Mafia E Mancato Sviluppo, Studi Psicologico- Clinici”
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C.S.R. C.O.I.R.A.G. Centro Studi e Ricerche “Ermete Ronchi” LA MAFIA, LA MENTE, LA RELAZIONE Atti del Convegno “Mafia e mancato sviluppo, studi psicologico- clinici” Palermo, 20-23 maggio 2010 a cura di Serena Giunta e Girolamo Lo Verso QUADERNO REPORT N. 15 Copyright CSR 2011 1 INDICE Nota Editoriale, di Bianca Gallo Presentazione, di Claudio Merlo Introduzione, di Serena Giunta e Girolamo Lo Verso Cap. 1 - Ricerche psicologico-cliniche sul fenomeno mafioso • Presentazione, di Santo Di Nuovo Contributi di • Cecilia Giordano • Serena Giunta • Marie Di Blasi, Paola Cavani e Laura Pavia • Francesca Giannone, Anna Maria Ferraro e Francesca Pruiti Ciarello ◦ APPENDICE • Box Approfondimento ◦ Giovanni Pampillonia ◦ Ivan Formica Cap. 2 - Beni relazionali e sviluppo • Presentazione, di Aurelia Galletti Contributi di • Luisa Brunori e Chiara Bleve • Antonino Giorgi • Antonio Caleca • Antonio La Spina • Box Approfondimento ◦ Raffaele Barone, Sheila Sherba e Simone Bruschetta ◦ Salvatore Cernigliano 2 Cap. 3 - Un confronto tra le cinque mafie • Presentazione, di Gianluca Lo Coco Contributi di • Emanuela Coppola • Emanuela Coppola, Serena Giunta e Girolamo Lo Verso • Rosa Pinto e Ignazio Grattagliano • Box Approfondimento ◦ Paolo Praticò Cap. 4 - Psicoterapia e mafia • Presentazione, di Giuseppina Ustica Contributi di • Graziella Zizzo • Girolamo Lo Verso • Lorenzo Messina • Maurizio Gasseau Cap. 5 - Oltre il pensiero mafioso • Presentazione, di Antonio Caleca Contributi di • Leoluca Orlando • Maurizio De Lucia • Alfredo Galasso Conclusioni, di Girolamo Lo Verso e Serena Giunta Bibliografia Note 3 Nota editoriale di Bianca Gallo Questo Quaderno CSR, il n° 15, riporta le riflessioni sviluppate attraverso i diversi interventi durante il Convegno Mafia e mancato sviluppo, studi psicologico- clinici, che si è tenuto a Palermo il 20-23 maggio 2010. Il materiale viene pubblicato nei quaderni del Centro Studi e Ricerche “Ermete Ronchi” perché ritenuto di grande interesse per tutti noi che ci occupiamo di ciò che accade nei gruppi. Non però semplicemente - e un po’ banalmente – perché l’attività mafiosa è ormai presente in ogni regione. Vi è infatti nei diversi interventi una profonda riflessione, che non riguarda la sola “cultura di gruppo” mafiosa: vi è in essi una ricerca del significato profondo del rapporto tra l’individuo e il suo gruppo di appartenenza, e dello sviluppo dell’identità personale. Analisi che parte dal “fenomeno mafioso” ma che non vi si esaurisce, e suscita interessi e interrogativi che riguardano temi più ampi. Mentre ascoltavo i relatori molti erano i pensieri, le associazioni, i ricordi. Per tutti, uno: quella definizione di obbedienza cadaverica di cui ci riferirono le cronache dal processo di Gerusalemmei, obbedienza a cui Adolph Eichmann, richiesto di chiarimenti, dichiarò di essere abituato fin dalla più tenera infanzia, e che lo aveva portato, per tutto il tempo del processo, a comportarsi di fronte all’Autorità - non importa se diversamente connotata, se il Tribunale israeliano o i leader nazisti - come il più rispettoso e il più diligente degli imputati, tanto da tenere davanti a sé, durante le udienze, un quadernetto di appunti; 4 inconsapevole delle proprie responsabilità così come del significato di quel processo. Ciascuno di noi, nella costruzione della propria soggettività, entra in rapporto con un gruppo: la famiglia, il gruppo sociale d’appartenenza, il gruppo dei pari; e – anche - il gruppo interno che via via si va formando. La stessa possibilità di esistere implica l’appartenenza ad un gruppo: “Non ho mai visto un bambino”, scriveva Winnicott con uno dei suoi paradossi, indicando con questo che la sopravvivenza fisica di un bambino è legata alla presenza degli adulti. Se però pensiamo all’identità di chi appartiene ad un gruppo, per esempio ai diversi gruppi mafiosi, come così chiaramente indicato nelle relazioni di questa giornata, pur tuttavia non posso che pensare alle parole di Aristotele: “Ci si potrebbe accontentare del bene del singolo, ma è migliore e più divino il bene di un popolo, delle città”ii. Sono parole che del rapporto di appartenenza ad un gruppo sottolineano la dimensione etica e che mi fanno riflettere su un tema così complesso come quello della dimensione morale e della concretezza di ciò che è bene. Di nuovo, mi viene in mente un racconto fatto da Roberto Saviano, che riferiva come, all’osservazione che i rifiuti tossici potevano iniziare a contaminare le falde acquifere, un boss mafioso rispondesse: “Che ce ne fotte a noi, noi beviamo acqua minerale”. Affermazione molto concretamente priva di senso, dato che l’effetto tossico coinvolgerebbe l’intero ambiente. Tutto questo mi rimanda però al concetto di Civiltà, e alle diverse posizioni assunte in ambito psicoanalitico. Come è noto per Sigmund Freud il cammino della Civiltà richiede la rinuncia al soddisfacimento delle pulsioni e – perciò - non può che generare infelicità.iii E prima, In Al di là del principio di piacere avanzava l’ipotesi che la distruttività umana fosse espressione della pulsione di