XXV CONGRESSO SISP

Università degli Studi di Palermo Dipartimento Studi su Politica, Diritto e Società “Gaetano Mosca”

Sezione Sistema politico italiano

Panel Il mezzogiorno nel sistema politico italiano

Le vie del declino di un modello di rappresentanza: il ceto politico meridionale nei governi della transizione italiana

di Giancarlo Minaldi, Università di Palermo Via del Bersagliere, 56 – 90143 Palermo [email protected] 1. La rappresentanza del mezzogiorno nel governo nazionale: dal modello consolidato della prima repubblica alle incognite della transizione

A centocinquanta anni dall‟unità nazionale e a oltre sessanta dal pieno ingresso dell‟Italia nel novero delle democrazie occidentali la questione meridionale, nei termini generali di una significativa distanza socio-economica e culturale fra larga parte del mezzogiorno e il resto del Paese, rimane un elemento cruciale di quel deficit di integrazione che ancora connota il sistema politico italiano. D‟altra parte, l‟avvio e il dipanarsi della lunga fase di transizione dell‟ultimo ventennio sono stati fortemente condizionati dalla frattura centro-periferia, per il crescente rilievo assunto da una “questione settentrionale” che ha in parte emarginato dal dibattito e dall‟agenda politica l‟irrisolta questione meridionale. Partendo da questa generale premessa, questo paper propone, nei termini di una primissima ricognizione esplorativa, di tornare a esaminare la questione meridionale da un‟angolatura di politics, attraverso l‟osservazione del ceto politico apicale e, più in generale, della rappresentanza politica del mezzogiorno nel governo nazionale, l‟arena istituzionale più visibile e legittimata nel processo di presidenzializzazione in atto nel sistema politico italiano (Calise 2006). La ragione di un tale proposito deriva anzitutto dalla considerazione delle specificità del modello di integrazione e di rappresentanza consolidatosi nel corso della prima fase di storia repubblicana. Una fase in cui il deficit di integrazione è stato affrontato in primo luogo attraverso uno spiccato “equilibrio territoriale dei governi” (Calise e Mannheimer 1982, 48): una relazione di tendenziale proporzionalità tra incarichi governativi e aree geografiche del Paese intese, più specificamente, nell‟accezione di regioni di insediamento del consenso elettorale individuale. In un contesto in cui la struttura governativa promanava direttamente da quella parlamentare (Cotta 1979), talché la presenza di non parlamentari tra le fila degli esecutivi rappresentava una eccezione assai rara e circoscritta, l‟equilibrio regionale venne “assunto a criterio fondamentale per la formazione dei governi” (Allum 1975, 411). Il che determinò, soprattutto nella prima fase, l‟assenza di “una chiara relazione tra zone di insediamento subculturale dei partiti e parlamentari selezionati” (Cotta cit., 268). Il governo a direzione plurima dissociata (Ristuccia 1977) traeva la sua unitarietà dalla capacità di rappresentare interessi sezionali e territoriali per il tramite di un partito di massa, la Democrazia Cristiana, la cui mobilitazione individualistica del consenso (Pizzorno 1980, 76) aveva ben presto assunto i caratteri di un clientelismo orizzontale capace di mobilitare gruppi,

2 organizzazioni, categorie in forme e modalità del tutto inusitate rispetto al modello notabiliare della fase liberale. Al di là di qualsiasi considerazione etica, questo modello di rappresentanza si è consolidato realizzando un saldissimo nesso, quasi un rapporto diretto, tra elettorato e sfera governativa, portando “le basi sociali della rappresentanza politica fino nel cuore dell‟istanza sovrana del potere governativo” (Calise e Mannheimer cit., 14). Un nesso che ha contribuito a rafforzare quella propensione tipicamente italiana a privilegiare la richiesta di responsiveness molto più che di accountability nel circuito della rappresentanza politica (Sartori 1968). Certo, questo modello di rappresentanza non è stato immune da una certa variabilità nel corso del tempo e nelle diverse aree del Paese, così come appare piuttosto evidente che alcune condizioni strutturali ne favorirono lo sviluppo. A tal proposito, basti citare: - un contesto istituzionale caratterizzato dalla centralità del parlamento e da un sistema elettorale rigidamente proporzionale con la possibilità di esprimere preferenze multiple; - un sistema partitico caratterizzato dalla mancanza di alternanza e dal ruolo egemonico di un partito clientelare di massa come la Democrazia Cristiana; - un contesto socio-economico caratterizzato dalla crescita dell‟intervento pubblico e da politiche distributive incrementalmente finanziate attraverso misure di deficit spending. Quanto agli sviluppi del modello di rappresentanza, deve segnalarsi la progressiva crescita del tasso di meridionalizzazione dei governi. In particolare, dopo una lunga fase (1946-1976) di lieve sovrarappresentazione del ceto politico meridionale (complessivamente circa il 38% dei membri di governo eletti in circoscrizioni meridionali a fronte di una quota di elettori pari a circa il 34% del totale)1, negli anni ottanta si assiste a un progressivo squilibrio della rappresentatività territoriale, fino all‟ultimo governo di pentapartito della storia repubblicana, il sesto governo Andreotti (luglio 1989 – aprile 1991), che vede crescere la quota di parlamentari eletti in circoscrizioni meridionali fin quasi al 47% degli eletti, a fronte di una quota di elettori meridionali pari al 35% del totale nazionale2. L‟espansione del “sistema meridionale” connota dunque fortemente la vigilia del crollo del sistema partitico della prima repubblica, così come gli anni ottanta avevano fatto registrare una crescita

1 Nostra rielaborazione dati in Calise e Mannheimer cit.. Sono considerate circoscrizioni meridionali quelle comprese nelle Regioni Abruzzo, Molise, Campania, , Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. 2 Nostra rielaborazione dati del Ministero degli Interni e del Senato della Repubblica.

3 esponenziale del debito pubblico, in larga parte destinato a finanziare la crescente competizione infrapartitica e infracoalizionale nell‟ambito del pentapartito (Guarnieri 2006). Come è noto, l‟avvio della transizione, all‟inizio degli anni novanta, si presentò carico di aspettative nei confronti di un sistema politico che potesse finalmente rinnovarsi, in primo luogo nella composizione del suo ceto politico. Il che non implica, tuttavia, dare per scontato che quella fase si sia caratterizzata anche per un profondo e diffuso rinnovamento nella percezione della rappresentanza politica, finalmente intrisa di quella richiesta di accountability basata su competenza ed efficienza, tanto evocate, quanto spesso tradite in nome di un ben più visibile vantaggio individuale immediato. Non pochi segnali indicano quanto gli esiti parziali di una transizione ancora irrisolta siano stati ben al di sotto delle aspettative, ma sul punto si tornerà oltre. Per quel che attiene al più specifico tema in esame, date le generali premesse sin qui esposte, l‟interrogativo centrale, su ci proponiamo di soffermarci, riguarda l‟evoluzione di quel modello di rappresentanza territoriale nei nuovi scenari della transizione. In particolare, come si è evoluta la rappresentanza meridionale nei governi della transizione? Sono rintracciabili significative discontinuità nel corso del tempo e fra le coalizioni nel nuovo assetto bipolare? Come si è rinnovato quell‟antico nesso tra società e governanti a cui era stato improntato il modello di integrazione democristiano? Si tratta di interrogativi che richiederebbero esplorazioni assai approfondite, attraverso l‟uso di molteplici strumenti di indagine quantitativi e qualitativi. In questa sede ci limiteremo ad una prima ricognizione, con il principale obiettivo di affinare i quesiti e le possibili ipotesi interpretative.

