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Provincia di

Liceo Classico “J. Stellini” – Udine

GIORNATE FAI DI PRIMAVERA 2018

PALAZZO CAISELLI ora sede del Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale (Dium) dell’Università di Udine

CON LA SUA RACCOLTA D’ARTE CONTEMPORANEA

Le notizie sono state raccolte, assemblate e stese dalla prof.ssa Francesca Venuto, referente del progetto “Alla scoperta dei beni culturali della città e del territorio” per il Liceo Classico “J. Stellini” di Udine. 2

Palazzo Caiselli, in Piazza San Cristoforo

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La storia del palazzo – frutto di un lungo processo costruttivo - ha inizio alla metà del Seicento, quando Leonardo e Pietro Caiselli, facoltosi fratelli bergamaschi da poco stabilitisi a Udine per commerciare tessuti serici, acquistarono una casa con facciata su via Palladio e poi alcune case tra la chiesa di S. Cristoforo e l’androna (vicolo) dei Florio.

La trattativa, lunga e difficile, dell’acquisto di tutta una serie di casupole preesistenti) in San Cristoforo (la più importante delle quali un tempo appartenuta ai conti di Strassoldo) si concluse nel 1657, quando fu stilato l’atto di vendita. In breve tempo i due Caiselli erano riusciti a procurarsi tutto l’isolato.

NEL DETTAGLIO: Le trattative ebbero formalmente inizio il 2 marzo 1655, con un’impegnativa di vendita a favore dei Caiselli da parte del conte Lucrezio di Strassoldo, appartenente a una delle più antiche famiglie del . Il 9 aprile dello stesso anno i periti Antonio Contrino (per la parte Strassoldo) e Agostino Nepoti (per la parte Caiselli) redigevano una stima per la “casa in Borgo San Cristoforo” e per “alcune casette ivi contigue”. Tale stima - che costituisce di fatto il documento più prezioso per rintracciare la conformazione del nucleo più antico del palazzo - non soddisfece le parti determinando lo scioglimento temporaneo dell’impegno sottoscritto. La trattativa venne tuttavia ripresa e, l'11dicembre 1656, “le parti divennero ad accordo per tutto il contenuto nella stima in prezo di ducati cinquemilletrecento”. Il 25 aprile 1657 veniva finalmente firmato l’atto di vendita. Sulla base della stima del ‘55 si é potuto accertare che le case acquistate - indicate come “casa in borgo San Cristoforo” e “casa del Fornaro” quelle su via Palladio, “stanza appresso alla casa del Fornaro” e “casa in Androna Florio” quelle sul vicolo Florio (anticamente “Androna Florio”), “casa sovra l’Androna San Cristoforo” quella sul vicolo Caiselli (anticamente “Androna sora Santo Cristoful”) e infine “casa sulla corte” quella prospiciente il lato occidentale del cortile interno – corrispondono planimetricamente all’attuale parte monumentale del palazzo, cioé a quella che si sviluppa intorno al cortile d’onore. Si può dunque rilevare come il complesso appena acquistato, anche se formato da edifici disomogenei fra loro, fosse già di dimensioni tali da accogliere comodamente la famiglia Caiselli che, fin da allora, abita infatti le case su via Palladio. Per giungere a uniformare le proprietà alle dimensioni dell’intera area compresa fra i due vicoli e consentire finalmente la possibilità di affrontare un progetto generale di sistemazione, occorreva tuttavia procedere ad altri due acquisti: quello della «casa Simeonio», posta sull'angolo fra la piazzetta San Cristoforo e i1 vicolo Caiselli, cosi da poter realizzare una facciata unitaria su via Palladio, e quello di una casa sul vicolo Florio, inserita fra la «casa in Androna Florio» e la «casa sulla corte». I Caiselli, che ormai avevano salito gli ultimi gradini per raggiungere la vetta della società udinese, non mancarono tale obiettivo: nel corso del 1658 venne fatta stimare e poi fu acquistata acquistata «una casa di raggione del signor Giacomo Simeonio” e, il 2 gennaio di quattro anni dopo, il conte Sebastiano Florio anni dopo, il conte Sebastiano Florio prima cedette loro una casa che si affacciava “sull’Androna detta dei Florij”, poi, il 30 dello stesso mese, altre “due stanze et solaro” sempre sullo stesso vicolo. I1 nucleo principale di quello che stava per divenire il palazzo cittadino della famiglia poteva ormai dirsi formato, ma i Caiselli, nel corso dello stesso anno o poco dopo, decisero di ampliare ulteriormente la loro proprietà, acquistando un’altra area confinante con le loro case sul lato occidentale, costituita da orti e piccole "casupole, che apparteneva anch’essa ai Florio. A questo punto i loro immobili occupavano gran parte dell’isolato.

Si rendeva ora necessario avviare una generale opera di ripristino e ammodernamento delle case, di cui solo quella prospiciente la piazza, dove essi abitavano, appariva degna di una residenza patrizia. 4

Primo loro pensiero fu quello di rendere più accogliente l’abitazione: affidarono il progetto di ammodernamento al “muraro” Giovanni Battista Stella, che lavorò per loro a lungo, cui forse si deve la 1^ strutturazione del palazzo. Non si capisce se tali opere si basassero su un progetto – di cui resterebbe ignoto l’autore – o se venissero via via programmate e realizzate direttamente dal citato personaggio. L’intervento dello Stella, tuttavia, riguardò soprattutto lavori di trasformazione interna (chiusure di vani, apertura di porte, intonacature, solai, soffittature), per uniformare e rendere funzionali i diversi edifici a beneficio della nobile famiglia e della sua servitù. Questi lavori – che interessarono parti diverse della fabbrica - sono testimoniati dalle fonti documentarie, ma a livello edilizio sono difficilmente riconoscibili a motivo delle successive trasformazioni. Tuttavia sembra di poterne scorgere qualche indizio nell’ala sud del palazzo, quella prospiciente vicolo Caiselli.

LA FAMIGLIA CAISELLI – successi commerciali e realizzazioni fondiarie (da M. Ronga)

I Caiselli si trasferirono da Caprino nel bergamasco in Friuli all’inizio del XVII secolo, per seguire in loco e ampliare gli interessi commerciali che la famiglia già possedeva in questa regione. Il trasferimento avviene proprio negli anni della crisi 1619-22, quando si sentì il bisogno di dividere l’attività tra i vari componenti maschi della famiglia e cogliere le opportunità che si offrivano in una terra arretrata e nuova per loro, che ancora non conosceva una vera concorrenza commerciale e che costituiva una scommessa per chi fosse in grado di tentare la fortuna. Il Friuli era una terra di confine, caratterizzata da una società ancora ampiamente feudale. I C. avevano diversificato i loro investimenti; erano a capo di una vasta rete commerciale che spaziava dall’ambito strettamente regionale (centro-nord della penisola ma anche al sud) a quello internazionale (terre austriache); compravano e vendevano merci, ma erano anche imprenditori in Carnia. Cercavano l’affare: in Carnia (creando le condizioni per avviare qui una forma di proto- industrializzazione; la manodopera locale si prestava facilmente a un tipo di lavoro artigianale che la occupasse nei periodi morti dell’agricoltura e le permettesse un’esistenza migliore) e in Austria si procuravano le materie prime e i semilavorati che rivendevano e scambiavano nel resto della penisola italiana con tessuti destinati sia al mercato friulano, sia ad essere esportati al nord e a loro volta scambiati con ferramenta (lo scambio permetteva di eludere i problemi creati dalla costante mancanza di denaro contante ed anche dalla differenza fra le diverse monete circolanti nella penisola). Si proposero quindi come mediatori fra il mondo della produzione e quello della vendita, come intermediari di vari tipi di merce (falci, 5 berretti, tessuti), inoltre puntarono sul commercio di un tipo di merce alternativa rispetto alla produzione industriale della Dominante. Difficilmente trattavano merce di lusso (pregiate sete o lane o vetri, i prodotti che rendevano Venezia famosa in tutta Europa). Cercarono dunque di tenersi a debita distanza dalla capitale per far sì che i loro affari continuassero a prosperare, con un tipo di commercio che si sviluppasse ai margini dell’attività manifatturiera ed industriale veneziana, che esercitava un rigido monopolio, salvaguardato da tutto un complesso sistema di regolamentazione da parte dello Stato, con cui si cercava di mantenere il gettito interno e l’alta qualità delle merci veneziane. I C. cercarono di privilegiare nelle loro scelte un’ampia varietà di prodotti per soddisfare una maggiore quantità di clienti e tutto avveniva tramite lo scambio nelle compravendite, a causa della mancanza di denaro contante e per la difficoltà dei vari cambi valutari; inoltre si appoggiarono sul porto di Trieste a scapito di quello veneziano e delle sue restrizioni. A partire dal 1620 iniziarono a investire in beni immobili, trasformandosi da mercanti in proprietari terrieri, preferendo ai rischi del commercio (a seguito di: chiusura mercati internazionali, accresciuta concorrenza delle manifatture estere, fuga dei capitali urbani verso le campagne) la sicurezza degli investimenti immobili. La tendenza generale del periodo investe tutta l’aristocrazia e coloro che aspiravano a farne parte, come i C., che – in una società che riconosceva una condizione aristocratica al proprietario di terre - volevano entrare a pieno diritto nelle ristrette file nobiliari. La conversione alla terra fu una calcolata operazione finanziaria verso la diversificazione dei capitali e un sistema sicuro per mettere in salvo capitali mobili. Così acquistarono il titolo comitale di Reana e poi quello di Ribis verso la metà del ‘600, nel 1676 entrarono nel consiglio nobile della città e negli anni successivi vari membri della famiglia assunsero diverse cariche pubbliche. Il coronamento della carriera - economica prima e sociale poi - è rappresentato dall’annessione alle ristrette file dell’aristocrazia veneziana nel 1779, vero e proprio coronamento della loro ascesa. Anche nel settore agricolo i Caiselli portarono il loro spirito imprenditoriale innovativo, vendendo il vino da loro prodotto nelle tenute agrarie di loro proprietà senza intermediari.

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I Caiselli erano stati accolti nella cittadinanza popolare di Udine nel 1620 e nel 1647, grazie ad un oculato investimento in livelli, terreni e stabili, erano stati investiti della giurisdizione di Reana insieme alle relative giurisdizioni feudali con il titolo di conti, dando inizio ad un autorevole inserimento della famiglia nella vita cittadina. I loro nipoti – Leonardo e Giovanni Battista - vennero accolti nel consiglio nobile (1676) e si imparentarono con alcune delle migliori famiglie udinesi, trasformando la loro residenza in una delle più prestigiose della città. Parallelamente alla crescita della loro fortuna economica, la necessità di acquisire un’immagine adeguata al nuovo status sociale indusse i Caiselli a trasformare la propria dimora in residenza signorile. Dopo i lavori dello Stella l’insieme doveva certo risultare più confortevole, anche se non ancora del tutto consona al rango dei Caiselli e ai loro arredi, sempre più numerosi e preziosi. Fra l'altro Leonardo Caiselli, che godeva di sempre più ampie possibilità economiche, si era dedicato, come d’uso fra le famiglie più abbienti di allora, al mecenatismo, fino a ospitare pittori assai noti, come Antonio Carneo e Paolo Paleotti; opere della scuola del Bassano, di Leandro, del Carpioni, di Giacomo Carneo, oltre che degli stessi Antonio Cameo e Paoletti, entrarono poi a far parte di quella che divenne ben presto una delle più ricche collezioni cittadine. Fu qui radunata una “quadreria” degna di competere con quelle delle famiglie di più antica nobiltà. I Caiselli furono mecenati illuminati di pittori di fama.

Il loro rapporto con Antonio Carneo ebbe inizio nel 1667, quando gli fu data in affitto una casa. Il Carneo era appena giunto dal Portogruarese: praticamente sconosciuto a Udine, impossibilitato a pagare l’affitto, viene soccorso dai Caiselli i quali si fanno pagare l’alloggio e il vitto che forniscono al pittore con quadri, di cui quadruplicano le valutazioni fissate dal pittore. Questo rapporto di lavoro e stima dura per 20 anni (il pittore dipingeva quello che voleva, fino a raggiungere un centinaio di tele, collocate un po’ dovunque nell’edificio, che svariavano dalle tematiche allegorico-mitologiche sino alle scene di genere, fra cui si pensa anche al Giramondo e alla Vecchia in meditazione, ora in Castello), poi – verso il 1690 – il Carneo fece ritorno a Portogruaro, dove 55enne, si spense nel 1692. I dipinti – esposti nel Salone 7 d’onore - sono rimasti in loco fino all’inizio del ‘900, poi sono stati venduti un po’ alla volta, finendo in Musei e in Collezioni private.

Carneo, Il Giramondo e la Vecchia (Meditazione) Nei documenti relativi ai dipinti ceduti dal pittore ai Conti Caiselli "a buon conto dell'Affitti et Danari et Biave aute" negli anni 1667-1676, compaiono anche due quadri raffiguranti "un pitocho et una pitocha" valutati L.170, collocati "versi il pozolo" nella grande sala del palazzo Caiselli di Udine nel cui soffitto, di lì a qualche anno, il Tiepolo avrebbe dipinto la nota tela con La Fortezza e la Sapienza. La "pitocha", che rappresenta una vecchia seduta, con un teschio in grembo, è generalmente denominata La Meditazione ed è entrata a far parte delle collezioni dei Civici Musei di Udine insieme con il "pitocho"1, ritratto di vecchio contadino, che il Rizzi preferisce chiamare Il Giramondo, in abiti dimessi e cappello in testa, seduto a terra con una zucca sullo sfondo di una lussureggiante vegetazione. L'opera – oggi ai Civici Musei - rientra nel clima di quella pittura di genere diffusa nel Veneto nella seconda metà del Seicento, suggerita da esempi nordici e giunta certamente al Carneo attraverso Eberhard Keil - cioè Monsù Bernardo, la cui presenza a Bergamo e Venezia favorì la nascita nel Settecento di una corrente di pittura realista ben rappresentata dal Todeschini e dal Ceruti - e il repertorio di incisioni che va dal Callot al Bloemaert. I possibili riferimenti culturali nulla tolgono alla grandezza e all'originalità dell'opera che offre una resa libera e personale del tema picaresco nell'invenzione del Giramondo, bizzarra figura di girovago reso con umana partecipazione. Autentico capolavoro, il dipinto trova i suoi punti di forza nelle eccezionali variazioni e vibrazioni di tono, greve nella sobrietà del colore privo di gamme accese ma impreziosito da raffinati passaggi di nocciola e dalla presenza di bianchi corposi alla Fetti, nella felicità del tocco largo e costruttivo. I due quadri del "pitocho" e della "pitocha" (ripresa, quest'ultima, in un dipinto ora a Brera già attribuito al Murrillo) rappresentano uno dei più alti lavori dell'arte del Carneo e come tali sono stati valutati anche in passato.

Ai Caiselli rimase un’incredibile collezione di suoi dipinti e di quelli del padovano Paolo Paoletti (1671-1735), autore di nature morte, che ebbe modo di beneficiare dell’aiuto dei Caiselli fino alla morte.

1 pitòcco s. m. , forse dal gr. πτωχός «mendicante, povero». – Accattone, mendicante, straccione. estens. Per estensione, persona che, pur non trovandosi in cattive condizioni economiche, dimostra, nel modo di vivere e nel comportamento, un eccessivo attaccamento al denaro, una gretta avarizia; tirchio, spilorcio 8

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I Caiselli ebbero buone relazioni anche con il grande artista G.B. Tiepolo. Due furono probabilmente le opere commissionate al maestro veneto, ma é la grande tela raffigurante La Nobiltà e la Virtù che trionfano sull’Ignoranza (motivo che l’artista sviluppò in altre diverse occasioni: a villa Cordellina, in Palazzo Manin a Venezia) che suggerisce le considerazioni più interessanti. Dall’esame del palazzo appare chiaro che Carlo Caiselli avviò, probabilmente intorno alla metà del ‘700, una diffusa opera di modifiche interne, il cui fine più evidente era quello di ammodernare in stile rococò il salone da ballo (o salone d’onore) al piano nobile nella cui volta venne collocata la grande tela dipinta ad olio dal Tiepolo. L’insieme fu trasformato internamente in prezioso stile rococò, con largo uso di marmorini colorati2 e colorazioni a tinte pastello. L’elemento di spicco in questa fase è proprio la realizzazione del salone da ballo e per la musica – a doppia altezza, con cornici decorate a Il complesso edilizio assunse in tal modo un carattere più ricco ed elegante.

Poco prima, nel 1741, era stato concesso ai Caiselli di occupare un pezzo di terreno pubblico adiacente all’abitazione (forse con la costruzione delle scuderie, oggi 2° cortile interno). Inoltre la facciata sull’attuale vicolo Caiselli assunse un disegno unitario con terrazzini e finestre realizzati in pietra d’Istria lavorata.

Alla metà dei ‘700 la strutturazione interna dei palazzo aveva ormai assunto una sua precisa e organica identità, che ben si confaceva agli obiettivi di una casata che aveva intrapreso un’escalation sociale di grande portata. Grazie a un decreto del 1775 con cui la Serenissima permetteva l’accesso al Maggior Consiglio a 40 famiglie nobili delle province purchè queste potessero dimostrare di essere tali da almeno 4 generazioni e di possedere una rendita annua di almeno 10.000 ducati, nel 1779 i fratelli Leonardo, Bernardino e Francesco C. furono aggregati al patriziato veneto. L’avvenimento fu festeggiato con un fastoso ricevimento nel palazzo veneziano.