morte. Con lui non concordava Kohut, che riferendosi al trionfo del nazismo, sosteneva che: “(…) Le applicazioni di Freud della 5 teoria delle pulsioni e delle difese alla storia, avevano, quanto meno, un valore limitato. Non ci sorprende che l’analisi si sentisse impotente e che, nella teoria generale finale dell’istinto di morte che rimane indomabile, essa non potesse fare altro che offrire una fiera rassegnazione all’inevitabile (…) Uno degli aneddoti più significativi dell’atteggiamento di Freud riguarda la sua risposta a una domanda sull’origine dell’antisemitismo. Egli disse, con commovente sincerità, che qui la sua comprensione si fermava; qui egli poteva solo odiare. Con una sola frase egli rinunciava a ogni ulteriore indagine sull’effetto che aveva su di lui l’offesa narcisistica del rifiuto antiscientifico, e nel contempo si dichiarava incapace di esplorare il Sé di coloro che infliggevano tali offese”iv. Antonio Damasio, che tra i neuroscienziati ha la visione più ampia della condizione umana, afferma: “La coscienza è la nostra principale autorizzazione alla civiltà”v. Poiché, come spiega in Emozione e coscienza, “i segnali neurali non coscienti di un singolo organismo generano il proto - sé, che permette il sé nucleare e la coscienza nucleare, che consentono un sé autobiografico, che permette la coscienza estesa. Alla fine della catena, la coscienza estesa permette la coscienza morale”vi. Damasio approfondisce questo tema nel testo successivo, Alla ricerca di Spinoza, in cui confronta il proprio modello di funzionamento neurale (che, notiamo, richiama fortemente il modello bioniano di formazione del pensiero) con il pensiero del filosofovii. Secondo il modello di Damasio vi è un continuo riverberarsi di segnali neurali tra emozioni, sentimenti, il sapere di avere dei sentimenti, e il pensiero; processo continuo attraverso cui il cervello viene continuamente rimodellato; “ricordare, ripetere, rielaborare” permette, col ripercorrere i contatti sinaptici, una strutturazione sempre più sofisticata dell’esperienza. Se dunque le pulsioni si appoggiano sugli istinti e questi manifestano i propri effetti attraverso emozioni e sentimenti, 6 forse davvero non è la rinuncia pulsionale all’origine di ciò che intendiamo per Civiltà, ma il libero dispiegamento del pensiero da e a emozioni e sentimenti. La sopravvivenza del gruppo, cui è legata la vita del singolo individuo, sarebbe possibile dunque solo nell’equilibrio tra ragione ed emozioni. Per questo “è migliore e più divino il bene di un popolo, delle città”. Citando ancora Aristotele: “Non bisogna seguire quelli che consigliano che, in quanto siamo uomini, dobbiamo attendere a cose umane, e che, in quanto mortali, dobbiamo attendere a cose mortali; invece, per quanto possibile, dobbiamo farci immortali, e fare di tutto per vivere secondo la parte più elevata che è in noi”viii. E dunque questo fascicolo ci invita – noi di COIRAG - a iniziare una rigorosa riflessione sul rapporto tra l’individuo e il gruppo sociale. 7 Presentazione La paura come molla all’adesione mafiosa di Claudio Merlo Ringrazio Girolamo Lo Verso per avermi invitato a partecipare a queste giornate di lavoro che traggono spunto dalla commemorazione di Giovanni Falcone a vent’anni dalla sua scomparsa. Ho ancora presente il senso di sgomento che attraversò COIRAG alla fine di una giornata di lavoro a Torino, quando durante la cena giunse la notizia dell’attentato. Ricordo Girolamo che con agli occhi lucidi diceva: “Giovanni ... l’hanno ammazzato!!!” Ricordo il silenzio incredulo che avvolse la serata e ne spezzò lo scorrere, ormai scossi dalla notizia e dalla terribile scena dell’attentato che la TV trasmetteva. Quella scena si è poi più volte ripetuta, con Borsellino, con Firenze, con Roma, negli anni in cui la mafia voleva spaventare l’Italia intera e lo Stato. Chi come me viene dal nord e non ha mai conosciuto da vicino la violenza mafiosa, prova una profonda ammirazione per la gente di Sicilia che riesce a opporsi e a ribellarsi a una organizzazione che terrorizza e uccide. Personalmente credo che la paura, quando ci si sente minacciati nella sopravvivenza propria o dei propri cari, sia il miglior alleato nella deriva che fa si che larghi strati di popolazione aderiscano ai “favori” dell’organizzazione mafiosa. Non soltanto si ottengono piccoli o grandi privilegi, ma ci si disfa in questo modo del sentimento della paura, un convitato di pietra scomodo nell’affrontare l’esistenza, che viene appaltato a terzi, a chi sta fuori. 8 Si tratterebbe di una “sindrome di Stoccolma” su larga scala. La paura, mascherata col termine “rispetto”, governa le relazioni verticali dentro il mondo mafioso, che richiede un’adesione senza condizioni, senza dubbi e tentennamenti, pena la morte. La paura che ogni affiliato deve essere capace di incutere al dettaglio, nell’organizzazione dello spaccio della droga, nella riscossione del pizzo, nell’usura, nell’acquisizione di appalti e di connivenze politiche. Mafia e mancato sviluppo è il titolo di queste giornate di lavoro e vorrei qui soffermarmi a considerare quanto lo mafia comprometta lo sviluppo psichico delle persone che vi aderiscono e che ne sono vittime.