Un elemento cruciale, per un esame dell‟evoluzione del ceto politico governativo e dei relativi modelli di rappresentanza, è senz‟altro costituito dalle variabili di contesto istituzionale. A tal proposito, una delle caratteristiche (e delle anomalie) più significative della transizione italiana può individuarsi nel mancato accompagnamento di questa fase di profonda trasformazione ad un complesso di riforme istituzionali che riflettessero, almeno in parte, le evoluzioni in atto. L‟unica rilevante eccezione può rintracciarsi nella riforma del sistema elettorale. Più precisamente, nella prima fase della transizione, in quella formidabile pressione a favore di una torsione maggioritaria del sistema che, del tutto impropriamente, assunse il ruolo di grimaldello del cambiamento. Pure essendosi risolta la dura battaglia referendaria con un plebiscito maggioritario, la formula mista (con il 25% di seggi ripartiti con formula proporzionale) salvò molte prerogative e identità

4 partitiche (Pasquino 2007), mentre il maggioritario uninominale plurality avrebbe dovuto ancorare la rappresentanza al territorio, attraverso una miscela di semplificazione e micropersonalizzazione in stile anglosassone3. Sugli esiti assai controversi di quel sistema misto avremo modo di tornare brevemente oltre. Qui basti evidenziare come, ad una prima osservazione, l‟applicazione di quel sistema elettorale non sembrerebbe porsi in netta contraddizione con il persistere di un modello di rappresentanza territoriale ed elettorale nei nuovi esecutivi. L‟altro elemento, che in qualche modo fa da sfondo ad una prima ricognizione del ceto politico meridionale nei governi della transizione, riguarda l‟evoluzione dei criteri di selezione, a partire dal ruolo della carica parlamentare. A tal proposito, gli ultimi diciassette anni si segnalano in primo luogo per la minor rilevanza della carica parlamentare ai fini della chiamata al governo (Verzichelli 2009). Escludendo la parentesi del governo tecnico presieduto da (1995-1996), quasi interamente composto da non parlamentari, tra il primo e l‟ultimo governo Berlusconi (1994-2008) la quota complessiva media di personale governativo (ministri, viceministri e sottosegretari) non eletto in uno dei due rami del parlamento sfiora il 26%. Cionondimeno, esaminando l‟evoluzione della quota di non parlamentari nelle singole compagini governative, viene in rilievo una spiccata variabilità intercoalizionale e infracoalizionale (Fig. 1).

3 Dall‟esito del referendum (indetto il 18 aprile 1993) volto ad abrogare la parte proporzionale della legge elettorale in vigore per il Senato, scaturirono le leggi 276 e 277 del 1993 che introdussero sia per il Senato, sia per la Camera un sistema misto che prevedeva l‟attribuzione del 75% dei seggi con il sistema maggioritario uninominale di tipo plurality e il restante 25% proporzionalmente. Più specificamente, alla Camera il riparto proporzionale dei seggi avveniva mediante un voto, espresso su apposita scheda, per liste di partito, senza possibilità di esprimere preferenze. Al contrario, al Senato il riparto proporzionale avveniva indirettamente e a livello regionale. Dopo avere eliminato i voti utilizzati da ciascuno dei partiti che avesse eletto suoi candidati nei collegi uninominali di ciascuna regione, venivano sommati tutti i voti non utilizzati dai partiti e i seggi della quota proporzionale venivano attribuiti ai candidati che raggiungevano la più alta cifra individuale (Pasquino 2006). Detto altrimenti, a differenza di quanto avveniva per la Camera, al Senato, scomputati i voti utili alle vittorie nei singoli collegi, i seggi venivano attribuiti ai migliori perdenti nei collegi uninominali.

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Fig. 1. Evoluzione della quota di non eletti al parlamento nei governi della transizione italiana

Non parlamentari (%) 60

50

40

30

20 Non eletti (%)

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0

Nostra elaborazione dati del Senato e della Camera dei Deputati

Questo dato, se da un lato segnala la mancata stabilizzazione del modello di selezione sotto lo specifico profilo della rappresentanza parlamentare, dall‟altro rende necessario integrare il tradizionale metodo di misurazione della rappresentatività territoriale attraverso la circoscrizione d‟elezione dei governanti (Calise e Mannheimer, cit.; Cotta, cit.), con metodi di rilevazione di tipo qualitativo, legati, cioè, alle biografie politiche e/o professionali dei singoli esponenti di governo4.

4 Tenendo conto della significativa quota di non eletti al parlamento nei governi della transizione italiana, nonché delle successive modifiche al sistema elettorale che hanno reso progressivamente meno esplicito e diretto il legame tra circoscrizione di elezione e rappresentanza territoriale (prima con la quota proporzionale del sistema misto, poi con l‟introduzione del sistema proporzionale con premio di coalizione e possibilità di candidature multiple), abbiamo classificato l‟appartenenza territoriale del ceto politico governativo, non soltanto sulla base della circoscrizione di elezione, ma anche sulla base di informazioni biografiche concernenti il territorio nel quale si è prevalentemente svolta, fino al momento della nomina governativa, l‟attività politica, nonché le circoscrizioni nelle quali si è eventualmente stati candidati in passato o nell‟ultima tornata, senza risultare eletti. Cionondimeno, in questa fase ci siamo limitati ad una schematica ricostruzione biografica dei singoli profili, prescindendo, come invece sarebbe ben più opportuno, da una sistematica ricostruzione delle carriere politiche mediante la consultazione di documenti e l‟effettuazione di un cospicuo numero di interviste semistrutturate.

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2. Il primo governo Berlusconi

La composizione del primo governo della transizione rivela, anzitutto, un inatteso tratto di continuità rispetto alla prima repubblica. Soltanto quattro dei sessantacinque componenti del nuovo governo non risultano eletti in parlamento. Una quota (circa il 6%) pressoché identica a quella del sesto governo Andreotti (Fig. 1). Il criterio elettivo, l‟ancoraggio parlamentare, in questa prima fase rimane dunque fondamentale per la selezione del nuovo ceto politico governativo. Al contrario, la rappresentatività territoriale degli eletti si caratterizza per una macroscopica emarginazione del ceto politico meridionale (Fig. 2). La storica vittoria elettorale del centrodestra nel „94 scaturisce da una doppia alleanza “separata” del nuovo partito di con la Lega Nord e il Ccd nelle regioni centro-settentrionali (il Polo delle Libertà), e con l‟ex Msi-An e il Ccd nelle regioni centro-meridionali (il Polo del Buongoverno). Ebbene, al di là della migliore performance elettorale fatta registrare dal Polo delle Libertà5, la successiva composizione dell‟esecutivo sembra segnalare una marginalità strategica dell‟alleanza centro-meridionale. La quota di eletti nelle circoscrizioni meridionali non arriva al 30% (4 ministri e 14 sottosegretari su 61 eletti), risultando quasi identica a quella degli eletti nelle sole circoscrizioni lombarde (17 su 61, pari a quasi il 28%). Il raffronto con il passato mette in evidenza la dimensione della svolta, non soltanto per la contrazione di circa diciassette punti della rappresentanza meridionale rispetto all‟ultimo governo di pentapartito (Fig. 2), ma anche e soprattutto se si considera che nei primi trent‟anni di storia repubblicana la quota di incarichi governativi affidati ad eletti nelle circoscrizioni lombarde si attestava mediamente al 12,9%, a fronte di una quota media di elettori pari al 15,4% del totale6. Il marcato squilibrio territoriale verso il settentrione (la cui quota di eletti raggiunge il 54%, vale a dire 12 ministri e 21 sottosegretari) è accompagnato dall‟egemonia che nella scarna delegazione meridionale esercitano gli ex missini (12 dei 18 eletti nel meridione sono esponenti politici di An)7. Soltanto cinque sono gli eletti fra le fila di , mentre, emblematicamente, il Ccd, l‟erede più diretto della diaspora democristiana, conta su un solo rappresentante meridionale al governo.

5 Alla Camera il Polo delle Libertà nella quota maggioritaria ottiene il 22,8% e 164 seggi, il Polo del Buongoverno il 14,9% e 129 seggi. 6 Vedi n. 1. 7 Sono considerate circoscrizioni settentrionali quelle comprese nelle Regioni Piemonte, Val d‟Aosta, Liguria, Emilia- Romagna, Lombardia,Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Sono altresì considerate circoscrizioni centrali quelle comprese nelle Regioni Toscana, Marche, Umbria e Lazio.