2 Si tratta di intonaci impermeabili naturali. L’intonaco si realizza con la stesura di uno o più impasti composti da un legante e da diversi inerti. Nel marmorino il legante è costituito da calce, ovvero CALCINA o GRASSELLO DI CALCE, un materiale traspirabile, resistente e efficace contro agli attacchi biologici. L’inerte usato comunemente negli intonaci è la sabbia in quanto facile da reperire e di basso costo, mentre nel marmorino la sabbia viene sostituita dalla POLVERE DI MARMO che, una volta asciutto, conferisce particolare lucentezza e luminosità alla superficie dell’intonaco, poiché è costituito interamente da carbonato di calcio e quindi diventa una pietra artificiale. 10

Restava ancora irrisolto il problema della realizzazione di una facciata unitaria. Un problema di notevole portata che i Caiselli decisero finalmente di affrontare proprio negli ultimi anni del secolo, affidandone l’incarico a Le Terrier de Manetot, che nel 1799 fornì loro il progetto definitivo. Poco si sapeva su questo architetto, strettamente legato ai Caiselli per i quali progettò anche la villa e il giardino di Percoto, fino ai recenti scudi di Alessandra Biasi che ha fatto più luce su questo singolare esule francese, politicamente antinapoleonico, raffinato progettista, il cui ruolo, nel panorama architettonico dell’area friulana e istriana, non fu certo di secondo piano. Si tratta dell’ingegnere militare francese Gabriel-Jean-Nicolas-Joseph Le Terrier de Manetot, capitano di cavalleria del Re di Francia, quindi anti-napoleonico (contrariamente a ciò che viene ripetuto di solito), incaricato dai fratelli Carlo e Girolamo Caiselli di redigere – oltre che un ambizioso progetto per la villa degli stessi Caiselli a Percoto (per la quale già nel 1799 invia da Capodistria una cinquantina di tavole contenenti, piante, prospetti e sagome per un imponente edificio a tre corpi raggruppati intorno a un cortile d’onore e con la presenza di un elaborato giardino, mai realizzato) - il progetto della facciata sulla strada e di quella interna sul cortile (quest’ultima non realizzata).

Si tratta, purtroppo, di un solo, anche se accuratissimo, disegno autografo, datato appunto 1799, da cui traspare un neoclassicismo essenziale, risolto in termini minimali ma con estremo equilibrio, quasi a voler rifiutare le trionfali scenografie degli edifici che un Percier o un Fontaine andavano realizzando nella Francia napoleonica. 11

Le Terrier appare forse influenzato da alcuni precedenti italiani, come le prime sistemazioni romane di Giuseppe Valadier o, in area lombarda, lo stesso Giuseppe Piermarini (progettista del Teatro Alla Scala di Milano), mentre quasi inesistenti, appaiono i rapporti con gli architetti contemporanei d’area locale.

Nel disegno si può contemplare la facciata del palazzo udinese, fedele ai dettami di allineamento e simmetria. Il prospetto si sviluppa longitudinalmente su tre livelli scanditi da un bugnato lineare al piano terra e da un’ampia fascia marcapiano al livello superiore. Vincolata ai limiti della preesistente configurazione, la soluzione della facciata è giocata sulla scansione di puri valori di superficie sottolineati dalla sequenza di aperture rettangolari, il cui ritmo longitudinale è bilanciato dalla modellatura lungo l’asse trasversale di un risalto centrale graduato. La facciata è impostata su due soli ordini - quello inferiore poco più di un massiccio basamento su cui si affaccia un solo portale centrale con ai lati finestrelle quadrate incorniciate in pietra, e quello superiore, gigante, con due ali laterali impostate su triple assi di due finestre sovrapposte. Il corpo mediano si presenta scandito da lesene ioniche che sorreggono il frontone secondo un effetto di rigorosa sobrietà, appena mitigata dalla scomparsa dei fregi graffiti e dipinti (a monocromo?) nelle specchiature e nel timpano: una sobrietà risolta con sicurezza ed eleganza ma tale da scongiurare ogni inutile accentuazione. La parte mediana, timpanata, è ripartita verticalmente da lesene ioniche tra le quali inserì al centro un’ampia e centinata finestra, due minori timpanate alle estremità. Probabilmente Le Terrier rese rettangolare il portone principale, prima a volta, com’è ancora quello sul cortile interno, mentre nelle fasce laterali arretrate lasciò inalterate le ali secentesche con finestre architravate. In tal modo il palazzo acquistò un certo slancio ascensionale nel corpo centrale. Una facciata, dunque, “alla moda” ma nel contempo legata alle istanze conservatrici del primo Neoclassicismo - soprattutto italiano - e dunque in piena sintonia con l’indole stessa dei committenti.

Agli inizi del secolo successivo, quando i lavori della facciata erano in corso, i Caiselli arrivarono un’ulteriore fase di acquisizioni, al fine di ampliare la parte retrostante del palazzo, con il probabile intento di destinarla a uso di servizi e scuderie. A questo proposito deve essere messo in relazione un secondo disegno “per la decorazione del cortile”, che Le Terrier eseguì per realizzare un nuovo “portico” in sostituzione dell’edificio, in realtà ancor oggi esistente a cavallo dei due cortili del palazzo. Si trattava di una loggia per chiudere la corte interna, a definizione di uno spazio dimensionalmente più equilibrato. Anche in questo caso il linguaggio dell’architetto sembra mantenere la sua connotazione conservatrice (evidente un “cinquecentismo” di eco romana, come palesano le paraste binate, il bugnato dell’ordine inferiore, le balaustre in rilievo delle finestre al primo piano). Tale intervento, anche se non venne realizzato, documenta tuttavia un aspetto interessante - e finora trascurato - dell’intero progetto. 12

Se mettiamo infatti in rapporto con alcune piante ottocentesche di Udine e con una sintetica planimetria del palazzo, eseguita da Le Terrier nel medesimo album (Archivio di Stato di Udine, Archivio Caiselli, cassetto 45), si comprende come in effetti tutto facesse parte di un vasto programma di sistemazione dell’area retrostante del palazzo, a quel tempo ancora completamente occupata da alcune case e cortiletti che l’architetto prevedeva di demolire, totalmente e definitivamente, per realizzare un secondo spazioso cortile. Tale progetto, come si vede nella planimetria, prevedeva anche sostanziali modifiche ai prospetti di alcuni edifici al fine di rendere entrambi i cortili più regolari e proporzionati tra loro. Perciò l’intervento di Le Terrier de Manetot, finora ritenuto un semplice lifting della facciata, in realtà aveva ben più vasta portata, fino a interessare l’intero complesso dei Caiselli – in pratica un intero isolato – così da rappresentare, anche a scala urbana, un episodio per molti aspetti precoce e non certo di secondaria importanza.

Una lapide per il fucilato Le Terrier il francese che ideò palazzo Caiselli di PAOLO FORAMITTI “Messaggero Veneto”, 01 novembre 2009

Una lapide posta nel cortile di palazzo Caiselli nel cuore di Udine ricorda che quest'edificio, oggi sede universitaria, fu progettato dall'architetto francese Jean Le Terrier de Manetot, ma pochi immaginerebbero che, due secoli fa come oggi, il progettista terminò la sua avventurosa vita a quarantaquattro anni, di fronte a un plotone di esecuzione. Jean-Gabriel Le Terrier signore di Montigny, Mennetot, Clermont ed Esquainville, questo il suo nome completo, fu infatti un emigré, ossia un nobile che nel 1792 abbandonò la Francia rivoluzionaria per combattere in favore della monarchia contro il proprio paese. Serví nelle cavalleria dell'Armée di Condé, fu ferito in battaglia e si ritirò dal servizio attivo trasferendosi nella Serenissima Repubblica di Venezia, dove si dedicò alla progettazione di alcuni palazzi, tra i quali quello udinese. Nel 1805, quando i francesi occuparono il Veneto e il Friuli, passò a Trieste e nell'Istria asburgica. Nel 1809 le truppe di Napoleone invasero anche questi territori e Le Terrier riprese le armi e guidò un'insurrezione di popolani istriani contro i francesi, in favore degli Asburgo. Nell'occasione assunse il nome di conte di Montechiaro. Nel mese di ottobre i soldati napoleonici repressero l'insurrezione e al termine di un ultimo scontro a Umago catturarono Le Terrier e lo incarcerarono, assieme ad altri otto insorti istriani, nel castello di San Giusto a Trieste. Il 31 ottobre i prigionieri furono giudicati da un tribunale militare, riconosciuti colpevoli di insurrezione armata e il giorno dopo vennero fucilati. L'abate triestino Giuseppe Mainati ci ha lasciato questa testimonianza sulla fine di Jean-Gabriel Le Terrier: «Sentita anch'egli la sua condanna, la sera innanzi non si scompose. Il rimanente della notte riposò tranquillamente; la mattina vegnente concentrato in sé stesso, e con sembiante ilare, attese l'ultimo momento del suo fatale destino. Ricevuto finalmente tutti a un colpo le palle di fucile in fronte e nel petto, caddero sul fatto a terra; ma il Montechiaro (Le Terrier), con sorpresa universale degli astanti, dopo ricevuto il colpo rimase genuflesso ritto e immobile, sinché una replicata salva lo fece cadere». Era il primo novembre 1809, dunque duecento anni fa, anche allora «ricorrendo la festa di tutt'i Santi».

Villa Grisoni a Daila (Istria), progettata da Le Terrier de Manetot

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Anche all’interno, in quegli stessi anni, il Palazzo subì diversi interventi, destinati soprattutto ad arricchire e rendere più à la page 3 il piano nobile. In una sala al primo piano vennero eseguite, nel 1802, dal quadraturista4 padovano Marino Urbani, grandi pitture parietali a tema architettonico, completate qualche anno dopo con piccoli ma vivaci inserti figurati dal veneziano Giambattista Canal, che dipinse anche il soffitto, caratterizzato da una grande scena centrale raffigurante Apollo che guida il carro del sole. I riquadri della volta a botte dello scalone principale, dipinto “a monocromo”, sono invece opera dell’abile “decoratore” udinese Giuseppe Del Negro, cui si deve anche la pittura dei cassettoni e delle cornici. Una volta portata a termine questa impegnativa fase di completamente, sia architettonico che decorativo, del loro palazzo, i Caiselli tornarono a pensare a come utilizzare l’area sul retro, acquistata nel 1802. Sappiamo che il progetto di Le Terrier non aveva avuto seguito (non si sa in base a quali motivi) e l’area era rimasta occupata dai vecchi e modesti edifici. L'esigenza di realizzare alcuni ambienti da destinarsi a servizi e scuderie spinse, alla metà del secolo, i Caiselli a riesaminare la vecchia idea di Le Terrier, cioè la creazione di un secondo ampio spiazzo sul quale realizzare i nuovi fabbricati. Per l’accesso a questo nuovo cortile si rendeva tuttavia necessario prevedere un’apposita entrata sul vicolo Florio, proprio di fronte al palazzo dell’omonima, nobile famiglia. Ne scaturiva un’evidente esigenza di decoro – in particolare della facciata col portale sul vicolo – e fu questo probabilmente il motivo per cui i Caiselli, quando decisero di dar via all’impresa, assegnarono l’intero progetto a uno degli architetti più in vista nella Udine di allora, Andrea Scala. Il suo progetto –di cui resta solo un disegno, datato 1852, del prospetto sul vicolo- venne realizzato, anche se con qualche semplificazione formale. Ciò che oggi si vede conferma le qualità dello Scala, in grado di stabilire un equilibrato rapporto fra architettura e decorazione, muovendosi attraverso citazioni del più colto neoclassicismo veneto, sapientemente aggiornate in chiave moderatamente eclettica.

Casa n. 912 | Disegno del 1852., A.S.U., C.A. II, 66/1852, 2803 Orn. II C, con dis., ( inchiostro su velina, 30 cm x 26 cm)

3 Alla moda, aggiornato (francese). 4 Quadraturismo: Genere pittorico decorativo diffuso nei secc. XVII e XVIII, consistente nel ricorso all'illusione prospettica nella rappresentazione di elementi architettonici. Quadraturista è un pPittore specializzato nella quadratura, cioè nella pittura murale a prospettive. 14

Nella seconda metà del1’Ottocento qualche altro intervento, ma esclusivamente di carattere decorativo, interessò il palazzo, come quello eseguito nella sala al primo piano d’angolo vicolo Caiselli. Le pitture sulle pareti furono realizzate dal pittore Ferdinando Simoni, un raffinato anche se attardato decoratore, mentre le due porte in radica, magistralmente intagliate, si devono ai fratelli Pascottini, intagliatori udinesi. A questi anni, o a quelli immediatamente successivi, appartengono alcune decorazioni parietali “a stampino” (cioè utilizzando una sottile lamina di metallo, cartone o gomma sagomata e traforata, per riprodurre un disegno su una superficie passandovi sopra il colore che, filtrando attraverso le traforature, si deposita sulla superficie da decorare), ma di ottimo gusto, recentemente individuate in alcuni vani dell’ala meridionale del palazzo.

Particolare della pianta di Udine dell’ing. Antonio Lavagnolo (1843-50) con la planimetria del Palazzo, che sorge di fianco alla Chiesa di S. Cristoforo (a destra, nell’immagine), mentre dall’altra parte è affiancato da Palazzo Florio, attuale sede del Rettorato dell’università di Udine. 15

L’immagine del palazzo ha subito rilevanti alterazioni alla fine degli anni ’50 del ‘900, quando, purtroppo, venne approvato il progetto che ha portato al totale snaturamento del primitivo carattere della facciata (che pure era stata vincolata) e le originarie aperture del piano terra. Dopo il 1955, nonostante che da quattro anni la facciata (e non si sa perché solo quella) fosse sottoposta alla tutela della locale Soprintendenza, Leonardo Caiselli, allora proprietario del palazzo, fede eseguire –ottenendo tutte le autorizzazioni necessarie!- i lavori di trasformazione della facciata e del fronte sul vicolo. Perciò è stato aperto, al pianterreno, dove prima si vedevano 8 finestrelle quadrate ingentilite da 800esche inferriate, un freddo e squadrato porticato (con pilastri in bugne lisce in pietra d’Aurisina5 e pesante architrave) con sporti destinati a ospitare banche e uffici, in modo da non accordarsi con il preesistente prospetto. Il conte affidò il progetto dall’ ing. Sergio Petz. Il tentativo del progettista di assegnare un qualche valore decorativo alla nuova soluzione, adottando un bugnato massiccio e squadrato, in realtà peggiorò la situazione, evidenziando l’intervento e appesantendo il nuovo loggiato. La modifica della facciata di Le Terrier – unico episodio stilisticamente omogeneo dell’intero complesso – costituisce ancor oggi l’alterazione più evidente a questa fabbrica prestigiosa, che proprio per il fatto di essersi formata nell’arco di quasi due secoli, attraverso accorpamenti e ampliamenti, accogliendo e conservando nel suo insieme stili e soluzioni riferibili a epoche e progettisti diversi, costituisce un documento singolare e prezioso per la storia e l’arte cittadina. Questi lavori sono terminati nel 1961. Scrisse nell’agosto 1965 il quotidiano “Messaggero Veneto”: “Venne realizzato come ognuno ha modo di constatare: una disastrosa manomissione di un fabbricato che, senza essere un capolavoro architettonico, era sempre uno dei non più numerosi rappresentanti della buona architettura della vecchia Udine”. Nel corso del Novecento molti palazzi udinesi hanno subito profonde trasformazioni e quasi sempre, a causa dei cambi di destinazione, sono state le parti interne – sale, saloni, scale - a essere le più compromesse. Diversa è stata la sorte che è toccata al nostro palazzo, dove le maggiori alterazioni hanno invece riguardato i prospetti esterni, mentre l’interno, almeno nelle parti più significative, si è sostanzialmente conservato. Lo scalone monumentale dell’ingresso originario, realizzato ai primi dell’Ottocento, perse completamente la sua primitiva funzione, e anche l’interno venne manomesso con tramezzi e diffuse imbiancature. In seguito fu modificata anche la facciata su Vicolo Caiselli con la creazione di una fascia inferiore in bugnato in pietra piasentina analoga a quella creata alla base della facciata principale. La famiglia Caiselli si ritirò ad abitare solo in una parte dell’edificio (l’ala settentrionale), mentre le altre stanze vennero abbandonate o affittate. Tutte le stanze furono intonacate di bianco coprendo così tutti i dipinti e i soffitti vennero controsoffittati.

