Gian Paolo Ormezzano - Tutto il calcio parola per parola... Copyright Editori Riuniti Roma. Il calcio, lo sappiamo tutti, non è solo uno sport: è anche un immenso repertorio di parole e di figure che alimentano da quasi un secolo l'immaginario e la vita quotidiana, le passioni e le delusioni, le guerre fratricide e i giochi d'infanzia di milioni di italiani. Coprendo in quattrocento voci il tragitto che porta da abatino a zona, Ormezzano non si limita a fare opera di diligente lessicografo, ma ci accompagna con verve sorniona in un viaggio a volte esilarante e a volte nostalgico attraverso le leggende e le piccole storie, i segreti e le follie dell'universo del pallone.

Gian Paolo Ormezzano, classe 1935, è giornalista sportivo dall'età di 18 anni. Venti Olimpiadi tra estive e invernali, con il timore che si tratti di un record mondiale, tantissimo ciclismo (29 edizioni del Giro, 11 del Tour), nuoto e atletica (anche praticati). Per il calcio migliaia di articoli, cinque campionati mondiali, libri. Tre ampie storie di tre sport: ciclismo, atletica e calcio. Quattro giornali invasi nel corso delle sue lunghe scorrerie: Tuttosport (in due periodi diversi), La Stampa, Famiglia cristiana e Il giornalino.

Prefazione (Una volta tanto da leggere assolutamente per non perdersi e per non perdere qualcosa)

Attenzione: questa prefazione va assolutamente letta, sennò dopo una consultazione ordinata oppure avventurosa si decide che man- cano al nuovo lessico alcune voci importanti, ancorché magari non nuo- ve, e che dunque il libro è incompleto. Per esempio non c'è la voce "calcio", e questo può apparire a priori grave in una elencazione di parole tutte riferite al gioco del calcio, e molte da esso prodotte. Il fatto è che il libro, in quanto lessico del nuovo calcio dedicato soprattutto ai bipedi calciofili o calciomani televedenti, o telesedenti, dà per scontato che si sappia cosa il calcio è, e anzi che si sia fatta come suol dirsi a monte indigestione di storia di esso, compresa la grande menata del calcio britannico, del calcio fiorentino, della sferistica piú o meno legata o slegata dal gioco del pallone come viene modernamente inteso, eccetera eccetera. Il libro è per chi sa di calcio, ma non sa piú quello che si dice sul calcio, non riesce a correre dietro a neologismi, barbarismi, astrusità, novità, scoperte, divertimenti del linguaggio forse piú caldo del mondo. Ma poi, tornando alle voci che mancano, c'è qualcuno in grado di definire il gioco del calcio? Potrebbero gli uomini commettere un peccato di presunzione piú grande di quello consistente in questo tentativo, indipendentemente dalla riuscita o meno di esso? Il libro nasce e cresce (e non muore, nel senso che il divenire del football provvede a nutrirlo e farlo vivere in continuità, con una sicura produzione di lessico nuovo, foriero - me lo auguro, almeno - di nuove edizioni) grazie a una sorta di gioco al gioco del calcio. Perché cercare, mettere insieme, spiegare o tentare di spiegare le parole nuove del mondo del pallone, è sicuramente un gioco, e a questo gioco abbiamo giocato, a esso vi invitiamo a giocare. Futile e importantissimo, assurdo e serissimo, inutile e vitale come ormai tutti i giochi, in un mondo in cui la divisione fondamentale non è piú tra ricchi e poveri (essa è stata annullata dal badedas e dai bagni-schiuma succedanei), bensí fra clown in genere pagati benis- simo e gente che va a vedere i clown che intanto vendono qualcosa alla gente, o fanno comprare qualcosa alla gente. Cosí almeno vanno le cose nel terziario, che è il mondo di oggi fatto carne di uomo, con l'inserimento dello spirito ridotto al minimo, ed è carne di uomo fatta carne di venditore o acquirente dei cosiddetti servizi, fra i quali, e anzi davanti a tutti, sta la partita, anzi sta quella partita di partite che è il campionato.

Bisogna impegnarsi almeno un po' nella lettura del libro, in progressione o a vanvera, altrimenti si corre il rischio di trascurarne la funzione essenziale, che non è quella di divertire, come pure può sembrare al primo impatto, ma quella di porre alcu- ne pietre, dalla prima in avanti, per la costruzione della catapecchia linguistica in cui ormai noi - calciomani o calciofili o semplicemente calciolo-ghi - siamo condannati a vivere. Perché è fuori di dubbio che il lessico del calcio sta esplodendo in un po' tutto il parlare dell'uomo, o quanto meno dell'homo italicus, e per implosione sta occupando tutto il proprio stesso mondo, spesso an- che vietandosi a immissioni di lessico esterno. Avete notato insomma che il lessico del calcio va in giro felicemente, spavaldamente per altri mondi, intanto che in linea di massima si vieta a invasioni dall'esterno? Se prende una canzone popolare, la stupra di proprie parole, subito la fa sua, non si lega in nessun modo a essa dal punto di vista linguistico: a meno che la canzone dica "we are the champions", ma in questo caso, approdan- do agli stadi, essa in un certo senso ritorna a casa. Il lessico del calcio invade la politica, il costume, l'arte dalla piú seriosa alla piú effimera, intanto che nessun altro lessico sembra in grado di invaderlo, o semplicemente di fare scorrerie en- tro i suoi confini, come persino a Pancho Villa messicano riuscí entro gli altrimenti inviolati confini degli Stati Uniti. Il lessico del calcio è di genesi assai esclusiva, e intanto è molto autarchico, bene esportabile, tanto fruibile da altri mondi.

Con le parole di questo libro si esplorano insieme le sedimentazioni e le escrescenze del linguaggio calcistico. Il fatto che si insista sul concetto di "nuovo" è legato piú all'idea di un lessico aggiornato e aggiornante che all'età delle parole proposte. Diciamo pure che si tratta di un libro un po' presuntuoso. Ma come può essere presuntuoso un salvagente in offerta speciale a chi sta affogando: sí, è vero che il salvagente salva la vita a quel signore lí, ma è anche vero che al tempo stesso si realizza, esercita la sua funzione, insomma vive. Senza l'affogato il salvagente non vivreb- be, non significherebbe niente. Il libro salva o cerca di salvare il fruitore di calcio sommerso dal lessico nuovo, o bloccato davanti al televisore dalla constatazione della propria ignoranza rispetto a nuovi modi di dire, che poi magari si riferiscono a nuovi modi di fare. Però senza que- sto fruitore il libro non avrebbe vita. Nessuno si mette a leggere o anche soltanto a sfogliare un dizionario se non si trova in caso di necessità. Ma nel momento stesso in cui lo sfoglia fa assumere al dizionario una funzione vitale sí, ma tutto sommato umile, sottomessa. Dovendo ovviamente operare una scelta, abbiamo lasciato da parte alcune parole, mentre ne abbiamo inglobate altre in definizioni che hanno avuto come punto di partenza un vocabolo magari lontano da esse. Sicuramente ci sono delle lacune, cosí come sicuramente ci so- no tanti termini inattesi, che il lettore conosceva per un incontro rapido, ma del quale aveva persa memoria. La stesura dell'elenco di parole è stata un lavoro difficile, condotto con alcuni aiuti, su tutti quello di Davide Gambetta, uno studente (ma intanto che il libro è stato scritto ha avuto il tempo di laurearsi) che ha pure seguíto un bel po' dell'editing, cioè di quella operazione che Umberto Eco ha magistralmente spiegato su L'Espresso nella sua importanza, difficoltà e delicatezza: una volta bastava parlare di correzione, adesso le molte implicazioni di ogni mondo con altri mondi suggeriscono e impongono attenzioni vaste, difficili. Un felice tragico incidente di computer, con la cancellazione, senza nessuna memoria d'archivio, di una grossa par- te del libro stesso, e con dunque un nuovo pronti-via, ha sicuramente permesso di rintracciare parole nuove.

E a questo punto diventa necessaria una spiegazione sulla progettazione e l'andamento dei lavori. Avevo pensato infatti a un libro scritto di getto, a mano a mano che i termini mi venivano in mente, e subito trattandoli per iscritto, o quanto meno appuntandoli in vista di un trattamento da effettuare il piú presto possibile. Cominciato il lavoro, mi ero subito accorto che la definizione di un termine implicava automaticamente il ricorso a molti altri termini da definire, o il ritorno a qualche altro termine già definito. Il libro era un cosiddetto work in progress, facile e simpatico. E proprio per la facilità di evocazione dei termini, trovavo comodo tenere tutto il libro in un unico "file" di computer, per averlo tutto sottomano, per andare facilmente a sistemare alfabeticamente la parola al posto giusto, prima di quella lí e dopo quella là. Scrivevo la definizione di "sistema", mi veniva in mente "metodo", andavo indietro alla "m" e infilavo il termine al posto giusto. Un unico "file": e naturalmente alla vigilia del giorno in cui, tornato a casa da un viaggio di servizio giornalistico, avevo deciso di mettere tutto il lavoro fatto sin lí in un archivio, cioè in un dischetto di salvataggio, per uno dei massimi misteri dell'elettronica tutto è sparito dal computer, tutto il lavoro svolto sino a quel momento, cioè un paio di centinaia di migliaia di battute. Mi hanno detto gli esperti, dopo avere condannato la mia imprevidenza, che il mio è stato un caso rarissimo, una volta su un milione e magari di piú: e quasi dovrei essere fiero di questa scelta del destino. Piú facile insomma vincere qualche premio a qualche importante lotteria. Attendendo questo secondo evento, mi sono rimesso al lavoro, sollecitando al massimo la memoria per ricordar- mi che cosa avevo scritto, ma soprattutto elencando prima i termini, esaurendo una lettera dell'alfabeto alla volta e provvedendo alla sua immediata memorizzazione, ogni lettera un dischetto.

Facendo cosí, mi sono divertito di meno ma ho evitato di suicidarmi, come invece avrei fatto in caso di seconda cancellazione per opera del computer. E inoltre, siccome pare proprio vero, a onta che ce lo abbiano ammollato troppe volte da troppe cattedre, che ogni errore, ogni inconveniente, persino ogni disgrazia è utile perché si fa tesoro dell'esperienza, il libro magari è riuscito meglio, nel senso di piú pensato ed anche piú scritto e meno gettato giú, e comunque nel senso di piú completo e ordinato, per via appunto di una piú organica elencazione delle parole da trattare. Cosí almeno vo- glio disperatamente credere, anche se so che certe intuizioni felici ti visitano una volta e basta, poi sprofondano e a galla non riesci piú a farle tornare. In quella che io chiamo una seconda stesura, anche se il prodotto finale è stato, quanto a battute, decisamente piú ricco di quello tragicamente scomparso e di quello che doveva essere nell'intero progetto iniziale, ho avuto modo di constatare la grande vitalità del lessico calcistico, il suo sapersi cioè reimporre, almeno in una mente decisamente malata come la mia, e malata con l'aggravante della tragedia elettronica. Insomma, essere riuscito a riscrivere quasi del tutto un libro simile a quello "sparito", e non essere morto e anzi essere guardato da parenti e amici e colleghi con la stessa faccia di prima, dice (se non si tratta di gigantesca recita collettiva intorno a un pover'uomo) che il lavoro, se non nobilita l'uomo, almeno lo mobilita. Ce l'ho fatta, ecco, e con il sospetto di dover ringraziare, oltre che il mondo lessicale calcistico e la sua stupenda vitalità, anche me stesso, quel povero scrivano fantaccino che forse sono.

Gente amica che ha letto il libro, o che addirittura lo ha accompagnato nel suo divenire, mi ha detto che c'è da divertirsi. Voglio subito precisare che non ho voluto assolutamente prendere in giro un mondo, quello dello sport e particolarmente del calcio, dal quale ho tratto pane e caviale, e che per via del mio tifo per una certa squadra mi ha permesso di frequentare una vasta gamma di emozioni e di commozioni. Ben altra potrebbe essere, e sarebbe sta- ta, una trattazione con scopo di fare ironia (mica facile, poi), addirittura di fare umorismo. Se ogni tanto od ogni poco si sorride, è per motivi accidentali. Il mondo del calcio è cosí vasto che c'è spazio per tutto e tutti, anche per i procuratori di risate. E' vero che esiste ormai una vasta letteratura calcioumoristica, legata a battute, gaffes, casi speciali. Ma ci sono dei libri ottimi in materia. Qui voglio soltanto dare un mio Oscar- sfizio personale, niente piú - alla frase piú grandiosa e meno nota e tutta vera, quella emessa da un celebre operatore di mercato a proposito di un appuntamento con un suo omologo, per decidere un importante trasferimento: "Ci vediamo domani a Mantova, a mezzogiorno in punto, sotto il monumento al povero Virgilio".

Ho avuto uno strano pensiero, quando sono arrivato alla lettera "h": che questa lettera cosí poco presente in assoluto come iniziale nel lessico italiano, avrebbe posto il problema della pagina bianca se non ci fosse stato nel nostro calcio un certo , fra l'altro uno dei due "h" nel nome e nel cognome (l'altro è ). Un uomo verso il quale tutti siamo in debito per la grande pedata che ha ammollato al nostro mondo del pallone, spedendolo avanti. Il problema di decidere se avremmo dato spazio alla iniziale "h" senza Helenio, però con l'altro Herrera, Heriberto, non è di facile soluzione. Ma c'è da pensare che no. Senza Helenio Herrera questo lessico avrebbe avuto una lettera in meno. L'occasione è propizia per dire anche delle iniziali piú o meno frequentate dalle parole. La "c", la "m", la "r" e la "s" dominano qui, la "b" non va male, e cosí anche la "g" e la "v". Domanda: questa situazione del lessico calcistico riflette tutta la situazione generale, o è particolare del settore? Risposta: e che ne sappiamo? Possibile seconda risposta: e chi se ne frega? Se comunque qualcuno ha voglia di lanciare la ricerca comparati- va, faccia pure.

Il libro che vi accingete a sfogliare non ha la pretesa di esaurire il lessico calcistico, e neppure di dare risposte profonde a eventuali profonde domande di natura semantica o filologica. Il li- bro si propone essenzialmente come una guida per chi, stando davanti al televisore, sbatte contro termini nuovi, in assoluto o nel relativo della sua ignoranza. Il libro vuole essere un prontuario, un aiuto, un salvagente e qualcosa di piú: perché, con la scusa di aiutarvi a galleggiare nella nuova terminologia, vi porta magari a visitare qualche isoletta speciale, qualche sito storico, qualche anfratto della storia. Diciamo pure che è un'opera falsamente umile. Lo abbiamo già ammesso e spiegato (vedasi sopra il paragone del salvagente), ma a questo punto della prefazione ci pare giusto insistere in una confessione che è anche una presa di coscienza, una spiegazione di che cosa vogliamo, di dove andiamo (quanto al da dove veniamo, possiamo dire dalle prime radiocronache di Carosio o dal- le ultime partite della nostra squadra beneamata, viste in curva per collezionare piú termini del nuovo lessico: con in mezzo piú di mez- zo secolo di stadi).

Juventus nel libro - dove non c'è la voce "calcio" - c'è perché sí, la Juventus è da sola una parte enorme del nostro calcio. C'è perché sennò non c'era proprio niente alla "j" o "i lunga", e se è vero che non c'è niente neppure alla "y" o "i greca", è anche vero che da quelle parti del dizionario non si trova la piú importante squadra d'Italia e - dicono - del mondo. C'è Juventus e non c'è Inter, non c'è . Ingiusto? Andatevi prima a leggere che cosa c'è alla voce Juventus, e decidete che an- che per Inter e Milan vale la stessa non definizione: se l'abbiamo appioppata alla Juventus è semplicemente perché ha vinto di piú e quindi è maggiore la forza pleonastica della domanda che anima la definizione stessa. Magari per qualche prossima edizione di questo libro Inter e Milan avranno colmato il gap di vittorie e avranno anch'esse la loro brava non definizione: che però sparirà o quasi nel laghetto di parole che cominciano per "i" e nel mare di quelle che cominciano per "m".

Lungi da noi l'idea di avere colmato, con questo libro, una qualche lacuna. Nessuno di esso sentiva il bisogno, ne siamo assolutamente certi. Al massimo qualcuno poteva avvertirne un po' di voglia. Qualcuno del calcio, qualcuno non del calcio. Il primo per amore del calcio, il secondo per odio. Conoscere il lessico di un popolo, un ambiente, una tribú, significa comunque poter amare o odiare me- glio questo popolo, questo ambiente, questa tribú. Personalmente, anche chi ha scritto questo libro poteva vivere benissimo senza accingersi a esso. Né intende farlo passare come opera pia nei riguardi di chi sente dire di calcio e non capisce che cosa si dice, non capisce le parole. Al contrario, trattasi di libro sadico, che aumenta le problematiche calcistiche gonfiando di spiegazioni, o di tentativi di spiegazioni, il loro aspetto primario, il suono, il significato. C'è in chi scrive queste righe il sospetto che il libro nasca da un conflitto/connubio fra sadismo e masochi- smo. Dopo averlo letto, cosí come dopo averlo scritto, sarà impossibile sentir dire di tiro al fulmicotone senza avere voglia di aprire questo dizionario per sapere che cosa vuol dire. Aprire il dizionario e non trovare niente. Perché davvero non sappiamo che cosa voglia dire "tiro al fulmicotone", o meglio sappiamo che cosa la definizione pretende di dire, ma non sappiamo perché lo dice cosí. Chi di quelli che hanno sentito dire o hanno addirittura detto di tiro al fulmicotone ha mai visto il fulmicotone, e sa con una certa precisione che cosa sia? Aiuto: questo libro non colma nessuna lacuna, casomai apre voragini, provoca mulinelli nel placido stagno dove si sguazzava finora.

Ma torniamo all'assunto vero e proprio di questo libro, assunto sinora trattato troppo sommariamente. Il libro, ripetiamo, nasce per aiutare, con la sua lettura o meglio con la sua consultazione, la migliore lettura dell'evento calcistico, allo stadio o davanti alla televisione. La terminologia nuova, quella in continuo divenire, quella vecchia che in genere serve come riferimento museale, tutto concorre a questo lessico. In noi personalmente la decisione di scrivere questo libro è venuta quando abbiamo sentito dire, in televisione, la parola "ripartenza", e abbiamo intuito che si tratta del contropiede. Eravamo passati, slalomando con falsa indifferenza, fra tanti termini nuovi, alcuni anche usandoli nella pratica giornalistica quotidiana. Ormai quasi mezzo secolo di lavoro nel giornalismo sportivo significa pure qualcosa, anche come frequentazione di termini e- si capisce - mez- zi termini. La ripartenza mi ha fatto partire.

Nascosti nella pratica quotidiana prossima ventura stanno sicuramente molti altri vocaboli del nuovo e continuamente rinnova- to lessico calcistico nostrano. Un lessico che ha contatti e scambi specialmente con la lingua inglese e con quella spagnola, sia per la forte tradizione calcistica dei paesi dove sono nati questi due idiomi, sia per la dominazione di queste due lingue nel mondo. Niente o quasi con la francese, qualcosa con quella tedesca. Ecco, dicendo della lingua tedesca viene opportuna una spiegazio- ne di ordine generale. Ci sono calciatori di possente taglia atletica che vengono chiamati panzer, parola che significa carro armato, persino piú germanica, con maggiore solennità, che tedesca (germa- nica nel senso di bellica, e le guerre della Germania comunque sono- purtroppo per l'umanità e a gioco lungo per gli stessi tedeschi - sempre state solenni, non mai disperate, straccione). Bene, a un certo punto noi abbiamo preso a chiamare panzer non solo i tede- schi nostri avversari, ma quegli italiani grossi e possenti che sul campo di gioco ricordano, appunto, l'incedere non frenetico ma sicuro e travolgente dei carri armati. La parola però non ha nessun legame di nascita, di origine, di parentela con il gioco del calcio. Pensiamo che nella loro maggioranza gli spettatori, vedenti o televedenti, della partita quando sentono parlare di panzer pensano ai carri armati e adattano l'immagine a questo o quel calciatore. Ecco per- ché "panzer" non c'è, cosí come altri termini di uso altrimenti comune, e passati al calcio senza perdere la loro identità. Piú o meno ci ha sempre soccorso questo criterio: anche perché il libro altrimenti sarebbe venuto di mille pagine. Il termine di uso comune o quasi nel mondo extracalcistico, mediato dal mondo del calcio senza spupazzamenti, senza adattamenti o con adattamenti minimi, cosí come il termine di paragone chiaro, esplicito, in linea di massima non viene preso in considerazione.

Onestamente dobbiamo ammettere che però abbiamo preso in considerazione termini, e magari anche personaggi, molto ovvi nel mondo del calcio, per il mondo del calcio. Che senso ha parlare di Pelé, di Platini, di Boniperti a gente che mastica cuoio di pallone, e da anni? Oppure: che senso ha parlarne a chi invece non ne sa nulla, e al quale non si possono o non si dovrebbero dare per scontate le informazioni primarie sullo stesso termine, sulla stessa persona? Non bisogna invece permettere con questi personaggi un approccio completo e se del caso anche pedantescamente documen- tato? Torniamo all'assunto già messo avanti, per cui questo libro, questa operetta è per aiutare chi già sa di calcio e va alla partita o si mette davanti al televisore e si trova irrorato di vocaboli nuovi che lí per lí non gli dicono niente, o lo sviano, e dei quali intanto comprende l'importanza. Oppure è per divertire, permettendogli al- cune scoperte e intanto offrendogli divertenti punti interrogativi ai quali mai aveva pensato, chi di calcio non sa niente (non pensiamo che esista chi sa poco: anche perché chiunque, in possesso di un minimo di scibile, si ritiene un competente, e magari, visto che non si tratta di astrusa matematica cinese, davvero lo è). Dunque trovate Pelé, e Platini, e Boniperti, e anche Trapattoni e i due Mazzola e Rivera e, toh, Ronaldo, però visitati piú come parole - ci sia permesso dirlo - che come personaggi. Come termini di conversazione, ecco. Come vocaboli di un lessico che può anche rendere cose gli uomini e umanizzare le cose.

Precisiamo con forza e convinzione che assolutamente non pensia- mo che questo lessico nuovo sia vangelo, ci mancherebbe altro. Nel mondo del calcio si combattono o quanto meno si fronteggiano tantissime tribú, che pure convivono a livello di koiné, di lingua o gergo comune. Ognuna di queste tribú non solo si sente in possesso della verità assoluta, ma ritiene che tutte le altre pratichino grandi eresie. E attenzione, non parliamo soltanto del tifo: parliamo anche delle credenze tattiche, delle cognizioni tecniche, delle opinioni economiche, delle valutazioni spicciole su questo o quel giocatore, anzi su una sua particolarità. Dare una lingua a Babele, una lingua intesa anche come una rego- la, ci pare compito tremendo e persino profano, per non dire sacrilego. Babele è bella, Babele "è", perché è babelica. Arriviamo anche a pensare che quest'opera sia datata, come d'altronde è di tutti i dizionari, compresi anche e soprattutto i piú seri. E quando la si è finita, bisognerebbe già ritoccarla, in un gioco infinito, alla Sisifo tanto per restar nel classico. Possibile che in questo stesso momento nasca un neologismo per dire di un fesso presuntuoso e affannato che pretende di mettere giú un nuovo dizionario calcisti- co, anzi peggio ancora, un dizionario del nuovo calcio. Già abbiamo palesato la nostra soddisfazione perché questa nostra operetta non colma nessuna lacuna. Adesso diciamo che ci basterebbe che gocciolasse un pochino di curiosità, di divertimento, dentro la laguna, il lago, il mare, l'oceano del sapere.

Qualcuno dissentirà, e fortemente, dalle definizioni, magari subito dopo avere finito di dissentire sulle scelte dei vocaboli, dei termini. Lusingati a priori dalla reazione, che in fondo significa anche interesse, scriviamo qui, in fede, che ci piacerebbe ricevere addosso tanti dissensi, ed esplicitati, non solo per porre mano a opportune revisioni, che significano sempre ulteriori e perché no? opulente edizioni, ma anche e soprattutto per godere di una ulteriore sfaccettatura di quel grande poliedro che è il pallone: ancorché co- me è noto la palla sia rotonda, non poliedrica. Ma ecco che quest'ultima definizione ci permette di chiarire un altro po' il concetto di utenza di questo libro: se in esso chiariamo il perché e il percome di questa frase - appunto "la palla è rotonda" - non pensiamo sicuramente e presuntuosamente di fare una lezione di geometria, e men che mai di sciupare inchiostro e carta per sottolineare quella che in fondo è una banalità, nota anche ai poveri bimbi pakistani che lavorano come schiavi, pagati come miserabili poveri da ricchi miserabili, per le multinazionali della sfera di cuoio, e che rischiano di vedere decurtato il loro piccolo guadagno se con piccole povere mani non provvedono a lavorare bene gli spicchi di cuoio, affinché il pallone risulti appunto perfettamente rotondo. Semplicemente ci preoccupiamo di coloro che sentono dire questa frase, magari al loro primo approccio al nostro mondo, e credono che siamo tutti matti. E intanto confidiamo di riuscire a prendere un po' in giro questo padre di tutti i luoghi comuni, questo modo di dire che è insieme ipocrita e sbagliato.

Razzolando per il libro, si possono trovare anche episodi, battute, riferimenti personalizzati o addirittura personali, sfiziosità assortite. Il rigore scientifico non è - lo diciamo subito - una prerogativa di questa operetta: ma non nel senso di presenza di licenze storiche, di documentazioni sommarie, bensí nel senso di assenza di sussiego, di grevità, di quella seriosità che spesso è nemica della serietà. Possediamo tanti vocabolari, ogni tanto ci è accaduto di consultarne qualcuno, mai di leggerne uno, neppure per una pagina intera e solo quella. Casomai abbiamo scientificamente letto qual- che pagina di dizionari di lingue straniere, convinti che questo sia un buon mezzo per conoscere le lingue stesse. Saremmo lietissimi se, nel nome del calcio, del pallone, questo lessico fosse il primo al mondo a venire letto per piú - esageriamo? - di due pagine di seguito. E se poi questa lettura portasse all'apprendimento definitivo, da parte del lettore, di termini nuovi e al loro uso corretto nella conversazione, anche si capisce in quella calcistica, la nostra letizia salirebbe al settimo cielo, a confondersi con la gioia, con l'esultanza e persino con la soddisfazione.

Sia infatti concessa a chi scrive una notazione fortemente personale. In quello che sta minacciosamente per diventare un mio mezzo secolo di giornalismo sportivo, mi sono sentito rimproverare tante volte d'aver usato parole difficili, o non facili, descrivendo una semplice tenzone sportiva, o trattando un popolare personaggio dello sport. Mi sono sempre difeso dicendo che, se nel nome dello sport, e segnatamente del pallone, riesco a catturare in un articolo l'attenzione di una persona, anche una sola, e se questa persona che cosí mi si consegna riesce, grazie a quello stesso articolo, ad aggiudicarsi una parola in piú per il suo lessico di tutti i giorni, o prendendo un dizionario o prendendo informazioni, io sono felice, per me piccolissimo infimo missionario e per lui, il lettore: perché - lo ha detto Dario Fo ed è pure vero - il padrone conosce piú parole dell'operaio e l'operaio anche per questo è sempre fregato, intanto che l'operaio il quale conosce qualche parola in piú è piú forte. In questo libro ci sono parole nuove nel senso di nate da poco e ci sono, per spiegare, per raccontare queste parole, per agghindarle anche, parole che possono risultare nuove a chi legge, e che appartengono alla lingua italiana e che meriterebbero un uso costante, specie quando si tratta di preferirle a comode ma prepotenti parole straniere. Se - ripeto - qualcuno, anche uno solo, leggendo questo libro, viene indotto ad aprire un vocabolario, un altro vocabolario, per capire meglio una cosa che ha intuito sia bene capire, io mi ritengo felice e soddisfatto, e vado a letto sereno proprio come dopo una bella intensa giornata di sport.

Tra le cosiddette motivazioni per scrivere un libro che in qualche modo è sul calcio, c'è che si scrivono pochi libri sul calcio. In proporzione all'ampiezza del fenomeno, quello calcistico è infatti in Italia uno dei meno trattati libristicamente, mentre è uno dei piú trattati giornalisticamente. In paragone alla portata del messaggio, ci sono infinitamente piú libri sull'allevamento delle lumache che sul gioco del calcio. Si potrebbe ascrivere ciò, tutto sommato felicemente, alla paura rispettosa che il mondo dello sport ingenera nel mondo dell'arte, la quale se ne sta, in Italia, paese di superesperti sportivi, piuttosto lontana dalle vicende muscolari: che si tratti di arte visiva, letteraria, poetica, musicale, cinematografica, teatrale. Ma purtroppo abbiamo un'altra idea: che si pratichi troppo giornalismo perché si possa praticare abbastanza letteratura. In altre parole, che la possibilità di scrivere, nel senso di produrre materiale scritto, sia quantitativamente una, e che se si scrive molto, e in maniera magari raffazzonata, affannata, cioè giornalistica, poi non restano a disposizione "scorte di scrittura" per scrivere o tentare di scrivere in maniera letteraria. Fare del giornalismo sportivo in Italia non è troppo difficile, e guadagnare con esso abbastanza da campare, e da viaggiare, e da fa- re insomma la vita di un ricco senza avere in tasca i milioni e men che mai i miliardi, non è poi una grande impresa. E' persino probabile che il giornalismo sportivo abbia sottratto talenti alla eventuale letteratura sportiva. Discorso lungo per spiegarci un poco, forse per scusarci un pochino.

Una domanda a questo punto è doverosa, e pazienza se si deroga dall'assunto specifico di questa opera: vedendo, sentendo, godendo, patendo, insomma subendo una partita di calcio si può produrre letteratura? Sulla scorta della nostra esperienza per scrivere questo libro, diremmo che una delle materie prime, cioè la parola, esiste, e in maniera abbondante. Un buon dibattito tenuto a Torino dal Pre- mio Grinzane Cavour, sull'ennesima constatazione della difficoltà di fare letteratura sportiva in Italia, ha portato - siamo agli inizi del 1997 - un importante dirigente della Juventus, , ex grande calciatore, a dire che il mondo del calcio, il suo mondo, produce poesia, ma che chi scrive non è in grado di raccoglierla. Bettega ha citato un episodio, concernente la commozione di un calciatore, lí in campo, per la triste vicenda di un suo compagno, episodio ignorato dai giornalisti; e un partecipante al dibattito, critico televisivo, nonché grande studioso e storico della comunicazione e appassionato di sport, Aldo Grasso, ha replicato che "poesia l'è morta", se pure c'è mai stata, citando anche un fatto particolare e provocando una durissima reazione di Bettega: per di- re di come e quanto la discussione possa appassionare. Partiamo pure dalla considerazione di Bettega: colpa di noi giornalisti, di loro scrittori, se lo sport e nello sport particolarmente il calcio (il ciclismo, ad esempio, ha dei bei fiori all'occhiello) non producono poesia, letteratura, emozioni artistiche? La risposta, che rischia di diventare subito una sentenza, non spetta certamente a nessuna delle controparti. La risposta appartiene alla gente, alla storia, casomai al tempo. Il fatto che sempre piú frequentemente la domanda di cui sopra venga posta dice che c'è interesse, c'è movimento, c'è discussione. Forse il vero grande romanzo italiano di sport (e pensiamo soprattutto al calcio) è alle porte. Potrebbe scriverlo, toh, Gianni Clerici, oppure Piripacchio Piripacchi: se con questo modesto lessico della mia operetta avrò offerto all'autore qualche parola in piú, una sola parola in piú per la sua bella opera, sarò fiero di me stesso e della mia operetta.

Viaggiando per il vasto mondo del calcio si fanno tanti incontri anche di natura filologica. Confessiamo, alla fine di una prefazione cosí per un libro cosà (o viceversa), che dopo attente e anzi pignole elencazioni di nomi, dopo liste sempre aperte, sempre visitate da termini nuovi, dopo aggiunte e controaggiunte, con il solo sbarramento rappresentato dal buon gusto, a un certo punto quantificato nel proposito vano di non andare oltre le 366 voci, una al giorno per un ipotetico anno (bisestile) di lettura penitenziale, il senso di smarrimento e di impotenza che deve prendere un autore onesto è inferiore al senso di orgoglio per la ricchezza del suo mondo. Vogliamo dire che se è vero che ci si rende conto che si sarà sempre in difetto e in ritardo rispetto alla produzione di parole e frasi appiccicate al divenire del calcio, ci si rende anche e soprattutto conto della straordinaria ricchezza di questo mondo del pallone. Ragion per cui essere in difetto significa certificare tale ricchezza e dunque fare i testimoni, i martiri persino, con rischio di sbertucciamento, di una grandezza sostanziale o quanto meno di una vastità territoriale. Sapere e far sapere che il libro, un libro che è un'esplorazione, è incompleto, o meglio che il libro non può esse- re completo, significa umilmente propagandare l'immensità di un territorio, dove peraltro sono ancora in corso enormi mutazioni naturali e artificiali. Il calcio è cosí grosso che per dire di esso non ci sono parole: ma nel senso che le parole non ci sono mai tutte, non ci possono mai essere tutte.

W noi. Dove la "v" doppia è scelta dall'uso per raddoppiare la valenza della "v" semplice, iniziale del congiuntivo esortativo o anche dell'imperativo del verbo vivere: viva, cioè, che con una "e" che lo precede assume valore, sempre esortativo, ancora maggiore, nel senso di "e viva dunque...". Vivere per stravivere, cioè vivere bene, e l'unione, dovuta all'uso, della "e" con il verbo ha dato luogo alla nascita di un termine che ogni tanto diventa anche sostantivo: un forte evviva, i grandi evviva. Il contrario è abbasso ("a basso", giú, una specie di condanna), che si scrive anche con una "W" rovesciata. Da queste due lettere, da queste due esortazioni lo sport, e specie il calcio subito produttore di forti coinvolgenti sentimenti, è stato a lungo visitato, quando forse si stava peggio di adesso, però si viveva meglio. Le scritte con "viva noi" o "W noi, abbasso loro" o "abbasso (w rovesciata) loro", ormai sui muri degli stadi sono destinate a fare archeologia, sostituite da elaborazioni raffinate di insulti, da scorribande nell'osceno, con il solo criterio fisso della inciviltà. La nostalgia per la W dunque non solo è valida, ma è obbligatoria: come e più che per tanto altro tenero lessico sparito, sommerso dal nuovo lessico trucido del pallone, degli stadi, del mondo. Ormai la sola W frequentata dal mondo del calcio con briciole di serenità e speranza rischia di essere quella dell'iniziale del nome di Veltroni, Walter, del quale si dice anche nel lessico. Veltroni, uomo politico di sinistra impegnato nello sport e magari anche per lo sport, vuole infatti stadi con scritte dove l'evviva e l'abbasso siano ricondotti alle sane valenze di una volta, vuole le famiglie agli stadi, a tifare in letizia, e vuole che gli stadi siano di proprietà dei club, così che i loro tifosi li tengano bene come si tiene bene la casa propria. (Parentesi: ammetto qui che forse, se il suo nome era Wladimiro e non invece Vladimiro, avrei dedicato corporativamente la W a Caminiti, caro collega, calciologo appassionato, grosso giornalista e grande uomo di penna, uno di quelli che come lui adesso non se ne fanno piú.) Noi grazie al sognatore Veltroni pensiamo a una umanità serena, attiva e serena, che si intruppa per andare allo stadio a vedere la partita di pallone e cammin facendo prepara slogan veramente umoristici contro i tifosi avversari, elabora gustosi sfottenti giochi di parole, usa un lessico particolare, mobile e nobile, si diverte divertendo, e questo ben prima del divertimento specifico offerto dal match. Sogniamo che ognuno di questa splendida tribú abbia il suo posto numerato allo stadio e si goda la partita in letizia, seguendo si capisce il gioco piú del risultato, commentando le presunte vaccate dell'arbitro con il "tutti possono sbagliare", fischiando gli errori dei suoi giocatori e applaudendo le prodezze dei giocatori avversari. E recando con sé, ognuno della tribú, questo libro, per ispirarsi, per documentarsi, magari per istruirsi. Lo stesso libro che nello stesso momento stanno sfogliando i calciofili telespettatori, nelle loro case. Un libro che può anche essere comprato allo stadio, anzi viene dato con modico supplemento sul biglietto d'ingresso (gli abbonati lo hanno già ottenuto sottoscrivendo appunto l'abbonamen- to). Io sogno, sogno, sogno...

Zacchete, tutto finito. Era soltanto un sogno...

Tutto il calcio parola per parola

A

ABATINO Termine appioppato da (vedi) ai calciatori azzurri, specie attaccanti, della Nazionale degli anni '60, e lasciato decadere quando gli abatini divennero vicecampioni del mondo in Messico nel 1970, superati soltanto dai brasiliani. Abatini per dimessa taglia atletica, per aspetto e in genere anche comportamen- to perbene, magari anche per capacità polemica con sottigliezze da ecclesiastici astuti. Il piú abatino degli abatini fu, secondo Brera, (vedi), personalmente inviso a Brera, anche se molti hanno forse giustamente pensato a una commedia recitata dai due con utilità reciproca, e recitata cosí bene che a un certo punto ognuno ha creduto sino in fondo alla parte, immedesimandosi in essa. Importanti abatini anche (vedi), Angelo Domenghi- ni e . Addosso a essi Brera rovesciò le sue teorie razziali sulla scarsità atletica di noi italiani e dunque sull'opportunità di praticare un gioco del calcio furbo e opportunista, all'insegna del difensivismo (vedi). Il termine comunque non è mai sparito dal lessico calcistico e viene di tanto in tanto riesumato: o perché si riesuma Brera, o perché si fa notare un certo calciatore provvisto di caratteristiche appunto abatinesche, comprese le occhiaie da peccatore onanistico e i modi da elefantino beneducato in un negozio di cristalleria. Approfittiamo dell'excursus nella forse piú felice invenzione lessicale di Brera per ricordarne un'altra en passant, senza dedicarle una voce vera e propria: rabicani, originariamente diavolacci danteschi, nel calcio invece poveri diavoli capaci al massimo di combinare qualche scherzo balordo (i portoghesi, la vol- ta che ci sconfissero contro il pronostico).

ABBONAMENTO Una prova di fedeltà economica offerta dal tifoso al club: io compro a priori i biglietti, io amo cosí tanto la mia squadra che non mi lascio attirare allo stadio soltanto nell'eventualità di suoi buoni risultati. L'abbonamento è nato per le partite allo stadio, poi il termine ha preso a indicare anche le partite in televisione. Un vero tifoso dovrebbe essere abbonato e alle prime, le cosiddette partite interne, alle quali recarsi, e alle seconde, le cosiddette partite esterne (e per vederle ci sono anche da affrontare spese alte legate all'acquisto della speciale strumentazione televisiva), dalle quali farsi visitare a casa. Studi medici hanno accertato che gli abbonati, quando non sono del tutto sordi, hanno comunque un udito scarso, almeno rispetto ad al- tri uomini loro omologhi come età e situazione fisica di base. Infatti gli abbonati non sentono le grida, pur fortissime, di mogli infuriate e di bimbi affamati, in case dove, fatte certe spese per il calcio, non ci sono piú soldi per vivere decentemente.

ACQUISTO Termine schiavistico usato nel mercato dei calciatori per indicare la presa di possesso - che una volta significava anche di proprietà -, con un vincolo (vedi) praticamente a vita, del cartellino (vedi), cioè della licenza federale di un certo calciatore. Si acquista, si compra un calciatore al mercato (vedi) delle pedate, come si suole dire e scrivere. Il cartellino adesso è di proprietà del calciatore, o se minorenne dei suoi familiari, ma la sua cessione avviene in maniera indiretta, ad esempio con contratti che prevedano una pena- le in caso di troppa e magari improvvisa voglia di libertà da parte del bipede atleta. L'acquisto presuppone la vendita, anche se non è esattamente legato a essa, nel senso che esistono giocatori liberi, cioè non legati a nessun contratto, detti anche a parametro (vedi) zero, i quali piú che oggetti di acquisto lo sono di ingaggio (vedi).

Da notare che, stranamente e persino buffamente, la parola acqui- sto viene nel mondo del calcio scritta spesso, detta quasi mai, se non a un certo livello - basso - di conversazione. Per gli avventori del Bar Sport (vedi), un giocatore viene comprato o venduto, una squa- dra compra o vende. AFICIONADO Termine preso gaglioffamente in prestito dalla lingua spagnola e da noi spupazzato nello sport con un uso improprio, sino a usarlo per definire esclusivamente i tifosi, quando invece definisce, o dovreb- be definire, anche i dilettanti. Un po' della confusione o meglio della sovrapposizione nasce dal fatto che, sempre in spagnolo, l'aficion è, parlando di una partita di calcio, il pubblico. Di solito lo si usa al plurale, aficionados. Dire a Madrid che si è aficionado del calcio può anche significare che ogni tanto si fa qualche partitella per divertirsi (un equivalente del termine è il francese "amateur"); dunque dire che il Real Madrid convoca allo stadio Santiago Berna- beu centomila aficionados può anche significare che vi si gioca la piú affollata partita del mondo. Purtroppo, da che un po' tutto lo sport mondiale è diventato "open", cioè aperto a professionisti e dilettanti, mancano le grandi occasioni in cui capire, grazie a uno speaker poliglotta, che aficionado vuol anche dire dilettante (si pensi ai Mondiali di ciclismo, con le gare per dilettanti e professionisti - adesso sono Under 23 e "open" - che permettevano, a chi faceva un po' di attenzione agli annunci in piú lingue, di chiarire l'equivoco, almeno per sé).

AGENTE Nel calcio per lungo tempo l'agente è stato soltanto quello di polizia, addetto al servizio d'ordine nello stadio. Da quando il servizio d'ordine è diventato un optional, ha preso il sopravvento, nell'uso e nella valenza del termine, almeno per quel che riguarda il calcio, il significato di procuratore (vedi), di manager (vedi) del calciatore. Qualcuno mette avanti la tesi per cui a inventare e lanciare il termine è stato un calciatore che, oppresso da troppi problemi dovuti alla pressione della gente su di lui, al culmine della seccatura ha apostrofato la gente, creando cosí l'agente e subito servendosi di esso come di un Frankenstein (battutaccia: scusateci, che l'abbiate capita o no). L'agente sbroglia per il calciatore, che gli lascia dal 5 al 20 per 100 dei suoi guadagni, tutti i problemi contrattuali, nel senso che cura che il calciatore non sia fregato, come accadeva nel passato secondo un copione molto frequentato. Il calciatore ha imparato presto a usare l'agente anche per il disbrigo di esigenze spicciole, come dire di no al club lontano che lo reclama per una serata mangereccia, o meglio ancora dire di sí però ottenendo una meda- glia d'oro di peso consistente, o un impianto stereo, o uno speciale televisore, insomma cose di cui lui, il calciatore, ha un bisogno assoluto per rendere al massimo nella partita e fare cosí felice il tifoso. L'agente onesto - quello disonesto ruba: è accaduto, accade, accadrà - deve mandare avanti per il calciatore richieste economi- che che la controparte, di solito, definisce cervellotiche, pur sapendo benissimo che finirà per accettarle. L'agente deve trattare con gli sponsor, sia quando è tempo di contratto, sia quando è tempo di penale, ad esempio perché il calciatore, che prende milioni dalla Coca-Cola per fare il testimonial (vedi) si fa regolarmente sorprendere mentre beve Pepsi-Cola. L'agente si deve anche occu- pare delle interviste, filtrando le richieste, chiedendo soldi quando la cifra ottenibile è tale da vincerla anche su una eventuale pubblicizzazione del fatto, con teorica brutta figura. L'agente insomma fa ormai tutto il lavoro difficile del calciatore, il quale deve limitarsi a giocare bene a calcio: cosa che forse l'agente saprebbe fare meglio di lui, ma non lo si saprà mai.

AGNELLI Gianni e Umberto, fratelli, i due principali personaggi della pur affollata grande storia della Juventus. Il primo, detto l'Avvocato, con la A scritta scrupolosamente maiuscola, è stato presidente del club, in pratica ereditato da suo padre Edoardo, morto prematuramente, ed è stato determinante nella crescita e nella definizione del club stesso, al quale ha di regola voluto assicurare i giocatori piú fantasiosi, piú divertenti, insomma i meglio artisti della scena. Al tempo stesso ha curato la praticità, ad esempio affidando il club al suo ex giocatore Boniperti (vedi), che quando giocava gli chiedeva, da ex contadino novarese, una vacca in pre- mio per ogni gol speciale, e sceglieva sempre la vacca gravida. Gianni Agnelli in età avanzata è diventato Giovanni e ha smesso di occuparsi della Juventus direttamente. E' cosí nato il personaggio dell'Avvocato che piomba nello spogliatoio (vedi) effettuando un blitz. Lui magari arriva superannunciato, ed essendo persona educa- ta si fa ulteriormente annunciare, e magari bussa anche alla porta della stanza di tutti i segreti: però sui giornali viene appunto scritto che lui piomba, e che il suo è un blitz. L'Avvocato ha competenza e sensibilità calcistica, e possiede pure un notevole senso dello humour. Non è assolutamente colpa sua se ogni tanto gli attribuiscono simpatie e antipatie per questo o quel giocatore, al quale magari lui si è riferito con un monosillabo e basta. Certi suoi giudizi sembrano passatisti, ancorati cioè a un calcio che adesso non esiste piú, ma il primo a saperlo è lui, non per nulla grande esperto di antiquariato: e chissà le risate che si fa quando si accorge che una sua frase, emessa per scherzo o per traccheggio o per cazzeggio, viene invece presa seriamente, e maga- ri fatta assurgere al cielo delle citazioni fondamentali per la storia dell'umanità da parte della coorte e corte di paggi che lo circondano o che comunque vorrebbero circondarlo. Gianni Agnelli è facilmente rintracciabile, allo stadio, perché accanto a lui c'è sempre, quando arriva e quando va via, un giornalista con un cappello a tesa larghissima. Le sue interviste con il giornalista stesso sono persino piú famose che fumose. In genere l'Avvocato non rinuncia alla battuta, che di solito è valida. Ma quando per caso rinuncia, gliela attribuiscono lo stesso, sia ridendo o sorridendo qualsiasi cosa lui dica, sia mettendo per iscritto le sue frasi e affidandolo a sorrisi e risate dei lettori, fra i quali sicuramente lui: che però sorride o ride del fatto che gli altri abbiano sorriso o riso per frasi che lui aveva emesso seriamente o comunque senza intenzione di mettere in azione labbra e denti del volgo. Una conversazione calcistica con l'Avvocato è sempre un piacere, e lo è anche se diventa un dovere. Imponente è la raccolta di aneddoti e anche di barzellette che lo riguardano, ma stranamente non c'è da questo punto di vista produzione calcistica, quasi che il calcio abbia di lui un rispetto persino eccessivo (altra cosa che lo farebbe e forse lo fa ridere). Vogliamo qui dedicargli un episodio inedito, rapito a Boniperti con riferimento al tempo in cui era giocatore. Una partita della Juventus in casa contro il Palermo, una sconfitta inattesa e umiliante, specie pensando agli sfottò del presidente della squadra siciliana, Raimondo Lanza di Trabia, principe stravagante e grande amico personale dell'Avvocato. Tutti i bianconeri nello spogliatoio, ognuno che rimira la parete per evitare sguardi pesanti. I piú imbarazzati Boniperti e Sivori (vedi), perché i piú bravi in certe occasioni sono anche i piú colpevoli. Viene annunciata la visita dell'Avvocato. Ognuno cerca di farsi decalcomania contro la parete. Entra lui, silenzio tombale. La sua voce: "Cretini. Vado a prendere un caffè a Parigi". E siamo al fratello Umberto, al quale la famiglia affidò la Juventus nei durissimi anni '50 e '60, quando Onesti presidente del Coni chiamava "ricchi scemi" i presidenti calcistici. Umberto riuscí addirittura a essere presidente della federazione e della Juventus senza che si parlasse di incompatibilità dei due ruoli. , detto il Dottore, ma non con la stessa forte ritualità con cui il fratello è stato definito l'Avvocato, ha intitolato alla sua dirigenza la Juventus di Boniperti-Sivori-Charles e poi quella di Del Piero-Peruzzi-Zidane. Piú difficile decisamente gestire la prima, quando lui scelse come giocatore leader Sivori, argentino grande e bizzoso, sovrapponendolo a Boniperti, a proposi- to del quale il fratello Gianni accettò che come calciatore si mettesse da parte ancor giovane, a patto che studiasse da presidente (vedi). La seconda, affidata esecutivamente alla triade Bettega-Giraudo- Moggi e formalmente alla presidenza Chiusano, è una produzione indu- striale che si occupa di calcio, non una squadra classica, con tutte le sue sfaccettature canoniche e soprattutto i suoi spigoli. Fra i vari ostacoli che Umberto Agnelli ha dovuto superare c'è stato anche quello dell'immanenza del fratello piú anziano e dun- que, se non altro per ragioni di tempo, piú legato alla storia della Juventus. L'operazione, stando ai successi bianconeri e alla felice permanenza dei due fratelli in tribuna davvero d'onore, sembra perfettamente riuscita. Rispetto a Gianni, Umberto non è stralegato al calcio artistico e non deve patire il pedaggio della battuta: nel senso che lui non corre il rischio di leggere un suo fonema trasformato in storiella, un suo sospiro trasformato in definizione ironica (affettuosamente ironica, sempre) di quel certo calciatore.

AGROPPI Aldo, toscanaccissimo, calciatore forte, soprattutto nel Torino, approdato anche alla Nazionale, poi allenatore interessante ma mancato e commentatore televisivo capace di un'azione sconvolgen- te: dire il vero, che magari non è la verità, ma è comunque quello in cui uno crede. Sparito. Sparato?

ALA Non c'è piú. Una volta era il giocatore che, correndo lungo la linea laterale, quasi sulla linea laterale, portava avanti la palla, oppure scattava per ricevere la palla, poi arrivava sin quasi al fondo campo ed effettuava il cross (vedi). L'ala destra era sempre meno brillante dell'ala sinistra, per ragioni misteriosissime, e negli anni '50, con un certo Armano dell'Inter, cominciò addirittura ad arretrare, trasformandosi in terzino durante certe fasi della partita. Adesso il ruolo di ala è sostituito da tantissimi altri ruoli, sui quali ci imbatteremo nel corso di questa nostra elencazione. Dicia- mo qui soltanto che esiste l'ala tornante (vedi) o rientrante, anche se non si sa bene da dove torna, e anche se non esiste, come pure dovrebbe, l'ala non tornante. Con l'ala è scomparsa anche l'aletta, che era un giocatore d'ala, però piccolo e obbligatoriamente sgusciante. Non è mai esistita un'aletta che non sia stata anche sgusciante. Per tutta la prima metà del secolo è stato sancito che le ali sinistre, cosí come i portieri, "sono tutte matte", dando al titolare di questo ruolo una patente di eccentricità, forse legata al fatto che giocando a sinistra costui deve essere preferibilmente mancino, e che i mancini sono a priori un po' strani. Di meglio, per la spiegazione, non riusciamo a trovare: ma intanto l'ala è sparita e quindi non ci sentiamo in colpa grave.

ALLENAMENTO Vedi, guarda, scruta, indaga la voce allenatore. Non c'è parola al mondo, che dipenda di piú da un uomo, di allenamento da allenato- re. Se ciò non accade, trattasi di alienamento, tutta un'altra cosa.