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Detto altrimenti, nonostante i lusinghieri risultati elettorali ottenuti nelle regioni meridionali, Forza Italia si presenta subito come un partito del nord, scarsamente interessato a valorizzare la propria rappresentanza meridionale. Quanto alla provenienza territoriale della delegazione meridionale, restano escluse dalla rappresentanza Abruzzo, Molise e Basilicata, mentre le regioni maggiori si dividono in modo tendenzialmente proporzionale alle rispettive quote di elettorato i pochi posti disponibili8. Sono infine tre su cinque gli esponenti politici meridionali di Forza Italia non eletti in collegi uninominali, bensì nelle liste proporzionali per la Camera dei deputati: il ministro degli esteri, Antonio Martino, economista e cofondatore del partito, eletto nella seconda circoscrizione siciliana; il sottosegretario ai trasporti e coordinatore del partito in Sicilia, Gianfranco Micciché, eletto nella prima circoscrizione siciliana; il sottosegretario agli interni, Marianna Li Calzi, eletta nella prima circoscrizione campana. Significativamente, i restanti esponenti meridionali del governo (15) risultano invece tutti eletti in collegi uninominali. Restando ad un livello d‟analisi impressionistico, si direbbe che, oltre ad avere emarginato la rappresentanza meridionale, il principale partito della nuova coalizione di centrodestra non attribuisca particolare rilievo al criterio del consenso individuale come strumento di selezione del ceto politico meridionale nell‟inner circle governativo. Verificheremo oltre se questa tendenza verrà confermata.

8 In particolare, la delegazione meridionale risulta composta da: 6 eletti in Sicilia, 5 in Campania, 3 in Puglia, 3 in Sardegna e 1 in Calabria.

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Fig. 2. Tassi di meridionalizzazione degli esecutivi Meridionalizzazione esecutivi 50

40

30

20

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0

Tassi di meridionalizzazione degli eletti tassi di meridioalizzazione complessivi

3. Il primo ciclo di centrosinistra (1996-2001)

Il primo governo Prodi (maggio 1996 – ottobre 1998), sostenuto da una maggioranza di centrosinistra con il determinante appoggio esterno di Rifondazione comunista, sancisce una prima netta discontinuità rispetto al criterio di selezione parlamentare-elettivo. Per la prima volta nella storia repubblicana quasi un terzo dei componenti di un governo politico (23 su 72) non risulta eletto in parlamento (Fig. 1). Cionondimeno, uno schematico esame dei profili biografici di questa nutrita pattuglia rivela come il numero complessivo di quelli che potremmo definire “tecnici d‟area” non superi le sei unità (circa l‟8% del totale). I restanti non eletti appartengono tutti al ceto politico dei partiti di centrosinistra e, fra questi, due sono stati candidati e non eletti9. Detto altrimenti, il criterio di selezione del primo governo di centrosinistra con la partecipazione maggioritaria dell‟ex Pci rimane strettamente partitico, ma in misura significativa svincolato dalla rappresentanza elettorale.

9 Più in particolare, otto sono esponenti politici di partiti di centro (Ppi e Rinnovamento italiano), sette del Pds, uno dei Comunisti Unitari e uno dello Sdi.

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Quanto alla rappresentanza territoriale, la composizione del primo governo Prodi rivela una relazione piuttosto netta con le tradizionali zone di insediamento subculturale della sinistra, risultando la rappresentanza meridionale ancor più marginale di quanto non fosse nel primo governo Berlusconi. Gli eletti nelle circoscrizioni meridionali (3 ministri e 10 sottosegretari) superano di poco il 25% della componente parlamentare del governo (49 membri), mentre, fra i non eletti, coloro che svolgono la propria attività politica prevalentemente nel mezzogiorno sono solo tre sottosegretari10. Quanto ai dicasteri controllati dal ceto politico meridionale, si tratta del ministero senza portafogli per le pari opportunità, affidato ad Anna Finocchiaro, eletta deputato nella lista proporzionale del Pds nella seconda circoscrizione siciliana; il ministero delle politiche agricole, guidato dal senatore del Ppi Michele Pinto, eletto in Campania attraverso il recupero proporzionale; il ministero per le comunicazioni, guidato da dell‟Unione Democratica, eletto deputato nel collegio uninominale di Avellino. Due dei tre ministeri controllati da rappresentanti meridionali sono dunque affidati ad eletti nella quota proporzionale a liste bloccate, la più distante dal modello di rappresentanza fondato sul consenso individuale e territoriale. Ciò detto, al di là della marginalità qualitativa e quantitativa della rappresentanza meridionale, la netta caratterizzazione subculturale della compagine governativa emerge osservando i tassi di rappresentanza delle altre zone territoriali. In particolare, la componente di eletti nelle circoscrizioni lombarde passa da poco meno del 30% nel primo governo Berlusconi, a circa il 6% (appena 3 su 49 eletti), mentre gli eletti nelle circoscrizioni dell‟Italia centrale passano dal 15 a quasi il 37% (18 su 49 eletti). Infine, per quanto attiene alla collocazione partitica e territoriale della ristretta pattuglia meridionale, deve segnalarsi la tendenziale proporzionalità delle deleghe rispetto alla consistenza elettorale dei singoli partiti della coalizione (sei incarichi al Pds, tre al Ppi e uno ciascuno a Rinnovamento Italiano, Unione Democratica, Partito Sardo d‟Azione, Verdi e Sdi) e la lieve sovrarappresentazione (rispetto alla consistenza demografico - elettorale delle singole regioni) della Sardegna e dell‟Abruzzo (quattro incarichi alla Campania, tre ciascuno alla Sicilia, la Sardegna e l‟Abruzzo, due alla Puglia e uno alla Calabria).

10 Specificamente, il sardo Giorgio Macciotta, Ds, sottosegretario al Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica, il pugliese Antonio Bargone, Ds, candidato non eletto alla Camera nel collegio uninominale di Brindisi, e il siciliano Antonino Mirone proveniente dal Patto Segni.

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Il successivo primo governo D‟Alema (ottobre 1998 – dicembre 1999), nato a seguito del ritiro dell‟appoggio esterno del Prc al governo Prodi, è sostenuto da una coalizione di centrosinistra con il ruolo determinante di una nuova formazione politica centrista (l‟Udr), composta per lo più da parlamentari eletti in liste di centrodestra, e di una nuova formazione politica di sinistra (il Pdci), nata da una scissione all‟interno del Prc. Se, da un lato, la nuova compagine governativa conferma una partecipazione piuttosto elevata di non parlamentari (27 su 85, pari a circa il 32%), dall‟altro fa segnare una significativa discontinuità rispetto alla rappresentanza meridionale, che si attesta a quasi un terzo dei componenti (Fig. 2). Più specificamente, 18 dei 58 eletti (5 ministri e 13 sottosegretari) provengono da circoscrizioni meridionali, mentre, su 27 non eletti, 7 appartengono al ceto politico meridionale (un ministro e sei sottosegretari)11. Anche in questo caso, i “tecnici d‟area” (appena sei) rappresentano una netta minoranza. La composizione partitica della rappresentanza meridionale fornisce una prima spiegazione dell‟incremento. In primo luogo, quattro dei diciotto eletti nel mezzogiorno provengono da partiti di centrodestra e sono transitati all‟Udr (tre) e al Ppi (uno). Si tratta di , deputato eletto in Sicilia nella lista del Ccd-Cdu, transitato all‟Udr e nominato ministro delle comunicazioni; , senatore eletto in Calabria mediante il recupero proporzionale, transitato dal Ccd all‟Udr e nominato sottosegretario ai beni culturali e ambientali; Marianna Li Calzi, già sottosegretario nel primo governo Berlusconi, deputata eletta nella lista proporzionale di Fi in Puglia, transitata all‟Udr e nominata sottosegretario di grazia e giustizia; Ferdinando De Franciscis, deputato eletto nel collegio uninominale campano di Maddaloni, transitato dal Ccd-Cdu al Ppi, nominato sottosegretario alle finanze. Fra i non eletti, si segnala invece il transito di Stefano Cusumano, candidato alla Camera nel collegio uninominale siciliano di Sciacca, che lascia il Ccd-Cdu per l‟Udr, ottenendo la nomina di sottosegretario al bilancio e alla programmazione economica. Abbiamo citato i dati essenziali di questi surfers12, perché paiono segnalare il tentativo di un recupero, sia pur parziale e apparentemente assai debole, di una rappresentanza in qualche modo ancorata al modello democristiano di mobilitazione individualistica del consenso.