5 Estratto dalle cave di pietra del Carso, il marmo di Aurisina Chiara è una pietra di calcare molto robusto, impiegata per i pavimenti e rivestimenti interni ed esterni, scale. 16

Dopo vari passaggi tra enti (negli anni ’60 venne ospitato l’allora costituito Centro Friulano di Arti Plastiche), i conti Caiselli, dopo aver venduto i negozi al piano terra, vendettero la restante parte all’Università di Udine. L’Ateneo di Udine ha perciò acquisito l’edificio in fasi successive tra il 1984 e l’89, ma per alcuni anni lo stabile rimase solo parzialmente usato, per poi avviare nel 1996 un progetto e nel 2001 il restauro, investendo per i lavori una somma di oltre 4 milioni di euro, dei quali 1 per il solo restauro, guidato dal prof. Pietro Ruschi, impiegando maestranze altamente specializzate (tra cui 8 restauratori diplomati presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze). Dopo un lungo lavoro di restauro preceduto da un’accurata analisi storico-artistica e da saggi strutturali, il palazzo – destinato ad ospitare il Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali - è stato inaugurato nell’ottobre 2005. L’intervento di restauro ha riguardato l’intero palazzo e ha avuto il fine prioritario di conservare tutti gli elementi architettonici e decorativi originari, molti dei quali sono stati ritrovati nel corso dei lavori, di provvedere alle opere di consolidamento necessarie per mettere in sicurezza l’intera struttura, di renderla interamente agibile adeguandola agli opportuni carichi di esercizio e, infine, di realizzare gli impianti, sia meccanici che elettrici, necessari per ospitare il Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali della Facoltà di Lettere e Filosofia. La composita e plurisecolare realizzazione del palazzo ha reso particolarmente complesse alcune operazioni, come, ad esempio, quelle relative alla messa a norma secondo le attuali esigenze di agibilità e sicurezza. Sotto il profilo strutturale si sono resi necessari interventi assai complessi: interventi di fondazione, consolidamento di alcune murature e di tutti i solai lignei, realizzazioni di travi rovesce in acciaio per sostenere le coperture sul lato di via Caiselli e consentire così la completa fruizione dei vani del sottotetto. Sul piano architettonico si è cercato di conservare l’intera stratificazione storica dell’edificio, limitandosi, oltre alla realizzazione di un nuovo e indispensabile gruppo scala e dell’ascensore, solo a rimuovere alcune manomissioni eseguite dopo la metà del secolo scorso con fini esclusivamente speculativi, sostituendole con la riproposizione, semplificata, del partito originario. Si è intervenuti ex novo, per ragioni di agibilità e decoro, nella pavimentazione (già in cemento) dei due cortili interni, proponendo un disegno moderno ma relazionato al palazzo e alla tradizione locale sotto il profilo formale e materico (ciottoli). Ha profondamente condizionato anche gli altri settori d’intervento l’apparato decorativo interno: il ritrovamento, sotto strati di imbiancature, di numerose e dimenticate pitture murali 700/800esche, ha comportato una lunga fase e delicata fase dei lavori, spesso di particolare complessità sia per la tecnica d’esecuzione (a secco) sia per la composizione delle soprastanti imbiancature (a calce). Non meno sorprendente il rinvenimento, sotto innumerevoli ridipinture e strati di sporco, di una preziosa decorazione policroma nelle metope dei solai lignei di due grandi vani al pian terreno, databile al Quattrocento. Destinazione d’uso dell’edificio - Il palazzo, che si sviluppa su tre piani, ospita uffici e laboratori. Al piano terra sono riuniti tutti i laboratori dei dipartimenti, finora sparsi in diversi edifici della città (fotografico, archeologico, informatico per la documentazione storico-artistica, di restauro dei manufatti storico-artistici, di restauro del libro, didattica per il cinema, la fototeca). Il 1° piano è stato suddiviso in 3 parti: quella monumentale, quella amministrativa (dove è collocata la sede del direttore del Dipartimento e la Segreteria), gli studi dei docenti. Il 2° piano è destinato in parte a vani tecnici e in parte utilizzato per gli studi dei docenti. 17

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Descrizione di Palazzo Caiselli

Esterno, facciata – Separato a sinistra dalla vicina chiesa di S. Cristoforo (iniziata a metà Trecento per essere poi ricostruita e ampliata alla fine del ‘400; il portale di Bernardino da Bissone è tipico esempio dei lavori dei lapicidi del primo ‘500), il palazzo – dall’aspetto severamente neoclassico - presenta una fronte suddivisa in tre piani per quanto riguarda l’altezza ed è tripartito anche in larghezza. Impostato su una griglia regolare, è quindi un esempio di ordine e simmetria, ideato secondo i criteri che guidano l’architettura d’età neoclassica (fine ‘700-inizi ‘800), epoca nella quale il palazzo venne ultimato, valorizzandone in tal modo l’impatto nello spazio urbano dello slargo antistante. Grazie a questi accorgimenti nobilitanti, l’edificio poteva dialogare con le emergenze architettoniche vicine (Palazzo Antonini e Palazzo Florio, in primis). Il pian terreno, un tempo continuo, è oggi ridotto a porticato alle due estremità, e queste aperture sono scandite da semplici piattabande (architravi poste sopra i vani aperti dei muri portanti). Un tempo le finestre quadrangolari (4 per parte) erano protette da robuste inferriate, mentre l’unica apertura era quella centrale, l’unica presente secondo l’assetto originario. Il primo piano è distinto da quello sottostante tramite una cornice in lieve aggetto: in questa fascia sono disposte ampie finestre, ornate specie nella parte centrale, mentre il piano superiore è direttamente collegato, visivamente, a quello nobile sottostante, come a voler creare un unico ordine; il tutto termina con la trabeazione superiore, un’ampia fascia chiara. Degna di nota, in questa rigorosa scansione, la parte centrale dell’edificio, che viene scandita da sei paraste (o lesene) di ordine ionico (l’ordine intermedio, meno robusto del dorico, più sobrio del corinzio; qui consono ad una struttura affacciata sul fronte stradale ma senza un ampio respiro); le paraste, poco aggettanti (sporgenti), costituiscono l’unico motivo di ornamentazione dell’insieme, sul piano del disegno architettonico. Le quattro centrali fiancheggiano l’apertura terminante ad arco (che dà luce al salone interno), e corrispondono al timpano superiore decorato con eleganti composizioni vegetali di tipo classico realizzate a marmorino, mentre le altre due segnano la divisione con le 20

ali laterali, decisamente più semplici, rinserrando le due finestre timpanate del settore centrale. Tutti gli elementi architettonici della facciata sono in pietra d’Aurisina.

Nel corso del recente restauro sono venute alla luce le sobrie decorazioni neoclassiche che ornavano gli spazi rettangolari fra le paraste della fascia centrale.

Il riflesso di questa decorazione neoclassica negli spazi interni è documentato dall’ ornamentazione dello scalone (decorato dall’udinese G. Del Negro), a unica rampa con volta a botte, e dalle sale decorate a finte architetture (ad opera del “quadraturista” – ossia pittore di architetture in prospettiva - padovano Martino Urbani, figlio del più famoso Andrea).

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L’epigrafe ricorda il nome dell’architetto francese che ha ristrutturato il palazzo e i nomi dei rettori dell’Università degli studi di Udine fino a Furio Honsell.

L’accesso ai piani superiori ora avviene dal fianco su Via Caiselli che costituisce il vero e proprio ingresso. L’insieme si sviluppa attorno a due corti in successione.

Nel primo cortile si trovava un tempo una vera da pozzo (data 1471), ora ai Civici Musei, ai quali è stata donata nel 1953.

Nella parete nord è infissa una palla da cannone e parte del monumento sepolcrale di C. Retinacius (duumviro), una lapide di epoca romana, segata, come si usava, per salvare solo l’epigrafe, qui trasportata da Zuglio nel corso del Settecento. La lastra in calcare con iscrizione è murata ad oltre 2 m. d'altezza. L'iscrizione presenta un elenco di nomi appartenenti alla stessa famiglia ed è stata voluta da Caius Retinacius, che ricoprì tale carica. Si data tra l'ultimo quarto del I sec. a.C. e il primo quarto del I sec. d.C. per la paleografia, l'onomastica e l'assenza del cognomen per uno dei defunti. Secondo il Liruti fu scoperta a Zuglio intorno al 1640 e portata a Udine nella casa dei conti Caiselli. Bibliografia: C.I.L. V 1841; F. MAINARDIS, Iulium Carnicum, Storia ed epigrafia, Trieste 2008, pp. 144-145 n. 4.6

L’interno del palazzo – E’ stato mantenuto, laddove si è potuto, il pavimento in cotto, a parte il piano nobile perché in pessime condizioni - non ha più la serie copiosa di quadri che ne decoravano le pareti, venduti un po’ alla volta ed ora sparsi in musei e collezioni private: questo è stato il destino delle nature morte di Paolo Paoletti, delle oreficerie, delle lapidi aquileiesi, ciononostante la dimora ha conservato la sua dignità, ribadita da un recente restauro. Di interventi innovativi sono stati fatti pochissimi, demolita una scala per ragioni statiche e realizzata un’altra, moderna, nella parte tergale (posteriore). Si è fatto ricorso a maestranze specializzate per realizzare la decorazione a marmorino (particolare tipo di intonaco che presenta le caratteristiche del marmo).

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Planimetrie di Palazzo Caiselli: piano terra e primo piano.

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ITINERARIO DI VISITA DURANTE LE GIORNATE FAI

Dallo Scalone del 2° cortile

Ettore

Anno di creazione 2015 Tecnica Legno dipinto, metallo e vetro Dimensioni h 217 cm Provenienza Dono di Caterina Basaldella, 2016 Ubicazione Palazzo Caiselli, Scala principale Autore Ennio Brandolini (Udine, 1948 – 2016)

Allievo di Dino Basaldella, Ennio Brandolini fa propria la lezione dello scultore udinese, da cui riprende lo studio dei rapporti fra le masse nello spazio e gli assemblaggi di frammenti sagomati e ricomposti, in questo caso non in ferro come per Dino, ma essenzialmente in legno. Artista assai schivo, Brandolini coltiva l’estro creativo nella sfera esclusivamente privata; presenta la sua prima personale solamente nel 2016 a Udine, dove espone anche l’Ettore. L’opera donata all’Università di Udine rivela il fascino condiviso con il suocero per il mondo della mitologia greca, a cui Brandolini attinge recuperando la figura dell’eroe omerico. L’ampia struttura superiore rende l’idea di una robusta armatura che poggia su di un sostegno lungo e sottile, soluzione che presenta delle similitudini con i Ferri di Dino degli anni Sessanta, come Piccolo motivo (1963) e Personaggio (1967). Sostanziali differenze vertono soprattutto sulla maggiore caratterizzazione antropomorfa della statua e sulla scelta dei materiali e il loro trattamento, ovvero il legno dipinto, le cui superfici appaiono attentamente levigate, e le integrazioni polimateriche, quali il metallo, di cui sono fatte le due corna ricurve della testa, che ricorda vagamente la forma di un elmo primitivo, e le biglie di vetro colorato in luogo degli occhi. Saliti al piano nobile, ci si dirige a sinistra. 25

SALA DEL VELARIO L’ambiente è caratterizzato dal soffitto a ricamo, con una decorazione ottocentesca simulante un velo trasparente che fa intravedere, al centro, una coppia di amorini che si librano in cielo. Alle estremità, specialmente negli angoli, il velo si adagia su eleganti mazzi di fiori.

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STANZA A FINTA SERRA E PROSPETTIVE Si tratta di un saloncino di passaggio affrescato a motivi ornamentali (fiorami), accanto alla sala con architetture dipinte. la “stanza serra” di gusto settecentesco con una finta cupola di vetro dipinta sul soffitto e sgargianti fiori con corolle rosee alle pareti. Ricoperta dall’intonaco, la decorazione è venuta alla luce durante gli ultimi restauri.

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SALA DELLE ARCHITETTURE DIPINTE E DELLE ROVINE

Dal saloncino a finta serra si accede a una stanza, che si affaccia su Piazza S. Cristoforo, completamente affrescata (1802) nel soffitto e nelle pareti dal pittore padovano Marino Urbani (1764-1853), figlio di Andrea. Marino eseguì anche le quadrature nella villa dei Caiselli a Cortello di Pavia di Udine.

Nelle pareti, entro rigorose cornici a stucco, sono affrescate ora solenni architetture con classici colonnati abilmente scorciati per creare l’impressione di profonde ariosità spaziali o architetture di fantasia in romantici paesaggi. In riquadri sopra le porte, amorini in volo, dipinti a monocromo, sorreggono degli stemmi. Un’ampia cornice con motivo a greca e ovoli crea il raccordo tra pareti e soffitto spartito secondo uno schema geometrico in esagoni con rosoncino al centro che in numero di 4 si saldano al grande esagono centrale, completato qualche anno dopo, dove Apollo tra le nubi guida il cocchio trainato da cavalli bianchi (opera del veneziano Giambattista Canal). Apollo, al centro del soffitto, siede sul Carro del Sole trainato da cavalli bianchi, incoronato da una delle Ore e con putti alati che tengono la cetra (simbolo del dio).

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Sala delle vedute; a sx scorcio di un foro all’antica con arco trionfale, colonna istoriata e scalinata; a dx veduta prospettica con rovine e tempio classico d’ordine corinzio a pianta centrale con cupola semidiroccata, il tutto inserito un ambiente naturale ispirato al gusto “rovinistico”. 31

Le grandi pitture parietali sono state eseguite nel 1802 dal “quadraturista” padovano Marino Urbani (figlio di Andrea) e sul soffitto è intervenuto G.B. Canal.

Marino Urbani, Veduta prospettica angolare; sotto: ID., Veduta architettonica con edificio classici e porticati d’ordine dorico, prospettiva angolare e con edifici classici disposti a più livelli, collegati da ampie scalinate – edifici in ordine corinzio.

Scrive De Feo a proposito degli affreschi sulle pareti : “Le figurette vestite all’’antica che animano i tre riquadri raffiguranti solenni architetture con classici colonnati e di fantasia inserite in romantici paesaggi, evidentemente eseguiti circa tre anni dopo gli sfondi datati 1802. Anche se di dimensioni ridotte, questi personaggi, sia per tipologia che per tocco, si riconoscono chiaramente di mano canaliana e non dell’Urbani, che non li dovette aver previsti anche perchè non risultano contornati dal chiodo, espediente operato invece per il resto delle composizioni, ma sovrapposti alle ambientazioni”. 32

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LA DECORAZIONE NEOCLASSICA IN FRIULI

Nella seconda metà del Settecento, con la nascita dello stile neoclassico (ossia di quell’arte che fece dell’austerità, della sobrietà e dell’eleganza di derivazione classica e dell’amore per l’antichità il suo obiettivo), nel Friuli tradizionalista si continuava a riproporre un repertorio decorativo ancora legato al gusto rococò e alla lezione di Giambattista Tiepolo. Sia nelle dimore di villa in campagna che nei palazzi cittadini l’aristocrazia e la ricca borghesia volevano dimostrare, grazie all’arte, il ruolo economico e sociale raggiunto e perciò fecero delle loro abitazioni preziosi contenitori di opere d’arte, mobili (quadri, sculture…) e stabili (affreschi). Le ampie decorazioni parietali che ancor oggi restano a testimonianza di questi fasti aumentavano l’interesse per queste sedi dove era obbligo esibire ricchezza e cultura dei proprietari. Molte famiglie nobili chiamarono perciò artisti locali o, se potevano, anche “foresti” (stranieri, di fuori, in veneto) per ornare le pareti delle loro abitazioni con ariose scenografie architettoniche o paesaggi con rovine popolate da figurine senza precisa identità; il tutto arricchito da elementi fitomorfi, strumenti musicali, cammei, medaglie, animali, anfore o incensieri con rilievi classici. Tali artisti crearono così divertenti composizioni, in cui antiche rovine e palazzi fanno bella mostra di sé con l’aiuto di intrecci vegetali. Gli antichi edifici divengono scenari, quali quinte teatrali, in cui ambientare scene agresti o passeggiate. Questo prontuario decorativo ebbe rapida diffusione: tutti proposero situazioni gradite alla committenza, desiderosa di affacciarsi su paesaggi e scorci urbani comodamente dal salotto della propria residenza. Nacque perciò un decoro parietale che, derivato dai capricci (opere d’arte che mescolavano realtà e finzione) di gusto rovinistico (lacerti del passato come segno del trascorrere del tempo e della grandezza del passato), si arricchì con la sensibilità dell’epoca. La buona preparazione accademica di quei pittori, la loro specializzazione in materie quali l’ornato e la scenografia, e la consultazione di volumi sul tema della decorazione delle residenze nobiliari fornirono gli strumenti necessari per mettere in atto vere e proprie meraviglie dell’inganno prospettico, come fecero, nel caso di Palazzo Caiselli, il padovano Marino Urbani e il veneziano Giambattista Canal. Il pittore Andrea Urbani era stato il caposcuola di uno stile che al virtuosismo delle quadrature ancora settecentesche e graziose finzioni sceniche ancora barocche unì paesaggi già proiettati verso soluzioni neoclassiche. Suo figlio Marino ne raccoglie l’eredità, incentrata su quadrature aperte verso cieli e fitta vegetazione, che alleggerisce con architetture rovinistiche di fantasia ma ancora legate alla cultura del capriccio propria dell’epoca 700esca ormai trascorsa (l’impianto “capriccioso” è dunque fuori tempo massimo). Ciò si riscontra in palazzo Caiselli, decorato in contemporanea con il ciclo della villa a Cortello e affrescato dall’Urbani insieme al Canal. Ne derivò così una pittura elegante e solenne, che si poggia su classiche vedute pervase da un’irreale tranquillità, severe costruzioni architettoniche che evocano l’antica Roma, sulla scia delle vedute del veneto G.B. Piranesi (che magnificò nelle sue incisioni la grandezza dei monumenti romani) e del cividalese Chiarottini. Quindi l’esperienza piranesiana e la cultura teatrale si unirono ai motivi decorativi tratti dal formulario “rocaille” (conchiglia, da cui il termine rococò, con cui è definito lo stile ricercato e grazioso del primo ‘700). Le citazioni archeologiche erano poi richieste dalla committenza, e ne nacque una moda, orientata verso una sempre maggiore semplicità compositiva. Canal, in particolare, che affrescò Palazzo Valvason Morpurgo tramutando in pittura le più celebri opere dello scultore Canova, fu un instancabile pennello, tanto da essere considerato l’ultimo dei “fa presto”, per le quadrature architettoniche si avvalse in molti casi proprio di Marino Urbani (o del Borsato). 34

SALONE D’ONORE

Il salone centrale (oggi destinato a particolari occasioni: conferenze, prolusioni, celebrazioni) non presenta grandi dimensioni ma è arricchito da una bella balaustra in legno laccato di bianco (con mascheroni scolpiti nelle mensole), sotto a cui corre una sovraccarica fascia monocroma affrescata sempre da Giuseppe Del Negro, stemmi e stucchi sopra le quattro porte. Carlo Caiselli avviò, probabilmente intorno alla metà del ‘700, una diffusa opera di modifiche interne, il cui fine più evidente era quello di ammodernare in stile rococò il salone da ballo al primo piano, nella cui volta venne collocata la grande tela del Tiepolo. Tutta la volta “a schifo”6 del salone presenta infatti all’intradosso7 una complessa decorazione a stucco, dipinta con pallide tonalità di verdi e di rosa e articolata sul motivo della cornice polilobata centrale che accoglie la tela: dipinto e architettura appartengono a uno stessa idea progettuale.

