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Fondazione Adriano Olivetti

ROBERTO BAZLEN EDITORE NASCOSTO

di Valeria Riboli

(prefazione di) Giulia de Savorgnani

Tesi Collana Intangibili

Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro gli steccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi o sostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci. Alla domanda: - Perché la costruzione di Tecla continua così a lungo? - gli abitanti senza smettere di issare secchi, di calare fili a piombo, di muovere in su e in giù lunghi pennelli, - Perché non cominci la distruzione, - rispondono. E richiesti se temono che appena tolte le impalcature la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi, sog- giungono in fretta, sottovoce: - Non soltanto la città. Se, insoddisfatto delle risposte, qualcuno applica l’occhio alla fessura d’una staccionata, vede gru che tirano su altre gru, incastellature che rivestono altre incastellature, travi che puntellano altre travi. - Che senso ha il vostro costruire? - domanda. - Qual è il fine d’una città in costruzione se non una città? Dov’è il piano che seguite, il progetto? - Te lo mostreremo appena terminata la giornata; ora non possiamo interrompere, - rispondono. Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. È una notte stellata. - Ecco il progetto, - dicono. , Le Città Invisibili, Einaudi, 1972. Collana IntangibiliTesi 22 Roberto Bazlen editore nascosto di Valeria Riboli Collana Intangibili, Fondazione Adriano Olivetti, n. 22, 2013 ISBN 978 88 967 7020 7

La Collana Intangibili è un progetto della: Fondazione Adriano Olivetti

Direzione editoriale Francesca Limana Redazione Beniamino de’ Liguori Carino, Viviana Renzetti, Matilde Trevisani

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La Serie Tesi della Collana Intangibili è nata nel 2011 con l’obiettivo di diffondere i risultati dei lavori migliori svolti in ambito universitario che hanno per oggetto l’opera di Adriano Olivetti e le aree di studio che caratterizzano l’attività della Fondazione a lui intitolata. Un modo per premiare quegli studenti che, grazie al rigore scientifico della ricerca e a una metodologia di studio innovativa e sperimentale, hanno con- tribuito con il lavoro di tesi allo sforzo della Fondazione di consolidare le relazioni con le Università per diffondere la conoscenza della storia olivettiana e dei suoi numerosi rivoli storici e analitici. La scadenza per la candidatura dei lavori è il 30 giugno e il 30 dicembre di ogni anno. Per ulteriori infor- mazoni www.fondazioneadrianolivetti.it Roberto Bazlen editore nascosto

di Valeria Riboli

Indice

Premessa pag. XI

Prefazione di Giulia de Savorgnani pag. XV

Introduzione pag. 1

1 La formazione e il pensiero di Bazlen pag. 7

1.1 Gli anni della formazione pag. 7 1.1.1 pag. 7 1.1.2 I rapporti di Bazlen con Trieste pag. 12 1.1.3 Il sodalizio con Montale pag. 18 1.1.4 Il “caso Svevo” pag. 22 1.1.5 La collaborazione con «Solaria» pag. 28

1.2 Il pensiero di Bazlen pag. 33 1.2.1 Gli Scritti: le Note senza testo pag. 33 1.2.2 Gli Scritti: Il capitano di lungo corso pag. 40

2 La collaborazione con le Nuove Edizioni Ivrea e l’Agenzia Letteraria Internazionale pag. 53

2.1 Bazlen a Milano: conoscenze e collaborazioni pag. 53

2.2 Il progetto delle Nuove Edizioni Ivrea pag. 56 2.2.1 Le collane delle Nuove Edizioni Ivrea pag. 61 2.2.2 La collana «Mondi e destini» pag. 70 2.2.3 La «Collana Letteraria» pag. 81

2.3 I rapporti di Bazlen con l’Agenzia Letteraria Internazionale pag. 88 2.3.1 Il carteggio con Luciano Foà: 1946-1949 pag. 88 2.3.2 La pubblicazione di Freud e Jung in Italia e la collaborazione con Astrolabio pag. 89 2.3.3 L’attività di Bazlen alla fine degli anni Quaranta pag. 96 2.3.3 1948-1949: l’inizio delle consulenze editoriali per Einaudi pag. 106

3 La collaborazione con Einaudi: lettere editoriali e traduzioni pag. 113

3.1 La collaborazione con Einaudi e il carteggio con Erich Linder: caratteri generali pag. 113

3.2 La collaborazione con Einaudi: temi principali pag. 120 3.2.1 Il rapporto con le letterature straniere: la Mitteleuropa pag. 120 3.2.2 La letteratura del «giro di secolo» pag. 133 3.2.3 Lo «sguardo di Orfeo» pag. 138 3.2.3 Lo «sguardo di Orfeo» nelle lettere editoriali pag. 146 3.2.4 Gli autori italiani pag. 153

3.3 Le traduzioni per Einaudi pag. 163 3.3.1 Le traduzioni di opere di saggistica pag. 163 3.3.2 Le traduzioni di opere letterarie pag. 177

4 Le proposte di collane per Einaudi e Bocca pag. 189

4.1 I «I libri piccoli» da Einaudi a Bocca pag. 189 4.1.1 Il fallimento dei rapporti con la Fratelli Bocca Editori pag. 217

4.2 Dalle collezioni «grande» e «piccola» alla «Collezione dell’io» pag. 222

4.3 La «Collezione dell’io» pag. 245

5 La collaborazione con Boringhieri e la nascita di Adelphi pag. 273

5.1 La casa editrice Boringhieri pag. 273 5.1.1 Le opere psicologiche e psicanalitiche presso Boringhieri pag. 275 5.1.2 Il contributo alla «collana viola» pag. 282 5.1.3 La ripresa dei progetti di collane pag. 288

5.2 Adelphi pag. 303 5.2.1 La nascita di Adelphi e i rapporti con Einaudi pag. 303 5.2.2 Il lavoro di Bazlen presso Adelphi pag. 308 5.2.3 La Biblioteca Adelphi e l’“eredità” delle precedenti collaborazioni pag. 321

Conclusioni pag. 333

Bibliografia pag. 339

Indice dei Nomi pag. 353

Indice degli Editori, delle Collane e delle Riviste pag. 367

Premessa

L’idea di una tesi su Roberto Bazlen è nata, nella primavera del 2010, dal desiderio di analizzare un frammento della storia culturale dell’Italia novecentesca attraverso lo spaccato del mondo editoriale: a ricerca conclusa, penso che lo studio di questa figura offra in effetti in modo unico l’opportunità di indagare trasversalmente le vicende di più editori nel corso di più decenni. Tramite le sue consulenze, mai sconta- te e spesso problematiche, egli sfiorò la storia, fra gli anni Venti e i Sessanta, di editori e personalità di spicco quali, tra gli altri, Adriano Olivetti e le sue Nuove Edizioni Ivrea, Luciano Foà e la casa editrice Einaudi, l’Adelphi, , Erich Linder; e lo fece, refratta- rio ad attirare l’attenzione su di sé, in modo volutamente nascosto. I segni lasciati da questo enigmatico personaggio si sono dunque dovuti cercare nella sua biografia, nelle sue relazioni, e soprattutto nella gran- de quantità di carteggi editoriali che egli intrattenne, dei quali resta ancora considerevole traccia negli archivi: da qui ho iniziato la mia ricer- ca, cercando poi di far dialogare i dati che sono riuscita a raccogliere, apparentemente slegati fra loro, con le idee letterarie di Bazlen, sem- pre espresse in maniera frammentaria, quasi criptica. Nondimeno ciò che infine è emerso, o almeno così mi auguro, è un percorso culturale coerente, un’idea di letteratura, e ancor più di editoria, portata avanti con caparbietà nella collaborazione con i più diversi interlocutori.

XI Desidero ringraziare con particolare calore il Professor Alberto Cadioli, che ha seguito la mia tesi con cura e presenza sorprendenti. Ascolto, lucidi consigli e la rinfrancante fiducia nel mio lavoro non mi sono mai venuti a mancare. La mia gratitudine, inoltre, va alle persone e agli enti che hanno supportato la mia ricerca con materiali e infor- mazioni preziose: , che generosamente mi ha offerto attenzione e disponibilità; Roberto Cerati, che con la sua esperienza mi ha guidata nella ricerca presso gli archivi Einaudi; Gianni Antonini, che mi ha fornito la sua testimonianza; il centro Apice; la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori; la casa editrice Bollati Boringhieri; la casa editrice Astrolabio; non ultimi, Francesca Limana e la Fondazione Adriano Olivetti, grazie al cui lavoro la mia tesi giunge infine alla pub- blicazione. Un ultimo ringraziamento va ai miei familiari, sempre pre- senti, e a Guglielmo. A lui questo libro è dedicato.

Valeria Riboli

XII Nella foto, da sinistra, Bobi Bazlen, Angela Zucconi e Adriano Olivetti nel 1950 circa. (Archivio Fondazione Adriano Olivetti).

XIII

Prefazione

«La città di Bobi c’è, esiste, concreta, reale, pur non essendo segnata sulle carte geografiche. Abitata da creature che vivono qua e là, in Italia e nel mondo»1 .

Ho sempre pensato che le ‹creature› cui Anita Pittoni alludeva fossero esseri umani, ma anche libri. I libri di cui Bobi Bazlen nutrì la propria esistenza, i libri che consigliò agli amici, i libri che propose alle case editrici per cui operò, i libri che ancora oggi troviamo nei cataloghi di editori come Adelphi, frutti a volte tardivi di un’attività svolta per una vita intera. E ho sempre pensato che si trattasse - e si tratti tuttora - di «creature che vivono» perché, secondo Bazlen, così come la letteratu- ra “vera” e valida può sbocciare solo dalla vita («Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio non vive per fare bei versi, come sono brutti i bei versi del tizio che non vive per fare bei versi.»2), allo stesso modo l’edi- toria vive di idee ‘pulsanti’ e di progetti in continua evoluzione. Una concezione molto vicina a quella che Giulio Einaudi definiva “edito- ria sì”, cioè quella «che invece di “andare incontro al gusto del pubbli- co”, [...] introduce nella cultura le nuove tendenze della ricerca in ogni campo, letterario artistico scientifico storico sociale, e lavora per far emergere gli interessi profondi, anche se va contro corrente.»3 E che

1 A. Pittoni, La città di Bobi (1965), ora in: Id., L’anima di Trieste. Lettere al Professore, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 89-94. 2 Roberto Bazlen, Scritti, Milano, Adelphi, 1984, p. 187. 3 Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Roma-Napoli, Edizioni Theoria, 1991, p. 10.

XV richiede non solo creatività ma anche coraggio e perseveranza, in un mondo in cui l’aspetto finanziario è sempre più determinante, ma che riesce tuttavia a dare ancora ottimi risultati: pensiamo a iniziative come la Fiera dell'Editoria Bobi Bazlen, tenutasi a Trieste dal 2008 al 2011 con il proposito di promuovere l’editoria di progetto, «ovvero quel- l’editoria che, a prescindere dal proprio volume di affari, lavora sulle idee e con le idee, costruendosi i mercati a partire dalla cultura e attra- verso la cultura.»4 O all’operato quotidiano di piccole agenzie come la “Bobi Bazlen servizi editoriali”5 di Roma e di istituti come la Fondazione Adriano Olivetti, per i cui tipi - non a caso - esce ora il presente volume di Valeria Riboli. A ben vedere, la città di Bobi è costituita da una fitta rete di sinergie che configura una metodologia di lavoro estremamente moderna, nella cui filigrana si può tuttavia ancora riconoscere il 'marchio' di Trieste, con quella molteplicità di saperi così radicata nel tessuto cittadino da sopravvivere agli sconquassi del XX secolo, pur in un panorama molto mutato rispetto all'epoca in cui Bazlen si formò. La modernità di Bobi Bazlen editore e la sua collaborazione con personaggi poliedrici quali Adriano Olivetti, in una lungimirante intesa fra economia e cultura, risulta tanto più rilevante in una fase storica come quella che stiamo attraversando, cruciale per il destino del libro, cui spetta l’arduo com- pito di ‘conquistare’ lettori sempre più pigri attirati da sempre nuove modalità di lettura o, più in generale, di intrattenimento. Che la batta- glia non sia ancora perduta si deduce dal successo di pubblico ottenu- to da iniziative come il Festival della letteratura di Mantova o la Fiera del libro di Torino nonché dalla percentuale di librerie che riescono a sopravvivere almeno in alcune città di medie e piccole dimensioni. Nelle vicende del libro quale ‘veicolo’ culturale e prodotto commercia- le si rispecchia, almeno in parte, l’evoluzione della società, motivo per cui l'operato di personaggi come Bobi Bazlen può fornire chiavi di let- tura illuminanti. Bazlen svolse infatti il ruolo di suggeritore e mediato- re sin dagli anni Venti, ad esempio promuovendo nel suo ambiente la diffusione degli Ossi di seppia montaliani, fungendo successivamente da ‘sponda critica’ per Eusebius nella redazione delle Occasioni, nonché

4 http://fierabazlen.wordpress.com/. L'iniziativa ha dovuto chiudere i battenti nel 2012 perché si è ritirato lo sponsor principale, la Regione Friuli Venezia Giulia. 5 Vedi: http://www.bobibazlenservice.com/

XVI prodigandosi con inventiva e tenacia affinché le opere di Svevo trovas- sero finalmente quella considerazione di critica e di pubblico che a suo giudizio meritavano. Fu poi, circa dalla metà degli anni Trenta sino alla morte, consulente di numerose case editrici. Egli svolse quest'attività, dunque, in un periodo in cui l'editoria si giovava della collaborazione di un nutrito gruppo di intellettuali - Calvino, Vittorini, Pavese, Bobbio, Fortini, , solo per citarne alcuni - ma con uno stile completamente diverso da quello dei ‘colleghi’. Infatti, men- tre molti di questi - soprattutto in seno a Casa Einaudi - interpretava- no la progettazione editoriale come una sorta di ‘azione collettiva’ da svilupparsi tramite incontri (e scontri), Bazlen preferiva intessere la propria rete, per così dire, ai margini, contando su precisi punti di rife- rimento come Luciano Foà. La differenza di concezione si riconosce non soltanto nel modus operandi di cui diversi ‘compagni di viaggio’ danno testimonianza, ma anche nello spirito e nello stile di scrittura che caratterizza le rispettive lettere editoriali6. Dalle stesse lettere, tut- tavia, si evince che Bazlen - pur non incarnando la figura dell’editor così come essa si andava delineando - operava comunque tenendo presen- ti non soltanto i propri gusti e principi letterari, ma anche la logica aziendale e di mercato. Fu, pertanto, editore a tutto tondo e in quanto tale rappresentativo di una stagione culturale che incise profondamen- te sul Novecento italiano. Da questa considerazione muove la ricerca di Valeria Riboli, che rico- struisce l'attività di questo «editore nascosto» portandone alla luce le linee guida e inserendola adeguatamente nel suo contesto storico-cul- turale. Dopo aver brevemente tratteggiato la formazione di Bazlen e le sue prime iniziative di mediatore (inter)culturale ed averne delineato il pensiero attraverso un'analisi che collega Il capitano di lungo corso alla successiva attività editoriale, Valeria Riboli ricompone il ‘mosaico’ bazleniano illustrandone dettagliatamente tutte le tessere, costituite in parte da collaborazioni occasionali e in parte da cooperazioni conti- nuative. Sulla scorta di numerosi documenti inediti - tratti soprattutto dagli archivi della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano - viene così alla luce lo specifico carattere di progetto a lungo

6 Si confrontino, ad esempio, le lettere di Bazlen pubblicate negli Scritti (Milano, Adelphi, 1984) con quelle di Calvino (p. es. in I libri degli altri. Lettere 1947-1981, Torino, Einaudi, 1991) o di Vittorini (p. es. in G. Ferretti, L'editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992).

XVII termine che l’attività di Bazlen possedeva: se infatti è vero che molte sue scelte e proposte vennero spesso rifiutate in quanto inconsuete o azzardate, è anche vero che Bazlen non abdicò alle sue convinzioni, ma al contrario cercò costantemente di raggiungere l'obiettivo ripropo- nendo le stesse opere a più case editrici. Egli gettava le sue sementi in diversi orti letterari7, nella speranza di trovare prima o poi un terreno fertile. Valeria Riboli dedica, nella sua ampia e stimolante analisi, spe- ciale attenzione ai frutti di quegli orti che si rivelarono particolarmen- te fertili, cioè quello coltivato da Adriano Olivetti con le Nuove Edizioni Ivrea prima e le Edizioni di Comunità poi, quello di Giulio Einaudi a Torino e l’orto Adelphi, curato con le proprie mani dallo stesso Bazlen insieme all'amico Luciano Foà. Emergono così non sol- tanto una precisa metodologia di lavoro, ma anche autori e temi legati da un filo rosso che si dipana lungo decenni di attività e che in questa sede, consapevolmente, non intendo anticipare. Mi piace pensare che la pubblicazione di questa ricerca proprio da parte della Fondazione Adriano Olivetti inauguri ora un nuovo ‘quar- tiere’ nella «città di Bobi».

Regensburg, giugno 2013

Giulia de Savorgnani

7 Con quest’immagine lo rievoca Giani Stuparich in Trieste nei mei ricordi (1948), ora in Cuore ado- lescente. Trieste nei miei ricordi, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 80.

XVIII

Introduzione

Il presente lavoro si propone di fornire una ricostruzione quanto più Roberto Bazlen possibile completa dell’attività editoriale e culturale di Roberto Bazlen editore nascosto. (Trieste 1902 – Milano 1965), personaggio nascosto e per molti versi enigmatico, la cui collaborazione con alcune case editrici italiane merita tuttavia di essere riscoperta e, soprattutto, pienamente valorizzata. Per quanto molte delle proposte da lui avanzate negli anni, riguardanti i più diversi ambiti disciplinari, abbiano trovato una realizzazione solo parzia- le, risulta comunque interessante illustrare il suo metodo di lavoro, deci- samente peculiare in quanto alcuni degli elementi che lo compongono tornano e si trovano riformulati lungo un arco temporale di considere- vole lunghezza. È infatti possibile rintracciare lo sviluppo e la conferma di un personale modo di operare e concepire l’attività editoriale e cultu- rale lungo un arco temporale che corre dal carteggio intrattenuto con l’amico Eugenio Montale nella seconda metà degli anni Venti fino alla strettissima collaborazione con la casa editrice Adelphi, al principio degli anni Sessanta. La prospettiva dalla quale si è deciso di prendere le mosse ha portato a considerare anche alcuni aspetti della sua vicenda e biografica e perso- nale, che si sono ritenuti rilevanti: una scelta di questo genere si giustifi- ca con lo stretto legame che, a parere di chi scrive, sussiste fra il metodo Trieste crocevia di culture. di lavoro di Bazlen e il contesto culturale nel quale esso inevitabilmente

1 si è costituito, vale a dire la Trieste dei primi vent’anni del Novecento. In conseguenza di questa consapevolezza, nel primo capitolo si è cercato di tracciare un quadro della vivace realtà culturale della città, sottoposta alle Le influenze dell’Impero fertili influenze della cultura dell’Impero Asburgico di cui faceva parte. Asburgico. Molte suggestioni, ad esempio le teorie di Freud e Jung, sono state infat- ti percepite da Bazlen, il quale le ha assimilate e, anni dopo, diffuse in Italia attraverso il proprio lavoro di consulente editoriale e traduttore. Lo stesso discorso vale per le idee maturate all’interno della comunità lette- raria triestina, con la quale egli sin dagli anni della propria formazione venne a contatto, subendone l’influenza: da qui, infatti, nasce la formu- lazione di una personale concezione della scrittura letteraria, alla quale viene richiesto di privilegiare l’esperienza e il dato autobiografico, fatto- ri fondanti di quelle qualità che Bazlen condensa nella formula della «pri- mavoltità»1. È in questa semplice idea che si è rintracciata l’origine e la causa della scelta di abbandonare una possibile carriera di scrittore, rite- nuta futile in quanto l’attività letteraria non è giudicata del tutto capace di rispecchiare il reale. Ad essere privilegiata, dunque, è un’attività che sia in grado di intervenire attivamente sulla realtà stessa, supplendo alla mancanza di vitalità che secondo Bazlen invalida la scrittura letteraria: si tratta dell’attività editoriale, per la quale egli opta sin da giovane, come si può vedere nella rappresentazione che di questa scelta si trova nel romanzo incompiuto Il capitano di lungo corso. La trattazione metaforica della scelta di non scrivere, paradossalmente collocata all’interno di uno scritto letterario, costituisce un elemento di grande interesse, che si è cer- cato di approfondire e valorizzare quanto più possibile, dal momento che risulta in parte trascurato dalla critica. Una volta individuate le ragio- ni teoriche del metodo di lavoro di Bazlen, si è scelto di fornirne una prima esemplificazione, resa possibile dalla ricchezza di iniziative e rela- zioni intellettuali intrattenute sin da molto giovane: ci si riferisce al car- Il carteggio con Eugenio teggio intrattenuto con l’amico Eugenio Montale, al ruolo rilevante rive- Montale. stito nel «caso Svevo», infine alla collaborazione con «Solaria», a cavallo fra gli anni Venti e Trenta.

1 Roberto Bazlen, Scritti, Milano, Adelphi, 1984, p. 230. L’edizione appena citata è quella a cui si farà riferimento in questa sede: si segnala tuttavia che le opere di Roberto Bazlen ivi contenute erano state precedentemente pubblicate in volumi separati, componenti la collana adelphiana «Quaderni di Roberto Bazlen». Cfr. Roberto Bazlen, Lettere editoriali, a cura di Roberto Calasso e Luciano Foà, Milano, Adelphi, 1968; Roberto Bazlen, Note senza testo, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1970; Roberto Bazlen, Il capitano di lungo corso, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1973.