ALLENATORE Il massimo personaggio del mondo del calcio. Nella sua vicenda presso di noi, sulle nostre panchine e sui nostri giornali e dentro i nostri cuori, ha cambiato piú volte nome, perché si è presentato co- me trainer, all'inglese, schivando entraŒneur, francese, forse per la semplice ragione che molti hanno pensato che l'entraŒneur fosse il maschile dell'entraŒneuse, creatura da night club d'una volta, e poi è diventato mister (vedi) e mago. Da notare che è riuscito a non essere coach, nonostante il filoamericanismo dirompente ed erom- pente del nostro sport. L'allenatore è l'unica persona ad avere, nel mondo del pallone, poteri piú che mansioni, come neanche il presidente. Forse per questo, dopo essere stato promosso mister (pare che il primo a ottenere o a pretendere questa definizione sia stato un Carver inglese arrivato in Italia alla Juventus negli anni '50), è diventato anche, almeno nella pratica dei nostri calciatori piú deferenti o meglio educati, signor mister. I calciatori fanno continuamente riferimento a lui, da quando vengono interpellati sulla possibile formazione per la partita prossima ventura a quando vengono interpellati sul loro atteggiamento di fronte all'arte povera o alla cucina india del Chiapas: "Chiedetelo al mister", rispondono. Gli allenatori di calcio amano molto il ciclismo. Non si sa bene il perché, ma ognuno di loro parla del ciclismo come del vero amore della vita. In caso di grosso successo, ci sono allenatori che adempiono a un voto o fanno un fioretto, coprendo ad esempio 100 chilometri in bicicletta, o pedalando sino a un santuario celebre nel mondo della bicicletta. Una ipotesi di spiegazione è questa: con il loro sacrificio essi ringraziano Iddio del fatto di non averli fatti diventare allenatori di ciclismo, sport dove i guadagni sono enormemente inferiori a quelli del calcio. Il posto di lavoro dell'allenatore non è la panchina (vedi), come ogni sempliciotto potrebbe lí per lí pensare, bensí lo spogliatoio (vedi). Pare che tutto nasca lí, compreso il gol. Un allenatore che tiene in pugno lo spogliatoio, un allenatore esperto di spogliatoio, un allenatore signore dello spogliatoio... Basandosi sulle sue virtú di guru di spogliatoio un allenatore come Helenio Herrera (vedi) riuscí a farsi prendere sul serio da tutti, compreso da chi gli passava lo stipendio, e a passare da allenatore, o da mister, a mago. Ma questa è un'altra storia. Gli allenatori hanno due vite, quella pubblica e quella segreta. La seconda vita è di branco, anche se si svolge in ore che ce la rendono inaccessibile. Vogliamo dire che sicuramente gli allenatori si riuniscono in un branco, anche se la località è ignota, in un branco dove vengono instaurati e poi fatti rispettare straordinari patti di sangue, per cui un allenatore che sia riuscito a entrare nel branco ha la certezza matematica di ottenere entro un periodo di tempo sicuramente breve il posto di un altro allenatore, e non importa se a spese di un altro del branco. Difficile è fare parte del branco, non difficile è trovare lavoro, che è un fatto conseguente alla partecipazione al branco stesso. I presidenti di società sanno che, se scelgono un allenatore fuori del branco, devono poi patire moltissimo, incluso nel moltissimo il boicottaggio del loro prescelto. Non si sa e forse non si saprà mai come si entra nel branco. Ci sono dentro specie diversissimi di allenatori. Possono esserci personaggi di nazionalità diverse, di diverse religioni calcistiche, di credi politici assortiti. Importante, per ora, è soltanto che non siano donne. L'allenatore deve avere certe stimmate: la semplicità, oppure le contorsioni massime, senza via di mezzo; il retroterra come calcio giocato, nel senso che può anche non essere assolutamente consistente, però deve possedere risvolti gustosi, andando dal voto fatto da Liedholm (vedi), svedese, di disputare, in caso di qualificazione-miracolo del suo paese, la finale mondiale con il cranio completamente rasato, al passato di rappresentante di liquori di Maifredi, forse uno dei piú straordinari equivoci tecnici - peraltro senza il suo apporto dialettico, nel senso che lui ha sempre lasciato fare agli altri le considerazioni, gli studi, i seminari sul suo personaggio - di tutta la storia del pallone, al modesto calcetto provinciale praticato da Sacchi (vedi). L'allenatore deve avere un contratto miliardario ma deve dare l'impressione di non badare ai soldi. Deve avere autorità e comprensione, deve incarnare cosmopoliticità e rimanere il vecchio ragazzo di paese, deve smaniare in panchina ma deve saper fare l'inchino bene alla donna del presidente (mitici alcuni allenatori sospettati di avere fatto, alla donna del presidente, qualcosa di piú). Deve sbagliare certe parole chiave, che fanno ruspante, deve dire bene a memoria certe frasi difficili ma di buon uso comune. Se vince è un felice impasto di Einstein, Leonardo, San Francesco, Platone e Dante, se perde è una chiavica. Quando la sua squadra segna un gol importante deve schiattare di gioia ma entro un miliardesimo di secondo deve assumere l'espres- sione di chi sa perfettamente che le cose non potevano andare diversa- mente, con tutto il lavoro che lui aveva fatto svolgere negli allenamenti. Se giunge in una squadra di cui non aveva mai sentito parlare prima deve dire che il posto che occupa stava al culmine dei suoi sogni di giovinetto. Deve essere bugiardo in maniera perfetta, e pazienza se dopo aver fatto credere certe cose pensa che, con quelle doti di attore, poteva vincere l'Oscar, altro che lo scudetto. Non deve sapere assolutamente niente di preparazione atletica, sennò dicono che è un preparatore atletico e basta. Se possibile, non deve sapere nulla di calcio, onde fare virginalmente all'amore con il piú grande mistero del mondo.

ALLODI Italo, nato ad Asiago, cresciuto nella Bassa padana, arrivato al calcio manageriale dopo una modesta carriera da calciatore, esaltato nell'Inter di Moratti (vedi) ed Herrera (vedi), a sua volta esaltata dal suo grande lavoro organizzativo. Allodi ha inventato in Italia la figura del grande manager, e quando una malattia lo ha costretto a rallentare i ritmi della sua attività aveva già "figliato" molto e, per quelle che sono le esigenze del calcio moderno, bene. Dopo l'Inter ha diretto la Juventus, la Fiorentina, il Napoli, con risultati alterni, ma sempre affermando e anzi facendo crescere la figura del general manager. Ha avuto anche (1974 in Germania, brutta prestazione azzurra) la responsabilità organizzativa della Nazionale. Ha patito accuse di tentato plagio di arbitri, magari da parte di giornalisti felicissimi di essere da lui plagiati con sontuosi regali. Se il male lo avesse lasciato un po' di piú in pace, avrebbe potuto fare grandi cose anche nel calcio di adesso, per il calcio di adesso, non necessariamente lasciandosi trasportare dai miliardi del calcio di adesso.

AMERI Enrico, radiocronista con un altissimo senso del ritmo. Per anni lui e Ciotti si sono scusati in diretta, uno prendendo all'altro la linea che tanto poi finiva sempre a Ezio Luzi. AMICHEVOLE Partita che non conta nulla, anche se per vederla si deve pagare il biglietto, e che di solito finisce 2 a 2.

ANDATA Prima parte del campionato, prima serie di partite in cui una squadra incontra tutte le altre. Importante il girone di andata, importantissimo il girone di ritorno (vedi), nel quale si ha il vantaggio di dover confermare o vendicare qualcosa del girone di andata.

ANGELILLO Juan Antonio Valentin, argentino, arrivato per l'Inter in Italia nel 1957 con Sivori (vedi) per la Juventus e Maschio per il Bolo- gna: i tre giovanotti avevano formato, nella Nazionale del loro paese, il trio degli "angeli dalla faccia sporca". In Italia Angelillo conobbe, come si scriveva allora, l'amore per una donna sposata, una cantante (ohibò), e fu messo in quarantena dall'allenatore Helenio Herrera (vedi). Ce n'era abbastanza per lanciare una rivoluzione, invece Angelillo venne messo da parte e poi smistato alla Roma. Fu quella l'ultima occasione in cui il calcio patí, in Italia, la popolarità del ciclismo, che per storie di quel tipo aveva prodotto e imposto il massimo, pochi anni prima, con la vicenda di Fausto Coppi e della Dama Bianca.

ANTICIPO Due significati: quello piú comune sta a indicare un'azione eseguita prima del tempo previsto, quello in senso calcistico specifico sta a indicare un intervento sul pallone, in genere di un difensore, per prevenire l'iniziativa di un avversario. L'accezione sportiva viene poi spostata nel campo della vita di tutti i giorni, e cosí giocare d'anticipo può anche voler significare prevedere e appunto anticipare le mosse dell'avversario. L'accezione comune può riguardare anche lo sport con un significato diverso da quello diciamo tecnico-atletico: quando il sostantivo anticipo indica la partita giocata, di solito per esigenze televisive, prima delle altre, contro l'unità di tempo che Aristotele, povero fesso, credeva nell'aldilà di avere fatto passare dal suo teatro anche al gioco del calcio. La partita giocata in anticipo ha valore almeno doppio, per come il suo risultato condiziona l'andamento delle partite ancora da giocare (mentre il posticipo condiziona soprattutto la schedina del Totocalcio). L'accezione sportiva è comunque importantissima perché riferente- si in pieno al divenire del gioco. E dire di un difensore che non ha anticipo significa quasi condannarlo, se professionista, alla mendicità.

ANTIDOPING Nel calcio non c'è, o c'è in maniera ridicola, ed è questo il solo ma decisivo motivo per cui molti dicono che non c'è doping (vedi). Se non prendi i topi (ci vorrebbe l'antitoping), se non riesci a prenderli, decidi che non ci sono.

ARBITRO Se l'allenatore è il piú importante personaggio del calcio inteso nella sua globalità, l'arbitro è il piú importante personaggio della partita, cioè di quello che nel calcio è l'Evento. L'arbitro è uno e trino, proprio come Dio: lui è il Padre, i guardalinee (vedi) sono il Figliolo e lo Spirito Santo, e proprio per evitare conflitti di assegnazione di spazi e di potere si cambiano di posto fra un tempo e l'altro. Adesso c'è il quarto uomo o secondo arbitro, quello che segnala i cambi, i recuperi di tempo e le eventuali anomalie delle scarpe dei giocatori subentranti, e forse è anche per questo tradimento della Trinità che si parla di calcio eretico. L'arbitro assume su di sé, addosso a sé, non mai dentro di sé (altrimenti si suiciderebbe) tantissime definizioni negative: è cornuto, sfiatato, venduto, comprato, buffone, ignorante, provocatore, esibizionista. Non ha diritto a un minimo di privacy, tanto è vero che tutti sanno quello che ha fatto sua madre e che sta facendo sua moglie mentre lui corre fischiando per il campo. Alla fine del millennio l'arbitro è stato sottoposto a severa preparazione atletica e a severissima concorrenza elettronica. Men- tre è stato costretto a esercizi durissimi, per correre piú di ogni altro giocatore e cosí essere il piú possibile vicino all'azione, strumenti sofisticatissimi sono arrivati a portare il gioco, anche nelle sue fasi piú serrate, a portata di vista, di controllo, di giudizio pure di un semicieco. La realtà elettronica, televisiva, ha spesso contestato smentito sbugiardato sputtanato l'arbitro, al punto che si ipotizza adesso o un arbitraggio a due (di fatto però superato dalla responsabilizzazione progressiva dei guardalinee, ormai chiamati, in certe fasi del gioco, a essere veri e propri arbitri) o un sussidio permanente della televisione, per giudicare le azioni piú delicate e dirimere le incertezze piú conturbanti. L'arbitro, anestetizzato da gettoni-partita sempre piú consistenti - diciamo ovviamente dell'arbitro affermato -, lascia fare, senza rendersi conto che si sta consegnando ai carnefici elettronici. Ma forse lo salverà il calcio, che a un certo punto, e speriamo non troppo tardi, scoprirà non solo di avere bisogno dell'arbitro, ma anche degli errori dell'arbitro, errori che riempiono i giornali, affollano le televisioni, alimentano discussioni, polemiche, settimane intere di chiacchiere al Bar Sport, e che sono il sale, il pepe, il peperoncino, il ketchup, la mostarda eccetera dello sport. Il solo pensiero che senza gli errori degli arbitri non ci sarebbe stato Biscardi (vedi) dovrebbe non solo garantire agli arbitri il futuro, ma anche santificare il loro passato. Invece si sta a sottilizzare su una villa di piú al mare, su una rappresentanza facile ottenuta senza gavetta, si vanno persino a rivangare incontri prepartita con creature mercenarie, dell'altro sesso e anche del proprio, per disangelizzare gli arbitri, per restringere il loro alone, col risultato però di procurare mal di testa a noi stessi. Perché se non si crede nell'arbitro è perfettamente inutile andare alla partita, scrivere di calcio, parlare di calcio. E sia chiaro comunque che gli arbitri italiani sono i migliori del mondo.

ASSIST Il passaggio che permette al beneficato dallo stesso di fare gol (vedi). Il termine è arrivato nel mondo del calcio da quello del basket. Nel calcio statunitense, bene abituato appunto dal basket, la classifica degli assist è importante quanto quella delle reti (vedi). Però, siccome nelbasket si fanno molti piú assist che nel calcio, da quelle parti il calcio non riesce a sfondare. ATTACCANTE Lo dice la parola stessa: colui che deve attaccare, anzi che sta attaccando. Però ormai il gioco di attacco è diventato una scienza cosí difficile che un attaccante e basta è un ingenuo, un folle a cavallo con la sciabola sguainata contro i carri armati. Ecco allora che lo si dota almeno di un'armatura di parole, per blindare il suo ruolo.

AUDIENCE La valenza televisiva di uno spettacolo, di un evento, con la traduzione del successo (o dell'insuccesso) nel numero degli spettatori, cosí da permettere subito l'emissione della sentenza sulla validità o meno di quanto offerto. Il calcio è impegnato, da un po' di anni, nel duro compito di scordare i propri record di audience, e non in nome di nuovi primati, come di regola accade nel mondo dello sport, ma di una disaffezione televisiva dovuta all'abbondanza dell'offerta. Per fare facile audience in effetti si offrono talora partite immonde, quando addirittura tali partite non vengono inventate, facendole emergere dal nulla quanto a tradizione o importanza o necessità, per assurdi tornei senza capo e con soltanto la coda televisiva: con il risultato che l'audience crolla, anche perché la gente è meno cretina non di quello che si pensa, ma di quello che vogliono farla diventare a forza di flebotelecalcio fasullo. L'audience può crollare anche nel corso della stessa partita, che diventa noiosa, che è stradecisa nel punteggio. Deve comunque, l'audience calcistica, essere aggredita per linee interne, da eventi supplementari ma omogenei rispetto all'evento principale. Nessuno studioso di cose televisive è riuscito a ipotizzare una causa esterna valida per distaccare la gente dalla visione della partita, tanto piú che sovente, al di là o meglio ancora al disopra della partita, l'altra televisione offre la sua melassa di niente. Qualcuno ha pensato al lancio di un'atomica, ma bisognerebbe vedere, provare per credere.

AZIONE Nella vita di tutti i giorni il movimento, il fare. Nella vita finanziaria-industriale una quota di una piú vasta entità economica. Nella vita dei boy-scout una cosa buona da fare se possibile ogni giorno. Nella vita del calcio, anzi della partita, una concertazione di gioco coinvolgente uno (azione individuale) o piú (azione collettiva) calciatori. La grande rivoluzione strutturale del mondo del pallone, compiuta a fine millennio, ha ingenerato una piccola confusione: perché alle squadre nate per fare azioni si sono sovrapposte società per azioni, ed è stata l'affermazione del calcio-industria sul calcio-sport. Adesso la parola azione sta correndo, nel mondo del pallone, verso la superiorità del significato di azione di mercato, di attivismo economico. Le azioni di gioco so- no ormai la conseguenza delle azioni di mercato, visto che sono queste ultime a permettere l'ingaggio di grandi giocatori e di conseguenza la produzione di gioco e gol. E l'azionariato popolare, che prima era quella sorta di psicodram- ma per cui uno, pagando il biglietto e stando in gradinata, meglio se in curva, partecipava al gioco della sua squadra e aveva l'impressione di essere lui a portare la palla verso la rete avversaria, di fare gol, è diventato l'accesso possibile alla proprietà del club, con l'unico pezzetto di carta piú prezioso del biglietto d'ingresso allo stadio. Pare che questo sia il grande futuro del calcio.

AZZURRO Colore della maglia della Nazionale, che però nelle prime sue due partite, 6 a 2 sulla Francia a Milano e 1 a 6 inflittole dall'Ungheria a Budapest, rispettivamente il 15 maggio e il 26 mag- gio 1910, giocò in bianco, non è ben chiaro il perché (forse un omaggio alla Pro Vercelli, che riempiva dei suoi "bianchi" la formazione). Poi si pensò probabilmente di fare, scegliendo appunto questo colo- re, un omaggio a casa Savoia, che lo aveva abbondante nei suoi simbo- li. La prima partita dell'Italia in maglia azzurra fu quella del 6 gennaio 1911 a Milano, di nuovo contro l'Ungheria, che stavolta vinse soltanto per 1 a 0. Le voglie insane di sponsor e stilisti, gli interventi non solo sulla foggia, ma anche, conseguentemente (dicono) sul colore delle maglie fanno sí che ormai l'azzurro degli azzurri sia poco azzurro, ora troppo chiaro ora troppo scuro ora confinato in qualche bordino di maglia bianca. Al punto che quando (vedi), approdato alla politica sullo slancio anche del suo Milan dominato- re, ha pensato di chiamare azzurri i deputati del suo neonato partito non è stato neppure lapidato. Il tema dell'evoluzione stilistica delle maglie di calcio (lasciando perdere la trovata della scritta "Italia" sui glutei) è comunque in questa pubblicazione oggetto di una voce specifica. Restando al colore della Nazionale, si deve ricordare che l'unico serio romanzo mai scritto in Italia e da un italiano sul calcio, un'opera di Giovanni Arpino, associa il colore azzurro alla parola "tenebra": è infatti Azzurro tenebra il titolo di un libro sull'avventura brutta dell'Italia alla Coppa del Mondo 1974 in Germania. Da ricordare che a un certo punto la parola "Azzurra", peraltro non in esclusiva al calcio, è stata appiccicata a una barca italiana che ha fatto bene nella Coppa America di vela, riuscendo a convincerci di essere davvero, come detto nel passato però fra strizzatine d'occhio e colpi di gomito, un popolo di navigatori, anche se tutta la storia del velismo olimpico vede appena due successi italiani. "Azzurra" arrivava nelle case con il telegiornale della sera, perché le gare erano in Nordamerica, zona est, e i fusi orari concedevano questa straordinaria attualità: era come se a vele spiegate entrasse ogni sera nel nostro salotto la Nazionale di calcio, gloriosissima quando vinceva con metaforicamente a bordo tutti noi, sfortunata quando perdeva.

B

BAGARINAGGIO La vendita a prezzo maggiorato di un biglietto, ambitissimo, per una partita importante. Una cosa illegale, dunque praticata da molti. Se il biglietto viene messo in un costosissimo pacchetto di viaggio, come essenziale componente del pacchetto stesso, il cui costo viene fatto vergognosamente lievitare, approfittando di voglia e idiozia dei tifosi troppo appassionati, il bagarinaggio diventa, oltre che ufficiale, legale. Se i biglietti spariscono, magari attraverso organizzazioni di tifosi, per poi materializzarsi nelle mani dei bagarini, si può anche pensare che le stesse società siano all'origine di questo bagarinaggio inufficiale. In ogni caso il tifoso è sempre fregato ma sempre contento, e dunque il bagarino è un benefattore di una certa fetta di umanità.

BAGGIO Roberto calciatore di Vicenza Fiorentina Juventus Milan Bologna Nazionale. Dino di Torino Inter Juventus Parma Nazionale. Il primo ha segnato tanta storia del calcio anni '90, dopo essere stato segnato al ginocchio da tremendi e miracolosi interventi chirurgici. Grande giocatore, ha salvato la Nazionale (vedi) al campionato del mondo 1994, con i suoi gol e il suo gioco, ma ha sbagliato un rigore nella finale contro il Brasile ed è diventato colpevole primo della susseguente e conseguente immane tragedia del Bel Paese. Ha avuto allenatori che lo hanno scelto come nemico per provare la loro forza, la loro capacità di andare controcorrente. A un certo punto, nell'estate del 1997, colpevole di costare troppo di cartellino (vedi) e di stipendio, è stato per un po' messo da parte, mentre il Milan cercava di cederlo senza svenderlo. La sua parabola è stata oggetto di meditazioni vaste ma non sufficienti. Il giocatore ha forse salvato il proprio equilibrio grazie al buddismo da lui praticato, quel buddismo che nel 1996 lo avrebbe salvato dall'angoscia per essere stato vittima di un raggiro economico, quel buddismo che taluni, sapendo di Baggio cacciatore d'anatre, hanno pensato contraddittorio con l'attività venatoria, visto che predica la non violenza nei riguardi di ogni essere vivente. è riuscito, nonostante tutti i venti che lo hanno cercato, trovato, avvolto, a far capire a tutti di essere un grande calciatore e un buon ragazzo. Questo, checché ne pensino gli adoratori del calcio, è piú importante di un gol, quello decisivo, a un Brasile. In omaggio a questa nostra convinzione, e in segno di solidarietà verso uno che ha dovuto subire sulla sua pelle guerre e carriere di allenatori, perdoniamo a Baggio anche la spiegazione del perché non sono leciti interrogativi su un buddista che spara alle anatre. Ha detto Roberto che non possiamo criticarlo, perché quanto a sterminio di esseri viventi noi tutti siamo colpevoli, visto che quando andiamo in auto provochiamo la morte di milioni di insetti. Però noi non ci alziamo all'alba, non indossiamo giacconi e stivali, non ci muniamo di fucili e cartucce, non ci appostiamo sin dall'alba dentro botti, ma semplicemente ci immettiamo sulla Torino-Milano. Quanto a Dino Baggio, si è affermato nonostante la zavorra del cognome impegnativo: onore al (suo) merito.

BAILAR Ballare, in spagnolo e in portoghese. Nel calcio giocare bene, fare spettacolo. Il football "bailado" dei sudamericani, e specialmente dei brasiliani, è stato ed è ancora una benedizione per le squadre europee, che lasciano fare, lavorano d'interdizione e colpiscono in contropiede. Un tragico esempio di football "bailado" è stato l'incontro fra Italia e Brasile in occasione del torneo francese premondiale 1997: finita 3 a 3, fra l'altro con due autogol e un rigore, la partita è stata descritta come la meraviglia delle meraviglie, quando invece si è giocato un calcio finto fra vispeterese slombate dalle fatiche di una stagione e costrette alle leziosità dalla mancanza di fiato e dall'abbondanza di tossine nei muscoli. Nessuno, in Italia e in Brasile e forse in tutto il mondo, ha osato pensare che, se l'incontro fosse finito anche casualmente 4 a 3 per una delle due squadre, gli sconfitti avrebbero parlato di ignobile farsa, di trasformazione di una partita in fondo amichevole, visto che di quel torneo non fregava niente a nessuno, in vergogno- sa leziosità.

BALA In spagnolo la sfera di cuoio, detta anche da noi, quando vogliamo spagnolizzare, pelota, termine che nella penisola iberica designa specialmente la pallina per i giochi della sferistica. "Taca la bala", diceva sempre ai suoi calciatori Helenio Herrera (vedi), per significare l'aggressione continua al rotondo oggetto del desiderio, e tutti dicevano che lui era un formidabile oratore, un fantastico arringatore di (poveri) spiriti.

BALAI Termine francese (pronunciare balé) che significa scopa, e che nello sport è usato soprattutto nel ciclismo: la voiture balai, l'auto scopa, è nelle corse, e specialmente nelle tappe del Tour de France, quella che raccoglie i corridori ritirati e non assistiti diversamente per raggiungere la località di arrivo. Nel calcio hom- me balai o balayeur, scopatore, è stato chiamato, specie nella Svizzera francese, il libero quando il (vedi) veniva chiamato verrou ed era sperimentato a Ginevra da un certo Rappan, all'inizio degli anni '30. Tradotto in italiano, balayeur significa calciatore dalla forte attività sessuale, indipendentemente dal ruolo che occupa nella squadra (comunque gli attaccanti piacciono di piú alle donne, forse perché il gol viene, da taluni sociologi, assimilato all'atto sessuale, con la rete penetrata dal pallone che in fondo può essere considerato come un'appendice dell'attaccante, del bomber).

BANDA Parola dai molti significati: gruppo armato, cosca, corporazione, fascia di tessuto o anche d'erba, se in calcese si parla del simbolo del capitano (vedi) di una squadra o di una zona del terreno, di solito laterale. Quando una squadra diventa simpatica e ottiene dei buoni risultati all'insegna dell'allegria, della spregiudicatezza, dell'irrisione dei tabú, si parla di essa come di una banda, senza che per questo si parli dei suoi giocatori come di banditi.

BANDIERA Oggetto di attenzione e una volta di culto, la bandiera è stata a lungo ritenuta, nazionale o sociale che fosse, la massima motivazio- ne per i giocatori: piú dei soldi e della mamma da fare contenta. Ades- so i piú interessati alle bandiere sono i tessili che le producono, ma si continua a parlare di spirito di bandiera, per indicare ad esempio che uno che guadagna tre miliardi all'anno si batte con impegno per ragioni soprattutto sentimentali, senza quasi pensare al denaro.

BANDIERINA Oggetto importantissimo, quando viene alzato da un guardalinee, a indicare il fuorigioco (vedi), a segnalare un'irregolarità. C'è anche la bandierina del calcio d'angolo, e si parla di tiro dalla bandierina in occasione appunto del corner (vedi): quando in realtà la bandierina costituisce quasi sempre un grosso disturbo per il tiratore stesso. Qualche giocatore usa questa bandierina come un totem per le sue danze dopo la segnatura, qualcuno addirittura pro- va il tiro della bandierina, nel senso che la impugna tirandola via dal terreno e cerca di assumere, alzando la bandierina stessa, una posa monumentale (come l'argentino Batistuta). A giudicare dalle urla della gente ogni volta che la bandierina viene alzata dal guardalinee, si deve decidere che lo spirito di bandierina è nel calcio assai piú vivo dello spirito di bandiera.

BARICENTRO Il baricentro adesso è spostato indietro di qualche metro. Dovun- que voi siate a vedere un incontro di calcio (in tribuna, in curva, a bordocampo, davanti al video a casa vostra o a casa Agnelli) potete dire questa frase con la certezza di essere attentamente sentiti, ascoltati, considerati. Non è neppure necessario precisare di quale squadra si tratti. Anzi, non è neppure necessario che il baricentro venga davvero spostato. E' necessario dirlo, per offrire dell'incontro una visione impegnata e intelligente. Se è il Bari a spostare indietro il baricentro e voi fate notare bene la cosa, potete anche passare per umorista.

BARRIERA Si fa barriera e si fa la barriera. Nel primo caso ci si oppone alla strapotenza avversaria, o per salvare il pareggio o addirittura per salvare un vantaggio conquistato di dolo o di sedere: e quasi tutto è lecito, quando si fa barriera. Nel secondo caso si cerca di costruire davanti al portiere un muro di persone, cosí da impedirgli di vedere partire il tiro di punizione e anche di vedere la prima parte della traiettoria del pallone. Il buffo è che la barriera viene di solito costituita tutta dai compagni di squadra del portiere stesso. Impegnato per anni a calcolare, a passi d'arbitro, a occhio, ultimamente con l'ausilio dell'elettronica, la distanza regolamentare, 9 metri, fra il punto dove viene messo il pallone e la barriera stessa, il mondo del calcio non ha affrontato il tema dell'eventualità di sopprimere la barriera, onde permettere al portiere di tentare almeno la parata. Adesso c'è il compiacimento perché, in poco piú di un secolo di errori, truffe, tolleranze colpevoli, avanzate sornione di calciatori, si è finalmente arrivati a barriere piú o meno distanti i regolamentari 9 metri dal pallone, e dunque, frequentando intensamente tale compiacimento, non c'è tempo e modo di affronta- re il problema della opportunità o meno della barriera. Come se, arrivato finalmente ad avere una barriera quasi regolamentare, il mondo del calcio non possa permettersi il lusso di rivelare che questa barriera è un assurdo, una bufala, per i portieri una fregatura.

BARSPORT Il posto - assurto a dignità letteraria con la raccolta di racconti, intitolata appunto Bar Sport, di Stefano Benni - è la moschea dove gli esperti calcistici eseguono la maggior parte dei loro riti extrastadio. Al Bar Sport, o meglio ancora Barsport tutto attaccato, si vincono tutte le partite, si annullano tutti i fuoriclasse avversari, si fornica con tutte le mogli di tutti gli arbitri, si allude, si fa la Nazionale, si fa la campagna acquisti, si parla per tutta la settimana di un fuorigioco millimetrico. Benni esaltò la figura del tecnico, o tennico, quello che parla per monosillabi, fonemi di tono bassissimo, sguardi, sospiri, e che ha visto giocare Piola (vedi). Al Barsport si sa sempre tutto prima, a proposito di ogni partita, però essendo il bar male frequentato di sabato, con afflusso di rudi operai assenti per il resto della settimana, e chiuso di domenica, i depositari di questo sapere parlano soltanto al lunedí, ovviamente informando gli astanti che le cose sono andate proprio come essi sapevano che sarebbero andate. Gran fortuna non averli incontrati il sabato o la domenica mattina, perché rivelando il futuro avrebbero tolto tutto il gusto dell'attesa, dell'incertezza nel corso dell'evento. Un grande Barsport è il giornalismo politico, dove qualsiasi cambiamento repentino di governo, di regime è preconosciuto dagli esperti, i quali però, rispettosi del nostro diritto di non sapere e di essere sorpresi, neppure per sbaglio ci dicono in anticipo come andranno a finire le cose.

BEARZOT Enzo, friulano, calciatore di Inter e Torino e (una sola volta) Nazionale, poi allenatore di formazione federale, sino alla carica di commissario tecnico, onorata al massimo con la vittoria mondiale della nostra anzi sua squadra azzurra nel 1982. Uomo saggio, giusto, colto, esperto, onesto, ha dovuto subire, appunto nella Coppa del Mondo vinta, critiche lesive della sua dignità, per l'inizio francamente pessimo della sua squadra, in quel lungo difficile torneo. Quasi tutti i giornalisti hanno chiesto alle autorità italiane il suo internamento in manicomio. Poi ci sono stati i contorsionismi degli opinionisti, e lui è riuscito a sopportare il trasferimento sul carro dei vincitori, dove davvero dovevano stare soltanto lui e i suoi giocatori, di quasi tutta l'Italia: per primi i suoi critici, poi personaggi anche extrasportivi, dal presidente della repubblica e dal presidente del consiglio in giú. Ha reagito emettendo fumi dalla sua celebre pipa. Grazie di tutto, Enzo.

BELLA La partita decisiva fra due squadre, di solito in una competizione a eliminazione diretta, dopo un successo a testa nel confronto diretto. Una volta questo meccanismo, con terza eventuale sfida in campo neutro, decideva le sfide delle grandi coppe, adesso la bella non esiste quasi piú, lasciata indietro dai tempi supplementari, dai rigori e dalla diversa valutazione delle reti in caso di loro quantità eguale: quelle segnate in trasferta valgono doppio. La dizione di "bella" nasce, pare, da una pratica nei tornei medievali, quando due cavalieri si scontravano a cavallo, e quello che riusciva a disarcionare per due volte l'altro acquisiva il diritto a sposare la damigella, cioè la bella, di solito di sangue blu, messa in palio nel torneo che chissà perché veniva definito cavalleresco. Chi vinceva il primo scontro aveva in premio una ma- nica (prima manche, in francese) della bella, se vinceva anche il secondo aveva la seconda manica (seconda manche) con annessa la donna, se perdeva era la terza sfida, appunto la bella, a decidere a chi toccava in premio la paziente signorina.

BERLUSCONI Silvio, presidente del Milan, della Fininvest e a un certo punto anche del consiglio dei ministri. Figura di importanza politica repente e discussa, in campagna elettorale ha detto o fatto e lasciato dire che i suoi successi con il Milan erano la garanzia di buona conduzione del paese. A questo punto l'Italia, intesa non nel senso largo di Nazionale, ma nel senso stretto di nazione, ha cominciato a tremare, pensando a come e quanto, con Berlusconi presidente del consiglio, era legata all'anagrafe di Baresi e al calo di forma di Costacurta. Dopo il successo elettorale e i primi mesi di governo, per Berlusconi le cose sono cambiate, e in conseguenza del ribaltone politico Berlusconi ha avuto piú tempo da dedicare al Milan, che comunque ha conosciuto una grossa crisi globale, mancando alla fi- ne della stagione 1996-97 ogni traguardo di qualificazione internazionale. Al punto che si è parlato di vita obbligatoriamente nuova e sono stati spostati indietro, in un'altra era, i ricordi felici del primo Milan berlusconiano, con il presidente che arrivava, per la presentazione della squadra, in elicottero all'Arena di Milano (da qui un tentativo, andato a vuoto, di creare il neologismo berluscottero). Di Berlusconi e del suo protagonismo Enzo Biagi ha scritto che, se avesse avuto le tette, nella sua televisione avrebbe fatto anche l'annunciatrice. Naturalmente si deve pensare che avrebbe anche voluto essere grande calciatore, e che forse si sarebbe lanciato nel Milan, se avesse avuto i soldi sufficienti per comprare uno come lui.

E ancora: uno dei massimi misteri della vita calcistica italiana, che pure ne ha tanti, è il rapporto di Silvio Berlusconi con , suo socio di lavoro e amministratore delegato del suo Milan. Galliani è quello che ha fatto ritirare il Milan dal campo a Marsiglia, con il pretesto di un guasto all'impianto di illuminazione, causando al club gravi danni sul piano della reputazione internazionale, con esclusione per una stagione dalle coppe europee; Galliani è quello che ha mandato via l'allenatore (vedi), "colpevole" di avere vinto troppi scudetti in troppo poco tempo, con il richiamo dello stesso Capello un anno do- po. Chi osa pensare che in realtà queste siano state decisioni di Berlusconi, prese da Galliani per amore del suo capo, è un cattivone ma forse pensa giusto, considerando anche l'incolumità di Galliani e la sua permanenza nel posto alto di dirigenza della società. Comun- que Berlusconi ha preso in primissima persona la figlia degenere di tutte le decisioni, quella di richiamare (vedi) a sostituire Oscar Tabarez che su input di Galliani aveva sostituito Fabio Capello. Un tentativo della tifoseria nerazzurra di desumere a que- sto punto che Berlusconi è in realtà un nerazzurro infiltrato, un tifoso dell'Inter capace di farsi passare per supertifoso del Milan, non ha avuto successo, ma chissà che non si basasse su solide basi.

BIDONE Termine ormai eminentemente calcistico, per indicare il giocatore che viene valutato molto e che si rivela un fallimento. Ci sono stati, nella storia del calcio italiota, esempi clamorosi di bidoni, specialmente dall'estero, specialmente dal Sudamerica, specialmen- te da club legati agli italiani di laggiú. Quando un giocatore viene designato a francobollare (vedi) un avversario teoricamente importante e si accorge che il suo compito è facile, non deve sentirsi sminuito, perché la storia insegna che la patria (in questo caso calcistica) si serve anche montando la guardia a un bidone.

BISCARDI Aldo, apostolo del Processo - di cui Enrico Ameri rivendica giustamente l'invenzione - prima detto del lunedì, poi semplicemen- te, modestamente di Biscardi. Criticato, deriso, invidiato, ha comunque lanciato un genere, ha beneficato molti giornalisti vogliosi del video (uno solo ha detto di no, e in diretta, agli incontri con rissa gestiti sapientemente, astutamente da lui) e ha fatto i miliardi, fra uno sgub (scoop), e un elogio alla sbonsor (sponsor), creando un telegiornalismo comunque vivo e nuovo. La sua sublimazione con- siste nell'essere diventato soggetto/oggetto di una barzelletta che forse qualcuno scopre qui. Un giornalista velleitario incontra un amico e gli annuncia che finalmente dirigerà un giornale del suo paesello, L'Eco di Roccacannuccia. "Come scrittore di costume avrò Biagi." "Enzo?" "No, Matteo, il figlio della mia portinaia, un ragazzino colto e attivo. Invece per gli editoriali politici mi sono assicurato Montanelli." "Indro?" "No, Giacomo, fa il barbiere ma ha l'hobby della scrittura, e in bottega parla sempre di politica. Penso anche ad una terza pagina con Fallaci." "Oriana?" "Concettina, una che ha letto molti libri, specie d'amore, e che mi pare sappia anche parlarne. Poi per lo sport ho già il sí di Biscardi." "Aldo?" "Sí, lui."

BLATTER Joseph, svizzero, ex orologiaio, colonnello intermittente dell'esercito elvetico, segretario generale, generalissimo della Fifa, la federazione mondiale. E' gravemente malato di voglia del gol e per questo strapazza gli arbitri, spupazza i regolamenti, smidolla il calcio che lui vuole balletto di madamigelli, dove il primo che sfoggia una pur minima rudezza deve essere espulso. Il suo sogno è un calcio con stadi senza reti fra spettatori e campo, con tante reti intese come marcature, pieno soltanto di una folla deliziata dai gol, in qualsiasi porta vengano segnati. Buona notte.

BOMBER Nome ricorrente per indicare un calciatore che segna molti gol: la traduzione italiana piú valida è cannoniere (vedi), o anche . In Spagna il bomber si chiama Pichichi, dal soprannome di un attaccante antico, che segnava assai. Il bomber di solito "ha le polveri bagnate". Ci sono giocatori che sono riusciti a costruirsi una fama di bomber grazie a tre-quattro palloni rimbalzati sulle loro caviglie: il loro problema, dopo che hanno strappato un contratto miliardario, è quello di tenersi dal ridere.

BONIPERTI Giampiero, grande calciatore juventino degli anni '40 (fine), '50 e '60 (inizio), poi presidente della Juventus, con una formidabile raccolta di successi sia giocando che facendo giocare. Deputato europeo per Berlusconi, non è stato invitato all'apertura delle cerimonie 1997 per i cent'anni della sua società, mentre è stato invitato per andare a giocare con le vecchie glorie, lui che nel 1961, ancora in piena anagrafe valida per il calcio (33 anni), ha lasciato lo sport e non ha piú toccato un pallone con una scarpa: tanto è vero che si è addirittura parlato di un voto, per avere figli. Novarese, cacciatore accanito, forse persino piú accanito cacciatore che calciatore, ha sempre goduto dell'amicizia e della stima di Gianni Agnelli: anche e soprattutto quando da atleta era in polemica con Sivori, coccobello di Umberto Agnelli. Sicuramente l'Avvocato ha pensato, per il mancato invito a Boniperti, alla eterna crisi delle poste italiane, non certamente a uno sgarbo, un oblio. Boniperti ha segnato come pochi altri il calcio italiano, facendo molto e parlando poco. Sono memorabili le sue interviste, che pos- sono dare, anche a chi è digiuno di fisica, l'idea del vuoto assoluto: perché di solito lui, al giornalista che gli fa una domanda, risponde con un'altra domanda (il che, se si vuole, è anche l'invenzione del moto perpetuo). Tipica la sua risposta interrogante: "E tu che ne dici?", che gratifica il giornalista di confidenza e di fiducia nelle sue opinioni, e intanto lo induce al suicidio. Boniperti viene riconosciuto come un assoluto naturale del calcio juventino. Il tentativo di fossilizzarlo, per un improbabile museo, in occasione di Juvecentus, come è stato chiamato l'insieme delle celebrazioni 1997, con appunto il mancato invito, gli ha in realtà fornito una scarica adrenalinica che per lui ha significato dieci anni di meno dei già pochi anni effettivi che ha. Tanto che ha ripreso a giocare, anche se non a pallone. Grande Giampiero!

BORSA Ad un certo punto, metà degli anni '90, si è deciso che il calcio deve essere quotato in borsa. In Gran Bretagna lo hanno subito fat- to, in Italia sull'argomento si sono subito indetti cinquanta simposi, cento tavole rotonde, duecentoquindici conferenze con dibattito. Inoltre sono stati fondati centodieci gruppi di studio. La quotazione in borsa dovrebbe voler dire azionariato sparpagliato. In pratica, quando sarà rifinito, vorrà dire valore spropositato, fasullo del club, ottenibile moltiplicando il numero delle azioni per il loro valore di mercato, valore che sarà gonfiato dall'afflusso di sottoscrizione popolare, per ragioni anche e specialmente affettive ed emotive. Quando il valore sul mercato azionario del club sarà altissimo, fioriranno speculazioni nuove da parte dei burattinai che avranno tenuto le fila dell'operazione, magari con poche azioni però concentrate bene. E forse ci sarà la catarsi, e la borsa a cui il calcio tornerà sarà, in esclusiva, la borsa del ghiaccio.

BOSMAN Marc, calciatore belga di poco talento e grande volontà, capace di dar vita, con la sua testardaggine giuridica onde vedere riconosciuta la propria libertà di trasferimento dentro la Comunità Europea, a una sentenza, a lui intitolata, che ha rivoluzionato il mondo del pallone, in pratica liberalizzando i trasferimenti degli stranieri, senza problemi se comunitari (questa la partenza della rivoluzione), con poche limitazioni se extracomunitari. Come tutti i grandi pionieri Bosman, che pure ha innescato un movimento di miliardi e miliardi, non ha guadagnato nulla, anzi nelle contese legali ha perso tutto. Eppure sarebbe giusto che su ogni contratto un tot per 100 venisse devoluto a lui. Quando, nel 1996, è stata emessa la sentenza che ha aperto le frontiere europee del calcio, si è subito apocalitticamente scritto di fine dei vivai, di inizio del sabba dei trasferimenti. Molto probabilmente è tutto vero, ma il viavai dei calciatori, spesso di nome, da una squadra all'altra ha rintronato i tifosi, che sono stati subito entusiasti delle molte novità. Per riconoscere storicamente gli effetti della sentenza Bosman bisogna comunque attendere molti anni: ma c'è sempre un grande appuntamento calcistico che urge e che ci inchioda all'oggi o al massimo al domani, e già il dopodomani è accanto all'eternità.

BOTTEGHINO Il posto allo stadio dove si vendono biglietti, per quei pochi che in caso di grandi partite non se li siano aggiudicati già prima in altro modo, magari strapagando, o per quei pochissimi che in caso di piccole partite vanno ancora allo stadio. Una volta l'importanza del botteghino era enorme, nella vicenda economica di un club, poi la crescita dei diritti televisivi ha portato a un dimensionamento di questa voce. Siccome si dice che la gente va di meno al botteghino perché vede la televisione, anche questo libro vi incita, alla voce "botteghino", di andare alla voce "televisione".

BRASILE Nazionale calcistica prima al mondo ad arrivare ai quattro titoli mondiali, impedendo il primato all'Italia nella finale mondiale di Usa '94. Culla dei massimi talenti calcistici, fiera permanente del calcio ballato, spettacolare. Patria di Pelé, di Garrincha, di Ronaldo e del prossimo grande talento universale, che probabilmen- te qualche emissario italiano riuscirà a opzionare quando sarà ancora nella pancia della mamma. Squadra per la quale tutti tifano, quando non sono impegnati a tifare per la propria. Posto del piú colossale equivoco calciogeografico: si dice di calciatori straordinari rivelati dalle partitelle di calcio sulla spiaggia di Rio, a Copacabana e dintorni, quando invece su quelle spiagge è assolutamente vietato giocare a calcio, e imperversa la pallavolo.

BRERA Gianni, giornalista, morto di incidente d'auto nel 1992, a 73 anni. Grandissimo teorico del calcio difensivo, da lui definito anche all'italiana, e pronto nel nome delle sue convinzioni a fare autenticamente a pugni con Gino Palumbo, giornalista emerito an- che lui, colpevole fra l'altro, agli occhi padani di Brera, di essere arrivato a Milano da Napoli e con compiti di comando. Brera ha sviluppato e portato avanti, con la forza della sua cultura nonché di studi personali sulle razze, la tesi dei calciatori italiani deboli fisicamente, per motivi atavici, e perciò costretti, volendo vincere, a essere furbi, contro avversari atleticamente ma non anche intellettualmente meglio dotati. E dunque ecco l'elaborazione del calcio difensivo, con le chances di vittoria affidate al contropiede agile, veloce, pungente. Ecco la scomunica breriana nei riguardi di tutti quelli che non la pensavano come lui, ecco le sue splendide acrobazie per dare alla propria tesi il conforto dei fatti, dei risultati. A parte questo tormentone, Gianni Brera è stato un grandissimo giornalista, un grandissimo esperto e innamorato dello sport, che ha accompagnato con studi e passione. E che ha onorato della sua scrittura di autentico valore letterario, con creazione di neologismi sensazionali, adoperati poi da tanti giornalisti e scrittori, anche fuori dal mondo sportivo. C'è stato persino chi ha parlato di grande sciupio di talento, attuato da Brera contro Brera, con il limitarsi o comunque dedicarsi principalmente alla scrittura sportiva. E niente poteva fare arrabbiare di piú Brera che questa affermazione, un po' perché sotto sotto avvertiva che era giusta, un po' perché amava cosí tanto lo sport che la reputava sminuente nei riguardi del suo mondo piú caro: quasi che lo sport non offrisse materia prima valida per alta scrittura. Brera è stato amato, discusso, imitato. C'è chi da lui ha imparato a scrivere, a mangiare bene, a bere meglio, a viver la vita. C'è anche stato chi ha rimproverato a Brera l'antimeridionalismo, la cocciutaggine a proposito della superiorità generale, assoluta sul resto del mondo di una Padania molto sua, una cocciutaggine vicina alla fissazione, l'esercizio quasi maniacale del mestiere - ovviamente superiore a ogni altro - di lombardo, anzi di figlio del Po. Senza divinizzare il giornalista, lo scrittore, anche l'amico, possiamo limitarci a dire che senza di lui il giornalismo sportivo italiano sarebbe molto piú povero: e povero anche di soldi, perché Brera, in parallelo con l'Helenio Herrera allenatore, ha fatto molto per il prestigio e quindi l'innalzamento pure economico della categoria, qualificando bene lo sport nelle redazioni, nei meglio salotti, nell'opinione pubblica.

BUSINESS Ultimamente si è messo ad andare in giro accanto a show, in un sodalizio spinto, spesso osceno. "Business is business", l'affare è affare (attenzione, esiste anche il plurale, sarebbe "businesses", ma nessuno lo usa, e casomai noi italiani errando diciamo"business are business", letteralmente l'affare sono l'affare): lo slogan è arrivato anche nel calcio, e siamo alla scelta, ormai ricorrente, fra l'amen e il requiem. C

CALCIO Poche righe per una stranezza del termine, che designa un minera- le, un atto fisico, un gioco. Il terzo significato ha sovrastato gli altri due, al punto che se i genitori sono invitati dal medico a dare del calcio al loro bambino deperitello, lo portano alla partita. E se uno per un calcio altrui si rompe, giocando a calcio, un osso, perché povero di calcio, questo disgraziato neanche piú riesce a ridere pensando al gioco di parole. Il calcio ha generato la frase piú bugiarda e cretina di ogni tempo, quella emessa per deprecare violenze a esso legate: ricordiamoci che il calcio è soltanto un gioco. Pare che abbia persino superato l'altra, forse piú bugiarda ma sicuramente meno cretina, che recita: la legge è eguale per tutti.

CALCIOMERCATO Vedi Mercato, è meglio, visto che spesso si compra in esso anche la vita di un bipede, non solo la sua abilità pedatoria.

CAMERUN Nazione africana capace di esprimere, sia pure a intermittenza, una valida Nazionale calcistica. Nel 1982, campionato del mondo in Spagna, toccò all'Italia affrontarla e soffrirla, chiudendo in parità, 1 a 1. L'incontro venne sospettato di combine, sulla scorta anche di una inchiesta giornalistica, firmata da Beha e Chiodi, sepolta frettolosamente e freddolosamente. Pensiamo che se combi- ne ci fu, ad alto livello di sponsor, i nostri non ne sapevano niente, e il loro c't' Bearzot meno che niente.

CAMPANA Sergio, avvocato di Bassano del Grappa, ex calciatore, creatore e capo dell'associazione dei calciatori. Gli dicono che difende i diritti dei miliardari, invano lui fa presente che ci sono calciatori professionisti pagati poco o non pagati, perché non tutto il nostro calcio è di anche in senso economico. E' probabilmente uno dei pochi italiani che siano stati capaci di rifiutare la possibilità di diventare presidente di federazione, con un sacrificio inferiore soltanto a quello di rifiutare la possibilità di diventare commissario tecnico della Nazionale di calcio. Ha minacciato tanti scioperi, ne ha fatti eseguire pochini. Il suo lavoro è antiludico o meglio extraludico, nel senso che lui si occupa di un calcio che non è proprio un gioco, ed è a priori antipatico, e gli stessi calciatori lo criticano, quando ad esempio vengono censurati dalla loro associazione. Alla fine del millennio Sergio Campana è stato impegnato nella difesa del prodotto nazionale, a partire si capisce dai giovani, contro l'invasione comunitaria e poi anche extracomunitaria sancita dalla legge Bosman. Si è sentito accusare di scarso senso europeistico, era un dazio scontato da pagare. Un suo desiderio: trattare con e contro Lega e Federazione sul ponte di Bassano, dove lui gioca in casa.

CAMPIONE Nel linguaggio statistico un tipo medio, rappresentativo appunto della media dell'umanità. Nel linguaggio sportivo uno che vince qualcosa di grosso, non necessariamente un campionato: che cam- pionato ha vinto Michael Johnson? Nel linguaggio calcistico, uno il cui cartellino (vedi) costa molto.

CAMPO Nel calcio il terreno su cui si giocano le partite. Nell'agricoltura il terreno adibito alla semina. Chi lavora i campi nell'agricoltura è un contadino o anche, se ad esempio dirige piú contadini, un fattore. Quest'ultimo, spostato nel calcio, diventa fattore-campo (vedi), ed è tutt'un'altra cosa. Dicesi infatti fattore-campo quella particolare situazione psicologistica per cui una squadra gioca meglio sul proprio terreno. In realtà il fattore-campo significa spesso intimidazione, con azioni anche violente di tifoserie, della squadra ospite e magari anche dell'arbitro. Nessuno sport al mondo patisce il fattore-campo, cioè una perenne e in teoria umiliante sconfessione dei princípi di parità aprioristica e di onestà, quanto il calcio, e pochi ambienti calcistici lo patiscono quanto quello italiano. Si passa poi dall'umiliazione al ridicolo quando si pensa che il fattore-campo sia, di suo, sprone per i giocatori di casa: come se un professionista pagato miliardi perché corra debba sentirsi spinto alla corsa dai tifosi, per fare il proprio dovere. Per Gigi Riva, grande onesto calciatore, attaccante bomber a cavallo fra gli anni '60 e '70, il fattore-campo era, come da sua definizione, "la collocazione dei cartelloni pubblicitari in uno stadio che conosco meglio di ogni altro: perché io gioco spesso con le spalle rivolte alla porta, e questi cartelloni mi servono per orientarmi bene, per muovermi bene, sapendo dove sta, rispetto a essi, la porta avversaria". Grande mitico Riva.

CANALE Ancora pochi anni e poi, quando un bambino cadrà in un canale, non si penserà assolutamente a un corso d'acqua, ma ad un effetto poltergeist, per cui il pupo sarà inghiottito dal teleschermo mentre assiste alla trasmissione di una partita di calcio: e magari verrà cercato su un canale sbagliato.

CANNONIERE Traduzione italiana di bomber. Sinonimo di marcatore, sfondatore di reti, terrore dei portieri. Come per i registi di film il giudizio assoluto sul loro valore deve essere emesso soltanto dopo la secon- da produzione (il primo successo può essere stato un colpo di fortuna), nel suo caso la denominazione dovrebbe attendere una seconda classifica dei marcatori vinta o bene frequentata, visto che il primo successo può essere stato un caso, o meglio una felice fortunata serie di casi balistici.

CAPELLO Fabio, allenatore italiano capace di vincere il campionato spagnolo, sia pure alla guida del Real Madrid e non della squadretta di Santa Maria de la Cruz y de la Misericordia. Questo nello stesso anno in cui anche in Svizzera e (vedi) in Germania hanno dato alla patria omologhe importantissi- me affermazioni. Giocatore della Roma, della Juventus e del Milan, specialista nell'imitazione a centrocampo (vedi) del vigile urbano che dirige il traffico, autore in Nazionale del gol che ha significato il primo successo italiano contro l'Inghilterra a Wembley, il friulano Capello è arrivato alla panchina rossonera, succedendo a Sacchi, dopo un tirocinio di scrivania, alla dirigenza dello sport Fininvest, in un momento dell'era berlusconiana in cui sembrava che la Milano del Cavaliere dovesse dominare, nel mondo sportivo, anche con palla- volo, rugby, hockey su ghiaccio, semplicemente spendendo tanti soldi e perciò ottenendo grossi risultati. Capello, intelligente e attento, ha studiato gli uomini, le organizzazioni, le situazioni, poi ha spostato un po' di quello che ha appreso nella pratica di allenatore calcistico e ciò gli è bastato e avanzato per fare subito benissimo nel mondo del football. Questo ha causato perplessità e forse anche risentimento in un manager conclamato quale Adriano Galliani, che da amministratore delegato del Milan ha fatto fuori Capello, salvo richiamarlo un anno dopo (vicenda già narrata alla voce Berlusconi, vedi). Capello ha promesso successi ai tifosi delle squadre (due, ma grosse) che ha diretto, ed ha anche promesso al mondo civile che non diventerà un vecchio allenatore, intendendo ritirarsi dopo un con- gruo numero di affermazioni e di miliardi, per darsi con sua moglie (le ha dedicato uno scudetto) alla pesca subacquea, specialità in cui eccelle: anche perché, dopo essere riuscito a entrare nella testa di certi giocatori, nessuna profondità gli fa paura, nessun abisso gli dà piú il senso del vuoto, nessuna psiche di cernia ha per lui segreti.

CAPITANO Uomo di fascia, ma non necessariamente nel senso di posizione in campo, bensí di pezzo di stoffa portato sul braccio, a indicare una sua leadership sui compagni e soprattutto un suo diritto a conferire con l'arbitro. Il lancio della fascia a terra è di solito interpretato come un gesto di ribellione, quasi sempre a una sostituzione, talora anche a decisioni arbitrali. Di regola la fascia del capitano dovrebbe andare al calciatore piú anziano, pensandolo anche piú esperto e carismatico, ma in questi ultimi tempi va al giocatore piú costoso, pensando che grazie alla fascia egli può quanto meno conferire un po' con l'arbitro e chiedergli protezione, in caso di gioco duro degli avversari su di lui. Cosí ci sono, almeno nel nostro campionato, squadre con capitani che cercano di parlare con l'arbitro, ma con il piccolo dettaglio che non sanno una parola di italiano.

CAPPELLANO Nel calcio lo si chiama anche assistente spirituale: è il religioso che si occupa della salute, spirituale appunto, degli atleti. Trattasi di un lavoro ora difficile e misterioso, ora facile e solare. In esso si va incontro a sorprese di vario tipo, comprese quelle positive. Il cappellano deve avere tempo libero, orari elastici, capacità di dire messa, efficacemente e rapidamente, in posti assortiti. Un suo grande problema è quello di fare fronte a ragazzi che non hanno coscienza piena della fortuna a loro occorsa, e che magari bestemmiano Dio convinti così di diventare uomini. Di solito il cappellano è bravo e utile, e forse per questo molte società stentano ad aprirgli le loro porte.