11 Quattro di questi sono stati candidati e non eletti in circoscrizioni meridionali. 12 Possono definirsi surfers quei politici italiani che, pur prefiggendosi di scalare le vette della leadership “sono in realtà costretti ad accettare una lunga navigazione che non porta a un‟elevata capacità di rendiconto, ma che è sufficiente per

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D‟altra parte, il primo governo D‟Alema si segala anche per una inversione nelle proporzioni della rappresentanza partitica del ceto politico meridionale, con i centristi che si trovano a svolgere un inedito ruolo egemone (otto sono gli iscritti al Ppi, cinque all‟Udr, uno a Rinnovamento Italiano e soltanto cinque ai Ds). Quanto alla provenienza territoriale, la Puglia si trova ad essere fortemente sovrarappresentata rispetto alle due principali regioni del mezzogiorno (sono sette i pugliesi, cinque i siciliani e quattro i campani), suggerendo una certa relazione con la provenienza e il radicamento territoriale del Presidente del Consiglio, Massimo D‟Alema. D‟altra parte, il rafforzamento della rappresentanza meridionale nel nuovo governo si realizza quasi esclusivamente a scapito della rappresentanza delle tradizionali aree di insediamento subculturale della sinistra. La rappresentanza elettiva dell‟Italia centrale perde infatti circa dieci punti percentuali (da quasi il 37% a poco più del 27% degli eletti), mentre quella dell‟Italia settentrionale rimane sostanzialmente stabile. Quanto, infine, alla caratterizzazione qualitativa della nuova rappresentanza meridionale, l‟avanzamento, rispetto al governo Prodi, appare altrettanto evidente, annoverando la delegazione meridionale, oltre alla presidenza del consiglio, i seguenti incarichi apicali: la vicepresidenza del consiglio, affidata al popolare , eletto deputato nella prima circoscrizione siciliana; il ministero degli interni, affidato alla popolare Rosa Russo Jervolino, eletta deputato nel collegio uninominale di Napoli-Fuorigrotta; il ministero dell‟università, affidato ad un altro popolare, il senatore campano , eletto nel collegio uninominale campano di Ariano Irpino; il ministero delle comunicazioni (di cui si è già detto) e il ministero del lavoro, affidato al sindaco di Napoli e dirigente nazionale del Pds, .

Il secondo governo D‟Alema (dicembre 1999 – aprile 2000) nasce per consentire l‟ingresso nell‟esecutivo dei Democratici, un nuovo partito politico di centrosinistra (fondato da Romano Prodi) che alle consultazioni europee del 1999 aveva ottenuto il 7,7% dei voti. Se ad una prima osservazione sembrerebbe essersi trattato di un riassetto poco significativo, la composizione di questo esecutivo rivela alcune importanti innovazioni. Anzitutto, la quota di non parlamentari diminuisce sensibilmente, attestandosi poco al di sotto del 23% (21 su 92). Fra questi, la

garantire benefici politici, la possibilità di incidere su alcuni processi deliberativi e – last but not least – la maturazione di un‟appetibile posizione pensionistica” (Verzichelli 2010, 128)

12 partecipazione di tecnici indipendenti si mantiene assai bassa (sono appena quattro), mentre la restante parte può considerarsi appartenente al ceto politico dei partiti che compongono la maggioranza, soprattutto quelli della sinistra alternativa, fra le cui fila, significativamente, non figura alcun eletto (i sei esponenti del Pdci e l‟unico dei Verdi sono tutti non parlamentari). Quanto alla rappresentanza territoriale, il secondo governo D‟Alema fa registrare il tasso più alto di rappresentanza meridionale fra tutti i governi della transizione italiana (Fig. 2). Ventinove dei settantuno eletti (oltre il 40%) sono meridionali che hanno ottenuto il seggio in circoscrizioni del mezzogiorno. Cinque dei diciassette non eletti sono meridionali che svolgono la propria attività politica nel mezzogiorno (di questi, due sono anche stati candidati e non eletti). Complessivamente, sono dunque trentaquattro i meridionali del secondo governo D‟Alema (sette ministri e ventisette sottosegretari) che per la prima (e unica) volta nel corso della lunga transizione italiana portano la quota di rappresentanza del ceto politico meridionale a superare la quota complessiva di elettori del mezzogiorno (17.582.383 nel 1996, pari al 36,07% del totale nazionale)13. In generale, si direbbe che questo risultato sia il frutto dell‟accentuazione di una tendenza già manifestatasi nel precedente esecutivo. Sono sette i parlamentari meridionali eletti in liste di centrodestra, transitati al centrosinistra e selezionati nella nuova compagine esecutiva. Oltre ai già citati Loiero, De Franciscis, Cardinale e Li Calzi, sono chiamati a far parte del governo: Massimo Ostillio, deputato eletto nelle liste del Ccd-Cdu in Puglia, transitato all‟Udeur (nuova denominazione dell‟Udr scioltosi nel febbraio 1999) e nominato sottosegretario alla difesa; Aniello Di Nardo, deputato eletto nel collegio uninominale campano di Gragnano, transitato anch‟egli dal Ccd-Cdu all‟Udeur e nominato sottosegretario alle politiche agricole e forestali; Adolfo Manis, senatore eletto mediante recupero proporzionale in Sardegna, transitato da Forza Italia a Rinnovamento italiano e nominato sottosegretario al lavoro e alla previdenza sociale. Altri significativi innesti sono quelli dei Democratici Antonio Maccanico, nominato ministro per le riforme istituzionali; Rocco Maggi, sottosegretario alla giustizia eletto deputato nel collegio pugliese di Martina Franca; Giuseppe Gambale, sottosegretario alla pubblica istruzione eletto deputato nel collegio campano di Marano; Mario Occhipinti, sottosegretario ai trasporti eletto senatore nel collegio siciliano di Avola; , ministro dell‟interno e sindaco uscente di Catania.

13 Dati del Ministero degli Interni – Sezione elettorale.

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In generale, dunque, l‟ingresso dei democratici, da un lato, e l‟incremento della partecipazione al governo di parlamentari meridionali eletti nel centrodestra, dall‟altro, sembrerebbero fornire una parziale spiegazione del complessivo incremento del ceto meridionale al governo. Certo, andrebbero indagate a fondo le ragioni di questa scelta strategica, provando ad esplorarne le origini e a verificare quali siano stati i modelli di rappresentanza che hanno prevalso nella selezione di quel ceto politico. Ancora una volta, limitandoci a tenere in considerazione i prevalenti tratti centristi e postdemocristiani di questo ceto politico (gli esponenti meridionali dei Ds sono appena 10 su 34), saremmo portati a ipotizzare il tentativo di recuperare alcuni tratti del modello di rappresentanza individualistica. Quanto, infine, alle provenienze regionali di questo ceto politico, la Puglia continua ad essere fortemente sovrarappresentata (con nove membri), seguita dalla Campania (otto) e la Sicilia (sei).

Il secondo governo Amato (aprile 2000 – giugno 2001), l‟ultimo della tredicesima legislatura, nasce a seguito delle dimissioni di Massimo D‟Alema motivate dalla sconfitta elettorale subita dal centrosinistra in occasione delle elezioni regionali del 2000. La composizione della nuova compagine esecutiva non rivela significativi mutamenti rispetto alle tendenze dei due governi D‟Alema. La quota di non eletti in parlamento aumenta lievemente (21 su 80), continuando ad essere composta per la quasi totalità da ceto politico dei partiti di maggioranza. I “tecnici d‟area” rimangono infatti quattro. Diminuisce lievemente la quota di rappresentanza meridionale, passando a circa il 37% degli eletti (22 su 59 eletti), mentre, su ventuno non eletti, sono quattro i membri del governo che svolgono la propria attività politica prevalentemente nel meridione (Fig. 2). Complessivamente, i meridionali del secondo governo Amato sono dunque ventisei (sei ministri e venti sottosegretari). Anche la composizione rimane pressoché invariata, fatte salve alcune uscite e tre nuovi innesti: Santino Pagano, deputato eletto nel secondo collegio uninominale di Messina, transitato dal Ccd- Cdu all‟Udeur e nominato sottosegretario al tesoro; , deputato dei Verdi eletto nel collegio uninominale di Napoli-Arenella, nominato ministro delle politiche agricole e forestali; Luigi Nocera, deputato eletto nel collegio uninominale campano di Scafati, transitato anch‟egli dal Ccd-Cdu all‟Udeur, e nominato sottosegretario alle politiche agricole e forestali.

