena scritto, Giorgio intendeva con il suo Autunno presentarsi come narratore, mettendo la sordina alle pulsioni liriche e cercando di volare rasoterra, anche con gli episodi umoristici non privi di scurrilità (la signora di città «crede di cagar più in alto del culo», e al patrizio che l’ha rimbrottato il ragazzo risponde: «lei è un signore della merda con su il cappello»). Ma se lo stile di questa prova puntava verso il sermo humilis, come l’uccello che si posa sul melo rischiando la vita, l’impulso a innalzarsi prevale, come nell’immagine ornitologica che chiude questo giorno d’Autunno. Limitiamoci dunque a queste due generiche affinità fra la prosa di Giorgio e la sua scrittura in versi, rinunciamo a confronti intertestuali più circoscritti e circostanziati, e consideriamo invece ciò che accomuna e ciò che distingue gli sguardi dei cinque scrittori di Pane e coltello, agganciandoci ai tre termini- chiodo sopra menzionati: Memoria, Passeggiata, Risentimento. La memoria di Bianconi, guidata dalle sue letture critiche e soprattutto dai documenti epistolari di casa, risale di alcune generazioni lungo i due rami fami- liari accomunati dall’emigrazione, i Bianconi e i Rusconi; l’esame di coscienza si manifesta essenzialmente nella chiusa, nell’agnizione di una stanchezza ereditata dalle penose fatiche dei suoi lari; nel racconto di Bonalumi, schiacciato sul pre- sente, la memoria del vecchio “paese” è assente, così come i conti con se stesso li fa solo l’“incosciente” protagonista che non è in alcun modo autobiografico; in Martini la memoria è giocata invece sul vissuto del protagonista para-autobio- grafico, fra il ricordo del mancato incontro amoroso di Marco e Giovanna ado-

71 Pietro Gibellini lescenti nel paese di zia Domenica e il loro ritrovarsi da adulti in quel “paese” che non è più loro ma in cui ancora vige la legge severa della zia morta, mentre l’autore oggettiva nel racconto in terza persona la propria memoria del villaggio rurale; la memoria di Giovanni, nel suo monologo marcatamente autobiografi- co, affiora nel continuo confronto fra la sua infanzia e quella dei suoi ragazzi, tra la sua giovinezza alpestre e la sua maturità urbana: non manca peraltro un cenno al suo «albero genealogico» (espressione bianconiana) che a un certo punto ha gettato, con lui, un ramo diverso. La memoria di Giorgio affiora a sprazzi, per delicate intermittenze del cuore, e la distanza tra il mondo passato e presente, fra il sé di ieri, è giocata per allusioni: dalla sostanziale incomunicabilità con il padre alla finale consapevolezza di non poter essere più cacciatore. La modalità degli intarsi memoriali e riflessivi al tessuto narrativo lo avvicina al cugino più che a Bianconi e Martini (Bonalumi è fuori campo), fatta salva la diversità non solo di scrittura ma di taglio mentale: socio-politico e filosofico-esistenziale in Giovanni, più emotivo ed estetico in Giorgio. Non è, quest’ultimo, un requisito prevalente della scrittura di vocazione lirica? Vero è che la parola morte circola a Rosagarda, dall’iniziale cenno alla «morte che vive qui intorno» al dialogo mentale con il prete che riportiamo sotto; né manca l’evocazione del funerale, così centrale nella narrazione di Martini: ma se Plinio preme, volente o nolente, il pedale del Dies irae, leggero è il tocco di Giorgio che rievoca le esequie della zia Romilda, la divisione delle suppellettili tra gli eredi:

Girava tra noi nipoti un qualcosa di calmo e affettuoso che in certi momenti doveva essere una specie di pietà di noi, della morta, del suo uomo che aveva fatto il cameriere in Inghilterra e a Bugliasco era l’unico favorevole al voto alle donne, e pietà anche dei lenzuoli sepolti nei cassettoni.

Anche con Bianconi il confronto con una parola-oggetto serve a differen- ziare più che ad accomunare: la «fotografiuccia» della nonna che innestava la pietosa saga corale riesumata da Bianconi, in Giorgio è quella che ha al centro se stesso ragazzo: «un ragazzino che ha cominciato a pettinare i capelli all’indie- tro, così magro da sembrare portato lì dal vento come l’achenio d’un soffione». Anche questa declinazione della soggettività risponde a urgenze liriche. E la Passeggiata? Fermo nel suo studio davanti alle lettere ingiallite, Bianco- ni segue le piste degli emigrati in California e in Australia. Nella sua storia d’in- venzione Bonalumi disegna una triangolazione fra la villa di Contra, la Provenza e Basilea. Più breve, ma tutt’altro che turistica, è negli altri tre la passeggiata reale o mentale tra il paese nativo e la vicina città (non importa se i luoghi sono menzionati o taciuti): il tragitto di Martini tra Locarno e Sonlerto (non lontano dalla sua Cavergno), quello tra Bedretto e Lugano di Giovanni, e dovremmo dire tra Airolo e Bellinzona di Giorgio. Dovremmo, perché nella sua prosa in verità Giorgio non ci porta a passeggio se non a Rosagarda, tra casa e cortile: lo sguardo attuale o memoriale si concede pochi passi fuori casa, per l’incontro volante tra la madre e Letizia e l’occhiata al melo dell’orto del vicino dove si è

72 Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori posata una viscarda. Una piena circoscrizione spaziale, e una temporalità che non esce dai confini del villaggio, se non per avvertire che il buon vecchio sarà operato all’ospedale di Faido e ricordare quando a Bugliasco i parenti si divisero le lenzuola. L’eco della città è portata solo da due forestieri: la turista di Lugano, il cacciatore di Bellinzona. Il viaggio nel ricordo, insomma, non è tra luogo e luogo, ma tutto a Rosagarda, anzi tutto dentro di sé, tra il sé di oggi e di ieri. Anche questo mi pare un tratto caratterizzante un’ottica fortemente soggettiva, una introspezione operata girando lo sguardo su cose e persone vicine, insomma una posizione potenzialmente lirica. Terzo e ultimo filtro del nostro confronto, il Risentimento. Contro chi? Bian- coni, rievocando con accorta empatia le fatiche delle povere donne lascia trape- lare qua e là un moto di fastidio per il turista tedesco che fotografa la contadina come una curiosità pittoresca («che Dio gliene renda il giusto merito»), verso i pensatori dubbiosi che la donna avesse un’anima, verso gli stessi montanari poveri eppur serviti da donne doppiamente povere. In Bonalumi il personaggio, artista “incosciente” dunque mal integrato nel sistema borghese, manifesta la sua diffidenza verso la polizia, la sua avversione per gli uomini d’affari sospetti pescecani che ruotano attorno a Rosaria e a Karl, al rancore per questo sadico faccendiere che mantiene o sfrutta la donna. In Martini il risentimento verso un’educazione oppressiva e repressiva è manifesto, tanto più che quel passato remoto e rimosso riesce ancora a condizionare il presente. In Giovanni il risen- timento si converte in lucida critica, attenuata dall’umorismo: contro le paure indotte dall’educazione clericale, ma anche contro il classismo disumanizzante della società di oggi. Tuttavia l’irritazione politica si risolve in una memoria au- tobiografica: come spiegare ai figli la scritta «Nixon boia» senza ricordare le rane decapitate, con una pietas verso gli animali che affiora in tante sue pagine? Nel racconto di Giorgio le tracce di una virtuale protesta sono assai vela- te: l’antipatia per chi invade il Ticino da insensibile turista, vistosa negli altri scrittori, si avverte in due pennellate divertite; l’isterica signora di Lugano che stava percuotendo un ragazzo e che Pasquale sistema a dovere; il patrizio bel- linzonese venuto per cacciare e al quale una vacca danneggia la Volkswagen; un saccente forestiero cui un monello risponde per le rime. Viene insomma risolta con aneddoti umoristici quella rivincita cui pure accenna la sottile introspezione dell’autore, nell’introdurli:

C’è qualcosa di cui, in questi ultimi tempi, parliamo più spesso, con un piacere nuovo, striato d’amaro ma sacrosanto. Si tratta di torti vendicati in modo insolito, memorabile, torti di chicchessia, nei quali si prolungano torti antichi e recenti subiti da mia madre.

Se strizza l’occhio all’Albero di Bianconi, Giorgio ne cambia registro; suona il clavicembalo, non l’organo. Della povertà d’altri tempi, poco o nulla si dice; si evince tutt’al più dalla tra- dizione culinaria che prevede non solo viscarde da mangiare col puré, ma pure corvi (lo chiede per sé il curato, per farne un buon brodo) nonché scoiattoli,

73 Pietro Gibellini

«qualcuno con ancora la nocciola in bocca» (sic, anzi sigh). Dalla California, mèta dell’emigrazione riesumata da Bianconi, giunge solo la telefonata di una vecchia compagna di scuola che passerà l’estate «nel nostro Ticino così bello e pulito» e vuol rivedere Francesco. Quanto all’aspetto mortificante e quaresimale di quel cattolicesimo, bersa- gliato più o meno acidamente da Martini e da Giovanni, non troviamo in Gior- gio che spiracoli, la sinopia positiva del curato di Bugliasco («un di quei preti che non saranno gran che come cultura ma almeno non gli salta in testa di dire nella predica che San Giuseppe non chiedeva mai aumenti di salario») e una riflessione più dubitativa che polemica:

Ha ragione il prete, noi non li vediamo ma loro, i morti, ci vedono; raccomandiamoci ai morti. Come dire che i vivi sono loro, e i morti noi. Non è così, signor curato?

Non manca però il lato positivo della vecchia educazione religiosa, che aiu- tava a sopportare con rassegnazione miseria e tribolazioni dell’aldiquà per uno sperato risarcimento ultraterreno: una funzione riconosciuta dal Martini del Fondo del sacco, non ancora convertito al sarcasmo polemico del Requiem. La vecchia Letizia, «che non potrebbe meritare di più il suo nome», così commenta la sua progressiva cecità:

«I miei occhi se ne vanno», dice, «per fortuna a poco a poco. Ma ho paura che a Natale non ci vedo più del tutto. Mah, finché possiamo girare non lamentiamoci».

Anche il male di vivere, che gli altri quattro scrittori esprimono con grada- zioni che vanno dal malinconico al drammatico e intendono in chiave psico- logica, politica o filosofica, nel racconto di Giorgio fa capolino in stille sparse con il contagocce; l’amaro è temperato dall’arguzia umoristica: il padre del pro- tagonista canticchia «Eri tu che mangiavi quell’anitra» parodiando Eri tu che macchiavi quell’anima; Francesco e zia Santa rinnovano una battuta collaudata esorcizzante:

Il bel tempo ha tirato fuori anche zia Santa, che ha sempre avuto poca salute ma intanto viaggia sui settanta, col suo canarino. Sicuro di farla sorridere, le dico in francese: «Tu vas bien?» «I vèi a biàm», risponde con prontezza (che vuol dire: «vado in briciole», di fieno).

Gocce, sì, ma talora pesanti e tossiche come il mercurio che lo zio si è portato dall’Inghilterra. Del suo rapporto con il padre dice Francesco:

Ci siamo detti talmente poco, che, se continua così, avremo gran bisogno di un’altra vita per conoscerci.

E quando riesce ad aggiustare il manico della scura, sotto lo sguardo compia- ciuto del padre con cui litigava per vincere a carte, osserva:

74 Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori

Quando s’accorge dell’operazione mio padre sembra veramente sollevato: e anch’io, a dir la verità, sto meglio, come chi, nell’intimo, si rallegra di essersi smussato, di perdere a un giuoco che in fin del conto ha soltanto dei vinti. E cosa prova nello spaccare la legna? Ma sì, spacco questa benedetta legna con una certa rabbia, o meglio disperazione, la stessa calma disperazione che mi permette di strappar erba per ore e ore tra ciottolo e ciottolo davanti a casa, con uno zelo troppo nuovo per evitar di spiegarmelo con questa morte che vive qui intorno. Insomma, anche in Autunno a Rosagarda troviamo i nuclei concettuali e im- maginativi di quelle Due Svizzere in conflitto cui accennavo, di quella dialettica tra paese e città, tra passato contadino e presente borghese: ma toccati con lievi mani, da un poeta cui interessa essenzialmente un sentimental journey dentro se stesso. Risentimento no, semmai ri-sentimento, rinnovo di un sentimento, da verificare nel suo persistere o nel suo mutare: a Rosagarda non c’è per lui un approdo voluto dal nòstos, Giorgio alias Francesco è un Wanderer come l’amato Goethe dell’Italienische Reise che viaggia verso il paese dove fioriscono i limoni per trovare se stesso. Rosagarda, toponimo autentico di un fazzoletto di terra presso Prato Leventina, dà titolo al racconto anche per la sua carica verbale e visiva; reca in sé il nome della rosa ed evoca lo sguardo del poeta: quel fiore solitario che guarda lo scrittore nel cuore del racconto, e lo distoglie dalla fatica:

Quando c’era da trasportare qualcosa di pesante davo una mano anch’io, ma piuttosto che andare continuamente per quelle scalette di legno su e giù, rotto in due, me ne sarei rimasto lì a guardare l’orto di zia Romilda, dove una rosa, sola, d’un rosso cupo, si può dire che era lei a guardare me, a riempirmi di silenzio.

Sembra un particolare cursorio, senonché, mentre il furgone sta per partire con il carico di lenzuola e mobili, l’attenzione torna su quella rosa:

E stava per partire, quando l’Ester, la cugina in diagonale, gli ha gridato di fermarsi un momento. È corsa nell’orto dov’era quell’unica rosa, l’ha colta in fretta, e allungandosi, lei così piccola, più che poteva sopra la sponda di dietro del camion, l’ha infilata tra due materassi.

Così Autunno a Rosagarda brilla come fiore lirico nel panorama di fatiche fermate in Pane e coltello: e svela, sotto i panni del narratore, la natura inevita- bilmente poetica della sua vocazione.

Nota bibliografica. A parte Pane e coltello, gli altri scritti sono stati menzionati abbreviata- mente: qui, in ordine alfabetico, i rinvii bibliografici completi. Piero Bianconi, Albero gene- alogico: cronache di emigranti, Pantarei, Lugano 1969; Giovanni Bonalumi, Gli ostaggi, Val-

75 Pietro Gibellini lecchi, Firenze 1954; Pietro Gibellini, Due Svizzere in conflitto: un «filo» nella prosa ticinese recente, in “Otto/Novecento”, III (1979), 3-4, pp. 300-317; Plinio Martini, Il fondo del sacco, Casagrande, Bellinzona 1970; Id., Requiem per zia Domenica, Il formichiere, Milano 1976; Renato Martinoni, Il paradiso e l’inferno. Storie di emigrazione alpina, Salvioni, Bellinzona 2011; Giorgio Orelli, Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978; Id., Il suono dei sospiri: sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990; Id., Né bianco né viola, Collana di Lugano, Lugano 1944; Id., Sinopie, Mondadori, Milano 1977; Id., Spiracoli, ivi, 1989; Giovanni Orelli, La festa del ringraziamento, Mondadori, Milano 1972; Id., L’anno della valanga, ivi, 1965.

76 GILBERTO LONARDI

Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio

1. Mi appoggerò anzitutto alla citazione lucreziana che ci viene incontro subito, nel Collo dell’anitra, 2001. La precedono solo due versi dalla Commedia. Subito dopo, la poesia con cui si apre il libro. Si intitola, un poco alla Sereni, Sulla salita di Ravecchia. Trascuro purtroppo la sentenza di Kierkegaard che l’accompagna (sul comico). Eccolo che scende, Giorgio Orelli, sulla salita di Ravecchia, dalla mitica bici: e sappiamo che è spesso questo privilegiato quanto frugale mezzo di sposta- mento e di incontro, fuori da ogni malinconia della “corsia ta”, come usa nelle città grandi, che offre al ciclista-poeta l’incontro con la screziata, infinita serie di sorprese che il mondo svela a chi sappia, nel mondo, passeggiarci dentro. Con la perenne − aggiungo subito − dialogica disposizione allo spettacolo delle cose da parte di un, mettiamo, altro promeneur: Robert Walser. Pregiatissimo infatti dall’autore del recentissimo Quasi un abbecedario;1 vedi a W come Walser Robert: «Io sono walseriano per la pelle». Un punto di crescente riferimento. A mio parere ineludibile per chi non si accontenti di formule-prigione anche troppo correnti, se non soffocanti, a proposito della collocazione di Giorgio. In Sulla salita di Ravecchia il ciclista-poeta è a colloquio con uno sconosciuto che presto risulta essere un testimone di Geova, uno svizzero-tedesco. Ma in- tanto ecco un assaggio del colore di comicità surreale e metafisica delle battute che si scambiano il testimone e l’Orelli: «la fine del mondo è vicina e tutti i capri − fa presente il nostro testimone – e tutti i capri / saranno separati dai pecori, lei sa?»2 Al colloquio si mescola in più momenti il contrappunto di altra musica, anch’essa dell’inaspettato. Minimi messaggi da un’altra orbita. È il contrappun- to che offre notoriamente, a Orelli, l’infanzia, già per esempio in Sinopie, con le sue mini-epifanie in gioco e in movimento, sia esso o no assumibile «nel cerchio familiare»: «sotto il cavalcavia dove nonni e bambini [il poeta allude pure a se stesso, nonno con nipotini] si fermano a fare cucù». E poi ecco l’allegro incom- prensibile eppure «chiaro chiarissimo», un tratto anche questo dello spettacolo del mondo: un ragazzo fa di corsa la suddetta salita e poi, giunto al piano, cam- mina senza fretta; e non diversamente «sembra chiaro chiarissimo perché / d’un tratto una bambina sia andata fuori di casa / con un cuscino del letto sul capo sebbene non piova». Tutto si fa comunque chiarissimo quando si accerti la scomparsa del centro, di una qualsivoglia gerarchia del mondo. E quando a questo, con quanto porta con sé, scriveva il sopra ricordato Walser, di singolare, di inatteso e di fantasti- co, si vada incontro accogliendolo: fraternamente.3 «La vita», ha detto lo stesso

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Walser, “mi fa amare tutte le apparenze che mi getta davanti».4 Apparenze: il mondo nel suo vitale, casuale e continuo apparire. Una riemersione di neopla- tonismo? la creazione perennemente in atto di sant’Agostino? Forse, ma qui senza garanzie ontologiche. E al piano-terra o quasi. Insomma, non l’essere ma appunto l’apparire. Perché, non certo per un Mario Luzi, amico di Giorgio, ma sì per Walser e direi pure per Orelli, appena dietro le apparenze c’è, o potrebbe poi esserci (la questione resta drammaticamente sospesa), il nulla5… Ma intanto quelle apparenze si sgranano una dopo l’altra e fanno variamente lo spettacolo: e qui dovrei chiamare in causa un altro autore di Orelli, Pessoa, che lui, a leggere la paginetta che gli dedica nel sopra ricordato, prezioso Quasi un abbecedario, deve sentire abbastanza prossimo a Walser: «Saggio è colui che si contenta dello spettacolo del mondo».

2. Potremmo guardare oltre questi versi della Salita di Ravecchia. Orelli va spes- so incontro con la sua bici euristica e pre-capitalista e perciò pure anti-capitali- sta – e la bicicletta appare e riappare di continuo anche nei bellissimi racconti di Un giorno della vita, ne traccia i tempi e ne circoscrive gli spazi – va spesso, dicevo, all’incontro con quelle mini-epifanie che dicevo: il male non abbandona il mondo, il mondo si fa, sì, sempre più grigio e orribile, e grigissimo diventa pure per come lo sfigurano sempre più i suoi abitanti: ma non lo è più se il cicli- sta si ferma, scende o no dalla bici, disposto comunque a cogliere e ad accogliere le proposte del caso, i vari accenti e timbri del vivente contrappunto minimale che dicevo. Dove tutto e tutti appaiono «in fuga, afferrati ad un lembo / della vita»: e qui cito da versi anticipatori, cioè dalla chiusa di Nel dopopioggia, vedi L’ora del tempo, 1962. La varietà casuale dei minimi spettacoli di cui sopra – un altro e splendi- do campione, Ragni, l’ho letto da poco, per esempio, nell’Orlo della vita, alla cui edizione lavora Pietro De Marchi − va ospitata fraternamente: ma, quasi sempre, questo avviene senza pathos. Con un minimo, soprattutto − e il dato è importante −, di illazioni simboliche; e penso ancora a Walser, al cui radicali- smo Orelli si avvicina da un certo punto in poi con grande interesse, ma escluso ogni monotematismo ossessivo.6 L’impressione è che specialmente l’Orelli che in poesia matura i suoi frutti dal ’70 circa in poi non dimentichi la giovane don- na di villaggio del Werther goethiano, che, come poi Silvia leopardiana, mentre «percorre felice e serena il breve cerchio della sua esistenza < e > riesce a vivere da un giorno all’altro, […] quando vede cadere le foglie pensa soltanto che è venuto l’inverno». Anche lei, niente deduzioni “ulteriori”. Forse Giorgio, ma certamente Robert Walser avrà tenuto conto della giovane che il protagonista del romanzo ammira nelle pagine d’avvio. E, comunque, specie l’Orelli “di mez- zo” e poi ancora più l’ultimo si avvicina molto, per esempio, al walseriano Jacob von Gunten, che respira soltanto «nelle regioni inferiori»: sicché la salvezza è nel guardare agli avvenimenti minuscoli, alla vita sparpagliata e senza centro. Al casuale: e «quello che è casuale», si legge nei Fratelli Tanner, «è sempre ciò che vale di più».7

78 Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio

3. Ma vengo agli otto versi di Lucrezio che Orelli traduce in apertura del Collo dell’anitra. Parlano del suo collo e dei suoi colori suscitati dalla luce, nel sole. Vedi il De rerum natura, II, 798-805. Diceva bene Solmi, che il tradurre nasce da un moto d’invidia. C’è una traccia luminosa della fortuna di questi versi, almeno tra La notte di Parini e La Pentecoste manzoniana («Come la luce rapida / piove di cosa in cosa / e i color varii suscita / ovunque si riposa…»; ma vedi pure Virgilio per i «varii […] colores…»); e c’è poi una fortuna lucreziana novecentesca e di primo 2000. Su quella e su questa non mi soffermo. E neanche avrò modo di interessarmi ad altro Lucrezio tradotto da Orelli:8 a parte cenni anche significativi qua e là, fanno quattro in tutto, che io sappia, i suoi assaggi lucreziani, ricorrendo sempre alla quiete un poco estatica del verso lungo, a sua volta sempre più, si sa, ritro- vabile dentro il suo libro poetico; un verso lungo nostalgico dell’esametro. Ma tanto basti per fare intravedere un’attenzione non episodica a quel grandissimo, che gli sarà piaciuto per la tranquilla quanto mobile esattezza dello sguardo e per la sua capacità di sorpresa: per esempio la sorpresa inaspettata, dentro il contesto “scientifico”, dell’indugio sul micro, qui sul variare cromatico del collo dell’anitra, ma anche la sorpresa della madre che cerca il vitellino che le hanno ucciso, o il costruirsi dell’universo dal caos primigenio, o il riso e la meraviglia dei primi uomini di fronte alla novità del mondo. Tutti momenti lucreziani che Orelli ha mirabilmente tradotto. Ma leggo gli otto versi lucreziani e poi la traduzione di Orelli:

Qualis enim caecis poterit esse color tenebris? Lumine quin ipso mutatur propterea quod recta aut obliqua percussus luce refulget; pluma columbarum quo pacto in sole videtur, quae sita cervices circum collumque coronat, namque alias fit uti claro sit rubra pyropo, interdum quodam sensu fit uti videatur inter caeruleum viridis miscere zmaragdos.

E ora i sette versi lunghi del traduttore − «phrases au long cou», come Orelli ricorda, anno 1958, a proposito di Chopin secondo Proust −, più un senario finale:

Quale colore permettono le cieche tenebre? Già nella luce stessa trasmuta un colore se rifulge perché lo percuote obliqua o diritta; così cambiano al sole le piume dei colombi che di torno alla nuca coronano il collo, e infatti talvolta sono rosse di fulgido piropo e paiono talaltra mischiare all’azzurro il colore di verdi smeraldi.

79 Gilberto Lonardi

Non la mimesi esametrica cerca il traduttore, anche se almeno un paio di versi, il terzo e il quinto, abbozzano il profilo del verso lucreziano, offrendo pure la misura breve per il piede finale (vedi per esempio il terzo: «Séri/fùlge- per/chélo per/cuòteo/blìquaodi/rìtta»); ma piuttosto, quando possibile, vivono per un battito dattilico: vedi allora il primo verso, importante proprio in vista dell’atmosfera generale che dicevo, fatto di un ottonario sdrucciolo + un qui- nario sdrucciolo, e così ne viene un bel grappolo di non sei per la verità ma di cinque dattili, forzando però sul quarto: «Quàle co/lòreper/méttono//lécieche/ tènebre?» E vedi anzi, in generale, l’immissione di lemmi proparossitoni: a parte quelli che ricalcano senza problemi Lucrezio, tipo tènebre per tenebris, ecco perméttono per poterit, e soprattutto càmbiano per mutatur, corònano per co- ronat, fùlgido per claro, pàiono per videatur… Il quinto verso è poi forse il più interessante, così ispessito dalle velari. E questo mi fa pensare che anche qui la partitura timbrica, carissima al critico Orelli come al poeta, sia al massimo rispettata dal traduttore rispetto all’originale. Un rispetto che si estende per quanto è possibile a Catullo, e qui dico en passant il mio entusiasmo per la versione del carme VIII catulliano; e oso anzi leggerne, come posso, qualche verso, nel dialetto scoppiettante di Locarno: «Pòro Catűll, piàntala da fa ’l matt / e mètt che chel che nai l’è nai al babi […] Ciao, baštrűca [per Vale puella]9 − al Catűll ormai tegn dűr / ut cerca mia…» E poi, chiudendo: «Dišgraziada! Ti vedi adess che vita? / […] ch’i disarà / “l’è da chel lì”, basàll, cagnàgh i làbar. / Ma ti, Catűll, mòla mia ’l mazz, tegn dűr», 1-2, 12-13, 15, 17-19 (il dialetto va qui incontro allegramente − e sembra, come splendidamente altrove in Orelli, in presa diretta − al latino, mimandone a volte la timbrica come l’italiano non potrebbe con altrettanta naturalezza, vedi solo basàll per basiabis, tegn dűr per obdura/obdurat/obdura).10 Ma torno al quinto verso lucreziano. Come leggerlo? Secondo pronuncia scolastica o secondo dizione “classica”? Certo è che quel verso è stracolmo di velari, di /K/ − «quae sita kervikes kirkum kollumque Koronat». E Orelli: «ke di/ tòrno/ àlla/ nùkako/rònanoil/ kòllo»: anche qui una cadenza esametrica e in più, ad aumentare il pedale delle /K/, non, per cervices o kervikes che sia, la tutta palatale italica *cervice, ma la nuca.

4. Però non basta fermarsi qui. La scelta, il rilievo voluto per questi versi, si spiegheranno a vari livelli: anche per esempio come omaggio alla varia feno- menologia delle bestiole, così le chiama Orelli, in poesia e in prosa. Folto, si sa, il suo bestiario, dalla martora indimenticabile a un’indimenticabile francolina, vedila in Il fanciullo del paradiso − «dov’è fieno / di bosco e giace tiepida / la francolina senza pigolìo»: si nasconde e tace, protegge sé e la cova −, sulla linea di Pascoli e soprattutto di Montale (c’è per esempio un picchio sotto la mira poetica di entrambi) e comunque da luoghi della grande poesia dove le bestiole, aggiungerebbe, non nascono morte, come invece, per esempio, l’augellino che tace in una lontana versione di Tomaso Gnoli da Goethe.11 Meno genericamen- te si spiegherà la scelta di quel Lucrezio per quanto Orelli che traduce lavora

80 Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio dentro il Lucrezio gran virtuoso a sua volta da gran virtuoso, che pure è un suo segno − più esibito in critica, più castigato in lirica –. Ma, chiediamoci, un virtuoso applicato, infine, a che cosa? Nel nostro caso dobbiamo andare oltre l’anitra e il suo collo; chiediamoci a che cosa alluda quel collo, quel trasmutare dei suoi colori. Quel loro mobilissimo, iridato accostarsi, in una successione di attimi. Orelli qui canta qualcosa che gli sta molto a cuore. Appunto il trasmutare dell’effimero; la «bellezza cangiante», poteva insegnargli Hopkins, mediato magari da una splendida traduzione di Montale; i «color va- rii» manzoniani mobilmente suscitati dalla luce: dal rosso del piropo all’azzurro al verde dello smeraldo. Quel mobilissimo trasmutare cromatico è sottolineato, direi, da questo Orelli. Lucrezio ha mutatur – eppure poteva permettersi un trans-mutat, v. infatti De r.n. 2, 488 −; Orelli ha lui trasmuta. Ma certo non si tratta solo di piacere dell’iride. In realtà, potremmo, da que- sta epigrafe lucreziana, affacciarci – ed è lo stesso Orelli, nella prima bandella interna del Collo dell’anitra, a metterci sulla strada – a non poca parte del Libro poetico orelliano nel suo farsi. E guardare ai molti modi del mostrarsi di questo aspetto saliente. Si pensi anche − andrò per assaggi − alla orelliana pratica cangiante delle lin- gue, per una elveticità così profonda, e così sempre più libera, da tradursi in una sorta di radice quadrata della scrittura poetica – altro che «linea lombarda» −: dall’italiano colto alla macchia, isolata e un tantino, diciamolo, superflua, dell’an- glo-italiano dei jeans buttati lì − chiamati al verso dal brillìo delle molte /ì/ toniche e postoniche che gli stanno intorno − traducendo il carme VIII di Catullo, al dia- letto e anzi ai dialetti (vedi, in fondo al Collo dell’anitra, questa orelliana cromatica nota “a collo d’anitra” a In riva al Nilo: sono «in dialetto più o meno bellinzonese L’űšpedà da Zűrigh, In riva al Nilo, E adess? Nel dialetto di Prato Leventina Zalèk. In quello di Locarno, la versione catulliana», p. 112). E poi, da lì, al tedesco e al francese. E tutto questo, ma poi accentuato, fin da L’ora del tempo. Lì si legge, per esempio, un goethianamente perfetto Epigramma veneziano di Giorgio, quasi un prosieguo, il caso non è l’unico, dell’attenzione del traduttore a Goethe, per chi voglia almeno assaggiare un altro esempio del rapido variare di colore del collo che sappiamo: «“El va drito, po ’l volta, po ’l va drito, / po ’l volta…” E quando tace, / l’angelo spettinato par m’additi / oltre le calli il Campo / da cui si svolta nell’eterna pace». Torna la degustazione delle /ì/ quando si tratti di un dialetto – vedi più sopra per il dialetto di Locarno −; torna come non di rado in Orelli il gio- co velare/palatale, tace : pace, calli-campo-cui, con lo svariare di volta-volta-svolta. O vedi «À quatre heures du matin…», nel Collo dell’anitra: francese più italiano più veneziano…; con ritornante timbrica pirotecnica, anche qui, e anche qui con un importante effetto di presa diretta sul parlato. Una pentecoste dei linguaggi, una gioia pentecostale della Lingua, prima ancora che delle lingue. Ma sono anche in un rapidissimo trasmutare la fuga, il moto veloce dei rim- balzi nell’Orelli lettore della poesia altrui: per un esempio fra i tantissimi, vedi le pagine da lui dedicate al suo Frammento della martora, là dove si cita in stretto seguito dalla Commedia, poi suo padre parodiante Verdi cangiando macchiavi

81 Gilberto Lonardi in mangiavi e l’anima in anitra («Eri tu che mangiavi quell’anitra»), poi altro passo della Commedia, poi Montale, poi Carducci: il tutto con l’appetito, come lui ama definirsi anzitutto come critico, dell’«uccello di passo», ma anche con la lentezza ghiottona di chi alla festa della lingua e dei linguaggi non vuol perdersi nulla. Con la pertinenza che sappiamo (quel suo infallibile orecchio cui accen- nava ). E poi e infine, altro livello, il più in evidenza a guardarlo da una specola wal- seriana e in crescente estensione negli ultimi quattro decenni: quel trasmutare anche dell’umano, e molto vi conta il casuale che dicevo: figure e figurette che appaiono e scompaiono – in fuga. E lo spettacolo si dà con un suo particolare mistero – Orelli insiste abbastanza su questa parola − quando, direbbe sempre Giorgio, sono gli «angeli del trambusto inevitabile», i bambini, a offrirsi al let- tore. Siamo al «cerchio familiare» di Orelli. Un tratto molto suo, con esiti alti. E che torna a offrirsi nella sezione ottava del Collo dell’anitra. Meravigliosa per come vi si attua, vincente, la scommessa di ottenere tanto con niente. Fuori, lo ripeto, da ogni gerarchia e da ogni lettura simbolica, a far tornare i conti, quest’ultima, dell’io e del mondo −. Mentre, con Orelli, i conti restano sospesi, a dirci di un fondo-sfondo insieme non pacifico, ma non esposto mai, o quasi mai.

5. Ma è tempo che mi affidi a un’altra citazione, per capire qualcosa di più del campo orelliano del trasmutare. E della mobile varietà di figure e gesti colori parole, cui guarda Orelli, con lo sguardo veloce, a volte cinematografico, ma tutto tranne che indifferente, del ciclista: un apparire dal mobile cromatismo che l’affettività non conduce però mai all’aneddotico, tanto è ironica, controlla- ta, mentre e soprattutto uno sfondo di gravitas si avverte spesso che c’è, anche quando non compare – appare con forza, però, a chiudere, e la collocazione non è certo casuale, il Collo dell’anitra, vedi Le forsizie del Brudelholz: qui la citazio- ne in testa alla lirica è dal molto frequentato Gottfried Benn; e per quel fondo grave ricordo anche solo un titolo benniano: Lo smalto del nulla −. La citazione che annunciavo poco fa è però da qualcun altro, è da Gilbert Keith Chesterton, e tenendone conto potremo riconoscere come il percorso fondamentale di Orelli, tra poesia e anche i racconti, cui sto guardando, sia un percorso che non ha certo fatto da solo. Partiva, Chesterton, più di un secolo fa da Robert Browning: da lui come rappresentante supremo di «una lettera- tura caratterizzata dell’apoteosi dell’insignificante». Forse Orelli chiederebbe peraltro di completarlo e di correggerlo, questo passo: l’insignificanza è solo apparente, visto che poi il “grado zero” si coniuga comunque al vitale, cui non rinuncia: quel vitale che forse solo è, per un attimo, afferrabile nella fuga, nel casuale, nel piccolo, fino appunto all’insignificante.

6. Scegliendo quasi a caso – ma faccio torto alla varietà delle occasioni: sono molto diverse, in Orelli, le declinazioni del casuale e del quasi-niente − allego ora dei versi proprio costruiti coi mattoncini dell’insignificante. Ma non dimen- tico che, comunque, come sia Walser sia Pessoa piacciono a Orelli per come, da

82 Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio quel niente o dal piccolo, ha tratto l’uno «un mondo profondo e intimo», l’altro un “farsi più fitto” delmistero . Dalla sezione Estive, in Il collo dell’anitra:

A sinistra un leghista attempato alla moglie: «Li metto nella borsa gli occhiali?» Lei: «Diocristo nella sacca!» A destra una nonna baffuta che non si spoglia mai e picchia il nipote dicendo «è solo un acconto»; e lui: «Vacca!», e giulivo tira fuori la lingua, si accovaccia nell’ombra della sdraio a scavare nel naso.

Siamo nel regime-zero dell’insignificante e perfino del disgustoso. Pur con una sua misteriosa vitalità. Trarne partito per rappresentarne in versi e a più voci dialoganti – e il dialogo conta moltissimo nel poeta come nel narratore − lo spet- tacolo, vuole dire accogliere comunque quella scena, pur serbando la distanza; e, intanto, giocare, «creando con poco», o «con niente», alla Walser − e viene anche in mente, certo, Flaubert, o anche, poi, la sedia in primo piano di van Gogh, o Morandi e altro ancora −, sulla mobilità del ritmo, badando a stampi nobili, in contrasto con la “materia” addirittura, qui e non qui solo, deietta; ma senza insistere. L’avvio è decasillabico e manzoniano – «A sinistra un leghista attempato»; «a sinistra risponde uno squillo» − e si continua ricordando il Coro del Conte di Carmagnola, ma smangiandolo, o come se la sua stessa ordinata euritmia sprofondasse, vedi «A destra una nonna…» Succedono poi due endecasillabi; poi tutti versi lunghi, però di diversa misu- ra –: vorrei dire che è l’effimero dell’accozzaglia familiare che detta il garbuglio metrico, anche lui nel casuale. Lo si fisserà, allora, salvandolo per un attimo dall’insignificanza e dal triviale, quel minimum in fuga, secondo una partitura timbrica che chieda la sua parte all’udito, questo senso principe dell’Orelli poe- ta e lettore. E qui ecco allora la dorsale spessa e aggressiva delle velari, ancora le velari del traduttore di Lucrezio: oCCHiali, piCCHia, aCConto, e infine vaCCa. Ma qui raddoppiate; si unisca sCavare, ultimo verso, accanto alla palatale, /cc/, doppia anch’essa, di aCCovaCCia: dove trionfano insieme la doppia velare e la doppia palatale. Non proseguo, non sfiderò la gloriosa unicità dell’Orelli lettore per verba. Ma se parlavo di livelli, di certo è questo, che qua e là ho toccato, il livello per eccellenza caro a Giorgio: quello della gamma, assaporata lentamente, in micro, poesia dopo poesia, verso dopo verso, parola con parole − e così la chiama ricordandosi di certi amati francesi, Mallarmé in testa, quando parlano della timbrica poetica −: la gamma cangiante dei suoni. Tocca all’occhio cogliere la mobile gamma cromatica di un collo d’anitra nella luce. Spetta all’udito cogliere e gustare il mobile, iridato lavoro sonoro, timbrico, della lettera, in un’àisthesis − il percepire col senso, sensibile − incessante, eppure, in Orelli, senza estetismo, nella lingua dei poeti. Meglio: nell’offrirsi dello spettacolo quasi infinito della lingua poetica. O delle lingue o della Lingua senz’altro.

83 Gilberto Lonardi

7. Concludo. «Bello e fecondo», diceva Walser, nella Passeggiata, il fenomeno degli accostamenti in fuga che offre il mondo: «una fuga non meno seria che affascinante».12 Credo che anche Orelli creda nella fecondità della perenne fuga di accostamenti che si offrono sulla superficie delle cose. Penso qui per esempio a una lirica tutta fatta di accostamenti, e quello conclusivo chiama in causa a sorpresa la vitalità del geco, come appare in un’altra poesia del Collo dell’anitra: vedi A un amico siciliano, con leggerezza. Un pulsare, nella sua casualità, della vita, che infine spazza via tante cose, a cominciare da certa letteratura. Tra Sicilia e Roma Termini il poeta si è goduto il «policromo trambusto» di «alte soma- le»…; e «quella farfalla (un’altra?) che alacre dispensa / il suo biancore / nel teatro greco»; e la «ragazza dagli svelti astragali / mentre tende al compagno / l’indice su cui tanto / indugia una smarrita coccinella». Altro minimum: la «smar- rita coccinella». Che offre intanto all’udito, alla timbrica della lirica un’altra ba- sica opposizione di suono, tra la rotante e la liquida, tra /RR/ e LL/. E più sopra c’era faRfaLLa, c’erano aLtRa, aLacRe… Ma eccoci alla chiusa, e anche qui una nostalgia dell’esametro, ivi inclusi tre dattili: «Meglio la / vita che / pulsa / nella / gola del / geco». Meglio di che? Meglio, Orelli è un giudice infallibile, dei versi per Tindari di Quasimodo, evocati all’inizio di questo A un amico siciliano. Meglio il «policromo / trambusto» che si è visto e che investe − un fugato veloce − l’intera lirica, dalle somale al geco. Meglio il vitale. Tanto più se colto «nelle regioni inferiori», ai bordi dell’esi- stere; dove anche trascolora, nella viva luce, il collo dell’anitra lucreziana. Quan- to all’essere, lo si lasci all’epoché, al silenzio.

1 A cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014. 2 Quanto alle increspature del comico, ben dentro pure la poesia di Orelli, si potrebbe trarre profitto dai suoi rinvii a Kiekegaard sopra nominato, come a Buster Keaton. 3 R. Walser: «A chi passeggia si accompagna sempre alcunché di singolare, di fantastico […] e saluta con un cordiale benvenuto tutti gli incontri inattesi, fraternizza con essi…», La passeggiata. Racconto, Adelphi, Milano 1976, p. 69. 4 Così Simon, v. R. Walser, I fratelli Tanner, Adelphi, Milano 1977, p. 72. Quanto al fan- tastico, vedi per esempio, nel Collo dell’anitra, il sogno che ha come protagonista il ciabattino Duilio della Casa, con quell’avvio onirico-manzoniano-montaliano, «Scendevo senza fretta gli scalini…» 5 Su Luzi, sulla sua lode continua della «creazione incessante», v. ora S. Verdino, Introdu- zione a M. Luzi, Poesie ultime e ritrovate, a cura di S. Verdino, Garzanti, Milano 2014, pp. 1-2. 6 Mi dice ora, novembre 2014, Mimma Orelli, la moglie di Giorgio, confermando una mia impressione di massima, che una vera conoscenza di Walser comincia non prima degli anni settanta circa. Che sono poi gli anni della vera presenza italiana di Walser (dopo di che, o piuttosto in parallelo, Orelli si sarà rivolto a testi walseriani anche, o solo, leggibili in tedesco; e anche, ci fa sapere lui stesso, al Walser poeta). 7 R. Walser, I fratelli Tanner, p. 204. E intanto, osserva , «del simbolo Walser non può che sorridere», in Id., Jakob von Gunten: un diario, con un saggio di R. Ca- lasso, Adelphi, Milano 1992, p. 172.

84 Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio

8 Tre episodi lucreziani. Sei litografie di Italo Valenti, Scheiwiller, Milano 1991. Da una glossa di Orelli si apprende che, se ho bene inteso, almeno uno degli “esperimenti” di tra- duzione lucreziana, quello da De rerum natura V, 432-48 (dal Caos al primo organizzarsi dell’universo), poi ritoccato, risale al 1952. 9 Quattro anni prima ipotizzava per il «Vale puella» un «Ciao beleza»: cioè in Verso la poesia di Catullo, vivacissima prefazione a Gaio Valerio Catullo, Carmi, traduzione e post- fazione di C. Saggio, Dadò, Locarno 1997, p. 12: «Al di qua, annotava, di Amore mio, addio (Ceronetti), Addio fanciulla (Cetrangolo)». Quale scarto! 10 Perché «ogni lingua ha le sue risorse estetiche irraggiungibili»: Quasi un abbecedario, p. 28. 11 Penso a quanto scrive Orelli dell’augellino di Tomaso Gnoli, nella sua versione goethia- na, 1932, di Hälfte des Lebens: «Certo che pace: tace fa arrossire anche l’augellino [“Sopra tut- te le alture, / pace! […] Nella foresta l’augellino tace”], non per nulla al singolare. Non devo spiegare perché questo augellino ci fa un effetto come se fosse nato morto, mentre, poniamo, l’uccellino che s’arrampica a spirale su per l’olmo in una lirica di Montale ci tiene tanto desti. Solo perché l’augellino è aulico, vestito della festa? Non credo»: G. Orelli, Tradurre poesia, in “Cooperazione”, 15 dicembre 1977, p. 9. Come il Frammento della martora, così anche Il fanciullo del paradiso si legge in L’ora del tempo, ma già era in Nel cerchio familiare, 1960. 12 «La natura e la vita umana mi appaiono come tutta una fuga non meno seria che af- fascinante di accostamenti, fenomeno che ritengo sia da giudicare bello e fecondo»; v. La passeggiata, p. 95.

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ALICE SPINELLI “Attraversando” Valeri. Aemulatio e (co-)intertestualità nel Goethe di Orelli

1.1 Il lavoro sulla parola altrui. Per un’analisi intertestuale delle traduzioni di Orelli dal Goethe lirico Nel trattare una delle molte declinazioni in cui si è dispiegato l’instancabile “la- voro sulla parola” di Giorgio Orelli, ovvero la traduzione poetica (in partico- lare, le sue versioni dal Goethe lirico), il presente contributo tenterà di racco- gliere e interpretare qualche indizio sugli “strumenti del mestiere” a cui ha fatto ricorso il poeta-traduttore. Potranno mancare, nell’officina di un così geniale artista (e orgoglioso artigiano) della parola, le parole d’altri, depositi vivi di una storia letteraria meditata sempre con vigile scrupolo e appassionata devozione? Crediamo di no; e su questo presupposto, che intende valorizzare la parola let- teraria nella sua bachtiniana dialogicità, vorremmo fondare una campionatura esemplificativa delle trame intertestuali che si lasciano intravvedere in controlu- ce nelle traduzioni goethiane di Orelli.1 Si darà qui dunque spazio a un procedimento filologico-ermeneutico teso a valutare i rapporti di dipendenza e interrelazione contrastiva tra le versioni orel- liane e le precedenti traduzioni dal Goethe lirico di Diego Valeri.2 Non si tratte- rà – ça va sans dire – di compilare positivisticamente una lista di fonti o di debiti testuali, né di sminuire la competenza di prima mano e l’inventività ricreativa di Orelli. Se però la ricostruzione del circuito intertestuale attivo in ogni opera di letteratura è prassi da tempo avallata dai più svariati indirizzi esegetici, non si vede perché non la si possa o non la si debba applicare anche agli studi sulle tra- duzioni d’autore, nel momento in cui queste, finalmente affrancate da ogni tac- cia di ancillare utilitarismo, hanno assunto per la critica uno status paragonabile a quello delle produzioni originali. Anzi, poiché la traduzione di per sé nasce da un’ispirazione di secondo grado, e deve adempiere quanto più efficacemente possibile all’obbligo di vicariato che la impegna, a maggior ragione sarà lecito dubitare del mito della stesura di getto, del furor creativo. Molto più realistica- mente si dovrà credere a una ricerca faticosa e certosina, che per il poeta tradut- tore non può non contemplare, accanto all’“appropriazione” intima del testo di partenza nelle sue infinite sfumature e alla tesaurizzazione di un patrimonio identitario privato e collettivo, un confronto maieutico con i suoi compagni di fatiche. Ne ha del resto dato la più emblematica testimonianza lo stesso Orelli, il quale, in un saggio pressoché contemporaneo alla silloge mondadoriana delle sue traduzioni da Goethe, prima di cimentarsi in proprio nell’impresa di tra- durre la celeberrima Hälfte des Lebens di Hölderlin si è premurato di censire e

87 Alice Spinelli analizzare con ogni cura una serie nutrita di versioni preesistenti.3 Mi permetto dunque di leggere in questa prova dell’Orelli critico e poeta-traduttore un’im- plicita autorizzazione, se non proprio un incoraggiamento, al lavoro che mi ac- cingo a presentare, convinta che una migliore comprensione del modus vertendi orelliano non possa prescindere dall’individuazione degli apporti per così dire “esogeni”. Tanto più se i singoli punti di contatto vengono messi a fuoco nella più globale consapevolezza della diversità tra le varie filosofie e tecniche tradut- tive interagenti; una diversità che tali tangenze anzi, se assunte a discriminanti pietre di paragone, possono contribuire a misurare.

1.2. Orelli e i traduttori di Goethe: un dialogo Negli Appunti informativi premessi all’edizione 1974 delle sue traduzioni goe­ thiane4 (non verrà coinvolta nel discorso, in questa sede, l’assai più esigua prin- ceps),5 è del resto lo stesso Orelli a mettere la pulce nell’orecchio, a suggerire cioè in modo nemmeno troppo implicito qualche mirato scavo in senso compa- rativo-intertestuale. Orelli confessa infatti di aver intrapreso l’opera, negli anni quaranta, senza vera cognizione delle traduzioni italiane pregresse,6 ma di aver sentito poi subentrare l’esigenza di un più meticoloso vaglio della tradizione. Come fisiologico per un poeta che andava scoprendo una propria voce sempre più limpida e definita, deve aver cominciato ad agire, in un secondo momento, il pungolo dell’agonismo “orizzontale”, tra pari, da sommare a quella competitio “verticale”, con un originale vincolante ma al contempo mai inerzialmente resti- tuibile, che è insita nell’atto stesso del tradurre poesia.7 Uno scrutinio esaustivo delle rotte intertestuali ricostruibili nel Goethe di Orelli dovrebbe pertanto passare scrupolosamente in rassegna la non sparuta schiera dei letterati italofoni affannatisi a rendere nel loro idioma nativo le liri- che di Goethe.8 In un lavoro dai ben definiti confini come questo, ho tuttavia scelto di privilegiare Diego Valeri come unico riferimento comparativo: non solo in forza della sua indiscutibile autorevolezza intellettuale, ossia dell’alta considerazione di cui godeva – come studioso, traduttore e poeta in proprio – presso l’élite letteraria del nostro Novecento, ma anche perché con lui Orelli intreccia il dialogo a distanza più stimolante e controverso, tra distanziamento esplicito e ben mimetizzate riprese. La trattazione che segue prenderà dunque in esame tre specimina testuali, mostrando di volta in volta i punti di contatto e di divaricazione tra le traduzioni di uno stesso pre-testo lirico goethiano offerte rispettivamente da Valeri e Orelli. Pur senza ambire alla generalizzazione di risultati che necessiterebbero di verifiche a più largo raggio, si tenterà poi di ricondurre i dati raccolti a una ratio coerente che, oltre a meglio descrivere l’ap- proccio traduttivo di Orelli e le dinamiche ricorrenti del suo incontro/scontro con Valeri, possa fornire qualche elemento utile all’interpretazione complessiva della poetica orelliana.

88 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli

2. Orelli “attraversa” Valeri: tre esempi di analisi contrastiva

2.1. Meeres Stille È lo stesso Orelli a rivelare di aver tratto stimolo a cimentarsi con l’ardua Meeres Stille goethiana dal giudizio piuttosto severo che aveva espresso il Fubini sulla traduzione datane da Diego Valeri.9 Non a caso, lo studioso Stefano Barelli ha strutturato in chiave oppositiva il raffronto tra le due versioni.10 L’analisi che ora propongo di questo primo campione testuale tiene naturalmente ampio conto del minuzioso esame comparativo condotto dal Barelli, nonché di altre voci di spicco della bibliografia disponibile in materia (gli studi di Mengaldo11 e De Marchi12 su tutti), ma inserisce tali osservazioni in un quadro interpretativo che ambisce ad apportare qualche – spero non del tutto irrilevante – novità critica.

Meeres Stille

Tiefe Stille herrscht im Wasser, ohne Regung ruht das Meer, und bekümmert sieht der Schiffer glatte Fläche ringsumher.

Keine Luft von keiner Seite! Todesstille fürchterlich! In der ungeheuren Weite Reget keine Welle sich.

Valeri (V) Orelli (O2) Bonaccia Mare calmo

Pace fonda dentro l’acque, Grande pace tiene l’acque, senza moto il mare sta. posa il mare senza un’onda, Scruta inquieto il navigante e vede inquieto il navigante quella liscia immensità. tutto il liscio che lo circonda.

Tace il vento; una mortale Da nessuna parte un fiato. calma stende il suo sopor. Quiete di morte che spaventa. Non un’onda nell’uguale Nello spazio interminato lontanissimo squallor. non si muove neanche un’onda.

Nell’opprimente concisione della lirica goethiana, l’uniformità del ritmo trocaico, replicato identico su due quartine di Vierheber (sostanzialmente, te- trametri) a rima alternatamente femminile e maschile, vuole rendere, «col ral- lentamento stupefatto e l’immobilità mortuaria che ne derivano»,13 una «calma terrifica, alle soglie del nulla».14 Con plastica iconicità prosodica, Goethe asse-

89 Alice Spinelli conda e potenzia infatti il senso di asfissiante sperdimento che l’immagine-tema (una nave bloccata senza vento in alto mare) intende trasmettere. Si realizza insomma nel source-text, con particolare evidenza, quell’alleanza tra significan- te e significato che, in quanto scaturita da un intreccio indissolubile di fattori idiosincratici o almeno idiolinguistici, è assai difficile ripristinare senza perdite o strappi in un diverso sistema linguistico-culturale. Deciso a tamponare l’aporia, Valeri opta per la puntuale «mimesi metrica»,15 anche a costo di disattendere le aspettative del lettore italofono, abituato alla naturale varietas accentuativa dei versi romanzi. Nella tradizione poetica te- desca, infatti, la codificazione seicentesca classicheggiante di Martin Opitz già irreggimentava le diverse configurazioni ritmico-prosodiche entro un predefini- to novero di possibilità combinatorie – in conformità a un “genio” linguistico, quello tedesco, di per sé improntato, nell’esecuzione fonica, a più regolari ca- denze. Goethe dunque, insistendo percussivamente sulla stessa cellula ritmica, estremizzava a scopo evocativo un cursus “marziale” – scandito dall’inesorabile succedersi di arsi e tesi – comunque ben presente, almeno in potenza, nel reper- torio di forme canoniche più o meno intuitivamente accessibile a un suo con- terraneo. Al contrario, un orecchio educato alla mossa musicalità del Petrarca o del Tasso, o comunque uso a patterns regolati dall’isosillabismo (e non, come in tedesco, dal numero fisso degliictus grammaticali, le Hebungen), non può non percepire, negli ottonari a schema rigidamente trocaico (1a - 3a - 5a - 7a) del Valeri, un’inflessione un po’ cantilenante.16 La rima tronca dei versi pari aggrava poi, nella traduzione valeriana, quell’a- ria da «canzonetta settecentesca» già lamentata dal Fubini: l’osservanza filolo- gica del metro di partenza sembra andare a detrimento di una meglio acclima- tata naturalezza d’espressione. Con la sua robusta ossitonia, il tedesco – come il francese – si presta infatti a un contemperato amalgama di rime femminili e maschili molto più agevolmente dell’italiano, assoggettato invece alla “tirannia” delle parole piane. Se vuole rimpinguare lo sparuto thesaurus delle forme tron- che, un poeta del sì deve dunque ricorrere all’apocope sistematica (ecco così, in Valeri, i troncamenti omofonici – fra l’altro, tra due parole allitteranti in /s/ – sopor : squallor, vv. 6 e 8); un espediente, quello dell’apocope in rima, che a un conoscitore medio della letteratura italiana rammenta quasi automaticamente i modi balzellanti di un “poetese” arcadico-rococò prima e ottocentesco poi, e suona perciò un po’ di maniera. L’effetto di smarrita gravitas ottenuto da Goethe con l’assillante indistinzio- ne del ductus ritmico rischia dunque di deragliare nel suo antipodo, ossia in metastasiana levità melica, se lo si persegue imbracciando gli stessi strumenti dell’originale in un contesto storico-letterario ad essi statutariamente refrattario. Diversa è la poetica traduttiva adottata da Orelli, che paradossalmente ricer- ca l’equivalenza sostanziale (certo, quell’equivalenza mai perfetta che è ideale conativo, “asintotico”, molto più che obiettivo concretamente attingibile dal traduttore) per via di un più deciso distacco dal modello formale. Eteronomia dei fini, ma (relativa) autonomia dei mezzi, per sintetizzare in uno slogan quello

90 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli che sembra essere l’atteggiamento traduttivo qui messo in pratica dal Nostro. Come apertamente dichiarato ancora una volta da lui stesso, Orelli preferisce interrompere «il fluire degli ottonari con deliberate inflessioni della voce».17 In- tercalando alle misure ottosillabiche trocaiche (vv. 1, 2, 5, 7, 8)18 dei novenari un po’ zoppicanti, tra loro diseguali ed eterodossi quanto a distribuzione degli accenti (di 2a, 4a, 8a il v. 3; di 1a, 3a e 8a il v. 4; di 1a, 4a e 8a il v. 6), il poeta-tra- duttore prosaicizza la dizione, precludendone ogni deriva verso una cantabilità meccanica. I momenti di brusco scompenso ritmico, comunque accortamente controbilanciati dalla compresenza di misure sovrapponibili alle tedesche, re- stituiscono così alle frasi nude, sottratte al “narcotizzante” martellare del batti- to, tutto il loro peso semantico. La statica indeterminatezza dell’orizzonte, con lo sgomento cosmico che determina, può allora incutere vera soggezione; una troppo prevedibile litanicità rischierebbe viceversa di smorzarne le implicazioni romanticamente “sublimi” e perturbanti. Sempre in quest’ottica di movimentazione ragionativa e anticanzonettistica delle due quartine, oltre che nel solco di un usus novecentesco ormai consoli- dato, Orelli surroga il predefinito telaio rimico del Goethe con un più libero rincorrersi di echi;19 mentre decadono del tutto quelle uscite tronche un po’ polverose che Valeri aveva voluto conservare in estrema ottemperanza all’archi- tettura ritmica dell’originale. A conferma di come la «dominante di Valeri traduttore» sia la «struttura metrica in tutte le sue componenti, a partire dalla rima, con veri e propri tours de force»20 che talvolta sacrificano alla specularità omometrica una resa conforme di altri aspetti del testo-base, si noti poi la «netta e simmetrica bipartizione»21 delle strofe, senza riscontro nel modello tedesco. La radicale ristrutturazione dell’impianto sintattico istituisce anzi un rapporto chiastico, di rovesciamento complementare, con le modalità enunciative di volta in volta adottate nell’ori- ginale. Al v. 1, con la soppressione del predicato herrscht, Valeri dà vita a una frase nominale, così come, circolarmente, ai vv. 7-8 (dove è reget […] sich a non trovare un preciso equivalente morfologico). Per converso, Goethe sospende- va al centro della lirica due esclamazioni nominali – quasi a farle rimbombare, lapidarie e absolutae, in quell’atmosfera di esasperante immobilità e luttuoso silenzio che mirava a ricreare (Keine Luft von keiner Seite! / Todesstille fürchter- lich!, vv. 5-6). Ebbene, Valeri risponde con la giustapposizione asindetica di due coordinate, entrambe rette da una più pacifica e legante sintassi verbale, e con in sovrappiù l’enjambement ad oliare la transizione interversale (Tace il vento; una mortale/ calma stende il suo sopor, vv. 5-6). Orelli calca invece costantemente le mosse del subtesto goethiano: conserva all’incipit il verbo,22 reso «mediante un’inconsueta accezione del verbo “tene- re”»;23 nel verso di chiusa, traspone letteralmente reget sich con si muove (facen- do logicamente precedere il sintagma dal non, laddove la negazione, in tedesco, è incorporata nell’indefinito keine); rispetta la sintassi nominale e l’irrelata auto- sufficienza dei vv. 5-6 dell’originale (benché al v. 6 la resa del semplice aggettivo fürchterlich con la perifrasi relativa che spaventa apra la strada all’ipotassi verba-

91 Alice Spinelli le). Nella prima quartina, inoltre, preserva la congiunzione (und v. 3 → e v. 3), principale responsabile, in quanto sillaba in anacrusi, della dilatazione iperme- tra dell’ottonario trocaico in novenario non canonico24 (e presumibilmente ri- pudiata da Valeri proprio per il disturbo prosodico che avrebbe recato). In tal modo, osserva Barelli, il traduttore tutela «la sovrapposizione di unità metrica e sintattica» pensata da Goethe per la sua prima strofa; «ne risulta, in termini musicali, un “largo” decisamente in contrasto con la rapidità ritmica della ver- sione di Valeri».25

A levigare la superficie di 2O provvede poi una sensibilità materica tutta orelliana, quella stessa propensione ad auscultare i più reconditi accordi sonori (a partire dalle relazioni tra subunità minime e per se asemantiche, i fonemi) che guida gli “accertamenti verbali” del critico. Ed è infatti in virtù di una navigata consapevolezza metaletteraria che Orelli decide di esordire con un’assonanza intrasintagmatica (grAnde pAce, v. 1) utile a «conservare un’efficace dominanza fonica grazie a due forti accenti sulle A (in tedesco sulle I)».26 Tiriamo ora le somme di questa prima analisi differenziale. Orelli sceglie di offrire una traduzione per certi versi in linea col gusto contemporaneo, assimi- labile, per sprezzatura espressiva e destrutturazione ritmica, al milieu poetico secondonovecentesco. Va incontro al destinatario, per fare nostra la nota im- magine di Schleiermacher, nel momento stesso in cui rifoggia un classico della lirica tedesca secondo parametri (parzialmente) consoni al codice letterario vi- gente; così che la potenza pittorica e lo spessore metafisico diMeeres Stille non perdano, in un processo di traslazione che è lato sensu culturale prima e più che linguistico, la loro incisività primigenia. Eppure, la sua non è un’attualizzazione acritica, ma una geniale soluzione di compromesso. Per dirla in termini crociani, occorreva che la voce di Goethe risuonasse dentro la sua voce; il testo d’approdo non doveva essere sostitutivo tout court, ma piuttosto rappresentativo dell’originale. Di qui la necessità di non obliterare le zone di collisione tra il proprio idioletto e le prerogative dell’an- tigrafo; di non conformarsi in toto all’orizzonte d’attesa del pubblico, ma di stimolarne una ricezione critica, conscia dell’ineliminabilità di un certo grado di Verfremdung (o straniamento). Di qui, dunque, il sistema metrico ibrido. Con la sua serie disarticolata di ottonari perfetti, Orelli rimanda non solo alla concreta parole del Goethe lirico, ma a una langue “altra”: marca così la non piena colmabilità del décalage cul- turale, la storicità di un componimento che non è e non deve essere percepito come creazione indigena di un letterato coevo. E tuttavia, i più moderni versi irregolari, oltre a scongiurare quel fuorviante declassamento della poesia a fila- strocca di cui si è detto,27 recano il segno del suo stesso passaggio, sanciscono (bachtinianamente) la “bivocità” di un testo che non è né l’originale né un suo originale. L’elegante tradizionalismo di Valeri rischia viceversa di non problematizzare a sufficienza ilrevival del classico – almeno sub specie orelliana, stando non solo alle inferenze testuali, ma anche alle esplicite prese di posizione critiche e auto-

92 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli riflessive che siamo andati via via citando. Anziché rinnovarsi nell’immanente tensione tra permanenza e riassorbimento della sua nativa alterità, la poesia del Goethe viene ricompresa pressoché senza cedimenti al di qua di una frontiera che a un Novecento “svezzato” da Ungaretti e Montale – solo per citare due dei nomi più emblematici e influenti – non può non apparire ampiamente sor- passata. È forse questo, al di là delle singole divergenze di resa, lo scarto fon- damentale tra la poetica traduttiva del Valeri, fedele a una grammatica stilistica deliberatamente rétro, e quella di Orelli, deciso a far coesistere, in stridente controcanto, i più instabili istituti di una modernità militante con le reliquie di un’eredità attivamente rimeditata.28 La presa di distanza di Orelli dal predecessore è in effetti innegabile, realiz- zata nei fatti oltre che rivendicata ex professo.29 Ma è davvero incompatibilità su tutta la linea? In verità, insistendo univocamente sulle note in contrappunto si corre il pericolo di offuscare significative consonanze. Innanzitutto, l’unica non-rima nell’ordito metrico del Valeri, l’assonanza ac- que : navigante30 dei vv. 1 : 3, si ripresenta identica nella traduzione di Orelli; il quale per di più indulge alla stessa arcaizzante elisione dell’articolo determina- tivo davanti a sostantivo plurale (l’acque, v. 1 O2 = V). Al v. 3 O2 ritorna, quasi sullo stesso piede (non fosse per lo slittamento prodotto dalla congiunzione e), l’inquieto del Valeri (dal bekümmert tedesco, che avrebbe ammesso altrettanto legittimamente rese quali “preoccupato”, “ansioso”, “turbato” ecc.); in ambedue i traduttori, posposto al verbo (scruta al v. 3, in Valeri, il più neutro vede al v. 3, in Orelli), inversamente che in Goethe, dove il participio attributivo precede il predicato (und bekümmert sieht […], v. 3). È di altro ordine, tuttavia, la convergenza più suggestiva. Come già eviden- ziato da Barelli nel suo studio comparativo, al v. 4 «Orelli sostantivizza l’aggetti- vo glatte (il liscio), rinunciando a trasporre l’intero sintagma glatte Fläche, men- tre Valeri, più liberamente e con indubbia reminiscenza leopardiana, traduce Fläche con immensità».31 Al v. 7, è invece Orelli a parafrasare il celebre Infinito, replicando al goethiano ungeheuren Weite32 con uno spazio interminato dal copy- right inconfondibile.33 Seppur sotto differente specie lessicale e diversamente dislocate, ben riconoscibili tessere del fortunato idillio leopardiano s’insinuano dunque sia nella versione di Valeri che in quella di Orelli. Vero è che «era forse inevitabile, in una poesia in cui il mare e il concetto di immensità si trovavano congiunti».34 Tuttavia, appurato che Orelli ben conosceva la versione valeriana (al punto da esserne stato contrastivamente ispirato), e stanti le tangenze testuali appena individuate, non sarà forse un azzardo pensare che l’interferenza me- moriale foriera del suo recupero leopardiano sia stata mediata dal precedente di Valeri. La versione di quest’ultimo, impreziosita da un sovradeterminante immensità (come detto, per il più referenziale Fläche) di cui un poeta dall’inter- testualità fine e scaltrita come Orelli ha senza dubbio còlto la densità allusiva, potrebbe in altri termini aver agito da catalizzatore in praesentia di un’«inter- mittence du cœur» leopardiana che già l’isotopia dell’indeterminato e una Stim- mung intrisa di sopraffatta trepidazione certamente propiziavano.

93 Alice Spinelli

2.2. Heidenröslein

Fissati i presupposti della ricerca e tracciato un primo schizzo in controluce dei rispettivi profili di Valeri e Orelli traduttori, procedo ora più speditamente nella disamina di altri casi esemplari. Va in primo luogo chiarito che la verosimile influenza della silloge valeriana a livello macrostrutturale non ha rivoluzionato i criteri di ordinamento già vigenti nell’edizione Mantovani. Ovvero: si può ragionevolmente supporre che Orelli abbia aggiunto in O2 alcune traduzioni su impulso di una lettura agonistica della raccolta di Valeri. La suddivisione delle liriche in sezioni compatte per “genere”, temi o tono alla quale quest’ultima si attiene (in filologico ossequio all’Ausgabe letzter Hand)35 non l’ha convinto tuttavia a scompaginare la seriazione cronolo- gica adottata nel 1957 e coerentemente riproposta nel 1974. Ciò non toglie che ad apertura dell’edizione mondadoriana si ponga, come in Valeri, la giovanile Heidenröslein; una ballata dalle agili movenze popolareg- gianti, ma dal non altrettanto spensierato simbolismo, che il Goethe del perio- do strasburghese aveva spacciato a Herder (forse davvero muovendo da una fonte orale) per uno di quei Volkslieder tanto fervidamente collezionati dal più anziano sodale, e di cui solo in seguito si attribuì espressamente la paternità.36

A quanto dichiara Orelli, la versione di Heidenröslein compare in O2 per una sorta di omaggio a Caproni;37 in effetti, il testo ben s’intona con i freschi accenti ballatistici, da simulato folklore popolare, tipici della poesia caproniana. L’allu- sione a Caproni non esclude tuttavia un ricettivo “sfruttamento” della versione di Valeri, che sembra anzi aver lasciato qualche non trascurabile impronta nel lavoro traduttivo di Orelli. Come per Meeres Stille, trascrivo prima l’originale tedesco e a seguire, l’una di fronte all’altra, le sue derivazioni italiane per mano di Valeri e Orelli. Anche in questo caso, l’itinerario interpretativo seguirà a tratti la falsariga di precedenti studi, allo scopo però di rifunzionalizzare in una prospettiva inedita le notazioni mutuate dalla bibliografia corrente.

Heidenröslein

Sah ein Knab ein Röslein stehn, Röslein auf der Heiden, war so jung und morgenschön, lief er schnell, es nah zu sehn, sahs mit vielen Freuden. 5 Röslein, Röslein, Röslein rot Röslein auf der Heiden.

Knabe sprach: Ich breche dich, Röslein auf der Heiden! Röslein sprach: Ich steche dich, 10 dass du ewig denkst an mich,

94 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli

und ich wills nicht leiden. Röslein, Röslein, Röslein rot Röslein auf der Heiden.

Und der wilde Knabe brach 15 ’s Röslein auf der Heiden; Röslein wehrte sich und stach, half ihm doch kein Weh und Ach, musst es eben leiden. Röslein, Röslein, Röslein rot, 20 Röslein auf der Heiden.

Valeri (V) Orelli (O2) Rosellina di bosco Rosellina di macchia

Vide un bimbo una rosetta, Vide un bimbo una rosa, rosetta di bosco, rosellina di macchia, mattutina e giovinetta. così fresca e mattutina: Alla bella accorse in fretta corse in fretta, e l’ha vicina, e la prese a contemplar. 5 con gran gioia l’adocchiò. 5 Rosa rosa rosa rossa, Rosa, rosa, rosa rossa, rosetta di bosco. rosellina di macchia.

Disse: «Cogliere ti vo’, Disse il bimbo: Ti colgo, rosetta di bosco!» rosellina di macchia! E la rosa a lui: «Però 10 E la rosa: non lo voglio, 10 non vogl’io: ti pungerò, io ti pungo che per sempre né mai più potrai scordar dovrai pensare a me. questa rosa rosa rossa, Rosa, rosa, rosa rossa, rosetta di bosco!» rosellina di macchia!

Il selvaggio se la prese, 15 E il bimbo ignaro prese 15 La rosa di bosco. la rosellina di macchia; La rosetta si difese, la rosa si difese, punse e pianse, ma le offese punse, gridò, ma invano: non poté però evitar. lo dovette sopportar. Rosa rosa rosa rossa, 20 Rosa, rosa, rosa rossa, 20 rosetta di bosco! rosellina di macchia.

Come c’era da aspettarsi, Valeri si impegna in una decalcomania metrica quan- to più possibile aderente alla matrice. Ne scaturisce «uno schema strofico rigo- roso, quasi perfettamente sovrapponibile all’originale, fondato sull’alternanza di senari e ottonari rimati (rimano tra loro il primo, terzo e quarto v. di ogni strofe; il quinto v. determina una rima strofica, sempre ottenuta mediante un troncamen- to)».38 A ben vedere, Valeri è qui più realista del re: conia rime tutte ineccepibili. Per sovrimprimere al suo Lied una patina più genuinamente popolaresca, Goethe

95 Alice Spinelli sciorinava invece senza timore delle unreine Reime, con più o meno lieve escur- sione timbrica (stEhn: morgenschÖn : sEhn vv. 1 : 3 : 4; FrEUden : lEIden : lEIden vv. 5 : 12 : 19, rima strofica). Nota ancora Barelli che «alla musicalità orecchiabile della versione di Valeri fa da contrappunto quella più complessa, benché sempre assai agile, di Orel- li».39 I versi plasmati da quest’ultimo – in una libera mistura di settenari e otto- nari – non sono infatti imbrigliati in un’armatura rimica costrittiva. Fatto salvo il vincolo dell’uscita tronca al quinto verso di ogni strofa, i legami fonici sono per così dire “facoltativi”, e talora più lassi della rima perfetta.40 Sul piano lessicale e sintattico, la “popolarità” del Valeri è in realtà fittizia e libresca, ricreata in vitro sulla scorta di un frasario poetico avito. Basti pensare alla dispositio anastrofica e alla forma abbreviata del modale incogliere ti vo’ (v. 8); o alla nuova inversione dell’ordo verborum naturalis in vogl’io (v. 11), dove anche l’elisione del verbo congiura al sapore librettistico, quasi da melodramma verdia- no, del segmento strofico.41 Orelli aspira invece alla «creazione di un linguaggio poetico all’insegna della colloquialità popolaresca»,42 e a tal fine immette nella sua traduzione degli spaccati di un’oralità sgrammaticata e perciò tanto più credibile. È il caso della consecutio temporum anacolutica sgranata tra i vv. 4 e 5 (corse in fretta, e l’ha vicina, / con gran gioia l’adocchiò),43 dove il subitaneo e reversibile passaggio dal perfetto al presente narrativo genera un «notevole effetto di spon- taneità e dinamismo».44 Altrettanto icastico l’impiego, al v. 11 in Orelli, del che polifunzionale,45 quel «“che” passe-partout tipico della sintassi popolare e perfet- tamente coerente con le scelte del poeta ticinese»46 (io ti pungo che per sempre/ dovrai pensare a me, vv. 11-12). Quella di Orelli è un’esibita ribellione contro le affettazioni di un’astratta “superlingua” letteraria: tanto che il voglio non marcato del v. 10 è da lui stesso assunto a bandiera dell’insubordinazione, in un’abiura di modi stanchi e antiquati che trova proprio nel famigerato vogl’io del Valeri il suo simbolico bersaglio – quasi l’ingombrante totem da abbattere.47 Eppure, questo stesso luogo da Orelli addotto a cartina al tornasole di una più fresca nouvelle vague espressiva è al contempo spia del parziale accoglimen- to di iniziative del Valeri. Ai vv. 10-12, l’archetipo tedesco articolava infatti in due momenti consecutivi (e coordinati da und, v. 12) la risposta della rosa allo Knabe intenzionato a coglierla: alla minaccia di una “memorabile” puntura (Ich steche dich, / dass du ewig denkst an mich, vv. 10-11) seguiva il piccato rifiuto a tollerare il dispetto (und ich wills nicht leiden, “e non voglio sopportarlo”, v. 12). Il v. 12 si correlava così, saldando il cerchio narrativo con la simmetria complementare di un subritornello contrappuntistico, al v. 19, suo omologo (anch’esso quinto verso della strofa, con rima identica leiden: Musst es eben lei- den, “dovette proprio sopportarlo”). Valeri inverte le due fasi, aprendo la bat- tuta con un secco Però / non vogl’io (vv. 10-11) e posponendogli l’avvertimento della rosa, deterrente nei fatti vano (ti pungerò, / né mai più potrai scordar […], vv. 11-12). La risistemazione dei componenti frastici e soprattutto l’uso assoluto del modale (wills reggeva in Goethe leiden, mentre vogl’io non trova qui un suo complemento infinitivo) aboliscono la rispondenza “in rondò” col v. 19. La

96 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli resa orelliana condivide tutte queste alterazioni strutturali (Non lo voglio, / io ti pungo che per sempre/ dovrai pensare a me, vv. 10-12): una curiosa coincidenza maturata per via del tutto indipendente? Difficile da immaginare. Pare più economico supporre che la traduzione valeriana sia servita qua e là, se non proprio da canovaccio per la rielaborazione di Orelli, almeno da filtro non del tutto trasparente: tanto più che dalla lezione del Valeri sembra residuare, in O2, anche qualche trouvaille ritmica. Beninteso, ciò non mette in discussione lo scarto di principio tra la concezione metrica “conservatrice” di Valeri e quella di Orelli, molto meno ligia a istituti secolari ormai pericolanti. Non è però di scarso interesse che Orelli abbia deciso di sopperire alla rima strofica imperfetta di Goethe (si ricordi: Freuden : leiden : leiden, vv. 5 : 12 : 19) con un’anomala “rima ritmica” tra parole tronche (adocchiò, v. 5; me, v. 12; sopportar, v. 19). An- che nella traduzione di Valeri ricorrono nelle stesse sedi delle terminazioni ossi- tone, pur se, in più obbediente ripresa dell’originale, «con il surplus […] della rima strofica»48 (contemplar : scordar : evitar, vv. 5 : 12 : 19). In sostanza, Orelli rinuncia, a differenza di Valeri, all’omofonia piena; ma è probabile che proprio da lui abbia ricavato l’idea di una corrispondenza tra forme tronche, senz’altro adatta a evocare i ritmi squillanti e briosi di una ballata popolare. Va detto che la scelta, in relazione al Lied goethiano, era tutt’altro che “telefonata”: la rima femminile avrebbe più coerentemente dovuto dirigere verso esiti parossitoni, in comodo accordo con le dominanti consuetudini intonazionali dell’italiano. Si aggiunga poi che in un caso, al v. 19, l’ossitonia è ottenuta da Orelli tramite l’apocope della desinenza infinitivale di prima coniugazione sopportAR( ), come di regola nella terna di V, coagulata attorno ad una facile rima grammaticale (contemplAR, scordAR, evitAR). Infine, qualche nota lessicale di rincalzo. Alla luce delle intersezioni accerta- te, non pare più fortuito il fatto che «entrambi i poeti concordino nel tradurre morgenschön, che letteralmente richiederebbe una forma perifrastica, con mat- tutina, supponendovi inclusa l’idea di bellezza».49 Né senza peso indiziario sarà, giacché comune alle due versioni, «il forzato spostamento semantico […] nella traduzione del termine che designa il protagonista maschile: Knabe in tedesco copre in effetti un’area di significati che comprende tanto il bambino quanto il ragazzo. Nessun vocabolo italiano consentiva di conservare questa ambiguità tanto efficace nel testo di Goethe: Valeri e Orelli traducono entrambi bimbo, con inevitabile sottrazione di potenzialità semantiche legate al tema della scher- maglia amorosa e al τόπος del carpe diem».50

2.3. Nähe des Geliebten Passo ora all’ultimo specimen testuale che ho scelto di trattare in questo contri- buto. Se per ricostruire il rapporto dialettico instaurato col Valeri nelle tradu- zioni orelliane di Meeres Stille e Heidenröslein abbiamo potuto giovarci, per così dire, di ghiotti assist serviti da Orelli stesso (bastava leggere con accortezza i suoi

97 Alice Spinelli

Appunti informativi per trovare una prima chiave d’accesso alla dichiarata cor- relazione intertestuale), nel caso di Nähe des Geliebten occorrerà invece affidarsi in toto a meno espliciti, ma non meno sintomatici, indizi testuali. Innanzitutto il titolo scelto da Orelli per la sua traduzione, Presenza dell’a- mata, spiazza già sulle prime chi mastichi un po’ di tedesco. Nell’intestazione goethiana, il determinante des Geliebten è infatti un sintagma genitivale che la grammatica autorizza ad interpretare esclusivamente o come maschile o come neutro: “(presenza, vicinanza) dell’amato”, dunque.51 L’apparente stranezza del- la dicitura al maschile – considerata (sia detto con un sorriso) l’intonsa fama di tombeur de femmes del Goethe uomo e soprattutto poeta – è presto spiegata: lo squisito Lied nasce come cover di un testo scritto da Friederike Brun – poetessa allora di qualche rinomanza – e messo in musica dal compositore berlinese Carl Friedrich Zelter. Incantato dalla melodia, ma evidentemente non dalle parole, Goethe aveva deciso di accompagnare alla partitura dello Zelter lyrics di propria fattura, massicciamente rimaneggiando il prototipo (invero un po’ scolastico) della Brun.52 È possibile che Orelli, non conoscendo la preistoria di Nähe des Geliebten, l’abbia annoverata tra le tante liriche d’amore dell’autore francofortese, e abbia pertanto fatto coincidere con quest’ultimo, senza troppo elucubrare, l’io poe- tante.53 Ma se non si è interrogato troppo sulle ragioni di quel genitivo maschile (o neutro), forse è stato anche per il conforto che gli veniva dalla versione di Valeri, non a caso parimenti intitolata Presenza dell’amata. Sebbene non le si possa attribuire la valenza probatoria che l’ecdotica assegnerebbe a un errore congiuntivo, l’identità del titolo, a fortiori per la “licenza” che la femminilizza- zione sottintende, davvero suscita qualche sospetto d’interdipendenza.54 Prima di demandare a un fascio organico di rilievi testuali il compito di ve- rificare la legittimità di tale sospetto, converrà però leggere per intero i testi su cui verterà il discorso.

Nähe des Geliebten

Ich denke dein, wenn mir der Sonne Schimmer vom Meere strahlt; ich denke dein, wenn sich des Mondes Flimmer in Quellen malt.

Ich sehe dich, wenn auf dem fernen Wege 5 der Staub sich hebt; in tiefer Nacht, wenn auf dem schmalen Stege der Wandrer bebt.

Ich höre dich, wenn dort mit dumpfem Rauschen die Welle steigt. 10 Im stillen Haine geh ich oft zu lauschen, wenn alles schweigt.

98 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli

Ich bin bei dir, du seist auch noch so ferne, du bist mir nah! Die Sonne sinkt, bald leuchten mir die Sterne, 15 o wärst du da!

Valeri (V) Orelli (O2) Presenza dell’amata Presenza dell’amata

Io penso a te se, raggiante dal mare, Io penso a te se la brace del sole il sol mi batte in fronte; mi sfavilla dal mare; io penso a te se un barlume lunare penso a te se in sorgive si riverbera si specchia nella fonte. il chiarore lunare.

Vedo te se la polvere si leva 5 Vedo te se lontano sulla strada 5 da lungi a nembi folti; la polvere si leva; se a notte fonda il viandante trema e a notte fonda, se sul ponticello varcando aerei ponti. il viandante trema.

Odo te se con murmure sommesso Odo te se laggiù con rumorìo laggiù si gonfia il flutto; 10 sordo sale il frangente. 10 nel cheto bosco sto in ascolto spesso, Spesso nel quieto bosco vado e spio, allor che tace il tutto. quando tutto è silenzio.

Sono con te, con me sei tu, se bene Io son con te; benché tu sia così lungi tu sia così! lontana, sei con me. Si cala il sole, brilleran le stelle 15 Cade il sole, or mi brillano le stelle. 15 tosto. Oh fossi tu qui! Ah, se tu fossi qui!

Basterà mettere puntualmente a confronto le corrispettive rese di qualche stesso locus goethiano per trarre ennesima e risolutiva conferma dell’opposizio- ne di fondo tra i due atteggiamenti traduttivi. All’inizio della seconda strofa, ad esempio, Valeri enfatizza il poco marca- to auf dem fernen Wege del v. 5, trasformandolo in un da lungi a nembi folti (v. 6) che non solo abroga l’asciutta denotatività spaziale del tedesco (auf dem […] Wege, “sulla strada”) per intromettere un’apocrifa (e piuttosto conven- zionale) specificazione intensificativa (a nembi folti), ma opta anche, nella resa di ferne, per l’aulicismo lungi, evidentemente aspirando a una classicheggiante sostenutezza tonale. Al contrario Orelli, oltre a scansare qualsiasi tentazione interpolatoria, fa ricorso al sinonimo più quotidiano (lontano sulla strada, v. 5); e la medesima allotropia si ripropone nell’ultima quartina (du seist auch noch so ferne, v. 13 → se bene / lungi tu sia così, vv. 13-14 V ≠ benché tu sia così / lontana, 55 vv. 13-14 O2). Implica un’analoga polarità diafasica – tra arcaizzante elevatezza di registro e più ordinaria colloquialità – l’allofonia consonantica nella coppia cheto (v. 11

V) ~ quieto (v. 11 O2), per il tedesco stillen (v. 11).

99 Alice Spinelli

Ancora riconnotante è infine l’interpretazione valeriana di un altro sintagma locativo, in parallelismo rimato con l’auf dem fernen Wege (v. 5) di cui si è appe- na detto. Al v. 7 G, auf dem schmalen Stege (“sul ponte stretto”) è indicazione scevra di sovrasignificati evocativi. Per converso, la sobria referenzialità goethia- na tende a rarefarsi in un’atmosfera nobilmente immaginifica nella traduzione di Valeri (varcando aerei ponti, v. 8). Con la diminutivizzazione del costrutto tedesco, Orelli si assesta invece su toni di più dimessa confidenzialità (sul pon- ticello, v. 7). Se questi rilievi congiunti possono valere da experimentum crucis in grado di discriminare con nettezza tra l’uno e l’altro atteggiamento traduttivo, ribadendo la destituzione orelliana dell’anticheggiante “letterarietà”56 di Valeri, essi non detengono però un significato filologicamente separativo: non esimono cioè dal setacciare le due versioni alla ricerca di raccordi e dipendenze genetiche. I con- tatti sembrano qui anzi – al di là del già non irrilevante titolo condiviso – ingenti e persuasivi, perché non si limitano a sparse chiazze di superficie, ma ineriscono al pattern metrico-formale stesso delle due traduzioni, e quindi alla loro “gram- matica profonda”. Il Lied goethiano si articola in quartine rette da sinergiche alternanze: i fünf- hebige Jamben (pentametri giambici) di collocazione dispari sono intervallati, in sede pari, da Zweiheber con ritmo analogamente ascendente (tesi – arsi – tesi – arsi); le misure isometriche sono allacciate dalla rima, di nuovo con avvicenda- mento di uscite femminili e maschili: ne risulta uno schema iterato AbAb, con A pentametro giambico piano e b dimetro giambico tronco. A differenza che nella traduzione di Meeres Stille e nella maggioranza delle sue versioni goethiane, Valeri non persevera qui in una restituzione epidermica- mente esatta del ritmo originale, ma lavora a una più morbida equivalenza cul- turale, che seleziona all’interno della tradizione lirica italiana una forma metrica latamente affine a quella goethiana. Elabora così quattro quartine di endecasil- labi e settenari a rima alternata. Per giunta, discostandosi in ciò di nuovo dalle altre due prove sopra analizzate, Valeri supplisce talvolta alla rima perfetta con più o meno ricche assonanze e accanto alla corrispondenza piuttosto sostanzio- sa folti : ponti (vv. 6 : 8) avalla legami più deboli, come leva : trema (vv. 5 : 7) e soprattutto bene : stelle (vv. 13 : 15). Un Valeri metricamente meno “fondamentalista”, dunque; intento a una più discreta evocazione del soffuso clima lirico e della musicalità cangiante del mo- dello goethiano, anziché deciso a copiarne religiosamente le fattezze. Ed è que- sta incarnazione più modernamente “empatica” del Valeri traduttore che Orelli può avvertire come a lui più congeniale, e che può perciò agire più a fondo sui suoi stessi meccanismi di resa. Anche in O2 compaiono infatti quartine di ende- casillabi e settenari. E la forma prescelta dai due traduttori italiani incide sensi- bilmente sul rapporto metro-sintassi e sugli equilibri strofici stabiliti da Goethe: mentre per i versi dispari la misura endecasillabica collima suppergiù con quella tedesca, i settenari pari espandono notevolmente i corrispettivi Zweiheber, a cui meglio si attaglierebbero, a rigore, dei quinari. Probabilmente anche per

100 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli via di quest’amplificazione mensurale i due traduttori si trovano talvolta ad in- trodurre ex novo dettagli qualificativi, o a redistribuire il materiale poetico tra i due versi di ogni coppia: per rimpolpare il secondo membro, vi fanno slittare degli elementi collocati da Goethe nel primo, così ingenerando enjambements eccedenti rispetto al testo tedesco (dove melos e logos combaciano pressoché senza eccezioni).57

Non soltanto lo scheletro strutturale di O2 – inteso come astratto concetto architettonico – sembra tuttavia discendere dalla traduzione di Valeri (oppure, più prudentemente, trovarsi con questa in indicativa sintonia).58 A rinsaldare il nodo intertestuale provvede la trasmigrazione dall’una all’altra versione di forme e sintagmi puntuali, spesso situati in rima, ossia nella posizione più carat- terizzante e memorabile del verso. Anche in questi casi, riesce difficile pensare a sviluppi indipendenti, tanto più in quanto questi loci paralleli non risultano da trasposizioni interlineari – per così dire obbligate, imposte dalla lettera dell’an- tigrafo –, ma trascelgono concordemente una soluzione possibile tra più alter- native adiafore, o addirittura prevedono un certo grado di riformulazione del dettato goethiano. Ecco elencate le coincidenze rimiche tra i due testi:

• mare : lunare, vv. 1 : 3 V = vv. 2 : 4 O2, dove lunare implica la condensazione in aggettivo relazionale del genitivo di specificazione des Mondes ‘della luna’ (v. 3);

• (la polvere) si leva : (il viandante) trema, vv. 5 : 7 V = vv. 6 : 8 O2, con un’ugua- glianza che non si ferma ai rimanti, ma coinvolge gli interi segmenti frastici (emistichi in Valeri, versi completi in Orelli);

• così : qui, vv. 14 : 16 V = vv. 13 : 16 O2, secondo due piani ritmico-sintattici diversi, ma entrambi comportanti la scissione di così – mediante iperbato o enjambement – dall’elemento che intensifica so( ferne, v. 13 → lungi tu sia

così, v. 14 V; così / lontana, vv. 13-14 O2).