CARICA Momento di impegno collettivo, per cui una squadra va all'assalto di quella avversaria, onde colmare uno svantaggio o ribadire una superiorità. O anche posizione particolare, generalmente di presti- gio e di responsabilità, nell'attività che si esercita. Di solito chi ha una carica non va alla carica (c'è però andato a suo tempo, per ottenere la carica), proprio perché trattasi almeno teoricamente di individuo serio, ponderato, prescelto appunto in quanto tale ad assumere la carica stessa. Vanno alla carica i peones, i paria, quelli che non hanno speranze di avere una carica. Di solito chi va alla carica, viene punito dal contropiede (vedi) degli avversari, mentre chi va alla carica nel campo gerarchico semplicemente si siede, con pochi rischi, sul posto conquistato o comunque ottenuto. Esiste poi, sempre stando al mondo del calcio, un terzo significato di carica, che grosso modo consiste nell'eccitazione, trasmessa da un tecnico o da un dirigente a giocatori considerati o perfetti deficienti, che hanno bisogno di essere trattati come ragazzini capricciosi e psicolabili, o perfetti mascalzoni, che non si impegnano se non sollecitati in maniera speciale, quasi che i loro faraonici contratti non prevedessero sempre la fornitura dell'impe- gno massimo. Ecco cosí che alla vigilia di partite importanti l'allenatore dà la carica, il presidente dà la carica, di solito con concioni in mezzo al campo, durante l'allenamento, o con discorsi nello spogliatoio (vedi). Ci sono frasi fondamentali, di altissima valenza psicologica e di alta struttura letteraria e filosofica, per dare la carica, tipo: "Ragazzi, mettetecela tutta", "Vi voglio vedere morti ma vittoriosi", "Pensate ai vostri tifosi", "Ricordatevi della maglia che indossate". Uno dei massimi misteri del nostro calcio risiede nel come mai nessun calciatore sia sinora morto per sincope da riso, dopo aver sentito tali fesserie e aver fatto cenno di sí con la testa.

CAROSIO Nicolò, radiocronista, un grande del non sindacalismo. E' infatti riuscito a inventare, dopo pochi timidi tentativi di altri, un genere giornalistico di enorme successo come la radiocronaca, a detenere per anni e anni il monopolio personale di questo tipo di trasmissione, senza venire assunto dalla Rai, per la quale ha dragato mezzo mon- do del calcio. E' anche passato, per la verità con pessimi risultati, alla televisione: dove le immagini hanno smentito il suo modo fantastico di presentare le cose quando il pubblico era di soli radioascoltatori. E' stato un grande della poetica calcistica, quindi anche della fantasia e delle invenzioni, su tutte quella del "quasi rete" che ci ha fatto tanto sognare (e poco segnare). Palermitano di madre inglese, amico del whisky e del gioco maschio, ha indicato nella spugna - quella del massaggiatore (vedi) - il rimedio taumaturgico a ogni male. Un giocatore era a terra con la pancia aperta e una gam- ba a sei metri dal corpo e Carosio ordinava alla radio: "Spugna!". E il calciatore si rialzava, si chiudeva la pancia, recuperava la gamba e riprendeva a giocare. La grandezza di Carosio non è stata esaltata dalla pochezza dei suoi successori: perché Enrico Ameri (vedi) e Sandro Ciotti (vedi) alla radio, Nando Martellini (vedi) e Bruno Pizzul (vedi) alla televisione sono stati piú precisi, piú attenti, piú italoparlanti di lui. Ma proprio per questo si tratta nel suo caso di una grandezza assoluta, superiore anche agli errori del Nostro: perché Carosio è stato Carosio anche per gli errori, mentre i suoi succedanei sono stati personaggi che gli errori non hanno potuto assolutamente permetterseli.

CARRARO Franco, dirigente anche calcistico, passato - dalla presidenza dello sci nautico - attraverso le presidenze del Milan, della lega e della federazione per arrivare alla presidenza del Coni, con assunzione alla qualifica di membro del Cio, poi alla carica di ministro dello sport e infine a quella di sindaco di Roma; e ritornando allo sport tramite la presidenza della lega, da dove... E se fosse lui l'inventore del moto perpetuo?

CARTELLINO Simbolo per tanto tempo dello schiavismo a cui era sottoposto il calciatore, nel senso che il possesso del cartellino, solitamente da parte di un club, era anche il possesso della sua carriera. Poi lo svincolo (vedi) ha liberato parzialmente il calciatore, e nel mondo del pallone il termine cartellino è venuto a indicare soprattutto quel rettangolo, giallo per l'ammonizione e rosso per l'espulsione, che l'arbitro alza davanti al giocatore brutto e cattivo. Due cartellini gialli nella stessa partita significano automaticamente un cartellino rosso, ma il cartellino rosso può anche essere alzato di per se stesso, in caso di fallo particolarmente grave, di comportamento particolarmente scorretto. Per un misterioso legame fra corpi umani, il gesto dell'arbitro, che alza il braccio che termina con la mano che termina con il cartellino, provoca nel calciatore o l'allargamento delle braccia o il loro afflusso in direzione del petto con chiusura a mucchietto delle dita delle due mani. Non c'è legge fisica che riesca a spiegare questo, anche se le constatazioni del fenomeno sono numerose e continue, su tutti i campi di gioco.

CASACCA C'era una volta, ed era bianca e connotava. Nel senso che i giocatori della mitica Pro Vercelli erano definiti "bianche casacche", il che poi voleva dire "leoni". Famosi anche i bianchi d'Inghilterra per le loro casacche cosí ampie che, dopo che ci avevano battuto a Torino nel 1948 per 4 a 0, un celebre giornalista dell'epoca, Carlin (Carlo Bergoglio), che era anche disegnatore, pubblicava su Tuttosport una vignetta in cui si vedevano i giocatori inglesi vestiti appunto con abbondanza di materiale (i calzoni arrivavano al ginocchio), di fronte ai nostri con magliettine e calzoncini molto "ini", e la dicitura recitava: "Si vede che gli inglesi hanno molta piú stoffa dei nostri".

CATENACCIO Trovata tattica del tecnico svizzero Rappan, operante a Ginevra negli anni '30 e capace, approfittando anche della noia e della neutralità elvetica, di poter pertanto pensare in pace, ergo di mettere a punto un sistema difensivo, chiamato verrou (catenaccio, lucchetto in italiano), che prevedeva l'uso di un difensore supplementare, il balayeur, quello che usa la scopa, rispetto agli schemi in vigore a quel tempo. Il catenaccio è stato misconosciuto a lungo, tanto è vero che il termine è venuto a indicare un sistema di gioco rinunciatario, antispettacolare, opportunistico, con la pesante definizione di catenacciari per i suoi praticanti, fra i quali in prima linea, presto e bene, gli italiani. Quando nella nostra elaborazione il balayeur è diventato il libero (vedi), il catenaccio ha cominciato non solo a piacere a noi, ma ad acquisire dignità tecnica e utilitaristica in un po' tutto il mondo calcistico, al punto che, se appena il balayeur sapeva toccare di fino e dettare un paio di azioni offensive per partita, subito nascevano i richiami al centromediano (vedi) metodista, figura miti- ca e anzi mistica, della quale nessuno ha mai saputo niente di preciso ma tanti hanno parlato.

CENTRAVANTI Attaccante di punta, dedito fisiologicamente alla ricerca del gol, anche se negli anni '50 la grande Ungheria (vedi) ha proposto la figura tatticamente nuova e intrigante del centravanti arretrato, che si chiamava Hidegkuti. Il centravanti che segna molto si chiama bomber e guadagna miliardi.

CENTROCAMPO A metà degli anni '50 un calciatore danese di grande rendimento, Karl Hansen, centrocampista, stesso cognome di un suo compatriota e compagno nella Nazionale e nella Juventus, John Hansen, decise di chiudere la carriera nel calcio britannico, dove, quando era dilettante in Danimarca, aveva giocato da professionista: il sabato in campo a Londra, la domenica a Copenaghen. Riuscí ad avere un appuntamento a Fallkirk, città scozzese abitualmente battuta da un grande vento. Lui Karl Hansen parlava benissimo l'inglese, sia per la frequenza calcistica, sia soprattutto per il suo lavoro extracalcistico, quello di insegnante della lingua di Shakespeare, e cosí il colloquio fu chiaro, con l'allenatore plenipotenziario del club (ce lo ha riferito lo stesso calciatore): - Sono Karl Hansen, voi avete sentito parlare di me, io di voi. Ho giocato nel campionato italiano, anche e soprattutto nella famosa Juventus. Penso a un anno di contratto, sono ancora un giocatore valido. - Lo sappiamo. Vorremmo però avere chiarimenti sul suo ruolo. - Sono centrocampista. Mi hanno definito il centrocampista di migliore rendimento del calcio italiano. - Guardi, io non ho mai visto fare un gol da centrocampo. Io a centrocampo non voglio vedere nessuno. Qui in Scozia soffia sem- pre il vento, quando abbiamo il vento a favore si arriva in area avversaria con la rimessa del portiere, quando si ha il vento contro si sta in area e si prega Iddio di uscirne ogni tanto. Karl Hansen rideva, raccontando di come il mito italiano del centrocampo come posto dove nasce il gioco, dove si decidono le contese, era stato distrutto in due minuti dall'allenatore scozzese. E questo anche se non è vero che non si segnano gol da centrocam- po: ogni tanto scappa un tiro da lontano che finisce in porta, ma ci vuole la complicità del portiere e l'aiuto della fortuna. Il centrocampo in effetti ha un grande effetto sul gioco, ma per il fatto che è specialmente a centrocampo che vengono azzoppati i calciatori, con i cosiddetti falli tattici, che sono in realtà attentati alle caviglie, e che non fanno correre agli autori grossi pericoli, perché non c'è rischio di calcio di rigore e neppure di espulsione per intervento da ultimo uomo sull'avversario lanciato in gol. Cosí il centrocampo, che teoricamente dovrebbe essere l'università dove si tengono le piú alte lezioni di calcio, è trasformato in una vasta tonnara. Il centrocampista comunque continua a essere considerato elemen- to vitale per una squadra: si può fare a meno di un valido portiere, di un paio di grandi centrocampisti mai. E questo nonostante la predicazione e il culto dei grandi lanci per azioni di contropiede (vedi) che taglino appunto fuori il centrocampo. Quell'allenatore scozzese insomma aveva ragione, ma è bene che non lo si dica troppo forte e troppe volte. Quando una squadra perde, anche chi non capisce niente di calcio può dire che il centrocampo è stato evanescente, e la bella figura da parte sua è assicurata. Se la squadra avversaria ha colpito dieci volte i pali della porta della mia squadra, a portiere sempre battuto, ha finito l'incontro con otto uomini appena per assurde espulsioni decretate dall'arbitro, si è vista negare cinque rigori evidenti ed è stata sconfitta per 1 a 0 su autogol all'ultimo dei dieci minuti di un recupero assurdamente lungo, posso sempre compiacermi per la superiorità del mio centrocampo, chiave di volta dell'incontro, codice per decriptare la partita, posto di lavoro dove chi fatica di piú e meglio trova il giusto premio. Proprio per eccessiva enfatizzazione del centrocampo si sono avu- te, ultimamente, sottili e anche sofisticate distinzioni fra ruoli: cosí che a centrocampo adesso ci sono tanti giocatori alle cui voci vi rimandiamo (incontrista, regista, trequartista), dicendo che se non è zuppa è minestrone, e non è pan bagnato soltanto perché adesso si va sempre piú sul difficile.

CENTROMEDIANO Figlio "automatico" del mediocentro, padre dello stopper (vedi). Il centromediano, giocatore di una volta, differisce dallo stopper attuale perché ha sulla fronte una fascia parasudore, o meglio anco- ra una benda per rimediare alla meglio a una ferita. Quel simbolo un po' corsaro ha giovato assai alla mitica e alla mistica del centromediano, il cui prototipo resta - ancorché elemento del calcio dell'ultimo dopoguerra, dunque arrivato sulla grande scena in ritar- do rispetto ai centromediani dei tempi eroici - , "il centromediano", fortissimo perno difensivo della Juventus e della Nazionale, dalla quale spiccò il volo, con Boniperti, suo compagno in maglia bianconera, addirittura per giocare a Wembley in una Nazio- nale europea contro l'Inghilterra. Parola era specializzato nella rovesciata (vedi), con cui rimediava acrobaticamente a pericolose situazioni difensive: la gente applaudiva, gli avversari anche perché di solito la palla finiva in loro possesso, essendo i compagni di Parola troppo impegnati a congratularsi con lui per occuparsi degli sviluppi del gioco. Il centromediano ha quasi sempre marcato il centravanti, che anzi spesso è esistito perché il centromediano, annullandolo, ha almeno fatto sapere che era entrato in campo. Quando è diventato stopper, il centromediano immediatamente è diventato anche meno creativo nonché piú distruttivo della bravura altrui. Raro caso di un vocabolo che ci perde trasferendosi dall'italiano all'inglese.

CESARINI Renato, italiano d'Argentina, giocatore della Juventus del quinquennio (vedi) e della Nazionale, attaccante pieno d'estro, capace di rinunciare a una grande carriera di ballerino di tango per giocare a football. Sublime animale notturno, grande dissipatore di fortune, eccezionale tombeur de femmes, e in età matura divertentissimo allenatore della stessa Juventus, Cesarini sta nel lessico calcistico soprattutto per la zona temporale legata al suo nome, cioè per la rete del 3 a 2 azzurro segnata al 90o minuto della partita giocata a Torino il 13 dicembre 1931 fra l'Ungheria e l'Italia, di cui era arrivato a far parte in virtú del doppio passaporto. Da allora ogni segnatura capace di rovesciare o anche soltanto alterare il risultato nei minuti finali del match è stata ascritta alla "zona Cesarini". Lui in realtà avrebbe voluto passare alla storia, se proprio era necessario al suo personaggio restare in ambito calcistico, per un'altra zona, quella inventata la volta che il commissario tecnico azzurro assegnò a lui, amante del gioco creativo e spumeggiante, il compito oscuro di marcare un avversario pericolo- so. Quando l'avversario, stanco del marcamento, lasciò il campo addu- cendo come pretesto un attacco di mal di pancia, Cesarini lo seguí, andan- do con lui sino al gabinetto: e per chi sa cosa costò alla sua fantasia quella umiliazione in un ruolo negativo, la vera zona Cesarini è un cesso.

CESSIONI Atti del mercato calcistico che sanciscono il passaggio di un giocatore da una squadra all'altra. Di solito le cessioni vengono decise con largo anticipo rispetto al loro annuncio, e costringono calciatori e i dirigenti alla parte di spergiuri: quando ad esempio essi proclamano che non c'è nulla di vero nelle voci di un certo trasferimento, e tirano in ballo moglie e figli, le cui teste sono in serio pericolo. Possono esistere anche cessioni di squadre intere, e per queste invece la ridda delle voci viene di solito alimentata artificiosamente, sulla base del postulato per cui, almeno in un certo mondo, piú si parla di una cosa piú essa acquista valore. Questo postulato vale anche per le prostitute, e non si vede infatti perché non debba valere per uomini e cose del calcio.

CHIUSURA Il calcio conosceva due tipi di chiusura, quella ai giocatori stranieri e quella legata alla fine di una partita, quando echeggiava il fischio detto appunto di chiusura. Ora c'è in pratica soltanto il secondo tipo di chiusura, ancorato non allo scadere dei 90 minuti regolamentari, ma allo scadere del tempo di recupero. Il fischio di chiusura è di solito liberatorio per una delle due squadre. Se entrambe hanno fatto schifo lo è per gli spettatori.

CINQUESECONDI Cinque secondi per noi, dice il telecronista, quando alle immagini della partita subentrano quelle di uno spot pubblicitario. I cinque secondi talora sono sette, talora sono dieci. Quasi sempre lo spettacolo offerto è superiore a quello calcistico. I nemici del gioco del calcio fanno un tifo speciale perché in quei cinque secon- di venga segnato un gol, o comunque accada un fatto importante. I telecronisti cercano, per lo stop alle immagini in diretta, momenti della partita in cui si sia quasi sicuri che non possa accadere, in un breve lasso di tempo, qualcosa di importante. Uno che non voglia perdersi niente della partita ma al tempo stesso non voglia rinunciare all'opportunità di avere accanto a sé, sul divano, la creatura alla quale ha fatto invano la corte per tanto tempo, e che ora è lí, stregata dal match, completamente alla sua portata, può mandare avanti, approfittando dei cinque secondi senza calcio, un corteggiamento e poi anche una pratica sessuale vera e propria. Casomai con l'accortezza di non sovrapporsi alla pubblicità quando essa riguarda un profilattico.

CIOTTI Sandro, intelligente ed esperto radiocronista romano figlioccio di Trilussa, l'anello di congiunzione fra un uomo e una grattugia: la sua voce in effetti sembra essere stata grattugiata da venti e tempeste e mediazioni hertziane assortite. Con quella voce, comun- que, nata nel 1968 in Messico per una repente afonia, Sandro Ciotti ha detto in buon italiano buone cose sul calcio a tanta buona gente, che gli ha voluto sempre un gran bene, anche quando non è riuscita a capire se lui stava declamando Dante o raccontando un tackle o parlando con un altro grande: Enrico Ameri (vedi). CITí Commissario tecnico, detto anche commissario unico (ma la sigla c.u. è in disuso): il mestiere piú ambito dagli italiani, specie se riferentesi alla squadra nazionale. I piú importanti commissari tecnici azzurri nella storia del nostro calcio sono stati Vittorio Pozzo e per le vittorie mondiali, e Arrigo Sacchi (vedi) per i secondi posti, per il terzo posto che ha significato licenziamento. Pozzo ha lavorato gratuitamente, Bearzot e Valcareggi e Vicini per pochi soldi, Sacchi da solo ha guadagnato dieci volte tutti gli altri messi insieme, e in appena sei anni, riuscendo poi a spostare il suo contratto da quasi cinque milioni al giorno, piú premi, sul Milan, che lo aveva a suo tempo smistato alla Nazionale. Da questo punto di vista, Sacchi è stato davvero un commissario unico.

CLASSIFICA Alta, bassa, corta, stretta, bugiarda, perentoria, drammatica, severa, giusta, ingiusta, mossa, ferma, provvisoria, definitiva, deludente, entusiasmante, assurda, logica, onesta, disonesta, autentica, fasulla, mascherata, nuda... Si dice che comunque alla fine premia i meriti, castiga le colpe, e soprattutto equilibra giustizia e ingiustizia: non è vero, ma fa piacere crederlo. E' vero invece che la classifica alla fine conserva le ingiustizie delle varie giornate (parliamo di classifica di campionato, la piú seguíta). E i poveri sono sempre trattati peggio dei ricchi. Cosí che ci viene in mente Rugantino, il popolano romano che viene condan- nato a morte e che è visitato, la vigilia dell'esecuzione, da un aristocratico il quale gli mette davanti l'idea della ruota che gira, appunto a toccare tutti con favori e sfavori. Rugantino obietta che, gira e rigira, sono sempre i poveri a pagare maggiormente. E l'altro gli fa: "Per forza, siete di piú".

CLUB Un modo inglese, almeno all'origine dell'uso, e dunque qualificante, elegante, esclusivizzante, per dire società (vedi). Quando nei club (la esse del plurale non è mai stata portata in Italia) di calcio i dirigenti e poi anche i giocatori si sono dati al golf, per snobismo e imitazione, e hanno scoperto che club significa mazza, bastone, hanno pensato con terrore di non avere mai capito niente e di avere fatto figure tremende per tanto, troppo tempo.

COACH Allenatore, in inglese e soprattutto in americano (la parola significa anche torpedone, e in fondo c'è sempre il concetto di gente guidata in un certo posto e in un certo modo). In Italia il coach è soltanto l'allenatore del basket, e nessuno sa né saprà mai perché.

CODINO Soprannome di Roberto Baggio (vedi), originato dal suo portare i capelli alla cinese o alla torera o, appunto, alla Baggio, cioè con quelli dietro la nuca riuniti in una sorta di codino. Al massimo delle sue prestazioni il calciatore è stato definito Divin Codino, al minimo lavativo, piantagrane, debosciato, bluffista, in una divertente sinusoide italica.

COLLETTIVO Il collettivo, cioè l'insieme (vedi). Senza il collettivo, cioè l'unione delle forze per una finalizzazione univoca, non c'è squadra, non ci sono risultati. Non si sa bene come si comportano gli adepti della religione del collettivo quando la loro squadra vince per calcio di rigore inesistente, o per tiro da lontano spedito nel sette dal vento.

COLORE Una volta era sociale, adesso è variabile. Diciamo del colore della parte superiore dell'uniforme del calciatore, per anni e anni ancorato a se stesso, alla propria tradizione, e poi quasi di botto, per uno di quei comandi misteriosi (o presunti tali) che dà la moda, diventato un optional. Il colore sociale - o anche, al plurale, i colori sociali, specie se la maglia (vedi) era bi, tri o pluricromatica - è stato per lungo tempo omaggiato come sintesi e rappresentazione di tanti valori, dalla tradizione all'orgoglio, dalla fedeltà alla dedizione. Per il colore sociale giocatori sono rimasti in campo con ossa fratturate, muscoli stracciati, ferite sanguinanti. Oppure, piú coraggiosamente ancora, hanno rinunciato ad allettanti contratti, pur di non lasciare quella certa maglia. La rivoluzione dei colori sociali è cominciata cinque anni prima della fine del millennio, quando qualche disgraziato si è accorto che il calcio era indietro nella cosiddetta evoluzione grafica: nel senso che conservava sempre le stesse maglie, nelle stesse tinte, mentre altri sport, compreso persino il tradizionalissimo ciclismo, passavano a colori nuovi, minerali. Da allora è stata la follia: squadre da quasi un secolo legate a una certa maglia di un certo colore sono state percorse da venti di pazzia, ed è stata l'apertura a nuovi colori, il piú possibile lontani dalla tradizione, e quasi sempre anche dal buon gusto. Regolamenti imprecisi, sia in sede nazionale che internazionale, hanno permesso esperimenti folli. Una volta le squadre cambiavano di maglia quando ospitavano sul loro terreno squadre con maglie eguali o simili: questo per non fare confusione agli occhi dell'arbitro. Poi è stato deciso che, proprio per onorare i colori tradizionali, la squadra ospitante vestisse davanti ai suoi tifosi appunto le maglie classiche, e che toccasse a quella ospitata cambiare. Intanto, però, variava lo stesso concetto di maglia classica, talora per intervento di stilisti patentati, talora per bieco calcolo di merchandising, onde vendere ai poveri tifosi collezionisti il maggior numero di maglie possibile. Tifosi, si badi bene, già salassati dai cambiamenti di foggia decisi dai cosiddetti sponsor (vedi) tecnici, fornitori delle uniformi, e di scritte di sponsorizzazione, varianti di anno in anno e talora anche nel corso della stessa stagione, e addirittura, in caso di collezionismo di maglie dei singoli, dal balletto del cambiamento di numeri sulla maglia intitolata al campione beneamato. Insomma, il gioco è diventato in fretta quello di confondere le idee, lavorando sugli occhi di gente malata, come sono sempre i tifosi. Ci sono presto state avventure cromatiche deliranti, demenziali. Quasi nessuna squadra è rimasta fedele alle maglie del- la sua storia. La stampa, specie quella televisiva, registrando e diffondendo i cambiamenti di maglia ha fatto il gioco di chi, spon- sor tecnico o sponsor massimo, ha voluto in qualche modo far parlare di sé richiamando l'attenzione appunto sulla maglia, una specie di foglio di giornale da cui venire attirati e su cui leggere quel certo nome, quella certa marca. Si può dire che nessuna nuova maglia è piaciuta, ma si deve dire che nessuna nuova maglia è passata inosservata.

COMUNITARIO Calciatore di uno degli Stati europei della Comunità, oppure calciatore americano, o africano, o asiatico, o australiano capace di ottenere un passaporto comunitario, e perciò di approfittare della libertà di trasferimento concessa dalla legge Bosman. A questo pun- to l'extracomunitario con i limiti di trasferimento che patisce è, considerando il fatto che la maggior parte del denaro calcistico sta nella Comunità, o un paria o un barbone o un fesso.

CONDIZIONE In linea di massima una clausola limitatrice; nel calcio limitatrice dello stato di forma di un giocatore o anche di una squadra intera. Naturalmente, per non fare le cose troppo semplici, c'è la condizione fisica e c'è quella psicologica, con grande interscambio fra le due situazioni.

CONI Comitato Olimpico Nazionale Italiano, ma anche federazione delle federazioni, Foro Italico (la sede romana per il tutto), Totocalcio (vedi), la sua sorgente di denaro, a pro di tutto lo sport italiano. Nato per la diffusione e l'organizzazione dello sport olimpico, il Coni ha in realtà due soli scopi: sottrarre il nostro sport dalle grinfie dei partiti, sottrarre il Totocalcio dalle grinfie della lega (vedi) e un po' anche della federazione (vedi). Massimo ente sporti- vo italiano, e come tale periodicamente in crisi davanti alle istanze di federcalcio e soprattutto lega. Dalla presidenza onnisportiva di Onesti (un cognome per fortuna non d'arte) è passato a quella calciofila di Carraro a quella sciofila di Gattai, per tornare a quella onnisportiva di Pescante (vedi): il quale si trova Carraro di fianco come Cio, di cui entrambi sono membri, e di fronte come le- ga calcistica, ente che sembra cresciuto per succhiare al Coni il sangue, dopo avere succhiato alla federcalcio il latte.

CONTROPIEDE Dire contrattacco era troppo facile, e allora ecco nascere questo termine, speciale per il calcio, ma poi preso in prestito d'uso da altri settori dell'umana attività: per cui usano il contropiede uomini politici, presentatori televisivi, pubblici ministeri, alti prelati... Perché si abbia il vero contropiede bisogna che ci sia prima la vera pressione di una squadra sull'altra, cosí che chi attacca lasci spazi ampi alle scorrerie di chi difende e si trova davanti tanto terreno di gioco e pochi giocatori avversari. Uno dei problemi del contropiede è stato quello di essere troppo facile da capire e quindi poco stimolante da commentare. Cosí a un certo punto è stato inventato, almeno nella lingua di Dante, il termine ripartenza (vedi), che è la stessa cosa, ma che a essere fiscali dovrebbe venire usato soltanto dopo che c'è già stata una prima partenza, o se preferite un contropiede. Ci sono squadre specializzate nel contropiede, calciatori specializzati nel contropiede. Con la predicazione di Gianni Brera il contropiede venne innalzato ad arma principale per il cosiddetto gioco all'italiana: contropiede, insomma, come sublimazione pratica del difensivismo (vedi). COPPA Trofeo che ha grande valore se internazionale, mentre se nazionale viene esaltato soprattutto come lasciapassare per la disputa di una coppa (in questo caso il trofeo viene a indicare la manifestazione tutta a esso legata) internazionale. Fuorché in Inghilterra, dove la Coppa ha sempre la maiuscola e vale piú dello scudetto, e dove se proprio alla finale non c'è la regina ci sono almeno i duchi di Kent, quelli mitizzati dalla premiazione del torneo tennistico di Wimbledon, quando con una stretta di mano e alcune paroline fanno sentire a raccattapalle colorati del Commonwealth la grande fortuna di essere almeno un pochino britannici.

COPPA ITALIA C'è chi sogna da noi la monarchia, pensando che soltanto la presenza di un re o di una regina alla finale darebbe autentico grande interesse alla .

COREA Nazione asiatica divisa in due, Nord e Sud. Per noi, nel 1966, punto piú basso della Nazionale, battuta appunto per 1 a 0, nella Coppa del Mondo in Inghilterra, a Middles-brough, dalla Corea del Nord, e cosí eliminata dalla competizione. Il commissario tecnico da allora è stato come tatuato, sino alla morte, da questo insuccesso, con il grido "Corea-Corea!" a inseguirlo per tutti gli stadi italiani. Partita dannata, con un azzurro, Bulgarelli, capace di farsi male da solo, e con un incredibile gol di un certo Pak Doo Ik a proposito del quale decidemmo che era dentista, per chissà quale italica anzi italiota voglia masochistica supplementare. Partita con strascico immediato, per una strana storia di presunto doping, e con lungo strascico storico, per l'assurdità del risultato, stando alla forza presunta delle due nazionali, anzi al divario presunto fra noi e loro. Un divario che la vigilia della partita aveva fatto scrivere a Gianni Brera che, in caso di sconfitta italiana, lui avrebbe smesso di fare il giornalista sportivo. Per fortuna Brera non mantenne la promessa/minaccia, perché altrimenti il danno provocatoci dalla Co- rea del Nord sarebbe stato ancora maggiore.

CORNER Letteralmente angolo, in calcese angolo del campo, detto anche "bandierina", perché questo è il simbolo che lo identifica visivamente. Per traslazione, anche il tiro dall'angolo, effettuato da una squadra quando il pallone finisce a fondo campo dopo che per ultimo lo ha toccato uno della squadra avversaria. Nelle partite di pallastrada, fra ragazzini, l'impossibilità di tirare i corner, per via della latitudine ridotta del terreno di gioco, ha fatto sí che dopo l'ottenimento di tre corner, sostituiti da rimesse da fondo campo regalate agli avversari, una squadra usufruisse di un tiro da rigore. Invano si è cercato di trasportare questa regoletta nel calcio grande, dove ci sono partite in cui una squadra calcia una quindicina di corner e l'altra nessuno e magari va a finire che vince.

CORRUZIONE Nel mondo c'è eccome, e si vede; nel mondo del calcio non si vede e dunque, secondo taluni, non c'è. Questo nonostante l'insegnamento del grande Totò il quale, approdando a Milano dalla sua Napoli, soste- neva che la nebbia c'era, anche se il suo amico non la vedeva: "Non si vede, e quando non si vede è segno che c'è nebbia".

CORSO Mario anzi Mariolino, veronese, mezz'ala della grande Inter di Helenio Herrera, uno dei pochi grandi uomini di pancia nella storia del calcio, nel senso che giocava bene, eccome, nonostante una prominenza anteriore indice di forte benessere. Mancino puro, Cor- so visse all'interno della squadra nerazzurra ma soprattutto all'interno della Nazionale una bella rivalità con Sandro Mazzola (vedi). A Corso si riuscí a rimproverare soltanto una certa abulia, indice comunque di temperamento artistico. La sua specialità fu il calcio di punizione detto "a foglia morta", con la palla che si alzava apparentemente troppo e poi, quasi di colpo, si abbassava, finendo in rete appena sotto la traversa, mentre il portiere pensava di essersela ormai cavata.

CORTO Si parla di gioco corto e non mai di gioco lungo. Cosí chi non sa cosa è il gioco corto si sente comunque scusato e non approfondi- sce.

COSTANZO Maurizio, giornalista e commediografo e creatore di uno show televisivo che prende il suo nome e cognome. Perché sta in un dizionario calcistico? Perché nel suo show non si parla quasi mai di calcio, nonostante la presenza abbastanza ripetuta di Maurizio Mo- sca, il piú bravo clown del giornalismo calcistico (giuriamo che è un complimento, si pensi ai grandi attori del circo, magari anche a Chaplin). Come Costanzo possa ignorare il football per ore e ore di dialogo pubblico e non essere ignorato dalla nazione è un mistero: ma glorioso.

COVERCIANO La località, sulla collina di Firenze, dove ha sede il centro tecnico federale, cioè l'università del calcio italiano. Lí si formano i tecnici, lí si riesce a parlare per giorni e giorni di calcio da tavolino, da libro, da lavagna, senza che a nessuno scappi da ridere, mentre un diploma ci scappa a tutti.

CROSS L'azione dell'attraversare; nel calcio è la traiettoria della palla spedita da una parte del campo nell'area di rigore, in offerta speciale agli attaccanti, per un colpo di testa o di piede. Lo sport conta anche sul cross country che è la corsa podistica in campagna, sul ciclocross dove un po' si pedala un po' - dipende dal terre-no - si va a piedi sollevando la bici, sul motocross dove si va in moto per terreni infami. Forse per evitare la poltiglia dei significati il nostro calcio ha ideato la parola traversone (vedi) per dire cross in polposo italiano.

CRUYFF O forse Cruijff, ci sono due scuole. Nessun calciatore al mondo ha avuto la sua fama riuscendo intanto a non avere un cognome preci- so. in effetti è stato un grandissimo della grande Olanda degli anni '70, ha giocato alla grande nell'Ajax e nel Barcellona, è diventato allenatore da contratti miliardari, ha lanciato al calcio suo figlio Jordi, peraltro molto meno forte di lui, e soprattutto è riuscito a smettere di fumare, anche se con l'aiuto di un infarto.

CURSORE Il giocatore che corre molto e, in seconda istanza, il giocatore che in fondo sa soltanto correre. Ultimamente l'avvento dei compu- ter ha fatto prevalere per il termine cursore la valenza elettronica: trattasi di quel segno che segue, sullo schermo, gli impulsi che diamo lavorando sulla tastiera o manovrando un apparecchio specia- le. Il calcio, con mirabile senso di adattamento, ha fatto una capriola all'indietro e ha ripreso a parlare di maratoneta (vedi).

CURVA Il posto magico del tifo. Ormai non esiste tifo valido, caldo, se non in curva, anzi in quella certa curva del campo di casa. La curva, si dice, comanda anche ai presidenti di società, influenza gli allenatori, decide i destini dei calciatori, trasmette messaggi di ogni tipo, registra il polso di un'intera città, procura voti ai candidati politici, inonda lo stadio di fumi colorati eccetera eccetera. Quando si sposta per una trasferta, la curva occupa una zona dello stadio nemico e la trasforma in una enclave della propria fede. Nella curva le forze dell'ordine hanno di regola accesso soltanto se bussano con manganellate o colpi di lacrimogeni. La poesia della curva sicuramente esiste, ma è sempre piú difficile da sentire, in mezzo a tutti quei cori osceni. D DERBY Termine passato dall'ippica al calcio e tornato indietro soltanto in poche occasioni. Tutto cominciò quando il conte di Derby ebbe l'idea di offrire alla sua consorte, in occasione del compleanno, una grande festa culminante in una corsa di cavalli scelti fra i migliori del momento. Derby fu cosí parola che prese a indicare competizio- ni ippiche di alto livello: e in questa accezione resiste tuttora. Ma intanto il calcio si era impossessato della parola per indicare suoi incontri di cartello; su tutti, quelli fra squadre della stessa città, a priori piú tesi e appassionanti. All'interno del calcio chi fece uso piú intenso di questo termine fu proprio l'Italia, dove la parola passò anche a indicare confronti non necessariamente stracittadini, ma esasperati o comunque impreziositi da particolari situazioni. Ai derby tradizionali di Torino (della Mole), di Genova (della Lanterna), di Milano (della Madonnina) e di Roma (dell'Ur- be), si sono cosí aggiunti il derby dell'Appennino fra Bologna e Fiorentina, quello toscano tra Fiorentina e Pisa o Empoli o Lucche- se o anche Pistoiese, del Sud fra Napoli e Bari, della Sicilia fra Palermo e Catania, persino quello dell'autostrada fra una squadra di Torino ed una di Milano, città legate dalla piú trafficata arteria del Bel Paese... Possibilità infinite di accoppiamenti, di accostamenti, arrivando anche a parlare di derby dei poveri a proposito di un confronto fra due squadre dimesse, o di derby della retrocessione. O di derby delle risaie, fra Vercelli e Novara. E ci sono giocatori speciali da derby, come che ha indossato le maglie di Inter, Milan, Torino e Juventus, o come Ro- meo Benetti che ha disputato i quattro derby piú derby della serie A, quello di Genova con la maglia della Sampdoria, quello di Torino con la maglia della Juventus, quello di Milano con la maglia del Milan, quello di Roma con la maglia della Roma. O come, piú semplice- mente, quelli che sentono particolarmente questo tipo di confronto e riescono a dare in esso il meglio di se stessi. Il derby patisce e gode tutta la meglio retorica che ci sia: da quella del risultato incertissimo a quella addirittura dei favori del pronostico, da assegnare a chi è piú debole sulla carta, da quella della tensione a quella della cavalleria spinta, affettata. Di solito è una partita molto brutta, talora cosí brutta che non c'è neppure la possibilità di gettarla sull'emozione. E non sempre è cosí dura da divertire comunque, se non altro per ferocia fisica. Una delle follie lessicali dei calciofili italiani consiste nel creare il plurale della parola derby, cioè, secondo le regole dei sostantivi inglesi che finiscono per y, derbies. Ma derby indica una località geografica, una contea, e farne il plurale significa scrivere i Piemonti, o le Brianze, i Salenti.

DIECI Numero arabo. Nel calcio numero magico, che sta sulla maglia dei massimi campioni, da a Rivera, a Sivori, a Pelé, a Platini, a Maradona. Il fascino di questo numero nasce non si sa come, cresce per effetto volano della stampa che lo divinizza, dandogli valenza miracolistica. Celebre un'intervista in cui il calciatore Zidane, della Juventus, un franco-algerino, si è detto ispirato, miracolato, drogato da questa maglia numero 10 ereditata in bianconero da Platini, dimenticandosi che il suo numero di maglia è il 21. Il numero 10 ha un tale fascino che, richiesto qualche anno fa di beatificare un 10 emergente, cioè Roberto Baggio, dicendolo in qualche misura suo erede, ha detto che casomai Bag- gio è un 9 e mezzo, facendo precipitare lo stesso Baggio in una crisi da cui non si è mai ripreso completamente.

DIESSE Estensione delle iniziali di direttore sportivo. La figura un tempo poteva inglobare quella dell'allenatore, del commissario tecnico, del selezionatore, se necessario anche dell'organizzatore. Poi si è assai specializzata, assottigliandosi, sino a sparire, almeno presso alcune società, o a essere sbattuta indietro dalla carica di direttore generale che spesso si autodefinisce ufficiosamente capo di ogni possibile capo. Il direttore sportivo finirà forse per essere, in una società, presso una squadra, una specie di garante della persistenza di spirito sportivo. Compito insieme evanescente e difficilissimo, per mancanza di materia prima.

DIFENSIVISMO Religione personale di Gianni Brera, e poi di tanti in Italia. Ne abbiamo già detto alla stessa voce Brera. Qui resta da aggiungere che difensivisti e offensivisti si scontrano regolarmente, il che dimostra se non altro che i due gruppi si prendono tremendamente sul serio, e conforta sulla possibilità del calcio di offrire argomenti eterni a chi basa su di esso divertimento, interesse, studio, etica, insomma vita. Il nostro modesto parere non conta assolutamente nulla ma rientra negli schemi dissacranti di questa opera. E dunque secondo noi si è difensivisti se l'avversario, piú forte, ti obbliga a esserlo, si è offensivisti se l'avversario, piú debole, ti spinge a esserlo. In ogni caso si tratta di commedia dell'arte, di recitazione improvvisata, non di copione tutto scritto prima e meno che mai di scuola di comportamento. Brera e i breriani hanno sostenuto che al difensivismo finalmente sposato dopo tanti smacchi, patiti per ingenuità e smania offensivistica, l'Uruguay e il Brasile devono i loro piú prestigiosi titoli mondiali: il che può anche essere vero, tutto sta a mettersi d'accordo (oppure no, discutere è assai piú bello che assentire) sulla genesi di questo atteggiamento psicotattico.

DISCHETTO Piccolo disco. Nel calcio il circolo pieno di gesso su cui si colloca la palla per l'effettuazione del calcio di rigore, detto anche tiro dal dischetto, dizione che piace soprattutto a una squadra di forte presa popolare in Italia, la Nazionale dei cantanti (anche se essi non capiscono perché viene sminuito, ancorché in maniera affettuosa, quello che è il simbolo del loro lavoro, il disco).

DITí Dalla sigla d't', direttore tecnico. Piú o meno, si tratta di una figura fantasma, come quella del diesse, direttore sportivo (boh). Il dití in realtà dovrebbe avere compiti piú specifici per quel che riguarda il gioco, ed essere esentato da compiti organizzativi anche minimi. Però società che si trovano magari con in carico un tecnico di troppo, ad esempio un allenatore licenziato durante il campionato ma ancora sotto contratto, o semplicemente un allenatore in disgrazia, da sostituire senza troppi casini, inventano la carica di dití non tanto per fare credere al tizio che lui conti ancora qualcosa, quanto per non fare una figura troppo fessa di club spendaccione a vuoto.

DODICI In aritmetica viene prima del tredici (vedi), in calcio, anzi Totocalcio, dopo.

DONNA Creatura opposta, in tanti sensi, all'uomo. Nel mondo del calcio per tanto tempo la donna è stata intesa esclusivamente come moglie, in genere procurata dal club al giocatore giovanissimo, ritenendo che una regolare vita coniugale fosse di giovamento al maschietto rampante concupiscente e concupito. L'assunzione al proprio fianco di una donna come amica, compagna, amante, da parte del calciatore Antonio Valentin Angelillo, argentino dell'Inter, venne interpretata- erano i primi anni '60 - come colpa gravissima da parte dell'allenatore Herrera, il quale si era presentato in Italia con una moglie e ne aveva lasciata in Francia un'altra. La fine del millennio è stata anche la fine della ghettizzazione della donna intesa semplicemente come femmina del calciatore ma- schio. Importanti storie d'amore o comunque di sesso intenso e affettuoso fra giocatori celebri e celebri donne dello spettacolo hanno contribuito alla liberalizzazione dei costumi. Uno spartiacque può essere individuato nell'annuncio a mezzo giornali delle pratiche di separazione fra il calciatore Schillaci, celebre per i suoi gol in Nazionale nella Coppa del Mondo 1990, e la propria moglie: pratica indicativa dei tempi nuovi, almeno per chi sin lí non era riuscito a vedere come stavano le cose, nonostante poderosi avvertimenti, sia pure non cosí fortemente mediatici, offerti da altri calciatori, anche celeberrimi. La donna nel calcio è poi anche calciatrice: ma non c'è pianeta piú distante da quello del calcio maschile che quello del calcio femminile. Dove casomai, per attuare un qualche avvicinamento fra i due mondi, si dice che certe squadre sembrano maschili, certe giocatrici sembrano giocatori. Il che è tutto fuorché un complimen- to, anche sul piano esclusivamente sportivo.

DOPING Nel calcio non c'è, o quando c'è non lo si vede, e quando lo si vede non viene guardato, e quando viene guardato viene scusato, e quando non viene scusato viene capito. Si pensi al caso di Marado- na, dove a un certo punto il doping è stato, tout court, droga, ma dove comunque il giocatore ha potuto mandare avanti a lungo cure e carriera, sia pure con qualche problemino. La principale argomentazione di chi dice che il mondo del calcio è sostanzialmente pulito, e che i calciatori che assumono cocaina lo fanno per loro motivi esistenziali, non per rendere di piú sul campo, riguarda la presunta inutilità di aiuti chimici in uno sport che in realtà è un gioco, dove fra l'altro si dipende molto dai compagni, con i quali è piú conveniente essere in sintonia fisica, per la religione del cosiddetto insieme (vedi). Il doping in realtà esiste nel calcio, ma gode di agganci speciali, che si chiamano soprattutto antidoping: nel senso che l'antidoping non c'è, o se c'è fa ridere. Nel loro consueto raduno precampionato i principali arbitri italiani hanno fatto ufficialmente sapere - parliamo della fine degli anni '80, non della preistoria - che molto sovente il sorteggio per decidere se fare o no il controllo antidop-ing alla fine di una partita (pallina bianca o pallina nera) è stato truccato, cosí da non perdere tempo e soprattutto non perdere - si pensi a partite in località scomode - l'aereo per il ritorno a casa. Non è successo niente, dopo la denuncia. E l'antidop-ing continua a essere cosa rara quando deve riguardare squadre che nel- la settimana precedente hanno giocato in coppa. Comunque pensiamo che si possa ammettere che certe pratiche brutali oppure troppo sofisticate di doping non appartengono al mondo del calcio: ma per paura, o per ignoranza, o per fiducia in altre pratiche, sommesse, che possono avere origini vitaminiche, dunque lecite, con qualche additivo in piú. C'è poi un surrogato, un succedaneo lecito del doping, e si chiama carnitina, un energetico ammesso, anche se l'assunzione di grosse dosi può risultare pericolosa. Per finire: il calcio sembra avere piú paura della droga che del doping, e tutto sommato pensiamo che non abbia torto.

DREAMTEAM Parola entrata nel calcio dopo i Giochi olimpici di Barcellona 1992, dove il basket statunitense, quello dell'Nba, ha presentato la prima, in senso cronologico e anche in senso tecnico-atletico, sua squadra professionistica: dreamteam, cioè squadra del sogno. E del sonno per via degli incontri noiosi che la sua eccessiva superiorità ha causato. Il calcio non ha ancora eletto un dreamteam assoluto, anche se un referendum mondiale punterebbe sul Brasile: ma quello di Pelé (vedi) o quello di Ronaldo (vedi)? Nel passato ci sono stati comunque alcuni dreamteams ufficiosi, che lo erano senza sapere di esserlo: il Grande Torino finito nella tragedia aerea di Superga, anno 1949, la Honved di Budapest e soprattutto la Nazionale ungherese al club militare legata negli anni '50, con il primo successo sull'Inghilterra a Wembley di una squadra non britannica, l'Arsenal londinese e la Dinamo moscovita in prodigiose tournées a sensazione, il Real Madrid degli anni cin- quanta e sessanta, il grande Ajax olandese di Cruyff e C', con "trasfusione" in Nazionale, ultimamente il Milan e la Juventus europee e mondiali di club. Ma il vero dreamteam del calcio deve ancora essere "sancito". E comunque sono sempre ridicoli i tentativi di costruire rappresentative mondiali o continentali, per esercizi a tavolino o, peggio ancora, per partite vere e proprie.

DRIBBLING Il superamento, palla al piede, di un avversario. Chi fa molti dribbling (o dribblings) è un fenomeno, chi ne tenta molti e ne man- ca troppi è un dribblomane. Il termine dribbling è stato regalato dal calcio al parlare comune, per dire di come si schiva un argomento difficile o imbarazzante: dribblando, ad esempio, una domanda.

DUELLO Scontro a due, con o senza armi. Nel calcio la grande sfida fra due campioni, di solito impegnati a chi segna di piú fra due compagini. Si parla di duello per l'alta classifica anche coinvolgendo nella contesa tre, quattro, cinque squadre. La grande differenza fra i duelli dell'epoca cavalleresca e quelli sportivi consiste nella lealtà: là era condizione sine qua non, qua è un option-al, quando non anche un handicap per chi - solo lui - la pratica.

E

ELETTRONICA Scienza modernissima entrata ma soprattutto invocata nello sport e quindi anche - sia pure con un certo ritardo rispetto ad altre discipline - nel calcio all'inizio degli anni '90, per eliminare le controversie sull'attribuzione di una segnatura, sull'uscita o meno della palla dal campo, sulla consistenza o no di un fuorigioco, nonché per segnalare episodi di violenza o di scorrettezza sfuggiti all'attenzione dell'arbitro e dei suoi collaboratori o anche per ovviare a confusioni di giocatori e rimediare almeno parzialmente a errori commessi sul campo, come un'espulsione decisa ingiustamen- te, sulla base magari di uno scambio di persona. In breve tempo è arrivato sui teleschermi il guardalinee elettronico, per segnalare se quel calciatore era in fuorigioco oppure no, e anche il misuratore elettronico, per verificare l'esatta distanza di una barriera, in caso di calcio di punizione, o per fornire la velocità esatta del pallone o la gittata di un tiro. L'elettronica non ha ancora messo fortunatamente a punto il meccanismo per sapere con esattezza se la palla ha o no varcato la linea di porta, cosí che si continua a discutere se quello era gol oppure no. Queste discussioni e altre dello stesso tipo sono infatti il sale del calcio, che senza di esse rischia di essere sport azzimo, con un gesto atletico non esaltante. L'idea dell'elettronica applicata al calcio, e applicata già lí sul campo, è funesta. Privo della possibilità di infinite discussioni su questa o quella fase di gioco, il calcio sarebbe slombato, povero, misero. La stessa marpioneria, che l'elettronica intende denunciare, fa parte del teatrino o se preferite del teatraccio del calcio, ed è spesso la spezia, il peperoncino di una partita, con premi alla recitazione meglio riuscita. Altra cosa è l'intervento dell'elettronica per denunciare violenze sfuggite all'arbitro e ai suoi aiutanti. Ma, sempre, l'intervento deve riguardare il "dopo" di un incontro: perché uno dei segreti del successo del calcio è la sua dinamica, la sua fluidità, e l'idea di comizietti, pur rapidi, intorno a uno schermo televisivo è insieme criminale e comica. Gli stessi errori dell'arbitro, se commessi in buonafede, fanno parte del grande gioco. Se poi sono commessi in malafede, non solo sono inutili queste righe che stiamo scrivendo, ma è da buttare via tutto il gioco del calcio e quindi con esso, secondo taluni calciomani, tutta la vita. ENTRAŒNEUR Il nostro filofrancesismo di inizio del secolo, durato peraltro un bel po' di anni, non ci ha comunque portati a definire cosí l'allenatore (forse per paura di scivolare nel femminile di entraŒneuse, vampira da night club anzi da tabarin). Evviva.

ESPULSIONE Nel calcio la cacciata dal campo di un giocatore, o un tecnico, o un dirigente, resosi colpevole di particolari scorrettezze e intemperanze. Nel caso dei giocatori, esistono anche tre tipi di espulsione automatica: per duplice ammonizione, cioè due cartellini gialli nel corso della stessa partita, o per intervento falloso sull'ultimo uomo, come viene definito il giocatore avversario lanciato in gol e senza altri avversari fra lui e il portiere, o infine per fatto o scorrettezza particolarmente grave (ma questa espulsione riguarda il portiere che tocca la palla con le mani fuori della sua area). L'espulsione costringe la squadra in inferiorità numerica a varianti strategiche sempre interessanti e spesso positive, oltre che a un maggiore impegno fisico dei suoi componenti. Tanto è vero che si ipotizza un calcio a dieci, considerando i miglioramenti di molte squadre quando sono costrette a correre di più e intanto a muoversi con maggiore intelligenza. Il timore che condiziona l'introduzione almeno sperimentale della novità è, insieme a quello della perdita di posti di lavoro, quello che poi qualche squadra rimasta in nove giochi anch'essa meglio di prima, cosí innescando una serie di esperimenti e anche il dubbio che il calcio vero sia quello a due contro due, cioè per ogni squadra un portiere e un altro. ESTERNO Nel passato la mezzala veniva chiamata anche interno. In compen- so, non c'era nessun giocatore che venisse chiamato esterno. Adesso ci sono molti giocatori esterni, o di fascia, e non c'è piú l'interno. Boh.

EXTRACOMUNITARIO Il giocatore, o anche il lavavetri, che non è cittadino della Comunità europea, e che dunque non gode sino in fondo della sen- tenza Bosman, a certificare la piena libertà di trasferimento dei comunitari all'interno della stessa comunità. Un extracomunitario sudamericano può facilmente, reperendo un antenato italiano o me- glio ancora inventandoselo, farsi italiano, spagnolo o portoghese, cosí come un africano non ha troppi problemi, anche se l'idea dell'antenato funziona poco per questione di pelle, a diventare francese o britannico o belga. Per l'asiatico, lo sfogo piú facile è il passaporto olandese. Extracomunitari si nasce, comunitari si diventa (anche).

EXTRATIME Definizione ormai predominante di tempo supplementare, nel cal- cio diviso in due frazioni di 15 minuti l'una, quando una partita a eliminazione diretta, o una finale, si chiude dopo 90 minuti, piú recupero, in parità. Nell'extratime ci sono due eventualità: o, se previsto dal regolamento, il golden gol (vedi), cioè la segnatura che chiude la partita, attribuendo il successo alla squadra autrice della rete, o il traccheggio per arrivare ai calci di rigore. Proprio per evitare il nulla di troppi tempi supplementari senza gioco, senza agonismo, in certe manifestazioni anche importantissime si decide ormai di passare direttamente ai calci di rigore, dopo la scadenza del tempo definito regolare anche se questo tempo ha visto tutta una bella serie di irregolarità.

EXTREMIS Dal latino, con il prefisso "in", a indicare un'azione conclusa allo scadere del tempo concesso per effettuare una data cosa, un da- to insieme di cose. Il gol in extremis e il salvataggio in extremis sono i due estremi del calcio. L'estremo degli estremi è un rigore concesso in extremis a una squadra che realizzandolo vincerebbe in extremis la partita, ma che non ce la fa perché in extremis il portiere avversario salva la propria rete. Sembra impossibile, però capita. O almeno al bar c'è sempre uno che racconta che a lui è capitato di vedere una partita cosí.

