XXV CONGRESSO SISP Università degli Studi di Palermo Dipartimento Studi su Politica, Diritto e Società “Gaetano Mosca” Sezione Sistema politico italiano Panel Il mezzogiorno nel sistema politico italiano Le vie del declino di un modello di rappresentanza: il ceto politico meridionale nei governi della transizione italiana di Giancarlo Minaldi, Università di Palermo Via del Bersagliere, 56 – 90143 Palermo [email protected] 1. La rappresentanza del mezzogiorno nel governo nazionale: dal modello consolidato della prima repubblica alle incognite della transizione A centocinquanta anni dall‟unità nazionale e a oltre sessanta dal pieno ingresso dell‟Italia nel novero delle democrazie occidentali la questione meridionale, nei termini generali di una significativa distanza socio-economica e culturale fra larga parte del mezzogiorno e il resto del Paese, rimane un elemento cruciale di quel deficit di integrazione che ancora connota il sistema politico italiano. D‟altra parte, l‟avvio e il dipanarsi della lunga fase di transizione dell‟ultimo ventennio sono stati fortemente condizionati dalla frattura centro-periferia, per il crescente rilievo assunto da una “questione settentrionale” che ha in parte emarginato dal dibattito e dall‟agenda politica l‟irrisolta questione meridionale. Partendo da questa generale premessa, questo paper propone, nei termini di una primissima ricognizione esplorativa, di tornare a esaminare la questione meridionale da un‟angolatura di politics, attraverso l‟osservazione del ceto politico apicale e, più in generale, della rappresentanza politica del mezzogiorno nel governo nazionale, l‟arena istituzionale più visibile e legittimata nel processo di presidenzializzazione in atto nel sistema politico italiano (Calise 2006). La ragione di un tale proposito deriva anzitutto dalla considerazione delle specificità del modello di integrazione e di rappresentanza consolidatosi nel corso della prima fase di storia repubblicana. Una fase in cui il deficit di integrazione è stato affrontato in primo luogo attraverso uno spiccato “equilibrio territoriale dei governi” (Calise e Mannheimer 1982, 48): una relazione di tendenziale proporzionalità tra incarichi governativi e aree geografiche del Paese intese, più specificamente, nell‟accezione di regioni di insediamento del consenso elettorale individuale. In un contesto in cui la struttura governativa promanava direttamente da quella parlamentare (Cotta 1979), talché la presenza di non parlamentari tra le fila degli esecutivi rappresentava una eccezione assai rara e circoscritta, l‟equilibrio regionale venne “assunto a criterio fondamentale per la formazione dei governi” (Allum 1975, 411). Il che determinò, soprattutto nella prima fase, l‟assenza di “una chiara relazione tra zone di insediamento subculturale dei partiti e parlamentari selezionati” (Cotta cit., 268). Il governo a direzione plurima dissociata (Ristuccia 1977) traeva la sua unitarietà dalla capacità di rappresentare interessi sezionali e territoriali per il tramite di un partito di massa, la Democrazia Cristiana, la cui mobilitazione individualistica del consenso (Pizzorno 1980, 76) aveva ben presto assunto i caratteri di un clientelismo orizzontale capace di mobilitare gruppi, 2 organizzazioni, categorie in forme e modalità del tutto inusitate rispetto al modello notabiliare della fase liberale. Al di là di qualsiasi considerazione etica, questo modello di rappresentanza si è consolidato realizzando un saldissimo nesso, quasi un rapporto diretto, tra elettorato e sfera governativa, portando “le basi sociali della rappresentanza politica fino nel cuore dell‟istanza sovrana del potere governativo” (Calise e Mannheimer cit., 14). Un nesso che ha contribuito a rafforzare quella propensione tipicamente italiana a privilegiare la richiesta di responsiveness molto più che di accountability nel circuito della rappresentanza politica (Sartori 1968). Certo, questo modello di rappresentanza non è stato immune da una certa variabilità nel corso del tempo e nelle diverse aree del Paese, così come appare piuttosto evidente che alcune condizioni strutturali ne favorirono lo sviluppo. A tal proposito, basti citare: - un contesto istituzionale caratterizzato dalla centralità del parlamento e da un sistema elettorale rigidamente proporzionale con la possibilità di esprimere preferenze multiple; - un sistema partitico caratterizzato dalla mancanza di alternanza e dal ruolo egemonico di un partito clientelare di massa come la Democrazia Cristiana; - un contesto socio-economico caratterizzato dalla crescita dell‟intervento pubblico e da politiche distributive incrementalmente finanziate attraverso misure di deficit spending. Quanto agli sviluppi del modello di rappresentanza, deve segnalarsi la progressiva crescita del tasso di