2 L’indagine svolta, dunque, si basa sulla consapevolezza del fatto che «per tratteggiare [...] il ritratto di un uomo che credeva nella letteratura sboc- ciata dalla vita è [...] necessario intrecciare strettamente ricostruzione biografica e indagine culturale»2. Questa consapevolezza, peraltro, ha contribuito fortemente a delineare la struttura anche dei capitoli successivi al primo. Nel secondo capitolo, dedicato all’attività degli anni Trenta e Quaranta, si sono infatti appro- Il rapporto con Luciano fonditi i primi passi del rapporto con l’amico più stretto, Luciano Foà: Foà e con l’Agenzia una personalità di spicco nel panorama editoriale italiano, tramite la Letteraria Internazionale. quale Bazlen intraprende ed approfondisce il proprio rapporto con l’Agenzia Letteraria Internazionale. Esso infatti è testimoniato dal lungo carteggio, che ha come interlocutori rispettivamente Foà e l’altro grande amico Erich Linder, conservato presso l’Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano. È questo stesso archivio, Erich Linder e le Nuove peraltro, che ha permesso di approfondire la collaborazione con le Edizioni di Ivrea. Nuove Edizioni Ivrea fondate da Adriano Olivetti: nel fondo archivisti- co della casa editrice Rosa e Ballo, infatti, si sono trovati una serie di documenti di grande interesse circa il progetto elaborato da Olivetti alla fine degli anni Trenta, all’interno del quale il ruolo di Bazlen si configu- ra come di grande rilievo, e coerentemente improntato alle posizioni teoriche appunto descritte nel primo capitolo. Sempre al contesto degli anni di formazione vissuti a Trieste si può in qualche modo ricondurre La collaborazione con la collaborazione con la casa editrice romana Astrolabio, a partire dalla Astrolabio. fondazione nel 1947 della collana «Psiche e Coscienza», diretta da Ernst Bernhard, allievo di Jung: una collaborazione che, significativamente, si muove nella direzione della proposta delle opere fondamentali della psi- coanalisi freudiana e della psicologia analitica junghiana, già in parte pre- sentate alle Nuove Edizioni Ivrea, e soprattutto della traduzione di alcu- ne opere degli stessi Freud e Jung. La mancanza di materiale archivisti- co direttamente riferito alla collaborazione con Astrolabio, tuttavia, ha purtroppo impedito di approfondirne i caratteri: un limite che segna anche quanto si è potuto quindi solo velocemente accennare circa le col- laborazioni con Frassinelli, negli anni Trenta, e Bompiani, nei Quaranta. L’esiguità di documenti archivistici a proposito di alcuni aspetti dell’atti- vità degli anni Trenta e Quaranta si trova, per così dire, controbilanciata

2 Giulia De Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio, Trieste, Lint, 1998, p.11.

3 dalla ricchezza dei materiali conservati a Torino circa la decennale colla- borazione con Einaudi, sviluppatasi prevalentemente nel corso degli anni Cinquanta: la possibilità di leggere la quasi totalità delle lettere indi- rizzate all’editore torinese, delle quali principale interlocutore è Luciano Foà, in quanto segretario generale della casa editrice, ha permesso di approfondire molteplici aspetti di questa collaborazione, che ha infatti richiesto una trattazione suddivisa in due capitoli, il terzo ed il quarto. Si è cercato, in prima istanza, di illustrare la natura delle proposte avanza- te, riguardanti prevalentemente la letteratura straniera (soprattutto, non a caso, quella mitteleuropea): accanto ad essa, hanno richiesto un discor- so specifico le proposte relative a opere, di varia provenienza geografi- ca, collocate a cavallo fra Ottocento e Novecento, nonché singoli casi di autori italiani rispetto ai quali Bazlen ebbe un qualche tipo di ruolo, quali Stelio Mattioni e l’Anonimo Triestino autore del romanzo Il segreto. È stato inoltre molto interessante rilevare, al di là dei nuclei tematici che compongono la significativa mole di proposte all’editore, la presenza di uno stile di scrittura fortemente caratterizzante le lettere editoriali di Bazlen. Esse infatti sono attraversate da stimoli narrativi e creativi che spesso valicano la formalità e le regole del rapporto fra editore e consu- lente: in questo aspetto si trova, a parere di chi scrive, un’ulteriore prova di un rapporto problematico e mai del tutto risolto con la scrittura nar- rativa, la quale appunto, per quanto abbandonata, riemerge occasional- mente all’interno delle lettere editoriali. In chiusura del terzo capitolo, infine, si sono considerate le vicende delle varie traduzioni per Einaudi, Le traduzioni per Einaudi. intraprese ma spesso poi non pubblicate: a renderle meritevoli di atten- zione è da un lato la varietà delle opere tradotte (rappresentata sia da testi di saggistica, sia da opere narrative), dall’altro l’esemplificazione che esse forniscono di alcuni dati caratterizzanti l’attività e soprattutto la per- sonalità di Bazlen. Nelle lettere riferite alle traduzioni per Einaudi, infat- ti, evidente è la paradossale oscillazione fra la cura e l’attenzione per il testo, che egli vuole offrire in maniera ottimale al pubblico, e l’ostinata tendenza a rinnegare la qualità del proprio lavoro, giungendo non di rado a rifiutarlo in toto: lo testimonia lo pseudonimo, Lorenzo Bassi, con il quale si trovano firmate tutte le traduzioni da lui pubblicate. La riluttanza a un completo coinvolgimento nella propria stessa attività

4 è d’altronde confermata da quanto si è osservato nel corso del quarto capitolo, nel quale si è cercato di delineare la complessa vicenda delle varie proposte di collane avanzate fra il 1953 e il 1959 presso diversi edi- tori. Esse infatti non hanno mai trovato realizzazione anche in conse- guenza della palese difficoltà di Bazlen a portare avanti metodicamente il proprio progetto, senza riformularlo di volta in volta e “disperderlo” fra diverse case editrici: per esempio, considerando solo il carteggio con Einaudi, si trova la proposta relativa a una collezione di «testi mitologi- ci, religiosi, iniziatici, folkloristici ecc.»3, seguita nel 1959 dalla presenta- zione del progetto relativo a una «Collezione grande» ed una «piccola», alcuni aspetti delle quali confluiscono infine nel progetto relativo alla «Collezione dell’io»: rispetto a quest’ultimo, peraltro, il parere di Italo Calvino ha permesso di riflettere circa la grande distanza anche ideolo- gica che separava Bazlen dalla casa editrice Einaudi. La descrizione del- l’importante e vasto aspetto dell’ideazione di collane da parte di Bazlen si è dunque svolta, proprio per le ragioni appena accennate, consideran- do diversi editori contemporaneamente: le proposte avanzate ad Einaudi si intrecciano infatti strettamente con quanto Bazlen nello stesso tempo La collaborazione di Bazlen svolge presso un altro editore torinese, vale a dire Bocca. A quest’ultimo con Einaudi, Bocca e proposito, le testimonianze che si sono potute raccogliere sono indiret- Boringhieri. te, in quanto costituite dal carteggio con Erich Linder, ma riescono comunque a mostrare esaurientemente un metodo spesso caratterizzato dalla proposta di un testo o di un progetto a diversi editori. La ricerca nel catalogo di Adelphi dei titoli proposti negli anni alle diverse case edi- trici è risultata quasi scontata, ed ha infatti portato ad osservare come una grande parte delle suggestioni fornite ai più diversi editori sia poi confluita nell’offerta della casa editrice milanese. La necessità di considerare le diverse collaborazioni succedutesi nel tempo in connessione con le altre, precedenti e successive, ha determi- nato anche la struttura e le considerazioni esposte nel quinto ed ultimo capitolo. In primo luogo, infatti, la collaborazione con Boringhieri si svolge contemporaneamente a quella con Einaudi, condividendone alcune proposte; riferibile alla passata attività di Bazlen è anche l’acqui- sizione da parte del neonato editore delle traduzioni freudiane e junghia- ne svolte per Astrolabio, e le diverse proposte di opere di psicologia ed

3 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953.

5 antropologia pensate specificatamente per il catalogo del nuovo editore. Accanto a questo, la collaborazione con Boringhieri è stata considerata anche come un preludio a quello che per molti aspetti è il risultato più organico e identificabile del lavoro editoriale e del pensiero di Roberto Bazlen, vale a dire il catalogo di Adelphi: una casa editrice, fondata nel La nascita della casa 1962 dall’amico Luciano Foà, che anche a distanza di anni risente forte- editrice Adelphi. mente del gusto, delle idee, del tipo di rapporto instaurato con i lettori che si deve appunto ricondurre alla figura di Bazlen. La documentazio- ne a proposito del suo operato presso la casa editrice milanese è scarsa, essendo costituita da alcune lettere editoriali riportate nel volume degli Scritti e, ancora una volta, da quanto si può leggere nel carteggio intrat- tenuto con Erich Linder: essa tuttavia permette di vedere come l’attivi- tà della casa editrice in teoria più aperta alle sue proposte si sviluppi pre- valentemente dopo la morte di Bazlen, avvenuta nel 1965, e nondimeno sia segnata dalle critiche, considerate in chiusura dell’ultimo capitolo, che egli non risparmiò a un progetto editoriale nato, dal suo punto di vista, irrimediabilmente in ritardo. Sono, queste, critiche non arbitrarie, se è stato possibile strutturare il presente lavoro anche a partire dall’osserva- zione di come, ad esempio, testi pensati per le Nuove Edizioni Ivrea, alla fine degli anni Trenta, siano stati infine pubblicati da una casa editrice fondata nei primi anni Sessanta: a parere di chi scrive, tuttavia, questo stesso aspetto deve essere considerato accanto alla valutazione della por- tata e della profondità dell’influenza di un intellettuale che prese parte a innumerevoli iniziative editoriali succedutesi nell’arco di quasi tre decen- ni e rispetto alle quali senza dubbio egli esercitò un’influenza anche solo minima, ma pur sempre costantemente presente.

6 1. La formazione e il pensiero di Bazlen

1.1 Gli anni della formazione.

1.1.1 Trieste

La vita lungo i confini ha [...] una complessi- ta e una ricchezza derivanti dal fatto che essa si sviluppa al crocevia tra diverse tradizioni culturali, che avverte la presenza di uno sti- molante pluralismo linguistico. Alla frontiera si assiste forse a un processo di scomposizio- ne delle grandi culture nazionali, ma insieme a una loro composizione in una cultura diversa e piu ricca, che deriva dall’incrocio e dalla sintesi di esperienze diverse4.

In tale caratteristica di pluralismo e di fusione di identità può essere Roberto Bazlen nasce a individuata una delle peculiarità della Trieste asburgica. Qui nacque nel Trieste nel 1902 1902 e visse gli anni della propria formazione culturale ed umana Roberto Bazlen, personaggio tanto importante quanto nascosto del- l’editoria italiana del Novecento. Considerare un semplice dato biogra- fico quale il luogo d’origine può essere utile per descrivere la figura e l’opera di Bazlen, il quale non intrattenne mai un rapporto pacifico con la propria città, tanto da non riuscire a tornarvi che poche volte nel

4 Angelo Ara, , Fra nazione e impero: Trieste, gli Asburgo, la Mitteleuropa, Milano, Garzanti, 2009, pp. 667-668.

7 corso della vita, dopo l’abbandono del 1934. Rimane il fatto, però, che egli contribuì in grande misura alla ricchezza culturale di Trieste, venendone anche, viceversa, influenzato. Per delineare il contributo e il ruolo di Bazlen nella cultura italiana può essere perciò utile partire dalla descrizione del contesto che forse più gli diede stimoli di rifles- sione ed occasioni di conoscenza. La Trieste degli anni precedenti al 1918, data dell’annessione all’Italia, Trieste snodo portuale dell’Impero Asburgico e fu un centro rilevante per la cultura e il commercio dell’Impero asbur- crocevia multiculturale. gico, costituendone il principale porto marittimo. Inoltre, la posizione di confine fra diverse aree geografiche determinò la compresenza nella città, anche dopo il crollo dell’Impero, di molteplici identità culturali, quali furono quella italiana, austriaco-tedesca, slovena e in grande parte ebraica. Tutta la popolazione triestina partecipò di questa «identità di frontiera», e la comunità intellettuale, che potè avvalersi della presenza di personaggi quali Saba, Svevo e Slataper, ne rielaborò consapevol- mente le conseguenze su un piano tanto esistenziale quanto culturale. La posizione di città di confine, collocata ai margini dell’Impero asbur- gico, non fu infatti solo un elemento di pacifico arricchimento e stimo- lo per la città, ma anche fonte di un’inquietudine derivante dal lento sgretolarsi, in atto in quegli anni, dell’Impero stesso, e dal disagio che i molteplici volti della città causavano in chi vi abitava. Ad esempio di ciò si può citare l’affermazione di Angelo Ara e Claudio Magris, che nel loro saggio Trieste, un’identità di frontiera tracciano un esauriente qua- dro dei difficili anni di passaggio dall’Impero asburgico allo Stato ita- liano: «Trieste diviene un sensibilissimo avamposto di questa crisi della cultura e di questa cultura della crisi, grazie alla sua posizione nell’im- pero asburgico»5. È infatti attraverso la «porta di Trieste»6 che viene introdotta in Italia la letteratura della crisi e dell’introspezione prodot- ta in quegli anni nel mondo mitteleuropeo ed ebraico (si pensi ad esempio all’opera di Kafka): tutti fattori, questi, che condizionarono la costituzione di una cultura e di una letteratura proprie della città, la quale assorbì stimoli di provenienza europea per ritradurli in una pro- posta di cultura alternativa rispetto a quella dell’Italia, nei cui confini geografici Trieste si trovò ben presto a rientrare. Come si è anticipato, in autori quali Slataper, Svevo e Saba, per quanto in maniere anche

5 Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste, un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982, p. 14. 6 Ivi, p. 44.

8 molto diverse fra di loro, e cronologicamente non sempre corrispon- denti (se si considera ad esempio che Slataper perse la vita nella Grande Guerra) si può leggere un sottofondo umano condiviso: è quello della crisi di identità, la quale se da un lato è la certa risultante della condizione storica di una città, dall’altro si presta bene a rappre- sentare il senso di fragilità e disorientamento che alberga in tutta l’Europa di quegli anni.

Gli scrittori che hanno vissuto a fondo la sua eterogeneità, la sua molteplicità di elementi irriducibili a risolversi in un’unità, hanno capito che Trieste - come l’impero asburgico di cui faceva parte - era un modello dell’eterogeneità e della contraddittorietà di tutta la civiltà moderna, priva d’un fondamento centrale e di un’unità di valori7.

Risultato di questo clima è che la città, negli anni precedenti all’annes- sione all’Italia, ma anche e soprattutto in quelli successivi, fu in grado Trieste realtà letteraria di elaborare una proposta letteraria per molti aspetti alternativa ed propositiva per l’Italia dei primi del Novecento. innovativa rispetto a quanto si andava discutendo nell’Italia di quegli anni: anche perché «non bisogna dimenticare che la letteratura italiana di quel tempo, pur ricca di scrittori anche nettamente superiori a quel- li triestini, era chiusa in un provincialismo oggi difficilmente immagi- nabile»8. Una proposta, infine, che aveva avuto i suoi prodromi nella collaborazione di un intellettuale triestino come Slataper alla «Voce» della prima fase, negli anni dal 1908 al 1911.

Sembrerebbe quasi che la più autentica tradizione triestina abbia sempre rifiutato, magari inconsciamente, la formula adottata anche dal Croce che l’arte è sintesi di forma e contenuto: una for- mula che in pratica finisce col mettere l’accento proprio sulla forma9.

A primo e fondamentale esempio della novità letteraria portata da Trieste in Italia può essere citato il rifiuto e la messa in discussione del magistero dell’estetica crociana. In quanto testimone diretto di questo

7 Ivi, p. 4. 8 Giorgio Voghera, Gli anni della psicoanalisi, Pordenone, Studio Tesi, 1985, p. 109. 9 Ivi, p. 114.

9 clima culturale, Giorgio Voghera (e con lui vari critici) ha infatti evi- denziato come nel loro insieme gli autori operanti a Trieste negli anni in questione abbiano proposto un’immagine della letteratura nella quale sulla forma, intesa come stile e cura del testo, ha la precedenza il contenuto, l’esperienza di vita dalla quale il libro con urgenza scaturi- sce. Tale tipo di attitudine degli scrittori triestini nei confronti dell’ope- ra letteraria trova le sue ragioni, secondo Ara e Magris, in uno sforzo di autodefinizione il quale, non trovando una rispondenza sul piano della realtà, deve necessariamente tradursi su quello dell’esperienza personale, così come essa si riproduce sulla pagina letteraria.

La letteratura acquista un valore esistenziale, una ragione di vita che non vuole essere confusa con l’esercizio letterario. L’«anti-let- terarietà» dei triestini, di cui si è tanto parlato, è l’atteggiamento di ... allo scrivere si chiede non uomini che chiedono allo scrivere non bellezza ma verità, perché bellezza ma verità... per essi scrivere vuol dire acquistare un’identità, non solo come individui ma come gruppo10.

Per autori quali Saba, Svevo, Slataper, Stuparich, Quarantotti Gambini, la letteratura abdica al ruolo di mestiere, e dunque di «menzogna»11, per esprimersi all’insegna della verità, dell’onestà, della serietà dell’espe- rienza vissuta: l’antiletterarietà, insomma, «viene [...] per lo più intesa, non senza nebulose ambiguità, come rifiuto del dettato adorno, delle “false” convenzioni formali, dell’eleganza stilistica priva di ingegno umano»12, in conseguenza di «un’esigenza di cose e sentimenti, di veri- tà, contrapposta all’esigenza di parole»13. Resta da sottolineare la presenza di una componente determinante all’interno della Trieste dei primi anni del Novecento, ovvero quella La comunità ebraica ebraica. La comunità ebraica della citta era infatti molto numerosa e da triestina. essa provenivano alcuni tra i maggiori intellettuali triestini, basti pen- sare a Saba e Svevo. Questo particolare fattore culturale (per quanto ad esso ogni autore si sia rapportato in maniera diversa) risulta nel com- plesso molto rilevante, se si considera che buona parte dei fermenti in atto nei primi tre decenni del Novecento possono essere considerati

10 Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste, un’identità di frontiera cit., pp. 15-16. 11 , Storia e cronistoria del Canzoniere, Milano, Mondadori, 1948, p. 24. 12 Claudio Magris, Equivoci e compiacimenti sull’«antiletterarietà» triestina, in «Trieste», a. XVI, n. 87, ottobre 1969, p. 11. 13 Ibidem.

10 come derivanti anche, appunto, dal mondo ebraico. A questo proposi- to può essere interessante citare le considerazioni che Sergio Campailla fa nel suo saggio Ebraismo e letteratura, nel quale si trovano descritte le caratteristiche della produzione letteraria ebraica a livello sovranazio- nale: esse sono identificate nei temi ritornanti del viaggio e del mare in autori come Kafka o Joseph Roth, ma soprattutto in un generale atteg- giamento antistoricistico. Tale atteggiamento sarebbe il risultato di un conflitto generazionale (espresso ad esempio in un’opera come Lettera al padre di Kafka), a sua volta determinato dall’assimilazione della “generazione dei padri” alla cultura e al costume dell’impero asburgi- co: quello che ne deriva non può che essere il «rifiuto morale di una realtà dominata dall’etica mondana del denaro e del successo»14, ed una crisi di valori che, rappresentata al massimo grado nelle opere degli autori ebrei, in un modo o nell’altro «ha investito tutta la cultura occi- dentale»15. Ed è proprio da questa crisi di valori che Campailla fa deri- vare, trattando della situazione italiana e di autori ebrei quali Svevo o La forte impronta antiaccademica di Svevo 16 Saba, «una fondamentale impronta antiaccademica» , ovvero la ten- e di Saba. denza a «una letteratura di cose, non di parole, la quale reinterpreta il vissuto, e tende a risarcirne le deficienze»17. Ma al di là di questa ulte- riore connotazione dell’antiletterarietà triestina, è importante porre in evidenza la posizione e il ruolo degli ebrei nel quadro della cultura di Trieste (e della Mitteleuropa) dei primi trent’anni del Novecento:

La cultura triestina veramente diversa è, in genere, non soltanto ma soprattutto ebraica, perché l’ebreo riassume in sé sia la disper- sione della totalità sociale e la crisi dell’identità, sia la concentra- zione dell’individualità su se stessa, l’irriducibile resistenza del transfuga e del naufrago18.

La componente forse più rilevante di questa originale «diversità» della cultura ebraica triestina è costituita dalle teorie psicanalitiche, che pro-

14 Sergio Campailla, Ebraismo e letteratura, in Quirino Principe (a cura di), Ebrei e Mitteleuropa: cultu- ra, letteratura e società, Atti del XVI Convegno “Cultura ebraica e letteratura mitteleuropea”, Brescia, Ed. Shakespeare & Co., 1984, p. 30. 15 Ibidem. 16 Ivi, p. 31. 17 Ibidem. 18 Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste, un’identità di frontiera cit., p. 135.

11 prio nel primo dopoguerra approdarono in Italia. Nel 1919 Edoardo Weiss, allievo di Freud ed egli stesso ebreo, si trasferì da Vienna a Trieste, dove iniziò ad esercitare la sua professione di psicanalista, tro- vando in particolare nella comunità ebraica della città un fertile terreno di attecchimento: stando alla testimonianza di Giorgio Voghera, infatti, «quasi tutti i triestini che si appassionavano alla psicanalisi in quegli anni erano ebrei o mezzi ebrei»19. Un tale «ciclone»20, come Voghera defini- sce la psicoanalisi in rapporto alla cultura ebraica - triestina, ebbe una rilevanza anche sul versante letterario, dal momento che favorì l’adesio- ne di molti autori al genere dell’autobiografia, e più in generale la ten- denza all’autoanalisi e all’approfondimento psicologico.

1.1.2 I rapporti di Bazlen con Trieste.

Delle realtà fino ad ora descritte Bazlen, che come si è detto nacque a Trieste nel 1902, partecipò variamente sin dall’infanzia. Come molti degli intellettuali fino ad ora citati, infatti, egli proveniva da una coppia di genitori di diversa provenienza, essendo la madre Clotilde Levi Minzi di famiglia ebraica di origini venete ed il padre Georg Eugen Bazlen Le origini italo-tedesche. (morto quando il figlio aveva poco più di un anno) di origini tedesche e di fede evangelica. Si può supporre, dunque, che il giovane Bazlen abbia percepito anche all’interno della sua famiglia l’incontro fra cultu- re e religioni diverse, nonché un clima di pluralismo linguistico che ne favorì il bilinguismo italo-tedesco. Oltre a questi primi dati biografici, vale la pena di soffermarsi anche su un altro aspetto che si può suppor- re abbia influenzato la mentalità di Bazlen e la sua sensibilità ai proble- mi culturali: si tratta dell’aspetto dell’educazione scolastica, che ebbe un certo rilievo all’interno della piu ampia questione dell’annessione di Trieste all’Italia. Come tutti i suoi coetanei, infatti, Bazlen frequentò fino ai diciassette anni le scuole tedesche, dove gli fu impartita un’edu- La formazione in una cazione «basata essenzialmente sull’insegnamento diretto dei testi lette- scuola tedesca. rari, mediante dei libri senza note che predisponevano a una lettura non accademica del dato letterario, e quindi strettamente collegata alle radi- ci stesse della cultura mitteleuropea»21.

19 Giorgio Voghera, Gli anni della psicoanalisi cit., p. 4. 20 Ivi, p. 3. 21 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen, Palermo, Sellerio, 1994, p. 17.

12 L’annessione di Trieste all’Italia, tuttavia, fece sì che i giovani italiani, Il cambiamento dopo l’an- trasferitisi nei licei nazionali che avevano sostituito quelli imperiali, vi nessione di Trieste all’Italia. trovassero un metodo di insegnamento ben diverso, e molto più arre- trato, rispetto a quello cui erano abituati: ed è forse da questo cambia- mento che Voghera trae le ragioni per parlare, a proposito di Bazlen, di una «contrarietà invincibile verso tutto ciò che si apprende a scuola»22: L’avversione verso la scuola in particolare, «la filosofia che si insegnava [...] (particolarmente la filo- italiana. sofia idealistica) gli incuteva un vero orrore»23. Sin da giovane dunque Bazlen si caratterizzò per una certa indipenden- za rispetto alla cultura allora dominante in Italia, e se tale libertà di pen- siero può e deve essere ricondotta alle peculiarità del suo carattere, è anche opportuno vedere in essa la suggestione del particolare panora- ma storico e dell’ambiente culturale nel quale egli si trovò a crescere e maturare. Testimonianze dirette ed indirette affermano infatti che Bazlen conobbe e trasse insegnamento da alcuni fra i maggiori intellet- tuali triestini del tempo. Ma ciò che più colpisce, e che fa presagire il tipo di attitudine che più tardi lo ispirò nel proprio lavoro editoriale, è Bazlen un giovane in for- il fatto che da queste testimonianze non emerga soltanto l’immagine di mazione ma anche un intel- un giovane “in formazione”, ma anche quella di un intellettuale preco- lettuale precoce. ce che ripagava con suggestioni e consigli autori ed intellettuali anche molto più anziani ed esperti di lui. La ricostruzione della biografia di Saba ad opera di Stelio Mattioni è a questo proposito eloquente: l’auto- re descrive la nascita di quello che fu un profondo rapporto di amicizia fra il poeta e un Bazlen addirittura diciassettenne, «intelligentissimo e disposto a stare con lui delle intere giornate per studiare uno sposta- L’amicizia fra il giovanissi- mo Bazlen e Saba. mento di accento in un verso, o il cambio di un aggettivo»24. Se dunque nella libreria antiquaria, dove avvenivano i loro incontri, il giovane cer- tamente ebbe modo di apprendere molto, è però altrettanto vero che

l’amicizia fra Bazlen e Saba nasce dal fatto che Bazlen, benché ado- lescente, è imbottito di letture, aggiornatissimo rispetto alla Trieste di quegli anni, al punto di consigliare a chi studia il tedesco di impratichirsi leggendo Kafka. Saba non perde certo l’occasione di portarselo a casa e di chiedergli qualche consiglio25.

22 Giorgio Voghera, Gli anni della psicoanalisi cit., p. 177. 23 Ivi, p. 178. 24 Stelio Mattioni, Storia di Umberto Saba, Milano, Camunia, 1980, p. 81. 25 Ivi, p. 82.