F

FAN In inglese ventaglio, in calcese tifoso (vedi), anzi tifoso fanatic, fanatico. Bipede votato al suo club, nel bene e nel male e nei loro vaghi dintorni. Pronto a tutto pur di avere qualcosa, e a qualcosa di speciale pur di avere tutto. Negli ultimi anni del millennio il fan è stato anche di sesso femminile. Un fan è un tifoso impegnato a tempo pieno o quasi. E' intollerante verso ogni idea che non sia del gruppo delle sue, spesso è violento, raramente possiede e poi usa l'intelligenza. Spende molto, di se stesso e dei propri averi, per seguire la squadra, per stare in qualche modo con la squadra anche quando essa è lontana: lo aiuta in questo il merchandising, che è il porno-shop del suo feticismo. Meglio se il porno-shop, per accedere pagandola cara all'oggettisti- ca tipica del club, è locato nello stadio: allora il fan riesce a vivere per piú tempo piú vicino all'oggetto dei suoi sogni, dei suoi desideri. Il calcio inglese e anzi britannico dissangua i suoi fan, quando riesce a convocarli nella chiesa, pardon nel club, fuori del rito delle partite. Il fan sa tutto e non capisce niente. Ama il gioco del calcio, ma lo odia allorché il gioco non gratifica la sua squadra, e dunque lui stesso. Il fan è pronto, prontissimo a sacrificare a una vittoria della sua squadra la logica, la lealtà, insomma lo sport. Il fan è drogato anche se (ogni tanto accade) non si droga. Una sola cosa il fan esegue bene, eticamente bene: il canto. Il fan canta come pochi al mondo, con tanta voce e tanto cuore, canta appoggiandosi su canzoni popolari, canta su canzoni sue, canta con parole spesso belle, talora oscene e belle lo stesso. Il fan è anche pittore di cartelli, autore di slogan, scultore di visi altrui (a pugni). Ama la bandiera in due modi: come simbolo della sua squa- dra, o come evocazione di un suo giocatore (bandiera turca se in squadra c'è un turco), e come fornitura di asta per le mischie. Il fan fa fuochi artificiali ed è un fuoco artificiale. Il fan ha capacità di sopportazione del fumo (prodotto dai suoi stessi fumogeni) e del rumore (prodotto dalle sue micidiali macchine foniche) come nessun altro abitatore della Terra. Il fan, la cui età va dai quindici ai trent'anni, è un gradino dell'evoluzione umana: però ad una certa età si spegne, dismette il suo involucro, la sua panoplia, e diventa un adulto qualunque, cosí serio da essere quasi disperato.

FANTASISTA Non si saprà mai per quale ragione un giocatore viene, a un certo punto, definito fantasista. L'unica cosa certa è che lui non deve assolutamente mostrare di avere troppa fantasia, sennò viene defini- to cretino. Il fantasista può commettere errori che per chiunque altro significherebbero lo squartamento in pubblico. Il fantasista può sbagliare un gol già fatto e la critica dice che sarebbe stato assurdo che lui lo segnasse, quello lo fanno già gli altri. Il fantasista corre meno di ogni altro, e viene di solito pagato piú di ogni altro, escluso il bomber. Penoso è di solito lo spettacolo di chi, non nato o comunque non eletto fantasista, vuole fare il fantasista. Quasi penoso come lo spettacolo di chi, fantasista, vuole mettersi a fare il pragmatico, il praticone. Fantasisti si nasce e si diventa. Per smetterla di essere fantasisti ci vuole molto piú impegno che per diventarlo. Perché uno conosciuto come fantasista se si mette a giocare male viene interpretato, studiato, spiegato nella sua nuova veste, come un poeta quando scrive porcate, da una critica che non si arrende alla perdita di un personaggio che credeva ben definito, facilmente presentabile. Se uno, per smettere di essere considerato fantasista, dice "attenzione, io sono un giocatore senza fronzoli, eminentemente pratico, sadicamente pratico", tutti dicono che quella frase, quell'atteggiamento è l'ultimo grande capolavoro della sua fantasia.

FARMACISTA Termine usato soprattutto nel tennis antiquo, per dire del giocatore capace di palleggiare di fino, di speculare sui punti, di spedire la pallina nei posti piú astrusi - per l'avversario - del campo, di sfruttare gli errori altrui con metodicità implacabile. Nel calcio è quello che gioca risparmiando le energie, i movimenti, dosando le fatiche, calibrando i passaggi. Insomma, uno preciso sin quasi alla noia. In sport che, avendo l'antidoping che funziona, sanno di essere invasi dal doping, il farmacista è chi procura medicine strane agli atleti, e per traslazione del concetto è lo stesso atleta che di queste medicine fa uso pessimo e abbondante.

FATTORE Ne abbiamo detto alla voce Campo, parlando appunto del fattore-campo. Non c'è nel calcio altro fattore, anche se a rigore di termini fattore del calciatore potrebbe essere suo padre, come fattrice è sua madre. Quando un calciatore zappa il terreno con i suoi piedi rozzi gli si dice di andare a fare il contadino, allorché invece gli si potrebbe dire, considerati i soldi che ha, di andare a fare il fattore.

FEDE Si dice che il tifo calcistico è una fede, e che in quanto tale non deve cambiare mai. Una volta lo dicevano anche i calciatori, proclamandosi figli a vita di una certa squadra. Adesso hanno smes- so di dirlo, sennò gli scappava da ridere anche in diretta. I tifosi, specie quelli di alcune squadre gloriose e tormentate o straripanti, lo dicono ancora: da qui l'uso del presente all'inizio della trattazione di questa voce, trattazione eseguita con un difficile atto di fede.

FEDERAZIONE Il massimo ente nazionale per la programmazione, la regolamentazione e la direzione delle cose del calcio. In pratica l'assemblea popolare che si contrappone a quella manageriale, o se si vuole il parlamento che si contrappone al governo, cioè alla lega (vedi). Nel futuro neanche lontano si vede una federazione per il calcio diciamo di massa e una lega, neanche piú contrapposta, per il calcio-industria. Impossibile dire se sarà un bene o un male. Sarà, ecco. E amen. O requiem.

FIFA Federation Internationale des Football Associations, federazione internazionale delle associazioni calcistiche, uno degli ultimi rigurgiti del francese in un mondo tutto votato all'inglese, all'italiano o allo spagnolo. E' la federazione mondiale e da tempo serve a poco, a meno che la si incarni nel segretario generale Blatter, di cui abbiamo già parlato e sparlato. Da tempo si è anche smesso in Italia di fare giochi di parole su questo nome, Fifa.

FINTA Termine usato quasi sempre per dire di un movimento accennato, nel corso del gioco, ma accennato cosí bene che l'avversario crede alla sua completa esecuzione e si sposta per contrastarlo, intanto che l'autore della finta se ne va da un'altra parte, o comunque fa una cosa tutta diversa da quella annunciata. La sublimazione della finta fu quella mostrata ai Mondiali 1958 dal brasiliano Garrincha: finge- va di scattare da una parte, l'avversario non poteva credere che anche quella volta, la milionesima, lui andasse davvero da quella parte e si preparava ad affrontarlo sull'altra: Garrincha invece andava via sempre nello stesso modo dalla stessa parte. Era la finta della non finta, o la non finta della finta, comunque era la fuga per il cross.

La finta poi è assurta ad altri cieli, per esempio quello della diplomazia, della concorrenza aziendale, della politica, della strategia bellica. Si tratta pur sempre di una falsa dichiarazione di intenti, e peggio per chi ci casca. Di finte si può ubriacare, ma ci si può anche ubriacare. La finta è parente del dribbling, che comunque può essere effettuato in altri modi, dal tunnel (vedi) al tackle (vedi). Diciamo che il dribbling evita, mentre la finta provoca. Se non siamo chiari fate, per favore, finta di capirci.

FISCHIETTO Lo strumento con cui l'arbitro fischia, appunto, l'inizio, l'interruzione e la ripresa del gioco, e con cui sancisce sonoramente le reti e la chiusura dei due tempi. La parte per il tutto serve anche a indicare l'arbitro in una maniera meno solenne che "diretto- re di gara". L'Italia passa per essere un paese di buoni fischietti. Il miglior arbitro è il fischietto d'oro, elogio che però sembra una presa in giro. FISCHIO Strumento usato da Trapattoni (vedi) e pochi altri allenatori per attirare l'attenzione dei giocatori e far sí che essi ascoltino consigli o meglio ancora eseguano ordini. Se non si è Trapattoni o uno dei suoi pochi succedanei - fra l'altro è difficile emettere, con le dita a incanalare e gestire sonoramente l'aria che esce dalla bocca, un fischio che sia avvertibile nel grande rumore globale di una partita, anzi di uno stadio - fare le cose col fischio significa non farle, è un modo di dire del quale non conosciamo l'origine, senza che per questo noi ci si senta più poveri.

FLUIDIFICANTE Una delle parole più usate nel calcio ultimo, quello dell'invenzione dei nuovi ruoli. Il fluidificante è colui che fluidifica, ma fa strano che in fondo fluidifichi se stesso, trasportando il proprio corpo su e giú per il campo, senza mai una traccia precisa. Il fluidificante va su e giú, meglio se sulla fascia laterale, dove la sua fluidificazione si vede meglio. Per questo è fluidificante soprattutto il terzino, mentre il centrocampista fluidificante è un maratoneta (vedi), mentre l'attaccante fluidificante è un fesso, perché lavora molto e si trova poi in carenza di lucidità al momento della conclusione.

FOOTBALL Soltanto per ricordare, ricordando che in inglese foot significa piede e ball palla, che negli Stati Uniti, faro sportivo del mondo e faro del mondo sportivo, il termine football indica un gioco, detto anche in Europa rugby all'americana, dove i piedi sono usati pochissimo. Forse per questo Brera scriveva "football mistero senza fine bello".

FORMA Il contrario ma anche il complemento della sostanza. Il modo con cui una cosa si presenta. Nel calcio il modo con cui un calciatore si presenta dal punto di vista atletico, anche se esiste pure una forma psicologica, parente abbastanza stretta della condizione. Arrivare alla forma, conservare la forma, ritrovare la forma, non compromettere la forma, impreziosire la forma: il calciatore ha un sacco da fare con questo termine, che è molto frequentato ma che rimane sempre vago. Nel senso che spesso o si è in forma o non lo si è, e le vie dalla forma sono sentieri sulla neve, scie d'acqua, insomma provvisorietà e mistero. Una sola persona al mondo può comunque decidere se Tizio è in forma e Caio no: questa persona è l'allenatore, e si spera che al momento del giudizio lui sia in forma. Per il calzolaio, la forma è lo strumento per fare abitare la scarpa da un piede anche quando sta sul desco per riparazioni od operazioni di allargamento. Si può mettere in forma la scarpa di un calciatore, senza che per questo anche lui entri in forma.

FORO ITALICO Sede romana, centrale del Coni e quindi di tutto lo sport italiano e dunque teoricamente anche del calcio. Senza le maiuscole, il foro italico ha altri significati, fra i quali uno, che potremmo definire rettalscaramantico, che nello sport specie calcistico viene tenuto in gran conto.

FRANCOBOLLATORE Il calciatore capace di appiccicarsi a un avversario, appunto come un francobollo a una lettera, e di soffocarlo, impedendogli di effettuare il suo gioco. Di solito un elemento votato al sacrificio oscuro, quando non anche al dileggio delle genti, eccettuate quelle che tifano per la sua squadra. Si conoscono però casi di francobollatori illustri: su tutti, nel calcio italiano, quello di Trapattoni (vedi) che in un memorabile Italia-Brasile riuscí a francobollare l'immenso Pelé, piazzandosi spesso e volentieri sulla sua caviglia; e questo bastò per l'insorgere di un mito, tanto piú che la caviglia di Pelé non seppe mai dire chiaramente come erano andate le cose.

FUORICLASSE Il grande giocatore, di valore indiscutibile appunto perché al di sopra di ogni possibile graduatoria. In linguaggio ippico si dice crack, che nel calcio è termine onomatopeico per dire di una gamba che saluta e se ne va. Il ragazzo che a scuola va male, che in classe è indisciplinato, e che per questo suo essere casinista viene spesso mandato fuori clas- se dall'insegnante ha, se decide di lasciare gli studi per il pallone, piú probabilità di diventare un fuoriclasse anche lí di quante ne abbia un ragazzo studioso, pallido, emaciato e remissivo.

FUORIGIOCO Grande mistero del calcio, che ogni tanto ritocca il regolamento pensando di domare la belva. Nato per impedire le troppe facili segnature, il fuorigioco una volta chiedeva la presenza, per non essere fischiato, di almeno due giocatori di una squadra fra il giocatore avversario, di solito un attaccante, e il portiere. Poi si è scesi a una sola presenza, e adesso esistono possibilità di non fischiare il fuorigioco anche se non c'è nessuno fra il giocatore attaccante e il portiere: basta che il giocatore sia in atteggiamento passivo, cioè dia chiaramente a intendere di non partecipare all'azione, per esempio con la lettura di un libro, la raccolta di fiorellini, la declamazione di una poesia. Il fuorigioco è il pane e il prosciutto di ogni discussione calcistica che si rispetti. Ogni ritocco del regolamento, ogni variazione di interpretazione, provoca la scrittura di migliaia di articoli, la proiezione di migliaia di documentazioni visive, la valanga di pareri al Bar Sport. Le ultime avventure del fuorigioco riguardano la definizione dell'essere in linea, cioè di stare, difensore e attaccante, alla stessa altezza, magari uno piú avanti dell'altro perché gli sporge un pelo dal naso. Guai se del fuorigioco si capisse tutto, guai se la valutazione elettronica di esso, per ora limitata alla visione accademica della partita da parte dei telespettatori, entrasse in campo con la sua saccenza e le sue apparecchiature e la sua algida giustizia. Sarebbe la fine di tanto football parlato, il piú appassionante, il piú vero.

Il fuorigioco deve essere segnalato dal guardalinee, anche se l'ultima valutazione tocca all'arbitro. Il guardalinee alza la bandierina sapendo perfettamente che quelli della squadra da lui penalizzata con la segnalazione sanno perfettamente dove lui deve mettere anzi mettersi la bandierina stessa. Se continua ad alzarla, partita dopo partita, è perché trattasi di un eroe, oppure di un vizioso del sadomaso. Il termine fuorigioco ogni tanto va a indicare situazioni balorde, che isolano un dato gruppo di persone, una certa idea, una certa politica: essere messi fuorigioco significa venire tagliati fuori dal corretto o comunque decisivo divenire dei tempi. Ma se ci adden- triamo anche in questo significato aggiungiamo confusione pericolosa a una parola che già di confusione si ammanta, peraltro facendosi di essa pericolosamente bella, come la strega di Biancaneve del suo mantel- lo.

G

GALLIA Albergo milanese nel piazzale della stazione, per tanto tempo sede del mercato (vedi) del calcio, o calciomercato, cioè della straordinaria ancorché spesso costosetta vacanza estiva a Milano, in locali con aria condizionata e champagne a portata di ordinazione, di dirigenti calcistici spesati dai club e intanto ricchi di loro, di presidenti stressati dalla vita provinciale con costante stretta pitonesca delle mogli. Il pretesto: comprare, vendere, scambiare giocatori. Lo spostamento del calciomercato a varie altre sedi, anche fuori Milano, mai una frequentata con un certo metodo, una certa costan- za, è stato salutato con dispiacere da tanta gente, comprese le valorose signorine che erano disponibili per i festeggiamenti dopo un importante acquisto o per le consolazioni dopo una rinuncia, sia pu- re conveniente, a un asso celebre. Il Gallia è stato un santuario, gli altri mercati sono suk neanche pittoreschi.

GARA Termine usato ogni tanto per la partita di calcio, quando dovrebbe essere riservato allo sport individuale, anche perché non contiene in sé nessun risvolto, nessun senso di gioco. L'arbitro sovente viene chiamato direttore di gara. Comunque il termine è improprio ed è battuto, quanto ad assurdità, soltanto dal termine pedonistico "corridore" appioppato a uno che disputa una gara in bicicletta.

GARRA Nel calcio sudamericano di lingua spagnola, cioè tutto fuorché il Brasile, il Belize, un po' di Guiana e il Suriname, è la grinta (vedi). Famosa soprattutto la garra degli uruguaiani, capaci di straordinarie reazioni, anche e specialmente quando il pronostico li vede sfavoriti. Un segreto della loro garra, che manda in tilt gli avversari, pare consista nel sapere sputare in corsa e con precisione come nessun altro, esclusi forse i lama del Tibet.

GARRINCHA Giocatore brasiliano campione del mondo nel 1958 e 1962, nato poverissimo in un villaggio non lontano da Rio de Janeiro ma già immerso nella selva, fu nel Botafogo e nella Nazionale del suo pae- se ala destra semplicemente sublime, con una finta sempre eguale, imposta a lui dal fatto di avere - scoria di una poliomielite da bambino - una gamba piú corta dell'altra, una finta comunque incontrastabile per la velocità sovrumana della sua esecuzione. Autore di molti passaggi che sono serviti a Pelé e ad altri per gol gloriosissimi. Amico degli uccellini (Garrincha, soprannome di Ma- noel dos Santos detto Mané, significa pettirosso), della natura, dell'alcool, delle donne, ebbe nove figlie dalla prima moglie, che lasciò per una celebre cantante, e conobbe una rapida triste decadenza, morendo ancora giovane e di nuovo povero. Fece in tempo comunque a essere riconosciuto come il calciatore piú geniale, piú poetico di ogni tempo, e come un uomo buono, tenero, sperso nella vastità di quel mondo calcistico alla costruzione della cui grandezza lui aveva lavorato, e da artista.

GENIO Ogni tanto si decide che un calciatore è un felice impasto di Einstein, Leonardo, Edison, Marconi e Pas-teur, con in piú la capacità fisica di dare calci al pallone, e lo si chiama genio (l'ultimo è stato Saviceviªc, jugoslavo del Milan, capace di giocare benissimo una partita sulle dieci che gioca ogni cento prospettategli dal contratto ma non frequentate per infortunio o calo di forma).

GIALAPPA's Importante il genitivo sassone, che precede la parola Band. La gialappa da sola è un forte purgante di origini latinoamericane, per cavalli o per uomini duri. La Gialappa's Band ha inventato, alla radio e poi in televisione, un modo dissacrante di affrontare il calcio, con spirito e intelligenza bene informata. Molto lessico italiano, non solo calcistico, deve vita e crescita ai tre guru originari e ai convocati alle loro trasmissioni. Forse quei tre senza volto in video sono, con Fabio Fazio della teletrasmissione Quelli che il calcio (vedi), i soli autorizzati a dire che il calcio, in fondo, è soltanto un gioco senza dover finire subito in manicomio.

GIOCO Premio Nobel per la cretineria alla frase: "...e ricordiamoci che, dopotutto, il calcio è soltanto un gioco".

GIOCOLIERE Uno che ha avuto la fortuna di sfuggire alle catene del mondo del circo e di essere preso sul serio nel mondo del calcio. Il giocoliere sa fare cose mirabili con la palla, tutte fuorché il gol. In certi momenti appare bravo quasi come le foche di Acqualandia. Nel calcio moderno è stato messo abbastanza da parte dalla velocizzazione della manovra, dalla prestanza atletica dei giocatori, dalla praticità somma di schemi, interventi, movimenti, azioni. I suoi giochi di prestigio sono in grande decadenza, anche per il prevalere nel calcio di ben altri giochi di prestigio, come quello di far prendere sul serio le azioni dette appunto di gioco, le bufale di mercato, i processi del lunedí, le dichiarazioni degli allenatori, le scritte sulla lavagna, i pronostici dei tecnici, le indiscrezioni dei giornalisti, l'amore per la maglia, le frasi tanto storiche quanto bugiarde, e cosí tanti eccetera che non stanno in una pagina. L'ultimo giocoliere assoluto ufficializzato dai media è stato secondo noi il danese Michael Laudrup, visto anche in Italia nella Lazio e nella Juventus, autore di un gol nella partita vittoriosa della Nazionale del suo paese contro la Germania al campionato mondiale 1986 in Messico. Il radiocronista locale ha detto, in castigliano fluentissimo e ridondante, a proposito di quella sua rete segnata appunto da giocoliere, che il gol è stato "magnifico, stupendo, esaltante, artistico, geniale, fantasmagorico, eccitante, indimenticabile, sublime, sensazionale, barbaro". Quest'ultimo aggettivo sta, specie nello spagnolo dei messicani, per bello, ma di bellezza assoluta, stravolgente, annichilente; si dice barbara di una donna aggressivamente meravigliosa, di una partita altamente spettacolare. Alla fine dell'elencazione di undici aggettivi il radiocronista ha detto, con l'ultimo fiato: "E adesso mettete voi tutti gli altri aggettivi che volete".

GIOCATA Participio passato del verbo giocare, ma anche sostantivo, a indicare un particolare trattamento inflitto al pallone da un giocatore abile nel domarlo. La grande giocata può essere il dribbling riuscitissimo, la finta mirabile, anche il gol, anche il salvataggio in extremis. Come participio passato, il termine giocata si appioppa alla partita terminata, ma anche alla folla che ha atteso a lungo che la partita fosse giocata è stata delusa, bidonata da una partita insipida, squallida, senza agonismo. La folla giocata in genere non capisce di esserlo, ed è pronta per un altro bidone.

GIORNALISTA Personaggio di difficile definizione, anche contrattuale. Basti dire che pare sia possibile essere giornalista e intanto scrivere un libro come questo.

GIRONE Il grande giro, o anche il cerchio dantesco dei dannati. Ma nel calcio il fluire delle partite secondo una formula, detta girone all'italiana, in cui una squadra incontra tutte le altre del suo campionato, prima ricevendole poi andando a fare a esse visita: cosí almeno nel nostro campionato. Quando per sorteggio o per altre ragioni si finisce in un girone difficile, ad esempio del campionato mondiale, si parla di girone di ferro (di sola andata, in questo caso). Ci sono gironi di qualificazione, gironi finali, gironi di consolazione per chi non può piú sperare altro. Termine complesso, su cui è bene non essere precisi: il girone non è un giro grosso, comunque, cosí come il girino non è un giro piccolo.

GOL Qual è quella cosa, nel calcio italiano, che perde qualcosa e diventa un tutto? Il gol, che qui da noi ha perduto una "a" rispetto alla sua grafia inglese esatta, goal (il significato letterale è scopo, obiettivo, traguardo).

GOLDENGOL Il termine - da golden, dorato, e gol, italianizzazione dell'inglese goal - ormai si scrive cosí, tutto attaccato. Quando la partita (stiamo parlando di confronto a eliminazione diretta) ha visto la parità nei 90 minuti regolamentari e perciò è arrivata all'extratime, o tempo supplementare, è il gol che decide la partita stessa, nel senso che essa si interrompe con quella segnatura, consegnando il successo a chi l'ha effettuata. Il goldengol insomma è la risposta regolarmente alla cosiddetta lotteria dei rigori, quella che consegna il successo a chi effettua meglio o meno peggio i tiri dal dischetto. Il goldengol era nato come sudden death, in inglese morte improvvisa, poi si è pensato che si trattava di definizione troppo sinistra. Adesso il gol d'oro cerca di essere presentato come una cosa piacevole anche per chi lo subisce: perché se non altro va a fare la doccia. Casomai la dizione goldengol apre il problema se esista, se possa esistere nel calcio un gol che non sia d'oro: a stare ai festeggiamenti abituali, si deve infatti dire che ogni gol è perlomeno placcato oro, è perlomeno dorato.

GRANDI Aggettivo sostantivato, a indicare le squadre che a priori godono di stima, di pronostico favorevole, insomma di considerazione assortita. L'ingrediente primo è la tradizione, curiosamente tenuta in vita, come valore essenziale, in questo caso, mentre altrove viene quasi regolarmente sbertucciata. Poi ci sono le valenze tecniche e ormai soprattutto economiche, per cui si arriva fra le grandi anche grazie all'acquisizione, magari per calcoli politici o finanziari, di un presidente spendaccione, e non importa se pure ladrone. Ci sono le grandi del passato, le grandi retrocesse, le grandi decadute, le grandi che non hanno mai giocato in B (nel calcio italiano Inter e Juventus, e l'ordine non è solo alfabetico, visto che la Juventus di inizio secolo una volta era retrocessa, ma era stata "recuperata" aggiudicandola a un girone lombardo del calciocampionato di allora). In Italia la grande piú grande è fuori da ogni dubbio la Juventus, come somma di glorie e massa di tifosi. All'estero ci sono grandi del passato, soprattutto, visto che il presente è abbastanza monopolizzato dai successi internazionali delle squadre italiane, Juventus, Milan e Inter in testa, almeno per tempi recenti.

GRINTA La grande voglia di far bene, di rimediare a carenze fisiche o tecniche con la volontà, con l'impegno, se necessario ai limiti della ferocia. Ci sono giocatori che non hanno grinta, e pare che essa sia come il coraggio manzoniano, chi non ce l'ha non se lo può dare. Ci sono scuole di pensiero che dicono che il molto denaro offerto ai giocatori deve e può comunque indurli a far nascere dentro di essi qualcosa di simile alla grinta. C'è chi dice che proprio l'eccesso di denaro fascia i giocatori di sicurezza, li spela di stimoli, e insomma ne fa dei mollaccioni, addirittura togliendo loro quella grinta che eventualmente li aveva connotati prima. Il pubblico calcistico viene spesso chiamato a fornire grinta ai suoi giocatori, con incoraggiamenti vari, con la creazione del cosiddetto ambiente. Si assiste cosí allo spettacolo di una massa di gente solitamente povera che incita a gran voce un gruppetto di gen- te decisamente ricca perché onori i propri immensi guadagni faticando un po'. In pratica, si dice "forza, dai, corri...!" a uno pagato miliardi perché corra, e però scusato, se non corre, dal fatto che l'ambiente non lo carica a sufficienza. E il bello è che i poveri sono convinti di avere influenza sui ricchi, mentre i ricchi sono persino capaci di rimproverare i poveri quando non sono abbastanza caldi.

GRUPPO Pare che il gruppo sia tutto, che una squadra vince non perché segna il gol, ma perché fa gruppo. E lo fa soprattutto nello spogliatoio (vedi), anche se poi per fare gol bisogna quanto meno stare sul campo. Una squadra vince perché l'arbitro, incapace o compratissimo, ha espulso tre giocatori avversari colpevoli di falli veniali, ha negato agli avversari tre rigori evidenti, ha concesso alla squadra sua amica due rigori inesistenti, permettendole finalmente di segnare dopo che il primo rigore è stato sbagliato, ha fischiato la fine senza recupero perché l'1 a 0 era messo in pericolo dalla reazione degli avversari mai domi, una squadra vince cosí e nello spogliatoio l'allenatore, il presidente, il capitano, l'autore del gol e anche il massaggiatore dicono che il successo è stato opera del gruppo.

GUARDALINEE Non bisogna chiamarlo segnalinee, perché questo termine designa o dovrebbe designare chi traccia, alla buona o con sofisticati strumenti, le linee di gesso che delimitano il campo e i vari settori. Però anche guardalinee è poco, perché lui non si limita certamente a guardare. In inglese si dice linesman, uomo linea, e se non altro si è chiari. In italiano si dice anche guardialinee (vedi), come se alle linee lui montasse la guardia, con tanto di elmetto e fucile. Il guardalinee o guardialinee è come la tetta, va sempre a coppie. Uno per ogni lato del campo. Una volta il guardalinee era un ex arbitro, o addirittura un arbitro mancato, dismesso, poi la specializzazione e l'ampliamento dei suoi compiti, la valorizzazione del ruolo come quello di stretto collaboratore dell'arbitro, la velocizzazione del gioco con l'obbligo di scatti improvvisi e anche violenti per seguire certe fasi di attacco e decidere sul fuorigioco hanno fatto del guardalinee un grosso personaggio, capace anche di entrare in campo e di diventare determinante per quello che è il giudizio di certi episodi, pur se l'ultima parola spetta sempre all'arbitro. Il guardalinee è di regola molto amico dell'arbitro e anche dell'altro guardalinee. Pare che l'amicizia si sia spinta, in occasione specialmente di partite internazionali di coppa, sino allo spartire con i colleghi il sacrificio di non dire di no a invadenti signorine spedite dalla squadra ospitante a rendere meno tristi le serate della vigilia della partita. Il guardalinee in questo caso si interessa alla linea delle signorine stesse, dopo essersi interessato alla propria linea per conservare o trovare l'efficienza atletica, e prima di interessarsi alla linea di bordo campo.

GUARDIALINEE Il guardalinee con una "i" a militarizzarlo un poco, o un altro poco, visto che comunque lui combatte una battaglia, spesso espo- sto anche alle iniziative balistiche dei tifosi arrabbiati, magari perché alza la bandierina verso il cielo, a segnalare un fuorigioco, anziché metterla nel posto che tanti gli consigliano.

H

HERRERA Helenio ed Heriberto, il secondo paraguaiano, il primo chissà cosa, essendo nato in Argentina da genitori spagnoli, essendo cresciuto in Marocco, essendosi espanso calcisticamente in Francia e in Spagna, essendosi affermato come mago della panchina, anzi come "il ma- go", in Italia. Cominciamo da Helenio, arrivato all'Inter dal Barcellona all'inizio degli anni '60 e subito urtatosi con un italo-argentino, grande attaccante, Antonio Valentin Angelillo, colpevole di coltivare un amore non coniugale con una cantante lombarda biondonissima dal nome spagnolesco, Ilya Lopez. Helenio fece fuori il costoso e glorioso oriundo, e sulla base del suo atto d'imperio costruí o meglio incrementò la sua dittatura all'interno del club nerazzurro, portato al massimo livello europeo. Helenio aveva un direttore generale che si chiamava (vedi), un grande del mestiere, e un presidente che si chiamava Angelo Moratti (vedi), idem. Riuscendo a lavorare perfettissima- mente insieme, i tre fecero uno squadrone, spendendo peraltro moltissimo del denaro di Moratti. Herrera del trio fu il personaggio piú appariscente. Gianni Brera disse che non gli avrebbe affidato la cu- ra delle sue cantine anzi neanche del suo giardino, però finí anche lui per chiamarlo mago. Helenio Herrera, detto presto Hh a o Acca Acca, dalle iniziali del suo nome e cognome ma anche di habla-habla, in spagnolo parla- parla, a dire di un istrione logorroico, fu presto padrone assoluto dello spogliatoio (vedi) nerazzurro, ma anche dei grandi titoli di giornale. Non parlava bene nessuna lingua, però se la cavava con tutte, e approfittava anche degli errori per fare colore, diplomazia, personaggio. Nato in lingua spagnola, aveva imparato in Marocco il francese degli arabi, poi in Francia quello dei parigini, mentre in Spagna aveva ritrovato il castigliano e aveva scoperto il catalano di Barcellona. Il suo italiano fu subito pittoresco, colorito, sonoramente divertente, in perfetta sintonia con lui. Riuscí a essere avido di denaro spiegando l'avidità con la dura scuola di vita in Marocco: quando, appena arrivato dall'Argentina al porto di Casablanca con la madre aveva trasbordato dalla nave alla scialuppa, e la madre era caduta in acqua, e gli arabi avevano chiesto soldi a suo padre per tirarla su. Riuscí a essere dittatore, spiegando la severità con le leggi dure dello sport. Giocatore medio, fu allenatore sensazionale. Prima di ogni partita dispensava slogan, pastiglie da lui chiamate vitaminas, ordini perentori, anche ipnotici di vittoria. Vinse molto, moltissimo con l'Inter e poi abbastanza con la Roma. Patí nel 1974 un infarto, si riprese. Fu direttore tecnico per pochissimo tempo del Rimini, per molto tempo del Barcellona, dove era stato allenatore proprio prima di venire in Italia. Scelse per la pensione la laguna di Venezia, con la moglie italiana, una pittrice-giornalista bella e intelligente. Prima c'era stata una moglie francese, poi una spagnola. Tanti figli, anche adottivi. Ma stiamo all'allenatore, il personaggio in lui decisamente preminente: Helenio Herrera ha anche allenato le Nazionali di Francia, di Spagna, d'Italia. Ha trasformato molti brocchi in campioni, magari per una sola partita, quella però che contava. Giocatori divenuti importanti devono a lui il soffio vitale che li ha spinti a osare e li ha portati a sfondare. I tecnici di tutto il mondo dovrebbero versare per lui una tangente sui loro stipendi, che Hh ha fatto crescere grandissimamente, visto che a un certo punto i club hanno dovuto colmare il gap fra i guadagni suoi e quelli ancora poveri, ridotti, in certi casi persino simbolici, dei suoi colleghi. Grande impresario di se stesso, grande alimentatore di polemiche, grande gestore di rivalità e immenso sfruttatore della parte buona, "attiva" di esse. Benefattore insomma, oltre che attore, del teatro del calcio italiano e mondiale, Helenio Herrera è stato, per tanti anni, personaggio come nessun altro prima di lui e dopo di lui. E' stato anche criticato e preso in giro, specie quando la sua anagrafe, fattasi pesante intanto che rimaneva misteriosa, lo ha handicappato in certe dirette televisive ingaglioffite. Una volta ci raccontò che in Francia stava per accettare di fare l'allenatore a Lorient, doveva fermarsi subito in quella cittadina, era pronto l'alloggio, guardò il cielo, chiese consigli a Dio, lui molto credente, ebbe la risposta dall'Altissimo, disse di no all'offerta. Il giorno dopo Lorient fu rasa al suolo da un bombardamento, colpita e distrutta anche la casa dove lui avrebbe dovuto trovarsi. Era il 1943, se si fanno i calcoli dell'età minima di un allenatore, pur precoce, si decide che lui è nato intorno al 1910, magari anche prima. Ma in francese, la lingua forse in lui primeggiante, c'è uno slogan che recita che si ha soltanto l'età delle proprie arterie. Suo padre era chiamato, in Argentina, Paco il Sevillano: l'origine del genitore e quindi anche la sua ci aiuta a scrivere senza arrossamenti eccessivi, sullo slancio di Lorca per Ignacio, che "tarderà molto a nascere, se nasce, un altro andaluso come lui". Tutto diverso Heriberto, che per un poco lo incrociò nel campiona- to italiano. Il ginnasiarca che la Juventus prelevò in Spagna era paraguaiano, praticava da single una vita quasi monastica, a parte il culto del buon whisky, imponeva ai giocatori una disciplina atletica tremenda, feroce, era per il calcio frenetico del "movimiento", la sua autentica religione atletica e persino etica. Decisamente meno pittoresco del rivale riuscí comunque a finire anche lui all'Inter (e all'Atalanta, e alla Sampdoria). Patí, nella Juventus, l'avversione di Sivori, argentino che Heriberto riteneva pigro e indisciplinato: ricambiò l'avversione, vinse lui, Sivori finí al Napoli e irrise al suo ex comandante legandosi lentamente, provocatoriamente le scarpe davanti a lui nel primo confronto diretto fra le due squadre, vinto proprio dalla squadra partenopea. Heriberto è morto solo, quasi dimenticato, dopo un bel po' di anni su una sedia a rotelle. Fu un uomo molto morale, sino al bacchettonismo, il quale ebbe la pretesa di imporre le sue teorie a un mondo immorale, dal quale comunque accettava il buono stipen- dio.

HEYSEL Triste tragica orrenda parola del calcio, a evocare una strage di tifosi, soprattutto italiani, avvenuta in quello stadio di Bruxelles in occasione di una finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool. Bisogna scriverla, bisogna sperare pregare agire scrivere fare perché la si tenga sempre presente, però senza mai doverne scrivere una di significato simile.

I

INCONTRISTA A Napoli uno che di professione combina o simula incontri importanti, per far vedere che conta e su questa base ottenere fiducia. Nel calcio il giocatore, solitamente di centrocampo (si presume che altrove la palla viaggi veloce, mentre a centrocampo procede incollata al piede dell'atleta), specializzato nel contrare l'avversario, cioè nell'eseguire su di lui il cosiddetto tackle (vedi), ma anche nell'intuire per tempo il passaggio breve e nell'intercettarlo, per fare ripartire l'azione della propria squadra. Incontrista vuol anche dire interditore (vedi). Non ha avuto per ora successo nel calcio la definizione di incontrista come colui che combina incontri: nel senso di appuntamenti ma anche di parti- te. C'è, questo colui, ma non si vede, ed è perciò difficile da incontrare, anche soltanto in un dizionario.

INDUSTRIA Il calcio ormai è un'industria. Amen. O, una volta di più, requiem. INGAGGIO Nello sport è un momento della sferistica, in fondo la madre di ogni gioco con la palla. Nel calcio è la cifra pagata a priori al giocatore perché accetti di passare a fine mese in società per ritirare i soldi delle piccole spese, cioè i premi e alcune frange dello stipendio, come viene definito l'ingaggio quando è frazionato di mese in mese, o di bimestre in bimestre, di trimestre in trimestre. L'ingaggio parla molte lingue, specie quelle bancarie del Liechtenstein, delle Bahamas, persino della vicina (diciamo del calcio italiano) Montecarlo. Dovrebbe essere al netto delle tasse, e dunque con versamento allo Stato delle imposte, per conto del giocatore: ma l'evasione è stata per troppo tempo una regola, e poi ci sono molte vie per fare sparire l'ingaggio all'estero, tutto o in parte. Comunque alla fine del millennio la trasformazione del calcio in industria ha significato un po' di trasparenza negli ingaggi, anche perché i soldi dati ai giocatori sono diventati cosí tanti che nasconderli tutti è diventato impossibile.

INGLESE Per tanti anni una cosa inglese è stata, nel mondo del calcio, una cosa buona e giusta. Poi una certa decadenza sul campo della Nazionale di quel paese, una pesante azione di pierre contro le intemperanze dei tifosi inglesi piú accesi, detti hooligans (la sommaria tradizione italiana in ulligani non ha avuto successo), ha fatto sí che l'aggettivo "inglese" non solo perdesse in forza e virtú, ma assumesse contorni balordi, inquietanti, persino biechi. Gli anni '80 sono stati quelli della demonizzazione del calcio inglese e - meno, però - britannico tutto. Poi ecco la ripresa, gli stadi riportati alla serenità da un'opera forte e precisa della polizia in collegamento con le società e con le organizzazioni one- ste degli stessi tifosi, ecco il moltissimo denaro della televisione e della borsa e del merchandising, e insomma l'aggettivo "inglese" ha ripreso forza viva e positiva. Il gioco all'inglese comunque è sempre restato eguale a se stesso: cioè duro ma non cattivo, sfrontato ma leale, aggressivo ma aperto. Un po' troppa velocità, un po' troppo atletismo, poca tecnica raffinata, pochissima tattica sofisticata. Grande rispetto dell'arbitro, anche se incapace. Grande culto della birra nello spogliatoio. Giocatori straordinari sui loro campi, con i loro schemi, e sperdutissimi fuori d'Albione. Pubblici caldi a casa loro, scottanti non appena si mettono in viaggio. Comunque, ancora e sempre, stadi senza reti fra la gente e il terreno di gioco, una sorta di lezione permanente alle tifoserie non inglesi, non britanniche. E uno dei grossi positivi problemi del calcio di lassú è, in assenza di reti divisorie, la protezione del pubblico quando un giocatore (magari francese, il caso Cantona) si avventa su uno spettatore.

INQUADRATURA Di solito da quella inquadratura, quella lí proposta dalla televisione, non si vede bene se era rigore oppure no, o se il fuorigioco c'era davvero.

INSIEME Il gioco d'insieme è frequentato a parole da tutti, ma forse nessuno sa bene cosa sia. Teoricamente dovrebbe essere il contrario del gioco individuale, ma non risulta che quando si tratta di spingere la palla in porta i giocatori impegnati in quel compito siano piú di uno. Anzi, quando per caso sono due la gente urla affinché uno si tolga di mezzo. E poi i due bisticciano su chi ha toccato per ultimo la palla del gol. L'insieme è la squadra, il complesso, il collettivo. Nasce dall'armonia, dall'intesa, dallo spirito di gruppo, dalla pratica comune, da ordine dell'allenatore. O nasce per partenogenesi. Veda un po' ognuno di voi, e decida per conto suo, senza cercare l'insieme con altri.

INTERDITORE L'incontrista, però se si usa una volta incontrista una volta interditore, a proposito di due giocatori diversi, si acquisiscono molti punti nella classifica virtuale ma importantissima di esperti di calcio. Se proprio si vuole sottilizzare, si dica che l'interditore può anche fare bene il suo lavoro lontano del centrocampo, per esempio sul limite della propria area di rigore, mentre l'incontrista ha uno spazio piú limitato ancorché, dicono, piú nevralgico in cui agire. Il perché della distinzione, ovviamente, è ignoto. INTERNATIONAL BOARD L'ente britannico che da sempre decide le regole del gioco del calcio, regole alla cui marmoreità si ascrive una vasta parte del successo del gioco stesso. Pochi sanno cosa sia, come sia fatto questo International Board, al quale comunque anche secondo noi il mistero si addice piú della piena epifania. E poi, tanto, decide tutto l'arbitro, che è sempre contro la squadra per cui tifiamo noi.

INTERNO Il nome con cui una volta veniva talora designata la mezzala (vedi). Ora lo si usa poco, anche perché la mezzala è stata frazionata in tanti giocatori, magari diversi soltanto per sfumature semantiche. L'interno ha patito un declino parallelo e simmetrico a quello dell'esterno: ma ritornerà in qualche definizione, sottigliezza, sofisticazione prossima ventura.

ITALIANA Gioco all'italiana, si dice, intendendo un gioco pratico, prudente, difensivista, opportunista, foriero di successi risicati ma costanti. Nel nome del gioco all'italiana il calcio straniero ha fatto miliardari non pochi nostri bipedi, sommergendoli di denaro, come se dovessero assolvere anche alla funzione di insegnanti, di dimostratori. E al gioco all'italiana si sarebbe dovuto convertire di fisso, per ottenere finalmente successi mondiali, anche il fantasioso Brasile. Sí, molto probabilmente il gioco all'italiana esiste, non è un fantasma piú o meno inamidato. Però farne oggetto di profondo stu- dio forse è stato troppo, anche perché, essendo poco creativo, non presenta grandi agganci didattici e didascalici. C'è persino il sospetto che il gioco all'italiana sia stato inventato da Gianni Brera soprattutto per poter fare a pugni, in suo nome, con l'odiato Gino Palumbo, nella piú ardente vicenda calciogiornalistica della storia italiana di carta.

J

JUVENTUS E che, adesso ci mettiamo anche a definire la Juventus?

L

LADY La moglie del presidente. La prima nostrana, negli anni '60, fu Erminia Moratti, detta Lady Real perché l'Inter di suo marito Ange- lo aveva sconfitto il grande Real Madrid (vedi). Poi il soprannome è stato usato con servilismi ed eccessi vari, sino a che non è arrivata Lady Thatcher, a fare cose serie e a dimensionare le lady (o ladies) nostrane troppo repenti.

LAVAGNA Strumento didattico essenziale nello spogliatoio (vedi) di una squadra di calcio, anche se poi ci si scrivono sopra quasi esclusivamente messaggi per i massaggi, convocazioni per le tra- sferte e magari promemoria di passare dal callista. Ogni allenatore che si rispetti e che non rispetti l'intelligenza dei suoi giocatori non rinuncia alla lavagna, sulla quale finisce sempre per scrivere qualcosa di secondo lui importantissimo e che gli atleti devono mandare a mente, altrimenti finiscono come gli asini dietro la lavagna, il che poi vuol dire in panchina o addirittura in tribuna. Lo schema (vedi) scritto, disegnato, spiegato alla lavagna è in effetti una tentazione troppo forte. Se comunque sulla lastra di ardesia nera, che ha resistito per anni all'avvento delle lavagne elettroniche, si affidano soprattutto comunicazioni banali però fortemente visive, ogni tanto c'è pure estro e spazio per frasi psicologicamente decisive, miniate da lunghe esperienze culturali, tipo "chi desiste dalla lotta è un gran figlio di mignotta" o anche "forza ragazzi che loro sono nessuno".

LEAGUE Parola inglese traducibile in lega (vedi). Abbastanza stranamente, la parola viene pronunciata bene in italiano, a patto che sia usata con il prefisso "champions", campioni: grosso modo cempionslígh, da champion's league, per dire Coppa dei Campioni.

LEGA Unione, coacervo di persone o enti. Nel calcio professionistico l'assemblea permanente delle società, che fanno appunto lega contro due entità formalmente amiche, sorelle, in realtà odiatissime: nell'ordine la federazione e l'Associazione dei calciatori. La Lega, con ormai la maiuscola fissa, mentre federazione si permette ancora il vezzo della minuscola, ha un solo scopo: quello di far ottenere alle società piú soldi possibili, dal Totocalcio o dal Coni, che è la stessa cosa, dalla televisione, dagli sponsor, insomma da chiunque passi di lí.

LEGGENDA Nello sport e quindi anche nel calcio le imprese piú documentate che ci siano. Un gol da leggenda è quello proiettabile su un video mille volte di seguito, ripreso da tre inquadrature diverse, come minimo, e offerto anche al rallentatore. Lo spartiacque fra leggenda leggendaria e leggenda televisiva è collocabile grosso modo a metà degli anni '70, quando la documentazione prese a essere ottima e abbondante. Da allora la carenza o l'assenza di documentazioni filmate sui grandi del passato ha rafforzato il loro alone mitico personale, intanto che è però calato l'apprezzamento generale del calcio dei loro tempi. Grosso modo si ammette che un calciatore da leggenda di una volta possa ancora esserlo adesso, a patto però di allenarsi come una bestia e ovviamente di non giocare in quella squadra lenta in cui giocava una volta: a meno di avere contro, in regalo straordinario, una squadra altrettanto lenta. Il massimo giocatore da leggenda è stato forse l'uruguaiano di colore Andrade, stella delle Olimpiadi di Parigi 1924, poi concorrenziatissimo dall'argentino Pedernera, "mascherato" al pubblico europeo dall'ultima guerra: di Pedernera si dice ancora che sparava tiri cosí forti da metà campo che la palla, picchiando sulla traversa, gli tornava fra i piedi, cosí che lui potesse ripetere il tiro, questa volta con ancora maggiore precisione. Leggenda italiana Levratto, fine anni '20, del quale si narra che con i suoi tiri forasse le reti, e che i portieri scappassero dalla porta quando lui avanzava verso di loro palla al piede. La sequenza televisiva di maggiore forza leggendaria nel calcio moderno è quella del gol di Maradona (vedi) agli inglesi nella Cop- pa del Mondo giocata in Messico nel 1986, alla fine di una lunga portentosa avanzata attraverso quasi tutto il campo, peraltro fra avversari leali che una volta messi fuori combattimento da una finta facevano l'inchino al grande di Argentina, in piena furia di vendetta dopo che il suo paese aveva perso appunto contro l'Inghilterra la guerra delle Falkland o Malvine che dir si voglia. In quella stessa partita Maradona ha anche segnato, ingannando arbitro e guardali- nee, un gol di mano ("la mano di Dio", lui precisò), entrato nella leggenda delle scuole per la formazione dei ladri.

LIBERO Una delle parole piú interessanti del lessico calcistico, cominciando già dal controsenso che ospita: perché il ruolo di libe- ro significa l'attribuzione di un compito assai obbligato, tanto è vero che quando qualche libero famoso (ad esempio Picchi dell'Inter) è stato costretto per un'intera partita a rimanere inoperoso davanti al suo portiere, mentre la sua squadra andava all'attacco, è scoppiata la polemica sull'inutilità del calciatore definito - in quel caso molto impropriamente - uomo in piú (vedi), cioè elemento ideale per l'introduzione nel gioco di qualcosa di nuovo e magari anche di decisivo ai fini dell'esito dalla partita. L'idea del libero apparteneva già negli anni '30 al catenaccio (vedi) svizzero di Rappan, detto anche alla francese verrou. Un uo- mo alle spalle dei difensori, un nuovo difensore, inventato al di là dei ruoli consueti, per reggere agli assalti avversari. Lo sviluppo del concetto è però soprattutto italiano. E c'è persino un padre, Gipo Viani, veneto di Nervesa della Battaglia, chiamato forse dal nome forte del suo paese natale a sfoggiare un temperamento bellicoso abbastanza estraneo alla sua indole primigenia, godereccia e pacio- sa. Viani nel dopoguerra allenava la Salernitana, e siccome la squadra andava male lui non dormiva la notte, e all'alba era già sul molo del porto della città campana, ad assistere alle manovre dei pescatori. Scoprí cosí che costoro sistemavano una rete a maglie strette intor- no alla grande rete per la pesca di "pezzi" importanti, a evitare che i pesci piccoli scappassero via. Il libero che lui prese a schierare era l'equivalente umano, sul campo di gioco, di quella rete bis. Garantendo meno gol, con i suoi interventi di regola abbastanza comodi sull'avversario "sopravvissuto" a dribbling, tackle ed eventualissima aggressione del difensore addetto al suo controllo, il libero ebbe subito vasta popolarità, e per passare di moda, o subire una revisione dei propri compiti, essenzialmente difensivi e quindi, in certe partite, relativamente impegnativi, dovette attendere, negli anni '70 e specialmente '80, l'erompere del gioco a zona (vedi), senza un padre certo dal momento che piú o meno consciamente era stato praticato da tante squadre per tanti anni. Il libero rimase, ma con compiti anche di costruzione, di organizzazione del gioco: e qualcuno scoprí che negli anni '30, dopo il periodo del gioco preistorico, neandertaliano e prima dell'avvento del sistema, gioca- va cosí il centromediano metodista. L'Italia è stata terra di grandi interpreti del ruolo di libero, su tutti della Juventus, morto prematuramente in un incidente, e del Milan. Questi due, insieme con il tedesco Franz Beckenbauer, hanno offerto al calcio mondiale la recitazione massima possibile, Scirea e Beckenbauer sul piano pri- ma tecnico, addirittura stilistico, che agonistico, Baresi sul piano prima agonistico, sino a ottenere il soprannome di "Guerriero". Il ruolo ha permesso anche il riciclaggio di giocatori anziani, magari consumati in altri ruoli ma ricchi, ricchissimi di esperienza: sí, perché il libero lavora tutto sui piazzamenti, sulle intuizioni, sulla praticaccia, con risparmio attento del fiato, con interventi millimetrici. La parola è entrata nel lessico internazionale con una forza ben maggiore di balayeur, scopatore, il nome in fondo del primo libero, quello inventato da Rappan. Per estensione, un portiere (vedi) abituato a intervenire spesso e volentieri di piedi o anche di testa, magari con uscite spericolate (vengono definite cosí, nel calcio, quelle calcolate al millimetro) è stato spesso definito secondo libero della squadra: il tutto mentre si infittivano i divieti regolamentari relativamente alla sua attività diciamo cosí costituzionale, cioè quella di intervenire con le mani, rendendolo sempre meno libero di agire come portiere vero e proprio.

LIEDHOLM Svedese, ex calciatore, mai ex allenatore se è vero che nel 1997, a 75 anni, è stato chiamato dalla Roma a supervisionare la squadra giallorossa in crisi. Arrivato da noi nel 1949, con già una robusta fama dovuta ai Giochi olimpici di Londra 1948, vinti dalla sua Svezia, ha offerto al Milan la sua grandissima classe e la sua sensazionale regolarità atletica, nel ruolo di mediano-mezzala (vedi) o se preferite di centrocampista, dando vita, con i compatrioti Gren mezzala come lui, però piú avanzata, e Nordahl centravanti, al trio Gre-No-Li, firmatario di tanti grandi successi rossoneri. Da allenatore Liedholm ha spezzato il pane della sua scienza presso il Milan, il Varese, la Fiorentina, il Verona e la Roma. Ma sono stati soprattutto i suoi andirivieni da Milano a Roma a movimentare la scena panchinara italiana. Personaggio eccezionale, è persino riuscito nell'impresa di fare, anzi di farsi, lui scandinavo pressoché astemio, produttore di vini del Monferrato, grazie al matrimonio con una fine nobildonna piemontese esperta di uve e non inesperta di calcio. Il suo soprannome di Barone non deriva comunque dal matrimonio, bensí dalla sua signorilità, anche, si capisce, sui campi di gioco. Ha guadagnato moltissimo ed ha sempre speso molto di se stesso nei rapporti uma- ni, coltivando le amicizie, venerando l'educazione, marmorizzando be- ne i ricordi. A settant'anni era ancora uno dei migliori tiratori di punizioni d'Italia. E' stato sempre ragionatore, loico, pragmatico, anche se non ha mancato mai di consultare l'astrologia, e specialmente un astrologo di Busto Arsizio presso Milano. E anche se ha spesso prediletto i calciatori nati sotto il segno dello Scorpione. In mezzo secolo d'Italia è riuscito a non imparare perfettamente l'italiano, concedendosi e soprattutto regalando ai suoi interlocutori deliziosi errori di pronuncia. Ha sempre dato vaste interviste ai giornalisti, quasi tutti suoi ammiratori e poi amici, rispondendo a ogni quesito ma lasciando, alla fine, i poveri scrivani nell'impossibilità di scrivere, per non dare vita a un articolo ovvio. O comunque, se proprio l'articolo è stato scritto, nell'impossibilità di dare a esso un titolo forte, cattivante. Liedholm non è mai stato diplomatico, non mai ruffiano, ma sempre ha diluito le polemiche nello humour, le rabbie nei sorrisi, le critiche nelle discussioni. Ha lavorato con intelligenza per rimanere sereno nella vita di tutti i giorni, esattamente come faceva da calciatore per rimanere calmo a centrocampo, e caricare i piedi per passaggi e tiri.

LIGA La lega in spagnolo. Si usa la parola quando ci si accinge a sedersi davanti al video per la partita fra Real Madrid e Barcellona. LINEA In linea (appunto) di massima, dovrebbe essere - calcisticamente parlando - la riga di gesso che definisce i vari settori del campo. Ma c'è anche, dicendo di gioco e di giocatori, la linea difensiva, la linea offensiva. Ci sono i giocatori in linea, dovrebbe essere una cosa semplice spiegare il come, ma nessuno ci riesce e fra poco nessuno piú ci proverà. Una volta esisteva nel calcio anche la linea intesa come comportamento, umano e sociale: è stata completamen- te soggiogata e svilita dalla ben piú importante linea di abbigliamento dei giocatori sponsorizzati da stilisti famosi.

LIPPANTI I giocatori restituiti all'onore del gran mondo calcistico da , con il loro saggio impiego nella Juventus, o anche i giocatori che Lippi ha autenticamente lanciato. Insomma, quelli che hanno firmato con lo stesso Lippi una sorta di patto di collaborazione, di dedizione, di professionalismo eccetera, capace di resistere alle infinite trappole del calcio italiano, anche se incapace di resistere alle offerte faraoniche del calcio straniero, come Vieri (vedi).