Non pare infine da tacere il fatto che in entrambe le versioni si respiri, direb- be Orelli, un “ozono”59 pascoliano. Se Valeri incastona nella sua traduzione un tassello estratto tale e quale da Primi poemetti (murmure sommesso, v. 9),60 così instaurando col Pascoli un legame intertestuale sintagmatico, nel dettato orel- liano le risonanze coinvolgono piuttosto l’asse paradigmatico della costruzione poetica: non affiorano cioè in superficie ben documentabili innesti testuali, ma alcuni stilemi e moduli espressivi effondono, per così dire, un’aura pascoliana, o comunque mettono a frutto le più celebrate innovazioni tecniche di Myricae e dei Canti di Castelvecchio. In rima con spio (v. 11), ecco in Orelli rumorìo (v. 9), sostantivo che, seppur di per sé mai attestato nell’opera omnia del Pascoli, sfu- ma in quel suffisso attenuativo-ìo che la critica61 ha giustamente annoverato tra le cifre più caratteristiche del suo impressionismo linguistico.62 Per il sintagma la brace del sole del v. 1 O2 (dal goethiano der Sonne Schimmer, “il bagliore del sole”), Mengaldo ha evidenziato a buon diritto la memoria sottotraccia di «un costrutto postsimbolistico con inversione di determinante e determinato (e si

101 Alice Spinelli veda, ad esempio, Ungaretti: “Un fiore di pallida brace”)»;63 e tuttavia, sia pure mutatis mutandis, sembrano almeno echeggiare in lontananza locuzioni propria- mente simbolistiche, e tipiche in particolare dell’evocativo pittoricismo pasco- liano, come un nero di nubi, un’alba di perla,64 ecc. Certo, il concomitante (seppur tipologicamente difforme) richiamo al Pa- scoli di Valeri e Orelli non è qui stringente come ci è parso, nel caso di Meeres Stille, l’accordo leopardiano; non gli si può attribuire un’incontrovertibile for- za dimostrativa. Puntualizzato che non si esclude la poligenesi delle rispettive, più o meno cogenti correlazioni pascoliane, non parrebbe comunque illecito congetturare – dato il precedente del più sicuro leopardismo e accertata ormai l’intensità e la produttività dello scambio tra i due traduttori – che di nuovo per intercessione del Valeri si sia innescato in Orelli un “effetto domino” di remi- niscenze interculturali originalmente rivitalizzate.65 E se anche queste memorie letterarie in certo modo confluenti non apparissero troppo degne di nota, se pure cioè si volesse interpretarle come fortuite coincidenze anziché ricondurle a un fenomeno che si potrebbe tentativamente definire di “co-intertestualità”, o “intertestualità mediata”; ebbene, credo che tuttavia gli altri elementi apportati, che un’analisi più distesa potrebbe integrare ulteriormente, dimostrino come l’Orelli traduttore di Goethe abbia “attraversato” Valeri – intendendo il verbo in un’accezione simile a quella che gli assegnava Montale nel riferirsi al rap- porto di Gozzano (e, sotto mentite spoglie, suo proprio) con d’Annunzio. Un rapporto di contrastata aemulatio, nel quale il distanziamento a tratti polemico e infine il cosciente superamento del modello non esclude – e anzi presuppone – una frequentazione ravvicinata, capace di carpire e metabolizzare escamotages stilistici e soluzioni linguistiche o strutturali già sperimentate dal predecessore e ritenute funzionali, con i dovuti accorgimenti, a un pur ben distinto progetto poetico.

3. Palinsesti orelliani: quando il classico “vive ancora” Questa breve rassegna analitica ci ha permesso di incontrare il macrofenomeno dell’intertestualità a diversi livelli e nelle manifestazioni più varie. Innanzitutto, inevitabilmente relazionale è l’atto stesso del tradurre, poiché sorge e viene re- cepito in continua tensione dialettica (in praesentia, nel caso del testo a fronte) con l’originale alloglotto. Non è però solo il basso continuo della voce goethiana ad accompagnare le versioni di Orelli come loro stessa condizione d’esistenza. La penna del poeta-traduttore assorbe le tracce del passaggio di colleghi-rivali come Valeri (o almeno, «il più bel fior ne coglie»), e le fonde con altre memorie attinte dalla propria biblioteca personale, o motu proprio (come nel caso della reminiscenza montaliana innestata nella traduzione di Nähe des Geliebten), o col presumibile tramite del precedente traduttore (in un procedimento reticolare di risalita ad fontes “per links successivi” che abbiamo definito qui, constatando l’accordo Orelli-Valeri nel vario richiamo a Leopardi e Pascoli, “co-intertestua-

102 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli lità” o “intertestualità mediata”). Le versioni goethiane di Orelli convogliano e armonizzano dunque più voci, livellando distanze linguistiche e anacronismi storico-letterari nel revival interculturale di un testo espanso in profondità e capace di rifrangersi in un dotto caleidoscopio di evocazioni incrociate. Tale plurivocità addomesticata, reincanalata entro l’alveo della propria espressione poetica, è in linea d’altronde con la docta contaminatio che sostanzia molte poesie originali di Orelli, e che non è mai classificabile come citazionismo esibizionistico o horror vacui fine a se stesso. Stralci dei suoi “autori del cuore” (Dante su tutti, ma anche Leopardi e Pascoli, per citare due poeti che abbiamo visto intrufolarsi nelle traduzioni analizzate) s’impigliano tra i suoi versi o assur- gono a titolo di componimenti e intere raccolte,66 traendo aggetto dallo strania- mento linguistico-stilistico, ma allo stesso tempo colorando di nuove sfumature il proprio Fortleben, il proprio “vivere ancora”, prerogativa di un classico che, con Calvino, «non ha mai finito di dire quel che ha da dire».67 Questa densità memoriale positivamente “vischiosa” e mai succube rispecchia un’idea viva e vi- vificante della letteratura come possesso identitario collettivo e fruibile; un’idea umanistica, comunitaria ed espansiva, che vede nell’interazione (anche agonisti- ca) tra le voci non una minaccia, ma un valore aggiunto. Allo stesso modo, Orelli non si pèrita a introdurre nel suo laboratorio tradutti- vo materiali di varia provenienza, per immergerli – opportunamente risagomati – nel crogiolo di testi che, in quanto traduttivi, sono già costituzionalmente etero- genei, nati dal connubio di universi linguistici e poetici in proficuo attrito. In fondo, alla base di quest’apertura polifonica si può scorgere quella stessa idea di “socialità” che permea la sua visione del mondo, e conseguentemente la sua scrittura. Ostile a ogni ripiegamento autoreferenziale, Orelli non fugge mai «via dalla pazza folla», nella turris eburnea del poeta laureato, ma trova proprio nella parola scambiata e condivisa la scintilla che anima molti suoi versi; nell’accavallarsi delle voci, l’alimento di un dialogo coesteso alla vita, in ogni sua dimensione.

1 Riprendo e approfondisco qui un discorso critico avviato anni fa, nella tesi di diploma discussa all’Istituto Universitario di Studi Superiori (IUSS) di Pavia nell’ottobre 2012 sotto il titolo Variazioni a più voci. Giorgio Orelli traduttore del Goethe lirico: dinamiche intra- e intertestuali. Ai direttori di quel lavoro, la prof.ssa Maria Antonietta Grignani e il prof. Pietro De Marchi, spetta la mia più sincera gratitudine: il loro costante incoraggiamento e la loro meticolosa supervisione mi hanno permesso di chiarire e sviluppare molti degli spunti qui raccolti. Non posso inoltre passare sotto silenzio il contributo come sempre attento e gene- roso della prof.ssa Silvia Isella, mia mentore degli anni pavesi e a tutt’oggi mio irrinunciabile punto di riferimento (non solo) scientifico. Resta comunque inteso che eventuali mende e inesattezze contenute in queste pagine sono di mia esclusiva responsabilità. Le riflessioni qui proposte vanno lette inoltre in ideale continuità con un mio breve arti- colo al quale mi permetto di rimandare (Giorgio Orelli traduttore di Goethe lirico: dinamiche intra- e intratestuali, in “Versants”, 60 [2013], 2, pp. 117-127). In gran parte diverso, o quan-

103 Alice Spinelli tomeno più circoscritto, sarà però in questo caso il focus analitico: se quella prima pubbli- cazione si prefiggeva di contestualizzare a grandi linee la pluridecennale attività traduttoria intrapresa da Orelli sul corpus lirico di Goethe per poi ricostruirne le direttrici variantistiche in diacronia e accennare a qualche punto di contatto con le versioni goethiane di Diego Vale- ri, esclusivamente quest’ultima rotta d’indagine, come presto si dirà, sarà qui percorsa e scan- dagliata più nel dettaglio – sebbene giocoforza sulla base di singoli sondaggi rappresentativi. Rivolgo infine il mio più vivo ringraziamento al prof. Massimo Danzi, organizzatore del convegno Giorgio Orelli e il “lavoro” sulla parola, tenutosi a Bellinzona tra il 13 e il 15 no- vembre 2014, per avermi invitata a presentare una versione abbreviata di questo studio in un’occasione così speciale, che ha riunito nell’omaggio e nel ricordo tanti illustri amici di un indimenticato maestro. 2 J.W. Goethe, Cinquanta poesie, tradotte da D. Valeri, Sansoni, Firenze 1954 (d’ora in poi V). 3 Cfr. G. Orelli, Su alcune versioni d’una poesia di Hölderlin, in “Studi Urbinati”, XLV (1971), 1-2 [= Studi in onore di Leone Traverso], tomo II, pp. 727-747. 4 J.W. Goethe, Poesie, a cura di G. Orelli, Mondadori, Milano 1974 (d’ora in poi, quan- do necessario, O2). 5 d I ., Poesie scelte, tradotte da G. Orelli, Mantovani, Milano 1957 (O1). 6 relli Cfr. G. O , Appunti informativi, in O2, pp. 15-23: 18: «Quando cominciai a tradur- re Goethe, quasi trent’anni fa, ignoravo del tutto le versioni altrui». 7 Prosegue Orelli ibidem, accennando a qualche inevitabile difformità qualitativa tra i vari “pezzi” del florilegio: «Alle versioni “felici” non potevano non affiancarsi quelle diligenti ed alcuni esercizi molto a freddo, dove la “gara” è pure col traduttore che mi ha preceduto» (corsivo mio). 8 Alcuni potenziali termini di confronto sono espressamente nominati da Orelli stes- so, sempre prodigo di annotazioni critiche e autoriflessive. Nel discutere unacrux testuale- esegetica di Harzreise im Winter (und mit den Sperlingen / haben längst die Reichen / in ihre Sümpfe sich gesenkt, vv. 21-23), Orelli dà ad esempio qualche ragguaglio circa altre traduzioni dell’inno a lui note: «Conobbi alcune versioni italiane (del Tecchi, se non m’inganno, di Ore- ste Ferrari, che venne a morire qui, a Bellinzona): nessuno aveva detto, o avuto il coraggio di dire, “i ricchi”, optando con evidente smorzatura semantica per “fasto” e simili; fino a Giuliano Baioni, che non esita (si vedano le sue versioni degli Inni, Torino 1967» (G. Orelli, Appunti informativi, p. 22). 9 Cfr. ibi, p. 19: «Ho in mente le osservazioni del Fubini (v. Critica e Poesia, Bari 1966) sulla versione di Meeres Stille fatta da Diego Valeri, e devo dire che da esse sono stato mosso a provarmi a mia volta con questo breve componimento, come già documenta la scelta del titolo Mare calmo in luogo di Bonaccia. Giustamente afferma per esempio il Fubini che “il sistema di accenti e suoni dell’italiano mal riesce a rendere accenti e suoni tedeschi, sì che chiuse tronche come ‘mare sta’, ‘immensità’, ‘il suo sopor’ danno alcunché di secco al discor- so e possono farci pensare a un Goethe, il Goethe di questa cosmica poesia!, costretto dentro i limiti di una canzonetta settecentesca”». 10 Cfr. S. Barelli, Note sulla traduzione poetica. A proposito delle traduzioni di alcune liriche di Goethe, in “Cenobio”, XLVII (1998), 1, pp. 13-21. 11 In particolare cfr. P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, in Goethe tra- duttore e tradotto, Atti del XXVIII convegno sulla traduzione, Il Poligrafo, Padova 2003, pp. 245-253 (Edizioni del Premio Monselice nn. 28-30), e Id., Diego Valeri traduttore di lirici francesi e tedeschi, in Diego Valeri e il Novecento, Atti del convegno di studi nel 30° anniver- sario della morte del poeta (Piove di Sacco 25-26 novembre 2006), a cura di G. Manghetti, presentazione di P.V. Mengaldo, Esedra, Padova 2007, pp. 87-94. 12 Un’indagine sulle versioni orelliane da Goethe non può prescindere da P. De Marchi, La fedeltà alla poesia. Sul Goethe di Giorgio Orelli, in Id., Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002, pp. 92-110 (e dello stesso autore, Ut poësis translatio. Sul “quaderno di traduzioni” di Giorgio Orelli, in ibi, pp. 111-136). 13 P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, p. 250.

104 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli

14 Id., Diego Valeri traduttore di lirici francesi e tedeschi, p. 92. 15 Ibidem. 16 Preme precisare che si fa qui esclusivo riferimento alla (ricercata) monotonia prosodica delle misure versali; perché sarebbe ingeneroso liquidare come insufficiente tout court la ver- sione del Valeri, la quale anzi si distingue, ad esempio, per la perizia nel calcolo dei rapporti fonematici. Come già intuiva il Leopardi fautore del vago e dell’indefinito, un effetto acusti- camente “espansivo” scaturisce dal nesso nasale + dentale, la cui propagazione nella seconda strofa è disciplinata – chissà se casualmente – dal pareggio chiastico tra variante sorda e variante sonora (veNTo v. 5; steNDe v. 6; oNDa v. 7; loNTanissimo v. 8; nella prima strofa, foN- Da v. 1 e navigaNTe v. 3). L’allitterazione tra Mare e Moto, al v. 2, regge poi brillantemente il confronto con Goethe, che giustappone Regung e Ruht, v. 2; mentre alcune sonorità-cardine della stringa sintagmatica beKÜmmerT SiehT, v. 3 riaffiorano, con raffinati incastri, nell’equi- valente ScrUTa inQUieTo, v. 3. 17 Cfr. G. Orelli, Appunti informativi, p. 20. 18 Sempre che nel verso esplicitario non si muove neanche un’onda sia «da leggere alla set- tentrionale neanche bisillabo» (P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, p. 250). 19 Collabora con la corrispondenza perfetta fiato : interminato ai vv. 5 : 7, e con l’accaval- larsi di rima identica – quasi in epanadiplosi, tra secondo e ultimo verso – e rima inclusiva nel reticolo interstroficoonda v. 2 : circonda v. 4 : onda v. 8, la quasi consonanza spaventa : onda dei vv. 6 : 8, screziata soltanto dall’avvicendarsi, alla dentale sorda /t/, della sua omologa sulla serie sonora, la /d/. Sull’assonanza acque : navigante dei vv. 1 : 3 torneremo più oltre. 20 P.V. Mengaldo, Diego Valeri traduttore di lirici francesi e tedeschi, p. 89. 21 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 17. 22 Benché lo stesso Orelli ci faccia sapere che, «dietro a Valeri, aveva sulle prime aggirato herrscht […]» (G. Orelli, Appunti informativi, p. 20). 23 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 18. 24 A dire il vero, una lettura in episinalefe dei vv. 2-3 di Orelli (posa il mare senza un’onda,/ e vede inquieto il navigante […]) permetterebbe qui di ortopedizzare la misura; ma l’acroba- zia non pare necessaria né pertinente, se è vero che, come qui si sostiene, la scompaginazione orelliana dell’intransigente ordine metrico di Meeres Stille ha tutta l’aria di essere program- matica. 25 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 18. 26 Ibidem. La glossa più articolata ed esaustiva si deve però, come di frequente, all’intelli- genza (auto)critica del coltissimo Orelli: «“Tiefe Stille” con le sue i rende bene la “profondeur de la surface” (Bachelard), facendo pensare a certi esiti danteschi (penso adesso a “Fitti nel limo dicon: Tristi fummo” Inf. VII, 121). Con “Grande pace” si compie un salto vocalico “fondamentale”, che reca tuttavia un “peso” notevole (si pensi al dantesco “parve carca” Inf. VIII, 27)» (G. Orelli, Appunti informativi, p. 20). Grande ha inoltre il vantaggio di contenere quel nesso “dilatante” -ND- già ampiamente sfruttato da Valeri (cfr. supra, n. 16) e ripro- posto da Orelli in rima (oNDa v. 2 : circoNDa v. 4: oNDa v. 8). Sempre nell’attacco, inoltre, l’irriproducibilità fonetica di herrscht – «che rumoreggia bene accanto a Wasser ma non può agevolmente rendersi in italiano (i noti verbi dell’Onda dannunziana qui non servono» – non basta a far desistere il poeta-traduttore dalla ricerca di una ben orchestrata evocatività acusti- ca: ecco così spiegato il verbo tiene, «bisillabo semanticamente adatto che ha un’utile e finale» (ibidem). 27 Si tenga anche presente che l’ottonario è probabilmente il metro principe della tradi- zione popolare italiana: spadroneggia nelle nenie per bambini tanto quanto nelle strofe da osteria. 28 Ciò detto, alle traduzioni goethiane di Valeri non si può negare una pregevole statura artistica, che ha meritato loro, oltre a quello di Mengaldo, l’apprezzamento di un germanista del rango di Cases (cfr. C. Cases, Diego Valeri traduttore di poesia tedesca, in Omaggio a Diego Valeri, Atti del convegno Internazionale promosso dall’Associazione degli Scrittori Veneti, dalla Fondazione Giorgio Cini, dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (Venezia 26-27 novembre 1977), a cura di U. Fasolo, Olschki, Firenze 1979, pp. 76-91). D’altronde, non è

105 Alice Spinelli certo compito di quest’intervento stilare una classifica di merito (che come tutte le valuta- zioni estetiche rimarrebbe del resto opinabile) tra i due traduttori presi in esame; molto più modestamente, se ne vuole indagare l’effettivo rapporto, mostrando quindi in questo caso da quale punto di vista Orelli abbia potuto ritenere insoddisfacente la proposta del collega, e sia perciò stato spinto a contrapporle un’alternativa. Si vedrà però subito che la relazione tra i due è molto meno conflittuale di quanto superficialmente si sarebbe indotti a concludere. 29 Nonché messa in chiaro già dalla scelta del titolo (cfr. supra, n. 9), in cui Barelli indi- vidua «il primo elemento di divaricazione semantica […]: Meeres Stille è reso da Valeri con Bonaccia (un’accezione autorizzata dai dizionari) e da Orelli con Mare calmo, formula più generica ma anche più ricca di implicazioni simboliche: è anche probabile che Orelli abbia così inteso eliminare l’accezione di positività racchiusa nella radice “bon-”, che contrasta con lo sviluppo della lirica (si pensi ad esempio al v. 5, dove Stille ritorna in unione con Todes-)»: S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 17. 30 Dove navigante richiama alla mente il famoso incipit di Purgatorio, VIII: «Era già l’ora che volge il disio/ ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio», vv. 1-3. 31 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 18. 32 Sciolto da Valeri con una doppia connotazione attributiva e con la marcatura assiolo- gica implicita in squallor (nell’uguale / lontanissimo squallor, vv. 7-8; si noti inoltre l’enjambe- ment “dilatante”). 33 D’altro canto, il leopardismo è in Orelli studiato e dichiarato: «Stupirà forse “intermina- to” per ungeheuren, ma dopo Leopardi mi par lecito scostare da sé un aggettivo pittoresco per usarne uno che contenga uno spavento più metafisico» G( . Orelli, Appunti informativi, p. 20). 34 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 18. 35 Le Cinquanta poesie di Goethe scelte e tradotte da Diego Valeri si distribuiscono nei seguenti comparti: Canzonette; Ballate; Elegie romane; Epigrammi veneziani; Poesie varie; Spi- golature; Tempi dell’anno e del giorno; Divano occidentale-orientale. 36 Per una più dettagliata descrizione della genesi e delle vicende editoriali di Hei- denröslein rimando, frammezzo alla sovrabbondante strumentazione bibliografica a dispo- sizione, almeno a J. Boyd, Notes to Goethe’s poems, Blackwell, Oxford 1966-1967, pp. 21 ss.; si vedano anche i cappelli di commento alla poesia nelle edizioni critiche tedesche delle opere goethiane, in particolare nelle Gesamtausgaben cosiddette “Frankfurter” e “Hambur- ger” (rispettivamente: J.W. Goethe, Gedichte 1756-1799, hrsg. von K. Eibl, in Id., Sämtliche Werke. Briefe, Tagebücher und Gespräche, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1985, pp. 820 ss.; Id., Gedichte und Epen I, textkritisch durchgesehen und kommentiert von E. Trunz, in Goethes Werke, hrsg. von E. Trunz, Verlag Christian Wegner, Hamburg 1948, pp. 490 ss.). 37 «E così posso ora regalare a Giorgio Caproni – cui rincresceva che non l’avessi tradotta (fino al ’57, anno della pubblicazione delle mie prime versioni goethiane) – la notissima e senza dubbio deliziosa Heidenröslein»: G. Orelli, Appunti informativi, pp. 18-19. 38 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 15. 39 Ibidem. 40 Ma comunque ingegnosi: si pensi in Orelli alla quasi-rima colgo : voglio dei vv. 8 : 10, con assonanza piena e scambio metatetico tra e . 41 Altrove Valeri raggiunge però risultati di più persuasiva immediatezza: si veda la dislo- cazione “a destra” dei vv. 15-16, con tematizzazione del sintagma oggetto e sua anticipazione in catafora pronominale (il selvaggio se la prese, la rosa di bosco). 42 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 17. 43 La forma adocchiò riusciva probabilmente gradita ad Orelli anche in ragione della sua facies fonetica, che permetteva di creare una rispondenza “chioccia” con la parola-refrain macchia. 44 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 16. 45 Congruo equivalente del generico dass modale-consecutivo a cui faceva ricorso Goethe (ich steche dich, / dass du ewig denkst an mich, vv. 10-11). 46 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 16.

106 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli

47 Subito prima di annunciare la traduzione di Heidenröslein (cfr. supra, n. 37), e dopo aver fatto riferimento alle versioni nate “a gara” con altre già comparse (cfr. supra, n. 7), Orelli esemplifica: «Basta unvogl’io degli anni Trenta per eccitare, con un io voglio, un impulso a tradurre fondamentalmente diverso, secondante un gusto diverso» (G. Orelli, Appunti infor- mativi, p. 18). Anche se la princeps Sansoni delle Cinquanta poesie è del 1954, non degli anni trenta, e benché nel v. 10 O2 si legga lo voglio e non io voglio (che ribalterebbe esattamente il deprecato vogl’io), l’allusione a questo passo di Rosellina di macchia come contraltare alle corrispettive pose “manieristiche” del Valeri pare qui manifesta. Se l’interpretazione è corret- ta, se ne ricava allora la conferma di un’altra traduzione – oltre a quella già vagliata di Meeres Stille – sorta in aperta (seppur rispettosa) polemica con lo scrittore padovano. Si tratterà di vedere anche qui se lo scontro è davvero frontale e irriducibile, o se non viene piuttosto rias- sorbito in una più sfaccettata dinamica di assimilazione e superamento. 48 S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 15. 49 Ibi, p. 16. 50 Ibidem. Nel commentare la traduzione di Orelli, Mengaldo esprimeva qualche riserva sull’“infantilizzazione” lessicale del protagonista, ma soprattutto sulla traduzione (in effetti un po’ deviante) del v. 15: «Io ad esempio non capisco bene perché, traducendo il Hei- denröslein (Rosellina di macchia), egli abbia reso “der wilde [selvaggio] Knabe” con “il bimbo ignaro” (e forse anche “bimbo” si può discutere)»: P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, p. 250. Si muove qui più rasente all’originale Valeri, che cassa però del tutto il sostantivo (il selvaggio, v. 15). 51 O tutt’al più, con un processo di astrazione generica che l’ambiguità referenziale del neutro tedesco ammette, “dell’oggetto amato”; ma non certo “dell’amata” sic et simpliciter. 52 Goethe in persona racconta l’episodio in una lettera a Frau Unger datata 13 giugno 1796: «Seine Melodie des Liedes: Ich denke dein, hatte einen unglaublichen Reiz für mich, und ich konnte nicht unterlassen selbst das Lied dazu zu dichten, das in dem Schillersten Musenalmanach steht» (“la sua [di Zelter] melodia del Lied Ich denke dein esercitava su di me un incredibile fascino, e non ho potuto fare a meno di comporre su di essa una mia pro- pria poesia, che si trova nel Musenalmanach di Schiller”; cito da J. Boyd, Notes to Goethe’s poems, p. 44). Il suo rifacimento ha poi a sua volta conosciuto numerose Vertonungen, alcune delle quali di firma illustre (ad es. Beethoven, 1805; Schubert, 1821). 53 La poesia è comunque sedimentata in profondità nella sua capace e sempre fruttifera memoria, tanto che l’incipit Ich denke dein s’infiltra – triplicato – nella prima poesia “con i nipoti” del Collo dell’anitra (sezione VIII): Ich denke dein se il treno, scosso un branco […], v. 1; Ich denke dein / quando mi torna a mente l’elicottero […], vv. 4-5; Ich denke dein / mentre un velivolo riga di bianca […], vv. 9-10. 54 Senza contare che la traduzione di Nähe con presenza non è affatto un’opzione obbli- gata: si presterebbero altrettanto bene (e anzi richiamerebbero più letteralmente il sostantivo tedesco) forme come “prossimità”, “vicinanza” e sinonimi. 55 Contribuiscono a innalzare la trasposizione valeriana a quote di più ricercato lirismo un preziosismo fonografico (la scrizione analitica della congiunzione concessiva se bene, v. 13 V) e la dispositio iperbatica dei componenti sintattici. Si noti en passant che entrambi i traduttori inarcano il verso-frase goethiano, sia pure esponendo in contre-rejet due diversi elementi (se bene v. 13 V, così v. 13 O2). D’altronde, l’introduzione di frequenti enjambements è un tributo che quasi tutti i traduttori-poeti italiani regolarmente pagano al linguaggio poetico nazionale, e trova qui tra l’altro una sua logica giustificazione strutturale (se ne riparlerà infra, p. 101). 56 L’«elevato tasso di letterarietà delle traduzioni (in particolare poetiche)» (F. Fortini, Lezioni sulla traduzione, a cura e con un saggio introduttivo di M.V. Tirinato, premessa di L. Lenzini, Quodlibet, Macerata 2011, p. 83) non è del resto caratteristica esclusiva di Valeri. Al contrario, Mengaldo, che si diffonde a enumerarne modalità e sfaccettature (con inequivo- cabili addentellati montaliani) nelle versioni di Solmi, lo ritiene un aspetto congenito all’atto stesso del tradurre: «quale che sia la precisa colorazione del fatto (aulicismo, lessico più risen- tito, lessico con una precisa intertestualità letteraria), noi cogliamo qui qualcosa che, al di là del caso individuale che pur rende il fenomeno particolarmente istruttivo, mi pare tipico del

107 Alice Spinelli tradurre poetico in generale. Intendo l’inevitabile risultato di “far mente locale”, di illumina- re di una luce più forte, impreziosendoli, taluni dettagli, sempre in forza dell’intellettualizzare sopra il rigo […] e forse – ancora una volta – compenso di quanto altrettanto inevitabilmente va perduto d’intensità e ricchezza fonico-formale»: P.V. Mengaldo, Aspetti delle versioni poetiche di Solmi, in Id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, pp. 345-356. 57 Forse questa può essere, se non la motivazione principale, almeno una credibile con- causa dell’inarcatura creata sia da Valeri che da Orelli tra i vv. 13 e 14. 58 Non stupirà certo, né vale a inficiare quanto osservato, il fatto che Orelli scardini an- cor più decisamente di Valeri il sistema rimico originario. Nella sua traduzione, non solo corrispondenze foniche di vario tipo possono fare le veci della rima perfetta (come nel fine binomio frangente : silenzio, vv. 10 : 12, con assonanza tonica e pseudoconsonanza tra i nessi nasale + occlusiva dentale /t/ e nasale + affricata dentale /ts/), ma alcuni versi in pendant possono mancare del tutto della saldatura sonora (vv. 1 - 3: sole - riverbera; vv. 5-7: strada - ponticello). Nell’ultima quartina, il principio-base dell’alternanza ritmica lascia in Orelli il posto a un imperfetto schema incrociato: rimano tra loro gli estremi della strofa (così : qui, vv. 13 : 16), mentre i due versi interni sono allacciati l’uno all’altro da una più tenue assonanza tonica (me : stelle, vv. 14-15). 59 Ha fatto riferimento alla personale riadibizione orelliana, in senso letterario, del tecni- cismo biochimico anche A. Zanzotto, La poesia e gli studi critici di Orelli [intervista a cura di C. Mésoniat], in Id., Aure e disincanti del Novecento letterario, vol. 2 di Id., Scritti sulla letteratura, a cura di G.M. Villalta, Mondadori, Milano 2001, p. 214. 60 Cfr. Pascoli, Il desinare (in quarta posizione nel poemetto La sementa), II, v. 7: «L’olio cantò con murmure sommesso» (corsivo mio). 61 Per un’accurata descrizione della lingua di Pascoli, si rinvia almeno ai fondamentali studi di G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Id., Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970, pp. 219-245, e G.L. Beccaria, L’autonomia del significante: figure del ritmo e della sin- tassi. Dante, Pascoli, D’Annunzio, Einaudi, Torino 1989. 62 I riscontri potrebbero moltiplicarsi ad libitum; basti qui ricordare, a titolo esemplifica- tivo, lo Scalpitìo che dà il titolo, in Myricae, al terzo componimento della sezione Dall’alba al tramonto; l’onomatopeico bubbolìo nell’incipit di Temporale (Myricae, In campagna, XII); in eccentrica rima plurilingue (con la traslitterazione greca di un verso uccellino), il tintinnìo di Nozze, v. 9 (ancora da Myricae), etc. 63 P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, p. 251. 64 Traggo entrambe le occorrenze dal celebre Assiuolo (v. 6 e v. 2; da Myricae, In campa- gna, XI). Giova ribadire che l’attinenza di simili contesti all’uso orelliano risiede qui più in una somiglianza “di atmosfera” che nel concreto compimento di un calco stilistico. Dal punto di vista morfologico-retorico andrebbero fatti anzi i dovuti distinguo. Il traducente orelliano la brace del sole è marcato da un procedimento d’intensificazione metonimica: con una sor- ta di spostamento semantico dalla “causa” all’“effetto”, nonché per via di una più corposa materializzazione del dato sensoriale, il “bagliore”, lo “splendore” del sole si trasforma in “brace”. Pascoli, diversamente, sostantivizzava una determinazione cromatica (un nero di nubi), o comunque astraeva da una qualificazione attributiva la sua referenza “sostanziale”, elevandola a complemento di specificazione un’alba( di perla). 65 Ma è indiscutibilmente di propria iniziativa che Orelli trapunge la sua versione di echi montaliani: risalta in particolare, nell’ultima strofa, un modulo irraggiato verbum de verbo dalle Occasioni (benché tu sia così / lontana, sei con me, vv. 13-14; cfr. l’incipit del quarto Mottetto: Lontano, ero con te quando tuo padre / entrò nell’ombra e ti lasciò il suo addio). 66 Sulla scorta delle fini analisi di Pietro De Marchi, ricordiamo che nella poesia di Orelli, rispetto a quello di Petrarca (di cui pure lo studioso mostra l’azione forse più sotterranea e dissi- mulata, ma non meno determinante), «il nome di Dante è molto più presente, sin dalla soglia: si pensi alla sua antologia personale del 1962, dal titolo evidentemente dantesco, L’ora del tempo, ma si pensi anche a citazioni o utilizzazioni di Dante il luoghi esposti di testi di quello stesso volume o di Sinopie (1977) come in incipit quali “Se fai come il vecchio sartore” o “In quella

108 “Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli parte dell’anno non più giovinetto”» (P. De Marchi, Petrarca nella poesia di Giorgio Orelli e di altri poeti della Svizzera italiana, in Petrarca nella letteratura italiana del Novecento, Atti del con- vegno (Roma, Università “La Sapienza”, 4-6 ottobre 2001), a cura di A. Cortellessa, Bulzoni, Roma 2004, p. 256). Regesta e commenta inoltre i dantismi di Orelli G. Lonardi, Accertamenti sul Dante di Giorgio Orelli, in “Cenobio”, XXXII (1983), 4, pp. 291-301. 67 I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991, p. 13. D’altronde, un’a- naloga concezione del classico è stata espressa apertis verbis da Orelli stesso proprio a riguar- do del suo Goethe: «Dunque, oscillanti anche noi tra la “eterna quiete della compiutezza e l’eterno moto dell’infinità” (Strich), cerchiamo qui, memori anche di quel che disse Cecov sugli scrittori “vivi” e su quelli “morti”, il classico come lebendig, vivo, come espressione adeguata – banale, diremmo con Gide – di ciò che vive e continua ad essere efficace,was lebt und fortwirkt grazie alla perfetta coincidenza (continuo a saccheggiare il Goethe critico) del “contenuto della propria vita” col “contenuto poetico”, ossia con la scrittura»: G. Orelli, Appunti informativi, pp. 12-13.

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MASSIMO DANZI Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”

Intervenendo sull’attività di “lettore” di Giorgio Orelli vorrei preliminarmente osservare due fatti. Il primo è che, sull’arco della sua lunga stagione di “lavoro” (dagli esordi poetici di Né bianco né viola, 1944, ai saggi de La qualità del senso, 2013), gli scritti critici rappresentano almeno la metà dell’opera, che pur conta, accanto alla poesia, prose e traduzioni. Se aggiunti i saggi inediti, tra i quali quelli sul Fiore che Ottavio Besomi illustrerà tra poco, la rilevanza di questo set- tore appare, del resto, anche più notevole. Il secondo punto tocca la specificità del discorso critico di Orelli e la stretta dimensione testuale e linguistica delle sue analisi. Su questo aspetto, con un’indagine delle ascendenze e prestando orecchio a una “genealogia” che muove per vie forse meno ovvie se non proprio eterodosse, verte il presente intervento. Siano esse dedicate a testi in prosa o in poesia (come è più frequente in Orel- li), subito risulta evidente che le sue “letture” procedono così strette al piano fonico-ritmico del testo da configurarsi come un vero “corpo a corpo” con il linguaggio dell’autore analizzato. Un tale approccio al testo non risponde tanto, come si potrebbe pensare, a una esigenza di specializzazione del discorso critico quanto, e ben oltre, a un interesse per quella che Orelli ha chiamato la «qualità del senso» di un testo poetico e investe dunque, senz’altro, l’ambito di una ri- flessione linguistica più ampia. È quello di Orelli un pensiero linguistico in atto, che può a volte rimanere implicito nei suoi parametri ma è sempre concepito in modo da saldare fortemente il linguaggio della poesia al linguaggio naturale. Su questo punto, del rapporto della poesia con le risorse del linguaggio naturale, tornerò più avanti trattando di due linguisti che, insieme a Roman Jakobson, hanno contato per Orelli nel campo della linguistica latamente postsaussuriana: e cioè Edward Sapir e Jurij Tynjanov. Ma fin da ora, credo si debba ritene- re l’ipotesi che una critica così “armata” quale dimostrano i suoi Accertamenti configuri un vero e proprio «cammino verso il linguaggio», se per esso si inten- da – come l’ha inteso Heidegger – «il processo di un pensiero che rifletta sul linguaggio».1 In questo cammino, l’attenzione del critico cade su ciò che, per lui, più definisce la poesia: cioè la tessitura verbale, l’“orchestrazione” fonica del testo e insomma la sua dimensione ritmica. Siamo nell’ambito che Agosti, il “lettore” in assoluto più simpatetico e vicino a Orelli, ha chiamato (ormai qua- rant’anni fa) dei «messaggi formali» della poesia, sottolineando l’importanza di quel contenuto informativo non immediatamente semantico che, affidato alla struttura fonetico-grammaticale-sintattica e, di conseguenza, ritmica del testo,2

111 Massimo Danzi va al di là del suo significato razionale, qual è quello che ogni lettore non troppo digiuno coglie a una prima lettura. In questa dialettica tra “suono” e “senso”, tra “forma” e “contenuto” esplicito delle parole (Valéry parlava anche di forme e pensée), diversamente apprezzabile e apprezzata nel Novecento, si gioca lo spazio dell’interpretazione testuale che è stata di Orelli. Si intersecano nella sua riflessione due linee complementari: quella rappre- sentata dalla scuola francese di Mallarmé e Valéry, cui ho appena alluso, e l’altra, italiana, e subito europea (alla prima non estranea), del magistero di Gianfranco Contini. Nel solco di Mallarmé, è poi stato particolarmente il poeta e critico Paul Valéry, cui Agosti come Orelli si rifanno (spesso arretrando al maestro), a insistere sull’opposizione tra idée e poésie e sull’insufficienza di una lettura limitata al solo “contenuto” razionale di questa («le sens littéral d’un poème n’est pas et n’accomplit pas toute sa fin»).3 L’idea di Valéry che «la pensée n’est qu’accessoire en poésie, et que le principal d’une œuvre en vers, que l’emploi même du vers proclame, c’est le tout, la puissance résultante des effets compo- sés de tous les attributs du langage»,4 si accompagna al rilievo costantemente accordato alla dimensione formale del testo, che il critico non esita a proporre come il suo “contenuto” principale.5 Il poeta che lavora con materiali verbali – osserva in Théorie poétique et esthétique – non può non essere, in definitiva, «obligé de spéculer sur le son et le sens à la fois».6 Diversamente calibrato nelle pagine di Variété e dei Cahiers, il tema del rapporto tra forma e contenuto è all’origine di quell’«alliance intime du son et du sens qui est la caractéristique de l’expression en poésie».7 Ora, la relazione che, nella costruzione del senso di un testo poetico, si dà tra contenuti immediatamente semantici e messaggi formali, o abbiamo detto tra il piano delle idee e le ragioni del linguaggio, è precisamente uno dei punti capitali su cui Orelli riflette costantemente nel momento in cui avvicina i testi dei poeti, come dicono i diversi volumi dei suoi Accertamenti distesi su un arco più che trentennale (1978-2013). Merita tornare brevemente sui due punti da cui sono partito per una rapida puntualizzazione. Non rara è, nel secolo trascorso, lo ha osservato Mengaldo, «una figura di poeta in cui il mestiere lirico si dirama in una più complessa atti- vità militante»9 e per il quale la poesia si distenda e completi sul versante critico e del traduttore. Tra i nomi più vicini a Orelli, i primi che vengono alla mente sono ovviamente Ungaretti, Montale, Luzi, Sereni o Zanzotto, coi quali il poeta leventinese ha intensamente dialogato, tornando a più riprese nei suoi saggi. Ma a singolarizzare Orelli rispetto a quegli esempi, è – oltre alla rilevanza che l’esercizio critico ha in lui – l’esclusiva modalità di “lettura” che esso ha assunto e che si realizza nei termini del corpo a corpo che abbiamo detto. Lo sottolinea l’autore stesso, quando chiarisce in una pagina del suo ultimo intervento critico le differenze con il “metodo” di Luciano Anceschi:

Del resto io ero giovanissimo e Anceschi con me è stato molto generoso, così come con Erba e altri amici di quel periodo. Certo se proviamo a descrivere e dare un senso al suo lavoro di critico, la prospettiva cambia. Lui era più un teorico che non un critico nel senso che intendo io, cioè di vero e proprio lettore di testi poetici.9

112 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”

Così descritto, e all’interno di una predilezione per la poesia evidente fin nel numero degli “accertamenti” che le sono dedicati (uno solo è sulla prosa di Manzoni), l’esercizio del “lettore” appare un unicum nel panorama letterario non solo italiano novecentesco e contemporaneo.10 In esso si giocano alcuni fatti importanti a cominciare dalla concezione che Orelli ha di prosa e poesia, il cui “statuto” pacificamente acquisito gli può produrre qualche inquitudine. Una “lettura” prevalentemente attenta alla «testura sonora» (così a proposito di Montale)11 e dunque al rapporto tra suono e senso pone inevitabilmente al centro l’organizzazione fonico-ritmica del testo, rispetto alla quale la specificità dei “generi” tradizionalmente accolta può passare in secondo piano. Che siano in poesia o in prosa, i testi (e con essi l’attenzione del “lettore”) conteranno per quella che che Valéry chiama «l’orchestration verbale», la quale risponde – ci dice Orelli – all’impulso che il poeta ha di aderire, con il massimo di precisio- ne possibile, a ciò che ha urgenza di dire. Da questo punto di vista, non solo la distanza tra i generi si riduce ma è lo stesso linguaggio che impone al poeta le proprie iniziative, come già Pascoli sembra avvertire osservando che, se «la poesia consiste nella visione di un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi», il poeta è comunque colui che «non persuade, ma è persuaso» o quando Eliot sottolinea, a proposito di Dante (pensando certo al De vulgari eloquentia) come «nessuno, nemmeno Virgilio, sia stato un più attento studioso dell’arte della poesia» e osserva che «la pratica di Dante […] sembra insegnare che il poeta do- vrebbe essere servo più che padrone della propria lingua»: brani che sembrano precorrere quella formula di «passivité créatrice», in cui Bonnefoy fissa il pro- cesso creativo e sulla quale Orelli si è fermato nei suoi Accertamenti montaliani. 12 Mi permetto di generalizzare solo perché il poeta ha lasciato su questo punto molte osservazioni, rinviando (dopo l’uscita dell’edizione italiana degli scritti linguistici), in particolare a brani di Martin Heidegger.13 Ma il dialogo è altret- tanto con Mallarmé e Valéry, per il quale la poesia è quella «intime contrainte à l’impulsion et à l’action rythmée (qui) transforme profondément toutes les valeurs du texte qui nous l’impose».14 Nell’Orelli poeta, prosa e poesia coesistono naturalmente fin daSinopie (1977) e più in generale è stata riconosciuta, in lui, l’importanza dei “transiti” tra piano della poesia e quello dei racconti.15 Ma lo stesso accade nella coscienza del “lettore”, che misurandosi con prose e versi di un autore può coglierne quel- la che (trattando di Montale) chiama la «differenza di temperatura» tra testi16 o, invece, fare sua, provocatoriamente, una affermazione di Mallarmé, che sembra annulare ogni specificità di “genere”: «dans le genre appelé prose, il y a des vers quelque fois admirables, de tous rythmes. Mais, en vérité, il n’y a pas de prose: il y a de l’alphabet et puis des vers plus ou moins serrés, plus ou moins diffus. Toutes les fois qu’il y a effort de style, il y a versification».17 Sul rapporto prosa- poesia, Valéry la pensava diversamente avendo cura di tenere distinti i due regi- stri e, fin dal 1923, un formalista caro a Orelli come Tynjanov (su cui torneremo in fine di articolo) aveva dato importanti osservazioni proprio in ordine alla questione del ritmo, osservando che «non si dà riconoscimento del ritmo al di

113 Massimo Danzi fuori del materiale [di cui è fatto il discorso]».18 Il discorso porterebbe neces- sariamente a una pagina di Agosti, che trattando della poesia di Bernard Noël osserva tra l’altro come «la poésie, à la différence de la prose, mise sur un lan- gage en soi et non sur le contenus que normalement il est chargé de représenter et de transmettre».19 Ma le citazioni fatte bastano, per ora, a segnalare la libertà di Orelli nel valutare il lavoro della “lettera” (Mallarmé parlava di alphabet) in contesti, solo apparentemente simili, di prosa e poesia. Nel suo lavoro di lettore, lo stesso Orelli si è dichiarato spiritosamente lungi da ogni troppo rigido «esprit de méthode» («l’esprit de méthode non farà ai miei danni troppe conquiste» si legge in Accertamenti verbali del 1978) e invece piuttosto simile all’«uccello di passo» e come lui portato ad «aprire la bocca secondo il boccone».20 Ma sareb- be ingenuo seguire, su questo punto, le dichiarazioni di un “lettore” in cui fine educazione e libertà di percorsi non contraddicono affatto all’esistenza di un metodo di lettura. Orelli si è a più riprese servito – come ricordavo – dell’im- magine montaliana dell’«uccello di passo» per tracciare a matita leggera un suo cattivante ritratto di poeta, che come quello si ciba dei frutti che incontra sulle sue rotte. È immagine, che si trova in Dora Markus e nella Farfalla di Dinard di Montale ed è stata richiamata da Lonardi a proposito dei montalismi di Orelli; ma essa vale, credo, altrettanto per il critico-lettore, del quale illumina quella che Lonardi ha definito «l’agilità di metodo e di voce».21 Dei suoi esordi di “lettore”, avvenuti (per dire in fretta) tra la stilistica di Vossler, e soprattutto di Spitzer, e la filologia di Contini (di cui ricorda da qualche parte un corso friborghese sulla Stilkritik), resiste e si accentua nell’Orelli maturo, incline ad assecondare (come poeta) e a riconoscere (come “lettore”) il «lavoro della lettera», l’attenzione per una «testualità che è sempre movimento verbale».22 Attraverso questo “lavoro” si prolunga – come scrive a proposito dello scultore Giovanni Genucchi – l’«anima dell’artista» e si fa riconoscibile la sua «personali- tà» di autore. È questo il lavoro del poeta: è quel «travail du travail», di cui parla in una pagina famosa Valéry a proposito del suo Cimetière marin.23 L’elementare quadro tracciato può tuttavia declinarsi lungo una via diversa da quella percorsa da chi è intervenuto finora sugli scritti critici di Orelli,24 nel tentativo di affrontare una varietà di “accertamenti” che ha poi preso colore dai singoli poeti indagati: Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo e Montale tra tutti. Sce- gliendo una strada diversa, vorrei privilegiare alcuni paradigmi del suo discorso critico osservando preliminarmente come il poeta si sia, in generale, tenuto lon- tano da tentazioni teoriche. Potrebbe trattarsi di un approccio “genealogico”, se non avessi il timore che questo coincidesse con una ricostruzione di discendenze lineari da esperienze e maestri, che pure, come si è visto, Orelli ha avuto, ma che non bastano a illuminare le modalità del “lettore”. Vorrei invece optare per altro che valorizzi meno la continuità e le origini di un metodo e più quegli elementi “individui”, discreti e qualche volta addirittura subliminali della sua scrittura cri- tica, che ne singolarizzano la fisionomia. Una “genealogia”, certo: ma non votata a ritrovare le “origini” di un discorso, quanto piuttosto sensibile – come vuole Fou- cault a proposito di Nietzsche – a quelle «petites vérités sans apparance», a quegli

114 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” elementi che paiono «n’avoir point d’histoire» a cui si affida alltrettanto la vicenda del Soggetto e la sua ricchezza discreta.25 Per Stefano Agosti, che quel paradigma ha recepito e finemente applicato in un saggio su Petrarca, un modo addirittura di cogliere quanto «permane nascosto, occultato o anche represso dall’esercizio ordinario del sapere normativo».26 Le “figure” che dunque menziono nel titolo sa- ranno quelle immagini, non escluso anch’esse parzialmente subliminali, che ricor- rono con frequenza nel discorso critico di Orelli e che, pur affidate a un registro evasivo o familiare, rivelano – ad un ascolto non corrivo – un’ideale genealogia del “lettore”. Ma andiamo con ordine. Scrive Orelli che un poeta è sempre «figlio di qualcuno»: ne scrive citando una conferenza di Gide sull’«influence en littérature», che è bene ricuperare perché (a parte l’alta considerazione del critico per l’autore francese), in essa si esprime l’idea che l’influence contribuisce a rivelare all’artista la sua stessa personalità. Ecco un brano: «Sa puissance [de l’influence] vient de ceci qu’elle n’a fait que me révéler quelque partie de moi inconnue à moi-même; elle n’a été pour moi qu’une explication – oui, qu’une explication de moi-même».27 L’ag- gancio con l’Orelli “critico”, interessato a cogliere la particolare “maniera” di un poeta, il proprium della sua poesia è immediato, se si pensa alla particolare funzione di “filtro” riconosciuta alla poesia di Montale nella “lettura” di Dan- te («le nostre letture di Dante, diciamo da ramarro a ramarro, erano letture postmontaliane»)28 o invece a quella a Pascoli per Montale: «A noi è accaduto, attraverso Montale, non tanto di veder attenuarsi – entro limiti naturalistici di mera percezione – il merito del linguaggio pascoliano, quanto di isolare, per meglio apprezzarlo, ciò contro cui più si spunta l’accusa […] di velleitarismo cosmologico e bozzettismo».29 Ma il criterio di un “influsso” che rivela l’anima di un artista vale altrettanto per pittori e scultori di cui Orelli nota (è il caso di Massimo Cavalli) che «perseguono un’indagine che è chiarimento di sé, dei pro- pri motivi esistenziali, e riduzione, per così dire, all’osso di ciò che costituisce l’oggetto della loro ansia conoscitiva».30 Mentre il tema degli influssi «o altro che i poeti prendono da altri poeti» non ha smesso di interessare i lettori, ritornando anzi alla ribalta con sfumature patemiche non sempre sostenute da analisi in vi- tro,31 in Orelli esso si misura nel vivo del linguaggio. L’interesse dei suoi “accer- tamenti” sta proprio nel costante tentativo di avvicinare la personalità stilistica di un autore (e il termine serba, a mio avviso, qualcosa delle approximations di Valéry), misurandola sulla base del differenziale tra cotesto di partenza e testo d’arrivo.32 Ma come si traduce questa tensione, questa dialogicità tra testi nel “lettore”? Leggo negli Accertamenti verbali: «Ritmico-timbrica è essenzialmente la memoria che i poeti hanno di sé e di altri poeti. Di tale memoria, quando si tratti di riprese (consapevoli o inconsce poco importa) in profondità, con una nuova densità, si può dire che è già un’esegesi. Il discorso poetico ne è infor- mato molto più di quanto comunemente si creda: anche e soprattuto a questo pensiamo quando si dice che un poeta è figlio di qualcuno».33 E dieci anni dopo, ritornando su un poeta molto frequentato ma su cui ha scritto poco, il Foscolo, annota:

115 Massimo Danzi

Circa l’intertestualità (se ne parla da pochi anni in più di un’accezione), mi pare che in poesia serva soprattutto l’accertamento di una intertestualità ritmica e timbrica: quella per esempio che mostra quanto Dante abbia “salato il sangue” […] a Petrarca. Nell’in- tertestualità tocchiamo come un poeta “è figlio di qualcuno e non figlio di nessuno o peggio”.34 Ovvio che una tale conclusione valga, prima che per gli altri, per Orelli stes- so, che in varie occasioni ha riflettuto sulla sua poesia. Ricorderò solo l’Auto- lettura del noto Frammento della martora, che chiude l’Abbecedario richiamato sopra e dove il metodo è lo stesso: «Sono anch’io per mia fortuna “figlio di qualcuno”, in letteratura gli influssi sono (è nota questa affermazione di Gide) necessari. Ma c’è influsso e influsso: probabile che le mie siano per lo più rime- morazioni ritmico-timbriche».35 Le citazioni fatte circoscrivono la sostanza di ciò che interessa a questo colto “lettore”: l’“auscultazione” della lettera del testo, per un verso, e l’anamnesi linguistica che da quell’“auscultazione” deriva. Sono momenti strettamente connessi dell’operare del poeta-critico, che nell’ultimo libro si applica volentieri l’etichetta (continiana) di «operaio della critica verbale»,36 con la quale si accede al “metodo” delle sue letture. Vorrei farlo attraverso tre “figure” (non so come meglio chiamarle) operanti dell’Orelli critico, che facilitano il percorso tra testi anche lontani nel tempo: quella della “lettura lenta”, una seconda relativa alla “lessicalizzazione” di alcuni concetti critici fondativi del suo discorso e un’ul- tima, che ci introduce al dialogo che Orelli ha avuto con critici e “lettori” sulla nozione per lui capitale fra tutte di “ritmo” del testo poetico e dove riprendo il tema del rapporto tra lingua della poesia e linguaggio naturale. Veniamo alla prima. Chi conosca gli Accertamenti verbali del ’78, o i succes- sivi dedicati a Montale, Foscolo o Petrarca pubblicati tra il 1984 e il 1991, sa che l’“auscultazione” del testo, la sua attenzione agli elementi minimi di senso (sillaba, morfema, fonema, lettera ecc.), si realizza entro un quadro più ampio che li riscatta e che possiamo definire fonico-ritmico. Tale riscatto solo può darsi però (così il critico, che la rivendica) attraverso una lettura “lenta” del testo e anzi, con aggettivo continiano, “minuziosa”. Con valenza tecnica, riferito alla “lettera” del testo e ai suoi elementi minimi di significato, “minuzioso” compare per la prima volta nel Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare (1943), in cui trattando del «sistema d’equilibrio dinamico» che configurano le varianti petrarchesche Contini indica nel «lettore minuzioso» l’unico lettore veramente consono al Petrarca.37 Non mi fermo su questa formula, che merite- rebbe di essere commentata adeguatamente collocandola accanto ad altre, che qualcosa hanno cercato di dire sul “lettore” adeguato di ogni tempo: basti ri- chiamare qui la formulazione di «suffisant lecteur» con cui Montaigne offre una sorta di patto di collaborazione intepretativa al suo lettore (Essais, I 24) o quella che Valéry ha dato, scrivendo di Virgilio, di «lecteur assez intérieur» (Oeuvres, I 214) o ancora il senso che la definizione di «lettore idoneo» ha ritrovato in Vittorio Sereni, dopo l’impiego che per sé ne aveva fatto Giorgio Seferis.38 Ma torniamo alla “lettura”.

116 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”

Un tale approccio, fatto di lentezza e attenzione alla “lettera”, e in particolare agli aspetti fonico-ritmici del testo, nutre particolarmente il saggio petrarchesco del 1990, dove le affermazioni di teoria del testo (mai numerose, come detto, in Orelli) diminuiscono ulteriormente favorendo la misura compatta dei saggi lì ri- uniti. Orelli si concentra su due aspetti principali: 1. la memoria che di Dante agisce in Petrarca e, di conseguenza, 2. la riformulazione del rapporto tra i due autori, in termini diversi dall’opposizione che, con pedagogica semplificazione, Contini aveva proposto parlando di polarità di «espressività e di assoluto». «Non posso», nota Orelli in quel saggio, «aprire il Canzoniere senza toccarvi la viva presenza di Dante, il merito del suo linguaggio così trasmutabile, il collo d’anitra della sua espressività».39 Tralascio quest’ultima immagine, destinata a fissarsi nel titolo dell’ultima raccolta del poeta (Il collo dell’anitra, 2011) perché su essa Mat- teo Pedroni ha scritto cose molto giuste evidenziandone la portata euristica per la poesia di Orelli.40 Semmai, l’immagine conferma, mi pare, come i suoi titoli passi- no, più in generale, attraverso una lunga incubazione dimostrandosi uno dei luo- ghi di massimo spessore semantico.41 Questa “lentezza” è forse una caratteristica dell’uomo più in generale, ma qui interessa come “paradigma” del suo discorso critico, che la elogia o, al contrario, stigmatizza la “fretta” del lettore: insomma, nella “lettura” di un testo, come per la «pulzelletta» delle rime dantesche, «la sua sentenzia non richiede fretta». È questa una prima “figura” iscritta in profondità nell’opera di Orelli e tale da risultare – come direbbe Foucault – «n’avoir point d’histoire». Pure si tratta di una modalità decisiva per il critico. Fin dal 1966, a proposito del pittore e amico Massimo Cavalli, Orelli osser- vava: «Scrisse il grandissimo Klee circa trent’anni fa: “Nulla può essere fatto in fretta […] e se mai verrà il tempo del capolavoro, tanto meglio allora. Noi dob- biamo continuare a cercare”».42 Lentezza, dunque, in evidente relazione con il “lavoro” e la ricerca dell’artista: «dobbiamo continuare a cercare». Ma perché e, soprattutto, cosa dà spessore di “metodo” a questa “categoria” critica? Il libro su Petrarca, ove la “lentezza” si lega alle modalità di una «critica verbale» attenta alla lettera del testo e ai suoi elementi minimi di significato – fonemi (per Jakobson) sememi (per Greimas) –, offre una prima risposta. Ma c’è anche altro, che preme sottolineare perché appartiene al non detto del poeta. Ed è il ruolo che ricopre la “lettura lenta”. La lentezza nella lettura è infatti modalità fonda- tiva di ogni discorso sulla memoria dei poeti, perché permette una “memorizza- zione” del testo più approfondita. Orelli non lo dice, ma qui agisce a sua volta la memoria di una lettera in cui Petrarca discute con Boccaccio della lettura lenta e meditata che è la sua e delle ricadute che questa ha, più in generale, sul lettore. La riporto brevemente, interpolandone i “nodi” fondamentali con l’originale latino e la candido dunque a paradigma di un concetto che sembrerebbe altri- menti “non avere storia” (miei i corsivi): una cosa voglio dirti, che a me fin a oggi era ignota e ora mi meraviglia e stupisce. Quando […] scriviamo qualcosa di nuovo, spesso erriamo in ciò che più ci è familiare e che proprio mentre scriviamo c’inganna; mentre siamo più sicuri in ciò che più lentamente impariamo

117 Massimo Danzi

[«que lentius sunt mandata memorie»] […]. Questo avviene anche in altre cose […]. Io ho letto una volta sola Ennio, Plauto, Felice Capella, Apuleio, e li ho letti in fretta [«legi rap- tim»], soffermandomi in essi come in un territorio altrui. Così scorrendo, molte cose vidi, poche notai, pochissime ritenni, e come roba comune le riposi in luogo aperto, come a dire nell’atrio della memoria [«memorie vestibulo»]; sicché ogni volta che mi capitò di udirle e riferirle, subito mi accorsi che non erano mie e ricordai di chi erano; appartengono a altri […]. Ho letto Virgilio, Orazio, Boezio, Cicerone, non una volta ma mille, né li ho scorsi ma meditati e studiati con cura [«nec cucurri sed incubui et totis ingeniis nisibus immoratus sum»]. Li divorai la mattina per digerirli la sera, li inghiottii da giovane per ruminarli da vecchio.43 Ed essi entrarono in me con tanta familiarità, e non solo nella memoria ma nel sangue [«non modo memorie sed medullis»] mi penetrarono e s’immedesimarono col mio ingegno, che se anche in avvenire più non li leggessi, resterebbero in me, avendo gettate le radici nella parte più intima dell’anima mia.

Naturalmente, l’idea che senza una lettura meditata non ci sia memorizzazio- ne è teologica e medievale; ma qui importa che Petrarca la faccia sua trasferen- dola, in certo senso, nella nostra modernità. Se ora assumiamo il punto di vista dell’«operaio della critica verbale», pare evidente che senza il rapporto fonda- tivo tra lettura lenta e memorizzazione del testo venga meno per Orelli la stessa possibilità dell’anamnesi critica. È anche in questo senso va inteso il giudizio di Contini che nel poeta Orelli agisce una «posizione di memoria»: nel senso cioè in cui, per il poeta come per il “lettore”, la memoria, e particolarmente la me- moria fonico-ritmica del testo, costituisce un dato fondativo su cui costruire.44 Ma andiamo con ordine. Nel 1978, i primi Accertamenti verbali sono esercizî di «critica verbale», nel senso che l’aggettivo aveva dato Mallarmé (che parla di «poète verbal») e aveva ripreso Valéry (che parla di «matériel verbal»). Ma tra questa tradizione e il critico la giuntura è rappresentata ancora una volta da Contini, che nel ’65, in occasione del VII centenario della nascita di Dante, abbozza ai Lincei un suo profilo dei compiti che attendono il «moderno danti- sta». La «critica verbale» ha qui il suo atto fondativo. Degli obiettivi che Contini propone di «convogliare con altri interventi di varia morfologia […] sotto l’e- tichetta di critica verbale», l’ultimo suona: «nuove ed esasperate auscultazioni della lettera […] magari analisi dei valori fonosimbolici» del testo.45 La formula, che ricorda – mi pare – senz’altro Mallarmé («j’envisage […] la lecture comme une pratique desespérée»: La musique et le lettres) ha una storia che occorrereb- be fare, e che dal noto Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante (del 1947) arriva alla Postilla aggiunta nel 1976 ristampando quel vecchio saggio nel volume intitolato Un’idea di Dante. Senza entrare nel dettaglio, la dimensione della verbalità che nel 1947 appariva rimossa affiora decisa nel 1976. Sempre nel saggio del 1965, l’affermazione di Contini che «l’esegesi, quella buona si svolge tutta sopra un solido fondamento verbale» pare offrire a Orelli un’autorevole legittimazione in un ambito in cui si muoveva da tempo, mentre la centralità accordata ai valori fonici assecondava certamente anche il suo temperamento di poeta. Sarebbe opportuno, ma non posso farlo qui, ricostruire le fasi di questa esplicitazione continiana dei valori fonico-timbrici, che (retaggio classico a par-

118 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” te) passa per l’apprezzamento di un critico come Alfredo Gargiulo, e partico- larmente delle analisi contenute in Suono e poesia (1908), negli Scritti di estetica (1952), e dei lavori leopardiani di Angelo Monteverdi, la cui Scomposizione del canto «A se stesso» è uno splendido esempio in quello stesso 1965.46 L’attenzione che si esplicita in Contini precorre la stagione degli anni settanta, con gli studi che qui posso solo ricordare (molto diversi tra loro) di Gian Luigi Beccaria, da una parte,47 e direi Stefano Agosti e Iván Fónagy dall’altra: avvertito che, se comune è in questi la compromissione dell’interprete col piano “analitico” (non di Beccaria né di Orelli) più forte è in Agosti, rispetto al linguista ungherese, l’autonomia riconosciuta ai valori formali.48 Soprattutto in quest’ultimo ambito, la concezione linguistica che del testo ha Fónagy pare vicina a Orelli, quando osserva che «le poète […] travaille avec ls plus petites unités semantiques, uti- lisant un réseau verbal aux mailles les plus serrées, pour saisir dans son filet des détails qui échappent au language ordinaire, ou qui ne peuvent s’y exprimer de manière adéquate».49 Lascio comunque per ora da parte l’istruttivo dialogo che Orelli ha avuto con questo linguista, limitandomi a dire la sua diversa posizione rispetto ai più vicini critici italiani. Mentre per Agosti, che coniuga modelli psi- canalitici e letterari, «la creazione […] sospinge contenuti razionali – o dominati razionalmente – verso l’irrazionalità segreta e veramente biologica delle forme»� che dunque “parlano” autonomanente attraverso il piano del significante, Orel- li50 sembra operare con maggior ritegno nel considerare tale piano succedaneo o autonomo rispetto a quello immediatamente semantico. Più forte è la riserva verso il concetto di “autonomia” del significante elaborato da Beccaria, che in- vestendo l’idea stessa di “fonosimbolismo” pare a Orelli presupporre una «scel- ta intenzionale (o che postfactum si rivela funzionale)» da parte del poeta.51 Fon- damentalmente estraneo a un accesso psicoanalitico del testo (materia che già sollevava la diffidenza di Contini),52 Orelli considera il testo un insieme di valori linguistici sufficiente da indagare con (quasi) esclusiva attenzione alla lettera e ai suoi elementi minimi di significato. In ciò, è più vicino alla misura di Segre, che nella ristampa del suo Lingua stile e società (1974) osserva: «Sono sempre più convinto che una lunga consuetudine con l’analisi linguistica concreta sia l’indispensabile condizione per qualsiasi teorizzazione o proposta di modelli. Continuo a pensare che la lingua costituisca il più articolato complesso di indizi sulle situazioni socio-culturali del passato». I nomi fatti, e le tradizioni che sottendono, imporrebbero di essere comple- tati almeno con le posizioni di certa critica francese più vicina a Orelli, in questi primi anni settanta. Con Segre, Starobinski condivide le riserve sulla critica so- ciologica,53 e nella prefazione (1970) alle Études de style di Spitzer esprime una posizione che non solo è fondamentalmente quella della cosidetta “École de Genève”, ormai toccata dal clima strutturalista, ma pare far suo, con misura, il rigetto di Valéry per ogni “istituzionalizzazione” del dato letterario in termini di “storia della letteratura”. Così Starobinski: «Pourquoi ne pas admettre que l’oeuvre aboutie, séparée de son placenta psycologique et sociale, reste néanmoins porteuse, dans sa forme achevée, de tout ce qui a contribué affecti-

119 Massimo Danzi vement à sa genèse?»54 Anche qui, più misurata è la posizione di Orelli, che nel saggio su Foscolo osserva: «Non credo che sia possibile leggere, interpretare il testo escludendo il contesto, la porzione di storia che vi si può riconoscere. Da qui a credere che la storia ci schiuda i segreti della poesia ce ne corre».55 Ho esasperato a bella posta, semplificando, alcune posizioni vive negli anni settanta, in particolar modo quella tra scienza del linguaggio e psicanalisi. Che le strade, tuttavia, non divergessero troppo in questi anni e l’opposizione fosse meno radicale di quel che sembra dice una serie di fenomeni linguistici e sintat- tici tenuti in conto un po’ da tutte le scuole come consustanziali al testo poetico. Ricordandone qui qualcuno, entro nella parte finale del mio intervento dedicata a una pur rapida caratterizzazione del discorso critico di Orelli. Tra gli elementi fondativi del testo poetico è, per le prospettive che apre, il fenomeno dell’ana- grammatismo, preso frequentemente in conto da Orelli per Dante come per Pascoli o altri autori. Sappiamo, lo rivela Starobinski nel 1971, come Saussure alle prese con lo studio di anagrammi paragrammi ippogrammi nei testi anti- chi se ne incuriosisse al punto da scrivere al Pascoli per misurare la coscienza che di quei fatti aveva il poeta italiano e grande latinista. E come questi, dopo una prima lettera di risposta, opponesse un diffidente silenzio alle iniziative del linguista ginevrino.56 Agosti, da parte sua, ha aggiunto altro che importa arric- chendo notevolmente il quadro: per un verso ha ricordato come quello studio sull’anagrammatismo in Saussure sollecitasse altrettanto le attenzioni di Jacques Lacan;57 per un altro ha candidato a modello dell’interesse continiano per la “lettera” come fondamento di anamnesi stilistica, che abbiamo visto dichiararsi nel 1965, il saggio di Proust su Flaubert (A propos du «style» de Flaubert, in vo- lume nel 1927) con queste parole, che debbono essere citate: «Il grande testo di Proust su Flaubert, che dalla critica della lettera quale risulta investita nelle va- rie categorie grammaticali, passa alle figure dello stile e da queste alla visione del mondo, poteva ben essere considerato dal giovane studioso, il testo esemplare, il testo critico per eccellenza».58 Le cose sono insomma nuovamente complesse e i fili si intrecciano più di quanto era prevedibile. Basti in questa sede averne accennato.

Mi fermo un attimo, per sottolineare ciò che oggi può passare per ovvio e tra ’50 e ’60 lo era, invece, meno. L’atteggiamento cioè che è stato di Orelli e il suo bisogno di esprimersi sulla poesia, segnale di un “fare” che, nei termini che abbiamo visto, si accompagna a una lucida e armata “coscienza del fare”. Non era questo, nell’Italia del dopoguerra e immediatamente dopo, un tratto diffus- simo nel mondo della poesia. Più di trent’anni fa, Alfredo Giuliani, esponente del Gruppo 63 nonché curatore dei Novissimi, intervenne ricordandolo su “la Repubblica”, in un articolo provocatorio in cui stroncava le riflessioni di Eliot sulla poesia.59 La stroncatura celava certo un malessere nei confronti di un “po- eta-critico” giudicato ingombrante; ma anche conteneva questa considerazione ancora valida: «Faccio notare», scriveva Giuliani parlando degli anni cinquanta- sessanta, «che in quell’epoca prestrutturalista, presemiologica, ottusamente “re-

120 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” alistica”, del mestiere, da noi non parlava pressoché nessuno. A sentire i critici e gli stessi poeti, sembrava che la poesia discendesse direttamente dalla Grazia (e non c’e niente di più falso)». Pur tardi, e in un clima tutt’altro, quelle parole alludevano a una temperie precisa e avevano un bersaglio preciso. Negli anni cinquanta, ancora era viva infatti in Italia la condanna di Croce (per il quale Baudelaire rimaneva l’ultimo poeta accettabile) degli esponenti della moderna poesia e riflessione francese, primi fra tutti Mallarmé e Valéry:

La teoria di poesia e critica di cui prendo a discorrere è stata proposta e professata da meri letterati, a capo dei quali sta, rivelatore e maestro, quel Mallarmé che lascia sempre in dubbio chi lo considera se egli fosse un illuso o un “poseur” non esente da consapevo- le o inconsapevole cerretanismo; né maggior vigore mentale aveva l’onesto Paul Valéry, discepolo di lui e maestro della nuova generazione, del quale la banalità della stampa parigina, o internazionalmente snobistica, ha imposto di ascoltare a bocca aperta le po- verissime, e spesso stortissime e spropositatissime, sentenze pseudofilosofiche.60

Tale era il quadro, per molti a quell’altezza ancora di riferimento, che ci per- mette di meglio intendere la novità del discorso critico che, sulla fine degli anni sessanta, Orelli avvia nei termini del corpo a corpo che abbiamo detto e, per il quale, complice la mediazione di Contini, i capisaldi sono proprio Mallarmé e Valéry. Di ciò resta più di una traccia nelle scelte linguistiche del suo discorso critico, che ora vorrei discutere brevemente in ordine alle “immagini” cui si affida la ricostruzione di questa modesta “genealogia”. Comincerò (ed è il punto 2) con la parte che mi pare abbia Valéry e pochi esempi basteranno. Quando Orelli ne La qualità del senso parla di sé come di un «operaio della critica verbale» ha certo presente il maestro di Filologia e critica dantesca («maestri e operai della critica verbale»),61 al cui magistero filologi- co quella formula, come la stessa concezione “artigianale” dell’opera, conviene perfettamente. Ma l’una e l’altra non si spiegano, credo, senza arretrare ulterior- mente a Valéry, che definisce il poeta come il «véritable ouvrier d’un bel ouvra- ge» e interpreta la poesia «come un lavoro perennemente mobile e non finibi- le».62 Ben oltre una certa astrattezza della sua riflessione, il linguaggio di Valéry ci documenta l’importanza di questa dimensione artigianale nella terminologia che impiega. Le molte osservazioni sparse nelle sue pagine sul «travail du poète» e la rivendicazione di quel «travail» come «exercice de l’esprit longuement so- utenu» contro coloro che ritengono che «les poètes doivent composer comme l’on respire»,63 costituiscono un nucleo generativo che incoraggia (insieme all’i- dea di “lentezza”, che abbiamo visto) la concezione artigianale che Orelli ha della poesia. Quel «travail» anche avverte del tentativo di sostituire i vecchi con- cetti di “ispirazione” o “furore poetico” che avevano, secondo Alfredo Giuliani, tenuto a lungo la scena.64 «Travail», «labeur», «fabrication de l’oeuvre», «faire du poète» sono schegge di una concezione più ampia dell’opera, che affiora quando Valéry afferma di leggere nel termine «poétique» niente altro che «la notion toute simple de faire […]. Le faire, le poïein» di cui si occuperà nei suoi

121 Massimo Danzi scritti.65 Una tale visione è anche di Orelli, che tuttavia accettandola procede per la via di concrete verifiche testuali, quale – è noto – non si diede invece mai né in Mallarmé né in Valéry («Je n’entrerais pas dans l’examen du travail conscient, et de la question de l’analyse en actes. Je n’ai voulu que donner une idée tres sommaire du domaine de l’invention poétique»)66 e che come detto lo singolarizza nel panorama poetico contemporaneo. Una memoria che agisce prima e parallelamente anche in Contini, quando richiama i dantisti al compito di «nuove ed esasperate auscultazioni della lettera» con la formula mallarmeana che abbiamo detto. In quell’«uccello di passo» che è Orelli, la frequente sovrapposizione delle memorie segnala d’altra parte i percorsi che nutrono la coscienza del critico. Così alla riflessione dei francesi, qui ridotti a due soli nomi, si sovrappone l’om- bra lunga di Dante, poeta che Eliot indicava nel 1950 senz’altro come il «più scrupoloso, accurato e consapevole professionista del mestiere».67 Pur smorzate nel tono, molte “figure” del discorso critico orelliano appaiono infatti proce- dere da Dante, la cui riflessione linguistica e retorica diviene in lui, col tempo, sempre più importante. Evidente è il caso del termine fabricatio, che nel De vulgari eloquentia designa l’artigianato della canzone antica68 e Orelli utilizza per la costruzione verbale della poesia, in qualche modo sovrapponendola a un termine frequente in Valéry: «je ne crains pas le mot fabrication car poésie signifie fabrication».69 Ma anche altre “figure”, che per il registro familiare po- trebbero sfuggirci, vengono da lì: le «parole ben pettinate» sono i «vocabula pexa» del De vulgari eloquentia (Dve, II vii 2, 4, 6 e 7), i «vocaboli ben levigati» sono i «vocabula dolata» (II vii 5) e infine l’immagine della «fascina» di versi, di rime o d’altro che Orelli impiega spesso («una fascina di versi», «una fascina di siffatte memorizzazioni», «dalla fascina di Quasi sereno [di Angelo Barile] togliamo…» ecc.) rinvia senz’altro, anche, al «fascis» dantesco di Dve, II viii 1 e 9. Meno noto, senza per questo pensare di esaurire il discorso, che Orelli ritrovasse il concetto di fabricatio, fuori di Dante e Valéry, anche nelle riflessioni poetiche per esempio dell’amato Gottfried Benn, che di contro all’“ispirazione” rivendicava il “fare” del poeta: «una poesia sorge, in genere, molto di rado», scriveva, «una poesia viene “fabbricata”» («wird gemacht» nell’originale).70

L’idea dell’opera di poesia come «lavoro perennemente mobile e non finibile», che ho ricordato, introduce alla questione, che è uno dei corollari che ne discen- dono, del linguaggio inteso nella sua mobilità creativa: un concetto che, in Orelli, affiora di continuo e salda ulteriormente le sue «letture» alla tradizione che abbia- mo ricordata del pensiero linguistico di Martin Heidegger. È dagli scritti linguisti- ci di Heidegger, precisamente da quelli di In cammino verso il linguaggio (Milano, Adelphi, 1973), che prende origine la riflessione, che leggo in Quasi un abbeceda- rio: «L’attenzione alla lettera del testo presuppone che si consideri il linguaggio non tanto come un prodotto morto quanto come un produrre dico ricordando Humboldt».71 Ora l’idea di un linguaggio non come “prodotto morto” bensì come un organismo vivo (“un produrre”), investe tutta l’attività poetica di Orelli

122 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” e si ritrova in numerose varianti: da quella di «sistole e diastole» (a definire il parti- colare ritmo poetico petrarchesco) a quella di «sillabe oniricamente-poeticamente inquiete, pronte a spostarsi […] dal nome di persona al toponimo» (utilizzata per Iride di Montale) ad altra di «Petrarca [che] come Dante, ama sfruttare la produttività di certi lessemi, riprendendone i radicali, spostando fonemi, sillabe, ispessendo e assottigliando» o di Pascoli, che «s’afferra soprattutto a poche paro- le produttive, ne muta l’ordine, ne parafrasa i fonemi, ricorre a metatesi ed altre dislocazioni, replicazioni; s’apprende alle “radici” della parola, quasi ripercorren- done la storia verso le origini».72 Tutte queste immagini riconducono alla convin- zione che Orelli trova espressa in Petrarca e altrove, per la quale il “lavoro” del poeta altro non sia – alla fine – che uno «spostare sillabe tutta la vita»: «Quotiens syllabas contorsimus, quotiens verba transtulimus», dice di sé nella famosa lettera al fratello di Fam. X 3.73 Un concetto la cui formulazione moderna più esplicita spetta comunque a un poeta francese del Seicento, che Agosti ha citato e fatto suo scrivendo proprio sulla poesia di Orelli, in questi termini mirabili:

Il grande Malherbe confidava un giorno a Racan: Se i nostri versi vivranno dopo noi, tutta la gloria che ne potremo sperare è che di noi si dirà che siamo stati due eccellenti manipolatori di sillabe (“arangeurs de syllabes”) e che abbiamo avuto un grande potere sulle parole per essere riusciti a collocarle così adeguatamente al loro posto; e altresì che siamo stati entrambi assolutamente pazzi per avere trascorso la più gran parte della nostra vita in un esercizio così poco utile al pubblico e a noi stessi, invece di impiegare quel tempo a spassarcela, o a pensare alla sistemazione della nostra fortuna.74

Una tale idea del “lavoro” poetico e della poesia, se ottiene di déshabiller la vecchia Signora dei panni “idealisti” che denunciava Giuliani anche riporta il discorso sul piano della testualità e delle relazioni fonico-ritmiche di cui è fatta la poesia, non per nulla da Mallarmé definita «une orchestration qui reste verbale» e da Valéry «une sorte de propagation d’effet de résonance».75 Quale sia poi il grado di coscienza del poeta nell’associare le parole e quale invece la parte del caso, certo inversamente proporzionale al “mestiere” che ha il poeta, è dato qui non necessario alla discussione e che porterebbe lontano dal nostro tema. Basti ricordare che per Mallarmé «Le hazard n’entame pas un vers»76 e che per Valéry «une intime contrainte à l’impulsion et l’action rythmée transfor- me profondément toutes les valeurs du texte qui nous l’impose».77 L’esercizio di sorvegliatissima «critica verbale» perseguito da Orelli nei suoi Accertamenti non dice in fondo cose molto diverse. Ma torniamo un momento, prima di concludere, al tema del rapporto che la lingua della poesia ha col linguaggio naturale, sul quale Orelli ha riflettuto spesso nelle sue “letture” facendone uno snodo fondamentale nell’operare del poeta. Che il linguaggio della poesia sia “altro” rispetto a quello della normale comunicazione hanno avvertito e argomentato sufficientemente in molti, prima delle note “funzioni” linguistiche proposte da Jakobson. Gli Accertamenti orel- liani non scendono sotto una pagina di Parini, per il quale la poesia non è solo

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«una foggia di parlare diversa dal linguaggio comune» ma altresì «un linguaggio diverso da quello della prosa».78 Analoghe, ma infinitamente più ricche le os- servazioni sulla poesia che può offrire il Leopardi dello Zibaldone, in fasi anche molto diverse della sua attività poetica, là dove per esempio mostra l’alta co- scienza della distanza che per lui intercorre tra poesia e prosa. Ma è ovviamente nel Novecento che ritroviamo concezioni a lui più familiari. E se, anche in ciò, Valéry chiude in certo modo una riflessione che da Baudelaire procede attraver- so il simbolismo francese, bisognerà ricordare, accanto a lui, due grandi linguisti richiamati spesso, su questo punto, negli Accertamenti: l’americano (d’origine lituana) Edward Sapir e il russo Roman Jakobson. Del secondo dirò qualcosa concludendo sul concetto di “ritmo” in Orelli. Sapir invece si impone con Il lin- guaggio (1921), libro tradotto in italiano da Einaudi nel 1969 e subito posseduto da Orelli, come il linguista più importante per questa riflessione. Tutto il capi- tolo IX su Letteratura e lingua verte sul rapporto del poeta con la propria lingua “naturale”. Basti qualche citazione: «le caratteristiche fondamentali dello stile, in tanto in quanto lo stile è un problema tecnico della costruzione e collocazione delle parole, sono offerte dalla lingua stessa, con la stessa inevitabilità, con cui l’effetto acustico generale del verso è dato dai suoni e dagli accenti naturali della lingua». Ancora: «Non è affatto probabile che uno stile veramente grande possa decisamente opporsi alle strutture formali di fondo della lingua. Esso non solo incorpora quelle strutture, ma costruisce sulla base di esse». O infine: «È strano vedere quanto tempo è stato necessario alle letterature europee per imparare che lo stile non è un assoluto […], ma semplicemente la lingua stessa, che scorre nei suoi solchi naturali, e con un accento individuale sufficiente a permettere alla personalità dell’artista di essere sentita come una presenza e non come un gioco acrobatico».79 Il critico e il poeta hanno d’altra parte molto presente l’idea che la poesia sfrutti le risorse naturali del linguaggio. Ciò accade quando Orelli riprende, a proposito di Dante, la formulazione continiana di «epigrammi natu- rali»80 o invece osserva come Petrarca non faccia altro che «utilizzare le risorse estetiche innate del proprio linguaggio»81 o come, ancora, la lingua del Pascoli, nella sua «povertà», «esiga un scarto (o “infrazione” o “disordine”) minimo, rispetto all’ordine naturale», e così via.82 La cosa tocca discretamente anche il poeta, che asseconda più che non paia le «risorse estetiche innate» del linguag- gio. Basterà il rinvio a due testi di Spiracoli (1991) come L’ha di la Rita e Angor, impetus, mors, che sfruttano l’oralità dialettale (rispettivamente del contado di Bellinzona e dell’Alta Leventina), trascorrendo con assoluta naturalezza dal pia- no della quotidianità a quello della poesia.83 Per altro verso, questo rapporto tra linguaggio naturale e lingua della poesia, che inerva i testi del poeta, illumina il lavoro della memoria anche fuori da quell’ambito privilegiato, con la stessa attenzione al fattore fonico-ritmico che per Orelli è capitale in poesia. L’episo- dio spesso ricordato di suo padre, che amante dell’opera rimemora a suo modo celebri brani verdiani (il celebre «Eri tu che macchiavi quell’anima» del Ballo in maschera che diviene «Eri tu che mangiavi quell’anitra»), mostra che analoghe dinamiche verbali si danno (come Orelli direbbe) anche presso il “popolo”:

124 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” dinamiche che torcono altrettanto parodicamente il collo all’eloquenza della vecchia lingua aulica. Di casi come questo, di “usucapione” parodica di brani celebri a parte populi testimoniano, con toni divertiti, le pagine del narratore e, a volte, anche del critico. Il processo di ricombinazione di pochi e spesso fondamentali nessi morfo- fonematici che un poeta attiva nei suoi testi è l’angolo di visuale da cui Orelli rilegge, nei modi della «critica verbale», la cosidetta “povertà” linguistica di Pascoli. Una “povertà” naturalmente solo apparente per un poeta che fa delle figure di ricomposizione (anagrammi, paragrammi, isoritmie, palindromi ecc.) una via prediletta verso l’essenzialità cui aspira. Ma una tale arte del linguag- gio, un tale senso di “economia” linguistica non conduce solo alla “povertà” del Pascoli, permette anche di leggere, in un percorso che ogni volta riattiva la memoria fonico-timbrica del testo, la poesia di Dante, Petrarca o Montale. Pa- scoli è però da questo punto di vista un eccellente banco di prova. Leggo negli Accertamenti verbali:

Si insiste per solito sulla ricchezza e precisione e determinatezza del linguaggio pasco- liano. Qui invece vorrei attirare l’attenzione sulla sua “povertà”, sulla particolare natura della sua esattezza […]: il poeta, come ho già detto, s’afferra soprattutto a poche parole produttive, ne muta l’ordine sillabico, ne parafrasi i fonemi, ricorre a metatesi e altre di- slocazioni, replicazioni, ecc; s’apprende alle “radici” della parola, quasi ripercorrendone la storia verso le origini.84

Non procede per altra via l’apprezzamento che Orelli mostra per uno scrit- tore come Robert Walser, il cui «pregio fondamentale» gli pare «la creazione con niente di un mondo profondo e intimo». Walser, ci dice Orelli, sa fare «mit wenigem viel», secondo la formula che Goethe spiritosamente applica alla fi- danzata in un epigramma veneziano. «Ottenere molto con poco», scrive Orel- li nell’Abbecedario, «è uno dei grandi desideri dell’artista: Goethe dice: “das heisst, dünkt, mit wenigem viel”». 85

Questa delibata “economicità” linguistica che Orelli insegue nei suoi autori mo- strando la “produttività” liberata dal linguaggio speciale della poesia ha un pun- to di convergenza necessario nel fattore, giudicato capitale fra tutti, del “ritmo” poetico, luogo che sussume le alchimie verbali del poeta e in cui si gioca la con- sistenza stessa dell’“io” del poeta, che ad esso affida la riconoscibilità di sé come autore.86 Valga un esempio tra i tanti, tratto dalla “lettura” che Orelli ha dato di una lirica del poeta Angelo Barile, nella quale a un certo punto osserva: «Come è stato detto per qualche poeta celeberrimo, qui il ritmo è la sostanza stessa della poesia».87 A questa, che è la “vera” misura di sé, un poeta accede per la via della «parola esatta, insostituibile», che è – ci dicono ancora gli Accertamenti verbali – «quella di volta in volta sintagmaticamente motivabile al massimo».88 A questo mira il “lavoro” del poeta e «questa verità di espressione costringe a esatto conto a esatta misura».89

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Se ora, partendo da siffatte premesse, dovessi indicare quello che è per Orelli il fattore capitale del linguaggio poetico, e per me la conclusione di questo per- corso, non farà meraviglia che indichi senz’altro l’attenzione al “ritmo” poetico del testo. Tutto quanto ho detto, e quanto potrei ancora trarre in merito ai valori formali del testo degli Accertamenti è per un verso costantemente ricondotto da Orelli sul piano ritmico-timbrico-sintattico e, per un altro, appare “cifra” di un metodo che lo singolarizza a fronte di “poeti-critici” come Montale, Luzi, Se- reni o Solmi. Non si tratta, ovviamente, di ritmo inteso come insieme di regole prosodiche, di ictus accentuativi, tra materiale verbale (la parola) e dimensione prosodica (il verso). Queste, a giudicare del “ritmo” poetico non bastano, come già aveva notato il Gargiulo dialogando con Vossler nel 1908 («L’accento può soltanto agire sul suono»).90 Né serve a cogliere il ritmo la distinzione tradizio- nale di accenti principali e secondari in un verso, che ci dice Orelli «i poeti nel loro lavoro più creativo non hanno mai rispettato più che tanto».91 Si tratterà piuttosto di un ritmo che nasce da quell’«alliance intime du son et du sens» in cui Valéry vede «la caractéristique essentielle de l’expression en poésie» e che i “formalisti” russi (tra tutti, per Orelli, il Tynjanov de Il problema del linguaggio poetico [1923]) propongono con particolare attenzione come fattore costruttivo del verso. Ben oltre, o al di là della parola o dei suoi fonemi sillabici, il ritmo si affida, per Orelli, ai nessi morfofonematici in azione nel testo e alla capacità che ha il “lettore” di riconoscerli. Una stessa “memoria” presiede dunque al “lavo- ro” del lettore e a quello del poeta, che conduce al giudizio («giudizio di valo- re», per Orelli fondamentale e mai pretermesso) e, con esso, al riconoscimento della «qualità del testo». Si tratta di una memoria essenzialmente timbrica, come ci avvertiva fin dai suoi primi Accertamenti:

Ritmico-timbrica è essenzialmente la memoria che i poeti hanno di sé e di altri poeti. Di tale memoria, quando si tratti di riprese (consapevoli o inconsce poco importa) in profondità, con una nuova densità, si può dire che è già un’esegesi. Il discorso poetico ne è informato molto più di quanto comunemente si creda: anche e soprattutto a questo pensiamo quando diciamo che un poeta è figlio di qualcuno.92

Con questo coincide finalmente la sua idea di “ritmo” poetico, che si impone al poeta in una con le ragioni del linguaggio lungo tutto il percorso del testo, dall’intuizione primamente trasferita sulla pagina a quel «travail du travail» che sono, nel linguaggio di Valéry, le correzioni che un autore apporta al testo per- fezionandolo. Su questo punto delle “correzioni” di un autore, capitale per chi «considerando la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile» (così Contini nel ricordato Saggio di un commento sopra le correzioni del Petrarca volgare), Orelli ha discusso col maestro andando, alla fine, per una sua strada: insistendo cioè sulle ragioni che all’operare del poeta impongono la “partitura sonora” del testo e le reciproche relazione degli ele- menti che la formano.