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In conclusione, l‟unica discontinuità degna di nota del secondo governo Amato riguarda la distribuzione territoriale, giacché la Puglia vede dimezzarsi la propria rappresentanza (da otto a quattro membri, di cui uno soltanto appartenente ai Ds), mentre la Campania appare adesso fortemente sovrarappresentata, mantenendo i propri otto componenti, seguita dalla Sicilia con sei.

4. Il primo ciclo di centrodestra (2001-2006)

Il secondo governo Berlusconi (giugno 2001 – aprile 2005), nato all‟indomani della vittoria elettorale della coalizione formata da Forza Italia, Alleanza nazionale, Lega Nord e Udc, può anzitutto definirsi come un “governo largo”, composto da 84 membri, una cifra assai simile a quella degli ultimi governi di centrosinistra (80 i membri del secondo governo Amato, rispettivamente 85 e 92 i membri del primo e del secondo governo D‟Alema) e ben lontana dalla snellezza del primo governo Berlusconi (65 membri) e, in parte, dello stesso governo Prodi (72 membri). Anche la partecipazione di non parlamentari non ricalca il modello del 1994, bensì la tendenza degli ultimi due governi di centrosinistra, attestandosi poco al di sotto del 25% (19 su 84). Ed anche in questo caso le schede biografiche segnalano la marginalità dell‟apporto dei “tecnici d‟area” (appena quattro) e la presenza, invece, di una discreta quota di personale politico non eletto al parlamento (fra questi, quattro sono stati candidati e non eletti). Un significativo tratto di continuità con la compagine del 1994 è invece costituito dalla quota di rappresentanza meridionale. Come nel ‟94, sono appena 18 gli eletti in circoscrizioni meridionali selezionati per un ruolo esecutivo (circa il 28% dei 65 eletti), mentre, fra i non eletti, soltanto due possono considerarsi come appartenenti al ceto politico meridionale: Stefano Caldoro, segretario nazionale del Nuovo Psi, nominato sottosegretario alla pubblica istruzione (e, dal 2004, viceministro), e Alfredo Mantovano, candidato non eletto nella lista proporzionale di An nella circoscrizione Puglia, nominato sottosegretario agli interni. Complessivamente, sono dunque venti gli esponenti politici meridionali del secondo governo Berlusconi, cinque ministri e quindici sottosegretari. Anche da un punto di vista qualitativo, si tratta di un apporto non proprio di primo piano. Tre dei cinque ministeri sono infatti senza portafoglio (affari regionali, attuazione del programma e pari opportunità), mentre, fra i sottosegretariati si segnalano, per rilevanza di portafogli, quello all‟economia e finanza, attribuito a Gianfranco

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Micciché, eletto deputato nella quota proporzionale della prima circoscrizione siciliana, e quelli agli affari interni, attribuiti al già citato Alfredo Mantovano e al senatore trapanese di Forza Italia Antonio D‟Alì. Quanto ai due ministeri con portafogli, si tratta della Difesa, attribuito all‟onorevole Antonio Martino, eletto nella seconda circoscrizione siciliana nella quota proporzionale di Forza Italia, e il ministero delle attività produttive, attribuito all‟onorevole Antonio Marzano, eletto nella seconda circoscrizione campana nella quota proporzionale di Forza Italia. In effetti, al di là del rilievo delle deleghe attribuite, appare significativo come, ancora una volta, tre dei cinque ministri meridionali siano stati eletti nella quota proporzionale della Camera, così come, d‟altronde, appare alta la quota complessiva di membri del governo eletti in quota proporzionale (complessivamente sette su diciotto). Ciò sembra suggerire, come nel ‟94, non solo che l‟apporto del ceto politico meridionale sia poco significativo, ma anche che il modello di selezione in gran parte prescinda dal consenso individuale. Detto altrimenti, sembrerebbe che la carica parlamentare sia ancora rilevante per la selezione governativa del ceto politico meridionale di centrodestra, ma non tanto per la rappresentatività territoriale che essa esprimerebbe, quanto per il rilievo di posizione che, soprattutto in Forza Italia, sembrerebbe conferire. D‟altra parte, a differenza di quanto avvenuto nel primo governo Berlusconi, la componente meridionale risulta egemonizzata da Forza Italia (12 membri, di cui 6 eletti in collegi uninominali), seguita, a distanza, da An (5 membri, di cui 4 eletti in collegi uninominali), e ancor di più dall‟Udc (2 eletti in collegi uninominali) e dal Nuovo Psi (1 rappresentante non eletto). Per quel che attiene, infine, alla distribuzione territoriale, oltre a confermarsi (come nel ‟94) la netta sovrarappresentazione del ceto politico settentrionale (circa il 50% degli eletti, con le circoscrizioni lombarde che, da sole, superano il 20%), il ceto politico meridionale vede prevalere i siciliani (sei componenti), seguiti da campani e calabresi (quattro ciascuno) e, in ultimo, sardi, abruzzesi e pugliesi (due rappresentanti ciascuno) 14.

Il terzo governo Berlusconi (aprile 2005 – maggio 2006) scaturisce per larga parte dall‟esigenza di ampliare il coinvolgimento (e il peso) della componente centrista e cattolica della maggioranza (in particolar modo dell‟Udc, nuova formazione politica scaturita dalla fusione di Ccd e Cdu) all‟indomani della pesante sconfitta del centrodestra alle elezioni regionali del 2005 e dopo le

14 Un dato piuttosto comprensibile, se si tiene conto che in Sicilia, nel 2001, il centrodestra ha ottenuto tutti i sessantuno seggi parlamentari disponibili in collegi uninominali (41 alla Camera e 20 al Senato).

16 dimissioni dei ministri dell‟Udc e del Nuovo Psi dal governo. Da un punto di vista territoriale, ciò equivale ad un ampliamento della rappresentanza meridionale, essendo l‟Udc un partito fortemente radicato nel mezzogiorno e in particolar modo in Sicilia15. Ed infatti, se da un lato cresce il numero complessivo dei componenti (96), rimanendo pressoché inalterata la quota di non parlamentari (21, di cui appena due possono definirsi tecnici d‟area), dall‟altro cresce, e in misura significativa, la componente meridionale, arrivando fino a un terzo degli eletti (25 su 75), mentre fra i non eletti sono tre gli esponenti politici meridionali (Fig. 2)16. Cresce anche il peso qualitativo di questa rappresentanza, che controlla quattro ministeri con portafogli (interno, difesa, comunicazioni, sviluppo e coesione territoriale), due senza portafogli (affari regionali e pari opportunità), due cariche da viceministro (infrastrutture e beni culturali) e venti sottosegretariati. Inoltre, otto dei nove parlamentari meridionali (tre dell‟Udc, tre di Forza Italia e due di An) che entrano a far parte della compagine governativa per la prima volta risultano eletti in collegi uninominali. A crescere è soprattutto la delegazione di Forza Italia (da 12 a 15 esponenti, di cui 9 eletti in collegi uninominali) e dell‟Udc (da 2 a 5, tutti eletti in collegi uninominali), mentre An e il Nuovo Psi acquistano un rappresentante ciascuno (passando rispettivamente a 6, di cui 5 eletti in collegi uninominali, e 2 non eletti). In particolare, per quel che concerne l‟Udc, fanno il proprio ingresso al governo i siciliani Gianpiero D‟Alia, deputato eletto nel collegio uninominale di Messina (Mata e Grifone), nominato sottosegretario all‟interno; Giuseppe Drago, deputato eletto nel collegio uninominale di Modica, nominato sottosegretario agli esteri; e Francesco Saverio Romano, deputato eletto nel collegio uninominale di Bagheria, nominato sottosegretario al lavoro. Il maggior peso della rappresentatività meridionale sembrerebbe dunque associarsi a un ritorno di rilevanza del consenso individuale (elezione in collegi uninominali) quale criterio di selezione al governo del ceto politico meridionale, soprattutto grazie al maggior spazio acquisito dagli eredi più diretti della Democrazia cristiana. Quanto alla distribuzione territoriale della rappresentanza, la crescita di rilevanza del ceto politico meridionale avviene quasi interamente a scapito dei settentrionali che, pur rimanendo il ceto

15 A tal proposito, basti considerare che in Sicilia l‟Udc aveva ottenuto il 7,3% alle elezioni per la Camera del 2001 e quasi il 20% (in tre liste separate) alle successive elezioni regionali dello stesso anno, riuscendo anche ad eleggere alla presidenza della Regione il proprio leader regionale, Salvatore Cuffaro. 16 Ai già citati Alfredo Mantovano e Stefano Caldoro, si aggiunge Giovanni Ricevuto, esponente politico siciliano del Nuovo PSI nominato viceministro alla pubblica istruzione.