LIPPI Marcello, toscano di Viareggio, ex giocatore della Sampdoria, allenatore della Juventus che l'ha prelevato dal Napoli vincendo una colossale scommessa, visto che lo si pensava non abbastanza astuto per i grandissimi palcoscenici. Capace di vincere tutto, o quasi, rimanendo, se non tremendamente modesto (il che può anche signi- ficare falsamente modesto), capace di separare i valori calcistici dagli altri, o di farli comunque pervadere dagli altri. Capace di dialoghi intelligenti anche e soprattutto dopo le sconfitte. Capace di restare simpatico a tutti, non arrabbiandosi neanche quando lo paragonano a Paul Newman, del quale invece è molto piú bello.

LOTTERIA Lo sport italiano si regge, tramite il Coni, su una lotteria, chiamata Totocalcio, che è sorretta dal calcio. Dunque il calcio regge tutto lo sport italiano, che però in difetto dovrebbe essere retto, in qualche modo, dallo Stato, magari con l'invenzione di qualche altra lotteria, visto che da noi non si concepisce lo sport aiutato perché sí, perché è sport e aiutarlo fa bene a tutti. Nel calcio giocato è venuta di moda, negli anni '90, la lotteria dei rigori, cioè l'effettuazione di una serie di tiri, di regola cinque, dal dischetto, quando la partita - di finale, o a eliminazione diretta - è finita alla pari anche dopo la disputa dei tempi supplementari, solitamente di un quarto d'ora l'uno. La squa- dra che vince la partita ai rigori parla di tiri effettuati freddamente da giocatori bene preparati psicofisicamente alla bisogna, freddi, assolutamente non in debito di ossigeno. Compreso fra di essi, si capisce, il portiere, che è riuscito a dire qualche no agli avversari. La squadra che perde parla di assurda, ignobile, ingiusta lotteria tutta intonata all'azzardo piú bieco. E di strepitoso culo (in quei momenti si può usare questo termine) del portiere rivale.

M

MAGLIA La categoria che attualmente ama di piú la maglia, nel mondo del calcio, è quella dei tessili produttori. Poi quella degli stilisti innovatori. Poi quella dei tifosi collezionisti di maglie. Poi quella degli sponsor che alle maglie affidano i loro messaggi. Poi quella dei presidenti che al fascino delle maglie affidano il loro. Poi, forse, quella dei giocatori. Una volta la maglia per il suo portatore era il tutto, dal punto di vista sentimentale. Ora il concetto è in piena decadenza, e rimandiamo per esercizi di tristezza alla voce Colore. Una data ufficiale per la fine del vecchio concetto di maglia può essere il 2 luglio 1997, giorno in cui la Juventus ha annunciato la cessione del cartellino (vedi) dell'attaccante all'Atletico di Madrid, per la cifra di 34 miliardi di lire, record italiano per un italiano, e l'allenatore della stessa Juventus, Lippi, ha onestamente ammesso che ormai i calciatori rispondono professionalmente del loro impegno per la durata del contratto, o meglio ancora per la serie di partite che devono disputare, e basta, ogni altro concetto di amore per la maglia è arbitrario nonché sdatato. Cosí è pure memoria fossile quella delle maglie celebri del calcio italiano, e sono da libro Cuore però non piú pubblicabile le storie di calciatori che si portano a letto la maglia, che la dicono tatuata sulla loro pelle, che la baciano piangendo. Il bacio alla maglia viene casomai effettuato in caso di sponsorizzazione anche della canottiera, la seconda maglia, la cosiddetta "maglietta della salute", che le mamme specie italiane impongono ai pargoli, alcuni dei quali non riescono piú a lasciarle per tutta la vita (le fotografie dello scambio di maglie, a fine partita, fra giocatori di due squadre che hanno lottato duramente e però lealmente, e voglio- no conservare un ricordo di quella contesa, mostrano spesso italiani con la "canotta" e stranieri a torso nudo, dopo la svestizione). Perché bacio in caso di sponsorizzazione? Per alzare la maglia, con il pretesto di baciare chissà perché il lembo inferiore, e cosí mostrare appunto la canottiera con la marca. La prova di questo è fornita dal fatto che mai gli organi federali sono intervenuti contro questo tipo di sollevamento di maglia, mentre hanno tuonato quando qualche - rarissimo - calciatore ha alzato la maglia per mostrare una t-shirt con su una scritta di valenza politica o di impegno sociale o di appello per qualche caso umano. Lo scambio di maglie di regola implica un piccolo salasso finanziario imposto dalla società al calciatore che non restituisce la maglia nello spogliatoio. Robetta di fronte ai miliardi che lui guadagna, ma come si sa sono le questioni di principio che impediscono o ritardano la fine. Il calciatore poi deve o vuole dare la maglia-ricordo a un amico, un ente benefico, un giornalista, un dirigente. E che paghi, allora! Ci sono calciatori che sudano dentro due maglie, una per tempo, cosí da poter accontentare piú persone, indifferenti alla spesa. Ce ne sono che ottengono gratuitamente maglie dagli sponsor, e magari fingono di averle benedette col loro sudore lustrale. Ce ne saranno che, allargandosi questa faccenda delle maglie ricordo, curiosamente in parallelo con il crollo del concetto classico di maglia, intesa come simbolo di una fedeltà, di un amore, metteranno la disponibilità di un certo numero di maglie per ogni partita nel contratto, sempre piú blindato, per i campioni famosi, di clausole che facciano sempre piú ricchi i vitellini d'oro, piú belli- in questo caso di sentimenti - i cocchi belli.

MANAGER Deve essere general, sennò non conta, nel caso almeno che sia addetto a un club calcistico. Può essere manager e basta se addetto a un giocatore, a un gruppo di giocatori. Una volta le società sportive avevano un segretario, neanche generale, che faceva tutto. Poi il segretario ha preso una, due, tre segretarie, talora anche un vice, ed è diventato generale. Poi è arrivato uno a comandare al segretario, appunto il general manager, ultimamente anche direttore generale, con una straordinaria affrancatura dalla lingua inglese, rispetto alle nostre becere e bischere abitudini servili. Il general manager fa tutto, anche se è impossibile dire cosa faccia, tutto fuorché comandare gli allenamenti. Anche se spesso è lui che comanda l'allenatore. Il general manager deve guadagnare molto, sennò i giocatori lo ritengono un morto di fame e lui fa una figuraccia quando commina multe che gli altri pagano sghignazzan- do, oppure non pagano per niente. Il general manager deve cambiare spesso società, sennò si comincia a pensare che si tratta di un sentimentalone, facile da fregare. Il general manager deve ricordare il giorno dell'onomastico (mai del compleanno) della moglie del presidente, e inviarle un grandissimo mazzo di fiori, meglio se a spese della società. Un general manager deve essere bugiardo, spe- cie con i giornalisti, fuorché quando dice, a cena, "pago io il conto", ché in questo caso la bugia, di solito ritenuta un suo prezioso abbellimento, non gli viene consentita, nel senso che lui alla fine deve proprio pagare. Il general manager è sempre in viaggio, di corsa, in riunione, in missione, in esplorazione, in convegno, in linea, al telefonino. Non ha orari. Qualcuno pensa, ma non lo scriverà mai, che il general manager è come i militari, che non hanno niente da fare ma si alza- no prestissimo per farlo.

MANO Parte del corpo fondamentale per un calciatore, almeno nel caso di una mano, quella che tiene la penna per la firma del contratto, direttamente con il club e con lo sponsor, o indirettamente con il manager che cosí assume la delega di impegnarsi con il club e con lo sponsor per conto dello stesso calciatore. L'impegno enorme per firmare il contratto fa sí che poi il calciatore sia felicissimo di praticare uno sport che esclude l'uso delle mani, cosí che gli arti preziosi possano riposare ed essere pronti per la firma di un altro contratto, con lo sponsor o con un nuovo club. Che dire però dei portieri, che devono usare le mani in gioco? Pensando a come sono preziosi per una squadra e a come hanno tut- to sommato poco mercato, cosí che un portiere che sicuramente evi- terà alla squadra dieci gol guadagna di meno di un attaccante che forse ne farà cinque, e pensando anche alla salvaguardia delle mani come strumenti di lavoro, da non deteriorare con esercizi non specifici, si capisce perché tanti contratti di portieri sembrino firmati con i piedi. Frase tipica di un giocatore quando l'arbitro assegna un rigore contro la sua squadra perché il pallone è finito sul braccio suo (del giocatore): "Non posso mica tagliarmi la mano!".

MANTO Nel calcio è erboso. Anche e specialmente quando l'erba non c'è.

MARADONA Uno dei piú forti calciatori di ogni tempo, nonostante la pancia e altri problemi. Argentino di vaghe origini italiane, ha giocato inizialmente soltanto per squadre di torbide città portuali: Argentino Juniors e Boca Juniors a Buenos Aires, Barcellona a Barcellona, Napoli a Napoli. Quando stava per passare, secondo un itinerario logico, a Marsiglia, ha tergiversato e da lí è cominciato il suo destino balordo, con problemi di polvere nel senso di carriera incautamente sbriciolata e anche di cocaina, polvere bianca. E' stato un grandissimo calciatore, capace di giocate che forse nemmeno Pelé (vedi). Gli è mancata la testa, in tanti sensi, compre- so quello del colpo di testa in partita (in vita diciamo borghese ne ha fatti tanti, però mai belli). Ha frequentato molte stranezze, frivolizzate da quella, superiore a ogni altra, di chiamare Dialma e Gianinna le sue due figlie: i nomi, e specialmente quello della seconda, con la poltiglia di "n" in accoppiamento nuovo, hanno intrigato molto i cacciatori di simboli, i safaristi delle seconde e terze e decime intenzioni. La vicenda di Maradona è stata didascalica nel bene e poi nel ma- le: perché il calciatore è stato simbolo dell'ascesa del povero e poi dello scivolone del poveraccio. Cosí che di lui si è scritto tutto il bene e il male del mondo del calcio. La sua vicenda ampia, il poliedro sfaccettatissimo della sua vita, hanno richiamato attenzioni da parte di psicologi, sociologi e tanti altri "òlogi", compresi gli antropologi quando lui ha sparato ai giornalisti con un fucile, realizzando il sogno umanissimo e quasi umanistico di tanti calciatori. La città che piú lo ha segnato, e in tanti sensi, è stata Napoli, dove ad un certo punto la camorra è sembrata capace di avviluppare anche lui, ma dove la gente lo ha fatto sentire grande ed essenziale come neanche nella sua Argentina. Ognuno - dirigente o tecnico o giornalista o tifoso - di quelli che hanno avuto professionalmente o sentimentalmente a che fare con lui, pensa di essere, con Maradona, in debito e intanto in credito, perché ognuno ha da lui avuto molto e molto gli ha dato, se non altro in attenzioni. Il pensiero di cosa Maradona avrebbe potuto fare, in campo e fuori, se avesse avuto il cervello e la modestia di un Pelé, non deve comunque essere assorbente: perché se avesse avuto un al- tro cervello Maradona non sarebbe diventato, nel bene e nel male, Maradona, e tutti ci avrebbero rimesso qualcosa fuorché - forse - lui.

MARATONETA Nel calcio il giocatore che corre molto e che comunque a fine partita rimane sufficientemente lucido per dire che ha corso molto. Un'altra delle frasi che orpellano il suo personaggio è questa: se fosse pagato a chilometro, sarebbe quello che guadagna di piú al mondo. Di solito lavora molto perché qualcuno provvisto di mag- gior talento possa riposare in partita e riservarsi per portare qualche affondo da artista. Cosí maratoneta può anche nel calcio voler dire fesso, cosa che in atletica, dove il maratoneta è un re della fatica piú vera, non accade mai.

MARCAMENTO Il controllo stretto, serrato, con contatto sovente fisico, di un giocatore nei riguardi di un altro, a costo di praticare un gioco duro e magari sleale. Il marcamento nasce come impegno tattico, poi si evolve e degenera in impegno esclusivamente atletico.

MARCATORE Quello che effettua il marcamento, ma anche quello che segna un gol. In embrione c'è il marcattore, cioè il calciatore capace di recitare scenette utili alla marca dell'indumento che indossa, o comunque della sponsorizzazione che lo indora. MARTELLINI Nando, radiotelecronista, annunciatore proclamatore declamatore, in diretta per la televisione, del successo del calcio azzurro ai Mondiali 1982. Di meglio, di piú non si può sognare, almeno nel mondo del pallone. Carosio lo fece due volte, ma soltanto per radio (o addirittura per radio, vedete un po' voi).

MASSAGGIATORE Uno che ha sacrificato al calcio una carrierona come sprinter nell'atletica, riservando le sue capacità di podista veloce allo scatto per andare dalla panchina al posto dove si contorce il giocatore vittima solitamente di un pizzicotto o anche qualcosa di meno. Il massaggiatore fa quello che decide sia buono per il "ferito" (di solito un po' d'acqua sulla parte dolente), mentre il medico sociale, che è arrivato poco dopo di lui, cerca aria, in pieno debito di ossigeno, muovendo la testa e facendo credere che assentisca. Il massaggiatore opera anche nei giorni feriali, dedicandosi a operazioni varie sui muscoli dei giocatori, ed eseguendo magie di vario tipo, con l'uso delle mani o di prodotti segreti. Pare che sia anche il confidente massimo dei giocatori, nonché la vittima preferita dai loro scherzi. Guadagna abbastanza poco, con il calcio, ma si fa il nome e la cosiddetta clientela, ad esempio dirigenti e mogli di dirigenti (mogli di calciatori no, sarebbe troppo avere sotto mano le carni nude di lui e di lei). Una volta portava pure le valige del giocatore celebre: come tanti altri al mondo, è stato rovinato dalla meccanizzazione, che spesso prende in consegna i bagagli al raduno di partenza e li fa trovare nella camera d'albergo.

Il massaggiatore è ogni tanto sospettato anche di pratiche dopanti, ma giusto perché bisogna sospettare qualcuno di un fenomeno nega- to ma esistente. Secondo noi, il massaggiatore indulge al doping, ma soprattutto per se stesso: per reperire cioè le forze per massaggiare un bel po' di persone in poco tempo.

MATARRESE Antonio, barese, di famiglia imprenditorialmente forte assai, tanto è vero che si è detto di "Kennedy delle Puglie", però senza killer di contorno. Presidente della Lega e poi della federazione, ha fatto di tutto, sostenendo Sacchi (vedi) commissario tecnico azzurro come se fosse un suo fratello sfortunato da aiutare a ogni costo, finendo per irrorare di antipatia se stesso e Sacchi. La storia, prima e dopo di lui, ha provveduto e provvederà a far sapere che non è stato il peggiore presidente del calcio italiano, anzi. E questo deve essere motivo di soddisfazione almeno relativa per lui e di preoccupazione per noi. Si è riempito di colpe anche non sue: da arrampicatore per conto proprio a parafulmine, quando se ne è andato, per conto di una struttura federale che lui ha messo su e che ha tenuto, nonostante la voglia della lega di prendere spazio. Come per molti che non fanno bene, quando se ne è andato via dal posto di presidente c'è stata persino la scoperta della nostalgia per un bersaglio cosí facile e tutto sommato cosí generosamente esposto.

MATCH L'equivalente inglese di partita (altro significato inglese è quello di fiammifero, ma usato sempre al plurale, matches). Però il termine "match" sembra piú forte, meno equivoco (partita in fondo può anche essere participio passato femminile del verbo partire), e di solito viene usato per dire di partite tese. Si attende la partita, si vive, si disputa il match.

MATTHEWS Stanley, baronetto inglese, il "sir" del calcio. Ha giocato a cinquant'anni in serie A. ala destra, ha portato il verbo del calcio in tanti paesi del Commonwealth. Per l'Italia è stato il simbolo di una umiliazione: Italia-Inghilterra nel 1948 a Torino, 4 a 0 per loro, i "maestri", e Matthews che, davanti al terzino azzurro, si pettinava, sia pure con le mani, prima di eseguire una finta e andare via.

MAZZOLA Inteso come Valentino, il piú forte giocatore del Grande Torino, di cui era capitano, trascinatore, capotribú eccetera. Grande mezzala, capace di galvanizzare i compagni, di segnare gol decisivi, di dare una mano al proprio portiere. Si era impegnato con Ferreira, nazionale portoghese, a portare il Torino alla sua festa d'addio, lui aveva la febbre e aveva disertato l'ultimo incontro di campionato ma aveva fortemente voluto partire egualmente per Lisbona. Il volo di ritorno fu quello della tragedia di Superga. Di Mazzola Boniperti ha raccontato: "In un derby avevo calciato a colpo sicuro, stavo per festeggiare il mio gol per la mia Juventus, quando sulla linea della porta granata si materializzò Mazzola, che fermò il mio tiro. Mi presi la testa fra le mani per la disperazione, delusissimo mi girai e presi a trotterellare a testa bassa per uscire dall'area di rigore. Pochi secondi, alzai gli occhi e Mazzola era laggiú che segnava un gol alla mia squadra". Inteso come Sandro, figlio di Valentino, Mazzola è un fortissimo calciatore capace di fare strada nonostante la zavorra del grande nome paterno, con l'Inter dominatrice degli anni '60, e per tre lustri, alimentando una rivalità tutto sommato produttiva con (vedi) e, meno blandamente, con Gianni Rivera (vedi). Un fratello di Sandro, Ferruccio, pur avendo talento non ha avuto tenacia, oppure piú semplicemente non ha avuto fortuna. Ma due fi- gli d'arte sarebbero forse stati troppo per il mondo dello sport, di solito diffidente già se il figlio è uno.

MEDIA Sino a pochi anni fa era parola in qualche modo inglese: vincere in casa e pareggiare fuori casa significava, in media inglese, restare a zero e il piú delle volte questo bastava per vincere il campionato. E alla fine la classifica secondo la media inglese coincideva con quella creata dall'assegnazione di due punti alla squadra vincente e di uno a quella pareggiante. Poi l'avvento dei tre punti per la vittoria contro il punto per il pareggio ha cambiato l'importanza del successo, premiandolo molto rispetto al pareggio, e di media inglese si è preso a parlare meno. Intanto però nello sport e perciò anche nel calcio ha preso vistosità il termine media inteso come insieme dei mezzi di comunicazione. Il plurale latino della parola medium è stato subito usato da molti, naturalmente con la soggezione cretina abituale nostrana all'esterofilia: e cosí lo pronunciamo midia, come se si trattasse di inglese e non di latino, e rinunciamo a una parola nostra, anzi dei nostri progenitori.

MEDIANO Lo dice la parola stessa: giocatore da metà campo. Una volta era cosí, poi il mediano è diventato di spinta, di interdizione, di regia, di costruzione, con una scelta enorme di vie mediane nel sen- so di vie di mezzo, anche lessicali, per dire di chi a metà campo ha tante belle cose da fare.

MEDIATORE Come nella vita di tutti i giorni, la persona che fa, non sempre gratis, da collegamento tra altre due, cercando un accordo fra di esse e smussando angoli, eliminando spigoli, dissipando incertezze. Nel calcio sono possibili e spesso necessarie mediazioni di vario tipo: fra giocatore e giocatore compagno di squadra o avversario, fra allenatore e giocatore, fra presidente e allenatore. La piú difficile è quella fra brocco e pallone.

MEDICO Se quello lí fa il medico della squadra, e ha tempo da perdere dietro i giocatori, vuol dire che nella professione è un fallito o uno che cerca pubblicità: con questa frase, spesso detta ad alta voce, molti nel calcio liquidano la presenza in panchina (vedi) di un sanitario anche di valore, di una eminenza della medicina, di un primarione che rinuncia magari a visite extra pagatissime pur di seguire la squadra del suo cuore e offrire a essa quello che può della sua competenza, della sua scienza, della sua esperienza. Il medico calcistico ha una caratteristica fondamentale: nelle gare di corsa a piedi è sempre battuto dal massaggiatore. Queste gare avvengono la domenica, in stadi affollatissimi di spettatori urlanti e magari fischianti, quando dalla panchina il medico e il massaggiatore scattano insieme verso il calciatore che dopo lo scontro con un avversario si dimena al suolo, oppure giace come morto. Il via viene dato dall'arbitro il quale, dopo una sommaria valutazione della gravità dell'incidente, fa segno ai due che possono scattare. Il medico, detto anche sociale, per distinguerlo dagli specialisti ai quali la società fa riferimento, per i problemi fisici dei suoi calciatori, durante la settimana, deve innanzitutto eseguire una diagnosi volta a decidere se il giocatore sta simulando un dolore terribile, straziante, sta simulando addirittura la perdita dei sensi, o se effettivamente sta male. Il fatto che nel novantanove per cento dei casi il giocatore simuli non esenta il medico dalla massi- ma attenzione al caso, dalla massima serietà nel considerare le reazioni, o le non reazioni, dell'atleta in questione. Il problema massimo sorge per il medico non quando il giocatore può anche avere una gamba rotta, ma quando il giocatore ha preso da un avversario un colpetto sul viso, un buffetto, o ha addirittura simulato il contatto, ed è finito ko come sotto i colpi di un Tyson anzi un Holyfield del football, oppure sta contorcendosi disperatamente, tenendosi la testa fra le mani. Il medico guarda il massaggiatore che guarda la borsa con la panoplia del pronto intervento e si preoccupa perché la scritta dello sponsor sia in posizione tale da apparire nella ripresa televisiva. Impossibile chiedere qualcosa al ferito, o presunto tale, perché intorno ci sono arbitro e avversari pronti a catturare sue frasi compromettenti. Pericoloso chiamare, con autorità appunto medica, la barella, per- ché poi il calciatore deve, decentemente, stare fuori campo e quindi fuori partita almeno un poco, a farsi curare o a far finta di farsi curare. Il medico, in quei momenti, arriva anche a rimpiangere i ma- li immaginari di persone importantissime che stanno nella sua cliente- la abituale, che non gli creano cosí tanti problemi e che gli pagano belle parcelle, di quelle che lui non osa presentare al club calcistico perché sono cose che un tifoso vero non deve fare.

MELINA Il gioco perditempo fatto di passaggi corti, con gli avversari abbastanza indifferenti, perché ormai rassegnati. Riservata di regola ai minuti finali di una partita, la melina talora assurge a tattica sin dall'inizio della contesa, con infinita felicità degli amanti del bel gioco che abbiano la fortuna di essere anche masochisti e che abbiano pagato (caro) il biglietto. Si narra di calciatori nostrani che, in trasferta a New York, sentendo parlare di Grande Mela hanno detto che sono false le voci secondo cui noi dal calcio di quelle parti non abbiamo niente da imparare.

MERCATO E', per quel che riguarda questo dizionario, soprattutto il calciomercato, riservato ai giocatori e casomai ai tecnici. Adesso stanno per la verità nascendo intorno e addosso al calcio altri mercati, come quello dei man-ager, o come quello montato dagli sponsor. Crescono ovviamente di numero e di qualifiche anche i mercanti, i quali tuttavia prosperano tranquillamente, perché non esiste piú nessun tempio dal quale cacciarli. Il calciomercato è stato per tanti anni un posto fisico fisso, il Grand Hotel Gallia (vedi) di Milano, per poi spostarsi - su insistenze dei clienti abituali di quell'albergo centralissimo, in piazza della stazione - un po' a casaccio, ora un altro hotel, ora un centro congressi, ora un salone di una fiera, ora un complesso di uffici. I fasti di un bell'hotel, aria condizionata (quando era un lusso grande) e champagne sempre bene ghiacciato, personale efficiente e signorine valorose amiche repenti di chiunque le convocasse presso di sé, insomma una vacanza milanese, ancorché costosa, sono stati tut- ti veri, e anzi è stata descritta soltanto la punta dell'iceberg. Questo almeno sino a che il mercato si è davvero svolto tra agguati telefonici, colpi di scena, pullulare di personaggi sempre strani. Poi il mercato ha avuto varie alternative, molti e troppi affari si sono conclusi nel loro posto piú naturale, cioè la sede di un club interessato, il calciomercato è diventato posto canonico per un piccolo cabotaggio. Ed è cominciata un'altra fiera, quella della nostalgia. Adesso il calciomercato è aperto tutto l'anno, in pratica, e i carabinieri non hanno piú un posto fisso dove fare ogni tanto irruzione, in nome di inadempimenti fiscali, esercizi abusivi della professione di mercante d'uomini, violazioni a leggi varie, con magari la speranza di trovare, se non un po' di droga, come in ormai quasi tutti i posti rispettabili, almeno qualche campione a cui chiedere l'autografo. MESTIERE Il calcio è un mestiere o un lavoro? I calciatori sono definiti lavoratori, ancorché non dipendenti o se preferite autonomi, e casomai sono lavoratori che cercano di far bene il loro mestiere, andando verso la pensione, che può anche essere, per i meno fortunati, il posto di mare o di montagna dove investire i loro risparmi nel lavoro, nel mestiere turistico, aprendo qualcosa di simile a un piccolo albergo. Insomma nel calcio il mestiere non dà un senso stakanovista di fatica e neppure chapliniano (lo Charlot di Tempi moderni) di ossessionante ripetitività. E poi per mestiere molto spesso si intende, anziché lavoro eseguito con regolarità e profitto e competenza, capacità di gettare polvere negli occhi, di supplire con l'esperienza a manchevolezze atletiche o tecniche, di inventare marpionescamente colpi speciali, azioni nuove, movenze particolari onde turbare l'avversario. Mestiere, insomma, come furbizia sorretta peraltro da un minimo fisiologico di dignità, altrimenti siamo all'espediente. Il giocatore che ha mestiere magari non ha i calli alle mani e neppure ai piedi, ma sa come cavarsela, riuscendo a far- si valutare bene dai tifosi e persino dai critici anche quando non tocca la palla.

METODO La prima statuizione di un certo modo di giocare a calcio, di adottare una certa tattica, un certo modulo di schieramento e di azione. Gli anni sono i '20, l'ispirazione prima arriva dai maestri britannici, nella fattispecie scozzesi, i padri del metodo sono moltissimi. Per dirla in breve, le squadre sommariamente si sistema- no sul terreno secondo quello che adesso verrebbe chiamato lo schema 3-2-1-4, indicando le varie linee in campo dei giocatori, e questa disposizione degli uomini viene mantenuta per tutta la partita, evitando di correre tutti, come si faceva prima, dove era la palla, di affollarsi intorno all'uomo in possesso della palla. Importante il giocatore che risponde al numero 5, cioè il centromediano metodi- sta che sta davanti ai difensori veri e propri e che sovente si sposta in attacco. Il metodo ha ovviamente avuto numerose varianti e applicazioni. Nato per dare serietà tattica a un gioco altrimenti confuso, e però sempre piú interessante e quindi sempre piú degno di studi atti a indirizzarlo alla regolarità e alla spettacolarità, il metodo ha fornito appunto una buona dose di regolarità e spettacolarità alle partite. La drammatizzazione progressiva del gioco del calcio ha poi dato luogo all'elaborazione del sistema (vedi), che in pochi anni, predicando una condotta di gara rivolta molto al controllo dell'avversario, e quindi al gioco pratico, rigoroso, con il controllo del terreno e degli uomini svolto con disciplina quasi militaresca, ha soppiantato il metodo, intanto che si è permesso al proprio interno elaborazioni fantasiosissime: alcune delle quali hanno condotto proprio alla riesumazione, almeno parziale, dello stesso metodo, per via di quell'assioma che vuole che al mondo non si inventi mai niente di davvero nuovo e che, cosí come (Borges) ogni libro è sempre lo stesso libro, ogni azione è sempre la stessa azione, ogni tiro è sempre lo stesso tiro. MEZZALA Il giocatore, di attacco ma non solo, che appoggia, spalleggia, serve il centravanti. Di solito l'uomo della squadra capace di unire meglio talento atletico, tecnica e podismo. Ultimamente la mezzala si è lessicalmente diluita in centrocampista avanzato, mezza punta, attaccante arretrato, centravanti bis, perdendo qualcosa e acquisen- do qualcos'altro. Le vere mezzeali (o mezzali) di una volta non ci sono piú, cosí come non ci sono piú le ali, delle quali comunque le mezzeali non sono mai state la metà, nella valutazione dell'importanza dei ruoli, ma spesso il doppio, per via della loro maggiore importanza nel gioco. L'antica mezzala riusciva a coniugare insieme due verbi ora in contrasto: correre e brillare. Ogni tanto compare sulla scena un giocatore che sembra portare qualcosa di nuovo, e può accadere che ci sia chi fa notare che finalmente è tornata in campo una vera mezza- la. Ma subito la parola mezzala viene diluita attraverso la domanda: di punta o di raccordo? rifinitrice o esclusivizzante? scattista o maratoneta? E allora ciao.

MEZZA PUNTA Vedere Punta, leggere e dividere per due.

MIEDO Parola spagnola che significa paura, quasi terrore. "El miedo escenico" è quel sentimento di piccolezza, di annichilimento che proverebbero molti giocatori quando allo stadio del Real Madrid, il famoso Santiago Bernabeu, devono affrontare la squadra di casa e sono avvolti dal tifo ostile di un pubblico assatanato. L'unico rimedio al miedo escenico, quando non ci pensa a esorcizzarlo lo stesso Real Madrid, giocando male, è l'innalzamento del premio in caso di vittoria anche contro quell'ambiente, quel pubblico.

MILANO La città rivale massima di Torino nel calcio, con Milan e Inter a cercare di bilanciare Torino e soprattutto Juventus. Non avendo definito Juventus, per non fare un insulto alla competenza storica del popolo italiano, ed essendoci limitati a Torino per dire di Grande Torino, non diciamo niente di Milan e Inter, dando per scontato che tutti sappiano tutto di tutte e due. Tutti quelli cioè che hanno comprato questo libro e sono arrivati sin qui, per vedere come ce la cavavamo con Milano.

MIRINO Parola molto usata in tempo di mercato, cioè ormai per tredici me- si all'anno: il tale giocatore è nel mirino della tale società, così si scrive, si legge, si crede. Il giocatore oggetto dell'indiscrezione o semplicemente della supposizione dice di solito che non ne sa nien- te ma che si sente molto onorato. E poi bussa a quattrini alla società dove sta, dicendo che le voci gli tolgono la tranquillità psicologica e che lui sopra ogni prima cosa chiede di essere tranquillo a proposito del proprio futuro.

MISCHIA Il termine è soprattutto rugbistico e sta a indicare una precisa e bene regolamentata fase di gioco. Quando viene usato nel calcio, indica una fase concitata del gioco stesso, oppure una rissa a gioco fermo, o anche - il massimo - una rissa a palla in gioco. In senso traslato, essere gettato in mischia significa essere messo alla prova in circostanze particolarmente difficili, atte alla valutazione precoce dell'autentico valore dell'elemento in questione.

MISTER E' l'allenatore, ma non all'inglese, bensí all'italiana. Ne abbiamo già detto, appunto alla voce primigenia che indica il ruolo di guida del tecnico. Il mister, divenuto anche "signor mister", è uno dei personaggi principali, se non il principale, del gioco del calcio. Sa tutto, prevede tutto, è vittima soltanto di circostanze particolarmente sfavorevoli, è padre fratello zio di ogni giocatore, sa guarire gli infermi, allacciare le comete per la coda, trovare l'acqua minerale frizzante fredda al centro del Sahara. Oppure è un incapace, un immondo essere indegno della propria fortuna, un por- co.

MOGGI Luciano, senese, ferroviere in pensione, direttore generale di tante squadre: Juventus, Roma, per pochissimo tempo Lazio, Tori- no, Napoli, di nuovo Torino, di nuovo Roma, di nuovo Juventus... Gran- de appassionato di cavalli e proprietario di purosangue di valore mondiale. Maestro di tutti, fuorché di Allodi (vedi) di cui è stato allievo, per un mestiere difficile, che provoca i piú grandi spostamenti di ricchezza dai tempi di Robin Hood. Dicono che dica bugie, come se dicendo il vero potesse in misura anche minima lavorare bene, ed essere degno dei molti soldi che guadagna. Peraltro non sempre dice bugie, per cui quando ha dichiarato incedibile Christian Vieri nel momento stesso in cui per la Juventus lo cedeva all'Atletico Madrid, molti hanno creduto che quella fosse la volta della sincerità. Compreso fra i molti l'Avvocato, cioè Gianni Agnelli il quale ha cosí appreso che la sua Juventus ha segreti anche per lui. Moggi rischia volentieri di vivere nel futuro prossimo l'esperienza di Pierino al contrario, cioè di gridare che il lupo non c'è e di venire creduto e poi mangiato, ma intanto pensa che, per quell'epo- ca, avrà comprato tutti i lupi. E' ricco e ciononostante simpatico, dirottatore e ciononostante pilota esperto, capace di stare bene con tanti presidenti e ciononostante intelligente e spiritoso. Non ci fosse stato, bisognava inventarlo, ma a inventare un Moggi riesce soltanto Moggi, e dun- que il giro diventa, esso piú di ogni altra entità del mondo calcistico, vizioso.

MONETINA Uno strumento del sorteggio, il meno truccabile e il meno costoso, anche se per caso la monetina lanciata dall'arbitro si perde nel fango del campo di gioco.

MORATTI Angelo, petroliere, presidente della grande Inter degli anni '60, con Allodi (vedi) general manager e Helenio Herrera (vedi) allenatore. Ha speso tantissimo, e in maniera spesso sbagliata, pur di arrivare a grandi risultati. E' stato amatissimo dai giornalisti, con i quali si impegnava in simpatiche scommesse: ad esempio lui, Moratti, diceva che il giorno dopo ci sarebbe stato un clima polare con forte nevicata, il giornalista veniva sollecitato a scommettere che no, e come da patto Moratti, che perdeva la scommessa, regala- va al giornalista un orologio d'oro, mentre il giornalista stesso metteva da parte, per un'altra scommessa di quel tipo, la cravatta che rappresentava il suo impegno di pagamento. Il giornalista trova- va sempre modo di scrivere che Moratti, oltre a essere un gran signore, era uno che se ne intendeva di molte cose, compresa la meteorolo- gia. La scommessa avveniva, di solito, a luglio, e a Milano. Angelo Moratti è stato comunque un presidente di alta signorilità, con tanto di moglie calciofila e a un certo punto persino calcioma- ne, la celebre Lady Erminia detta anche Lady Real, quando l'Inter soppiantò la famosissima squadra madrilena dal podio massimo del calcio europeo. Dopo la sua era l'Inter, guidata da presidenti come i non faraonici Fraizzoli e Pellegrini, non è piú stata all'altezza del grande passato, e la figura di Moratti è risultata ingigantita, sino alla convocazione popolare di suo figlio Massimo alla presidenza. Massimo ha cominciato spendendo molto, moltissimo e male, cosí dimostrando di essere vero erede di Angelo, per la felicità a venire del popolo nerazzurro.

MOTIVAZIONE Una situazione psicologica difficilissima da trovare, conservare, frequentare: quando il calciatore non reperisce la giusta motivazio- ne rende poco. Una caratteristica della motivazione è che non è mai economica. Infatti tutti i calciatori dicono che non giocano per i soldi, che hanno o cercano una motivazione assolutamente non finanziaria, e siccome a nessuno di costoro è mai scappato da ridere mentre cosí si esprime, non abbiamo nessuna autorizzazione di non credere alla frase.

MOTORINO Una volta il celebre campione ricordava di quando andava agli allenamenti in bicicletta o in tram. Adesso il ricordo minimo è di quando ci andava col motorino. Proseguendo di questo passo il campione presto ricorderà, scendendo dall'astronave, di quando si recava agli allenamenti in portantina, sorretta e trasportata peraltro da neanche troppi schiavi, diciamo un tiro a dieci, a dodici. Motorino era anche, nella squadra, il giocatore instancabile che andava su e giú per il campo a caccia di palloni e di avversari, finendo sulle ginocchia quando uno degli altri, della squadra sua o di quella nemica, riposatissimo visto che a correre era stato quasi sempre lui, metteva a segno con grande applaudita lucidità il gol decisivo, ricevendo onori, premi, contratti. Si parla ancora di giocatore motorino, con senso quasi di pietà per il suo faticare persino patetico. Chi vuole fare bella figura dica, a proposito di un motorino di oggi, che gli ricorda Magnozzi (calciatore del Livorno degli anni '40, il motorino per eccellenza del calcio italiano: ma non c'è bisogno di precisarlo, il cognome addobba subito di memoria ed esperienza chi lo ha pronunciato).

MOVIOLA Strumento televisivo per rivedere a velocità rallentata, con la possibilità anche del fermo immagine, un'azione di gioco, o piú semplicemente il tragitto del pallone. Si invoca la moviola anche in campo per i casi dubbi, e pazienza se procedendo moviolon movio- loni non si può giocare, per ragioni di tempo, piú di una partita all'anno. La frase piú solenne e inutile nel calcio è, a proposito di una fase di gioco controversa, di una decisione arbitrale discussa: "Lo vedremo alla moviola". Perché vederlo serve soltanto ad alimentare sentimenti bassi: di persistenza in questo mondo dell'ingiustizia o della sorte cattiva presso chi accerta di esserne stato vittima, di ipervalutazione della furberia o della sfortuna presso chi si accorge di averla scampata bella, o addirittura di avere fatto un guadagno irregolare. Va da sé che noi siamo con la scuola di pensiero di chi vuole la moviola decisiva soltanto per chiarire episodi di violenza, di scorrettezza, di malcostume. E questo non perché pensiamo che es- sa non possa chiarirne altri, ad esempio quelli definibili strettamente di gioco, di arbitraggio, ma perché pensiamo che il calcio, sport e anzi gioco di scarso gesto atletico, di povera tecnica (tanto è vero che per esso si è deciso che debbano bastare i piedi), guadagna, eccome, in emotività e interesse, dall'incertezza, dalla vaghezza, dalla possibilità lasciata a ognuno si sentirsi vittima o marpione, e comunque motivato a continuare la pugna per fare migliore il suo mondo o - esito ottimale - peggiore quello del nemico.

MURO Nel calcio è lo sbarramento opposto da una squadra a un'altra che è in superiorità numerica oppure preme anzi aggredisce con dispera- zione per arrivare al pareggio o alla vittoria, o semplicemente - caso molto piú raro - interpreta sino allo spasimo il concetto sportivo di agonismo. Fare muro significa opporsi con teste, gambe, petti, testicoli, chiappe, tutto insomma agli assalti del nemico. Il muro di solito implica la divagazione del contropiede, approfittando dello sbilanciamento in avanti dell'avversario. Nel calcio underground muro è anche il soprannome, o il nome, o il nomignolo, o la definizione di un buon giocatore - il cui cognome dovete intuire voi - passato alla storia per come faceva divertire gli altri con certe sue ingenuità, persistenti alla sua stessa esistenza di uomo pubblico (da qui l'uso nei suoi riguardi della frase "duro come un muro"). Dunque questo giocatore, spesso alle prese con le parole incrociate, che costituiscono il massimo impe- gno di molti suoi simili, un giorno scolpí una definizione in quattro lettere di un concetto, e la scolpí in maniera tale da passare alla storia dei rapporti fra cultura, o quanto meno erudizione, e sfera di cuoio. Bisognava mettere, al 12 verticale o al 9 orizzontale (non ha nessuna importanza) una parola di quattro lettere che dicesse cosa "è bianca a Washington", e lui scrisse "neve".

N NAPOLI Per due volte, due scudetti, si è creduto che Napoli potesse diventare la capitale eterna del calcio, sport, anzi gioco napoletano, se ce n'è uno. Ma l'evento molto e troppo atteso ha smesso di realizzarsi quando è finito o è stato piallato Maradona, da storie di droga, di cocaina, di camorra, prima ancora che dal suo declino atletico. Maradona, la cui leggenda comprende anche una nonna napoletana, anzi, a essere precisi, ischitana, che fumava enormi sigari, ha fatto moltissimo perché Napoli realizzasse il sogno, e da Napoli ha avuto moltissimo per quel che riguarda la realizzazione del suo personaggio attraverso l'amore di popolo. Però ha avuto anche un accesso troppo facile alla neve che aveva peraltro conosciuto già a Barcellona. Napoli produce pubblico vasto e caldo, produce entusiasmi rarissimamente beceri o violenti, produce leggende di genere ludi- co, atletico, economico: queste ultime quando un'economia in ginoc- chio produce enormi incassi allo stadio detto di Fuorigrotta, e nessuno capirà mai se li produce nonostante che sia in ginocchio o proprio perché sta in ginocchio; cosí come nessuno capirà mai se una città ricca produce fisiologicamente grande calcio o se essendo ricca se ne frega di interessi bassi, popolareschi come quelli calcistici. E lo stesso grande Gianni Brera saltava spesso e volentieri da una tesi all'altra, a proposito del calcio della sua Milano. Napoli produce anche giocatori. Non si vede perché Napoli non debba produrre, e in continuità, scudetti. Invece uno scudetto al Napoli è assunto come prova a) dell'esistenza di Dio, b) della potenza di San Gennaro, c) della capacità del Sud di spezzare le catene che significano suo servaggio al Nord. Eccetera. Ma uno scudetto al Napoli dovrebbe essere soltanto un prodotto logico del grande pubblico, del grande afflato popolare, della capacità, unica al mondo, di stravivere l'evento sportivo in maniera insieme festosa e intensa, e anche di una certa validità dell'approccio tecnico al calcio, con la produzione locale e la stimolazione, fornita dall'ambiente, di talenti importati. Ma tanto decide tutto San Gennaro, che sta sempre lí mentre i Maradona vanno e vengono.

NAZIONALE Quando è aggettivo, indica in genere qualcosa di patriottico o di autarchico. Quando è sostantivo, o è una sigaretta o è la squadra azzurra di calcio. Verso la fine del millennio è cominciata ufficialmente la decaden- za del concetto di Nazionale. Le società hanno fatto sapere, per il tramite dei loro massimi rappresentanti nell'esplorazione e nella conquista della modernità, cioè Juventus e Milan, che non ne pote- vano piú di dare alla patria senza corrispettivo economico calciatori da loro, le società, stipendiati tutto l'anno, e magari di riaverli infortunati, rotti, consunti. E' stata cosí avanzata l'idea di un risarcimento ai club in caso di infortuni dei loro giocatori mentre servono la causa azzurra, in attesa di una definizione economica fissa del loro noleggio. Ed è finita la Nazionale, anche se nessuno se ne è accorto e la squadra azzurra ha continuato a giocare, favorita anche da alcuni appuntamenti storici e ineluttabili - su tutti il campionato del mondo - cosí come nelle leggende giapponesi sulla forza tremenda dei samurai continua a camminare il villico che lo stesso samurai ha tranciato in due, dalla testa all'inguine, con un colpo di daga. La Nazionale paradossalmente ha assunto un enorme rilievo, controcorrente, per i calciatori di un paese sparpagliati, dalle vicende della loro vita di lavoro, all'estero: perché le partite della Nazionale sono diventate occasioni di raduni anche sentimentali, di campiello di zingari intorno alle vicende della loro vita e del loro paese, persino di sventolio sia pure occasionale di una bandiera. L'Italia del pallone ha cominciato a frequentare, sia pure per casi abbastanza sporadici, questa situazione quando è cominciata la migrazione di alcuni suoi grossi giocatori, specialmente in Inghilterra e Spagna. In chiave azzurra la Nazionale è riuscita comunque a farsi amare per tanti anni, dando molto agli appassionati del calcio, in genere vicini a essa anche senza lo stimolo di vedere giocatori della loro squadra beneamata impegnati con la maglia dell'Italia. Soltanto a partire dagli anni '90 la Nazionale ha dovuto prendere in esame l'opportunità di andare a giocare in città, anche piccole ma non snob, dove non era mai stata prima, o dove era stata poche volte, per sfruttare la voglia azzurra locale e fare cosí grossi incassi. La Nazionale ha patito una decadenza storica intanto che ha patito, nel divenire di certe partite, una decadenza diciamo cronicistica, riferita a eventi spiccioli. Insomma, è stata fischiata eccome, specie quando ha sperperato sciaguratamente, con un avvio penoso, l'ampio credito concessole dal pubblico al calcio d'inizio della partita. Perché in linea di massima si vuole bene alla Nazionale, e lei deve farne di cotte e di crude perché si cominci a non volerle bene, e poi a volerle male. Ma forse stiamo parlando di un'entità che fra poco non ci sarà piú, o che sarà condannata alla clandestinità.

NEBIOLO Primo di nome, dirigente massimo dell'atletica mondiale e dello sport universitario, membro del Cio, tifoso della Juventus ma nemi- co del calcio mangiatutto. Il fatto di avere una marcia in piú degli altri nostri dirigenti sportivi lo ha fatto talora cozzare contro muri o patire multe per eccesso di velocità. Ma tutto sommato vale la pena correre certi rischi.

NESPOLE Invocazione di meraviglia, oltre che designazione di un frutto. Nel semplice linguaggio sportivo di una volta erano nespole quando una squadra veniva subissata da un'altra. Adesso per dire la stessa cosa si usano parole a decine, a centinaia, legate fra di esse in maniera anche contorta. E intanto la coltivazione incentiva di certa frutta e non di certa altra ha fatto quasi sparire le nespole mangerecce.

NIZZOLA Luciano, piemontese, successore di Matarrese alla presidenza federale. Ottimo studente del liceo (classico) piú sportivo d'Italia, il Camillo conte di Cavour di Torino, dove sono passati Primo Ne- biolo presidente dell'atletica mondiale e dello sport universitario mondiale, Livio Berruti medaglia d'oro dei 200 metri ai Giochi olimpici di Roma 1960, appunto Nizzola e l'autore di questa pubblicazione. Sabaudescamente onesto, oltre che appassionato e sportivo vero, dovrebbe venire presto triturato, non essendo coinvolgibile, dai giochi di potere. Auguri (se del caso, anche auguri di venire triturato e riprendere a vivere in pace).

O

OFFENSIVISMO Piú o meno il contrario di difensivismo, di cui dovrebbe essere moralmente simmetrico: anche se in genere il difensivismo è ritenu- to una furbata, l'offensivismo una colpa. In genere l'offensivista viene assimilato alla cicala gaudente e dissipatrice della favola di La Fontaine, mentre il difensivista è la formica, prudente e saggia. Per fortuna che una variante della stessa favola prevede che la cicala, dopo un'estate passata a divertirsi in località amene di villeggiatura, trovi per l'inverno un amico che la porta a ulteriormente divertirsi a Parigi, e che la formica preghi la cicala stessa di mandare a farsi fottere lo stesso La Fontaine, se per caso nella capitale francese le accade di incontrarlo o se addirittura trova, fra un divertimento e l'altro, il tempo di fargli visita. Abbastanza colpevolizzato, l'offensivismo di solito è sinonimo di imprevidenza, di ingenuità, persino di supponenza. Raramente vie- ne definito coscienza della propria forza. L'offensivista ha in pratica soltanto la speranza di passare per poeta, folle, ma poeta. Pare che la pratica dell'offensivismo sia costata al Brasile gli undici campionati mondiali disputati e non vinti, contro i quattro disputati difensivisticamente e vinti. Per fortuna che i brasiliani non sentono, non vedono e non leggono, e cosí la loro Nazionale conti- nua, come le loro squadre di club, a giocare spesso e volentieri all'attacco, per la gioia dei nostri occhi anche se, spesso, per il tormento dei nostri cuori.

OFFSIDE Letteralmente: fuori posto; nel calcio: fuori gioco. Parola inglese che i primi italiani calciofili hanno usato senza traduzione, pronunciando offsàid, quasi regolarmente, ma anche òfsein e òpsein. Il termine fuorigioco, in parola unica, ha preso in Italia il sopravvento quando la velocizzazione del gioco, e quindi dei rovesciamenti di fronte, è diventata verbo, anche e specialmente per motivi di preparazione atletica, e il fuorigioco è risultato vitale per importanza tattica: nel senso che il saper mandare la squadra avversaria fuorigioco è diventato uno dei massimi accorgimenti difensivi, pericoloso (se il fuorigioco non esiste, o non viene rilevato da arbitro o guardalinee) ma spesso decisivo. E' allora cominciata la sagra italiana del fuorigioco, con tavole rotonde, dibattiti, convegni, assemblee sulla sua regolamentazione, sulla sua interpretazione, sulla sua applicazione. Ci si divertiva molto di piú con l'òpsein.

OLANDESE Modo di giocare il calcio a tutto campo, senza riguardo per i propri muscoli, i propri polmoni e anche il proprio ruolo. La Nazionale d'Olanda, forte di alcuni fuoriclasse, su tutti Johan Cruyff (o Cruijff), ha imposto, non però sino alla conquista del titolo mondiale, questo gioco, che ha portato all'asfissia gli avversari imitatori ma spesso anche gli stessi praticanti olandesi. Il calcio olandese, o calcio totale, in realtà presuppone la presenza, in chi lo applica, di una grande classe, di una grande abilità nel trattare bene il pallone pur essendo sempre in movimen- to, in velocità e in debito di ossigeno. I giocatori olandesi piú celebri sono nati tutti per strada, giocando il calcio urbano, la pallastrada sublimata da Stefano Benni nel suo romanzo intitolato La compa- gnia dei Celestini: specie ad Amsterdam ci sono, nelle vie periferiche, piccole griglie, alte come il marciapiede e in esso inserite, per lo sfogo delle frequenti piogge. Bene, il vero calcio olandese nasce lí, nel regolamento di pallastrada che prevede di fare toccare al pallone una di queste griglie, con ovviamente gli avversari che cercano di impedirlo. Poi si mette sopra a questa abilità quasi da giocolieri il moto quasi perpetuo, ed ecco Cruyff e soci.

ORATORIO Posto deputato alla nascita di grandi calciatori, grazie al piccolo calcio praticato in quello che di solito è il polveroso cortile della parrocchia, con il parroco che gioca anche lui, senza smettere la sottana nera. Per tanto tempo l'oratorio è stato il vero campo calcistico del ragazzo italiano. Senza neanche un'idea di erba, e con l'uso delle mura laterali e di fondo come sponde che fanno rimbalza- re il pallone tenendolo sempre in gioco. Il gioco sul campo dell'oratorio (in verità il termine è comprensivo anche di altri spazi, ma nello sport oratorio è il terreno di calcio e basta) è forzatamente sommario, approssimativo, grezzo, anche caotico. Cosí il termine "oratorio" è venuto a limitare in qualche modo il tipo di gioco, e poi il tipo di giocatore. Essere giocatore "da oratorio" ha significato essere tanto povero di classe quanto ricco di entusiasmo. Con il declino dell'oratorio quelli poveri di classe non hanno avuto piú l'alibi di una pratica, un tirocinio su un terreno brutto, ancorché, per via della vicina chiesa, benedetto da Dio.

ORIUNDO Il calciatore che ha o si inventa un antenato italiano, cosí da poter accedere al nostro mondo del pallone in posizione privilegia- ta, che può portarlo anche all'ottenimento del nostro passaporto. I primi grandi oriundi del nostro calcio furono chiamati dal fascismo, propizio al ritorno in patria dei figli e nipoti dei nostri emigranti: questi oriundi in linea di massima tornarono ai loro paesi sudamericani quando si accorsero che, per via della guerra, avrebbe- ro rischiato, da italiani magari schierati anche in azzurro, di indossare la divisa e andare al fronte. Nel dopoguerra ci furono varie ondate, anche di bidoni (vedi), e la situazione divenne dignitosa soltanto verso la fine degli anni '50. Per la verità, se ci furono oriundi che si fecero picchiare, magari dai loro ex connazionali, giocando per l'Italia, ce ne furono anche di fasulli, fatti italiani sulla base di documenti contraffatti. C'è stato persino un brasiliano divenuto tesserabile come oriundo grazie a un nonno, padre di suo padre, che era prete. Oriundi insomma si diventa, o si può diventare. In linea di massi- ma gli oriundi hanno dato molto al nostro calcio, insegnando finezze, producendo spettacolo, e battendosi bene sul piano pure della creatività fuori campo, se del caso con la pratica della religione della polemica.

ORMEZZANO Gian Paolo, giornalista sportivo. Tre lustri fa lasciò in diretta, stanco di una lunga attesa senza avere la linea, il Processo del lunedì. Per questo sgarbo a Biscardi firma ancora adesso autografi. Autore di questo libro, usa il potere locale per scusarsi, ma con la propria famiglia: se lui avesse intuito la popolarità derivante da quel gesto si sarebbe fatto in qualche modo sponsorizzare, cosa a quanto pare non difficile quando si va in televisione, e avrebbe risolto alcuni problemi appunto familiari impellenti.