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Non posso non notare – scrive nel saggio petrarchesco – che né Contini per le varianti leopardiane, né Isella per quelle pariniane, si curano nel loro eccellente lavoro di dar gran peso al significante in quanto suono, che spesso determina la scelta della parola esatta, in quanto asseconda le esigenze dell’orchestrazione verbale, del ritmo inteso in senso propiamente semiotico. Talché non so se abbia sempre senso parlare di “sistema” (stilistico) d’un poeta escludendo lo studio attento della Lautsprache, della partitura so- nora: la “ragione immanente” (Contini) alle correzioni dei poeti, da Petrarca a Char, non sembra per solito così nascosta da non poter esser colta dai nostri orecchi.93

L’indicazione è importante perché cela una differenza in merito al “conte- sto” entro il quale valutare il processo correttorio di un autore e che Contini mira a inserire nel “sistema” di un autore. Un’unica volta, mi pare, ad indicare l’ambito interessato dalle correzioni apportate da Montale a una sua poesia, Contini assume il termine di “insieme”, col quale Montale illustrava i ritocchi all’amico Boby Bazlen: «La norma», scriveva Contini in Ultimi esercizî a pro- posito dell’Elegia di Pico Farnese, «è di miglioramenti locali, da giudicare però nel “sistema” o più frugalmente detto nell’“insieme”».94 Resta il problema dei confini da dare al “sistema” o all’“insieme”, del “perimetro” insomma in cui si iscrivono le correzioni. Orelli preferisce la nozione, meno rigida, di “insieme” e tende a spiegare le correzioni di un autore in primo luogo sulla base delle re- ciproche relazioni foniche che nel testo si stabiliscono tra le parole: la «finalità esegetica generale» in cui Contini le iscrive – osserva – «non potrà che riceve- re luce da un’attenzione minuziosa al suono della voce poetica».95 In secondo luogo, l’analisi delle correzioni si iscrive per lui nell’«insieme empiricamente sufficiente»: sia esso «il componimento che si sta scrivendo» sia una sua unità minore. «Propongo di studiare la variante – si legge nel Foscolo del 1992 – per entro l’insieme morfo-fonematico (sufficiente), nella trama di relazioni foniche che vi si stabiliscono: parlo dunque di “insieme”, nozione evidentemente meno rigida di “sistema”».96 Questo interesse per l’aspetto fonico nello studio dell’e- laborazione di un testo ha ascendenze insospettate, se un filologo classico come Pasquali (all’origine, come è noto, del moderno interesse scientifico per le “va- rianti d’autore” in Storia della tradizione e critica del testo [1934]) lo richiama per un autore volgare come Boccaccio.97 Mi limito a segnalare il fatto, perché le sue osservazioni coincidono sostanziamente con gli interessi di Orelli, parte- cipando di una stessa sensibilità per il significante allora non così ovvia in un classicista. Ma qui anche mi fermo. Siamo infatti arrivati, con le correzioni di Petrarca, Char o Montale al termi- ne di un discorso che ci riporta alla questione del “ritmo” in poesia e alla parti- colare “memoria” che è dei poeti. Non lascerò, per concludere, di ricordare che l’idea di ritmo come «varia corrispondenza di accento e struttura morfofonema- tica del verso» che Orelli ha mirabilmente espresso in una “lettura” montalia- na,98 procede e va oltre quella che Valéry aveva chiamato la «substance sonore» del testo. E che quel «travail du travail» che Petrarca è il primo “moderno” a testimoniare nel vivo del «codice degli abbozzi» vaticano, serve, nell’ottica di Orelli, a capire e spiegare anche quanto fanno poi Boccaccio, Ariosto, Tasso,

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Parini, Leopardi o Foscolo componendo o, successivamente, correggendosi. Come già per il “lettore”, anche per chi indaga il perfezionarsi del testo, l’ap- prossimazione alla parola esatta finisce per coincidere con le istanze dell’orec- chio ben attrezzato. In questo, di nuovo, Orelli pare dare ragione a Valéry, per il quale la poesia è stata tutta la vita l’arte di «contraindre le langage à intéresser immédiatement l’oreille».

1 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973, p. 201. 2 S. Agosti, Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Rizzoli, Milano 1972. 3 P. Valéry, Œuvres, Édition établie et annotée par J. Hytier, Gallimard, Paris 1957, vol. I, p. 1292-1293. 4 Ibi, p. 216. 5 Ibi, p. 1456: «LITTERATURE: ce qui est la “forme” pour quiconque, est le “fonds” pour moi». 6 Ibi, p. 1328. 7 «S’il est un vrai poète il sacrifiera presque toujours à la forme (qui après tout, est la fin et l’acte même, avec ses nécessités organiques) cette pensée qui ne peut se fondre en poème si elle exige pour s’exprimer qu’on use de mots ou de tours étrangers au ton poétique. Une al- liance intime du son et du sens, qui est la caractéristique essentielle de l’expression en poésie, ne peut s’obtenir qu’aux dépenses de quelque chose – qui n’est autre que a pensée»: ibi, p. 455. 8 P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, Einaudi, Torino 20032, p. 35. 9 G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014, p. 14 (mio il corsivo). 10 E la proporzione cresce, se aggiungiamo i saggi non raccolti in volume, segnalati dalla Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, con la collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014. 11 G. Orelli, Accertamenti montaliani, il Mulino, 1984, p. 91. 12 Si vedano rispettivamente G. Pascoli, Il fanciullino, a cura e con un saggio di G. Agam- ben, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 50 e 56; T.S. Eliot, Cosa significa Dante per me(1950), in Id., Scritti su Dante, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1994, p. 77 e G. Orelli, Accerta- menti montaliani, p. 69. 13 Si veda, a proposito del rappporto tra Petrarca e Dante, G. Orelli, Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990, p 139: «Chiaro che approdi come questo, più che l’influsso di Dante, dimostrano che la cosiddetta creazione poetica molto deve all’iniziativa del linguaggio, in quanto linguaggio, il quale dispone (dice Heidegger) d’un io poetante pron- to a secondarne le “ragioni fisiche”». E il nesso tra Pascoli e il filosofo tedesco è assicurato proprio dall’edizione del Fanciullino di un filosofo heideggeriano come Agamben, qui citata alla nota 12. 14 P. Valéry, Œuvres, vol. I, p. 450. 15 Si veda, di chi scrive, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli tra prosa e poesia, in “Autografo”, n.s., VI (1989), 18, pp. 3-20. 16 G. Orelli, Accertamenti montaliani, p. 92. 17 S. Mallarmé, Réponse à des enquêtes sur l’évolution littéraire, in Œuvres complètes, Texte établi et annoté par H. Mondor et G.-J. Aubry, Gallimard, Paris 1945, p. 867, cit. in G. Orelli, Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978, p. 174. 18 J. Tynjanov, Il ritmo come fattore costruttivo del verso, in Id., Il problema del linguaggio poetico, Mondadori, Milano 1968, specialmente pp. 42-54: la cit. alla p. 51. 19 S. Agosti, La chute des temps et le sans-fin du discours, in Forme del testo. Linguistica semiologia psicoanalisi, Cisalpino Editore, Milano 2004, p. 126.

128 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”

20 Per le due citazioni, si veda G. Orelli, Accertamenti verbali, pp. 7 e 8. 21 G. Lonardi, Accertamenti sul Dante di Orelli, in “Cenobio”, XXXIII (1983), 4, p. 292 n. 3. Ricordo appena questo passo di Orelli, successivo al saggio di Lonardi perché presente in pa- gine del ’92: «sono sempre stato un uccello di passo pronto a prendere quel che più mi serviva, o sembrava nutrirmi. Lì ho insistito. Ho letto certe cose con una “voglienza” intensissima» (G. Orelli, Foscolo e la danzatrice. Un episodio delle Grazie, Pratiche Editrice, 1992, p. 69). 22 Id., Accertamenti montaliani, p. 64. 23 P. Valéry, Au sujet du Cimetière marin, in Œuvres, vol. I, p. 1500. 24 Dopo gli interventi di Contini, Pozzi, Raimondi e Zanzotto riuniti in Giorgio Orelli poe- ta e critico a cura di C. Mésoniat, RTSI, Lugano 1980, sono ora riuniti anche quelli dovuti ad Agosti, Segre e Raimondi in Testi e interventi di e su Giorgio Orelli, a cura di F. Beltraminelli, Liceo Cantonale di Bellinzona-Casagrande, Bellinzona 2015 (“Lezioni bellinzonesi” 8), cui si aggiungeranno le osservazioni sugli scritti petrarcheschi di Ezio Raimondi e su quelli monta- liani di Stefano Agosti, ibi, rispettivamente pp. 111-21 e 93-101. Altre osservazioni in merito a Petrarca in P. De Marchi, Petrarca nella poesia di Giorgio Orelli e di altri poeti della Svizzera italiana, in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, Atti del convegno (Roma 4-6 otto- bre 2001), a cura di A. Cortellessa, Bulzoni, Roma 2004, pp. 245-260 e quelle su Dante di G. Güntert, La Lectura Dantis turicensis di Giorgio Orelli Inferno XXIX, in “Bloc Notes”, 64 (2014), maggio, pp. 71-82 (numero dedicato a Giorgio Orelli, a cura di J.-J. Marchand), dov’è anche il saggio di A. Roncaccia, Orelli critico. La forza e il metodo della memoria verbale, pp. 141-149. 25 Così Michel Foucault in Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in Hommage à Jean Hyppo- lite, ed. S. Bachelard et alii, PUF, Paris 1971, pp. 145-171, di cui riporto questo breve passo, da p. 145: «De là, pour la généalogie, une indispensable retenue: répérer la singularité des évènements, hors de toute finalité monotone, les guetter là où on les attends le moins et dans ce qui passe pour n’avoir point d’histoire […] pour retrouver les différentes scènes où ils ont joué des rôles différents; définir même le point de leur lacune, le moment où ils n’ont pas eu lieu». 26 Si veda S. Agosti, Petrarca e la modernità letteraria, in Id., Forme del testo, p. 15. 27 A. Gide, De l’influence en littérature, Petite Collection de l’Hermitage, Paris 1900, p. 20. 28 G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 179. 29 Ibi, p. 179. 30 Id., Presentazione di Cavalli, Ferrari, Paolucci, Selmoni (Bellinzona, Sala Patriziale, 18 aprile-5 maggio 1962), Salvioni, Bellinzona 1962. 31 Penso, per esempio, ai saggi di Harold Bloom sul problema dell’“influenza”: The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry del 1973 e il successivo The Anatomy of Influence del 2011. 32 G. Orelli, Il suono dei sospiri, p. 128 n. 5, dove fa sua la speciale terminologia del linguista Petöfi, che per evitare ogni ambiguità differenziava «co-testo d’impiego» (contesto verbale) da contesto «situazionale». 33 Id., Accertamenti verbali, p. 28. 34 Id., Foscolo e la danzatrice, p. 66. 35 Id., Quasi un abbecedario, p. 69. 36 Id., La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi, Casagrande, Bellinzona 2012, pp. 9 e 13. 37 «Petrarca non ne ammette veramente altri»: cfr. G. Contini, Saggio di un commento sulle correzioni del Petraca volgare, in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Einaudi, Torino 1970, p. 17. Credo che, come spesso in Contini, l’aggettivo qualcosa debba «aux opérations incertaines et minutieuses» che per Valéry sono quelle del critico: Œuvres, vol. I, p. 1369. 38 V. Sereni, Letture preliminari, Liviana, Padova 1976, pp. 37-38, che appunto ritrovava la formula in Seferis. Su ciò, si veda G. Cordibella, Ce vice impuni, la lecture. Passioni e ritro- sie di un critico lettore, in Ead., Di fronte al romanzo. Contaminazioni nella poesia di Vittorio Sereni, Pendragon, Bologna 2004, pp. 105-109.

129 Massimo Danzi

39 G. Orelli, Il suono dei sospiri, p. 9. 40 M. Pedroni, Un accertamento inedito di Giorgio Orelli, in “Bloc Notes”, 64 (2014), maggio, pp. 125-140. 41 Basti qualche esempio; La qualità del senso, prima di giungere a titolo nel 2012, è sin- tagma vivo nel libro su Petrarca (1990), dove definisce il particolare rapporto suono-senso che regola il testo poetico (pp. 34, 70 e 126). Né è senza significato l’allusione, nel titolo, a Le sens de la qualité di (1948), quando si pensi che il noto esponente dell’“Éco- le de Genève” (autore di De Baudelaire au surréalisme, 1933) è il prefatore degli Choix de poèmes orelliani, nel 1973. La questione del “senso” abita più in generale l’École de Genève, se ancora di recente J. Starobinski ha intitolato un suo libro Les approches du sens (2013). C’è insomma in Orelli, come Contini aveva visto a proposito di Sinopie, una lenta gestazione di concetti e figure, che a un certo punto affiorano allusivamente nel titolo, con rilievo concet- tuale o di genere. 42 Pitture murali di Franco (sic!) Cavalli, in “Corriere del Ticino”, 1° aprile 1966. 43 Splendidamente il Leopardi, nello Zibaldone: «Uno����������������������������������������� de’ maggiori frutti che io mi propon- go e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d’altri» (Pisa, 15 Apr. 1828). 44 «Questa [dell’Orelli poeta] è una posizione di memoria, nel senso in cui una corrente della filologia moderna ha cercato di definirla come costitutiva della poesia classica»: cito da G. Contini, G. Pozzi, E. Raimondi, A. Zanzotto, Giorgio Orelli poeta e critico, p. 23. 45 G. Contini, Filologia ed esegesi dantesca, in Varianti e altra linguistica, p. 410. 46 Il nome di Gargiulo (pensando certo agli Scritti di estetica, Le Monnier, Firenze 1952) è fatto con lode da Contini nell’intervista a Ludovica Ripa di Meana (1989) e affiora poi, per esempio, in Foscolo e la danzatrice, pp. 66-67. Negli Scritti si possono leggere osservazioni come queste: «il suono in quanto suono non resta estraneo all’espressione» (p. 174), «I suoni, io credo, traggono da ogni specie di associazione il loro senso» (p. 176) o «le ragioni musicali e fonetiche […] nella poesia richiedono quasi un’attenzione a parte» (p. 179), ecc. 47 G.L. Beccaria, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi Dante, Pascoli, D’Annunzio, Einaudi, Torino 1975. 48 S. Agosti, Il testo poetico; I. Fónagy, Les bases pulsionnelles de la fonation apparso in “Revue française de psychanalyse”, 34 (1970), 1, e 35 (1971), 4. 49 I. Fónagy, Le langage poétique: forme et fonction, in Problèmes de langage, Gallimard, Paris 1966, p. 105 (ricordato in G. Orelli, Accertamenti montaliani, p. 55). Per il dialogo con Fónagy sulle traduzioni da Goethe, si veda G. Orelli, Fónagy e un verso di Goethe, in I linguag- gi della voce. Omaggio a Iván Fónagy, a cura di L. Santone, Biblink Editori, Roma 2010, pp. 47-52 (devo la segnalazione all’amica Enrica Galazzi). Altre osservazioni sul linguista, in Id., La lettera della luminosità e della traffittura, in “Il piccolo Hans”, III (1976), 12, pp. 140-152. 50 S. Agosti, Il testo poetico, p. 43. 51 Così, in G. Orelli, Accertamenti montaliani, p. 19. Il concetto è ribadito poi, per es., in Id., Foscolo e la danzatrice, p. 69. 52 Ma si veda questo passo di Contini, a proposito del procedimento cosciente o no delle allusioni poetiche, in Filologia ed esegesi dantesca, p. 423: «Sarebbe un omaggio tanto più intenso se movesse da sotto il limite della coscienza: poiché l’indagine della struttura deve prescindere da un mito neoclassico, il presunto paradiso della solarità cosciente in letteratura; la limitazione dei casi di flagrante intenzionalità […] restringerebbe fortemente e arbitraria- mente il canone, dal momento che i procesi associativi, assimilitavi, dissimilativi hanno una velocità, come nei riflessi del guidatore, che si sottrae alla coscienza, mentre la loro consisten- za è obbiettivamente provata dalla ripetizione e costanza delle relazioni». 53 L. Spitzer, Études de style. Précédée de L. Spitzer et la lecture stylistique de J. Staro- binski, traduit de l’anglais et de l’allemand par E. Kaufholz, A. Coulon, M. Foucault, Gal- limard, Paris 1970, p. 37: «Au���������������������������������������������������������������� moment où il tente de déchiffrer la “parole aliénée” des ins- titutions et des relations sociales, le critique sociologique est menacé de perdre le pouvoir

130 Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” d’interpréter une parole humaine: face à une réalité si difficilement écoutable, nous le voyons souvent parler à la place». 54 Ibi, p. 38. Si ricorderanno le posizioni di Valéry in merito alla non pertinenza della biografia e della storia della letteratura per lo studio della poesia: J’estime« – c’est là un de mes paradoxes, – que la connaissance de la biographie des poètes est une conaissance inutile, si elle n’est nuisible, à l’usage que l’on doit faire de leurs ouvrages […]. Et si je dis que la curiosité biographique peut-être nuisible, c’est qu’elle procure trop souvent l’occasion, le prétexte, le moyen de ne pas affronter l’étude organique et précise d’une poésie»; e ancora: «les prétendus renseignements de l’histoire littéraire ne touchent donc presque pas à l’arcane [Orelli: «i segreti»] de la génération des poèmes» (P. Valéry, Œuvres, vol. I, pp. 428 e 483). 55 G. Orelli, Foscolo e la danzatrice, pp. 75-76. 56 J. Starobinski, Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, Gal- limard, Paris 1971. Il fatto è ricordato in G. Orelli, Per una lirica del Pascoli ed è apparso in “Strumenti critici” (1974), 21-22, pp. 283-290 (poi in Id., Accertamenti verbali, p. 129). 57 S. Agosti, Lacan e la parola letteraria, in Forme del testo, p. 214. 58 Id., Contini e l’esperienza della verbalità, in ibi, p. 239. 59 A. Giuliani, Eliot nella terra desolata. Quasi una stroncatura, in “la Republica“, 18 settembre 1988. 60 In “Critica“, II (1946), poi in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia, Laterza, Bari 1950, pp. 284-285. 61 G. Orelli, La qualità del senso, pp. 9 e 13 e rispettivamente G. Contini, Varianti e altra linguistica, p. 410. 62 Così Contini, in apertura del Saggio di un commento sulle correzioni del Petrarca vol- gare, in Id., Varianti e altra linguistica, p. 6. Questo uno dei passi di Valéry, che lo giustifica: «������������������������������������������������������������������������������������������L’exercice de la poésie laborieuse m’a accoutumé à considérer tout discours et toute écri- ture, comme un état d’un travail qui peut presque toujours être repris et modifié; etce travail même comme ayant une valeur propre, généralement très supérieure à celle que le vulgaire attache seulement au produit. […] Une œuvre n’est jamais nécessairement finie, car celui qui la faite ne s’est jamais accompli, et la puissance et l’agilité qu’il en a tirées, lui confèrent précisément le don de l’améliorer» (P. Valéry, Œuvres, vol. I, p. 1451). 63 Ibi, p. 1390: «Souvent on reproche au poète les recherches et les réflréflexions, exions, la médi-médi- tation de ses moyens; mais qui songerait à reprocher au musicien les années qu’il consacre à étudier le contrepoint et l’orchestration? Pourquoi veut-on que la poésie exige moins de pré- paration, moins d’artifice, moins de calcul, que la musique? Peut-on reprocher à un peintre ses études d’anatomie, de dessin et de perspectives? […] Quant aux poètes, ils semblent qu’ils doivent composer comme l’on respire […]. Ce n’est là qu’une erreur, qui n’est pas très ancienne et qui dérive d’une confusion entre la facilité immédiate qui nous livrent les pro- duits de l’instant […] avec cette autre facilité qui ne s’acquiert que par un exercice de l’esprit longuement soutenu». 64 Osservazioni sul concetto di inspiration in ibi, pp. 1335, 1337, 1342 e 1375-1378, dove appare quasi sempre opposto al faire del poeta. 65 Ibi, p. 1342. 66 Ibi, p. 1415. 67 T.S. Eliot, Scritti su Dante, p. 77. 68 Di «fabricatio verborum armonizzatorum» tratta Dante in Dve II viii, 5 e la formula coniuga valore verbale delle sillabe e andamento ritmico. E si penserà anche a un termine come «fabbro» e simili, nella Commedia: «fu miglior fabbro del parlar materno». 69 P. Valéry, Œuvres, vol. I, p. 1614. 70 G. Benn, Problemi della lirica, in “Aut-Aut”, 9 (1952), pp. 199. L’articolo è ricordato da Orelli in vari saggi. 71 G. Orelli, Quasi un abbecedario, pp. 71-72. Heidegger cita e discute la posizione di Humboldt, che ricuperata per il nucleo che importa suonava: «Il linguaggio, inteso nella sua vera essenza, è realtà in continuo e perenne divenire […]. Il linguaggio non è un’opera (ergon), ma una attività (energeia)», in M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pp. 193-194.

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72 Cito nell’ordine da G. Orelli, Il suono dei sospiri, p. 93, Accertamenti montaliani, p. 71, Accertamenti verbali, pp. 69 e 136. 73 Da cui Orelli a proposito di un sonetto di Petrarca: «Spero di mostrare con esempi ab- bastanza convincenti […] come il Petrarca spostasse sillabe per tutta la vita»: Id., Accertamenti verbali, p. 53. Ma il tema ritorna anche altrove: cfr. per es. Id., Il suono dei sospiri, p. 4. 74 S. Agosti, Nel cuore del linguaggio: Spiracoli di Giorgio Orelli, in Id., Poesia italiana contemporanea, Bompiani, Milano 1995, p. 81, che giudica queste parole «fra le più trauma- ticamente centrali che siano state pronunciate sul progetto poetico e sull’esistenza che se ne fa depositaria». 75 S. Mallarmé, Cris des vers, in OC, p. 361; P. Valéry, Œuvres, vol. I, p. 207. 76 «Le hazard n’entame pas un vers, c’est la grande chose […], dans le poëme, les mots – qui déjà sont assez eux pour ne plus recevoir d’impression du dehors – se reflètent les uns sur les autres jusqu’à paraître ne plus avoir leur couleur, mais n’être que les transitions d’une gamme»: lettera a François Coppée del 1° dicembre 1866, in Œuvres complètes, I. Édition présentée, établie et annotée par B. Marchal, Gallimard, Paris 1998, p. 709. 77 P. Valéry, Cantiques spirituels, in Variété: Œuvres, vol. I, p. 450. 78 G. Parini, Discorso sulla Poesia (1760), che leggo in Id., Prose II. Lettere e scritti vari, Edizione critica a cura di G. Barbarisi e P. Bartesaghi, Edizioni Universitarie di Lettere Eco- nomia Diritto, Milano 2005, p. 154. 79 E. Sapir, Il linguaggio, Einaudi, Torino 1969: tutte le citazioni da p. 223. 80 G. Contini, Un’interpretazione di Dante, in Id., Varianti e altra linguistica, p. 392 (ori- ginariamente in “Paragone-Lettere”, ottobre 1965). 81 G. Orelli, Accertamenti verbali, pp. 185 e 57. 82 Ibi, p. 138. 83 Si vedano le ottime osservazioni di Pietro Benzoni in La poesia della Svizzera italiana, a cura di G.P. Giudicetti e C. Maeder, Tipografia Menghini, Poschiavo 2014, pp. 99-100. 84 G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 136. 85 Id., Quasi un abbecedario, p. 61. Il rinvio è ai Venetianische Epigramme, XXVIII 1-3: «Che ragazza desidero avere ? / Mi chiedete. Io l’ho, come la vorrei: / a me pare che sia con poco molto» («das heisst, dünkt mich, mit wenigem viel»: J.W. Goethe, Poesie, a cura di G. Orelli, Mondadori, Milano 1974, p. 99). 86 Così Stefano Agosti introducendo le Poesie di Zanzotto, Mondadori, Milano 1973, p. IX. 87 G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 165. 88 Ibi, p. 30. 89 Id., La qualità del senso, p. 69. 90 A. Gargiulo, Suono e poesia, in Scritti di estetica, Le Monnier, Firenze 1952, p. 176. 91 G. Orelli, Accertamenti verbali, pp. 22-23. Non diversamente parla l’analisi che Un- garetti fa dello spartito fonico-rimico di A Silvia, su cui ha attirato l’attenzione S. Agosti, Modelli psicanalitici e teorici del testo, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 21-22. 92 G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 28. 93 Id., Il suono dei sospiri, pp. 105-106. 94 G. Contini, «Occorrono troppe vite per farne una» [1981], in Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1988, p. 274. 95 G. Orelli, Correzioni leopardiane. La sera del dì di festa [1988], in Testi e interventi di e su Giorgio Orelli, p. 47. 96 G. Orelli, Foscolo e la danzatrice, p. 70. 97 G. Pasquali, Edizioni originali e varianti d’autore, in Storia della tradizione e critica del testo, Sansoni, Firenze 1974, p. 427, ove a proposito delle novelle di Boccaccio si legge: «An- che qui le ragioni dei mutamenti non sono sempre razionali: certe successioni di suoni dove- vano suscitare in un artista così musicale come il Boccaccio particolari sensazioni, dovevano, a dir così, suonare più grasse ai suoi orecchi». Ma naturalmente si pensa anche alle “letture” di Giuseppe De Robertis e Fubini. 98 G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 111.

132 CHRISTIAN GENETELLI Per il critico e per il poeta Giorgio Orelli lettore di Leopardi

1. Con Giacomo Leopardi, per un poeta del Novecento, siamo nell’ordine degli incontri inevitabili; meno necessario che questo incontro stimoli insieme sul fronte della scrittura creativa e su quello della scrittura critica. In Giorgio Orelli le cose vanno così, e precocemente. Partirò, per motivi innanzitutto di chiarezza espositiva, dal critico per approdare al poeta, ma ben consapevole che i due tavoli sono in realtà uno solo, e che (soprattutto) sarà opportuno vigilare costantemente sui tempi del lavoro orelliano, sincronizzando le due esperienze, e considerando le diverse stagioni, lo svolgimento, del critico come del poeta.

2. Sul principio�������������������������������������������������������������������������� degli anni cinquanta (1950-1955), si palesa una prima serie coe- rente di letture critiche orelliane: sono consegnate in larga misura, ma non esclu- sivamente, all’“Educatore della Svizzera italiana”, un bimestrale stampato a Bel- linzona dalla «Società “Amici dell’Educazione del Popolo” fondata da Stefano Franscini». Altre trovano invece accoglienza in sedi diverse, per lo più quotidia- ni locali, ma con aperture verso periodici italiani come “Paragone. Letteratura” o “La Fiera Letteraria”, già ospitali anche con l’Orelli poeta e prosatore. Gli autori fatti oggetto di indagine o di «lettura», per usare la designazione principe nei titoli orelliani, rispecchiano anche l’esperienza che il giovane professore ve- niva maturando nella scuola. Si va da Foscolo (il più presente) a Dante, Ariosto, Parini, Alfieri, Manzoni, Leopardi. I testi o «bocconi» eletti si possono dire sem- pre conformi ai menu scolastici. Non manca la contemporaneità, quella con- temporaneità su cui il poeta esordiente di Né bianco né viola si era d’altronde prioritariamente e con ogni evidenza sintonizzato: per fare qualche nome non neutro, Montale, già dominante, Vincenzo Cardarelli, Sandro Penna.1 In un intervento del 1951, Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano nella scuola superiore, Orelli afferma di privilegiare, nella sua pratica, ai con- sueti panorami storico-letterari l’esecuzione «attenta» e diretta «dei testi più rappresentativi», tesa sempre a cogliervi lo specifico letterario: il suo occhio è sin d’ora indirizzato edonisticamente sul dettaglio, se è vero (come confessa lui stesso, saldando subito il poeta e il critico) «che imbroccare un bel verso e ca- pire veramente il verso di un poeta è fra le più grandi consolazioni della nostra vita». Anche lo studio delle varianti, dentro questo quadro, finisce per ottenere un sorprendente (almeno per i tempi) diritto di cittadinanza: si dà insomma un aggiornamento nella critica per certi versi analogo, o parallelo, a quello operato dal poeta per i suoi primi modelli di riferimento. «A scuola», continua dunque

133 Christian Genetelli

Orelli ragionando sullo studio delle varianti, «ci limitiamo a farlo su alcuni com- ponimenti, del Petrarca e del Leopardi, che sono stati oggetto di un’indagine così approfondita in questi ultimi anni».2 Il richiamo orienta, va da sé, in dire- zione continiana: Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, 1943 (Sansoni, Firenze), e Implicazioni leopardiane, 1947 (in “Letteratura”, 33): testi fondativi della «critica delle varianti». Ma non bisogna dimenticare (e non solo per l’aspetto variantistico) il nome di Giuseppe De Robertis, com’è ben noto au- tore dello studio-innesco per le Implicazioni di Contini, intitolato Sull’autografo del canto «A Silvia», 1946 (in “Letteratura”, 31), e del successivo Biglietto per Gianfranco Contini, 1947 (in “Letteratura”, 34), steso in amichevole risposta alle stesse Implicazioni. De Robertis, per l’Orelli di questi anni, è (direi) la presenza critica più costante, certamente il nome più citato, quasi sempre consentendo: per la sua antologia Poeti lirici moderni e contemporanei, per i suoi lavori su Foscolo, Ariosto, Parini, Alfieri, Leopardi (incluso, ovviamente, il commento ai Canti). Nel «saper leggere» derobertisiano, Orelli trova un modello conveniente alla delibazione della parola, una critica lenta, e sensibile, quanto sensibile ai va- lori di lingua e di stile, al fattore tecnico, benché non incline al tecnicismo; una critica che conduce nei paraggi del «segreto dell’arte di uno scrittore, a respirare nella sua aria»;3 una critica, ancora, non aliena dal giudizio di gusto e di valore, sempre vivo anche in Orelli, il cui applauso entusiasta per questo o per quel verso non verrà mai meno, neppure nei tempi (futuri) della più prosciugata, ta- gliente e armata «critica verbale». «Certo è che noi», scrive Orelli nel 1949, «pur nutrendoci dell’opera del Croce, chiediamo più spesso aiuto, quando si tratta di affrontare (leggere) una poesia (oggetto), al Contini, al De Robertis – per nomi- nare due critici che a noi pare ci conducano più veracemente per mano».4 Con Contini e De Robertis siamo, saremmo, già entrati anche in orbita leopardiana, ma prima di lasciarcene doverosamente attrarre (da programma) concediamoci ancora qualche celere, e si spera funzionale, considerazione più generale. In questa prima maniera della critica orelliana, il discorso sul testo (già uni- co interlocutore) ha una sicura varietà e mobilità, toccando aspetti di volta in volta lessicali, semantici, sintattici, tematici, metrici, al servizio di una esecu- zione per quanto possibile complessiva della partitura, e dove trovano regolar- mente spazio osservazioni che vanno verso l’uomo, verso cioè la disposizione sentimentale del poeta, verso gli «“alti” e “bassi”» del suo sentimento.5 Quante volte, poniamo, la parola «ansia» dentro queste pagine critiche di inizio anni cinquanta: «ansia», «ansietà» o «angoscia», spesso con gli attributi di «metafi- sica» o «esistenziale» (così, in luoghi diversi, a proposito di Manzoni, Montale, Foscolo, Luzi); né manca, nuovo esempio, la registrazione della «malinconia», come in questo passo (del 1952) sul ventiseiesimo dell’Inferno (si sente tra l’altro nell’Orelli critico che parla di Dante – la constatazione è qui un po’ laterale, ma rimane valida in ogni momento – una sorta di accensione linguistica e metafori- ca, come se Dante lo mettesse in ogni occasione nelle migliori condizioni espres- sive: Dante è sempre stato il suo iodio, con potere euforizzante). Ecco dunque la citazione: «Ma tutta l’“orazion picciola” è mirabile: poche parole, striate da

134 Giorgio Orelli lettore di Leopardi una “malinconia” che è bene di tutti gli uomini, quando, anche prima del tempo di “calar le vele e raccoglier le sartie”, poco o molto contemplino la vita, la vita che passa, la vita che – per tornare al Leopardi – “debb’esser viva, cioè vera vita, o la morte la supera incomparabilmente di pregio”».6 È passo, come ognuno vede, per noi non neutro. Una prima annotazione, intanto, si potrebbe spende- re intorno al verbo “striare” («striate da una “malinconia”»), molto frequente, ora e poi, nella prosa critica orelliana, e non privo di riscontri nei suoi versi coevi: «Oh giorno, freddo volto che rapido ti sfai, / striato appena della nostra nostalgia!» È un distico, questo, tolto dalla Poesia del gennaio, componimento che va in tipografia proprio nel 1953, dentro la raccolta (su cui tornerò) Poesie, la sola nella carriera orelliana a essere portatrice di un titolo di grado zero. Non va invece oltre lo stadio della pubblicazione in rivista (ma rimaniamo al 1953) Di camelia in camelia, dove si legge dell’«organino di un bimbo solingo / stria- to al petto dalla meraviglia / del sole».7 La seconda annotazione concerne, si capisce, Leopardi. «La vita debb’esser viva, cioè vera vita, o la morte la supera incomparabilmente di pregio»: si tratta della chiusa, sentenziosa, di una prosa leopardiana, il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Orelli la riprenderà, alla lettera, per incastonarla (distribuita su tre versi) nella Trota, lirica con cui de- ciderà di aprire Sinopie, anche mostrando così fin dalla soglia del nuovo libro (come ha ben visto Pietro De Marchi) l’accorciamento in atto delle «distanze», appunto, «tra poesia e prosa».8 Prudente peraltro l’Orelli poeta si rivelerà con simili incastonamenti o richiami leopardiani dichiarati, espliciti (ben più gene- roso invece con Dante e con altri), indizio invero già piuttosto nitido della non facile maneggevolezza di una voce al tempo stesso delicata e profonda (dico de- licata per l’altezza e profonda per le implicazioni di senso).9 Tra i pochi, dunque, che accompagnano questo della Trota, segnalo qui la chiusa di Don Giovanni (sempre in Sinopie): «“Oh Elvira, Elvira”» (è il patetico di Consalvo, v. 119, canto crivellato dalla reiterazione onomastica); o le parole depositate all’interno di una delle poesie che, in Spiracoli, formerà il Quadernetto del mare (V, I ciottoli ben levigati rilevano il gaietto): «Penso il ragazzo che ha scritto lucido insetto / sorpreso in aria a due passi da qui». Il «ragazzo» è il Leopardi, diciottenne ed elegiaco, delle Rimembranze (vv. 15-16): un Leopardi in versi, ma di un testo del tutto minore, mai mandato a stampa dall’autore: certo, di nuovo, non di un testo fra quelli battuti (come vedremo) dall’Orelli critico.10 Già, l’Orelli critico, è bene tornare a lui. Negli interventi degli anni cinquan- ta da cui ho preso le mosse sono ancora rari, numerati i momenti in cui i suoni conquistano la ribalta del discorso, e si animano sulla pagina quasi al modo delle penne cavalcantiane. Del tipo: «[…] la rima “condanna” – “panna”, con quelle n che si tendono come fili ad alta tensione» (per Montale,Arremba su la strinata proda), oppure: «[…] e chi stia attento ai valori fonici (tutte quelle i incalzanti precipitose, e l’u del secco fruga) si ritrova nella mente l’immagine dell’uomo-liuto» (per Dante, Inferno XXX, v. 70: «La rigida giustizia che mi fruga»).11 Questo sguardo sul testo e osservazioni di questa natura diventeranno dominanti, e più tardi pressoché esclusive, quando (come ben sappiamo) nella

135 Christian Genetelli critica di Orelli si darà, inizio anni settanta, la svolta in direzione «verbale», la sua seconda maniera: si ridurrà allora per lui, in modo progressivo, il campo (se è possibile denominarlo così) del criticabile. Dentro tale svolta, che coincide con una ripresa dell’attività critica dopo un più che decennale rallentamento, l’autorizzazione trovata e cercata in Contini riveste un ruolo notoriamente fondamentale. L’immagine, ricorrente in Orelli, dell’uccello di passo pronto ad assalire e a far suo non altro che ciò che davvero gli serve e lo nutre, è valida insomma per il poeta ma anche per il critico.12 Ba- sterà allora appena ricordare, rientrando rapidamente sul Contini «verbale», il pluricitato saggio del 1965 Filologia ed esegesi dantesca (dal 1970 in Varianti e al- tra linguistica); senza tuttavia trascurare il fatto che tra i testi continiani in questo senso determinanti ce n’è anche uno dove lo specifico leopardiano ha un peso indubbio: è la Memoria di Angelo Monteverdi, confluita nel 1972 all’interno del volume Altri esercizî (1942-1971). Orelli non esita a evocarla a più riprese e a di- chiararla «per me importantissima».13 In quella sua Memoria, Contini loda «con inusitato trasporto» l’analisi timbrica effettuata da Monteverdi su Imitazione di Leopardi e ne produce, da pari suo, alcune «addizioni», infine la estende ad altri componimenti, fra i quali si distingue L’infinito. Sulla splendida Imitazione leopardiana, Orelli (quanto a lui) si cimenterà qualche anno più tardi, nel 1990, in quella che potrebbe essere definita la sua “Memoria di Gianfranco Contini”, producendo copiose addizioni alle «addizioni» del maestro (con forte insistenza su Petrarca), e consolidando così il profilo anche agonistico, spesso spiccata- mente agonistico, della sua critica.14 Nell’intero percorso leopardiano dell’Orelli studioso, Imitazione rappresen- ta peraltro l’unica lieve deviazione da un canone di testi non peregrino, anzi più che collaudato, diciamo pure scolastico: né la cosa sorprende, dato il carattere (per ciò che riguarda i valori) sostanzialmente confermativo della critica di Orel- li (anche se la conferma giunge ormai per strade nuove, «verbali»). Quale dun- que il Leopardi fatto oggetto di riflessione particolare o di esame frontale? Non il Leopardi prosatore, non il Leopardi pensatore, sì il Leopardi poeta, il poeta dei Canti, e con chiara predominanza di quello in senso lato idillico (mai invece in gioco, poniamo, un poemetto come i Paralipomeni della Batracomiomachia). Ecco il nudo catalogo delle presenze, in parentesi la data di pubblicazione: Ap- punti per leggere «Il sabato del villaggio» (1978); Connessioni leopardiane (1987), in prevalenza sulle varianti di A Silvia; Nodi quasi di parole (1987), sulla Ginestra (il componimento meno allineato del gruppo, e di cui dirò più in là); Correzioni leopardiane (1989), sulle varianti della Sera del dì di festa; e ancora, naturalmen- te, L’infinito, la poesia di Leopardi trapanata con più tenacia da Orelli. Si parte da lontano, da un articolo apparso su un quotidiano locale (“Popolo e Liber- tà”) nel 1951, Punto medio dell’«Infinito», poi ristampato, con titolo Noterella all’«Infinito» rimaneggiamenti e integrazioni, in “Paragone. Letteratura”, nel 1954; si giunge (1997), nella nuova stagione, a Per leggere «L’infinito» di Leopar- di, rilavorato e ampliato da ultimo per il volume del 2012, La qualità del senso (ma è una lettura, questa, che ha il proprio incunabolo in quattro pagine, 80-83,

136 Giorgio Orelli lettore di Leopardi delle precedenti Connessioni leopardiane, e il proprio movente primo in quella poco fa ricordata mezza pagina di Contini dedicata appunto all’Infinito nella sua Memoria di Angelo Monteverdi).15 Sostiamo un istante in compagnia di questi contributi sul famosissimo idil- lio, cominciando con un’osservazione su quello, breve, risalente al 1951. Ben informato, Orelli dà conto di una (per la verità nell’assieme non imperdibile) discussione esegetico-grammaticale intorno all’Infinito avvenuta in quei mesi, tra giornali e riviste, con il concorso di studiosi come Antonio Baldini (il pro- motore o istigatore), Francesco Flora, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Ungaretti e Piero Bigongiari. Prende partito, Orelli, per la posizione di quest’ultimo, l’u- nico (dice) che abbia saputo mettere l’accento sul «punto medio, o sostanziale» del componimento, ossia la concretezza, la realtà di «“questo infinito corposo”, “infinito che nel pensiero si avvia ad essere immensità e mare”». Proprio a suf- fragio di ciò, convoca anche la testimonianza per lui preziosa di una conferenza bellinzonese di Ungaretti, in cui il poeta lesse L’infinito, «stupendamente ren- dendo il “peso” e la “lunghezza” di quegli “interminati Spazi”, di quei “sovru- mani silenzi“, di quella “profondissima quiete”». «Ricordo benissimo», con- tinua Orelli, «il suo insistere sulle a di interminati Spazi, tanto che la seconda sillaba di Spazi usciva dalle sue labbra straordinariamente fievole, appena un ronzìo, una “nebbia luminosissima” (per ricordare il “metafisico” Foscolo)».16 La lettura-esecuzione di Ungaretti, la poesia che si fa voce, è insomma destinata a incidersi per sempre nella mente, tanto ben disposta ai suoni, di quel giovane ascoltatore: «indimenticabile» la dice Orelli, e indimenticata sarà, se è vero che la sua memoria affiora regolarmente nel tempo, ed è ancora viva, cinquant’anni più tardi, nel momento della stesura (come detto, 1997) dell’impegnativo Per leggere «L’infinito» di Leopardi, quando i suoni ormai sono diventati i signori incontrastati della sua critica.17 Questo studio, dunque, presenta un ampio e sistematico esame degli elementi fonici dell’idillio, a partire dal «triangolo vocalico fondamentale», u a i (automati- ca, per chiunque, scatta l’associazione alla poesia di Sinopie, Nel mezzo del giorno: «[…] Che ur a in?, dalla u alla i / quasi come in Virgilio o nel Folengo […]»). Orelli, proseguendo, passa a illustrare fatti relativi al ritmo, in dialogo con Mario Fubini, lo stimato autore di Metrica e poesia, frequentato fin dagli anni cinquan- ta come studioso di cose foscoliane (e che si tratti di dialogo non estemporaneo ma radicato è confermato anche da questa testimonianza: «Alla lettura lenta mi hanno spinto soprattutto i saggi di Fubini e di Binni. Con Fubini ho cominciato ad entrare veramente nel testo, nel tessuto della poesia foscoliana […]»);18 più a lungo, Orelli si sofferma su alcune parole (inclusi i celebri dimostrativi), precisa- mente su certi gruppi di suoni che albergano in esse, per mostrarne la recursività- connessione dentro e fuori L’infinito, ossia (per il fuori) in altro Leopardi e nella «grande poesia italiana». È evidente che in una indagine siffatta non c’è spazio per considerazioni sui nessi del componimento con le articolazioni del pensiero e del- la cultura leopardiani, né sulla sua posizione all’interno del libro dei Canti o all’in- terno della storia, mobilissima, di Leopardi. Per Orelli la materia è data: si tratta

137 Christian Genetelli di vedere, descrivere, come è stata lavorata. (Da qui, credo, anche il particolare fascino che su di lui ha esercitato il mestiere del tradurre; e così pure l’attenzione tempestiva e immancabile al processo variantistico). Lo studio del 1997, come sappiamo, viene ripreso, riscritto e ampliato per la ristampa (2012) nel libretto La qualità del senso. Non muta la sostanza; è però rivisitata la struttura (che cede qualcosa in nitore, in limpidezza, nonostante la nuova scansione in dodici paragrafi); soprattutto si constata una dilatazione, rilevante, del discorso. Questa dilatazione è principalmente dovuta alla molti- plicazione delle citazioni di passi di altri poeti, e diciamo pure in modo quasi esclusivo di Petrarca e di Dante (già peraltro trionfanti nella versione 1997). Sono, in più di un caso, citazioni-excursus che hanno la funzione di dimostrare come con la stessa parola o uno stesso nucleo di suoni i grandi poeti lavorino in definitiva in modo analogo, si diano «la mano attraverso i secoli». Nel suo punto d’arrivo, portata al suo limite, la «critica verbale» di Orelli si orienta così sempre più dal sintagma al paradigma; parla di convergenze, relazioni, concatenazioni, e non di differenze, di scarti, di dislivelli, restringendo di conseguenza la sua volontà di caratterizzare l’individuo, di caratterizzare il singolo oggetto. Anche la violenta luce frontale proiettata sul dettaglio concorre, a ben vedere, a un tale approdo: ed è a sua volta sintomatica di uno sguardo ormai certo meno interes- sato al quadro che ha davanti a sé che non alle risorse generali del linguaggio. Altrimenti detto: è sempre più il poeta, con la sua poetica sincrona, a fare critica. Ci sono «esiti», sostiene del resto Orelli (non senza ardimento), «inevitabili per un accorto poeta italiano, per un “classico”».19 (La dinamica additata poco sopra, sia consentita questa breve coda dentro parentesi, mi pare mostri l’opportunità di cominciare a segnare qualche di- stinzione anche all’interno della stessa «critica verbale» di Orelli, abitualmente considerata come se fosse un tutt’uno, senza una sua storia interna. Ma uno sviluppo c’è: basti paragonare taluni prodotti degli anni settanta con altri degli anni novanta e seguenti. Prendiamo, non è che un accenno ma di pertinenza leopardiana, gli Appunti per leggere «Il sabato del villaggio» (1978): l’indagine sul dato formale è ancora piuttosto articolata, non monodirezionale, è tagliata sulla sagoma del testo in esame, toccando più livelli; impianto ed esecuzione dello studio ambiscono così da un lato a restituire una fisionomia complessiva del componimento, dall’altro a porre l’accento principale sullo «stile individua- le» dell’autore; e diverso, più aperto, è naturalmente anche il respiro generale dell’argomentazione. Insomma, negli elenchi e smontaggi analitici di questi Ap- punti sembrerebbe persistere la suggestione, e la temperie, di lavori come Scom- posizione del canto «A se stesso», di Angelo Monteverdi, o magari di quell’altra scomposizione-ricomposizione compiuta da D’Arco Silvio Avalle sulla monta- liana A Liuba che parte. In tempi successivi, la gamma degli strumenti contenuti nella sempre più personale cassetta degli attrezzi orelliana si riduce ulteriormen- te: si fanno largo quelli ad altissima precisione, veicolo sì di una maggiore spe- cializzazione, applicata beninteso alla sfera dei suoni, ma anche di una maggiore univocità e rigidezza d’impiego).20

138 Giorgio Orelli lettore di Leopardi

3. Dirò ora, è venuto il momento, della poesia di Giorgio Orelli e di alcune me- morie leopardiane che vi sono racchiuse. Non posso infatti né voglio vagheggia- re l’esaustività: sarò di necessità selettivo, puntando all’individuazione di zone e casi rappresentativi. Rare sono le tessere nude, scoperte, evidenti, un po’ come del resto avviene, lo abbiamo visto, per i brani incastonati. Due sveltissimi esem- pi, in omaggio alla concretezza: la «memoria acerba» della Trottola, nell’Ora del tempo (e già nelle Poesie del 1953), «Ma se trabocca una memoria acerba», riecheggia il sintagma explicitario delle Ricordanze; e i ragni dell’omonima ed estrema poesia (entrerà nell’Orlo della vita), in quanto «strani compagni della mia vecchiaia» sono in arguto dialogo con la «speranza»-Silvia, «cara compagna dell’età mia nova» in A Silvia, v. 54.21 Il secondo esempio garantisce già in sé del- la durata della presenza, d’altronde tutto fuorché inattesa di fronte a un autore come Leopardi (e alla consuetudine con lui dell’Orelli critico). Ma l’intensità è variabile. Anzi, per la verità non molto alta, date le premesse: con un’eccezione però, che subito devo porre in modo perentorio al centro dell’attenzione. Dunque: la più fitta, densa emergenza di Leopardi nella poesia orelliana a me sembra sia da collocare all’altezza della seconda raccolta, intendo le Poesie, Edizioni della Meridiana, 1953; più puntualmente ancora, transennerei il peri- metro della sezione di apertura («Parte prima») di quel libro. Siamo, ricordo e sottolineo, in concomitanza, o a contatto, con quel bagno primordiale e verti- cale nei classici italiani, fine anni quaranta inizio anni cinquanta, che ha fruttato la prima serie degli interventi critici di Orelli: un bagno che consegna allora anche un altro lascito. È ben noto, e non va tuttavia taciuto, che questa gene- rosa raccolta del 1953 sarà smantellata dall’autore, e che solo un terzo dei suoi sessanta componimenti avrà vita futura dentro l’autoantologia L’ora del tempo: la diaspora renderà forse meno frequenti le tracce leopardiane (per la riduzione dei testi e per la loro ridistribuzione), ma non per ciò meno percepibili in alcune delle liriche sopravvissute. C’è allora (venendo a una sommaria e preliminare caratterizzazione), in questo perimetro definito dellePoesie , una presenza pronunciata dell’io lirico (quasi assente invece, o molto schermato, nell’esordio fortemente influenzato dai contemporanei di Né bianco né viola): un io che si conosce e riconosce a contatto con i luoghi dell’origine (uomini e natura), dove anche può affiorare e intrecciarsi la memoria di un’infanzia e di una giovinezza passate, ma non lonta- ne. Situazioni in sé potenzialmente affini a quelle del Leopardi idillico, di cui in- fatti in più di un’occasione luccicano le filigrane prestigiose. Qualche campione. Prendiamo, per cominciare, la posizione-condizione dell’io in Passato è un giorno senza nuvole:

Passato è un giorno senza nuvole che chiamava verde di foglie. Alle bètule uccise bruciavano le ferite come specchi.

Ora la notte, al canto

139 Christian Genetelli

dei soldati, è dimentica.

Il giorno in me riarde quand’essi tacciono e il villaggio si riempie dei pietosi guaìti delle volpi.22

Da un lato l’io, turbato e separato, «doloroso, in veglia», dentro cui il giorno «riarde» (siamo, è chiaro, alla leopardiana Sera del dì di festa; con un attacco però da Quiete dopo la tempesta, «Passata è la tempesta»); dall’altro, «la notte», percorsa da un «canto», che poi tace: «ed alla tarda notte», così si chiude infatti quella Sera di Recanati, «un canto che s’udia per li sentieri / lontanando morire a poco a poco, / già similmente mi stringeva il core» (e poco prima, vv. 25 e ss.: «[…] odo non lunge il solitario canto / dell’artigian […] / e fieramente mi si stringe il core», ecc.). «Dimentica», peraltro, la «notte» di Orelli, come il «tu» leopardiano: «Tu dormi, che t’accolse agevol sonno / nelle tue chete stanze; e non ti morde / cura nessuna; e già non sai nè pensi / quanta piaga m’apristi in mezzo al petto» (vv. 7-10). Certo qui, in Orelli, non c’è lo scatto di Leopardi ver- so il filosofico-universale («a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia», ecc.; vv. 29 e ss.), troppo eloquente per una poetica novecentesca post-montaliana; c’è allora in quel «giorno che in me riarde» una più discreta ma tenace e sensibilissima partecipazione, in sintonia con i «pietosi guaìti delle volpi», al destino delle «bètule uccise», a cui (appunto) «bruciavano le ferite come specchi».23 O prendiamo, altro caso, Campolungo, lirica che con questo titolo topono- masticamente determinato passa nell’Ora del tempo: è sostanziale riscrittura ri- spetto a Montagna delle Poesie 1953: ma Leopardi vi persiste, anzi si consolida e ramifica:

Per una costa già cara ai fagiani giungo dove non ronzano i beati, su un gran piano venato d’acque appena rotte, dai margini qua e là fioriti di piumini come neve. Una nebbia s’insinua, allontana le vette. Un’ansia mi caccia. Mi fermo d’improvviso tra i calcestri biancheggianti del passo, davanti a uccelli dal collo di pietra. Allo sparo gallinette si levano, dileguano nella nebbia che ora punge la memoria.24

Situazione, diciamo, da Vita solitaria al Campolungo. Ecco Leopardi, vv. 23 e ss.: «Talor m’assido in solitaria parte, / sovra un rialto, / al margine d’un lago /

140 Giorgio Orelli lettore di Leopardi di taciturne piante incoronato. / […] / ed erba o foglia non si crolla al vento, / e non onda incresparsi, e non cicala / strider, nè batter penna augello in ramo, / nè farfalla ronzar, nè voce o moto / da presso nè da lungi odi nè vedi». Subentra poi subito, anche in Leopardi (ma per vie e con modalità diverse), una stessa e pungente memoria, quella dell’età giovanile («Era quel dolce / e irrevocabil tempo / allor che s’apre / al guardo giovanil questa infelice / scena del mondo, e gli sorride in vista / di paradiso», ecc.; vv. 44 e ss.). Taccio di triangolazioni più sottili («la gallinella», ad esempio, è anche nella Vita solitaria, sul principio, v. 3), non però del verso che in Orelli di fatto sancisce la dissoluzione dell’idillio: «Un’ansia mi caccia». Già, l’ansia: la ricorderete anche nel critico più o meno coevo. A me quest’«ansia» riporta ad altro Leopardi, quello del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove il pastore (vv. 113-121) si rivolge alla propria greggia che siede «all’ombra, sovra l’erbe», «queta e contenta»: «Ed io», prose- gue, «pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, / e un fastidio m’ingombra / la mente, ed uno spron quasi mi punge / sì che, sedendo, più che mai son lunge / da trovar pace o loco».25 A proposito di divaricazioni-convergenze fra uomini e animali, mi pare da richiamare la notissima Sera a Bedretto, su cui Giovanni Orelli ha scritto pagine assai acute e partecipi:

Salva la Dama asciutta. Viene il Matto. Gridano i giocatori di tarocchi. Dalle mani che pesano cade avido il Mondo, scivola innocua la Morte.

Le capre, giunte quasi sulla soglia dell’osteria, si guardano lunatiche e pietose negli occhi, si provano la fronte con urti sordi.26

Dentro, nella stanza popolata dagli uomini, c’è il pensare la morte, o l’oriz- zonte consapevole della morte, parola-suggello della prima strofe. «Le capre», «le fortunate belve» stanno invece fuori, «sulla soglia», che è come una distanza, anche strofica, che le protegge da quella consapevolezza: dico «fortunate belve» pensando, beninteso, al Bruto minore leopardiano, dove per loro («Di colpa ignare e de’ lor proprii danni») la morte è, appunto, il «non previsto passo». Ma il contatto testuale stringente arriva subito dopo (ed è, oltre che lessicale, figlio di memoria fonico-ritmica): «[…] Ma se spezzar la fronte / ne’ rudi tron- chi […]», dice Leopardi, vv. 64-65, delle «belve»; e Orelli, sempre settenario + quinario, con altre affinità: «si provano la fronte / con urti sordi». Torniamo in area idillico-memoriale e avviciniamo la bellissima A una bam- bina tornata al suo mare.

141 Christian Genetelli

Ti dirò, Grazia, che posso pensare a capre, a sere scivolate lungo schiene curve di vacche ai pascoli. Da quanto tempo è chiusa la stanza dove ho inciso il mio nome senza superbia, scritto i miei primi versi. Fermi i groppi del soffitto, che un tempo erano occhi. Morte le vecchie zie. Ma i ruscelli hanno agli orli del loro canto il più giovane verde. E raggio insieme a raggio del sole posso sentire posarmi in quest’ora sul corpo, e non mi lagno se come un vecchio dentro ne risuono. Volentieri perdòno al vento e in un esiguo prato m’arresto a ricordare te che immersa nell’erba mi gridavi: «Guarda, nuoto nel mare».27

Ricordanze di un’infanzia finita, si potrebbe etichettare il pezzo: con ciò evocando due grandi testi-matrice, le leopardiane Ricordanze, ovviamente, e la loro fascinosa ritrascrizione novecentesca, intendo Montale, Fine dell’infanzia. L’intarsio-intreccio montaliano è costante, anche fra i testi già letti: qui è attivo in modo sottile, e mi sembra in più luoghi. Ma stiamo a Orelli-Leopardi: con Orelli che, fra altro, ricorda «la stanza» dove, nell’età innocente, ha «scritto i suoi primi versi», similmente al giovane recanatese delle Ricordanze, «assiso», lui, «sul conscio letto», «alla fioca lucerna poetando» (vv. 113-118); «i groppi / del soffitto, che un tempo erano occhi» hanno avuto, per il «caro immaginar» orelliano, funzione analoga ai «figurati armenti» delle volte di casa Leopardi (vv. 61 e ss.). Orelli però poi svolta rispetto all’illustre modello («Ma i ruscelli hanno agli orli / del loro canto il più giovane verde» ecc.), la sua rimembranza non è «acerba»: «non mi lagno / se come un vecchio dentro ne risuono». Leo- pardi, al contrario, se ne lagna, e ciò in particolare nella canzone Alla sua Donna (vv. 34-41): «Per le valli, ove suona / del faticoso agricoltore il canto, / ed io seggo e mi lagno / del giovanil error che m’abbandona; / e per li poggi, ov’io rimembro e piagno / i perduti desiri, e la perduta / speme de’ giorni miei; di te pensando, / a palpitar mi sveglio […]» (meno riccamente implicato stavolta il Canto notturno, v. 127 e dintorni: «O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno»). Così Orelli «volentieri» perdona «al vento» (e qui sta una memoria montaliana a cui tuttavia accennerò solo in nota), e torna a Leopardi, all’Infinito, con quella finale celebrazione dell’immaginazione fanciullesca, dove la corda elegiaca è però sa- pientemente dosata, trattenuta, e vibra il giusto: «in un esiguo prato / m’arresto a ricordare / te che immersa nell’erba mi gridavi: / “Guarda, nuoto nel mare”».28

142 Giorgio Orelli lettore di Leopardi

Non manca all’appello Il sabato del villaggio, con il suo invito-esortazione (vv. 43-51) al «garzoncello scherzoso» a godere «cotesta età fiorita» («Godi, fanciullo mio»), che «è come un giorno d’allegrezza pieno, / giorno chiaro, se- reno», e con affettuosa reticenza conclusiva sul domani («Altro dirti non vo’»: ecc.). Se ne legga, in tale prospettiva, la rivisitazione desublimata (e di nuovo filtrata da Montale: «non spezzate la vostra catena!») in Per un componimento di Mario Villa:

S’è svegliato alla sera il Carnevale quando la pioggia è cessata. Più facile nel buio è per te credere che sia sereno, e canti coi compagni ritrovati.

Fate allegri mattina, rimanete stretti così nell’alba, non spezzate la vostra catena! E quando i tuoi compagni sono muti, tu non pensare alla chiave di casa che nelle tasche cerca la tua mano.

Domani forse tu la perderai.29

Da Sinopie in poi, gli affioramenti leopardiani si fanno nel complesso meno frequenti; ma soprattutto si denota un’accresciuta (e non solo con Leopardi) di- sinvoltura e libertà nell’alludere e nel convocare (in zona Poesie 1953, come ap- pena visto, il contatto invece era certo stato un po’ più, per così dire, organico; spesso determinante sull’intera parabola del testo). E allora, senza allontanarci dal Sabato del villaggio, nella Sera di San Giuseppe di Sinopie, che cade di sabato («questo sabato / del Padre Putativo»), ecco arrivare, «per fortuna», la nonna: «Col palloncino rosso e un fascio / di fiori gialli che altro non erano / che le forsi- zie di cui lessi in Benn». Sì, Benn, ma a portarle collabora la «donzelletta» recana- tese, che viene «col suo fascio dell’erba; e reca in mano / un mazzolin di rose e di viole» (vv. 1-4). Ancora forse echi schermati del Sabato del villaggio, ma più mar- catamente della Quiete dopo la tempesta, restituisce dal canto suo Strofe di marzo.30 Già riferito più sopra (cfr. p. 135), quanto a Sinopie, degli incastonamenti leopar- diani nella liminare Trota e in Don Giovanni, si può anche scivolare verso l’attacco di un «cardo», il quarto, di Spiracoli: Povera vedova ricca va dove il cane la tira, dove adesso nel gioco entra l’amata e studiata Imitazione: «povera foglia frale / dove vai tu?» (vv. 2-3). Non proprio una prima, invero, questa dell’emergenza di Imitazione, se pare di coglierne il volo fragile e delicato (nonché, appunto, ben più organico) già nel Calicanto, componimento delle Poesie 1953 poi migrato nell’Ora del tempo: «[…] Tu esci / segui una foglia, ch’esita, / come da te staccata, e fa il suo viaggio / verso una bruna collina» ecc.31 Un verbo silviesco, con interiezione e finale punto esclamativo («Ahi come, / come passata sei / cara compagna dell’età

143 Christian Genetelli mia nova / mia lacrimata speme!»; A Silvia, vv. 52-55) è prestato, in Spiracoli, alla poesia (ben contigua a un Funerale in campagna) Ah dopo tanti bianchi il lillà, dove la memoria si posa su «Carlotta che m’hai guidato leggera / nei primi tanghi su piste ai margini / del bosco», e che «leggera / sei passata di là!» Al Passero so- litario (v. 35: «e mira ed è mirata […]») strizza l’occhio la bimba, un’altra Grazia, di Verrà verrà (nel Collo dell’anitra), «che ignora ed è ignorata»; e magari di nuovo al Passero («tu pensoso in disparte il tutto miri; / non compagni, non voli, / non ti cal d’allegria, schivi gli spassi; / canti, e così trapassi / dell’anno e di tua vita il più bel fiore»; vv. 12-16), non senza parodia, andrà accostato il tu-mosca, solitario, a cui l’io si rivolge minaccioso in chiusura di Una visita, poesia che suggella Spira- coli: «(Unica mosca visibile nella stanza che invade la sera, / tu non ronzi ma non fai compagnia, / tu troppo insisti su quel dorso labile / di mano, troppo nera / su quella fronte. Non avrai nido / ma sei senza ritegno, perciò brandisco un ridicolo / acchiappamosche e ti uccido)». Un’ultima prospezione ci porta, noblesse oblige, alla Ginestra. Se, come af- ferma Orelli, L’infinito è «un ciottolo levigato dai millenni», si potrà continuare dicendo che la grandiosa Ginestra ha nuove sporgenze, nuove ruvidezze, nuove ricchezze. Pure una energia (suoni inclusi) e un vigore sintattico sconosciuti e attraenti, basti pensare a certe sue tirate monoperiodali. Un Leopardi multifor- me, anche tematicamente, fra punte polemico-satiriche, accensioni liriche, zone filosofico-ragionative, sospensioni idilliche. Un Leopardi insomma più o diver- samente servibile per la poesia dell’Orelli maturo. D’altronde, Orelli ha parlato della Ginestra come di un «pilastro» della poesia moderna.32 Queste allora, a titolo di assaggio, un paio di sue possibili manifestazioni in Spiracoli. La prima è nella coda, urticante, del «cardo» «contra aliquos ciellinos» (così il poeta nelle Note di autocommento) e ne mostra la fruibilità sul fronte del mordace.

Chi siete, che con zelo di claque fate festa al nuovo vescovo in questa chiesetta montana dove nessuno vi ha mai visti e al momento di scambiarsi guardandosi il segno della pace non vi sognate di dare l’usata stretta di mano a quelli che vi stanno così vicini da quasi urtarvi e vi baciate e strabaciate soltanto tra voi? Tanto si cresce in servitù funesta?33

La chiusa appuntita del componimento orelliano sembra infatti riecheggiare quel passo della Ginestra in cui Leopardi si scaglia contro il proprio secolo, il «secol superbo e sciocco»: «Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di novo il pensiero, / sol per cui risorgemmo / della barbarie in parte, e per cui solo / si cresce in civiltà […]» (vv. 72-76). Il «Tanto si cresce in servitù funesta?» orelliano (l’indignatio tollera e persino fomenta l’impennata eloquente) ne sa- rebbe così un amaro e polemico ricalco.

144 Giorgio Orelli lettore di Leopardi

Secondo caso, per noi con valore di commiato. Ci sono molte capre, oltre che molte domeniche, nella poesia di Giorgio Orelli. Qui, ora, le capre interessano in quanto potenziali portatrici di leopardiana Ginestra. Orelli critico ha infatti scritto, acutamente, che la capra della Ginestra, la quale «dopo il disfacimento» (non «solo geologico») giunge «a pascere su quelle rive» («onde su quelle or pasce / la capra», ecc.: vv. 226 e ss.), «è forse la creatura più simbolica di tutta la moderna poesia italiana».34 Invitato, assieme ad altri scrittori, a contribuire con una sua lirica al volume Poeti del mondo per Giacomo Leopardi, edito nel 2001 dal Centro Nazionale di Studi Leopardiani, Orelli sceglie di inviarne una già stampata in Spiracoli, dal titolo A Giovanna (che aspetta), di nuovo sulle capre.

Non angeli, non diavoli, e nulla di frivolo per quelle pasture ritrovate fuori d’ogni consueta transumanza: capre senza pastore, ma il padrone gli ha spruzzato le corna di giallo alla radice. Dice che sono ghiotte di oleastri Lucrezio. Qui su rocce a strapiombo sopraggiunge lo scuro drappello (l’ultimo nato in mezzo) fra ginepri e mirtilli all’ombra d’alberi cari e ghiandaie, astori e compagni inquietissimi. Brucano in gruppo con brevi distrazioni, e di nuovo in fila indiana proseguono sull’orlo dei precipizi. Ma prima, staccatasi un attimo, una, come una finta ancella che si riposi altrove, mi saluta.35

Dal molto che si potrebbe e dovrebbe dire su questa intensa poesia (la vita che resiste, la vita che si rinnova), estraggo una sola osservazione, o poco più, che spero tuttavia chiave bastevole per incoraggiare, anche, alla ricerca di altri segnali leopardiani. Quelle «capre», dunque, sappiamo essere «senza pastore», ma avere un «padrone»: un «padrone» che, «alla radice», «gli ha spruzzato», segno di riconoscimento, «le corna di giallo»: «giallo», il colore cioè delle nostre ginestre.36 E proprio lì, in «il padrone» c’è tutto, anagrammato, LEOPARDI. D’altronde, questo «gruppo» di «capre» che, «in social catena», giunge «Qui su rocce a strapiombo» non può che essere in rapporto filiale con chi così ha aperto il proprio «canto»: «Qui sull’arida schiena» (e taccio d’altro: dei suoni, della pa- rentesi che doppiamente protegge «l’ultimo nato», nel centro fisico della poesia, e prima è in parallelo nel titolo ecc.). Sì, perché ci ha ricordato una volta Orelli che tutti siamo figli di qualcuno, anche i poeti, naturalmente, e anche una capra, forse del Tremorgio.

145 Christian Genetelli

1 Le coordinate puntuali di questi interventi sono naturalmente iscritte nella preziosa e tempestiva Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani con la collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014, pp. 9-14. 2 G. Orelli, Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano nella scuola superiore, in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCIII (1951), settembre-ottobre, pp. 73-75. 3 Così, appunto, G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, Nuova edizione accresciuta, Val- lecchi, Firenze 1946, p. 123. Il passo (significativo) prosegue, in polemica con «i voli pazzi della critica grandemente ispirata», chiedendosi: «Ma chi gusta più oggi questa maniera tanto più certa e onesta e umana d’accostarsi a un’opera d’arte? Tutto va in fretta oggi. Noi, per non cadere in tale errore, terremo un discorso calmo, col più possibile di prove e d’argomenti». 4 G. Orelli, «Dove vai? – Porto pesci», in “Gazzetta Ticinese”, 27 giugno 1949, p. 1. Quanto al nutrimento indubbio offerto da Croce, basterà leggere l’entrata in materia delle già ricordate Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano, p. 73. 5 La citazione, una tra le non poche sfruttabili, proviene da G. Orelli, Letture di poeti. Poesie d’oggi, in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCV (1953), maggio-giugno, p. 37 (il riferimento è a Cardarelli). 6 G. Orelli, Letture dantesche II. Ulisse (v. 85 e seg.), in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCIV (1952), settembre-ottobre, pp. 67-68. 7 Per Di camelia in camelia, cfr. Due poesie di Giorgio Orelli, in “Svizzera italiana”, XIII (1953), agosto, p. 28. La Poesia del gennaio supererà a fatica la cruna dell’Ora del tempo (Mondadori, Milano 1962): per farlo sarà infatti quasi completamente riscritta, anche acco- gliendo (nell’ultimo tratto) materiali della pure abbandonata Finestra (cfr. G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e commento a cura di Y. Bernasconi. Tesi di dottorato presentata all’Uni- versità di Friburgo, 2012, pp. 53, 127-128): il distico sospiroso ed esclamativo citato a testo è fra le parti lasciate cadere. 8 P. De Marchi, Il fiore di Mallarmé e Xuan Loc. La poesia di Giorgio Orelli da «L’ora del tempo» a «Sinopie», in Id., Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002, p. 71. 9 Importanti, su un più ampio orizzonte, le riflessioni di G. Lonardi, Leopardismo. Tre saggi sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Sansoni, Firenze 19902 (ad esempio alle pp. 73-75). 10 La memoria del passo in questione delle Rimembranze è attiva anche, e in uno stesso giro cronologico, nel saggista: cfr. G. Orelli, Connessioni leopardiane, in “Strumenti critici”, n.s., II (1987), p. 83 («Per dire invece una cosa afferrata poco fa come l’insetto d’un com- ponimento del giovanissimo Leopardi […]»); e per questa poesia orelliana, cfr. ancora qui, più avanti, n. 32. Mentre sull’altro versante creativo, quello della prosa, si potrà registrare l’immissione (sempre corsivata) di un lacerto leopardiano, dal Dialogo di Cristoforo Colom- bo e di Pietro Gutierrez, nel racconto Serale, quando il protagonista Piero parla «di quelle coccole rosse e fresche che Cristoforo Colombo, un bel giorno, vide galleggiare sul mare» (G. Orelli, Un giorno della vita, Lerici, Milano 1960, p. 46). Infine, per quanto riguarda Elvira e altra onomastica femminile leopardiana, una viva attenzione di Orelli per l’argomento sarà documentata in suoi lavori degli anni settanta e ottanta (cfr. La lettera della luminosità e della trafittura, in “Il piccolo Hans. Rivista di analisi materialistica”, III (1976), 12, pp. 140-152: 144-146; e Connessioni leopardiane, pp. 73-96: 75-77), dove sono riprese, discusse, integrate osservazioni di E. Peruzzi, Saggio di lettura leopardiana, in “Vox Romanica”, XV (1956), pp. 94-163, e di S. Agosti, Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Rizzoli, Milano 1972. Inu- tile insistere ora, perché dato tanto vistoso quanto risaputo, sulla cura particolare riservata all’onomastica dall’Orelli poeta, anche con esibizioni anagrammatiche («Clelia» «l’elica», ad esempio, o «Leonardo» «oleandro», per non dire che di due nomi eletti a titolo in Spiracoli: Clelia, A Leonardo Boff). 11 Il rinvio, nell’ordine, va a G. Orelli, Letture di poeti, p. 34, e Id., La miseria del mae- stro Adamo, in “Popolo e Libertà”, 24 novembre 1951, p. 3 (poi, accresciuto, Id., Letture dantesche I. Adamo e Sinone, in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCIV (1952), gennaio- febbraio, pp. 7-10: 8).

146 Giorgio Orelli lettore di Leopardi

12 Per il critico in rapporto a Contini, cfr. infatti G. Orelli, Dopo la lezione [conversazio- ne con L. Saetti], in Id., Foscolo e la danzatrice. Un episodio delle «Grazie», Pratiche Editrice, Parma 1992, p. 69: «Non devo arrossire, mi pare, se dico che conosco poco il Contini ecdo- tico, se dico che sono sempre stato un uccello di passo pronto a prendere quel che più mi serviva, o sembrava nutrirmi. Lì ho insistito». 13 G. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi, in «Feconde venner le carte». Studi in onore di Ottavio Besomi, a cura di T. Crivelli, con una bibliografia degli scritti a cura di C. Caruso, Casagrande, Bellinzona 1997, vol. II, p. 478. La citazione successiva proviene ancora da Id., Dopo la lezione, p. 69. 14 Cfr. G. Orelli, «Altre cose, altra realtà, altra verità», in “Filologia e Critica” (Su / per Gianfranco Contini), XV (1990), pp. 325-346: 325-332. Concorda sull’agonismo O. Besomi, Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del «Fiore», in questi Atti, a p. 225. 15 La Bibliografia documenta anche l’assiduità con cui Orelli, a partire già dagli anni qua- ranta, ha divulgato e collaudato queste sue letture leopardiane attraverso conferenze, nelle sedi più diverse, e interventi radiofonici. Fra gli studi non programmaticamente leopardiani, ma con una parte di qualche rilievo a lui dedicata, si potranno ancora annoverare, è ovvio, i due già messi a contributo: La lettera della luminosità e della trafittura (1976) e «Altre cose, altra realtà, altra verità» (1990). Resta da osservare, a livello più complessivo, che nei lavori di Orelli incentrati su altri autori i versi di Leopardi non risultano tra i più spesso chiamati in causa, tra i più spesso allegati per mostrare come i grandi poeti hanno operato: in testa al drappello c’è Dante, poi Petrarca; seguono, con largo distacco, Tasso e Ariosto. Leopardi è forse appena in quinta posizione, o in quei dintorni. 16 G. Orelli, Punto medio dell’«Infinito», in “Popolo e Libertà”, 26 maggio 1951, p. 3; e cfr. poi Id., Noterella all’«Infinito», in “Paragone. Letteratura”, 56 (1954), pp. 80-82: 80. La conferenza di Ungaretti si era tenuta alla Scuola di Commercio il 20 settembre 1950 (si inseriva in un tour ticinese del poeta che, su invito dei locali Circoli di Cultura presieduti da Giuseppe Zoppi, parlò anche a Locarno, Lugano, Mendrisio e Chiasso). Un entusiasta croni- sta (“Popolo e Libertà”, 21 settembre 1950, p. 3) descrive anche il dopo-lezione bellinzonese: «Con grande soddisfazione personale potemmo seguirlo [Ungaretti] insieme col prof. Tara- bori, il poeta Orelli e altri, fin nell’albergo dove, tra un boccone e l’altro della cena, era ben lieto di continuare una conversazione letteraria e poetica, nella quale l’autorità della sua paro- la portava sempre il giudizio definitivo». Queste, infine, le coordinate degli articoli coinvolti nel primitivo dibattito: A. Baldini, Questa e quella, in “Corriere della Sera”, 7 febbraio 1950; F. Flora, La «tanta parte» e gli «interminati spazi», in “Letterature moderne”, I (1950), pp. 102-103; Id., Concordanza grammaticale, in “Letterature moderne”, I (1950), pp. 240-242; R. Bacchelli, Sugli aggettivi determinativi dell’«Infinito», in “Letterature moderne”, I (1950), pp. 235-239; G. Ungaretti, Secondo discorso su Leopardi, in “Paragone. Letteratura”, 10 (1950), pp. 3-35; P. Bigongiari, Valore dell’«Infinito», in “Paragone. Letteratura”, 14 (1951), pp. 29-37. Ai nomi fatti da Orelli, si aggiunga quello di V. Arangio-Ruiz, La siepe dell’«Infi- nito», in “Letterature moderne”, I (1950), pp. 99-102. 17 Cfr. G. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi, p. 485; reiterato e persino inten- sificato nel successivoPer leggere «L’infinito», in Id., La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi, Casagrande, Bellinzona 2012, pp. 66-96: 73 e 85. 18 G. Orelli, Dopo la lezione, p. 74. Di Walter Binni, presenza certo più sorprendente di quella “stilistica” di Fubini, Orelli cita di séguito il volume Foscolo e la critica (La Nuova Italia, Firenze 1957); ma nel settore che qui più ci concerne va senza dubbio salutata, per apertura e indipendenza di giudizio, la sua pronta e ammirativa lettura della Nuova poetica leopardiana (Sansoni, Firenze 1947): «Si veda […] il saggio spesso acuto e convincente del Binni […]» (G. Orelli, Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano, p. 74; e cfr. pure Id., Cinque nuove poesie di Vincenzo Cardarelli, in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCII (1950), maggio-giugno, pp. 42-43: 42). 19 Così in Giorgio Orelli, la passione per Leopardi, intervista a cura di B. Boccaletti, in “Giornale del Popolo”, 16 luglio 1998, p. 24. Ma cfr. anche, ad esempio, G. Orelli, Per leggere «L’infinito», p. 69: «Siffatto simbolismo potrebbe dirsi inevitabile, inevitabilmente

147 Christian Genetelli prodotto dalla “giusta” insistenza fonica imposta dall’urgenza stessa del senso» (e, simil- mente, pp. 73, 85, 88); o ancora e già, nel precedente Correzioni leopardiane, in “Il piccolo Hans. Rivista di analisi materialistica”, XVI (1989), 62, p. 224: «Ma non si dimentichi che ciò non documenta tanto l’attaccamento intertestuale dell’ingegno seguace quanto l’inevitabilità d’approdi di chi fa vera letteratura in lingua italiana»; ecc. 20 Gli Appunti per leggere «Il sabato del villaggio» sono raccolti in G. Orelli, Accerta- menti verbali, Bompiani, Milano 1978, pp. 107-127 (il primo libro del critico). Do, per mera completezza, anche le indicazioni bibliografiche dei due studi citati a testo: A. Monteverdi, Scomposizione del canto «A se stesso», in Id., Frammenti critici leopardiani, Edizioni Scien- tifiche Italiane, Napoli 1967, pp. 123-136; D’A.S. Avalle, «A Liuba che parte», in Id., Tre saggi su Montale, Einaudi, Torino 1970, pp. 91-99 (già in Id., La critica delle strutture formali in Italia III., in “Strumenti critici”, II (1968), pp. 304-342: 312-319). Un’ultima postilla in questo solco: per quanto muova da presupposti rinnovati, lo stesso studio introduttivo degli Accertamenti verbali (Ritmi, timbri, il disegno del pensiero, pp. 7-32) non è certo del tutto insensibile a Ritmo e metro, suo omologo nella fubiniana, e già ricordata, Metrica e poesia. Lezioni sulle forme metriche italiane. I. Dal Duecento al Petrarca, seconda edizione riveduta e corretta, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 13-78 (I. ed. 1962). Ha una fine osservazione sulla diacronia della «critica verbale» orelliana O. Besomi, Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del «Fiore», p. 229. 21 Non ha mancato di notarlo Pietro De Marchi: cfr. Giorgio Orelli. L’orlo della vita, a cura di P. De Marchi e P. Montorfani, in “Poesia”, XXVII (2014), gennaio, p. 32. 22 G. Orelli, Poesie, Edizioni della Meridiana, Milano 1953, p. 17; la lirica non è ripro- posta nell’Ora del tempo. Avverto sin d’ora che citerò di norma da quest’ultimo libro nei casi in cui (si capisce) il componimento vi è approdato, riservandomi in ogni modo di indicare, se significative per il nostro discorso, le lezioni precedenti diPoesie 1953. 23 A proposito di eloquenza smorzata, ecco che cosa scrive ad esempio Orelli di un verso tradotto con un po’ troppa perfezione ed enfasi (il traduttore è Bassani, il tradotto Char): «a un bell’endecasillabo come “Oh, non morite troppo presto, amici” (Ne mourez pas trop vite, amis), avremmo preferito un più contenuto: “Non morite troppo presto, amici” (e si potreb- be optare per un manzoniano “troppo in fretta”), ch’è un verso enarmonico e più consono al resto del componimento» (G. Orelli, rec. a Poesia straniera del Novecento, in “Paragone. Letteratura”, 116 (1959), p. 100). E qualche anno prima, proprio nel 1953, parlando della montaliana Casa dei doganieri (G. Orelli, Letture di poeti, p. 35): «Gli ultimi due versi sono tanto più commoventi perché apparentemente pacati. “Tu non ricordi la casa di questa Mia sera” è frase intensamente patetica proprio perché il pathos si raggruma in “questa Mia sera” come nella sostanza più dolente dell’anima. (Pensate, per meglio intenderci, a una clausola tutt’altro che indegna di Leopardi, ma insomma un poco eloquente, come quella, notissima, del Passero: “Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato volgerommi indietro”)». 24 G. Orelli, L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962, p. 21. Di séguito la lezione di Poesie (p. 35): «Giungo dove non ronzano i beati, / in questa ganna di pieno silenzio. / Le gallinette stanno immobili / con i loro colli di pietra / e la marmotta uscita al primo sole / non teme d’essere uccisa / nè fischierà. / Nessuno annulli la montagna, / ora, leggera e come costruita / con le carte da gioco dell’infanzia». 25 Anche l’Orelli traduttore di Goethe, nella versione di Ganymed uscita nel 1957 (cfr. J.W. Goethe, Poesie scelte, tradotte da G. Orelli, Edizioni Mantovani, Milano, p. 9) attinge a questa lassa del Canto notturno, per poi rielaborare in altra direzione, con minori ipote- che, nel 1974 (cfr. J.W. Goethe, Poesie, a cura di G. Orelli, Mondadori, Milano, p. 31): lo osserva A. Spinelli, Giorgio Orelli traduttore di Goethe lirico: dinamiche intra e inter-testuali, in “Versants. Rivista svizzera delle letterature romanze”, 60 (2013), 2, p. 121 e n. Più in ge- nerale, nelle traduzioni goethiane, benché le traduzioni di Orelli non siano fatte oggetto di considerazione specifica in questo mio studio, la quota di sintagmi o tessere leopardiane si rivela più alta che nelle poesie originali, forse anche come segnale di una sorta di solidarietà cronologica con il testo di partenza (e del resto parlava della traduzione come di «una grande operazione di riciclaggio di materiali forniti dalla tradizione»: cfr. P. De Mar-

148 Giorgio Orelli lettore di Leopardi chi, Ut poësis translatio. Sul «quaderno di traduzioni», in Id., Dove portano le parole, p. 114). Quanto, infine, allaVita solitaria, è «canto» che incide pure altrove, come nel contiguo (a Campolungo) Carnevale a Prato Leventina (G. Orelli, L’ora del tempo, p. 20; più distanziato in Poesie, p. 23), dove «le lepri / sui prati sono corse / invisibili, restano dell’orgia / silenziosa i discreti disegni». (Leopardi: «O cara luna, al cui tranquillo raggio / danzan le lepri nelle selve; e duolsi / alla mattina il cacciator, che trova / l’orme intricate e false, e dai covili / error vario lo svia […]»; vv. 70-74). E sempre in Carnevale a Prato Leventina (è domenica, «la Domenica Disfatta») si percepiscono nell’io palpiti da Sera del dì di festa: «I ragazzi nascosti nei vecchi / che hanno teste pesanti e lievi gobbe / entrano taciturni nelle case / dopocena: salutano con gesti / rassegnati. – Li seguo di lontano / mentre affondano dolci nella neve». Ma anche qui lo “stringimento” di cuore non è spiattellato, è trattenuto, non dichiarato. 26 G. Orelli, L’ora del tempo, p. 19 (in Poesie, p. 19). Per gli interventi di Giovanni Orelli sulla poesia, cfr. Id., Svizzera italiana, Editrice La Scuola, Brescia 1986, p. 198; Lettura di «Sera a Bedretto», in Giorgio Orelli. I giorni della vita, a cura di P. De Marchi, con la colla- borazione di S. Soldini, Casa Croci Mendrisio, Mendrisio 2011, pp. 15-18; Postilla per «Sera a Bedretto» di Giorgio Orelli, in “Bloc Notes”, 64 (2014), pp. 121-123. Sulla prima strofe, all’insegna dell’immancabile Montale (qui il «nominalistico» di Keepsake), cfr. anche Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978, p. 818. 27 G. Orelli, L’ora del tempo, pp. 24-25 (in Poesie, p. 31). 28 L’accostamento finale all’Infinito è anche nel ricordato commento di Bernasconi all’Ora del tempo (p. 31). Senza con ciò volermi addentrare nel campo vastissimo e privilegiato del montalismo di Orelli (anche perché ne tratta in questo volume uno specialista come Niccolò Scaffai), dico almeno che quel singolare «Volentieri perdòno / al vento» si spiega a mio avvi- so con la grande chiusa di Fine dell’infanzia, in cui proprio «un vento» sancisce il passaggio all’età adulta: «Certo guardammo muti nell’attesa / del minuto violento; / poi nella finta calma / sopra l’acque scavate / dové mettersi un vento». E, ancora, gli orelliani «groppi / del soffitto, che un tempo erano occhi», mentre ora sono «fermi», sono certo in famiglia con «le nubi» dell’«età verginale» di Montale, non «cifre o sigle / ma le belle sorelle che si guardano viaggiare» (Fine dell’infanzia, vv. 70-71). 29 G. Orelli, L’ora del tempo, p. 27 (in Poesie, p. 43). A rovescio, in qualche misura, le cose vanno invece in Sul disegno di una bambina (Poesie, p. 25; non entrerà nell’Ora del tem- po): la trama, pur rasserenata rispetto al primo dei modelli, è data da Montale, tra Arremba su la strinata proda e Poesie per Camillo Sbarbaro II. Epigramma; ma l’uccello che «di te non si dorrà», è lampeggiamento verbale del Passero solitario (vv. 45-48): «Tu, solingo augellin […] / […] / certo del tuo costume / non ti dorrai». Ecco ora, nella sua integralità, il testo di Orelli: «Lievi montagne vivono / e la tua barca va, senz’uomo, / con l’anima dei primi fiori colti / e il biglietto-ricordo. // Se un uccello l’ha scorta, non temere: / di te non si dorrà che l’hai destato, / ma seguirà la barca, sopra l’acque / vere come il tuo sguardo, all’altra riva». 30 Lo ha mostrato la lettura di F. Medici, Appunti su «Strofe di marzo», in Per Giorgio Orelli, a cura di P. De Marchi e P. Di Stefano, Casagrande, Bellinzona 2001, pp. 121-128. 31 E cfr. pure la «rosa» («La passa rosa») che «va» in Torcello, sempre nell’Ora del tempo, e sempre proveniente dalle Poesie, dov’è l’ultimo degli Epigrammi veneziani (e ultimo testo della raccolta). 32 Ad esempio in una conferenza luganese del 7 giugno 1988 intitolata Di dolcissimo odor mandi un profumo, su cui si possono vedere i resoconti giornalistici di P. Di Stefano (Il dolce odore dei suoni, in “Corriere del Ticino”, 8 giugno 1988, p. 14) e di M. Camponovo (Nei «fal- chi» di Montale l’epifania della vita, in “Giornale del Popolo”, 9 giugno 1988, p. 24). L’infinito è definito «ciottolo levigato dai millenni» in G. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi, p. 476. Osservo, a margine ma non troppo, come dei «ciottoli ben levigati» stiano nell’incipit della quinta poesia del Quadernetto del mare (in Spiracoli), quella in cui (cfr. sopra p. 135) si trova poi incastonato, in corsivo, un verso delle Rimembranze («Penso il ragazzo che ha scritto lucido insetto / sorpreso in aria a due passi da qui»). 33 G. Orelli, Spiracoli, Mondadori, Milano 1989, p. 23 (è il nono testo della serie). L’au- tocommento si legge a p. 105.