13 Uno scambio affine emerge dalla testimonianza diretta di Giani Stuparich, il quale nelle sue memorie afferma senza mezzi termini che «Bobi26 a diciott’anni ne sapeva più di tutti noi, maturi ed anziani»27. Anche Stuparich, dunque, mette in evidenza la precocità e la freschez- za delle conoscenze del giovane Bazlen, specificando come esse fosse- ro spese per stimolare gli interessi altrui, tramite la segnalazione, di volta in volta, di un libro che, secondo Stuparich, era sempre «anche se discutibile, d’importanza e di vivo interesse»28. Sin dagli anni Venti, inol- tre, le letture di Bazlen appaiono caratterizzate da una peculiarità che rimarrà tale negli anni, ovvero una certa asistematicità degli interessi, che spaziavano in maniera apparentemente casuale fra gli autori e i diversi contesti letterari: Stuparich nota anche quest’ultimo aspetto, giu- L’attenzione letteraria di dicandolo però essenzialmente positivo, in quanto a guidare le scelte Bazlen era “sul vivo”, senza letterarie di Bazlen vi era un’«attenzione sul vivo»29, un «profondo un apparente criterio. orientamento del gusto»30 e non “cultura disordinata”, “raffinato dilet- tantismo”»31. Ciò appare tanto più vero se si prende in considerazione l’elenco di autori che Stuparich presenta a testimonianza dei consigli e dei contributi di Bazlen al rinnovamento delle letture degli intellettuali triestini. Gli autori citati sono di tutto rilievo: si tratta infatti di Lawrence, Gide, Faulkner, Valéry, Cocteau, Bloch, Eliot, Joyce, Hemingway, Trackl, ed infine Kassner; ancora, «certamente Kafka fu una scoperta di Bobi per l’Italia»32. Per quanto sia bene tenere a mente che tale elenco costituisce il frutto del ricordo personale di un amico (ed è dunque difficile determinare con precisione l’impatto e le even- tuali conseguenze dei suggerimenti di Bazlen), rimane interessante osservare che alcuni degli autori succitati troveranno posto anche nelle lettere editoriali che negli anni successivi Bazlen inviò in quanto consu- lente di diverse case editrici (aspetto, quest’ultimo, sul quale si avrà modo di tornare in seguito). La testimonianza di Stuparich e la ricostruzione di Mattioni restituisco- no dunque l’immagine di un rapporto sereno, di scambio e di arricchi- mento reciproco, fra Bazlen e l’ambiente intellettuale della propria città.

26 “Bobi” corrisponde al diminutivo col quale tutti gli amici chiamarono sempre Bazlen. 27 Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Milano, Garzanti, 1948, p. 15. 28 Ivi, p. 17. 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ibidem. 32 Ivi, p. 18.

14 Tale quadro corrisponde certamente a realtà, ma non si deve dimenti- A poco più di trent’anni care che, giunto a poco più di trent’anni, Bazlen scelse di abbandonare Bazlen lascia Trieste. Trieste. Inoltre, il riscontro del rapporto di affetto che traspare dai passi appena letti e quello, per quanto riguarda Stuparich, che si può leggere in una lettera del 1949 di Bazlen a Giorgio Voghera: «ho capito una volta di più perché non voglio rivedere Trieste33 (anche il libro di stupa- rich che ho sfogliato rapidamente, me lo fa comprendere, gründlich [“a fondo])»34. Allo stesso modo, dalle pagine di Mattioni emerge, accanto al reciproco scambio e ai dialoghi fra Saba e Bazlen, il parere di que- st’ultimo sulla poesia di uno dei propri maestri. Parere che, peraltro, anticipa in modo degno di nota i criteri sottostanti ai giudizi di molte delle successive lettere editoriali:

Bazlen ci disse: come poeta, [Saba] era un lavoratore eccezionale, instancabile. E della sua poesia: una bella affermazione d’arte, ma inutile in quanto attestata su posizioni ormai arretrate rispetto al resto del mondo, andato oltre, molto oltre; tutto ciò che non dice Tutto ciò che non dice qualcosa in più, anche se si può accettare come espressione di bel- qualcosa di più, anche se espressione di bellezza, è lezza, è inutile all’uomo; la vita è divenire, l’opera che resta indietro inutile all’uomo. non serve alla storia della civiltà35.

Sembra di vedere, in questo giudizio, un richiamo di Bazlen contro quella che egli percepiva come un’eccessiva limatura delle poesie di Saba, se il «poeta» è sottilmente definito «lavoratore» e il valore al quale Bazlen si richiama per motivare il proprio giudizio è «la vita», la quale, in quanto “divenire”, non si presta ad essere l’oggetto dello sforzo di un “poeta-lavoratore”. Si intravede, in questo parere del giovane Bazlen, un riferirsi alle istanze fondamentali dell’ambiente letterario della Trieste del tempo, così come si è cercato di descriverle nel para- grafo precedente: «letteratura come “vita” e come severo impegno umano ed etico; serietà e sincerità; problematismo e introspezione; anti- conformismo e antiaccademismo»36. Bazlen, dunque, traeva stimoli dal-

33 Si fa presente, anche per citazioni successive, che le minuscole sono nel testo, secondo un uso caratteristico dello stile di scrittura di Bazlen. 34 Lettera di Roberto Bazlen a Giorgio Voghera, Roma, 23 dicembre 1949, in Roberto Bazlen, Giorgio Voghera, Le tracce del sapiente. Lettere 1949-1965, a cura di Renzo Cigoi, Udine, Campanotto Editore, 1995, p. 29. Si specifica sin da ora che eventuali imprecisioni o grafie scorrette della lingua tedesca sono presenti nell’originale da cui si è tratto. 35 Stelio Mattioni, Storia di Umberto Saba cit., pp. 81-82. 36 Bruno Maier, Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, Milano, Mursia, 1972, p. 3.

15 l’ambiente culturale triestino, ma al contempo contribuiva ad arricchir- li e, soprattutto, non esitava a metterli in discussione, usando in un mec- canismo quasi paradossale le medesime “parole d’ordine” che i suoi stessi maestri utilizzavano nei loro scritti o nelle loro affermazioni pro- grammatiche. L’ambivalenza del rapporto che Bazlen intratteneva con la propria città emerge con una certa chiarezza dall’Intervista su Trieste, uno degli «scritti d’occasione»37 pubblicati in appendice al volume delle Note senza testo, ora facenti parte della raccolta generale degli Scritti. Per quanto di tale Intervista non si conosca nè la data di composizione, nè lo scopo, l’imma- gine della città che ne emerge rimane interessante e singolare. Essa, infatti, oscilla fra l’ironia pungente nei confronti della borghesia triesti- na, che «è […] costretta, in pieno ventesimo secolo, a ricorrere a un fra- sario rettorico ottocentesco da Risorgimento, che tiene alta la fiaccola, che crede che l’italiano sia l’idioma gentil sonante e puro»38, e considera- zioni di ordine storico-culturale acute e consapevoli. Ad esempio, sco- standosi dai pareri invalsi fra gli intellettuali della Trieste del tempo, Bazlen dà un’immagine riduttiva e relativizzante dell’irredentismo, alla quale fa seguire un quadro della cultura triestina complesso, ma di certo non entusiastico. Dopo aver chiarito in prima battuta che «a occhio e croce, […] Trieste è stata tutto meno che un crogiolo»39 (come ad esem- pio Slataper affermava40), Bazlen continua con queste parole:

E come non esiste un unico tipo triestino, non esiste nemmeno una cultura creativa triestina; creare un’opera omogenea [...] sarebbe stato impossibile. Trieste, per queste ragioni, è stata un’ottima cassa di risonanza (del resto non bisogna dimenticare che malgrado certe caratteristiche cosmopolite - […] – è una minima città di provincia […]) e non ha dato proprio nulla che abbia in qualche modo porta- to un elemento nuovo nella cultura europea41.

Accanto all’immagine di Trieste come prezioso tramite per le idee pro- venienti dall’Europa, Bazlen evidenzia dunque l’aspetto, non seconda-

37 Giulia De Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 191. 38 Roberto Bazlen, Scritti, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1984, p. 247. 39 Ivi, p. 251. 40 Si veda ancora, a questo proposito: Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste, un’identità di frontiera cit., p. 16. 41 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 252.

16 rio, del provincialismo della città, che dunque poteva porsi come ispi- Trieste provinciale. ratrice di un clima di rinnovamento, ma non come guida di esso. Ed è Ispiratrice di un clima di rinnovamento ma non una in seguito a questa stessa ragione che Ara e Magris motivano il trasfe- guida. rimento (pochi anni prima di quello di Bazlen a Milano) di Edoardo Weiss a Roma, di modo che, ad esempio, «Trieste diviene l’avamposto della psicoanalisi e, insieme, un avamposto destinato a venir superato e abbandonato»42 ed al suo ruolo vengono associati «la vanità e il falli- mento»43. La città, così, si configura come «il luogo delle grandi e man- cate promesse di felicità e dei tramonti che avvengono al posto delle stesse aurore»44. È inoltre interessante notare che, come esempio di quella che si potrebbe definire la sterilità dell’ambiente culturale di Trieste, Ara e Magris portino proprio il caso di Roberto Bazlen: a pro- posito della cultura triestina, e di questo aspetto di improduttività in particolare, i due autori affermano infatti che Bazlen «la incarna forse più d’ogni altro»45, nel suo essere «seminatore di labirinti e confusioni [...], un pensiero che vive intorno ad un vuoto, ad un’assenza»46. La valutazione conclusiva che viene data riguardo a Bazlen non è delle più lusinghiere, ma comprende indubbiamente degli aspetti di verità: indi- cato come «fiore di questa cultura della nevrosi borghese»47, Bazlen, «nonostante il suo autentico genio, ne riassume anche i limiti: una lar- vata aridità»48. Il discorso di Ara e Magris nel passo appena citato si riferisce al contesto dell’ambiente antifascista triestino. Si può tuttavia facilmente intendere che la patente di aridità attribuita all’identità poli- tica di Bazlen sia in realtà estendibile più in generale al suo operato intellettuale, dal momento che

le sue carte postume riveleranno, oltre alla fulminea intelligenza, pure la proterva ingenuità di questa intelligenza che, protesa alla ricerca del ghigno beffardo, cadrà anche nella patetica smorfia, nella banalità dell’eccentrico che impone agli altri di scambiare l’in- consistenza per una misteriosa, allusiva pregnanza49.

42 Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste, un’identità di frontiera cit., p. 136. 43 Ibidem. 44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Ibidem. 48 Ivi, p. 137. 49 Ibidem. 17 La rilevazione di una certa riluttanza a concretizzare il proprio pensie- ro in una militanza culturale è certamente condivisibile, in quanto que- sto dato rimarrà una costante lungo tutto il percorso, intellettuale ma anche umano, di Bazlen: forse, però, si può cercare di approfondire i caratteri di tale riluttanza, dal momento che se da un lato Bazlen amò sempre restare nell’ombra e non si espose mai, come invece fecero altri intellettuali del suo tempo, dall’altro lato con questi stessi intellettuali (e, raggiunta una certa età, ben oltre ai confini della terra d’origine) Bazlen intrattenne rapporti più che mai fertili e produttivi per l’intera cultura italiana. Si sta qui facendo riferimento, per fare un solo, primo esempio, al sodalizio fra il giovane triestino ed Eugenio Montale, soda- lizio che, fra le altre cose, favorì la lettura e la diffusione dell’opera di Svevo in Italia.

1.1.3 Il sodalizio con Montale.

Prima dell’abbandono definitivo della propria città nel 1934, Bazlen Tra il 1923 e il 1925 gli anni trascorse un periodo (dall’inverno del 1923 al 1925) a Genova, dove genovesi di Bazlen. lavorò prima per il commerciante Alessandro Maria Psyllas, poi per la ditta d’importazione di caffè di Giulio Morpurgo. Di quest’ultimo Bazlen conobbe anche la figlia, Lucia Morpurgo Rodocanachi, con la quale negli anni Trenta strinse una duratura amicizia che gli permise, L’amicizia con Lucia fra l’altro, di partecipare al ricco e fecondo salotto letterario che si Morpurgo Rodocanachi e teneva in casa di lei e del marito, il pittore Paolo Stamaty Rodocanachi. successivamente con Eugenio Montale. Ma soprattutto, gli anni genovesi per Bazlen significarono l’incontro, e la nascita dell’amicizia, con Eugenio Montale. Nel suo ricordo dopo la morte dell’amico, in origine pubblicato sul «», oggi raccolto nel volume che contiene il carteggio fra Svevo e Montale, il poeta così descrive l’incontro con l’amico triestino:

Quando venne a trovarmi, nell’inverno ’23-’24, mandatomi non so da chi, egli fu per me una finestra spalancata su un mondo nuovo. Ci vedevamo ogni giorno [...]. Mi parlò di Svevo, facendomi poi pervenire i tre romanzi dell’autore stesso; mi fece conoscere molte pagine di Kafka, di Musil (il teatro) e di Altenberg. Conoscevo già

18 la poesia di Saba, ma Bobi mi rivelo anche Giotti, Bolaffio e, più tardi, Carmelich. Di mio, aggiunsi alla lista Benco, Stuparich e, anni dopo, Quarantotti Gambini50.

Secondo il curatore del carteggio, Giorgio Zampa, il primo a parlare a Montale di Bazlen sarebbe stato , in quanto amico di entrambi. Quello che più conta, però, è il fatto che al ritorno a Trieste di Bazlen iniziarono fra i due un’amicizia ed un carteggio durati anni (anche se le lettere di cui disponiamo, pubblicate sempre nel volume degli Scritti, arrivano solo al 1930). I caratteri di questo sodalizio sono facilmente deducibili anche solo dal ricordo di Montale citato appena sopra: Bazlen, cioè, favorì in Montale una prima conoscenza della lette- Bazlen favorì in Montale una prima conoscenza della ratura in lingua tedesca che veniva prodotta in quegli anni ed introdusse letteratura in lingua tedesca. il poeta alla consuetudine con gli autori triestini del tempo, tanto da fare di lui «quasi un triestino d’elezione»51. Infine, fatto che non emerge dalla testimonianza di Montale, ma chiaramente dal carteggio, Bazlen, per quanto più giovane e meno noto del suo amico, era solito dare giudizi molto liberi sulla sua poesia e contribuì a diffonderla nella propria città. A proposito dei rapporti fra Bazlen e la poesia di Montale possono essere citate le prime lettere del carteggio fra i due (che, per la verità, raccoglie unicamente le lettere da Trieste a Genova, e non viceversa). Il 5 maggio 1925, infatti, Bazlen, scrivendo all’amico ligure «ti mando le pochissime prenotazioni che ho potuto raccogliere»52 (prenotazioni che significativamente annoverano anche il nome di Umberto Saba), allude alla pubblicazione degli Ossi di seppia presso l’editore Gobetti, la quale sarebbe avvenuta solo al raggiungimento di un determinato numero di copie ordinate. A quanto si legge nel carteggio, dunque, Bazlen si spese affinché gli intellettuali triestini fossero a conoscenza dell’uscita della prima raccolta di Montale ed ordinassero il libro. Ancora più interessante, tuttavia, è il parere che egli dà circa la prima raccolta montaliana, poco dopo la sua pubblicazione:

Ho riletto il tuo libro: m’è piaciuto molto di più, ancora, e partico-

50 , Eugenio Montale, Lettere / con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di Giorgio Zampa, Bari, De Donato, 1966, p. 146. 51 Ibidem. 52 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 5 maggio 1925, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 357.

19 larmente le cose lunghe. Le brevi (Ossi di s.) non mi dicono gran che, e mi sembrano, spesso, formalmente ingenue. Ma tra le lun- ghe alcune (salvo l’intollerabile ultima strofa del Mediterraneo) mi sembrano assolutamente perfette e definitive53.

Il giudizio sulla sezione “Mediterraneo”, duro e non argomentato, appare tanto più significativo se si considera che nella prima edizione degli Ossi di seppia, dunque quella di cui Bazlen sta parlando, proprio a lui, all’amico «Bobi B.», tale sezione era dedicata. Rimane il fatto che pochi giorni dopo (il 6 settembre) Bazlen denuncerà all’amico il fatto che «i librai di Trieste, per lo meno quei due che frequento, hanno pochissime copie del tuo libro»54, per di più nascoste «in qualche recondito scaffale»55. Ragione per cui, Bazlen conclude, «li ho fatti togliere di lì, e mettere in vetrina»56. Di un anno successiva è l’opinio- ne che Bazlen dà, in data 26 dicembre 1926, a proposito di alcune liri- che che Montale doveva avergli sottoposto. Il giudizio è in questo caso più morbido, e permette qualche osservazione sul pensiero di Bazlen al di là dell’opera poetica di Montale:

Le tue liriche. Mi sono piaciute moltissimo, e mi sembrano (restan- L’impossibilità di uno “slati- do pur sempre in quella linea) molto migliori degli “Ossi”. Il loro nizzamento” della parola limite: l’impossibilità di uno slatinizzamento della parola italiana. italiana. Hai fatto (con Campana e qua e là D’Annunzio) il massimo che si possa fare à ce but; non mi basta57.

Anche in considerazione delle posizioni che Bazlen assunse negli anni successivi riguardo alla letteratura italiana (e al suo essere in grado di reggere il confronto con quella europea), si può ipotizzare che con «slatinizzamento della parola italiana» egli qui intendesse quella che probabilmente sentiva come la necessità di un’apertura delle opere prodotte in Italia ad un aggiornamento ed un’attitudine più europea, dunque in sostanza più moderna. Che le istanze di rinnovamento che presumibilmente Bazlen andava formulando in quegli anni risiedesse- ro in uno sguardo rivolto alla letteratura straniera è d’altronde deduci-

53 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 1 settembre 1925, in Ivi, p. 360. 54 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 6 settembre 1925, in Ivi, p. 361. 55 Ibidem. 56 Ibidem. 57 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 26 dicembre 1926, in Ivi, p. 379. 20 bile anche da un passo della già citata Intervista su Trieste, nel quale Bazlen descrive «le biblioteche finite sulle bancarelle dei librai del ghet- to»58 al momento dell’abbandono da parte degli austriaci di Trieste. Su queste bancarelle, il giovane Bazlen trovava «libri veramente importan- ti e sconosciutissimi»59, a proposito dei quali nell’Intervista osserva:

Parlo delle biblioteche dei tedeschi, degli ufficiali di marina austria- ci, ecc., se la situazione fosse stata l’inversa, e se ne fossero andati gli italiani, le bancarelle si sarebbero sfasciate sotto il peso di Carducci Pascoli D’Annunzio60.

Il giudizio dato sulla più istituzionale produzione letteraria italiana è implicito è non di segno positivo, e trova un riscontro anche nei pare- ri circa poeti di notorietà inferiore rispetto a quelli appena citati. E il caso del poeta Pignato, il cui libro in una delle sue lettere Bazlen dice di avere visto in libreria, aggiungendo: «non mi ha fatto certo l’impres- sione d’un’opera che farà abbassare, nemmeno di un millimetro, il piat- La Grande Bilancia to latino (molto, ma molto alto) della Grande Bilancia Culturale Culturale Europea. Europea»61. Tornando ai rapporti fra Bazlen e Montale, si può allora comprendere che cosa spingesse Bazlen, con un atteggiamento fortemente proposi- tivo, a suggerire titoli ed autori all’amico poeta. Vari sono i nomi che emergono dalla lettura del carteggio: per fare solo qualche esempio, a Montale negli anni vengono consigliati Antic Hay di Aldous Huxley, Portrait of a Lady di Henry James, Le Sopha di Crébillon le Fils («dopo “Les liaisons dangereuses”, il più bel libro narrativo francese»62), Impressions d’Afrique di Roussel («leggilo, è immenso»63). Da notare è il fatto che alcuni di questi autori, per esempio James e Crébillon le Fils, si troveranno citati nelle lettere editoriali che Bazlen indirizzerà alla casa editrice Einaudi a partire dalla fine degli anni Quaranta. Inoltre, se si considera il succitato ricordo di Montale, i consigli che Bazlen gli dava dovettero certamente avere una qualche influenza su di lui. Per alcuni di essi, tale influenza è poi facilmente riscontrabile, se si consi-

58 Ivi, p. 254. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 61 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 10 settembre 1925, in Ivi, p. 362. 62 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 29 settembre 1926, in Ivi, p. 369. 63 Ivi, p. 370.

21 dera, ad esempio, uno dei rari pareri su scrittori sloveni che Bazlen dà nella prima lettera a Montale (risalente al 5 maggio 1925) che si può leggere negli Scritti.

La casa editrice “Parnaso” di Trieste ha pubblicato la traduzione di una novella di uno sloveno, Ivan Cankar: Il servo Bortolo ed il suo dirit- to. È, come purezza di linea epica, una delle cose più perfette che conosca. Vorrei leggere una tua critica in una rivista decente64.

La recensione positiva auspicata da Bazlen in effetti apparirà molto presto, nel settembre del 1925, su «Il Baretti», con il titolo Un servo padrone.

1.1.4 Il “caso Svevo”.

Un meccanismo simile a quello appena descritto si può individuare a Il “caso Svevo”. proposito del ben più noto e rilevante «caso Svevo», il quale «costitui- sce un capitolo della storia della nostra letteratura»65. La prima testimo- nianza di questo caso, almeno relativamente al ruolo che Roberto Bazlen rivestì in esso, si legge in una lettera del 1 settembre 1925, nella quale Bazlen scrive:

Mi ho fatto dare [sic], da Italo Svevo, i suoi due primi libri: dimmi se devo mandarteli a Monterosso, o pure a Genova. Il secondo libro, “Senilità”, è un vero capolavoro, è l’unico romanzo moderno che abbia l’Italia (pubblicato nel 1898!). Stile tremendo! Te ne scriverò più a lungo [...]. Ne manderò una copia anche a Solmi [...]. Hai letto “la coscienza di Zeno”? Devi superare le prime 200 pagine, che sono piùttosto noiose66.

È dunque certo che l’acquisizione materiale dei primi due libri di Svevo avvenne nel caso di Montale grazie alla mediazione di Bazlen, e lo stes- so si può dire riguardo a La coscienza di Zeno, che Bazlen, il 6 settembre 1925, promette di spedire al poeta qualora egli non riesca a trovarlo. A

64 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 5 maggio 1925, in Ivi, p. 358. 65 Italo Svevo, Eugenio Montale, Lettere / con gli scritti di Montale su Svevo cit., p. VII. 66 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, 1 settembre 1925, in Roberto Bazlen, Scritti cit., pp. 359-360.