P

PAGELLA La piú grande trovata giornalistica di fine secolo. Stanchi, come i loro lettori, di giudizi aeriformi, di tanto bla-bla-bla per dire in cento parole di non aver nulla da dire a proposito della prestazione di questo o quel giocatore, i giornalisti sportivi hanno inventato le pagelle, con i voti, di solito dall'1 al 10, sulla falsariga delle pagelle scolastiche, espressi a proposito, a carico di ogni giocatore, in relazione ovviamente alla sua prestazione in quella data partita. I voti presto hanno avuto l'orpello di giudizi prima sintetici, poi anche bene (o male) diluiti, e ci sono state pagelle che sono arrivate a occupare mezze pagine di giornale, o mezze trasmissioni radiotelevisive. Il calciatore dice che se ne infischia della pagella, però legge soltanto quella e usa il coltello o la pistola soltanto nei riguardi del giornalista che gli ha dato un brutto voto. Il giornalista sbuffa quando deve stilare la pagella, però, se la fanno fare a un altro, si ammala immediatamente di itterizia. Nell'assegnazione e soprattutto nella motivazione dei voti il giornalismo sportivo italiano ha raggiunto vette sublimi di frittura del poco o del nulla. Naturalmente la mania delle pagelle, la strutturazione sempre piú complicata dei giudizi e soprattutto il barocco sempre piú delirante delle motivazioni, con la voglia che ognuno ha di personalizzare al massimo i suoi giudizi, hanno porta- to a un'elaborazione sofisticatissima delle pagelle stesse, con differenze notevolissime di voti a proposito dello stesso giocatore: che per un giornale è da 8, per l'altro da 4. Naturalmente il giocatore in questione si abbona a uno solo dei due giornali, quello "giusto". Esistono anche medie dei voti delle pagelle, per decidere ad esempio qual è il giocatore di maggiore rendimento sulla base dei giudizi della stampa specializzata. Grazie alle pagelle si mettono insieme Nazionali virtuali dei piú bravi di ogni ruolo, si creano valori di mercato, si falsano i valori effettivi. Ma tutto sommato si fa un bel gioco sul gioco, e le pagelle fanno piú bene che male. Il tutto, molto spesso, con un linguaggio giornalistico nuovo, di immagini forti, di sintesi lapidaria, oppure di tenera sublime ingenuità: nel senso che ci sono pure pagelle in cui si dice che il tale ha giocato male, proprio cosí, semplicemente, come non si scriveva più da tempo negli articoli veri e propri sulla partita. Una critica: se un portiere para tutto, non dovrebbe avere un 10? Invece no, gli danno 6. Domanda angosciosa: cosa deve fare il portiere per avere un 10? Non gli basterebbe essere angelo, se poi i diavoli avversari non gli fanno tiri in porta.

PALAZZO Il posto kafkiano dove alloggiano i veri poteri, nel calcio come nella politica o nella finanza. Per la verità Kafka aveva scritto di un castello, ma amen. Il palazzo, anzi il Palazzo, è popolato di esseri reali che non conosciamo e di fantasmi, compresi quelli di ognuno di noi. Non possiamo scriverne di piú, sennò il Palazzo...

PALLA L'oggetto sferico del desiderio, lí in campo, nel senso che ogni calciatore lo vorrebbe per sé. Per gli spettatori, i tifosi, dal vivo o in video, la palla è ora amata, ora odiata. La palla, si dice, è rotonda (e forse proprio in omaggio a questa constatazione tanto importante quanto ovvia si parla anche di sfera di cuoio, e pazienza se la sfera è di similcuoio, di gomma, di plastica): la precisazione serve psicologicamente a dire che va un po' dove le pare, geometricamente per distinguere il calcio dal rug- by (vedi) o dal football americano, che si praticano appunto con la palla ovale. In realtà la palla se fosse rotonda si comporterebbe con una certa logica, legata alla perfezione teorica della sfera, a parte si capisce le deformazioni dovute all'impatto con i piedi dei giocatori, alla situazione del terreno, e nel calcio povero al lungo uso. Il fatto è che la palla è tutt'altro che rotonda: è ovalizzata, è poliedro dalle sfaccettature piú o meno marcate, è massa di fango, è ricettacolo d'acqua, di polvere, di fili d'erba. E' picassiana insomma di forme e di contenuti, di follia e di imprevedibilità. La palla è presente in tutti i giochi della sferistica, termine di origine greca che accorpa tutti i giochi con la palla, dal tamburello al tennis, al calcio, alla pallanuoto eccetera eccetera. La palla da calcio è l'imperatrice, quando si dice palla si parla di solito del gioco del calcio. Dove la si ama, la si venera, la si adora e la si prende a calci. Ma se prendere a calci una divinità è azione blasfema, prendere a calci la palla è sublimarla. Il colpo di testa, ancorché ammesso dal regolamento, è ritenuto approccio meno poe- tico alla palla di una pedata: forse per questo un gol segnato in rovesciata vale molto di piú che un gol segnato con una zuccata. Il portiere, che può trattare la palla con le mani, è ritenuto meno artista di un giocoliere. La palla affascina l'uomo. Ulisse vide Nausicaa giocare a palla, quando stremato approdò, sbattuto dalle onde, su una spiaggia, e fu subito vista splendida, vitale. Nel film L'armata Brancaleone, storia di uno sgangherato gruppo di guerrieri paraprofessionisti del tardo Medioevo, il protagonista, Vittorio Gassman, a un certo punto vede rimbalzare una palla e lascia perdere tutto, per gettarsi dietro di essa gridando, a chi l'ha fra i piedi, uno stentoreo tragico appassionato "passaaaaa!". Semplicemente filastroccando con un po' di musica la frase "Gira la palla" Teo Teocoli, in arte televisiva Felice Caccamo, ha lanciato il tormentone come una canzonetta di successo. Della palla si sa tutto, fuorché una cosa: se ha varcato o no effettivamente la linea. PALLONE La palla nel suo accrescitivo maschile. In genere, il termine pallone appartiene automaticamente al gioco del calcio, mentre la palla è di ogni gioco. Però la piú bella poesia dedicata, almeno in lingua italiana, al pallone, l'ode al giocatore di (appunto) pallone, di Giacomo Leopardi, si riferisce a un atleta della sferistica classica, cioè del pallone elastico, dove la palla non viene mai trattata con i piedi, e dove dunque si sta a una distanza siderale dal gioco del calcio. Nell'uso accade anche, abbastanza frequentemente, che quando si tratta di misurazioni minime la palla prenda la prevalenza sul pallone. Ci spieghiamo: l'attaccante calcia il pallone, il portiere para ma non trattiene, la sfera rotola verso la porta, chissà se la palla ha varcato o no del tutto la linea, come prescritto dal regolamento. In sostanza, la parola palla assume la supremazia nell'uso specialmente quando viene tirata in ballo la geometria. Cosí si dava e si dà il calcio d'inizio colpendo il pallone, ma il gioco aveva (la clausola per la verità abbastanza comica è stata abolita di recente) effettivamente inizio, a esempio per lo scorrere del cronometro dell'arbitro, quando la palla aveva compiuto un giro intero su se stessa. Il pallone ha piú contenuto umanistico. In uno dei suoi rarissimi rigurgiti sentimentali il calcio ha ad esempio lanciato una campa- gna, sia pure senza grande impegno, perché le multinazionali della produzione delle sfere di cuoio (e non delle palle) la smettano di usare come schiavi, sfruttati e sottopagati, i bambini pakistani, al lavoro in tragici opifici, nella fabbricazione dei palloni. PANCHINA Il posto piú importante nel football, dopo il terreno di gioco. E' lí che siede il mister (vedi), i giocatori di riserva, i rincalzi, i sofferenti, i polemici, gli apatici. La panchina è scottante, se si pensa che alla prima sconfitta il mister sarà licenziato, è lunga o anche ricca, se ci sono molti dannati al ruolo di riserva e fra di essi alcuni di grosso valore, è corta o anche povera, se ce ne sono pochi o se ce ne sono molti ma non di valore sicuro, è gufata se si indovina, sospeso nell'aria sopra di essa, in posizione proprio da gufo quando non addirittura da avvoltoio, il mister candidato alla sostituzione del mister titolare, in caso di errori o sfortune di quest'ultimo. Sulla panchina siedono anche numerose persone non calciatori, persone che possono avere mansioni importanti, dal medico al massaggiatore, dal direttore sportivo al direttore generale, dal - massí - presidente (vedi), e magari calzante scarpe da calcio, come se dovesse camminare, per arrivare sin lí, in una savana, o come se potesse da un momento all'altro entrare in campo, sino al cosiddetto accompagnatore ufficiale, che è di solito un ricco dirigente che con questo pretesto la domenica riesce a sfuggire sia alla moglie che all'amante. La panchina è di solito riparata con una tettoia - per lo spettacolo meglio se trasparente - dal sole o dagli oggetti lanciati dai tifosi. Dopo una partita tesa, ammesso che ce ne siano di non tese, si registra sotto la panchina la nascita di una moquette di mozziconi di sigarette. Quando i tifosi, arrabbiati, invadono il campo, di solito bruciano la panchina, che da scottante diventa ardente. Per abitare un posto cosí impegnativo sono nate autentiche divise, dette tute da riposo, di misure cosí abbondanti e di tessuti cosí spessi, anche quando fa caldo, che gli abitatori di esse sembrano tutti dei giganti, per supplemento anche obesi. Spesso, volendo distinguersi, il mister va in panchina in doppiopetto: sempre che lo sponsor non abbia niente in contrario, o non abbia provveduto a foraggiarlo per il sacrificio di doversi mettere anche lui in divisa. Sulla panchina accade di tutto, compreso il contrario di tutto. Se un calciatore, chiamato in panchina per lasciare posto a un altro, si avventa sul mister e lo sbrana, i comunicati ufficiali parleranno di simpatico scambio di vedute, e dall'oltretomba il mister farà sapere che apprezza questa reattività del giocatore, il quale ha scelto il modo piú forte e aperto di far conoscere il suo attaccamento alla squadra, la sua voglia di dare a essa il suo contributo.

PARAMETRO Nessuno sa bene cosa sia, molti ne parlano, tutti ne hanno rispetto. Dovrebbe essere, grosso modo, il coefficiente per cui bisogna moltiplicare la media degli ultimi guadagni di un giocatore, onde determinare il costo minimo del suo svincolo da una società mentre il contratto è in corso ed esiste però una volontà di rescissione. Ambitissimo è il calciatore a parametro zero, per fine contratto o per vecchiaia anagrafica ma, si spera, non anche fisica: questo significa che per tesserarlo basta pagare lui, non è necessario pagare anche il club di provenienza. Ma il parametro è affascinante per il suo mistero, per la bellezza fonetica del termine, per il senso di onestà matematica che sta dentro le sue quattro sillabe. Di piú non osiamo dire, non si interrompe un'emozione.

PAREGGIO Modo di dividersi la posta in palio, secondo il proverbio calcistico per cui un punto per uno non fa male a nessuno, scaraventato per la china della decadenza da quando, a metà degli anni '90, si è affermato il criterio dei tre punti, anziché due, alla squadra vittoriosa. Il pareggio è diventato, da mezza vittoria, mezza sconfitta, sempre per ambedue le squadre. E, stando ad esempio alla serie A del calcio italiano, si è calcolato che una squadra che pareggiasse sempre, che dunque finisse imbattuta anche contro le cosiddette "grandi", andrebbe in , con i suoi punti pari al numero delle partite giocate. La lotta al pareggio è stata in realtà condotta soprattutto a quel risultato, definito appunto nullo, costituito dallo 0 a 0, nel nome del dogma per cui se non c'è gol non c'è spettacolo. Come se una serie di parate stupende, e magari di entrambi i portieri, non valesse, per lo show, quanto due gol segnati uno su rigore dubbio, uno per deviazione improvvida di uno stinco.

PARROCCHIA Contenitore dell'oratorio (vedi) dunque posto dove si pratica anche il rito del gioco del calcio, da taluni ritenuto superiore agli stessi altri riti praticati nella parrocchia. Il termine parrocchia serve anche a indicare, in via confidenziale, l'appartenenza allo stesso tifo calcistico. Cosí due bestemmiatori incalliti, due dissacratori professionisti di cose sacre, possono dirsi appartenenti alla stessa parrocchia, nel nome del calcio.

PARTITA L'incontro, il match, la contesa, la sfida, il confronto, la tenzone, insomma quella cosa lí che tutti sappiamo, frequentiamo, amiamo, odiamo, cosiamo. PAYPERVIEW Da scrivere ormai in una parola sola, anche se sarebbe pay per view, e cioè paga per cosa vedi, insomma la televisione che offre quella certa partita a pagamento. Grazie ai satelliti o ai cavi è possibile far arrivare, sul televisore della casa dell'abbonato, o di chi si offre anche soltanto quel singolo evento, la partita acquistata. Da notare che grazie alla payperview nel calcio finalmente partita comprata non vuol dire partita in cui ci sono arbitro o giocatore o giocatori corrotti, bensí partita acquistata dal calciomane telespettatore. La payperview garantisce a chi paga un servizio esclusivo, a chi non paga la privazione della visione. Cosí dovunque fuorché in Italia, dove le controtecnologie sono sempre superiori alle tecnologie, e dunque si captano le partite anche senza quella stupida formalità del pagamento e dell'acquisto del regolamentare apparec- chio di decodificazione delle immagini. Questo spiega il relativo flop all'avvio dell'innovazione. La payperview sarà comunque l'ossigeno, l'acqua e il pane (con caviale) del futuro prossimo venturo per le società di calcio, che con i nuovi soldi faranno nuove follie o si permetteranno azioni banditesche nei confronti dei tifosi. Pare che alcuni grandi eventi sportivi saranno sottratti per sempre, per opera di provvide legislazioni nazionali e internazionali, alla payperview: nel senso che certe sfide appartenenti alla cultura, alla storia, alla tradizione sportiva e non solo di un popolo saranno sempre offerte in chiaro a tutti, senza pagamenti che non siano del canone abituale. Pare. Aspettare un po' del terzo millennio, per vedere (appunto) on- de credere. E a proposito, cosa salvereste dello sport italiano, dovendo scegliere le sue sfide piú nobili e classiche?

PAYTIVù Si può anche dire paytv, se non si ha paura della poltiglia finale di vocale strana e consonanti. E' la visione di determinati eventi di molti sport ottenuta da chi fruisce di un canale appunto a pagamen- to. La paytivú offre, grazie ai fusi orari, eccezionali possibilità di allenamento alla vita notturna, dando per esempio all'alba italiana la partita di calcio dal Giappone o il Gran Premio di Formula 1 dall'Australia o il match di boxe dagli Stati Uniti. Essendo lo sport spettacolo di fruizione ancora prevalentemente maschile, è scarso il contributo all'incremento demografico offerto, grazie alla paytivú, da coppie eterosessuali che si svegliano insieme nel cuore della notte e aspettando l'evento sportivo, oppure eccitate o deluse da esso, e comunque ormai svegliate, facciano altro, il che può anche significare far figli. PEL Mai nessuno come lui, dicono quelli che lo hanno visto e che sfruttano la carenza di valide immagini televisive per dare peso al loro archivio personale. Calciatore brasiliano venuto alla ribalta nel 1958 quando, diciottenne, fu campione del mondo con la sua Nazionale in Svezia, Edson Arantes Do Nascimento detto Pelé, soprannome che - mai deciso una volta per tutte, neppure dal suo portatore - è un fonema oppure significa, in qualche dialetto del Brasile interno dove Pelé è nato, o di Santos dove è cresciuto, "venticello". Pelé è stato il calcio nella sua essenza tecnica piú alta, agonistica piú chiara, fisica piú giusta (senza cioè bisogno di doni degli dèi), morale piú simpatica, genetica piú umana, evoluzionisti- ca piú sportiva. Tutto nella vita del negretto di Treis Coracoes, figlio di Dondinho, gran giocatore mancato, sembra da libro Cuore, anzi un po' da Capanna dello Zio Tom, senza mai nessun problema di pelle, nessuno stimolo per usare la gloria a pro delle lotte per quelli dalla stessa pelle. Abbastanza curiosamente Pelé è riuscito ad attraversare anni e anni di conflitti razziali anche duri senza mai essere spinto o magari essere costretto a passare per simbolo del colore della sua pelle. Ha sposato donne bianche, è diventato ministro dello Sport in un Brasile che, sostenendo di non essere razzista, offre in realtà ai neri soltanto lo sport per fare esercitazioni di pari opportunità e anche di eguaglianza, e non ha mai avuto un nero contro, non ha mai dovuto subire un nero deluso. Né alto né basso, non troppo fantasioso, cosí da rischiare il funambolismo fine a se stesso, e neanche troppo pratico, cosí da apparire anche una sola volta opportunista, Pelé è stato semplicemente il grande grandissimo calciatore, in campo martiriz- zato il giusto - quello che occorre per la gloria, non quello che può distruggere una carriera - da difensori piú sconvolti che cattivi, piú sgomenti che violenti. Per noi italiano è l'attaccante che salta di testa e non scende piú a terra sino a che non ha colpito bene il pallone che andrà in gol: è la foto sua, con Burgnich che cerca invano di opporsi, nella finale mondiale, fra il Brasile e l'Italia, di Messico 1970 (sarebbe finita 4 a 1 per il Brasile, al terzo titolo mondiale sempre con Pelé). Ha giocato nel Santos e poi nel Cosmos di New York, chiudendo la carriera con la pratica di un football mezzo finto, per dollari. Ha guadagnato piú da testimonial di prodotti legati in qualche modo al calcio che da giocatore. Ha interpretato film, ha fatto e disfatto carriere federali, prima con i gol poi con le parole, ha lanciato nel calcio suo figlio, portiere, ha giocato a cinquant'anni partite-cerimonie, riuscendo a non essere patetico e persino a farsi invocare per giocare partite vere col suo Brasile. Pensando a tempi che non ritornano, a fondali umani e sociali, a scenografie e sceneggiature di vita che non possono essere riprodotti come furo- no, è possibile dire che non ci sarà mai piú uno come lui.

PENAL Vedi penalty, la strada stavolta è breve.

PENALTY Parola inglese, tradotta in italiano con calcio di rigore e poi semplicemente rigore (vedi). Interessa la sua versione familiare sudamericana - da quelle parti spesso e volentieri si usa ancora penalty all'inglese - per una storiella vera. Campionato del mondo 1978 in Argentina, partita fra i padroni di casa e la Francia, al microfono il Carosio di laggiú, che annuncia un pallone svolazzante verso la porta francese, e poi racconta di un impeccabile rinvio del difensore francese Trésor. Si sente il fischio dell'arbitro, il radiocronista lascia capire che forse un attaccante argentino ha commesso fallo, poi grida: "Penal, legitimo penal por Argentina". Dal che si desume che nulla è piú relativo della valutazione di un evento che di solito ha una conseguenza assoluta, cioè il gol. PERCUSSIONE Termine all'origine balistico che il calcio ha preso in prestito dal rugby (vedi), per dire di un giocatore, di solito un attaccante, che tenta, palla al piede, di sfondare autenticamente la difesa avversaria, cercando il contatto fisico, contando casomai sul rimpallo (vedi) e sul tackle (vedi), insomma cercando di imitare il rugbysta che carica come un toro.

PESCANTE Mario, senz'altro valido presidente del Coni, ex ostacolista in atletica leggera, attuale ostacolista in materia sportiva. Ora è l'assalto del calcio professionistico al Foro Italico, ora è l'assalto dei politici, ora è l'assalto di qualche presidente federale: gli ostacoli da saltare non gli mancano mai. Lo sport italiano diventerebbe ancora piú ricco di quel che è attualmente, gratificato di denaro pubblico e privato, se si desse il via alle scommesse anche sulla durata e soprattutto sulla resistenza dei presidenti del Coni alle seduzioni del potere e agli attacchi assortiti.

PIAZZAMENTO Senso della posizione, per farsi trovare dove il pallone arriverà, dove l'avversario cercherà di passare, dove insomma il gioco in qualche modo transiterà. Il termine vale soprattutto per il ruolo di portiere (vedi), ma specie ultimamente, con il gioco a zona (vedi), riguarda un po' tutti i difensori, chiamandoli a quel muoversi senza palla che sta comunque nel bagaglio tecnico piú raffinato e importante. Il portiere in possesso di senso del piazzamento, o di piazzamento tout court, non è costretto a balzi, a voli plateali e spesso inutili per andare a prendere o almeno a toccare e deviare il pallone. Il piazzamento è poi determinante nelle uscite, sia quelle aeree per abbrancare o deviare o respingere palloni volanti, sia quelle incontro a un avversario che avanza palla al piede. Il portiere con piú senso del piazzamento nella storia del calcio italiano, (vedi), è stato probabilmente il piú grande di tutti.

PIEDE Primario strumento del calciatore. Ci sono giocatori in possesso ottimale, ai fini calcistici, dei due piedi, ce ne sono che hanno un piede solo, i mancini (chi non sa usare il sinistro non viene mai punito con una analoga definizione limitativa: il mondo è razzista anche in questo). Un allenatore e soprattutto un uomo geniale, Ful- vio Bernardini, nel pieno delle disquisizioni sul valore di questo o quel calciatore, divise i giocatori in due tribú, quella di chi ha i piedi buoni e quella di chi non li ha, e fu intuizione tanto semplice quanto geniale. Le regole ultime hanno portato i portieri a specializzarsi nell'uso dei piedi, soprattutto per respingere i palloni spediti volontariamente verso di loro, e di piede, da compagni di squadra. Fare qualcosa con i piedi significa farla in maniera grezza, rozza, un po' dappertutto, fuorché nel mondo del calcio, che dunque anche in questo rivela la sua particolarità, la sua unicità che ce lo fa tanto prezioso.

PIOLA Silvio, centravanti campione del mondo 1938. Nato a Robbio Lomellina e cresciuto a Vercelli è stato vercellese e dunque piemontese per tutti, anche per se stesso, fuorché per Gianni Brera, che lo ha sempre proclamato lombardo, anzi della sua provincia pavese, ergo quintessenza di padano. Il suo club è stato specialmente la Lazio, anche se indelebile nella sua carriera è stata la Pro Vercelli, dove lo aveva chiamato uno zio portiere, e interessanti sono state le sue presenze nella Juventus, nel Torino "di guerra" e nel Novara, dove ha chiuso la carriera, ritornando a indossare la maglia azzurra quando andava verso i quarant'anni. Fisico forte, impeto massimo, capacità acrobatiche notevoli nonostante la mole, senso profondo della dedizione, Piola è stato giocatore didascalico, sempre, anche dal punto di vista morale: an- che quando in azzurro ha segnato un gol di mano, però all'odiata Inghilterra. Chi lo ha visto lo ha quasi sempre applaudito, anche come rivale. E per lunghi anni è stato impossibile parlare di un centravanti, di un attaccante, in termini lusinghieri assoluti, senza sentirsi dire: "Parli cosí di lui perché non hai visto Piola".

PIZZUL Bruno, telecronista. E' stato lui, quando ha parlato di ripartenza (vedi), ad accendere la miccia che ci ha fatto esplodere in testa l'idea di un lessico nuovo del calcio. Prendetevela con lui, dunque, e chiedetegli indietro i soldi di questo libro.

PLATINI Michel, francese, figlio di figli di italiani, originario del Piemonte per parte di padre e del veneto per parte di madre, nato in Lorena, a Joeuf, cresciuto nel Nancy, arrivato al calcio italiano nel 1982, con la Juventus, dopo essersi affermato nel Saint Etienne e soprattutto nella Nazionale francese come centrocampista d'attacco provvisto di enorme talento. Giocatore assolutamente straordinario, sopravvissuto a una decina di fratture, atleticamente non mostruoso però talentuoso al massimo, ha portato il calcio francese al titolo europeo, massimo alloro della sua storia. E' riuscito a essere antipatico ai francesi in quanto oriundo italiano, agli italiani in quanto cittadino francese, e ad avere intanto la rispettosa ammirazione di tutti. Senso profondo e artistico del gol, perfezione tecnica, sapienza tattica, tiro eccezionale, intelligenza per domare anche a parole un avversario brutale, un arbitro incerto, Platini ha saputo lasciare il calcio giocato - specie quello nella Juventus che lo ha portato, a sua volta portata da lui, ai massimi traguardi societari - in tempo per evitare il tramonto triste. Si è dato alla panchina, diventando senza fortuna selezionatore della Nazionale di Francia, dove comunque ha impo- sto il senso di un gioco divertente e divertito, del suo "football champagne". Come organizzatore ha lanciato la Coppa del Mondo 1998 nel suo paese. E questo senza ancora aver bene deciso cosa farà da grande.

PODISTA Pedone da corsa o da resistenza nell'atletica leggera, nel calcio è il giocatore che alla corsa affida soprattutto l'importanza della sua presenza in campo. Pertanto la definizione di podista è limitativa, anche se in genere appioppata a un giocatore che è arrivato sin lí per una somma di meriti non esclusivamente di natura cursoria. Per- ché se è vero che un podista non può mai essere un campione, è anche vero che se uno diventa giocatore deve saper fare qualche cosa d'altro al di là del correre. Un termine equivalente a podista, piú o meno, è quello di cursore (vedi).

PORTIERE Il giocatore piú maltrattato del calcio: nel senso che si spendono miliardi anche a decine per attaccanti che forse, molto forse, segneranno dieci gol e si risparmiano milioni per portieri che sicuramente di gol ne eviteranno venti. Nelle partite di calcio per le strade, quando le strade erano anche dei calciatori, il ruolo di portiere veniva sempre assegnato a chi era ritenuto calciatore piú scarso di ogni altro. Insomma, chi non è bravo con i piedi provi con le mani. I piú grandi portieri sono nati, probabilmente, da grandi frustrazioni stradaiole. Alla ricerca dei gol in serie, le ultime trovate regolamentari sembrano voler penalizzare i portieri, per punirli di aver potuto usare le mani per tanti troppi anni. E cosí ecco che il portiere che tocca la palla con le mani volontariamente fuori dall'area di rigore viene espulso, ecco che il portiere che tocca la palla con le mani su passaggio di piede di un suo compagno di squadra provoca un terri- bile calcio di punizione contro la propria compagine lí dove il fallo è avvenuto, cioè di solito in prossimità della porta. Il portiere è insomma quel cattivone che trattiene troppo la palla fra le mani quando è tempo di rinviarla, che cincischia di piedi onde perdere tempo. E ultimamente è anche quel bruto che, in uscita sui piedi di un avversario, 99 volte su 100 commette fallo da rigore, e deve ringraziare i suoi dèi se l'arbitro soltanto 98 volte lo punisce. Ci sono portieri angeli, portieri volatori, portieri esperti di piazzamento, portieri all'inglese (non si sa bene come siano, ma fa fine definire ogni tanto cosí uno di loro, meglio se non inglese), portieri leggendari (su tutti lo spagnolo basco Zamora, seguíto dal cecoslovacco Planicka, dall'italiano Combi, dallo jugoslavo Beara, dal sovietico Yashin, dall'inglese Banks, dall'italiano Zoff...), portieri acchiappafarfalle, nel senso che escono male di porta e non prendono i palloni volanti, portieri kamikaze per come rischiano calci in testa in uscita bassa (celebre l'italiano Ghezzi), portieri di notte specialisti in partite alla luce artificiale (Albertosi nella Fiorentina giocava di sera, di giorno toccava a Sarti), portieri regolari, portieri balzani (il colombiano Higuita usciva sino a metà campo, talora sino all'area avversaria, piú volte nel corso della stessa partita)... Il portiere è speciale, insomma, e ha poco a che vedere con il pedatore. Per questo Zoff, portiere finito con le sue mani sui francobolli, dopo il successo al Mondiale 1982, di se stesso ha sempre detto: "Io non sono un calciatore, io sono un portiere, un atleta, uno sportivo".

POSIZIONE Per il portiere è il piazzamento (vedi). Per gli altri giocatori è il collocamento in zone strategiche del campo, fermo restando che secondo molti la zona piú strategica è quella, mobile, costituita dal corpo del pericoloso avversario da controllare. Insomma, una posizione che preveda lo schiacciamento di se stesso sul nemico non è poi strategicamente da buttar via. La presa di posizione, anziché della posizione, è invece un fatto di natura morale, psicologica, che riguarda comunque anche i giocatori quando diventano esseri pen- santi, in possesso di pareri precisi su questo o quell'argomento, su questo o quel fatto. C'è chi si fa una posizione prendendo posizione, nella vita ancora piú che sul terreno di gioco, c'è chi se la fa non prendendola mai. Una volta a un giovane che voleva fare il calciatore si intimava di non scordarsi anche di farsi una posizione nella vita, visto che non si poteva certamente campare di calcio. Adesso un giovane con buo- ne prospettive di fare il calciatore viene scuoiato vivo dai genitori se pensa a farsi, per esempio con la scuola lunga e difficile, una posizione che non sia quella ottimale sul campo di gioco.

POSTO Termine usatissimo e intanto vaghissimo, che nel mondo del calcio significa soprattutto posto in squadra, anzi in prima squadra, opposto al posto in panchina, o al posto in tribuna. Le accezioni del termine sono innumeri, e comunque tutte sottoposte come importan- za a quelle di cui abbiamo detto. Qualche calciatore parla, a proposito del suo contratto, di garanzia o anche difesa del posto di lavoro, proprio come un metalmeccanico. Non ha torto, ma forse il metalmeccanico ha piú ragione di lui.

POzzo Vittorio, commissario tecnico della Nazionale italiana vittoriosa al Mondiale 1934 e 1938 e all'Olimpiade 1936. Unico suo imitatore, e quanto a successo iridato, Enzo Bearzot, nel 1982. Pozzo fu un piemontese testardo, legatissimo al corpo degli alpini e alpino in permanenza: tanto è vero che infiammava i suoi giocatori parlando loro della Grande Guerra, del Piave. Era però anche un intelligente pragmatico, capace ad esempio di sfruttare al meglio gli oriundi chiamati dal nazionalismo fascista a tornare nella patria dei padri emigrati a caccia di lavoro, di convivere senza servilismo con il regime di Mussolini, di sacrificare giocatori di talento ma allergici alle grandi fatiche, di predicare l'astinenza sessuale ma di liberare al momento giusto i suoi ragazzi per la visita a un bordello, insom- ma di fare bene il piú difficile e concorrenziato mestiere del mondo, quello appunto di c.t. azzurro. Pozzo fu anche arbitro, dirigente, e poi giornalista: seppe fare il cronista con enorme imparzialità e giustizia, a costo di essere ovvio e noiosetto nei suoi articoli nemici dello scoop. Sapeva le lingue, all'estero era sempre di casa, anche se non rinunciava mai alla bottiglia di buon vino portata in valigia. Era conosciuto e rispettato e stimato in tutto il mondo del pallone. Riuscí a morire quasi povero, a pochi giorni dalla fine viaggiava ancora per La Stampa, a raccontar calcio. Tutta la sua militanza calcistica gli aveva reso un piccolo appartamento a Torino, dono della federcal- cio. Tecnicamente gestí con la Nazionale, per la Nazionale il passaggio dal metodo al sistema (vedi). Anglofilo ma non anglomane, conside- rava il calcio la piú grande invenzione di Albione. Sapeva cantare Fratelli d'Italia, e soprattutto sapeva farlo cantare. Vivesse in questi tempi calcistici, si occuperebbe di coltivazione dei gerani.

PRATICA L'esperienza, però concretizzata in azioni efficaci, ancorché quasi sempre sommarie. Uno con molta pratica di solito tende a non preoccuparsi troppo di quelli che a lui appaiono dettagli, come nella fattispecie del gioco del calcio l'impegno, la preparazione fisica, la cura se del caso maniacale dei particolari. La pratica in linea di massima può rimediare a tutto, e quando ha funzioni ed efficacia quasi belliche diventa praticaccia. Nel calcio uno con molta pratica non rischia, comunque, di diventare un praticone, cioè uno di quei personaggi che sapendo, o presumendo di sapere, tutto di tutto e di tutti, contano di risolvere ogni problema con trovate, espedienti, colleganze, purtroppo (per una valutazione del mondo che sta loro intorno) riuscendovi.

PREPARATORE Di solito nel calcio si dice preparatore atletico, supponendo che quello tecnico sia l'allenatore (vedi). E' fiorito e sfiorito rapidamente, a proposito del preparatore atletico, il termine di ginnasiarca, insieme severo e limitativo. Il preparatore atletico potrebbe essere la pedina piú importante del club, ma siccome di solito è uno sfigato che proviene da altro sport, e specialmente dall'atletica leggera, magari con quel diploma Isef che, in Italia almeno, non è sufficientemente apprezzato, anche se vale assai, guadagna poco e viene messo in secondo piano. Se pe- rò la squadra ansima, gli infortuni crescono, le partite sono in calando, il preparatore atletico diventa importantissimo e viene attribuita a lui una parte enorme di colpa. Per fortuna che l'allenatore, il quale soltanto in rari casi riconosce l'importanza del preparatore atletico, anche se è stato lui a farlo assumere dal club, finisce, anche controvoglia, per difenderlo, dal momento che non può dire che il suo subordinato conta molto. Cosí il preparatore atletico viene spesso salvato dal linciaggio, e si lega al generosissimo allenatore come uno schiavo riconoscente al suo padrone.

PRESIDENTE Personaggio calcistico secondo soltanto, in ordine di importanza, all'allenatore, prescindendo ovviamente dai giocatori e dall'arbitro per quello che è il calcio in campo, e comunque di altissimo rilievo, specialmente quando non è soltanto onorario e specialmente quando non è onorevole (non nel senso di membro del Parlamento, ma di perso- na perbene o addirittura- orrore - troppo perbene). I presidenti calcistici vennero definiti "ricchi scemi" da Giulio Onesti, presidente del Coni, negli anni '60. Adesso sono sempre ricchi, alcuni di loro sono probabilmente ancora scemi (càpita a tutti), però sono cambiati moltissimo. Perché adesso il presidente di una società calcistica è a capo di un'industria. Magari lo era anche prima, però si trattava di un'altra industria, che con i suoi proventi spesso gli forniva il denaro per accudire al meglio alla squadra di calcio. Adesso l'industria è proprio la squadra, anzi la società calcistica. Se poi il presidente ha per conto suo una o piú altre industrie, meglio per lui. Ma è possibile adesso fare il presidente campando con l'industria che si chiama club. Cosí mentre il presidente di una volta poteva occuparsi anche della pulizia dei cessi della sede sociale, e questo poteva rientrare simpaticamente nei suoi compiti, adesso deve far fiorire intorno a sé, anzi sotto di sé, tanti collaboratori, tanti suoi dipendenti: proprio perché cosí vuole un'industria. E ad esempio la garrula disinvoltura di quel presidente che prima di una partita importante seppe che sua moglie lo tradiva con il portiere, e non ce la fece a non urlare la scoperta in faccia allo stesso atleta, nello spogliatoio, a pochi minuti dal calcio d'inizio e di fronte a tutta la squadra, riuscendo poi però a ricomporsi, a dare una manata sulla spalla al tipo e a dirgli "beh, mi sono sfogato, devi capirmi; e adesso vai in campo e cerca di fare il tuo dovere", questa garrula disinvoltura, dicevamo, non può piú essere esibita. Il presidente ha numerose specializzazioni, ma quella massima de- ve consistere nella sua capacità di commettere, alla guida della squadra, errori che se commessi alla guida della sua eventuale industria, del suo eventuale commercio, della sua eventuale professione, o comunque nella vita lavorativa di tutti i giorni, gli costerebbero infamia, disonore, bancarotta ed altre brutte cose del genere. Diremmo che l'entità nei cui riguardi commettere piú errori deve essere per lui quella dell'allenatore. Il presidente infatti riassume in sé la pienezza dei poteri soprattutto quando licenzia (però continuando a pagarlo faraonicamente sino alla fine del contratto) l'allenatore. Qui il presidente deve essere attore e grande, qui si palesano tutte le sue virtú diplomatiche e mimiche. Licenziare bene un allenatore è assai piú difficile che fare, avendo a disposizione i miliardi e il tempo per sbagliare alcune decine di acquisti, lo squadrone. Si dice che il presidente sempre e comunque guadagni dei soldi con la società di calcio, anche se i bilanci sono in straperdita e se lui vende i gioielli di famiglia per sovvenzionare il mostro: nel senso che la pubblicità personale raccolta, utile per avviare contatti importanti, amicizie utilissime, rapporti ad alto livello, vale sempre e comunque i miliardi investiti e perduti. La prova sarebbe la possibilità di reperire continuamente presidenti di ricambio, persone arrivate nella vita eppure tese a una carica che garantirà loro insulti dalle tifoserie avversarie quando non anche dalla propria, fine delle domeniche libere, affanni lavorativi nelle ore normalmen- te dedicate al rilassamento, certezza di essere riconosciuti e dunque scoperti quando stanno in giro con l'amante, certezza di avere una moglie insultata quando va in giro con il marito presidente, possibile anzi probabile rincoglionimento dei figli, o nel senso che si dànno anch'essi alla dirigenza calcistica o nel senso che si sentono autorizzati, da cosa il genitore spende per un bipede calciante, a passare immediatamente a un regime di spesa faraonico e ammosciante, anche se hanno appena quindici anni. Pare che il poter sedere al centro della tribuna d'onore, magari stringendo mani importanti di gente a cui è stato fatto pervenire il prezioso biglietto d'invito, abbia un valore orgasmico superiore a ogni altra soddisfazione possibile all'uomo. Pare che nel poter entrare, immediatamente prima e dopo la partita, nello spogliatoio per dire "allora, ragazzi?" consista la massima felicità dell'uomo (da qui la tesi della maggiore importanza dell'allenatore, il quale in certi casi è riuscito a cacciare fuori dallo spogliatoio il presidente). Pare che avere di fronte cento giornalisti, alcuni con taccuini, altri con microfoni, altri ombreggiati da telecamere, sia il caso di maggiore avvicinamento a Dio concesso all'uomo. Ma ci sono anche piaceri piú ruspanti, quelli di presidenti che amano passeggiare sotto la curva della tifoseria piú accesa e sollevare le braccia al cielo mentre la gente scandisce "presidente alé alé", che amano mettersi al collo la sciarpa della società il giorno di ferragosto. Quando i calendari calcistici erano diversi gli Agnelli andavano proprio quel giorno a vedere la prima vera partita della squadra, sia pure contro una squadretta, in quel di Villarperosa, amena località di montagna, e sicuramente gli operai della Fiat erano gratificati da questa loro programmazione calcistica-popolare del giorno teoricamente piú sacro alla vacanza. O che amano stare dove sta la loro squadra mentre gli omologhi di censo stanno ai Caraibi, andare a vedere la partita in curva e bere birra direttamente dalla bottiglia (come si fa a rifiutare?) di un tifoso chiaramente malaticcio e anche di malattia brutta... Se a questi piaceri grossi e piccoli si aggiunge il fatto che adesso con le squadre di calcio si può anche guadagnare ufficialmente, senza rubare e senza pensare soltanto a guadagni indiretti, quelli derivanti cioè dal prestigio della carica, si deve concludere che quella del presidente di società calcistica è una delle piú splendide occasioni di espansione e di realizzazione che la vita offra a un individuo. Se ci fosse stato, a quei tempi medievali, il calcio con le sue seduzioni di vita, non avremmo avuto san Francesco.

PRESSING Sistema o meglio accorgimento di gioco mediato dal basket, pare attraverso la visione di partite operata da Gigi Radice quando, terzino del Milan, venne fermato da un incidente e cominciò a pen- sare di fare l'allenatore, documentandosi anche presso gli altri sport per la ricerca di qualcosa di nuovo da applicare al calcio. Roba degli anni '70, divenuta in fretta verbo, anche per i successi dello stesso Radice. Il pressing consiste non soltanto nel marcare un uomo con un altro uomo, ma nel raddoppio (vedi) di questa marcatura, adibendo un uomo in piú alla bisogna, anche se mai è stato affrontato il problema della libertà concessa all'avversario che da questo nuovo marcatore doveva essere marcato (insomma, non è nato l'antipressing). Il pressing consiste soprattutto nello spirito aggressivo con cui si interpreta il gioco, meglio se dopo aver curato, con la preparazione atletica, l'acconcia alimentazione fisica di questa aggressività. Andare in pressing, stare in pressing significa ormai tenere alta la tonalità del match, piú che adottare la variante tattica vera e propria. C'è pure un pressing nelle interviste, e il termine si sta allargando, in Italia almeno, a tanta parte delle umane attività.

PRETATTICA Siccome si fa sempre la tattica (vedi), uno cerca di giocare d'anticipo e fa la pretattica, che di solito è l'annuncio di una tattica contraria a quella che l'avversario attende, oppure l'esposizione di handicap inesistenti o comunque amplificati, acciocché l'avversario si rilassi. Da che molti, anzi quasi tutti, fanno pretattica, in pratica neutralizzandosi, una delle pretattiche ultime consiste nel non fare pretattica.

PROCURATORE Sinonimo, o quasi, di agente, dimanager personale del giocatore, di trafficone legalizzato. Quando al procuratore calcistico si interessa quello della repubblica serpeggia un certo panico nella prima delle due categorie.

PROFESSIONALITà Il professionismo (vedi) quando si veste in maniera seria.

PROFESSIONISMO Nello sport, il praticare lo sport stesso nell'intento di trarre da esso dei guadagni. Si dice che il vero professionista nel calcio non esiste mai, nel senso che anche il piú squallido marchettaro quando gioca non pensa al denaro, ma al piacere del gioco stesso. E' una gran balla, ma ci crediamo tutti e sia maledetto chi non ci vuole capire. La figura del professionista è sempre esistita, anche se la sua codificazione piena nel calcio è avvenuta alla fine degli anni '20 (primo celebre esempio di professionismo quello di Rosetta, gioca- tore trasferito dalla Pro Vercelli alla Juventus), mentre per lo sport olimpico si sono dovuti aspettare gli anni '90. Il professionismo, con regolari contratti di lavoro e con l'elencazione precisa di doveri e diritti, dovrebbe avere giovato alla serietà del calcio. E infatti quando due giocatori si prendono a pugni l'arbitro non dice "break" bensí "andiamo, siete due professionisti". Però è presto accaduto che il termine sia diventato anche sinonimo, o quasi, di cinismo nell'effettuazione del lavoro, di freddezza nell'esecuzione dei doveri, di pignoleria nella precisazione dei diritti, insomma di affarismo, di opportunismo. Per questo è stata inventata la professionalità, cioè il modo onesto, chiaro, costante di essere professionisti. Il professionista che riesce a dilettarsi nel lavoro che fa si autodefinisce dilettante di spirito, e trova sempre qualcuno che lo approva per questo suo coraggio di frequentare un termine e anche un comportamento arcadici. La stessa definizione di dilettante è comunque ormai di comodo. Nessuna persona sincera può, con la gamma di possibilità che la sua gioventú e la sua ricchezza gli offrono, dilettarsi a giocare a calcio la domenica pomeriggio, a meno che non esista in essa una componente masochistica. Ultimamente il calcio ha visto fiorire, accanto a quella dei giocatori e dei tecnici, una serie di categorie di professionisti: della finanza, della preparazione atletica, del fisco, della pubblicità, della stessa dirigenza societaria in generale... E siamo pure arrivati al professionismo arbitrale. Il termine professionismo insomma è mobile come una gelatina, della quale però non possiede la trasparenza.

PRO VERCELLI La massima squadra mantice del calcio italiano: per come faceva soffiare forte sulle rivali il suo vento provinciale, vincendo sette - diconsi set-te - scudetti dal 1908 al 1922, per come serve adesso a far profondamente fortemente sospirare chi dice che non sono piú, non saranno mai piú i tempi della commovente travolgente ruvida sem- plice poetica gagliarda sana Pro Vercelli. Da notare che sospira gente anziana, di poco fiato.

PROVINCIALE La squadra di una città piccola o comunque di lombi non magnani- mi. Il criterio, diciamo, geoburocratico non c'entra, o non c'entra sempre. Una squadra può essere definita provinciale anche se la città sua è capoluogo di regione, o non è capoluogo di provincia. Fuori di dubbio che se il Campobasso venisse in serie A sarebbe una squadra ascritta comunque alle provinciali. E una delle provinciali piú tipiche del calcio italiano è il Casale, in una città che di provincia fa Alessandria (l'occasione è buona, a proposito di certe confusioni, di certi equivoci, per ricordare che un banchiere svizzero o un petroliere texano è, per noi, extracomunitario). L'aggettivo "provinciale" nel lessico di tutti i giorni designa il tipo un po' burino, sperduto in città, oppure assume una sana valen- za morale, ecologica, a dire di un tipo genuino. Nel calcio questa valenza è assai importante, e periodicamente si celebrano le imprese delle provinciali, i fasti delle provinciali. Quando poi i campionati sono vinti sempre dalle stesse squadre, che hanno sede in capoluo- ghi di regione, non si parla comunque male delle provinciali: sennò si finirebbe davvero per essere provinciali, nell'altro senso.

PUNTA Il calciatore piú vicino, come collocazione aprioristica, al portiere avversario, insomma l'attaccante collocato o sbattuto in avanti perché sia piú vicino alle opportunità da gol. Essere di punta, nel calcio come nella vita, significa avere responsabilità pesanti ma anche gratificazioni somme. Non per nulla già essere mezza punta è mica male, in sede di valutazione di mercato. Il giocatore di punta costa a priori piú di ogni altro. Naturalmente se non segna, il suo valore decade, ma intanto lui è già diventato padrone di mezza Svizzera. Dire di uno che è una punta, dunque appioppargli un termine femminile, non significa affatto svirilizzarlo. Se si accoppiano in campo una punta e un punto di riferimento, cioè uno che sa far andare a segno la punta, può nasce- re il gol, che in certi casi è un punto, in altri è come un parto plurigemellare, cioè - se significa vittoria - tre punti.

PUNTO Lasciando perdere la sua definizione geometrica, ci limitiamo a dire che nel calcio ha significato prima un traguardo, poi una fregatura. Quando la vittoria dava due punti, il pareggio, che dava e dà un punto, veniva chiamato risultato utile. Adesso, con la vittoria che dà tre punti, il pareggio quasi sempre è un risultato inutile, deludente.

PUPPANTI Non è un errore di stampa, i poppanti sono una cosa, i puppanti sono quei giocatori giovanissimi che verso la metà del secolo un allenatore sperimentatore, , immise nella Juventus, per ovviare a infortuni e cali di forma dei titolari, riuscendo peraltro a creare piú un gioco di parole che un valido gioco sul campo. La Juventus sfiorò la discesa in B, però molti bravi ragazzi ebbero il piacere di esordire in serie A. puppo, bravo istruttore ricco di coraggio e povero di fortuna, finí poi in esilio ad allenare i turchi.

Q

QUARTO uOMO Arrivato negli anni '90, e chiamato cosí perché aggiunto all'arbitro e ai due guardalinee, questo signore ha il compito di relazionare ai superiori su cose e specialmente cosacce eventual- mente sfuggite all'arbitro e ai suoi due diretti assistenti, insomma di fare lo spione. Palmare invece il suo compito di segnalare, di solito alzano una lavagnetta luminosa, i minuti che l'arbitro intende fare disputare alle due squadre in chiave di ricupero (vedi). Il quarto uomo comunque è un arbitro, e come tale può anche sostituire l'arbitro vero e proprio, in caso di mal di pancia o altro. Non è neppure escluso che possa fare da parafulmine, attiran- do a sé, con gesti opportuni, le ire del pubblico. Lui regolamenta pure il via-vai dei cambi fra giocatori in campo e giocatori in panchina, e se sta proprio bravo può persino aiutare o supportare il guardalinee nel compito difficilissimo di controllare i tacchetti delle scarpe del giocatore che entra in campo per la prima volta: operazione questa che, se condotta con tutti i crismi della regolarità, comporterebbe misurazioni accurate dei tacchetti stessi, e che invece viene risolta in una frazione di secondo, con un colpo d'occhio e via. Si arriva persino a dire che i casi di calciatori mandati a cambiarsi le scarpe per via dei tacchetti non regolamenta- ri siano inferiori a quelli di taglio dei capelli ripreso dal parrucchiere dopo che il cliente si è dichiarato insoddisfatto dalla visione, consentitagli da un apposito controspecchio, della sfumatu- ra posteriore, o addirittura a quelli di rinvio al mittente, nel ristorante, di una bottiglia di vino che sa di tappo.

QUATTRO-qUATTRO-dUE Si può anche scrivere 4-4-2. Il totale è dieci (10). E' uno degli schieramenti in campo piú e meglio teorizzati. Escluso il portiere, c'è tutta la squadra, schierata in tre linee, una di difesa, una di centrocampo, una, la meno ricca di uomini, di attacco. Il problema di cosa accade quando due squadre, entrambe schierate con il 4-4-2, si fronteggiano, con quattro difensori per due attaccanti, e dunque due disoccupati, è esclusivamente matematico, non certamente calcisti- co. Perché tanto si dice 4-4-2, poi si fa quello che si vuole, o che si può.

QUATTRO-tRE-tRE Si può anche scrivere 4-3-3. Fa sempre dieci (10). E' un altro schieramento, piú offensivo come si desume dal maggior numero di attaccanti. I problemi sono gli stessi di cui sopra. E gli stessi del 4-5-1 o del 5-4-1, decisamente meno praticati.

QUELLI cHE iL cALCIO Trasmissione televisiva di enorme successo, ideata da Mario Bartoletti e Fabio Fazio che l'ha condotta sempre con maestria intelligente e furba. Traduzione spesso persino nobile sul video, mentre scorrono le radiocronache dagli stadi, delle cretinate e delle cose buone e belle che si dicono assistendo a una partita di calcio. Una volta Fazio la annunciò e un po' anche la propose a un giornalista, che, pieno di impegni piú che scettico sul possibile successo, non valutò bene l'invito a collaborare, sbagliando anche in quello.

R

RACCATTAPALLE L'equivalente plebeo del caddy del golf, quello che porta i bastoni. Destinati entrambi a fare carriera nello sport in cui hanno cominciato in un ruolo servile. Nel golf il caddy ha patito comun- que l'avvento delle automobiline elettriche, che portano giocatori e bastoni, nel calcio il raccattapalle ha patito l'avvento del recupero, cioè della decisione di tenere conto del tempo perduto: e il raccattapalle per anni e anni era stato il principale perditempo a pro della squadra ospitante, se bisognosa appunto di fare scorrere i minuti senza danni, grazie a studi raffinatissimi su come farsi scappare il pallone di mano, su come rallentare il già piccolo trotto per andarlo a raccogliere, su come simulare di non vederlo in mezzo ai cartelloni pubblicitari. E di contro su come accelerare la ripresa del gioco, invece, quando la sua squadra "stava sotto". La parziale vanificazione del suo compito principale, che, come si comprende bene, non è mai stato quello di raccattare le palle, rischia di slombare le vocazioni, e dunque di tagliare i rifornimenti di talenti al grande calcio? Lo sapremo fra pochi anni. Intanto i raccattapalle sono persino dotati, dalle ultime norme, di palloni da "servire" subito in campo quando il pallone in uso richiede troppo tempo per essere recuperato. Ragazzini allevati a manfrine, recitazioni, simulazioni, marpionerie, truffe, si sono trovati di colpo a dover essere onesti, con traumi enormi alla psiche.

RADDOPPIO E' quello delle marcature: quando due difensori sono delegati a controllarne uno, ritenuto pericolosissimo. Che cosa accade del calciatore lasciato libero, per ragioni matematiche, di controllo, in caso di gioco a uomo (vedi), o del calciatore che può spaziare sul territorio sguarnito in caso di gioco a zona (vedi), non si sa. O non lo si vuole sapere: dire "raddoppio delle marcature" è bello, pregnante, gratificante, specie se a sudare per eseguirlo sono altri. RALENTI L'azione di gioco rivista in televisione a velocità rallentata. Una volta tanto il termine francese ha preso il sopravvento, nell'uso, su quello inglese "slow motion", oltre che sull'italiano, davvero brutto e prolisso, "al rallentatore". Però si dovrebbe pronunciare esattamente ralantí, e invece si dice ràlenti, come da un improbabile ralenty inglese. Il ralenti non dovrebbe essere mai confuso con il replay (vedi), che è la ripetizione della visione a velocità normale, ma di solito i due termini finiscono nell'uso per significare la stessa cosa. Entrambi i termini confluiscono poi, troppo sommariamente, nella dizione "moviola", che invece presuppone al- tre diavolerie annesse, come il fermo-immagine, per l'esame di un dettaglio, e Maurizio Mosca.

REAL MADRID Società spagnola di calcio divenuta famosa per la sua dominazione nella Coppa dei Campioni ai suoi inizi. Coccobello del regime di Franco, il Real Madrid ha vinto tanto anche per la sua forza a tavolino, nel calcio nazionale e poi anche internazionale. Ma assemblando assi famosi di tutto il mondo è riuscito a dare uno spettacolo quasi sempre superiore agli stessi favori di cui ha goduto, cosí che la dizione "Real Madrid" è stata usata un po' dovunque per dire, semplicemente, squadrone.

RECUPERO Il ricupero (vedi) detto imperfettamente, da parte di chi non sa mettere i puntini sulle i.

REGOLAMENTO Potrebbe essere definito regolanaso, perché in effetti è a lume di naso che di esso discute con faccia di bronzo specialmente chi non ne sa niente. Quello calcistico si fa forte di una sua marmorea immutabilità, che data dal 1863 (anno della stesura di regole in vigore tuttora) e che il segretario generale della Fifa, Blatter, ha picconato con le sue trovate di fine millennio. Il regolamento è pane e salame, cioè nutrimento sommario e intan- to ottimale, di chi lo invoca specialmente nelle discussioni al bar. Sono rivolti piú inviti ad andare a leggere il regolamento che a leggere La Bibbia o, sino a pochi anni fa, Il Capitale. Per molti anni il rispetto assoluto delle regole ha fatto vittime innocenti, nel mondo del calcio, poi la ragione e la televisione hanno permesso piccoli miracoli di giustizia o anche soltanto di normalità. REGIA La direzione, nella fattispecie in campo, del gioco di una squadra. Importante per un calciatore è essere definito regista sin dal suo primo apparire alla prima celebrità. Da quel momento lui smista palloni, di solito a chi gli è molto vicino, cosí da non rischiare di sbagliare il passaggio, delega ad altri la responsabilità del tiro, riuscendo anche ad apparire altruista, e insomma fatica poco, appare molto, rischia nulla, gode di credito e stima per la sua intelligenza, e ha una lunga onorata remuneratissima carriera.

REPARTO Termine militaresco, che applicato al calcio indica o la difesa (escluso il portiere, il quale casomai, definito estremo difensore, fa reparto a sé), o il centrocampo, o l'attacco. La fusione fra i reparti crea il cosiddetto amalgama, che o c'è o viene perseguito (non può purtroppo essere comprato, anche se un celebre presidente siciliano, stufo di sentir dire dal suo allenatore che ci voleva amalgama, si proclamò disposto a qualsiasi sacrificio economico pur di acquistare questo benedetto taumaturgico calciatore dal nome un po' strano). Se ogni reparto gioca per conto suo la squadra viene definita slegata, spaccata, disomogenea. Se vince lo stesso, la squadra viene definita felice anticonvenzionale assemblaggio di cervelli, cuori e muscoli, e l'allenatore viene corteggiato da un club disposto a dargli tre volte piú di quello - già molto - che prende.