149 Christian Genetelli

34 Id., Letture di poeti, pp. 33-34. 35 Id., Spiracoli, p. 77; e Poeti del mondo per Giacomo Leopardi, prefazione di F. Foschi, introduzione di M. Luzi, a cura di G. Singh, Centro Nazionale di Studi Leopardiani, Recanati 2001, p. 152. 36 E cfr. anche, in proposito, una poesia della serie Con Mimma del Collo dell’anitra: «Non conosco l’azzurro / tuo preferito / che hai visto solo in Egitto / e il nostro esiguo cielo / di rado ti rammenta // e nemmeno, fra tanti, il tuo giallo: / non forsizia o mimosa, ma se mai / ginestra […]».

150 NICCOLÒ SCAFFAI Un’altra fedeltà: Orelli e Montale

1. «A Eugenio Montale / dal suo fedele / Giorgio Orelli / Milano, aprile ’77»: la dedica si legge sull’esemplare di Sinopie conservato tra i libri di Montale, nel fondo a lui intestato presso la Biblioteca Sormani di Milano. È una traccia mini- ma ma significativa, perché colloca la relazione di Orelli con il più anziano “ma- estro” all’insegna di una fedeltà discreta e insieme allusiva. “Fedeltà” è infatti un campo semantico centrale nella poesia del Montale maggiore – quello più caro a Orelli e più influente per la sua generazione – specialmente tra Occasioni (il «gorgo / di fedeltà, immortale» del secondo mottetto; «la fedeltà che non muta» in Tempi di Bellosguardo, II) e Bufera (il «latrato / di fedeltà» dell’Arca; e poi, quasi a sigillare il “canzoniere” del Montale tragico, la «fede che fu combattuta» testimoniata dal segno dell’«iride», in Piccolo testamento). D’altra parte, il richiamo alla fedeltà può implicare il dialogo tra Montale e un altro maestro di Orelli, il Contini di Una lunga fedeltà (Einaudi, Torino 1974). Orelli stesso ha testimoniato quanto il poeta di Mottetti e Finisterre e il filologo romanzo fossero legati nella memoria del suo apprendistato: «All’u- niversità capitava che Contini levasse di tasca inediti del grande poeta e me li facesse leggere. Ebbi più d’una “mamma”, più d’una “nutrice”, ma in Montale sentivo rivivere l’oggetto con un che d’elettrico che non trovavo in nessun altro poeta contemporaneo».1 Dal canto suo Montale, scrivendo delle Poesie scelte di Goethe in una Lettura del 1957, ne lodava il traduttore Giorgio Orelli, definen- dolo «poeta tra i migliori della nuova generazione» (riferendosi, beninteso, non «ai soli poeti ticinesi»).2 Per entrambi – Contini e Orelli – la fedeltà a Montale è stata un’inclinazione non solo critico-letteraria o filologica, ma anche personale (per il primo) e so- prattutto poetica (per il secondo). Cercherò qui appunto di illustrare le forme e i modi in cui la lettura di Montale può aver inciso sulla poesia di Orelli, lasciando tracce più o meno marcate di un’influenza abbastanza costante nel tempo: dalla prima stagione di Né bianco né viola (1944), plaquette uscita nella medesima “Collana di Lugano” di Pino Bernasconi in cui, un anno prima, era apparsa Finisterre; al consuntivo dell’autoantologia L’ora del tempo (1962); fino aSino - pie e, in forme ormai autonome e peculiari, ai libri successivi, passando anche attraverso la critica verbale esercitata negli Accertamenti montaliani (1984) e nei molti interventi critici dedicati a Montale nel corso dei decenni.3

2. «In Montale sentivo rivivere l’oggetto», ha scritto Orelli. E proprio la “vita” dell’oggetto nella poesia orelliana è quanto si richiama più fortemente al ma-

151 Niccolò Scaffai gistero montaliano. Come già per il poeta delle Occasioni, infatti, in Orelli gli oggetti nominati valgono non tanto o non solo come proiezione di un io turba- to, che riversa nel simbolo la partecipazione a uno stato emotivo; quanto come elemento di una realtà effettivamente esperita, riconosciuta e resa esprimibile in poesia anche attraverso l’esempio di Montale. La verbalizzazione dell’oggetto è forse l’aspetto più generale ma anche più decisivo dell’influenza montaliana sul primo Orelli; un’influenza che non si misura solo in base alle pur numerose tessere intertestuali prelevate dai versi di Montale, ma che ha una portata stili- stica più generale (intendendo per “stile” anche un atteggiamento conoscitivo che qualifica il nesso tra oggetto e parola). Quest’atteggiamento consiste nel percepire l’unità significativa dei fenomeni con l’io, senza subordinare simbo- listicamente gli uni all’altro ma coordinandoli e accostandoli come per metoni- mia. Anzi, è stato notato che il soggetto orelliano non soltanto osserva quelle presenze oggettive, ma è come se ne fosse osservato di rimando; ciò obbliga, specialmente nei versi più maturi, a rinegoziare la posizione dell’io lirico rispet- to alle cose.4 In questo risiede peraltro una fondamentale differenza rispetto a Pascoli, che pure senza dubbio rappresenta un punto di riferimento di Orelli, quanto a lessico e situazioni d’ambiente, nonché un oggetto privilegiato di «ri- memorazione inconscia»;5 si deve però tener presente che il pascolismo di Orelli è «sostanzialmente filtrato attraverso Montale»,6 dal quale parte il suo percorso di attraversamento à rebours della tradizione, fino a Dante e Petrarca. Il trattamento dell’oggetto da parte del primo Orelli si basa su un processo di surdeterminazione,7 simile alla tecnica di certi Mottetti, come «Il saliscendi bianco e nero…» («Già profuma il sambuco fitto su / lo sterrato; il piovasco si dilegua»), a cui accostare, ne L’ora del tempo, versi e immagini come:

La cote è nel suo corno. Il pollaio s’appoggia al suo sambuco (Nel cerchio familiare)

Neve rappresa ai cigli delle case, nell’orto il sambuco in gramaglie. (Prima dell’anno nuovo)

In questi esempi, il contatto è accreditato anche dall’identità di un referente come la pianta del sambuco, che ricorre in diversi luoghi dell’opera di Orelli,8 almeno fino ai versi diA Lucia, poco oltre i tre anni (in Sinopie) dove viene qua- si tematizzato («“Questo odore è del sambuco.” “Del san cosa?”»): passaggio emblematico per cogliere l’evoluzione tra il giovane Orelli e il poeta maturo che rielabora i propri motivi. A sua volta, la surdeterminazione dell’oggetto fa sistema, nel primo Orelli, con un altro elemento decisivo della poetica montaliana, il modulo epifanico attraverso cui si realizza la conoscenza intuitiva o piuttosto il presentimento euforico avvertito dal soggetto. I versi di Lo stagno (confluiti in L’ora del tem-

152 Un’altra fedeltà: Orelli e Montale po) sembrano tra i meglio implicati nella dinamica dell’occasione di ascendenza montaliana:

Se torna il tempo della primavera, come un compianto sale dallo stagno dove incupisce nel suo verde il pino e un sole silvestre s’avvera. Il mio cielo! che a un tratto il picchio fruga; spare dirotto: n’esulta il turchino. Oh non schivare di specchiarti, cara.

Qui, peraltro, non solo la struttura concettuale ma anche quella retorica- sintattica aderisce alle formulazioni montaliane: per esempio nell’uso della frase condizionale, con sfumatura per lo più temporale, la cui «variabilità di posi- zione […] è uno tra i fenomeni più tipici dello stile montaliano».9 Frequente e marcato nell’Opera in versi (l’occorrenza più emblematica è forse nel nono mot- tetto: «Il ramarro, se scocca / sotto la grande fersa / dalle stoppie»), lo stilema sintattico è adottato volentieri da Orelli; oltre che Lo stagno, si può citare A un giovane poeta cacciatore (ancora in L’ora del tempo), dove le due frasi condizio- nali si succedono giustapposte, senza l’adempimento di una principale, riman- data (si considerino i punti finali di sospensione) e di fatto assente – un tratto anche questo che deriva da una forma sintattica montaliana, quella che consiste appunto nel ritardare o eludere la reggente (come, nella Bufera e nell’Anguilla, testo emblematico caro e presente a Orelli):

Ma se lo scoiattolo muore con la nocciuola in bocca e lo raggiunge nel folto del mattino un sole come appena risorto, accendendolo un attimo che durerà non meno d’un rimorso (non un filo di sangue, e quel trambusto per cui ti volgi invano, e, di là, nella radura, quelle palate, non d’uccelli); se quella che ti passa accanto nel silenzio che succede allo sparo, non sai di chi nel calanco, pernice troppo pesa, ferita, che precipita sì che tu la vedi scendere vicinissima in un vuoto concesso dalle pietre, zampettare, tacere…

Risonanze montaliane, nei versi citati da Lo stagno, producono infine la se- quenza trimembre di frasi brevi «a un tratto il picchio fruga; / spare dirotto: n’esulta il turchino», da confrontare ad esempio, anche per la forma verbale («spare»), con il finale dell’osso breve «Il canneto rispunta i suoi cimelli…»: «e però tutto divaga / dal suo solco, dirupa, spare in bruma»; così pure l’interiezio-

153 Niccolò Scaffai ne («Oh non schivare di specchiarti, cara»), anche questa frequente in Montale (negli Ossi: «oh da un segnale di pace lieve», «oh alide ali dell’aria», «oh troppo noto / delirio, Arsenio, d’immobilità…», «Oh sommersa!: tu dispari» ecc.; nelle Occasioni: «Oh l’orizzonte in fuga», «Oh la pigra illusione», «Oh il gocciolìo che scende a rilento» ecc.; nella Bufera: «Oh ch’io non oda / nulla di te», «Oh resta chiusa e libera», «Oh la piagata / promavera» ecc.; e ancora, più raramen- te, fino a Satura e ai Diari), se non altro come residuo d’intonazione primonove- centesca, fra crepuscolari, liguri e vociani. Mentre in A un giovane poeta cacciatore è l’uso della parentesi, che racchiude l’evento accessorio di una percezione distante ma connessa per analogia al qui e ora dell’istanza, ad apparire ancora montaliano: più che con il celebre mottetto degli sciacalli – «(a Modena, tra i portici, / un servo gallonato trascinava / due sciacalli al guinzaglio)» –, un parallelo tipologico (non tematico) può esser fatto qui con la seconda strofa della poesia La bufera:

(i suoni di cristallo nel tuo nido notturno ti sorprendono, dell’oro che s’è spento sui mogani, sul taglio dei libri rilegati, brucia ancora una grana di zucchero nel guscio delle tue palpebre).

In certi casi, la poesia di Orelli dà per acquisito il passaggio dell’occasione su un versante negativo, come accade in Finisterre (la zona dell’opera montaliana che, insieme ai Mottetti, più ha contato per il poeta ticinese), dove il modulo epifanico resiste ma privato del risvolto euforico;10 si osserva una dinamica del genere nell’orelliana Scolopendra (L’ora del tempo):

E niente c’è di nuovo se non l’erba che fumiga strepita, la scolopendra dal roseo ventre ch’agita folle i piedi nell’azzurro. (vv. 7-10)

3. Se è vero che Orelli ha appreso da Montale, meglio che da altri, la percezio- ne lirica degli oggetti, è vero anche che quella percezione avviene attraverso la nominazione: di qui il senso e l’importanza che acquistano, nel sistema di Orelli, gli accertamenti verbali, necessari alla comprensione della sua poetica, forse più ancora che all’analisi di alcuni dei testi considerati. Tra i poeti della sua generazione, Orelli è il più sensibile e ricettivo rispetto ai campi semantici frequentati da Montale, specialmente a quelli che più contribuiscono all’esten- sione del dicibile lirico verso il tecnicismo e in genere verso il post-grammaticale (grazie all’influenza corroborante del gusto pascoliano, per quanto riguarda l’esatta designazione dei referenti). Entrano così, nel vocabolario orelliano, i termini tecnici come acetilene (Nel cerchio familiare, in L’ora del tempo), forse

154 Un’altra fedeltà: Orelli e Montale autorizzato da Arsenio («dai gozzi sparsi palpita / l’acetilene»); le molte voci di un bestiario “araldico” dai toni ancora montaliani (peraltro, proprio a Gli uc- celli e altri animali nella poesia di Eugenio Montale, Orelli dedicò un intervento per la trasmissione Gli animali nella letteratura italiana, alla Radio della Svizzera italiana, il 24 novembre 1963): martora, nocciolaia, scoiattolo, tasso, pernice, picchio e soprattutto la «scolopendra folle» che quasi cita la «cavolaia folle» da L’estate montaliana;11 certe voci emblematiche e preziose come «madreperla», «élitre», «volo tremulo». Per non dire del conio montaliano «dopopioggia» (da Delta), promosso da Orelli a titolo di Nel dopopioggia, poesia confluita ne L’ora del tempo.12 La radice del montalismo di Orelli affonda già, come si accennava, nel suo esordio poetico. In Né bianco né viola, infatti, il segno di Montale è forte fin dai versi di Affresco, che assumono movenze ricalcate soprattutto sulle poesie degli Ossi: «Basta questo sorriso di fanciullo», «Domani i ragazzetti soneranno / così le raganelle» sono versi da accostare tanto all’incipit di Riviere («Bastano pochi tocchi d’erbaspada»), per il modulo sintattico e per una disposizione esistenziale in levare caratteristica del primo Montale; quanto a «Ripenso il tuo sorriso…», ai «ragazzi» dei Limoni e alla «musica innocente» dei fanciulli di Caffè a Rapallo. Ma la prima traccia di allusività vera e propria riguarda Finisterre, il libro più vicino per cronologia e geografia a Né bianco né viola: nella plaquette del giovane Orelli, i versi di Salice alludono a Montale attraverso la memoria incipitaria, che mette in relazione l’attacco della poesia («Ora che la tempesta t’ha travolto») con quello dell’Arca montaliana: «La tempesta di primavera ha sconvolto l’ombrello del salice», sovrapposto a quello della vicina A mia madre («Ora che il coro delle coturnici»).13 È significativo, intanto, che Orelli attinga da una delle poesie di Fi- nisterre meno implicate nel “canzoniere” per la donna assente e incentrata piut- tosto sul tema larico, nelle corde del poeta ticinese. Mentre Sereni, e altri poeti della terza generazione, percepirono in Montale il “romanzo”, «l’eco di parole davvero pronunciate»14 (anche come reazione sia alle imposizioni crociane tutte orientate sulla “poesia”, sia alla distanza ermetica tra letteratura ed esperienza), il primo Orelli sembra cercare in Montale le parole e la “sintassi” concettuale per designare un mondo che precede o al massimo sfiora la Storia. Così, infatti, la metafora della tempesta – che in Montale è riferibile tanto agli eventi bellici quanto alla dimensione del lutto personale – viene da Orelli depotenziata e in sostanza ridotta alla lettera. In compenso, Salice di Orelli ha uno svolgimento autonomo dai temi e dai toni dell’Arca: si veda ad esempio la figura accennata negli ultimi versi («È una bagnante isterica che guarda / la tua giovin miseria»), già personaggio di quella galleria aneddotica che caratterizza la poesia matura di Orelli. L’arca è peraltro citata da Orelli critico sia nelle sue Letture foscoliane; sia nell’articolo Aderenza di Montale (1975), in cui la poesia è avvicinata a Terra, vale! del D’Annunzio alcyonio; sia infine nell’autolettura conclusiva di Quasi un abbecedario, dove Orelli suggerisce come il «muso aguzzo» del suo celebre Frammento della martora possa venire dai «musi aguzzi» della «bellissima lirica»

155 Niccolò Scaffai di Montale. Ma la memoria dell’incipit dell’Arca riemerge anche in una forma più complessa: non come allusione imitativa, cioè, ma come attiva emulazione del modello. È quanto si osserva nei versi di Nel cerchio familiare:

Una luce funerea, spenta, raggela le conifere dalla scorza che dura oltre la morte, e tutto è fermo in questa conca scavata con dolcezza dal tempo: nel cerchio familiare da cui non ha senso scampare.

Entro un silenzio così conosciuto i morti sono più vivi dei vivi: da linde camere odorose di canfora scendono per le botole in stufe rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti, tornano nella stalla a rivedere i capi di pura razza bruna.

Ma, senza ferri da talpe, senza ombrelli per impigliarvi rondini; non cauti, non dimentichi in rincorse, dietro quale carillon ve ne andate, ragazzi per i prati intirizziti?

La cote è nel suo corno il pollaio s’appoggia al suo sambuco. I falangi stanno a lungo intricati sui muri della chiesa. La fontana con l’acqua si tiene compagnia. Ed io, restituito a un più discreto amore della vita…

La poesia mostra più di un contatto tematico e lessicale con la lirica di Fi- nisterre (né mancano anche possibili interferenze con altri testi tra Occasioni e Bufera, e perfino con la prosa montaliana).15 Ma davvero decisiva pare soprat- tutto l’influenza dell’Arca; nei versi di Orelli si ritrovano infatti il tema larico e l’ambientazione domestica a suo modo pascoliana (Il giorno dei morti, in My- ricae, che ha agito anche su Montale, o La tovaglia, nei Canti di Castelvecchio) della grande lirica di Finisterre: il radunare la memoria dei morti entro un «cer- chio familiare» corrisponde al «tondo di riflessi» che «accentra i volti ossuti» nell’Arca; e ancora, «i morti più vivi dei vivi» di Orelli sono da confrontare con i morti «calati, vivi, nel trabocchetto» della poesia di Montale («trabocchetti» che, peraltro, anticipano le «botole» di Nel cerchio familiare). Notevole, infine,

156 Un’altra fedeltà: Orelli e Montale un indizio lessicale come l’uso del verbo “impigliare”: «s’è impigliato nell’orto il vello d’oro» (Montale), «per impigliarvi rondini» (Orelli).16

In generale, la qualità dei riscontri tra Finisterre e L’ora del tempo è un segno di come, nell’Orelli maturo, la traccia illustre del modello sia ormai libera dall’os- sequio ancora percepibile in Né bianco né viola. A dire il vero, già in quella prima plaquette, il montalismo non si risolveva solo in un’appropriazione di em- blemi (l’alto volo del falco, la banderuola), manifestandosi anche in una più stu- diata assimilazione di forme strofiche e sintattiche, come base per l’elaborazione dell’esperienza emotiva e conoscitiva dentro le strutture ellittiche e analogiche della poesia novecentesca. Ad agire è soprattutto il modello dei Mottetti, sia per la bipartizione del testo in due brevi strofe distinte anche sul piano prospettico; sia, come in parte si è detto, per l’uso della parentetica, che fissa una circostanza realistica accessoria e contigua rispetto alla situazione lirica principale, per lo più in finale di testo. Così, ad esempio, inPerché si ricomponga ogni silenzio:

(Sul vecchio ballatoio, la donna dai capelli di lichene che sa della cornice più scherzosa delle pannocchie?); o ancora in D’un altro giorno più vicino di ieri:

(È sera, e ancora l’attimo distilla le gocce sulla mola inesauribile del ramingo arrotino) dove si rileva, proprio nella figura dell’arrotino, un altro “fantasma” montalia- no (ancora da Finisterre, in Giorno e notte). Il precedente, per quest’uso della parentesi, può essere riconosciuto – stavolta sì – nel mottetto «La speranza di pure rivederti…», che per ragioni analoghe impressionò i poeti della terza gene- razione, poco più anziani di Orelli. Né, del resto, l’uso resta confinato alle prime raccolte; l’esempio più flagrante e più allusivamente montaliano si trova anzi nella poesia di Spiracoli intitolata Per la madre di mia moglie:

(a Parigi i negri si toglievano dai ricci i chicchi scivolati dalle tende del Marché) dove anche l’intertestualità di rinforzo sembra provenire dalle Occasioni, preci- samente da Buffalo, ambientata appunto a Parigi, in cui un «negro / sonnecchia- va in un fascio luminoso». Nei paraggi delle prime Occasioni riporta poi anche Sera a Bedretto («Salva la Dama asciutta. Viene il Matto / Gridano i giocatori di

157 Niccolò Scaffai tarocchi»), nel cui incipit più di un lettore ha avvertito l’eco del Montale “nomi- nalistico” di Keepsake.17 La parentesi non è il solo tratto della mise en page montaliana che sembra aver lasciato traccia: anche per i tre punti che precedono il primo verso di Fram- mento della martora può essere pertinente il rimando ai Mottetti («Addii, fischi nel buio…», «Il ramarro, se scocca…» o, diversamente «… ma così sia. Un suono di cornetta…»), che promuovono la lacuna testuale a stilema in cui si esprime la poetica ellittica dell’occasione.

4. La modalità di assimilazione più tipica di Orelli passa attraverso la scom- posizione dei sintagmi montaliani, i cui elementi vengono poi riaggregati con minore o maggiore tasso di allusività, ma sempre esibendo con tecnica squisita la memoria straniata del modello. Accadeva con L’arca ricontestualizzata nei versi di Nel cerchio familiare; accade ancora, per esempio, in Colgo questo paese (L’ora del tempo):18

Colgo questo paese che s’inalbera, stretto fra gli orti dove latte luccicano frenetiche, e dirocca dentro i monti.

Giunge un vento, da vette eccita breve argenteo pulviscolo (vv. 1-5).

Qui la memoria principale proviene dalla seconda strofa del primo mottetto: «Paese di ferrame e alberature / a selva nella polvere del vespro» («Lo sai: debbo riperderti e non posso…»), incrociata però con altri luoghi eminenti dell’Opera in versi (per esempio l’incipit di Mediterraneo V: «Giunge a volte repente…») e spin- ta verso l’iper-montalismo dagli sdruccioli in punta di verso. Ma un’eco del mede- simo testo attraversa anche un’altra poesia vicina in L’ora del tempo, cioè Il lago:

Orsola ha fabbricato il suo paese di ferro arrugginito sulla riva dove gli alberi stirano le tenaci radici e baccelli di morte primavere non si sfanno (vv. 2-6).

Esempi come questo, per i quali parlerei di disseminazione del modello, rap- presentano quasi l’applicazione pratica della fenomenologia dell’accertamento verbale; del resto, nel capitolo Su alcuni mottetti dei suoi Accertamenti monta- liani, Orelli si sofferma, tra gli altri, anche sui versi di «Lo sai: debbo riperderti e non posso…» rielaborati in L’ora del tempo. Proprio sul filo del confronto tra un Orelli critico montaliano e uno poeta montalista, occorre fermarsi al capitolo degli Accertamenti intitolato «L’anguil- la»;19 Orelli vi analizza, da par suo, la trama fonica all’inizio de I limoni, che si

158 Un’altra fedeltà: Orelli e Montale snoda tra sintagmi e vocaboli come pozzanghere mezzo seccate, ragazzi, viuzze, gazzarre, azzurro:

Io per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in poZZanghere meZZo seccate agguantano i ragaZZi qualche sparuta anguilla: le viuZZe che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gaZZarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’aZZurro: più chiaro si ascolta il susurro dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, e i sensi di quest’odore che non sa staccarsi da terra e piove in petto una dolcezza inquieta (vv. 4-17).

Non occorre trovare ricombinati tutti questi elementi per riconoscere, in certi passi di Orelli, l’eco montaliana de I limoni: si sente, fin dal titolo, in Dove i ragazzi ammazzano il gennaio (L’ora del tempo); si avverte forse ancora, in lonta- nanza, in Sinopie, nei primi versi di A un amico («Perché la vacca / quella di pura razza bruna / svittese e quella / pezzata»);20 si fa più chiara in Spiracoli, nella «gran gazzarra» delle ghiandaie («Alter klang» II). Torna infine, forte come e più che all’inizio, in Il collo dell’anitra: «una vasta pozzanghera s’attizza al sole. Là, verso il centro del campo, pochi ragazzini si contendono il pallone nuovo» (Ha smesso di piovere a dirotto…). Questo a riprova del fatto che l’emanciparsi di Orelli dalla poetica montaliana non implica una rinuncia al dialogo e in certi casi all’emulazione verbale; anche nelle ultime raccolte le tracce montaliane, cer- to meno sistematiche, sono comunque molto riconoscibili (a volerle scorgere) e niente affatto inerti: di qui il senso della “fedeltà” che Orelli stesso dichiarava nella dedica sull’esemplare di Sinopie e che basta a respingere l’invito a sbaraz- zarsi di Montale quando si leggono le poesie maggiori di Orelli.21

5. Certo, all’altezza di L’ora del tempo, i legami sono ancora molto più forti. Oltre ai luoghi già segnalati, ne vanno ricordati alcuni altri, tipologicamente rilevanti. Marcata ad esempio è la presenza di moduli prolettici e di elencazioni ellittiche, che possono ispirarsi ai versi montaliani; l’elencazione, in particolare, è funzionale alla poetica dell’oggetto assorbita dal primo Orelli. Agli esempi già ricordati (Sera a Bedretto, Nel cerchio familiare), si può aggiungere qui, sempre da L’ora del tempo, Lettera da Bellinzona:

Una fascina d’anni, una collina. E il castello più alto.

159 Niccolò Scaffai

Tutto il grigio all’altezza dei colombi, tutto il verde che scorre fino al grigio… Ma oggi, senza desiderio, avendoti come un’icone dentro il portafogli, con incredibile piacere seguo la verde traiettoria d’una stella filante, scoccata dalla mano d’un ragazzo fermo a metà dell’albero della cuccagna, pago di starsene così. L’aria rosata che si raccoglie nella sua camicia, il vespro a poco a poco l’ha versata su tutta la collina (vv. 1-15).

Meno generiche sono certe clausole ritmico-sintattiche: per esempio, quella formata dall’avverbio “quasi”, seguito da una negazione che entra in una se- quenza quadrisillabica: come «In quest’alba che quasi non odora» (L’ora esatta, in L’ora del tempo), da accostare ad analoghe clausole montaliane negli Ossi di seppia, quali «nell’aria che quasi non si muove», o «che quasi non dà suono». Montaliana è anche la clausola, specialmente a fine strofa, formata da una pre- posizione relativa seguita da un costituente verbale trisillabico,22 come in «Godi se il vento…»: «nel fantasma che ti salva». Se ne trovano vari esempi in L’ora del tempo: «Ogni sera c’è un vecchio che si sporge», «se ancora non c’è verde che le accolga», «Non spaventare il figlio che maturi». Un caso in cui si “festeggia” (adotto un verbo caro a Orelli critico) il riuso del lessico montaliano, in un contesto tematicamente estraneo ma sintattica- mente aderente alla fonte, è la poesia Per Agostino (in L’ora del tempo), i primi versi della quale riecheggiano l’incipit di Su una lettera non scritta (in Finisterre):

Per un formicolìo d’albe, per pochi fili su cui s’impigli il fiocco della vita e s’incollani in ore e in anni, oggi i delfinia coppie capriolano coi figli? (Su una lettera non scritta, vv. 1-5, corsivi miei)

Per noi silenziosi e freddi nelle mani che toccano le canne del fucile chiamerà la luna il tasso fuori della tana? Ora sono fuggiti gli scoiattoli che si rincorrevano a coppie sui pini. (Per Agostino, vv. 1-6, corsivi miei)

Raramente Orelli sembra spingersi all’assimilazione del Montale più irto, al trobar clus dei versi più cifrati di Finisterre e della Bufera. Tra i pochi casi c’è

160 Un’altra fedeltà: Orelli e Montale forse quello di Natale 1944 (che reca in epigrafe un passo da Isaia: «quare rubi- cunda sunt vestimenta Tua?»: più che il contenuto, è la fonte mistico-teologico a richiamare certe zone della Bufera):

Ma qui la neve orma alcuna non serba del sangue da Te sparso, d’ogni sangue dagli uomini versato (vv. 2-4).

La memoria diretta è de Gli orecchini («Non serba ombra di voli il nerofumo / della spera»), eventualmente incrociata con Iride: «il Volto insanguinato», «l’o- pera tua (che della Sua è una forma)».

6. Se, nella maggior parte dei casi su cui ci siamo fermati, Orelli si mostra soli- dale al suo modello, in altri sa reagirvi, per esempio scendendo di tono e produ- cendo così un abbassamento che quasi anticipa il “rovescio” del Montale tardo, da Satura in poi.23 È quello che sembra accadere in Lettera da Bellinzona, già prossima, per la finzione epistolare, a Notizie dall’Amiata; ma la grande lirica delle Occasioni pare ironicamente richiamata soprattutto dall’«icone dentro il portafogli», quasi una versione tascabile dell’icona dal «fondo luminoso» delle Notizie montaliane. Fuoruscito «dal cono d’ombra di un culto totalitario»,24 o totalizzante, Orel- li, da Sinopie in poi, dà uno sviluppo diverso alla propria poetica e al proprio stile: si lascia alle spalle il sistema delle Occasioni e di Finisterre, orientandosi verso toni e forme postlirici, verso uno sperimentalismo temperato, ora vicino alla linea lombarda (in cui venne precocemente inserito da Anceschi), ora in dia- logo con autori anche non italiani. La tematica civile e un più diretto impegno nel presente contribuiscono a dare sostanza a questa svolta, grazie alla quale la voce di Orelli, già forte, diventa riconoscibile nel panorama non solo italiano e svizzero, ma europeo. In un contesto così rinnovato, la funzione di Montale retrocede: non è più il canone (vorrei dire: il Super Io poetico di Orelli) ma resta un ascendente. Riemergono qua e là dei tratti, come i connotati familiari sul volto di un parente; se ne studiano le posture, magari quelle più marcate e valorizzabili sul piano sperimentale, per rifarle come omaggio e insieme come caricatura: così avviene, mi pare, per le varie poesie “a colata unica”, cioè i lun- ghi componimenti di un solo periodo sintattico, sull’esempio di Corno inglese e soprattutto dell’Anguilla. È un omaggio distintivo di questa natura la poesia che apre Sinopie, cioè La trota che – come ha scritto Pietro De Marchi – «può essere letta come una “riscrittura”, più in sordina, meno ambiziosa se si vuole, meno carica di simboli, dell’Anguilla […]. Quello della Trota è insomma, a livello for- male e tematico, un Orelli postmontaliano ma non antimontaliano».25 Sono invece più occasionali connotati montaliani certe locuzioni come «gli porti fili d’erba» A( Giovanna, sulle capre), memore di Lindau (nelle Occasioni): «La rondine vi porta / fili d’erba»; o come «s’accende di sole / sull’omero de- stro», da confrontare con L’estate (ancora Le occasioni): «Ecco l’òmero acceso,

161 Niccolò Scaffai la pepita / travolta al sole». Suona montaliana, inoltre, la clausola di A un cat- tolico («fa’ che non vi rintocchi una frivola pendola. Addio»), tra L’ombra della magnolia… (il verso finale, con lo “scalino” prima di “Addio”: «saltato in secco al novilunio. Addio») e Costa San Giorgio («Se una pendola rintocca / dal chiuso porta il tonfo del fantoccio», vv. 30-31). Non mancano però, anche in Sinopie, episodi di montalismo più pervasivo, come in Dopo Lucca, che può apparire un abilissimo pastiche tematico-ritmico- lessicale su note montaliane:

Tu credevi che fosse uno scherzo del vento controcorrente: fitti argenti, scompigli d’un attimo, là, presso gli scogli del molo. Ma erano le acciughe: lontano dai pesci più grossi Facevano bizze stupende fingendo le rondini quando s’impennano nel volo e virano, le foglie dei gàttici, la gola del ramarro. le punte dei piedi d’Ilaria toccate da una luce di bufera.

Ma i versi orelliani che, sul piano tipologico, meglio illustrano la nuova fun- zione di Montale sono quelli in cui emerge il tono ironico, se non satirico, già annunciato discretamente in poesie più antiche, come nella citata Lettera da Bellinzona. L’ironia non investe il modello, ma conta sulla sua riconoscibilità con fini parodici: è un Montale, dunque, che non provoca ansia di influenza, ma è festeggiato ormai per la proverbialità dei suoi versi. Così, ad esempio, in A un piccolo borghese:

Rifiuto lo stupido iddio che ti sei fatto a tua immagine, l’idolo che t’aiuta a far tornare i conti, ma ti comprendo, tu sei della razza di quelli che né “peste” né “cardinale” riescono a mutare (vv. 11-14), dove si sente un’eco da Gli orecchini («fuggo / l’iddia che non s’incarna») e da Falsetto («la razza di chi rimane a terra»); si consideri, peraltro, che subito prima dei versi citati la poesia di Orelli descrive «bottiglie vuote al sole»: non proprio «cocci aguzzi», ma l’evocazione dell’imagery montaliana è comunque prossima. E a proposito d’ironia, con versi come quelli di (Infallibilità. Buchi. Talidomide), siamo in piena atmosfera da Satura, con le venature scettiche e umoristiche di una teologia da gazzetta tipicamente tardo-montaliana: «Venuta la canicola. Ne / profitta il Sant’Uffizio / per mettere i puntini sugl’i». Queste linee o tendenze proseguono senza variazioni sostanziali nelle ultime due raccolte, Spiracoli e Il collo dell’anitra; a cominciare dalla probabile memo- ria montaliana che si affaccia all’inizio di Spiracoli, in «Alter klang»:

162 Un’altra fedeltà: Orelli e Montale

Era il tempo dei lunghi riposi, dei corvi turchini sempre ricchi di scuse sui sentieri da capre. Sembrava facile allora aggirarsi fra i Chiodi della Passione, se pure più d’un tronco inaridito pareva un Sebastiano trafitto in fretta da troppe frecce, e, con colpi di ramo intorno intorno (vv. 1-6), dove «i sentieri da capre» duplicano il quasi identico sintagma in Voce giunta con le folaghe e la locuzione «Sembrava facile…» può rimandare sia a Il balcone («Pareva facile giuoco…»), sia a L’ombra della magnolia… («Spendersi era più facile»), che sembra evocata anche dal verso «Era il tempo dei lunghi riposi»: oppositio in imitando rispetto ai vv. 4-5 della lirica montaliana: «Non è più / il tempo dell’unísono vocale». La tecnica dell’accertamento, sperimentata su Montale proprio negli anni di stesura di Spiracoli, permette di isolare qualche altro luogo, pur distante per situazione e tema dalla fonte verbale. Come nella sesta poesia di Cardi: «Col silenzio di cento ramarri / e tremito a sommo d’avide punte di luppolo»; nella quale, tralasciando il già montaliano e dantesco «ramarro», quel che più conta è la combinazione di «tremito» e «a sommo», che recupera dagli Ossi un verso di Falsetto: «Esiti a sommo del tremulo asse» (v. 46). È da notare che le note di Spi- racoli, pur generose nel suggerire fonti, non fanno mai menzione di Montale, a conferma di come l’allusività, quando c’è, dipende dalla pratica verbale più che dall’intenzione di dialogare con un modello. Eppure, saremmo ancora tentati di seguire nei guizzi delle Anguille del Reno la scia dell’Anguilla montaliana che già, con maggiore evidenza, aveva influito sullaTrota di Sinopie…26

7. L’ultimo caso su cui fermarsi riguarda, in Il collo dell’anitra, l’unica apparizio- ne di Montale, nominato come figura empirica in Raccontino 1947. Per la verità, il personaggio principale della poesia è un altro scrittore, ; ma nella seconda parte del Raccontino si legge:

Volevo un picchio verde sul mio tavolo e andai nel bosco per prenderlo e l’ebbi presto nel mirino: tranquillo in cima a un larice, taceva, ma un attimo prima che sparassi fuggì con quel suo trillo che tanto piacque a Montale (II, vv. 1-6).

Capita – è successo del resto allo stesso Montale – che un poeta, alla svol- ta delle sue ultime opere, chiami per nome i suoi autori. Di quale trillo parla Orelli? Alla memoria tornano «il trillo d’aria» di «Infuria sale o grandine?…», il «trillo che punge le vene» di Nel parco, o magari «la capinera che dà un trillo» nel Quaderno di quattro anni. Ma viene da pensare soprattutto alle situazioni di caccia evocate in molte poesie di Orelli, come Lo stagno, con il volo del picchio

163 Niccolò Scaffai e il colore verde, già lì associati. C’è da ricordare inoltre che il 1947, evocato nel titolo del Raccontino, è anche l’anno in cui Orelli incontrò Montale, che tenne in gennaio una conferenza a Lugano. Ne dà testimonianza lo stesso Orelli nel brano L’ozono di Montale, citato qui all’inizio;27 a quella circostanza si riferisce anche una fotografia, che ritrae al centro Montale e ai lati, tra gli altri, Pino Ber- nasconi, Gertruden Frankl e, svettante alla destra sopra tutti gli altri, un giovane Orelli.28 La donna, Gertruden, è Gerti, la protagonista della celebre poesia delle Occasioni. Montale, come racconta Orelli, «non la vedeva da anni, e quando, durante la conferenza al Liceo, se la ritrovò d’improvviso sotto gli occhi giusto nel momento in cui parlava della famosa lirica, s’interruppe». «Pensa che non le ho mai dato un bacio – avrebbe confessato quella stessa sera Montale – era come un uccellino […]. Scriverai del mio incontro con Gerti». E Orelli ne avrebbe scritto, nel suo breve ricordo. Ma certo anche in quel trillo «che tanto piacque» al poeta c’è il segno di un incontro, di un’altra evocazione del lontano ’47: l’in- contro con Montale, con la sua proverbiale predilezione per gli animali curiosi da cui emanava la presenza assente delle sue ispiratrici. Il legame di Orelli con Montale non è, perciò, un oggetto di speculazione erudita, che sottrarrebbe all’uno e all’altro poeta l’impronta originale e irripe- tibile del genio (son questioni e timori che, dai tempi della critica di Croce ai positivisti, ci siamo lasciati alle spalle). Il punto è che per capire, talvolta anche letteralmente, Orelli e trasmetterlo, magari attraverso l’insegnamento, non si può fare a meno di Montale. Quel legame non è un limite, è il segno di un’altra fedeltà, alla poesia.

1 L’ozono di Montale, in G. Orelli, I giorni della vita, a cura di P. De Marchi, con la collaborazione di S. Soldini, Museo d’Arte, Mendrisio 2011, p. 49. 2 Ora in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Monda- dori, Milano 1996, p. 2042. 3 Il repertorio degli scritti di Orelli su Montale è ora più facilmente percorribile gra- zie alla Bibliografia degli scritti su Eugenio Montale (1925-2008), a cura di F. Castellano, S. D’Andrea, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012 e soprattutto grazie alla Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, con la collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni Ce- nobio, Lugano 2014. Limitandosi ai soli contributi a stampa (alcuni dei quali poi confluiti nel volume degli Accertamenti montaliani, il Mulino, Bologna 1984), si ricordano: Su una lirica di Eugenio Montale, in “Il Dovere”, 20 aprile 1950, p. 5 [lettura di Da un lago svizzero]; Let- ture di poeti. Poesie d’oggi [Montale, Cardarelli, Penna], in “L’educatore della Svizzera italia- na”, XCV (1953), 5-6, maggio-giugno, pp. 33-39; «L’upupa» e altro, in “Strumenti critici”, V (1971), 15, pp. 237-63; Aderenza di Montale, in “Scuola Ticinese”, IV (1975), 40, novembre, pp. 3-4; A un amico, in I poeti a Montale, Comune di Genova-Provincia di Genova, Genova 1976, pp. 16-17; L’anguilla, in Profilo di un autore. Eugenio Montale, a cura di A. Cima, C. Segre, Rizzoli, Milano 1977, pp. 70-90 [II ed. Bompiani, Milano 1996, pp. 57-77]; Tra le poesie dell’ultimo Montale, in “Bloc notes”, I (1979), 1, ottobre, pp. 93-108; Studi montaliani di Lonardi, in “Corriere del Ticino”, 20 dicembre 1980, p. 36 [recensione di G. Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Zanichelli, Bologna 1980]; Montale di Isella, in “Corriere del Ticino”, 11 aprile 1981, p. 36 [recensione di E. Montale, Mottetti, a cura di D.

164 Un’altra fedeltà: Orelli e Montale

Isella, Il Saggiatore, Milano 1980]; Eugenio Montale, in “Cooperazione”, 24 settembre 1981, p. 3; L’ozono di Montale, in Eugenio Montale. Immagini e documenti, a cura di C. Negri, con la collaborazione di G. M. Erbesato, Biblioteca Cantonale di Lugano-Libri Scheiwiller, Lugano- Milano 1985, pp. 11-12; Allibisco all’alba [accertamenti su Dante, Petrarca, Leopardi, Unga- retti, Montale, Sereni], in “Corriere del Ticino”, 6 febbraio 1988, p. 31; Per uno scandaglio montaliano, in “Corriere del Ticino”, 31 dicembre 1993, p. 50; Nel ricordo di Giorgio Orelli 15 liriche e un incontro fatale [su Finisterre], in “Giornale del Popolo”, 13 dicembre 1995, p. 32; Celebrando Montale, in “La Regione Ticino”, 12 ottobre 1996, pp. 1 e 30; Montale e Montale, in “Autografo”, XIII (1997), 34-35, gennaio-giugno, pp. 9-14; Un gioco per chi ama i gialli [sul Diario postumo], in “Giornale del Popolo”, 23 luglio 1997, p. 33; Montale, dopo, in “La Regione Ticino”, 28 luglio 1997, p. 2; La mostra non scioglie i dubbi [sul Diario postumo], in “La Regione Ticino”, 25 ottobre 1997, p. 35; Perle e sabbia dell’ultimo Montale, in “Moderna”, I (1999), 1, giugno, pp. 215-223; I falchi di Montale, in Del modo di insegnar presiedendo senza campanello. Studi in ricordo di Giulia Gianella, a cura di F. Beltraminelli, Liceo cantonale-Casagrande, Bellinzona 2006, pp. 181-188. 4 Mi riferisco qui in particolare agli studi di S. Agosti, Poesia italiana contemporanea, Bom- piani, Milano 1985 («il colore che guarda il Soggetto, è anche ciò che resta quando la forma dell’oggetto non esiste più», p. 86) e di M.A. Grignani, Deriva dell’identità, in Ead., La costanza della ragione. Soggetto, oggetto e testualità nella poesia italiana del Novecento, Interlinea, Novara 2002 («Orelli dichiara ugualmente la fine del soggetto ombelico dell’universo e dunque anche la fine della pienezza semantica dell’immagine o correlativo oggettivo», p. 103). 5 Così lo stesso Orelli nella voce “Febbraio” del postumo Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014. 6 Poeti del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978, p. 818. 7 G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2002, p. 324. 8 Cfr. P. Pellini, Il san buco e i sentieri da capre. Sulla poesia di Giorgio Orelli, in Id., Le toppe della poesia. Saggi su Montale, Sereni, Fortini, Orelli, Vecchiarelli, Manziana 2004, pp. 241-257. 9 S. Bozzola, Strutture strofiche e versificazione nella «Bufera», in Id., Seminario monta- liano, Bonacci, Roma 2006, p. 94. Sulla fortuna di questa figura sintattica in Orelli e in genere nella poesia postmontaliana, si veda ancora G. Simonetti, Dopo Montale, pp. 251 ss. 10 Rimando per quest’aspetto al mio Sul tempo in Montale (con un’interpretazione di Fini- sterre), in Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, a cura di E. Graziosi, Clueb, Bologna 2008, pp. 109-127. 11 Lo nota già G. Simonetti, Dopo Montale, p. 338. 12 Cfr. Y. Bernasconi, «Afferrati ad un lembo / della vita». Qualche spunto per leggere «Nel dopopioggia» di Giorgio Orelli, in “Bloc notes”, 64 (2014), pp. 39-44. Di Bernasconi si veda l’edizione commentata di L’ora del tempo in cui sono annotati vari riscontri intertestuali con l’opera di Montale: il lavoro, ancora inedito per il momento, è stato discusso come tesi di dottorato all’Università di Friburgo nel giugno 2013 (direttore: Alessandro Martini). 13 I corsivi nelle citazioni dalle tre poesie sono miei. 14 V. Sereni, In margine alle «Occasioni» (1940, in Letture preliminari), ora in Id., Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 2013, p. 817. 15 Si veda il commento a Nel cerchio familiare nella sezione orelliana, a cura di G. Jori, nell’Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre, C. Ossola, Einaudi-Gallimard, Torino 1999 (poi, in edizione tascabile, Einaudi, Torino 2003: Novecento, tomo II, pp. 922-923). Dal canto suo, M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in “Autografo”, VI (1989), 19, p. 15, ha notato come i «prati intirizziti» si accostino ad analogo sintagma in Farfalla di Dinard, il racconto che dà il titolo alla raccolta di prose montaliane del ’56: «Era improbabile che l’algida estate bretone suscitasse dai verzieri intirizziti tante scin- tille tutte eguali, tutte dello stesso colore» (E. Montale, Prose narrative, a cura di N. Scaffai, Mondadori, Milano p. 226, corsivo mio).

165 Niccolò Scaffai

16 Su Nel cerchio familiare esiste un lungo autocommento in cui Orelli insiste in particolare sull’immagine dei «morti più vivi dei vivi»: «Il mio villaggio m’appariva come un luogo in cui i morti erano più vivi dei vivi; dalla qual cosa derivava non solo un’infinita pietà dei vivi e di me, sì anche, anzi soprattutto, uno stato d’animo per cui mi sentivo come al margine del nulla, in un’aria non giusta, in una luce non giusta, eccessiva, che tingevano d’assurdo il quotidiano, in modo insopportabile (come insopportabili sono certi disturbi detti, se non erro, psicomotorii, che precedono e accompagnano ogni esaurimento nervoso rispettabile). […] Venne anche il giorno che fu di nuovo possibile per me scrivere del mio paese: scrissi una poesia di nemmeno trenta versi, ma che mi sembrava lunghissima. Sono quattro strofe, o meglio momenti, diversi e inseparabili. Nella prima c’è soprattutto immobilità, tutto sembra raggelato in una luce fune- rea (ma scrivendo “in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo” pensavo a mia madre): “Una luce funerea, spenta / raggela le conifere / dalla scorza che dura oltre la morte, / e tutto è fermo in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo: / nel cerchio familiare / da cui non ha senso scampare”. Il secondo momento è occupato dai morti più vivi dei vivi. C’è un interno leventinese e un’allusione al mito (diciamo così) della razza bruna. (Le capre ingorde che accade di vedere d’inverno a Prato Leventina sono quelle dei dalpesi. Prato è il paese che per anni fu onorato dalla presenza della più bella vacca del cantone. Eccetera, eccetera): “Entro un silenzio così conosciuto / i morti sono più vivi dei vivi: / da linde camere odorose di canfora / scendono per le botole in stufe / rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti, / tornano nella stalla a rive- dere i capi / di pura razza bruna”. Il terzo momento comincia con un ma abbastanza improvviso (e isolato): pensare uno che, come per richiami interni, contempla. Io contemplo la vita, voglio dire una vita fuori di me, di ragazzi che sono anche proiezioni di me stesso ragazzo (ricordo non solo il gusto che tutti i ragazzi di questo mondo hanno dell’avventura, ma anche la situazione particolare dei pochissimi ragazzi del mio paese, la loro noia, il loro cercare e inventare e ubbidi- re ai richiami, ai carillons più impreveduti): “Ma, / senza ferri da talpe, senza ombrelli / per im- pigliarvi rondini; / non cauti, non dimentichi in rincorse, / dietro quale carillon ve ne andate, / ragazzi per i prati intirizziti?” È una sorte d’“allegro moderato”, cui segue un movimento molto lento. Infatti, l’ultima parte si compone di versi brevi e lunghi separati da punti fermi di natura più riflessiva che contemplativa». In questo stesso scritto, peraltro, Orelli usa anche il vocabolo “trabocchetto” (sia pure in un contesto diverso da quello dell’Arca montaliana: Orelli parla infatti di «trabocchetti crociani»). Lo scritto venne pubblicato in C’è un solo villaggio nostro, a cura di P.R. Frigeri, prefazione di F. Filippini, Edizioni Cenobio, Lugano 15 agosto 1972, pp. 137-141. Ringrazio per la segnalazione Pietro Montorfani, che ripubblica il testo in questi atti, alle pp. 291-293. 17 P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, p. 818. Anche E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005, riconduce a Montale (e a Pascoli) l’«esercizio nomenclatorio» di Orelli (p. 127). 18 Cfr. G. Simonetti, Dopo Montale, pp. 92-93. 19 G. Orelli, Accertamenti montaliani, pp. 79-94. 20 Del resto, nella nota di autocommento finale, Orelli riconnette questi versi proprio a Montale, più precisamente al Quaderno di traduzioni: «“pezzata” ecc. è insomma il rovescio di “i cieli bicolori, pezzati come vacche” di Hopkins nella versione di Montale (cfr. “La bel- lezza cangiante” nel Quaderno di traduzioni, Milano 1975)» (G. Orelli, Sinopie, Mondadori, Milano 1977: Note, p. 92). Si ricordi peraltro che A un amico era stata anticipata proprio nel volume I poeti a Montale (Genova, 1976): si veda qui, più sopra, la nota 3. 21 Cfr. A. Porta, Poesia degli anni settanta, Feltrinelli, Milano 1979, p. 76: «è possibile che Orelli sia stato molto vicino a Montale, come suggerisce la critica, ora mi pare che non vi siano più legami e che occorra sbarazzarsi, alla luce di quest’opera uscita felicemente nel decennio, di questa ottica ormai deformante». 22 G. Simonetti, Dopo Montale, p. 374. 23 L’ha notato già A. Roncaccia, Appunti per rileggere il primo Orelli, in Id., Il luogo delle muse. Saggi di letteratura contemporanea, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2010, pp. 37-41. 24 M. Raffaeli, Novecento italiano. Saggi e note di letteratura (1979-2000), Sossella, Roma 2001, p. 168.

166 Un’altra fedeltà: Orelli e Montale

25 P. De Marchi, Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Piero Manni Editore, Lecce 2002, p. 71. 26 Id., L’anguilla di Montale e le sue sorelle. Sulla funzione poetica della sintassi, in “Testo. Rivista di teoria e storia della letteratura e della critica”, n.s., XXVI (2005), 50, pp. 73-91. 27 Si veda anche la lettera di Montale a Contini del 10 febbraio 1947: «Ringrazia anche Orelli», scrive il poeta alla fine della lettera, incentrata sul suo recente soggiorno in Svizzera, «se lo vedi: poi gli scriverò» (Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano 1997, p. 161). 28 «Montale, frequentatore parco ma fedele di Lugano, vi si recò per una lettura dei suoi versi nel 1947, e nell’occasione gli amici gli fecero un poco di festa. Qui è ritratto dall’obiet- tivo di Vicari, in Viale Cattaneo. Da sinistra si notano: Pietro Salati, Renato Regli, Pino Ber- nasconi, Montale, Gerti, cui il poeta aveva dedicato una poesia tra le più belle (“Il carnevale di Gerti”), e Giorgio Orelli» (“Il Cantonetto”, XIV (1967), p. 14). In seguito, la foto è stata riprodotta in altre sedi, per esempio a corredo dell’articolo Aderenza di Montale e dello stesso pezzo L’ozono di Montale, in G. Orelli, I giorni della vita.

167

GIOVANNI FONTANA «Gli occhi attenti, contro stipiti saldi, duraturi» Orelli e Luzi

La relazione fra Giorgio Orelli e Mario Luzi, legati da un’amicizia e da una stima reciproca di cui offrono una parca, ma significativa testimonianza le let- tere recentemente esposte nella mostra mendrisiense intitolata Mario Luzi. Le campagne, le parole, la luce,1 è anche il rapporto fra due raffinatissimi lettori di poesia, che si sono esercitati, sia pure con frequenza e intensità disuguale, l’uno sulla pagina dell’altro. La prima parte del nostro intervento sarà dedicata a questo aspetto del sodalizio Orelli-Luzi, che riteniamo possa offrire delle indi- cazioni preziose anche in vista di un’analisi dei rapporti profondi esistenti fra i due percorsi poetici individuali.

Luzi è intervenuto una sola volta pubblicamente sulla poesia di Orelli, in una testimonianza apparsa sul “Corriere del Ticino” il 3 settembre del 1988 in occa- sione del conferimento al poeta ticinese del prestigioso Gran Premio Schiller.2 Lodato «il lavoro serio e concentrato di un’esistenza discreta», Luzi attira l’at- tenzione su quella che gli appare la qualità principe dell’Orelli poeta, lo «spirito di precisione», invocato non per «introdurre surrettiziamente il sigillo dell’el- veticità, a cui forse neppure lui darebbe eccessiva importanza, ma per esaltare quell’estrema delicatissima esattezza che consente a un qualunque dato del sen- so e dell’esperienza di essere per un attimo, in quell’attimo, vero, cioè pieno di esistenza (di realtà, diciamo pure) e tracimante quanto al significato». «Molto», prosegue Luzi, «il non detto perché il geloso e affabile dire» di Orelli «non si lasci sfuggire la grazia istantanea di quella precisione che lo fa essere tale. Quella di Orelli è essenzialmente un’assidua sottile fervida vigilanza affinché quella di- sattenzione non accada. La esercita sul proprio corso e discorso, essa a sua volta sottilmente li provoca e li alimenta. La istituisce come criterio e la mobilita come animatissima caccia nei suoi straordinari saggi, nelle sue mirabili analisi testuali, che rispondono così bene alle ragioni del suo poetare». L’Orelli di cui si ragiona in quest’articolo è essenzialmente l’autore di Sino- pie, colto alla vigilia della pubblicazione della sua terza, grande raccolta (Spira- coli, 1989); eppure le categorie critiche con cui Luzi misura la sua esperienza sembrano tarate ancora su L’ora del tempo, come rivelano gli impliciti rimandi all’“esercizio nomenclatorio”, alla “precisa designazione del dato” di ascenden- za pascoliana e montaliana, all’“intensità emblematica” (non simbolica) degli oggetti che la poesia ritaglia, su cui si sono soffermati molti lettori3 – categorie che, pur applicandosi in parte anche a Sinopie, non rendono pienamente ragio-

169 Giovanni Fontana ne della complessità e della ricchezza della raccolta. C’è, è vero, in questa pro- sa d’occasione un (timido) segnale d’apertura alle peculiarità del nuovo corso orelliano (il riferimento a un dire «affabile»), ma, nel complesso, lo sguardo del lettore appare (quasi nostalgicamente) volto all’indietro, a un Orelli che sempre più appartiene al passato.

Più folte le testimonianze dell’interesse critico di Orelli per Luzi, distribuite sull’arco di più di quarant’anni, a testimonianza di una “lunga fedeltà”. Il primo intervento appartiene al versante “sommerso” della produzione cri- tica di Orelli su cui ha attirato – meritoriamente – l’attenzione la ricchissima Bibliografia allestita da Pietro Montorfani in occasione del primo anniversario della scomparsa del poeta:4 su una delle testate locali con cui inizia a collaborare nel dopoguerra – “L’educatore della Svizzera italiana” – Orelli pubblica infatti nel 1954 una lettura di Notizie a Giuseppina dopo tanti anni (da Primizie del deserto, 1952)5 che sarà ripresa, qualche mese più tardi, con alcune varianti, su “La Fiera letteraria” e su “Gazzetta ticinese”,6 ma, come tutti i saggi di questa fase aurorale, non supererà il severo vaglio critico degli Accertamenti verbali. Diversa sorte tocca al secondo contributo critico luziano di Orelli, lo splen- dido Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, che appare su “Strumenti critici” nel febbraio del 19707 e otto anni più tardi, dopo essere stato «rimesso in can- tiere» dall’autore, subendo modifiche e aggiunte che ne fanno in gran parte un testo diverso, non solo è ammesso fra gli Accertamenti, ma è investito del com- pito di suggellare la raccolta a cui Orelli consegna la propria prima immagine coerente di critico letterario allineato alle tendenze più innovative della ricerca italiana ed europea.8 Nel 1995, infine, in occasione di una giornata di studio organizzata dall’Uni- versità di Firenze per celebrare gli ottant’anni del poeta, Orelli tiene una confe- renza intitolata significativamenteAccertamento luziano: «Dalla torre», che due anni più tardi sarà pubblicata negli atti del convegno.9 I tre (o, se si vuole, i quattro) interventi orelliani sono assai diversi nel taglio, nell’approccio critico ai testi (come vedremo fra breve), ma testimoniamo in ma- niera coerente di un interesse per la grande stagione post-ermetica di Primizie del deserto, Onore del vero, Dal fondo delle campagne e Nel magma: il che, sia detto subito (anticipando le conclusioni di un ragionamento che svilupperemo minutamente più avanti) non è senza importanza, dato che questo segmento del percorso di Luzi presenta più di un’affinità con la produzione orelliana degli anni cinquanta-sessanta, fra Poesie, L’ora del tempo e le prime Sinopie. L’Orelli lettore di Notizie a Giuseppina dopo tanti anni:10

Che speri, che ti riprometti, amica, se torni per così cupo viaggio fin qua dove nel sole le burrasche hanno una voce altissima abbrunata, di gelsomino odorano e di frane? 5

170 Orelli e Luzi

Mi trovo qui a questa età che sai, né giovane né vecchio, attendo, guardo questa vicissitudine sospesa; non so più quel che volli o mi fu imposto, entri nei miei pensieri e n’esci illesa. 10

Tutto l’altro che deve essere è ancora, il fiume scorre, la campagna varia, grandina, spiove, qualche cane latra, esce la luna, niente si riscuote, niente dal lungo sonno avventuroso. 15

è un critico attento alla dimensione formale dei testi, indagata con gli strumenti della critica stilistica e auscultata con l’orecchio del poeta. L’attacco del saggio è, da questo punto di vista, assai eloquente:

Luzi esita tra un linguaggio che non rifiuta, anzi sembra esigere l’“incompiuto” (sugge- rirei, per usare la metafora regalatami da Vittoria Guerrini, di pensare alla Pietà Ron- danini) e un linguaggio in cui il presupposto ideologico coincide rapido con una forma perfettamente conclusa, sferica: Primizie del deserto, forse il libro più importante, il suo punto medio, concilia un viaggio in queste due direzioni. Nella seconda cadono le liriche più brevi, come Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, componimento striato di un’angoscia esistenziale che par stemperarsi in una malinconia piena di nerbo. Voce d’uomo solo che assiduamente interroga e si confessa con toni dimessi (non crepuscolari), naturalissimi e insieme toccati da un’eleganza rara.

Il primum è dunque l’individuazione di un timbro di «voce» (vera parola- chiave del saggio) – il tono «limpidamente accorato» di un «canto che non sin- ghiozza», posto, fin dalle prime battute, sotto la costellazione di Petrarca e (più sorprendentemente) di Kafka.11 I paragrafi che seguono mirano da lato a illuminare il carattere metafisico- esistenziale del bilancio stilato dall’io lirico di Notizie, in cui il termine «vicissi- tudine […] si sfronda di ogni senso di esterna avventura» e fotografa una preca- ria condizione «dello spirito», sospesa «fra essere e non essere» («né giovane né vecchio»), e dall’altro a inventariare le strutture formali, gli stampi “naturalissi- mi” in cui è colata questa materia incandescente. Così la figura femminile che innesca la riflessione può dirsi «presente e insie- me remota», colta «auf halbem Weg, viva in una zona che lo stupore, un’insop- primibile gratitudine e la pietà di sé, nonché “l’ora del tempo”, isolano prodi- giosamente», sullo sfondo di «burrasche» che non hanno nulla di «pittoresco» e parlano esclusivamente all’«intelletto» – mentre i versi della prima strofa (una “quartina” dilatata «da una segreta piena che la fa traboccare») assecondano il ritmo del «cupo viaggio».12 Analogamente, l’apertura al «mondo» della strofa finale («a un mondo di cui tutto può rattristare, fuor del quale tutto può rattristare») è letta sulla falsariga

171 Giovanni Fontana del Dialogo di un folletto e di uno gnomo di Leopardi e di un passo di una lettera di Foscolo al Giovio come un riaffacciarsi agli «inganni consueti» e auscultata nella sua partitura ritmica, sottilmente mimetica.13 Nel passaggio da “L’educatore della Svizzera italiana” a “La Fiera Lettera- ria” il saggio è amputato di un paragrafo su cui val la pena di soffermarsi. Appe- na prima della conclusione, Orelli così descrive l’andamento della terza strofa:

Scorre, varia: verbi della «vicissitudine sospesa». «Tutto l’altro», rammentato con una se- rie così rapida di avvenimenti (come molti giorni in uno), riporta la mente a certe «liste» del Petrarca. Pure, tutto cade in un ordine preciso, sicché non è distrutta l’impressione d’uno che coglie una realtà vera fuori dalla mente e la registra senza violare le leggi che la governano. Una visione esatta: lo sguardo segue il fiume che scorre (tornano a memoria certo disegni di Leonardo), poi spazia sulla campagna (l’a di campagna ulteriormente aperto dall’a di varia). Ciò vale anche per «qualche cane latra».14

L’espunzione del riferimento al mondo «fuori della mente» rende più coe- rente la lettura “anti-naturalistica” (metafisico-esistenziale) del testo luziano, ma occulta un rilievo prezioso sulla scaturigine nascosta della poesia, su quel corto-circuito fra esperienza e scrittura senza il quale il verso, pur internamente modellato dentro gli stampi della tradizione (le condensatissime «liste» di Pe- trarca), non potrebbe darsi. È l’appunto di un poeta in margine al testo di un poeta, che illumina una zona del laboratorio creativo inaccessibile a occhi meno esercitati dove si definisce non solo una grammatica della visione, ma anche un rapporto fra immagini e suoni, che è indagato qui per la prima volta con un approccio cauto, sperimentale, non ancora affinato nella fucina formalistico- strutturalista. Questa riflessione che Orelli sembra fare fra sé e sé, ragionando su Notizie, certo, ma anche sulla propria poesia (così affine – come vedremo – a quella di Primizie del deserto…), può trovare spazio nella dimensione domestica e appar- tata della rivista pedagogica ticinese, ma non nella sede più esposta e prestigiosa della “Fiera Letteraria”, dove il critico torna a prevalere sul poeta.15 Nell’una e nell’altra sede manca qualsiasi riferimento esplicito al nume tu- telare del Luzi di Primizie, T.S. Eliot, da cui deriva l’immagine «né giovane né vecchio» che Orelli negli stessi anni di Notizie inserisce nella sua Prima dell’an- no nuovo…16

Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi rappresenta, da più punti di vista, un unicum all’interno degli Accertamenti verbali. Proviamo a definire i contorni di questa felice anomalia. In primo luogo, quello sul mentre è l’unico saggio fra quelli raccolti nel volume che insegua il percorso poetico di un quasi-coetaneo, intervenendo sull’attualità di una ricerca in fieri, con progressive messe a pun- to e tempestivi aggiornamenti. Secondo. Diversamente da tutti gli altri pezzi confluiti negli Accertamenti – e in parziale dissonanza rispetto all’introduzione teorica Ritmi, timbri, disegno del pensiero – il saggio pone sotto la lente d’in-

172 Orelli e Luzi grandimento non il lavoro sul significante, bensì la funzionalità di una struttura sintattica riconosciuta come mot clé della raccolta Nel magma17 (e delle raccolte limitrofe) e connessa con una nuova visione del mondo, con una singolare di- sposizione nei confronti del tempo, della natura, dell’altro.18 Terzo. Il discorso procede, per larghi tratti del saggio, per micro-esegesi testuali che mettono in primo piano l’istanza semantica, la struttura tematica dei componimenti in esa- me, quale si definisce, appunto, attraverso usi peculiari delmentre o di legamen- ti affini (una delle particolarità dell’articolo è, per inciso, quella di studiare non solo i casi in cui il mentre è effettivamente impiegato, ma anche tutti i contesti in cui la sua presenza è puramente virtuale e la congiunzione «funziona per il vuoto che lascia»). Non possiamo in questa sede ricostruire minutamente il diagramma di que- sto splendido saggio: basti dire che, dopo aver riconosciuto nell’impiego del mentre un comportamento stilistico premeditato che s’inserisce «nella prospet- tiva semiotica più caratteristica del nostro tempo», in relazione alle «esigenze di una profonda tematica dell’essere, del tempo, del movimento, ecc.», Orelli ne verifica presenza e funzionalità nell’Eliot deiQuattro quartetti, nel Montale di Satura e nel Rebora dei Frammenti lirici, per poi passare a una minuta classifica- zione dei suoi usi nel Magma. Ne emerge «l’inusitato potenziale concettuale ed evocativo-sentimentale» di una congiunzione che:

[è] segno certo di un’attenzione penetrante nella «trista scienza del male» (Manzoni), indizio del bisogno di spiritualità trascendente […] quanto dello sforzo di riempire i vuoti della memoria, ponte fra sé e l’altro (uomo), fra sé e sé non dissociati […], tra sé e la natura, la quale può improvvisamente riempire di sé il vuoto della mente e del cuore […], congiunzione che attesta l’impulso cristiano di umana solidarietà, per cui circola nelle poesie del Magma un senso pungente di pietà per l’umana condizione, per questo istante di vita incompleta, una profonda, fraterna comprensione attiva, una «finestra sulla strada», vorrei dire ripensando uno di quei raccontini così intensi di Kafka («Chi vive derelitto e vorrebbe avere amicizia, chi, avendo riguardo ai mutamenti dell’ora, del tempo, dei rapporti professionali e altro, vuol vedere un braccio qualsiasi al quale ap- poggiarsi: questi non potrà rimanere privo per molto d’una finestra sulla strada»), fulcro ubbidiente alle permutazioni dell’io lirico, lungo una successione di presenti in cui è possibile sentir confluire, agostinianamente, il passato e il futuro, […] momento di com- presenza […] per cui si tende alla più larga (a un’infinita) coordinazione col «resto»…19

Il saggio prosegue interrogando le raccolte immediatamente precedenti e quelle immediatamente successive al Magma, con rapidi e illuminanti sposta- menti sull’asse temporale. Da un esame di Dal fondo delle campagne emerge al- lora il nesso fra l’uso di mentre e il tema della «tolleranza dell’umano» (cioè della difficile apertura all’alterità), mentre l’esplorazione di Su fondamenti invisibili (la raccolta del 1971, che si va componendo sotto gli occhi di Orelli), permette di illustrare il nodo che lega il mentre a una poesia in cui l’esigenza narrativa, con le sue implicazioni riflessive, «prevale non di rado sull’impulso propriamen- te lirico», a un sermo merus che tende alla prosa, che si desublima…20

173 Giovanni Fontana

Da ciò che siamo venuti dicendo su questo saggio si possono intuire le ragio- ni dell’anomalia d’impianto segnalata in apertura: il saggio sul mentre ha queste peculiarità, crediamo, perché presuppone una forte implicazione di chi scrive nell’oggetto della propria riflessione critica, un coinvolgimento umano, emoti- vo, oltre che intellettuale, nella vicenda poetica che sta ricostruendo, in cui – in qualche misura – il critico-poeta si specchia, in cui riconosce qualcosa di sé, del proprio cammino poetico.

Tutt’altra prospettiva è quella in cui nasce l’«accertamento luziano» del 1995, dedicato a uno dei testi capitali della raccolta Dal fondo delle campagne (1965), Dalla torre:21

Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi nella sua cavalcata verso il mare, nella sua ressa d’armento sotto i gioghi e i contrafforti dell’interno, vista nel capogiro degli spalti, fila 5 luce, fila anni luce misteriosi, fila un solo destino in molte guise, dice: «guardami sono la tua stella» e in quell’attimo punge più profonda il cuore la spina della vita. 10 Questa terra toscana brulla e tersa ove corre il pensiero di chi resta o cresciuto da lei se ne allontana.

Tutti i miei più che quarant’anni sciamano fuori del loro nido d’ape. Cercano 15 qui più che altrove il loro cibo, chiedono di noi, di voi murati nella crosta di questo corpo luminoso. E seguita, seguita a pullulare morte e vita tenera e ostile, chiara e inconoscibile. 20 Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta.

Già il titolo del saggio è rivelatore: la lettura di Dalla torre invera, infatti, un metodo ormai collaudato e per così dire canonizzato dai volumi del ’78 (Accer- tamenti verbali) e dell’84 (Accertamenti montaliani),22 di cui esemplifica lumino- samente le linee guida. E l’oggetto di questo raffinato esercizio di lettura non è più, a vent’anni di distanza, il compagno di strada nelle cui vicissitudini umane e poetiche specchiarsi, ma lo scrittore ormai assurto a classico del Novecento, al pari di Montale, da affrontare con gli strumenti riservati ai poeti del suo rango. Da questo atteggiamento discendono affermazioni come questa, posta in calce a una lunga esplorazione della «cava di pietrisco» dei versi centrali di Dalla torre, densi di echi danteschi, petrarcheschi, leopardiani e addirittura manzoniani:

174 Orelli e Luzi

Sto evidentemente parlando di Luzi come d’un classico in quanto, si direbbe inevita- bilmente, disposto a usare le «risorse estetiche innate del linguaggio» (Sapir), peculiari della più illustre tradizione.23

Da questa matrice derivano i rilievi sulla struttura metrico-ritmica-timbrica del testo che costituiscono l’asse portante del saggio: la prevalenza dell’ende- casillabo, il legame assiale fra i versi lunghi che aprono e chiudono il componi- mento, attraverso la stazione intermedia del v. 11, che riprende anaforicamente l’incipit «Questa terra»; il valore della «zona mediana» compresa fra il v. 11 e il v. 13, caratterizzata da una singolare «concordia metrico-timbrica» che è messa in relazione con la tematica del nido, della terra materna in cui rifugiarsi; il valo- re delle iterazioni “ansiose” di cui è punteggiato il testo; ecc. Ai fini del nostro discorso conviene, però, ritornare su quel che nell’accerta- mento orelliano è solo una breve, per quanto densissima, introduzione all’eser- cizio di critica verbale: alludiamo alla rapida ricognizione del retroterra tematico di Dalla torre, che, sulla scorta di indicatori lessicali (la parola «vento», l’imma- gine degli “anni sciami”) e prosodici (la sequenza di sdruccioli) e di indizi relati- vi all’impianto del discorso (l’auto-allocuzione), consente a Orelli di ricondurre questo bilancio esistenziale sollecitato dal raggiungimento dell’Hälfte des Le- bens a prototipi rinvenibili nel corpus stesso della poesia luziana (Notizie a Giu- seppina dopo tanti anni in Primizie del deserto, Nell’imminenza dei quarant’anni in Onore del vero, Api in Dal fondo delle campagne), ma anche a modelli eliotiani (Gerontion per il motivo del «né giovane né vecchio», East Coker, dai Quattro quartetti, per il tema della «saggezza dell’umiltà» che illumina la comunione dei vivi e dei morti), benniani (Aprèslude per l’esortazione a immergersi nell’alterna vicenda della vita che l’io lirico rivolge a se stesso) ecc. Siamo, come ognun vede, nello stesso orizzonte tematico delineato dal saggio sul mentre.

Ora è tempo di verificare se le preferenze del lettore coincidano con quelle del poeta in proprio o, detto in altri termini, se le tangenze fra i percorsi poetici di Orelli e di Luzi – se esistono, come crediamo – si collochino veramente in quella stagione straordinaria per le sorti della poesia italiana che va dall’inizio degli anni cinquanta alla fine degli anni sessanta. Il campione su cui intendiamo soffermarci è costituito da due testi apparte- nenti all’ultima sezione de L’ora del tempo che, per certi versi, costituiscono un dittico: Nel cerchio familiare e Prima dell’anno nuovo.24 Nel cerchio familiare esce a stampa per la prima volta sulla rivista “Botteghe oscure” nel 1958,25 quindi è accolto (con varianti) nella plaquette omonima pub- blicata nel 1960 a Milano da Scheiwiller26 e di qui passa nel volume mondado- riano del 1962:

Una luce funerea, spenta, raggela le conifere dalla scorza che dura oltre la morte,

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e tutto è fermo in questa conca scavata con dolcezza dal tempo: 5 nel cerchio familiare da cui non ha senso scampare.

Entro un silenzio così conosciuto i morti son più vivi dei vivi: da linde camere odorose di canfora 10 scendono per le botole in stufe rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti, tornano nella stalla a rivedere i capi di pura razza bruna.

Ma, senza ferri da talpe, senza ombrelli 15 per impigliarvi rondini; non cauti, non dimentichi in rincorse, dietro quale carillon ve ne andate, ragazzi per i prati intirizziti?

La cote è nel suo corno. 20 Il pollaio s’appoggia al suo sambuco. I falangi stanno a lungo intricati sui muri della chiesa. La fontana con l’acqua si tiene compagnia. Ed io, restituito 25 a un più discreto amore della vita…

Organizzato in quattro unità strofiche di 7, 7, 5 e 7 versi di varia misura,27 il componimento esibisce una struttura chiusa, all’interno della quale la prima e l’ultima stanza individuano simmetricamente il punto di partenza e il punto d’arrivo di un’immersione “necessaria” «nel cerchio familiare / da cui non ha senso scampare»: dalla «luce funerea, spenta», che «raggela le conifere / dalla scorza che dura oltre la morte» a «un più discreto senso della vita». Il senso d’immobilità che caratterizza sia la prima («tutto è fermo in questa conca / sca- vata con dolcezza dal tempo»), sia l’ultima strofa («La cote è nel suo corno. / Il pollaio s’appoggia al suo sambuco…») consente di misurare con precisione il percorso compiuto dall’io lirico.28 Le stazioni intermedie di questo viaggio sono due, apparentemente di segno opposto. Dapprima la catabasi, l’evocazione dei morti, che qui prende le forme di una rassicurante, domestica epifania di trapassati «più vivi dei vivi», che «da linde camere odorose di canfora / scendono per le botole in stufe / rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti», ispezionano le stalle. La comunione dei vivi e dei morti ritrovata in una sequenza di gesti elementari che i trapassati, con un’invenzione straordinaria, sembrano insegnare o rammentare ai vivi…29 Poi – in forte antitesi, segnata dall’avversativa isolata in un verso a scalini e dalla

176 Orelli e Luzi forma interrogativa del discorso – l’apparizione ilare, estrosa, feroce dei ragazzi che corrono «per i campi intirizziti» e riconciliano l’io con una dimensione vi- talistica dell’esistenza, in un rapporto di continuità/discontinuità con il proprio passato.30 Di fatto, pur nella varietà delle manifestazioni, entrambe le scene contengo- no un elemento “attivo”, blandamente dinamico (il gesto, la corsa) attraverso il quale si compie il rito di purificazione che restituisce l’io «a un più discreto amo- re della vita», in cui l’immobilità paralizzante, dolcemente angosciante dell’inci- pit diventa equilibrio, ordine, adattamento alle cose e alle persone, accettazione dell’esistente.31 L’enumerazione asindetica che innerva la strofa finale, con il marcato parallelismo fra i membri sintattici e la (quasi) perfetta coincidenza fra unità logica e unità metrica, sembra visualizzare quest’armonia:32 in quest’otti- ca, l’«Ed» fortemente rilevato del penultimo verso può essere letto, in qualche misura, come l’equivalente del mentre luziano, «ponte tra sé e l’altro», strumen- to «di una più larga coordinazione con il resto», chiave d’accesso all’agognata «tolleranza dell’umano».

Il motivo della rivisitazione di un paesaggio e di un’umanità elementari – del proprio mondo e della propria gente, dei borghi della Toscana, ma anche delle Marche e dell’Umbria – è, come si sa, uno dei fili conduttori delle ricerca luziana degli anni cinquanta-sessanta, che in Dal fondo delle campagne s’intreccia alla commemorazione della madre appena scomparsa: il legame istituito fra la ma- dre e la sua terra consente, da una parte, di non soccombere al lutto e all’elegia, nella prospettiva di un naturale riassorbimento della morte nel ciclo naturale della terra come origine «che seguita a pullulare morte e vita»; mentre, dall’al- tra, proprio la madre è l’interlocutrice cui l’io lirico chiede, in componimenti come La fortezza, consiglio e guida per uscire dall’isolamento, per evadere dalla sua «cattività» e dal suo «regno», aprendosi alla «tolleranza dell’umano».33 Né mancano contesti in cui la parusia – “reale” o solo auspicata – della madre si col- loca in scenari domestici che possono ricordare le stanze di Nel cerchio familia- re: si pensi per esempio a Erba («Non lasciare il governo della casa, / apri le sue finestre dall’interno, / fa’ che esali ed inali in questo vento / l’eternità che tu re- spiri. Dove / non è molto eravamo ancora tutti, / poni ciascuno al proprio posto, spezza / il pane, partisci il cibo eterno») o a Il duro filamento («… quella voce / con un tremito appena più profondo, / appena più toccante ora che viene / di là dalla frontiera d’ombra e lacera / come può la cortina d’anni e fora / la col- tre di fatica e d’abiezione, / cerca il filo del vento, e vi si affida / finché il vento la lascia a sé, s’aggira / ospite dove fu di casa, timida / e spersa in queste prime albe dell’anno»).34

Più stringenti sono però i legami con il secondo elemento del dittico che, in un certo senso, rovescia gli esiti di Nel cerchio familiare. Prima dell’anno nuovo ap- pare in una prima versione di diciotto versi (coincidenti con l’attuale sezione II) nel volumetto omonimo del 1952, raggiunge la sua forma definitiva in occasione

177 Giovanni Fontana della pubblicazione su “Botteghe oscure” dell’agosto 1958 (dove per la prima volta è affiancato a Nel cerchio familiare) e di qui migra, con il suo gemello, nella plaquette scheiwilleriana Nel cerchio familiare del 1960 e quindi nell’auto- antologia mondadoriana del 1962. Questo lungo componimento è diviso in due sezioni, a loro volta articolate in due quadri separati da uno spazio bianco:35

«Wer redet, ist nicht tot» (Benn, Kommt) I Ancora una vigilia mi trattiene: leggero, gli occhi attenti, contro stipiti saldi, duraturi. Neve rappresa ai cigli delle case, nell’orto il sambuco in gramaglie 5 e l’alveare, vuoto, o il contrario, d’api; poi vortice di grani in cui nulla si muove fuor che l’arbusto emerso dal ricordo d’una caccia remota, senza preda.

Chi entra, e parla: «Se ti laverai 10 diventerai più bianco della neve», non è morto: con gesto giovanile benedice la casa. Il ragazzo che ieri andava sui trampoli qua e là oggi reca un cestello di bianchi dolci all’anice. 15 Ravvolti nell’odore natalizio del pino – fronda, resina del nostro bosco intatto – nulla, o quasi, sappiamo dell’issopo. Risaliremo a mezzanotte il colle, 20 sotto il portico buio ci faremo gli auguri, gli stessi della fine e del principio.

II Il vischio sull’armadio; la madre che ha in grembo un mucchio di ricordi senza polpa; (dietro la testa di mia madre gli alberi 25 di ciliegie e marene tratteneva, ieri, un cielo stupito di sorridere); la bottiglia (sciroppo di sambuco); ma la stufa si lagna d’un intoppo. Nasce un odore, par d’acetilene, 30 e San Silvestro viene, spazza il destro.

È caduta una bacca, ho pensato la tua bocca serrata; mi sono guardato nello specchio: né giovane né vecchio, più che abete 35

178 Orelli e Luzi

larice, m’allontana l’inverno in una cenere d’aghi ove ronza accanito un moscone. Prima dell’anno nuovo non farò su questo tema alcuna variazione. 40

Come nella poesia “gemella”, trasparenti richiami fra incipit ed explicit con- feriscono al discorso una struttura circolare, “chiusa”: il resoconto dell’ennesi- ma immersione «nel cerchio familiare» è, infatti, aperto da «Ancora una vigilia mi trattiene» e suggellato, simmetricamente e quasi chiasticamente, da «m’allon- tana / l’inverno in una cenere / d’aghi ove ronza accanito un moscone», che suo- na come il riconoscimento di uno “scacco” (cui fa eco, su un piano per così dire “metapoetico”, l’affermazione conclusiva «Prima dell’anno nuovo non farò / su questo tema alcuna variazione» che rovescia o annulla il proposito di “parlare per non morire” affidato all’epigrafe benniana «Wer redet, ist nicht tot»).36 Nella sezione I il primo quadro indica l’angolazione da cui è osservato il mi- crocosmo contadino-alpestre: la «vigilia» di capodanno «trattiene» l’io «legge- ro, gli occhi attenti, / contro stipiti saldi, duraturi», nell’atteggiamento insieme partecipe e distaccato di chi osserva per capire e nello stesso tempo per ricavare da ciò che vede gli “ancoraggi certi” di cui non dispone. Segue un’enumerazione asindetica/polisindetica di frammenti di paesaggio e di oggetti che identificano quel mondo, inventariato caleidoscopicamente («l’alveare, vuoto o il contrario, d’api», «… nulla si muove / fuor che l’arbusto emerso dal ricordo / d’una caccia remota, senza preda»). Il lessico, tendenzialmente denotativo, s’increspa solo in due punti («sambuco in gramaglie», «vortice di grani»). Dopo lo spazio bianco, il secondo quadro introduce delle figure umane (l’anonima voce giovanile che benedice la casa e parafrasa – forse ironicamente – il salmo 51,37 il ragazzo che «ieri andava… sui trampoli» e «ora reca un cestello di bianchi dolci all’anice», il gruppo dei parenti «ravvolti nell’odore natalizio / del pino» che risalirà il colle per gli auguri di rito) che sembrano veramente appartenere, come suggerisce Marcel Raymond,38 a un mondo pre-cristiano «che nulla o quasi» sa «dell’isso- po» (il fiore della passione di Cristo) e che guarda, se mai, a un paradiso terre- stre quasi pagano (il «nostro bosco intatto»). Nella seconda sezione l’articolazione in due tempi coincide con uno sposta- mento dell’obiettivo dalla madre (primo quadro) all’io lirico (secondo quadro). In entrambe le sequenze, colpisce l’andamento enumerativo, che si appoggia a una sintassi rigorosamente paratattica: nel primo movimento gli elementi alline- ati sono costituiti per lo più da frasi nominali, nel secondo da brevi proposizioni incardinate sulle forme verbali, poste sempre in apertura e collegate fra loro anche fonicamente. Da ciò discende la diversa coloritura delle enumerazioni: nel primo tempo l’elenco parifica nella sincronia, in un’a-temporalità “materna” elementi vegetali e naturali (blandamente animati: «un cielo stupito di sorri- dere»), presenze umane (scarnificate, svuotate, reificate: «la madre che ha in grembo / un mucchio di ricordi senza polpa») e oggetti (la «bottiglia (sciroppo

179 Giovanni Fontana di sambuco)», la «stufa» borbottante; mentre nel secondo la sequenza di verbi incaricati di registrare in maniera apparentemente incoerente micro-eventi («È caduta una bacca»), collegamenti mentali («ho pensato / la tua bocca serrata»), riflessioni e bilanci esistenziali («mi sono / guardato allo specchio…») suggeri- sce un senso di immediatezza, di prossimità, ma anche di disorientamento. È come se il soggetto – in una precaria condizione di passaggio («né giovane né vecchio, più che abete / larice») – faticasse a elaborare i dati dell’esperienza, a fare chiarezza su di sé, a ricavare dal «cerchio familiare» primigenio e “sospeso” le certezze di cui è in cerca, il «più discreto amore della vita» che sembrava pro- mettere (donde la dolente dichiarazione di resa che chiude il componimento…).