6 La volta a schifo è un tipo di copertura curva utilizzata in architettura. Può essere chiamata anche volta a specchio o a gavetta. La tipica volta a schifo viene ottenuta sezionando una volta a padiglione con un piano orizzontale al di sopra del piano d'imposta (quello che divide i sostegni dalla volta vera e propria). Per la sua caratteristica di avere un piano orizzontale, in genere, la volta a schifo non è portante, cioè non è in grado di sostenere un solaio. In questo caso si parla di falsa volta, che veniva spesso realizzata in camera a canne, oppure con tavelline poste di taglio e intonacate all'intradosso. Altre volte, invece, ha una struttura portante in cui il solaio, costituito anche da tavole incrociate di legno, è sorretto dalle unghie della volta a padiglione sezionata. La volta a schifo è stata spesso realizzata per fare da supporto ad affreschi e decorazioni.

7 La superficie di una volta o di un arco, che appare in vista all’interno della volta o dell’arco stesso. 35

Di tale intervento, che si estese all'adiacente scalone principale e, parzialmente, interessò anche altre parti del palazzo, non sembra tuttavia esser rimasto alcun riscontro documentario.

La coppia di stemmi, tra cui quelli Caiselli-Brandolini, che subito si presenta agli occhi del visitatore in atto di entrare nel palazzo dallo scalone principale, suggerisce l'impianto della sala: enfatizzare l'ascesa del casato, avvenuta grazie a sapienti politiche matrimoniali. Fu per il patto più importante, quello con i Brandolini, che il conte Carlo Caiselli decise di ripensare il salone e di commissionare al Tiepolo La nobiltà e la virtù che trionfano sull'ignoranza, un'allegoria del dibattito vivo in città in quegli anni, lo stesso che porterà al Consilium in arena, sempre del Tiepolo. Ma il conte non ebbe un unico contatto con Giambattista, prova ne sono il dipinto Le tentazioni di Sant'Antonio, oggi esposto alla Pinacoteca di Brera, e una stanza interamente affrescata dall'artista di cui parlò de Rubeis. Sotto, a dx, stemma Caiselli. 36

Sotto: decorazioni di gusto seicentesco nei vani inferiori prossimi alle finestre.

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G.B. Tiepolo, Le tentazioni di S. Antonio, oggi a Brera (Milano), un tempo in Palazzo Caiselli

Non ci sono più le 4 statue lignee simboleggianti le Stagioni, poste su ampi piedistalli bombati agli angoli del salone e soprattutto manca il dipinto del Tiepolo che, incorniciato da un prezioso motivo a stucchi che crea una cornice centrale mistilinea, faceva bella mostra di sé sul soffitto. Oggi è proprietà dei Civici Musei, cui venne consegnato nel 1935. Esso è stato al centro di un episodio singolare, conclusosi con il sequestro del quadro che il conte Franco Caiselli – scomparso l’attaccamento alle “gioie di famiglia” - aveva tentato di esportare clandestinamente nel 1929 (dopo un precedente tentativo, 6 anni prima, andato a vuoto). Caiselli fu difeso dall’avvocato Tiziano Tessitori, che rievocò la vicenda in una gustosa memoria presentata il 12 dicembre 1970 all’Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Udine. Il Tribunale, nonostante gli ingegnosi sofismi dell’avvocato confiscò il dipinto e lo destinò alla Pinacoteca Civica che da allora lo espone in Castello. Si auspica però la ricollocazione in situ della grande tela, in quanto la sala appare spoglia di uno dei suoi elementi storicamente più rappresentativi. Il quadro era il 2° dei due che Tiepolo eseguì per la famiglia udinese (il 1°, Le tentazioni di S. Antonio, oggi è a Brera, ma fu venduto dal padre di Franco, Carlo, e inserita nel mercato antiquario; riapparsa nella mostra del Settecento italiano a Venezia donato dal collezionista viennese Lederer nel 1929). 39

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Sopra: La Nobiltà e la Virtù trionfano sull’Ignoranza, già in Palazzo Caiselli, ora nella Sala della Pinacoteca del Castello dedicata ai dipinti di G.B. Tiepolo. 41

Viene a questo punto inserita la scheda, redatta da Giuseppe Bergamini, inserita nell’ampio catalogo del Museo, uscito per i tipi di Terraferma.

132. La Virtù e la Nobiltà trionfano sull’Ignoranza Inv. 298 Olio su tela, 479x251 cm Provenienza: deposito della Sovrintendenza di Udine, 1935. tempo di venderla a Milano ma fu bloccato dalla Soprintendenza. Il dipinto proviene dal palazzo Caiselli di Udine: era Cercò allora di esportarla e fu solo per un fortunato collocato – quantomeno alla metà del secolo scorso caso che le autorità doganali riuscirono a sequestrarla e – entro una cornice a stucco nel soffitto del salone al a trasferirla a Venezia, da dove passò nel 1935 in piano nobile. Non esiste documentazione sull’opera, deposito al Museo di Udine (TESSITORI stranamente ignorata dalle fonti settecentesche, 1971). La copia invece, attraverso il mercato dalle Guide udinesi fino alla metà dell’Ottocento (di antiquario, è finita nelle mani di un collezionista Maniago, Rota) e anche dal repertorio di opere d’arte americano e nel 1988 si è tentato, senza successo, di del Friuli steso dal Cavalcaselle nel 1876 e integrato farla passare per originale. Il dipinto udinese raffigura in seguito dall’udinese Valentinis. Del pari un tema allegorico più volte trattato dal Tiepolo ignorato è il dipinto con Le tentazioni di sant’Antonio, secondo schemi puntualmente derivati dall’Iconologia oggi al Brera, pure proveniente dal palazzo Caiselli. del perugino Cesare Ripa: entro un ovale con Che il Tiepolo abbia lavorato per i Caiselli pare cornice mistilinea nell’azzurro luminoso del cielo tuttavia cosa certa: lo ricorda il de Rubeis, affermando percorso da soffici nubi, campeggiano al centro due che la casa dei Conti Caiselli nel Borgo di figure femminili simboleggianti la Virtù e la Nobiltà San Cristoforo «tiene una camera tutta dipinta dalla che trionfano sull’Ignoranza; in alto vola la Fama prima maniera di Gio:Batta Tiepoletto» (DE RUBEIS suonando una tromba, mentre in basso, sopra in CORGNALI, 1938, a. XVI, n. 6, p. 13). Si può l’Ignoranza, che si copre il volto con la mano, un azzardare l’ipotesi che quando agli inizi dell’Ottocento putto alato tiene legato a sé un pipistrello con la si procedette a un radicale rifacimento dell’edificio cordicella. (nel 1803 Marino Urbani dipinse una stanza Altri studiosi hanno titolato il quadro La al primo piano e nel 1804 l’architetto francese Le Nobiltà e la Forza (La Fortezza e la Sapienza) Terrier di Manetot fu incaricato di redigere il progetto trionfano sull’invidia (o sulla Perfidia). Dell’opera si per la nuova facciata) le pitture murali del Tiepolo conserva nel Museo Poldi Pezzoli di Milano il bozzetto siano andate perse e si sia salvata la tela che ornava – recante però la sola parte centrale – e già messo in il soffitto. Secondo una tradizione di famiglia, relazione con il dipinto udinese dal Frimmel ma da scrive il von Frimmel «il quadro sarebbe stato dipinto altri studiosi ritenuto piuttosto preparatorio per la in una delle stanze del pianterreno. Non esistono tela di analogo soggetto che decorava il soffitto di documenti relativi al dipinto, ma si sa che alcuni palazzo Barbarigo a Venezia, ora conservato a Ca’ anni fa ancora esistevano. I collegamenti però con la Rezzonico. Quest’ultimo risale agli anni 1744-1745 famiglia Tiepolo sono documentati da una lettera e ciò porta a credere che intorno a quel lasso di tempo conservata nell’archivio di famiglia che io stesso ho sia stato eseguito anche il soffitto udinese, potuto leggere» (FRIMMEL 1909, p. 28). Secondo praticamente identico nella parte centrale per Ganzer il dipinto entrò a far parte del patrimonio iconografia e per stile, anche se Pallucchini lo ritiene della famiglia Caiselli dopo il 1836, giacché un inedito «un po’ più primitivo» (1968, p. 107). Per quanto inventario steso da Fabio di Maniago in tale riguarda il bozzetto, poi, è ragionevole ritenerlo anno, pur descrivendo minuziosamente la quadreria, preparatorio per entrambi i lavori. Il Rizzi lo considera non cita la Fortezza e la Sapienza. L’opera venne un prototipo e lo vede quindi precedere sia il soffitto di resa nota alla fine dell’Ottocento, segnalata da Alvise Villa Cordellina a Montecchio Maggiore (1743-1744) Zorzi in un articolo del 1897, sull’onda dell’interesse dove è raffigurato a fresco un simile soggetto per l’opera del Tiepolo suscitato dalla mostra (Trionfo della Virtù e della Nobiltà sull’Ignoranza) sia dedicata da Venezia al pittore nel precedente anno. il soffitto ora a Ca’ Rezzonico, proponendo quindi Pubblicata come opera autografa del Tiepolo dal una datazione fra il 1740 e il 1743, generalmente Frimmel e dal Molmenti nel 1909, fu negli anni accettata dalla recente critica (con preferenza per il seguenti al centro di movimentate vicende giudiziarie. 1743 da parte di Gemin e Pedrocco). In precedenza Il proprietario, dopo averne fatta fare una copia a era stato anche datato al 1738 (FRIMMEL) o al Venezia dal pittore Marzio Moro, tentò in primo 1726-1733 (SOMEDA DE MARCO). g.b.

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Lo SCALONE MONUMENTALE, con un’unica rampa - dalla volta a botte - che dal pianterreno dà accesso al piano nobile, è ampio e fastoso, un tempo era arricchito da 4 statue, poste in altrettante nicchie e poi scomparse. E’ rimasta la decorazione nella volta dei pianerottoli e dello scalone, effettuata da Giuseppe Del Negro, pittore udinese assai sfortunato, morto d’inedia a Torino.

Si specializzò come pittore ornatista e prospettico in una serie di dipinti a olio ma soprattutto, sulla scia dei decoratori 8000eschi friulani Mattioni e Pontoni, negli affreschi per alcuni tra i più noti palazzi di Udine (es. Antivari Kechler), tra cui quello dei Caiselli. Dipinse inoltre l’atrio del Teatro Sociale di Udine, inaugurato nel 1853, tempio dei riti mondani della nobiltà cittadina, ora perduto. Nonostante tali imprese non ottenne riconoscimenti di sorta nella città d’origine né altrove.

L’artista seppe creare effetti plastico-prospettici nelle monocrome decorazioni della volta a botte cassettonata con roselline, girali, motivi geometrici e fitozoomorfici e nelle 3 “grisailles” (dipinti a monocromo sui toni del grigio) ha dato misura delle sue capacità tecniche.

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Particolare con gruppo di putti musicanti e lunetta con grifoni araldicamente affrontati e candelabro monumentale al centro.

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SALA DEI PUTTI

In un’altra stanza al piano nobile, trapezoidale, sull’angolo della Piazza S. Cristoforo con Vicolo Caiselli, sono conservati dipinti sul soffitto (con motivi decorativi dai colori delicati, con girali, putti, uccelletti e fiori; ai 4 angoli grottesche con mascheroni e sfingi su toni più forti e vivaci mazzi di fiori); le pareti – un tempo dipinte dal pittore 800esco Ferdinando Simoni (1876ca.) con paesaggi e monumenti cittadini - sono state imbiancate e riportate alla luce dopo i recenti restauri. Di tale lavoro, lodato dalla critica, resta il soffitto, con un ovale inscritto e diviso in settori, dai colori chiari e finemente ornato con fiori, uccelli e putti. Ricordato come raffinato pittore e paesaggista, fu molto attivo, specie tra gli anni ’60 e ’80 dell’Ottocento, in ambiente udinese. Ornò a fresco diversi edifici cittadini, come la sala di ricevimento del Sindaco nell’antico Municipio, i palazzi Buiatti, Antivari-Kechl (qui fu attivo insieme ai pittori Del Negro, Turk e Stella), Sacchia, Filittini-Caimo-Dragoni e Caiselli. Fu attivo inoltre nella decorazione del Teatro Sociale di Udine, progettato da Andrea Scala verso la metà dell’Ottocento, per cui dipinse il caffè e i palchi del secondo piano. Realizzò pure gli ornati nella Chiesa delle Grazie. Si distinse anche per la sua generosa opera di insegnante alla Scuola di Disegno della Società Operaia, sin dalla fondazione avvenuta alla fine degli anni ’60. Non fu attivo solo in ambito friulano, poiché fu chiamato a decorare il Palazzo Michieli di Venezia, ricevendo poi numerose commissioni purtroppo non chiarite dalle fonti.

Affresco con sovrapposta decorazione (di tipo floreale) di colore bianco, a mo’ di vele o, al centro coppia di Amorini su campo azzurro, composizioni floreali ai lati.

Ferdinando Simoni, Sala dei Putti con decorazioni fitomorfe e nei pennacchi angolari composizioni di fiori

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Emergono solo due splendide porte in radica, con stipiti lignei lavorati dai fratelli Pascottini, artigiani finissimi.

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Purtroppo, nella stessa sala, sono andati persi gli affreschi che un tempo decoravano le pareti.

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SALA DELLA MUSICA O DEGLI STRUMENTI MUSICALI

E’ detta “Sala della Musica” poiché sono rappresentati strumenti musicali. Il tutto appare molto elegante e raffinato, sulla base di un colore rosato steso in modo delicato.

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Soffitto della Sala della Musica, con vari strumenti musicali a corda (arpa, cetra, viola trombe ecc.), colore bianco-rosa dominante di fondo, decorazione a stucco con girali d’acanto.

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SALA CON TRAVI DIPINTE

Questa sala a cantinelle (tipica decorazione a motivi fitomorfi con le parti quadrangolari dipinte in cui è suddiviso il soffitto, inserite ciascuna entro una cornice) richiama modelli decorativi più antichi (come quelli, ancor più pregevoli, che si vedono in un’altra ala del palazzo). Qui emerge, nelle travi che collegano le pareti, il motivo a greca e quello a Can corrente o Onda continua: si tratta di una decorazione intagliata in genere su superfici rettilinee, che consiste in una serie di piatte onde di profilo, terminanti in riccioli, che si susseguono in serie continua. Può cambiare direzione al centro.

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FUMOIR ORIENTALE

E’ stata ritrovata una stanzetta – che richiama il gusto settecentesco - decorata con cineserie (un tempo con parti in oro zecchino), con decorazioni di gusto orientaleggiante: un fumoir per gli uomini, oltre ad altri dipinti nascosti dai controsoffitti. E’ stata dipinta negli anni successivi alla realizzazione della facciata del palazzo ad opera di Le Terrier.

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SALA DELLE CORNUCOPIE

Prende il nome dalle cornucopie (letteralmente "corno dell'abbondanza", dal latino cornu, "corno" e copia, "abbondanza", è un simbolo mitologico di cibo e abbondanza) che ornano la fascia orizzontale superiore delle pareti. Il colore di fondo è un avorio-verdino, tenue, molto leggero e arioso. Sul soffitto i tondi vengono inseriti entro riquadrature a losanga che fiancheggiano l’ornamentazione floreale al centro.

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SALA DEI DRAPPEGGI

Il vano viene anche definito stanza blu: la redazione parietale, databile all’Ottocento, presenta un paramento a strisce di stoffa dipinta con pennacchi e decorazioni floreali blu. Sul soffitto scene di amorini e agli angoli figurine di donna, a mo’ di grottesche (forse fu una camera da letto).