REPLAY E' la ripetizione televisiva di una fase di gioco, a velocità a priori normale, sennò bisognerebbe dire ralenti. Però, come già detto, i due termini vengono usati in maniera allegramente confusa, ed entrambi sono sposati alla moviola. Da rapporti cosí perversi e confusi non possono nascere che mostri, e infatti nascono difformità e deformità d'interpretazioni.

RETE Era esclusivamente uno strumento per la pesca, o casomai per la caccia, specialmente alle farfalle, è diventata soprattutto la versione italiana di gol anzi di goal, inglese, per dire del pallone che finisce nella rete da calcio. Ma ultimamente la rete è soprattutto quella televisiva, intesa come network (rete, net, piú attività, work), cioè come spazio deputato a certi programmi. Accade dunque che il pallone finisce nella rete sul campo dove stanno le telecamere che trasmettono l'evento su una certa rete televisiva, che pesca gli utenti con l'abbondanza appunto di propo- ste calcistiche simili a reti psicologiche. Dove si vede che nel lessico, meglio che in natura, tanto si crea e nulla si distrugge.

RETROCESSIONE Il passaggio, anzi la discesa, da un campionato all'altro, o meglio da una serie all'altra, secondo l'ordine delle lettere dell'alfabeto. La retrocessione è ritenuta quasi sempre un dramma, al quale, tanto per stare leggeri, si accompagnano il disonore, la vergogna, l'onta, il dissesto, il declino, la decadenza, il tramonto, la disgregazione, il degrado. Cosí almeno dicono e scrivono quelli che dicono e scrivono che non bisogna mai scordarsi che il calcio, tutto somma- to, è un gioco. Si retrocede per scarsa raccolta di punti o anche per decisione dei giudici sportivi, in caso di corruzione provata o, ben piú raramente, di inadempienza economica. Mettiamo che si scenda della serie A alla serie B: la previsione è che, toccato il fondo della desolazione, il retrocesso prenda la spinta con i piedi per tornare subito a galla, per emergere nel calcio massimo. Se non risale subito, colpa sua. Se retrocede alla serie inferiore, si comincia a pensare che il pozzo, il bacino non abbia fondo, e si parla di evoluzione epocale, quando non anche di fine del mondo.

RICUPERO La ripresa da una situazione di ritardo, in campo fisico come economico come sportivo. Una squadra ad esempio è in ricupero quando reagisce a un momento sfavorevole e riprende la scalata alle posizioni alte della classifica. Poi anche, in specifica chiave sportiva, il ricupero designa i tempi di guarigione e di piena ripresa fisica di un atleta infortunato. Ma un'accezione particolare del termine è stata, nel mondo del calcio, vincente: quando per ricupero si intende quel periodo di tempo, scaduti i 90 minuti regolamentari della partita, o i 45 del primo tempo, con cui l'arbitro decide di fare prolungare il gioco, per ovviare a momenti di gioco fermo ingiustificato o particolare, dovuti a risse, discussioni, lungaggini, soccorsi, manfrine varie. Al ricupero si potrebbe applicare il giochetto di Achille e la tartaruga. Achille insegue la tartaruga che sta davanti a lui di dieci metri, Achille percorre velocemente quei dieci metri ma, quan- do arriva dove prima stava la tartaruga, la bestiolina ha già percorso altri dieci centimetri. Achille li copre in un amen, ma intanto la tartartuga ha percorso altri dieci millimetri. Essendo lo spazio divisibile all'infinito, Achille non ce la fa mai a raggiungere la tartaruga. Passiamo al ricupero. Anche il tempo è divisibile all'infinito, e dunque l'arbitro sancisce cinque minuti di ricupero, ma in quei cinque minuti il gioco si arresta inevitabilmente per ragioni che sollecitano un altro minuto di ricupero, nel corso del quale però ci sono situazioni che impongono altri cinque secondi di ricupero, nel corso dei quali... Vince la pragmatica saggezza calcistica su quella, troppo accademica, dei greci antichi: nel senso che a un certo punto il gioco fluisce, o viene dall'arbitro lasciato e fatto fluire, senza occasioni di ricupero, e cosí si arriva a fischiare la fine senza lasciare scorie di tempo non bene riempito. Dove si capisce perché lo studio del calcio attira tanto e quello della civiltà greca no.

RIGORE L'austerità, la severità, nella vita di tutti i giorni. Nel calcio il tiro dagli undici metri che sovente decide la vita di una squadra e la morte di un'altra, ergo il destino di interi popoli. Il calcio di rigore veniva anche chiamato massima punizione quando si pen- sava che lo sport fosse comune pratica di sentimenti da parte di una e dell'altra gente in lizza, e quindi massima punizione per uno non era, non doveva essere massima gioia per l'altro. E anzi quest'uno, premiato dal gol su rigore, era in quell'Arcadia partecipe sportivamente della tristezza altrui, ragion per cui anch'egli praticava su se stesso una sorta di punizione. Messi in manicomio i pensatori sportivi, il rigore è diventato alta chirurgia, laser supremo per perforare le porte e laparatomizzare una squadra. Per questa sua somma funzione di pulizia etnica il rigore non deve essere sbagliato: e chi lo sbaglia è degno dei castighi peggiori, è bersaglio nonché ricettacolo del disgusto dell'umanità, compresa in essa - e in prima linea - la tribú dei suoi tifosi delusi. C'è chi si indigna per i criteri assortiti e spesso contrastanti nell'assegnazione di un calcio di rigore. Ma proprio qui sta la forte bellezza del calcio: l'arbitro fischia, è rigore, inutile tutto il prima, trucidamente interessante tutto il dopo. Alla faccia di programmi, programmazioni, piani, tecniche, tattiche, strategie, psicologie. La decisione dell'arbitro di assegnare un calcio di rigore provoca poi, almeno in Italia, uno dei massimi momenti di recitazione di ogni tempo e in ogni paese: quando i giocatori della squadra punita van- no dal direttore di gara e con modi spesso concitati, talora pacati cercano di fargli cambiare idea, pur sapendo perfettamente che 1) in tutta la storia del calcio un arbitro ha cambiato idea percentualmente una volta su un miliardo, 2) che anche se cambias- se idea ben difficilmente potrebbe ammetterlo ufficializzando il cambiamento e facendo riprendere il gioco in altra maniera che con il tiro dagli undici metri. Il rigore genera i rigoristi, che possono essere a) i calciatori che tirano bene i rigori, b) gli arbitri che assegnano spesso e volentieri i rigori. Il portiere, rarissimo, che rarissimamente para un rigore viene definito molto semplicemente, molto familiarmente dio.

RIMESSA Un garage, oppure un'operazione economica, oppure, nel caso del calcio, la ripresa (vedi) del gioco rimettendo in esso il pallone, con le mani in caso di fallo laterale, con i piedi in caso di rinvio dal fondo. Azione di rimessa è quella in cui una squadra riparte appunto dal fondo campo e in breve si porta con la palla in prossimità alla porta avversaria. La rimessa laterale, con la quale si può raggiungere un giocatore al di là dei difensori avversari senza che venga fischiato un fuorigioco, è relativamente poco sfruttata nel calcio italiano. Se il calcio esplodesse negli Stati Uniti verrebbero magari reclutati dal basket o appositamente formati calciatori specializzati in questo trattamento del pallone con le mani: da quelle parti infatti c'è la specializzazione massima, e il football americano, sport in cui la palla viene trattata quasi esclusivamente con le mani, scrittura specialisti del calcio, i cosiddetti kickers, per la sola effettuazione appunto dei tiri di piede, a pallone fermo, dopo una meta.

RIMET Il nome della Coppa del Mondo di calcio, inventata da Jules Ri- met, dirigente francese, nel corso di un banchetto a Barcellona alla fine degli anni '20. Viene assegnata definitivamente alla squadra che la vince per tre volte: sinora soltanto il Brasile (che con la quarta vittoria ha riaperto la serie), l'Italia e la Germania, mentre l'Uruguay sta a quota due, con l'Argentina, l'Inghilterra a quota uno. La coppa è d'argento, e la sua prima "stesura", nel 1930, è stata opera di un orafo milanese, certo Cazzaniga. Al tempo del Mondiale in Inghilterra (1966) la coppa è stata pure rubata e ritrovata: su segnalazione, pare, di un cagnolino sherlockholmesia- no.

Il problema, per chi è sensibile a certi giochetti psicologici, è quello di sapere se Jules Rimet, arrivando in tribuna adesso, riconoscerebbe la sua creatura, sommersa di sponsorizzazioni, di attenzioni e soprattutto di condizionamenti televisivi, di orpelli e lustrini elettronici. E' comunque perfettamente possibile e secondo noi anche lecito dire che delle eventuali reazioni di Jules Rimet non frega niente a nessuno.

RIMPALLO Un calciatore avanza, tocca la palla che finisce addosso a un avversario e poi torna sui suoi piedi. Se da questa faccenda il calciatore avanzante ha avuto un vantaggio, nel senso che riesce poi a superare l'avversario, si parla di rimpallo vincente o anche di felice tackle (vedi). La gamma dei rimpalli è infinita, e un rimpallo può voler dire un gol, può decidere una partita, una finale, anche un titolo mondiale. Il rimpallo è forse l'evento piú alto (o piú basso, dipende dal punto di vista) a proposito di casualità del calcio. Il lotterismo di questo sport ha momenti davvero spinti, e certi rimpalli, con la loro forte dose di casualità e la loro enorme importanza sull'esito della partita, sono del lotterismo una delle cause massime, affascinanti e irritanti al tempo stesso. Ci sono giocatori i quali su una serie fortunata di rimpalli possono fondare una repente reputazione, che li porta magari a ottenere ingaggi altissimi: si pensi, ad esempio, a chi per una serie di rimpalli diventa bomber senza esserlo, e sul mercato diventa oggetto di desideri e di contatti e di contratti.

RINCALZO Il giocatore di riserva (vedi), però il termine "rincalzo" è meno pesante, dà l'idea, almeno secondo noi, di una situazione piú dinamica di quella della riserva. Il rincalzo è a priori pronto, agile, scattante, insomma è sempre pienamente disponibile. La forte disponibilità dei rincalzi è una cosa bella, quella delle riserve sembra una cosa un po' meno valida, spesso sa di lusso inutile o di intasamento colpevole. La riserva fa polemica, il rincalzo sembra sempre lí per balzare nel posto del titolare, se soltanto questi va a fare pipí.

RIPARTENZA Il contropiede, secondo una versione recente, anche se la ripartenza può essere un ulteriore attacco portato dopo che il primo è andato male, o è andato bene ispirando il bis. In linea di massima comunque la ripartenza presuppone una squadra che si è fatta comprimere nella sua area e che, svincolandosi, ricomincia in prati- ca a giocare, o a vivere bene il gioco. Facciamo notare che il calcio ha fatto a meno della ripartenza per un secolo abbondantissimo, e che non risulta che questa carenza abbia creato danni permanenti nei nostri predecessori tifosi.

RIPRESA Il secondo tempo di una partita, ma anche il recupero di posizioni perdute. Può accadere che coincidano le due riprese, se una squa- dra, nel secondo tempo, si riprende ad esempio da uno svantaggio. La ripresa nella ripresa potrebbe poi avere il conforto della ripresa televisiva, ma a questo punto come la mettiamo con chi dice che uno dei segreti del calcio è il suo linguaggio semplicissimo?

RISERVA Il giocatore che sta lí, gufando il titolare perché si faccia male o scada clamorosamente di forma. La differenza fra il calcio di una volta e quello attuale è che, con i meccanismi moderni delle sostituzioni ormai quasi a go-go, l'operazione di gufaggio avviene anche nel corso della partita, mentre prima avveniva quasi esclusivamente nel corso della settimana. Il mister (vedi) decide chi gioca e chi non gioca e il mister se ne intende, e comunque fare parte della rosa di una grande squadra è un onore, e poi il campionato è lungo, le coppe speriamo che lo siano, insomma c'è gloria per tutti. Il mister sbaglia di grosso a non farmi giocare, se sapevo stavo dove ero e pazienza se si trattava di un club piccolo, se non giochi sempre mica puoi giocare bene, sono stufo di vedere gli altri raccogliere applausi. Le due frasi che avete appena finito di leggere sono in realtà la stessa frase, solo che la prima dal calciatore viene detta, la seconda viene pensata. Quando pensa ad alta voce, il calciatore in questione fa polemica e il mister dice che gli piacciono i tipi reattivi, che smaniano sempre di giocare.

RITORNO Nel calcio è la seconda metà del campionato, quando gli ospitanti diventano ospitati, e viceversa. Occasione ideale di recriminazioni, rese dei conti, faide anche barbare: e dunque grande interesse popolare, con spostamenti etnici di tifoserie bene armate. Insomma una grande festa di sport.

RIVA Gigi, di Leggiuno, Lombardia, ma soprattutto del Cagliari, Sardegna. Grande bomber degli anni '60 e '70. Giocasse adesso varrebbe 500 miliardi. Era chiamato - definizione coniata da Gianni Brera - "Rombo (vedi) di tuono".

RIVERA Gianni. Grande calciatore degli anni '60, nato nell'Alessandria e passato giovanissimo al Milan, di cui è diventato bandiera e capitano. Provvisto di talento piú che di fisico, quando ha smesso di giocare con intelligenza e classe non ha smesso di essere intelligente e di avere classe, e si è dato alla politica, diventando deputato e sottosegretario, e questo senza farsi aiutare da Berlusconi divenuto intanto presidente del Milan, anzi il contrario. E' stato il piú grande e il piú discusso dei grandi abatini (vedi). Ha polemizzato sempre con Gianni Brera, e adesso che Brera è mor- to Rivera non se la sente di dire, lui rimasto solo, che il giornalista e il giocatore erano d'accordo nel litigare, avendo deciso ognuno dei due che l'avversario piú stimolante, gratificante, qualificante era l'altro. Rivera ha eseguito grandi giocate, si è comportato sempre signorilmente, ha segnata un'epoca, una società, un ciclo. Con la maglia numero 10, si capisce, anche se non ha mai avuto la connotazione del demiurgo che copre tutto il campo, che fa miraco- li, ed è stato tutto sommato un 10 abbastanza particolare, abbastanza personalizzato. Pensiamo di fargli il giusto omaggio ricordandolo come persona seria, che fra l'altro ha riempito già la sua vita da calciatore di un forte impegno sociale: e adesso basta, sennò lo facciamo santo, e non è proprio il caso, per uno che ha gettato l'Italia nel caos quando nella finale mondiale del 1970 in Messico, contro il Brasile, ha giocato soltanto gli ultimi cinque minuti, per un scelta misteriosa del c't' Valcareggi (vedi).

ROMBO Con il suffisso "di tuono" è stato il soprannome di Gigi Riva, calciatore del Cagliari e della Nazionale degli anni '60-'70. Segnava molto, segnava gol irresistibili, trascinava, si rompeva due volte la gamba, una in azzurro, una in rossoblu cagliaritano, e riusciva a non accedere al facile martirologio. Insomma un alieno. C'è anche il rombo inteso come figura geometrica eseguibile sul campo, ma a pensarci sentiamo nel cervello il rombo delle cascate che portano via l'eventuale residua dose di intelligenza o quantomeno di comprensione.

RONALDO Il brasiliano che a poco piú di vent'anni è diventato il piú celebre calciatore del mondo, facendo nascere fra Barcellona e Mi- lano intesa come Inter un fiume di miliardi, quanti mai nella storia del calcio. Definito il nuovo Pelé ha corso e forse sta ancora correndo il rischio di essere fatto anzitempo, dallo stress e dalla ricchezza, il vecchio Ronaldo.

ROSA L'insieme dei titolari (vedi) di una squadra di calcio. Il concetto originario si richiama a quello dei petali del fiore. Forse per questo essere fuori rosa significa quasi sempre per un giocatore puzzare di vecchio, di superato, di marcio.

ROSSI Paolo, calciatore degli anni '80, grande al di là di uno stop per una brutta storia, decisivo nel campionato mondiale 1982, dove con i suoi gol ha dato un contributo enorme al successo azzurro. Popolare in Lapponia come in Italia, è riuscito a sostenere la celebrità sorridendo sempre abbastanza, e abbastanza intelligentemente. Non ci mancano i suoi gol, il suo sorriso sí.

ROVESCIATA Nel calcio l'esercizio forse piú spettacolare, che talora manda la palla addirittura in rete. La rovesciata piú famosa del calcio italiano è quella di Carlo Parola, grande centromediano della Juventus nel dopoguerra: persino gli scultori si sono interessati al suo gesto atletico. La battuta merita forse di essere ripetuta: quando la rovesciata di Parola si risolveva in un passaggio agli avversari, costoro sorridevano, divertiti dal gioco di Parola.

RUGBY Splendido leale maschio gioco di squadra: la prova della sua validità atletica e anche morale sta nel fatto che quando nel calcio accadono cose virili, e pazienza se anche un po' brutali, subito nasce la domanda se non si stia per caso giocando a rugby. Il disprezzo, comunque, la critica di uno sport da parte della gente del calcio è in linea di massima considerabile come un pregio di questo stesso nobile sport, per il quale bisognerebbe cominciare a preoccuparsi se invece esso nel mondo del calcio raccogliesse am- pie simpatie. Nel 1823 un certo William Webb Ellis, studente del collegio di Rugby, Inghilterra, "con grande dispregio delle regole del football allora in vigore prese il pallone in mano e corse in avanti, dando cosí origine a una delle caratteristiche distintive ed essenziali del gioco di Rugby" (recita cosí una lapide nel collegio stesso). Il football era quello, non ancora codificato, che si praticava un po' dappertutto, sullo slancio delle partite medievali, quando la palla era magari la testa di un nemico, calciata da villaggio a villaggio. Il calcio fiorentino, che qualcuno vuole fare padre del calcio attuale, era giocato in Italia nel Rinascimento ed era in realtà parente piú del rugby di Ellis che del football inglese, poi chiamato soccer (vedi). Il rugby presta adesso al calcio soprattutto una parola, mischia, che comunque nel rugby ha una valenza regola- mentare piú che precisa, mentre nel calcio è sinonimo di brutale confusione. Ultimamente il calcio ha scoperto anche di avere nelle sue fila i trequartisti, come il rugby, che della cosa è stato avvertito con tutti i riguardi.

RUOLO La parte a teatro, il compito da svolgere e la posizione da tenere per svolgerlo nel calcio. Ci sono ruoli fissi, ruoli vaghi, ruoli in discussione, ruoli da inventare. Nella vita burocratica una faccenda che passa a ruolo gode di una sua definizione almeno formale, di una sua storicizzazione, mentre nel calcio il passaggio a ruolo non esiste, esiste il passaggio o cambiamento di ruolo, per ragioni tecniche o atletiche valide, oppure per ghiribizzo del mister oppure per casi della vita, cioè ad esempio esigenze fatte nascere, lí sul campo, da un infortunio altrui. La confusione dei ruoli è nel calcio cosa ancora peggiore, se possibile, della confusione dei ruoli nella vita di tutti i giorni e persino nella recitazione.

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SACCHI Arrigo, romagnolo, calciatore mediocre, tecnico di grande presa e personalità, nel Fusignano come nel Parma, nel Milan, nella Nazio- nale... Il suo ritorno al Milan, liberando il calcio azzurro da uno dei piú onerosi contratti della storia, è stato un fallimento, e Sacchi è entrato in un periodo di nuova riflessione sua e altrui su di lui. Sacchi, occhiali scuri sponsorizzati ergo portati anche di notte, una luce interiore forte e coinvolgente, piú ardente ancora di quella emanata dalla sua pelata, ha sfiorato, arrivando con l'Italia da lui guidata alla finale mondiale 1994, anzi all'effettuazione dei calci di rigore contro il Brasile, il successo clamoroso, che lo avrebbe conficcato e innalzato come un pilastro inamovibile nella struttura del calcio nazionale e internazionale, un totem da adorare. La maggioranza degli italiani, adesso tutti o quasi antisacchisti, avrebbe ritenuto questo fatto una sciagura anche se Sacchi avesse vinto il Mondiale? Negli entusiasmi iniziali per Sacchi, nelle critiche finali a Sacchi, critiche accompagnate addirittura dal disprezzo per le sue tesi e la sua psicologia, c'è piú giustizia o piú banderuolismo? I pochi che hanno ritenuto Sacchi scarso e magari anche antipatico sin dai tempi del suo non resistibile apparire sulle scene grandi del calcio, si sono scoperti visitati e magari posseduti da una certa simpatia per lui quando si sono accorti che i suoi ex fautori lo trattavano da pazzo, da profittatore, da incapace. Bisogna dire che Sacchi, abile nel concentrare su di sé i fuochi ai momenti belli, nei momenti brutti si è assunto tutte le responsabilità. Magari quando la Nazionale vinceva Sacchi lasciava capire che a vincere era lui, ma quando la Nazionale ha mancato i grossi appuntamenti Sacchi ha chiaramente ammesso di essere lui a perdere. Idem col Milan. Dei suoi guadagni immani, sui cinque milioni al giorno, non ha colpa. Si è trovato a incrociarsi con un presidente federale, Matarrese, che ha fatto di tutto per dargli tanti soldi e renderlo cosí antipatico alla enorme massa dei titolari di redditi medio-bassi, e allora... Sacchi potrebbe chiedere i danni a Matarrese, non fosse che poi diventerebbe piú ricco ancora. Si è molto parlato delle sue teorie, ancorate al concetto del gioco a zona e conseguentemente - almeno cosí ha detto lui - del calcio spettacolo. Il sacchismo (vedi) è diventato una materia di studio nelle scuole calcistiche italiane e straniere. Forse un errore di Sacchi è stato quello di credere e di voler far credere al Sacchi fatto crescere anzi gonfiare dagli altri: non che si sia perdutamente innamorato di se stesso, ma quantomeno ha lasciato fare. Per lui, come per pochi altri provvisori grandi d'Italia, coltiviamo la speranza probabilmente vana che a un certo punto scoppi a ridere grosso e dica che aveva scherzato, che colpa ne ha se lo abbiamo preso sul serio? Al proposito confidiamo ancora di piú in stilisti, registi, scrittori, artisti vari, guru televisivi, uomini politici e altri del mondo del bluff premiato. Anche perché lui, cristiano praticante, è stato ed è un uomo onesto, che ha creduto in quello che faceva sino alla "morte": sua e di Matarrese (vedi).

SACCHISMO L'essere adepto di Sacchi, ammiratore di Sacchi, se allenatore seguace di Sacchi. C'è stato un sacco di sacchisti, in Italia, poi dopo il rovesciamento di Sacchi per trovarne qualcuno non è basta- to neppure frugare o anche rovesciare il sacco.

SCARAMANZIA Rituale per esorcizzare la malasorte, sdemonizzare il destino, insomma vincere finalmente una partita. La scaramanzia calcistica va da gesti assai semplici, come il segnarsi o il toccare l'erba o qualche parte anatomica entrando in campo, a cerimoniali comples- si, come il seguire sempre la stessa strada con il torpedone che ti porta allo stadio, e se ci sono delle deviazioni le si ignora, a costo di rischiare, o il recitare difficili giaculatorie, o il cantilenare determinate lunghissime litanie senza sbagliare una sillaba che è una, sennò si deve riprendere. La scaramanzia piú elementare è quella dell'abito: se una partita è andata bene, continuare con l'abito che si indossava quella volta. Naturalmente funziona per chi non è allo stadio in uniforme: ad esempio un dirigente non abbandonerà mai piú quel pesante abito invernale, lo indosserà anche d'estate, e suderà piú dei suoi stessi giocatori. Ci sono anche scaramanzie decisamente masochistiche, come il calzare scarpe con dentro una monetina, o il portare al collo quella catenella d'oro che diventa, nelle mischie, di facile presa per i difensori. Ci sono scaramanzie firmate o addirittura brevettate, che valgono per Tizio e non per Caio. Lorenzo, argentino, allenatore a Roma, faceva bruciare in un falò molto pubblico le scarpe calzate dalla sua squadra in una partita che lui decideva persa per mera sfortuna: e sosteneva che chi lo avesse imitato avrebbe offeso gli dèi, con gravissime punizioni. Uno stopper del dopoguerra, Francesco Rosetta (Fiorentina, Tori- no, Novara), arrivato alla Nazionale, voleva imporre il rito di una sorta di comunione laica, per non dire iconoclastica, riuscitagli nel club: e cioè, prima di scendere in campo, una immensa bistecca veniva tagliata a pezzi e ogni giocatore doveva buttare giú un boccone di carne. La scaramanzia è stata ultimamente presa in prestito d'uso dal giocatore sistemista (vedi) del Totocalcio (vedi): nel senso che se una data squadra ha le sue buone scaramantiche ragioni per trovarsi a disagio su un determinato campo, magari è bene tenerne conto, nel calcolo delle probabilità per le giocate della schedina. La scaramanzia dei tifosi è ricca almeno quanto quella dei giocatori, con la quale sovente si interseca. Entrambe le scaraman- zie sono suscettibili di verifica matematica: se la squadra vince sono splendide, sennò non valgono nulla.

SCHEDINA Piccola scheda, come quella elettorale in un regime non democratico. Nel calcio il foglietto dove scrivere il proprio pronostico relativamente alle partite di calcio elencate, cercando di diventare miliardari. La schedina ufficiale è quella del Totocalcio (vedi), al centro di speranzose attenzioni di popolo e attenti studi di sistemisti (vedi).

SCHEMA Una delle piú affascinanti frequentazioni del mondo calcistico: trattasi della presunzione, peraltro ben quotata alla borsa degli stipendi, di fare del calcio una scienza il piú possibile esatta, trasferendo sulla carta, in certi casi addirittura su una lavagna, la raffigurazione grafica essenziale ma intanto precisa di un'azione. Frecce, puntini, segmenti, linee tratteggiate, spirali, curve. Ogni allenatore ha i suoi schemi, sovente cosí segreti che nessuno sa quali siano, manco i suoi giocatori, manco (probabilmente) lui. Quasi ogni gol nasce da uno schema, almeno in teoria. Se la palla schizza da uno stinco verso la porta, colpendo la traversa interna, rimbalzando sullo stesso stinco, finendo sulla faccia di un difensore accorrente ed entrando finalmente in rete perché in quel momento il portiere sta trovando fra l'erba il quadrifoglio portafortuna che cercava dall'inizio del campionato, si parla di schema eseguito alla perfezione dopo tante tantissime prove in allenamento, al limite della nausea fisica e mentale. A Sergio Vatta, celebre maestro di calcio per i giovani, a un certo punto, massimo responsabile azzurro del gioco insegnato ai bambini o ai ragazzini, abbiamo chiesto, per pura cioè bieca provocazione, quante volte nella sua lunga vita di lavoro didattico ha visto una completa, precisa applicazione con realizzazione di uno schema premeditato, provato. Vatta ci ha risposto: "Vogliamo scherzare? Neanche un tiro è mai stato effettuato come da preparazione, da schema. Mai, in tutta la storia del calcio".

SCHIERAMENTO La posizione assunta in campo da una squadra, in ossequio al vole- re del suo allenatore e anche alla consistenza e alla disposizione tattica della squadra avversaria. Siccome la stessa squadra avversaria si dispone in campo dopo aver valutato consistenza e disposizione tattica della compagine rivale, lo schieramento dovreb- be essere quanto di piú ovvio e banale, senza spazi per la fantasia e la genialità. Invece c'è quasi sempre il colpo di scena, che può riguardare uno due tre uomini oppure un intero reparto oppure addirittura l'ideologia dell'incontro, e allora lo schieramento "riserva delle sorprese", con una squadra che si presenta al fischio d'inizio tutta diversa da quella aspettata e anticipata per iscritto, nei dialoghi radiotelevisivi quando non addirittura nei sacri concistori del Bar Sport. Lo schieramento è forse la massima occasione aprioristica per un allenatore di palesare la sua competenza, la sua esperienza, la sua scienza, la sua duttilità, la vastità del suo ingegno, la sua magnanimità di lombi, insomma la sua divinità. In linea di massima il suo schieramento è il migliore possibile, considerando anche la se- rie degli infortunati, e soltanto il destino cieco e crudele lo ha vanificato, causando la sconfitta della sua compagine.

SCHILLACI Salvatore di nome e, al Mondiale di Italia '90, della patria, con i suoi gol. Passato dal Messina alla Juventus all'Inter, è poi scivolato, su un tapis-roulant di miliardi, in Giappone, dove è stato subito molto amato, anche perché i suoi occhi sgranati, nei primi piani televisivi dopo i gol mondiali, gli hanno procurato l'ammirazione invidiosa di chi gli occhi li ha sempre semichiusi per via del famoso taglio orientale.

SCUDETTO Viene chiamato triangolino di stoffa tricolore, e vale miliardi. Designa la squadra piú meritevole, cosí almeno viene detto quando si conclude l'ultima giornata di campionato, mentre ancora alla penultima si fa il conto delle disgrazie proprie, delle sfortune altrui e soprattutto dei favori arbitrali ai potenti, e fra i potenti quelli meglio ammanigliati con il Palazzo. Lo scudetto italiano ha una geografia molto piccola. Torino con forte prevalenza numerica della Juventus sul Torino, Milano con sostanziale parità fra Milan e Inter. Roma ha avuto pochissimi scudetti, due alla Roma uno alla Lazio, Genova ne ha avuti ben set- te di piú della capitale ma quando - i nove del Genoa, compreso il pri- mo del calcio italiano, quello storicissimo del 1898, contro l'uno della Sampdoria - contavano relativamente poco, non occupando ancora il calcio il 90% dell'interesse nazionale. Grande la raccolta del Bologna: sei. Scudetti molto periodici e decisamente sporadici, che sono finiti a Firenze e a Napoli due volte, e anche a Cagliari e a Verona, hanno fatto parlare e scrivere di nuove ere del calcio, con puntuale smentita quasi immediata. Meglio nel passato le ipotesi geopoetiche sprigionate da scudetti della Pro Vercelli, ben sette volte campione nella prima storia del nostro calcio, e del Casale, per non dire della Novese. Una cosa stupisce: che con tutta la gloriosità appiccicata allo scudetto, non sia stato inventato un termine piú ricco, solenne, gonfio, glorioso per dire di questo successo, a parte "titolo" (vedi) che è peggio ancora di scudetto. Ma i misteri del calcio puntano verso il basso come verso l'alto, e questo è un mistero per speleologhi, non per astronauti.

SECOLO Il campionato italiano ha un secolo, nel 1998. Il gol del secolo è comunque quello che verrà segnato dalla mia squadra nella prossi- ma partita. La grande questione è comunque un'altra, questa: un gol segnato il 1o gennaio del 2000 è gol del secolo per il secolo appena finito o per quello che alcuni quel giorno vogliono già cominciato?

SEGNALINEE Già detto tutto di lui alla voce guardalinee o anche guardialinee. Da aggiungere soltanto che in Italia, a Torino, una partita fra Juventus e Roma ha permesso di vedere un segnalinee che quasi se- gna: un gol, però, non la linea. Quando camminando a fianco di un giocatore giallorosso impegnato in una rimessa laterale lo ha tocca- to inavvertitamente, facendo sí che la sua rimessa si trasformasse in un assist per un giocatore bianconero, Ravanelli, cosí ben servito che è andato in gol.

SEGRETARIO Un tempo era cervello, cuore, polmone e magari anche pancreas di un club. Poi l'accresciuta importanza della sua carica ha creato una diversificazione di ruoli, non tutti riassumibili in un uomo solo, e sono nati cosí il direttore piú o meno sportivo o generale, il manager piú o meno generale e/o finanziario, il vicepresidente esecutivo e il presidente operativo... Intanto che il segretario diventava segretaria, senza neanche passare un attimo da Casablan- ca.

SELEZIONATORE A un certo punto, di Arrigo Sacchi (vedi), commissario tecnico azzurro, si disse che doveva rinunciare a fare, della Nazionale, l'allenatore (vedi), e doveva invece limitarsi a fare il selezionatore, cioè l'assemblatore, con lo strumento delle convocazioni, dei giocatori migliori o comunque piú utili alla causa. Sacchi aveva appena finito di accettare il nuovo ruolo che Berlusco- ni purtroppo lo ricomandava a fare l'allenatore del Milan, cioè alla berlina, in una squadra sfasciata da altri chissà se non anche per far fare brutta figura a lui. Platini, quando ha tentato di far giocare alla Nazionale di Francia un football divertente, piacevole, spettacolare, insomma un football che se non si ha in squadra un Platini è chiaramente suicida, si definiva selezionatore. In genere un selezionatore finisce, da come vanno le cose nel calcio, per selezionare se stesso, nel senso che favorisce la selezione all'interno della sua categoria: si fa far fuori, cioè, con decisioni suicide che neanche le balene quando vanno a incagliarsi fra i piedi dei bagnanti a Riccione.

SERIE B Si grida ai nemici "seriebbí!", tutto attaccato e raddoppiando la "b". E' la discesa dalla serie A, la retrocessione, l'ignominia, la tragedia, la lezione utile, la forte e ferma volontà di risalire immediatamente. Si passa dal paradiso alla giungla del campionato dei cadetti, si scopre una nuova geografia, o si frequenta quella vecchia delle grandi squadre decadute. Si va a Castel di Sangro, piú inquietante e affascinante e difficile da raggiungere di New York. Quando si torna in A si fa festa come se si fosse vinto quel massimo campionato che non si vincerà mai.

SETTE Numero di maglia dell'ala destra, prima che il calcio si inventasse addosso la tristezza dei numeri decisi dall'ordine alfabetico dei cognomi, o dei soprannomi nel caso dei giocatori brasiliani, numero discretamente magico nella cabalistica, ma per il mondo del calcio soprattutto quell'angolo alto, a destra o a sinistra della porta, dove, andando a incontrarsi, la traversa e il palo formano appunto un segno che da lontano può apparire un 7, sia pure rovesciato quello alla destra del portiere. I palloni spediti nel sette, di solito con tiri da lontano o su calcio di punizione, quasi sempre risultano imprendibili per il portiere, che finisce per odiare quel numero. Da questo rapporto difficile del numero 1 con il numero 7, si potrebbe desumere il perché del gemellaggio psicologico ideale fra numeri 1 e numeri 11, fra i portieri cioè e le ali sinistre, diversissime tecnicamente e caratterialmente dalle ali destre, gemellaggio sintetizzato nella frase: "I portieri e le ali sinistre sono tutti matti". Questo almeno quando nel calcio gli atleti erano anche dei numeri di maglia, e non soprattutto dei numeri di miliardi.

SETTEPOLMONI Tutto attaccato, per dire del calciatore che corre molto, che sul campo fatica per gli altri, che suda piú di tutti, come espiando suoi peccati di poca classe. Non si sa perché i polmoni hanno da essere sette, non sei o otto o anche trentotto, visto che di solito questi organi, come le tette, viaggiano a coppie. A meno di pensare che il polmone dispari sia rappresentato dal portafoglio, che il giocatore ha bisogno di sentire anche in campo.

SFIDA Il calcio è pieno di sfide del giorno, della settimana, del mese, della stagione, dell'anno. Poi si salta alla sfida del secolo. Il lustro, il decennio (o decade) e i loro succedanei, sino a cento meno uno, non hanno mai protestato.

SFIGA Termine recente per dire di sfortuna, scarogna, iella, destino gramo, malocchio portato addosso anziché affibbiato, eticamente e filosoficamente per dire della rassegnazione. Chissà come sarà divertente il prossimo vocabolo ad hoc. Oltre alla costruzione lessicale omologa, con l'uso cioè della esse iniziale chissà se privativa, non c'è che una vaga parentela fra sfiga e scazzo, che vuol dire arrabbiatura a vuoto, come ad esempio per un gol clamorosamente mancato.

SHOW Lo spettacolo (vedi), in inglese o meglio in americano. Il calcio-show è continuamente invocato, soprattutto da gente che dice di dedicargli la vita mentre il suo sogno sarebbe, invece, la vittoria della propria squadra all'ultimo minuto di ricupero, su rigore inesistente, dopo aver fatto schifo (uno schifo fortunato, però) per tutto il resto dell'incontro. "The show must go on", lo spettacolo deve continuare: frase da di- re in caso di giocatore spappolato in campo dalla caduta di un meteorite.

SIGNORA La Juventus, detta anche Vecchia Signora. Una specie di omaggio del resto del calcio italiano a virtú sabaude, piemontarde, del piú illustre club italiano. Ultimamente la signorilità è stata, dal calcio fattosi industria, assimilata a una tara vergognosa, oppure a un permanente e inassolvibile peccato mortale. La Juventus ha cer- cato di adeguarsi almeno in parte ai nuovi comandamenti, riuscendovi ma intanto suscitando reazioni di critica, per non dire di sdegno, che sono state per lei, la Vecchia Signora, come un attestato, un lusso, un fiore all'occhiello che il resto del calcio manco si è potuto permettere. Diciamo che si è notato che la Signora ha cambiato profumo, e che si è fatto notare che forse quello di prima era meglio. E' già qualcosa, è anzi molto, considerando che in altri casi non si è notato niente, quando non si è addirittura notato un cambiamento di odore, che non è la stessa cosa.

SIGNORE Lo si dice, con l'ammirazione che si riserva di solito a un importante reperto storico, di un giocatore, di un tecnico, di un dirigente, di un giornalista, di un tifoso corretto. Cioè normale.

SIMULAZIONE Parola sempre piú usata nel calcio, specie da quando il contatto fra attaccante e portiere ha significato piú calci di rigore: nel senso che l'attaccante è stato spesso accusato di simulazione. Il fatto positivo è, fuori di dubbio, l'incremento delle capacità recitative dei nostri giocatori, nel loro insieme. Peccato che la gente non lo abbia capito e insulti i simulatori, ovviamente quando non sono della squadra per cui tifa. Il mondo dovrebbe essere contento, in questi tempi di successi anche spaziali, con la realtà scientifica che supera la finzione, quando poeticamente la vecchia cara finzione ce la fa ancora a mandare avanti il suo piccolo tran-tran.

SISAL Primo nome del Totocalcio (vedi). Il termine ha anche una rilevan- za nel settore della botanica, ad esempio con l'agave sisalana, pianta che, come la speranza, si nutre di poco e non muore mai. SISTEMA Nel calcio un significato particolare, espresso con due lettere dell'alfabeto di forte valenza grafica: Wm (vedi). In pratica a ogni angolo di ogni lettera corrisponde la posizione in campo di un giocatore, e cioè per la W - "leggendola" dal basso - due terzini (vedi) arretrati, un centromediano (vedi) avanzato rispetto a quei due, poi due mediani (vedi) sulla linea del centromediano. Quindi, passando alla M e però partendo dall'alto, due mezze ali (vedi) poco avanti ai due mediani e, sulla stessa linea avanzata, il centravanti (vedi) con ai lati le due mezze ali o mezzali. Pare che l'inventore, nel 1930, sia stato Herbert Chapman, tecnico dell'Arsenal. Noi abbiamo dovuto aspettare il dopoguerra e una sconfitta a Vienna contro l'Austria per 5 a 1 nel 1947, con Vittorio Pozzo commissario tecnico, per convincerci della bontà pratica di quel metodo di gioco, chiamato sistema per distinguerlo appunto dal metodo, di cui abbia- mo già detto. La morte del sistema è legata alla nascita del catenaccio (vedi). Metodisti e sistemisti - ma il sistemista (vedi) delle giocate è un'altra cosa anzi un'altra persona - si sono battuti in Italia come guelfi e ghibellini, per perdere entrambi. Un bambino che a un certo punto, nel pieno delle polemiche, dei litigi, ha gridato che in fondo si trattava sempre del solito gioco del pallone è stato brutalmente tolto da questo mondo ed esiliato lassú accanto al suo coetaneo del- la novella del Re nudo.

SISTEMISTA Nel mondo del pallone quello che investe cifre ingenti, in assoluto o per la sua normale forte disponibilità economica, in giocate al Totocalcio (vedi) e simili che partono dal presupposto che alcune partite godono o soffrono (dipende dal tifo di ognuno) di un pronostico ben definito, quasi sicuro. A queste partite dà un segno fisso, cosí da poter applicare pronostici doppi e tripli a sfide incerte. Si dice che il sistemista abbia avanti a sé due soli approdi: o la ricchezza o la miseria. Qualche volta il sistemista ha provato ad arrivare alla ricchezza passando per la truffa, ma pare - attenzione, pare - che non sempre gli sia andata bene.

SIVORI Enrique Omar. Giocatore argentino arrivato in Italia alla fine degli anni '50, per la Juventus, e utilizzato anche, per il suo doppio passaporto, nella Nazionale azzurra. Grandissimo monelle- sco talento, capace di gol impossibili e di impossibili bizze. Famoso anche per il suo contrasto, in bianconero e intanto a forti colori, con Boniperti che giocava al suo fianco ma studiava da presidente. Diventato per un periodo non lungo allenatore della Nazionale del suo paese, ha avuto subito chiara la regola da applicare in maniera ferrea: nessun giocatore doveva fare quello che Sivori da giocatore faceva. Uomo libero nelle idee, è diventato in Italia un fantastico commentatore televisivo per una stagione troppo breve: perché han- no fatto in fretta ad accorgersi che lui diceva verità scomode. Lo hanno rispedito in Argentina, indifferenti ai comunicati di protesta del suo ufficio-stampa.

SOCCER Il calcio, il football in una dizione inglese adottata soprattutto negli Stati Uniti, dove il football, detto anche american football o (un falso) rugby, è tutt'un altro sport. L'etimo inglese di questa parola ha tratto in inganno la maggioranza degli italiani, nel senso che su di esso si è clamorosamente equivocato, e si continua a equivocare, pensando a sock, che vuol dire calza e che calcisticamente potrebbe voler dire calzettone. Il fatto che dell'equivoco probabilissimamente non freghi niente a nessuno non ci esime dal chiarirlo. La genesi di soccer pare essere un'altra, e risale al secolo scorso, per la precisione al 26 ottobre 1863, quando a Londra, nella Taverna dei Liberi Muratori o dei Framassoni (Free Masons Tavern), si decise di dare forma organica, con tanto di associazione legalizzata definita bene, alla divisione fra football e rugby, sport che si contendevano i favori popolari e che sul campo vivevano un miscuglio di regole anche comuni. Quelli del football temevano la proverbiale rudezza di quelli del rugby, e insomma temevano che l'altra metà del cielo nazionalpopolare spor- tivo d'Albione venisse a fare casino nell'osteria. Cosí piazzarono sulla porta dei tipi robusti, incaricati di scremare i pretendenti avventori e di far passare soltanto gli amici: buttadentro, insomma, anziché buttafuori. Ed ecco che apparve ai forzuti buttadentro un tipo piú forzuto ancora di loro, uno che dal fisico sembrava proprio essere rugbysta. E allora uno dei buttadentro gli chiese: "Are you a rugger?", cioè "Sei uno del rugby?", anzi, in una traduzione piú rozza ma speriamo piú aderente, "Sei un rugbygoso?". L'altro disse di no, e coniò un neologismo. Siccome la convocazione diceva che quella sera sarebbe nata, del football, l'associazione (in inglese association), disse: "No, I'm a soccer". Soccer per - molto sommariamente, molto liberamente - una rapida brutale deformazio- ne di associationist, associazionista, insomma per dire, rudemente, associazionoso, cosí rispondendo foneticamente a rugger. Da lí il termine, poi esteso al gioco. E adesso che sapete perché si dice soccer, non crediate di sapere cosa è il football.

SOCIETà L'insieme degli individui, riuniti in un contesto di azioni, e opere e magari anche pensieri e intenti, definito appunto sociale. In economia e finanza e non solo, gruppo legato da interessi di lavoro. Nel calcio il club, da cui ha origine la squadra e tutto quello che alla squadra è connesso. Sul rapporto fra società in senso lato e società calcistica ci sono scuole di pensiero opposte, spesso ospitate nella stessa persona: il calcio è espressione della società in senso lato, il calcio è antitesi della società in senso lato. Società ricca eguale calcio ricco, oppure società povera eguale calcio povero, oppure società ricca eguale calcio povero, oppure società povera eguale calcio ricco. Gianni Brera ospitò in sé le tesi opposte quando si trattava di Milano, lo abbiamo già accennato. Milano ricca doveva avere cal- cio ricco, per conseguenza economica logica. Se però Milano ricca non aveva calcio ricco, niente di illogico: era perché il calcio era sport dei poveri e una società civile ricca lo trascurava, come ad esempio accadeva, lo faceva notare, a Parigi. Intanto che Liverpool, travagliatissima dalla crisi economica, aveva grande calcio. Insom- ma, tutto andava sempre bene, alla luce di una spiegazione convincente, di un contorsionismo che lui, con la sua classe e la sua cultura e la sua onestà, poteva permettersi, ma che altri hanno frequentato con effetti comici. In sostanza, il calcio fa quel che vuole, infischiandosene della società civile. E non si può dire viceversa. Dal che si può anche desumere che il calcio sia piú forte della società civile, e che le società di calcio siano in grado di pretendere di comandare alla società civile. Come spesso già avviene.

SOLISTA Il giocatore individualista, capace di giocate che qualche volta sono utili alla squadra sua, qualche volta alla squadra avversaria, quasi sempre a lui che, come un torero con una veronica, strappa magari un contratto con un dribbling. Si dice che una squadra di tutti solisti è condannata al naufragio, intendendo cosí illuminare e privilegiare i valori del gruppo, del collettivo. Ma c'è il sospetto che si dica cosí per l'impossibilità, considerato il prezzo ormai stratosferico di ogni solista, di mettere insieme questa squadra probabilmente ideale, sorella di quelle formazioni fatte, per referendum o valutazioni speciali, sulla carta, mettendo insieme, ad esempio alla fine di una Coppa del Mondo, i migliori per ogni ruolo.

SORTEGGIO Cerimonia che nello sport affida alla sorte la creazione di una scala di valori, non espressa alla fine della contesa. Si lancia la monetina, testa o croce anche se nei pezzi di nuovo conio la testa c'è sempre di meno e la croce quasi mai, oppure ci si affida al computer, si chiama un bambino puro a estrarre palline... Gli esiti perfetti del sorteggio recitato da Blatter (vedi) quando è tempo di composizione dei gironi del campionato mondiale e quelli imperfet- ti del sorteggio, di tipo analogo, quando si tratta di assegnare i premi di qualche lotteria italiana, fanno pensare che nessuna parola sia piú imprecisa e meno appagante di questa, che pure dovrebbe essere tranciante. Un particolare curiosetto: l'unica volta - stagione 1984-85 - in cui il calcio italiano si è affidato in pieno, ma proprio in pieno, al sorteggio degli arbitri, sospettati di sudditanza nei riguardi delle grandi società, il campionato è stato vinto dal Verona sul Torino. Boh, beh, bah.

SPAREGGIO La partita che deve definire una superiorità sin lí non definita dall'insieme di un campionato, di un torneo anche affollato, o dall'iterazione di una sfida fra due compagini. Lo spareggio è sem- pre crudele, ma non tanto, diremmo, per il suo svolgimento e il suo esito, quanto per la stura che esso dà alle recriminazioni di chi, rivedendo il cammino sin lí compiuto, si accorge di quante buone occasioni ha avuto per evitare appunto lo spareggio.

SPAZIO Al singolare è poco frequentato, anche perché è termine che desi- gna vagamente, in senso fisico ma pure mentale, un posto, una zona, un terreno... Al plurale assume forza affascinante: uno dei sogni di una squadra è quello di trovare gli spazi giusti. Molta forza ha preso ultimamente nel calcio l'aggettivo spaziale, per dire di prodezze, di meraviglie singole o collettive, di grande spettacolo (vedi). Quando si dirà spaziale per definire il calcio ricreativo delle prime colonie di umani su Marte, saremo tutti piú poveri.

SPETTACOLO Uno dei piú colossali equivoci del lessico calcistico. Tutti parlano del calcio-spettacolo, nessuno accetta la tesi per cui questo sport, questo gioco è cosí povero atleticamente e anche tecnicamen- te, tanto è vero che per giocarlo bastano i piedi, che lo spettacolo vero è costituito dal contorno, di cui magari fanno parte, e attiva, proprio quelli che invocano lo spettacolo intanto che proprio loro lo fanno. Il vero spettacolo nel calcio è quello della propria squadra che vince. Tutto il resto è onanismo onirico, quando non si parla di spettacolo in malafede, per giustificare spese folli, tipiche ad esempio di produzioni cinematografiche dette appunto spettacolari. Ultimamente si dice show e almeno si frequenta la malafede in inglese.

SPOGLIATOIO Il posto dei posti, il padre di tutti i posti sacri del calcio, qualcuno dice piú sacro ancora del centrocampo, dell'area di rigore, della rete, della panchina. Come abbiamo già avuto occasione di di- re parlando del gruppo, nello spogliatoio nascerebbero addirittura le vittorie: anche se non ci sono notizie di gol realizzati dallo spogliatoio. Nello spogliatoio la squadra si cementa, per poi cimentarsi al meglio. Nello spogliatoio gli sconfitti hanno la nudità dei vermi, i vincitori quella degli antichi eroi di Olimpia. Nello spogliatoio il mister (vedi) dice le sue minchiate, tanti lo sentono ma pochi, per fortuna, lo ascoltano. Nello spogliatoio si trama, si congiura, si scongiura. I grandi allenatori sono essenzialmente grandi esperti di spogliatoio. Lo spogliatoio è anche confessionale, lettino dello psicanalista, clinica per psicoterapia di gruppo, teatro di psicodramma, oltre che ospedale per i malati. Tutto comincia e finisce nello spogliatoio, dove Dalí, se avesse saputo di calcio, avrebbe piazzato il centro del mondo, che ha invece deciso essere la stazione di Perpignano. Un centro del mondo poi mobile, che è dovunque, si sposta con la squa- dra dovunque. Nello spogliatoio mica tutti possono entrare. Certe volte nemmeno il presidente. Il mister ha questo estremo potere decisionale, lui lí è il capo di ogni possibile capo. Le donne, se giornaliste e se negli Stati Uniti sí, in Italia è un'altra faccenda, in Arabia non se ne parla proprio. Laggiú negli Usa, hanno pure la possibilità di essere violentate. Nello spogliatoio può accadere di tutto, come Woody Al- len fa dire a uno dei suoi personaggi che accada nel New Jersey, dove notoriamente si campa di noia. In anni e anni di evoluzione il calcio ha cambiato anche il pallone, ma non lo spogliatoio, che grosso modo è quello di sempre. Qualche vasca in piú, l'arrivo del signor Jacuzzi con i suoi congegni, ma in linea di massima siamo ancora all'intonaco sbrecciato, all'appendino per gli abiti, all'armadietto. E anche il custode dello spogliatoio è sempre lo stesso, in Italia adesso ha cent'anni, come il campionato di calcio. Ci sono giocatori, oltre che allenatori, capaci come suol dirsi di fare spogliatoio. Hanno sempre la parola giusta quando le cose van- no troppo male e anche quando vanno troppo bene. Sanno l'ultima barzelletta. Lasciano sulla panca (altro "must": la panca dello spogliatoio fra l'altro è piccola rispetto a quella a bordo campo, però essa viene chiamata panca, l'altra panchina) il giornale con in vista la notizia, il titolo che interessa sia letto. C'è l'odore dello spogliatoio, un afrore naturale da sudore piú una puzza sanitaria piú un profumo di lozioni. Ci sono giocatori che entrano nello spogliatoio come per fare una gita in pineta. Ci sono giornalisti che quando finalmente hanno accesso allo spogliatoio svengono, un po' per l'emozione, un po' per quell'odore. Si narra, si favoleggia di formidabili liti nello spogliatoio, di risse, di bottiglie scagliate contro il muro. Di giocatori che il mister "appende al muro dello spogliatoio", non si sa bene come ma si sa che sí. Di riti pressoché satanici, per farsi amico il fato. Di macumbe, di sedute medianiche. Di linguaggio criptico da spoglia- toio. Di dialoghi sui falli, e non solo di gioco.

SPONSOR I pronostici dicono che saremo appena entrati nel terzo millennio e lui, lo sponsor (a quando la dizione "signor sponsor", o meglio ancora "mister sponsor"?) già cambierà tutto lo sport, e dunque an- che tutto il calcio. E' sempre esistito, solo che una volta si chiamava mecenate e pubblicizzava soprattutto se stesso, adesso pubblicizza un prodotto che lui commercia, oppure un'industria, un'impresa, oppure una situazione (editoriale, finanziaria, economica, mafiosa). Le sponsorizzazioni sono in effetti una cosa insieme misteriosa e chiarissima, dispendiosa e conveniente, studiata e miracolistica, logica e illogica. Ce ne sono anche di gonfiate, per costituire ad esempio capitali all'estero fingendo di sponsorizzare, o sponsorizzando per una cifra ridicolmente inferiore a quella invece denunciata e ammessa del beneficato, una corsa di lumache alle Bahamas. Lo sponsor talora è sconosciuto, almeno fisicamente, talora è presentissimo, dilagante, ingombrante. Lo sponsor talora è discreto, piú spesso è travolgente, vuole sovrapporsi all'evento, all'uomo. Talora è furbo, talora è fesso, sempre è importante. Decide carriere, pause, ritiri, ritorni. Dicono che ormai decide anche gli esiti dei grandi eventi sportivi. Se un suo atleta deve vincere, fa di tutto perché vinca, e quasi sempre ci riesce. Dell'atleta sconfitto ormai si dice sempre di meno che ha i crampi, che è impreparato, sempre di piú che non è sponsorizzato, o che non è abbastanza sponsorizzato, intendendo parlare di scudi di potere. Nel calcio lo sponsor è entrato discretamente, prima dando il nome a certe squadre, come il Lanerossi, il Marzotto, per automatismi lessicali connessi alla proprietà di esse da parte sua o quanto meno alla presenza di suoi interessi mecenatistici, poi (Sanson, approfittando di un buco nel regolamento federale) con il nome sui calzoncini, infine con il nome sulle maglie e con interventi sulle maglie stesse, perché il nome si vedesse sempre meglio. Si succedono nel calcio sponsor piccoli e sponsor enormi, sponsor avventurosi e sponsor con programmi a lunga gittata, sponsor commerciali e sponsor tecnici che si limitano a prodotti - indumenti e attrezzature - attinenti allo svolgimento del gioco. Intanto nascono le sponsorizzazioni di un intero evento, come un torneo o addirittura un campionato. Importante è apparire il piú possibile con il nome, con il marchio. Se questo non avviene, o avviene in misura ridotta, si deve pubblicizzare la sponsorizzazione, comprando ad esempio pagine di giornali per far sapere che si appare in televisione. Trattasi, è chiaro, di un giro vizioso, quasi depravato.