In questo caso il collegamento con la poesia di Luzi – e con quella del suo “mo- dello” Eliot – è esplicito, come se l’Orelli perplesso e disorientato di questa Häl- fte des Lebens sentisse il bisogno di appoggiarsi alla saggezza di due compagni di viaggio: l’espressione «né giovane né vecchio» rimanda, infatti, a un verso della strofa centrale di Notizie a Giuseppina dopo tanti anni:

Mi trovo qui a questa età che sai, né giovane né vecchio, attendo, guardo questa vicissitudine sospesa; non so più quel che volli o mi fu imposto, entri nei miei pensieri e n’esci illesa. che a sua volta riprende l’epigrafe shakeasperiana di Gerontion (1920) di Eliot,39 a cui rinviano (secondo Angelo Jacomuzzi) anche l’espressione «mi trovo qui» e il «regesto di varia quotidianità» dell’ultima strofa.40 La cronologia porterebbe a escludere l’ipotesi (formulata da Gilberto Lonardi)41 di una dipendenza diretta di Orelli da Luzi e ad accreditare piuttosto la tesi di una comune discendenza eliotiana (per cui parla, sia pur indirettamente, un passo dell’accertamento su Dalla torre).42 Qualunque sia la “fonte”, le modalità dell’appropriazione orelliana appaio- no intermedie fra la citazione e l’assorbimento: l’immagine di Gerontion – o di Notizie a Giuseppina dopo tanti anni – passa, infatti, intatta (per le ragioni che abbiamo detto) in Prima dell’anno nuovo, ma è subito tradotta nel linguaggio oggettivo dell’Ora del tempo dall’apposizione «più che abete / larice», che dice fragilità, precarietà, anche in relazione alla «cenere / d’aghi» dei versi successivi.

Un confronto fra Notizie e Prima dell’anno nuovo che prenda le mosse da que- sta immagine condivisa – e tragga la sua legittimazione anche dalla profonda sintonia con i versi luziani testimoniata dalle pagine saggistiche su cui ci siamo soffermati nella prima parte del nostro intervento – fa emergere un tratto che ci pare di poter definire “tipicamente orelliano”: alludiamo alla “discrezione” con cui è steso questo bilancio esistenziale. Se comune a Luzi e Orelli è la par- ticolare disposizione determinata dalla maturità sopravveniente, «un atteggia-

180 Orelli e Luzi mento di distacco e di contemplazione, un prevalere del guardare sul vivere»,43 profondamente diverso è, infatti, l’impianto del loro discorso: mentre Luzi al- terna momenti fortemente personali e intimi (collocati, non a caso, nel cuore del testo: «… attendo, guardo / questa vicissitudine sospesa; / non so più quel che volli o mi fu imposto, / entri nei miei pensieri e n’esci illesa») a momenti più oggettivi, di apertura a una storia dominata dalla ripetizione («Tutto l’altro che deve essere è ancora») e a una natura attraversata da un movimento ciclico («… il fiume scorre, la campagna varia, / grandina, spiove…»), nella partitura di Prima dell’anno nuovo l’io è confinato ai margini del componimento, che è tutto occupato, nella lunghissima parte centrale, da un’esplorazione o, meglio, da un inventario del «cerchio familiare» – il quale, tuttavia, per il modo in cui è costru- ito (le enumerazioni, gli elenchi, il ricorso alla paratassi, il lessico scarsamente metaforico) ci dice molto sul soggetto che lo contempla, sul suo smarrimento e sulla sua perplessità. Viene in mente, a questo proposito, ciò che Mengaldo dice in apertura del bel ritratto pubblicato in Cent’anni di poesia nella Svizzera italiana a proposito di un Orelli «poeta dell’attenzione alla vita (a compensare una profonda disat- tenzione esistenziale): vita imparzialmente umana, vegetale, anche minerale»� – per cui si potrebbe dire, con una battuta, che questo è l’unico modo in cui un poeta disattento alla dimensione esistenziale può stilare un bilancio esistenziale. Nei decenni successivi le consonanze fra i due poeti saranno numerose (nell’apertura a scenari di ordinaria quotidianità, nel frangersi del discorso in cadenze dialogiche, nel dilatarsi prosastico dei versi,45 nell’accostamento di elementi linguistici bassi e alti, nel peculiare riuso di Dante, in certe forme di poesia-pensiero,46 ecc.), ma, nel complesso, più generiche, come potrebbe di- mostrare, per esempio, un confronto fra liriche di ambientazione simile ma dagli esiti diversissimi come In poco d’ora (da 6 poesie, 1965) e Tra notte e giorno (da Nel magma, 1963)47 o l’analisi della “storia interna” di un componimento come Di passaggio a Villa Bedretto in cui si misura diacronicamente il progressivo al- lontanamento di due traiettorie poetiche per alcuni anni così affini.48

1 Una lettera di Luzi a Orelli del 18 giugno 1977 (conservata nell’Archivio Orelli di Bellinzona) è riprodotta nel catalogo della mostra Mario Luzi. Le campagne, le parole, la luce, a cura di S. Verdino, con testi di C. Ossola, S. Verdino. G. Fontana, G. Uzzani, Casa Croci, Mendrisio 2014, a p. 39. A queste testimonianze si aggiungono i documenti esposti, a cura di Liliana Orlando e Pietro Montorfani, durante il convegno bellinzonese. 2 M. Luzi, Una sottile vigilanza, in “Corriere del Ticino”, 3 settembre 1988, p. 31. 3 Si veda, in particolare, la persuasiva ricostruzione del percorso di Orelli proposta da Pier Vincenzo Mengaldo in G. Bonalumi, R. Martinoni, P.V. Mengaldo, Cento anni di poe- sia nella Svizzera italiana, Armando Dadò Editore, Locarno 1997, pp. 189-197. 4 Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, con la collaborazione di Y. Ber- nasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014. 5 G. Orelli, Letture di poeti. Sopra una poesia di Mario Luzi, in “L’educatore della Sviz- zera italiana”, XCVI (1954), 5-6, maggio-giugno, pp. 43-44.

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6 Id., Voce d’uomo solo, in “La Fiera Letteraria”, IX (1944), 33-34, 14 agosto, p. 5, e, con lo stesso titolo, in “Gazzetta Ticinese”, 31 agosto 1955, p. 2 (da cui sono tratte le nostre citazioni). 7 Id., Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, in “Strumenti critici”, IV (1970), 1, febbra- io, pp. 92-105. 8 Id., Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, in Id., Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978, pp. 201-225. Nella versione in volume il saggio è aggiornato agli sviluppi più recenti della ricerca poetica di Luzi (già “radiografati” nella bella recensione a Su fondamenti invisibili pubblicata sulle pagine del settimanale ticinese “Cooperazione”, 29 luglio 1971, p. 8) e arricchito di alcuni paragrafi inediti sul ruolo di Rebora nella genesi del mentre luziano. 9 Id., Accertamento luziano: «Dalla torre», in Per Mario Luzi, Atti della giornata di studio (Firenze 20 gennaio 1995) a cura di G. Nicoletti, Bulzoni, Roma 1997, pp. 73-83. 10 M. Luzi, L’opera poetica, a cura e con saggio introduttivo di S. Verdino, Mondadori, Milano 1998, p. 189. Il testo – informa Verdino nell’Apparato critico (p. 1447) – risale al 1949. 11 La strana congiunzione Luzi-Kafka si riproporrà, per altro, anche nel saggio sul «men- tre», come vedremo fra breve. 12 «Un attento esame prosodico riuscirebbe tutto a vantaggio della voce. Basti indicare come nel secondo verso l’accentazione s’adegua alla idea del “cupo viaggio”, “dopo tanti anni”; e gli ultimi due versi, con cesura a majore dattilica e sinalefe, trascorrono precipitosi». 13 «Il secondo, il terzo e il quarto verso dell’ultima strofa sono ritmicamente identici, con cesura a minore: in tal modo è sottolineato il ripetersi meravigliosamente monotono delle vicende naturali. La ripresa (“niente… Niente”) non turba nulla, non è una provocazione eloquente. Essa attesta un breve, energico quanto vano moto di ribellione: nada nada… e ci si aggrappa a un lembo della vita». 14 G. Orelli, Letture di poeti, p. 44. 15 Sul rapporto della propria poesia con «la realtà vera fuori della mente» si sofferma Orelli in una conversazione apparsa sulla rivista “Idra”, VI (1996), 13, pp. 87-93, col titolo Un’altalena che s’inciela. Idra a colloquio con Giorgio Orelli. 16 Notizie a Giuseppina dopo tanti anni e Prima dell’anno nuovo escono nello stesso anno, il 1952. Per i rapporti di Luzi con la fonte eliotiana e per la storia interna del testo di Orelli, si veda la parte finale del nostro saggio. 17 M. Luzi, L’opera poetica, pp. 311-352. 18 «Pour deviner l’âme d’un poète, ou du moins sa principale préoccupation, cherchons dans ses œuvres quel est le mot ou quels sont les mots qui s’y représentent avec le plus de fréquence. Le mot traduira l’obsession» dice Orelli, citando un’affermazione di Baudelaire riportata da Uhlmann che godette di grande fortuna nella critica stilistica (G. Orelli, Sul «mentre», p. 206). 19 Ibi, pp. 210-211. Il passo documenta in maniera esemplare la vivacità e la pregnanza del linguaggio critico di Orelli, che si colgono anche in talune icastiche definizioni del fare poetico luziano, come quella con cui visualizza la funzione dei versi lunghi di Su fondamenti invisibili: «filamenti d’insetti che tastano pertinaci nell’incerto metafisico-esistenziale»ibi ( , p. 221). 20 Ibi, pp. 216-217. 21 M. Luzi, L’opera poetica, p. 305; S. Verdino segnala nell’Apparato critico (p. 1523) che il componimento è stato anticipato su “L’Approdo letterario”, n.s., VIII (1962), 19, luglio- settembre, pp. 56-57, insieme ad altre poesie poi confluite nella raccolta Qualche( luogo, La colonna, A mezzacosta, La valle, Di notte, un paese). Secondo la testimonianza orale di Fabio Pusterla, Giorgio Orelli parlava di Dalla torre come di un testo «perfetto». 22 G. Orelli, Accertamenti montaliani, il Mulino, Bologna 1984. 23 Id., Accertamento luziano, p. 80. 24 Id., L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962, pp. 68-69 e 70-73. 25 “Botteghe oscure”, 22 (1958), agosto. 26 G. Orelli, Nel cerchio familiare, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1960, pp. 14-15. 27 Così G. Jori descrive la struttura metrica del testo: «Settenari (sdruccioli i vv. 2 e 16), nove- nari (tronco il v. 14), decasillabi, endecasillabi, doppi settenari e versi lunghi; qualche assonanza

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[notevole in particolare, quella che sigilla il componimento, vv. 25-26], rima ai vv. 6-7. Quattro strofe: le prime due e l’ultima di sette versi, la terza oscillante fra cinque e sei versi, a seconda che si conti o meno la congiunzione avversativa, isolata dal v. 14, a gradino, in corrispondenza del salto strofico» (Giorgio Orelli, a cura di G. Jori, in Antologia della poesia italiana diretta da C. Segre e C. Ossola, III. Ottocento-Novecento, Einaudi, Torino 1999, pp. 1589-1600: 1592). 28 Sulla genesi psicologica di questo testo e, in particolare, sul nodo di odio e amore per il proprio paese natale da cui prende le mosse, si legga il prezioso autocommento affidato da Orelli a una prosa del 1972: «Ci fu un tempo ch’io coglievo pretesti anche futili per non tornare a casa […]. Vivevo solo in città, vorrei dire che resistevo, e quando arrivava il sabato, al pensiero di prendere il treno e tornare dai miei, in montagna, stavo male. […] Non era per motivi propriamente familiari che m’accadeva […] io non mi volgevo più al mio villag- gio, come a una realtà concreta, umile, quotidiana: vedevo la mia stessa infanzia separata da me, e la neve era una merce ostile che rendeva più sensibile il vuoto. Il mio villaggio mi appariva come un luogo in cui i morti erano più vivi dei vivi; dalla qual cosa derivava non solo un’infinita pietà dei vivi e di me, sì anche, anzi soprattutto, uno stato d’animo per cui mi sentivo come al margine del nulla, in un’aria non giusta, eccessiva, che tingevano d’assurdo il quotidiano, in modo insopportabile […]. So bene che il mio stato d’animo e l’esasperazione dell’insofferenza discendevano anche da un amore sostanzialmente sbagliato della vita. Posso dire che non amavo, non concepivo la vita né dannunzianamente né hemingwaianamente, bensì piuttosto nel senso suggerito da una frase di Leopardi, questa: “La vita debb’essere viva, cioè vera vita, o la morte la supera incomparabilmente di pregio” […]. Ma il fatto sta che la parola stessa vita sembrava a disagio nella mia mente: era nella mia mente al modo di una trota che non raggiunga la misura tra le mani del pescatore indeciso […]. Bisognava, per sentirmi di nuovo tranquillo tornando al mio paese, restituirmi a un più discreto amore della vita; e fu allora, tra l’altro, che certe parole lette nei libri cominciarono ad essere non più soltanto parole per me, ma vitale nutrimento, verità che attraversano la mente come lame. Finalmente mi dicevo non invano che “maturare è tutto”, che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via” (Shakespeare e Pavese, come molti sapranno) […]. Venne anche il giorno che fu di nuovo possibile per me scrivere del mio paese: scrissi una poesia di nemmeno trenta versi, ma che a me sembrava lunghissima…” (G. Orelli, «Ci fu tempo ch’io coglievo pretesti»…, in C’è solo un villaggio nostro, a cura di P.R. Frigeri, prefazione di F. Filippini, Edizioni Cenobio, Lugano 1972, pp. 137-141, alle pp. 137-139). 29 Per il motivo “mortuario” sono stati addotti riscontri pascoliani e montaliani (da ul- timo, e in maniera del tutto persuasiva, da Niccolò Scaffai nella sua bellissima relazione al convegno bellinzonese). 30 Indice di questa ambivalenza sono i due «senza» che marcano la discontinuità nella continuità di un rapporto ritrovato con la propria infanzia, per cui cfr. l’autocommento già ricordato: «Il terzo momento comincia con un ma abbastanza improvviso (e isolato): pensate a uno che, come per richiami interni, contempla. Io contemplo la vita, voglio dire una vita fuori di me, di ragazzi che sono anche proiezioni di me stesso ragazzo (ricordo non solo il gusto che tutti i ragazzi di questo mondo hanno dell’avventura, ma anche la situazione parti- colare dei pochissimi ragazzi del mio paese, la loro noia, il loro cercare e inventare e ubbidire ai richiami, ai carillons più impreveduti)» (G. Orelli, «Ci fu un tempo, p. 140). Sulla genesi di queste immagini, in un fitto scambio fra prosa (Serale in “Paragone”, 62 (1965), febbraio, poi in G. Orelli, Un giorno della vita, Lerici, Milano 1960, pp. 45-56: 52) e poesia, si vedano le osservazioni di M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in Lingua e letteratura italiana in Svizzera, Atti del convegno (Università di Losanna 21-23 maggio 1987), a cura di A. Stäuble, Casagrande, Bellinzona 1989, pp. 84-97: 92-93. 31 Sul valore «dell’inerzia, della privazione di movimento» entro lo «spazio cintato» de L’ora del tempo, si vedano le osservazioni intelligenti (anche se diversamente orientate) di G. Pacchiano, Lo spazio cintato di Giorgio Orelli, in “Il lettore di provincia”, V (1974), 19, aprile, pp. 22-32: 23-25. 32 «Oggetti di una quotidianità da cui si prende commiato, ma anche talismani di sal- vezza e protezione» (M.A. Grignani, Postfazione, in G. Orelli, Rückspiel /Partita di ritorno,

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Gedichte, Italienisch und Deutsch, Ausgewählt und übersetzt von Christoph Ferber, Mit einem Gespräch von Alice Vollenweider mit Giorgio Orelli und einem Nachwort von Maria Antonietta Grignani, Limmat Verlag, Zürich 1998, pp. 217-225: 222). Nell’autocommento più volte ricordato Orelli accenna, per questi oggetti presentati «a due a due», a suggestioni morandiane. 33 «Tu a cui prima del giorno / dico tante volte “aiutami, / guida l’anima mia coi tuoi consigli”, / se la scienza silenziosa / dei morti in Dio potesse aprire bocca / lo so quel che diresti, / diresti: “metti alla prova la tua forza / e la tua tolleranza dell’umano”. // Quel che mi chiedi non è poco. / Ma se è questo il prezzo / per una conoscenza più compiuta / e per un’espiazione più profonda / pagherò quel che è dovuto, / nell’ora, nel momento, / nella contemporaneità di tutti i tempi» (M. Luzi, La fortezza, in Id., L’opera poetica, pp. 289-290: 290). L’espressione «la mia cattività e il mio regno» è tratta, con qualche libertà, da uno dei movimenti conclusivi de Il pensiero fluttuante della felicità (Su fondamenti invisibili, 1971, in Id., L’opera poetica, pp. 365-377: 374): «Ho lasciato per te la mia cattività e il mio regno, / solitudine inquieta / che affinava la sua pupilla / scrutando il cielo sul filo dei tetti». 34 I due testi si leggono in Id., L’opera poetica, pp. 283-284 e 287-288. 35 Le quattro strofe sono composte da 9, 13, 9, 9 versi, per lo più endecasillabi (settenari i vv. 2, 17, 18, 34, 37, 38; novenario il v. 5; decasillabo il v. 33; doppi settenari i vv. 7, 15, 23); le rime, le assonanze e le consonanze sono pressoché assenti nella prima sezione – con l’eccezio- ne della rima interna 10 laverai: 11 (diventerai) e di alcuni legami deboli, ad es. fra 10 e 11 o fra 19 e 20 – più fitte nella seconda, cronologicamente anteriore di alcuni anni – 30acetilene : 31 (viene), che si richiama a distanza a 1 trattiene; 31 destro : 31 (San Silvestro); 32 pensato : 33 (serrata) : 34 (guardato); 34 specchio : 35 (vecchio); 38 moscone : 40 variazione. 36 Sul senso dell’epigrafe, cfr. P. De Marchi, Una cosa che comincia con r in mezzo». Sul tema della morte, in Id., Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecen- to, Manni, Lecce 2002, pp. 21-53: 23. 37 Che recita: «Purificamicon l’issòpo e sarò mondo; / lavami e sarò bianco più della neve» (La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali, con introduzione e note di A. Girlanda, P. Gironi, F. Pasquero, G. Ravasi, P. Rossano, S. Virgulin, Edizioni San Paolo, Milano 1995, p. 832). 38 «Le monde de Giorgio Orelli, qui est celui d’une communauté où les morts se glissent entre les vivants, où les bêtes, les arbres, les fleurs, ont leur place, pourrait être assimilé à un paradis préchretien, bien que le mal n’en soit pas absent et qu’on y pressente par instant le dessin d’une insaisissable fêlure» (M. Raymond, Préface, in G. Orelli, Choix de poèmes, Texte français d’Yvette Z’Graggen, Préface de M. Raymond, L’Aire, Lausanne 1973, pp. 7-9: 8-9). 39 «Tu non sei né giovane né vecchio. È come se tu dormissi dopo pranzo sognando di queste due età» (trad. di L. Berti). Il passo è tratto da Misura per misura, atto III, scena I. 40 Nel primo caso Jacomuzzi (A. Jacomuzzi, Lettura da Primizie del deserto: «Notizie a Giuseppina dopo tanti anni», in Per Mario Luzi, pp. 61-71: 69) allega – persuasivamente – l’attacco del componimento eliotiano («here I am»), mentre per il secondo rimanda ai vv. 11-14 di Gerontion («la capra tossisce a sera nel campo di sopra; / rocce, muschio, gramigna, ferracci, merde. / Tiene una donna la cucina, fa il tè, / Starnuta a sera, l’impetuoso rigagnolo rovista», trad. L. Berti), che sono però caratterizzati, secondo Stefano Verdino, da un «diver- gente degradato realismo» (S. Verdino, M. Luzi, L’opera poetica, Apparato critico, p. 1448). 41 «Mi pare […] certo che sia […] la “tradizione del nuovo” novecentesca a contare di più, nella prima raccolta mondadoriana del ’62, o che come minimo essa non conti affatto meno di Dante o dei classici. Farò, per L’ora del tempo, due nomi di solito non correnti sul conto di Orelli: Penna è uno […]. E l’altro e Luzi, cui, per dirla subito, io avvicinerei quel timbro o quel modello antimetropolitano di spazio poetico, che è un poco la scommessa civile di Orelli, per il quale l’incantonamento cantonale, elveticamente borghigiano, alpino, è una specie di equivalente natural-culturale dell’Appennino del Luzi di mezzo, che è poi quello tuttora più definitivo. E tra parentesi, sarà un segnale non trascurabile che, dalle Primizie del deserto di Luzi (vedi Notizie a Giuseppina dopo tanti anni), arrivi a L’ora del tempo un’esplicita tessera come il “né giovane né vecchio”, e in stessa sede di verso, di Il vischio sull’armadio»

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(G. Lonardi, Accertamenti sul Dante di Giorgio Orelli, in “Cenobio”, n.s., XXXII (1983), 4, ottobre-dicembre, pp. 291-301: 292). Come si è anticipato a nota 16, i due componimenti sono in realtà coevi, uscendo a stampa entrambi nel 1952. 42 «Né giovane né vecchio rimena Shakespeare (Measure for Measure, A III. Sc. I), citato da Eliot in Gerontion: Thou hast not youth nor age / But as it were an after dinner sleep / Dre- aming of both» (G. Orelli, Accertamento luziano, p. 76). 43 A. Jacomuzzi, Lettura, p. 69. 44 G. Bonalumi, R. Martinoni, P.V. Mengaldo, Cento anni di poesia, p. 189. Si veda, per contrasto, quanto Mengaldo afferma in Poeti italiani del Novecento (Mondadori, Milano 1979, p. 650) a proposito del secondo Luzi: «Nel secondo e centrale momento della sua carriera, che comprende grosso modo le tre raccolte Primizie del deserto, Onore del vero, Dal fondo delle campagne, Luzi tocca certamente i suoi risultati più alti. Ciò che prima era soprat- tutto atteggiamento letterario, qui diventa davvero esperienza esistenziale, e l’autore (già con Quaderno gotico) incomincia a farsi storico di se stesso. Attraverso il Montale delle Occasioni Luzi passa sotto il patronato, ideologicamente più congruo, di Eliot, in parallelo al quale egli approfondisce la metafisica, tra cristiana e platonica, della identità e reciproca reversibilità, o meglio perpetua oscillazione, di divenire e essere, mutamento e identità, tempo ed eternità e così via». 45 L’affinità metrica è segnalata da G. Contini in .G Contini, G. Pozzi, E. Raimondi, A. Zanzotto, Giorgio Orelli poeta e critico, a cura di C. Mésoniat, RTSI, Bellinzona 1980, pp. 16 e 18. 46 Su questo aspetto sia lecito rimandare al nostro «Cercare a occhi chiusi». Note sulla poesia dell’ultimo Orelli, in Per Giorgio Orelli, a cura di P. De Marchi e P. Di Stefano, Casa- grande, Bellinzona 2001, pp. 107-117. 47 G. Orelli, 6 poesie, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1964, pp. 12-13 (e quindi in G. Orelli, Sinopie, Mondadori, Milano 1977, p. 23); M. Luzi, Nel magma, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 19631, pp. 21-22 (e ora in L’opera poetica, pp. 326-327). Sulle affinità fra i due testi, cfr. P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, in Id., Arte e mito della piccola patria, Marzorati, Milano 1974, pp. 83-108: 98. 48 La prima redazione del componimento (risalente al 1963 e pubblicata in 6 poesie, pp. 10-11) è composta di due strofe di 19 e 6 versi che sembrano rimodulare il tema dell’immer- sione nel mondo elementare dei padri di Prima dell’anno nuovo – un mondo quasi precristia- no, in cui regnano l’equilibrio, la discrezione, la dignità di gesti trattenuti, sommessi e in cui l’io affonda i propri ricordi come radici che danno stabilità. L’attacco – «La nebbia è nebbia d’agosto, il sole / La fende agevolmente / (così San Martino / col suo mantello), e dura, dura anche più del previsto / In questo punto medio della valle / dove oggi è la festa dei santi Mac- cabei / e in fondo al villaggio, su uno spiazzo di terra battuta, / s’è radunata un po’ di gente / fra cui saluto parenti del ramo paterno / che non vedevo da tempo…» – sembra, per certi versi, riecheggiare l’incipit di Nella casa di N. compagna d’infanzia (da Primizie del deserto, 1952, M. Luzi, L’opera poetica, p. 198), sia pur smussato delle asperità quaresimali («Il vento è un aspro vento di quaresima, / geme dentro le crepe, sotto gli usci…»); e luziana è certo la conduplicatio patetica «e dura, dura anche più del previsto» del terzo verso (per cui cfr., per es., la chiusa di Come tu vuoi, 1954 – da Onore del vero, 1957, M. Luzi, L’opera poetica, p. 222 – «un giorno, un giorno della vita» o, in forme leggermente diverse, l’incipit di «Notizie» «Che speri, che ti riprometti, amica…»; e le puntuali osservazioni di Mengaldo in Poeti italiani, p. 650). Nel passaggio dalla plaquette del ’64 alla raccolta del ’77 (G. Orelli, Sinopie, pp. 17-18) non solo è obliterata questa “marca” stilistica, ma il testo acquista una terza strofa di 9 versi, in cui – attraverso il medium dello stupore infantile – il motivo della compresenza di vivi e morti, dell’osmosi fra vita e morte è declinato in forme originalissime, che segnano il defini- tivo congedo dalla stagione “luziana” degli anni cinquanta: «Mia figlia non vuole ripartire / senza aver visto il camposanto. / Non si fatica molto a trovare la zia / con il suo stesso nome, / ma con grande stupore conosce / che quasi tutti i morti si chiamano Forni, / Orelli, Vella, Leonardi / e appena fuori esclama: “Io conosco un bambino / che viene all’asilo con me, e si chiama Ferrari, e è vivo”» (miei tutti i corsivi).

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GEORGIA FIORONI Orelli e Sereni: un possibile dialogo*

«Andavo a Milano, appena finita la guerra, e sempre un po’ Renzo Tramaglino, da contadino che si inurba, visitavo Scheiwiller, Sereni, Erba», così Orelli in un articolo dedicato all’editore Vanni Scheiwiller apparso nel 1999 sul “Giornale del Popolo”.1 E proprio al periodo immediatamente successivo al conflitto mon- diale è da far risalire l’inizio del rapporto fra il poeta ticinese e Vittorio Sereni, un rapporto che nel corso degli anni ha lasciato tracce importanti, specie da parte di Giorgio Orelli (ma chissà che le carte di Sereni, e dello stesso Orelli, non riservino ancora delle sorprese): nel 1983 appare sulla rivista “Verbanus” (IV, 1983, 4) la poesia A Vittorio Sereni (poi riedita nel 2001, con varianti, ne Il collo dell’anitra); due anni dopo una prosa inedita, intitolata La ballata degli anarchici, in I gentiluomini nottambuli. Una poesia e lettere di Vittorio Sereni, con cinque acqueforti di Franco Rognoni e testi di Carlo Fruttero, Dante Isella, Franco Lucentini, Giorgio Orelli e Alessandro Parronchi, Scheiwiller, Milano 1985; nel 1991, in occasione del convegno tenutosi a Luino il 25-26 maggio di quell’anno, Orelli dedica il suo contributo (uscito l’anno successivo negli Atti) al Sereni traduttore di Char (Un accertamento su Char e Sereni);2 nel 1994 lo sguardo di Orelli è attirato da due poesie contigue (Saba e Di passaggio) de Gli strumenti umani: ne nasce un breve ma intenso accertamento intitolato Due poesie di Sereni, edito nel volumetto Un posto di vacanza e altre poesie, a cura di Zeno Birolli, con due scritti di Laura Barile e Giorgio Orelli, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1994, pp. 77-85;3 nel 2008 Orelli interviene a una serata, nell’ambito del “Festival racconto ” (Varese, Villa Ponti, 2008), in onore di Vittorio Sereni nel 25° anniversario della morte (con Marta Morazzoni, Silvia Sereni e Andrea Vitali).4 È infine da ricordare la partecipazione dei due poeti ad alcune trasmissioni del programma della Televisione della Svizzera Ita- liana Lavori in corso: il 2 febbraio 1970 a Poesia ’70 (a cura di Cesare Garboli e Marisa Bulgheroni, con Stefano Agosti, Giorgio Orelli, Ippolito Pizzetti e Vitto- rio Sereni); l’8 novembre del 1971 a La magia, la superstizione (a cura di Grytzko Mascioni, con , Giorgio Orelli, Vittorio Sereni, Elémire Zolla); il 27 dicembre dello stesso anno a L’arte, l’amore (a cura di Augusta Forni, con Max Horkheimer, Violette Morin, Max Frisch, John Wain, Charles Percy Snow, Pao- lo Milano, Talcott Parson, Vittorio Sereni, Cesare Segre, Giorgio Orelli, Mario Luzi, Jacqueline Risset, Alfred Andersch, Alain Touraine); e, ancora, il 10 aprile del 1972 a Il tempo libero, la macchina, il gioco (con Vittorio Sereni, Max Frisch, Andrea Zanzotto, Giorgio Orelli, Enzo Melandri, Pierre Naville, Alain Tourai- ne).5 Accanto a tali testimonianze, si conservano nell’Archivio Sereni di Luino

187 Georgia Fioroni cinque lettere di Orelli indirizzate all’amico luinese e scritte nel corso di poco più di un trentennio (fra il maggio del 1950 e il febbraio 1982).6 Ma, com’è noto, Vittorio Sereni e Giorgio Orelli appaiono altresì uniti (insie- me a Roberto Rèbora, Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba) nella raccolta ideata da Luciano Anceschi nel 1952, Linea Lombarda.7 Benché in tempi diver- si, entrambi si dimostrano poco entusiasti dell’iniziativa anceschiana. Il primo rivela la sua reticenza (quasi insofferenza), con toni a tratti duri, in un’impor- tantissima lettera da far risalire all’aprile del 1952:8 esplicita qui le perplessità sull’iniziativa («Io rimasi perplesso non – è bene dirlo una volta per tutte – di fronte alla compagnia, ma di fronte all’idea, allo spunto»), sulla stessa etichetta di “linea lombarda” («Ma non mi sento “movimento”, né mi sembra costituire movimento o filone, piccolo o grosso che sia, quel gruppo di nomi che formano una “linea lombarda”. È vero, tu l’hai detto, “nessuna scuola”…») e, soprattut- to, sull’esclusività del rapporto poesia-realtà che agli occhi di Anceschi costitui- sce una peculiarità dei sei poeti antologizzati:

Vediamo qual è questa qualità [identificata da Anceschi quale matrice comune ai sei poeti]. Si tratta del particolare rapporto tra poesia e realtà. E qui mi pare non ci sia dub- bio: il moto di poesia colto nei sei poeti è quello che tu hai descritto, è la parte davvero concreta e felice del saggio […] e si può dire che vale per tutti quanti i prescelti (salvo sfumature). Ma qui ci risiamo. Questo particolare rapporto è proprio esclusivo, incon- fondibile tanto da rendere reale una “linea lombarda”, una disposizione lombarda della lirica nuova? O questo particolare rapporto, o “sentimento del rapporto” tra poesia e realtà non è per caso un fatto molto più vasto nel quale s’iscrive, del quale partecipano, ognuno nei propri modi, i sei antologizzati? […] In altri termini: lo spunto, occasionale per esplicita ammissione, ha finito col fruttificare in una “linea lombarda”. Il dubbio che a me rimane è questo: non valeva la pena, visto che ci si era avviati, distendere un discor- so molto più generale sul sentimento del rapporto tra poesia e realtà nella poesia italiana contemporanea di cui sarebbe, più o meno evidente, più o meno felice, nient’altro che un espisodio il caso dei sei poeti presentati?

Orelli, a distanza di tempo, pur non nascondendo gratitudine per Anceschi, esprime un certo distacco, che tuttavia non raggiunge il tono polemico di Sereni:

Io continuo a rallegrarmi d’aver avuto in gioventù un amico, un patronus, come Ance- schi, anche se, molto post factum, letto anche il volume einaudiano dell’89 (Gli specchi della poesia), riconoscenza e gratitudine non possono non striarsi di sorridente distacco. No, l’etichetta di “lombardo della Svizzera” non mi ha mai disturbato, come non mi ha mai disturbato quella, pure divertita ma più fondata (per le mie prime prose), continiana di “toscano della Svizzera”. È che non vedo “linea”, e meno ancora “via” lombarda (si legga, di Giorgio Luzzi, Poesia italiana 1941-1988: la via lombarda). Né mi pare che le dichiarazioni di Anceschi nella citata prefazione diano consistenza alla «disposizione lombarda nella lirica nuova»; con quei moti improvvisi, esclamativi: «Che cosa fu mai Sassu, per noi, in quegli anni!», «E quanto amammo Quasimodo». Ricordo bene queste cose, queste cotte, non condivise da me, nutrito in quegli anni da ben altro pane (e, a Friburgo, Europa non era solo uno scoppio bilabiale).9

188 Orelli e Sereni: un possibile dialogo

L’etichetta di “linea lombarda”, «proverbiale invenzione di Anceschi, poco resi- stente sul piano formale, ma non del tutto sbagliata a livello tonale»,10 va pertan- to còlta con estrema cautela anche nel caso di Orelli e Sereni e, d’altra parte, uno studio vòlto a individuare riscontri testuali precisi o eventuali contaminazioni della poesia dell’uno nell’altro non risulta, a mio parere, la via più feconda per determinare eventuali affinità fra il poeta luinese e Giorgio Orelli. Più fruttuo- so appare invece – ed è su questo aspetto che intendo soffermarmi – indagare alcuni momenti poetici cruciali cui entrambi sembrano giungere attraverso un percorso attentissimo al motivo dei morti,11 nodo implicito del già menzionato accertamento orelliano del 1994 – Due poesie di Sereni nel volume «Un posto di vacanza» e altre poesie –; e proprio da questo accertamento intende prendere av- vio la presente ricerca. Il libro in cui appare, curato da Zeno Birolli, è suddiviso in tre sezioni: la prima (che dà il titolo al volume) comprende dodici poesie di Vittorio Sereni appartenenti a Gli strumenti umani e a Stella variabile,12 disposte in ordine inverso rispetto all’uscita delle due raccolte (i testi di Stella variabi- le anticipano le poesie de Gli strumenti umani); la seconda sezione, intitolata TRA FIUME E MARE prose su Bocca di Magra di Vittorio Sereni è costituita da quattro prose: tre già pubblicate in altra sede («Il ritorno», Tra fiume e mare e Infatuazioni)13 e una fino ad allora inedita,Bocca di magra (ms. di tre piccoli fogli numerati, s.d.); l’ultima sezione, infine,P er Vittorio Sereni, include tre scritti, nel seguente ordine: Due poesie di Sereni di Giorgio Orelli, I nomi di un quadro di Zeno Birolli e Alcuni materiali per «Un posto di vacanza» di Laura Barile. Il saggio orelliano propone una lettura di due testi poetici, Saba e Di passaggio, situati l’uno di seguito all’altro entro la sezione Appuntamento a ora insolita de Gli strumenti umani. La lettura di Di passaggio (il primo testo cui Orelli si dedi- ca) consente di cogliere alcune peculiarità dei due poeti nel trattare il tema dei morti; tema che, per la sua ampiezza, verrà qui circoscritto solo ad alcuni aspet- ti, che via via espliciterò, e con una maggiore attenzione per le poesie di Orelli.

Di passaggio

Un solo giorno, nemmeno. Poche ore. Una luce mai vista. Fiori che in agosto nemmeno te li sogni. Sangue a chiazze sui prati, non ancora oleandri dalla parte del mare. 5 Caldo, ma poca voglia di bagnarsi. Ventilata domenica tirrena. Sono già morto e qui torno? O sono il solo vivo nella vivida e ferma nullità di un ricordo? 10

Suggerendo implicitamente una spiegazione al titolo di una sua poesia conte- nuta in Sinopie – Di passaggio a Villa Bedretto – a Orelli non sfugge l’«apparente levità» del titolo (parla, per l’esattezza, di una «breve e intensa lirica intitolata con

189 Georgia Fioroni apparente levità “Di passaggio”» [p. 77, corsivo mio]); e di levità solo apparente si tratta, giacché nella poesia il poeta individua due distinti percorsi, uno mortale e l’altro vitale.14 Il primo «è dominato da morto 8 e può dirsi “mortale”. Accoglie giORno 1, provvisto del nesso /OR/ in arsi di morto, con cui dimora TORno che ne torce (come dice Petrarca) il gruppo forte. Come giorno e morto in 4a, così sono isometrici torno e ricordo 10 […] (p. 79). La «seconda portante fonica», o come si preciserà poco dopo, il secondo «triangolo», «investe /i/ di semantismo luminoso» e «può dirsi “vitale”, è una classica figura su /VI/; mossa da VIsta 2, isometrico a VIvo 9 potenziato nel suo stesso verso da VIVIda» (p. 79). La presen- za di un duplice e apparentemente opposto percorso (altresì registrato, attraverso le medesime terne lessicali nella successiva Saba) anziché costituire un contrasto, genera, grazie alla particolare disposizione di alcuni termini («caldo», «sangue», «fiori»), «un’aria stranita che finisce col pareggiare vita e morte».15 Le pagine dedicate alle due poesie de Gli strumenti umani sono sintomo di una duplice operazione: da una parte il poeta individua un motivo notoriamente centrale della poesia di Sereni associandolo a un percorso vitale, “pareggiando” le due realtà dell’esistenza16 e intrecciando alla realtà mortuaria altri due temi fondamentali della poesia di Sereni, il tempo e la memoria;17 d’altra parte, come spesso accade, Orelli parlando d’altri, sembra parlare anche di sé.18 Il tema degli «andati di là» è tratto dominante anche della sua poesia,19 e non è un caso che la terna lessicale giorno-morto-ricordo («tre parole», scrive Orelli, «così legate nel senso e nel suono», p. 81), individuata in Di passaggio quale matrice del percorso mortale, trovi riscontro nel suo “sistema”: «ogni giorno», confidava Orelli a De Marchi in un’intervista, «in qualche modo contiene tutta la vita» e «di qui», proseguiva il poeta, «lo sforzo di non lasciarsi scappare troppo di noi e del mondo che ci circonda, di fronte al furto irrimediabile del tempo»;20 a sua volta il ricordo, nell’attacco del secondo movimento della poesia L’estate a Prato Leventina, 1-4 (Si), sembra allontanare la morte: «Ancora, nel ricordo, / è come se potessimo, strappando / fin le ultime radici delle erbacce, / allontanare la morte» (e non si escluda, in quest’ultimo verso, l’eco del Sereni di Strada di Zenna, F, 2-4: «[…] Ma ora / nell’estate impaziente / s’allontana la morte»). Ma il binomio vita-morte, e il saggio dedicato a Sereni non ne è che un’ulterio- re conferma, percorre anche le prose critiche di Orelli: basti pensare, a titolo d’esempio, al saggio «Stil canuto» di Saba (apparso in “Strumenti critici”, XI [1977], 32-33, giugno) o, ancora, a parte dell’accertamento verbale dedicato a Mario Luzi (Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi).21 In Sereni la radice del rapporto vita-morte e del suo successivo mutare nel tempo è da cogliere nella sezione eponima della raccolta d’esordio, Frontiera; in Orelli in parte della IV (e ultima) sezione de L’ora del tempo, sezione in cui convergono quasi tutte le poesie di Ncf seguite da quattro testi inediti. In effetti, benché alcuni indizi importanti di tale binomio vengano espressi già in poesie di precedenti sezioni (nel caso di Sereni) o raccolte (nel caso di Orelli), è lì che si annida con una certa costanza quella compresenza di estremi, che da subito suggerisce delle implicazioni fortissime con un altro binomio fondamentale, il

190 Orelli e Sereni: un possibile dialogo silenzio e la parola. Un’operazione preliminare – utile a cogliere la frequenza esplicita del motivo funebre nonché il suo rapporto con la «vita» – consiste in un rapido esame delle occorrenze dei termini «morte» e «vita» (e l’operazione, d’altra parte, sembrerebbe non essere estranea né a Orelli né tantomeno a Sere- ni):22 sia in Frontiera sia in L’ora del tempo il lemma «morte» (o derivati) prevale sul termine «vita», e il rapporto fra occorrenze e numero di versi è più o meno simile;23 inoltre, entrambe le raccolte registrano un’unica poesia contenente – entro il medesimo verso – i due lessemi: Strada di Creva 15 («Questo trepido vivere nei morti») e Nel cerchio familiare 9 («i morti sono più vivi dei vivi»). Al di là dell’affinità lessicale,Strada di Creva e Nel cerchio familiare costituiscono, entro l’itinerario poetico di Sereni e Orelli, una tappa fondamentale e simile nonché un nuovo punto d’avvio, percepibili anzitutto tratteggiando, almeno per sommi capi, il percorso che conduce ai due componimenti.

Nel cerchio familiare viene pubblicata per la prima volta nella rivista “Botteghe oscure” (con il titolo Nel cerchio famigliare), quindi nella plaquette del 1960 (cui dà il nome); ne L’ora del tempo si situa nella parte conclusiva del libro,24 ma si noti che in entrambe le edizioni si colloca, ed entro il medesimo ordine, in un nucleo compatto di testi, che da L’estate giunge a Prima dell’anno nuovo. Più nel dettaglio, si osserva che Ncf è costituita da undici componimenti (Epigramma veneziano [1]-Il fanciullo del paradiso [2]-L’estate [3]-Passo della Novena [4]-Di- cembre a Prato [5]-Nel cerchio familiare [6]-Prima dell’anno nuovo [7]-L’uomo che va nel bosco [8]-Nel dopopioggia [9]-A un amico che si sposa [10]-Frammento della montagna [11]), tutti riproposti in Ot: ad eccezione delle due poesie inizia- li – collocate rispettivamente nella terza e nella prima sezione della raccolta del 1962 – le liriche di Ncf andranno a situarsi, con lieve ma significativa variazione dell’ordine, nella IV sezione di Ot, che propone altresì, in chiusura, quattro poesie inedite. Ne deriva una sezione così composta: 25 L’uomo che va nel bosco [8 →1]-Nel dopopioggia [9→2]-L’estate [3→3]-Passo della Novena [4/4]-Dicem- bre a Prato [5→5]-Nel cerchio familiare [6→6]-Prima dell’anno nuovo [7→7]-A un amico che si sposa [10→8]-Frammento della montagna [11/9]-*Brindisi del primo fieno-*A un giovane poeta cacciatore-*A mia moglie, in montagna-*[Se fai come il vecchio sartore…]. La disposizione definitiva anticipa, ad apertura di se- zione, la coppia (mantenuta sin da Ncf) L’uomo che va nel bosco – Nel dopopiog- gia, inizialmente situata in ottava e nona posizione (fra Prima dell’anno nuovo e A un amico che si sposa); propone poi il mantenimento e l’ordine di un consi- stente nucleo di testi (L’estate, Passo della Novena, Dicembre a Prato, Nel cerchio familiare, Prima dell’anno nuovo);26 infineA un amico che si sposa e Frammento della montagna, anziché seguire (come in Ncf) Nel dopopioggia, sono poste di seguito a Prima dell’anno nuovo e prima della serie delle quattro poesie inedite. I testi situati alle estremità della sezione appaiono il frutto di una riflessione assai calibrata, giacché le due poesie illustrano due motivi chiave dell’ultima parte del libro, al cui centro – quale punto di svolta – sembra situarsi Nel cerchio familiare. In effetti L’uomo che va nel bosco e [Se fai come il vecchio sartore],

191 Georgia Fioroni correlati peraltro dal significativo «oscillando» L’uomo( che va nel bosco 13-14: «con sulle spalle falci, che, divaricate, / oscillando, scintillano»; [Se fai come il vecchio sartore] 2: «le vacche nere di pioggia che oscillando indietreggiano»),27 colgono due aspetti fondamentali dell’ultima parte del libro (e degli sviluppi della poesia di Orelli), assumendo così il ruolo di “cornice”. La poesia posta ad apertura della sezione illustra, in termini accentuati, la duplicità vita-morte, mediante alcuni lemmi che agli occhi di Orelli (parecchi anni dopo) avrebbero costituito il «percorso mortale e vitale» dei due testi di Sereni già menziona- ti, Saba e Di passaggio, oggetto dell’accertamento del 1994. In effetti L’uomo che va nel bosco registra in clausola «morto», accompagnato da «giorno» 8, cui idealmente si potrebbe aggiungere «ritorno» 14 (nel suono e nel senso affine a «ricordo»), entrambi con arsi di 4a; né forse sarebbe da dimenticare «sorge» 9. Accanto – in linea con il percorso “vitale” – si registra il lemma «vita» 7, forse accentuato da «viso» 12:

L’uomo che va nel bosco (lo rallegra un suono di campana da non sa bene quale paese: certezza di bel tempo?) pensa a un tratto i compagni ch’è inutile chiamare, i compagni spariti con le bocche 5 sporche di mirtilli in intrichi d’ombra e sole. La briga della vita lo stesso giorno, o un altro, lo dimentica al margine d’un nulla in cui sorge come una riva un poggio e donne girano 10 il viso alla parete dei monti con sulle spalle falci, che, divaricate, oscillando, scintillano.

Al suo ritorno l’aria è quella giusta, sottile, che punge 15 se anche nessuno, nel frattempo, è morto.

Ma, al di là di tali occorrenze, L’uomo che va nel bosco irradia una serie di le- gami attinenti alla fragilità della vita, specie con poesie della medesima sezione: anzitutto la «falce», che – come già osservato dalla critica – si registra ne L’estate 4-5, con «l’erba» che «s’arrende al taglio netto della falce»; ma, prima ancora (III sezione), nel «falciatore» de L’epigramma pisano 1-4 («Il falciatore in Piazza dei Miracoli / falcia un’erba cui più di quel tanto / non concede di crescere / in nessuna stagione, da sempre»), significativamente affine al «pescatore» del medesimo testo («simile al pescatore che ritira / la rete colma di pesci invisibili / nella sinopia del Maestro ignoto, / ma quanto più in disparte, / viola stinto con falce lungo il muro del Campo», 4-5), che, a sua volta, avrà il compito di aprire la raccolta Sinopie decidendo della vita e della morte (nella poesia La trota). A

192 Orelli e Sereni: un possibile dialogo tale fragilità è strettamente correlato il motivo di un labile confine, altro fil rouge dell’ultima parte del libro. Il «margine d’un nulla», al verso 9,28 è immagine va- riamente declinata entro la sezione: basti pensare al «lembo / della vita» nell’ex- plicit della successiva Nel dopopioggia; o ai «limiti del nostro giorno», 25 e a «la fine / d’un’estate, d’un anno» de L’estate 27-28; ma anche – sempre ne L’estate e in termini più impliciti – al «filo a sbalzo» («ma solo una speranza, tesa, com’è del filo / a sbalzo, quando un tronco scende», 9-10), sintagma altresì registrato in A Giovanni, per San Silvestro, P («La morte non è più / nel filo a sbalzo teso nell’albe / dei boscaioli […]», 2-4) e Il fanciullo del paradiso, Ncf-Ot («“Torci torci il tuo cappio, ora, fanciullo / del paradiso! Il filo a sbalzo è un serpe / trop- po inquieto!”», 8-10), indizio sottile e inquietante della precarietà dell’esistenza, come suggerisce un passo del racconto La morte del gatto:

Non mi par vero di non vedere un filo a sbalzo qui intorno, ma risento le telefonate dei boscaioli della Valtellina venuti a lavorare pel Patriziato: colpi di randello sul portante; e i gridi che riempivano questa conca come i guaiti delle volpi, e Bortolo che mostra la camicia strappata su una spalla, dicendo: – La vita la va a strappi, come il filo, – quel filo che, quando gli saltava il ruzzo, levava tali stridori che i contadini cessavano di lavorare, e, appoggiandosi a una forca o ad un rastrello, guardavano in su: chi non sapeva che la cordina, se salta, con uno schiaffo dei suoi ti può mandare all’altro mondo!29

Tale frontiera verrà annullata – lo preciserò oltre – in Nel cerchio familiare e ne deriverà, a partire da Prima dell’anno nuovo, un altro fondamentale binomio, quello fra silenzio e parola, quasi a suggerire che è «dal vuoto del silenzio che si origina il pieno della parola; è dall’incombere della morte che viene la necessità di dire».30 E la strettissima correlazione fra parola e vita appare condensata, e magistralmente illustrata, proprio nel testo posto a sigillo della sezione [Se fai come il vecchio sartore], specie nell’immagine del «vecchio»: «[…] vedi il vecchio, / ma non poi tanto vecchio, dal morbo irrimediabile, / che ancora vive, ancora racconta storielle e saluta / con un sorriso che gli occhi straniti non detur- pano», 4-7 (corsivo mio). Se ora si volge lo sguardo al Sereni di Frontiera, si osserverà che – analoga- mente a quanto accade nella sezione conclusiva di Ot – nell’ultima parte della raccolta si registra un’analoga tensione fra morte e vita. Strada di Creva, assente da F1941, ma apparsa in “Letteratura” lo stesso anno, appare a partire da P1942 e quindi nell’edizione di F1966, ove sembra trovare la sua collocazione ideale, vale a dire a sigillo della parte eponima della raccolta. In Frontiera, così come si presenta nell’edizione del 1966, fra le poesie che precedono Strada di Creva, il termine «vita», tendenzialmente raro, non si accosta al suo opposto, e prevale la dimensione mortuaria che può esplicitarsi sia nei testi di memoria o di anniver- sario (quali Diana o 3 dicembre), sia in liriche che esprimono uno dei nodi della prima raccolta, ossia l’attesa di un futuro dialogo con i morti,31 particolarmente presente nella parte eponima del libro, costituita da nove poesie e quasi identica alla sezione III di F1941 (Inverno a Luino [1]-Terrazza [2]-Zenna [3]-Settembre

193 Georgia Fioroni

[4]-Un’altra estate [5]-Paese [6]-Immagine [7]-In me il tuo ricordo [8]-Ecco le voci cadono [9]), ad eccezione della fondamentale aggiunta in P1942 di Strada di Creva (Inverno a Luino [1]-Terrazza [2]-Zenna [3]-Settembre [4]-Un’altra estate [5]-Paese [6]-Immagine [7]-In me il tuo ricordo [8]-*Strada di Creva [9]-Ecco le voci cadono [10→9]) cui è affidata la posizione explicitaria in F1966 Inverno( a Luino [1→1→1]-Terrazza [2→2→2]-Strada di Zenna [3→3→3]-Settembre [4→4→4]-Un’altra estate [5→5→5]-Paese [6→6→6]-Immagine [7→7→7]-In me il tuo ricordo [8→8→8]-Strada di Creva [9→9]), dapprima occupata da Ecco le voci cadono che, a partire da F1966, costituisce una sezione a sé, a sigillo del libro. La sezione – topograficamente incentrata sul paese natìo e sui suoi dintorni, e psicologicamente sostenuta dal desiderio di individuare nella realtà del luogo familiare la presenza mortuaria (a conferma di quella fedeltà ai morti, profondamente intrecciata a una fedeltà ai luoghi) –, appare percorsa da un tri- plice e lineare movimento, strettamente connesso al ciclo stagionale: lo stato di sospensione e di attesa di un evento futuro – Terrazza 6-7 («Siamo tutti sospesi / a un tacito evento questa sera»), Strada di Zenna 2-7 («[…] Ma ora / nell’estate impaziente / s’allontana la morte. / E pure con labile passo / c’incamminiamo su cinerei prati / che rasentano l’Eliso») e Settembre 6-10 («E il vento che illumina le vigne / già volge ai giorni fermi queste plaghe / da una dubbiosa brulicante estate. // Nella morte già certa / cammineremo con più coraggio») –; il momen- to di transizione in Un’altra estate 1-6 («Lunga furente estate. / La solca ora un brivido sottile / alle foci del Tresa / sì che alcuno ne trema / dei volti già ridenti, / ora presaghi»); e, infine, il ricordo: in Paese 1-4 («Era questo l’augurio: cam- minare, / o frusciante di passi nella sera, / nell’oscura tua folla che trascorre / all’ombra fedele dei morti»), Immagine 1-4 («La finestra ti reggeva nella sera / alta sulle canzoni della strada. / Così nel buio degli anni indecisi / resterai… – […]») e In me il tuo ricordo 1-3 e 12-13 («In me il tuo ricordo è un fruscìo / solo di velocipedi che vanno / quietamente […]»; «E là leggera te ne vai sul vento, / ti perdi nella sera»). A precisare geograficamente la sezione, fungendo altresì da cornice, sono i due testi che aprono e chiudono la sezione (Inverno a Luino e Strada di Creva), sviluppati attorno al motivo dell’inganno stagionale, che ge- nera una bipartizione della materia, entro una topografia di frontiera: frontiera che sigilla Inverno a Luino («un fioco tumulto di lontane / locomotive verso la frontiera», 25-26) e la cui essenza metafisica e mortuaria appare lampante in Strada di Creva.

Inquadrato, a grandi linee, il contesto in cui si situano Nel cerchio familiare e Strada di Creva, un primo rilievo riguarda i titoli. In Sereni, dall’esplicita e familiare indicazione geografica è possibile risalire alla dimensione mortuaria, giacché Creva è località nei dintorni di Luino, e la strada che vi conduce porta anche al cimitero; a un duplice aspetto, benché più implicitamente, rinvia anche il titolo Nel cerchio familiare (sintagma ripreso al verso 6, con «familiare» in rima baciata con «scampare» – «nel cerchio familiare / da cui non ha senso scam- pare» – a concentrare lo status coscientiae dell’io):32 immediato è il richiamo a

194 Orelli e Sereni: un possibile dialogo una dimensione intima, alle radici, alle origini, a «[…] questa conca / scavata con dolcezza dal tempo», 4-5 (da correlare a L’estate 3-6: «Di là dal melo i loro gridi cadono / in una dolce conca dove l’erba / s’arrende al taglio netto della falce / e più verde s’adagia»): «questa fedeltà dichiarata al cerchio familiare, alle radici, alle origini, al luogo privilegiato della nostra giovinezza, non è senz’altro il nostro paese natìo […]», afferma Orelli. «Io», prosegue il poeta, «non sono legato al paese natìo, io sono nato ad Airolo, ma se devo scegliere un paese, una sorta di probabile Eliso, qui, non è Airolo; è Prato Leventina, è questa conca di cui parlo qui, questo paese, diciamo così, costruito con dolcezza, con tocchi dei polpastrelli tra le dita, non violenti. Prato Leventina sembra un paese di collina, è il paese di mia madre».33 Ma, d’altra parte, implicitamente il «cerchio» con- duce, è ancora Orelli a suggerirlo nella medesima intervista, «al cerchio esiguo della nostra vita», alla «doppia realtà del vivere»:

Ecco che si vive da un lato intensamente questa vicenda nel cerchio esiguo della nostra vita: “ein kleiner Ring begrenzt unser Leben”, è una famosa poesia di Goethe, il cerchio viene un po’ da lì, «un cerchio esiguo limita la nostra vita» […], che s’intitola molto significativamente Grenzen der Menscheit: Confini dell’umanità…frontiere; dall’altro c’è questo sentimento della doppia realtà del vivere, e bisogna accettare questo: doppia realtà della vita.

Fedeltà ai luoghi, annullamento del confine fra vivi e morti e duplice real- tà espressa mediante una struttura argomentativa bipartita, sono elementi che affiorano anche a una lettura superficiale di Nel cerchio familiare e Strada di Creva:

Strada di Creva Nel cerchio familiare (versione Ot) I Presto la vela freschissima di maggio Una luce funerea, spenta, ritornerà sulle acque raggela le conifere dove infinita trema Luino dalla scorza che dura oltre la morte, e il canto punterà remoto e tutto è fermo in questa conca del cucco affacciato alle valli 5 scavata con dolcezza dal tempo: 5 dopo l’ultima pioggia: nel cerchio familiare ora da cui non ha senso scampare. d’un pazzo inverno nei giorni dei Santi votati alla neve Entro un silenzio così conosciuto lucerte vanno per siepi, i morti sono più vivi dei vivi: fumano i boschi intorno 10 da linde camere odorose di canfora 10 e una coppia attardata sui clivi scendono per le botole in stufe ha voci per me di saluto rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti, come a volte sui monti tornano nella stalla a rivedere i capi la gente che si chiama tra le valli. di pura razza bruna.

II Ma, Questo trepido vivere nei morti. 15 senza ferri da talpe, senza ombrelli 15

195 Georgia Fioroni

Ma dove ci conduce questo cielo per impigliarvi rondini; che azzurro sempre più azzurro si spalanca non cauti, non dimentichi in rincorse, ove, a guardarli, ai lontani dietro quali carillon ve ne andate, paesi decade ogni colore. ragazzi per i prati intirizziti? Tu sai che la strada se discende 20 ci protende altri prati, altri paesi, La cote è nel suo corno. 20 altre vele sui laghi: Il pollaio s’appoggia al suo sambuco. il vento ancora I falangi stanno a lungo intricati turba i golfi, li oscura. sui muri della chiesa. Si rientra d’un passo nell’inverno. La fontana con l’acqua si tiene compagnia. E nei tetri abituri si rientra, 25 Ed io, restituito 25 a un convito d’ospiti leggiadri a un più discreto amore della vita… si riattizzano i fuochi moribondi.

E nei bicchieri muiono altri giorni.

Salvaci allora dai notturni orrori dei lumi nelle case silenziose. 30

Strada di Creva,34 esplicitamente suddivisa in due tempi (segnalati dai numeri romani), si sviluppa sul contrasto fra primo e secondo movimento: all’attesa della primavera, focalizzata sul paesaggio ampio e luminoso che circonda la cit- tadina lacustre, segue un tono cupo e riflessivo che conduce a una dimensione di oscurità e chiusura. Ne deriva uno spostamento: dagli esterni ai silenziosi interni domestici, abitati dalla costante presenza mortuaria che ritma le lunghe giornate invernali. E, tuttavia, tra i due momenti è lecito individuare un’unità di fon- do, emblematica della fragilità del confine tra vita e morte; anzi, del connubio tra vita e morte, condensato nell’incipit, brusco e nominale, del II movimento: «Questo trepido vivere nei morti». Nel cerchio familiare,35 pur non presentando una struttura esplicitamente bipartita, appare idealmente suddivisibile in due tempi, il secondo dei quali inaugurato, al verso 14 (a gradino), dalla congiun- zione avversativa «Ma». Tuttavia, la materia si presenta distribuita in maniera opposta rispetto a Strada di Creva, giacché a una prima parte ambientata nella stagione invernale e negli interni domestici dominati dal silenzio, ed essenzial- mente dedicata alla presenza mortuaria, segue un’ambientazione aperta e più distesa (l’andare, quasi svagato dei ragazzi) e quindi un finale che «contrasta l’angoscia ripresentando fermi al loro posto» gli «oggetti di una quotidianità da cui si prende commiato, ma anche talismani di salvezza e protezione».36 Alla luce di tali osservazioni, non deve sfuggire un’affinità di fondo, suggerita dai titoli e confermata dalla struttura argomentativa: da una parte una duplicità della natura dell’esperienza e della realtà percepite da un io, da un noi; e, dall’al- tra, un’unità di sguardo sui defunti, che assumono «uno statuto di revenants»37 entro un’atmosfera in cui dimensione vitale e dimensione mortuaria coesistono, giacché la presenza dei morti è costante e il sentimento di confine non ha più ragione di esistere.38 Tale comunanza, tuttavia, non stempera il forte contrasto –

196 Orelli e Sereni: un possibile dialogo che sembrerebbe quasi suggerire, benché in forma ancora embrionale, il diverso sviluppo della poesia dei due autori – fra le due chiuse: una richiesta di salvezza rivolta a un indeterminato “tu” in Sereni («Salvaci allora dai notturni orrori / dei lumi nelle case silenziose»), una conciliazione con la vita in Orelli («Ed io, restituito / a un più discreto amore per la vita»). Il silenzio mortuario che sigilla la poesia sereniana – silenzio altresì registrato in Nel cerchio familiare 8-9 («En- tro un silenzio così conosciuto / i morti sono più vivi dei vivi») e forse da far ri- salire, per l’uno e per l’altro, alla lettura di Jules Supervielle –39 o meglio ancora, l’infrazione di quel silenzio, equivale all’annullamento del confine fra vivi e mor- ti; e non sarà dunque inutile rilevare che i testi che seguono Nel cerchio familiare e Strada di Creva, alludano proprio a una forma dialogica: come è ben noto in Prima dell’anno nuovo, di seguito al titolo figura l’epigrafe di Benn («Wer redet, ist nicht tot»), formula che condiziona l’intera poesia di Orelli, e la cui portata è stata acutamente studiata da De Marchi.40 Analogamente, la sezione che segue Strada di Creva, Versi a Proserpina, apre alla parola: i cinque testi anepigrafi che costituiscono la sezione, leggibili come una sola lunga poesia,41 non si limitano a un dialogo interiore rivolto a un “tu”, ma propongono anche l’immissione di una voce introdotta dal verbo dire, pronunciata dapprima da un locutore vago, quindi dalle «ortensie»; nella sezione, accanto all’inserimento di parole e di dia- loghi, appare particolarmente accentuato un percorso a un tempo mortale e vitale, individuato nel più volte citato accertamento orelliano dedicato a Sereni, proponendo al centro la morte («morta», [Dicono le ortensie] 7), circondata da una dimensione vitale («vivo» e «vibri», [Te n’andrai nell’assolato pomeriggio] 5 e 7; «vita», [Così, sirena] 6) e, alle estremità, l’aspetto temporale («giorno», [La sera invade il calice leggero] 3; «giorno», [Sul tavolo tondo di sasso] 5).

L’infrazione del silenzio, negli sviluppi della poesia di Sereni e Orelli, assumerà forme in parte diverse. Se il Diario d’Algeria – ove «[…] non vi può essere attesa dei morti, se è morto colui che dovrebbe incontrarli e la morte è una condizione puramente negativa, non-vita e non oltrevita, diversa vita»42 – meriterebbe un discorso a parte, è noto invece che negli Strumenti umani – specie nella sezione Apparizioni o incontri –, i morti parlano (e parlano più dei vivi), con i vivi dia- logano (sebbene di dialoghi spesso «tragici e delusivi» si tratti);43 e, malgrado l’utopia che sigilla Gli strumenti umani (la nota chiusa de La spiaggia: «Non / dubitare, – m’investe della sua forza il mare – / parleranno»), in Stella variabile i morti «non sono altro che coloro che ci lasciano qui, soli e feriti».44 Al dialogo con i morti, Orelli sembra preferire il dialogo con i morituri, personaggi che nella loro umiltà appartengono a una «doppia realtà»:

C’è una sorta di scelta anteriore di questo microcosmo e anche di questi microracconti, ed è su questa pre-creazione che si dovrebbe mettere l’accento; e allora se si legge tutta la composizione [Sinopie] si nota una convergenza tematica che è di molta parte della mia poesia; ossia questa realtà, […] della quale fanno parte umili personaggi del mondo quotidiano, è una doppia realtà: io colgo istintivamente, per mia natura, questo aspetto della realtà, della doppia realtà, della realtà della vita che per me contiene sempre la

197 Georgia Fioroni morte; ecco perché lì si corre a morte (lo dico al modo di Dante), è un verso di Dante, del viver che è un correre alla morte.45

Con coloro che “corrono a morte” dialoga, a loro dà la parola; ma con colo- ro che non sono più, e di coloro che non sono più, vorrebbe parlare: «D’altri / pure vorrei parlare, che sono già tutti sinopie / (senza le belle beffe dei peschi dei meli) / traversate da crepe secolari» (Sinopie, Si, 17-20).46 Tenendo conto in questa sede solo dei componimenti esplicitamente mortuari in cui l’io dialo- ga con una seconda persona, il «correre alla morte» tende ad accentuarsi e gli interlocutori dell’io appaiono sempre più vicini al «margine d’ombra». Esem- plificativa di tale fenomeno è Una visita (Sp), opportunamente definita da De Marchi «vero pendant (al femminile) di Sinopie»:47 lo stesso Orelli d’altra parte, nell’intervista citata più volte, sembra intrecciare il discorso relativo a Sinopie con elementi variamente presenti in Una visita:48

… e quindi queste fugaci apparizioni di stagione («le belle beffe dei peschi dei meli»), con un che di beffardo, nella loro vicenda rapida, fugace, che è poi anche sull’arco di anni. Io ho incontrato una vecchia pochi giorni fa, raccogliendo castagne, dalle parti di Camorino, […] verso i “Fortini della Fame”, un mio amico ha una sorta di pascolo, bel- lissimo; e stavo raccogliendo castagne e incontrai una vecchia, e a un certo momento, mi disse che era di Camorino, proprio di quelle parti, e mi additò la sua casa che era poco lontana; e mi disse che quando era ragazza quella collina era tutto un profumo, era tutta peschi, dice: l’era un profüm, era tutto un profumo; adesso non c’è quasi più niente; però è bello lo stesso: ci sono ancora i “Fortini della Fame”, c’è qualche pesco, ma insomma era tutto un fiore e un profumo di pesco. È straordinario.

Nel corso di una visita, in ospedale, a una «mite signora» («I cumuli di sé sui letti d’ospedale. / Se ne stagliano poveri crinali / scossi appena da colpi repressi di tosse. // I rapporti difficili coi fiori, / specie nei corridoi», 1-5), a prendere più volte la parola è l’io («“Quest’anno”, dico, non è ancora ottobre / e ho già rac- colto castagne», 10-11; «Chi sa se la mia voce / trova giusti versanti», 15-16; «Mi tornano a mente / incontri di primavera e dico» […], 31-32; «Le ho dato una risposta smerlettata», 38; «[…] Tu credi, mi son detto, / che nessuno ti stia guar- dando, ma ti sbagli […]», 40-41; «in cima a un ronco una vecchia mi ha chiesto “cosa cercava là giù”. L’oro, le ho detto […]», 42-43); analogamente anche la «mite signora» e una sua compagna di stanza parlano, raccontano aneddoti; e a parlare sono altresì i protagonisti di tali aneddoti («una donna magrissima / vestita di giallo»; la sorella della «paziente / meno anziana»; «una donna»; «una vecchia»; e, infine, un indeterminato «uno»). Chi invece non parla, chi non dà segni di vita è colei che appare, forse, già quasi sinopia: «Sorride la mite signora, / sorride la donna d’Iragna; la terza, di cui non ho mai / potuto cogliere gli occhi, s’è fatta scoglio. / Vorrei, per sentirne la voce, ricordare che un giorno / mi sono fermato a raccogliere noci cadute / fuori del prato d’uno che quando mi ha visto mi ha detto / di prenderle tutte, tanto non le mangiavano», 43-49. Non è casuale che le zone testuali più insistentemente percorse da un’ombra mortuaria – e

198 Orelli e Sereni: un possibile dialogo quindi dal silenzio – siano quelle in cui si insinua il nesso /s/ vs /k/: i versi 1-3 («I cumuli di sé sui letti d’ospedale. / Se ne stagliano i poveri crinali / scossi appena da colpi repressi di tosse»); 6-7 («Mentre le due compagne, forse, dormono / voltandomi la schiena»); 43-46 («Sorride la mite signora, / sorride la donna d’I- ragna; la terza, di cui non ho mai / potuto cogliere gli occhi, s’è fatta scoglio. / Vorrei, per sentirne la voce, ricordare che un giorno»: e si noti qui che, ancora una volta, il ricordo sembra allontanare la morte); e infine nell’ultima strofa – secondo a parte della poesia, ove a parlare «è la voce fuori campo» –49 domina la presenza della «mosca»-morte. Si tratta di un nesso su cui Orelli si sofferma in un articolo intitolato Appunti su Char, dedicato a Vittorio Sereni, ed edito nella rivista “Il piccolo Hans” nel 1980 (25, gennaio-marzo). In queste pagine – che rielaborano alcune delle osservazioni già espresse in una lettera a Sereni del 24 novembre 1974 (riprodotta in Allegato) relative ad alcune scelte traduttorie (nel 1974 esce la traduzione sereniana di Ritorno sopramonte e altre poesie di René Char) –, a proposito del termine «obscur», Orelli parla dello slancio vitale della /s/, poi corroso da /k/ «come insorgenza del negativo, intoppo mortale» (p. 130), con cui dunque «s’afferma la negatività» (p. 131). Tale «intoppo mortale» («scossi», «schiena», «scoglio», mosca») riappare, inversamente, nella X, incon- tro-scontro di /k/ e /s/ (e significativamente non inclusa nell’Abcedario curato da Yari Bernasconi),50 che sigilla la poesia In memoria. Quella stessa In memoria (Ca), in cui l’io voleva dire a un “tu” che pare non poter più ascoltare («Volevo dirti che mi sono accorto», 12); e, analogamente, nel testo che immediatamente la precede, Per zia Anna (Ca), di fronte a una prima persona che non può chie- dere vi è un interlocutore che non può ormai più dire: «Ora non posso chiederti di dirmi / se dove stai smarrendoti qualcuno / ti viene incontro senza spaventarti / e ti prende per mano» (vv. 15-18).

Ma il tema del “correre alla morte” si coniuga in Orelli a un altro universo, inte- ramente rivolto al futuro e tendenzialmente estraneo a Sereni; per quest’ultimo le esperienze personali e storiche sembrano condurre a un io poetante irrisolto, che, addirittura, implica un «tragitto fra nascita e morte» che «non è più pro- gressivo, ma regressivo».51 Tale divario appare confermato, ad esempio, dal ruo- lo dell’universo infantile nella poesia di Orelli e Sereni (motivo che qui mi limito ad accennare rapidamente): nel primo le «figure connesse all’io […], che insi- nuano discorsi, educano il soggetto poetante a prendere le distanze dalla pro- pria centralità»;52 in Sereni la loro presenza, esigua,53 tende invece a correlarsi amaramente a un futuro dipendente da un passato e un presente catastrofici: le figure dei bambini sembrano acuire il senso di colpa dell’io poetante;54 o addirit- tura generare il recupero, entro ogni gesto – anche il più privato e innocente –, di un passato atroce (è il caso di Sarà la noia, Sv).55 È probabilmente anche que- sto passato a determinare i diversi esiti della poesia di Sereni e Orelli: in Sereni il futuro – e quindi anche le giovani generazioni – non ha «nessuna connotazione salvifica»,56 in Orelli il mondo infantile si situa entro una visione in cui il cerchio esiguo si intreccia a un’idea di continuità per certi aspetti rasserenante che, in

199 Georgia Fioroni fondo, altro non fa che ricondurre a uno dei suoi primi testi, Paese,57 ove si regi- strano vita e morte, «inizio e fine, goethianamente stretti in unità»:58 ogni anno è, sì, «[…] un anno che passa» (v. 1), ma «[…] ogni anno che passa è tuttavia / un figliolo che nasce» (vv. 8-9).

200 Allegato Due lettere di Giorgio Orelli a Vittorio Sereni59

Bellinzona, 24 novembre ’7460 Carissimo Vittorio,

molte grazie del consistente Char. In attesa di poterti scrivere con un po’ di calma, ne ho parlato brevemente alla nostra Radio. Pensa: io non conosco bene Char, che ora tu mi costringi a leggere come meri- ta. Il tuo incontro mi sembra fruttuoso e cattivante proprio perché non si può dire che tu (il poeta in proprio) “somigli” a Char. Come poeta che traduce un altro poeta, sei tra quelli che più sento: per lo sforzo (che è insomma umiltà) di risolvere sempre a favore della poesia il rapporto fedeltà-infedeltà. Poiché, dunque, sei sostanzialmente, naturalmente un (diciamo con Machiavelli) respet- tivo, anche più netti m’appaiono gli scarti, le “divergenze” dall’originale. Di essi non sempre riesco a intravvedere le motivazioni. Non vedo bene per esempio, dacché il “pensiero” di Char si configura per solito in un disegno abbastanza “semplice” [Mallarmé è certo più syntaxier], non vedo per quali vere ragioni sufficienti tu divida [p. 59] un verso comeLes longs vents d’hiver vont vous pendre, che me ne rimena uno del Fiore [ti manderò, presto spero, un mio articolo]: Per vento che a Provenza mi ventava; e infatti tu hai sfruttato bene la fricativa, la /v/; ma, come sai, c’è altro. Oppure (ed è un continuare a farti festa): «la sega non ce la fece coi lattiginosi rami, / tanto gelò […]» (p. 83) non attenua troppo la forza dell’avvio francese Tant il gela que […]? Pensa, quasi al limite d’intensità, Tant’è amara che […] di Dante. A livello soltanto (?) lessicale, prenderei Nella pioggia doviziosa, dico il “dovi- ziosa”, che tu – immagino – potrai difendere senza affaticarti. Giboyeuse non conduce verso “saccheggiatrice”, “predatrice”, “brulicante” ecc.? Non c’è qual- cosa di Zanzotto che potrebbe aiutare? Tradurre è, evidentemente, un gareggia- re (Goethe) su vari piani. Tu non gareggi, certo, con Char come (poniamo) il Pocar con Trakl. Ancora grazie, e un abbraccio fraterno dal tuo Giorgio (Orelli)

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201 Georgia Fioroni

Bellinzona, 11 febbraio ’8261 Caro Sereni,

volevo dirti subito il piacere – verso mezzogiorno, entrando in casa – di ve- der sul cassettone toccato da giusta luce un libro che è prestissimo la tua Stella variabile (sei anni di collegio dai benedettini mi fanno incrociare «stelle» e «ma- ter» – admirabilis, amabilis). L’ho poi portato a scuola (è il mio ultimo anno) per leggere ad allievi non troppo “Cioè” ma neanche troppo vispi alcune poesie che mi vengono incontro rapidamente: Ogni volta che quasi, Paura prima e seconda, Altro compleanno… Adesso, non puro ma meglio disposto a salire alla Stella, posso cominciare ad assaporare lentamente ogni pagina. Sono contento, poi, di dirti che ho riscritto il primo dei tre studi manzoniani che cercasti ammirevolmente di far pubblicare nel “Saggiatore”; posso dunque dire che mi è andata bene. Spero di vederti (a Segrate?). Grazie di cuore. Affettuosamente tuo Giorgio Orelli

* Di séguito le sigle impiegate per le opere di Vittorio Sereni e Giorgio Orelli: V. Sereni: F1941 = Frontiera, Edizioni di “Corrente”, Milano 1941; P1942 = Poesie, Val- lecchi, Firenze 1942; Da1947 = Diario d’Algeria, Vallecchi, Firenze 1947 (quindi Da1965 = V. Sereni, Diario d’Algeria, Mondadori, Milano 1965); Su = Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1965 (quindi V. Sereni, Gli strumenti umani, con un saggio di P.V. Mengaldo, Einau- di, Torino 1975; F1966 = Frontiera, nuova edizione, Scheiwiller, Milano 1966; Sv = Stella variabile, in 130 esemplari fuori commercio, ill. di R. Savinio, tirata col torchio a mano per l’Associazione “Cento amici del libro”, Verona 1979 [ma in realtà 1980] (quindi V. Sereni, Stella variabile, Garzanti, Milano 1981). G. Orelli: Nbv = Né bianco né viola (versi del 1939-1943), con una prefazione in versi di G. Contini, Collana di Lugano, Lugano 1944; Pan = Prima dell’anno nuovo, Leins e Vescovi, Bellinzona 1952; P = Poesie, Edizioni della Meridiana, Milano 1953; Ncf = Nel cerchio fami- liare, Scheiwiller, Milano 1960; Ot = L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962; Si = Sinopie, Mondadori, Milano 1977; Sp = Spiracoli, Mondadori, Milano 1989; Ca = Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001. Gdv = G. Orelli, Un giorno della vita, Lerici, Milano 1960 [da cui si cita], ristampato nel 2014: G. Orelli, Un giorno della vita, Erzählungen Italienisch und Deutsch. Mit einem Vorwort von Pietro De Marchi und einem Nachwort der Übersetzerin [Julia Dengg], Limmat, Zürich 2014. I corsivi, salvo indicazione contraria, sono nel testo. 1 G. Orelli, Scheiwiller, ricordo di un amico-editore (intervista di Bruno Boccaletti), in “Giornale del Popolo”, 21 ottobre 1999, p. 39. 2 Id., Un accertamento su Char e Sereni, in Per Vittorio Sereni, Atti del convegno di poeti (Luino 25-26 maggio 1991), a cura di D. Isella, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1992, pp. 65-79. 3 L’articolo, in forma abbreviata, compare poi in Luino e immeditati dintorni. Geografie poetiche di Vittorio Sereni, Catalogo della mostra (Varese 27 febbraio-20 marzo 2010), a cura di A. Stella e B. Colli, con la collaborazione di T. Zanetti, Insubria University Presse, Varese 2010, pp. 135-136.

202 Orelli e Sereni: un possibile dialogo

4 A questi dati – che traggo dall’utilissima Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Mon- torfani, con la collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014 – saranno da aggiungere alcuni interventi “minori”, altresì segnalati nella Bibliografia: è il caso dell’articolo intitolato «Allibisco all’alba», apparso il 27 febbraio 1988 sul “Corriere del Ticino” (p. 43), che contiene accertamenti su Dante, Petrarca, Leopardi, Ungaretti, Montale e Sereni. 5 Le indicazioni relative ai materiali televisivi sono contenute sia nella Bibliografia di Gior- gio Orelli, sia nell’archivio della Confederazione Svizzera (https://www.helveticarchives.ch). 6 Le cinque lettere recano la segnatura SER LA 0386 all’Archivio Sereni. Si trascrivo- no qui, in Appendice, per gentile concessione di Mimma Orelli e degli eredi Sereni – che ringrazio – due lettere, risalenti al novembre 1974 e al febbraio 1982: la prima dedicata alla traduzione sereniana di Char (R. Char, Ritorno sopramonte e altre poesie, a cura di V. Sereni, prefazione di J. Starobinski, traduzione di V. Sereni, e con appunti del traduttore, Mondado- ri, Milano 1974); la seconda alla ricezione dell’ultima raccolta di Sereni, Stella variabile. 7 Linea lombarda. Sei poeti, a cura di L. Anceschi, Magenta, Varese 1952. Di Sereni sono riportate Canzone lombarda (F1941, P1942, F1966), Nebbia (F1941, P1942, F1966), Diana (F1941, P1942, F1966), Inverno a Luino (F1941, P1942, F1966), Zenna (F1941, P1942 e, con il titolo Strada di Zenna, a partire da F1966), Un’altra estate (F1941, P1942, F1966), Paese (F1941, P1942, F1966), Strada di Creva (P1942 e F1966), [Non sa più nulla, è alto sulle ali] (Da1947 e Da1965), [Non sanno d’essere morti] (Da1947 e Da1965), [Nel bicchiere di frodo] (Da1947 e Da1965), Via Scarlatti (Da1947, quindi Su), Istruzione e allarme (secondo elemento della suite intitolata Frammenti di una sconfitta, inedita al tempo della pubblicazio- ne di Linea lombarda, quindi inserita in Da1965), L’equivoco (Su, inedita al momento della pubblicazione di Linea lombarda). Di Orelli Risveglio (Nbv), Autunno, il treno lacera la bruma (Nbv), Sera a Bedretto (P e Ot), Frammento della martora (P e Ot), Carnevale a Prato (P e Ot, con il titolo Carnevale a Prato Leventina), La pietra nelle nuvole (P), Dove i ragazzi ammazzano il gennaio (P e Ot), L’ora esatta (P e Ot), Frammento di un andante affettuoso (P), Poesia del febbraio (P e Ot, con il titolo Di febbraio), La trottola (P e Ot, con espunzione della dedica A Luciano Anceschi), Natale 1944 (P e Ot). 8 Già pubblicata in Il laboratorio di Luciano Anceschi: pagine, carte, memorie, a cura di M.G. Anceschi, A. Campagna, D. Colombo, Scheiwiller, Milano 1998, pp. 195-201, la lettera si legge ora in Vittorio Sereni. Carteggio con Luciano Anceschi 1935-1983, a cura di B. Carletti, prefazione di N. Lorenzini, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 169-183. Le citazioni che seguono si trovano alle pp. 169, 177, 179-180. 9 G. Orelli, Linea lombarda?, in Il laboratorio di Luciano Anceschi, p. 203. 10 M.A. Grignani, Posizione del soggetto nella poesia del secondo Novecento, in Ead., La costanza della ragione. Soggetto, oggetto e testualità nella poesia italiana del Novecento, Interlinea, Novara 2002, p. 117. A tale definizione è opportuno aggiungere le osservazioni di Pierluigi Pellini (P. Pellini, Il San Buco e i sentieri da capre. Sulla poesia di Giorgio Orelli, in Id., Le toppe della poesia. Saggi su Montale, Sereni, Fortini, Orelli, Vecchiarelli, Manziana 2002, pp. 241-257): «[…] etichetta spesso usata a sproposito, spesso contestata, non di rado radicalmente negata, eppure straordinariamente resistente. Il paradosso nasce innanzitutto, credo, dal fatto che si tratta di una non-poetica, di un insieme di tratti eterocliti (psicologici, stilistici, tonali, soprattutto – in senso lato – etici) facilmente intuibili ma difficilmente sche- matizzabili)» (p. 242 n.). 11 Cfr. P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli, in Id., Poeti italiani del Novecento, Mondado- ri, Milano 1978, p. 818: «La peculiare posizione di “lombardo di Svizzera” […] dà anche ad Orelli una collocazione molto personale all’interno della linea lombarda cui subito l’ha ascritto Anceschi e che è per molti aspetti il suo clima poetico più prossimo, come indicano talune parentele con Sereni (per esempio il motivo dei “morti… più vivi dei vivi”) o il gusto fra oggettivo e aleatorio della quotidianità occasionale, non lontano da Erba e Risi». 12 Si tratta, per la precisione, di Un posto di vacanza (Sv, III), Niccolò (Sv, III), Fissità (Sv, III), La malattia dell’olmo (Sv, V), In salita (Sv, V), Il poggio (Sv, V), Autostrada della Cisa (Sv, V), Gli squali (Su, Uno sguardo di rimando), Di passaggio (Su, Appuntamento a ora insoli-

203 Georgia Fioroni ta), Gli amici (Su, Appuntamento a ora insolita), I ricongiunti (Su, Apparizioni o incontri), La spiaggia (Su, Apparizioni o incontri). 13 V. Sereni, «Il ritorno», in Letture montaliane, Bozzi Editore, Genova 1977; V. Sereni, Tra fiume e mare, in “Portus Lunae”, 1 (1977), Sarzana; V. Sereni, Infatuazioni, in Id., Gli immediati dintorni primi e secondi, con Introduzione di F. Brioschi e Note alla prima edizione di G. Debenedetti, Il Saggiatore, Milano 1983. 14 Prima di giungere a queste considerazioni, Orelli rileva la natura assolutamente para- tattica-asindetica della poesia, da correlare al Leopardi di A se stesso («Niente di più paratat- tico-asindetico nella poesia di Sereni. Viene in mente A se stesso di Leopardi, che è di sedici versi con undici punti fermi. […] Nessuna delle inarcature leopardiane (Assai / palpitasti ecc.) in Sereni, ma non pare insulso l’accostare l’abbastanza letterario nullità v. 10 a l’infinita vanità del tutto, con cui termina A se stesso» [p. 77]) nonché, per identità topografia (Bocca di Magra), al Montale de Il ritorno (cui lo stesso Sereni dedica una prosa critica, per cui cfr. n. 13), «che per contro è un flusso ininterrotto di ventisei versi» (p. 78). «Nelle montaliane Note delle edizioni», prosegue Orelli, «leggiamo: “Il ritorno. Aria di musica, nella quale i mozartiani Angui d’inferno non dovrebbero solo giustificare la raffica finale”. La “musica” di Sereni non potrebbe essere più diversa e il motivo del ritorno più lacerato dal morso della fresca morte di cui si legge in altra lirica di Sereni (Le sei del mattino)» (p. 79). 15 «Il secondo endecasillabo (v. 6) sposta il primo accento sulla 1a, Caldo, in accordo con Sangue 4 e Fiori 3: un rapido prendere atto della stagione fuori stagione, in un’aria stranita che finisce col pareggiare vita e morte» (p. 80). 16 Stefano Agosti, a proposito di Di passaggio, si è espresso proprio in termini di «compre- senza dell’uno e dell’altro stato» (S. Agosti, Interpretazione della poesia di Sereni, in La poesia di Vittorio Sereni, Atti del convegno (28-29 settembre 1984), Librex, Milano 1984, p. 43). 17 Di «fedeltà ai vivi e ancor di più forse ai morti» ha parlato Pier Vincenzo Mengaldo in P.V. Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni [2000] (ora in Id., Per Vittorio Sereni, Aragno, Milano 2013, pp. 37-62: 43) e, prima ancora, in Id., Ricordo di Vittorio Sereni [1983], ora in Id., Per Vittorio Sereni, p. 13: «Fedeltà ai luoghi, alle cose, ai vivi; ma anche e soprattutto fedeltà ai morti. Quei morti che egli non scendeva a ritrovare in un movimento di catabasi (Sereni non era per nulla un poeta ctonio), ma che incontrava a mezza via, come la nonna sulla strada di Creva, in quel luogo intermedio fra la vita e la morte o, che è lo stesso, fra la veglia e il sonno che è il luogo per eccellenza della poesia sereniana». 18 Si veda, ad esempio, quanto scrive Orelli nel saggio dedicato a Mario Luzi ove, ripor- tando alcune osservazioni di Luzi sul presente (corsivo nel testo) di Dante, precisa: «dove non occorre tentar di segnare fin dove Luzi parla anche di sé, come accade spesso ai poeti parlando d’altri poeti» (G. Orelli, Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, in “Strumenti critici”, XI [1970], 1, quindi in Id., Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978 [da cui si cita], p. 215). 19 E, su questo tema, la critica offre importanti contributi: P. Fontana, Orelli e l’ora del tem- po, in Id., Arte e mito della piccola patria, Marzorati, Milano 1974, pp. 83-108; G. Pacchiano, Lo spazio cintato di Giorgio Orelli, in “Il lettore di provincia”, V (1974), 16, aprile, pp. 22-32; G. Luzzi (intr. a Orelli), in Poesia italiana 1941-1988: la via lombarda, a cura di G. Luzzi, Casa- grande, Lugano 1989, pp. 97-101; P. De Marchi, Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002 (in generale i capitoli dedicati a Orelli e, in partico- lare, il capitolo «Una cosa che comincia con la r in mezzo». Sul tema della morte, pp. 21-53). 20 «Inclino a pensare che ogni giorno in qualche modo contiene tutta la vita, e va dunque vissuto con attenzione a sé stessi e alla realtà. Di qui il desiderio di approfondimento della conoscenza di noi stessi e di comprensione quotidiana di sé, e anche lo sforzo di non lasciarsi scappare troppo di noi e del mondo che ci circonda, di fronte al furto irrimediabile del tem- po» (Giorgio Orelli in un’intervista a Pietro De Marchi in occasione dei suoi ottant’anni, ora in P. De Marchi, I giorni della vita. Per i novant’anni di Giorgio Orelli, in Giorgio Orelli. I giorni della vita, a cura di P. De Marchi, con la collaborazione di S. Soldini, Casa Croci, Men- drisio 2011, p. 9). 21 Cfr., a questo proposito, P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo». Sul tema della morte, in Id., Dove portano le parole, pp. 22-23.

