Schede Testi Di Metastasio
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DIDONE ABBANDONATA La Didone abbandonata, rappresentata per la prima volta a Napoli nel 1724 con dedica al viceré di Napoli Michele Federico d'Althann, fu l'opera con la quale Metastasio si affermò sulla scena teatrale italiana. Il ruolo di Didone era interpretato da Marianna Benti Bulgarelli, detta la Romanina, che aveva incoraggiato gli esordi di Metastasio sulla scena napoletana e aveva già cantato con successo nell'azione teatrale Gli orti esperidi nel 1721. Il melodramma inaugura la prima fase (dal 1724 al 1730, anno della partenza per Vienna) della produzione melodrammatica metastasiana e corona un periodo di intensa attività poetica e teatrale, durante il quale Metastasio aveva sperimentato diverse modalità di scrittura (epitalami, versi, azioni teatrali) alla ricerca di un suo specifico linguaggio poetico. Il successo dell'opera fu determinante nella vita di Metastasio che abbandonò la pratica forense e si dedicò definitivamente al teatro. La storia fu tratta dal quarto libro dell'Eneide di Virgilio: novità significative sono il motivo dell'innamoramento della sorella di Didone per Enea e dell'amore di Osmida per Selene, che introduce il modulo della doppia coppia di innamorati, tipico dei testi metastasiani successivi. Su tutti i personaggi domina la figura di Didone, uno dei ritratti femminili più significativi di Metastasio; il modello virgiliano era però ben lontano, come nota De Sanctis, che sottolinea la compresenza di influssi letterari e teatrali diversi: «La Didone virgiliana è sfumata; qui vedi l'Armida del Tasso messa in musica, ma è un'Armida col comento della Bulgarelli». Passionale, impetuosa, volitiva, Didone è una figura femminile autentica che emoziona nella sua fragilità di donna abbandonata dall'amante, stupisce nella veemenza degli spergiuri contro gli dei, impressiona per la maestà e la dignità regali con cui domina incontrastata la scena. L'eroismo passionale che la spinge al suicidio non ha nulla di scontato o di prevedibile, ma cresce nello sviluppo narrativo del dramma fino allo spettacolare tragico epilogo (il rogo in scena) che concludeva l'opera, con evidenti concessioni al gusto del teatro barocco. Di fronte a lei Enea risulta personaggio più sbiadito, impietrito nel conflitto irresolubile tra l'obbedienza al destino e agli dei e l'amore per Didone, nella dialettica senza uscita tra dovere e piacere che invece, nei drammi più maturi, si risolverà positivamente in nome di quella alleanza ragione-passione, sentimento e disegno provvidenziale che ricomponeva, nell'ambito della razionalità arcadico-illuminista, le fratture tra l'individuo e la società; eroe predestinato, Enea perde in realtà l'identità eroica virgiliana e, con essa, la giustificazione del suo atteggiamento di amante infedele e diventa il tipico eroe melodrammatico dominato da una logorante perplessità che lo spinge a indugiare, a ravvedersi, a rimettere continuamente in discussione le sue strategie. Il pius Enea subisce gli eventi, opponendo loro una dialettica dell'irresolutezza e dell'incertezza che diventerà uno dei moduli tipici del linguaggio melodrammatico. Anche degli altri personaggi viene suggerito un ritratto psicologico, anche se appena accennato: Selene, la sorella di Didone, è figura secondaria eppure importante per lo svolgimento, animata dalla passione inconfessata per Enea e patetica in questo suo amore sommerso e continuamente affiorante; Osmida, cortigiano traditore incapace di reggere fino in fondo il suo ruolo; Iarba, figura più sfumata, sulla quale convergono alcuni stereotipi (rozzezza di comportamento, irruenza, scarsa finezza) della figura del barbaro. La Didone abbandonata fu interpretata da alcuni critici come un primo esempio di libretto che contiene già alcuni elementi del dramma metastasiano maturo come l'accordo recitativo-aria, il conflitto amore-passione, il modello dell'eroe indeterminato, che troveranno però una dimensione più definita e organica nei drammi successivi; altri critici interpretarono la Didone come il risultato di un momento di straordinaria creatività artistica mai più ripetuto da Metastasio. Il successo dell'opera fu immediato e notevolissimo; la Didone fu il libretto più utilizzato di tutti i tempi e numerosissimi sono i compositori che lo hanno musicato. Metastasio fece anche una seconda versione più breve dell'opera nel 1751 (poi pubblicata, assieme alla versione originaria nell'edizione di Parigi del 1755), su richiesta di Carlo Broschi, che intendeva rappresentarla alla corte di Madrid. Alla Didone era accompagnato, secondo la consuetudine dell'epoca, l'intermezzo comico L'impresario delle canarie, composto da due deliziosi quadretti da rappresentarsi negli intervalli del melodramma serio, che contengono una satira contro