meridionalizzazione dei governi. In particolare, dopo una lunga fase (1946-1976) di lieve sovrarappresentazione del ceto politico meridionale (complessivamente circa il 38% dei membri di governo eletti in circoscrizioni meridionali a fronte di una quota di elettori pari a circa il 34% del totale)1, negli anni ottanta si assiste a un progressivo squilibrio della rappresentatività territoriale, fino all‟ultimo governo di pentapartito della storia repubblicana, il sesto governo Andreotti (luglio 1989 – aprile 1991), che vede crescere la quota di parlamentari eletti in circoscrizioni meridionali fin quasi al 47% degli eletti, a fronte di una quota di elettori meridionali pari al 35% del totale nazionale2. L‟espansione del “sistema meridionale” connota dunque fortemente la vigilia del crollo del sistema partitico della prima repubblica, così come gli anni ottanta avevano fatto registrare una crescita 1 Nostra rielaborazione dati in Calise e Mannheimer cit.. Sono considerate circoscrizioni meridionali quelle comprese nelle Regioni Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. 2 Nostra rielaborazione dati del Ministero degli Interni e del Senato della Repubblica. 3 esponenziale del debito pubblico, in larga parte destinato a finanziare la crescente competizione infrapartitica e infracoalizionale nell‟ambito del pentapartito (Guarnieri 2006). Come è noto, l‟avvio della transizione, all‟inizio degli anni novanta, si presentò carico di aspettative nei confronti di un sistema politico che potesse finalmente rinnovarsi, in primo luogo nella composizione del suo ceto politico. Il che non implica, tuttavia, dare per scontato che quella fase si sia caratterizzata anche per un profondo e diffuso rinnovamento nella percezione della rappresentanza politica, finalmente intrisa di quella richiesta di accountability basata su competenza ed efficienza, tanto evocate, quanto spesso tradite in nome di un ben più visibile vantaggio individuale immediato. Non pochi segnali indicano quanto gli esiti parziali di una transizione ancora irrisolta siano stati ben al di sotto delle aspettative, ma sul punto si tornerà oltre. Per quel che attiene al più specifico tema in esame, date le generali premesse sin qui esposte, l‟interrogativo centrale, su ci proponiamo di soffermarci, riguarda l‟evoluzione di quel modello di rappresentanza territoriale nei nuovi scenari della transizione. In particolare, come si è evoluta la rappresentanza meridionale nei governi della transizione? Sono rintracciabili significative discontinuità nel corso del tempo e fra le coalizioni nel nuovo assetto bipolare? Come si è rinnovato quell‟antico nesso tra società e governanti a cui era stato improntato il modello di integrazione democristiano? Si tratta di interrogativi che richiederebbero esplorazioni assai approfondite, attraverso l‟uso di molteplici strumenti di indagine quantitativi e qualitativi. In questa sede ci limiteremo ad una prima ricognizione, con il principale obiettivo di affinare i quesiti e le possibili ipotesi interpretative. Un elemento cruciale, per un esame dell‟evoluzione del ceto politico governativo e dei relativi modelli di rappresentanza, è senz‟altro costituito dalle variabili di contesto istituzionale. A tal proposito, una delle caratteristiche (e delle anomalie) più significative della transizione italiana può individuarsi nel mancato accompagnamento di questa fase di profonda trasformazione ad un complesso di riforme istituzionali che riflettessero, almeno in parte, le evoluzioni in atto. L‟unica rilevante eccezione può rintracciarsi nella riforma del sistema elettorale. Più precisamente, nella prima fase della transizione, in quella formidabile pressione a favore di una torsione maggioritaria del sistema che, del tutto impropriamente, assunse il ruolo di grimaldello del cambiamento. Pure essendosi risolta la dura battaglia referendaria con un plebiscito maggioritario, la formula mista (con il 25% di seggi ripartiti con formula proporzionale) salvò molte prerogative e identità 4 partitiche (Pasquino 2007), mentre il maggioritario uninominale plurality avrebbe dovuto ancorare la rappresentanza al territorio, attraverso una miscela di semplificazione e micropersonalizzazione in stile anglosassone3. Sugli esiti assai controversi di quel sistema misto avremo modo di tornare brevemente oltre. Qui basti evidenziare come, ad una prima osservazione, l‟applicazione di quel sistema elettorale non sembrerebbe porsi in netta contraddizione con il persistere di un modello di rappresentanza territoriale ed elettorale nei nuovi esecutivi. L‟altro elemento, che in qualche modo fa da sfondo ad una prima ricognizione del ceto politico meridionale nei governi della transizione, riguarda l‟evoluzione dei criteri
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