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22 Nel saggio dedicato a Luzi (G. Orelli, Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, p. 206), Orelli afferma: «Ullmann ricorda questa nota di Baudelaire: “Je lis dans un critique: ‘Pour de- viner l’âme d’un poète, ou du moins sa principale préoccupation, cherchons dans ses oeuvres quel est le mot ou quels sont les mots qui s’y représentent avec le plus de fréquence, le mot traduira l’obsession’”». Sereni, a sua volta, in un’intervista risalente al 1972 (in M. Grillandi, Vittorio Sereni, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 3), dice: «C’è un’età a partire dalla quale si comincia a sapere con certezza che un giorno si muore. Prima di questa chi scrive versi è solito corteggiarla, la morte. È capitato anche a me. Quando subentra quella certezza, si tende a nominarla molto meno». 23 F1966, trentasette poesie per un totale di 548 versi, registra undici volte il lemma «mor- te», sei volte «vita». In Ot, quarantanove testi, per un totale di 710 versi, si registrano tredici occorrenze del termine «morte» o derivati – di queste quattro sono impiegate in senso figura- to – e sette occorrenze di «vita» o derivati. 24 Come indicato nel cappello introduttivo alla poesia nella tesi di dottorato friburghese di Yari Bernasconi, la versione in rivista – oltre alla variante del titolo (e del verso 6), con «famigliare» in luogo di «familiare» registra (verso 23) «un più semplice “ragni” invece di “falangi”». Inoltre, il punto fermo che sigilla la poesia in Ncf è sostituito nella redazione di Ot dai puntini di sospensione, già nella stampa delle “Botteghe oscure” (cfr. G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e commento a cura di Y. Bernasconi). 25 Entro le parentesi quadre il primo numero indica la posizione del testo in Ncf, mentre il numero che segue la freccia la posizione del testo in Ot; l’asterisco indica invece le poesie inedite. Le varianti testuali fra le diverse edizioni (in rivista o in raccolta) sono puntualmente segnalate nei cappelli introduttivi a G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e commento a cura di Y. Bernasconi. 26 Testi che – causa il trasferimento di Epigramma veneziano e Il fanciullo del paradiso in altre sezioni del libro nonché l’anticipo delle due poesie succitate – continuano ad occupare le medesime posizioni. 27 L’affinità è stata rilevata da Yari Bernasconi in G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e commento. 28 Il sintagma e, più in generale, i versi 9-10, sono pressoché identici (lo ha già segnalato Yari Bernasconi nella sua tesi di dottorato) a un passo del racconto Un giorno della vita: «Ora Antonio potrebbe rimaner solo a lungo, senza timore di tonfi, di gridi, senza far nulla che non sia sopportabile, o che gli sembri assurdo. La pietà di sé non gli impedisce di reggersi al margine d’un nulla in cui sorge, come una riva, un poggio, e suore invisibili passano, pregano, cantano, tutto segue una legge inviolabile» (G. Orelli, Un giorno della vita, Gdv, p. 165). Sulla fecondità del rapporto fra poesia e prosa in Giorgio Orelli, si veda lo studio di M. Dan- zi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in “Autografo”, 6 (1989), 18, pp. 3-20. 29 G. Orelli, La morte del gatto, Gdv, p. 96. I���������������������������������������������� corsivi, ad eccezione dei termini «telefona- te» e «cordina» (nel testo), sono miei. 30 P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», p. 23. 31 Cfr. P.V. Mengaldo, Note sul «Diario d’Algeria» [1999], in Id., Per Vittorio Sereni, p. 99: «L’attesa […] sarà soprattutto attesa dell’incontro coi morti, individui o categoria, come utopia o prospettiva di un’umanità migliore che in loro si conserva o si crea proprio in quanto morti». 32 Lo afferma Orelli nel programma della Televisione della Svizzera Italiana Carta Bianca (intervista di Federico Jolli ed Enrico Lombardi) del 23 novembre 1989, ora disponibile (insieme ad altre apparizioni televisive di Orelli) al sito http://www6.rsi.ch/home/channels/ lifestyle/personaggi/2011/04/14/orelli.html?selectedVideo=2#Video: «La famiglia, io lo dico con una certa energia nella poesia quando dico nel cerchio familiare da cui non ha senso scam- pare – c’è anche una rima, ma questa rima, baciata, mi pare che concentri un po’ il mio status coscientiae, come si dice». 33 Sono parole della già citata intervista (23 novembre 1989). 34 Per un commento integrale al testo rinvio a V. Sereni, Frontiera. Diario d’Algeria, a cura di G. Fioroni, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, Milano 2013, pp. 177-187.

205 Georgia Fioroni

35 Per un commento puntuale al testo, si veda G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e commento a cura di Y. Bernasconi. 36 M.A. Grignani, La poesia di Giorgio Orelli, in Ead., Lavori in corso: poesia, poetiche, metodi nel secondo Novecento, Mucchi, Modena 2007, p. 170. 37 G. Isella, Per «Sinopie» e «Spiracoli», in punta di penna», in “Bloc-notes”, 64 (2014), maggio, p. 86. 38 È questo un «luogo nel quale questa frontiera [fra vivi e morti] viene annullata» (P. De Marchi, La frontiera fra detto e non detto, in Id., Dove portano le parole, p. 54). E, ancora: «all’inevitabilità della morte sono i morti stessi a contrapporre la continuità della vita» (P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», pp. 34-35), come recita il verso «i morti sono più vivi dei vivi». 39 Mi limito qui a citare qualche esempio (pur consapevole che l’indagine meriterebbe di essere approfondita), ove non sfuggirà l’importanza dei ritratti (quei ritratti che i «morti» di Nel cerchio familiare «aggiustano»): Les portraits (da Comme des voiliers [1910]), 1-2: «De- vant vos vieux portraits, je m’assis en silence, / Un jour que mon coeur avait froid» e 19-20: «Et je fus effrayé par votre grand silence: / Vous étiez des portraits de morts»; l’epigrafe della raccolta Gravitations (che reca la dedica À Valéry Larbaud): «Lorsque nous serons morts nous parlerons de vie Tristan l’hermite»; e, sempre nella medesima raccolta, Le portrait 9-10: «Que je penche sur la source où se forme ton silence / Dans un reflet de feuillage que ton âme fait trembler» e 24-28: «Je parle durement aux morts parce qu’il faut leur parler dur, / Debout sur des toits glissants, / Les deux mains en porte-voix et sur un ton courroucé, / Pour dominer le silence assourdissant / Qui voudrait nous séparer, nous les morts et les vivants». 40 Si veda, a questo proposito, P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo» (in particolare il paragrafo Chi parla non è morto, pp. 23-24), ove si sottolinea che «la vita, per essere, leopardianamente “vera vita”, deve farsi dialogo» (p. 23) nonché il legame (fortemen- te presente in [Se fai come il vecchio sartore]) «tra il pensiero della morte e la volontà di dire» (p. 24). 41 Riporto di seguito, per completezza, i testi della sezione (e, per il loro commento, cfr. V. Sereni, Frontiera. Diario d’Algeria, pp. 191-214): [La sera invade il calice leggero]: «La sera invade il calice leggero / che tu accosti alle labbra. / Diranno un giorno: – che amore / fu quello… –, ma intanto / come il cucù desolato dell’ora / percossa da stanza a stanza / dei giovani cade la danza, / s’allunga l’ombra sul prato. / E sempre io resto / di qua dalla nube smemorata / che chiude la tua dolce austerità»; [Te n’andrai nell’assolato pomeriggio]: «Te n’andrai nell’assolato pomeriggio / per le strade che seguono le colline / sul lago che brulica di barche / arido nel ferragosto. / Di quest’attimo vivo / E poi di nulla. E tu / ne vibri assorta in ogni vena / o mia voce più dolce… Ma sempre / lo stesso stupore l’avvento / saluterà della luna / dietro il colle di Bédero, ove al chiaro / prato che di compianto circonfonde / ogni luo- go già nostro / torneremo anche noi due / abbandonati sull’orlo dei rivi»; [Dicono le ortensie]: «Dicono le ortensie: / – è partita stanotte / e il buio paese s’è racchiuso / dietro la lanterna / che guidava i suoi passi – / dicono anche: – è finita / l’estate, è morta in lei, / e niente ne sapranno i freddi / verdi astri d’autunno –. / Un cane abbaiava all’ora fonda / alla pioggia all’ombra del mulino / e la casa il giardino / si vela di leggera umidità»; [Così, sirena]: «Così, sirena, / mutò la tua natura / nel volto delle fosche / madonne di queste parti. / È un fuoco salito alle ville. / E insieme in me la tua lontana vita / si fa sempre più tenue e smarrita / con l’ombra delle nuvole sui prati»; [Sul tavolo tondo di sasso]: «Sul tavolo tondo di sasso / due versi a matita, parole / per musica fiorite su una festa. / Di occhi ardenti, di capelli castani? / Come fu quel tuo giorno, e tu com’eri? // E oggi qui attorno la quiete / dei vetri indifferenti, oggi il minuto / sfaccendare dei passeri là fuori». I corsivi sono miei. 42 P.V. Mengaldo, Note sul «Diario d’Algeria» [1999], ora in Id., Per Vittorio Sereni, p. 99. 43 Id., «La spiaggia» [1997], ora in Id., Per Vittorio Sereni, p. 181. 44 Ibi, p. 183. 45 Sono parole dell’intervista citata più volte, per cui cfr. nota 33. 46 Qui e nelle successive citazioni di Una visita, il corsivo è mio. 47 P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», p. 41.

206 Orelli e Sereni: un possibile dialogo

48 Una visita: «I cumuli di sé sui letti d’ospedale. / Se ne stagliano poveri crinali / scossi appena da colpi repressi di tosse. // I rapporti difficili coi fiori, / specie nei corridoi. // Mentre le due compagne, forse, dormono / voltandomi la schiena, sùbito mi saluta / la mite signora che vengo ogni tanto a trovare, / e mi parla di teneri agguati autunnali. // “Quest’anno”, dico, “non è ancora ottobre / e ho già raccolto castagne, a due passi da qui, / bellissime, il tramonto me le accendeva in mano, / e in un sito appartato di là da un torrente fra i ricci / ho visto rane, salamandre”. // (Chi sa se la mia voce / trova giusti versanti. Forse basta / spirare, come faccio, sorpreso da nebbie / che arruffano ogni sponda dell’anima). // “Ieri entrato nel bosco / dove ho sempre trovato le castagne più scure / mi son visto adoc- chiare da un gatto che presto è sparito / in un folto in pendìo con uno scroscio d’acqua / che ricordavo più forte, ed è sorta una donna / magrissima, vestita di giallo, mi ha detto decisa ‘lei guardi / che lì è privato se non lo sa’”. “Dalle mie parti, a Iragna”, / dal suo margine d’ombra svolgendosi / con occhi d’azzurro stremato racconta la paziente / meno anziana, “in un bosco di tutti dove andavo già da bambina / ci hanno tirato sassi, ragazzi in gruppo, e per calmarli mia sorella / sa cos’ha fatto? gli ha messo su un muretto delle pere, / ‘è la nostra merenda’, gli ha detto, ‘prendetela’, ebbene, le hanno / spazzate via coi bastoni ghignando”. Mi tornano a mente / incontri di primavera, e dico: “Anche fuori sui prati / non sempre mi va bene quando cerco / cicorietta. Una volta una donna, dopo avermi tenuto / d’occhio un bel po’ nella piana da Camorino a Comelina, / mi ha lentamente avvicinato e mi ha detto ‘signore, / mi piace tanto anche a me questa insalata’. / Le ho dato una risposta smerlettata / ma sono andato via, sono salito sui ronchi / sotto Vigana, ma c’era solo qualche croco. Tu credi, mi son detto, / che nessuno ti stia guardando, ma ti sbagli, e infatti / in cima a un ronco una vecchia mi ha chiesto ‘cosa cercava / là giù?’ L’oro, le ho detto”. Sorride la mite signora, / sorride la donna d’Iragna; la terza, di cui non ho mai / potuto cogliere gli occhi, s’è fatta scoglio. / Vorrei, per sentirne la voce, ricordare che un giorno / mi sono fer- mato a raccogliere noci cadute / fuori del prato d’uno che quando mi ha visto mi ha detto / di prenderle tutte, tanto non le mangiavano. // (Unica mosca visibile nella stanza che invade la sera, / tu non ronzi ma non fai compagnia, / tu troppo insisti su quel dorso labile / di mano, troppo nera / su quella fronte. Non avrai nido / ma sei senza ritegno, perciò brandisco un ridicolo / acchiappamosche e ti uccido)». 49 P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», p. 41. 50 G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014. 51 P.V. Mengaldo, «La spiaggia» [1997], p. 183. 52 M.A. Grignani, Posizioni del soggetto nella poesia del secondo Novecento, p. 127. Il motivo dell’universo infantile in Orelli viene altresì approfondito da Ead., Postfazione, in G. Orelli, Rückspiel / Partita di ritorno, traduzione a cura di C. Ferber, Limmat, Zürich 1998, pp. 222-223. 53 Primo riferimento si registra in Dimitrios (Da), piccolo bimbo greco, con dedica a mia figlia; in Su si trovano tre testi (Quei bambini che giocano, Crescita, Di taglio e cucito) incentra- ti su giovanissime generazioni e altri due (Sarà la noia e Giovanna e i Beatles) sono in Sv. 54 Quei bambini che giocano // un giorno perdoneranno, / se presto ci togliamo di mezzo. / Perdoneranno. Un giorno. / Ma la distorsione del tempo / il corso della vita deviato su false piste / l’emorragia dei giorni / dal varco del corrotto intendimento: / questo no, non lo per- donerranno», Su, vv. 1-8. 55 Sarà la noia // dei giorni lunghi e torridi / ma oggi la piccola / Laura è fastidiosa pro- prio. / Smettila – dico – se no… / con repressa ferocia / torcendole piano il braccino. // Non mi fai male non mi fai / male, mi sfida in cantilena / guardandomi da sotto in su / petulante ma già / in punta di lagrime, / non piango nemmeno vedi. // Vedo. Ma è l’angelo / nero dello sterminio / quello che adesso vedo / lucente nelle sue bardature / di morte / e a lui rivolto in estasi / il bambinetto ebreo / invitandolo al gioco / del massacro». 56 P.V. Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni [2000], in Id., Per Vittorio Sereni, p. 61. 57 Già edita, con qualche variante (per cui si veda G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e commento a cura di Y. Bernasconi), in Nbv. I versi citati qui seguono la lezione Ot (in Nbv i versi 1 e 9 sono isolati).

207 Georgia Fioroni

58 P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», p. 35. 59 Nella trascrizione delle lettere (per cui rimando alla nota 6), si riproducono le scelte grafiche (maiuscole, sottolineature, rientri, ecc.) dell’autore. 60 Lettera scritta a penna, con inchiostro nero, su foglio bianco di formato A4. 61 Lettera scritta a penna, con inchiostro nero, su foglio bianco di formato A4. Incerta la data dell’11 febbraio; potrebbe trattarsi di un 21 o di un 29 febbraio.

208 YARI BERNASCONI Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli

Tengo soprattutto a mettere sotto l’occhio dell’umile e paziente lettore alcuni prodotti in cui la poetessa torinese ci appare particolarmente fedele a se stessa, o semplicemente fe- lice, grazie a un linguaggio che rispecchia, senza forzature, le immagini di un’anima sen- sibilissima, il suo “sentimento del tempo” (dell’“ora del tempo”, della stagione), quello che resta nella memoria in cui tutto, forse, si purifica.1 Così Giorgio Orelli, recensendo nel 1955 Le acque del sabato di Maria Luisa Spaziani, ci regala – difficile dire quanto coscientemente – una prima, privile- giata porta d’accesso all’auto-antologia che avrebbe pubblicato sette anni dopo nella collana mondadoriana dello “Specchio”: L’ora del tempo.2 Un autocom- mento in proiezione, verrebbe da dire, secondo un procedimento che in Orelli non stupisce e non ha mai stupito: la tenuta e le interferenze – o, meglio, il con- tinuo dialogo – attraverso i generi, e più in generale la coerenza che attraversa tutta la sua produzione,3 hanno sempre permesso e forse suggerito questo tipo di letture trasversali.4 Non vi è alcun imbarazzo, dunque, nel prendere in prestito le parole usate da Orelli per la Spaziani e accostarle alla sua raccolta del 1962, dove l’autore – selezionando cinquanta testi nelle precedenti quattro raccolte (Né bianco né vio- la, 1944; Prima dell’anno nuovo, 1952; Poesie, 1953; Nel cerchio familiare, 1960) e alcune poesie inedite o apparse solo su rivista – propone precisamente «il suo “sentimento del tempo” (dell’“ora del tempo”, della stagione)». La ripresa nel titolo dell’emistichio dantesco – che nel ’55 andava a ispessire il più spon- taneo concetto ungarettiano – è in questo senso illuminante e, pur riferendosi in primo luogo alla memoria, abbraccia passato, presente e futuro. Come nella Commedia (Inf. I, 37-43), dove chi è minacciato guarda indietro, all’origine delle cose, e rinfrancandosi trova speranza per il futuro:

Temp’ era dal principio del mattino, e ’l sol montava ’n sú con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino mosse di prima quelle cose belle; sì ch’a bene sperar m’era cagione di quella fiera a la gaetta pelle l’ora del tempo e la dolce stagione.

Giorgio Orelli, con L’ora del tempo, fa senz’altro – come afferma Maria An- tonietta Grignani – «il punto su due decenni di lavoro»,5 ma fissa anche e so-

209 Yari Bernasconi prattutto i termini della sua esperienza, ridisegnandone in parte le coordinate e voltando definitivamente pagina verso una produzione che si farà ancora più misurata (Sinopie, 1977; Spiracoli, 1989; Il collo dell’anitra, 2001). La scelta antologica è decisamente severa e, quand’anche parlare di «severis- sima autocensura»6 può sembrare eccessivo, i testi scartati – una settantina solo tra quelli pubblicati in raccolta – sono troppi per essere ignorati. Al di là dei vin- coli editoriali, l’operazione proposta da Giorgio Orelli – che non solo seleziona i testi, ma qua e là li modifica, li riordina, in alcuni casi li riscrive o modifica strut- turalmente – è frutto di una riflessione profonda sul suo percorso letterario. Di certo è che l’autore non dà in queste pagine una mera testimonianza storica del suo lavoro. Anche Giovanni Orelli, già autore dell’antologia Svizzera italiana,7 in un articolo dedicato a uno dei testi esclusi de L’ora del tempo nota con scher- zoso risentimento che «tra le poesie selezionate non figurano due testi ai quali io (se posso propormi, per ipotesi di lavoro, quale antologista-storico) avrei dato la “preferenza”, proprio perché testi che mi sembrano particolarmente atti a costruire l’identikit del poeta».8 Ma forse è proprio questo il punto: a Giorgio Orelli non interessava – e comunque non in primo luogo – «costruire l’identikit del poeta». Voleva anzitutto attraversare i suoi vent’anni d’attività con un lavoro di memoria: «quello che resta nella memoria in cui tutto, forse, si purifica», se torniamo alla recensione del 1955 citata in apertura. Per diversi motivi, anche estranei allo stesso autore, l’influenza de L’ora del tempo sulla bibliografia orelliana si è poi rivelata decisiva e ha relegato in se- condo piano tutte le raccolte precedenti, in particolare il ricco volume delle Poesie, di cui appunto – come evidenzia De Marchi – «non si parla quasi mai, che si tende in qualche modo a dimenticare, che spesso sfugge persino alle bi- bliografie».9 È significativo come, nel 1977, appena dopo l’uscita di Sinopie, Gianfranco Contini – che pure aveva tenuto Orelli (per così dire) a battesimo e accompagnato nel 1944 la sua raccolta d’esordio con la celebre epistola in versi – affermi: «Trovo eccellente che in sostanza Orelli sia soltanto l’autore di due libri»; elencando comunque, Contini, le raccolte precedenti a L’ora del tempo e sottolineando – come già Orelli per Spaziani – la «fedeltà a se stesso», espressio- ne non certo inusitata (entro un orizzonte orelliano, si può ricordare Debene- detti che la usò per Saba), ma senz’altro indicativa e calzante. Nella «sostanza», però, anche per Contini, l’antologia d’autore rappresenta sufficientemente le esperienze delle raccolte passate.10 L’ora del tempo si ritrova insomma ad avere un’importanza cruciale e a fun- gere da vero spartiacque della produzione letteraria di Giorgio Orelli. Una ragione di più per prestare la massima attenzione al lavoro che ha preceduto l’uscita del libro e alle scelte operate, risalendo gli anni fino agli esordi. Anche perché – ancora con Contini – la coerenza dell’opera di Orelli permette di fare salti all’indietro nel tempo «senza che ci si rompa l’osso del collo».11

*

210 Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli

Delle centododici poesie pubblicate in raccolta fino al 1962, Orelli ne seleziona quarantuno – cioè il 37% – per L’ora del tempo, aggiungendoci cinque testi ine- diti e quattro testi apparsi solo su rivista o in altre sedi (tra il 1953 e il 1960). I dodici testi di Nel cerchio familiare vengono però tutti riproposti e sono solo le prime tre raccolte a subire dei tagli: per Né bianco né viola i testi scelti sono sei su trenta (20%), per Prima dell’anno nuovo quattro su dieci (40%), per Poesie ventidue su sessanta (37%).12 L’antologia è organizzata, montalianamente, in quattro sezioni – come già Poesie – e segue un percorso tendenzialmente cronologico, pur con diverse e significative eccezioni. La prima sezione ospita il maggior numero di poesie, diciassette, tra cui si trovano i sei superstiti di Né bianco né viola, nove testi da Poesie, un testo da Nel cerchio familiare (Il fanciullo del paradiso) e un altro ancora apparso altrove (Colgo questo paese). La seconda – che è anche, al con- trario della prima, la sezione più breve – conta nove poesie, di cui due da Prima dell’anno nuovo, sei da Poesie e una apparsa solo su rivista (Il lago). La terza ha poi una poesia in più della seconda, per un totale di dieci: sei provenienti da Poesie, una da Nel cerchio familiare (Epigramma veneziano), due pubblicate su rivista (Epigramma pisano e Oltr’alpe) e il primo dei cinque inediti (Il viaggio). La quarta e ultima sezione, infine, conta quattordici poesie (ma in numero di pagine è la più lunga): oltre ai quattro inediti, vi convergono i dieci testi restanti di Nel cerchio familiare. Come s’è detto, l’opera orelliana non soffre il trascorrere degli anni. Questo però non impedisce a L’ora del tempo di testimoniare piuttosto chiaramente di due stagioni letterarie che, sebbene strettamente connesse o molto vicine, evi- denziano una certa evoluzione stilistica. Da una parte la produzione che può dirsi – per comodità – “giovanile”,13 fin verso lePoesie del ’53 o l’antologia Quarta generazione di Piero Chiara e Luciano Erba,14 che ospita alcuni testi di Orelli; dall’altra la produzione più “matura” e forse oggi più facilmente rico- noscibile, di cui Nel cerchio familiare e soprattutto gli inediti de L’ora del tempo sono un primo, sostanzioso assaggio, già perfettamente in linea con Sinopie, come immediatamente indicato da Pier Vincenzo Mengaldo.15 Del resto La tro- ta, che in Sinopie fa da programmatico testo d’apertura, è composto in parallelo all’uscita di L’ora del tempo e nelle 6 poesie del 1964 – dove compare per la prima volta – reca la data «1962»). Due stagioni letterarie riconoscibili sin dalle due quartine del testo “in limi- ne” della raccolta, Perché il cielo è più ingenuo. Anzi, sembra che le due quar- tine – come già notato da Pio Fontana16 – vogliano suggerire attivamente (o emblematicamente) le coordinate di queste due stagioni: la prima quartina, che – dettaglio fondamentale – da sola già fungeva da testo d’apertura di Poesie, a rappresentare il primo quindicennio dell’esperienza poetica di Orelli; la secon- da, inedita, a rappresentare una certa novità, o almeno uno stacco, nei toni e nello stile.

211 Yari Bernasconi

Perché il cielo è più ingenuo

Perché il cielo è più ingenuo splendono bacche rosse, fanciulli seminudi giocano coi superstiti camosci.

Gli scoiattoli uccisi si sono ritrovati per salire in lunga fila dal Padreterno a perorare la mia causa.

Al di là dell’indubbia unità della poesia (suggellata anche dal chiasmo che lega saldamente le strofe), si può leggere la prima strofa come il frutto di un «discepolato ermetico», con una «sorta di frammentismo che esorcizzava il con- tenuto come argomento di discorso, sostituendo alla logica un rapporto psicolo- gico-metafisico con la realtà».17 Si pensi, per esempio, a quello che Orelli scrisse di Nicola Lisi nel 194418 e dove ancora sembra parlare di sé: Un’arte in cui si è fatto sempre più evidente l’elemento irrazionale: Lisi è scrittore-poeta. Egli solleva i fatti più quotidiani in una magica atmosfera, osserva il mondo con occhi ingenui eppure esperti; ma «la naïveté par dessus tout, celle du cœur qui se donne avec confiance». […] E il suo stile è inconfondibile, non densa, precisamente, la sua pagina, ma – come s’è detto – rarefatta, asciutta, in cui si è fermato quel “magico quotidiano” che potremo chiamare il “miracolo quotidiano”.

Nella seconda strofa, invece, quattro versi metricamente più liberi e – mal- grado la presenza di un verbo impegnativo come “perorare”, qui comunque tendente all’ironia, dove forse risuona Il fanciullino di Pascoli19 – dall’andatura più colloquiale e divertita. Certo, parlare di «discepolato ermetico» per Orelli può risultare discutibi- le. Ma è difficile entrare in disaccordo con Maria Antonietta Grignani quando afferma che «nei paraggi del giovanile Ne bianco ne viola il linguaggio sente un poco la “grammatica” dell’Ermetismo»; o con Pietro De Marchi, che sottolinea come in Orelli (ma «l’esemplificazione può arrivare al più fino all’altezza diL’ora del tempo») ci sono testi in cui «il non detto e strettamente connesso alla gram- matica o, forse meglio, alla retorica di derivazione “ermetica”».20 Pier Paolo Pa- solini, del resto, commentando l’antologia Linea lombarda di Luciano Anceschi, nella quale figura anche Giorgio Orelli, non ha dubbi sulla derivazione ermetica dei “lombardi” e cerca di definirne l’aggiornamento:21

È evidente comunque che […] questi lombardi sono il prodotto estremo dell’ermeti- smo: un ermetismo aggiornato nel senso che le istanze realistiche degli ultimi anni lo hanno turbato, ma riconducendolo alla sua anteriore e profonda natura espressionistica: che con la sua violenza urge sia sotto le patine petrarchesco-leopardiane del versante di Ungaretti, sia sotto le patine eliottiane (e, linguisticamente, romantico-pascoliane) del versante di Montale.

212 Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli

Dal canto suo, Mengaldo trova che Orelli poggi, molto più che sull’ermetismo, cui in sostanza e estraneo, […] direttamente su Montale, per lingua e tagli formali: si penserà soprattutto al rapporto evidente fra le forme brevi orelliane e i Mottetti, mentre nel ticinese riecheggia significativamente anche la lezione del Montale “nominalistico” di Keepsake (v. Sera a Bedretto).22

Lo stesso Orelli ha sempre respinto l’ipotesi di un’ascendenza ermetica già a partire da Né bianco né viola. In un resoconto giornalistico del 1963, dove si riassume una conferenza dedicata dall’autore alla sua “evoluzione poetica”, troviamo spunti interessanti non solo per quella prima stagione letteraria, ma anche per la stagione successiva, matura, più aperta alla narrazione:23

[Orelli] comincia a scrivere poesie con molta fiducia nella grazia, nella eleganza, nella parola esatta della poesia pura. […] Ma il poeta è sempre meno accontentato dalla gra- zia, dall’eleganza, dalla purezza elemento integrante della poetica dell’ermetismo. Sente il bisogno di umiliarsi, nel senso di aderire al livello esistenziale. A questo punto, l’autore di Né bianco né viola ha affermato che in quella raccolta non vi è quasi niente d’ermetico. Montalismi, sì, sabismi, sì, “intrisi” di Cardarelli, sì, ma – ha detto – è disposto a pagare un mese a San Remo a chi trova in quelle liriche un solo aggettivo veramente ermetico. […] D’accordo: qua e là c’è l’illusione che il poco detto suggerisse molto. Oggi, la vede – appunto – come un’illusione. Ungaretti scriveva in tempo di guerra quando le parole erano poche e le pallottole molte. […] Anche da Ungaretti trasse una lezione: quella che il poeta italiano diede alla Quarta generazione di lirici della sua terra: il senso pregnante conferito alla parola per cui questa acquista una tensione all’isolamento. E di Montale l’afferrò la sostanza umana e metafisica, insieme con il taglio netto, secco, che si riallaccia alla tradizione madrigalesca. […] Oggi – senza voler essere polemico con il se stesso degli inizi – sente che la purezza non basta più: e i suoi componimenti lirici sono misti, cercano di armonizzare l’esigenza liri- ca e l’esigenza che si può dire narrativa, con il suo discorso prosastico delle cui scorie e dei cui pericoli pure è consapevole. A volte comincia con un racconto e finisce con una poesia. […] Dopo aver parlato del verso lungo e della sua vera natura che non è metri- ca, Giorgio Orelli ha felicemente puntualizzato la sua ricerca di un discorso che sia più semplice (non più facile!), di una poesia che non s’accontenti dell’immagine (pericolo degli anni giovani: Garcia Lorca oggi gl’interessa molto meno di Machado) ma che faccia un discorso […].

*

Entrando più concretamente nel merito delle sezioni, va da subito sottolineato che la struttura e organizzazione interna de L’ora del tempo non si limita ad assecondare o evidenziare le due vene compositive sopra evocate, ed è uno dei motivi per cui la distribuzione delle poesie rispetta solo in parte la cronologia di composizione o pubblicazione. Le quattro sezioni riuniscono e raccontano in primo luogo delle tappe precise della poesia orelliana, in una successione espe- rienziale che è anche maturazione esistenziale e filosofica.

213 Yari Bernasconi

Nella prima sezione – quella con il maggior numero di testi ma anche con i testi più brevi, in alcuni casi tendenti all’epigramma – dominano i luoghi montani cari a Orelli («la mia terra», la terra d’origine), fanno capolino figure di valligiani e montanari chiamati talvolta per nome (personaggi che compaiono e compari- ranno regolarmente nelle poesie e nelle prose di Orelli: Pasquale, Zalèk, Agostino) in un’inequivocabile cartografia, sin dai titoli:Sera a Bedretto, Carnevale a Pra- to Leventina, Campolungo; e poi, ad abitare la vegetazione e la morfologia dello scenario alpino, una moltitudine di animali, che da subito assumono un ruolo centrale24 (e così sarà in tutte le raccolte di Orelli a venire): camosci, scoiattoli, vacche, pecore, capre, lepri, martore, tassi; e ancora, tra gli uccelli, gazze, fagiani, francolini, pernici. Uno degli ambienti ricorrenti è il “paese”, luogo semplice e incorrotto, «grembo o bozzolo che protegge dall’ansia, dalla nevrosi».25 Ma è l’intera prima sezione a godere di un’aura protettiva, amplificata dall’in- trinseca serenità dei suoi protagonisti e dei suoi spazi, scanditi dall’equilibrio naturale e dalla ciclicità della vita: «Ogni anno è un anno che passa»; e anche se «Le madri sanno lunghe trafitture», «ogni anno che passa è tuttavia / un figliolo che nasce». È uno “stato di grazia”, un idillio in cui la realtà è più vicina e si è quindi più consapevoli della propria esistenza. Non c’è affanno, non si rincor- rono grandi interrogativi: «Nulla scoprire. Amare il primo verde / di robinia. […] / Essere il vecchio che socchiude gli occhi / poggiato al suo rastrello». È un mondo dove la gente «s’abbraccia / così, senza partire, / per tornare all’abbrac- cio». Solo gli ultimi due testi della sezione portano altrove: ci si sposta a sud, a Bellinzona, città in cui Orelli ha insegnato e vissuto tutta la vita, a partire dal ’45, con una poesia (Per un componimento di Mario Villa) dedicata a un suo studente della scuola di commercio e, in ultima posizione, L’ora esatta, in cui «i padroni di tutto il Viale / della Stazione sono tre piccioni», con riferimento a una delle vie principali del capoluogo ticinese. È il primo, impercettibile segno del cam- biamento di prospettiva che traghetta alla seconda sezione, dove non solo è ci- tata Bellinzona nel titolo (inedito) Lettera da Bellinzona, ma la città assume una centralità e un’importanza a tratti persino allegorica: «Una fascina d’anni, una collina. / E il castello più alto. / Tutto il grigio all’altezza dei colombi, / tutto il verde che scorre fino al grigio…» La seconda sezione, però, si distingue soprattutto per le sue poesie d’amore: fino a Lettera da Bellinzona, si seguono infatti sei componimenti dove i prota- gonisti sono un uomo innamorato e una donna amata. In cinque casi la donna è destinataria diretta, con una seconda persona singolare: «Oh non schivare di specchiarti, cara», «Dove una sola volta sei passata / e a me distratto lampeggiò brunetta / la luce dei tuoi occhi», «gli occhi su cui m’oriento questa sera / a ricercarti», «L’insetto caduto / nel tuo grembo s’accende di barbagli»; mentre dove compare il “lei” (una sola volta, nella poesia Il calicanto) è solo perché il “tu” diventa rifugio dell’io lirico: «Stringi per lei nella mano un rametto / di calicanto, vivi in questo odore». La figura della donna è sempre al centro di un’affettuosa contemplazione, ma non per questo si riduce al ruolo di comparsa e la sua presenza ha persino effetti salvifici. InTra pochi voli, per esempio, dove

214 Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli

«l’ombra indiscreta della sera» sta raggiungendo la coppia, il suo intervento riaccende versi che si stavano rabbuiando ben oltre il dato atmosferico, e che invece così concludono: «Tu parli di sorgiva per questi occhi / pieni di raggi quotidiani? Grazie». In coda alla seconda sezione, come già nella prima, sono posizionati due testi che si scostano lievemente dal tema dominante e favoriscono la transizione alla terza sezione: Di gennaio e Di febbraio, naturalmente contigui (malgrado non lo fossero in Poesie), dove domina il peso del (tras)correre del tempo26 e dell’assen- za di colore e di vita («colei che ne ha parlato è già lontana»; «Contro l’occhio pervaso di sclerotica / la banderuola non si muove più»), che nell’ultimo com- ponimento è anche assenza di acqua e rassegnazione, infatti «la tuba di un bim- bo che pare / dimenticato / tutta grida la lunga siccità» e «con la speranza che ha di sé pietà, / da vie scordate dalla pioggia un uomo / a quelle case rassegnate va». Questo incupimento dei toni non è casuale e viene a dilatarsi lungo tutta la terza sezione, in quello che – proprio a metà percorso – rappresenta forse il passaggio più brusco della raccolta. I luoghi, per cominciare, cambiano repen- tinamente e diventano più urbani: si scende ulteriormente a sud, in Italia, con Venezia, Pisa e Bergamo (le prime due città citate nei titoli, la terza nel testo). Anche se il vero tema centrale della sezione è quello della morte. S’inizia dal rito di passaggio nell’Aldilà, con tre «epigrammi veneziani» che si accompagnano sempre a una (insistita) figura di angelo: il testo d’apertura pre- senta un «angelo spettinato» che addita «il Campo / da cui si svolta nell’eterna pace»; nel secondo testo c’è chi aspetta «l’Arcangelo, che suoni / dal mare la cornetta»; nel terzo, in cui è descritto un funerale sull’acqua e «i vivi / vengo- no dietro il Morto», c’è «il mare / dove si specchia l’Angelo di prua». Mentre l’Epigramma pisano che segue rende i toni ancora più neri con l’allegoria della morte27 incarnata dal «falciatore» che «falcia un’erba cui più di quel tanto / non concede di crescere / in nessuna stagione, da sempre». La minaccia diventa allora manifesta e imperversa il tema della guerra, inaugurato con La trottola – che prende ispirazione direttamente dal montaliano Finisterre – e ripreso espli- citamente da Novembre 1944 e Natale 1944. Si tratta di una guerra vissuta da spettatore, da un paese neutrale come la Svizzera (si dice infatti «laggiù / dove dura la guerra»; «qui la neve orma alcuna non serba / del sangue da Te sparso, d’ogni sangue / dagli uomini versato»), ma la sua presenza evidente e invadente, perché significa allo stesso tempo presenza di morte, segna un cambiamento di prospettiva. Lo stesso Orelli, pensando a Luzi, parlerà nel 1963 di «inquietudi- ne metafisica, esistenziale, […] poco conciliabile con una certa stagnazione spi- rituale verificatasi nel nostro paese risparmiato dalle guerre».28 L’idillio paesano e montano della prima sezione ne esce incrinato; o meglio: ne esce incrinato lo sguardo dell’io lirico, che non vi trova più il medesimo conforto e ne compro- mette l’adesione. Conscio dell’aleggiare della morte, le «tante notti» diventano «inutilmente / chiare nel vasto abbraccio della luna». Ma soprattutto «Non è il fuoco delle case / che mi chiama e soverchia questa sera / nell’intatto paese»; non più: ora ad attirare la sua attenzione è «lo strepito / inatteso che sale / con

215 Yari Bernasconi i fiati infingardi dell’inverno / dalla riva remota, irraggiungibile, / dove i ragazzi ammazzano il gennaio». Ancora una volta, con lo stesso procedimento che si è notato per le chiuse delle altre sezioni, sono gli ultimi due testi della sezione a cambiare registro, pre- parando il terreno all’ultimo gruppo di componimenti. Due poesie di viaggio, di transizione: Oltr’alpe, che guarda al nord delle Alpi e lascia affiorare il tema del ritorno al passato, all’infanzia, sottolineato una volta di più dalla ciclicità della vita e lo scorrere del tempo, con un battello che «già aspetta, già riparte, è già domani»; e poi un testo intitolato proprio Il viaggio, che è anche il primo dei cinque inediti (l’unico a non comparire in coda al libro). La quarta e ultima sezione è la resultante delle esperienze precedenti, che confluiscono in uno dei concetti o motivi fondamentali – anche per il futuro – di Giorgio Orelli: il «cerchio familiare». Si ritorna soprattutto nei luoghi della pri- ma sezione, montani, legati alle origini di Orelli (già dai titoli, anche qui: Passo della Novena, Dicembre a Prato), ma – come abbozzato nella terza sezione – lo sguardo è cambiato, filtrato dal tempo e dall’esperienza, e c’è una nuova con- sapevolezza che genera continui incontri-scontri tra passato e presente. L’uomo che va nel bosco, poesia con cui si apre la sezione, è infatti una passeggiata in- dietro negli anni, piacevole finché non vi si oppone «a un tratto» l’inesorabilità del tempo nell’immagine dei «compagni ch’è inutile chiamare, / i compagni spariti». Come afferma Pio Fontana, «la memoria riporta al senso dell’irrecupe- rabilità dell’infanzia. Il bosco diventa quindi “intrico”, labirinto che è emblema della “briga della vita”; e infine “nulla”, anzi “margine d’un nulla”, “riva” cui approdare appena o naufragare, scampare».29 Eppure la memoria rappresenta anche uno degli unici modi di cristallizzare un mondo che non esiste più. Solo, di fronte al vuoto e al silenzio, il “paese” e l’idillio alpino con la loro aura pro- tettiva – simbolo della prima sezione – non esistono più. Nel 1975, la prosa Autunno a Rosagarda30 sembra offrire il quadro perfetto di questa situazione:

Dio, che silenzio. Ha ragione il prete, noi non li vediamo ma loro, i morti, ci vedono; raccomandiamoci ai morti. Come dire che i vivi sono loro, e i morti siamo noi. Non è così, signor curato? Vent’anni di Brasile per finire in un paesino di montagna, svizzero, in Isvizzera, a cercar di convincerci che siamo tutti morti, non c’è bisogno di guardare tutte queste case disabitate, non c’è bisogno…

E ancora più significativa – nello stesso racconto – è la comparsa di Pasquale, uno dei personaggi che nella prima sezione de L’ora del tempo illuminava con la sua presenza i versi: lì, nella poesia Vigna, si voleva «ricordare / la tua vigna, Pasquale, inimitabile»; qui, più di trent’anni dopo, diventa un’assenza che si ri- percuote su quello stesso scenario che sembrava intoccabile e come sacralmente protetto:

Mia madre tornando dal pollaio si ferma a guardare l’orto di Pasquale, che in questi tempi tratta quasi da pari a pari con la vigna di Renzo. «Adesso poi, che è quasi sempre

216 Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli su a Cintone», dice, «non gli verrà in mente neanche la melissa, che come decotto per lui non c’è niente di meglio». «Cosa fa a Cintone?» «Aiuta quei di Medardo, soprattutto in stalla». «Ah, perché Medardo…» «È malato, l’hanno menato all’ospedale, a Faido. Dicono che non è neanche un po’ bene. Deve fare un’operazione, dev’essere brutta».

Vittima di questa evoluzione, il microcosmo montano si restringe così a ciò che è più umanamente vicino e riconoscibile, e più legato al luogo come origi- ne, cioè il «cerchio familiare / da cui non ha senso scampare», dove le conifere hanno una «scorza che dura oltre la morte» e ogni cosa è al suo posto: ecco la svolta, la nuova consapevolezza esplicitata dalla poesia Nel cerchio familiare. La memoria – cioè il lavoro di memoria – diventa cruciale. In questo spazio il tem- po agisce diversamente: la «conca» è sì «scavata con dolcezza dal tempo», ma «tutto è fermo»; chi se n’è andato è come se non l’avesse fatto, perché «Entro un silenzio così conosciuto / i morti sono più vivi dei vivi». Le persone care – del passato e del presente – si rivelano interlocutori privilegiati, “ideali”, a cui rivol- gersi affettuosamente (A mia moglie, in montagna, A un giovane poeta cacciatore, A un amico che si sposa), spesso anche per nome (in Brindisi del primo fieno, i bergamaschi che hanno fatto il fieno sono festeggiati uno a uno: «Giuseppe d’Albensa», «Bernardo da Lovere», «Stefano da Marone»): nomi che così si in- trecciano istintivamente con i luoghi («Io e mio padre quando fu che bevemmo / la prima volta a questa fonte?»). Anche Maria Antonietta Grignani, nel 1998, pur riferendosi soprattutto agli sviluppi che il tema avrà nelle poesie più vicine a quella data (ma è una proiezione significativa), nota come il cerchio familiare» sia un «motivo che innerva un’intera parabola fino a baciare e rias- sorbire in una circolarità senza scampo la terza età di colui che parla: la stagione della moglie e delle figlie bambine, quella dei nipoti; ma anche il non-tempo del padre e della madre defunti, dei vecchi di casa, degli amici, delle ragazze scomparse.31

Segue la poesia Nel cerchio familiare la suite in due tempi Prima dell’anno nuovo, formando in tal modo un trittico che costituisce forse il nucleo della riflessione esistenziale e filosofica di Orelli, che è anche – va da sé – riflessione di scrittura (d’altra parte, le tre poesie sono stilisticamente molto legate e i luoghi entro cui ci si muove sono gli stessi). Che si facciano i conti con le esperienze trascorse è evidente sin dal titolo, Prima dell’anno nuovo, che non a caso lascia poi spazio al gruppo di inediti e agli ultimi due testi della plaquette del ’60. E infatti vi si esplicita un altro motivo fondamentale dell’opera di Giorgio Orelli, già accennato – ma implicitamente – in alcune poesie delle sezioni preceden- ti (soprattutto Parla, Zalèk…, Tra pochi voli ed Epigramma veneziano): quello legato alla citazione in esergo di Gottfried Benn, con cui i due testi sono in- trodotti, «Wer redet, ist nicht tot»,32 che ritroviamo tradotta nel testo. Come spiega De Marchi, «La vita, per essere, leopardianamente, “vera vita”, deve farsi

217 Yari Bernasconi dialogo, discorso, racconto di sé. Ecco che si tocca qui un punto fondamentale, per Benn come per Orelli: è dal vuoto del silenzio che si origina il pieno della parola; è dall’incombere della morte che viene la necessità di dire».33 L’ambiente circostante e il pensiero di una persona cara fanno il resto, in uno dei passi più celebri della poesia, dove l’io lirico – primi che arrivi l’anno nuovo – è spinto a tirare le somme e dare una definizione di sé («auto-definizione», come ha detto Contini):34 «È caduta una bacca, ho pensato / la tua bocca serrata; mi sono / guardato nello specchio: / né giovane né vecchio, più che abete / larice». Con il sigillo dei versi conclusivi: «Prima dell’anno nuovo non farò / su questo tema alcuna variazione». Al di la del sintagma «ne giovane ne vecchio» (luziano e prima ancora «sha- kespeariano, che Eliot pose in epigrafe a Gerontion»),35 a illuminare il passo è il “complemento” orelliano «più che abete / larice»: più che il sempreverde abete, il mutevole larice, unica conifera europea che non ha le foglie persistenti, e dunque cambia aspetto e colore in funzione delle stagioni. Insomma, una sorta di “sentimento del tempo” vegetale. E, sulla scia di Benn, e del «wer redet, ist nicht tot», e interessante notare come, oltre alla «bacca», sia il silenzio della «bocca serrata» l’immagine da cui scaturisce la riflessione o presa di posizione dell’io lirico.

*

Tutti questi aspetti, oltre all’intensità dell’itinerario proposto, sembrano dimo- strare come L’ora del tempo sia un libro preparato con una grande attenzione e consapevolezza. E il lavoro di memoria a cui s’è accennato per la quarta sezione vale in verità per l’intera antologia: presto o tardi, raggiunto quel «giorno della vita» in cui la purezza e le certezze del visibile s’offuscano, si è costretti a ritor- nare indietro, nei ricordi o nel passato, per fare delle scelte e ristabilire delle pri- orità nel presente (e forse oltre). Ci si ritrova, volenti o nolenti, «nella nebbia che ora punge la memoria»: verso proveniente dalla prima sezione, da Campolungo, ma che è – si ha voglia di dire: tutt’altro che casualmente – inedito, aggiunto solo nel 1962 per la versione de L’ora del tempo. Verso che dà ulteriore spessore macrotestuale alla già citata poesia L’uomo che va nel bosco, che ora possiamo considerare ancora più cruciale:

L’uomo che va nel bosco

L’uomo che va nel bosco (lo rallegra un suono di campana da non sa bene quale paese: certezza di bel tempo?) pensa a un tratto i compagni ch’e inutile chiamare, i compagni spariti con le bocche sporche di mirtilli in intrichi d’ombra e sole. La briga della vita

218 Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli

lo stesso giorno, o un altro, lo dimentica al margine d’un nulla in cui sorge come una riva un poggio e donne girano il viso alla parete dei monti con sulle spalle falci, che, divaricate, oscillando, scintillano.

Al suo ritorno l’aria e quella giusta, sottile, che punge se anche nessuno, nel frattempo, e morto.

1 G. Orelli, «Le acque del sabato» di Maria Luisa Spaziani, in “Cenobio”, III (1955), 11- 12, gennaio-febbraio, p. 705. 2 Le raccolte di Giorgio Orelli citate nell’articolo sono Né bianco né viola, Collana di Lugano, Lugano 1944; Prima dell’anno nuovo, Leins & Vescovi, Bellinzona 1952; Poesie, Edizioni della Meridiana, Milano 1953; Nel cerchio familiare, Scheiwiller, Milano 1960; L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962; 6 poesie, Scheiwiller, Milano 1964; Sinopie, Mondadori, Milano 1977; Spiracoli, ivi, 1989; Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001. L’ora del tempo e valsa a Orelli, nell’aprile del 1963, il Premio Tarquinia-Cardarelli (a pari merito con Nelo Risi, che presentava Massime e minime); la giuria, presieduta da Giuseppe Ungaretti, presen- tava tra i suoi membri Giansiro Ferrata, Leonida Répaci, Leonardo Sinisgalli e Bonaventura Tecchi. 3 S’intende qui il lavoro del poeta quanto quello del prosatore, del critico e del tradutto- re. E si sarebbe tentati di aggiungerci anche la sua oralità, se Cesare Segre ha affermato che «Orelli è tra i pochi che coltivano ancora il gusto, anzi l’arte della conversazione; e questa secondo me è la chiave anche per capire il poeta» (C. Segre, Un conversatore dall’orecchio straordinario, in “Cenobio”, LX (2011), 2, aprile-giugno, p. 61). 4 L’opera di Giorgio Orelli, come afferma Pietro De Marchi, può essere letta «come un autocommento continuo a più entrate: il suo essere poeta non è estraneo al suo modo di fare critica, e anche al suo modo di “scrivere” critica; i suoi accertamenti verbali […] e i suoi racconti aiutano a “spiegare” la sua poesia» (P. De Marchi, Racconti in versi e poesie in prosa. Giorgio Orelli da «Sinopie» al «Collo dell’anitra», in Id., Uno specchio di parole scritte. Da Parini a Pusterla, da Gozzi a Meneghello, Cesati, Firenze 2003, p. 69). 5 M.A. Grignani, Postfazione, in G. Orelli, Ruckspiel / Partita di ritorno, traduzione e cura di C. Ferber, Limmat, Zürich 1998, p. 217. 6 P. Pontinelli, “Con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta”. Su «Alter Klang» di Giorgio Orelli, in “Idra”, VI (1996), 13, p. 48. 7 G. Orelli, Svizzera italiana, La Scuola, Brescia 1986. 8 Id., Cantano i dissennati, in “Idra”, VI (1996), 13, p. 81. 9 «L’ora del tempo operava una severa selezione della produzione poetica orelliana tra i venti e i quarant’anni, rimettendo in circolazione testi noti e facendo conoscere alcuni inediti, ma condannava al limbo una parte cospicua di un libro, quello del 1953, che aveva una sua struttura oltre che una sua dignità» (P. De Marchi, Per una tipologia dell’autocommento in Giorgio Orelli: note, autoletture, autocommenti impliciti, in L’autocommento nella poesia del Novecento: Italia e Svizzera italiana, a cura di M. Gezzi e T. Stein, Pacini, Pisa 2010, p. 29). 10 La figura di Gianfranco Contini è fondamentale per l’esordio di Orelli: al di là dell’a- micizia che li legò da subito, fu lui a leggerne i testi inediti e a promuoverne la pubblicazione in raccolta (attraverso la conquista, nel 1943, della seconda edizione del Premio Lugano) e in alcune riviste, come la losannese “Formes et couleurs” (VII, 1945, 2), dove Contini scelse un

219 Yari Bernasconi piccolo drappello di poeti italiani contemporanei accostando Orelli – e la sua «grêle, mais si pure voix» – a Cardarelli, Saba, Montale, Ungaretti, Gatto, Quasimodo e Penna. Non stupi- sce, per fare un esempio, che ancora nel 2012 Giorgio Orelli parlasse di Gianfranco Contini come del «vero e grande Maestro» (cfr. “Giornale del Popolo”, 4 agosto 2012, p. 25; e si veda la voce «C come CONTINI» in G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014, pp. 25-26). D’altronde, nel 1945 non tutti avevano accolto le prime poesie orelliane con entusiasmo; basti ricordare la reazione di Arminio Janner a Né bianco né viola: «In primo luogo: Montale è qui troppo presente, e imitato solo esteriormen- te. Poi, nei particolari, chi ci capisce qualche cosa?» (A. Janner, Letteratura della Svizzera italiana. Tre giovani poeti della Svizzera italiana, in “Svizzera italiana”, V (1945), 1, gennaio, p. 27). Per quanto riguarda il passo continiano – piuttosto celebre – a cui la nota si riferisce, si veda G. Contini, Giorgio Orelli. Un toscano del Ticino, in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, a cura di R. Broggini, Salvioni, Bellinzona 1986, pp. 190-191 (ma apparso una prima volta in Giorgio Orelli poeta e critico, a cura di C. Mésoniat, RTSI, Lugano 1980). Nelle stesse pagine, Contini aggiunge: «Io trovo assolutamente consolante che un poeta, un vero poeta, abbia scritto soltanto poesie pubblicabili e non abbia strappato carte poetiche che non gli sono venute. È stato non per niente avaro di se stesso, è stato estremamente discreto, non ha avuto impazienza; e questo è un carattere generale di Orelli, cioè non si verifica soltanto per il poeta in versi ma anche per il narratore». A un Orelli «autore di due libri», accenna Massimo Danzi, che nella seconda metà degli anni ottanta – pur citando Né bianco né viola – parla di «un percorso essenzialmente ritmato da due soli libri» (M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in Lingua e letteratura italiana in Svizzera, Atti del con- vegno tenuto all’Università di Losanna, 21-23 maggio 1987, a cura di A. Stäuble, Casagrande, Bellinzona 1989, p. 94). 11 G. Contini, Giorgio Orelli, p. 191. 12 La somma totale eccede di tre poesie perché in due casi L’ora del tempo riprende e fonde due testi diversi (succede in Lettera da Bellinzona e in Di gennaio), mentre un testo è pubblicato in due raccolte diverse ed è quindi contato due volte. 13 «Giovanile», beninteso, riferito unicamente all’età: nel 1944, infatti, Né bianco né viola è già a tutti gli effetti «un bel libro», come affermato da Contini, non «semplicemente una promessa» (G. Contini, Giorgio Orelli, p. 190); Orelli, con le parole di Remo Fasani, «già nell’opera prima domina interamente la sua arte» (R. Fasani, Felice Menghini poeta, prosatore e uomo di cultura, Pro Grigioni Italiano-Dadò, Locarno 1995, p. 10. Il passo è evidenziato anche da Giovanni Orelli in Cantano i dissennati, p. 82). 14 Quarta generazione, a cura di P. Chiara e L. Erba, Magenta, Varese 1954. 15 L’Orelli di Sinopie, afferma Mengaldo, approfondisce «la propensione al racconto, o al montaggio di spezzoni narrativi, che era già dell’ultima parte de L’ora del tempo» (Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978, p. 820). 16 P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, in Id., Arte e mito della piccola patria, Marzorati, Milano 1974, pp. 88-89. 17 Ibi, p. 89. 18 G. Orelli, Uno scrittore italiano contemporaneo: Nicola Lisi, in “Schweizerischer Stu- dentenverein. Monatschrift”, 4 (1944), dicembre, pp. 130 e 132. 19 Così nel Pascoli del Fanciullino: «Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse cosi come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e pe- rorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde esso risuona» (ed. a cura di G. Agamben, Feltrinelli, Milano 1991, p. 25). 20 M.A. Grignani, Postfazione, p. 218. E P. De Marchi, La frontiera fra detto e non detto, in Id., Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002, p. 56. 21 P.P. Pasolini, Implicazioni di una «Linea lombarda», in Id., Passione e ideologia (1948- 1958), Garzanti, Milano 1960, p. 433. L’antologia è la nota Linea lombarda, a cura di L. Ance- schi, Magenta, Varese 1952; oltre a Orelli, vi sono presentati Vittorio Sereni, Roberto Rebora, Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba.

220 Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli

22 P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli, in G. Bonalumi, R. Martinoni, P.V. Mengaldo, Cent’anni di poesia nella Svizzera italiana, Dadò, Locarno 1997, p. 191. 23 Giorgio Orelli delinea la sua evoluzione poetica, in “Giornale del Popolo”, 6 giugno 1963, p. 2. L’articolo è siglato «g.b.» (forse Giuseppe Biscossa). 24 Come affermato da Francesco Napoli, Orelli tende in particolare ad «attribuire al mondo animale una funzione di orologio naturale» (F. Napoli, «L’ora del tempo» di Giorgio Orelli, in “Poesia”, III (1990), 35, dicembre, p. 52; cfr. anche Y. Bernasconi, Gli animali di Giorgio Orelli: «L’ora del tempo», in “Versants”, 55, 2008); gli esempi sono diversi: per L’ora del tempo basti citare Parla, Zalèk… e L’estate. Da segnalare anche la posizione di Gilberto Isella, secondo cui «Né oracolare in accezione forte – come in Pascoli – né tendenzialmente empatetico nei confronti dell’uomo – come in Saba – l’animale orelliano è creatura votata all’indizio, fluttuante in una zona dove la rivelazione vive nel nascondimento; dischiusa, ma discretamente, verso l’altrove» (G. Isella, «A mia moglie, in montagna» di Giorgio Orelli: il maturare del senso, in “Versants”, 20 (1991), p. 56). 25 P. De Marchi, Il fiore di Mallarmé e Xuan Loc. La poesia di Giorgio Orelli da «L’ora del tempo» a «Sinopie», in Id., Dove portano le parole, p. 70. 26 In Di gennaio il tema è sottolineato dalla citazione foscoliana incastonata nei versi: «e intanto fugge / questo reo tempo» (si veda A. Martini, Tre finestre poetiche, in Finestre sul- la Svizzera, a cura di R. Castagnola, Casagrande, Bellinzona 2011). Ma, tornando al dittico costituito dalle poesie Di gennaio e Di febbraio, anche un verbo come “scordare” ha un suo notevole peso specifico, soprattutto perché non si limita a comparire in entrambi i testi, ma lo fa sempre nello stesso luogo, il primo emistichio del verso 3 (le due poesie, del resto, ne L’ora del tempo sono appaiate): «Scordati dagli uccelli, i fili, i rami» inDi gennaio; «da vie scordate dalla pioggia un uomo» in Di febbraio. 27 Cfr. P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, p. 94. 28 Giorgio Orelli delinea la sua evoluzione poetica, p. 2. 29 P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, p. 94. 30 G. Orelli, Autunno a Rosagarda, in Pane e coltello. Cinque racconti di paese, Dadò, Locarno 1975, p. 112. 31 M.A. Grignani, Postfazione, pp. 221-22. 32 Da Kommt, in Aprèsludes (1955). 33 P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo». Sul tema della morte, in Id., Dove portano le parole, p. 23. 34 G. Contini, Giorgio Orelli, p. 191. 35 P. De Marchi, I giorni della vita. Per i novant’anni di Giorgio Orelli, in Giorgio Orelli. I giorni della vita, a cura di P. De Marchi e S. Soldini, Museo d’arte, Mendrisio 2011, p. 9.

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OTTAVIO BESOMI Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore

1. Il corpus creativo di Orelli, poesia e prosa, è largamente noto perché a stampa, benché da anni alcune raccolte non siano facilmente reperibili. L’edizione di tutta l’opera poetica, edita e inedita, è in preparazione, come Pietro De Marchi dice qui appresso. Il paesaggio dei testi critici resta invece in gran parte da sco- prire, per due ragioni: – la prima: a parte i volumi di saggi e le monografie che si conoscono,1 gli scritti critici sono ancora dispersi, affidati a interventi su quotidiani e riviste, o a interviste in forma sia orale e sia scritta: una produzione di varietà e misura prima non immaginabile, perfettamente registrata da Pietro Montorfani e da Yari Bernasconi,2 ma produzione di fatto dispersa e perciò di difficile accesso – la seconda: una buona parte dei saggi critici di Orelli è tuttora inedita. L’immagine che si presta a visualizzare la situazione è quella dell’iceberg: dove l’inedito corrisponde alla zona sommersa. Nell’appartamento di Ravecchia (non oso parlare di archivio, termine istitu- zionale che qui non conviene), si conservano materiali su cui Mimma sta eserci- tando, con amore, il primo intervento necessario: quello di individuare, racco- gliere, ordinare. Faccio conoscere gli inediti, con un primo esame da contabile più che da critico; essi riguardano:

I. Dante del “Fiore”. Titolo dell’autore; 364 pagine II. Addizioni petrarchesche. Titolo dell’autore; 284 pagine III. Poesie di Giovanni Pascoli. Titolo dell’autore; 140 pagine IV. Vittorio Sereni poeta e traduttore. Titolo dell’autore; 83 pagine

Da contabile: il totale dà 871 pagine; tanta è la parte sommersa. Di tutti gli scritti indico struttura e contenuti in Appendice; qui offro una prima ricognizio- ne che si applica unicamente al Fiore.

2. Sulla questione attributiva del Fiore («che non ha l’eguale né per il numero di concorrenti chiamati in causa, né per la quantità degli interventi critici»,3 in tutte le letterature e tutti i tempi) le voci bibliografiche si sono moltiplicate: dall’attribuzione a Dante sostenuta dal suo primo editore, Ferdinand Castetz (1881), attraverso le differenziate e anche divergenti posizioni della grande filo- logia romanza di fine Otto e inizio Novecento,4 all’edizione critica di Contini del 19845 e agli studi correlati, al volume recente di Pasquale Stoppelli, contrario

223 Ottavio Besomi all’attribuzione dantesca, favorevole all’omonimo Dante da Maiano per ragioni che qui non è necessario esporre,6 passando attraverso attribuzioni e disattribu- zioni degli ultimi decenni (alcune addirittura di uno stesso critico);7 andando infine alle ottime edizioni commentate, con differenziata collocazione del Fiore nel corpus dantesco.8 Do alcune coordinate essenziali per i non addetti ai lavori: – il Roman de la rose è tra le maggiori opere letterarie del Duecento francese; – il Fiore è il testo che ne è stato tratto in volgare italiano, con rimaneggia- mento libero che la poetica medioevale permetteva, prevedeva e incoraggiava. Dalla complicatissima matassa Rose-Fiore isolo qualche capo, semplicemen- te accennando a componenti essenziali del problema: – la materia della Rose, affidata a oltre 22 000 versi octosyllabes (i nostri no- venari) in distici a rima baciata, di cui oltre 4000 sono di Guillaume de Lorris, anno 1230, e oltre 18 000 di Jean de Meung, anno 1275. Sul racconto originale di un sogno del protagonista-amante alla ricerca della rosa (l’oggetto del deside- rio) nel regno d’Amore, ostacolato o favorito da sentimenti contrastanti perso- nificati, si innesta un romanzo enciclopedico in cui convergono, caoticamente, temi di fisica, filosofia, teologia, di ascendenza classica e medioevale; – il Fiore, con 232 sonetti a schema metrico unico, per ampiezza (numero di versi) equivale a un settimo soltanto della Rose, si presenta come una «stringata parafrasi» (Contini), senza distinzione tra le due parti dei due diversi autori, applicata essenzialmente alla porzione narrativo-allegorica (priva cioè degli ex- cursus dottrinali di Jean de Meung). Nel poemetto, largamente dialogato, l’“io” narrante, il protagonista che si nomina Durante, nell’affrontare l’impresa della deflorazione entra in contatto con enti simbolici di carattere erotico-psicologici che lo ostacolano (Falsembiante, Astinenza, Gelosia, Paura, Vergogna) o lo in- coraggiano (Amico, Bellaccoglienza, Cortesia, Vecchia); al centro un’ars aman- di, i cui precetti sono dichiarati dalla Vecchia; – i manoscritti che portano il Fiore e il Detto d’Amore (l’altro poemetto attri- buibile a Dante), entrambi anepigrafi e adespoti, erano inizialmente legati in un solo codice, unitamente alla Rose, ma oggi risultano separati: la Rose e il Fiore a Montpellier, Bibliothèque interuniversitaire, Section Médecine, segnatura H 438; il Detto a Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, fondo Ashburnamiano 1234II;9 – il rapporto strutturale tra la Rose e il Fiore, e il diverso riflesso nel Fiore delle due parti della Rose; – le innovazioni introdotte dal parafraste Durante rispetto al poema matrice: tagli, compensazioni, interpolazioni; – l’esemplare del poema utilizzato; – la data e il luogo di produzione del Fiore; i gallicismi; la metrica; l’unità del Fiore, pur nella frammentazione in sonetti; – la componente “comica” del Fiore e gli elementi culturali comuni alla poe- sia del Duecento. Tutti questi aspetti, ripeto, sono qui semplicemente accennati.

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3. Orelli ha un ricco Dossier inedito sul Fiore, oltre alle pagine portate a stampa in più occasioni, tra il 1974 e il 2005 (una quarantina rispetto alle 364 inedite).10 Sono l’ultimo a poterne parlare degnamente, essendo la mia bibliografia muta alla voce Dante (né aspiro ad acquisirne una fuori tempo massimo). I contatti con Orelli mi hanno tenuto al corrente del suo lavoro, e Mimma mi permette ora di accostare il Dossier; questi rilievi valgano dunque sul piano dell’amicizia, se non della competenza. Orelli ha lavorato al Fiore con un’acribia e un’applicazione (in forze e tempo) eccezionali, certosine; negli ultimi anni quotidianamente, con una passione verso l’oggetto quasi esclusiva, oserei dire ossessiva, non trascurando certo, ma lasciando persino in secondo piano, la parte più propriamente creativa. Ma il filo non è mai interrotto. Sasso Corbaro (leggendo il Fiore)11 è una tessitura del nesso palatale liqui- do /gli/ (soglia, figlia, spogliare, cogliere, agrifoglio, bagliori, invogliarsi, caviglie, vo- glia, meraviglia, abbagliava, scompiglio, scagliate, famiglia, giacigliamoci nelle foglie), 16 occorrenze in 21 versi; immagino che un punto di avvio possa essere stato (giu- sto, leggendo il Fiore) il son. CCXIV, dove ricorrono battaglia, trapesaglia, taglia, vaglia, in rima. Ma altro è da vedere, i componimenti ricchi di rime in aglia, aglio, iglio, oglio, uglia. Basti la variazione dell’incipit «Sulla collina di Sasso Corbaro» > «Sulla soglia di Sasso Corbaro» per cogliere la direzione del lavoro sulla lettera; e se spoglia meraviglia 10 che diventa nuda meraviglia 13 sembra contraddire il movi- mento, basterà osservare che al v. 3 entra, nuovo e a compenso (come nella pratica di Petrarca e di Leopardi), spogliare ogni rovo, semanticamente più pregnante. Tac- cio su altri rimaneggiamenti. Certo “infogliarsi”, “sdiricciarsi”, “giacigliarsi” sono da ricondurre alla funzione creativa del Dante maggiore; e non si può dimenticare che sullo stesso tavolo di lavoro, Orelli convocava contemporaneamente le carte de L’orlo della vita. La mia rapida escursione finisce qui.

4. Queste, credo, le ragioni della massima attenzione di Orelli al Fiore:12 – la volontà di applicare un metodo, che solum è suo, a un problema di at- tribuzione, una delle operazioni più insidiose della critica, sia essa applicata alle lettere o alle arti figurative; – il desiderio di convalidare la posizione di Contini e, nello stesso tempo, l’ambizione di misurarsi con lui; i rinvii su punti precisi sono ricorrenti, per confermare e vedersi confermato, prendere spunto per nuovi accertamenti e aggiungere nuovi rilievi a quelli segnalati dal Maestro;13 – il piacere di entrare in competizione con studiosi che hanno negato l’attri- buzione del Fiore a Dante, funzione agonistica che opera come stimolante anche in altre iniziative; – e da ultimo, ma per importanza forse la ragione principale, il piacere del testo, con la gioiosa soddisfazione di auscultarlo dentro le pieghe della Comme- dia, dove gli strumenti di altri lettori si rivelano inadeguati. Si può anche dire così: arrivando dal Fiore alla Commedia, Orelli vi sosta anche oltre il tempo necessario per l’individuazione di accordi solidali, funzionali all’accertamento attributivo; vi passeggia con Dante, come Contini con Sainte-Beuve.14

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Orelli adotta quella che Contini chiama «la regina delle prove [che] si tocca quando alla ripetizione di elementi semantici si accompagna quella di dati fonici in analoghe congiunture ritmiche e sintattiche»;15 e allarga l’individuazione di «strutture di convergenze, dove cospirano parentele semantiche, lessicali, foni- che e ritmiche»,16 così penetrando «in un sistema di memoria coerente, affon- dato nell’inconscio forse meno che non possa sembrare, del tutto simile alla memoria che la Commedia ha di se stessa».17 Forse talvolta – mi permetto di osservare – Orelli va oltre i limiti della «grande oculatezza» necessaria (è ancora Contini che mette in guardia, da altra sede) «nel determinare se un certo stilema o sistema di stilemi possa davvero esser considerato una firma interna».18 “Di torsione in torsione” dentro la Commedia (Dossier Fiore 186), il rischio di allon- tanarsi dal Fiore non sembra sempre evitato. Orelli non concede per contro nes- suno spazio agli “argomenti esterni” (centrale l’assassinio di Sigieri di Brabante, ignoto alla Rose, presente nel Fiore e in Par. X, 133-38),19 sui quali hanno sostato il Maestro e altri, prima e dopo di lui.20 La lettura di Orelli (applicata, in Accertamenti verbali, a testi di Dante, Pe- trarca, Foscolo, Leopardi, Pascoli, Barile, Montale, Luzi) è dettata dal principio secondo cui «ritmico-timbrica è essenzialmente la memoria che i poeti hanno di sé e d’altri poeti».21 Tale memoria è già esegesi: Un verso di Petrarca in Accerta- menti verbali 51-65 ne è un esempio pregnante: ecco il lettore-critico ricondurre «Batte nel campo la falce picchiando», di Clemente Rebora, al dantesco «batte col remo qualunque s’adagia» in Inf. III, 111, non per l’incipit comune batte, ma per il ritmo dattilico-anapestico del verso.22 Un altro esempio: il fonema sordo (denso) /t/ del Sabato leopardiano 38, «questo di sette è il più gradito giorno» è ricondotto per i suoi “rintocchi attutiti”, a Petrarca CCLXXII «La vita fugge, e non s’arresta una hora / […] et le cose presenti et le passate / mi danno guerra, et le future anchora». Tra gli Accertamenti e il Dossier del Fiore sta Il suono dei sospiri, anche se per Orelli critico, e non solo, il lavoro sulla lettera cresce su se stesso, si lascia immaginare come la spirale a tre dimensioni più che come la linea retta (la stessa figura potrà valere per la poesia?). È però certo che il Dossier raccoglie tutta l’esperienza della «lettura lenta del Canzoniere»,23 della misurazione della «ten- sione dinamizzata tra significato e significante»� e dell’esercizio della memoria che permette a Orelli di leggere Dante in Petrarca.25 È proprio grazie a questa memoria, esercitata da un poeta su un altro poeta, che egli ritiene di poter rico- noscere gli effetti della memoria di Dante in Dante, e quindi di legare il Fiore alla Commedia, dichiarandone comune l’autore.

5. Il Dossier porta il titolo «Giorgio Orelli / Dante del “Fiore”» (ossia: ciò che di Dante si trova nel Fiore; è «Dante in Dante» di Contini),26 autografo sulla pa- gina [I], ripetuto a macchina sul foglio [II]. Conta 364 fogli sciolti formato A4, dattiloscritti con Olivetti Lettera 22, la fedele macchina da scrivere, numerati per pagina a mano al centro del margine superiore. Risulta chiaramente «par les portions faites que ce livre existe».27 In Appendice I la situazione più in dettaglio.

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Il volume (tale la dicitura dell’autore, p. 1), si struttura fondamentalmente in tre parti: A. Poscritto I e II (20 pagine) B. Accertamenti, numerati da 1 a 40 (278 pagine)28 C. Altri accertamenti (41, così il titolo del dattiloscritto), 32 paragrafi nume- rati dall’autore (62 pagine). Tra B e C si colloca Una fascina di rimemorazioni (pp. 299-302) dette «pro- babilmente inconsce, talvolta più ritmiche che timbriche, anche più probanti se recano “stilemi associativi” (Contini) o riguardano il disegno sintattico».29

6. Conviene leggere l’avvio per un primo orientamento: Com’era chiaro sin dal primo fiotto, non ho mai dubitato della paternità dantesca del Fiore, non penso che occorra essere continiani per nutrire questa certezza, e continuo a stupirmi che qualcuno, qui, là, forse desiderando di scollinare, come si dice, in bellezza, o giovanilmente trottando, sia scosso dalla voglienza di attribuire lo straordinario poe- metto ad altro poeta […] (Dossier Fiore 1).

Lo “scollinante” di turno, negatore della paternità del Fiore a Dante, è se- gnalato nel “Corriere del Ticino” del 5 novembre 1999.30 La notizia è definita «patullante»,31 il che rende l’atmosfera in cui Orelli si pone; egli esibisce subito il son. XC del Fiore, con relativa analisi (come un “tramaglio”, con assunzione in proprio, come spesso succede, del tramagli del testo, v. 2) e la messa in evidenza della dentale vibrante TRA RTA della fronte, che porta a Purg. XXIX, 127-129 (tratte, altre, tarde, ratte) e a Inf. XXVIII, 25-27 (tristo sacco, merda, trangugia), 54-57 (martiro, vedrà, seguitarmi), per mostrare (anche con altro) la mano di un grande. Ritorna ancora più in là (Dossier Fiore 153-154); sulle torsioni di /TRA/ in XC (poveRTA, TRAmagli, TRAvagli, TRAre [cosa] ceRTA, chiTARli, raqui- sTARli), osserva: «chiude la quartina con nuova torsione dARTi apeRTA, da cui possiamo balzare a Purg. XXVIII, 126 quant’ella versa da due pARTi apeRTA». Su altri suoni riscontra «l’ennesimo documento dell’inesausta inclinazione isofonico- isosemica peculiare della poesia dantesca». E così siamo subito nella rete; Nascoso 11 ingoia anagrammaticamente cosa 5 come in Par. XVI, 86-88 (cosa : nascosa in rima); e la «flottiglia centrale» di lessemi del sonetto trova riscontro in Par. XXIX, 60 ss. La cobla capfinida che lega Fiore XC al precedente suggerisce coincidenze con altre zone della Commedia. E così il transito da CCXI a Inf. XIX, 96-99 (che Orelli chiama «il lavoro di Inf. XIX, 96-99») è dato dal gruppo vibrante-dentale sonoro peRDuto-aRDire; dire : ardire è «il legame tra i più danteschi che possiamo augurarci» (13); è il passaggio da /d/ + /r/ a /rd/ «che fa più dantesco il morsel- lo»;32 sono gli stessi suoni che legano CCXIII a Par. XVII, 106-120. I primi affondi del Poscritto, ad apertura di libro, riassumono l’esito della ricerca, che Orelli intende anticipare al lettore:

Il Fiore sembra soprattutto un’insolita esercitazione retorica, atta a saggiare l’azione “re- lativa” (Dante) delle parole […]. Più si tasta nel certo del linguaggio, della fabricatio [verborum], e più splende la paternità dantesca del poemetto (12).

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Oltre la soglia dei due Poscritti, si entra negli Accertamenti; il primo, Un sonetto del “Fiore” (IV), è traslato non senza interventi dalla stampa, come dico più avanti.33 Il secondo è sul sonetto d’apertura del Fiore, dal quale arco-trasse si irradiano in più direzioni. «Non è sùbito Dante?» Nel sonetto, Orelli individua «la prima di non poche torsioni» del tipo aRCO-CORe attraverso CORtesia; cortesia e core tornano in Inf. II, 131-134 (al cor mi corse, soccorse, cortese), arco e cortese in Par. XV, 43-48; cortesia e compagnia, isometrici in 12 e 13, sono in rima a Par. XII, 143-145. «L’azione vigorosa di /r/ implosiva in arsi», da AmOR 1 e fiOR 2 porta in chiusura di quartina a giaRDini di PiaceR, nella stessa sede di giardin de lo ’mperio di Purg. VI, 105; le cesure ossitone vibranti richiamano Purg. VIII, 100-104 (dicer, mosser, astor). La serie PIAcer 4, PIAntato 3, PIAcque 7, PIAgasse 8 conduce a Par. XXXII, 1-6 (piacer, parole, piedi, aperse, punse) e a Inf. XIX, 79-81 (per piantato). Da volasse 5 a voglia 7 non occorre alzarsi a volo per imbattersi in almeno tre delle ormai attese inversioni dal Fiore alla Comme- dia (Purg. XIII, 24 ss. voglia, verso voi, volar, visti, inviti; Purg. XXV, 11 voglia di volare; Par. XXXIII, 13-15 voli, vuol, vuol volar). Sul gruppo /ard/ guARDava e giARDino molti sono i riscontri. Un esempio di andata e ritorno offre Guarda, guarda di Fiore XXXII 2 che manda a Purg. XVIII, 7-12 e a 76-81, e di là a Fiore CLXXXVIII, il cui «perno fono-semantico» rinvia a più di un luogo del poema. Esempio significativo del procedimento è l’Accertamento 13 “Immantenen- te”, 15 pagine densissime; può prestarsi come carta da tornasole per convenire o dissentire sul metodo.34 Venti occorrenze nel Fiore: per Remo Fasani, chiave della disattribuzione per ragioni formali, per Orelli, esempio di attribuzione per motivi di convergenze di natura diversa, ma fondamentalmente fonica, isofoni- ca o con torsioni, tipicamente dantesche. Qualche rapido, impreciso (da parte mia) ragguaglio. La rassegna di tutte le occorrenze mette in evidenza in ogni componimento l’insieme solidale, individuato con spostamenti in zone diverse della Commedia, con andata e ritorno continui, rifacendo via via il lavoro di Dante su imantenente e circostanti. «IMANTENente in LXIV ingoia anaforica- mente MANTIEN» come in Par. XI, 119: in CXXXVI multisonanza con INT, ANTA, ANTE come in Inf. VII, 109-111 (inteso, gente, pantano, sembiante); in CXXXII accordi con diMANdò, ANIME, rIMENArgli e cAMINI che portano a Purg. XXIII, 53-54; in CLXXVIII il «legame musaico» [armonizzato] (Convi- vio) mandi sonorizza con /MANTE/ al modo di mando nei riguardi di /mento/ in Inf. II, 95 «di questo impedimento ov’io ti mando».35 Ho convocato qui pochi rilievi per indicare, a chi ancora non lo conosca, il tipo di analisi che si muove nella selva dei rinvii testuali, fonici, timbrici, se- mantici, metrici, di isofonie e isometrie, isoritmie e molto altro ancora.36 È un movimento continuo dal poemetto al poema, e dentro l’uno e l’altro corpus, con rimbalzi e ritorni moltiplicati, in avanti e indietro e in più direzioni. Sono «gli esiti di una […] non troppo frettolosa spola tra Fiore e Commedia» (Dos- sier Fiore 21). La “lentezza” di Orelli è da intendere come temporale (la lun- ga incubazione di temi e stilemi prima di fissarsi sulla pagina, spesso in modo provvisorio in attesa di successivi assestamenti) e spaziale (l’attenzione distesa

228 Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore sui testi sottoposti alla lettura; questa del Fiore è l’esempio più evidente).37 Sul primo aspetto avvicino, proprio perché cronologicamente distanti, «il merito del suo [di Dante] così trasmutabile, il collo dell’anitra della sua espressività» (Il suono dei sospiri, p. 9) e «Dal collo dei colombi di Lucrezio a quello dell’anitra, è continua meraviglia il trasmutare dei colori a seconda della luce […]» (Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001; risvolto della prima di copertina). Si può arrischiare un’osservazione: dagli Accertamenti a stampa a questi inedi- ti, i rilievi critici si fanno più asciutti, metallici, più essenzialmente riconducibili ai fenomeni che sono stati indicati; viene ridotto, e persino quasi annullato, almeno in apparenza, l’esame di fenomeni semantici, comunque implicito. Ma l’osserva- zione è da verificare. Ci si può chiedere come avvenga il trasferimento di testi da una sede all’altra, dalla stampa al Dossier per le parti coinvolte nel riuso. Dico subito, con adattamenti. Nelle prime pagine dell’Accertamento 1. Un sonetto del “Fiore” (IV), largamente riportate alla lettera, si insinuano leggeri, ma significativi mutamenti. Sul piano della dicitura, l’incipit «Con antiche prove esterne» lascia cadere «Come tutti lo sanno, [con…]»; il neutro «Remo Fasani […] ha pubblica- to» diventa il non innocente «ha coraggiosamente pubblicato», trattandosi di ben due attribuzioni che si escludono a vicenda, in attesa di una terza;38 e noto un’e- scursione in terra ticinese per sanzionare Amerio e Chiesa che hanno dato lieta accoglienza al libello di Mario Muner,39 di cui Orelli ricorda l’accusa mossa a Con- tini, di ascrivere indebitamente il Fiore a Dante «soltanto col desiderio di tingere il poeta della Commedia della pece di libertinaggio». Dopo alcune pagine, le due analisi divergono sensibilmente. Un’operazione correttoria è avvenuta all’interno dello stesso lavoro sui materiali del Dossier, come attestano i fogli rifiutati, e prima ancora le cancellature che essi portano, spesso su pagine intere. Ma qui pongo fine all’esercizio, di natura comunque secondaria.

7. All’interno di un linguaggio preciso, analitico, con terminologia da linguista, da botanico che si muove con lente d’ingrandimento e registratore, tra il giar- dino del poemetto e il parco del poema, per cogliere immagini e suoni, rapide immissioni espressive (di sapore ludico-critico-polemico) sono intese ad allegge- rire la materia densa e ardua: i “morselli” (bocconi), triturati pedagogicamente (Accertamenti verbali 14), è vero, ma di non sempre facile digestione. Orelli accentua una pratica degli Accertamenti verbali, utilizzata per gettare un ponte tra la scrittura più tecnica e l’oralità anche scherzosa: «Ma sì, Dante piglia al- meno due rigògoli a un fico», «l’omofonia sommuove l’“orizzontalità” in una sorta di “marée montante”», «avvio… trapezistico» (Inf. II, 11), «versi salati» (Par. XVII, 58-60), «ci troviamo lì (come dicono i bambini) con senza la biscia nell’erba»40 (a proposito di occulto, in Inf. VII, 71-84); «Da fronde a onde, in chiara assonanza, ombre, antri è certo una bella passerella sonora» (su CCCIII 5: fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi); ma poi subito, alzando il tono: «Herbe, ombre. Entra la bilabiale. Ancora molto attiva la vibrante nel passaggio dall’arsi alla tesi. Nuova metatesi: ERB – BRE. Si afferma l’isosillabismo e più cospicua si fa la nasalizzazione» (62).41

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8. L’applicazione certosina di cui ho parlato in apertura importa che la scrivania di Ravecchia, per scelta di Orelli, si sia tenuta discretamente in disparte (non fuori) dal cantiere febbrile del Fiore che si è riaperto tra fine 1900 e inizio 2000, “dopo la svolta” data alla questione da Contini (Formisano): cantiere ricco e persino intasato di interventi, congressi, prese di posizione. Anche se dal con- vegno di Cambridge The Fiore in Context42 (1994) sono emersi «un giudizio nel complesso negativo sul valore realmente probatorio dei raffronti esibiti da Contini»,43 e il ridimensionamento impresso alla “regina delle prove” da lui so- stenuta e praticata (quella a cui, invece, Orelli si attiene, incrementandola col surplus dei suoi accertamenti), le edizioni commentate, uscite dopo la proposta continiana, vanno verso un riconoscimento della paternità dantesca: per Conti- ni, il Fiore e il Detto d’Amore sono «“attribuibili” (nel senso latino di tribuendi)» a Dante44; per Formisano, «“attribuibili” […] nel senso banale del termine, cioè di dubbia attribuzione» (dove di fatto sono posti);45 Luca Carlo Rossi e Paola Allegretti lo collocano invece senz’altro tra le opere di Dante.46 Per Orelli, la dimostrazione vuole essere decisiva; ma c’è da immaginare che sul Fiore e sul Maestro del Fiore la questione non si chiuda tanto presto, e non solo perché riproposta in negativo dal volume di Stoppelli; ma perché la riapre Orelli, quando il suo Dossier verrà fatto conoscere pubblicamente. Intorno a queste analisi, diversificati e divergenti saranno i giudizi, soprattutto sulla ef- fettiva incidenza metodologica dell’accertamento verbale nella soluzione di un problema attributivo; sulle proposte di lettura molti potranno concordare; diffi- cile prevedere quanti saranno solidali sulle conclusioni. Il problema di fondo sta nel distinguere ciò che pertiene alla parole (nel Fiore e nella Commedia) e ciò che è della langue (nel Fiore, nella Commedia, in altri testi precedenti e coevi). Gli strumenti a disposizione (le concordanze lessicali) non bastano; altri (le concordanze foniche e ritmiche) andrebbero inventati, e forse non sono costruibili; così Orelli supplisce col suo orecchio, dominando, come forse nessun altro lettore, gli spartiti del Fiore e della Commedia; non age- vole, neanche per lui, è l’escursione negli sterminati territori circostanti. Nessun dubbio, invece, sul valore dei materiali inediti illustrati. Essi merita- no senz’altro considerazione, oltre l’assaggio indiziario che qui ne è stato dato in modo approssimativo.47 La distinzione dei generi creativo e critico va natu- ralmente sempre tenuta presente, libero ognuno di privilegiare l’uno o l’altro, anche se Giorgio Orelli è innanzitutto scrittore, e poeta, più che critico, e pur ritenendo egli che «il poeta sia “avant tout” (Mallarmé) un critico» (Dossier del Fiore 19).48 Sulla reciproca interferenza e integrazione tra poesia e critica, si potrà riflettere in generale, ma soprattutto è auspicabile che si operi sui testi, a vantaggio di una migliore comprensione dell’opera di Orelli, e anche nel campo della testualità altrui, su cui la sua lettura critica si è esercitata. È difficile trovare chi abbia lavorato altrettanto, e tanto sistematicamente, sulla propria parola e su quella altrui.