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ULTIME SALE

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SALA DEL LAMPADARIO

Sala del Lampadario, con opere d’arte contemporanee

LA COLLEZIONE DI ARTE CONTEMPORANEA A PALAZZO CAISELLI A cura del prof. Alessandro Del Puppo

Il lavoro di rilevamento e schedatura delle singole opere è stato realizzato da Matteo Colovatti, studente della Scuola di specializzazione in Beni storico-artistici dell'Ateneo udinese che, poche settimane fa, ha ottenuto il diploma di specializzazione discutendo la tesi proprio sulla collezione. Le schede raccolgono le informazioni tecniche (autore, datazione, tecnica esecutiva, dimensioni, collocazione), accompagnate da un breve testo di inquadramento storico-critico e dalla relativa bibliografia. Le acquisizioni Il primo nucleo di opere d’arte ha avuto come primo proprietario il “Consorzio Universitario del Friuli”, istituito nel 1967 su iniziativa di enti locali pubblici e privati con il proposito di promuovere iniziative di sviluppo sociale, economico e culturale per il territorio, fino al suo scioglimento avvenuto nel maggio del 2014. Intorno al 1980 il Consorzio acquista sedici dipinti e sculture di Sergio Altieri, Guido Antoni, Gianni Borta, Luciano Ceschia, Mario Dall’Aglio, Orietta De Filippis, Pietro Galliussi, Luigi Iod, Albino Lucatello, Giorgio Marangone, Giordano Merlo, Elio Lucio Modesto, Paolo Paolini, Fred Pittino, Guido Tavagnacco e Ivanoe Zavagno. La scelta degli artisti, quasi tutti friulani di origine, sembra coerente con il sostegno del Consorzio universitario alle forze culturali locali, non ultima la volontà di dotare l’Ateneo udinese di una collezione d’arte come già avvenuto presso le università di Trieste e di Padova. Queste opere sono attualmente in deposito presso l'Ateneo, ma di proprietà del Comune di Udine e della Provincia di Udine. A queste opere si aggiunge una serie di donazioni e acquisizioni compiute a favore dell'Ateneo in diversi momenti degli anni Novanta di dipinti e sculture realizzati da numerosi artisti locali. Fra il 1997 e il 1998, inoltre, entrano a far parte della collezione quattro mosaici progettati da Carlo Ciussi e Nane Zavano, realizzati dagli allievi della Scuola Mosaicisti del Friuli di Spilimbergo all'interno della Sala mensa Erdisu di via Cotonificio, nella periferia di Udine. 62

L’inizio del nuovo secolo vede l’acquisizione della Tenda della pace (2002) di Toni Zanussi, che trova posto in uno dei corridoi del piano terra della Sede Rizzi in via delle Scienze. Pochi anni dopo, in occasione dei festeggiamenti avvenuti nel 2008 per i trent’anni di attività dell’Ateneo dalla fondazione, l’appello lanciato ai maggiori artisti contemporanei della Regione affinché donassero un’opera all’Università da destinare a un percorso espositivo permanente trova immediato accoglimento. Gli artisti partecipanti vantano riconoscimenti a livello nazionale ed internazionale, con una posizione stabile ormai da decenni presso la storiografia contemporanea. Nel 2013 Anna e Valentino Turchetto, gli storici proprietari della Galleria d’Arte Plurima di Udine, hanno donato un gruppo di otto opere: Dittico n. 4 (1991) di Bruno Aita, Senza titolo (2006) di Alessandra Lazzaris, tre collage su cartone (1983-84) di Teodosio Magnoni, Tempo liberato (1974) di Gottardo Ortelli, Dittico (1977) di Pope Galli, Vedere il tempo (2002) di Guido Sartorelli. Oltre alle opere d’arte, i Turchetto hanno donato all'Ateneo anche un certo numero di depliant, libri d’arte e cataloghi di mostre raccolti nel Fondo Plurima e consultabili presso la sezione Fondi Speciali della biblioteca in Palazzo Antonini-Cernazai. Due anni dopo avviene una nuova acquisizione: il lascito di Iolanda Cernigoi, moglie del pittore friulano Aldo Giobatta Foschiatti. Il lascito Cernigoi conta cinque dipinti, Omaggio a Tomea (1938), Natura morta con cesto di mele (1940), Natura morta con libro, conchiglia e portacandele (1944), Paesaggio con covoni (1951), Gondole sotto il ponte (1959), e diciassette cartelle contenenti disegni e incisioni dello stesso artista, tuttora in fase di inventariazione e catalogazione. Nel 2016, Caterina Basaldella, figlia dello scultore Dino Basaldella, dona all’ateneo un grande bozzetto a tempera su tavola, Cancello (1969-1970), opera del padre, e la scultura Ettore (2015), realizzata dal marito Ennio Brandolini, in gioventù assistente di Dino, che ha voluto lasciare all’Università poco prima di morire. Questa donazione è il coronamento di una lunga collaborazione incentrata sullo studio dell’opera di Dino, iniziata con la mostra “Scultura in Friuli Venezia Giulia. Figure del Novecento” e proseguita con un convegno di studi in occasione del centenario della nascita dell’artista. Contemporaneamente, il pittore Nata mette a disposizione dell’ateneo in comodato d'uso sette tele appartenenti al ciclo Nero a colori realizzato tra il 2001 e il 2007; le opere sono state collocate nel Salone del Rettorato a palazzo Florio, offrendo un coraggioso esempio di contrasto fra la decorazione ottocentesca degli interni e la pittura astratta.

Le mostre d’arte contemporanea a palazzo Caiselli Oltre a essere sede del DIUM e fungere da contenitore di una parte della collezione, palazzo Caiselli in vicolo Florio si è prestato a ospitare, in modo creativo, una serie di mostre d’arte contemporanea promosse dal Dipartimento insieme alla Fondazione Ado Furlan di Spilimbergo.

DI SEGUITO ALCUNE DELLE OPERE ESPOSTE

Cancello

Anno di creazione 1970 Tecnica Tempera su tavola Dimensioni 220x190 cm Provenienza Dono di Caterina Basaldella, 2016 Ubicazione Palazzo Caiselli, Sala del Lampadario Autore Dino Basaldella (Udine, 1909 – Udine, 1977)

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L’opera (1969-70) è un bozzetto a tempera in scala 1:1 di un cancello in ferro realizzato per una casa a Romans d’Isonzo, con poche differenze rispetto al risultato finale. Dino Basaldella delinea il cancello con dovizia di particolari, prestando attenzione alla resa degli effetti chiaroscurali del metallo, che risaltano sul colore ocra dello sfondo. Giunto quasi al termine della sua carriera, Dino è ormai radicalmente lontano dall’arcaismo legato al ritorno all’ordine degli anni Trenta, che vede il personale interesse per la scultura etrusca e le “forme alessandrine”. Allo stesso tempo si discosta anche dai Ferri che, a partire dal 1959, costruisce assemblando pezzi di recupero, creando composizioni austere, essenziali nella loro impostazione primitiva con vaghi echi cubisti, in una sorta di totem intitolati a figure storiche ed antiche divinità, come Spartaco e Orecchio di Dioniso (1963). In queste sculture l’artista gioca sull’arditezza delle parti montate in bilico nello spazio su esili strutture. Le superfici spesso presentano un aspetto abraso, ricco di incrostazioni di ruggine. I cancelli, invece, manifestano la nuova tendenza di Dino ad un decorativismo “barbarico”, evidente soprattutto nella coeva produzione orafa, in particolare in bracciali d’oro, con o senza inserti colorati. La realizzazione di gioielli, i cui rudimenti Dino apprende presso la bottega dello zio orafo Remo, emigrato in Argentina nel 1927, ne rivela l’abile perizia artigiana e segue puntualmente le evoluzioni stilistiche ed espressive dell’artista attraverso tutta la sua vita. Il cancello di Romans, come altri che l’artista realizza all’inizio degli anni Settanta, conservati in edifici privati in Friuli e altrove, fra cui si annoverano anche dei pannelli bronzei, come quello presente nella Banca Nazionale del Lavoro a Milano, presenta una struttura leggera a traforo, composta da forme allungate a elle e a stampella. Si tratta di una produzione accostabile alle opere del fratello Mirko inquadrabili nell’ambito del ritorno al mito da lui compiuto negli anni Quaranta, culminato nella realizzazione della celebre Cancellata d’ingresso del Mausoleo delle Fosse Ardeatine di Roma (1950-51). L’intreccio della Cancellata appare fitto come una ragnatela, con elementi che si avvinghiano in tragici abbracci su diversi livelli di profondità e si intersecano in violenti attraversamenti di curve; l’opera ben evidenzia il trauma della Seconda Guerra Mondiale. I cancelli di Dino, invece, seguono un andamento più regolare e controllato, le cui forme si agganciano l’una all’altra creando dei vuoti all’interno e si integrano in una sorta di reticolo bidimensionale, pur rimanendo riconoscibili l’una dall’altra.

Testo

Anno di creazione 2004 Tecnica Acciaio inox a specchio Dimensioni 100x77x6 cm 64

Provenienza Dono dell’autore, 2008 Ubicazione Palazzo Caiselli, Sala del Lampadario Autore Riccardo De Marchi (Mereto di Tomba, 1964)

L’operazione principale di De Marchi è quella di praticare una serie di impressioni più o meno regolari su supporti metallici. Si tratta di un lavoro che rompe con l’esperienza pittorica dell’artista esercitata negli anni Ottanta e Novanta, caratterizzata da una pittura fatta di colore materico e di sgocciolature sparse sulla tela. Il passaggio dalla tela alla superficie metallica è data dalla volontà dell’artista di compiere un attraversamento della superficie che sia non solo simbolico ma anche fisico. Da qui il passaggio a supporti come il piombo, materiale più o meno malleabile, e l’acciaio, preferito per la brillantezza e lucidatura della superficie. L’acciaio inox, un metallo inossidabile che mantiene inalterate le sue caratteristiche nel tempo, è lavorato a specchio, in modo da riflettere ciò che ha di fronte a sé; su di esso l’artista incide dei buchi come a voler dimostrare qualcosa che esiste oltre alla profondità fittizia dello specchio. È un rimando allo spazialismo di Lucio Fontana, con la cui opera De Marchi dichiara di voler dialogare. Lo specchio riflette l’immagine dell’osservatore, deformandola e mortificandola con i fori che ne indicano l’attraversamento. L’identità riflessa viene così compromessa. Dal concetto di spazio metafisico proprio di Fontana, l’artista passa alla concretezza della “scrittura”. Una scrittura arcaica fatti di segni dati per computo, in infinito attraversamento dello spazio. I numerosissimi fori si susseguono in file orizzontali, quasi a voler comporre un alfabeto muto, misterioso e personale, comunicabile a pochi eletti. Le opere mostrano una scansione di vuoti e pieni simili paragrafi che si succedono intervallati da pause, in una vera e propria impaginazione di testo. In alcune opere i “testi” sono scolpiti su pilastri, simili a monoliti, come in Ingombro (2003), o, addirittura, su fogli di acciaio semi- arrotolati come pergamene e appesi alla parete, come in Testi per nulla (2002). Al di là del fatto di costituire una scrittura arcaizzante, il foro si pone nell’opera di De Marchi come tratto dal significato indefinito; non è importante il senso, quanto l’essere indelebile e irreparabile. In quest’ottica, il foro va inteso come traccia che attesta l’esistenza dell’artista nel mondo.

Ettore Anno di creazione 2015 Tecnica Legno dipinto, metallo e vetro Dimensioni h 217 cm Provenienza Dono di Caterina Basaldella, 2016 Ubicazione Palazzo Caiselli, Scala principale Autore Ennio Brandolini (Udine, 1948 – 2016) 65

cfr. itinerario di visita

Naufragio

Anno di creazione 1994 Tecnica Tecnica mista su tavola Dimensioni 252x60 cm Provenienza Dono dell’autore, 2008 Ubicazione Palazzo Caiselli, Scala centrale Autore Renato Calligaro (Buja, 1928)

Nell’opera di Renato Calligaro si avverte il senso di incertezza e smarrimento proprio della condizione dello straniero. Da straniero, infatti, ha vissuto in Argentina e in Brasile in quanto europeo di origine, straniero anche in Italia, suo paese natale, essendo americano di cultura. All’inizio degli anni Sessanta le riflessioni filosofiche sull’esistenzialismo portano l’artista a realizzare opere dove le sfaccettature della personalità si riflettono nella frammentarietà dello spazio rappresentato. I pannelli presentano solitamente dimensioni allungate, con misure standardizzate, sui quali l’artista applica tecniche diverse, in particolare pittura e collage, creando una narrazione che si sviluppa in “sequenze”, come quella delle strisce di fumetti. Negli stessi anni, infatti, Calligaro inizia l’attività di fumettista satirico, svolta per ragioni politiche, le cui tavole si liberano dalle regole e convenzioni grafiche del fumetto commerciale per entrare a far parte dell’arte modernista. Il titolo, Naufragio, è emblematico dello status esistenziale di Calligaro, in un viaggio che da lidi sereni sembra condurre alla catastrofe, simboleggiata dall’incendio, in uno spazio multiforme e contradditorio, assolutamente irreale, dove simboli grafici geometrici cercano, invano, di regolarlo. Altri simboli presenti nel quadro ricorrono spesso nella produzione dell’artista, ovvero gli occhi e i mirini, i quali alludono, forse, alla coscienza dell’io, che conosce il mondo sensibile soprattutto attraverso la vista, o al controllo sociale della nostra epoca supertecnologica. Le figure in movimento e le ambientazioni dipinte ricordano vagamente influenze diverse, dall’astrattismo al surrealismo (quest’ultimo movimento ha conosciuto in America Latina un seguito di un certo rilievo) di Dalì, Tangui e Mirò, dalla Pop Art fino alla pittura di Francis Bacon.

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Giardino di rocce

Anno di creazione 1984 Tecnica Collage su cartone Dimensioni 71,5 x 102,5 cm Provenienza Donazione Anna e Valentino Turchetto, 2013

Ubicazione Palazzo Caiselli Autore Teodosio Magnoni (Offanengo, 1938)

Simili per la tecnica impersonale e per il contenuto, queste tre opere farebbero parte di un ciclo dei “Luoghi apparenti e veri”. Eseguiti con inserti incollati su semplice cartone non trattato, mostrano dei poligoni monocromi sospesi nel vuoto, di dimensioni e forme diverse, in coppia contrapposti l’uno di fronte all’altro o in gruppo di tre, che dialogano fra loro in rapporto con il vuoto che li circonda. Magnoni predilige forme geometriche spigolose, quasi mai curve, creando composizioni astratto-geometriche come espressione di archetipi che sembrano riferirsi al mondo naturale e geologico. In altre opere, realizzate invece con lastre di alluminio sagomate e dipinte con vernice, sono costituite da geometrie bicolori, solitamente in bianco- nero, secondo l’equilibrio degli opposti, separate oppure fuse in un oggetto unitario. Le sculture, dall’aspetto sfaccettato e irregolare, simile a diamanti allo stato grezzo, sembrano costruzioni desunte dalle stesse creazioni bidimensionali dell’artista. Magnoni ha abbandonato la pittura materica di stampo cubista e informale degli anni Cinquanta e Sessanta per approdare a un’arte concettuale che cerca di indagare le forme del pensiero. La svolta si ha a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, con la costruzione di sculture minimaliste che utilizzano materiali come tubi, barre di metallo, travi di legno, specchi oppure semplici linee tracciate sulle pareti, che interagiscono con lo spazio circostante sovrapponendosi ad esso e alterandone la percezione con interventi minimi, inducendo quindi l’osservatore a cercare dei punti di vista privilegiati. L’artista, infatti, ha affermato che il suo lavoro consiste nel «fare delle strutture che vadano al di là di una semplice esistenza come sculture nello spazio, e che invece raggiungano, alla fine, un uso sculturale dello spazio stesso» (Henry Martin, Teodosio Magnoni, Spatia Books, 1980, p. 6).

Conclusus

Anno di creazione 2004 Tecnica Resine poliuretaniche su alluminio Dimensioni 30x42 cm Provenienza Dono dell'autore, 2008 Ubicazione Palazzo Caiselli, Corridoio della Segreteria Autore Graziano Negri (Azzahra, Libia, 1957 – Portogruaro, 2013) 67

Quella di Graziano Negri è una pittura di luce, in cui l’astrazione del colore è caratterizzata da oscillazioni e profondità di tono che l’apparentano in parte alla Color Field di Mark Rothko, differenziandosene però per la maggiore “flessibilità” delle stesure, che si sovrappongono con pregevoli effetti di velamento/svelamento. Talvolta il colore viene lasciato sgocciolare dolcemente dall’alto verso il basso, oppure lo strato pittorico superficiale copre quello sottostante per mezzo di deliberati colpi di spatola. Il dipinto fa parte di una serie di quadri riferiti alla natura chiusa e protetta degli orti e dei giardini. Alcune opere possiedono titoli che più esplicitamente alludono al mondo floreale, come quelle appartenenti alla serie delle Rose del mio giardino, nelle quali si scorgono elementi colorati di rosso, segnati da ombre nere e accostati a tracce verdi e azzurre. In Hortus Conclusus, al contrario, il gesto libero e allo stesso tempo meditato rivela il disinteresse da parte dell’artista di definire o rivelare l’immagine. Il colore si pone all’osservatore come pura espressione di stati d’animo, odori e sensazioni. La materia, liquida e in continua tensione, è ingabbiata all’interno dei confini del supporto, ben marcati da bande nere, come un giardino nel suo recinto oppure come le acque mosse e torbide di un laghetto artificiale. La superficie dell’opera appare simile al movimento delle onde del mare, un flusso mutevole di colore la cui illusione di profondità è data da ombre nere trafitte da spiragli luminosi che sembrano dilatarsi e restringersi. La pittura è stesa con spatole sulla lastra di alluminio, perfettamente liscia e lucida, in modo tale da consentile una stesura fluida, con un effetto di dissolvenza che fa trasparire il fondo sottostante.

Cuspide

Anno di creazione 2003 Tecnica Tecnica mista su tela Dimensioni 50x50 cm Provenienza Dono dell'autore, 2008 Ubicazione Palazzo Caiselli, Corridoio della segreteria Autore Aldo Colò (Modena, 1928 – Udine, 2015) 68

Questo dipinto raffigura un gruppo di forme geometriche nere, costituito da un triangolo, un rettangolo allungato e un semicerchio, alle quali si aggiungono altre forme di dimensioni più piccole dipinte di blu, dall’aspetto evanescente. Tali figure sembrano galleggiare in uno spazio non bidimensionale, che suggerisce un senso di profondità rafforzato dall’effetto “graffiato” prodotto dall’artista sul fondo della tela, simile a un pulviscolo atmosferico, come se si trattasse di foschia. Le forme geometriche non suggeriscono né corporeità né un peso specifico; non sono limitati dai confini del quadro, anzi, li oltrepassano, dandoci l’idea di un’estensione ben maggiore di quella visibile. Inoltre, sono raffigurate in posizioni storte, fluttuando nel vuoto quasi a volersi toccare le une alle altre, in una condizione perennemente instabile. La pittura di Aldo Colò, a partire dagli anni Sessanta, diventa motivo di riflessione sulla linea, intesa come astrazione della mente e come «supporto di ogni processo mentale», «base di ogni concezione astratta». L’osservazione del mondo circostante costituisce materia di elaborazione teorica e presa di coscienza: lo sguardo di Colò vaga «sul soffitto, sugli angoli, si ferma sulla finestra e sulla riga che separa la parte illuminata da quella in ombra». La linea, come l’artista dichiara in Fragmenta, testo pubblicato nel 1995 che raccoglie le proprie riflessioni in forma di diario, è, infatti, «solo una separatrice tra luce e ombra […], un prodotto astratto, una vicenda mentale che ci permette di fissare i concetti luce-ombra» (Aldo Colò, Galleria regionale d'arte contemporanea Luigi Spazzapan, Gradisca d'Isonzo, 22 dicembre 2000-25 febbraio 2001, catalogo e direzione della mostra a cura di Franca Marri, p. 11). La frammentazione che ne deriva, nel senso vero e proprio di frattura, è un tema che ricorre spesso nella sua produzione (si pensi, ad esempio, a Situazione di frattura, dipinto nel lontano 1972). L’arte di Colò si presenta dunque come una pittura meditata, spesso rigorosa, ma al tempo stesso inquieta, che talvolta comunica uno stato d’ansia.