22 questo proposito è bene comunque accogliere le precisazioni che Giorgio Zampa fa nella sua introduzione alle Lettere di Svevo e Montale: i passi appena citati, cioè, secondo il critico «non provano in modo asso- luto che la prima indicazione della sua [di Svevo] originalità di scrittore venissero da Bobi stesso. L’ipotesi è probabile, ma ipotesi rimane»67. Poste queste premesse, il ruolo di Bazlen nel «caso Svevo» può essere propriamente rintracciato nell’«avere innescato la miccia»68 dell’interes- se della critica italiana per l’opera dell’ormai maturo scrittore triestino: dopo le varie segnalazioni che si possono trovare nelle lettere di Bazlen a Montale, infatti, il poeta leggerà i tre romanzi fra il settembre e l’ot- tobre del 1925, per pubblicare subito un primo intervento, dal titolo Omaggio a Italo Svevo, sul numero della rivista l’«Esame» del novembre- dicembre dello stesso anno. Nel gennaio del 1926, poi, Montale pub- blica un nuovo intervento su Svevo, le cui tracce nel carteggio sono lampanti. Il 13 dicembre del ’25, infatti, rivelandosi in parte come “mente” sottostante al nuovo progetto di pubblicazione critica da parte del poeta, Bazlen scrive a Montale: «ho chiesto oggi il permesso, a Svevo, di pubblicare nella nuova rivista un pezzo di Senilità colla tua, seconda, critica»69, per poi concludere «vorrei far scoppiare la bomba Svevo con molto fracasso, dimmi se è il caso di mandare i 2 libri a Cecchi, Gargiulo, ecc.»70. L’articolo uscirà sul secondo numero (datato 26 gennaio 1926) della neonata rivista milanese «Il Quindicinale» con il titolo Presentazione di Italo Svevo. Sono, questi, interventi che Bazlen accoglie con entusiasmo, come risulta chiaro da una lettera a Montale, nella quale si dice «molto soddisfatto dei […] due saggi, specialmente della seconda parte del secondo»71, ed aggiunge vari aggiornamenti sullo stato della diffusione dell’opera di Svevo fra critici come, fra gli altri, Prezzolini. Da questo momento fino al 1928 il carteggio Bazlen-Montale non pre- senta più tracce della questione Svevo: il che comunque non toglie, da un lato, il comparire con una certa frequenza del nome di Bazlen nelle lettere che proprio in quegli anni Svevo si scriveva con il poeta ligure,

67 Italo Svevo, Eugenio Montale, Lettere / con gli scritti di Montale su Svevo cit., p. IX. 68 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 5 maggio 1925, in Ivi, p. X. 69 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 13 dicembre 1925, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p, 365. 70 Ibidem. 71 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 17 febbraio 1926, in Ivi, p. 367

23 e dall’altro il proseguire del fertile scambio, ora spostatosi su altri piani, di quest’ultimo con Bazlen. Dallo scrittore e dal poeta Bazlen e infatti spesso nominato, di volta in volta in quanto amico magari sfuggente («e Bobi? Mistero»72 scriverà Montale il 19 novembre 1927) o in quan- to intellettuale il cui pensiero è stimato e rispettato dai due corrispon- denti. Per fare un solo esempio, già nel marzo del 1926, quindi solo due mesi dopo l’uscita del suo articolo su «Il Quindicinale», Montale scrive allo scrittore triestino a proposito della ristampa di Senilità, con- sigliandogli di non compromettere la «schiettezza del testo»73 che con «pochissimi ritocchi»74 riguardo ai quali il poeta specifica: «potrebbe eli- minare qualche esclamativo e uno o due anacoluti in tutto, consiglian- dosi con Bazlen che ha un gusto squisito»75. Per quanto riguarda il carteggio fra Montale e Bazlen, come si è detto poco sopra, dal principio del 1926 al 1928 esso non tocca più il tema dell’opera di Svevo. Fra gli argomenti trattati in questo intervallo di tempo rimane da rilevare, oltre a quanto è già stato evidenziato, il rife- rimento di Bazlen a Giuseppe Menasse, che fu il primo traduttore di Giuseppe Menasse, primo Kafka in Italia: il 4 luglio 1926, infatti, Bazlen chiede a Montale di far- traduttore di Kafka in Italia. gli avere «una lettera per la casa editrice del “Baretti”, ev. per altre»76, lettera che fungerebbe da presentazione per l’amico Menasse. Quest’ultimo, infatti, è alla ricerca di «una persona che direttamente o indirettamente possa procurargli un lavoro di traduzione»77. Tale segnalazione da parte di Bazlen ha una sua rilevanza, perché permette di anticipare un altro dei ruoli che egli ebbe nell’editoria italiana, con- sistente nel consigliare a varie case editrici traduttori anche autorevoli (altro caso sarà quello della già citata Lucia Rodocanachi) o di collabo- ratori: inoltre, si può forse parzialmente spiegare con questo passo l’af- fermazione succitata, altrimenti oscura, di Gianni Stuparich, secondo il quale «certamente Kafka fu una scoperta di Bobi per l’Italia»78 (affer- mazione che trova una rispondenza anche nel rapporto fra Bazlen e

72 Lettera di Eugenio Montale a Italo Svevo, Firenze, 19 novembre 1927, in Italo Svevo, Eugenio Montale, Lettere / con gli scritti di Montale su Svevo cit., p. 65. 73 Lettera di Eugenio Montale a Italo Svevo, Genova, 29 marzo 1926, in Ivi, p. 16. 74 Ibidem. 75 Ibidem. 76 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 372. 77 Ibidem 78 Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi cit., p. 18.

24 l’amico Giacomo Debenedetti, al quale egli fra l’altro parlava «di auto- ri ancora da scoprire come Kafka»)79. Nella stessa lettera emerge infi- ne un ulteriore ruolo rivestito da Bazlen per l’amico Montale, ovvero Bazlen come tramite tra quello di mediatore fra quest’ultimo e gli intellettuali di Trieste, in par- Montale e Saba. ticolare Umberto Saba. È infatti grazie al tramite di Bazlen che il poeta ligure può conoscere il riscontro di Saba circa la recensione che egli aveva fatto al suo ultimo libro, Figure e canti. Scrive infatti Bazlen:

Il poeta non è affatto arrabbiato con te. Trova che, nel tuo saggio su di lui, parli più di tue intime preoccupazioni d’ordine estetico, che della sua poesia; in parte ha ragione. Ciò non toglie che [...] il tuo saggio sia il più presentabile di quanto finora è stato scritto su Saba80.

Resta opportuno puntualizzare, a questo proposito, che i rapporti di Bazlen con «il vate»81 sono, a sua stessa detta, «discreti»82, su una via che anche per ragioni personali porterà a una quasi completa rottura. Accanto a tali questioni, però, il «caso Svevo» non è accantonato se non momentaneamente, come si è già avuto modo di accennare. Esso infatti viene risollevato, di nuovo con una certa partecipazione da parte di Bazlen, a partire da una lettera del 25 settembre 1928, di una deci- na di giorni posteriore alla morte dello scrittore. In questa circostanza Bazlen, pur dicendosi «molto addolorato»83 per la cosa, non esita a for- nire a Montale un quadro assai sincero, quasi sfrontato, della propria La morte di Svevo. opinione circa il defunto Svevo. L’occasione è data dall’articolo di ricordo che Montale aveva scritto due giorni prima sulla «Fiera Letteraria», con il titolo Ultimo addio:

Ho paura che il Tuo articolo si presti troppo ad essere interpreta- to male, ed a far sorgere la leggenda d’uno Svevo borghese intelli- gente, buon critico, psicologo chiaroveggente nella vita ecc. Non aveva che genio: nient’altro. Del resto era stupido, egoista, oppor- tunista, gauche, calcolatore, senza tatto84.

79 Paola Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Lecce, Manni, 2001, p. 46. 80 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 371. 81 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 26 dicembre 1926, in Ivi, p. 378. 82 Ibidem. 83 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 25 settembre 1928, in Ivi, p. 380. 84 Ibidem.

25 Se si considera la conclusione moderata ed affettuosa che Bazlen scri- ve poche righe dopo quelle citate («gli ho voluto – malgré tout – molto bene, come non ne ho voluto che a poche persone»85) non è facile comprendere quali sentimenti lo spingessero ad un coinvolgimento nel progetto di mantenere ed arricchire la memoria dell’opera di Svevo. Si può supporre, tuttavia, che si trattasse di un insieme di affetto, alta considerazione dell’opera dello scrittore, ma anche volontà di “tenere nascosto” al pubblico ciò che poteva dare di Svevo e della sua opera un’immagine in qualche modo distorta. È forse per quest’ultima ragio- ne che Bazlen, nella stessa lettera che si è appena citata, così descrive L’idea di pubblicare mate- la propria attitudine nei confronti del riordino e nell’eventuale pubbli- riali postumi sveviani. cazione dei materiali postumi sveviani: «tenterò di farmi dare in mano tutta l’opera postuma, e di evitare la pubblicazione dell’opera omnia. Sarebbe un disastro. Credo non ci sarebbe nulla di pubblicabile. Ma darò un’occhiata»86. Sulla base di questa idea di fondo, Bazlen seguirà parallelamente il progetto della pubblicazione di un volume di novelle presso l’editore Morreale («è indispensabile che la prefazione sia fatta da te!»87 scrive a Montale il 6 gennaio 1929) e quello del volume unico dedicato a Svevo che si stava preparando per Solaria. «Se [i redattori di La proposta a Solaria. Solaria] aspettano ancora molto, dovrò se Dio vuole mandare un altro brano inedito, perché quello che ho mandato sarà già stato pubblicato nel volume»88: da questo stralcio di una lettera del settembre 1929 emerge quindi l’attenzione a una distribuzione equilibrata dei materia- li nelle varie edizioni. Attenzione che, peraltro, si può vedere ulterior- mente confermata in un passo della stessa lettera:

Inoltre, c’e Angioletti che chiede a Villa Veneziani un brano per la sua ignobile fiera della vanità letteraria. La signora Schmitz insiste. E dovrò sceglierlo. Non c’è verso di far capire a Villa Veneziani che si potrebbe soigner [curare] la “gloria postuma” di S. molto decorosamente, e che non c’è nessun bisogno di fargli posto a pic- coli colpi di gomito, e frammento per frammento, su tutte le rivi- ste letterarie. Se Dio vuole, pubblicheranno col tempo anche la corrispondenza, i frammenti filosofici e culturali, e tutte le sue favole completamente idiote89.

85 Ivi, p. 381. 86 Ibidem. 87 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 6 gennaio 1929, in Ivi, p. 383. 88 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, settembre 1929, in Ivi, p. 385. 89 Ivi, p. 386. 26 Da quanto fino ad ora si è cercato di delineare, è evidente dunque lo spirito ed il coinvolgimento che spinsero Bazlen da un lato a farsi «primo e consapevole artefice della valorizzazione culturale dell’opera sveviana in Italia»90, dall’altro a consigliare letture, pubblicazioni ed operazioni editoriali all’amico Montale. Un coinvolgimento, dunque, che una volta rilevato può aiutare a ridimensionare il succitato parere di Ara e Magris, i quali imputano al lavoro e agli scritti di Bazlen una certa «inconsistenza»91. Resta però vero che nel tentativo di dare un quadro complessivo anche solo dell’operato di questi primi anni ci si trova a fare i conti con frequenti affermazioni paradossali, quasi ostili nei confronti dei destinatari delle sue lettere, che possono risultare fuorvianti, o comunque non chiarificatrici, in sede dello studio della figura di Bazlen. Si legge ad esempio nella lettera a Montale del 16 La contraddittorietà e il novembre 1925: «se un giorno avrò voglia, forse vi manderò, per la paradosso nelle rivista, un solo articolo sull’inutilità di divulgare in Italia culture este- affermazioni di Bazlen. re»92. Un’affermazione che appare del tutto priva di senso e disorien- tante, alla luce di quanto detto finora e del consistente numero di tito- li unicamente stranieri che Bazlen raccomanderà alle varie case editri- ci. Lo stesso atteggiamento, tendente in effetti al cinismo e alla morti- ficazione delle proprie potenzialità come operatore culturale, in un continuo altalenare fra la presentazione di una proposta e il suo ritiro, si trova in un passo poche righe sopra quello citato, dunque significa- tivamente nel pieno del «caso Svevo»:

Siete matti di volermi far collaborare a una rivista? Io sono una persona per bene che passa quasi tutto il suo tempo a letto, fuman- do e leggendo [...]. Per di più, manco completamente di spirito messianico divulgativo, e non ho mai inteso nessun bisogno di par- tecipare agli altri le mie idee, tanto meno ai lettori di riviste. Se avete bisogno di indicazioni, scoperte, bibliografie, ecc. vi aiuterò molto volentieri93.

Non è chiaro a quale rivista Bazlen si riferisca in questo passo, dal momento che di lì a poco diverse sarebbero state le collaborazioni

90 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen, cit. p. 28. 91 Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste, Un’identità di frontiera cit., p. 137. 92 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 16 novembre 1925, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 364. 93 Ivi, p. 363.

27 intraprese da Montale, nelle quali il poeta avrebbe potuto voler coin- volgere l’amico. Resta però interessante il fatto che le parole succitate costituiscono un efficace autoritratto del Bazlen collaboratore quasi del tutto mancato di «Solaria», rivista fiorentina che avrebbe iniziato le proprie pubblicazioni di lì a poco, nel gennaio del 1926.

1.1.5 La collaborazione con «Solaria».

Le prime comunicazioni fra Bazlen e «Solaria», la rivista che avrebbe Nel 1928 l’inizio degli segnato «forse più di qualunque altra in Italia il senso e il gusto delle scambi con la rivista Solaria 94 fondata da Alberto Carocci. nostre lettere tra gli anni venti e gli anni trenta» , risalgono al 1928. Non si sa con certezza come Bazlen si sia avvicinato alla redazione fio- rentina, ma è presumibile che il tramite sia stato o quello di tre dei suoi più cari amici, tutti collaboratori della rivista, come Montale, Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti, o il nutrito gruppo di intellettuali trie- stini che collaboravano con «Solaria». All’interno della cerchia di intel- lettuali che ruotavano attorno al fondatore Alberto Carocci, infatti, «l’altro meridiano che cominciò presto a funzionare fu quello Firenze- Trieste»95, grazie ai contatti della redazione con personalità già ampia- mente citate in questa sede come Svevo, Saba, Quarantotti Gambini, Stuparich, Giotti. Se si considera che le prime e più numerose lettere che Bazlen inviò al direttore e fondatore della rivista Alberto Carocci riguardano ancora una volta il caso Svevo, si può allora pienamente appoggiare il parere di Giuliano Manacorda, curatore del volume Lettere a Solaria, riguardo alla posizione che «l’asse triestino»96 ebbe all’interno della redazione di «Solaria»: secondo Manacorda, cioè, «cul- turalmente forse meno importante per i minori legami che offriva con una tradizione consolidata, questo asse è però letterariamente fonda- mentale e quasi decisivo nelle scelte di Solaria»97. La rivista fiorentina, in effetti, diede un certo rilievo all’opera di Svevo (anche al di là, a dire il vero, dell’intervento di Bazlen) se ad essa dedicò un intero numero (nel febbraio del 1928) che ospitava la sua novella Una burla riuscita, seguito dal numero unico del marzo – aprile 1929 dove trovavano

94 Lettere a «Solaria», a cura di Giuliano Manacorda, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. XV. 95 Ivi, p. XXIII. 96 Ibidem. 97 Ibidem. 28 posto, ormai dopo la morte dello scrittore, gli scritti Il vecchione e Frammenti. Come si è già accennato nel precedente paragrafo, la colla- borazione di Bazlen con «Solaria» si colloca proprio nel contesto del- l’uscita del numero unico dedicato a Svevo, per il quale egli si occupò Il numero unico di Solaria della scelta e della cura dei materiali da pubblicare. A questo proposi- dedicato a Svevo to può essere interessante mettere a confronto la prima lettera che Bazlen inviò a Carocci, il 28 ottobre 1928, e il ritratto che egli aveva dato di sé nella già citata lettera a Montale. Come si è sottolineato, infatti, il 16 novembre 1925 Bazlen parlava a Montale della propria mancanza di «spirito messianico divulgativo»98, in particolare riguardo ai «lettori di riviste»99. Così, invece, egli stesso presenterà il proprio lavoro a Carocci:

Frammento. Non credo in generale all’efficacia d’un frammento breve tratto da un’opera narrativa: non si può staccare un organo da un organismo. E l’opera di Svevo è una delle più organiche che conosca: ogni episodio è sempre la conseguenza di tutte le premes- se, ed è sempre - benché a prima vista non sembri - pieno di rife- rimenti vagamente accennati, di riprese di motivi, ecc. [...]. E poi, pensi, presentando un solo frammento, quanti effetti di illumina- zione vanno perduti100.

Dalla lettura di questo passo appare evidente come l’ottica di Bazlen presupponesse non solo una profonda consapevolezza rispetto all’opera di Svevo, ma anche il deciso intento di presentarla al pubbli- co nel modo che egli riteneva più appropriato. Bazlen, dunque, fu «ai fini del numero unico del ’29, il principale mediatore con l’ambiente sveviano di Trieste»101, anche perché a partire dalla propria idea del- l’opera di Svevo si mobilitò affinché essa giungesse opportunamente ai lettori, come si riscontra anche nei successivi scambi epistolari con Alberto Carocci. Dalla stessa lettera del 28 ottobre 1928, peraltro, accanto all’attività critica alla quale si è appena fatto cenno, emerge una collaborazione anche alla stesura della bibliografia (attività che nella

98 Lettera di Roberto Bazlen ad Eugenio Montale, Trieste, 16 novembre 1925, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 363. 99 Ibidem. 100 Lettera di Roberto Bazlen ad Alberto Carocci, 28 ottobre 1928, in Lettere a «Solaria», a cura di Giuliano Manacorda cit., p. 87. 101 Ivi, p. XXIII.

29 lettera a Montale del 1925, presentava come a sé congeniale) e della cura del testo. A proposito del romanzo Il vecchione, infatti, Bazlen affer- ma senza mezzi termini: «sintassi e grammatica, specialmente negli ulti- mi capitoli, un disastro»102, ragione che evidentemente lo spinge ad apportare «correzioni»103, presentate a Carocci come «necessarie»104. Alla luce di quanto si è cercato di mostrare, si può comprendere che il contributo di Bazlen alla composizione del volume unico su Italo Svevo non fu certo irrilevante. Resta però la contraddittoria conclusione della lettera a Carocci fino ad ora citata, la quale corrobora l’immagine di un intellettuale refrattario alla collaborazione troppo stretta e “compro- mettente” con riviste, ma anche alla pubblicazione di cose proprie, che Bazlen dà di sé, e che molti critici e amici, nei loro ricordi, conferma- no. Egli infatti così conclude: «grazie per l’invito di collaborare al Suo numero unico: ma non ho tempo, e in italiano non so scrivere»105. Un analogo atteggiamento di ritrosia si rileva peraltro a proposito della seconda occasione di collaborazione di Bazlen con «Solaria», successi- va di qualche anno rispetto al numero unico dedicato a Svevo. L’anno è il 1932, e coincide con una mutata situazione sia all’interno della redazione fiorentina, sia forse nel panorama culturale ed editoriale ita- liano. «Solaria», infatti, giunta al sesto anno di attività, è ormai una rivi- sta pienamente affermata, che si avvale della collaborazione di nuovi intellettuali, come ad esempio Elio Vittorini. Soprattutto, quello che sembra caratterizzare l’attività di questi anni è una «condizione di piena e cosciente maturità nel proprio lavoro»106, che permette ai solariani di «sviluppare una delle vocazioni più autentiche della rivista, quella che suole andare sotto il nome di europeismo»107. La necessità di un’aper- tura alle letterature straniere, con la finalità di sprovincializzare una cultura italiana ormai completamente sottoposta alla chiusura fascista, Il tentativo di trovava riscontro anche ad un livello più generale, così che diverse sprovincializzazione della cultura italiana sottoposta furono le riviste e le case editrici che contribuirono a fare degli anni 108 alla chiusura fascista. Trenta il «decennio delle traduzioni» . Dal canto loro, i solariani discu-

102 Ivi, p. 88. 103 Ibidem. 104 Ibidem. 105 Ivi, p. 89. 106 Ivi, p. XXXV. 107 Ibidem. 108 Luisa Mangoni, «Il decennio delle traduzioni», in Le letterature straniere nell’Italia dell’entre-deux-guerres, a cura di Edoardo Esposito, Lecce, Pensa Multimedia editore, 2003, p. 12.

30 tono l’opportunità di rinnovare la propria proposta editoriale, attraver- so un progetto chiaramente delineato dalle parole di Carocci che seguono:

Nel corso del 1932 vorrei dedicare alcuni numeri unici di Solaria alle varie letterature straniere contemporanee. Inutile dirLe che L’invito di Alberto Carocci questi numeri unici dovrebbero avere un carattere tendenzioso, nel a curare il numero unico senso come è tendenziosa Solaria rispetto alla letteratura italiana109. di Solaria sulla letteratura tedesca. Carocci si rivolge qui, in una lettera datata 4 gennaio 1932, proprio a Roberto Bazlen, al quale propone di curare il volume unico dedicato alla letteratura tedesca contemporanea. L’invito di Carocci si articola come segue:

Per fare un numero di letteratura tedesca avrei pensato a Lei. Non mi dica che non ha tempo. Dato che il numero dovrebbe contene- re pochi nomi, la fatica di organizzarlo non dovrebbe essere ecces- siva. [...]. Non potrei [...] rivolgermi a Peterich o a Tecchi, con i quali si cascherebbe inevitabilmente sui soliti Man [sic], o Wassermann, o Doblin [sic] etc. etc. Nel qual caso sarebbe perfet- tamente inutile fare il numero. Posso contare su di lei? Ci terrei moltissimo110.

Sembra di vedere, nelle parole del direttore, la volontà di impedire al proprio interlocutore di sottrarsi all’invito: il che fa comprendere da un lato come Carocci si aspettasse da Bazlen una risposta negativa, dall’al- tro come quest’ultimo fosse considerato, benché ancora abbastanza giovane, un conoscitore autorevole della letteratura tedesca. Nelle parole di Carocci, infatti, si legge la convinzione che Bazlen potrebbe proporre autori davvero nuovi e sconosciuti, non come i «Man» e i «Doblin», ovvero le proposte che egli immagina da parte di germanisti come Tecchi, e che sarebbero a parer suo insoddisfacenti e scontate. È opportuno puntualizzare, a questo punto, che nessuno dei numeri unici dedicati alle letterature europee venne alla luce: se ciò in buona parte avvenne per questioni interne alla redazione di Solaria (che in

109 Lettera di Alberto Carocci a Roberto Bazlen, Firenze, 11 gennaio 1932, in Lettere a «Solaria», a cura di Giuliano Manacorda cit., p. 352. 110 Ibidem.

31 effetti vagliava anche il progetto alternativo della fondazione di una nuova rivista, unicamente votata all’«europeismo»), rimane il fatto che l’atteggiamento di Bazlen a tale proposito giocò indubbiamente il suo ruolo. Per leggere una sua risposta, infatti, si dovranno attendere quasi dieci mesi, quando, per la precisione il 22 ottobre, Bazlen così si pro- nuncia rispetto al numero unico dedicato alla letteratura tedesca:

La riluttanza di Bazlen Numero tedesco: ho fatto fare, da Marchi, e da altri, parecchi ten- verso la proposta di tativi di traduzione di scrittori tedeschi moderni. Per il momento, Carocci. quasi unicamente fallimenti. Ma, appena avrò più tempo, le scrive- rò una lunga lettera teorica, e vedrà che ci metteremo d’accordo111.

Di questa lettera non si ha notizia; inoltre, a ulteriore dimostrazione del fatto che Bazlen fosse riluttante a lasciarsi coinvolgere nel proget- to, si possono leggere vari passi di lettere di persone a lui vicine. È lo stesso Giorgio Marchi citato da Bazlen, ad esempio, a mediare fra lui e Carocci sin dal gennaio del ’32, riferendo al direttore di Solaria un messaggio che pare di apertura da parte di Bazlen, il quale non scrive di persona perché «a letto malato»112. Bazlen, scrive Marchi, «dice che: [...] ti comporrebbe un numero con cinque fra prosatori e poeti [...] non rappresentativi, essendo ciò impossibile dato il carattere della let- teratura tedesca [...], bensì scelte così, casualmente»113. La mancata col- laborazione, nei fatti, da parte di Bazlen sembra dunque motivata da considerazioni critiche sulla natura della letteratura tedesca e della sua traducibilità in altre lingue, come si vede dalla lettera di Marchi e da quella citata poco sopra dello stesso Bazlen. Ma accanto ad esse, non è inopportuno vedere anche una riluttanza, un riserbo di segno diver- so, che trova testimonianza in quanto si è detto fino ad ora e nelle parole, ancora una volta, di Giorgio Marchi. Il 4 maggio del 1932, infatti, egli parla chiaramente a Carocci: «dispera del tuo numero tede- sco perché Bazlen vedo che stiracchia. Io gli sono stato dietro e l’ho spinto più che potevo ma mi pare che non vada. Deve avere una rilut- tanza grandissima per buttare nero su bianco»114.

111 Lettera di Roberto Bazlen a Alberto Carocci, Trieste, 22 ottobre 1932, in Ivi, p. 385. 112 Lettera di Giorgio Marchi a Alberto Carocci, Trieste, 29 gennaio 1932, in Ivi, p. 355. 113 Ivi, p. 356. 114 Lettera di Giorgio Marchi a Alberto Carocci, Trieste, 4 maggio 1932, in Ivi, p. 373. 32 1.2 Il pensiero di Bazlen.