Nata spesso per amore personale dello sport, la sponsorizzazione è diventata sempre piú un calcolo pubblicitario, commerciale. E il campione è diventato sempre piú il mezzo per questo calcolo. Il campione che era un fine è diventato un mezzo, e questa può essere, dal punto di vista umanistico, la sua fine: aiuto... La sponsorizzazione, o piú semplicemente lo sponsor, gode di attenzioni manichee: o tutto è male, o tutto è bene. Lo sport piccolo cerca sponsor, lo sport grande li lascia in fila a bussare alla sua porta. Nell'attesa di compensazioni ed equilibri, segnaliamo che lo sponsor fa anche guarire i malati, camminare i paralitici, vedere i ciechi, resuscitare i morti. Avete già sentito parlare di qualcun altro cosí bravo nella storia dell'umanità, e che però non fosse sponsorizzato da Dio?

STADIO Il posto massimo dove si fa lo sport, e quindi anche il calcio. Pare che sia in declino, visto che la televisione permette a ognuno la costruzione di un comodo personale ministadio in casa propria. Pare peraltro che il fascino dello stadio sia eterno, che senza stadio lo show sportivo muoia. C'è un pronostico per cui fra poco le comodità, le suggestioni televisive saranno cosí tante che allo stadio andrà soltanto gente pagata per essere lí, per fare ambiente. Per sottoporre insomma lo show a una specie di respirazione artificiale. Intanto però lo stadio continua a essere tempio, con tutti i misteri del caso. Infatti la partita di calcio vista allo stadio, cioè in molti casi non vista, per via dell'eccessiva distanza fra spettatore e azione, o per persistente nebbia da fumogeno, "vale" come la messa a cui si assi- ste lontani dall'altare, parlottando con il vicino e guardando sempre l'ora. Pare che uno dei mali del calcio italiano consista nel fatto che quasi tutte le società non sono anche padrone del loro stadio. Noi pensiamo con terrore a cosa accadrebbe se dello stadio certe società fossero padrone e non soltanto inquiline. Ultimo stadio è infine una situazione di difficoltà estrema, la cui soluzione è indifferibile: insomma, nel calcio è la norma.

STAMPA Nella fattispecie dello sport, quel giornalismo che si occupa delle sue vicende. Nella fattispecie di questo dizionario, il giornalismo calcistico, in Italia diffuso come in nessun altro paese, con tre quotidiani sportivi e mezzo (uno ha due testate) e con tante pagine di sport sui quotidiani politici, oltre che con tante pubblicazioni a periodicità varia. Il giornalismo sportivo, di cui quello calcistico è componente essenziale e adesso primaria, ha vissuto in Italia tre grandi fasi, almeno secondo la ricostruzione nostra personale, che ha avuto l'onore di essere presa sul serio anche in autorevoli pubblicazioni. 1) Fase dell'amore, grosso modo sino a metà degli anni '30. Nasci- ta dello sport, nascita dei suoi cantori, spesso cosí innamorati della creatura da inventare e organizzare per essa manifestazioni, feste, saghe: il Giro d'Italia, come anche - e sei anni prima, nel 1903 - quello di Francia, come la Coppa del Mondo di calcio e come la Mille Miglia automobilistica, sono nati da idee di giornalisti sportivi. E questi giornalisti hanno scritto su di essi articoli d'autentico amore, anche se di grammatica e sintassi spesso approssimative. 2) Fase dell'erotismo, grosso modo sino a metà degli anni '70. I giornalisti sportivi, stufi dell'amore semplice, si sono dati all'erotismo, cioè allo studio di esso, con implicazioni di ogni tipo, letterarie e scientifiche, psicologiche e persino razziali, e anziché semplici poesie hanno cominciato a scrivere, su impulso specialmente di Gianni Brera, articoli complessi, vere e proprie trattazioni sportive. 3) Fase della pornografia. Per via della concorrenza editoriale, e intanto anche della dilatazione dello sport, coincisa con la sua volgarizzazione (nel senso della grossolanità, non della diffusione che già esisteva), dall'erotismo tutto sommato impegnativo si è passati alla pornografia, cioè alla descrizione dettagliata e orpellata dell'atto sportivo, con forte evidenza grafica e con il corredo di informazioni collaterali di ogni tipo, di grana la piú grossa e crassa possibile. Come in ogni spettacolo pornografico che si rispetti, la gente è stata chiamata a vedere piú che a guardare, e casomai a guardare il contorno: ad esempio la performance sessuale vera e propria del campione è stata indagata persino piú di quella tecnico-agonistica, dalla quale in fondo il campione è nato, per la quale è stato cosí consacrato. Giornalismo di forte presa, articoli urlati piú che "detti", con adeguamento repente della radiotelevisione alla stampa scritta pioniera. Nascita di un giornalismo nazionalpopolare che comunque sia il suo inventore, Gino Palumbo, che il suo erede nonché massimo diffusore attraverso i progressi della Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò, hanno tenu- to dignitoso per un bel po', sino a che la televisione non è diventata insieme melassa e valanga di tutto e di tutti, su livelli alti di informazione e di attenzione alle cose anche puramente sportive. Poche righe ancora sul concetto di pornografia nello sport. In fondo lo sport ha molto dello spettacolo pornografico (da una scoperta geniale di Oliviero Beha, agli inizi della sua carriera di giornalista sportivo nel quotidiano Tuttosport, a quei tempi diretto dall'autore di queste righe): ci sono cioè persone che vanno a vedere, pagando e spesso plaudendo, altre persone impegnate a fare bene, a fare comunque al meglio ciò che esse vorrebbero ma non possono fare. O no?

STELLA Corpo celeste. Campione di uno sport, e in genere grande personaggio del mondo dello spettacolo. Segno distintivo, nel calcio italiano, della squadra italiana che ha vinto dieci scudetti e dunque sino alla fine del secondo millennio soltanto di Juventus (due stelle), Inter e Milan. In senso molto traslato, e con la parola usata al plurale, le stelle sono quelle che si vedono dopo aver ricevuto una botta. Il calciatore che prende un calcio da Ronaldo vede insomma tante stelle di questo tipo piú una: l'una è Ronaldo, che gli sta vicino e che magari sogghigna.

STILE Una volta c'era il culto dei giocatori con stile, per i club con stile, su tutti la Juventus. Adesso lo stile nel calcio non serve piú, a meno che sia davvero finissimo e allora si chiama stiletto.

STOPPER Figlio del centromediano (vedi) nipote del mediocentro. Nel suo nome sta l'essenza del compito, che è quasi sempre un compito in negativo, cioè di limitazione, neutralizzazione e se dal caso stroncamento di attività e anche attivismo del nemico.

STRESS L'anticamera del calo o anche del crollo psicofisico, piú psico che fisico. Non si sa bene da dove proviene, oppure lo si sa anche troppo: non c'è via di mezzo. Nel primo caso si registra pure lo stress di chi vorrebbe sapere da dove viene lo stress e non ci riesce. Una volta nel calcio lo stress dipendeva da incertezze sull'impiego, da tensione per l'impegno, insomma dalla mancanza di aggancio sicuro a situazioni positive concrete. Adesso lo stress ha genesi molto assortita: intorno allo stress primario, quello della popolarità, c'è quello del rinnovo di contratto, della nuova destinazione, del rapporto con lo sponsor (ha sostituito quasi integralmente lo stress da rapporto con il presidente o con l'allenatore), dei rapporti umani con la moglie, l'amante, magari anche la moglie del presidente. La nascita intorno al campione di procuratori, agenti e manager è stata in larga parte motivata dalla necessità o quanto meno dall'opportunità di sistemare fortificazioni intorno al campione stesso, per evitargli appunto lo stress. Da notare che il campione frequenta stress specialissimi, come quello di dover portare i bambini a scuola, di non poter fare la spesa tranquillo in un supermercato, di non poter pagare i vestiti che gli piacciono molto e di doverli accettare gratis (c'è meno gusto poi a indossarli), di non poter andare serenamente dal macellaio a scegliere bene i pezzi meno costosi e piú gustosi per lo spezzatino e di dover invece accettare il filetto gratis: è anche per questo che va avanti ad aragosta e caviale.

STRISCIONE Il tam-tam grafico dello stadio, la segnalazione dalla gradinata di una protesta (spesso) o di una soddisfazione, scrivendo su una striscia di tela solitamente ricavata da un lenzuolo cosa si pensa, cosa si vuole. Ci sono striscioni violenti, osceni, bischeri, assurdi, criptici, balordi, bastardi, blasfemi, schifosi, festosi. Ci sono anche striscioni umoristici, furbi, divertenti, di quelli che fanno capire che un lenzuolo può servire anche a cose intelligenti, non solo a completare un letto sul quale, facendo l'amore, si fanno venire al mondo persone che poi riempiranno malamente la maggior parte degli striscioni.

SUDAMERICANO Tipo di calciatore, specialmente argentino, brasiliano e uruguayano, che tratta il pallone con finezza, con eleganza, appunto alla sudamericana. Il calciatore e di conseguenza il calcio sudamericano sarebbero alla base dei massimi spettacoli nel mondo del pallone. Quando il calcio sudamericano è giocato male, o quando ci sono eccessi di violenza in giocatori che magari si ritengono offesi dallo scarso rispetto del loro talento, si preferisce parlare di ardente calcio latinoamericano, mettendoci dentro il resto del Sudamerica, il Centroamerica nonché quel Nordamerica atipico che si chiama Messico.

SUGGERIMENTO Nel calcio è il passaggio che invita all'azione o addirittura al gol. I grandi suggeritori sono di solito calciatori furbissimi e sfiatati, che delegano ad altri il compito di finalizzare, di concretizzare la loro idea. Sono pagati molto, come tutti quelli che nella vita conoscono il segreto di far correre gli altri.

SUOCERO Sino a poco tempo fa un personaggio in sede contrattuale molto importante, perché delegato a trattare gli affari del genero calciatore. La moda delle separazioni e dei divorzi ha favorito l'avvento, a spese del suocero, del procuratore (vedi) e dei suoi succedanei.

SUPERALLENAMENTO Il danno causato dall'allenarsi troppo, dunque un danno che non dovrebbe riguardare il calcio.

SUPPLEMENTARI La frazione, anzi le due frazioni di gioco, di solito di un quarto d'ora l'una, appiccicate ai cosiddetti 90 minuti regolamentari, per dirimere una contesa finita in parità. Il tempo supplementare viene orpellato, in caso di persistente parità, dall'effettuazione dei calci di rigore, oppure viene interrotto, in caso di regolamento particolare, dal golden gol (vedi) che assegna l'incontro a chi in questo tempo riesce a segnare per primo. Se sono previsti i rigori, nel tempo supplementare di regola non cambia nulla, perché le squadre preferiscono trotticchiare senza rischi verso la lotteria dal dischetto. Lo prova il culto storico, museale del massimo tempo supplementare nella storia tutta del calcio, quello della semifinale mondiale 1970, in Messico, fra Italia e Germania, con la nostra vittoria per 4 a 3 (il tempo regolamentare era finito sull'1 a 1) e con apposizione di una targa che recita "vencido y vencedor, siem- pre con honor". Lo scarso turismo italiano in Messico ha fatto sí che finora la targa non sia stata orpellata di quella scritta classica, molto italiota, che dice: "...e chi ce l'ha in c' ce l'ha in c'".

SVINCOLO Il contrario di vincolo, ma, nonostante la esse privativa, una situazione beata del calciatore, che si trova a essere padrone pieno del proprio cartellino (vedi), senza problemi. Il calciatore svincolato costa di meno alla società, la quale non deve risarcire quella con cui il calciatore è sotto contratto, ed è dunque molto ambito, a meno che lo svincolo sia stato da lui ottenuto per motivi di anagrafe pesante oppure per perdita di una o anche due gambe.

T

TACKLE Il contrasto palla-piede-palla. Il calciatore con gambe e piedi piú forti lo vince e va via. Il tackle, parola inglese, non è altro che il caro vecchio rimpallo che ha studiato una lingua e si è pure nobilitato: nel senso che il rimpallo può anche essere casuale, e dunque fortunoso per uno, sfortunoso per un altro, mentre il tackle è voluto, cercato. Il rimpallo è caso, il tackle è atletismo. Di rimpallo spesso si stravive, segnando gol fortunati, e si muore, subendo gol sfortunati. Di tackle in genere si vive, anche se non sempre lo si vince: nel senso che uno che accetta o addirittura cerca il tackle è un duro, uno che ha sempre buona stampa e buon merca- to.

TALENTO Uno o ce l'ha o se lo fa inventare dalla stampa amica, dai procuratori furbastri, dai tifosi malleabili. Il talento una volta si esplicava soltanto sul campo di gioco, adesso si esplica nelle interviste, nelle comparsate televisive, e magari supplisce a carenze dell'altro talento, quello squisitamente calcistico. Una volta il talento bastava, poi la preparazione atletica lo ha non vanificato, no, ma ridotto di importanza. Senza fondo atletico, specie per la ormai essenziale velocità di gioco, senza volontà fachiristica, il talento rischia di non contare piú come un tempo. Magari hai talento, ma hai anche due caviglie, e se a esse si applica ferocemente un avversario il tuo talento ti serve al massimo per schivare i colpi, non anche per costruire gioco. Di Cruijff (vedi), l'olandese dall'enorme talento, si diceva che avesse gli occhi dietro la testa, per vedere i nemici che stavano scagliandosi, anche proditoriamente, addosso a lui. Una protesi di questi occhi, per chi non riesce a farseli spuntare sul cranio, può essere rappresentata da un buon arbitro.

TATTICA L'organizzazione a priori di una partita, la sua schematizzazione a tavolino. Una faccenda di pochi minuti o di molti giorni, dipende se l'allenatore è in vena di manfrina oppure no. Non esiste una tattica sapiente, intelligente, meditata, ragionata, esiste una tattica vincente: se per vincere la trovata tattica consiste nello schierare un giocatore paralitico con la pelle a pois, si parla di grande tattica, che magari fa scuola. I grandi tattici esistono, e hanno sempre ragione, sia pure "dopo". Ma raramente fanno gli allenatori: questo perché gli allenatori praticano soprattutto l'empirismo, che non sta su nessuna dispensa universitaria di Coverciano (vedi). Si potrebbero scrivere righe e righe sulla tattica, e in pratica molte ne sono state scritte dicendo di metodi e sistemi di gioco. Esiste però una tattica che è fatta di niente, al massimo di sospiri, di allusioni, e che però spesso serve piú di ogni altra per fare andare in bestia gli avversari e sconvolgere sul campo i valori di tecnica, di classe, di mercato. La tattica va spessissimo al bar, viene invitata nei migliori salotti, vive regolarmente negli spogliatoi, alligna sulle pagine dei giornali e nei dibattiti televisivi. Persino le due grandi religioni della storia calcistica, l'offensivismo e il difensivismo, sono in pratica assimilabili a tattiche. Il popolo italiano grande tatticista a un certo punto della sua intensa esistenza ha scoperto non solo che viene imbarcato un tattico anche sulle barche della Coppa America, ma che si fa tattica in quella Coppa America calcistica che dovrebbe essere il regno del fantasioso e perciò non tattico calcio sudamericano e specialmente brasiliano, e la cosa gli ha fatto molto piacere, perché ognuno dei componenti di questo pur vasto popolo ha cosí saputo di non essere calcisticamente vissuto invano. Per finire qui sulla tattica, argomento peraltro infinito, diciamo che ogni tanto si ha il sospetto che due grandi tattici, i quali sono chiamati al confronto diretto, si siano incontrati prima di esso una o piú volte e abbiano messo a punto tutto il teatrino delle dichiarazioni, delle controdichiarazioni, per il diletto e anche il sollazzo delle turbe di esperti e tifosi (c'è mescolanza e interazione fra le due categorie). Cosí che ogni tattica di uno ha il riscontro della controtattica dell'altro, e la partita viene tutta giocata prima, e qualche saggio osa persino chiedersi (non chiedere ad altri, sarebbe sbranato di critiche) se la tattica non sia in realtà una convenzione, un copione, una recita, una finzione, non- ché chiedersi se in campo non accada quello che la dinamica, il divenire del gioco fanno accadere, non quello che i disegni tattici avevano previsto: cosí che la tattica migliore risulti forse, alla fine di tutti i calcoli, le riflessioni, le decisioni, quella di - assolti i riti obbligati e utili della preparazione fisica e della messa in campo di chi è in forma - pregare intensamente i propri dèi e lasciare che facciano un po' loro.

TECNICA Mentre è possibile che la tattica non esista, sia un'invenzione di tecnici e un giochetto di giornalisti, è tecnicamente certo che la tecnica esiste. Individuale e persino collettiva, quest'ultima intesa come gioco collettivo. Detto - anzi scritto - che la tecnica esiste, si deve decidere se si tratta di dono di Dio o di dotazione acquisibile: in altre parole se campioni di calcio si nasce o si diventa. Un problema simile non è certamente affrontabile qui, siamo mica matti. Non siamo tecnica- mente in grado di esplorare una parola cosí importante.

TELEFONINO Strumento per riconoscere se un calciatore è mancino oppure no. Basta osservarlo quando scende dal torpedone sociale: siccome in quel momento parla sempre ma proprio sempre al telefonino, basta controllare qual è la mano che lo porta all'orecchio.

TELEVISIONE All'alba del terzo millennio non è ben chiaro se la televisione uccide il calcio oppure lo fa rinascere quando non addirittura lo salva dalla decadenza mortale. Quasi certo è che uccide il tifo tipico, quello da stadio. Di fronte a un mistero cosmico di questa forza, diventa difficile affrontare la parola con rigore oppure con disinvoltura. Il pallone nella rete è diventato, come già scritto, non il pallone del gol, ma il pallone catturato da questa o quella rete televisiva, con contratti legali o con azioni piratesche oppure brillantissime, oppure piratesche e brillantissime: e si tratta di uno dei piú importanti eventi nella storia ludica, voyeuristica dell'umanità. Una sola cosa ci preme precisare, anche se tutti la sanno: la partita vista in televisione è completamente diversa da quella vista sul posto. Personalmente possiamo portare un esempio forte. Coppa del Mondo 1982 in Spagna, quella che avrebbe dato all'Italia il titolo, partita a Gijon fra la Germania e l'Austria, con i tedeschi che devono vincere per rimediare a una inopinata sconfitta subíta dall'Algeria, e con i loro cugini austriaci che possono benissimo perdere, tanto sono già qualificati. Partita ignobile, 1 a 0 regalato dall'Austria alla Germania, battaglia sugli spalti fra la polizia spagnola e i tifosi algerini che vogliono invadere il campo. Inviati di un grande giornale politico, segnalammo la vergogna a colleghi che, in sede, avevano visto l'incontro in televisione e che non si erano scandalizzati: a loro l'Austria era apparsa semplicemente rilassata, come è tipico di una squadra già sicura di passare al turno successivo. La spiegazione è nella televisione. Quando un giocatore austriaco aveva la palla e poteva comodamente passarla a un compagno smar- cato e invece la teneva fra i piedi sino a che un tedesco gliela portava via, o la passava a un compagno marcato che subito la perdeva, mi- ca si vedeva alla televisione la straordinaria opportunità che lui aveva scientemente trascurato, quella ad esempio di lanciare un compagno per un facile contropiede. La televisione aveva molto semplicemen- te mostrato un'altra partita, giocata (nemmeno disputata, no) in spazi ristretti, fatta di duelli personali. Per fortuna che il giornale rispettò il punto di vista del suo inviato speciale. Il giorno dopo un quotidiano locale pubblicava la partita nelle pagine della cronaca nera, sotto il titolo: "Quarantamila persone derubate allo stadio da ventidue cittadini tedeschi e austriaci". Accettato - anzi accertato - che la partita vista in televisione è diversa, quando non addirittura "opposta", rispetto alla partita effettivamente giocata sul campo, si può persino decidere (prescindendo ovviamente dal diverso costo) quale è la migliore, nel senso della fruizione, considerando che la televisione ha dalla sua infinite possibilità di offerta di spettacolo, mentre lí sul campo le vicende fuggono e sfuggono, la gente vede ma non può trattenere l'immagine nella vista grazie a strumenti supplementari, perfezionanti il dettaglio e l'insieme. Però per quel che riguarda la partita lí sul campo la gente può avere la sensazione di essere importante, di intervenire nel suo svolgimento, anche se appena con una espressione sonora. Il problema in fondo ha importanza pratica soltanto per i bilanci delle società. La televisione con i suoi diritti in dollari riuscirà a rendere ridicolo l'apporto economico del pubblico al botteghino? O senza il pubblico non c'è la partita, intesa come insieme e quindi anche come ambiente, e dunque il botteghino esisterà sempre, solo che la gente ci andrà per prendere anziché dare i soldi? Gente cioè pagata per entrare allo stadio, fare tifo, fare colore, fare rumore, insomma fare ambiente, fare l'ambiente. Qualcuno dice anche che la televisione cambia il calcio, nel senso che condiziona i comportamenti dei giocatori, influenza le valutazioni arbitrali, insomma entra profondamente nel gioco. Ma- gari chi dice cosí è la stessa persona che altre volte ha affermato che quando un giocatore è in campo non pensa neppure alla propria incolumità fisica, neppure ai soldi che guadagna, pensa a giocare e basta, stregato e stregatissimo dalla palla che rotola. Insomma, la televisione ha portato nel calcio tante problematiche, tutte in pieno divenire, e per chissà quanti anni ancora nessuna definibile, fissabile, risolvibile. La stessa televisione contiene nel suo cuore tecnico problematiche importanti. Si pensi a cosa era, all'inizio degli anni '90, l'alta definizione, cioè un nuovo tipo di immagine che con la sua chiarezza avrebbe permesso di vedere lo spettacolo sportivo, e la partita di calcio su tutto, in maniera nuova, sconvolgente e intanto appagante. Di alta definizione non si parla piú, pare che la pur importante innovazione tecnologica sia rinviata, per la semplice ragione che il mercato non è pronto ad accoglierla: e viene con essa rinviato anche il calcio nuovo che i telespettatori avrebbero potuto vedere. La televisione insomma è qualcosa di gelatinoso, è progresso ma è anche gelatina di progresso. Una mobilità che è pure tremolio, incertezza, vaghezza. Non si sa se porterà al calcio il massimo bene o il massimo male. Si sa che non lo si potrà sapere presto, ecco il vero punto fermo. La si pensava almeno giudice di pace, dirimente ogni questione con la perentorietà tecnica delle immagini, e invece la stessa realtà televisiva è suscettibile di varie interpretazioni. Il "chissà cosa dirà la televisione" non è sempre l'attesa fiduciosa di una sentenza, ma spesso è l'attesa di una nuova incertezza. In fondo la televisione ha inciso piú profondamente sul calcio parlato - offrendo nuovi moduli, nuovi copioni di giornalismo anche urlato - che sul calcio giocato. Questo può essere un dato di partenza per una discussione, oppure un elemento in piú per un colossale blob.

TEMPO La durata della partita, e quando si tratta dei suoi primi 45 minuti si dice primo tempo, dei suoi secondi 45 minuti secondo tempo o ripresa. Il secondo tempo supplementare non viene invece mai chiamato "ripresa supplementare". Il tempo della partita una volta era abbastanza fisso, poi l'introduzione dei ricuperi (vedi), tesa a ovviare le artificiose perdite appunto di tempo, per rispettare la spesa del biglietto, ha fornito elasticità. La diffusione di un segnale luminoso a indicare il tempo di ricupero ha tolto ai tifosi nello stadio la possibilità di gridare "arbitro, tempo!" onde invitare il direttore di gara a fischiare la fine quando la loro squadra sta vincendo la partita, solitamente per concorso di furto e fortuna. La piú clamorosa discussione popolare a proposito di tempo ri- guarda la finale mondiale del 1970, a Città del Messico, fra Italia e Brasile, quando Rivera, azzurro, impegnato in quel torneo quasi sempre in una staffetta con Mazzola, con cambio a metà tempo, fu mandato in campo soltanto a 6 minuti dalla fine, con il Brasile or- mai sicuro sul 3 a 1 (e avrebbe segnato ancora un gol). Il c't' Valcareggi (vedi) fu accusato di empietà, di pazzia, e il mistero di una sostituzione cosí tardiva non venne mai del tutto risolto. La spiegazione per l'errore nella valutazione del tempo può consistere nel fatto che Valcareggi si sia molto semplicemente sbagliato nell'osservare le lancette del suo cronometro, e che l'errore sia stato di un quarto d'ora tondo, uno spicchio intero dell'orologio, considerato poi che nel calcio una unità di misura, con tempi di gioco di 45 minuti, è appunto uno dei tre quarti d'ora da cui il tempo stesso è composto. Lui cioè pensava che mancassero ancora 21 minuti alla fine, e non soltanto 6. Spiegazione troppo semplice per divertire i grandi dietrologi del pallone.

TERZINO Ruolo lessicalmente desueto, anche se ci sono due difensori per squadra che giocano, adesso, esattamente come i terzini di prima. Il fatto è che adesso il terzino si chiama difensore di fascia, e pare che uno per squadra basti e avanzi. Con la decadenza lessicale della parola, è finito anche lo splendido intelligentissimo gioco di parole che si applicava a un terzino quanto era stato abile nel marcamento, in pratica imprigionando l'avversario affidatogli dal mister e magari anche, in caso di confronto importantissimo, dalla Storia. Ma ecco il gioco di parole: un terzino cosí bravo nell'imprigionare l'avversario che ad un certo punto pareva un secondino.

TESTA Parte del corpo con cui è lecito colpire il pallone in fase di gioco, oltre che pensare al gioco in fase di riposo. Giocatori senza testa possono essere giocatori stupidi oppure giocatori che non riescono a colpire bene il pallone con il cranio. Mamme e papà preferiscono figli scemi a figli non assi del calcio, e dunque quando sentono dire che il loro figlio non ha testa da un maestro di scuola non si preoccupano che la milionesima parte di quando lo sentono dire da un allenatore calcistico. Un calciatore che abbia testa nel senso di cervello pensante e di cranio bene colpente la palla rischia di diventare, se non un asso assoluto, un campione specialistico, e di fare carriera specifica. Fra uno che abbia testa per la scienza e uno che ce l'abbia per il pallone la differenza comunque è di pochi miliardi di reddito, niente altro di interessante.

TESTIMONIAL Il campione dello sport - ma anche dello spettacolo tout court - che mette la sua popolarità al servizio di un certo prodotto, del quale diventa fruitore ufficiale, pagato - e benone - per essere il pifferaio di Hammelin dei consumatori. La differenza fra testimone e testimonial (termine inglese senza valenza giudiziaria: il testimone dei processi si chiama wittnes) consiste nel fatto che il primo deve dire la verità o quel vero personale che lui pensa sia la verità, il secondo deve dire anche il falso, se lo esige la strategia pubblicitaria di un prodotto.

TIFO Malattia infantile dell'appassionato calcistico, detto appunto tifoso. Il tifo non ha genesi, non ha spiegazioni, non dovrebbe avere limitazioni. Il tifo è, esiste, e basta. Nel nome del tifo si spostano le montagne e gli sbarramenti delle forze dell'ordine, la logica e la scala dei valori, i seggiolini fortemente fissati alla gradinata e i pareri degli stessi responsabili dei club. Ogni tanto nel nome del tifo si usano i coltelli e si sposta uno dalla vita alla morte: evento per fortuna raro, di cui si parla parlando della violenza (vedi) legata al mondo del calcio. Il tifo si prende non si sa dove e non si sa come, però si prende, e non viene di regola piú lasciato. Il tifo nuoce alla vista, e infatti il tifoso non vede bene le cose, e nuoce all'udito, e infatti il tifoso non sente ragioni. Sono stati scritti libri sul tifo, migliaia di articoli sui tifosi, e ogni volta che loro fanno qualcosa che non va ci si chiede come mai, come è possibile, e si arrotondano deschi per farne tavole rotonde, si aprono sale per fare convegni. Il tifo come malattia infettiva ha avuto al paragone pochissimi studi. Si dice che il tifo tenga in vita il calcio, che il calcio senza tifo sia sciapo, azimo, e molto probabilmente è vero. Poi si critica il tifo e si auspica un'Arcadia di moine, inchini, riverenze, festicciole. Si invoca il tifo di una volta, quello in cui gli striscioni dicevano agli avversari "siamo spiacenti di rendervi la vita dura, ma questa è la dura legge dello sport", e poi si dice che il calcio, divenuto industria, ha le sue esigenze forti, le sue regole ciniche.

TIFOSO Colui che ospita dentro di sé il tifo, lo coltiva, lo fa crescere. Personaggio ritenuto, secondo una sinusoide di opinioni, ora splendido e commovente, ora schifoso e blasfemo; ora teneramente duttile, ora decisamente violento. Si conoscono poche e incomplete definizioni del tifoso. Si dice, con una sorta di definizione indiretta, che un giornalista non deve essere un tifoso, senza però dire che un tifoso non può essere giornalista. La fanzine (da fan, tifoso, e da magazine, giornale) è produzione giornalistica, di origine britannica, dove con pubblicazioni periodiche e di veste grafica solitamente dimessa i tifosi fanno i giornalisti e dove ogni tanto, benché protetti magari da invalicabili pseudonimi, i giornalisti fanno i tifosi. Insomma, una realizzazione piena di desideri inconsci o ammantati di paura, di ipocrisia. Pochi bipedi al mondo hanno avuto intorno, addosso, dentro, da sopra e da sotto tanti studi come i tifosi. Pochi sono stati cosí poco compresi, classificati, catalogati, risultando pertanto molto imprevedibili. Pochi hanno avuto una forza cosí vaga e intanto cosí vasta, vellicati e titillati da quasi tutte le categorie di chi opera nel mondo del calcio e poi anche da politici, imprenditori, show- men. Pochi sono stati cosí indeterminati, eppure, in certi momenti, cosí precisi e inquietanti. Del tifoso si sa con certezza una sola cosa: che in linea di massima è un maschio giovane. Ma anche questa certezza sta per essere smantellata da nuove generazioni di tifosi donne, e questo senza per ora considerare la categoria dei tifosi ermafroditi e transessuali. I due aggettivi appiccicati piú spesso al tifoso sono "caldo" e "illustre": ma un aggettivo per volta, come se essere caldo significasse non poter essere illustre, ed essere illustre significasse non poter essere caldo. Come se, insomma, il tifo vero, forte, pregno potesse essere fatto soltanto dalle gradinate dei biglietti a buon prezzo, non dalle tribune dei biglietti cari. Il tifo, insomma, è cosa della gleba, che quando trascende diventa suburra: due termini che comunque insistiamo a non mettere ancora nel lessico calcistico, pensando che il primo debba e il secondo possa essere passeggero.

TITOLARE Nel calcio il giocatore sulla cui presenza in campo non si discute: anche se la rosa dei titolari è molto ampia, ormai, e per ogni ruolo ci sono, nelle squadre ricche, anche tre titolari. I quali a questo punto sono titolari della speranza, piú che del diritto, di giocare. In giornalismo significa fare titoli: i titoli piú apprezzati sono quelli cosí esaurienti che esimono dal leggere l'articolo a cui si riferiscono.

TITOLO Nel calcio la parola "titolo" di solito si aggancia alla parola "scudetto" (vedi): il titolo insomma come definizione di nobiltà, di valore. Curiosamente, dare dei titoli significa però, anche nel calcio, non dispensare contee o ordini cavallereschi, ma insultare. Altro settore quello dei titoli di giornale. Ultimamente il mondo del calcio è stato visitato dalle smanie di titolazione forte di una stampa sportiva drogata, gonfiata, che ha aggredito i lettori con titoli in cui un sospiro è diventato un rantolo, una battuta è diventata una guerra. I calciatori, e piú genericamente gli addetti ai lavori, per un po' se la sono presa, per un po' hanno finto di prendersela, e alla fine hanno capito che anche i titoli sono proteine per la crescita e lo sviluppo del corpaccio a loro tanto caro.

TORCIDA La tifoseria detta, in portoghese, alla brasiliana. La torcida originale presuppone tifosi che sambeggiano per tutta la durata del- la partita, imponente sezione ritmica basata soprattutto sui tamburi, fortissimo repertorio di canzoni e soprattutto ombelichi: quelli esposti delle tifose.

TORELLO Piccolo toro, ma nel calcio il gioco che consiste nel passarsi il pallone senza mai lasciarlo toccare al giocatore al quale è toccato il ruolo di vittima. Lui sta in mezzo a un quadrato o a un poligono nei cui vertici ci sono i compagni di squadra e impazzisce proprio come il toro che corre da un drappo rosso all'altro. Se riesce a toccare il pallone, ovviamente non di mano, sostituisce l'ultimo giocatore che lo ha calciato, e questi diventa la vittima del gioco. Pare che da Nausicaa in giú (ricordate Ulisse che, naufrago, rinvenne sulla spiaggia e la vide giocare a palla?) il mondo della sferistica non abbia inventato niente di piú intelligente per gli allenamenti: infatti si sollazzano eccome con il torello anche i tennisti, mentre i calciatori amano il calcio-tennis, rete bassa e piede o testa al posto della racchetta, meno del torello.

TORINO Città del Norditalia anzi della Fiat, con due squadre di calcio celebri, la Juventus e appunto il Torino. Quest'ultima è diventata il Grande Torino, con l'aggettivo inscindibile dal nome, quando, il 4 maggio 1949, tutta la squadra, con anche tecnici e dirigenti, è morta nella tragedia aerea di Superga, la collina di casa su cui si schiantò l'aereo, di ritorno da una partita amichevole giocata in Portogallo. Da allora il Torino ha inseguito vanamente il Grande Torino, al momento dello schianto vincitore degli ultimi cinque scudetti consecutivi del campionato italiano, riuscendo a prenderlo per la maglia soltanto in occasione dello scudetto del 1976.

TORNANTE Lo dice il participio presente stesso: il calciatore che torna indietro, e che dunque era andato avanti per una interpretazione spinta del proprio ruolo, se difensore, o per una volontà di sacrificio nel caso che il ruolo aprioristico fosse quello di attaccante. Questo sino a che, anziché fare (il secondo caso) di un'ala un tornante, o anziché lasciare (il primo caso) che un terzino andasse all'attacco, si è deciso che quello del tornante potesse e dovesse essere un ruolo tipico, prefissato. Ecco cosí il tornante e basta, anche se non si sa bene da dove torni.

TORNEO Manifestazione sportiva di solito lunga e complessa, da non confondere con i tornei estivi che bidonano gli spettatori con una seratina di calcio compresso. Un torneo che si rispetti deve essere il meno possibile amichevole (e cioè deve avere il meno possibile di partite che finiscono 2 a 2, risultato classico da combine, con parità decisa prima e con abbastanza gol per divertire il popolo), e deve durare abbastanza da significare un buon impegno fisico. Diffidare delle imitazioni e delle limitazioni.

TORRE Il calciatore punto di riferimento per il gioco aereo, specie quello offensivo: nel senso che svettando di testa smista il pallone, ricevuto su cross, al compagno bene piazzato per il tiro, e liberato dal marcamento troppo stretto proprio perché la torre, con la sua possanza atletica, ha richiamato attorno a sé attenzioni supplementari da parte dei difensori avversari. Ultimamente la torre - rara perché è difficile accoppiare alta statura con agilità e tempismo e fachirismo onde resistere ai pizzicotti e alle gomitate e testate degli avversa-ri - la torre, dicevamo, svetta anche nei guadagni, in quanto esemplare di attaccante non facilmente clonabi- le. TOTOCALCIO Sublime invenzione di un giornalista, Massimo Della Pergola, che la ideò e la mise a punto durante la guerra, mentre era internato in Svizzera. Chiamato agli inizi Sisal, il gioco venne poi avocato dallo Stato, che lo passò al Coni, che gli cambiò nome. Il Totocalcio nutre tutto lo sport italiano, perché un terzo degli introiti finisce allo stesso Coni (il resto è monte-premi, tasse e percentuale alle ricevitorie), che lo distribuisce tra le federazioni, compresa quella calcistica che dice di mantenere tutte le altre e chiede continui aumenti della sua quota. Il Totocalcio ha creato e crea milionari e miliardari, premiando chi pronostica esattamente l'esito delle partite arrivando a 13 o anche soltanto 12 punti. La grande competenza degli italiani in materia calcistica viene sbertucciata cosí ad ogni giocata, visto che a vincere sono quasi soltanto i sistemisti che investono grandi capitali o le vecchiette che fanno tutto a caso. Il problema di come farebbe il Coni a finanziare tutto lo sport italiano, oltre che se stesso, senza il Totocalcio ha forse trovato ultimamente una soluzione che si chiama Totogol (vedi).

TOTOGOL Gioco nato mezzo secolo dopo il totocalcio, e subito entrato in forte concorrenza con esso. Si tratta di identificare le otto o le sette o anche le sei partite in cui verranno segnati piú gol, su una lista che ne comprende trenta. E' pressoché escluso che la compe- tenza possa valere qualcosa, e dunque il gioco ha un grande successo an- che fuori dai recinti delle tribú del calcio, e potrebbe essere persino sostituito da un gioco analogo su altro sport o altra faccenda del vivere umano. Quando è apparso, a cura del Coni, nessuno credeva alla sua possibilità di attirare denaro, cosí che, dopo il suo rapido successo, sono cominciate le manovre, da parte del calcio professionistico, per papparsene un bel po'.

TOTONERO Scoperto ufficialmente per caso nel 1979, grazie (massí) a una truffa cosí denominata - partite decise a priori, talora persino nel punteggio, coinvolti pure calciatori celebri - che gli prese e intanto gli diede il nome, quando in effetti il giocaccio già esisteva da anni e da decenni. E' il Totocalcio gestito dai privati, con anche possibile indicazione dei risultati spiccioli, non solo dell'esito finale di una partita, con pagamenti immediati e possibilità di combinazioni di risultati. Vani i tentativi di legalizzarlo e statalizzarlo o almeno codificarlo e casomai "conificarlo", anche perché la legislazione europea prevede la liberalizzazione massima delle scommesse. Non si sa bene dove giocare a totonero, ma si sa che si giocano miliardi: pare comunque che al bar dell'angolo o al distributore di benzina lí sotto sappiano tutto, basta chiedere.

TRADIZIONE E chi si ricorda piú cosa vuole dire?

TRAINER Al principio del calcio era l'allenatore. Si tratta di una delle poche parole inglesi che sono sparite nello sport, adesso c'è il training, l'allenamento, che però patisce il "fuori moda" di trainer, e casomai vive nell'atletica, ampliato in interval train-ing (che nel calcio vuol dire semplicemente allenamento con riposini intermittenti, o meglio ancora con fatiche intermittenti).

TRAPATTONI Giovanni, calciatore del Milan e della Nazionale, allenatore del Milan, della Juventus, dell'Inter, di nuovo della Juventus, del Bayern Monaco, del Cagliari e di nuovo del Bayern. Sotto la terribi- le minaccia di venire ricordato per tutta la vita come il mediano (vedi) che era riuscito a fermare Pelé (vedi), applicandosi anche alle sue caviglie, è diventato un grande, anzi grandissimo allenatore, riuscendo a imporre addirittura virtú morali, e sopravvivendo alle ironie della satira televisiva meno riverente. Un personaggio forte, onesto, chiaro, capace, che il calcio ha cercato invano di plasmare a propria immagine e somiglianza.

TRATTATIVA Ferve. Viene smentita. Esiste. E' a buon punto. E' bloccata. Non è mai cominciata. Sta per finire. E' complessa. E' ormai risolta. Non verte su questioni di denaro. E' alla luce del sole. Eccetera eccetera eccetera. Sempre e dovunque, nel calcio, una trattativa vive realmente al contrario di come viene annunciata.

TRAVERSONE Il caro vecchio amato desueto cross (vedi), cioè il pallone che viene spedito, da un lato del campo, al centro dell'area di rigore, per un intervento, di solito volante, di un attaccante alla ricerca del gol. Pare che i difensori ormai sappiano perfettamente come neutralizzare i traversoni, e dunque che farli sia quasi peccato. Eppure, lasciatecelo scrivere, il traversone è bello.

TREDICI Il massimo risultato ottenibile al Totocalcio, indicando esattamente l'esito di tutte le partite della schedina. Sbagliando un solo esito si fa dodici e si accede egualmente ai premi, però in compagnia piú vasta di fortunelli: da dove si evince che non sempre dodici è prima di tredici. Fare tredici vuol dire alcune volte risolversi la vita, altre volte rientrare in parziale possesso della somma o delle somme giocate. Esistono sistemi assortiti per cercare di fare tredici, compreso quello di chiudere gli occhi e mettere giú dei segni a caso. Sicuramente la competenza calcistica aiuta: a decidere che forse è il caso di non giocare mai, almeno si vincono i soldi cosí risparmiati.

TRIBUNA Posto dove stanno i tifosi ricchi e i calciatori poveri: poveri, quest'ultimi, di forma, e quindi neanche portati in panchina del mister. Poi in tribuna ci sono anche i giornalisti, i politici rapaci di biglietti omaggio, insomma i marchettari, donne comprese ecco- me, dell'esibizione, fatta approfittando di un lussuoso fondale, di una ricca scenografia. Singolare il fatto che, quando si invita una squadra a praticare il gioco semplice, sommario che fa passare il tempo, onde difendere un risultato fortunoso, si invitano i suoi giocatori a buttare il pallone in tribuna, e non sulle gradinate: forse perché si pensa che i ricchi della tribuna lo restituiscano, come se non si diventasse ricchi proprio perché si ha la mentalità di fregare palloni.

TROFEO Il segno materiale di vittoria, solitamente una coppa, qualche volta anche una sfera, un oggetto solido piú o meno definibile. Si scrive di solito che il capitano della squadra vittoriosa alza in alto il trofeo, come se fosse possibile alzarlo in basso.

TUNNEL Far passare il pallone fra le gambe dell'avversario e poi fuggire inseguiti dallo stesso, che vuole prenderti a calci. Ultimamente il calcio italiano ha conosciuto, eccome, il tunnel della Manica, per il passaggio di parecchi nostri giocatori, famosi e no, alle società britanniche.

TUTTO iL cALCIO mINUTO pER mINUTO Grazie di tutto quello che ci hai dato, compresa l'idea per titolare questo libro.

U

UEFA Union Européenne des Football Associations, la federazione delle federazioni europee, celebre per una sua Coppa (la Coppa Uefa, ere- de della Coppa delle Città delle Fiere, intese queste ultime come esposizioni e non come bestie feroci, ché casomai una coppa cosí sarebbe stata da organizzare in Africa). La sentenza Bos-man (vedi) ha sconfitto e sorpreso l'Uefa, che ha dovuto accettare, rispettare, applicare una legge europea. Per paura di perdere prestigio, l'Uefa ha cominciato una campagna per affrancarsi dalla Fifa, la federazio- ne mondiale, sostenendo la superiorità anche economica del calcio europeo. Il gioco di parole fra paura, e Fifa non ha fatto ridere neanche gli italiani.

UNDICI Perché le squadre di calcio hanno undici giocatori? Il mondo si divide fra chi dice che non lo sa ma comunque che sono troppi e che con dieci, superpreparati come adesso, si copre eccome il terreno di gioco; chi dice che del perché non gliene frega niente, e chi dice che si tratta di un'imitazione del numero classico di occupanti la camerata del collegio inglese: dieci studenti e un sorvegliante (che di solito veniva messo in porta). Comunque ormai l'abbondanza dei cambi e, negli squadroni, dei giocatori forti, ha tolto al numero undici quella forza magica che aveva quando non erano ammesse le sostituzioni e c'erano degli undici - il termine è passato anche a indicare, sostantivato, la squadra - che finivano in dieci, in nove...

Si definiva una volta un "buon 11" l'ala (vedi) sinistra brava, ma ora chi lo fa manda forte odore di muffa.

UNO-iCS-dUE Possibile anche scriverlo tutto attaccato, facendo una parola sola dei tre termini che indicano i segni da apporre sulla schedina del Totocalcio: 1 per la vittoria della squadra di casa, x per il pareggio, 2 per la vittoria della squadra ospite. Due numeri e una lettera dell'alfabeto per sognare: in altri tempi e in altri contesti ci volevano poesie, musiche, storie lunghe e complesse.

UOMO iN pIú In linea di massima il libero, il difensore che "cresce" rispetto al numero degli attaccanti avversari. In certe occasioni c'è un uomo in piú con funzioni offensive, o interditrici a centro campo, e meno se ne capisce piú si parla, reverentemente, di tattica (vedi) sopraffina. V

VALCAREGGI Ferruccio, toscano, commissario tecnico abbastanza silente. Secon- do con gli azzurri al Mondiale 1970, dietro all'insuperabile Brasile di Pelé: e il secondo posto ha visto mezza Italia scatenata contro di lui, che è comunque riuscito a non impazzire, con la calma dei forti e degli onesti.

VALZER Ci sono nel mondo del calcio tanti giri di valzer: di allenatori, di giocatori, di dirigenti. L'idea è però che a ballare veramente, sudando, seguendo la musica, siano soltanto i poveri tifosi.

VELTRONI Walter, uomo politico, tifoso juventino, ministro supervisore anche dello sport. Dal suo avvento ai vertici della vita politica, con il successo elettorale dell'Ulivo, il calcio ha preso l'abitudine di chiamarlo a fornire pareri, leggi, arbitrati, se possibile soldi. A un certo punto si è cominciato a pensare che Veltroni dovesse risolvere anche il problema delle rimesse laterali e dei calci d'angolo con poco spazio per la rincorsa, oltre che del vento a spostare il pallone, e - si capisce - dei campi pesanti d'inverno. Lui, in effetti esperto di calcio e ciononostante anche di sport, non ha per la verità smentito questa fama di taumaturgo, lasciando intendere di poter anche vincere, se allenato appena un poco, la gara delle schiacciate nel basket della Nba. La sua juventinità si è accompagnata, come in Togliatti, Berlinguer e Lama, alla fede comunista, in ossequio a uno dei massimi quiz psicologici italiani, per cui i lupi rossi amano gli agnelli bianchi e neri. E non cercano neanche di mangiarli, anzi si fanno da essi mangiare.

VICINI Azeglio, romagnolo, commissario tecnico fatto fuori perché arriva- to nel Mondiale 1990 appena terzo, senza mai aver perso una partita per quel che riguarda i 90 minuti regolamentari. Gli italiani, che sono tutti c't', in quell'occasione non si sono sentiti vicini a lui, neanche per un banale gioco di parole.

VIERI Christian, figlio di Bob che (grosso modo ai tempi di un altro Vieri, Lido, gran portiere) fu calciatore esile e geniale, o geniale ma esile, di Bologna, Juventus e Sampdoria, prima di emigrare in Australia dove è nato il figliolone. Il quale, tornato in Italia, è cresciuto nelle squadre giovanili del Torino, per poi passare al Venezia, all'Atalanta, alla Juventus e infine all'Atletico Madrid, convinto da suoi gol pesanti in azzurro e in bianconero a irrorare di denaro lui e il club caro agli Agnelli, e stabilendo un primato italiano di cartellino (34 miliardi). Christian gioca a calcio con la foga e la possanza atletica di quando, ragazzino-ragazzone in Australia, era rugbista. Vieri può anche, al massimo della sua espressione atletica, far venire in mente la frase per cui il rugby è uno sport giocato da presunti scimmioni che si comportano come gentiluomini, mentre il calcio è uno sport giocato da presunti gentiluomini che si comportano come scimmio- ni.

VINCOLO Una volta era la quintessenza burocratica del calcio: perché, salvo casi contrari, il vincolo era a vita, e il cartellino (vedi) concesso gratuitamente a un calciatore all'occaso della sua carriera era solitamente segnalato come un regalo della società, un premio alla fedeltà. Adesso il vincolo non c'è, casomai è sostituito temporaneamente da un contratto sempre in qualche modo annulla- bile. Intanto è stato del tutto vanificato il vincolo d'onore, il vincolo di cuore, insomma tutta quella frusaglia sentimentale. E cosí una parola che un tempo avrebbe chiesto pagine e pagine, magari per non essere tutta spiegata, adesso sta, con la sua storia, in poche righe, senza nessun vincolo di spiegazione, di analisi ulteriore.

VIOLENZA Il calcio italiano ha cent'anni, dei quali piú di settanta, cioè dall'avvento del girone (vedi) unico (1929), di grosse pulsioni, di gente a centinaia di milioni insardinata negli stadi, che sono palestre ottimali per il compimento, garantito dall'impunità, di esercizi anche biechi, di terrore, di crimine. In tutto questo tempo c'è stato - parliamo di calcio italiano di serie A in Italia - un morto, uno solo, dentro lo stadio: ottobre 1979, il tifoso laziale Paparelli colpito sulla gradinata da un razzo romanista vagante. Fuori dallo stadio, quattro morti per coltellate. Cinque morti sono sempre tanti, anche un solo morto è tanto, tantissimo, però non si possono presentare gli stadi del calcio come posti di violenza grande. Di fronte alla quantità di gente, all'intensità del tifo, alla terribile ipotetica validità degli stadi per chi voglia usarli come palestra di crimine, il dazio pagato è piccolo. Inaccettabile, ma piccolo. Grave, ma non da criminalizzare tutto e tutti, come invece si fa. L'idea nostra, personalissima magari, è che negli stadi si eserciti una violenza di tipo western, senza armi mortali, una specie di ordalia, una sfida molto maschia. Che si cerchi la lotta, non la ferita; e meno che mai la morte. Perché altrimenti ci sarebbero state già cento, mille decessi. Vero che c'è una grande mobilitazione della forza pubblica, ma le esperienze altrove dicono che contro i violenti non c'è polizia che possa bastare. E d'altronde si accusa la stessa polizia di non sapere fare interventi forti sulle gradinate, o comunque fra le bande dei tifosi. Davvero, si parla tanto di violenza nei nostri stadi perché si parli di meno di altri tipi di violenza. E il mondo del calcio accetta, si lascia sporcare da accuse spaventose. Inebetito, sí, ma dalla propria incultura, non da una paura che non ha ragione di esistere, casomai da un senso di colpa inoculato da diabolici calcolatori esterni.

VIVA iL pARROCO Modo di dire per riferirsi al calcio da oratorio (vedi), da parrocchia: un gioco sommario, entusiasta, con rinvii a campanile (in fondo un altro omaggio all'architettura ecclesiastica) definiti appunto alla "viva il parroco", quasi riti atletici in onore del gran capo con la sottana nera, uno che nella meglio iconografia scende in campo anche lui, con i ragazzi, a dare due calci. VOCAZIONE Il calcio usa questa parola, di significato specialmente ecclesiale, a proposito delle vocazioni arbitrali, importantissime per lo svolgimento delle partite. Il sapere che ad alto livello gli arbitri talora ricevono, insieme con la chiave della stanza del grand h"tel che li ospita, anche quella del cuore e non solo di qualche signorina capace di amori repenti nei loro riguardi, può aver contribuito all'aumento di queste vocazioni.

VOLATORE Il portiere che ama le parate acrobatiche, i voli anche angelici, le pose aeree plastiche. O il calciatore che sa cadere in area, a contatto con un avversario, in maniera tale da indurre l'arbitro a fischiare il calcio di rigore. In entrambi i casi, un vol-attore.

W

Wm Un solo importantissimo dittongo, quello che spiega anche graficamente il sistema, cioè il tipo di gioco succeduto al metodo, con due terzini, un mediocentro, due mediani (la lettera W), e davanti due mezze ali, un centravanti, due ali (la lettera M, peraltro di identica resa grafica della W). Ne abbiamo parlato alla voce Sistema, qui ci serve soltanto per un omaggio a una lettera dell'alfabeto (non italiano) che altrimenti vorrebbe soltanto dire evviva o viva. E scusateci del "soltanto", ma ormai non si dice quasi mai "evviva i nostri", bensí quasi sempre "a morte gli altri". Z

ZONA Grosso modo l'abbiamo già visitata, parlando del gioco a uomo, il contrario di quello a zona. La fine del millennio coincide con la fine della fede del miracolismo del gioco a zona, e infatti si parla di zona corretta, di zona sporca, di mezza zona, di zona cautelata. Intanto che si parla di gioco a uomo però con anche assegnazioni di parti di campo da controllare, con posizioni fisse da lasciare soltanto quando l'avversario si presenta in una determinata maniera. Fautori del gioco a zona e fautori del gioco a uomo si combattono, ognuno dicendo che la sua bottiglia è mezza piena, mentre quella dell'avversario è mezza vuota. Che bello, che barba. Fine...