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Dopo l’esecuzione al convegno, hanno letto il presente intervento Stefano Barelli, Irene Botta, Christian Genetelli, Alessandro Martini, Mimma Orelli, Liliana Orlando, Guido Pe- drojetta, Franca Strologo, ai quali va il mio ringraziamento per gli utili suggerimenti. 1 Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978; Quel ramo del lago di Como. Lettura manzoniana, Casagrande, Bellinzona 1982; Accertamenti montaliani, il Mulino, Bologna 1984; Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990; Foscolo e la danzatrice. Un episodio delle Grazie, Pratiche Editrice, Parma 1992; La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi, Casagrande, Bellinzona 2012. 2 Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014. 3 Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, in Dante Alighieri, Le opere. VII. Opere di dubbia attribuzione e altri documenti danteschi, Tomo I, Salerno Editrice, Roma 2012, p. XXVII. 4 Ne cito solo alcuni: Alessandro D’Ancona, Rodolfo Renier, Gaston Paris, Francesco Torraca, Guido Mazzoni, Francesco D’Ovidio, Francesco Novati, Arturo Farinelli, Luigi Fo- scolo Benedetto, Nicola Zingarelli, Pio Rajna, Giulio Bertoni. 5 Il Fiore e Il Detto d’Amore, attribuibili a Dante Alighieri, a cura di G. Contini, Monda- dori, Milano 1984 (d’ora in poi: Contini, Fiore 1984). 6 P. Stoppelli, Dante e la paternità del “Fiore”, Salerno Editrice, Roma 2011. 7 Dà i nomi degli uni e degli altri J.C. Barnes, Uno, nessuno e tanti: il “Fiore” attribuibile a chi?, in The “Fiore” in Context. Dante, France, Tuscany, ed. by Z.G. Baranski and P. Boyde, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1997, pp. 331-362. Li riassume Stop- pelli, P. Dante e la paternità, p. 16; presenta criticamente i saggi principali sul Fiore, fino al 1983, Contini, Fiore 1984, pp. XXVII-XXXIV; interventi intorno alla paternità, ibi pp. LXXI-LXXX; per le edizioni, ibi, pp. XXIII-XXVI; argomenti interni per la paternità, ibi, pp. LXXXIII-XCV. 8 Ne do conto più avanti, nota 46. 9 Per questa problematica rinvio alle trattazioni svolte nelle edizioni Contini, Rossi, Alle- gretti, Formisano. 10 Un sonetto del “Fiore”, in “Paragone. Letteratura”, XXV (1974), 296, ottobre, pp. 37- 52, poi in G. Orelli, Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978 pp. 33-50; Tornando al “Fiore”, in Carmina semper et citharae cordi. Études de philologie et de métrique offertes à Aldo Menichetti, éditées par M.-C. Gérard-Zai, P. Gresti, S. Perrin, P. Vernay et M. Zenari, Editions Slatkine, Genève 2000, pp. 261-79; Dante del “Fiore”: son. CVII, in La ricerca e la passione come metodo. Omaggio a Romano Broggini, a cura di G. Margarini, F. Panzera, A. Sargenti, Alberti, Verbania-Intra 2005, pp. 471-476. È tornato sul tema in una conversazione a Chiasso nel 2006: Amore di vecchia nell’ambito di “Chiasso letteraria”, Chiasso, Cinema Teatro, 20 maggio 2006. 11 “Viceversa Letteratura”, 5 (2011), 12. In una prima versione (accompagna la lettera del 29 ottobre 2010 a Yari Bernasconi) il titolo è Leggendo il “Fiore”; il definitivo è acquisito in una stesura mandata allo stesso destinatario il 23 gennaio 2011. Il testo Da «Rendevous», in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, I, Sismel, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, pp. 9-10, è analizzato da Silvia Longhi alle pp. 37 ss. di questi Atti. 12 Può essere utile sentire la voce di Contini fuori campo (filologico), nel colloquio con Ripa di Meana: «Benché abbia speso molto tempo su questo testo, non mi pare una cosa su cui scommettere una parte della propria anima. Si tratta di un’operazione scientifica, si tratta di un’ipotesi di lavoro che era la più economica tra quante se ne possono presentare. […] Tra i tanti esperimenti che ha fatto Dante, c’è anche quello di questa lingua d’invenzione e, dal rispetto scientifico, la cosa mi pare assai rilevante» (Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Mondadori, Milano 1989 pp. 129-130). 13 Un esempio di confronto sul filo di lana tra maestro e allievo in G. Orelli, Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990, pp. 25-26, e specialmente nella zona del

231 Ottavio Besomi libro che tocca le “Correzioni” nel Canzoniere petrarchesco, in particolare alle pp. 105-106, 108, 113, 116: sulla ripetizione evitata, se non intenzionale (Contini) e sulla repetitio che «col- labora alla […] tendenza isofonico-isosemica […] di Petrarca» (Orelli). 14 Diligenza e voluttà, pp. 129-130. 15 Contini, Fiore 1984, p. LXXXVIII; Enciclopedia dantesca, II, Istituto della Enciclope- dia italiana Treccani, Roma 1970, p. 899. 16 Contini, Fiore 1984, p. LXXXIX. 17 Ibi, p. XC. Altra formulazione in Postremi esercizî ed elzeviri, Einaudi, Torino 1998, p. 24: «Non si trattta di una semplice somma d’indizi, ma di un organismo mnemonico che è insieme verbale, concettuale (o sinonimico), fonico e ritmico, del tutto assimilabile alla me- moria che il Dante della Commedia ha di sé stesso […]». 18 Id., Breviario di ecdotica, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli 1986, p. 56. 19 Li riassumono Contini, Fiore 1984, pp. LXXI-LXXXI; Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, pp. XXX-XXXIII. 20 Nell’analisi del son XCII (Menichetti: «Tanto per esser chiaro dirò subito che io, se il Fiore sia o no di Dante, francamente non lo so. L’argomento forse più forte a sostegno della tesi di Contini non è d’ordine interno, ma storico-ideologico: è l’allusione all’assassinio di Sigieri di Brabante per gelosie fratesche […]»; Tra due mondi. Miscellanea di studi per Remo Fasani, a cura di G. Cappello, A. Del Gatto, G. Pedrojetta, Dadò, Locarno 2000, p. 107), Orelli replica: «Offro all’amico “friburghese” qualche argomento interno, formale, radicato nell’essere del dire». 21 G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 28. 22 Ibidem. In altra parte del libro, è avvicinato ai due, per il ritmo dattilico, «Campo d’e- state già tutto mietuto» di Barile (ibi, p. 162). 23 Id., Il suono dei sospiri, p. 8. 24 «Armare una poesia», così Orelli, «non significa comporre uno spartito sonoro va- gamente suggestivo, ma far agire (non lasciar agire) il linguaggio nella direzione desiderata, mediante una interazione di significanti e significati che renda al massimo concreta (scrivia- mo pure con la maiuscola, come Valéry) l’Idea» (Id., Accertamenti verbali, p. 147). Si può richiamare l’avversione manifestata a più riprese da Orelli nei confronti della concezione di autonomia del significante. 25 G. Orelli, Il suono dei sospiri, pp. 124-162. 26 Il titolo è anticipato nella Miscellanea Broggini (Bibliografia di Giorgio Orelli, 2005.2). Cfr. Dossier Fiore 196: «Già il trattamento di star 2 (CXXI) fortifica la certezza che stiamo “Con Dante entro Dante”». 27 Riadatto una citazione di Mallarmé che Orelli utilizza a proposito delle Grazie foscolia- ne (G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 83). 28 La tipologia dei titoli può essere così indicata: - rinvii espliciti a componimenti: 1. Un sonetto del “Fiore” (IV); 2. Il primo sonetto; 39. Gli ultimi due sonetti - semplice indicazione del numero del sonetto, ad esempio a 8, 16, 29-31 - segnalazione del tema: [21] Sonetto del falso montone; 27. Due sonetti della Vecchia; anche 17, 22, 23 - citazione dell’incipit o di un sintagma del sonetto, il caso più frequente: ad es. in 3, 5, 10, 13, 15, 20, 24, 28, 37, 38 - messa in evidenza di termini legati da suono e senso: 6. Da “fallato” a “fallito”; 9. “Parla- re”, “partire”, “par” - indicazione di problemi critici generali: 34. Un’altra firma dell’autore?; 33. Versi insoliti (su aspetti metrici); 36. Cercando morselli per Inf. V. 29 Sono 31 casi di messa in parallelo, senz’altra annotazione, di versi del Fiore e della Com- media. La «fascina» proviene da Accertamenti verbali 43-48 con la stessa didascalia e gli stessi esempi. In realtà qualche ripensamento attenua il piano delle certezze: probabilmente > molto probabilmente; probanti > illustrative. Manca in Accertamenti il n. 2; non sono ripresi nel Dossier XXXIV 1- Inf. III, 22; XXXIV, 13-14 - Inf. XVII, 51, sicuramente perché meno stringenti.

232 Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore

30 M. Palma Di Cesnola, La battaglia del “Fiore”, in Tra due mondi, pp. 59-102. Già una trentina di anni prima, il quotidiano ticinese aveva ospitato interventi sulla questione: la proposta da parte di Fasani di Folgòre da San Gimignano (1° ottobre 1966), l’applauso di Reto Roedel per la disattribuzione a Dante, demolizione dell’attribuzione (1° ottobre 1966), il ritiro della candidatura Folgòre da parte di Fasani (4 maggio 1968). 31 Nel senso di “fare fesso”, come lo stesso Orelli chiosa. 32 Boccone: termine del Fiore LXII 3; CIV 14; CV 1; CXXI 7. Il termine (frequente) “boccone” ricorre, ad esempio, in G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 8: «[…] per dire man- zonianamente, non mi resta che aprire la bocca secondo il boccone […]». 33 Riferendosi a questo saggio, Contini annota: «Sottile ricerca di moduli fonico prosodi- ci» (Contini, Fiore 1984, p. XXXVII). 34 L’accertamento 13 “Immantenente” è riproposto in Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014, pp. 39-42, ridotto da 15 a 4 pagine. 35 La convergenza dei suoni lo porta a valutare la lezione degli editori. Dà la preferen- za a /g/ scempia og[g]i dell’edizione Contini, sulla doppia oggi dell’edizione Formisano [CCXXXI] perché «concede di andar dritto a gioie 12 nella stessa sede ritmica (4a)»; e pensa a Par. X dove silOGIzzò 138 è con GIOir 148, e in Par. XXIV gioia 89 va con siLOGismo 94. 36 Così Giovanni Pozzi sintetizza il lavoro sulla lettera di Giorgio Orelli: «[…] identifica dei gruppi fonici significativi per frequenza e legame con determinate sfere di senso e ne determina la potenza energetica e il suo diramarsi nello spazio testuale: i nuclei e le espansio- ni.» (F. Soldini, Giovanni Pozzi e Giorgio Orelli lettori reciproci. Testimonianze epistolari, in “Fogli”, 35 (2014), p. 47, testo B7). 37 Cfr. anche Christian Genetelli in questi Atti, pp. 134 e 137. 38 Fa eco a Contini, Fiore 1984, pp. XXXV-XXXVI, riferendosi a R. Fasani, Il poeta del “Fiore”, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1971: «rivela il nuovo (pro tempore) autore: Antonio Pucci». 39 M. Muner, La dantologia allegrissima di Gianfranco Contini: “Dante lubrificato a ruota libera”, in “Motivi per la difesa della cultura”, 1965, pp. 324-360; Perché il “Fiore” non può essere di Dante (e a chi invece potrebbe attribuirsi), in “Motivi per la difesa della cultura”, VII (1968-1969), pp. 88-105; La paternità brunettiana del “Fiore” e del “Detto d’Amore”, in “Mo- tivi per la difesa della cultura”, IX (1971), pp. 274-320. 40 Sintagma gemello di «con senza guanti» di Dal buffo buio (Sinopie). 41 Altre occorrenze nel Dossier Fiore: (8) «Inf. I, 2 mi ritrovai allunga il suo fil di ferro […] verso trovai:entrai 9-11»; (11) «Scocca nervoso, degno d’un cavallo selvaggio, Inf. VI, 94»; (12) «memore dell’incredibile resistenza-persistenza del “caramelmù” in poesia»; (19) «Con giardino [sul gruppo /ard/], anzi, è come mangiar costine a Camorino»; (19) «accertamenti di altri funghi commestibili»; (23) «Si dirà che non viene come l’acqua al cavo della mano una relazione come questa che lega argomento a guerire e guardare»; (45) «Quasi dimentico di farvi sentire il profumo di Purg. XXVIII ss.»; (96) «Su nïente la dieresi ride anche nella Commedia Par. IV, 74, XXVII, 94»; (185) «mi chiedo come si possa non assegnare a Dante un concorso, per dir così, piastrato come tRISTO-faRSITO, l’uno addossato all’altro in fine dei due ultimi versi»; (208) «Per me, vorrei ripetere con una bambina che non sono nato per non mangiare il salmone»; (Dossier Petrarca 14): «se dunque, come dicono a Pontida, voliamo basso (padanamente: più bassi)». Si veda ancora in altri scritti già a stampa: «La bilabiale sorda /p/, dopo aver strepitato come deve, cioè sordamente opaca, nel primo lessema, cede di colpo alla puntura /i/ di ilare, pure sdrucciolo, che in sinalefe becca per così dire la coda a upupa […]» (G. Orelli, Accer- tamenti verbali, p. 195); «Come la mica su certe autostrade, nel verso […] vediamo per solito splendere l’espressività» (Id., Il suono dei sospiri, p. 9); l’immagine è anticipata in Nebelzone (Spiracoli, Mondadori, Milano 1989, p. 80). 42 The “Fiore” in Context. Dante, France, Tuscany, ed. by Z. G. Baranski and P. Boyde, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1995. 43 Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, p. LIII. 44 Contini, Fiore 1984, p. XX.

233 Ottavio Besomi

45 Nella sezione VII, Opere di dubbia attribuzione e altri documenti danteschi, Tomo I. La citazione in Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, p. LXI. 46 Dante Alighieri, Il Fiore. Detto d’Amore, a cura di L.C. Rossi, con un saggio di G. Contini, Mondadori, Milano 1996; Id., Fiore. Detto d’Amore, a cura di P. Allegretti, in Le ope- re di Dante Alighieri, Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana, Le Lettere, Firenze 2011; Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano. 47 Qualche campione potrà essere fornito scegliendo nelle zone più sensibili: sia per dare una prova dell’operazione specifica di attribuzione, sia per accostare commenti a singoli passi della Commedia. Ma occorrerà evitare che l’inedito diventi pascolo di saggi sul saggio, facile modo di ingrassare la bibliografia da parte di aspiranti alla fama di critici sul nome di Dante, e su quello di Orelli, appaiati. Bisognerà invece trovare forma e modo di far conoscere questi studi (su carta o in rete) nella loro integrità; la fretta non aiuta, una simile materia non sop- porta il calendario dei mesi. 48 Anche in Una poesia di Giovanni Pascoli, in “Cenobio”, LXI (2012), 2, aprile-giugno, p. 18.

234 Allegato

I Tavola del Dossier Fiore

1-18 Poscritto [I] 18-20 Poscritto II 21-22 1. Un sonetto del Fiore (IV) 28-43 2. Il primo sonetto 44-48 3. «Verso del fior» (VI) 49-54 4. «Schifo» 55-63 5. «Se mastro Argus[so]…» 64-69 6. Da «fallato» a «fallito» 70-81 7. «Quel romore» e altro (XXVI) 82-89 8. XXXIV-XXXV 90-96 9. «Parlare», «partire», «par» (XXXVIII) 97-100 10. «Quel lavor» (XL) 101-108 11. Un trigramma che fa (quasi) meraviglie (XLVIII, XLIX) 109-112 12. «Per Gesocristo, tra’mi» (LIV) 113-127 13. «Immantenente» 128-131 [14]1 «Papalardo» e altro (LXI) 132-136 15. «S’a scacchi o vero a.ttavole giocassi» (LXIII) 137-142 16. LXXIV 143-151 17. Durante (LXXXII-CCII) 152-156 [18] /TRA/ e torsioni (XC) 157-167 19. «Singhier» (XCII) 168-174 [20] «L’undicimilia vergini beate» (XCVI) 175-177 [21] Sonetto del falso montone (XLVII) [---]2 182-188 22. Sonetto dell’«ipocristo» (CIV) 189-195 23. Sonetto dei truanti (CVII) 196-201 24. «Né di star in deserti né ’n foresta» (CXXI) 202-207 25. »Sobarcolata» (CXXXVI) 208-217 26. Con «madonna» 218-229 27. Due sonetti della Vecchia [CXLVI, CL] 230 [27bis]3 Postilla 231-236 28. «tu sì sa’ ben ch’i’ son di stran paese» (CLV) 237-240 29. CLXXIV

235 Ottavio Besomi

241-244 30. CCXXX 245-248 31. CCXXXI [249-252]4 32. «Ladura» – «dolore» e altro (CCIV) [---]5 257-266 34. Un’altra firma dell’autore? 258-264 33. Versi insoliti [---]6 269-271 [segue parte caduta, ultima parte di 35.] 272-273 36. Cercando morselli per Inf. V 274-277 7 278-283 37. «In punto rio» (CCVI) 284-289 38. »Venusso sì montò sus’un ronzino» (CCXVII) 290-298 39. Gli ultimi due sonetti (CCXXXI; CCXXXII) 299-302 40. Una fascina di rimemorazioni 303-304 41. Altri accertamenti 1. dolente è que’ che cade a mie sentenze (CXXVI 14)8 [---]9 309-310 [3]10 310-311 4. Tra «laccio» e «leccio» (CXXIX 8-11) 312-313 5. «[…] la lasciò» (CLXI 9) 313-317 6. «Quand’i’ udì» (CCIII) 317-319 7. LXXXVIII 9-14 319-320 8. «Acontare» – «acontanza» (CLIX) 320-323 9. «Merdaglia» (CLXIX 7) 323-324 10. insin che ’l mar (LVI 8) 324-326 [11/10]11 «Quel Socrato» (XLIII-XLIV) 326-329 [12/11] Con «fante» (L) 239-331 [13/12] «di voi»… «di me» (LX) 331-333 [14/13] LXIX 5-6 333 [15/14] CLXIII 5-8 333-334 [16/15] «in saper guadagnar ben süe spese» (CLV 8) 334-336 [17/16] CLVIII 9-14 336-339 [18/14]12 LI 340-341 [19/15] II 1-3 341-344 [20/16] VII 1-8 344-346 [21/17] CLIV 346-348 [22/18] Il ritorno di amico (XLVII 9-14) 348-350 [23/19] La sirma di XCV 350-351 [24/20] «Fasciare» (C 13) 351 [25/21] La prima terzina di CV 351-354 [26/22] CXXVI 354-356 [27/23] CXL 356 [28/24] CLXXXV 8-11 356-358 [29/25] CXCVI

236 Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore

358-359 [30/26] CXCVIII 359-361 [31/27] CXCIX 361-364 [32/28] CC

Fuori classatore, 5 mappette con materiali inerenti al tema, tutti dattiloscritti.13

II Tavola del Dossier Addizioni petrarchesche14

1-13 [Introduzione] 14-19 1. XIX 20-25 2. XXV 26-31 3. XXXVIII 32-41 4. LXII15 42-49 5. XCVI 50-53 6. «La donna» (CXI) 54-58 7. Due sonetti per Sennuccio CXIII 59-63 0. CCLXXXVII 64-68 8. CXLVII 69-75 9. CLXVI 76-80 10. CLXXVII 81-87 11. CLXXIX 88-105 12. CLXXXVIII 106-108 13. Per una correzione (XXXVI 8) 109-115 14. CLXXXIX 116-120 15. CXCIII 121-127 16. CXCV 128-133 17. CXCVI 134-141 18. CCV 142-149 19. CCXX 150-155 20. CCXLIII 156-166 La sera (CCLV) 167-174 In quel bel viso (CCLVII) 175-184 La vita fugge (CCLXXII)16 185-196 Cipro (CCLXXX)17 183-189 24. CCLXXXV 190-195 25. CCLXXXVI 196-203 26. CCCXI 204-210 27. CCCXXVIII 211-217 28. CCCXXXIII 218-224 29. CCCXXXIV 225-235 30. CCCLXIV

237 Ottavio Besomi

Altre cose leggiadre18

236-238 A. XL 238-241 B. CCLV 241-243 C. LXVII 243-244 D. CCXXX 245-247 E. CCXIX 247-249 F. CCCLVI 249-252 G. CXCIII 252-256 H. CCCXXII 256-258 I. CCLXXI 258-260 L. CC 260-261 M. LXXXVII 262-264 N. ché né ’ngegno né lingue al vero agiunge (CCXXI 14) 264-268 O. CLXXV 268-269 P. CCX 1-8 270-272 Q. CCCXVII 273-276 R. CCXXX 276-277 S. III 278-279 T. XVI 280-282 U. CCCLXII 282-283 V. «Perle» di XLVI 283-284 Z. CCCLXVI

III Tavola del Dossier Poesie del Pascoli19

1-8 [Introduzione] 9-14 1. «Guarda! i cervi brucano lenti»20 15-19 2. Alba festiva [Myricae, Dall’alba al tramonto, I] 26-40 3. Patria [Myricae, Dall’alba al tramonto, VII] 41-48 4. Arano [Myricae, L’ultima passeggiata, I] 49-61 5. La via ferrata [Myricae, L’ultima passeggiata, VI]21 62-76 6. Pioggia [Myricae, In campagna, XIV]22 77-86 7. Ultimo canto [Myricae, In campagna, XVI] 87-94 8. Il piccolo bucato [Myricae, In campagna, XVII] 95-104 9. I gattici [Myricae, Tristezza, IV] 105-117 10. Dalla spiaggia [Myricae, Tristezza, XIII]23 118-127 11. Il transito [Primi poemetti, I due fanciulli-I due orfani, IX]24 128-140 12. La tessitrice [Canti di Castelvecchio, Il ritorno da San Mauro, III]

238 Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore

IV Tavola del Dossier Vittorio Sereni poeta e traduttore25

1 Citazione da Paul Valéry, La caccia magica, p. 107 2-10 [1] «Ecco le voci cadono…» (Frontiera [53])26 11-19 [2] Saba (Gli strumenti umani [136]) 20-26 [3] Di passaggio (Gli strumenti umani [137]) 27-39 [4] La spiaggia (Gli strumenti umani [184])

Sereni e Char27

40-46 1. [Aromates chasseurs - Ebbrezza] 47-53 2. [Retour amont – Ritorno sopramonte] 54-58 3. [Lied du figuier – Lied del fico] 59-60 4. [Septentrion, vv. 9-10] 61-63 5. [L’abri rudoyé – Il sito sconvolto] 64-65 6. [Le baiser – Il bacio] 66-75 7. [Effacement du peuplier – Annullarsi del pioppo] 76-83 8. [Le ramier – Il colombo]

1 Manca il numero del capitolo; così per [18], [20], [21], [27bis]. 2 Fogli mancanti. 3 Si lega al Cap. 27. 4 Recuperato da fogli extravanti non numerati con il n. 32 di Cap., quindi da porre dopo 31. 5 Manca il n. 33. 6 Fogli mancanti. 7 Recuperati da fogli extravaganti, continuità nella numerazione e nel testo. 8 Parziale. 9 Mancano. 10 Parziale. 11 Numero 10 erroneamente ripetuto; fino [17] la numerazione risulta alterata di una unità; tra [ ] la numerazione corretta e l’originale accanto 12 A p. 336 la numerazione riprende col n. 14; tutta la numerazione successiva, fino alla fine, risulta alterata di tre unità; tra [ ] la numerazione corretta e l’originale accanto. 13 I. Due copie di Un sonetto del “Fiore”, A. in pulito, B. con larghe zone cancellate; A. e B. si corrispondono fino a p. 18, A. è completo con le pp. 18-21 (note); B. arriva fino a p. 20, diversa dalla 2° di A., che rappresenta la lezione ultima corrispondente al testo di “Paragone” e Accertamenti verbali. II. Tornando al “Fiore”, pp. 19 con interventi autografi e cancellature. Corrisponde al testo della Miscellanea Menichetti. III. A. Morselli del “Fiore”, pp. 18 con ampie cancellature; potrebbe avere il posto in Dossier Fiore dopo p. 273; B. Per il “Fiore” di Dante, pp. 4; l’inizio corrisponde ad A., ma subito muta; sicuramente versione successiva in pulito. IV. A. Con “armadure” di CXXVI e CXXVIII, pp. 8, numerate da 201 a 208, parti cas- sate; B. 12. “Appartenenza” – “parete” – “aperto” (CXXXIV 4 – 12 ss.), pp. 46 con frequenti cancellature di pagine intere;

239 Ottavio Besomi

V. A. Dante nel “Fiore”: son CVII, pp. 6 numerate da 1 a 6; B. “Cosa non è che costi tanto cara”, pp. 12 numerate da 152 a 163; C. 21. Sonetto del falso montone (XCVII), pp. 4 numerate da 178 a 181; D. 8. “Per lo vento a Provenza che ventava” (XXXIII 2), pp. 2 non numerate, la seconda con cancellatura e appunti; E. Un’altra firma interna all’autore?, pp. 2 numerate 16-16; F. 5. Verso “madonna”, pp. 11 numerate da 58 a 68; G. 20. “Veracemente ciò è veritate” (LXXXI), pp. 13 numerate da 147 a 159. 14 G. Orelli, Accertamenti verbali porta due saggi petrarcheschi: Un verso del Petrarca (pp. 51-65), son. CCCIII, con escursioni in altri componimenti; e Dante del Canzoniere (pp. 67-81), che ritorna, sotto il titolo Dante in Petrarca, e con varianti, in Id., Il suono dei sospiri, come si dice qui appresso; una prima redazione, più concisa, in “Corriere del Ticino”, 22 giu- gno 1974, p. 34; sul tema: Dante nel Canzoniere, Milano, Chiesa di San Maurizio, 23 maggio 1979 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 91). Nel volume Id., Il suono dei sospiri, sono analizzati i componimenti seguenti, nessuno dei quali ritorna nel Dossier (li segnalo in corrispondenza dei capitoli): 1. Il suono (3-22): CCCXXXV, CCCXXXVI, IX, CCCIII, CCCXXXIX; il sag- gio è uscito originalmente col titolo Il suono dei sospiri, in “Strumenti critici”, XVI (1982), 1-2, giugno, pp. 1-33; 2. “Voi ch’ascoltate”(pp. 23-29): I, CCCXXIV; 3. “Ritrarmi accortamente da lo strazio” (pp. 30-35): II; 4. Karlo, Cristo, Orso, Cino e qualcos’altro (pp. 36-44): XXVII, XXVIII, CXXXVIII, CCCXXXIV, XXXVIII, XCIII; 5. “Solo e pensoso”(pp. 45-50): XXXV; 6. “Erano i capei d’oro…” (pp. 51-56): XC, CCLXX, LXXX; 7. “I qual parte del ciel…” (pp. 57-62): CLIX, LXXXI; 8. Sonetti del Po e del Rodano (pp. 63-73): CLXXX, CCVIII; 9. Una leggiadra rete (pp. 74-78): CLXXXI; 10. Sonetto della cerva (pp. 80-83): CXC; 11. Sonetto in “i” (pp. 84-87): CXCI; 12. Sonetto del “dextr’occhio” (pp. 88-92): CCXXXIII; 13. La man(o) (pp. 93-97): CCCII; 14. “Donna” (pp. 98-104): CCCXLVII. Non segnalo i numerosi rinvii in 15. Correzioni (pp. 105-16) e Altre correzioni (pp. 116-23); 16. Dante in Petrarca (pp. 124-62); per gli antecedenti cfr. supra. Altri interventi petrarcheschi: accertamenti su Petrarca con altri su Dante, Leopardi, Ungaretti, Montale, Sereni, in “Corriere del Ticino”, 6 febbraio 1988, p. 31; Tra Petrarca e Dante, in Omaggio a Contini, in “Poesia”, III (1990), 31, luglio-agosto, pp. 10-12; Per un moderno commento del Canzoniere petrarchesco, in Di selva in selva. Studi e testi offerti a Pio Fontana, a cura di P. Di Stefano, G. Fontana, Casagrande, Bellinzona 1993, pp. 201-212; Sonda su Petrarca: Come assaporare il distillato del poeta, in “L’Erasmo Bimestrale della civiltà europea”, IV (2004), 22, luglio-agosto, pp. 61-72; Accertamenti petrarcheschi. Giorgio Orelli legge Francesco Petrarca, Radio della Svizzera Italiana, a cura di M. Cavadini, 18-23 ottobre 2004. Ricordo anche la conferenza La poesia del Petrarca, nel ciclo Insieme nella terza età, Lugano, Sala San Rocco, 19 gennaio 1989 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 94). 15 Col titolo Petrarca, son. LXII, a stampa, con varianti, in “Cenobio”, LIII (2004), 4, ottobre-dicembre, pp. 291-302. 16 Oggetto di una conferenza tenuta a Bellinzona, Biblioteca Cantonale, 14 ottobre 2004 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 101). 17 Il blocco da 156 a 196 è stato inserito in un momento successivo: diversa la macchina da scrivere, con matita diversa la numerazione dei fogli, pur nella stessa posizione e nello stesso corpo. L’inserto originale, tra 155 e 183, doveva portare tre accertamenti (e non quattro come ora), come indica la numerazione da 20 a 24. 18 «Raccolgo in queste ultime pagine alcuni accertamenti più rapidi, come se ne fanno anche aprendo a caso il Libro: cose leggiadre, per dire petrarchescamente, che non hanno destato particolare attenzione nei commentatori» (236). 19 Su temi pascoliani la Bibliografia di Giorgio Orelli di Montorfani censisce le conferenze seguenti: Vitalità del Pascoli, Bellinzona, Scuola Cantonale di Commercio, 8 marzo 1957 (Bi- bliografia di Giorgio Orelli, p. 86); Lettura de Il pioppo, nella conferenza su Clemente Rebora, Lugano, Biblioteca Cantonale, 30 novembre 1968 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 89); Una trama pascoliana, Friburgo; Giovanni Pascoli, Acquarossa, Scuole Medie, 26 febbraio 1988 (Bi- bliografia di Giorgio Orelli, p. 94); Poesie di Carducci e Pascoli, “Insieme nella terza età”, Lugano Sala San Rocco, 5 febbraio 1991 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 86); Lettura pascoliana, Pado- va, Circolo filologico linguistico padovano, 16 aprile 1997 Bibliografia( di Giorgio Orelli, p. 98).

240 Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore

20 G. Pascoli, Poesie e prose scelte, a cura di C. Garboli, Mondadori, Milano 2002, «Poe- sie giovanili». 21 Una trama pascoliana: da “La via ferrata” è il titolo della conferenza tenuta all’Università di Friburgo il 19 febbraio 1982 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 92); con titolo leggermente mutato (Una trama pascoliana “La via ferrata”) in “Piccolo Hans”, X (1983), 40, ottobre- dicembre, pp. 122-145 (con forti rimaneggiamenti; il testo del Dossier, molto più breve, è se- riore: a p. 54 la citazione da S. Capello, Le réseau phonique et le sens, Clueb, Bologna 1990). 22 Con il titolo Una poesia di Giovanni Pascoli, in “Cenobio”, LXI (2012), 2, aprile-giu- gno, pp. 7-18 (con forti rimaneggiamenti; la redazione a stampa è posteriore); la redazione di «Cenobio» conserva il dattiloscritto del testo a stampa. 23 Con il titolo Per una lirica del Pascoli, in “Strumenti critici”, VIII (1973), 21-22, otto- bre, pp. 283-290; poi in Accertamenti verbali, pp. 129-145. Le due redazioni a stampa diver- gono in più punti; la versione nel Dossier si distanzia a sua volta dalle precedenti (cfr. 108 nota 4, rinvio a G. Contini, Leggere Dante, pref. di V. Sermonti, L’inferno di Dante, Rizzoli, Milano 1988). 24 Con il titolo Armare una poesia (“Il transito” del Pascoli), in Accertamenti verbali, pp. 147-158 (con forti rimaneggiamenti). 25 Orelli ha partecipato con Sereni e con altri alla trasmissione Poesie ’70 nell’ambito della rubrica Lavori in corso, Televisione della Svizzera Italiana, 2 febbraio 1970 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 82); segnalo un intervento di Orelli, con altri, a una serata in onore di Sereni nel 25° anniversario della morte, Varese, Ville Ponti, 26 ottobre 2008 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 102). “A Vittorio Sereni” è intestato il componimento Le noci di Germignaga, in “Verbanus”, IV (1983), 4, p. 11; poi (con modifiche) in Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001, p. 35. 26 Si rinvia a V. Sereni, Poesie, edizione critica a cura di D. Isella, Mondadori, Milano 1995. 27 Un accertamento su Char e Sereni, in Per Vittorio Sereni, Atti del convegno di poeti (Luino 25-26 maggio 1991), a cura di D. Isella, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1992, pp. 65-79 (l’intervento orale è segnalato in Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 96); un breve accer- tamento su Sereni (con altri su Dante, Petrarca, Leopardi, Ungaretti, Montale) in “Allibisco all’alba”, in “Corriere del Ticino”, 6 febbraio 1988, p. 31.

241 Ottavio Besomi

Accertamento sul sonetto XL del Fiore.

I Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore

II Ottavio Besomi

III Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore

IV Ottavio Besomi

V PIETRO DE MARCHI L’orlo della vita di Giorgio Orelli Notizie sull’inedito e proposta editoriale

Tout ce que l’on peut reprocher à un auteur, c’est de s’être déclaré satisfait quand on ne croit pas qu’on l’eût été soi-même. Il faut donc le louer quand on découvre par un document qu’il ne s’est pas contenté d’un état qui nous eût nous-mêmes satisfaits. (Paul Valéry, Tel quel)

1. Nel celebre racconto di Borges intitolato Pierre Menard, autore del “Chisciot- te” si può leggere una divertente parodia del lavoro dei filologi. L’io narrante di quella “finzione” borgesiana incomincia elencando in ordine cronologico l’o- pera visibile di quel fantomatico poeta simbolista di Nîmes, presunto amico di Paul Valéry, per passare poi alla presentazione dell’altra opera: «la sotterranea, l’infinitamente eroica, l’impareggiabile. Che è anche – ahi, limiti dell’uomo! – l’incompiuta».1 Fatta la tara al tono enfatico e appunto parodico del narratore, resta che il concetto di opera visibile può venire utile per parlare della raccolta poetica che Giorgio Orelli annunciò a più riprese come quasi ultimata, addirittura pronta per la stampa nel giro di una settimana, e che tuttavia non si decise mai a con- segnare a un editore, e poi non fece più in tempo a concludere. C’è infatti una parte emersa, visibile, e una parte sommersa, invisibile, almeno per ora, del lavo- ro poetico di Giorgio Orelli successivo a Il collo dell’anitra, l’ultima sua raccolta edita in vita, uscita da Garzanti nell’autunno del 2001. La parte visibile è costituita dalle poesie che Orelli pubblicò in varie sedi dopo Il collo dell’anitra, rispondendo a inviti o a sollecitazioni altrui. Tali testi si trovano ora tutti registrati nella preziosissima Bibliografia di Giorgio Orelli allestita da Pietro Montorfani, con la collaborazione di Yari Bernasconi:2 s’in- comincia con i Versi di fine d’anno del 2003 e con Un gatto del 2004 (ma datata agosto 2003); e si arriva a La buca delle lettere e a Ragni (2012) e infine a L’alta- lena, datata 2002, più volte rielaborata, e pubblicata con La goccia nel novembre del 2013; per concludere con quello che può essere considerato il primo testo postumo licenziato dall’autore: L’uomo da marciapiede, scritto nella primavera del 2013. Se non ci fossero stati ritardi nella stampa di Sempre, senza misura, il libretto di omaggi per gli 85 anni del cugino Giovanni, a cui la poesia era stata destinata, L’uomo da marciapiede di Giorgio Orelli sarebbe stato pubblicato alla fine di ottobre dell’anno scorso, giusto una dozzina di giorni prima della sua scomparsa:

243 Pietro De Marchi

2003

Versi di fine d’anno, in 80 poeti contemporanei. Omaggio a Luciano Erba per i suoi 80 anni, con un saluto di P. Jaccottet, a cura di S. Ramat, Interlinea, Novara 2003, p. 85.

2004

Un gatto, in Un inquieto ricercare. Scritti offerti a Pio Caroni, a cura di G. De Biasio et al., Casagrande, Bellinzona 2004, p. 9.

In collegio ad Ascona, in Omaggio alla poesia italiana, in “Microprovincia”, XXVI (2004), 42, pp. 123-124.

2006

Libia, in Per . Testimonianze dal Ticino, a cura di F. Catenazzi e A. Mo- retti Rigamonti, Armando Dadò, Locarno 2006, p. 39.

2007

«Da Milano a Pavia…», in Il segreto delle fragole 2008, agenda poetica a cura di G. Neri e F. Alborghetti, Lietocolle, Faloppio 2007, s.i.p.

Da «Rendez-vous», in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, vol. I, pp. 9-10 [i. «Possibile che non ci sia…», p. 9; vii. «Né giovane né malbalita…», p. 9; viii. «Non sei più giovanissima e folletta…», p. 10; xviii. «Sarà che non son io, p. 10].

In collegio ad Ascona, in margine ad un’intervista a cura di A. Vosti, in “La Rivista di Locarno”, XIV (2007), 11, novembre, p. 11.

2008

Suburbana, in “Azione”, 29 aprile 2008, p. 19.

«Ich bin so wie ich bin…», «Nicht besser als andere Frauen», «Ob witzig tabulos…», in Giorgio Orelli. Das Deutsche ist reizvoll rauh, von P. Jankovsky, in “Tessiner Zeitung”, 28 novembre 2008, p. 6.

In collegio ad Ascona / In Ascona, im Internat, pp. 200-201; «Abbiamo fatto correre sul marmo…» / «Wir haben beim Messedienen die Tschikk,…», pp. 202-203; Lombardia / Lombardei, in G. Orelli, Sagt es den Amsel – Ditelo ai merli, ausgewählt und übersetzt von C. Ferber, mit einem Nachwort und einem Gespräch mit G. Orelli von P. De Mar- chi, Limmat Verlag, Zürich 2008, pp. 204-205.

2011

Sasso Corbaro (leggendo il «Fiore»); La buca delle lettere, in “Viceversa”, 5 (2011), pp. 12-13.

244 L’orlo della vita di Giorgio Orelli.

Il traghetto (con tanti auguri a Federico Hindermann), in L’occhio s’imperla. Ventisette mottetti di Federico Hindermann con dodici contributi augurali in occasione dei suoi no- vant’anni, [a cura di E. Lombardi], AF Edizioni, Caslano 2011, p. 39.

2012

La buca delle lettere. Ragni, libro d’artista con due poesie di G. Orelli e serigrafia origi- nale di N. Du Pasquier, Edizioni Lithos, Como 2012.

2013

L’altalena. La goccia, libro d’artista con due poesie di G. Orelli e litografia originale a colori di A. Taroni, Edizioni Lithos, Como 2013.

L’uomo da marciapiede, in Sempre, senza misura. Omaggio a Giovanni Orelli, a cura di P. De Marchi e F. Pusterla, Edizioni Sottoscala, Bellinzona 2013, p. 58.

Un paio di altri testi, già licenziati per la stampa, sono stati riprodotti dal datti- loscritto o editi in rivista tra dicembre 2013 e fine 2014:

Farfalla, riproduzione del dattiloscritto con firma autografa in margine aP. De Marchi, Per Giorgio Orelli, in “Cenobio”, LXII (2013), ottobre-dicembre, p. 9.

La buca delle lettere; In collegio ad Ascona; «Né giovane né malbalita…»; «Non sei più giovanissima e folletta…»; «Sarà che non son io…»; La goccia; Ragni; Farfalla; Il traghet- to; Cremona; Lombardia; Sasso Corbaro (leggendo il “Fiore”); L’uomo da marciapiede; L’al- talena, in L’orlo della vita, a cura di P. De Marchi e P. Montorfani, in “Poesia”, XXVII (2014), 289, gennaio, pp. 34-38.

In cusina, in štua, in Prato Leventina, raccolta fotografica a cura di M. Campello-Vicari, Taverne (Canton Ticino), 2014, p. 7.

La parte invisibile, quella sotterranea, del lavoro poetico dell’ultimo Orel- li, è costituita invece da tutte le poesie scritte e non pubblicate dopo Il collo dell’anitra, tra cui la maggioranza di quelle comprese nel dattiloscritto della raccolta inedita L’orlo della vita, più altre espunte e cassate, o anche soltanto temporanea­mente estromesse dalla compagine testuale, tolte dal raccoglitore che le aveva ospitate in attesa di eventuali riscritture o rimaneggiamenti. L’orlo della vita, così come ci è rimasto nel dattiloscritto conservato nello stu- dio di Giorgio Orelli, è un’opera ancora in fieri. Si presenta con una fisionomia incompleta e duplice: in parte ha già la forma di una raccolta poetica strutturata, organizzata per sezioni o gruppi di testi; in parte ha l’aspetto di un più disordi- nato collettore di testi ancora in attesa della collocazione più idonea nella serie. Le parole che Seamus Heaney usò a proposito del suo modo di fare un libro, per accumulo di testi, per cui a un certo momento si trovava ad avere tra le mani «un volume di poesia che non è ancora un libro finito, anche se ci si avvicina»,3

245 Pietro De Marchi potrebbero costituire la più precisa e sintetica definizione anche della raccolta che Giorgio Orelli ha lasciato incompiuta alla sua scomparsa. Il dattiloscritto, intitolato L’orlo della vita e autografato nella pagina che fun- ge da frontespizio, comprende le poesie e le brevi prose che si elencano qui di seguito. Di ogni testo si indica il titolo o il capoverso (e si segnala anche se si tratta di un testo in prosa):

Due ragni La buca delle lettere L’altalena Con Tullio In collegio ad Ascona I “Senza la lontananza” II “Certe domeniche noi” III “C’erano i Santi Esercizi, tre giorni” IV “Di chi sa quale carne era pietanza” Sasso Corbaro (leggendo “Il Fiore”) “La bimba sulle spalle del papà” Linea lombarda I. “Da Milano a Pavia” II. “Mi sono fermato una volta” Traghetto La goccia Dorina Sulla spiaggia La me mamm, u me pa’ I “La me mamm la m’ha vist in cusina” II “Mi e ‘l me pa’ (dopo l’infart)” Una casa a Mascengo in Leventina Carlin* Clandestina Cremona “La merda che i cani, pardon, i padroni di cani” “Domàndaglielo al sole” “È un po’ che non lo vedo” I “Forse qualcuno in Val Bedretto ricorda Cornelio e Gervaso…” (prosa) II “E quei due di Faido…” (prosa) “Aveva bottega di orefice…” p( rosa) Gli occhiali (prosa) “Gendarmi a Rosagarda non ce n’è più da un pezzo…” (prosa)

II

“Cik, a Locarno, ne abbiamo scoccate”

246 L’orlo della vita di Giorgio Orelli.

Libia “Giungevano le voci” Farfalla “Emma è un uomo mancato” II “Nel giardino di casa, con sospetta” III “Irrompe strepitando oltre misura” IV “La terra trema, pensa” V “Sembra eccessivo l’odore”

Quei due (prosa) I. “Forse qualcuno in Val Bedretto ancora ricorda Cornelio e Gervaso…” II. “E quei due di Faido…” Gli occhiali (prosa)

ALTRI CARDI Lettura in un liceo Natale vicino a Basilea (prosa) Il chiacchiericcio

RISERVA PROTETTA 1. “Fühlst du dich allein?” 2. “Possibile che non ci sia” 3. “Heiraten möchte ich nicht mehr” 4. “Né giovane né malbalita” 5. “Trotz des Kriegs in Iraq” 6. “So che le donne forti” 7. “Ob witzig tabulos” 8. “Ich bin so wie ich bin” 9. “Tra i crinelli di questa capitale” 10. “Parto, riparto (a parte” 11. “Non sei più giovanissima e folletta”

La divisione in due sezioni, indicata dal numero romano II, scritto su un foglio che nel raccoglitore si trova tra «Gendarmi a Rosagarda…» e «Cik, a Locarno…», sembra il relitto di un ordinamento dei testi provvisorio o comunque precedente la revisione dell’estate 2013, di cui è testimone più che attendibile Mimma Orel- li. Un foglio dattiloscritto sparso, non databile, rinvenuto tra le carte di Orelli, conserva traccia di una terza sezione (III) che si sarebbe intitolata Sasso Corbaro, costituita con ogni probabilità da testi di ambiente bellinzonese, a partire dalla poesia omonima pubblicata nel 2011. Come si è detto, e come si ricava scorrendo l’indice, in alcuni casi i testi conservati nel raccoglitore del dattiloscritto sono ordinati in serie o sezioni provviste di titolo: In collegio ad Ascona; Linea lombarda; La me mamm, u me pa’; Altri cardi; Riserva protetta. In altri casi le affinità tra gruppi di testi non

247 Pietro De Marchi sono esplicitate, ma non sono neppure difficilmente riconoscibili: altre poesie satiriche del tipo dei Cardi; altre poesie in dialetto; cinque prose di ambien- te leventinese; poesie raggruppabili sotto l’etichetta di Estive o di poesie del Quadernetto del mare. In un altro caso ancora, infine, il titolo della serie può essere congetturato attingendo ai versi riconducibili al progetto di libro L’orlo della vita, ma esclusi in occasione dell’ultima o di una delle ultime revisioni della raccolta. Ci si riferisce ai quattro testi numerati II-V, successivi a Emma è un uomo mancato (poesia, questa, “estiva”, di ambientazione elbana), che facevano parte di una serie di cinque, verosimilmente intitolata Via Ravecchia: il titolo e il primo testo della sezione si recupera reintegrando idealmente o fisicamente nella serie una delle poesie “accantonate”, quella che è intitolata Via Ravecchia I e incomincia con «Scatta dall’elettezza / di un’araucaria…» Sul foglio dattiloscritto che conserva tale poesia, accanto al titolo si legge una glossa autografa a penna: «Uomo da marciapiede». Come interpretare tale glossa? Giorgio Orelli intendeva forse sostituire Via Ravecchia I con L’uomo da marciapiede, poesia spedita a Fabio Pusterla nell’estate del 2013 e pubblicata, come detto, in Sempre, senza misura nel dicembre dello stesso anno? Oppure aveva immaginato di ribattezzare tutta la serie con quel nuovo titolo? Difficile, o impossibile stabilirlo. Come che sia, quel che è certo è che Via Ravecchia I è una poesia in cui compare come protagonista “l’uomo da marciapiede”, così come, allo stesso modo, ma inversamente, L’uomo da marciapiede è una poesia ambientata in “via Ravecchia”, se è vero, come è vero, che in un quadernetto manoscritto – attualmente esposto nella mostra qui accanto – tale poesia è in- titolata Primavera a Ravecchia e datata aprile-maggio 2013. Si aggiunga infine che L’uomo da marciapiede, tra le edite appena postume, è l’unica poesia di Orelli non compresa nel raccoglitore di L’orlo della vita: e l’unico testimone dattiloscritto di tale poesia è quello inviato a Fabio Pusterla, che l’ha giusta- mente restituito ad dominum, o meglio ad dominam, cioè a Mimma. L’assenza nel raccoglitore di una poesia così bella non può essere considerata prova di un disconoscimento della stessa da parte dell’autore che l’aveva appena scritta e licenziata per la stampa, bensì come ennesima dimostrazione che l’allestimento della raccolta era ancora davvero in progress. Conferma la condizione di incompiutezza della silloge la presenza nel rac- coglitore di alcuni testi in duplice redazione, con varianti non adiafore, di vol- ta in volta nel titolo, nell’esergo, che può esserci o non esserci, nella lezione. Un esempio: Farfalla, testo consegnato a Montorfani nella primavera del 2011 perché lo pubblicasse nella rivista “Poesia”, ma rimasto inedito, è presente nel raccoglitore come tale ma anche, senza titolo e con varianti, come quinta poesia della sezione “presunta” Via Ravecchia. Altro esempio: due delle cinque prose leventinesi sono presenti in una redazione anteriore con il titolo Quei due e con un esergo dantesco, e in una redazione più recente senza titolo e senza esergo (una correzione autografa, testimoniata in un dattiloscritto sparso, aiuta a stabi- lire la cronologia relativa).

248 L’orlo della vita di Giorgio Orelli.

2. Se lo stato delle cose è quello descritto, si tratta di decidere come pubblicare l’inedito, non nell’ambito di un’edizione critica, ma all’interno di un volume de- gli Oscar Mondadori che comprenderà Tutte le poesie di Giorgio Orelli da L’ora del tempo a L’orlo della vita (l’uscita è prevista per l’autunno del 2015). Esclusa l’opzione di un “montaggio” del libro che abbia la presunzione di ricostruire congetturalmente una volontà d’autore che non si è mai depositata in un indice, se non in quello, precario e provvisorio, deducibile dalla successione dei testi nel raccoglitore, due sembrano le soluzioni più praticabili. La prima, meno onerosa in termini di carta stampata, consisterebbe nella riproduzione dei testi del dattiloscritto di L’orlo della vita con la semplice esclusione delle poe- sie doppie superate. Questa prima soluzione porterebbe a privilegiare l’inedito sull’edito, oscurando la parte visibile e pubblica, giunta a stampa, del lavoro poetico di Orelli negli ultimi dodici anni, dopo Il collo dell’anitra (2001); a meno che tale oscuramento non venga risarcito raccogliendo in un’apposita appendi- ce quella ventina di testi orelliani già editi. La seconda soluzione, che infine si adotterà, prevede di dare la precedenza all’edito, senza per questo deprimere l’inedito, nel quadro di una sistemazione bipartita dei materiali testuali riconducibili a L’orlo della vita. Trattandosi di un numero limitato di testi, si potrà per una volta non contrapporre, ma conciliare da un canto quello che è stato chiamato il “prestigio storico” dei testimoni a stampa,4 e non importa che si tratti di una storia editoriale molto ravvicinata, e dall’altro canto l’ultima volontà dell’autore, quella affidata al dattiloscritto, ma che è ultima volontà solo per cause di forza maggiore.5 Non c’è bisogno di insi- stere troppo sul fatto che i testi inediti, di un’opera non licenziata per la stampa, si configurano diversamente rispetto a quelli editi che appartengono allo stesso progetto di libro. I testi editi sono entrati nel circuito della ricezione, hanno già “agito” sui lettori in quella particolare forma, mentre i testi inediti hanno neces- sariamente uno statuto più fluido, in quanto sarebbero stati ancora suscettibili di intervento da parte del loro autore, a livello tanto della lezione quanto della loro collocazione nell’insieme macrotestuale.6 Nello stampare L’orlo della vita negli Oscar Mondadori si riprodurranno dunque, in una prima sezione, le poesie che Orelli pubblicò in varie sedi dopo Il collo dell’anitra, ordinate secondo la cronologia delle stampe. Nel caso di più stampe di uno stesso testo si darà la lezione dell’ultima vigilata da Orelli o da lui approvata, fatta salva la correzione dei refusi. Così, ad esempio, nel caso di La buca delle lettere si riprodurrà il testo usci- to nel libro d’artista delle Edizioni Lithos nel dicembre 2012 e non quello di “Viceversa Letteratura”, 5 (2011). Si farà eccezione, in virtù dei molti rimaneg- giamenti e del cambio di titolo, per la poesia Versi di fine d’anno, uscita nell’O- maggio a Luciano Erba per i suoi 80 anni (Interlinea, Novara 2003) e pubblicata infine, con il titoloLa goccia, in un altro libro d’artista delle Edizioni Lithos (novembre 2013). In questo caso si pubblicheranno nell’Oscar entrambi i testi: Versi di fine d’anno e La goccia, con i quali in qualche modo si apre e si chiude il cerchio delle poesie edite in vita, tra 2003 e 2013. Ad essi seguiranno i pochi

249 Pietro De Marchi testi postumi, ma già licenziati dall’autore: L’uomo da marciapiede, Farfalla e Cremona, e infineIn štua, in cusina. Nella seconda sezione verranno ospitati i testi contenuti nel dattiloscritto di L’orlo della vita, con alcuni minimi interventi editoriali: la sottrazione delle poesie e delle prose doppie (si darà a testo la redazione più recente); l’addizione di un testo tratto dalle carte sparse, a colmare una lacuna della serie, e qui alludo alla poesia di cui si è discusso sopra, Via Ravecchia I. Questa soluzione bipartita ha un innegabile e duplice vantaggio. Ristampare tutti insieme i testi pubblicati dopo Il collo dell’anitra significa valorizzare la “presenza” della poesia di Giorgio Orelli, poeta del “secondo Novecento”, nei primi dieci-dodici anni del nuovo secolo: con i suoi contributi a miscellanee in onore di poeti o scrittori italiani o svizzeri, come Luciano Erba, Maurice Chap- paz, Federico Hindermann, Giovanni Orelli, o di studiosi come Pio Caroni o Pier Vincenzo Mengaldo; con le apparizioni, rare, ma significative, di suoi testi in giornali come “Azione” o la “Tessiner Zeitung”, in riviste come “Microprovin- cia”, “Viceversa letteratura”, o “Poesia”; in almanacchi letterari (Il segreto delle fragole, a cura di Giampiero Neri e Fabiano Alborghetti), in libri d’artista (Li- thos), e last but not least, in antologie di suoi testi tradotti (Sagt es den Amseln / Ditelo ai merli). Sappiamo bene quanto le antologie e le traduzioni curate da Christoph Ferber per Limmat Verlag abbiano di fatto supplito alle mancate ristampe dei libri di Orelli. E la stessa gratitudine va a Christian Viredaz, che ha tradotto Sinopie (Empreintes) e i Poèmes de jeunesse (Samizdat). Ma c’è un altro vantaggio, o un altro valore aggiunto della soluzione che si ritiene di dover adottare. La lettura, se non sinottica, almeno contrastiva, dei testi editi e di quelli inediti renderà pienamente ragione della concezione della poesia che Orelli sentiva più sua e praticava. Quando, alludendo al Valéry di Varieté che commentava il suo Cimetière marin, Orelli parlava del «travail du travail»,7 del «lavoro del lavoro», pensava proprio a questo, e cioè al fatto che un testo non può mai essere considerato davvero “finito”. È noto che ogni volta che Giorgio Orelli riprendeva in mano un suo testo, lo riscriveva, lo perfezio- nava, come soleva dire, che si trattasse di una poesia (Le forsizie del Bruderholz) o di una traduzione da Goethe (Schweizeralpe / Alpe in Svizzera), di una prosa narrativa (Suite in là con gli anni) o di un saggio di accertamenti verbali (sui pri- mi versi della Commedia di Dante o sull’Infinito di Leopardi). mai scomparso si legge nella memorabile poesia del merlo morto di Spiracoli («Certo d’un merlo il nero»). mai finito avrebbe potuto benissimo essere il motto araldico di Gior- gio Orelli scrittore, non dimentico di quanto aveva appreso, fin dagli anni della sua formazione, dalla lettura del memorabile esordio del continiano Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare: «La scuola poetica uscita da Mal- larmé, e che ha in Valéry il proprio teorico, considerando la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile, di cui il poema storico rappresenta una sezione possibile, a rigore gratuita, non necessariamente l’ultima».8 E la considerazione vale, con ancora maggior pertinenza, per i testi non giunti a stampa.

250 L’orlo della vita di Giorgio Orelli.

Confrontando la bibliografia curata da Montorfani e Bernasconi e l’elenco- indice del dattiloscritto di L’orlo della vita, si constata che tre sole sono le po- esie pubblicate da Giorgio Orelli, in varie sedi, tra il 2003 e il 2013, che non si ritrovano poi nel raccoglitore, e precisamente: Un gatto [Un inquieto ricerca- re, 2004], «Sarà che non son io…» [Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo, 2007] e «Nicht besser als andere Frauen» [“Tessiner Zeitung”, 28 novembre 2008], queste due ultime facenti parte di una serie (Rendevous) che giunse a comprendere una ventina di titoli, per ridursi poi a undici (con cambio di titolo: Riserva protetta). Tutte e tre si ritrovano invece tra le poesie “escluse”, rimaste nei dintorni del libro in costruzione, in dattiloscritti sparsi ma non dispersi (di essi si darà notizia nelle Note al testo). Tra le “escluse” o “da escludere”, in questa sorta di limbo testuale, potrebbe essere collocato anche il testo intitolato Carlin, che è l’unica tra le poesie contenute nel dattiloscritto di L’orlo della vita ad esse- re contraddistinta da quell’asterisco che, secondo l’usus di Orelli, indicava la volontà di accantonare un testo perché ritenuto insoddisfacente o non ancora pubblicabile. Lo lasceremo invece dove si trova, non potendo essere certi che la presenza di tale testo nel raccoglitore non sia dovuto a un ripescaggio operato dallo stesso Orelli. Ad eccezione delle tre poesie citate sopra, i testi editi in vita o appena po- stumi trovano dunque riscontro in quelli conservati nel dattiloscritto. Questo causerà un piccolo inconveniente, e cioè qualche ripetizione, perché in alcuni, numerati casi (Sasso Corbaro e «Né giovane né malbalita»), avremo, tra le edite e le inedite, lezioni davvero identiche. L’inconveniente, però, è largamente com- pensato dai vantaggi di cui si è detto. Nella stragrande maggioranza dei casi invece le poesie del raccoglitore inti- tolato L’orlo della vita sono testimoni di una redazione diversa rispetto a quella delle stampe. E il fatto interessante è che tali “ultime lezioni” del dattiloscritto non sono sempre successive alle stampe; in qualche caso sono anzi anteriori alla data di stampa o di diffusione delle redazioni precedenti e teoricamente superate.

Mi limito a un paio di esempi (anche con cambio di titolo e varianti). Incomin- cio con uno dei casi più complessi, quello che riguarda La goccia, che è già, come detto, la riscrittura dei Versi di fine d’anno. Della Goccia sopravvivono nell’ordine almeno: a) il dattiloscritto preparato per la stampa (autunno del 2011: consegnato ad Alfredo Taroni e a Elisabetta Motta); b) un dattiloscritto sparso con delle correzioni autografe; c) un dattiloscritto, conservato nel raccoglitore di L’orlo della vita, che recepisce quasi interamente tali correzioni; d) la stampa di a) priva delle correzioni di b) recepite da c).

251 Pietro De Marchi

Si potrebbe dire che d), cioè la stampa (novembre 2013), è una autorisierte Fas- sung che convive con la redazione dattiloscritta che rappresenta l’ultima volontà o “l’altra volontà”. Un discorso simile vale per L’altalena, licenziata per la stampa da Giorgio Orelli, insieme a La goccia, nell’ultima settimana della sua vita: il 6 novembre 2013 autografò le copie del libro d’artista edito da Lithos. Bene, nel dattiloscrit- to è compresa una redazione che probabilmente è successiva, ma non possiamo affermarlo con assoluta certezza. Anche qui, più che di ultima volontà sarebbe corretto parlare di «molteplici volontà», o di ultime volontà d’autore, al plurale.9 Un caso leggermente diverso, ma non meno problematico, è rappresentato da Ragni e La buca delle lettere, i due testi letti da Giorgio Orelli in pubblico, alla Biblioteca di Bellinzona, il 14 giugno 2013, in occasione della presentazione del libro d’arte che li comprendeva. Il primo testo, Ragni, così come lo leggiamo nel dattiloscritto di L’orlo della vita, offre delle varianti rispetto alla stampa e anche il cambio di titolo, che diventa Due ragni. Si potrebbe pensare a un’ultima redazione, magari risalente all’estate del 2013; in realtà, a complicare le cose o a insinuare qualche salutare dubbio sopravviene l’accertamento che nel qua- dernetto manoscritto sul quale, nel settembre del 2011, Giorgio Orelli ricopiò tra l’altro una frase di Pessoa («Il mistero non è mai così trasparente come nella contemplazione delle cose minuscole»)10 appuntando subito sotto alcuni versi della lunga elaborazione di questo testo («Calano con un nulla / di filo-di-saliva / per uno spazio esiguo / dove, oscillando, sembrano / saggiare il peso d’essere, / il trasparente mistero»),11 il titolo dell’abbozzo era già Due ragni. Le nostre cer- tezze vacillano. O meglio, ci convinciamo sempre più dello stato di perenne mutabilità dei testi dell’ultimo Orelli: sì, come il colore del collo dell’anitra al variare della luce. Quanto al secondo testo, La buca delle lettere, che era già uscito in rivista nel 2011, prima che presso Lithos nel 2012, anch’esso è oggetto di importanti interventi correttorii. Nei primi mesi del 2013 Giorgio Orelli si era evidente- mente messo a ritoccare un testo fresco di stampa (dicembre 2012) e non anco- ra presentato al pubblico. In questo caso, però, la redazione del dattiloscritto, anteriore alla fine di maggio del 2013 secondo l’attendibile testimonianza di Elisabetta Motta,12 non è forse la più felice per via di quella che pare una incer- tezza sintattica. Più semplice, per fortuna, il caso di Libia, che è quasi la poesia eponima del libro. Di questa poesia si è conservato un dattiloscritto sparso datato 2004; ab- biamo poi la stampa del 2006; e infine un dattiloscritto, conservato nel raccogli- tore e datato 2006, probabilmente, ma non possiamo affermarlo con certezza, di poco successivo alla stampa. Inoltre, ad arricchire la casistica dei travasi tra pro- sa e poesia, e viceversa, è riemersa da pochissimo, grazie agli scavi bibliografici di Pietro Montorfani, una breve prosa del 1998, in cui la poesia era già in nuce:13

La vita? Il mondo? Gli aggettivi che più spesso si accompagnano, fanno sintagma con questa parola dalle risorse luminose, “vita”, sono (specie dall’altro mondo) serena, lieta,

252 L’orlo della vita di Giorgio Orelli. bella, dolce, corta – breve; (specie dall’al di qua) trista, crudele, vana – inutile, faticosa, vile. Prendo dai poeti. Né Dante né Petrarca stringono a vita un aggettivo solidale come viva; con la «vita che dev’esser viva, cioè vera vita» la prosa di Leopardi fa pensare a un cielo invaso a poco a poco dal tramonto più bello. L’aggettivo forse più ricco che mi sia capitato di cogliere è buffa: «Com’è buffa la vita», disse una vecchia sorgendo d’un tratto come uno strano fiore di tra le pietre. Si chiamava Libia, viveva a Sant’Ilario, villaggio dell’Elba tutto (troppo?) allegrato dai fiori. Torna a mente quel che scrisse dall’America un emigrante ticinese: «Il mondo è corioso e io non voglio rovinarmi il fìdaco».

Chiudo con un accenno a un campo di studi ancora del tutto vergine, quello della ricostruzione delle letture orelliane. L’esplorazione delle riviste a cui Gior- gio Orelli collaborò riserverà senz’altro delle sorprese; ma sorprese o conferme verranno anche dalla perlustrazione della sua biblioteca. Basti un esempio. In uno dei libri conservati nella biblioteca di Giorgio Orelli, La caccia magica di Paul Valéry, c’è, tra le tante sottolineate con particolare energia, o evidenziate con segni a margine, questa frase: «Senza saperlo il Poeta si muove in un ordine di relazioni e di trasformazioni possibili, di cui egli non avverte o non percepisce che gli effetti momentanei e particolari che gli interessano in una certa fase della sua operazione interiore».14 Quasi con le stesse parole di Valéry, Giorgio Orelli si espresse ancora nel corso di un’intervista televisiva del maggio 2011: «Un poeta si muove continuamente entro un mondo di relazioni, trasformazioni che non lo lasciano in pace».15 E in quella medesima occasione Orelli aggiunse che il lavoro di scrittura e di riscrittura, alla ricerca della parola esatta e della sua migliore collocazione possibile in un testo (le travail du travail di Valéry) era per lui più interessante e più importante della pubblicazione. Forse anche per questo motivo, per questa sua concezione del lavoro poe- tico come un lavoro non mai finibile, il volume di versi al quale attendeva è rimasto in bilico, sul confine tra inedito ed edito. E proprio per questa ragione pare allora filologicamente corretto, ma anche poeticamente giusto, stampare le une dopo le altre le poesie edite e quelle inedite, che, insieme, testimoniano il “lavoro sulla parola” dedicato da Giorgio Orelli a questo suo libro di poesia, un libro finito-non finito, come forse era giusto che fosse, se è vero che «un libro», come diceva, «si fa con la vita», e se il titolo, dantesco, che egli aveva scelto da tempo per quello che sapeva sarebbe stato il suo ultimo era L’orlo della vita.16

1 J.L. Borges, Finzioni, trad. di F. Lucentini, Einaudi, Torino 1955, p. 39. 2 Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani con la collaborazione di Y. Berna- sconi, Edizioni di Cenobio, Lugano 2014. 3 S. Heaney, Virgilio nella Bann Valley, a cura di G. Bernardi Perini e C. Prezzavento, con un contributo di M. Bacigalupo, Tre Lune Edizioni, Mantova 2013, p. 73. 4 C. Ossola, Sul «prestigio storico» dei testimoni testuali, in “Lettere italiane”, XLIV (1992), 4, ottobre-dicembre, pp. 525-551.

253 Pietro De Marchi

5 Sulla questione cfr. P. Italia, Pro e contro l’«ultima volontà d’autore», in Ead., Editing Novecento, Salerno, Roma 2013, pp. 32-37. 6 Per l’invito a tenere distinti editi e inediti, in virtù proprio del diverso, divaricato statu- to degli uni e degli altri, cfr. D. Isella, Presentazione a C.E. Gadda, Romanzi e racconti, vol. I, edizione diretta da D. Isella, Garzanti, Milano 1988, pp. XVIII-XIX (cit. da P. Italia, Pro e contro l’«ultima volontà» d’autore, p. 83). 7 P. Valéry, Varieté, in Id., Oeuvres, Édition établie et annotée par J. Hytier, Gallimard, Paris 1957, t. I, p. 1500. 8 G. Contini, Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, Sansoni, Firenze 1943, p. 7. Il passo si legge anche in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938- 1968), Einaudi, Torino 1970, p. 5. 9 Sul riconoscimento di «molteplici volontà» d’autore si veda ancora P. Italia, Pro e contro l’«ultima volontà d’autore», pp. 37-38. 10 La frase di Pessoa si legge in F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, prefazione di A. Tabucchi, cura di M.J. de Lancastre, traduzione di M.J. de Lancastre e A. Tabucchi, Feltrinelli, Milano 2000, p. 198. È questa l’edizione letta da Orelli. 11 Ringrazio Mimma Orelli, che mi ha gentilmente consentito di consultare i quadernetti di Orelli, conservati nel suo studio. 12 Ringrazio per l’informazione Elisabetta Motta, che venne a sapere della nuova redazio- ne di questa poesia quando intervistò Orelli nel maggio 2013 (comunicazione personale, mail del 26 ottobre 2014). Per precedenti incontri cfr. E. Motta, Conversazione con Giorgio Orelli, in “Atelier”, XVII (2012), 65, marzo, pp. 11-17, e Ead., «Aspetto che si dia tempo al tempo. Incontro con Giorgio Orelli», in “ClanDestino”, XXV (2012), 3-4, dicembre, pp. 11-15. 13 Giorgio Orelli, in G. Otter, Ritratti della Poesia. I visi comunicanti, Quaderno del cir- colo degli artisti, Faenza 1998, [s.i.p.]. Segnalo qui che la frase finale, dell’emigrante ticinese, viene usata da Giorgio Orelli anche come epigrafe di «Riserva protetta», l’ultima sezione di L’orlo della vita. 14 P. Valéry, La caccia magica, a cura di M.T. Giaveri, Guida, Napoli 1985, p. 119. 15 Stupore e meraviglia, a cura di M. Cavadini, M. Chiaruttini e Enrico Lombardi, RSI, 24 maggio 2011, visionabile in: www6.rsi.ch/home/networks/la2/cultura/Serate-even- to/2011/05/13/serata-orelli.html. 16 Riassumendo: nel previsto volume degli Oscar Mondadori, alle quattro raccolte “ca- noniche”, e cioè L’ora del tempo (1962), Sinopie (1977), Spiracoli (1989) e Il collo dell’anitra (2001), si faranno seguire tutti i testi riconducibili a L’orlo della vita. Più precisamente, nella prima parte della quinta sezione del volume verranno raggruppate, in ordine cronologico di pubblicazione, le poesie anticipate da Orelli in varie sedi tra il 2003 e il 2013, e gli altri pochi testi che egli aveva già licenziato per la stampa e che sono usciti postumi tra il novembre del 2013 e il dicembre del 2014. Nella seconda parte si faranno conoscere tutte le poesie e le brevi prose, già edite ma allora per lo più in redazioni diverse, oppure del tutto inedite, che sono comprese nel dattiloscritto che Orelli tenne fino all’ultimo sulla sua scrivania. L’ordine in cui i testi saranno pubblicati è quello, reso definitivo solo dalla scomparsa dell’autore, in cui si susseguono nel dattiloscritto. Delle poesie e delle prose presenti in due luoghi distinti del dattiloscritto si fornirà a testo solo la redazione più recente, confinando l’altra nelle Note. Si recupereranno infine, per le ragioni di cui si darà conto, tre delle poesie rimaste anche fisicamente “nei dintorni” del dattiloscritto, in quanto non più o non ancora comprese nel raccoglitore, e affidate invece a fogli sparsi ma non strappati o biffati:Via Ravecchia I, Verso Giubiasco e La vacca. La prima verrà reintegrata nella sede che verosimilmente le appartene- va, a colmare una palese lacuna del dattiloscritto; le altre due stampate in appendice.

254 PIETRO MONTORFANI «Wer redet, ist nicht tot» Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

«Wer redet, ist nicht tot», «Chi parla (chi scrive) non è morto». Quante vol- te abbiamo sentito pronunciare a Giorgio Orelli questa massima di Gottfried Benn, secondo verso della poesia Kommt, senza pensare che presto si sarebbe inverata.1 «Chi parla non è morto» è regola valida infatti per lo scrittore che, da vivo, si nutre della vita e la celebra nei suoi testi (e attraverso di essi mostra di essere veramente vivo), ma tanto più vale per chi non c’è più e con i suoi scritti perpetua, nella mente di chi resta, un’esistenza ricchissima di scrittura e di pen- siero. La sopravvivenza verbale oltre la morte, da Orazio in poi, sembra essere prerogativa soprattutto dei poeti: ce lo ricorda la rivista “Orte” – sulla quale pubblicò anche Orelli2 – che per il suo centesimo fascicolo, nel 1996, scriveva in copertina a lettere cubitali: «Die Poesie lebt. Dichter sterben nie» («La poesia vive. I poeti non muoiono mai»). E come non aggiungere, a corollario di questa piccola filosofia della “vita viva” dei poeti, l’«Ohne Angst leben», il «vivere sen- za paura» di uno dei più noti testi di Sinopie?3 Il lavoro sulla bibliografia degli scritti di Giorgio Orelli è iniziato nelle set- timane immediatamente successive alla sua scomparsa, al crocevia di riflessio- ni simili a queste, mossi dal desiderio di verificare quel che rimane quando lo scrittore non c’è più. Subito è parso chiaro che la raccolta dei materiali avrebbe dovuto muoversi in due direzioni antitetiche e complementari: da un lato si trattava di riportare alla luce testi dimenticati da tempo (articoli in quotidiani e riviste, poesie mai riprese in volume, autocommenti, traduzioni) e dall’altro di sondare la ramificazione della sua presenza come poeta in lingue o tradizio- ni lontane sia da quella svizzera che da quella italiana. La bibliografia muove quindi verso l’interno, rivolgendosi a chi già conosce Orelli, con l’ambizione di offrire nuovi spunti di ricerca agli esperti in materia, ma si spinge anche verso l’esterno, fino ai luoghi più estremi nei quali si attestano traduzioni di suoi versi (Australia, India, America del Sud). Un’operazione, quest’ultima, che mira a restituire il ritratto di Orelli proiettato su di una scala internazionale, non senza che questa consapevolezza chiami in causa la nostra responsabilità di studiosi: se crediamo, in altre parole, che la sua opera meriti di essere condivisa il più possibile, un buon punto di partenza sarà l’accertamento della reale conoscenza dei suoi testi presso il più alto numero di lettori. Rare sono, nella tradizione letteraria italiana, le bibliografie complessive di po- eti, una lacuna cui non sarà estraneo il fatto che l’unità minima della voce biblio- grafica non sia tanto la raccolta di versi quanto la singola poesia, pubblicata più

255 Pietro Montorfani e più volte lungo l’arco di una vita intera, con o senza il consenso dell’autore, in tutte le sue possibili manifestazioni (inedita, edita, tradotta, ripresa solo in parte ecc.). Il caso di Orelli è però singolare e, da questo punto di vista, particolar- mente adatto a un esperimento altrimenti ben più oneroso: il suo essere stato lo scrittore-faro di una minoranza linguistica – con i vantaggi che questa comporta – e soprattutto la sostanziale sedentarietà della sua vita hanno reso il reperimento dei materiali un’operazione tutto sommato agevole. Punto di partenza è stato lo spoglio degli archivi digitali dei quotidiani della Svizzera italiana, integrato con quanto lo stesso Orelli aveva conservato (in verità non molto) nel suo archivio personale di Bellinzona. Un ulteriore, prezioso apporto è giunto dallo studio dei suoi legami con riviste e case editrici, con realtà accademiche in Svizzera e in Italia, così come con personalità ticinesi attive nelle redazioni radiofoniche e televisive. Il timore che qualcosa potesse andare perduto ha imposto alla ricerca criteri di selezione che potrebbero a prima vista parere eccessivi: era davvero neces- sario prendere nota di tutto? registrare ogni più piccola presenza, anche la più remota dalla volontà dell’autore? Chi ha fatto questo lavoro ha scelto di non scegliere, lasciando ad altri l’onere di valutare, di volta in volta, il peso di cia- scuna voce. Per limitarci al vasto gruppo delle presenze antologiche, una cosa è ad esempio il piccolo gruppo di testi che Orelli consegnò a Luciano Anceschi nel 1952 per la sua Linea lombarda (con inediti del calibro del Frammento della martora o di L’ora esatta); altra cosa è il suo essere ripreso, quansi en passant, in manuali scolastici o in pubblicazioni delle quali era a mala pena al corrente. Il mito della volontà d’autore esce con le ossa rotte da ogni ricerca bibliografica seriamente intesa, perché illusoria rimane la possibilità di tracciare un confine netto tra quanto si è inteso pubblicare con consapevolezza e quanto invece è sfuggito alle maglie persino del più ferreo dei controlli. Il poeta, non finisce di ricordarci Giuseppe Ungaretti, «torna alla luce coi suoi canti / e li disperde», ma in questa dispersione è insito un minimo tasso di tragedia: si perde quanto si è scritto nel momento stesso in cui questo diventa pubblico. Fortuna è un latinismo che, almeno in letteratura, conserva il suo valore di vox media, cioè contemporaneamente positivo e negativo; alcune piccole sfortune editoriali di Orelli testimoniano questa duplice accezione.4 Se non ci si può illudere di essere riusciti a catalogare tutto, la tensione verso l’esaustività ha quantomeno il merito di ricordarci l’unità della persona di Gior- gio Orelli che, come ogni autore, non si è limitato a scrivere e pubblicare, ma ha sperimentato una molteplicità di interessi che hanno nutrito costantemente la sua esistenza e la sua scrittura. Basterebbe pensare alle frequenti collaborazioni radiofoniche e televisive,5 alle innumerevoli conferenze e lezioni pubbliche delle quali è stato possibile reperire notizia, o ancora alle sporadiche cronache della vita culturale di Bellinzona;6 né vanno dimenticate le accese diatribe giornalisti- che, a proposito del linguaggio della cronaca sportiva7 o dell’opera di Giuseppe Bolzani per l’aula magna della Scuola di Commercio di Bellinzona,8 o il salace botta-e-risposta con Mauro Dell’Ambrogio, sul quotidiano “Il Dovere”, susci- tato dalla poesia Foratura a Giubiasco e dai «cervelli asfaltati dei nostri Consigli

256 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

Comunali»;9 penso, infine, alle numerose interviste dalle quali traspare la sua figura in una luce di umanità assai simile a quella che tutti ricordiamo.10 Le ricerche per la Bibliografia hanno portato inoltre all’individuazione di quello che fu probabilmente il primo testo pubblicato in vita da Giorgio Orelli: la cronaca di una gita scolastica all’Esposizione Nazionale di Zurigo, nel maggio del 1939, per l’annuario del Collegio Papio di Ascona.11 Lo scrittore diciotten- ne, già allettato dalle potenzialità del linguaggio metaforico, descrive Zurigo come «una dama nel più fastoso vestito di gala» e si sofferma sul «lavoro che fa una piccola nazione per non cedere il passo alle grandi vicine» (con due sette- nari perfettamente ritmati: «per non cèdere il pàsso / alle gràndi vicìne»). Senza saperlo, il giovane Orelli si era già messo, con queste pagine, sulla scia del suo maestro Gianfranco Contini, che dodici anni prima aveva esordito, da studente, proprio con il resoconto di una gita liceale sulla rivista del collegio rosminiano di Domodossola.12 È altresì significativo che la prima voce bibliografica non sia di natura poetica, bensì narrativo-memoriale: l’Orelli dei primissimi anni, nono- stante il conferimento del Premio Lugano a Né bianco né viola (1944), si divide equamente tra poesia e prosa, anzi, la seconda pare pesare quantitativamente più della prima. Tra il 1942 e il 1946 la Pagina Letteraria del “Corriere del Tici- no” ospita a più riprese dei mini-racconti13 che sembrano, con oltre un decennio di anticipo, i cartoni preparatori per le prose che usciranno in rivista nel corso degli anni cinquanta e confluiranno più tardi inUn giorno della vita (1960).14 Precoce è pure l’esordio come conferenziere: la fama di poeta e il titolo di docente di scuola superiore (dal 1945) devono aver favorito un’attività extra-pro- fessionale che negli anni giunse a toccare anche le tre serate per settimana. Non va sottovalutato, da questo punto di vista, l’apporto di Orelli alla divulgazione alta della letteratura e della poesia italiane fin nei più riposti angoli della Svizze- ra italiana. Un esempio tra i molti, importante anche per i suoi rapporti con un certo tipo di critica letteraria e con un certo tipo di prosa narrativa, è la sera del 22 gennaio 1949, quando nella palestra comunale di Mesocco (un piccolo paese di montagna che contava all’epoca poche decine di abitanti) tenne una lezione dal titolo Uno scapigliato piemontese. L’autore in questione era Achille Giovanni Cagna, noto soprattutto per il romanzo Alpinisti ciabattoni (1888) di cui Orelli si è sempre detto un grande estimatore, ma a quell’altezza cronologica l’interesse per la scapigliatura piemontese non nasceva da un’intuizione personale, bensì si situa- va alla confluenza di più letture e di più incontri. Se l’invito a Mesocco sarà stato del grigionese Remo Fasani, la conoscenza di Cagna non si spiega infatti senza l’amicizia con Gianfranco Contini, che proprio in quegli anni (almeno dal 1942) lavorava all’antologia della scapigliatura piemontese che sarebbe stata pubblicata da Bompiani nel 1953; e dietro Contini si intravvedono Eugenio Montale e , tra i primi valorizzatori di quel gruppo di scrittori; né va dimenti- cato, infine, che in quello stesso 1949 Fernando Bonetti discuteva a Friburgo, con Contini, una tesi sull’opera e la lingua di Giovanni Faldella, fatto di cui Orelli era certamente al corrente.15 A tutto questo il conferenziere poteva aggiungere la sua spiccata sensibilità per la dimensione verbale, di cui le pagine degli Alpinisti cia-

257 Pietro Montorfani battoni sono tutt’altro che prive, e forse anche la comune appartenenza (di Orelli, Fasani e del pubblico di Mesocco) a un territorio montano, in virtù della quale le disavventure dei protagonisti del romanzo di Cagna – due sprovveduti turisti di pianura – non potevano che venire osservate con complice ironia. Da subito il giovane autore di Né bianco né viola fu insomma la vedetta avan- zata, in terra ticinese, di un folto gruppo di letterati e studiosi che avrebbe la- sciato il segno nella cultura italiana del dopoguerra. Fu un divulgatore alto per contenuti, ma democratico nella forma, che non temeva di spingersi in luoghi generalmente non preposti a quel tipo di discorso sulla letteratura: dal Salo- ne Olimpia di Airolo alla Capanna del Campo Tencia, dalla Sala del Consiglio Comunale di Rodi-Fiesso alla chiesa del Sacro Cuore di Bellinzona, la voce di Orelli è risuonata a lungo nelle sedi più disparate,16 trovando la sua ideale col- locazione a partire dal 1987 – terminata oramai l’attività professionale – nelle numerose lezioni per i cicli Insieme per la terza età, a dimostrazione del fatto che la dimensione orale era per lui non meno decisiva della pubblicazione di un saggio di accertamenti verbali.17 Nonostante la dimestichezza con gli ambienti accademici, soprattutto in Ita- lia, dove fu spesso invitato per seminari e convegni,18 e nonostante gli apprez- zamenti raccolti da più parti con il volume di prose narrative,19 la notorietà di Orelli al di fuori della Svizzera italiana è legata quasi esclusivamente all’attività poetica, certo favorita dalle pubblicazioni presso Mondadori (dal 1962) e Gar- zanti (nel 2001) e dalla precoce stima di critici del calibro di Luciano Anceschi o Vittorio Sereni. Tutto questo a fronte di una produzione in versi tutt’altro che ponderosa, anzi, assai selettiva, se in totale non conta che 349 poesie singole pubblicate in vita – in quotidiani, riviste, plaquettes o raccolte poetiche – e delle quali soltanto 240 sono entrate a far parte del ridottissimo canone autorizzato dallo scrittore (si rimanda, per ulteriori ragguagli, alle tabelle dell’Allegato I):

anno poesie pagine

OT L’ora del tempo 1962 49 82 SI Sinopie 1977 52 85 SP Spiracoli 1989 68 102 CA Il collo dell’anitra 2001 71 108

Poeta parco per antonomasia, come gli amati Petrarca e Foscolo e, nel No- vecento, l’amico Vittorio Sereni, Giorgio Orelli ha lasciato un corpus tutto som- mato esiguo di testi, da lui stesso reso ancor più esile dopo la rigorosa sele- zione operata all’inizio degli anni sessanta per l’antologia mondadoriana. Non andrebbero comunque trascurate, in sede critica, le altre 109 poesie, un gruppo che corrisponde circa a un terzo della sua produzione e che si compone per lo più di versi giovanili non accolti ne L’ora del tempo, ai quali vanno aggiunte le anticipazioni della raccolta postuma L’orlo della vita (OV) e le poesie pubblicate una sola volta e mai riprese in volume:

258 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

anno poesie poi in OT non riprese

NB Né bianco né viola 1944 30 30 24 PA Prima dell’anno nuovo 1952 10 3 7 PO Poesie 1953 59 20 39 CF Nel cerchio familiare 1960 11 10 1

Poesie mai stampate in volume 1944-70 16 Anticipazioni di OV 2003-13 22

Tali cifre andranno considerate, come sempre in questi casi, con beneficio d’inventario, data anche l’abitudine orelliana al riutilizzo e montaggio di mate- riali già pubblicati per la costruzione di nuove di poesie, come è avvenuto per «Tutto il verde che scorre fino al grigio…» e «Ma oggi, senza desiderio, avendoti…» di PA, fuse con modifiche in Lettera da Bellinzona (OT), oppure nel passaggio di Ancora una vigilia (anticipata nel 1958 su “Botteghe oscure”) a seconda parte di Prima dell’anno nuovo nella plaquette omonima, o ancora alla sopravvivenza di pochi versi di La iena (apparsa su “Cenobio” nel 1954) nella assai più tarda «Rimini s’allontana…» (SP). Colpisce altresì che dopo il 1960 per i testi in pla- quette, e dopo il 1970 per le poesie stampate in antologie, riviste o quotidiani, nessun titolo venga più abbandonato al proprio destino, e tutti vengano anzi ripresi nelle raccolte degli anni successivi. Le ragioni di questa prassi, probabil- mente volontaria, possono essere duplici: da un lato una maggiore disponibilità nei volumi d’arrivo, che negli anni aumentano seppur di poco il numero delle pagine (82, 85, 102 e 108), e dall’altro un più ferreo controllo a monte, cioè una minore disponibilità da parte dell’autore a “cedere” e anticipare testi di cui avrebbe potuto pentirsi in futuro (o che per vari motivi avrebbero faticato a trovare cittadinanza in nuove sillogi). Il ridotto numero di queste poesie, sedici in tutto (qui riproposte nell’Allegato II), conferma la celebre opinione di Gian- franco Contini secondo cui Orelli non sbagliava mai un colpo.20

1941 Fugacità 1944 Come il sole 1944 La stanza 1944 Evasione 1945 Nel folto del mattino 1950 Maschere di Gonzato 1953 Di camelia in camelia 1954 La iena 1954 Primavera a Nocca 1954 «Come remota sei…» 1954 «Su codesta città…» 1954 «Niente niente…» 1960 (?) Il battello 1960 Passaggio a Milano 1960 Qui conta d’un mancino 1970 Sant’Agata di Tremona

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I primi cinque testi, precedenti o coevi alla vittoria al Premio Lugano, rien- trano nelle poesie in senso stretto giovanili, e forse proprio per questo furono presto abbandonati. Medesima sorte ebbero alcuni inediti apparsi in Quarta ge- nerazione (a cura di Luciano Erba e Piero Chiara, Magenta, Varese 1954) e così i pochi altri titoli ospitati per lo più in periodici della Svizzera italiana. Su tutti spicca, almeno nelle intenzioni, Maschere di Gonzato, non già una poesia auto- noma – e perciò riutilizzabile in altra sede – bensì una micro-recensione poetica di un libretto di disegni del pittore veneto Guido Gonzato, da tempo residente in Ticino, cui lo stesso Contini aveva voluto premettere un’epistola in versi in tutto simile a quella che aveva tenuto a battesimo Orelli nei primissimi anni del- la sua carriera.21 Al di là dei singoli esiti, giudicati più o meno positivamente dal poeta maturo, di fronte a questi “scarti” è comunque forte la sensazione di una maggiore vitalità degli anni cinquanta-sessanta rispetto alle stagioni successive, nelle quali un severo esercizio di selezione è intervenuto a controllare la divul- gazione dei testi per la pubblicazione. All’altro capo della bibliografia orelliana stanno invece quei titoli che, entrati presto nel circolo delle antologie italiane e straniere, hanno contribuito con il tempo a costruirne l’immagine di poeta su scala nazionale e (in misura minore) internazionale. Caso più unico che raro per un autore svizzero di lingua italiana, Orelli conosce infatti una buona e precoce visibilità anche al di fuori delle due tradizioni letterarie cui appartiene per diritto: lo attestano almeno la traduzione spagnola di Natale 1944 nell’antologia Treinta jovenes poetas italianos, stampata a Montevideo nel 1957, o il fatto che nel 1962 figuri tra i poeti italiani tradotti per la rivista newyorkese “Chelsea”, mentre sei anni più tardi tocca gli antipodi su “Poetry Austrialia”.22 Considerando le singole poesie ospitate in volumi o riviste, pubblicate in lingua oppure in traduzione, senza grandi sorprese il pri- mato delle presenze va – da Sera a Bedretto al Frammento della martora, da Nel cerchio familiare a Sinopie – ai titoli più celebri e consolidati:

Antologie italiane Nel cerchio familiare (CF, OT) 9 Frammento della martora (PO, OT) 8 Sinopie (SI) 7 Sera a Bedretto (PO, OT) 4 Lettera da Bellinzona (PA, OT) 4 La scolopendra (PO, OT) 4 A Giovanna (SI) 4 Ginocchi (SI) 4 Moosackerweg (SP) 4 Le anguille del Reno (SP) 4

Antologie svizzere Nel cerchio familiare (CF, OT) 4 Frammento della martora (PO, OT) 4 Sinopie (SI) 4 Sera a Bedretto (PO, OT) 4

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Né bianco né viola (NB, OT) 3 Nel mezzo del giorno (SI) 3 «Certo d’un merlo il nero…» (SP) 3 «Col silenzio di cento ramarri…» (SP) 3

Antologie straniere Nel cerchio familiare (CF, OT) 9 Sinopie (SI) 5 L’estate (CF, OT) 5 Ginocchi (SI) 4 In ripa di Tesino (SP) 4 Frammento della martora (PO, OT) 3 Natale 1944 (PO, OT) 3 A un amico che si sposa (CF, OT) 3

Anche da questo punto di vista, nell’asettica prospettiva di statistiche che restituiscono un quadro inevitabilmente parziale e falsato (le poesie più antiche sono quelle che hanno più chances di venire antologizzate nel tempo, così come le traduzioni tendono a fossilizzarsi attorno a pochi titoli ricorrenti), Orelli si conferma il poeta del «cerchio familiare», con un’ulteriore testimonianza di quanto il tormentato confronto con il paese d’origine – segnato da movimenti alterni di vicinanza e lontananza – e lo snodo cronologico dei primi anni ses- santa siano stati decisivi nella sua vita di uomo e di scrittore. A quel tema e a quegli anni cruciali bisognerà giocoforza tornare ogni qual volta ci si ponga il problema del suo rapporto con il “lavoro” letterario e con la dimensione più profonda della parola poetica. Lo scandaglio per la bibliografia ha portato alla luce, da questo punto di vista, testimonianze notevoli per sincerità e ardore d’e- sposizione, quasi delle confessioni in presa diretta nelle quali lo scrittore, dopo essersi chinato umilmente sulla natura misteriosa del proprio lavoro, si presenta al lettore con il cuore in mano:

Sono indaffaratissimo: la scuola, lo sgombero, e presto il matrimonio. Mentre mi ci vor- rebbe calma concentrazione per mettere su un foglio la mia opinione sulla Situazione della poesia. Certo, non c’è da aspettarsi in questo senso gran che da me, preoccupato come sono di approfondire i pochi motivi a cui s’affida il significato della mia presenza sulla terra. Mi pare che nel mio Cerchio familiare almeno tre componimenti mostrino decentemente, cioè, spero, con voce dimessa ma ferma, l’uomo ch’io sono e sto per essere, in der Gesellschaft mit den Menschen, besonders im Menschentrubel, come dice Kierkegaard. Per me, penso semplicemente che non ci sia scampo fuori d’un lavoro ver- ticale: questo è poi l’unico modo di sentirmi vivo, dico contemporaneamente vivo. Ogni tentativo di allargare il discorso si ripiega inevitabilmente su una situazione personale.23

Il 1960, inaugurato il 1o di gennaio con la presentazione a Milano di Nel cer- chio familiare, è l’anno del matrimonio con Miriam De Angeli, l’8 agosto, quindi di un nuovo trasloco e infine della consacrazione come narratore, a novembre, grazie alla pubblicazione di Un giorno della vita. Presto nascerà la prima figlia,

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Giovanna (1961), e all’orizzonte si intravvede l’uscita per Mondadori dell’anto- logia poetica dei primi quarant’anni (1962). Su tutti questi eventi, di vera vita, grava il dolce peso della scuola: «bisogna vivere per poetare, bisogna tenere ancora un capo. S’intende che i giovani poeti saranno tanto più nuovi quanto più mostreranno di non essersi accontentati dei famosi “momenti di grazia”. Più non dico. Non sono aux ordres de l’impatience. Ora devo pensare tre temi per l’esame di maturità: non bisogna deludere i nostri cari allievi». Nelle stesse settimane nelle quali risponde all’invito della “Fiera Letteraria”, Orelli firma la prefazione aIl Silos di Angelo Casé, nella quale ritorna la parola- chiave della plaquettes pubblicata da Scheiwiller pochi mesi prima (nostro il corsivo): «non ci sarà scampo anche per lui fuori del cerchio più noto»,24 e un paio d’anni più tardi, il 20 ottobre 1963, su invito di Ugo Frey legge alla Radio della Svizzera Italiana, per la trasmissione Nero su bianco, un testo intitolato Il mio villaggio, la cui registrazione è purtroppo perduta, ma che potrebbe coin- cidere con l’autocommento omonimo a Nel cerchio familiare apparso nel 1972 in un volume miscellaneo delle Edizioni Cenobio.25 L’eccezionalità di questo ritrovamento, che precede di molti decenni la lettura ravvicinata del Frammento della martora,26 ha suggerito di riportarne il testo per intero nell’Allegato III, nella speranza che possa essere utilizzato per futuri studi. Saranno sufficienti in questa sede, a dare ragione del valore di questa testimonianza, i due paragrafi di apertura e chiusura:

Ci fu un tempo ch’io coglievo pretesti anche futili per non tornare a casa. Parlo d’inverni fortunatamente lontani. Vivevo solo in città, vorrei dire che resistevo, e quando arrivava il sabato, al pensiero di prendere il treno e tornare dai miei, in montagna, stavo male. […] Non che decidessi senz’altro di non rincasare: la mia decisione era il misero prodot- to di lunghe esitazioni, di incerti tormenti per cui mi sentivo sull’orlo quasi dello sper- dimento. È una storia curiosa che ancor oggi, benché mi riesca guardarla con un certo distacco oggettivo, ha punti o aspetti per me misteriosi. Certo è che io non mi volgevo più al mio villaggio, come a una realtà concreta, umile, quotidiana: vedevo la mia stessa infanzia separata da me, e la neve era una merce ostile che rendeva più sensibile il vuoto. […] Occorre dire che non è per superbia che ho commentato questa mia poesia? Altrove ho parlato del mio villaggio, di me e del mio villaggio, sempre cercando di essere onesto, di non fare il passo più lungo della gamba. Penso che ogni problema stilistico, ogni sforzo di conoscenza, sia anche un problema morale.27 Ogni scrittore degno di questo nome è un uomo in media humanitate, affronta sempre un compito che non gli offre altro scam- po se non quello di assolverlo onestamente.