1.2.1 Gli Scritti: le Note senza testo.

Atteggiamenti e scelte come quelli che si sono cercati di descrivere fino ad ora possono trovare una parziale chiarificazione in quanto si legge in due delle sezioni degli Scritti di Bazlen (le Note senza testo e il Capitano di lungo corso), pubblicati separatamente da Adelphi a partire dal 1968 e raccolti poi in un unico volume nel 1984. Prima di intraprendere la let- tura di tali Scritti, è bene specificare in primo luogo che la loro pubbli- cazione avvenne dopo la morte di Bazlen, dunque indipendentemente dalla sua volontà, e la loro composizione, stando alle «Notizie sui manoscritti» ad opera di Roberto Calasso, è collocabile negli anni fra il 1945 e il 1960, dunque è posteriore al periodo del quale si è fino ad ora parlato. Resta però il fatto che, dal tentativo di riordino degli appunti che Bazlen ha lasciato, emerge un quadro abbastanza chiaro, il quale da un lato motiva gran parte delle sue scelte editoriali e di vita, dall’altro mostra come il suo pensiero (e la sua scrittura) costituiscano una riela- borazione più o meno conscia di molte delle idee e dei fermenti dei quali egli fu partecipe in gioventù. Le Note senza testo sono costituite dalla selezione di una serie di aforismi Note senza testo: aforismi tratti dai quattro quaderni di appunti che Bazlen ha lasciato alla sua tratti dai quattro quaderni di morte, la cui lettura è resa ostica in alcuni passaggi dalla completa asi- appunti di Bazlen. stematicità che governa la disposizione dei contenuti. La scrittura, essendo scaturita da un’esigenza personale e privata, risulta inoltre frammentaria, allusiva, ellittica, come mostra in modo indicativo uno degli aforismi che all’unanimità della critica è riconosciuto come massi- mamente rappresentativo del pensiero di Bazlen: «Fino a Goethe: la biografia assorbita nell’opera. Da Rilke in poi: la vita contro l’opera»115. Con queste poche parole, Bazlen riesce a riassumere una «irreversibile e misteriosa trasformazione»116 avvenuta nella produzione letteraria che si colloca fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Essa riguarda:

la gnosi stessa del pensiero moderno, la cui filosofia concettuale si sottrae per definizione a una naturale osmosi tra vita e opera,

115 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 184. 116 Ivi, p. 18. La formula qui citata è di Roberto Calasso, nella sua Introduzione agli Scritti di Bazlen.

33 retaggio dei secoli precedenti, per realizzarsi, viceversa, in un rap- porto di profonda conflittualità tra l’io e il mondo e quindi tra sog- getto poetico e realizzazione creativa117.

Quello che forse più conta ai fini del discorso che si sta facendo, tut- tavia, è che nella nota citata si può intravedere il punto dal quale si svolge gran parte del pensiero letterario, ed in qualche modo esisten- ziale, di Bazlen: ovvero, come si può leggere in una delle Lettere edito- riali raccolte sempre nel volume degli Scritti, la «paradossalità inafferra- bile del rapporto artista-opera»118. In Rilke, uno degli autori che apre la letteratura del Novecento, egli infatti vede una discrasia, una conflit- tualità fra due poli, quello della vita, da un lato, e quello dell’opera let- teraria, dall’altro: il che si traduce nella difficoltà per il soggetto, come sottolinea Manuela La Ferla, a esprimersi in un’opera che sappia dare una visione unitaria del mondo, che appunto il soggetto non riesce più ad avere, avendo perso suo malgrado la propria identità di «Io unifica- to, voce di una sintesi superiore»119. Tale cambiamento epocale, che Bazlen riassume affermando fra l’altro che «l’ancora dell’umanesimo è affondata»120, si riflette in quella che secondo lui è l’impossibilità stes- sa di scrivere l’opera: «Io credo che non si possa più scrivere libri»121. Una conseguenza di questo tipo farebbe pensare a una conclusione paradossale e del tutto disfattista circa il ruolo della letteratura, o ad un’eventuale adesione a qualche forma di avanguardismo. Ciò tuttavia non avviene, perché quel che pare di vedere nell’insieme delle Note senza testo non è l’idea che l’opera sia irrealizzabile in assoluto, ma solo relativamente ai canoni estetici e letterari dominanti. In virtù di essi, infatti, secondo Bazlen «l’opera viene intesa solo nella prospettiva della prestazione»122, ovvero con eccessivo ossequio alla forma, al “mestie- re” letterario, di modo che facilmente «lo stile diventa galateo»123, un insieme di regole che uccidono la spontaneità dello scrittore, imponen-

117 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 155. 118 Lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà (casa editrice Einaudi), 9 aprile 1961, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 306. 119 Paola Zelco, Roberto Bazlen: la scrittura dissolta, in «Capriccio di Strauss», a. IV, n. 10, dicembre 1997, p. 19. 120 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 220. 121 Ivi, p. 203. 122 Ivi, p. 211. 123 Ivi, p. 173.

34 dogli «ordine invece di verità»124. Un ordine che però, come si è detto, non è più percepito come possi- bile. Tra la vita e l’opera, dunque, nella visione di Bazlen la letteratura del passato ha potuto privilegiare il secondo aspetto: ma se questo pre- supposto venisse ribaltato, e se si giungesse «all’accettazione consape- vole della non componibile scissione moderna fra l’io e il reale che pre- sumeva di rappresentare»125, la creazione di nuovi valori letterari, e quindi di opere che possano tornare ad avere un significato reale, sarebbe nuovamente possibile: da tale idea centrale derivano, come si vedrà, le scelte e i gusti editoriali di Bazlen, la sua scelta di non pubbli- care, ed infine gran parte dei contenuti di ciò che per se stesso egli scrisse, di modo che i «principi di estetica»126 che si trovano nelle Note senza testo risultano decisamente «coerenti con le posizioni morali ed intellettuali di Bazlen»127. Sul piano delle osservazioni teoriche, in primo luogo, Bazlen porta avanti la costruzione di un profilo di valori che privilegiano la seconda componente del conflitto, ovvero quella della vita. Se infatti lo scritto- Lo scrittore non può re non può e non deve più avvalersi degli strumenti dello stile per rap- avvalersi degli strumenti presentare la realtà, l’alternativa è necessariamente quella di un’adesio- dello stile per rappresentare ne più serrata ad essa, nella creazione di una scrittura che sgorghi natu- la realtà. ralmente dal vissuto e dall’esperienza. «Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio non vive per fare bei versi, come sono brutti i bei versi del tizio che non vive per fare bei versi»128: questa affermazione, criptica ma rappresentativa, aiuta a comprendere, fra l’altro, la severità di Bazlen circa vari autori della fine dell’Ottocento, il cui operato «è frut- to d’un malinteso umanistico, ed è fatto senza vera necessità»129. Proprio la necessità è uno dei valori primari che Bazlen annovera fra La scrittura deve sgorgare quelli che dovrebbero sottostare all’operato dello scrittore, così che ad dal vissuto e dall’esperienza. essere messi in primo piano sono la “causa scatenante” della scrittura, ed il momento in cui essa si svolge: non il risultato di essa, non il frut- to stilistico della «prestazione», come emerge chiaramente da una delle

124 Ivi, p. 283. 125 Gino Brazzoduro, Roberto Bazlen: un’idea di letteratura a Trieste, in «La Battana», a. XXIV, n. 85, set- tembre 1987, p. 10. 126 Fabio Doraldi, Roberto Bazlen, triestino, in «La Nuova Tribuna», a. VI, n. 60, ottobre 1971, p. 53. 127 Ibidem. 128 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 187. 129 Ivi, p. 185.

35 Lettere editoriali, quella a proposito di un’opera dello scrittore iraniano Sadegh Hedayat, dal titolo Blind Owl:

Non so se è il più bel racconto uscito da non so quanti anni, dicia- mo dopo i racconti di Kafka – probabilmente no. So invece che non conosco altro racconto (dopo Kafka) nato dalla stessa neces- sità, con la stessa violenza, e che abbia la stessa suggestione. Dico: nato – non: scritto – non so cosa avesse in testa Sadègh Hedayàt quando si è messo a scriverlo130.

L’attenzione verso le bio- Si comprende allora come Bazlen tenda a privilegiare, nelle sue letture grafie degli autori. e nei suoi progetti editoriali, l’attenzione alle biografie degli autori, non- che il genere dell’autobiografia, per sua natura scarsamente letterario e focalizzato appunto su chi scrive: ulteriore dimostrazione, questa, del fatto che per lui «il criterio di valore era solo e sempre la verità interio- re al di là della parola»131. Tale criterio di giudizio, peraltro, è applicabile La verità interiore. anche a scritti non letterari, se a proposito del saggio di psicologia The hidden remnant dell’autore americano Gerald Sykes Bazlen scrive:

Non c’è mai, in tutto il libro, una frase superflua, una ripetizione gratuita, una leggerezza, una stanchezza, un’inconsistenza. E quel- lo che per me dovrebbe essere uno scrittore: ha qualcosa da dire; quello che ha da dire è vissuto, è suo; lo dice con parole sue, chia- re; con una grande densità, costante132.

È bene puntualizzare, a questo punto, come il primato dell’esperienza, che Bazlen riassume nella pregnante formula della «primavoltità»133 come «unico valore»134, sia da un lato un’ulteriore formulazione di quan- to egli aveva probabilmente assimilato negli ambienti frequentati in gio- ventù, dall’altro l’origine per un discorso, per quanto spesso fumoso, che ha invece molto di originale. Per quanto riguarda il primo aspetto,

130 Lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foa (casa editrice Einaudi), 9 marzo 1960, in Ivi, p. 291. 131 Italo Calvino, La psiche e la pancia, in «La Repubblica», 1 giugno 1983, pag. 20. È interessante nota- re, peraltro, il fatto che Calvino ponga in problematica relazione questa caratteristica del pensiero di Bazlen con l’influenza che egli esercito sulla composizione di alcune delle poesie delle Occasioni di Montale, da Calvino definite come «versi che segnano il culmine d’una dedizione al potere evo- catore della musica». 132 Lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foa (casa editrice Adelphi), 9 agosto 1963, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 342. 133 Ivi, p. 230. 134 Ibidem.

36 si nota che i concetti espressi da Bazlen nei suoi appunti «si possono anche considerare caratteristici della letteratura triestina»135, se si pensa che fra i letterati di Trieste che egli frequentò negli anni Venti, come si è già visto, si andavano formulando istanze - «l’antiletterarietà», l’ottica anticrociana - affini a quelle che si trovano esposte nelle Note senza testo. È bene, tuttavia, non appiattire le idee di Bazlen su quelle degli intellet- tuali triestini; piuttosto, risulta appropriato dire che:

le illuminazioni come i paradossi di cui sono fitte le “Note senza testo” rivelano [...] l’autore triestino, non come partecipe della let- teratura della sincerità, ma come prodotto di un ambiente che con- siderava ogni opera letteraria quasi una scoria di un processo inte- riore, il libro come relitto esistenziale136.

Da questi presupposti comuni, inoltre, Bazlen prende le mosse per por- tare avanti il proprio personale ragionamento, che da questo punto accentua ulteriormente la tendenza metaforica e quasi sibillina che si è vista a proposito degli aforismi già citati. Constatata quella che per lui è la morte di un sistema di valori, Bazlen infatti insiste su tale aspetto fino a vedere nella stessa morte, intesa come metafora di una distruzione, un obiettivo da raggiungere, o meglio un percorso da portare a compimen- to: di fronte alla sclerosi degli strumenti di lettura della realtà propri del passato, l’artista e l’intellettuale non possono far altro che vanificarli e L’arte di morire ogni distruggerli completamente, in quella che egli definisce «l’arte di mori- secondo: capacità di re ogni secondo»137, perché «la prossima cultura ci sarebbe già se si rinnovamento. potesse eliminare i residui del passato»138. Dunque, secondo Bazlen, «distruggere vuol dire creare: può essere distrutto solo ciò che sta fra di noi e le nostre possibilità creative»139. Dalle affermazioni appena considerate, è facile intendere la perentorie- tà, almeno in sede teorica, con la quale Bazlen affermava la necessità di un rinnovamento totale del canone letterario, in favore di nuovi ele- menti, che si trovano proposti in parte nelle Note senza testo, in parte nel Capitano di lungo corso, come si vedrà nel successivo paragrafo. Ad esem- pio, Bazlen sembra essere molto sensibile alle teorie della psicoanalisi

135 Gino Brazzoduro, Roberto Bazlen: un’idea di letteratura a Trieste cit., p. 10. 136 Fabio Doraldi, Roberto Bazlen, triestino cit., p. 53. 137 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 181. 138 Ivi, p. 186. 139 Ibidem. 37 L’avvicinamento alla freudiana, come si è visto uno dei maggiori contributi della Trieste degli psicoanalisi freudiana. anni Venti alla cultura italiana, che egli poté conoscere ed approfondire sin da molto giovane: questo precoce e decisivo interesse trova una prima conferma in quanto si legge nella biografia del suo amico e coe- taneo Giacomo Debenedetti. A proposito dell’«esperienza della psicoa- nalisi e [dell]’interesse nascente verso l’antropologia culturale»140 da parte del grande critico, infatti, si legge che, «probabilmente, corre l’in- fluenza di Bobi Bazlen, che si diceva più interessato alle scienze umane di quanto non lo fosse alla letteratura»141. Si è precedentemente osser- vato che sul piano strettamente letterario la psicoanalisi determinava, in gran parte delle opere degli autori triestini ed ebrei, una certa tendenza allo scandaglio dell’interiorità e all’analisi dell’inconscio: ed allo stesso modo Bazlen, almeno in un primo momento, concepì la psicoanalisi come veicolo d’innovazione tematica. A dimostrazione di ciò, si posso- no citare le parole di Giorgio Voghera, che descrivendo tale aspetto della cultura triestina così afferma: «era certamente il nuovo, lo strano, il rivoluzionario che c’era nella psicanalisi, ciò che attraeva “Bobi”»142. Come si è osservato, nell’ottica di Bazlen l’io scrivente non può più ambire ad essere «centro ordinatore e legislatore, [...] entità demiurgica abilitata alla ricreazione sensata del mondo»143: ne consegue che la novi- tà al quale esso può approdare sia la rappresentazione di «una moltepli- cità di relazioni e di rapporti»144, da parte di un io che si fa «sede di sen- sazioni e di percezioni continuamente modificata dall’esperienza e dal- l’impatto col mondo»145. Le considerazioni appena viste si trovano sviluppate in un altro dei con- Il concetto di caos. cetti ricorrenti nelle Note senza testo, ovvero quello di caos. Esso pertie- ne a diversi ambiti, da quello appunto dell’inconscio, a quello dell’este- tica, a quello più genericamente esistenziale. Dal punto di vista psicolo- gico, o ancora meglio psicoanalitico, il caos si pone come la qualità di quell’inconscio che, come si è visto, lo scrittore deve riportare sulla pagina, in un’operazione che, se da un lato si propone di rappresentare il tumulto dell’interiorità, dall’altro tenta anche un parziale riordino di

140 Paola Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti cit. p. 235. 141 Ibidem. 142 Giorgio Voghera, Gli anni della psicoanalisi cit., p. 25. 143 Gino Brazzoduro, Roberto Bazlen: un’idea di letteratura a Trieste cit., p. 10. 144 Ibidem. 145 Ibidem.

38 essa, nell’ottica introspettiva ed autoanalitica che si è già evidenziata: L’artista viene spinto da l’artista, cioe, «viene [...] spinto da ragioni inconsce a dare forma ragioni inconsce a dare forma coscientemente coscientemente all’inconscio - tutto il resto è burocrazia, programma, all’inconscio. vanità»146. Proprio quest’ultima nota permette di vedere, ancora una volta, il nesso strettissimo che, nell’ottica di Bazlen, lega l’ambito del pensiero, della vita, dell’esperienza, con quello dell’arte e dell’estetica. Nel descrivere la parziale lettura che l’io scrivente può ancora esercita- re nei confronti del proprio mondo interiore e della realtà, infatti, Bazlen utilizza significativamente il termine forma: non, però, una forma classica, statica, ma una forma che sappia rendersi flessibile per aderire all’ottica frammentaria dello scrittore. In questo modo il caos, concetto «decisivo in Bazlen, e movente recondito della sua sprezzatu- ra verso le norme del giudizio critico»147 diventa un precetto estetico, nell’ottica della distruzione e del superamento del passato. Particolarmente significative sono le sue parole in proposito: «da tanto tempo gli intellettuali vivono seguendo una linea chiara, ma la linea chiara è nel caos»148. Alla luce di questa affermazione, si può compren- dere in cosa la «sprezzatura verso le norme del giudizio critico» consi- sta: essa è, in sostanza, l’adesione di Bazlen ad un’ottica di rifiuto del canone classicista, dunque improntato alla razionalità, allo stile, all’equi- libro apollineo. Valori, questi, che egli rinnega per un’estetica contempo- ranea, ma che anche smaschera a posteriori nella loro fallacia originaria, denotandoli senza esitazioni come fallimentari: «la forma è il polo opposto del caos, non il definitivo superamento del caos. Equivoco del- l’estetica europea, del classicismo. L’artista classico crea la morte eter- L’artista classico crea la morte eterna contrapposta 149 na» (contrapposta, dunque, all’«arte di morire ogni secondo», che all’arte di morire ogni come si è visto significa la capacità di evoluzione e rinnovamento). Con secondo. il suo laconico giudizio circa il classicismo europeo Bazlen sembra cioè voler indicare la presenza, al di là delle fasi storiche o letterarie, di un versante, quello dell’inconscio e del caos, dunque del dionisiaco e della vitalità, che nessuna forma classica può in alcun modo irreggimentare: «non riconoscendo nel caos l’altra faccia della forma, l’estetica europea e di impianto classico si impania in un equivoco»150.

146 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 187. 147 Rolando Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro, in «Studi novecenteschi», a. 14, n. 33, giu- gno 1987, p. 78. 148 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 213. 149 Ivi, p. 188. 150 Rolando Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro cit., p. 79.

39 Alla luce del rilevamento di tale equivoco, dunque, Bazlen rivisita la presentazione di Goethe come rappresentante della pacifica condizio- ne ottocentesca di «biografia assorbita nell’opera»151, dunque di equili- brio: «l’armonia della vita di Goethe»152 si configura ora come «non apollinea»153, ma piuttosto «la più bella, la più ritmica alternanza di forma e caos»154. «Solo dei cattivi scrittori possono scrivere grandi romanzi (quanto mag- giore l’arte, tanto più piccoli i mondi)»155: il ragionamento di Bazlen approda necessariamente ad un asserto paradossale, ad un punto di non ritorno, che si è raggiunto grazie all’acquisita consapevolezza che gli strumenti della scrittura letteraria in toto possono solo parzialmente rap- presentare la complessità del reale, e comunque solo a patto di soffo- carne una parte di vitalità. È il risultato del discorso teorico, dunque, che inibisce, in lui, lo stimolo alla scrittura, di modo che egli «prenden- dosi proprio alla lettera, divenne il paradosso vivente su cui si specchia- va la da lui osservata paradossalità inafferrabile del rapporto artista- opera»156. Come si è già accennato, tuttavia, l’impasse che Bazlen tocca sul piano teorico è con estrema coerenza superata su quello delle scel- te di vita, che gli permettono di collocarsi «al confine e al di là della let- teratura»157, più precisamente sul terreno del lavoro editoriale.

1.2.2 Gli Scritti: Il capitano di lungo corso.

Da Bazlen credo che sarà impossibile ottenere qualcosa. È un pec- cato, ma bisogna rassegnarsi. Né io, né Saba, né alcun altro ha mai capito s’egli scrive. Il suo nome stampato gli farebbe paura; una volta che lo nominai sull’Italia Letteraria mi disse di essere stato male per alcuni giorni158.

151 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 184. 152 Ivi, p. 188. 153 Ibidem. 154 Ibidem. 155 Ivi, p. 189. 156 Rolando Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro cit., p. 89. 157 Ivi, p. 76. 158 Lettera di Pier Antonio Quarantotti Gambini ad Alberto Carocci, Trieste, 18 dicembre 1932, in Lettere a «Solaria», a cura di Giuliano Manacorda cit., p. 397.

40 In questa lettera del 18 dicembre 1932 di Quarantotti Gambini, che in un messaggio dell’anno precedente indicava Bazlen, insieme a Saba, come uno dei più fidati lettori dei suoi libri159, si può vedere una delle ragioni, di natura unicamente caratteriale e personale, che lo portarono a non voler pubblicare. Tale scelta, peraltro, caratterizza fortemente l’immagine di Roberto Bazlen, a tratti quasi mitica, che alcuni critici e soprattutto le memorie di chi lo ha conosciuto restituiscono: riguardo ad un atteggiamento simile da parte di un amico come Giacomo Debenedetti, addirittura, «qualcuno pensa alla diabolica influenza di Bobi Bazlen»160. Ad ogni modo, resta il fatto che questa riservatezza di natu- ra tutta personale non impedì a Bazlen di scrivere per se stesso, lascian- Il Capitano di lungo corso do alla sua morte un insieme di frammenti per un romanzo dal titolo Il capitano di lungo corso. Stando alle già citate «Notizie sui manoscritti», il lavoro su di esso sarebbe iniziato nel secondo dopoguerra, periodo nel quale, riferisce Calasso sulla base delle testimonianze di Sergio Solmi, Luciano Foà, e Ljuba Blumenthal, Bazlen lesse agli amici degli stralci del suo racconto, che in quegli anni consisteva in un insieme di circa quattrocento pagine. Ciò che oggi si trova pubblicato negli Scritti è la traduzione (essendo l’originale in tedesco) di un testo raccolto da diver- si testimoni, alcuni dattiloscritti e altri manoscritti, di dimensioni molto più snelle rispetto a quelle di cui parlano i ricordi appena citati. La frammentarietà dei testimoni del testo, l’incompiutezza della narra- zione e la sua disorganicità (rilevabile fra l’altro nella presenza di svilup- pi concorrenti dello svolgimento dell’intreccio) permettono di afferma- re che il valore di questa testimonianza di una scrittura narrativa da parte di Bazlen non risieda tanto nella qualità letteraria dello scritto, quanto invece nelle osservazioni più generali che esso permette di fare. Nel Capitano di lungo corso, infatti, si possono rintracciare le conseguen-

159 A proposito del ruolo di Roberto Bazlen come lettore dei romanzi dello scrittore triestino, e inte- ressante considerare l’articolo ad opera di Daniela Picamus dal titolo «Bobi Bazlen e Primavera a Trieste di Pier Antonio Quarantotti Gambini». In esso, tramite l’analisi di alcune lettere inedite che i due si scambiarono tra il 1950 e il 1951, emerge con evidenza come, quantomeno a proposito di Primavera di bellezza, Bazlen abbia svolto anche un’attività di editing, dal momento che le sue lettere non si limitano a un parere generico circa il romanzo, ma propongono rispetto ad esso modifiche di natura stilistica e, in qualche modo, anche contenutistica. Cfr. Daniela Picamus, «Bobi Bazlen e Primavera a Trieste di Pier Antonio Quarantotti Gambini», in «Rivista di Letteratura italiana», a. XXIX, n. 1, 2011, pp. 137-147. 160 Paola Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti cit., p. 286.

41 ze dei risultati che Bazlen raccolse sul piano teorico: ad esempio, nella scelta di non pubblicare si scorge la volontà di non concedere ai propri scritti lo statuto di opera, per affermare ancora una volta la quasi tota- le fallibilità di essa. Anche perché, come si è visto, se tale fallibilità e in qualche modo arginabile, ciò può avvenire solo lasciando spazio all’ele- mento vitale e mutevole nella scrittura, così che essa si trova ad essere un flusso continuamente mobile, refrattario ad essere fermato nel libro: L’opera concepita come un 161 limite. per Bazlen infatti «ogni opera letteraria è paradossalmente un limite» , tanto che egli arriva ad affermare, a proposito di un ipotetico scrittore, che «già il fatto che abbia avuto bisogno di creare l’opera parla contro la vitalità di quest’individuo»162. Quello che è ancora più interessante rilevare, tuttavia, è che anche internamente al racconto, dunque sul piano dei contenuti, è possibile affermare che

le Note senza testo ed il Capitano di lungo corso sono indissolubilmente legati fra loro, poiché s’illuminano a vicenda: il Capitano è una sorta di rappresentazione figurata delle Note che, a loro volta, rivelano maggiore pregnanza alla luce del primo testo163.