Mi dono tutto alla luce

Anno di creazione 2002 Tecnica Acrilico su tela Dimensioni 90x150 cm Provenienza Dono dell’autore, 2008 Ubicazione Palazzo Caiselli, Secondo piano, corridoio Autore Claudio Feruglio (Udine, 1953) 69

I paesaggi di Feruglio brillano della luce del tramonto, con spazi interminabili che si perdono all’orizzonte, come lande desolate, colline e laghi. La potenza dei colori del cielo, ovvero giallo, bianco e rosso, è enfatizzata dal nero che definisce le ombre del suolo e che “incornicia” i confini del dipinto, come una luce che squarcia l’oscurità della notte. L’effetto che l’artista ottiene è quello di circoscrivere il paesaggio entro un campo visivo chiaramente delimitato ai confini, simile al campo visivo cinematografico che si dissolve oscurandosi ai lati, mettendo meglio a fuoco l’immagine centrale. La figura umana è sempre presente nel paesaggio. L’uomo, però, non è altro che una piccola parte di quei vasti orizzonti, in una condizione di minorità assoluta rispetto alla grandezza soverchiante della natura, su cui non ha possibilità di controllo. Come nei dipinti di Caspar David Friedrich, l’umanità è in balia delle forze misteriose, quasi soprannaturali, della natura. Il suo vagare lo porta in una lunga esplorazione, nel tentativo di sondare il mistero infinito del mondo. Più che un corpo, l’uomo è un ombra proiettata che si confonde con il terreno. La luce, intesa come presenza divina in una rappresentazione spiritualistica e idealizzata del mondo, è la vera protagonista delle opere di Feruglio, sola rivelatrice della bellezza del creato.

Grande cipresso Anno di creazione 1993 Tecnica Acquaforte Dimensioni 100x66 cm Provenienza Dono dell’autore, 2008 Ubicazione Palazzo Caiselli, Secondo piano, corridoio Autore Franco Dugo (Grgar, 1941)

Quest’opera fa parte di un gruppo di acqueforti e puntesecche appartenenti agli anni 1993-1997, incentrato sul soggetto del cipresso. Rispetto alle altre composizioni facenti parte di tale insieme, ovvero Cipresso e paesaggio (1993,1994 e 1995), Cipresso e paesaggio nuvoloso (1995), Cipresso e nuvole(1996), Vecchio cipresso (1997), così come Cipresso al vento (1997), che contestualizzano il singolo albero all’interno di un paesaggio più o meno definito, con questo Grande cipresso l’artista si limita a rappresentare, invece, la porzione mediana del tronco, appena sotto la chioma. Non solo si concentra esclusivamente sul singolo soggetto, ma restringe il campo visivo su una parte specifica, in una sorta di zoom fotografico. Colpisce il virtuosismo tecnico di Dugo nel cogliere ogni nodo, ogni ruga e asperità della corteccia e nel tratteggiare con cura rami, rametti e minuti filamenti. Ciascun particolare viene, infatti, vagliato con attenzione estrema. Questa 70 tendenza alla cura del dettaglio risente di almeno due campi di influenza: uno è l’influsso esercitato dal naturalismo, dovuto alla passione di Dugo per il Rinascimento e il Seicento, di cui sono validi esempi i cicli incisori dedicati a Leonardo, Dürer, Caravaggio e Rembrandt, l’altro deriva, invece, dal confronto con il mezzo fotografico. Come infatti ha scritto Valerio Volpini, la posizione di Dugo «è tesa verso il “naturalismo” con gli occhi accesi dai dagherrotipi e dalle foto» (Dugo. Venti anni di incisione, p. 10). Buona parte dell’arte incisoria di Dugo è, dunque, imperniata sul rapporto fra disegno e fotografia: l’artista affianca l’immagine disegnata, come si vede in alcuni cicli narrativi, come quello dedicato al Ratto della Gioconda, o nei ritratti di famiglia, alla fotografia corrispondente, ridisegnandola e reinventandola allo stesso tempo. Nel Grande cipresso, il confronto diretto con la fotografia non compare, eppure si percepisce la sensazione dell’occhio dell’artista come se fosse l’obiettivo di una macchina fotografica, che ha, per così dire, messo a fuoco il particolare del tronco d’albero. Sarebbe assai riduttivo, tuttavia, considerarlo una semplice istantanea. Il forte chiaroscuro e la differenza quasi netta fra la parte esposta alla luce e la parte in ombra sembrano animare la ricca morfologia dell’albero, i cui rami e filamenti della corteccia paiono simili a innumerevoli zampette brulicanti di vita. Sono aspetti, questi, che conferiscono alla figura un lirismo di ispirazione romantica, testimoniato anche dai paesaggi dell’artista omaggianti la pittura di Caspar David Friedrich. Di questa incisione si contano tre versioni con lo stesso titolo, ciascuna con una propria variante. Da segnalare, inoltre, una versione realizzata nello stesso anno a sanguigna, grafite e pastelli, quasi identica nelle dimensioni e nel disegno. Relicta n. 29 Anno di creazione 1985 Tecnica Acrilico su tela Dimensioni 203x135 cm Provenienza Dono dell'autore, 2008 Ubicazione Palazzo Caiselli, Scala principale Autore Nata (, 1955)

Il dipinto raffigura una serie di oggetti apparentemente distribuiti alla rinfusa in uno spazio chiuso, anche se, a una osservazione attenta, la loro collocazione sembra studiata con cura. I toni sono terrosi e grigiastri, opachi, con un forte chiaroscuro. Si osservano resti di natura organica e inorganica, piante rinsecchite, carcasse decomposte, rottami indistinti e scarti di ogni tipo immersi nella penombra. Sono dei relicta, da cui il titolo di questa serie di grandi tele e disegni realizzata da Nata nel biennio 1985-1986, la cui identità è destinata a rimanere incerta e per certi versi inafferrabile. Sono degli ammassi di materia soverchianti, che manifestano un senso di inquietudine e malessere. L’artista ama le composizioni affollate e laboriose, che sembrano una via di mezzo fra una natura morta di stampo seicentesco e la pratica dell’automatismo surrealista. Le pennellate sono nervose ma decise, i particolari appaiono dettagliati ma non descrittivi. Si percepisce tutto il piacere di Nata per l’esecuzione pittorica, in un momento storico, quello degli anni Ottanta in Italia, che vede il recupero entusiasta della pittura dopo l’austerità concettuale dell’Arte Povera, senza tuttavia cadere nel mero esercizio accademico. 71

Ninfa

Anno di creazione 1991 Tecnica Marmo Dimensioni 80x43x4 cm Provenienza Donazione Ubicazione Palazzo Caiselli, Primo piano, studio n.53 Autore Giancarlo Franco Tramontin (Venezia, 1931)

Nelle sue sculture, Giancarlo Franco Tramontin semplifica le forme del corpo umano fino all'estremo, levigando il marmo e il legno al massimo grado possibile di pulitezza. Nell'arco della sua lunga carriera, l'artista dimostra di aver interiorizzato la lezione di Brancusi e di Moore, attraverso la fondamentale mediazione di Alberto Viani, suo maestro, come si può osservare in opere come Antropociottolo (1986), Nudo coricato e Figura sdraiata(1996). Rispetto alla produzione precedente, le sculture degli anni Novanta, come la Ninfa della collezione universitaria, presentano un aspetto meno astratto per diventare più marcatamente antropomorfo, con una prevalente attenzione per la femminilità, intesa come entità feconda e creatrice. Proprio in questo momento riaffiorata in tutta la sua intensità l'influenza della statuaria classica, con cui l'artista è entrato in contatto diretto durante un viaggio in Grecia, compiuto in gioventù grazie a una borsa di studio vinta nel 1956. Le nuove sculture si assottigliano in un mezzo rilievo lucido e perfetto, i soggetti sono dei nudi acefali e privi di braccia, dalla silhouette elegante dolcemente tesa in un lieve accenno di danza. Facendo propria una cifra stilistica desunta dalle opere di Viani degli anni Settanta, come, ad esempio, l'Odalisca (1974), Tramontin traccia delicatamente sul marmo poche semplici linee curve che danno indicazione degli attributi sessuali e lascia in rilievo un capezzolo tondeggiante, mantenendo però una certa ambiguità di genere nelle figure, la cui identità è svelata dai titoli tratti dall'arte e dalla mitologia greca: Afrodite (1990), Efebo(1990), Nike (1991) e la presente Ninfa.

La madonna dei rubinetti

Anno di creazione 1976 72

Tecnica Serigrafia Dimensioni 118x118 cm Provenienza Donazione, 1982 Ubicazione Palazzo Caiselli, Primo piano, studio n.53 Autore Ludovico De Luigi (Venezia, 1933)

La vena dissacrante di Ludovico De Luigi si spinge in un lavoro di decontestualizzazione di immagini tratte dall'arte e dall'architettura del passato per metterle in relazione spiazzante con oggetti industriali. In questa serigrafia, giunta all'università di Udine dopo il 1982, l'artista riprende la cornice del trittico di Giovanni Bellini ai Frari, al cui interno egli dispone in modo seriale un numero ipoteticamente infinito di rubinetti dotati di manopole rosse. Il nesso con la Vergine, introdotto dal titolo dell'opera, può essere intuito dalla funzione e dalla conformazione dei rubinetti stessi: sono dispensatori d'acqua e, quindi, di vita; la forma e il colore rosso delle manopole, inoltre, richiamano visivamente la rosa, un fiore tradizionalmente attribuito a Maria e, in generale, al mondo femminile. La presente serigrafia è la versione grafica dell'omonimo dipinto a olio su emulsione realizzato da De Luigi nel 1974. Enormi rubinetti sono presenti anche in un altro dipinto, La Madonna dell'Orto del 1976, nel quale il portale della storica chiesa veneziana appare ostruito da un imponente impianto idraulico (non privo di un velato riferimento sessuale), in balia dell'acqua alta. In Piattaforma Longhena, la Salute si trova in cima a una piattaforma petrolifera in mezzo al mare, a cui sono ancorate delle petroliere. Tutte queste rappresentazioni surreali e apocalittiche rientrano nella riflessione da parte dell'artista sui pericoli idrogeologici e industriali che incombono sulla città di Venezia. Tubi d’aria Anno di creazione 2005 Tecnica Tecnica mista Dimensioni 100x150 cm Provenienza Dono dell’autore, 2008 Ubicazione Palazzo Caiselli, Scala della fototeca Autore Bruno Aita (Udine, 1954)

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In quest’opera, tre tubi di dimensioni diverse convergono sospesi l’uno verso l’altro in un punto, senza toccarsi; lo sfondo è costituito da una parete di colore grigio scuro, sulla quale si apre in alto a destra una finestra che dà sull’esterno. Il cielo è cupo e agitato; non è chiaro se ciò sia dovuto al maltempo oppure sia causato dall’inquinamento atmosferico che avvelena l’aria. La seconda possibilità suggerisce che la funzione di questi tubi sia proprio quella di portare ossigeno in un ambiente malsano, anche se quest’ultimo ci appare pulito e asettico. A differenza altri lavori di Bruno Aita con lo stesso soggetto, realizzati con la tecnica dell’aerografo su lamiera metallica, siamo di fronte a un disegno su carta. Il carboncino e la matita scorrono fluidi sul supporto creando sottili sfumature, con una levigatezza del tratto tale da imitare la pittura a spruzzo. L’uso dell’aerografo è un retaggio degli esordi giovanili, quando l’artista dipingeva sulle carrozzerie delle autovetture. L’artista coniuga la manualità del mestiere della pittura con l’uso di tecniche che l’avvicinano alla serialità dei procedimenti industriali. Le raffigurazioni di tubi bianchi che attraversano foreste ombrose costituisco uno dei soggetti preferiti di Aita, che hanno chiara attinenza con le problematiche ecologiche della contemporaneità.

Gondole sotto il ponte

Anno di creazione 1959 Tecnica Olio su compensato Dimensioni 50x61 cm Provenienza Lascito Cernigoi-Foschiatti, 2016 Ubicazione Palazzo Caiselli, Corridoio della Direzione Autore Giobatta Foschiatti (Nimis, 1915 – Tavagnacco, 1989)

Raffigurante un tipico scorcio di Venezia, con gondole nere che solcano quiete il canale passando sotto un ponte, questo dipinto si pone «in un mondo che si muove nella sfera della pittura veneta e che saremmo tentati di avvicinare a quello di un Semeneghini e che, ad ogni modo, ha accenti personali. La tela o il cartone appena percorsi da un pennello, che appare come il sismografo sensibile di un’emozione intensamente provata, i colori tenui e delicati, o qua e là crudi e dissonanti come effettivamente appaiono in Laguna a chi li sa scoprire, costituiscono i caratteri peculiari di questa pittura». Così si è scritto a proposito dell’opera di Giobatta Foschiatti in una recensione alla mostra dell’artista, tenuta nel 1952 al Circolo della Stampa, sulle colonne del “Giornale di Trieste” (Raffaella Cargnelutti (a cura di), Giobatta Foschiatti 1930-1988: il processo creativo, Arti grafiche friulane, Udine 1995, p. 15). È una pittura che, oltre a guardare alla paesaggistica veneta di primo Novecento, si avvicina ai modi di Ottone Rosai, da cui sembra riprendere anche la pennellata magra, molto secca. La scena si caratterizza per l’effetto circolare del dipinto, simile al riflesso su uno specchio convesso, con una disposizione simmetrica dei volumi e degli oggetti. Artista ai margini del sistema di mercato dell’arte, Foschiatti si è posto come entusiasta cultore del mestiere della pittura, aprendosi alle più svariate influenze artistiche, dall’impressionismo francese ai protagonisti italiani del ritorno all’ordine e, a partire soprattutto dagli anni Cinquanta, da Matisse all’astrattismo, prediligendo il paesaggio e la natura morta su piccolo formato.

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LA DECORAZIONE PIU’ ANTICA NELL’ALA ESTERNA (DIGITAL STORY TELLING) IL SOFFITTO LIGNEO DETTO “A PETTENELLE”