17 politico dominante, ridimensionano la propria quota a circa il 45% degli eletti (34 su 75). Infine, fra i meridionali i siciliani rafforzano il predominio (11 esponenti), seguiti da campani e calabresi (5 esponenti ciascuno), pugliesi (4), sardi (2) e un abruzzese.

5. L’anomala parentesi del secondo governo Prodi

Il secondo governo Prodi (maggio 2006 – maggio 2008) nasce a seguito delle prime elezioni politiche svolte con il sistema elettorale proporzionale spersonalizzato con premio di maggioranza (Pasquino 2006, 74) introdotto nel 200517. La vittoria di misura della coalizione di centrosinistra e il differente criterio di attribuzione del premio di maggioranza previsto dal nuovo sistema elettorale per la Camera e per il Senato, producono una larga maggioranza alla Camera e una maggioranza assai risicata al Senato18. L‟elevato tasso di frammentazione della maggioranza (con nove partiti presenti al governo) determina, inoltre, la formazione di un esecutivo eccezionalmente sovraccarico, contando ben 103 membri. Dati questi elementi di sfondo, il primo significativo tratto di originalità del secondo governo Prodi consiste nell‟elevatissima quota di non eletti al parlamento: 58 su 103, ben oltre il 50% (Fig. 1). Cionondimeno, anche in questo caso la quota dei cosiddetti “tecnici d‟area” è assai marginale (appena sei), mentre la restante parte di non eletti (52) appartiene al ceto politico dei partiti di centrosinistra. A livello generale, vengono inoltre in rilievo due dati assai originali. Il primo consiste nel fatto che 27 dei 58 non eletti (52, se consideriamo solo il ceto politico) sono stati candidati e non eletti in liste di partito della coalizione di centrosinistra. Una cifra davvero elevata, che non ha confronti con alcuna compagine esecutiva del passato. Il secondo dato, altrettanto significativo, consiste nel fatto

17 Il nuovo sistema elettorale, introdotto con la legge 270 del 2005, prevede il ritorno ad un sistema proporzionale corretto da un premio di maggioranza. Per quel che qui interessa, il sistema prevede diverse soglie di sbarramento, tese a incentivare la formazione di coalizioni larghe, liste bloccate (impossibilità di esprimere preferenze) e possibilità di candidature multiple (è consentito candidarsi in più circoscrizioni). 18 La legge 270 del 2005 prevede infatti che il premio di maggioranza venga attribuito per la Camera, a livello nazionale, alla coalizione che, avendo superato la soglia del 20%, ha ottenuto il maggior numero di voti, conseguendo così 340 seggi, per il Senato alla coalizione vincente Regione per Regione. Sulla base di quest‟ultimo criterio, il centrosinistra nel 2006 ha ottenuto al Senato 158 seggi contro i 156 del centrodestra.

18 che più di un quinto dei 45 eletti in parlamento e chiamati a far parte dell‟esecutivo rassegna le proprie dimissioni da parlamentare nei mesi successivi all‟attribuzione dell‟incarico governativo. Questi dati sembrano suggerire che nei partiti di centrosinistra siano state efficacemente messe in atto strategie di office seeking, tese, cioè, alla massimizzazione del numero di incarichi istituzionali che ciascun partito poteva aspirare ad ottenere. La nomina ad incarichi esecutivi di candidati non eletti può infatti essere considerata un forte incentivo alla partecipazione, indirizzato anche a contenere tentazioni di abbandono o trasmigrazione da parte di candidati che, pur partendo da elevate probabilità di essere eletti (essendo per la stragrande maggioranza collocati nelle parti alte delle rispettive liste), non lo sono stati per i deludenti, ancorché largamente imprevisti, risultati elettorali della coalizione. D‟altra parte, le dimissioni dall‟incarico parlamentare, una volta entrati a far parte dell‟esecutivo, svolgono, in tutta evidenza, la funzione di “far scorrere la lista”, includendo così nel circuito istituzionale alcuni fra i primi dei non eletti. Sebbene non si sia trattato dei meccanismi prevalenti nel processo di formazione dell‟esecutivo, questi indicatori, uniti all‟elevatissima quota di non eletti, suggeriscono, da un lato il persistere di una elevata capacità di coordinamento interno del processo di selezione operato dai partiti di centrosinistra (le nomine di candidati non eletti o eletti e successivamente dimissionari coinvolgono tutti i partiti del centrosinistra, senza significative distinzioni), dall‟altro, un‟ulteriore e significativa perdita di rilevanza del criterio della rappresentanza elettorale e territoriale nel processo di selezione dell‟élite di governo. D‟altronde, è lo stesso sistema elettorale proporzionale a liste bloccate e candidature multiple a favorire un distacco fra elettorato-territorio e sfera governativa ben più accentuato di quanto già non avvenisse con il sistema misto. Fatte queste generali premesse, la quota di ceto politico meridionale fra le fila del secondo governo Prodi è eccezionalmente bassa, soprattutto fra gli eletti. Sono appena nove su quarantacinque (il 20%) i meridionali eletti in circoscrizioni del mezzogiorno chiamati a far parte del governo. Sono invece diciotto su cinquantadue (se consideriamo solo il ceto politico) i meridionali non eletti e, di questi, ben dodici sono stati candidati. Complessivamente, la rappresentanza politica meridionale ammonta dunque a ventisette membri, vale a dire circa il 28% della quota complessiva di ceto politico (97 membri, escludendo i 6 tecnici d‟area). Controllano quattro ministeri con portafoglio, tre cariche di viceministro e venti

19 sottosegretariati. In particolare, per quel che riguarda le cariche apicali, Massimo D‟Alema, eletto deputato in Puglia, è nominato vicepresidente del consiglio e ministro degli esteri; , eletto senatore con la lista dell‟Udeur in Calabria (ma candidato risultato eletto anche in Campania), è nominato ministro di grazia e giustizia; , eletto deputato in Puglia nella lista unitaria dell‟Ulivo, è nominato ministro per le politiche agricole, alimentari e forestali; Alfonso Pecoraro Scanio, eletto deputato nella seconda circoscrizione campana nella lista della federazione dei Verdi, è nominato ministro dell‟ambiente e della tutela del territorio e del mare. Le cariche di viceministro sono invece affidate a Marco Minniti (interno), deputato eletto in Calabria nella lista dei Ds; Sergio D‟Antoni (sviluppo economico), deputato eletto nella prima circoscrizione siciliana con la lista dell‟Ulivo; Angelo Capodicasa (infrastrutture), eletto anch‟egli deputato nella prima circoscrizione siciliana con la lista dell‟Ulivo. A differenza di quanto avvenuto nei precedenti governi di centrosinistra, la rappresentanza meridionale non risulta particolarmente sbilanciata in favore dei partiti moderati e centristi19. Per quel che attiene, infine, alla distribuzione territoriale, la Puglia torna ad essere lievemente sovrarappresentata (con sei esponenti politici al governo), seguita dalla Campania (cinque), Sicilia, Calabria e Sardegna (quattro ciascuno), Basilicata (tre) e Abruzzo (uno). In conclusione, se uno dei possibili effetti del nuovo sistema elettorale era stato individuato nel rinvigorimento della sfera d‟autorità dei partiti (attraverso l‟acquisizione di un controllo pressoché assoluto sulla selezione del ceto politico parlamentare), tanto da indurre taluni a intravedere l‟inizio di una nuova stagione di aspra conflittualità tra leadership presidenziali e organizzazioni partitiche (Calise 2006), il secondo governo Prodi sembra emblematicamente confermare queste previsioni, palesandosi una sorta di neo-centralità partitica (e specificamente dei vertici dirigenti) in grado di imbrigliare le aspirazioni individuali dei singoli dentro una cornice di subalternità ai vertici del selettorato20. Si allarga così a dismisura la cesura tra società, elettorato e territorio, da un lato, e sfera governativa dall‟altro. Nulla di più distante dal modello di rappresentanza individuale e territoriale della prima repubblica.