Nel romanzo di Bazlen si trova narrata, seppur frammentariamente, la storia di un uomo di mare e delle sue peregrinazioni ed avventure, secondo uno schema che ricorda da vicino quello dell’Odissea omeri- ca, oltre ad alludere in vari passi ad un’ampia gamma di modelli lettera- ri. Ed è appunto anche il suo collocarsi nel solco di una tradizione con- solidata che permette di vedere nel racconto «un’esperienza interiore esteriorizzata con l’aiuto di una storia ben nota»164. Questa affermazio- ne poggia, in primo luogo, sulle caratteristiche del protagonista del romanzo: un capitano di lungo corso che vive in una condizione di «disperazione senza oggetto»165, la quale si traduce in una condizione di non volontà. Di fronte alla necessità di «in qualche modo, come uno spettro, mettersi a fare qualcosa»166 egli infatti si autoconvince che «in fondo ci si può concedere di non far nulla per un giorno, domani, dopo

161 Rolando Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro cit., p. 88. 162 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 220. 163 Giulia De Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 135. 164 Ivi, p. 141. 165 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 43. 166 Ivi, p. 56.

42 aver dormito bene, metterà tutto a posto»167: in tali brevi notazioni del narratore si possono vedere i caratteri di «un’esistenza già determinata, esiliata svevianamente dalla vita stessa»168. Ed è interessante notare come l’inettitudine del capitano, frutto evidentemente della suggestio- ne dell’inettitudine dei personaggi di Svevo che Bazlen conosceva molto bene, può essere ricondotta anche alle

due componenti fondamentali della vecchia Austria fra otto e nove- cento: vale a dire l’irripetibile storia dell’assimilazione ebraica, tra- sformata dagli scrittori in irripetibile metafora della condizione di esilio dell’uomo moderno169.

Se di certo Bazlen partecipò della cultura ebraica solo tangenzialmente, L’influenza della cultura 170 in quanto «fu battezzato fin dalla nascita e frequentò scuole cristiane» , ebraica. resta però il fatto che «crebbe in un ambiente prettamente ebraico e gran parte dei suoi amici di gioventù furono ebrei»171. Soprattutto, come si è già avuto modo di sottolineare, in quanto lettore egli percepì in prima persona le rielaborazioni letterarie della cultura ebraica primo novecentesca, da parte di quegli autori come «Musil, Kafka, Broch»172 che, anni dopo, avrebbe promosso in veste di consulente editoriale. Al di là della possibile derivazione ebraica e mitteleuropea del personag- Le analogie fra Il Capitano e gio, è inoltre opportuno sottolineare anche un altro aspetto che lo carat- la figura dell’intellettuale moderno. terizza non marginalmente, tanto da essere chiamato in causa sin dalla prima pagina del romanzo: del capitano infatti si dice che «leggeva libri poco noti di cui aveva seguito le tracce di porto in porto»173 e che nella sua cabina «grandi pile di libri si innalzavano lungo le pareti»174. L’ulteriore connotazione di lettore vorace e curioso, unitamente a quanto si e affer- mato fino ad ora, permette di osservare che «l’uomo, o meglio l’intellet- tuale contemporaneo, diviene [...] l’oggetto-soggetto della scrittura bazle- niana»175, e che la vicenda del capitano può essere considerata la rappre-

167 Ivi, p. 57. 168 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 109. 169 Giuseppe Antonio Camerino, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa, Napoli, Liguori, 2002, p. 193. 170 Giorgio Voghera, Gli anni della psicoanalisi cit., p. 132. 171 Ibidem. Nel suo ricordo di Bazlen, peraltro, Giorgio Voghera conclude osservando senza mezzi termini che egli «non negò mai di sentirsi sostanzialmente ebreo». 172 Giuseppe Antonio Camerino, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa cit., p. 194. 173 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 23. 174 Ivi, p. 37. 175 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 109.

43 sentazione allegorica non solo dell’intellettuale e dell’uomo moderno in generale, ma anche di se stesso in quanto partecipe delle stesse condizio- ni. Sulla base di questa possibile chiave interpretativa, alcuni episodi del romanzo acquistano una luce ed un significato particolari, che si cerche- rà ora di illustrare. Avendo constatato la propria condizione di difficoltà ed inettitudine, ad esempio, il capitano pensa che «forse aveva preso le cose per il verso sbagliato, con la sua stupida, anchilosata mentalità euro- 176 Il naufragio della «mentalità pea» . Con «mentalità europea» Bazlen qui forse intende quella cultura europea». che, secondo lui, come si è visto, si è persa nell’equivoco e nel conflitto fra arte e vita; lo può dimostrare la lettura del passo che segue, nel quale dopo la significativa domanda posta al capitano da una delle sirene che incontra nel mare, egli si trova coinvolto in un naufragio:

Ascolta il canto, ti canto la tua vita, perché dov’è il confine fra canto e vita? [il corsivo è di chi scrive]. Ma a quanto pare quel confine c’era, e il Capitano a quanto pare era arrivato al confine, il fischio della sirena della nave gli penetrò nella carne, ci fu uno schianto improvviso, il Capitano si ritrovò in acqua177.

Di fronte a un disagio e ad un’inettitudine ai quali l’«anchilosata menta- lita europea» non è più in grado di far fronte, dunque, quello che Bazlen immagina in sede narrativa è il tuffo nell’acqua, il trovarsi sbalzati in mare, in un contatto fisico con un elemento naturale, quello acquatico, che può essere inteso come simbolo di vitalità. Tale possibile interpre- tazione è suffragata dalle sensazioni che il capitano sente nel momento in cui si trova a nuotare, e che sono tutte di segno positivo:

Finalmente l’aveva trovata, la nuova vita - lo choc dell’acqua fredda era molto forte, e questa fu l’unica cosa che gli venne in mente - la cosa che non gli venne in mente, è che però fece, fu di mettersi a nuotare con energia - dopo essere stato tanto a lungo disteso era quasi una gioia178.

Se il contatto con il mare corrisponde all’incontro con una «nuova vita»,

176 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 57. 177 Ivi, p. 61. 178 Ivi, p. 70.

44 in essa si può forse allora vedere, alla luce di quanto osservato a propo- sito delle Note senza testo, quell’adesione al materiale inconscio, caotico e vitale che scaturisce dall’esperienza autenticamente vissuta. In un com- plesso meccanismo di proiezioni, Bazlen dunque realizza, nei frammen- ti che compongono il suo racconto, quella che si potrebbe definire una mise en abime: per l’intellettuale - capitano, cioè, di fronte al disagio ed all’inettitudine la soluzione non è il tentativo della scrittura, ma il tuffo nell’acqua, nella «vera vita [che] vuol dire: inventare nuovi luoghi dove poter naufragare»179. Per l’intellettuale - Bazlen, parallelamente, il tuffo Il tuffo come esperienza significa la scelta di non scrivere un’opera, ma di spendersi in un’espe- attiva che oltrepassa il limite rienza attiva, che è quella, a parere di chi scrive, del lavoro editoriale. Le dell’opera. Note senza testo chiosano efficacemente tale nucleo di pensieri, in virtù del quale di fronte all’impossibilità di scrivere qualcosa che abbia mag- giore pregnanza e spessore di una «nota a piè di pagina», l’unica solu- zione è volgersi ad altro, alla vita stessa, rispetto alla quale appunto l’opera non può che essere una nota irrisoria: «io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri - quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiati in volumi»180. Di fronte a questa consapevolezza, dunque, Bazlen scelse di esercitare la propria passione letteraria nel modo che gli risultava più congeniale, attraverso l’immissione nel circui- to editoriale di opere che riteneva aderenti ai propri canoni. In tal modo, attraverso la futura attività editoriale darà piena realizzazione alla propria «vocazione mercuriale di mettere in comunicazione persone, idee, libri»181, come già similmente era avvenuto nel rapporto con Montale, nel quale Bazlen aveva dato fra l’altro realizzazione alla pro- pria volontà di «stimolare il prossimo [...] alla “creatività”»182. È, inoltre, interessante notare che il tema del rapporto fra arte e vita si trova espresso nella scrittura di Bazlen anche attraverso la rivisitazione di un mito, quello di Odisseo, che come si è visto egli riecheggia nella struttura generale del Capitano di lungo corso e discute in sede teorica nella sezione delle Note senza testo intitolata «Antiulisse». Come si è accenna- to, infatti, il naufragio del capitano avviene in corrispondenza dell’in- contro con le sirene, con le quali egli dialoga e da una delle quali si sente porre l’allusiva domanda riguardo al rapporto tra «canto e vita». E se

179 Ivi, p. 170. 180 Ivi, p. 203. 181 Italo Calvino, La psiche e la pancia cit., pag. 20. 182 Gillo Dorfles, Quando l’intellettuale aiuta il genio altrui, in «Corriere della sera», 28 marzo 1984, p. 25.

45 negli ultimi frammenti del romanzo egli afferma «la mia vita è comin- ciata soltanto quando mi sono messo a inseguire il canto delle sirene»183, questo indica che l’ascoltare tale canto, il quale corrisponde al «richia- mo del mondo umano che vuole essere esplorato e sperimentato in tutti i suoi aspetti»184, è stato per il capitano un’esperienza positiva e rige- nerante. Il fatto che egli ascolti senza paura quello che «forse non era un canto, era un sentirsi portare, un rifugio, una felicità»185 trova fra l’al- tro spiegazione, come si è accennato, nella sezione «Antiulisse» delle Note senza testo. Qui Bazlen, riferendosi all’eroe omerico, il quale intima ai propri compagni di legarlo all’albero della nave, per potere ascoltare il canto senza esserne dominato, commenta: «ascoltare legati il canto delle Sirene: qui comincia la mancanza di rischio del piccolo borghe- se»186. In tal modo, il «piccolo borghese» diventa il «fenomeno di dege- nerazione»187 dell’eroe omerico, il quale, nella visione di Bazlen, rifugge dal rischio dell’esperienza, arrivando a configurarsi anche come un’im- magine simbolica dell’«anima insipida»188 dell’intellettuale. Attraverso l’episodio delle sirene ed il suo approfondimento nelle Note senza testo, Bazlen dunque mette in discussione l’immagine tradizionale di un eroe, iniziata dall’Odissea omerica e continuata da diversi autori fino alla let- teratura contemporanea. Si fa qui riferimento in particolare all’opera di Kafka, autore che come si è accennato Bazlen dovette conoscere molto bene ed amare particolarmente. In un breve racconto del 1917, intito- Il silenzio delle sirene di Kafka lato «Il silenzio delle sirene»189, l’Odisseo kafkiano non solo si fa legare (1917). dai compagni, ma anche chiede loro di turargli le orecchie, per non sen- tire quello che si rivela inaspettatamente essere non un canto, bensì un silenzio: di fronte ad esso, l’eroe kafkiano rimane indifferente perché «è consapevole di essere immune da ogni seduzione. Il canto delle sirene non è per lui una tentazione, ma nemmeno il loro silenzio lo tocca»190. Anche Kafka, dunque, parzialmente rielabora l’immagine omerica del- l’eroe, sottolineando particolarmente il suo impegno per difendersi dal

183 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 139. 184 Giulia De Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 166. 185 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 58. 186 Ivi, p. 209. 187 Ivi, p. 210. 188 Ivi, p. 211. 189 , Racconti, a cura di Ervino Pocar, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1970, pp. 428-429. 190 Giuliano Baioni, Kafka letteratura ed ebraismo, Torino, Einaudi, 1984, p. 228. 46 canto, e la sua indifferenza alla seduzione delle sirene. Ma la posizione di Bazlen si rivela ancora diversa da quella appena esposta, dal momen- to che nel suo romanzo «il Capitano [...] trova una sua personale forma di liberazione nell’andare incontro alle Sirene»191. La visione che Bazlen offre dell’eroe omerico può dunque ricordare piuttosto la curiositas dell’Ulisse dantesco e soprattutto, se si guarda alla già considerata pre- sentazione di Ulisse come immagine allegorica dell’intellettuale, essa conferma quanto si è precedentemente visto a proposito del pensiero di Bazlen. Ovvero, come Manuela La Ferla riassume efficacemente, nel fatto che il capitano scelga di lasciarsi incantare dal vitale canto delle sirene si può vedere una figurazione della

sua [di Bazlen] indiretta dichiarazione etica di non volere, nell’Arte come nella Vita, restare al di qua di quella soglia dove il possibile diventa solo letteratura, ma di oltrepassarla continuamente, sugge- rendo il senso di una scelta opposta all’Opera come tutto compiu- to in ogni sua parte192.

Il lavoro editoriale come Se, come si è già ipotizzato, la «scelta opposta all’Opera» significa per scelta opposta all’opera. Bazlen l’opzione del campo editoriale, si possono allora provare a rin- tracciare nel Capitano di lungo corso alcune altre rappresentazioni allegori- che di questa attività o elementi di influenza delle proposte editoriali sul suo romanzo. In primo luogo, il Bazlen che per diverse case editrici (una su tutte Astrolabio) fu convinto promotore della pubblicazione delle opere di Freud e Jung, e in alcuni casi anche loro traduttore, subi- sce nella propria scrittura l’influenza di alcune delle loro teorie. Se, infatti, il concetto freudiano di inconscio ha un ruolo molto preciso e rilevante nella formulazione di quello di caos nelle Note senza testo, accanto ad esso nel Capitano di lungo corso si può vedere l’emergere del- l’influenza di Jung sul pensiero e soprattutto sugli interessi di Bazlen. Tale passaggio è testimoniato a livello biografico dal già citato Giorgio Voghera, il quale riferisce che

ad un dato punto egli si accorse che i freudiani erano troppo razio- nalisti [...]; ed allora, unico nella nostra cerchia, passò con armi e bagagli a Jung, nella cui psicologia analitica lo attraevano gli addentel-

191 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 134. 192 Ibidem.

47 lati con l’alchimia, l’astrologia, la magia, le filosofie e le religioni orien- tali, tutte discipline a cui “Bobi” si dedicava con grande entusiasmo193.

L’avvicinamento al pensiero junghiano. Del nuovo interesse di Bazlen si può forse vedere una prima traccia nel- l’utilizzo che viene fatto del mito, concetto fondamentale nel sistema di pensiero junghiano e, come si è visto, di una certa rilevanza anche nel caso del Capitano di lungo corso. Più in generale, si può affermare che nella stesura del romanzo fra le diverse componenti delle tesi junghiane egli sia rimasto «influenzato particolarmente da quelle teorie concernenti lo sviluppo dei problemi dell’universo umano, [...] riconducibili alla sfera dell’arte, della letteratura, della filosofia»194. Così, ad esempio,

la soluzione del conflitto fra conscio ed inconscio per Jung, come anche per Bazlen, è una via di riconciliazione tra gli aspetti opposti dell’essere. Possiamo intravedere nell’opera di Bazlen l’interesse per la soluzione di questo conflitto interiore [...]. Il Capitano vince la lotta tra i vari aspetti del suo Io: l’empirico, l’ideale e il reale e con il naufragio raggiunge l’affermazione del suo Io reale, proprio seguendo il mare, simbolo dell’inconscio195.

Resta peraltro da appuntare il fatto che, come si è accennato, il mare è un elemento fortemente sentito e carico di risvolti simbolici per molti autori ebrei, ad esempio i già citati Kafka e Joseph Roth: autori che fra l’altro si servono ampiamente della simbologia legata all’Odissea196. Diventa così possibile ancora una volta vedere come la scrittura di Bazlen rielabori in sede narrativa gli stimoli culturali percepiti in gioven- tù, per ritradurli poi in forma di proposte editoriali. Delle opere di Roth, ad esempio, Bazlen caldeggerà la pubblicazione presso Einaudi negli anni ’60: ma su questo aspetto si avrà modo di tornare. Allo stes- so modo, una figurazione che arricchisce la connessione fra alcuni spunti narrativi presenti nel Capitano di lungo corso ed il lavoro editoriale di Bazlen è costituita dal personaggio dell’Orientale. Questa misteriosa figura viene presentata di scorcio, come un «amico»197 che il capitano di

193 Giorgio Voghera, Gli anni della psicoanalisi cit., p. 25. 194 Paola Zelco, Roberto Bazlen mediatore fra due culture, in «Capriccio di Strauss», a. I, n. I, giugno 1993, p. 14. 195 Ibidem. 196 Quest’ultimo aspetto e messo in rilievo in un interessante saggio di Claudio Magris: L’Ulisse ebraico- orientale. Joseph Roth fra l’Impero e l’esilio, in «Studi Germanici», a. VII, n. 2, giugno 1970, pp. 179-223. 197 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 40. 48 lì a poco «finalmente»198 rincontrerà: e il fatto che essa abbia una valen- za positiva per il capitano è confermato dalla continuazione del passo già citato, in cui si denuncia la manchevolezza della «stupida, anchilosa- ta mentalità europea»199. Di seguito a tale amara osservazione, infatti, si trova scritto:

Come tutto era sciolto, invece, nel suo amico, il capitano che veniva dall’Oriente - tutta l’Europa ha preso le cose per il verso sbagliato, non si tratta di volontà, non si tratta di programma, non si tratta di rotte calcolate, quanto più si fanno i calcoli, tanto più ci si allontana dalle Sirene, le Sirene sono figlie del caso, questa volta si sarebbe affi- dato al mare, il mare forse lo avrebbe spinto nella direzione giusta200.

Il personaggio dell’Orientale, dunque, è posto in connessione con ele- menti, quali le sirene o il mare, i quali simboleggiano per Bazlen la vita- lità e un’opzione di vita alternativa: di questi modi di vita, stando al passo appena citato, l’Orientale partecipa, e li rappresenta agli occhi del capitano. Nella possibile ottica interpretativa che si è proposta in que- sta sede - e che vede una reciproca illuminazione fra l’opera narrativa di Bazlen e la più rilevante attività editoriale - tale corrispondenza può allora acquistare nuova profondità se, come Giorgio Voghera ha evi- denziato, una delle suggestioni che egli trasse dal pensiero junghiano fu relativa alle «filosofie e religioni orientali»201. Questo originale, almeno nel contesto della cultura italiana, interessamento è corredato da uno degli aforismi delle Note senza testo, nel quale Bazlen annuncia con non si sa quanto affettato piacere la fine di una cultura, nel momento in cui afferma che «l’Occidente è in cocci... i cocci portano fortuna»202. È forse “L’occidente è in cocci... i in seguito a questa consapevolezza che negli anni Cinquanta Bazlen cocci portano fortuna.” propone con una certa convinzione, tra «i testi mitologici, religiosi, ini- ziatici, folkloristici»203 che secondo lui costituiscono «gran parte delle cose più vive di questo mondo»204, titoli ed autori orientali come Confucio, Milarepa (un santo tibetano), ed infine il romanzo cinese del

198 Ibidem. 199 Ivi, p. 57. 200 Ivi, pp. 57-58. 201 Giorgio Voghera, Gli anni della psicoanalisi cit., p. 25. 202 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 231. 203 Citazione tratta da una lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà del 3 luglio 1953 (Archivio Einaudi, incartamento Bazlen). Per i documenti tratti dall’Archivio Einaudi si farà utilizzo d’ora in avanti della sigla AE. 204 Ibidem. 49 La diffusione del pensiero XVIII secolo Il sogno della camera rossa (oltre all’alchimista Paracelso, pro- orientale che poi posta questa che evidentemente scaturisce dalle suggestioni tratte, influenzerà il programma di Adelphi. come Voghera sottolinea, dalla psicologia analitica junghiana). Come è noto, il tentativo di diffusione del “pensiero dell’Orientale” verrà pro- seguito negli anni Sessanta con ancora maggiore energia dalla casa edi- trice Adelphi: a testimonianza di questo, oltre alla frequenza di titoli orientali fra quelli proposti, si può citare la dichiarazione di Roberto Calasso secondo il quale «per Adelphi l’Oriente è sempre stato un car- dine del programma»205. Questa affermazione costituisce solo una delle tante prove del fatto che la proposta editoriale di Adelphi, come si avrà modo di vedere in seguito, debba moltissimo al pensiero e agli interes- si di Bazlen. E non è forse improprio, in conclusione, vedere un nesso fra l’elitarismo che caratterizza la casa editrice milanese, se non altro per la sua «resistenza agli imperativi del mercato»206 ed il suo rivolgersi per lo più alla «nicchia dei lettori forti»207, e l’immagine che Bazlen doveva avere del pubblico potenziale delle opere da lui proposte. Essa si trova adombrata nell’impietosa descrizione di un’immaginaria popolazione urbana che si legge nel Capitano di lungo corso:

Ora conosco la città degli Uomini Grigi, che lavorano durante la settimana e la domenica hanno le loro gioie e i loro compleanni: allora si abbracciano e si augurano innumerevoli altre identiche set- timane lavorative e domeniche di allegria e innumerevoli altri com- pleanni per abbracciarsi e settimane lavorative... – ora non ho più bisogno di avere una cattiva coscienza – ho vissuto la loro vita, devo proprio aver avuto una cattiva coscienza e così ho vissuto la loro vita, ora li posso disprezzare con buona coscienza208.

Da questo quadro, evidentemente, si distinguevano quelli che con una certa consapevolezza editoriale Bazlen chiama in una sua lettera «i let- tori di “Adelphi”»209, dunque appunto una «nicchia» colta e raffinata. Ma che per il lettore medio ritratto nel passo appena citato Bazlen vedesse

205 Cesare Medail, Calasso: sono insegnamenti segreti. In Tibet c’è chi guarda con sospetto, in «Corriere della sera», 26 novembre 1994, p. 33. 206 Francesca Borrelli, Editoria. Anche il mercato ha un’anima raffinata, in «Il Manifesto», 31 ottobre 1996, pp. 24. 207 Ibidem. 208 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 99. 209 Lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà (casa editrice Adelphi), 18 febbraio 1963, in Ivi, p. 330.

50 l’opportunità di un arricchimento culturale, e dunque la necessità di un impegno per guidarlo in tal senso, è testimoniato ad esempio dal passo che segue, tratto da una delle Lettere editoriali: «di libri importanti e sti- molanti ne nascono pochi. E perché, stimolati noi, evitare che vengano stimolati gli altri? Gli altri (e particolarmente in Italy) ne hanno più bisogno di noi»210.

210 Lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà (casa editrice Einaudi), 14 luglio 1960, in Ivi, p. 302.

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2. La collaborazione con le Nuove Edizioni Ivrea e l’Agenzia Letteraria Internazionale.

2.1 Bazlen a Milano: conoscenze e collaborazioni.

Come si è accennato nel capitolo precedente, nel 1934, «deluso da nume- Nel 1934 Bazlen arriva a 1 rosi amici e dall’atmosfera triestina nel suo insieme» , Roberto Bazlen si Milano. trasferì a Milano, dove poté approfondire le sue già vaste conoscenze nel mondo editoriale e culturale, estendendole anche in altre città ed inizian- do, grazie ad esse, la propria attività editoriale, che portò avanti fino agli anni Sessanta. Oltre alle già viste ragioni teoriche che lo spinsero in tale direzione, si può supporre che un ruolo importante nell’introduzione di Bazlen negli ambienti editoriali abbia avuto Luciano Foà, conosciuto nel L’incontro nel 1937 con 1937, con il quale egli intrattenne un rapporto di profonda amicizia e col- Luciano Foà con cui intrattenne una profonda laborazione professionale che porterà alla fondazione di Adelphi, una amicizia e collaborazione ventina d’anni più tardi. Nato nel 1915, dunque considerevolmente più professionale. giovane dell’amico, al momento del suo incontro con Bazlen Foà lavora- va da tre anni presso L’Agenzia Letteraria Internazionale, fondata nel 1898 da suo padre Augusto. Istituzione di assoluta rilevanza nel panora- ma letterario-editoriale italiano, l’Agenzia si occupava di proporre, anche nei difficili anni del fascismo, opere di autori stranieri agli editori italiani, e viceversa opere italiane all’estero. Le circostanze del proprio incontro con Bazlen sono raccontate da Foà in un’intervista rilasciata a Domenico Porzio, della quale purtroppo non si conosce la data. Da essa, ad ogni modo, emerge che da tempo Foà meditava la creazione di «una specie di

1 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 75.

