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Giacomo Leopardi, al battesimo conte Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi, nasce a Recanati, un piccolo paesino situato su un rilievo del Subappennino marchigiano, in provincia di Macerata, Marche, (all’epoca appartenenti allo Stato Pontificio), il 29 giugno del 1798. Figlio del conte-letterato Monaldo (Recanati 1776-1847), un nobile colto che nutrì in ambito politico idee reazionarie, e da madre, la marchesa Adelaide Antici Mattei (Recanati 1778-1857). Primo di dieci figli, il piccolo Giacomo ricevette un educazione molto severa e rigida soprattutto da parte della madre, che a causa di problemi economici e familiari legati ai titoli nobiliari, resero al giovane poeta, un’infanzia molto infelice e priva di ogni affetto. All’età di otto anni circa, il piccolo Giacomino, fu istruito a casa, come era di costume nelle famiglie nobili del tempo, da due precettori gesuiti di Recanati. Dotato di un’intelligenza straordinariamente precoce che gli stessi precettori rimasero sbalorditi e attoniti per le capacità di apprendimento del ragazzo. Infatti, intorno ai dieci anni, continuò i suoi studi da solo, rintanandosi come un eremita nella biblioteca paterna (il padre Monaldo riuscì ad acquistare oltre 16000 libri e manoscritti di letteratura antica), per “sette anni di studio matto e disperatissimo”, come egli stesso lo definì. Imparò in brevissimo tempo il latino, il greco e la lingua ebraica. In seguito cercò di imparare in modo sommario lingue come l’inglese, il francese e il sanscrito (lingua ufficiale dell’India, dalla quale derivano molte lingue moderne del paese, primo fra tutti, l’hindi, la più diffusa). Appassionato di classici latini e greci, lesse e tradusse le opere e i frammenti di Mosco (poeta greco vissuto nel II sec. a.C.), Lucrezio, Simonide di Amorgo, Epitteto, Esiodo, Orazio, Omero, Plutarco, Platone, Catullo, Anacreonte, Alceo di Mitilene e Saffo la poetessa greca vissuta tra il VII e VI sec. a.C., autrice di nobili e raffinati versi poetici dedicati all’amore e ad Afrodite la dea della speranza. A proposito di Saffo, la leggenda ci racconta che la poetessa si suicidò per amore buttandosi da una rupe, perché il suo bel e giovane Faone, la rifiutò a causa del suo corpo brutto e deforme. Il Leopardi identificandosi a pieno con la poetessa di Lesbo, non solo per le affinità fisiche (sono entrambi splendide anime in un corpo brutto ma anche per l’infelicità che li accomuna entrambi), scrisse “L’ultimo canto di Saffo” , composto a Recanati nel maggio del 1822, durante il periodo cosiddetto di “crisi nera, orrenda e barbara malinconia”. Nel dicembre del 1817, il padre Monaldo ospita per alcuni giorni nel suo fastoso palazzo, la cugina Geltrude Cassi moglie del conte Giovanni Giuseppe Lazzari. Il Leopardi rimase colpito dalla bellezza raggiante della cugina che se ne innamorò perdutamente. Questo breve incontro e passione segreta, scrisse in questa occasione il “Diario del primo amore” e l’ “Elegia I” che verrà in seguito inclusa nei “Canti” con il titolo di “Il primo amore”. Ecco come egli descrive il proprio stato d’animo quando incontra per la prima volta Geltrude: “Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da più d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo, per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera: e questo desiderio nella mia forzata solitudine era stato vanissimo fin qui. Ma la sera dell’ultimo Giovedì, arrivò in casa nostra, aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente più tosto lontana, di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre Marchegiane”. (da “Diario del primo amore”). Tra il 1815 e il 1816 il Leopardi si dedica alla lettura di scrittori e poeti moderni come l’Alfieri, Monti, Goethe, Novalis, Schopenhauer, Foscolo e Madame de Staèl. Venuto a contatto con la cultura romantica, strinse amicizia con un’illustre intellettuale italiano tra i più celebri della letteratura neoclassica, Pietro Giordani. Grazie a quest’ultimo, il Leopardi tramite lettere, si libera di tutti i mali che lo imprigionano interiormente e sente nel profondo del suo animo “triste e solitario”, il bisogno di