le abitudini del teatro contemporaneo, come le arie di bravura, slegate dal contesto organico dell'opera, e contro il protagonismo dei cantanti. Il linguaggio comico-parodico de L'impresario delle canarie è un raro esempio di un'escursione di Metastasio in una direzione che non sarà poi approfondita, fatta eccezione per i versi dello Scherzo estemporaneo e per l'azione teatrale Le Cinesi. CATONE IN UTICA Composto negli anni romani, prima della partenza per Vienna, Catone in Utica risale a una fase di sperimentalismo, di ricerca, che segue il successo della Didone, in cui Metastasio provò formule poetiche e teatrali diverse. Nel Siroe, ad esempio, rappresentato nel 1726, si approfondisce la tematica sentimentale; nella Semiramide riconosciuta, del 1729, si intensifica l'intreccio e si introducono meccanismi tipici del teatro classico come il riconoscimento, il travestimento e l'agnizione finale. Nel Catone in Utica prevale invece il modello graviniano, la tragedia di argomento romano in cui vengono celebrati la virtù, l'eroismo e il rigore morale dell'individuo. Il dramma narra la fine di Marco Catone detto l'uticense, sostenitore di Pompeo che si suicidò alla notizia della vittoria di Cesare. Celebrato in epoca rivoluzionaria come uno strenuo difensore della libertà, Catone era già simbolo, fin dalla tradizione dantesca, di estremo rigore etico e patriottico. Nella prima rappresentazione, avvenuta a Roma nel gennaio del 1728, Catone moriva in scena e la didascalia finale si soffermava sui dettagli sanguinosi del suicidio; l'episodio suscitò scandalo perché contrastava con le regole consuete del melodramma che censurava gli aspetti più cruenti; al teatro d'Alibert detto delle Dame dove il Catone si rappresentava, fu trovata una satira («Metastasio crudel, tu ci hai ridotto/tutti gli eroi del Tebro in un condotto») giocata sull'equivoco che poteva suggerire la didascalia finale del libretto che si soffermava sulla scena del suicidio ambientata in una «strada sotterranea» che poteva essere scambiata per una cloaca. Algarotti, nell'Epistola a Fillide interpretò polemicamente la scelta di Metastasio della morte in scena come una concessione alla dipendenza della parola dalla musica. Di fronte alle critiche Metastasio reagì con insolita violenza e scrisse dei versi impetuosi e polemici, pubblicati per la prima volta da Brunelli, in difesa del suo dramma. A chi accusava Catone di essere «rustico troppo e arrogante», Metastasio rispondeva ironicamente che forse l'eroe, per essere accettato, avrebbe dovuto esprimersi come un «cavalier francese» che parla alle dame; e giustificava il suicidio finale come un gesto di grandissimo eroismo, «d'alma atroce generoso effetto», da parte di un eroe che tanto amò la libertà latina «che meno amò la vita». Difendeva inoltre l'uso di immagini cruente e la sentenziosità severa della lingua, necessarie a esprimere con coerenza lo stato d'animo del personaggio, secondo il criterio classicista della conguenza tra soggetto e registro stilistico, ribadito anche nelle note alla traduzione dell'Arte poetica di Orazio. La polemica di Metastasio in difesa della dimensione tragica del Catone rientrava d'altronde nella sua convinzione, espressa nell'Estratto dell'arte poetica, che il melodramma fosse una derivazione della tragedia aristotelica, aperto quindi a epiloghi drammatici. Nonostante la difesa convinta della soluzione più cruenta e realistica, Metastasio acconsentì a scrivere un altro finale, in cui Catone non moriva più in scena e la sua morte veniva raccontata dalla figlia Marzia. Per l'edizione parigina Metastasio voleva che fosse data la priorità a quest'ultima versione; tuttavia, per un errore dell'editore, la lectio anteriore fu stampata prima e la seriore inserita solo in appendice. Al centro del dramma la figura di Catone, chiusa nella sua impenetrabile convinzione di virtù e eroismo; rarissime smagliature (qualche accenno di pietà paterna, notevolmente più accentuato nella seconda versione) non incrinano un ritratto compatto, assolutamente irreale nella sua fissità. Nonostante le premesse e nonostante l'ammirazione di Metastasio per il cittadino amante della libertà latina, Catone non si presenta come un eroe dinamico, travolgente, non si impone con la forza delle sue motivazioni, ma piuttosto con la risolutezza inappellabile delle sue azioni. E la fine feroce e cruenta è in fondo l'esito naturale di un atteggiamento contraddistinto dall'eccesso, sia nella difesa della tradizione, sia nella mancanza di capacità di ragionare senza pregiudizi. La seconda versione del dramma però proponeva non solo un intreccio leggermente diverso, ma ridefiniva anche in parte la figura dell'eroe che appariva animata da una maggiore inquietudine e sensibilità, da un maggiore spirito patetico, nonostante l'identico esito tragico. L'aria