53 L’idea di Foà di fondare una Times Literary Supplement che informasse gli italiani di quello che si specie di Times Library pubblicava all’estero, soprattutto»2. Ma la realizzazione di tale progetto, Supplement che informasse gli italiani delle uscite edito- che trovava riscontro nell’esigenza espressa da molti intellettuali italiani di riali all’estero. aprirsi alla conoscenza delle letterature straniere, gli fu sconsigliata da «tedeschi immigrati che avevano una specie di biblioteca circolante di libri tedeschi»3. La testimonianza appena citata può essere approfondita e chiarificata mediante il confronto con un’altra intervista, rilasciata a «Il Piccolo» di Trieste. Qui infatti Foà parla di «un Circolo Letterario fonda- to e gestito da una coppia di emigrati tedeschi, ebrei»4, i quali appunto gli presentarono «una persona che, meglio di ogni altra, poteva dar[gli] un consiglio su quella [...] idea»5. Così Foà, nell’intervista lasciata a Porzio, descrive l’inizio della sua amicizia con Bazlen e, di scorcio, l’attività che quest’ultimo svolgeva in quegli anni.

Allora mi hanno presentato Bazlen, il quale mi ha subito dissuaso dicendo che una cosa simile in Italia non si poteva fare perché l’avrebbero subito boicottata, sequestrata. Però è stato l’inizio della nostra amicizia. Lui allora faceva, lo ha fatto per alcuni mesi, il con- sulente per Frassinelli, poi ha fatto altro6.

Bazlen dunque aveva, ed è questo un aspetto che si e già parzialmente visto rispetto alla sua attività negli anni triestini, una certa sensibilità rispetto al problema del possibile ed auspicabile dialogo con gli editori e gli intellettuali dei paesi stranieri, ma doveva anche ben comprendere le resistenze opposte dal regime in tal senso: secondo Bazlen, infatti, «il Minculpop non [...] avrebbe permesso»7 la realizzazione del progetto. Dopo tale episodio, peraltro, in entrambe le interviste Foà aggiunge che Bazlen iniziò a collaborare con l’Agenzia, consigliando autori italiani da proporre all’estero, e contemporaneamente compiendo un’«azione pedagogica»8 nei suoi confronti, cioè aiutandolo ad approfondire le

2 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, inter- vista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 3 Ibidem. 4 Gabriella Ziani, Scrisse sempre, ma non finì mai, in «Il Piccolo», 14 aprile 1993, p. 4. 5 Ibidem. 6 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, inter- vista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 7 Gabriella Ziani, Scrisse sempre, ma non finì mai cit., p. 4. 8 Ibidem.

54 proprie conoscenze di autori italiani, come Gadda, Vittorini e Quarantotti Gambini, e stranieri come Musil e Broch. Quel che più conta, però, è l’impegno che, a cavallo fra gli anni Trenta La collaborazione con la e Quaranta, Bazlen mise nello stimolare la pubblicazione in Italia di Frassinelli e le Nuove opere straniere, impegno che si concretizzò soprattutto nella collabora- Edizioni di Ivrea. zione con la casa editrice Frassinelli, citata da Foà, e le Nuove Edizioni Ivrea. La natura della collaborazione di Bazlen con quest’ultima casa editrice verrà approfondita nel prossimo paragrafo, mentre, per quanto riguarda i suoi contatti con Frassinelli, fondata a Torino nel 1931, la mancanza di materiale documentario non permette, purtroppo, una trattazione particolareggiata. Si può comunque ipotizzare, conoscendo il progetto della casa editrice di «aprire una finestra sulla grande lettera- tura internazionale»9 e i gusti letterari ed editoriali di Bazlen, che que- st’ultimo assolvesse al ruolo di consulente editoriale per le opere stra- niere. D’altronde, in una testimonianza Foà ricorda che «Bobi venne alla nostra agenzia letteraria insieme con l’editore Frassinelli, di cui a quel tempo egli era consulente, per vedere se avevamo qualche buon romanzo straniero per la pubblicazione in Italia»10. Bazlen, in effetti, presumibilmente appoggiava con entusiasmo l’apertura alle letterature straniere che intellettuali come o Leone Ginzburg pro- muovevano attraverso le pubblicazioni della casa editrice: si sa però anche che egli era «consulente di Frassinelli perché amico di Franco Antonicelli»11, principale artefice della nota collana dall’evocativo nome di «Biblioteca Europea», il quale nel suo essere «editore di un crociane- simo eretico, ma soprattutto con un grande respiro europeo»12 incon- trava certamente l’approvazione di Bazlen. Fatte queste considerazioni, l’unico titolo di Frassinelli13 a proposito del quale si può ipotizzare l’in- fluenza di Bazlen sarebbe Il messaggio dell’imperatore di Kafka, un’opera la cui pubblicazione si colloca tuttavia nel 1935, dunque prima dell’inizio

9 Catalogo storico edizioni Frassinelli, 1931-1991, a cura di Roberta Oliva, Milano, Frassinelli, 1991, p. VII. 10 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana, Roma, Astrolabio, 1977, p. 130. 11 Ernesto Ferrero, Foà l’editore al futuro, in «La Stampa», 26 gennaio 2005, p. 25. 12 Vanni Scheiwiller, Un editore ideale, in Franco Antonicelli: “dell’impegno culturale”, a cura di Angelo Stella, Università degli Studi di Pavia, Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di Autori moderni e contemporanei, Pavia, 1996, p. 54. 13 È opportuno ricordare, comunque, che l‘intero catalogo Frassinelli sarà acquisito, non a caso, da Adelphi, nel 1966.

55 della sua collaborazione «ufficiale» con la casa editrice. A sollevare que- sta ipotesi è Vanni Scheiwiller, nel suo ricordo relativo al lavoro edito- riale di Franco Antonicelli in relazione alla «Biblioteca Europea»:

Un altro grosso avvenimento, ma tutta la collana è straordinaria, sono il n. 7 e il n. 8, ben due titoli di Franz Kafka: Il Processo [...] e Il messaggio dell’imperatore, nella traduzione di Anita Rho, che è del ’35. Anche qui, l’indicazione di Kafka è probabilmente venuta a Antonicelli attraverso quel rabdomantico scopritore di ingegni che fu Bobi Bazlen, il quale, [...], avrà dato una certa segnalazione al suo amico editore e tipografo14.

È interessante notare, fra l’altro, che, subito di seguito alla testimonian- za sopra riportata, Scheiwiller identifica Giuseppe Menasse (primo tra- duttore, negli anni Venti, di Kafka in Italia) come «un altro», evidente- mente oltre a Bazlen, «difficile amico di Montale»15: si è invece visto nel primo capitolo del presente lavoro che al contrario Menasse era stato presentato al poeta proprio da Bazlen.

2.2 Il progetto delle Nuove Edizioni Ivrea.

La conoscenza di Bazlen con Adriano Olivetti, allora marito della sua L’incontro con Adriano Olivetti. amica Paola Levi, risale al 1939, quando, lasciata Milano, egli si trasferì a Roma. A tale proposito, può essere utile la lettura di una testimonian- za dattiloscritta ad opera di Luciano Foà, forse la brutta copia di un arti- colo16: in questo ricordo, datato 1994, Foà riferisce di lunghe conversa- zioni che a partire dal 1939 Bazlen e Olivetti ebbero a Roma, e che cul- minarono nell’«idea di creare una casa editrice che si preparasse fin da allora - [...] - ad affermarsi dopo la caduta del fascismo»17. Bazlen ed

14 Vanni Scheiwiller, Un editore ideale cit., p. 48. 15 Ibidem. 16 Si tratta di sette fogli dattiloscritti, che recano solo l’indicazione 1994. Pur non avendo esplici- tato il nome dell’autore, sono attribuibili a Luciano Foà. La copia del dattiloscritto e stata forni- ta da Gianni Antonini, a suo tempo fondatore della casa editrice Cederna e responsabile della redazione Ricciardi dal 1951 al 1972. Lo stesso Antonini, peraltro, non sa aggiungere informa- zioni sulla destinazione dello scritto. La citazione riportata si trova a pag. 1. D’ora in poi sarà segnalato in nota come Foà, seguito dal numero di pagina. 17 Foà, p.1.

56 Olivetti dovettero dunque elaborare concretamente il piano editoriale di quelle che, per brevissimo tempo, e con sole tre pubblicazioni effettiva- Le Nuove Edizioni di Ivrea. mente realizzate, sarebbero divenute le Nuove Edizione Ivrea. A pro- posito di esse, dunque, è bene tenere a mente che si trattò di un proget- to solo in minima parte concretizzato, ma le cui caratteristiche, sulla base delle notizie e dei documenti che è stato possibile raccogliere, sono di grande interesse come testimonianza sia di un’attività culturale durante gli anni del regime, sia di un momento non irrilevante nell’ope- rato editoriale di Bazlen. Nel suo dattiloscritto, Foà racconta che il pro- Un progetto che avrebbe getto di Bazlen ed Olivetti era rivolto principalmente alla pubblicazio- visto protagonisti gli autori ne di «autori la cui conoscenza era stata ostacolata in Italia non sola- invisi al fascismo. mente dall’ideologia politica, ma anche da una certa arretratezza, un certo provincialismo della nostra cultura»18. Per meglio comprendere lo spirito di Bazlen rispetto all’iniziativa e più in generale la sua completa autonomia rispetto a etichette ideologiche e a forme di pensiero mono- litiche, è tuttavia bene citare quanto anni dopo, nel 1962, egli afferme- ra in una lettera editoriale rivolta alla casa editrice Adelphi. Qui, riflet- tendo a proposito della «reazione contro la massa»19 che secondo lui caratterizza molti intellettuali, Bazlen designa questi ultimi con la cau- stica definizione di «massa antimassa»20, confrontando poi questa situa- zione con quella del «fascismo all’epoca delle N.E.I. [Nuove Edizioni Ivrea]»21: in quegli anni, infatti, secondo Bazlen i fascisti

non esistevano più. Il pericolo erano gli antifascisti che invece di tentare di capire si mettevano sul piano dei fascisti, e si riducevano a una qualsiasi negativa di una qualsiasi positiva; ma con argomen- L’anti-anti-fascismo di ti che potevano essere anche nostri. [...]. Io che notoriamente dico Bazlen. paradossi avevo inventato l’anti-anti-fascismo. Non sono passati da allora nemmeno 20 anni22.

Sembra, dunque, da queste parole, che le ragioni della partecipazione di Bazlen al progetto di Olivetti fossero per così dire eminentemente cul- turali: non politiche, visto che da queste ultime Bazlen non fu mai spin-

18 Ibidem. 19 Lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà (casa editrice Adelphi), 31 agosto 1962, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 322. 20 Ivi, p. 323. 21 Ibidem. 22 Ibidem.

57 to ad agire. Questo particolare aspetto caratterizzò con una certa forza la sua personalità, tanto che Gianni Stuparich la elegge a rappresentan- te di un’intera generazione, nel momento in cui rileva lo stacco fra la propria e quella che «si trovò davanti al fascismo»23. Di fronte ai «gros- solani miraggi»24 dell’ideologia fascista, infatti, secondo Stuparich «chi allora possedeva una sensibilità interiore, era costretto a ritirarsi [...] e, per contrasto, raffinarsi ancor più nel proprio mondo cerebrale»25. Ad ogni modo, al di là delle ragioni personali di Bazlen, gli aspetti di Il fascismo, il crocianesimo «arretratezza» e «provincialismo» che lui e Olivetti percepivano all’inter- e l’idealismo: aspetti del no della cultura italiana sono specificati da Foà nell’intervista rilasciata provincialismo e a Domenico Porzio, dove egli li identifica, oltre che con il fascismo, con dell’arretratezza della 26 cultura italiana. «l’idealismo, il crocianesimo» : la congiunzione di tali forze, per moltis- simi aspetti in realtà fra loro avverse, impediva infatti la pubblicazione di opere che spaziavano dalla «cultura religiosa, alle avanguardie lettera- rie straniere all’inizio del secolo a grandi scrittori del sette - ottocento [...], dallo studio delle civiltà antiche alla filosofia, a testi teorici dell’eco- nomia e della politica»27. Sempre secondo le varie testimonianze di L’ostilità verso la Luciano Foà citate in questa sede, il caso più eclatante, oltre a quello psicoanalisi. delle letterature straniere in generale, era quello della psicanalisi. Ad essa, intesa non solo come possibile proposta editoriale, ma anche in generale come nuovo eventuale apporto alla cultura italiana, opponeva- no una certa resistenza sia Croce, che faceva dell’avversione alla psica- nalisi e alla psicologia una componente della propria «reazione antipo- sitivista»28, sia il regime fascista, per quanto secondo alcuni si debba «sfumare il quadro della “persecuzione” antipsicoanalitica da parte del regime»29. Resta il fatto che, soprattutto dopo l’emanazione delle leggi razziali, l’antisemitismo, sulla scorta di quanto avveniva in Germania, «aveva condannato a un non sempre metaforico rogo le opere di Freud e dei suoi discepoli»30, così che gli studiosi o i medici che in qualche

23 Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi cit., p. 16. 24 Ibidem 25 Ibidem 26 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 27 Intervento di Luciano Foà al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85, Udine, Campanotto Editore, 1995, p. 14. 28 Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Paolo Boringhieri Editore, 1966, p. 23. 29 Ivi, p. 49. 30 Ivi, p. 66.

58 modo, parlandone o praticandola, si occupavano di psicoanalisi «dovet- tero chiamarla con nome diverso, giungendo talora a evitare ogni rife- 31 La psicoanalisi in Italia dal rimento, che non fosse aggressivamente polemico, a Freud» . Per que- 1939 al 1945 ste ragioni nel 1939 Edoardo Weiss si trasferì negli Stati Uniti, e con lui diversi psicoanalisti ebrei, di modo che «dai primi del 1939 sino a tutto il 1945, in Italia non si parlò praticamente più di psicoanalisi»32. Di fron- te allo stato di cose appena descritto, si possono comprendere chiara- mente le ragioni per cui «Olivetti si era messo in testa di fare la casa edi- trice, la grande casa editrice, che si presentava alla caduta del fascismo»33 per superarne le chiusure, anche grazie alla pubblicazione di testi che «in varissimi campi [...] erano in gran parte scoperte di Bazlen»34. Per la verità, l’attività delle Nuove Edizioni Ivrea si colloca ben prima della caduta del fascismo, se si considera che il progetto iniziò ad esse- re vagliato già dal 1938-1939, e che Olivetti si mobilitò per la sua attua- zione nel 1941, quando ad essere coinvolto fu lo stesso Luciano Foà. In un ricordo raccolto da Giorgio Soavi, infatti, egli racconta che «nell’au- tunno del 1941 [...] Adriano si era presentato [all’Agenzia Letteraria Internazionale] dicendo che voleva fare una casa editrice»35. È interes- sante notare che Olivetti si presentò «come amico di Bobi Bazlen»36, il quale, racconta Foà, «doveva avergli parlato spesso di me, in vista del 37 suo progetto editoriale» . Che la sola pianificazione della nascita delle L’“ostracismo” nei Nuove Edizione Ivrea potesse incontrare moltissime difficoltà è testi- confronti di libri inglesi, moniato dal fatto che anche l’attività dell’Agenzia Letteraria fronteggia- americani, francesi va in quegli anni forti resistenze, in quanto «non era permesso pubbli- care libri inglesi, americani, francesi a causa della guerra, e dovevamo solo limitarci agli autori tedeschi, danesi o svedesi o di altri paesi neu- trali»38. Tutti i fattori fino ad ora accennati, che spaziano dunque dalla semplice chiusura culturale alla vera e propria censura, non impedirono comunque al gruppo costituito da Olivetti, Bazlen e il neo arrivato Foà

31 Ibidem. 32 Ibidem. 33 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d.. 34 Ibidem. 35 Giorgio Soavi, Italiani anche questi, Milano, Rizzoli, 1979, p. 132. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 Ibidem.

59 di mettersi al lavoro, anche nell’ottica di «cominciare a pubblicare qual- La sede delle Nuove cosa, senza far nascere troppi sospetti, ancora prima della caduta del Edizioni di Ivrea dapprima 39 a Milano e dal 1942 a Ivrea. fascismo» . La sede della casa editrice fu così stabilita in un primo momento a Milano, anche se a partire dal 1942, in seguito ai bombar- damenti che iniziarono a colpire la città, Olivetti decise il trasferimento a Ivrea. Nella sua testimonianza dattiloscritta, Foà delinea con una certa precisione il tipo di lavoro che si andava svolgendo in quel periodo: fra i propri compiti, ad esempio, egli cita la ricerca di traduttori, la cura Il ruolo di Foà. delle relazioni con gli editori stranieri per l’acquisizione dei diritti di pubblicazione, ed infine il «tenere i rapporti tra Adriano a Ivrea e Bazlen a Roma»40. Si è già accennato che il ruolo di Bazlen nella stesu- ra di una grande parte del programma editoriale delle Nuove Edizioni Ivrea dovette essere fondamentale. A tale proposito, Foà fornisce una descrizione molto precisa dei caratteri del suo lavoro in questo periodo. Così infatti scrive Foà:

Bazlen [...] mi tempestava di foglietti, ognuno dei quali era dedica- to o a una nuova proposta di pubblicazione, o a un suo parere su L’apporto di Bazlen alle un libro letto, o a una sua richiesta di testi da esaminare o alla noti- Nuove Edizioni di Ivrea. zia di un suo incontro con una persona come possibile nostro futu- ro autore o possibile traduttore, [...]. La sua attività, in quei due anni scarsi che durarono le “Nuove Edizioni Ivrea”, superava ogni immaginazione41.

La testimonianza appena riportata risulta di grande interesse, in quan- to, oltre a provare il forte impegno che Bazlen mise nella collaborazio- ne al progetto di Adriano Olivetti (forse anche «coinvolgendo nella ste- sura del programma la compagna Ljuba Blumenthal»42), permette di fornire una prima immagine del suo metodo di lavoro, che egli manter- rà immutato fino alla collaborazione con Einaudi e, molto probabil- mente, con Adelphi. Di fatto, però, Foà afferma anche che i circa due- mila foglietti recanti «consigli di libri e contatti con gente»43 che in quel periodo Bazlen gli inviò «andarono smarriti dopo la nostra diaspora

39 Ivi, p. 133. 40 Foà, pag. 4. 41 Ibidem. 42 Dario Biagi, Il dio di carta: vita di Erich Linder, Roma, Avagliano Editore, 2007, p. 43. 43 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foa, s.d..

60 dell’8 settembre ’43»44: ed a nulla sarebbero servite le ricerche che Foà afferma, nell’intervista rilasciata a Domenico Porzio, di avere fatto fare 45 Dopo il 1943 le Nuove in «vari archivi» . Successivamente a questa data, infatti, il progetto Edizioni di Ivrea vennero riguardante la nascita della casa editrice venne accantonato, per risorge- sospese fino a risorgere nel re nel dopoguerra nelle Edizioni di Comunità. Dopo il periodo di reclu- 1946 con le Edizioni di sione vissuto da Olivetti nel luglio del 1943 per via della sua attività di Comunità. opposizione al regime, è infatti

convinzione comune che [...] sull’uomo prevalgano gli interessi di carattere immediatamente politico, e che quindi il programma delle Nuove Edizioni Ivrea si disperda insieme con il gruppo che vi lavo- rava, in quel clima di generale smobilitazione che il precipitare degli eventi di guerra provoca in Italia46.

Come si e già accennato, le Nuove Edizioni Ivrea dettero alle stampe solo tre titoli, ovvero, nel 1943, gli Studi e proposte preliminari per il Piano Gli unici titoli delle Nuove Regolatore della Valle d’Aosta (un progetto diretto dallo stesso Olivetti) e Edizioni di Ivrea. La vocazione umana, dello storico dell’età romana Aldo Ferrabino. Segue L’ordine politico delle Comunità di Adriano Olivetti, stampato in Svizzera nel 1945 ma ancora recante la sigla delle Nuove Edizioni Ivrea. Un pic- colo gruppo di opere dunque, che non si può certo ritenere rappresen- tativo della rilevanza del progetto in generale, ed in particolare dello specifico contributo che ad esso Bazlen apportò.

2.2.1 Le collane delle Nuove Edizioni Ivrea.

Se evidentemente gli archivi non possono riportare alla luce le prove certe della collaborazione di Roberto Bazlen con le Nuove Edizioni Il "Fondo Olivetti" nel cata- Ivrea, resta però il fatto che Foà stesso testimonia che «un certo nume- logo Rosa e Ballo, Cederna ro di opere scelte da Bazlen per Olivetti apparvero poi nelle collane di e Adelphi Rosa e Ballo e della Cederna, per confluire più tardi nell’opera di Adelphi»47. La ricerca in archivio, dunque, può aiutare a illuminare alme-

44 Foà, p.4. 45 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foa, s.d.. 46 Beniamino de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Roma, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, n. 57, 2008, p. 57. 47 Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85

61 no una parte della proposta editoriale che fra Roma, Ivrea e Milano fu elaborata: all’interno di essa, poi, si può, con l’aiuto della consapevolez- za circa gli autori che Bazlen prediligeva, cercare di isolare quelle che appunto dovettero essere le sue proposte editoriali. Il caso Rosa e Ballo. Il caso di Rosa e Ballo è a tale proposito indicativo: nata come proget- to nel 1942 a Milano, la casa editrice inizia a pubblicare due anni dopo, grazie all’intenso lavoro dei suoi fondatori, Achille Rosa e Ferdinando Ballo, i quali «cercano una via d’uscita, con coraggio e volontà, un modo attivo per sfuggire al dolore cupo dei tempi, per [...] ridare spe- ranza ai propri ideali politici e umani»48. Uno spirito di questo tipo si può forse paragonare a quello che, come si è visto, animava l’attività del gruppo di intellettuali di Ivrea: ed è forse questa una delle ragioni che spinsero la casa editrice milanese ad acquistare i diritti di una parte dei titoli che avrebbero dovuto far parte del programma editoriale stilato da Olivetti e Bazlen. A tale proposito, la consultazione dell’archivio della casa editrice, ora custodito presso la Fondazione Mondadori di Milano, ha fornito notizie di grande interesse. In una lettera datata 9 febbraio 1946, inviata dalla casa editrice Rosa e Ballo ad Alessandro Pellegrini, allora collaboratore Olivetti ma presto anche della stessa Rosa e Ballo, L’acquisizione di opere pro- viene infatti fornito un elenco delle «opere del “fondo Olivetti” che venienti dal “Fondo 49 Olivetti”. acquisteremo senz’altro salvo un preciso accordo sul prezzo» . Esso, dunque, costituisce una prima immagine di quello che sarebbe dovuto essere il catalogo editoriale delle Nuove Edizioni Ivrea, comprendendo anche la divisione delle opere in varie collane. Il materiale d’archivio che si è consultato testimonia inoltre che successivamente alla lettera appe- na citata le trattative e l’invio da Ivrea di opere in visione proseguirono, per circa un mese, fino al 18 marzo del 1946, quando venne firmato il contratto fra la Rosa e Ballo Editore e le Nuove Edizioni Ivrea, «garan- tite personalmente dal Sig. Ing. ADRIANO OLIVETTI»50, per l’acqui- sto dei diritti di una serie di opere. Si preferisce in questa sede non riportare i titoli che emergono dai documenti fino ad ora citati, in quan- to obiettivo del presente lavoro non è tanto delineare i passaggi delle

cit., p. 14. 48 Stella Casiraghi, Un sogno editoriale: Rosa e Ballo nella Milano degli anni Quaranta, Milano, Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori, 2006, p. 15. 49 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato. 50 Ibidem.