Chi abbia un po’ di dimestichezza con la prosa di Gianfranco Contini, sia essa saggistica o epistolare (con Cecchi, Gadda, Montale, lo stesso Orelli), non potrà fare a meno di sentir risuonare alcune armoniche: «Penso che ogni proble- ma stilistico, ogni sforzo di conoscenza, sia anche un problema morale» scrive il poeta bellinzonese; «Ogni problema pedagogico è d’amore, da Platone in giù» chiosava invece, nel 1941, il filologo di Domodossola sulla rivista “Primato”.28

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Cresciuto alla scuola del maestro, l’Orelli degli anni sessanta ricorda a se stesso e ai suoi lettori (di allora e di oggi) come il lavoro sulla parola – certo importante, decisivo anzi per un autore della sua sensibilità stilistica – non sia che un capi- tolo, un sottoinsieme, di un “lavoro” assai più vasto e ineludibile che è quello di trovare il nostro posto su questa terra («l’uomo ch’io sono e sto per essere»). Non ci si sbaglierebbe di molto nel ritenere questi affondi analitici, esperien- ziali, ancora un portato dell’esperienza straordinaria degli anni friburghesi, di quegli incontri eccezionali che hanno contribuito a fare di lui il grande poeta che è stato.

1 «Kommt, reden wir zusammen / wer redet, ist nicht tot, / es züngeln doch die Flammen / schon sehr um unsere Not» (G. Benn, Aprèslude, Limes-Verlag, Wiesbaden 1955, vv. 1-4 di 16, p. 33). Orelli, che pure non ne aveva bisogno, poteva leggerla anche nella traduzio- ne italiana di F. Masini pubblicata da Scheiwiller nel 1963 (e ancora da Einaudi nel 1966): «Venite, parliamo tra noi / chi parla non è morto, / già tanto lingueggiano fiamme / intorno alla nostra miseria». Per la centralità di questo “motto” nell’orizzonte poetico orelliano cfr. P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo». Sul tema della morte, in Dove porta- no le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002, pp. 23-24: «Il verso di Benn, nella laconica equazione vita=parola / morte=silenzio, dice innanzitutto […] “il bisogno di sentirsi vivi attraverso la parola” […] è dal vuoto del silenzio che si origina il pieno della parola; è dall’incombere della morte che viene la necessità del dire». 2 Giorgio Orelli, herausgegeben von A. Canonica und P. Fröhlicher, in “Orte”, II (1975- 1976), 7, dicembre-gennaio, pp. 25-26. Le poesie proposte in italiano con traduzione a fronte, tutte prelevate da L’ora del tempo (1962), sono soltanto tre: C’è gente / Menschen gibt’s; Né bianco né viola / Weder weiss noch violett; «Gli occhi che un poco muoiono se guardano…» / «Diese Augen sterben ein bisschen…» 3 «Nessuno insomma che desse impressione di noia, / d’ansia o altro disagio» («Ohne Angst leben», sesto testo di Sinopie, Mondadori, Milano 1977, pp. 21-23, vv. 21-22). Utili in proposito le parole di Orelli nelle Note al libro: «Vivere senza angoscia: Adorno, o comunque la Scuola di Francoforte» (p. 89). 4 Tre casi infelici dei più curiosi: nel volume Un teatro per la poesia, pubblicato a Brescia nel 1990, le celebri forsizie del Bruderholz sono presentate come una «traduzione da Gottfried Benn», mentre la prima versione della poesia Alter Klang, stampata in una raffinatissima veste editoriale (in M.S. Merian, Metamorphosis insectorum surinamensium, vol. III, Lausanne, La “Suisse” assurances, 14 marzo 1986), è impaginata per errore come prosa su due colonne; infine, nella versione serba di Dejan Ilic la poesiaD’autunno risulta montata con un altro testo di Spiracoli – «Un giorno caldo di luglio un corvo…» – in una sorta di apocrifo pseudo- orelliano ad uso esclusivo dei lettori slavi (cfr. U porodicnom krugu. Izabrane pesme, izbor u prevod sa italijanskov Dejan Ilic, Rad, Beograd 2005, p. 77). 5 I primi contributi per la Radiotelevisione della Svizzera italiana (all’epoca ancora Radio Monteceneri) datano alla metà degli anni quaranta e continuano con frequenza regolare al- meno fino agli anni sessanta. Più sporadici si faranno invece negli anni successivi. Gli inter- venti – di cui si conservano pochissime registrazioni – sono per lo più in forma di recensioni librarie, ad esempio sulle Versioni poetiche dal latino e dal greco di Salvatore Quasimodo (18 dicembre 1945), sulle Liriche cinesi curate per Einaudi da Giorgia Valensin e Eugenio Mon- tale (19 febbraio 1946) o ancora sulle poesie di Cardarelli (30 marzo 1950), sebbene non manchino cronache culturali, presentazioni di mostre d’arte e persino “pezzi” di invenzione, come lasciano intendere alcuni titoli: Angeli dell’umiltà, sintesi radiofonica a cura di Giorgio Orelli, 26 ottobre 1946; Le ragazze di Leventina, 8 giugno 1950; I mestieri dell’uomo: il sarto,

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16 novembre 1950; Ricordo delle vacanze, 11 ottobre 1953; Natale di montagna, 25 dicembre 1954; Allungo in Val Bedretto, 25 novembre 1955. Soprattutto, Orelli fu uno dei protagonisti della vivace ed encomiabile stagione pedagogica della RSI, come curatore e lettore di corsi ra- diofonici dedicati alla letteratura italiana: Testi di buona lingua (1946), Lectura Dantis radiofo- nica (1965, con Guido Calgari e Renato Regli), Come si legge una poesia (1970), Introduzione alla lettura della poesia (1973). 6 Giorgio Gaber a Bellinzona, in “Cooperazione”, 14 dicembre 1972, p. 3; Il «Sogno» di Shakespeare (interpretato dal «Gruppo della Rocca»), in “Cooperazione”, 18 gennaio 1973, p. 3. 7 Linguaggio sportivo, in “Cooperazione”, 2 maggio 1970, p. 10. La presa di posizione orelliana, severa in special modo nei confronti di neologismi e anglicismi, ebbe lunga eco sulla stampa ticinese. Ancora nel dicembre del 1973 un Dibattito sul linguaggio della cronaca sportiva fu organizzato, presente Orelli, alla Scuola d’arti e mestieri di Bellinzona. 8 La presentazione ufficiale degli affreschi di Giuseppe Bolzani per l’Aula magna della Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona avvenne il 15 ottobre 1953, introdotta da al- cune parole di Orelli poi stampate in rivista con il titolo Appunti su Bolzani. Da una specie di conferenza, “Svizzera italiana”, XIII (1953), 102, ottobre, pp. 23-24 (identico ne Il Brontosau- ro. Numero unico di Adelfia 1953-1954, giornale studentesco della Scuola Cantonale di Com- mercio di Bellinzona, Tipografia Grafica, Bellinzona, Natale 1953, s.i.p.). La novità dell’opera di Bolzani e le parole elogiative dell’amico poeta suscitarono un risentito intervento di Valen- tino Sacchi (Le pitture murali nel salone della Scuola cantonale di commercio, in “Corriere del Ticino”, 3 novembre 1953, p. 5), cui fecero seguito una risposta di Orelli (Dell’arte e d’altro, in “Popolo e Libertà”, 5 novembre 1953, p. 2), un nuovo intervento di Sacchi (Le decorazioni alla Scuola Cantonale di Commercio, in “Popolo e Libertà”, 7 novembre 1953, p. 5) e una seconda risposta del difensore (Ancora dell’arte e altro, in “Popolo e Libertà”, 10 novembre 1953, p. 2). All’opera pittorica di Bolzani (1921-2002), dal 1951 insegnante presso la Scuola Magistrale di Locarno, Orelli prestò sempre grande attenzione e l’amico ricambiò con due disegni per la plaquette Prima dell’anno nuovo, stampata a Bellinzona da Leins & Vescovi nel dicembre del 1952. 9 Mauro Dell’Ambrogio, che di Giubiasco sarebbe divenuto sindaco nel 1992, lesse la poesia sul quotidiano “Il Dovere” del 17 novembre 1979, a p. 3, e a quella medesima testata inviò una risentita puntualizzazione (Il poeta Giorgio Orelli e la piazza di Giubiasco, 21 no- vembre 1979, p. 5). La breve risposta dello scrittore fu accolta, due giorni più tardi, nella rubrica Lettere al Dovere, a p. 5: «Devo rammentare a Mauro Dell’Ambrogio che, se anche l’impersonalità è sempre l’impersonalità di qualcuno, nella mia composizione Foratura a Giu- biasco c’è una dilatazione plurale (i nostri Consigli Comunali) che inequivocabilmente s’indi- rizza a tutta una schiera di “politici” incolti ma molto sicuri di sé quando si tratta di straziare il nostro paese. Intendo evidentemente “incoltura” nel senso più largo; incolti sono i bottegai che, mirando solamente al loro avere, hanno incoraggiato lo scempio giubiaschese, e incolti sono tanti altri cittadini; sicché la “volontà del popolo” rispecchia una ben triste situazione. Mi spiace per Giubiasco, come per tanti altri nostri paesi e città». 10 Di seguito si segnalano, tra le molte, le interviste più significative: Giorgio Orelli, a cura di G. Silva, in “Autografo”, IV (1987), 12, ottobre, pp. 55-60; Dopo la lezione, conversazione con Luciana Saetti, in Foscolo e la danzatrice. Un episodio delle Grazie, Pratiche Editrice, Parma 1992, pp. 65-76; Si sagesse jeûnait, si paresse veillait. Dix questions à Giorgio Orelli, in Perspectives tessinoises, a cura di Ch. Viredaz, in “Le Passe Muraille”, III (1994), 11-12, marzo, p. 13; Un’altalena che s’inciela. Idra a colloquio con Giorgio Orelli, a cura di M. Chia- ruttini, G. Fontana e F. Pusterla, in “Idra”, VI (1996), 13, N, giugno, pp. 87-93; I merli di Ravecchia, a cura di P. De Marchi, in “Cooperazione”, 23 maggio 2001, p. 86; Il privilegio e lo stupore di essere vivo… A colloquio con Giorgio Orelli, uomo e poeta, a cura di M. Delfanti, in “Terzaetà”, XX (2002), 2, aprile, pp. 16-19; Giorgio Orelli, a cura di A. Vosti, in “La Rivista di Locarno”, XIV (2007), 11, novembre, pp. 9-13; «Ascolto il suono delle parole», a cura di P. Di Stefano, in “Corriere della Sera”, 19 giugno 2011, p. 38; «Aspetto che si dia tempo al tempo». Incontro con Giorgio Orelli, a cura di E. Motta, in “Clandestino”, XXV (2012), 3-4, dicembre, pp. 11-15.

264 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

11 Il contributo, privo di titolo, è pubblicato in “Virtutis Palaestra”, giugno 1939, pp. 34-36. Il ritrovamento, nell’archivio del Collegio Papio di Ascona, si deve all’acume di due orelliani di lunga data come Liliana Orlando e Ferruccio Cecco. 12 G. Contini, Gita della II liceale in Valle Antrona, in “Bollettino dell’Associazione Anto- nio Rosmini e dei Collegi Rosminiani”, V (1927), 18, p. 63. 13 Lo scoiattolo (19 dicembre 1942, p. 3); Nemico degli uomini (16 gennaio 1943, p. 4); Ampelio (13 aprile 1945, p. 3); Per un’infanzia (31 agosto 1945, p. 1); Vecchia immagine (9 marzo 1946, p. 3). Ai racconti pubblicati sul “Corriere del Ticino” andranno aggiunte, in quello stesso torno d’anni, alcune prose apparse in altre sedi: Racconto da fare, ne Il Ticino dei giovani, a cura di F. Filippini, Francke, Berna 1945, pp. 18-24; Ampelio, Luce al pianter- reno e Erpete Zoster, sotto l’unico titolo di Disegni giovanili, in Convegno, Istituto Editoriale Ticinese, Bellinzona 1948, pp. 118-121; Autunno ticinese, in “Radioprogramma”, 14 ottobre 1950, p. 3; Per un diario bellinzonese, in Altri volti, altre voci. Inediti di scrittori della Svizzera italiana per onorare gli ottant’anni di Francesco Chiesa, Leins & Vescovi, Bellinzona 1951, pp. 89-91. 14 Lo spoglio delle testate cui Orelli era solito collaborare ha permesso di constatare che tutti i racconti di Un giorno della vita erano già stati anticipati, in settimanali o riviste, in una forma sovente prossima a quella definitiva: Conversazione a Prato, in “Cooperazione”, 20 giugno 1953, poi Primavera a Rosagarda, in “Paragone. Letteratura”, V (1954), 54, giugno, pp. 50-58; Scherzo, in “La Chimera”, I (1954), 2, maggio, p. 10; Suite provinciale, in “Lette- ratura”, XVIII (1954), 8-9, marzo-giugno, pp. 108-115; Ampelio, in “La Chimera”, I (1954), 3, giugno, p. 8; Un sogno patriottico e Conferenza, in “La Chimera”, I (1954), 7, ottobre, p. 8, poi montati in Suite militaresca, in “Paragone. Letteratura”, VII (1956), 76, aprile, pp. 38-48; Serale, in “Paragone. Letteratura”, VI (1955), 62, febbraio, pp. 69-75; Viaggio d’estate (poi Cristina), in “La Chimera”, II (1955), 14, maggio, p. 5; La morte del gatto, in “Paragone. Letteratura”, VIII (1957), 86, febbraio, pp. 41-46; Sosta al Lago d’Iseo, in “Palati- na”, I (1957), 3, luglio-settembre, pp. 35-41; Un giorno della vita, in “Paragone. Letteratura”, IX (1958), 102, giugno, pp. 31-40; Pomeriggio d’estate, in “Palatina”, III (1959), 2, luglio- settembre, pp. 32-36; Veronica, in “Il Verri”, III (1959), 4, agosto, pp. 44-51; Gente di lago (poi Per un filino d’erba), in “L’approdo letterario”, VI (1960), 10, aprile-giugno, pp. 46-49. L’esperienza di Orelli come prosatore si completa, a stampa, con i non pochi titoli suc- cessivi alla raccolta del 1960: L’aria di Altino, in “Paragone. Letteratura”, XII (1961), 134, febbraio, pp. 54-62; Per la “Suite provinciale”, in “Libera Stampa”, 21 marzo 1961, p. 3; Detrito d’una suite militaresca, in Numero unico di Adelfia(giornale studentesco della Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona), Bellinzona 1961 (non reperito); Arrivo a Pruden, in “Cooperazione”, 23 aprile 1966, p. 7; La dispersione, in “Cooperazione”, 22 aprile 1967, p. 11; Il camoscio, in “La Fiera Letteraria”, 26 dicembre 1971, pp. 16-17; Autunno a Rosagarda, in Pane e coltello. Cinque racconti di paese, testi di P. Bianconi, G. Bonalumi, P. Martini, Gior- gio e Giovanni Orelli, fotografie di A. Flammer, Dadò, Locarno 1975, pp. 111-119; Pomerig- gio bellinzonese, in Luci e figure di Bellinzona negli acquerelli di William Turner e nelle pagine di Giorgio Orelli, a cura di V. Gilardoni, Casagrande, Bellinzona 1978, pp. 59-76; Tre cose in prosa per un falciatore, in Espaces du texte. Recueil d’hommages pour Jacques Geninasca, par P. Fröhlicher, G. Güntert et F. Thürlemann, Éd. de la Baconnière, Neuchâtel 1990, pp. 30-31; Primavera a Rosagarda, in “Idra”, VI (1996), 13, N, giugno, pp. 19-25; Suite in là con gli anni, in “Quaderni grigionitaliani”, LXXX (2011), 3, settembre, pp. 6-9. 15 La tesi di Bonetti è stata recentemente oggetto di alcuni studi pubblicati sulla rivista “Il Cantonetto”, VI (2013), 3-4, giugno, pp. 121-139: A. Stussi, Quando uno scrittore dimenticato incontra un grande critico. Il Faldella di Contini, pp. 121-125; Rapport du Prof. Gianfranco Contini sur la thèse de M. Fernando Bonetti, pp. 126-128; C. Marazzini, Fernando Bonetti lettore di Faldella. Una tesi di Contini nel periodo di Friburgo, pp. 129-139. 16 Un prelievo a campione dalla folta lista delle conferenze, sparse su più decenni, darà ragione della vastità degli interessi e della generosità del relatore: La poesia italiana del No- vecento, Biasca, Circolo di cultura, 10 maggio 1944; “Alla sera” di e “L’infinito” di Giacomo Leopardi, Bellinzona, Scuola Cantonale di Commercio, 26 novembre 1948; Del

265 Pietro Montorfani tradurre e altre cose, Bellinzona, Sala del Consiglio Comunale, 30 aprile 1952; Con l’Ariosto nell’isola di Alcina, Locarno, Salone della Sopracenerina, 26 aprile 1961; «Quel ramo del lago di Como…», Mendrisio, Ginnasio, 15 febbraio 1963; Possibilità di un dibattito tra marxismo e cattolicesimo, tavola rotonda con V. Gilardoni, G. Orelli e M. Rotondi, Bellinzona, Scuola Cantonale di Commercio, 9 aprile 1964; Dante nel Canzoniere, Milano, Chiesa di San Mauri- zio, 23 maggio 1979; La conversione dell’Innominato, Bellinzona, Chiesa del Sacro Cuore, 21 marzo 1984; Il nome di Maria in Dante, Bellinzona, Chiesa del Sacro Cuore, 9 maggio 1985; Ingorghi vocalici in notturno goethiano, Bologna, Archiginnasio, 16 maggio 1992; La fucina madrigalesca del Tasso, Lugano, Auditorium Stelio Molo, 8 novembre 1993; Accertamento lu- ziano, Firenze, Palazzo Strozzi, 20 gennaio 1995; Uno scrittore defilato: Robert Walser, Bellin- zona, Biblioteca Cantonale, 14 ottobre 2000; La trota tanto attesa, conversazione sulla poesia, Università di Berna, 12 giugno 2002; La parole che contano. Dialogo tra scienza e letteratura, Lugano, Liceo Cantonale, 1° dicembre 2005. 17 Questa singolare esperienza di insegnamento, cui Orelli restò fedele per oltre un de- cennio, è ricordata nell’intervista «Avevo qualche timore iniziale…», a cura di G. Dillena, in “Corriere del Ticino”, 12 luglio 1988, p. 7. I temi proposti rispecchiano gli interessi orelliani e in taluni casi preannunciano successivi studi: Lettura di Dante (1987-88); La poesia del Petrarca (19 gennaio 1989); La poesia contemporanea (18 maggio 1989); Giacomo Leopardi (settembre-dicembre 1989); Ugo Foscolo (febbraio-marzo 1990); Pagine dai “Promessi Sposi” (aprile-maggio 1990); Lettura di Dante (settembre-dicembre 1990); Carducci e Pascoli (gen- naio-febbraio 1991); “La luna e i falò” di Cesare Pavese (5 marzo 1991); Poesie di Umberto Saba (9 aprile 1991); Poesie in dialetto ticinese (novembre-dicembre 1991); L’ultimo Montale (gennaio-febbraio 1992); Cardarelli e Saba (7 aprile 1992); Testi di Delio Tessa (17 novembre 1992); Testi di Virgilio Giotti (15 dicembre 1992); L’Orlando Furioso (gennaio-febbraio 1993); La Gerusalemme Liberata (marzo 1993); Lezione sulla letteratura (gennaio-marzo 1995); Po- esie di Sandro Penna (26 marzo 1996); Letteratura italiana (4 dicembre 1996); Lezione sulla poesia (26 novembre 1990). 18 La geografia delle collaborazioni di Orelli con università o altre istituzioni culturali italiane, in un’area di conoscenze e di affetti che ha al suo centro l’ateneo pavese di Maria Corti e di Cesare Segre, si desume dall’elenco dei suoi interventi: Congresso internazionale dell’Associazione Italiana Studi Semiotici (Pavia, Teatro Fraschini, 28 settembre 1979); Verso Mastronardi (Vigevano, 6-7 giugno 1981); Quel ramo del lago di Como (Brescia, Fondazio- ne Gandovere, maggio 1984); Per una lettura lenta della Commedia (Ravenna, 16 settembre 1984); Dante in Manzoni (Università di Pavia, 9 novembre 1984); «Altre cose, altra realtà, altra verità» (su Gianfranco Contini, Università di Pavia, 4 dicembre 1990); Accertamento luziano: “Dalla torre” (Firenze, 20 gennaio 1995); Gli ultimi dieci versi del canto X del Paradiso (Università di Venezia, 15 maggio 1995); L’attenzione alla lettera (Università di Pavia, 9-10 novembre 1995); «Un perenne ronzio» (rileggendo le Grazie del Foscolo) (Venezia, Fondazio- ne Cini, 12 settembre 1998); I primi nove versi della “Divina Commedia” (Pavia, Collegio Ghi- slieri, 28 febbraio 2007); Seminario sulla sua poesia (Valenza, Villa Groppella / Fondazione Palmisano, 5-7 maggio 2008). 19 Si vedano, tra le molte, almeno le recensioni di Luigi Baldacci su “Letteratura”, XXV (1961), 3, maggio-giugno, pp. 77-81, e di Anna Banti su “Paragone”, XII (1961), 138, giugno, p. 83. 20 «Io trovo assolutamente consolante che un poeta, un vero poeta, abbia scritto soltanto poesie pubblicabili e non abbia strappato carte poetiche che non gli sono venute. È stato non per niente avaro di sé stesso, è stato estremamente discreto, non ha avuto impazienza: e que- sto è un carattere generale di Orelli» (G. Contini, Giorgio Orelli un toscano nel Ticino, a cura di C. Mésoniat, in “Il Dovere”, 17 novembre 1979, p. 3: poi in Giorgio Orelli poeta e critico, a cura di C. Mésoniat, interviste a Gianfranco Contini, Giovanni Pozzi, Ezio Raimondi, Andrea Zanzotto, RTSI, Lugano 1980). 21 «Questi versi, un po’ alla maniera di Eugenio Montale – Keepsake –, sono stati messi insieme invece di un articolo sopra il libretto – a cura del pittore Bianchi, presso la Casa Edi- trice Noseda di Como – in cui Gianfranco Contini presenta, con un’estrosa e sottile epistola

266 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli al lettore, diciotto maschere del pittore veronese Guido Gonzato». Così Orelli nella nota introduttiva alla poesia, pubblicata su “Popolo e Libertà” del 30 dicembre 1950, a p. 3. Sia permesso rimandare, per le due epistole di Contini e per i suoi rapporti con Orelli e Gonzato, al volume delle Poesie, a cura di P. Montorfani, Nino Aragno Editore, Torino 2010. 22 Navidad 1944, in Treinta jovenes poetas italianos, a cura di C. Luisi e J.M. Podestá, Imp. Libertad (“Cuadernos Julio Herrera y Reissig”, 55), Montevideo [1957], p. 42; Giorgio Orelli, translated by L. Lawner, in “Chelsea”, V (1962), 11, March, pp. 86-87 (le poesie sono For a Friend About to Be Married / A un amico che si sposa e In the Family Circle / Nel cerchio familiare); Giorgio Orelli, in Italian issue, edited by F. May and V. Scheiwiller, translated by W. de Rachewiltz in association with V. Scheiwiller and M. de Rachewiltz, in “Poetry Austra- lia”, V (1968), 22-23, August, pp. 72-73 (le poesie sono Frammento della martora / Fragment of the weasel e The trout / La trota). L’amicizia con Scheiwiller sembrerebbe essere il comune denominatore di queste prime pubblicazioni in lingue straniere. 23 Risposta senza titolo a un Invito al chiarimento della poesia contemporanea, in “La Fiera Letteraria”, XV (1960), 27, 3 luglio, p. 3. 24 A. Casè, Il Silos, Carminati, Locarno giugno 1960 (ma p. 5). La distanza tra l’Orelli “esistenzialista” dei primi anni sessanta e il fine – ma a tratti arido – accertatore di fenomeni verbali degli ultimi anni si misura mettendo a confronto la prefazione del 1960 e il nuovo testo introduttivo, postumo, per la medesima raccolta di Casé: «Sin dagli inizi, come non ac- cadde a quelli della mia età, la poesia di Angelo Casè s’è appagata di versi regolari e irregolari, così che un endecasillabo, se torna, può acquistare un lucore insolito: “Era un grandissimo urogallo e chiaro”. […] Senza trascurare lo spostamento (diciamo) foscoliano di chiaro, direi che questo verso ha vita lunga grazie al fatto che urogallo consuona con colle del verso prece- dente, mentre poi si prolunga, quasi per contrazione, con urlo e tiurlì, entrambi non invano ripetuti. Utilmente sdrucciolo, grandissimo, che raggruma /r/, /g/ e /a/ di uRoGAllo, aspetta il sibilo e /i/ tonica di impossibile, non per nulla ripreso anch’esso (nell’ultimo verso) […]» (L’urogallo, il gabbiano, dicembre 2010, si legge ora in A. Casè, Il Silos, con testi di G. Orelli, Casagrande, Lugano 2015, pp. 61-62). 25 Il mio villaggio, in C’è un solo villaggio nostro, a cura di P.R. Frigeri, prefazione di F. Filippini, Edizioni Cenobio, Lugano 1972, pp. 137-141. 26 Un’autolettura, in “Quarto. Rivista dell’Archivio svizzero di letteratura”, VIII (2000), 13, giugno, pp. 94-98. 27 Non diversamente dovette esprimersi Orelli in un dibattito pubblico del maggio 1967, del quale soltanto in tempi recenti è emersa una trascrizione non autorizzata dall’autore (nel frattempo scomparso): «Non c’è politica dove non c’è preoccupazione di aumentare l’interes- se dell’uomo. E non c’è cultura, altrimenti sarebbe una non-cultura, che non si preoccupi di un aumento della felicità umana. Che cosa è fare della cultura, se non questa che si identifica con quella parte del progresso umano spirituale che reca un tangibile aumento di felicità. […] La cultura è ciò che diventa mio tessuto vitale, forma il mio vivere di tutti i giorni» (Politica e cultura. Due interventi di Giorgio Orelli in un incontro tenutosi a Bellinzona il 24 maggio del 1967, in “Popolo e Libertà”, 13 dicembre 2013, p. III). 28 G. Contini, Risposta a un’inchiesta sull’università, in “Primato”, 15 maggio 1941, poi in Un anno di letteratura, Einaudi, Torino 1942, infine in Esercizî di lettura sopra autori con- temporanei con un’appendice su testi non contemporanei, nuova edizione aumentata, Einaudi, Torino 1974, pp. 387-389.

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Allegato I Presenze antologiche

Raccolte poetiche di Giorgio Orelli NB Né bianco né viola (versi del 1939-1943), Collana di Lugano, Lugano 1944 PA Prima dell’anno nuovo, Leins & Vescovi, Bellinzona 1952 PO Poesie, Edizioni della Meridiana, Milano 1953 CF Nel cerchio familiare, Scheiwiller, Milano 1960 OT L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962 6P 6 poesie, Scheiwiller, Milano 1964 SI Sinopie, Mondadori, Milano 1977 SP Spiracoli, Mondadori, Milano 1989 CA Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001

Antologie italiane LL Linea lombarda. Sei poeti, a cura di Luciano Anceschi, Editrice Magenta, Varese 1952 L900 Lirica del Novecento, a cura di Luciano Anceschi e Sergio Antonielli, Vallecchi, Firenze 1953 4aG Quarta generazione, a cura di Piero Chiara e Luciano Erba, Editrice Magenta, Varese 1954 Falq La giovane poesia. Saggio e repertorio, a cura di Enrico Falqui, Colombo, Roma, 1956 PP Premesse e promesse della giovane poesia, a cura di C. Galasso e R. Laurano, Cynthia, Firenze 1961 MPS Manuale di poesia sperimentale, a cura di G. Guglielmi e E. Pagliarani, Mondadori, Milano 1966 Sec Un secolo di poesia, a cura di G. A. Pellegrinetti, Petrini, Torino 1967 Meng Poeti italiani del Novecento, a cura di P. V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978 Porta Poesia degli anni settanta, a cura di Antonio Porta, Feltrinelli, Milano 1979 GeLa Poesia italiana. Il Novecento, a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio, Garzanti, Milano 1980 Eros Poesia erotica italiana del Novecento, a cura di Carlo Villa, Newton, Roma 1981 Luzzi Poesia italiana 1941-1988: la via lombarda, a cura di Giorgio Luzzi, Casagrande, Lugano 1989 SeMa Testi nella storia, a cura di C. Segre e C. Martignoni, Bruno Mondadori, Milano 1992 CS Il canto strozzato, a cura di Giuseppe Langella e Enrico Elli, Interlinea, Novara 1995 KrRo La poesia italiana del Novecento, a cura di E. Krumm e T. Rossi, Skira, Milano 1995 CuG1 Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano 1996 SeOs Antologia della poesia italiana, a cura di C. Segre e C. Ossola, Einaudi, Torino 1999 Majo Poesie e realtà. 1945-2000, a cura di Giancarlo Majorino, Marco Tropea, Milano 2000 PNI Poesia del Novecento italiano, a cura di Niva Lorenzini, Carocci, Roma 2002 CuG2 Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano 2004 DL Dopo la lirica, a cura di Enrico Testa, Einaudi, Torino 2005 Calcio Il calcio è poesia, a cura di Luigi Surdich e Alberto Brambilla, Il Melangolo, Genova 2006 DP Dentro il paesaggio. Poeti e natura, a cura di Salvatore Ritrovato, Archinto, Milano 2006

269 Pietro Montorfani

Poesie di Orelli in antologie italiane (a) LL L900 4aG Falq PP MPS Sec Meng 1952 1953 1954 1956 1961 1966 1967 1978 1 Risveglio 1 NB 1 2 «Autunno, il treno lacera...» 1 NB 2 3 Sera a Bedretto 4 PO/OT 3 1 1 4 La pietra nelle nuvole 1 PO 6 5 La trottola 3 PO/OT 11 6 Carnevale a Prato Leventina 3 PO/OT 5 3 1 7 Campolungo 3 PO/OT 2 8 Passo della Novena 1 CF/OT 9 Frammento della martora 8 PO/OT 4 2 3 1 2 10 Dove i ragazzi ammazzano il gennaio 2 PO/OT 7 11 L’ora esatta 2 PO/OT 8 12 Frammento di un andante affettuoso 3 PO 9 2 3 13 Di febbraio 2 PO/OT 10 4 14 Natale 1944 3 PO/OT 12 4 5 15 Lettera da Bellinzona 4 PA/OT 8 16 «Selva non è che timida biondeggi...» 1 PA 5 17 «Che cosa credi mi distragga? Forse...» 1 PA 10 18 Prima dell’anno nuovo 1 PA/OT 11 19 Davanzale 2 PO 1 3 20 Augen, sagt mir, sagt, was sagt ihr 2 PO 1 21 La scolopendra 4 PO/OT 9 4 2 2 22 Lo stagno 1 PO/OT 7 23 Quartine d’alba di primavera 1 PO 6 24 «Colgo questo paese...» 1 OT 12 25 Primavera a Nocca 1 / 13 26 dai «Rametti per una pattinatrice» 1 / 14 27 Fanciullo del paradiso 1 CF/OT 2 28 Nel cerchio familiare 9 CF/OT 3 29 L’uomo che va nel bosco 1 CF/OT 30 Il viaggio 1 OT 31 A mia moglie, in montagna 2 OT 4 32 Alla mia bambina / A Giovanna 4 6P/SI 33 Di passaggio a Villa Bedretto 1 6P/SI 34 «In poco d’ora» 1 6P/SI 35 A Giovanna, sulle capre 1 6P/SI 36 In riva al Ticino 1 SI

270 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

Porta GeLa Eros Luzzi SeMa CS KrRo CuG1 SeOs Majo PNI CuG2 DL Calcio DP 1979 1980 1981 1989 1992 1995 1995 1996 1999 2000 2002 2004 2005 2006 2006 1 2 2 3 4 3 3 5 6 1 1 7 4 8 1 1 2 9 3 10 2 11 12 13 14 2 2 1 15 16 17 18 19 1 20 21 22 23 24 25 26 27 5 1 1 4 1 4 1 2 28 4 29 3 30 2 31 5 1 5 3 32 1 33 6 4 34 3 35 7 36

271 Pietro Montorfani

Poesie di Orelli in antologie italiane (b) LL L900 4aG Falq PP MPS SEC Meng 1952 1953 1954 1956 1961 1966 1967 1978 37 A Lucia, poco oltre i tre anni 2 SI 38 Memento ticinese 3 SI 39 Dopo Lucca 2 SI 40 Sinopie 7 SI 41 Ginocchi 4 SI 5 42 «Ohne Angst leben» 1 SI 43 Punto indietro 2 SI 44 Dal buffo buio 3 SI 6 45 A un mascalzone 2 SI 46 Se 1 SI 47 «Lucia ha un po’ di febbre,...» 1 SI 48 Ricordi di M. 1 SI 49 In memoria 1 SI 7 50 Foratura a Giubiasco 1 SI 51 A Vittorio Sereni 1 CA 52 Alter Klang 1 SP 53 Verso Basilea 2 SP 54 Moosackerweg 4 SP 55 A Leonardo Boff 1 SP 56 «Col silenzio di cento ramarri...» 2 SP 57 Ricordi di C. 1 SP 58 Per la madre di mia moglie 2 SP 59 Stop 2 SP 60 Partita di ritorno 1 SP 61 Funerale in campagna 1 SP 62 Nebelzone 1 SP 63 Le anguille del Reno 4 SP 64 Sulla salita di Ravecchia 1 CA 65 In memoria 1 CA 66 «Mi viene in mente quando eri...» 1 CA 67 «Non so come tu possa...» 1 CA 68 «“Sono pensando”...» 1 CA

272 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

Porta GeLa Eros Luzzi SeMa CS KrRo CuG1 SeOs Majo PNI CuG2 DL Calcio DP 1979 1980 1981 1989 1992 1995 1995 1996 1999 2000 2002 2004 2005 2006 2006 4 3 37 7 7 4 38 3 39 10 2 2 7 8 8 5 40 5 1 2 41 2 42 6 6 43 3 5 44 8 6 45 4 46 4 47 5 9 48 49 6 50 6 51 5 52 8 6 53 11 12 1 12 54 10 55 9 9 56 9 57 10 10 58 11 11 59 1 60 7 61 5 62 12 13 6 13 63 14 64 15 65 16 66 17 67 18 68

273 Pietro Montorfani

Poesie di Orelli in antologie svizzere (a) Con Zappa TT BV TL LS Orte Süd 1948 1954 1961 1964 1970 1976 1976 1976 1 C’è gente 1 NB/OT 1 2 Assenza 1 NB/OT 1 3 Né bianco né viola 3 NB/OT 2 1 4 Sera a Bedretto 4 PO/OT 4 5 Carnevale a Prato Leventina 2 PO/OT 3 4 6 Per Agostino 1 PO/OT 1 7 Campolungo 1 PO/OT 2 8 Ottobre 1 PO 5 9 Passo della Novena 1 CF/OT 10 Frammento della martora 4 PO/OT 11 Natale 1944 1 PO/OT 6 12 Lettera da Bellinzona 1 PA/OT 13 «Che cosa credi mi distragga...» 1 PA/OT 2 14 Prima dell’anno nuovo 2 PA/OT 3 2 15 «Gli occhi che un poco...» 1 PO/OT 3 16 Funerale in laguna 1 PO/OT 7 17 «Colgo questo paese...» 1 OT 18 Dicembre a Prato 1 CF/OT 1 19 Nel cerchio familiare 4 CF/OT 1 1 20 L’uomo che va nel bosco 1 CF/OT 1 21 Nel dopopioggia 1 CF/OT 22 Brindisi del primo fieno 1 OT 2 23 A mia moglie, in montagna 1 OT 3 24 La trota 1 OT 25 «Calmo, limpido il mare...» 1 SI 26 Nel mezzo del giorno 3 SI 27 Dopo Lucca 2 SI 3 28 Due passi con Lucia, d’autunno 1 SI 29 Sinopie 4 SI 2 30 Ginocchi 2 SI 31 Punto indietro 1 SI 32 Dal buffo buio 1 SI 33 A un mascalzone 1 SI 34 L’estate a Prato Leventina 2 SI 35 In memoria SI 36 4 agosto 1976 SI

274 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

Nessi GR SI DLS CA RBL Aman VA VS GB WSS MPS PSI PCLT 1986 1986 1986 1991 1997 1998 2001 2003 2006 2007 2010 2013 2014 2014 1 2 1 3 1 1 5 4 5 6 7 8 3 9 2 1 2 1 10 2 11 12 13 14 15 16 1 17 18 3 2 19 20 2 21 22 23 1 24 4 25 4 1 5 26 3 27 3 28 8 4 1 29 4 2 30 2 31 6 32 5 33 7 5 34 6 35 7 36

275 Pietro Montorfani

Poesie di Orelli in antologie svizzere (b) Con Zappa TT BV TL LS Orte Süd 1948 1954 1961 1964 1970 1976 1976 1976 37 Foratura a Giubiasco 2 SI 38 In ripa di Tesino 2 SP 39 «Certo d’un merlo il nero...» 3 SP 40 «Col silenzio di cento ramarri...» 3 SP 41 «Ah dopo tanti bianchi il lillà...» 1 SP 42 Odette 1 SP 43 A un bambino 1 SP 44 Le forsizie del Bruderholz 1 SP 45 A un amico siciliano, con leggerezza 1 SP 46 «Che ridere Maria ch’eri dal ciuccio...» 1 SP 47 «Come quando di là dal Gottardo...» 1 SP 48 «Maria che nel suo dolce stile...» 2 SP 49 Sulla salita di Ravecchia 1 SP 50 «Non conosco l’azzurro...» 1 CA 51 Per zia Anna 1 CA 52 Raccontino 1947 1 CA

Antologie svizzere Con Convegno, pagine inedite di autori ticinesi, Istituto Editoriale Ticinese, Bellinzona 1948 Zappa Poeti contemporanei. Piccola antologia, a cura di F. Zappa, Edizioni Risveglio, Lugano 1954 TT Le Tessin des Tessinois, a cura di A. Parola, Cahiers de la renaissance vaudoise, Lausanne 1961 BV Bestand und Versuch, a cura di Bruno Mariacher e Friedrich Witz, Artemis, Zürich 1964 TL Tessiner Liriker, a cura di H. Hinderberger, «Schweizer Monatshefte», L (1970), 2, febbraio LS Lirik in der Schweiz – heute, «Welt im Wort», III, 3 (1976) Orte Giorgio Orelli, a cura di Aldo Canonica e Peter Fröhlicher, «Orte», II (1976), 7, gennaio Süd Südwind, a cura di Carlo Castelli e Alice Vollenweider, Artemis, Zürich 1976 Nessi Rabbia di vento, a cura di Alberto Nessi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 1986 GR Grenzraum, a cura di Alberto Nessi, Ex Libris, Zürich 1986 SI Svizzera italiana, a cura di Giovanni Orelli, Editrice La Scuola, Brescia 1986

276 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

Nessi GR SI DLS CA RBL Aman VA VS GB WSS MPS PSI PCLT 1986 1986 1986 1991 1997 1998 2001 2003 2006 2007 2010 2013 2014 2014 1 1 37 12 1 38 6 8 6 39 9 7 3 40 10 41 11 42 5 43 1 44 3 45 4 46 4 47 5 3 48 2 49 3 50 4 51 1 52

Antologie svizzere DLS Dizionario delle letterature svizzere, a cura di Pierre-Olivier Walzer, Dadò, Locarno 1991 CA Cento anni di poesia nella Svizzera italiana, Armando Dadò, Locarno 1997 RBL Littérature de Suisse italienne, «La Revue de Belles-Lettres», CXXII (1998), 2-4, ottobre Aman Poesie e prose dalle letterature svizzere, a cura di S. Aman, «Hesperos», II (2001), 2, dicembre VA Voci e accordi, a cura di D. Bonini e R. Schürch, Armando Dadò, Locarno 2003 VS La voce dei segni, poesie nella lingua italiana dei segni, Alla chiara fonte, Viganello 2006 GB Die Gotthardbahn in Literatur und Kunst, a cura di H.P. Häberli, Zürich 2007 WSS Wenn ich Schweiz sage... Schweizer Lyrik im Originalton von 1937 bis heute, Merian, Basel 2010 MPS Moderne Poesie in der Schweiz, a cura di Roger Perret, Limmat Verlag, Zürich 2013 PSI La poesia della Svizzera italiana, a cura di Giudicetti e Maeder, L’ora d’oro, Poschiavo 2014 PCLT Petit canon littéraire tessinois, Editions d’en bas, Lausanne 2014

277 Pietro Montorfani

Poesie di Giorgio Orelli tedesco inglese in antologie e riviste straniere (a) IL S.01 EL CH ME AUS TAP SN FPS IPT BUC 2000 2001 2013 1962 1966 1968 1970 1971 1971 1979 1981 1 Sera a Bedretto 1 2 Carnevale a Prato Leventina 2 3 Campolungo 1 4 Frammento della martora 3 1 4 5 Dove i ragazzi ammazzano... 2 1 6 L’ora esatta 2 2 7 Di febbraio 1 8 Natale 1944 3 3 9 Lettera da Bellinzona 1 10 Prima dell’anno nuovo 2 4 11 La scolopendra 2 4 2 12 Quartine d’alba di primavera 1 13 Torcello 1 14 «Colgo questo paese...» 1 2 15 Primavera a Nocca 1 1 16 L’estate 5 1 1 3 3 17 Nel cerchio familiare 9 2 5 1 18 L’uomo che va nel bosco 1 5 19 A un amico che si sposa 3 1 2 20 La trota 1 2 21 Di passaggio a Villa Bedretto 1 22 A Giovanna, sulle capre 1 23 Nel mezzo del giorno 1 24 Frammento dell’ideale 1 4 25 Secondo programma TV 1 2 26 Strofe di marzo 1 1 27 Sinopie 5 1 3 28 Ginocchi 4 4 29 Dal buffo buio 2 30 Se 1 31 L’estate a Prato Leventina 1 32 Per Agostino 1 33 In memoria 1 3 34 In ripa di Tesino 4 1 35 «Certo d’un merlo il nero...» 2

278 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

inglese spagnolo altre lingue (ceco, ebraico, hindi, croato, ungherese) MSL ROS FAB KE FSG CO TJ SUI CUA MIK EBR HIN FO SLO DI MA MU 1984 2000 2004 2012 2012 2013 1957 1992 2007 1984 1975 1988 1998 1999 2007 2005 2013 1 1 5 4 1 3 2 2 1 1 4 2

1 1

1 2 1 3 2 1 1

1

2 5 3

6 3 1 2 2 3 3 4 1 5 3

6 4 2 7 1

279 Pietro Montorfani

Poesie di Giorgio Orelli tedesco inglese in antologie e riviste straniere (b) IL S.01 EL CH ME AUS TAP SN FPS IPT BUC 2000 2001 2013 1962 1966 1968 1970 1971 1971 1979 1981 36 Ascoltando una relazione... 1 37 Verso Basilea 1 38 Moosackerweg 1 2 39 Alla piccola Eloisa 1 40 D’autunno 1 41 Kawasaki 1 42 Funerale in campagna 1 43 Le anguille del Reno 2 3 44 Le forsizie del Bruderholz 2 45 «Che ridere Maria ch’eri...» 1 1 46 «Verrà verrà la cimpripessa...» 1 2 47 «Non si calcola il danno...» 1 3 48 «Tenerissima hai visto...» 1 4 49 Sulla salita di Ravecchia 1 50 In memoria 2 51 Imber 1 52 Per zia Anna 1 53 Da molti anni 1 54 «Quelle farfalle brune...» 1

Antologie e riviste straniere IL Italienische Lirik des 20. Jahrhunderts, a cura di Manfred Lentzer, Erich Schmidt Verlag, Berlin 2000 EIS Schweiz.01, a cura di Markus Bundi e Marco Sagurna, «Eiswasser» VIII (2001), 1, gennaio-giugno LIC Die Erschliessung des Lichts, a cura di Federico Italiano e Michael Krüger, Hanser Verlag, München 2013 CH Giorgio Orelli, a cura di Lynne Lawner, «Chelsea», V (1962), 11, marzo ME Modern European Poetry, a cura di Willis Barnstone et al., Bantam, New York 1966 AUS Italian Issue, a cura di Frederick May e Vanni Scheiwiller, «Poetry Australia», V (1968), 22-23, agosto TAP Translations by American Poets, a cura di Jean Garrigue, Ohio University Press, Athens 1970 SN Symposium on Nationalism and World Literature in Review, «Books Abroad», XLV (1971), 2, primavera FPS From Pure Silence to Impure Dialogue, a cura di Vittoria Bradshaw, Las Americas, New York 1971 IPT Italian Poetry Today, a cura di Ruth Feldman e Brian Swann, New Rivers Press, Moorhead 1979 BUC Giorgio Orelli, a cura di Lawrence Venuti, «Buckle», V (1981-1982), 1, autunno-inverno MSL Anthology of Modern , a cura di Herbert M. Waidson, Wolff, London 1984 ROS The Rose in Contemporary Italian Poetry, a cura di Thomas E. Peterson, Gainesville 2000 FAB The Faber Book of Twentieth-Century Italian Poems, a cura di Jaime McKendrick, Faber, London 2004

280 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

inglese spagnolo altre lingue (ceco, ebraico, hindi, croato, ungherese) MSL ROS FAB KE FSG CO TJ SUI CUA MIK EBR HIN FO SLO DI MA MU 1984 2000 2004 2012 2012 2013 1957 1992 2007 1984 1975 1988 1998 1999 2007 2005 2013 1 2

2 2 4 3 2 8 6

5 9 4 5 3 10 1

Antologie e riviste straniere KE Modern and Contemporary Swiss Poetry, a cura di Luzius Keller, Dalkey, Archive Press, Champaign 2012 FSG The FSG Book of Twentieth-Century Italian Poetry, a cura di Geoffrey Brock, FSG, New York 2012 CO Giorgio Orelli, a cura di Marco Sonzogni, «Contrappasso» (Sydney), III (2013), 3, agosto TJ Treinta jovenes poetas italianos, a cura di C. Luisi e J. Maria Podestà, Imp. Libertad, Montevideo 1957 SUI Antologia de la poesia suiza contemporanea, a cura di M. Jurado Lopez, Ed. Aguaclara, Alicante 1992 CUA Poesie di Giorgio Orelli, «Cuadernos de filologia italiana», XIV (2007), 14, gennaio-dicembre MIK Stastna setkani: moderni italska poezie, traduzione in ceco di Vladimir Mikes, Edice Klin, Praga 1984 EBR Versione ebraica di L’estate (1957) su un quotidiano israeliano della metà degli anni Settanta HIN Italavi bhasha pavesh, manuale di lingua italiana in hindi a cura di Madan Lal, New Delhi 1988 FO Traduzioni in croato di poesie europee sulla rivista «Forum» (Zagabria), XXXVIII (1998), 11-12 SLO Traduzioni in croato a cura di Tvrtko Klaric sulla rivista «Hrvatsko Slovo» (9 aprile 1999) DI Traduzioni in bosniaco/croato a cura di Tvrtko Klaric, «Diwan» (Gradacac), X (2007), 21-22, giugno MA Traduzioni in ungherese a cura di Ferenc Szenasi, «Magyar Naplò», XVII (2005), 6, giugno MU Traduzioni in ungherese a cura di Ferenc Szenasi, «Müùt», LVIII (2013), 38, aprile

281

Allegato II Poesie pubblicate una tantum

Come il sole

Sei come il sole, Grazia, che, sciogliendo il ghiaccio sulle vette, allor che ardente brilla, una timida azzurra soldanella d’un tratto fa spuntar dall’umidore: dolce miracol di divinità.

(“Schweizerischer Studentenverein”, XI (1941), 10, giugno, p. 487)

Fugacità

Basta, stasera, un volo di libellula, un abbaio lontano, perché di gioia il cuor e di dolore si colmi. Potrebbero più rapidi i pensieri in me sorger, svanire? Altro fumo così sal dietro il fumo dai comignoli spersi, e, sorta appena l’alba, il dì si spegne!

(“Schweizerischer Studentenverein”, XI (1941), 10, giugno, p. 509)

La stanza

Stride la carrozzella è primavera e il fanciullo strappato dalla madre agli innocenti giochi si lamenta. (Anche l’erica smunta s’avvivi, se guardi le conchiglie che fanno da cornice al ritratto dei Morti).

(“Corriere del Ticino”, 11 marzo 1944, p. 4)

283 Pietro Montorfani

Evasione

Col mio intatto dolore nel bosco fanciullo a un concavo grido mi sveglio. Luna è dolce al palato. Sciolgo gli occhi dai fili-della-Vergine.

(“Corriere del Ticino”, 11 marzo 1944, p. 4)

Nel folto del mattino

Nel folto del mattino nasce grido ogni voce: il verde dei miei occhi s’esaspera, le nuvole si gonfiano, primavera si muta in estate che muore. (“Belle lettere”, I (1945), 1, gennaio-marzo, p. 31)

Maschere di Gonzato

Il Toni tace e giudica. Remoti trapezi, lembi della vita, dietro, uomini pirotecnici. Pierot s’intenerisce per un po’ di luna che gli cresce sul capo. Pulcinella s’è sorpreso in giardino poco fa. (Pinocchio sorrideva innamorato). Nel suo castello la Signora aspetta che il Carnevale abbia di lei pietà. E ognuno è solo. Anche il Prologo, il Vecchio, la Mascherina dal cappello rosso e l’Altro con il fiore in mano. Al circo resta un pagliaccio e spara al suo feticcio.

(“Popolo e Libertà”, 30 dicembre 1950, p. 3)

284 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

Di camelia in camelia

Di camelia in camelia − bella riva! soffiata quasi in un nembo di polline a precipizio sulla nostra vita − m’accompagni il tuo lungo sguardo bruno fino al colle gremito d’insetti dove riaprirà persiane verdi l’organino di un bimbo solingo striato al petto dalla meraviglia del sole. Di camelia in camelia le taciute parole ricompongano quell’aria fedele, m’accompagni il tuo lungo sguardo bruno.

1953

(“Svizzera italiana”, XIII (1953), 101, agosto, p. 28)

La iena

Gente è venuta. S’è bagnata i piedi nel mare. Come per la prima volta. Gente vestita della festa. In fretta se n’è andata. Occhi denti nel sole. («Rosetta, porta via gli sdraî, che aspetti la tramontana?»), occhi denti nel sole-melagrana e braccia: già ravvolte le tende al loro palo. E noi adesso che facciamo qui, uomini soli con le nostre membra dai precisi confini? La sabbia è sabbia. Ma questa, che giunge, la iena, nessun m’avverte che è un cane. Però, come tu dici, amico, andiamo, buttiamo i nostri scheletri sul letto.

Rimini, fine d’estate 1952

(“Cenobio”, III (1954), 3-5, maggio-luglio, p. 174)

285 Pietro Montorfani

Primavera a Nocca

Bella è davvero questa primavera, tutto questo che poco o molto ci riguarda. Dietro il fumo che sale gentile dall’orto c’è una calma di bruni… Là s’appaga nel suo blu vecchio un coccio di catino. Tra verdi franchi s’apre il volto onesto d’una casa. Solo, levato su un balcone, ravvolto nel suo sogno-impermeabile, certo aspetta la pioggia: dàtegli, al ragazzetto, un uovo almeno di latta colorata, che lo possa riempire d’orina, gettare sulla strada al primo abbietto passante. Au bois il y a un oiseau − torna l’andante affettuoso − son chant vous arrête et vous fait rougir.

(Quarta generazione, Magenta, Varese 1954, p. 146)

Dai Rametti per una pattinatrice

I

Come remota sei m’orienta la tua sciarpa, i desideri miei la tua fuga non tarpa.

Fèrmati, parpagliola, ricomponi il tuo viso. Ho nel tuo ghiaccio inciso la più dolce parola.

IV

Su codesta città il cielo è latte vecchio,

286 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli lo smisurato orecchio d’un mondo che si sfa.

Poi verde ed altro che fiorisce nella luce, un nulla riconduce i miei passi da te.

VI

Niente niente… E le mani nasconderle non puoi. Dimmi quello che vuoi, adesso, non domani.

(Quarta generazione, Magenta, Varese 1954, p. 146)

Passaggio a Milano

Ma dentro il suono di campane a mezzogiorno Milano è la madre che allatta il figlio voracissimo. La morte spia dai cortili patrizi un asinello che non ha più fame del suo padrone. E il verticale scrolla decrepito da sé nuove canzoni. Sporca e innocente come una moneta stende la figlia all’obolo una mano, dall’altra colgo il pianeta della mia fortuna.

1951

(Omaggio a Milano di poeti contemporanei, Scheiwiller, Milano 1960, p. 54)

287 Pietro Montorfani

Qui conta d’un mancino

Certi mancini, io ne conosco uno altissimo, giocatore di bocce, nella bocciata imprime − sul capo quel soffio di capelli sì come nuvoletta salita dalla forte nuca − imprime alla boccia un tal giro, una virgola tale ch’è stupore generale vederla andare a segno. Questo vecchio mancino, che al contrario del cavallo tassesco memoria di sue palme ancora serba, una sera che eravamo pochi di sotto il tiglio a guardare la gara, falliva tutte le bocciate, e uno, un giovinotto, gli disse: «Oramai sei vecchio, non becchi più nulla». «Tu quando avrai i miei anni sarai buono solo per farne clarinetti». Questa fu la risposta del mancino.

(“Quartiere”, III (1960), 10, dicembre, p. 19)

Battello

Viva nel lago vivo, non guardare; se c’è qualcosa che molto rimpiangi, se c’è qualcuno di cui soffristi, pensato o sognato, il distacco, tu non guardare il battello che passa, spento nel lago spento dell’infanzia.

(Foglio volante stampato a mano da Libero Casagrande nei primi anni sessanta)

288 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

Sant’Agata di Tremona

«Sant’Agata, ti prego, fammi passare il catarro».

Essa è là, siciliana in Isvizzera, molto diversa da come la dipinse Sebastiano del Piombo: ferma come una siciliana rimasta sola nella cucina straniera dove due lauree (Catania) della madre sembrano appese da anni, e servono, devono certo servire ai lombardi della Svizzera: sappiano del passato decoro, del presente del passato, se mai…

E ancora sagre con suoni distanti, così dolci. Si pensa ad una Svizzera filtrata. Poco importa, mia cara, se oggi non scorgiamo la Madonnina del Duomo: basta che mi ricordi le limpide notti quando tu non venivi coi grandi su questo poggio a veder bombardare Milano.

(“Cooperazione”, 21 febbraio 1970, p. 7)

289

Allegato III Il mio villaggio

Ci fu un tempo ch’io coglievo pretesti anche futili per non tornare a casa. Parlo d’inverni fortunatamente lontani. Vivevo solo in città, vorrei dire che resistevo, e quando arrivava il sabato, al pensiero di prendere il treno e tornare dai miei, in montagna, stavo male. Volevo molto bene anche allora ai miei famigliari, e sempre, di settimana in settimana, sentivo ravvivarsi nell’intimo il desiderio di rivederli, di rivedere casa mia, il mio paese. Era una sorta di rito che si ripeteva da anni, e ogni anno s’apriva la grande estate, la cara stagione che dava consistenza ai miei ricuperi, che incoraggiava in me l’illusione d’avere anch’io qualcosa d’irrapinabile, una segreta, vera proprietà. Non era dunque per motivi propriamente familiari che m’accadeva, a fine settimana, di prendere il telefono e dire, per esempio, ai miei: non aspettatemi, sto qui con un amico che ha bisogno di me… Facevo un ritratto dell’amico, che c’era davvero (ora potrei convincermi che è un amico perso: sono anni, ormai, che ci limitiamo a salutarci per strada), di qualche anno più giovane di me, con una faccia così lunga e magra che era come se lo vedessi sempre solo di profilo; ma che avesse bisogno di me, no, questa era una balla da fra’ Luca scaturita dalla mia inquietudine. Non che decidessi senz’altro di non rincasare: la mia decisione era il misero prodotto di lunghe esitazioni, di incerti tormenti per cui mi sentivo sull’orlo quasi dello sperdimento. È una storia curiosa che ancor oggi, benché mi riesca guardarla con un certo distacco oggettivo, ha punti o aspetti per me misteriosi. Certo è che io non mi volgevo più al mio villaggio, come a una realtà concreta, umile, quotidiana: vedevo la mia stessa infanzia separata da me, e la neve era una merce ostile che rendeva più sensibile il vuoto. Non pensavo alle valanghe, che dalle mie parti non han mai fatto disastri. Pensavo: cosa faccio, quando esco di casa? con chi potrò parlare? Vedevo un paese di case quasi tutte vuote, di case stranamente in attesa, stranamente vive in un’attesa di morte. Il mio villaggio m’appariva come un luogo in cui i morti erano più vivi dei vivi; dalla qual cosa derivava non solo un’infinita pietà dei vivi e di me, sì anche, anzi soprattutto, uno stato d’animo per cui mi sentivo come al margine del nulla, in un’aria non giusta, in una luce non giusta, eccessiva, che tingevano d’assurdo il quotidiano, in modo in- sopportabile (come insopportabili sono certi disturbi detti, se non erro, psicomotorii, che precedono e accompagnano ogni esaurimento nervoso rispettabile). So bene che il mio stato d’animo e l’esasperazione dell’insofferenza discendevano anche da un amore sostanzialmente sbagliato della vita. Posso dire che non amavo, non concepivo la vita né dannunzianamente né hemingwaianamente, bensì piuttosto nel senso suggerito da una frase di Leopardi, questa: «La vita debb’esser viva, cioè vera vita, o la morte la supera incomparabilmente di pregio». Ho, in seguito, meditato sovente su questa affermazione, cercando di illuminare quelle quattro parole che l’iniziale v legava come in una formula matematica: vita viva – vita vera. Ma il fatto sta che la parola stessa vita sembrava a disagio nella mia mente: era

291 Pietro Montorfani nella mia mente al modo d’una trota che non raggiunge la misura tra le mani d’un pe- scatore indeciso (in questi casi, sapete bene, accade non di rado che la trota fugga da sé, torni al suo fiume, salvando se stessa… e il pescatore). Bisognava, per sentirmi di nuovo «tranquillo» tornando al mio paese, restituirmi a un amore più discreto della vita; e fu allora, tra l’altro, che certe parole lette nei libri cominciarono ad essere non più soltanto parole per me, ma vitale nutrimento, verità che attraversano la mente come lame. Final- mente mi dicevo non invano che «maturare è tutto», che un «paese ci vuole, non fosse per il gusto d’andarsene via» (Shakespeare e Pavese, come molti sapranno). Fu allora che capii meglio il primo canto dell’Inferno di Dante e mi resi più esatta- mente conto dei trabocchetti crociani: capii la paura e la speranza dell’altezza, gustai la straordinaria bellezza del canto. (Mi ricordo che cominciai a guardare con occhi diversi le montagne del mio paese, e i fili a sbalzo…). Allora mi parve chiaro quel che succede in Petrarca, quando, rifacendosi a un verso di Virgilio («majoresque cadunt altis de monti- bus umbrae»), scrive «cade / da gli altissimi monti maggior l’ombra»; cioè perché l’ag- gettivo alto diventi altissimo: e come da Virgilio e dal Petrarca si possa giungere a Dino Campana («Noi vedemmo sorgere nella luce incantata / Una bianca città addormentata / Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti…»). Venne anche il giorno che fu di nuovo possibile per me scrivere del mio paese: scrissi una poesia di nemmeno trenta versi, ma che mi sembrava lunghissima. Sono quattro strofe, o meglio momenti, diversi e inseparabili. Nella prima c’è soprattutto immobilità, tutto sembra raggelato in una luce funerea (ma scrivendo «in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo» pensavo a mia madre): «Una luce funerea, spenta / raggela le conifere / dalla scorza che dura oltre la morte, / e tutto è fermo in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo: / nel cerchio familiare / da cui non ha senso scampare». Il secondo momento è occupato dai morti più vivi dei vivi. C’è un interno leventinese e un’allusione al mito (diciamo così) della razza bruna. (Le capre ingorde che accade di vedere d’inverno a Prato Leventina sono quelle dei dalpesi. Prato è il paese che per anni fu onorato dalla presenza della più bella vacca del cantone. Eccetera, eccetera): «Entro un silenzio così conosciuto / i morti sono più vivi dei vivi: / da linde camere odorose di canfora / scendono per le botole in stufe / rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti, / tornano nella stalla a rivedere i capi / di pura razza bruna». Il terzo momento comincia con un ma abbastanza improvviso (e isolato): pensare uno che, come per richiami interni, contempla. Io contemplo la vita, voglio dire una vita fuori di me, di ragazzi che sono anche proiezioni di me stesso ragazzo (ricordo non solo il gusto che tutti i ragazzi di questo mondo hanno dell’avventura, ma anche la situazione particolare dei pochissimi ragazzi del mio paese, la loro noia, il loro cercare e inventare e ubbidire ai richiami, ai carillons più impreveduti): «Ma, / senza ferri da talpe, senza ombrelli / per impigliarvi rondini; / non cauti, non dimentichi in rincorse, / dietro quale carillon ve ne andate, / ragazzi per i prati intirizziti?» È una sorte d’«allegro moderato», cui segue un movimento molto lento. Infatti, l’ultima parte si compone di versi brevi e lunghi separati da punti fermi di natura più rilfessiva che contemplativa. Scrivendo quei versi con gli «oggetti» a due a due («La cote è nel suo corno», «Il pollaio s’appoggia al suo sambuco»), pensavo anche a certi dipinti di Morandi, che è il pittore da me preferito. I falangi sono quei ragni dalle gambe lunghe, a me molto fami- liari (soprattutto mi tennero compagnia in servizio militare, durante la guerra, ossia du- rante la non-guerra, negli interminabili servizi di guardia). La clausola, che culmina nella parola vita, è necessariamente sospesa: «La cote è nel suo corno. / Il pollaio s’appoggia al suo sambuco. / I falangi stanno a lungo intricati / sui muri della Chiesa. / La fontana con l’acqua si tiene compagnia. / Ed io, restituito / a un più discreto amore della vita…»

292 Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli

Occorre dire che non è per superbia che ho commentato questa mia poesia? Altrove ho parlato del mio villaggio, di me e del mio villaggio, sempre cercando di essere onesto, di non fare il passo più lungo della gamba. Penso che ogni problema stilistico, ogni sfor- zo di conoscenza, sia anche un problema morale. Ogni scrittore degno di questo nome è un uomo in media humanitate, affronta sempre un compito che non gli offre altro scampo se non quello di assolverlo onestamente.

[Pubblicato in C’è un solo villaggio nostro, a cura di Pier Riccardo Frigeri, prefazione di Felice Filippini, Edizioni Cenobio, Lugano 15 agosto 1972, pp. 137-141. Corrisponde forse (o in parte) a Il mio villaggio, contributo per la trasmissione Nero su bianco, a cura di Ugo Fasolis, Radio della Svizzera italiana, 20 ottobre 1963].

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GIOVANNI ORELLI Una testimonianza

1. Caro Giovanni, la tua lunga militanza di scrittore e di insegnante ti ha reso un autorevole e attento osservatore dei fatti di cultura. Cosa è oggi la cultura italiana in Svizzera, quali i suoi tratti riconoscibili e quanto puoi riconoscerti nelle genera- zioni di insegnanti e intellettuali che operano nel paese?

La domanda è gigante (cosa vuol dire essere svizzero, che rapporto c’è tra-fra lingua e dialetti?) È complessa e, volendola rispettare, bisognerebbe lavorarci su più giorni, e magari precipitare nel libro breve: concediamolo. Non lo farò. Mi limito a restringere la “nozione cultura” (termine anche da noi cotto in tantissime salse) al pur vastissimo settore della lingua. L’italiano. Non oso giudi- care se il Ticino faccia molto o a sufficienza o poco per difendere e valorizzare la SUA lingua, nel dialogo confederale. Per ragione di lavoro (insegnante) in vita ho dovuto dar molti (troppi) giudizi (le note) e ora, vecchio, vorrei un poco frenarmi. Ma svizzeri di lingua tedesca e di lingua francese difendono le loro parlate, contrastando forse più di noi ticinesi l’invadenza dell’inglese. Hanno ragione o sono un po’ troppo nazionalistini? Non ricordo più chi, tempo fa, faceva l’esempio, per il nostro computer, dei Francesi che dicono ordinateur; e gli spagnoli computadora. I ticinesi, ma anche molti italiani (sto ai pochi giornali che guardo) sono convinti che usare (“dent per dent”, “int par int”, ogni tanto) la parola ingese e non la nostra, faccia più chic, più “moderno”, più “su”.

2. È noto il tuo lungo impegno nella società e sui mezzi di comunicazione, dalla ra- dio, alla televisione ai quotidiani. Come è avvenuto questo dialogo, quali i fatti che hanno attirato la tua riflessione ? E oggi, che una distanza forse maggiore separa le generazioni di un tempo, quale è la possibilità di un “dialogo” con i più giovani?

Se parto dalla parola “impegno” (parola che pure conta nella mia vita: che l’ab- bia onorata non giudico, né quanto al bene né quanto al male) posso così sem- plificare. Intanto nella mia vita gli impegni importanti non sono stati molti. Uno di somma importanza è quello del pater familias. Per la formazione dei figli, tre, l’apporto della madre è fondamentale, e quello di mia moglie è stato intenso ed esemplare. I figli sono, e credo di non sbagliare, migliori dei genitori. Poi ci sono pochi impegni, che qui dirò per praticità abbreviativa, pratici. Quanto al lavorare, che non ho mai scansato, in età giovanile, e anche dopo, nella stagione buona, l’estate, c’erano i lavori del contadino su in montagna. Come falciatore mi meritai uno dei più graditi consensi della mia vita: quello

295 Giovanni Orelli di un “professionista” della falce che vedendomi falciare su una scarpata mi interpellò, prendendomi per uno di loro, e parlando bergamasco, con «di dove sei tu?» Poi venne la narrativa, la prima. Eccetera. I giovani? Quelli di un minoranza che non so quantificare mi sembrano in alcune cose più fortunati di me: per esempio parlano bene, disinvolti, anche se scivolano volentieri nel discorso “elegante” ma anche inconsistente. Io e anche altri eravamo, ai nostri tempi, ecco, più impacciati. Salto qui l’argomento, qual- che argomento, della loro e della mia narrativa. Sì, il mestiere è complicatino. Uso volentieri la parola “mestiere” perché è bene imparare bene il mestiere che si vuol fare o che si deve fare. Per quel che riguarda il mio, fare l’insegnante, al centro la lingua italiana, mi interessava sì leggere Dante (il numero 1) o il non facile Gadda, ma anche mi premeva far fare ginnastica con nomi e verbi, e non solo al passato remoto e gerundio, che il dialetto non usa ecc. ecc.

3. L’alta Leventina (Bedretto) e poi, dagli anni sessanta, Lugano. Di ciò testimoni in uno dei romanzi più importanti che la cultura della Svizzera italiana ha prodotto negli anni sessanta, L’anno della valanga (Mondadori, Milano 1965) Cosa ha signifi- cato l’appartenenza a questa “doppia” patria nella tua formazione e nella tua azione?

Le mie patrie si riducono a due, Bedretto e Lugano. Negli anni dell’infanzia, patria amata, oltre la Svizzera, era la Francia del nord-est, dove li maschi della valle andavano circa dai Morti a Pasqua a fare i marchand d’ marrons, a vendere castagne arrostite. Dal ’39 in poi, mio padre dovette sostituire Saint-Dizier con Zurigo; e Zurigo mi è sempre stata città cara (liebe). Grasshoppers compreso.

4. Veniamo al rapporto con tuo cugino Giorgio, su cui verte questo convegno: con lui hai condiviso radici montanare e dimensione umanistica. Ragioni familiari e letterarie hanno nutrito il vostro rapporto durante lunghi anni: in che modo? e quali le differenze fra voi?

Con il cugino Giorgio abbiamo sempre parlato dialetto, anche se si parlava qua- si sempre di cose letterarie, Jakobson o Benedetto Croce. Perché tanto per lui quanto per me le occasioni per parlarlo si facevano, si fanno, sempre più rare. Quanto al carattere, fra di noi le differenze erano minori rispetto alle somiglian- ze. Lui era molto disinvolto, ironico, cittadino anche, vestito con cura. Io un po’ più “dialettale”.

5. Giorgio Orelli è forse stato più poeta e critico, tu hai frequentato con maggiore equilibrio prosa e poesia. Entrambi, accanto alla lingua avete poi avuto il dialetto. Cosa induce uno scrittore ad affidare la testimonianza della propria presenza all’una o all’altra via? cosa reca in dono quel duplice registro linguistico? Quali i pericoli?

296 Una testimonianza

Il dialetto era istintivamente adottato anche perché credevamo nelle risorse del dialetto per il nostro scrivere. Per spiegarci certe parole italiane, per penetrare meglio una parola tra le altre che una lingua come quella italiana, nel suo vasto arco dal raffinato al popolare elargiva. Giorgio era forte anche nell’anneddotica, nei ritratti, nel muoversi come faceva dal divertente al malizioso, nel valutate (dal generoso all’impietoso) scrittori (un po’ più sul generoso) le donne: diciamo un po’ come il don Giovanni del Da Ponte-Mozart: «d’ogni forma e d’ogni età».

6. Per Giorgio e per te la letteratura è stato nutrimento quotidiano, “sale della terra” (per ricordare il titolo dell’ultimo bel film di Wenders) e la vostra passione ha contagiato i più giovani. Cosa cela la parola “letteratura”?

La nostra era effettivamente una passione. Ma dire che abbia contagiato i più giovani è affermazione eccessiva. Ha forse “provocato”, stimolato qualche gio- vane, per certi “contenuti” per alcune scelte linguistiche, per un certo gioco stilistico. Faccio un esempio mio. Il libro Un eterno impefetto, Garzanti 2006, è una raccolta di poesie con titoli grammaticali, che sembrano rubati a una gram- matica. Una di queste poesie (abuso anch’io, come tantissimi di questo termine? una volta un po’ più raro e impegnativo?), p 117, ha per titolo Sdrucciole (parola comune usata a scuola) e non l’aristocratica “proparossitone”. In questo mio testo di 12 versi ci sono 27 parole sdrucciole; con cui mi “diverto”, oltre che con altri divertimenti come le rime e altri giochini. La smetto di divertirmi perché c’è anche, nel dodicesimo verso, l’ultimo, un innocentissimo errore, uno dei 200… errori del giorno. Un errore che oso attribuire al tipografo: ed è un non errore, una svista: io finivo il testo dedicato a Eloisa e Abelardo, ma il te, pronome di Eloisa, va scritto senza accento, e non con l’accento, come nel libro. Perché il tè con l’accento è un’altra cosa. Scrivo queste banalità-ovvietà per invitare alcuni (spero pochissimi) lettori a non auto- maticamente inveire contro l’autore se trova un errore.

Giovanni Orelli

P.S. Per alcune questioni qui di necessità appena accennate mi permetto di rimandare con altro al Carteggio 1900-1941 tra Brenno Bertoni e Francesco Chiesa, da me curato insieme con Diana Rüesch, Casagrande, Lugano 1994; con un occhio all’Introduzione e al commento alle lettere. In particolare quella del 28 maggio 1925, che ha per tema l’infelice risultato della votazione sulle assicurazioni sociali. Alla circostanziata lettera del Bertoni risponderà il Chiesa, 29 maggio, per un totale consenso col Bertoni e per fare un ritratto durissimo all’indirizzo dei politici («… la grande maggioranza dei nostri dirigenti non sentono e non sanno che cosa è la Svizzera né cosa è il Ticino. Tutto da rifare, anzi da fare»).

297 Studi

14. Eugenio Treves, Niccolò Barbieri detto il Beltrame, comico del secolo XVII. Saggi dispersi e inediti, a cura di G. Baldissone, pp. 48, euro 15,49. 15. Federico Maria Giuliani, Diritto e pensiero. Prolegomeni, pp. 48, euro 10,33. 18. Pasquale Grignaschi, Vita quotidiana durante la campagna di Russia (1942-1943). Il diario fotografico inedito di un alpino sul Don, con un testo di M. Rigoni Stern, pp. 200, euro 20,66. 20. Sentieri poetici del Novecento, a cura di G. Ladolfi, pp. 136, euro 12,91. 21. Piermario Ferrari, Ragioni e passioni politiche. Gli editoriali di “Città dell’Uomo” 1995-2000, con testi di L.F. Pizzolato e B. Sorge, pp. 80, euro 12,91. 23. Pier Paolo Saviotti, Lucia Simonin, Vera Zamagni, L’Istituto Guido Donegani. La storia delle ricerche dall’ammoniaca ai nuovi materiali, a cura di V. Zamagni, pp. 296, euro 20,66. 24. Giuliano Ladolfi, Per un’interpretazione del Decadentismo, introduzione di E. Gioanola, pp. 64, euro 10,33. 25. Gian Maria Capuani, Claudio Malacrida, L’autonomia politica dei cattolici. Dal dossettismo alla Base: 1950-1954, pp. 96, euro 10. 26. Maria Pia Alberzoni, Città, vescovi e papato nella Lombardia dei comuni, pp. 296, euro 25,82. 27. Sentieri narrativi del Novecento, a cura di R. Carnero e G. Ladolfi, pp. 104, euro 12,91. 28. Giuseppe E. Sansone, Poesia catalana del Medioevo. Antologia, pp. 256, euro 25,82. 29. Per una teologia del cuore. Studi offerti a monsignor Renato Corti nel decennio del suo episcopa- to novarese, con un testo introduttivo del cardinale C.M. Martini, a cura di P.D. Guenzi, pp. 256, euro 20,66. 30. Carte di viaggi e viaggi di carta. L’Africa, Gerusalemme e l’aldilà, Atti del convegno, Vercelli 18 novembre 2000, a cura di G. Baldissone e M. Piccat, pp. 146, euro 20. 31. Rileggiamo i classici, a cura di R. Carnero e G. Ladolfi, pp. 160, euro 15. 32. Nicolò Barbieri, L’inavertito, a cura di G. Baldissone, con un saggio di I. Scanzio, pp. 176, euro 20. 33. Giuseppe Anceschi, Maestri di un’Italia civile, pp. 256, euro 20. 34. Carlo Dionisotti, Boiardo e altri studi cavallereschi, a cura di G. Anceschi e A. Tissoni Ben- venuti, pp. 232, euro 20. 35. Gli Amorum libri e la lirica del Quattrocento con altri studi boiardeschi, a cura di A. Tissoni Benvenuti, pp. 264, euro 20. 36. L’oro e l’alloro. Letteratura ed economia nella tradizione occidentale, a cura di G. Ioli, pp. 168, euro 20. 37. «Parlar l’idioma soave». Studi di filologia, letteratura e storia della lingua offerti a Gianni A. Papini, a cura di M.M. Pedroni, pp. 376, euro 20. 38. Sentieri narrativi stranieri contemporanei, a cura di R. Carnero e G. Ladolfi, pp. 112, euro 15. 39. Carlo Mario Maria Bolchi, Satana, le fiere e gli angeli. Il Vangelo secondo Marco, con una nota di G. Piana, pp. 232, euro 20. 40. Tina Matarrese, Parole e forme dei cavalieri boiardeschi. Dall’Inamoramento de Orlando all’Orlando innamorato, pp. 224, euro 20. 41. Sentieri poetici stranieri contemporanei, a cura di F. Italiano e G. Ladolfi, pp. 112, euro 15. 42. Marco Corradini, La tradizione e l’ingegno. Ariosto, Tasso, Marino e dintorni, pp. 220, euro 15. 43. Sentieri poetici nelle arti contemporanee, a cura di G. Ladolfi e F. Italiano, pp. 96, euro 12. 44. Il principe e la storia, a cura di T. Matarrese e C. Montagnani, pp. 592, euro 30. 45. ada Ruschioni, Dante e la poetica della luce, pp. 142, euro 15. 46. Le parole del sacro. L’esperienza religiosa nella letteratura italiana, a cura di G. Ioli, pp. 288, euro 20. 47. Giuseppe Anceschi, Corti e cortigiani. Arte di governo e buone maniere nella vita di corte, pp. 152, euro 15. 48. Speciale tg. Forme e tecniche del giornalismo televisivo, a cura di G. Simonelli, pp. 344, euro 28. 49. Corpi letterari. L’esperienza sportiva nella cultura contemporanea, a cura di G. Baldissone e E. Tortarolo, pp. 168, euro 15. 50. Letteratura e sport. Per una storia delle Olimpiadi, a cura di G. Ioli, pp. 304, euro 20. 51. Piermario Ferrari, Passioni per il pensiero. Dialoghi e percorsi, presentazione di E. Masseroni, pp. 192, euro 20. 52. I luoghi di Nicolò dell’Abate. Pitture murali e interventi di restauro, a cura di A. Mazza, pp. 320, euro 25. 53. Boiardo, Ariosto e i libri di battaglia, a cura di A. Canova e P. Vecchi Galli, pp. 552, euro 30. 54. Filippo Fonio, Le storie di san Giuliano Ospitaliere, presentazione di G. Baldissone, pp. 212, euro 30. 55. Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, a cura di A. Carrera, pp. 232, euro 18. 56. Le biblioteche scolastiche. Un microcosmo?, a cura di T. Paracino, pp. 60, euro 10. 57. Gli spazi della letteratura, a cura di R. Carnero e G. Ladolfi, pp. 96, euro 15. 58. Silvio Biancardi, La chimera di Carlo VIII (1492-1495), II ed. con presentazione di G. Anden- na, pp. 824 + XXXII, euro 25. 59. Luigi Rossi, Il Piemonte in Europa. 500 anni di emigrazione dalla valle Vigezzo: la famiglia Farina e l’acqua di Colonia, presentazione di M. Bresso e T.A. Migliasso, con sintesi in tedesco, pp. 172, euro 22. 60. Cavalcare la luce. Scienza e letteratura, a cura di G. Ioli, con un testo di R. Levi Montalcini, pp. 160, euro 20. 61. Filippo Maria Ferro, L’anima dipinta. Scritti di arte lombarda e piemontese da Gaudenzio Ferrari a Ranzoni, introduzione di G. Romano, pp. 280, euro 20. 62. Giuliano Ladolfi, Per un nuovo umanesimo letterario, pp. 96, euro 15. 63. Per Elio Gioanola. Studi di letteratura dell’Ottocento e del Novecento, a cura di F. Contorbia, G. Ioli, L. Surdich, S. Verdino, pp. 480, euro 40. 64. Miscellanea boiardesca, a cura di C. Montagnani, pp. 136, euro 18. 65. Boiardo, il teatro, i cavalieri in scena, a cura di G. Anceschi e W. Spaggiari, pp. 288, euro 22. 66. Marcello Venturi: gli anni e gli inganni, a cura di G. Capecchi, pp. 280, euro 20. 67. Poesia civile. Contributi per un dibattito, a cura di G. Baldissone, pp. 80, euro 12. 68. Boiardo a Scandiano. Dieci anni di studi, a cura di A. Canova e G. Ruozzi, pp. 176, euro 20. 69. Le muse cangianti. Tra letteratura e arti figurative, a cura di G. Ioli, pp. 120, euro 20. 70. Speciale tg. La messa è finita, a cura di G. Simonelli, quinta ed. aggiornata, pp. 296, euro 28. 71. Lettura dei Canti di Giacomo Leopardi, a cura di E. Fumagalli, C. Genetelli, G. Pedrojetta, pp. 232, euro 20. 72. Davide Maggi, La valutazione della performance nelle aziende pubbliche locali. Rapporti tra organi di governo e dirigenti, pp. 116, euro 15. 73. Mario Apollonio, Dante. Storia della Commedia, a cura di C. Annoni, pp. 800 c., euro 48. 74. Elisabetta Filippini, Questua e carità, pp. 256, euro 25. 75. Narrare la città. Tratti identitari, linguistici e memoria della tradizione a Novara, a cura di G. Ferrari e M. Leigheb, presentazioni di P. Garbarino e C. Petrini, pp. 120, euro 16. 76. Pietro Pedeferri, Titaniocromia (e altre cose), con un testo di M. Corti e una poesia di A. Merini, pp. 176, euro 15. 77. Discutere e agire. Una sperimentazione di democrazia deliberativa a Novara, a cura di G. Bal- duzzi e D. Servetti, pp. 132, euro 15. 78. Prigione di trincee, in preparazione. 79. Gina Lagorio. «Respirare Piemonte», pp. 160, euro 20. 80. Cristina Salanitri, Scienza morale e teoria del diritto naturale in Guglielmo di Ockham, pp. 224, euro 20. 82. Laura Angela Ceriotti, Food strategy e multifunzionalità nella filiera corta del riso, pp. 208, euro 18. interlinea edizioni

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