19 Su 27 membri meridionali del secondo governo Prodi, 9 appartengono ai Ds, 9 a DL, 3 alla RnP (radicali e socialisti), 2 all‟Udeur, 1 genericamente all‟Ulivo e 1 ciascuno rispettivamente ai Verdi, al Prc e ai Democratici cristiani unitari. 20 Nella letteratura politologica sui partiti il termine selettorato si riferisce “all‟insieme di coloro che scelgono i candidati”. Quest‟insieme può essere più o meno esclusivo/inclusivo lungo un continuum che va da un estremo in cui il selettorato è unico (il leader del partito), fino ad arrivare all‟estremo opposto, in cui il selettorato corrisponde all‟intero elettorato (Hazan 2006, 175).

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6. Il quarto governo Berlusconi

L‟ultimo governo Berlusconi nasce nel 2008 a seguito della netta vittoria elettorale conseguita sia alla Camera che al Senato dalla coalizione di centrodestra formata da Popolo delle Libertà (PdL), Lega Nord e Movimento per le Autonomie (MpA). Rispetto al secondo governo Prodi, ma anche a molti dei precedenti governi susseguitisi nel corso della transizione, il quarto governo di Berlusconi presenta numerosi tratti di originalità. Anzitutto, il numero complessivo di componenti alla nascita, appena sessanta, è il più basso dall‟inizio della transizione. Il criterio di selezione fondato sulla provenienza parlamentare dell‟élite di governo non ritorna ai livelli della prima repubblica, ma certo vi si avvicina molto (Fig. 1). Sono appena otto i non eletti al parlamento chiamati a far parte del governo (poco più del 13%). Tre di essi possono definirsi “tecnici d‟area”, due sono etichettabili come genericamente appartenenti al ceto politico di centrodestra (non candidati al parlamento) e tre sono invece esponenti politici meridionali di partiti minori. In particolare, Giuseppe Reina ed Enzo Scotti dell‟MpA, candidati al Senato in Sicilia (rispettivamente in terza e quarta posizione), rispettivamente nominati sottosegretario alle infrastrutture e sottosegretario agli affari esteri, e Giuseppe Pizza, segretario di una piccolissima formazione politica che ha ereditato il nome e il simbolo della Democrazia cristiana e che, per il suo sostegno alla coalizione di centrodestra riceve l‟incarico di sottosegretario alla pubblica istruzione, università e ricerca. Ciò detto, la quota di ceto politico meridionale si mantiene sugli stessi livelli marginali del secondo governo Prodi. Complessivamente, sono appena 11 gli eletti (tutti in circoscrizioni meridionali) che possono definirsi come appartenenti al ceto politico meridionale e che, sommati ai tre non eletti, portano la quota complessiva al di sotto del 25% (Fig. 2). La marginalità dei meridionali sembra anzitutto trarre origine dal venir meno, nella coalizione di centrodestra, dell‟alleanza con l‟Udc, il partito cattolico che aveva contribuito in modo decisivo al riequilibrio territoriale a favore del mezzogiorno nel passaggio dal secondo al terzo governo Berlusconi. L‟altro elemento rilevante è senz‟altro da rintracciarsi nella debolezza dell‟MpA, un partito presentatosi come una sorta di lega moderata del sud che avrebbe dovuto sostituire, almeno

21 in parte, il ruolo dell‟Udc, ma che raccoglie un consenso residuale e quasi esclusivamente concentrato in Sicilia21. Infine, il terzo e meno scontato elemento esplicativo della marginalità meridionale si potrebbe individuare nella debolezza della componente di An all‟interno del neonato PdL. Se nel 1994 l‟ex Msi aveva, con discreta efficacia, interpretato il ruolo di “gamba meridionale” della coalizione di centrodestra, riuscendo peraltro a esercitare un ruolo egemone fra i (pochi) meridionali del primo governo Berlusconi, alla fine del ciclo il ruolo di An, almeno dal punto di vista quantitativo, è equiparabile a quello dell‟MpA. Alla nascita del quarto governo Berlusconi sono infatti soltanto due i meridionali di An selezionati per un incarico governativo. Si tratta di Alfredo Mantovano, uscente del terzo governo Berlusconi, eletto deputato in Puglia e nominato sottosegretario agli interni, e Pasquale Viespoli, anch‟egli uscente del terzo governo Berlusconi, eletto senatore in Campania e nominato sottosegretario al lavoro. La restante parte maggioritaria (nove su quattordici) di ceto politico meridionale selezionato nella nuova compagine di governo proviene tutta dalla componente di Forza Italia del neonato PdL. Sono al vertice di cinque ministeri, di cui soltanto uno sembra avere un peso davvero significativo nella scala gerarchica della remunerabilità politica: il ministero di grazia e giustizia affidato al deputato siciliano . I restanti quattro sono i ministeri senza portafoglio ai rapporti con le Regioni e per la coesione territoriale (affidato al deputato pugliese ), alle pari opportunità (affidato alla deputata campana ) e ai rapporti con il parlamento (affidato al deputato partenopeo eletto in Toscana ), nonché il ministero per l‟ambiente, la tutela del territorio e del mare affidato all‟uscente del terzo governo Berlusconi e deputata siciliana, . Le restanti cariche di un certo rilievo occupate da esponenti meridionali del PdL provenienti da Forza Italia sono il sottosegretariato alla presidenza del consiglio per la coesione e lo sviluppo economico, affidato all‟uscente e deputato siciliano Gianfranco Micciché, e il sottosegretariato all‟economia e finanze affidato al deputato campano e coordinatore regionale del partito, Nicola Cosentino. Quanto alla provenienza territoriale, a livello generale deve segnalarsi come la rappresentanza politica settentrionale ammonti a quasi i due terzi dell‟intero ceto politico governativo (35 su 57),

21 A tal proposito, si ricordi che il leader dell‟MpA, Raffaele Lombardo, proviene proprio dall‟Udc, partito nel quale ha ricoperto la carica di segretario regionale fino al 2005, anno in cui ha fondato il nuovo partito. Alle elezioni politiche del 2008 l‟MpA alla Camera ottiene il 5,56% nella prima circoscrizione siciliana e il 9,57% nella seconda. Nelle restanti circoscrizioni meridionali il partito rimane al di sotto del 3%.

22 mentre, emblematicamente, la rappresentanza della sola Lombardia supera quella dell‟intero mezzogiorno (16 su 57). Le provenienze regionali del piccolo drappello meridionale vedono infine la netta prevalenza di siciliani e campani, con cinque esponenti per ciascuna regione. Dei restanti quattro, due sono pugliesi, uno sardo e uno calabrese.

7. Vie diverse per una comune marginalità

Al termine di questa schematica ricognizione della rappresentanza territoriale e del ceto politico meridionale nei governi della transizione italiana può essere utile mettere in ordine alcuni elementi, provando a esplicitarne le possibili conseguenze sistemiche e le ipotesi interpretative che ne scaturiscono. Il nesso tra governanti e governati, fondato sul consenso elettorale individuale e territoriale nell‟ambito di grandi partiti organizzati, appare nettamente compromesso. Le nuove variabili di contesto che hanno in qualche modo segnato la cosiddetta seconda repubblica fornivano alcune indicazioni piuttosto esplicite in questa direzione (dalle modifiche del sistema elettorale, all‟affermazione di un bipolarismo fortemente personalizzato, passando per le nuove politiche di bilancio tese a ridimensionare il debito pubblico contraendo fortemente la spesa). I dati sin qui raccolti sembrano confermare pienamente la tendenza, tracciandone in qualche modo una cifra. Su questo sfondo generale si innesta la specifica evoluzione (e le anomalie) del ruolo del ceto politico meridionale (di centrodestra e di centrosinistra) nelle nuove compagini esecutive. La marginalità quantitativa e qualitativa della rappresentanza meridionale accomuna gli esecutivi del nuovo bipolarismo italiano. Con due sole eccezioni tendenziali che, per il loro rilievo, vale la pena di evidenziare sin d‟ora. Nel corso della XIIIª e della XIVª legislatura, pur rimanendo pressoché invariate le coalizioni di maggioranza, si forma più di un esecutivo. Nella XIIIª quattro governi di centrosinistra e nella XIVª due governi di centrodestra. In tutti e due i casi, sia pure in contesti e partendo da equilibri affatto differenti, gli esecutivi successivi al primo realizzano un riequilibrio territoriale a favore del rappresentanza meridionale. In entrambi i casi cresce in misura significativa il coinvolgimento di forze politiche che si richiamano (per identità e ceto politico) direttamente alla Democrazia cristiana.