Il fenomeno dei soffitti lignei dipinti in Friuli realizzati fra tardo Gotico e primo Rinascimento - l’epoca di maggior fortuna di questo tipo di decorazione - rappresenta un campo d’indagine ancora poco esplorato. Il fenomeno trova origine nella generale tendenza all’abbellimento delle dimore signorili che si ebbe a partire dai primi decenni del Trecento, tendenza esplicitatasi in particolare attraverso la commissione di affreschi, arredi raffinati e suppellettili preziose e soprattutto nel diffuso utilizzo di tessili. Dal punto di vista strutturale le coperture lignee piane si possono classificare in due principali tipologie: il ‘subficto’ e il ‘palcho’. Il primo, detto anche ‘soffitto a caselle’ o ‘sospeso’, poco diffuso in àmbito friulano ma di maggior riscontro in altre aree, è una superficie composta da pannelli incorniciati, poco profondi, fissati al di sotto delle travi - per l’appunto subficti - e che si sviluppa per lo più tutta sullo stesso livello. Queste coperture sono quindi caratterizzate dal ‘movimento’ chiaroscurale delle superfici lignee ottenuto attraverso l’articolarsi delle cornici, anch’esse poco rilevate, che formano trame in raccordo geometrico. A partire dagli ultimi anni del XV secolo questa tipologia si evolverà nel soffitto a cassettoni, struttura più complessa e costituita da due orditure: la prima portante, la seconda formata da un assito (una sorta di scatolato) che sostituisce la trave e quindi con sola funzione estetica. La profondità del cassettone, che può essere dipinto e arricchito da elementi intagliati e spesso dorati, poteva essere molto considerevole. Se nel ‘subficto’ la trama strutturale portante rimane nascosta, nel ‘palcho’ resta invece a vista, pur riuscendo a mantenere, grazie alla sua organizzazione, un effetto di ordine, sobrietà e ‘leggerezza’. Il ‘palcho’ può essere costituito, nelle forme più semplici, da un’unica orditura di travi e, in quelle più complesse, da una doppia trama formata da travi portanti e travetti. Alla prima tipologia appartiene il soffitto a pettenelle d’àmbito friulano, costituito da pochi elementi, facilmente identificabili: travi portanti, ‘di banchina’ e ‘rompitratta’, pettenelle, cantinelle, cornici, mensole e assito. Il soffitto è costituito da una orditura di travi portanti, le dimensioni delle quali - nella maggior parte dei casi riscontrati in Friuli - rientrano tra i 13 x 17 e i 15 x 24 cm, disposte ad intervalli regolari che possono misurare tra i 28÷44 cm circa. Su questa orditura viene sovrapposto un impalcato di tavole, generalmente con legno lasciato al naturale, la cui giunzione è celata al di sotto da regoli - listelli lignei detti cantinelle in àmbito friulano - quasi sempre dipinti serialmente. Per fare in modo che le giunzioni dell’assito si disponessero secondo un disegno regolare, evidenziato dalle cantinelle, era necessario l’utilizzo di tavole di larghezza costante, generalmente di circa 30 cm2. Completa la decorazione del soffitto una cornice: un listello a sezione solitamente trapezoidale posto lungo il margine superiore delle travi ‘di banchina’ e ‘rompitratta’ - nella linea di appoggio dei travetti a queste ortogonali - che presenta una decorazione costituita dall’accostamento di tipologie differenti sui due registri, con una prevalenza dei tipi a fascia sinuosa a stretti meandri, a scaglioni bianco-rossi su fondo nero oppure a motivi quadrilobati neri su campo bianco. Mentre sia le cantinelle sia le pettenelle erano applicate al soffitto tramite un sistema ad incastro (salvo eccezioni), le cornici venivano invece assicurate con chiodi. in area friulana, anche nella letteratura critica, i termini ‘cantinella’ e ‘pettenella’ sono stati impropriamente utilizzati come sinonimi per indicare le tavolette da soffitto, incertezza in parte determinata dal fatto che nei documenti fino ad ora presi in esame pettenelle e cantinelle, pure se citate, sono scarsamente descritte, al massimo indicate come dipinte o meno. L’attestazione «cum figuris et armis» indica, infatti, come il termine ‘pettenella’ faccia specifico riferimento alla tavoletta da soffitto, giacché solo quest’ultima disponeva di spazio sufficiente per ospitare figure e stemmi e come, di conseguenza, ‘cantinella’ si riferisca invece ai soli listelli coprifuga. La finitura di questo tipo di soffitto, proprio perché lascia a vista gli elementi strutturali, prevede non solo l’utilizzo, come detto, di elementi decorativi dipinti quali pettenelle, cantinelle e cornici ma anche una accurata lavorazione degli elementi portanti. Per questa ragione le superfici piane, assito e faccia a vista delle travi, venivano piallate per togliere i segni dell’ascia o della sega. Per quanto riguarda le travi, le specie legnose utilizzate venivano scelte in genere tra le conifere, con una predominanza dell’abete e del larice47: sia perché sono a crescita rettilinea e offrono in questo modo tronchi già predisposti a essere trasformati in travi con minor spreco di materiale sia perché facilmente lavorabili. Inoltre, essendo specie molto resinose offrivano maggiore resistenza all’umidità, pur avendo una predisposizione al ritiro e quindi alle spaccature, a causa della elevata densità. Pettenelle, cantinelle e cornici sono realizzate invece - in quasi tutti i casi analizzati in regione - in legno d’abete: il medesimo soffitto poteva quindi essere costituito da materiale ligneo di differenti specie. In base ai 75 dati raccolti in regione, un soffitto di medie dimensioni - per esempio di un ambiente di 6 x 6 metri - poteva essere posto ad un’altezza compresa tra i tre e i cinque metri circa e poteva contare da ventiquattro a ventotto pettenelle (a seconda delle dimensioni delle travi e della luce che intercorre tra loro), la cui realizzazione doveva essere completata in tempi contenuti. Infatti, ogni tavoletta doveva essere posta in opera inserendola - nel vero senso del termine - fra le travi dall’alto54, cronologicamente dopo la posa di queste ultime e prima del soprastante tavolato. A questo scopo da una parte i lati corti venivano assottigliati - nella parte interna, non visibile - per poter scorrere più facilmente attraverso le scanalature operate nelle travi; dall’altro (essendo la pettenella inclinata) il lato superiore veniva tagliato obliquamente così da essere perfettamente parallelo, e quindi aderente, al tavolato soprastante. In questo modo, pure se collocate in un luogo marginale della dimora, le pettenelle assolvono quindi al loro compito, a seconda dei casi narrativo o meramente illustrativo, grazie alla loro disposizione leggermente obliqua - aggettante verso l’interno della stanza - tesa a facilitarne la lettura dal basso. Le pettenelle d’àmbito friulano sono sempre disposte su un unico registro, il margine inferiore poggia sempre direttamente sulle travi e non sono mai poste lungo il perimetro della stanza. Come per le tavolette, in Friuli anche la posa delle cantinelle seguiva un procedimento a incastro: le estremità, infatti, venivano poste, prima della messa in opera del tavolato, in apposite sedi realizzate nello spessore delle travi: pettenelle, cantinelle e cornici, infatti, sono sempre richieste e pagate a quantità e a misura e, soprattutto, quasi mai viene indicato il tipo di decorazione. Nella realizzazione delle pettenelle, visto i vincoli specifici di questo tipo di produzione, costituiti da una grande mole di lavoro e di tempi contingentati, le botteghe si organizzavano come una moderna catena di montaggio dove le diverse maestranze, coordinate probabilmente da un artista guida, erano specializzate in una specifica fase di lavorazione.

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Provenienza: Udine, palazzo Caiselli Collocazione: in opera Pettenelle: abete; 41x18; stemmi Cantinelle: abete; tipologia 5 Cornici: abete; registro sup. tipologia 4, registro inf. tipologia 5 Prima metà del XV secolo

Il ciclo esaminato, tuttora in opera, orna il soffitto di un ambiente al piano terra di palazzo Caiselli (sede del Dipartimento di storia e tutela dei beni culturali) in vicolo Florio a Udine. L’orditura del soffitto comprende tre rompitratta di 28x38 cm inserite direttamente nella muratura. Le ottantasei tavolette, in legno di abete, misurano mediamente 41x18 cm. Le cornici sono dipinte nel registro superiore con una serie continua di scacchi bianchi e neri e in quello inferiore con una decorazione costituita dal ripetersi di un elemento rosso su fondo bianco che riprende la forma, semplificandola, dell’ermellino araldico. Le cantinelle presentano una tra le decorazioni più complesse registrate in area friulana, costituita da nodi alternati a figure quadrilobe nere su campo rosso. Le pettenelle sono dipinte con stemmi inseriti in un arco trilobo, stilisticamente collocabili nella prima metà del XV secolo, realizzati a tempera su fondo trattato soltanto con colla. Impermeabilizzazione della superficie e dipintura sono limitate allo spazio circoscritto dall’arco trilobo, mentre, nella parte esterna a esso, la tavoletta è lasciata ‘al naturale’. Alla stessa tipologia presente nei soffitti sopra ricordati appartiene anche la decorazione floreale posta ai fianchi e sopra gli scudi, costituita da ampi fiori a tre lobi, colorati alternativamente di rosso e verde. Quasi tutti gli stemmi sono inseriti in scudi appuntati in basso: fanno riferimento sia a famiglie nobili, per la maggior parte friulane, sia a comunità e che, in alcuni casi, si ripetono. Solo in due pettenelle gli scudi sono più elaborata tipologia ‘da torneo’, sormontati da un elmo con cimiero e lambrecchini: si tratta degli stemmi dei Savorgnan e dei Cergneu, ramo di Brazzà. Poiché questi ultimi risultano abitare al tempo in uno degli edifici che saranno in seguito inglobati a formare l’attuale palazzo a questa famiglia andrebbe attribuita la committenza.

Francesco FRATTA, «Cum figuris et armis»: soffitti lignei in Friuli fra tardo Gotico e primo Rinascimento, Tesi di Dottorato di ricerca in Storia dell’arte XXVII ciclo, Anno Accademico 2014-2015, Tutor proff.ri Maurizio d’Arcano Grattoni e Giuseppina Perusini 77

Alcune voci sui maggiori artisti che hanno operato in Palazzo Caiselli sono tratte dal NUOVO LIRUTI - DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI, cui si rimanda per notizie più estese. Per esigenze di sintesi sono state opportunamente scorciate.

CARNEO ANTONIO (1637 - 1692)

Nato a Concordia Sagittaria il 26 novembre 1637 da Giacomo campanaro e Sabbada Coccolo, il C. visse i suoi primi anni a Portogruaro, per spostarsi poi a Cordovado, dove è documentato dal 1658 a 1667, e poi a Udine, città in cui si fermò fino verso il 1690 abitando in una casa dei conti Caiselli. Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Concordia Sagittaria ed ivi morì il 16 dicembre 1692. […] Non si conosce la sua prima formazione, maturata probabilmente nell’ambiente culturale di Portogruaro e Concordia, dominato dalla presenza di Palma il Giovane e del Padovanino e di opere bassanesco-tintorettesche che in gran copia affluivano in zona, e corroborata di certo da qualche viaggio a Venezia. È stata anche avanzata l’ipotesi di un suo alunnato presso un atélier di Venezia o presso il pittore udinese Giovanni Giuseppe Cosattini, ma non esiste un riscontro documentario in merito. Non esiste nemmeno testimonianza della sua prima attività […]: in tale periodo il pittore abitava a Cordovado (in un documento viene infatti chiamato «incola Cordovati»), località nella quale nacquero i suoi figli, partecipò al consiglio della comunità (ne risulta presente come teste in qualche atto) e prese a bottega il giovane Gian Francesco Favorlino per insegnargli l’arte della pittura. Appartengono a questo periodo giovanile gli ovati con Profeti e Sibille incastonati nel soffitto del santuario della Madonna di Cordovado e la pala con la Madonna del Rosario e i Santi Nicolò e Vito del duomo di San Vito al , dipinti attribuitigli non senza fondamento. Quando si stabilì a Udine, nel 1667, in una casa di proprietà del conte Leonardo Caiselli al quale, per contratto, forniva quadri in cambio di vitto e alloggio, il C. era già pittore stilisticamente formato ed anche affermato, tant’è vero che da parte della città di Udine gli fu affidata la pittura della grande tela raffigurante la Sacra Famiglia venerata dal luogotenente e da tre deputati (Civici musei di Udine), allusivamente celebrativa della dominazione veneziana nella città e nella Patria del Friuli al pari di altri quadri in precedenza dipinti da Pomponio Amalteo, Francesco Floreani, Palma il Giovane, Alessandro Spilimbergo, Secante Secanti, Innocenzo Brugno. In questo primo dipinto, che mostra una certa durezza di impaginazione e di esecuzione, sono notevoli le suggestioni di matrice locale ed i legami con il manierismo veneto (con riferimento a modelli padovanineschi 78 ed a richiami alla lezione di Paolo Veronese e Iacopo Bassano), ma non per questo l’opera appare priva di organicità, segno della raggiunta maturità del trentenne pittore. Tela di carattere devozionale, ma di commissione pubblica e quindi con dichiarate finalità politiche, simboleggia l’omaggio, l’ossequio del potere politico, rappresentato da luogotenente e deputati, visti in una rasserenante dimensione familiare dovuta alla presenza dei bambini, alla divinità, nel caso specifico alla Sacra Famiglia. Domina la scena il palazzo-castello di Udine, alto su una scoscesa collina. Un quadrone di simile soggetto fu commissionato al pittore intorno al 1677 (La Vergine con il Bambino e San Marco venerata dal luogotenente e da tre deputati, Civici musei di Udine), ma il linguaggio pittorico del C. era intanto mutato, affinandosi per l’influsso della pittura di Francesco Maffei, di Sebastiano Mazzoni, e soprattutto di Antonio Zanchi e del Giordano, dal quale derivava un energico gioco chiaroscurale di lontana ascendenza caravaggesca. Il pittore assunse nell’ambiente udinese una posizione di indubbio prestigio dedicandosi all’esecuzione di ritratti, di opere pubbliche, di pale d’altare, di dipinti di carattere storico-mitologico o allegorico, legati a temi sociali o “filosofici”. Da alcuni documenti di casa Caiselli relativi al 1667-76 risulta che in tale periodo il C. aveva ceduto alla nobile famiglia una trentina di quadri di vario soggetto: per ognuno Leonardo Caiselli annotò il soggetto (sommariamente descritto), talora l’ubicazione all’interno della abitazione, il prezzo richiesto dal pittore e quello effettivamente pagato (generalmente un po’ più alto della richiesta, quasi in forma di larvato mecenatismo). Era il periodo nel quale il C., libero da condizionamenti, dai vincoli di una committenza pubblica o ecclesiastica, produceva dipinti di grande forza compositiva, nei quali mostrava una diversificata attenzione per il mondo artistico veneziano e lombardo […] e la conoscenza – di certo attraverso le stampe – della pittura nordica, come mostrano dipinti famosi dei Civici musei di Udine. Tra questi, il cosiddetto Giramondo e la Vecchia in meditazione che i documenti ricordano rispettivamente come “un pitocco” e “una pitocca”, vivaci ed immediati “ritratti” ricchi nell’impasto cromatico tenuto sui toni del marrone, esuberanti nel tocco, spregiudicati nell’invenzione (che peraltro trae giovamento dalla conoscenza dell’Iconologia di Cesare Ripa). Sostanzialmente privo di mutamenti stilistici fu l’ultimo periodo della sua attività: qualche momento di caduta in alcune sue opere va probabilmente imputato all’aiuto del figlio Giacomo, dell’allievo Favorlino o di Giacomo Lorio, al quale ultimo vanno assegnate la pala di Sant’Anna della chiesa di S. Cristoforo a Udine (1690), e la Pietà del Monte di pietà di Udine (ora Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e ) fino a poco tempo fa ritenute opere del C. Per due secoli e mezzo la maggior parte della produzione dell’artista è rimasta straordinariamente unita nel palazzo udinese dei conti Caselli. Nell’ultimo dopoguerra la collezione è stata smembrata e le opere disperse in diversi musei e collezioni private. I Civici musei di Udine conservano i due quadri di committenza pubblica di cui si è detto e le allegorie dell’Autunno e dell’Inverno (ispirata questa ad incisioni del veronese Giacomo Caraglio e di Ugo da Carpi), i ritratti di Ferdinando di Prampero (1668), di Giovanni Girardi (1676-77) e di Alvise Ottelio, che denotano una particolare abilità nella ritrattistica. Alla resa del volto umano il pittore dovette dedicare non poco studio, come mostrano i volti fortemente caratterizzati di alcuni popolani, forse suoi vicini di casa, modelli poi trasferiti nei personaggi di alcuni dei suoi quadri più famosi: è il caso della “pithoca”, cioè la Vecchia in meditazione (da confrontarsi con la raffigurazione dell’Accidia presente nella edizione di Amsterdam del 1644 dell’Iconologia del Ripa che servì da modello anche per un quadro di Jacob Toorenvliet) e del “pithoco”, il cosiddetto Giramondo, forse il quadro suo più noto, autentico capolavoro che trova i maggiori punti di forza nelle eccezionali variazioni e vibrazioni del tono, e nella felicità del tocco largo e costruttivo. Nella chiesa parrocchiale di Besnate si conserva la bella e grande pala d’altare (firmata) raffigurante San Tommaso di Villanova dispensa la carità ai poveri, già nella chiesa di S. Lucia a Udine, l’opera sacra di maggior impegno del pittore, apprezzata fin dalla critica settecentesca; altro dipinto sacro è nel convento delle Grazie di Udine (Martirio di San Bartolomeo), mentre una pala d’altare proveniente dall’oratorio di S. Gaetano da Thiene di 79

Pradamano è in collezione privata di Milano: rappresenta la Madonna con Bambino e San Pietro adorati da San Giacomo Maggiore e San Gaetano da Thiene. Altri dipinti da ricordare sono la Morte di Lucrezia del Museo di Varsavia, più volte replicata; la Prova del veleno, in collezione privata a Spilimbergo, riconosciuta da sempre come la massima e più significativa espressione dell’arte del C., geniale nell’elaborazione della struttura compositiva e abilissimo colorista. Tre notevoli dipinti (la Seduzione, la Vecchia con conocchia e spighe, Aracne tesse la tela) appartengono alla Unicredit Banca, altri ancora alla Banca Antoniana, al Museo di Wroclaw e a numerosi privati per i quali si rimanda alle monografie del Geiger (1940) e del Rizzi (1960) ed al catalogo della mostra del 1995. Uno dei suoi figli, Giacomo, nato a Cordovado il 25 gennaio 1660 fu pittore. È documentato fino al 1731; il Geiger e il Rizzi ricordano più di cinquanta opere da lui eseguite. Il suo catalogo si restringe però a pochissime opere, una pala d’altare nella chiesa di S. Nicolò a Portogruaro (1724) e alcune attribuzioni, due quadretti con il Redentore e la Madonna in collezione privata a Cordignano, un’Ultima cena nel santuario di Castelmonte presso Cividale del Friuli ed altre opere di discussa attribuzione. Giuseppe Bergamini

CANAL GIOVANNI BATTISTA (1745-1825)

Nacque a Venezia il 1o settembre 1745 nella parrocchia di S. Aponal, figlio di Maria Soardi e di Fabio, pittore di figura seguace dei modelli tiepoleschi, cui dovette la sua prima formazione. Gli elenchi della Fraglia dei pittori a Venezia registrano il suo nome tra il 1768 e il 1780; da quest’ultima data egli risulta inoltre insegnante all’Accademia del Fonteghetto della farina, incarico che manterrà fino al 1807, anno di rifondazione dell’Istituto da parte del governo napoleonico. Gli esordi del giovane artista sono nel solco degli insegnamenti paterni suggestionati dai modelli già offerti da Giambattista Tiepolo nella chiesa dei Gesuati. Infaticabile fu l’attività del pittore, impegnato nella realizzazione di pale d’altare, ma soprattutto di una serie cospicua di lavori ornamentali eseguiti da solo, ma più spesso in collaborazione con altri artisti a Venezia e nell’entroterra tra Padova, Treviso, Trieste, Udine, Rovigo, Vicenza e Ferrara. Dopo gli affreschi portati a compimento a palazzo Mocenigo a San Stae a Venezia (1790), lo stile di C. si sviluppa nel senso di una più consapevole acquisizione del linguaggio neoclassico, importato da Roma in ambito veneto da Pier Antonio Novelli in seguito al soggiorno da lui compiuto nell’Urbe (1779-1781).