evadere da quelle triste mura di casa ormai invivibili e di esplorare la quotidianità del mondo esterno. Questo desiderio irrefrenabile di “evadere”, spingono a Giacomo Leopardi di progettare la fuga da Recanati di nascosto, ma il tentativo fu scoperto e messo in punizione per un gesto insignificante ed insolente. Il suo stato d’animo nel corso dei giorni peggiora precipitosamente a causa di una infermità agli occhi che gli impediva la lettura che era il suo unico conforto alla solitudine e alla malinconia. Così egli scrive in una lettera indirizzata al Giordani: “(…) sono due mesi ch’io non istudio, né leggo più niente, per malattia d’occhi, e la mia vita si consuma sedendo colle braccia in croce, o passeggiando per le stanze”. (Epistolario, 116). Siamo agli inizi del 1819. Il Leopardi chiuso in meditazione nelle alte mura del suo palazzo paterno e circondato dalle somme ed infinite colline del monte Tabor (secondo la tradizione, monte situato nelle vicinanze di Recanati), scrive il componimento più altosonante della sua stagione letteraria italiana, “L’infinito” . Con la pubblicazione del suo poema “L’infinito”, si apre per il Leopardi, il sipario della stagione dei “grandi idilli”. Negli anni compresi tra il 1820-1822 inizia la stesura dello “Zibaldone”, un diario di impronta intellettuale dove il Leopardi appunta riflessioni di carattere filosofico, letterarie e linguistiche. Nel 1822 Giacomo Leopardi ha finalmente il permesso di uscire da Recanati, da quella “tomba de’ vivi” e come prima tappa si reca a Roma, a casa dello zio materno Carlo Antici. Nella futura capitale d’Italia, il Leopardi rimase basito dalla grandezza monumentale della città soprattutto per un uomo che ha vissuto in un piccolo paesino di provincia. Questo senso di grandezza e di allontanamento alla vita ritirata, spingono il giovane poeta di ricomporre di nuovo le valigie e di ritornare alla sua cara tanto odiata Recanati. Tornato di nuovo a casa e alla vita di prima, una esistenza come egli scrive “senza illusioni e affetti vivi (…), senza immaginazione ed entusiasmo”, si dedica alla stesura delle “Operette Morali”, il libro “più caro dei miei occhi” come lo definì lo stesso Leopardi. Scritto tra il 1824 e il 1832, le “Operette Morali”, sono una raccolta di prose (ventiquattro in totale) di carattere satirico, fantastico e filosofico dove il poeta descrive la genesi del suo “pessimismo cosmico”. Man mano la sua salute peggiora. Tenta senza esito il suicidio. Passa la maggior parte delle sue giornate tediose e lente a letto a causa dei problemi reumatici. Ristabilitosi non del tutto, nel 1825 un editore milanese Antonio Fortunato Stella, venuto a conoscenza delle sue doti eccezionali a livello letterario, gli offre l’occasione di lavorare con un assegno fisso mensile, per una serie di collaborazioni editoriali. Infatti, per il suo editore, il tipografo Stella di Milano, Giacomo Leopardi tradusse il “Manuale di Epitteto” (in greco πίκτητος , filosofo greco antico vissuto nel I sec. d.C., esponente dello stoicismo e vissuto sotto l’Impero Romano), che non fu mai pubblicato. Nel 1830 l’editore restituì di persona il manoscritto tradotto in italiano (il testo originale scritto in lingua greca) e curato con l’aggiunta di una nota introduttiva al testo dal Leopardi con il titolo di “Preambolo del volgarizzatore”. Viaggia tra Milano e Bologna. Nella città del “Dolce stil novo”, si innamorò platonicamente della contessa Teresa Carniani Malvezzi. Studia e scrive edizioni di Cicerone, Petrarca, Dante e di scrittori di letteratura latina. Nel 1827 soggiorna a Firenze, dove strinse amicizia con Gian Pietro Vieusseux e con il gruppo di intellettuali della rivista periodica italiana, “Antologia”. Tra l’inverno e la primavera del 1828, il Leopardi si trasferì a Pisa. Qui il clima della città, tipicamente mite d’inverno, giova l’animo cagionevole del poeta a causa dei continui malesseri alle ossee e agli occhi. In questo clima di pace interiore, nella primavera del 1828, scrive l’idillio “A Silvia”, scritto poco dopo “Il Risorgimento”. Il poeta dedica la poesia a Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima di tisi all’età di ventun anni, il 30 settembre 1818.