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Sembra quasi che la sottorappresentazione del mezzogiorno all‟interno del primo governo Prodi e del secondo governo Berlusconi abbia assunto dimensioni così macroscopiche da destabilizzarli, determinando l‟intervento di significativi correttivi. Una ipotesi all‟apparenza assai suggestiva, che tuttavia andrebbe verificata mediante un‟attenta esplorazione indirizzata soprattutto ad analizzare i molteplici fattori causali che determinarono il venir meno della fiducia parlamentare al primo governo Prodi, nonché i successivi esiti della crisi di governo. Se, infatti, le cause del passaggio dal secondo al terzo governo Berlusconi appaiono chiaramente riconducibili ad un riequilibrio infracoalizionale, lo stesso non può dirsi nel caso del passaggio dal primo governo Prodi al primo governo D‟Alema. Cionondimeno, al di là di queste pur rilevanti inversioni di tendenza, la marginalità del ceto politico meridionale appare un dato costante nei governi della transizione italiana. Per ottenere un indicatore generale del consolidamento delle élite di governo nei quattordici anni presi in esame (1994-2008), abbiamo evidenziato il tasso di persistenza del ceto politico, vale a dire la quota di personale esecutivo che, nel passaggio ad un nuovo esecutivo della stessa coalizione, ha mantenuto un incarico di governo. Abbiamo inoltre calcolato il tasso di persistenza di lungo periodo, vale a dire la quota di personale esecutivo che, dopo aver ricoperto un incarico di governo nel corso della transizione, ne ha ricevuto un altro nell‟ultima compagine di centrosinistra (Prodi II) e di centrodestra (Berlusconi IV). Come mostra la tabella I, con la sola eccezione del passaggio dal primo al secondo governo D‟Alema, il tasso di persistenza del ceto politico meridionale rimane costantemente più basso della media, raggiungendo nel lungo periodo uno scarto di circa nove punti nel centrosinistra e di oltre tredici nel centrodestra. TAB. I. Tassi di persistenza del ceto politico nei governi della transizione italiana Centrosinistra Centrodestra Persistenza Prodi II Berlusconi IV Prodi I D‟Alema I D‟Alema II Berlusconi I Berlusconi II nella – – – – – – – Governi Governi di transizione D‟Alema I D‟Alema II Amato II Berlusconi II Berlusconi III centrosinistra centrodestra Tasso di persistenza 58,3 71,8 70,6 28,0 20,0 84,5 31,7 complessivo Tasso di persistenza 47,0 72,0 67,6 19,2 16,0 80,0 18,2 Meridionali

Nostra elaborazione dati Senato e Camera dei deputati

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Ciò evidentemente segnala che, oltre alla costante sottorappresentazione, il mezzogiorno è stato rappresentato da un ceto politico più fragile, perché più esposto al ricambio e, dunque, assai meno capace di preservare o ampliare mediante risorse autonome la propria influenza politica. Una condizione che sembra accomunare centrodestra e centrosinistra, sia pure attraverso dinamiche alquanto differenti. Se, in generale, a livello europeo sono recentemente emerse tendenze che mostrano un più marcato controllo del vertice esecutivo sulla selezione e circolazione delle élite di governo (Dowding e Dumont 2009), le due coalizioni del bipolarismo italiano non sembrano seguire queste tendenze allo stesso modo. La maggiore propensione del centrodestra alla selezione di personale politico eletto in uno dei due rami del Parlamento sembrerebbe richiamare in qualche modo il modello di selezione e di rappresentanza della Democrazia cristiana. Cionondimeno, le assonanze sembrano non andare molto oltre. Infatti, a differenza di quanto avveniva nel governo a direzione plurima dissociata (Ristuccia cit.), la selezione non sembra derivare in prevalenza dall‟ampiezza del consenso individuale e dall‟autonomia che da questa scaturisce, bensì dalla volontà del leader, e in particolare del capo dell‟esecutivo che è anche presidente del partito di maggioranza. Il ruolo di parlamentare, come titolo preferenziale per la selezione ad un incarico esecutivo, sembrerebbe più un indice di scarsa strutturazione organizzativa di partiti fortemente sbilanciati sul versante della rappresentanza istituzionale (Katz e Mair 1993), e non, come nella Democrazia cristiana, l‟indicazione di un nesso tra elettorato e sfera governativa. Non a caso, una parte non irrilevante dell‟élite del ceto politico meridionale di centrodestra non è titolare di una legittimazione elettorale diretta22. Quanto al centrosinistra, il ruolo dei partiti nel processo di selezione appare senz‟altro più rilevante, lasciando intravedere la persistenza di una cultura organizzativa che sembra in parte residuare da quella del Pci. Cionondimeno, il minor radicamento territoriale degli eredi del Pci in molte aree del mezzogiorno e la più accentuata propensione alla nomina governativa di personale non elettivo

22 A tal riguardo, un caso emblematico è senz‟altro quello dell‟ex coordinatore di Forza Italia in Sicilia, Gianfranco Micciché, sempre chiamato a ricoprire incarichi esecutivi (ma mai ministeriali) nei quattro governi Berlusconi. Ebbene, in nessuna delle tre tornate elettorali svoltesi col sistema elettorale misto (1994, 1996 e 2001) questo importante esponente politico è stato eletto in un collegio uninominale, e quando, nel 1997, fu contrapposto a Leoluca Orlando per contendergli la carica di sindaco di Palermo, ottenne appena il 41,7% dei voti.

25 tendono a relegare in un ruolo di secondo piano il ceto politico meridionale e la rappresentanza territoriale - elettorale. Dal punto di vista della responsabilità rappresentativa, la principale conseguenza delle evoluzioni sin qui descritte crediamo possa rintracciarsi nel progressivo venir meno di quella speciale forma di responsiveness individuale che aveva connotato il “sistema meridionale” e la sua controversa integrazione nel sistema di governo nazionale nel corso della prima repubblica. Una evoluzione tutt‟altro che preoccupante, se solo il nuovo bipolarismo italiano avesse, anche parzialmente, colmato quel vuoto con nuove forme di responsabilità rappresentative fondate su una accountability efficiente, soprattutto nel mezzogiorno. Purtroppo, lo sviluppo di una responsabilità personale del ceto politico d‟élite è stata una delle grandi promesse mancate della transizione, giacché, sia le campagne elettorali, sia le caratteristiche dei rappresentanti, non sono mai state significativamente condizionate dalla responsabilità, né durante il periodo misto-maggioritario, né, tanto meno, dopo il ritorno al proporzionale con liste bloccate (Verzichelli 2010; Legnante e Verzichelli 2005). Il risultato più evidente sembra dunque quello di un mezzogiorno privato in larga parte di entrambi i fondamenti della rappresentanza. Certo, la nuova centralità assunta nel sistema politico dalle Regioni e dai Comuni può avere in parte compensato questo scarto, incanalando le istanze di responsiveness e accountability degli elettori meridionali verso nuove arene del circuito della rappresentanza. Resta però il vacuum nazionale di un ceto politico meridionale che, curiosamente, per alcuni tratti pare quasi rievocare la rappresentanza notabiliare del periodo liberale, quel modello di subalternità in cui “il ruolo dei politici meridionali si limitava a fornire la necessaria maggioranza parlamentare, giacché le loro aspirazioni non superavano i limiti del governo locale e delle occasioni, da esso fornite, di piccoli patrocini” (Allum cit., 406).

Riferimenti bibliografici

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