Tale rinnovato indirizzo di gusto si coglie anche nelle coeve decorazioni eseguite da C. nei palazzi Mangilli Valmarana (1795) e Mocenigo Gambara (1796) a Venezia. Negli stessi anni l’artista fece segnalare la sua presenza anche a Udine, dove ebbe modo di realizzare le non più esistenti decorazioni del Teatro Sociale sotto la direzione dello scenografo Antonio Mauro (1795). Negli anni seguenti C. operò più volte in regione a partire dalla collaborazione con Giuseppe Borsato per i perduti affreschi di casa Romano a Trieste (1801). L’anno successivo, infatti, è documentato l’intervento del pittore, a fianco di Marino Urbani, nel palazzo cittadino dei conti Caiselli a Udine e nella villa di campagna che questi possedevano a Cortello (Pavia di Udine), nelle sale della quale si dispiegano raffinate decorazioni di gusto pienamente neoclassico. Al 1804, invece, si datano i lavori di villa Spilimbergo ora Spanio a Domanins (Pordenone), in coppia con il Borsato, dove appartiene a C. la parte figurale. La collaborazione con il Borsato si rinnovò tra il 1805 e il 1806 negli affreschi eseguiti a palazzo Valvason-Morpurgo a Udine. Il successo ottenuto in ambito udinese gli permise di ricevere altre importanti commissioni; se attualmente perduti risultano i lavori portati a termine per Gabriele Conti per il conte di Maniago, nonché in casa Antivari, in due botteghe da caffè in via Mercatovecchio, in casa Moretti e in quella dei conti Trento, ancora sopravvivono gli affreschi eseguiti nei palazzi Mantica-Chizzola (1807), Bartolini (oggi sede della Biblioteca civica), Gallici- Strassoldo, molto rovinati dai bombardamenti del 1945, ma di cui alcuni brani si conservano presso i Civici musei udinesi (palazzo Morpurgo), ed infine quelli realizzati su commissione del «sig. Sabadin» identificati con le opere esistenti in un palazzo in via Vittorio Veneto a Udine e con un 80 soffitto raffigurante Minerva che incorona d’alloro la personificazione delle Arti già nel Casino Sabbadini in borgo Aquileia. Fuori del capoluogo si conservano suoi lavori in villa Bartolini-Florio a Buttrio (di datazione incerta, ma forse risalenti al 1805-1807), mentre distrutte risultano alcune ornamentazioni già esistenti nella vecchia chiesa parrocchiale di Faedis. L’attività di C. continuò, a partire dal 1808 e fino almeno al 1815, nel cantiere di palazzo Reale a Venezia, dove lavorò anche a palazzo Bonfandini-Vivante (1815), e in altre località di terraferma, in particolare per alcuni edifici sacri in territorio vicentino e trevigiano. Morì a Venezia, il 5 dicembre 1825. Vania Gransinigh

PAOLETTI PAOLO (1671 - 1735)

Nato a Padova nel 1671, P. P. operò in Friuli tra la fine del XVII e i primi tre decenni del secolo XVIII, morendo a Udine il 17 settembre 1735. Il P. giunse giovanissimo a Udine, come testimoniano gli storici contemporanei F. Altan e G. de Renaldis. Tuttavia tra il 1708 e il 1715 compare nella Fraglia dei pittori di Venezia, per la quale pagò l’iscrizione nel 1712, facendo considerare così il ruolo che rivestì nel suo percorso artistico la frequentazione degli ambienti internazionali della Laguna, con particolare riferimento agli Olandesi e ai Fiamminghi. In Friuli il P. soggiornò presso i conti Caiselli ai quali legò la sua attività subentrando ad Antonio Carneo che aveva vissuto presso i nobili mecenati fino al 1690. «Con generosa ospitalità», scrive nel 1796 il de Renaldis, la famiglia Caiselli «lo tenne moltissimi anni presso di sé fino alla morte». Lusinghiera è la citazione di Luigi Lanzi circa la sua pittura: «insigne specialmente ne’ fiori: e con molta verità ritrasse eziando frutti, erbaggi, pesci, caciaggioni». Nel complesso il P. rappresenta per il Friuli l’affermarsi del genere della natura morta, come già in Veneto con Margherita Caffi e Giovanni Agostino Cassana. In particolare le fonti settecentesche testimoniano nel palazzo dei Caiselli una stanza dedicata interamente alle sue nature morte. Il pittore fu attivo anche per numerose altre famiglie friulane, tra le quali gli Attimis, i Concina, i Giacomelli, i Morelli de Rossi, i del Torso, i Valentinis. Attraverso, in particolare, gli studi del Miotti, la critica individua due fasi principali nella pittura del P., al quale complessivamente vengono assegnate una quarantina di opere. Da un periodo in cui prevalgono i riferimenti alla natura morta della tradizione napoletana – ma soprattutto alla Caffi, al Cassana e ai nordici presenti nelle collezioni padovane e veneziane – l’artista matura infatti un proprio linguaggio personale. In una saldatura rinnovata tra i generi della natura morta e della pittura di paesaggio, si fanno così tipiche della produzione del P. raffinate composizioni di fiori e frutta in primo piano su lirici sfondi naturalistici. Martina Visentin

URBANI ANDREA E MARINO (1711 - 1798)

Prolifico autore di affreschi, per lo più di tipo decorativo, fantasioso organizzatore di complessi pittorici specie in ville e palazzi del territorio veneto, il veneziano Andrea U. nell’arco della sua lunghissima attività operò in Friuli a più riprese dal 1742 al 1796, affiancato, a partire dal 1785 almeno, dal figlio Marino, il quale in proprio lavorò per alcune famiglie nobili fino al 1803. A. U., nato a Venezia il 23 agosto 1711 e morto a Padova il 24 giugno 1798, fu, per la stessa ammissione del pronipote Domenico che ne stese un accurato profilo, autodidatta e predilesse la maniera del Mengozzi Colonna. La prima impresa pittorica tra quelle che gli si conoscono viene ritenuta la decorazione condotta nel 1742 nella chiesa di S. Giovanni della città di Portogruaro, che al tempo faceva parte della Patria del Friuli, con un’Assunzione della Vergine (dagli spericolati virtuosismi di derivazione tiepolesca) nel soffitto della cappella dell’Addolorata, cui seguì nel 1748 una più misurata raffigurazione dell’Eucarestia nel presbiterio. Tra i due dipinti di Portogruaro si situa un lungo soggiorno udinese, caratterizzato soprattutto dalla decorazione di sette cappelle laterali del duomo di Udine (S. Marco, S. Giuseppe, Madonna della Divina Provvidenza nel 1742; Trinità, SS. Ermacora e Fortunato, SS. 81

Giovanni Battista e Eustachio, Santissimo Sacramento nel 1749). L’insieme di questi lavori, per la varietà dei temi affrontati, talvolta prettamente decorativi, ma spesso arricchiti dalla presenza di figure umane, costituisce il momento chiave per la comprensione della poetica dell’U. e delle sue successive scelte. Nel 1745 affrescò insieme con Nicolò Baldissini il soffitto della chiesa di S. Pietro Martire: tre quadroni di grande impatto visivo che si rifanno al soffitto del Tiepolo nella chiesa veneziana dei Gesuati, raffiguranti l’Istituzione del Rosario, il Trionfo di S. Pietro Martire, la Predica di S. Vincenzo Ferreri, scomparso nel crollo del 1840, dove ad A. U. spetta la dipintura della parte architettonica e al Baldissini quella delle figure. A questi stessi anni risale probabilmente l’affresco che decora il soffitto dello studio-salotto della villa della Torre Valsassina a Ziracco (La gloria della famiglia della Torre). Nel 1749 dipinse l’organo e il pulpito del duomo di San Vito al Tagliamento (opere perdute). Ritornato a Venezia, A. iniziò una lunga ed intensa attività di scenografo, che impresse alla sua arte (anche a quella di decoratore di ville e palazzi) le caratteristiche peculiari proprie di questo genere di attività: così nello scenografico soffitto della chiesa di S. Teonisto a Treviso, affrescato nel 1758 (e distrutto nell’ultima guerra), così nel salone del palazzo Mangilli di Udine, databile agli stessi anni, dove raffigura la Gloria della famiglia Mangilli, in un turbinio di colonnati, di personaggi, di vasi di fiori. Il settimo e l’ottavo decennio del Settecento videro l’U. lontano dal Friuli, impegnato prima nel viaggio in Russia, a Pietroburgo (1760-63), poi nelle decorazioni e nelle scene per il teatro Tron di San Cassiano, infine negli importanti cicli a fresco a Fossolovara, Padova, Noventa e soprattutto Montegalda, dove nella villa dei conti Marcello ebbe modo di esprimere (1780) in maniera compiuta e ad alti livelli qualitativi tutta la sua poetica. Con il 1783 A. ritornò in Friuli per decorare coro e navata della chiesa parrocchiale di Cavasso Nuovo e poi, con l’aiuto del figlio Marino, i palazzi udinesi dei conti di Brazzà e Deciani e la villa Otellio di Pradamano. Spettacolare soprattutto la pittura del palazzo di Brazzà, con soluzioni pittorico-spaziali di grande interesse nella rampa delle scale, dove si impongono una potente e drammatica Caduta di Icaro e riquadri con tipiche vedute architettoniche o rovinistiche arricchite dalla presenza di figurine in vario atteggiamento. Chiude la sua attività friulana il ciclo a fresco (perduto) eseguito per la chiesa di S. Ermacora di Udine commissionatogli dai conti d’Arcano e per il castello degli stessi Arcano, nel 1796, la complessa decorazione della sala da pranzo, con riquadri di paesaggi di fantasia. Il 24 giugno 1798 A. U. morì a Padova, ma i legami con il Friuli permasero nella persona di Marino (1764-1853), che nel 1801 dipinse ornati e prospettive a fresco per i palazzi Fistulario Plateo e Caiselli di Udine e per la villa Caiselli di Cortello, dove operò insieme con Giambattista Canal. Giuseppe Bergamini

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L’ATTIVITA’ SVOLTA ORA NEL PALAZZO

Il Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale (Dium) nasce nel 2016 a conclusione di un lungo percorso di riorganizzazione interna dei Dipartimenti dell’Università di Udine ed è la struttura di riferimento per i corsi di studio nei settori dei beni culturali, degli studi letterari, storici, filosofici, artistici e sociali. Si tratta di corsi che rappresentano sia uno degli assi tradizionali dell’insegnamento universitario - gli studi umanistici e sociali – sia uno dei settori potenzialmente più ricchi e innovativi dell’offerta formativa dell’Ateneo friulano - le scienze della comunicazione e del multimediale, le arti figurative, audiovisive e dello spettacolo, il turismo culturale -. Sul fronte della didattica la missione che si è prefisso il Dium, infatti, è proprio far dialogare vocazioni e competenze scientifiche e didattiche solidamente fondate sulla tradizione degli studi umanistici e sociali tramite corsi orientati verso l’innovazione. L’obiettivo è aprirsi al mondo dell’impresa, dell’amministrazione pubblica e delle organizzazioni della società civile, tenendo conto che in un mondo che cambia velocemente il sapere umanistico deve saldarsi sempre più alla conoscenza e all’utilizzo delle nuove tecnologie e dei nuovi media.

Il Dium, al quale afferiscono attualmente un’ottantina fra professori e ricercatori e una quindicina di unità di personale tecnico-amministrativo, gestisce: - quattro corsi di laurea triennale (Conservazione dei beni culturali; Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo; Lettere; Scienze e tecniche del turismo culturale); - sei lauree magistrali, di cui quattro in convenzione interateneo con l’Università di Trieste(Scienze dell’antichità, Italianistica, DAMS/Film and Audiovisual Studies, Filosofia, Studi storici, Storia dell’arte). Inoltre i docenti del Dium partecipano a quattro corsi di Dottorato di ricerca anche interateneo con le Università di Trieste e Venezia (Studi linguistici e letterari, Studi storico-artistici e audiovisivi, Scienze dell’antichità, Storia delle società, delle istituzioni e del pensiero dal Medioevo all’Età contemporanea). Sono anche attive nell’ambito della formazione di terzo livello la Scuola di specializzazione in Beni storico-artistici e la Scuola Interateneo di Specializzazione in beni archeologici con sede ad Aquileia. Decisamente ampia e differenziata l’offerta di iniziative di formazione specifica quali master, corsi di perfezionamento e di aggiornamento. Per quanto concerne la ricerca scientifica il Dium pone alla base delle sue molteplici e articolate attività la fondamentale sinergia tra due macro-aree scientifico-disciplinari che sono destinate a svolgere un ruolo cruciale nel futuro sviluppo delle discipline umanistiche: da una parte il settore della storia, delle arti e della cultura e, dall’altra, l’ambito della società, della tecnologia e della comunicazione, declinato attraverso i settori scientifici dei nuovi media, dei linguaggi, dei sistemi di pensiero e del mutamento sociale. Fra queste due aree si colloca l’innovazione rappresentata dal digitale e dal postdigitale, che funge da collegamento strutturale tra i due ambiti.

Molto intensa, sul piano delle risorse strumentali, è l’attività nelle sedi di Udine e di Gorizia di numerosi e qualificati laboratori, in particolare nelle aree dei beni archeologici, artistici, librari, del cinema, della multimedialità, della musica. Particolarmente sviluppata è l’interazione con il territorio e con le realtà lavorative locali, grazie soprattutto a tavoli di consultazione e convenzioni per tirocini. Il Dium guarda al futuro proponendosi di sviluppare nuove iniziative didattiche in settori 83 di particolare interesse culturale e sociale, quali la valorizzazione turistica dei beni culturali e ambientali, le digital humanities e l’alfabetizzazione digitale (digital literacy, ovvero la capacità di utilizzare i nuovi media), l’editoria elettronica, il settore del restauro sia tradizionale sia digitale.

INFORMAZIONI TRATTE DAL SITO DELL’UNIUD

Digital Story Telling Lab –[promosso fortemente dall’allora Preside del Liceo Stellini Giuseppe Santoro, scomparso nel dicembre 2017, che vi ha dedicato pensieri ed energie insieme con gli esperti dell’Università di Udine, in primis la prof.ssa Maria Pia Comand, N.d.A.] Il Digital Storytelling Lab (DSL) – Laboratorio della Narrazione digitale e multimediale è un Laboratorio territoriale sul tema dello storytelling digitale di cui l'Università di Udine è partner. E’ un luogo di formazione, di sperimentazione e di produzione, che mette a frutto il potenziale pedagogico della narrazione per sviluppare conoscenze e competenze, agendo in modo sensibile sul tessuto culturale, sociale e produttivo del territorio. Il Laboratorio propone una serie di corsi per l'anno 2017/18 rivolti al primo e al secondo ciclo.

PER LO STUDIO STORICO:L’archivio Caiselli, depositato attualmente presso l’A.S.U., è in via di riordino dopo gli sconvolgimenti avvenuti nel corso del secolo XX. Le antiche segnature pertanto non aiutano nel reperimento, né del resto la citazione del della Porta è corredata da sufficienti dati per permettere di rintracciare il documento originale. I documenti di questo fondo utilizzati nel corso del lavoro sono stati segnalati dalla dott. Liliana Cargnelutti.

Bibliografia essenziale sul Palazzo: E. BARTOLINI – G. BERGAMINI – L. SERENI, Raccontare Udine. Vicende di case e palazzi, Udine 1982, pp.189-193; G.B. DELLA PORTA, Memorie su le antiche case di Udine, a cura di V. MASUTTI, Udine 1984- 87, I, 1984, pp.322-329; G. BERGAMINI, Presenze friulane di Andrea e Marino Urbani, in “Arte/Documento”, 5, 1991, pp.210-217; R. DE FEO, Per Giambattista Canal e Giuseppe Borsato: il “Casino del Sig. Sabadin” e varie cose in Casa C.ti Caiselli, «A|D», 7 (1993), 217-224; A. BIASI, Udine: antiche e nuove ragioni di organizzazione dello spazio urbano, in 1797 Napoleone e Campoformido. Armi, diplomazia e società in una regione d’Europa, a cura di G. Bergamini, catalogo della mostra (Villa Manin di Passariano, 12.10.1997- 11.1.198), Milano, Electa, 1997, pp.104-112; M. RONGA, La famiglia Caiselli : successi commerciali e realizzazioni fondiarie, in “Ce fastu?”, a.74 (1998), 2, pp.253-266; PIETRO RUSCHI, Il Palazzo Caiselli di Udine: dallo studio delle vicende costruttive al progetto di restauro, in L’Università del Friuli. Vent’Anni, Udine, Forum, 1999, pp. 387-397G. BERGAMINI – G. D’AFFARA, Palazzi del Friuli Venezia Giulia, Magnus, Udine 2001; C. FURLAN, Mecenatismo artistico e collezionismo in Friuli tra Sei e Settecento: la famiglia Caiselli, in EAD., Da Vasari a Cavalcaselle. Storiografia artistica e collezionismo in Friuli dal Cinquecento al primo Novecento, a cura di C. Callegari e P. Pastres, Forum, Udine 2007, pp.63-76;. D. NOBILE, La grazia del col colore nelle ville e nei palazzi friulani. La decorazione neoclassica, in Arte in Friuli. Dal Quattrocento al Settecento, a cura di P. Pastres, Società Filologica Friulana, Udine, 2008, pp.405-419.

Le notizie sono state raccolte, assemblate e stese dalla prof.ssa Francesca Venuto, referente del progetto “Alla scoperta dei beni culturali della città e del territorio” per il Liceo Classico “J. Stellini” di Udine.

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