62 trattative fra le due case editrici, quanto piuttosto provare a chiarire quella che fu la natura delle progettate Nuove Edizioni Ivrea, e soprat- tutto il ruolo che Roberto Bazlen ebbe in esse. Inoltre, questi documen- ti si trovano completati da un altro, più interessante e completo, costi- tuito da un insieme di fogli dattiloscritti, numerati ma purtroppo non datati, anche se riferimenti al suo interno permettono di ipotizzare che esso risalga a un periodo successivo al settembre del 1943 e preceden- te alla fine della guerra: dalla lettura di questi fogli dattiloscritti si può immaginare che essi costituissero una sorta di prospetto dei diritti delle opere possedute, redatto dalle Nuove Edizioni Ivrea ad uso di possibi- li acquirenti, e che vanno a costituire il così detto “Fondo Olivetti”51. Se si considera che, come si è visto, solo a proposito delle opere proposte da Bazlen, Foà parla di circa duemila «foglietti», si può affermare con certezza che l’insieme di opere che il dattiloscritto in questione cita sia solo una piccola parte di quello che doveva essere il ben più ampio cata- logo editoriale delle Nuove Edizioni Ivrea: resta però il fatto che vi si può comunque leggere un numero considerevole di titoli, spesso con l’indicazione dei traduttori e dei curatori delle edizioni e delle collane. Sulla base di queste informazioni, si può dunque provare a delineare, seppur parzialmente, quella che doveva essere l’offerta della progettata casa editrice, e raccogliere alcune notizie di grande interesse circa il lavoro di Bazlen in essa. In prima istanza, è opportuno segnalare un altro genere di classificazione dei testi citati nel documento in questio- ne, il quale sottende la divisione per collane: le opere, infatti, sono in primo luogo divise fra quelle «pronte»52, quelle «non ancora pronte i cui La classificazione dei testi per le Nuove Edizioni di diritti ci appartengono», quelle «pronte di cui non possediamo i diritti», Ivrea. quelle infine «di dominio pubblico messe in traduzione e non pronte». Seguono infine due elenchi più brevi degli altri, relativi ai «contratti per acquisto di diritti d’autore rimasti in sospeso a causa dell’interruzione del nostro lavoro nel settembre 1943» ed un elenco delle «opzioni delle Nuove Edizioni Ivrea». Per ragioni di chiarezza, in questa sede si prefe- risce dare conto delle opere citate nel documento sulla base delle colla- ne che da esso emergono, e non su quella dei gruppi appena elencati. Il primo insieme di opere che emerge dal dattiloscritto è costituito da una

51 E questa infatti la denominazione del sottofascicolo dell’archivio Rosa e Ballo dal quale si sono tratti i fogli in questione. 52 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato. La citazioni che seguono sono tratte dalla stessa fonte.

63 collana di filosofia, che prevedeva i seguenti titoli:

Collana filosofia

Barth - Der Roemerbrief (traduzione prof. Giovanni Miegge) Lavelle - Le mal et la souffrance (traduzione P. Gabriele Lattanzi) Le Senne - Obstacle et valeur (traduzione prof. Pietro Chiodi) Lavelle - La Conscience de soi (traduzione prof. Mario Tedesco) La Collana Filosofia. Marcel - Etre et avoir (traduzione prof. Fernanda Pivano) Stuart Mill - Autobiografia (traduzione prof. Giorgio Facchi) Barth - Die dogmatik Lavelle - La presence totale Lavelle - De lacte Otmar Spann - Erkenne dich selbst Barth - Die Auferstehung der toten Barth - Rechtfertigung und rechte Barth - Evangelium und Bildung Barth - Die soouveranitaet des wortes gottes und die entstehung des glaubens Barth - David Friedrich Strauss als theolog Bergson - Les deux sources de la morale et de la religion

Con molta probabilità Se si considera che nessuno degli autori citati figura nelle lettere edito- segnalazioni affini al pensie- riali che Bazlen scriverà in anni successivi ad altri editori, si può ipotiz- ro politico di Olivetti. zare che nella collana filosofica si trovassero quelle opere che, stando alla testimonianza dattiloscritta di Luciano Foà più volte citata in que- sta sede, rispondevano al pensiero e alle idee politiche di Olivetti: nel dattiloscritto, infatti, Foà parla di un programma «diviso in due parti»53, una rispondente agli interessi di Bazlen, l’altra a quelli di Olivetti. Lo stesso discorso si può forse fare per l’insieme di titoli che va sotto il 54 La Collana Humana nome di «Humana civilitas» : accanto alla denominazione della collana Civilitas a cura di nel documento vengono anche citati i direttori della stessa, ovvero il Alessandro Passerin «Prof. Alessandro Passerin d’Entreves e Umberto Campagnolo»55. A d’Entreves e Umberto questo proposito, è interessante notare che nel 1954 il primo dei due Campagnolo. sarà autore di un saggio, La dottrina del diritto naturale, pubblicato dalle Edizioni di Comunità, e di una serie di articoli per l’omonima rivista,

53 Foà, pag. 3. 54 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato. 55 Ibidem. 64 che Olivetti inizierà a pubblicare a partire dal 1946. Rispetto ad Umberto Campagnolo, invece, nel suo saggio Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Beniamino de’ Liguori Carino riporta La Collana, secondo Renzo che secondo Renzo Zorzi, direttore delle Edizioni di Comunità dal Zorzi, fu legata 1960 alla fine degli anni Ottanta, «l’inizio delle Nuove Edizioni Ivrea è principalmente alle scelte di collegato principalmente a [lui], e che solo in un momento successivo Passerin d’Entreves. Olivetti, forse in disaccordo con il lavoro portato avanti [...], si rivolse a Bazlen»56. I titoli che si citano di seguito a titolo d’esempio, dunque, non dovevano essere particolarmente in linea con i gusti di quest’ultimo:

Collana Humana Civilitas

Buonarroti - Saggi. de la Boétie - Della servitù volontaria (traduzione di V.E. Alfieri) Guizot - Trois generations (traduzione Prof Raffaele Ciampini) Hamilton Jay e Madison - The Federalist (traduzione Prof. Umberto Campagnolo) Mallet du Pan - Considerazioni sulla natura della Rivoluzione Francese (traduzione prof. Alessandro Passerin)57.

Un discorso diverso, invece, va fatto per quanto riguarda la collana dei Saggi, annoverata di seguito ad «Humana civilitas». Nel nutrito gruppo di opere che componevano tale collana, infatti, non è improprio rintracciare qualche titolo che fu probabilmente il frutto dei consigli editoriali di Bazlen.

Collana Saggi

Carl Burckhardt - Gestalten Und Maechte (traduzione Alessandra Scalero) De Unamuno - L’agonia del Cristianesimo Frobenius - Monumenta Africana (traduzione Marcella Ravà) Kereny - Apollon (traduzione Albina Calenda Ferretti) Ivanov - Dostojevski e altri saggi (traduzione dello stesso Ivanov) Otto - Il sacro (traduzione Prof. Bonajuti) Ortega Y Gasset - Il tema del nostro tempo (traduzione di Sergio Solmi) Ortega Y Gasset - La ribellione delle masse

56 Beniamino de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960) cit., p. 52. 57 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato.

65 Peterson - Il mistero degli ebrei e dei gentili (traduzione Ascari) Ortega Y Gasset - Meditazioni sul Chisciotte (traduzione Aldo Camerino) Shubart - L’Europa e l’anima orientale (traduzione Dott. Mario Piazza) Auer Ritzel - Dalla federazione di cantoni alla federazione europea (traduzione Prof. Venturini) De Rougemont - Penser avec les mains (traduzione Fabrizio Onofri. Il suo nome non deve comparire sulla edizione italiana) Stepun - Das antlitz russlands und das gelicht der revolutions (traduzione Elsa Bermann) Groethuysen - Les origines de la bourgeoise en France (traduzione Dott. Alessandro Forti) Berbert - Liturgy and Society (traduzione Prof. Bonaiuti) Neman - Discourse on the Scope and Nature of University Education (traduzione Prof. Sergio Baldi) Soloviov - Tre Dialoghi (traduzione P.A. Zveteremich) Soloviov - La critica dei principi astratti (traduzione P.A. Zvetermich) Soloviov - Discorsi sull’umanità di Dio (traduzione Bruno Del Re) Berdialeff - Esprit de libertè Granet - La pensée chinoise Heiler - Das gebet Jung e Kereny - Einfuehrung in das der mythologie Ortega Y Gasset - La redencion de las provincias Ortega Y Gasset - Historia como sistema Ortega Y Gasset - Kant, desumanation del arte, mision de la universitad (Il Kant è stato tradotto da Solmi per essere aggiunto all’edizione ita- liana del tema del nostro tempo). Picard - Die flucht vor gott Pirenne - Les grand courants de l’histoire universelle Rapsodia Del Tindaro - Studio sul buddismo Ruffini - Senator Francesco, scritti storici sulla riforma Schweitzer - Verfall und wiederaufbau der kultur Richard Wilhelm - Der mensch und das sein (Traduzione: Di Martino) Zimmer - Maya der indische mythos Dewey - Human nature and conduct Cheneviere - Il pensiero politico del galdino Dawson - Progress and religion Cristo e la storia

66 Ouspenski - A New Model of the Universal Peddersen - Sulla religione degli ebrei Rathenau - Von kommenden dingen Newman - Apologia pro vita sua58

Come si è già visto, in seguito alla sua «estetica della lettura come feno- meno nomade»59, vale a dire come veicolo di un interesse per i più disparati aspetti del sapere e del reale, la ricchezza culturale di Bazlen spaziava dall’antropologia, alla psicologia, alla critica d’arte e letteraria, così che tanto per le Nuove Edizioni Ivrea quanto per le case editrici con le quali collaborerà in futuro molti dei titoli consigliati privilegiano tali ambiti rispetto a quello letterario. A conferma di ciò si può leggere il già citato dattiloscritto ad opera di Foà, nel quale si sostiene che, delle due parti in cui era organizzato il programma delle Nuove Edizioni Ivrea, una era costituita dalle «passioni, a quel tempo, di Bazlen, che andavano dalla letteratura alla psicoanalisi (soprattutto quella rappre- sentata da Jung)»60, contrapposte alle opere che trattavano «la vita socia- le e politica sotto ogni aspetto»61, queste ultime invece caldeggiate da Le proposte di Bazlen per Olivetti. A proposito delle proporzioni in cui le opere di Jung furono le Nuove Edizioni Ivrea. proposte da Bazlen, alcuni sostengono che «nel programma delle Nuove Edizioni Ivrea [...] c’erano tutte le opere di Jung»62: ed è in effet- ti interessante ciò che a questo proposito lo stesso Olivetti afferma il 23 aprile del 1942 in una sua lettera a Hermann Keyserling, nella quale si trova illustrato il progetto delle Nuove Edizioni Ivrea. Fra le diverse proposte del catalogo, infatti, egli cita

una collezione di psicologia. Come voi forse saprete, molto poco è stato fatto in Italia in questo campo e le stesse opere fondamentali di psicanalisi non si possono trovare tradotte in italiano. Il primo libro di questa collezione sarà «Psychologische Typen» [Tipi psicologici] di Jung. In seguito pubblicheremo degli altri testi di Jung63.

La ricerca archivistica che si è svolta non ha potuto fornire una prova di

58 Ibidem. 59 Giovanni Mariotti, L’oracolo di Adelphi, in «Espresso», 7 dicembre 1980, p. 157. 60 Foà, pag. 3. 61 Ibidem. 62 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 133. 63 Beniamino de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960) cit., p. 49.

67 questa affermazione, ma rimane vero che nell’elenco di titoli appena cita- ti si possono trovare diverse tracce di testi legati al sistema di pensiero junghiano: ad esso Bazlen, come si è visto, si interessò dopo aver cono- sciuto l’opera di Freud, che in seguito avrebbe contestato parzialmente (cosa che non gli impedì di proporne la pubblicazione presso editori come Astrolabio e Boringhieri). Per fare un primo esempio, fra i Saggi che le Nuove Edizioni Ivrea avrebbero dovuto proporre si trovano i 64 Jung e Kerenyi. recentissimi Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di Jung e Kerenyi: quest’ultimo, uno studioso ungherese di Storia delle religioni, influenzato appunto dalle teorie junghiane. Si tratta dunque di un’opera che ben rap- presenta la suggestione che il pensiero junghiano esercitava in direzione dello studio della Storia delle religioni e della mitologia intese come forme di pensiero archetipico, e delle quali anche Bazlen percepì l’influenza, se per una parte dei titoli appena citati si può presupporre che siano stati proposti da lui. Si veda a questo proposito il caso dell’Apollon, saggio del 1937 sempre di Kerenyi, e dell’opera di un altro studioso della Storia delle religioni come Rudolf Otto, presente nella collana con l’opera Il sacro. Se si considera che Otto fu uno degli autori che influenzarono il pensiero di Kerenyi, si inizia a vedere come il sistema di testi proposti dalle Nuove Edizioni Ivrea non fosse solo casuale65, ma al contrario le opere in esso contenute fossero collegate da fili concettuali più o meno sottili. Ai «con- tinui giochi di sponda intrattenuti [dal pensiero junghiano] con i sistemi filosofici e religiosi orientali»66, nonché con la mitologia e la Storia delle religioni, si possono allora ricondurre anche titoli come La pensée chinoi- se del sinologo Marcel Granet, Il mistero degli ebrei e dei gentili del teologo Erik Peterson, L’Europa e l’anima orientale del filosofo tedesco Walter Schubart. Ancora, profondamente influenzati dal pensiero junghiano sono altri due autori presenti nella collana dei Saggi delle Nuove Edizioni Ivrea, ovvero l’etnologo Leo Frobenius (autore di Monumenta africana) e Heinrich Zimmer, con l’opera sulla mitologia indiana Maya: der Indische Mythos [Maya: I miti indiani]. Infine, si può ancora osservare, a proposito dei titoli considerati fino ad

64 Citato nell’elenco con il titolo tedesco originale (Einfuehrung in das Wesen der Mythologie). La prima edizione dell’opera e del 1941. 65 La “non casualità” delle proposte di Bazlen è peraltro ravvisabile anche in un altro aspetto del suo operato, illustrato da Giulia de Savorgnani. Secondo la studiosa, infatti, egli «seminava qua e là le proprie proposte», diffondendole fra quegli editori che pensava potessero accoglierle. Cfr Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio, cit., p.124. 66 Harold Coward, Jung e il pensiero orientale, Milano, La biblioteca di Vivarium, 1985, p. 9.

68 ora, il fatto che essi ebbero una certa rilevanza per Bazlen, sia prima, sia dopo la sua collaborazione con la casa editrice di Adriano Olivetti: e il caso del filosofo spagnolo Ortega y Gasset, che Bazlen aveva segnala- to a Solaria già molti anni prima, più precisamente nel 1932, anno in cui come si è visto la redazione della rivista meditava un’apertura all’Europa anche tramite la creazione di una nuova testata. A questo proposito Bazlen in una sua lettera consiglia a Carocci, per trovare col- laboratori al progetto, di «sfogliare le ultime annate della rivista di Ortega»67 (che quindi egli doveva presumibilmente seguire con una certa costanza). Infine aggiunge:

Rivista europea: [...]. Molto consigliabile per dare il tono, nel primo numero, una traduzione di qualche saggio di Ortega: p.e. «El tema de nuestro tiempo» o «La deshumanisación del arte» o, ancora meglio, di qualche brano de «La ribelión de las masas»68.

Tutti e tre i titoli si trovano annoverati una decina di anni dopo in quel- l’insieme di opere che secondo Bazlen ed Olivetti avrebbero costituito un apporto fondamentale alla cultura italiana: ed è questo solo il primo esempio di un autore che Bazlen sceglie di proporre a distanza di anni ad editori diversi, evidentemente ritenendone la pubblicazione di gran- de importanza. Olivetti peraltro recepì evidentemente con una certa prontezza il pensiero di Bazlen in proposito, se nella già citata lettera a Keyserling Ortega y Gasset è citato, insieme a «Rudolph Kassner, Leo Frobenius, [...], Ivanow»69, tra quegli autori i cui «diritti esclusivi per l’Italia»70 la casa editrice di Ivrea si è primariamente «assicurata»71. Come si è accennato poco sopra, inoltre, alcuni dei titoli fino ad ora visti ricompaiono in lettere scritte da Bazlen successivamente al perio- do delle Nuove Edizioni Ivrea, in una dinamica simile a quella appena vista per le opere di Ortega y Gasset: è questo il caso dei saggi di Marcel Granet, Heinrich Zimmer e Richard Wilhelm. Nel 1946, infat- ti, in una lettera dell’Agenzia Letteraria Internazionale a Bazlen si trova delineata la situazione dei diritti delle opere di Granet, il cui contratto

67 Lettera di Roberto Bazlen ad Alberto Carocci, Trieste, 22 ottobre 1932, in Lettere a «Solaria», a cura di Giuliano Manacorda cit., p. 385. 68 Ivi, p. 386. 69 Beniamino de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960) cit., p. 49. 70 Ibidem. 71 Ibidem

69 «delle NEI [Nuove Edizioni Ivrea] era scaduto ed è stato prolungato già un paio di volte, così che l’editore francese si è seccato»72. Chi scri- ve (presumibilmente Luciano Foà) informa inoltre Bazlen circa la pre- senza, in quello che nella lettera in questione viene definito generica- mente il «fondo» (dunque come si è visto il «fondo Olivetti»), della disponibilità delle opere di Zimmer e Wilhelm, con contratti ancora validi. Foà, poi, conclude con queste parole: «farò passare la lista delle NEI e guarderò se c’è ancora qualcosa che possa interessare Astrolabio»73. Sulla base di quanto appena letto, si può immaginare che Bazlen desiderasse che le opere che non erano state pubblicate dalle Nuove Edizioni Ivrea non finissero dimenticate, ma che né Rosa e Ballo, né Cederna, né le nascenti Edizioni di Comunità (improntate Le proposte scartate dalle queste ultime più sulle idee politiche di Olivetti che sui suoi «interessi Nuove Edizioni di Ivrea ma più specificatamente culturali»74) fossero interessate alla loro pubblica- anche da Rosa e Ballo e da zione. Di fronte al fatto che nessuna delle case editrici che aveva acqui- Cederna vengono sottopo- stato i diritti delle opere delle Nuove Edizioni Ivrea si era mostrata ste a Astrolabio, con cui Bazlen inizia a collaborare. interessata a quei titoli, evidentemente Bazlen doveva volgere lo sguar- do altrove, e cioè ad una casa editrice come Astrolabio, la cui proposta editoriale era per molti aspetti compatibile con i suoi interessi e con la quale infatti egli in questo periodo inizia a collaborare. La proposta alle Edizioni di Un discorso affine vale per l’opera di Picard, citata nella lettera di Foà Comunità dell’opera di come una di quelle che potrebbero ancora interessare Olivetti: ed in Picard. effetti, tre anni più tardi, dunque nel 1949, Bazlen raccomanderà alle Edizioni di Comunità la pubblicazione del nuovo libro di questo autore (ma è questo un aspetto sul quale si avrà modo di tornare in seguito).

2.2.2 La collana «Mondi e destini».

Proseguendo nell’analisi dei materiali contenuti nell’archivio Rosa e Ballo, risultano di ancora maggiore interesse le due collane presentate di seguito a quella dei Saggi: esse infatti permettono di aggiungere qualche elemento, seppur parziale, alle molte affermazioni circa la mancanza di

72 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1946, b. 1, fasc. 28 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 8 dicembre 1946. 73 Ibidem. 74 Cesare Musatti, Psicologi in fabbrica: la psicologia del lavoro negli stabilimenti Olivetti, Torino, Einaudi, 1980, p. 4.

70 testimonianze sulla proposta delle Nuove Edizioni Ivrea, soprattutto per quanto riguarda la persona di Roberto Bazlen. Dal prospetto delle pub- blicazioni che avrebbero dovuto caratterizzare la casa editrice di Olivetti, La Collana Mondi e Destini infatti, emerge la presenza di una collana chiamata «Mondi e destini» e e la Collana letteraria. di una «Collana Letteraria». Quel che più conta, accanto ai nomi delle collane si trovano alcuni dati fondamentali, in quanto si specifica che la prima è costituita da «scritti autobiografici»75 ed «affidata a Roberto Bazlen»76, ed anche la Collana Letteraria risulta «a cura di Roberto Bazlen»77. Di seguito si riportano i titoli che componevano la prima delle due serie:

Collana Mondi e destini (Scritti autobiografici – la collana era affidata a Roberto Bazlen)

Metternich - Lettere (traduzione al Dott. Alessandro Pellegrini) Rilke - Lettere dal Muzot (traduzione prof. M. Doriguzzi e Leone Traverso) Rilke - Su Dio (traduzione: Leone Traverso che, per accordi speciali con l’Ing. Olivetti, ci ha ceduto il diritto sulla traduzione per un’edi- zione di 5000 esemplari) Rilke - Lettere a una giovane signora (diritti: idem come sopra. Traduzione: come sopra) Rilke - Lettere a un giovane poeta (traduzione: come sopra) Santa Teresa D’Avila - Autobiografia (traduzione: Marcori e Weiss) Vieuchange - Smara (traduzione: Fabrizio Onofri) Goethe, Schiller - Carteggio (prof. Raffaello Prati) Naropa Biografia (a cura di Giuseppe Tucci) Romola Nijnski (traduzione Renata Barocas) Waln - The House Of Exile (tradotto da Fabrizio Onofri. I diritti non poterono essere trattati con l’America a causa dello stato bellico) Gosse - Father and Son (affidata a Vittorio Gabrieli che ha già tradot- to tre quarti del libro e che ha ricevuto un anticipo di £ 1500. I dirit- ti devono essere acquistati in Inghilterra) Hudson - Long Ago and Far Away (affidata a Eugenio Montale, a cui sono state versate 8000 £ - riteniamo che il lavoro non sia mai stato iniziato)

75 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato. 76 Ibidem. 77 Ibidem.

71 Lawrence - Epistolario (Affidata a Salvatore Rosati, a cui sono state versate £ 10000. La prima metà del lavoro dovrebbe essere termina- ta. I diritti però sono stati acquistati da Bompiani)78.

La succitata presentazione della collana «Mondi e destini», dunque, dimostra in prima istanza che il ruolo di Bazlen all’interno delle Nuove Edizioni Ivrea non fu soltanto quello, di per sé significativo, di consu- lente editoriale, ma anche quello ben più rilevante, in quanto peraltro mai più da lui assunto, di direttore di collana: se si presta attenzione poi al tipo di titoli che vengono proposti, le osservazioni che è possibile fare in proposito diventano molteplici. Come si è già osservato nel primo capitolo del presente lavoro, infatti, su Bazlen e su molti altri intellettuali triestini del suo tempo giocò un ruolo importante l’in- fluenza di correnti culturali, spesso tra loro interconnesse, quali la psi- canalisi e alcune componenti della cultura ebraica nella loro formula- zione mitteleuropea: entità che, sul piano letterario, si traducevano nella predilezione per il genere autobiografico, o comunque per una forte componente personale e, per così dire, reale nell’opera. L’autobiografia, infatti, è

il genere letterario che, per il suo stesso contenuto, esprime meglio la confusione fra autore e persona, confusione sulla quale è fonda- ta tutta la pratica e la problematica della letteratura occidentale a partire dalla fine del XVIII secolo79.

Si è anche già visto come il problema del rapporto dell’autore con la propria opera abbia trovato una formulazione personale e peculiare negli scritti teorici di Roberto Bazlen, quantomeno da un punto di Il genere autobiografico in vista generale e non applicato ad un genere specifico: con la collana Mondi e Destini. «Mondi e destini» si assiste invece a una sua possibile risoluzione sul piano della pratica editoriale, attraverso la predilezione per il genere autobiografico, e di conseguenza per i racconti di vita altrui che da esso emergono. Se si considera poi che da molti Bazlen è considerato come «una sorta di pontefice massimo della cultura post e anti idealistica»80, la sua attenzione per l’autobiografia può essere considerata anche

78 Ibidem. 79 Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, traduzione di Franca Santini, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 35. 80 Alberto Cavaglion, Trieste vicina e lontana, in «Millelibri», a. 7, n. 68, ottobre 1993, p. 54. 72 come una componente non irrilevante di questa posizione. In Italia, infatti, «l’autobiografismo confessato non è mai stato praticato [...] con la furia che altre letterature vi hanno portata»81, così che è facile com- prendere perché «una delle novità maggiori di un movimento come quello de “la Voce”»82 si possa rintracciare nell’«aver dato buona coscienza alla descrizione del proprio Io, anche se spesso le tradizioni formali, il culto della “bella figura” e della “bella pagina” hanno gua- stato i risultati»83. In effetti, la scarsa frequenza dell’autobiografia nella produzione letteraria italiana trova una spiegazione, fra l’altro, nell’«ostilità idealista»84 nei suoi confronti.

In opposizione a tutte le forme di finzione, la biografia e l’autobio- grafia sono testi referenziali; [...] esse pretendono di aggiungere un’informazione a una “realtà” esterna al testo, dunque sottomet- tendosi a una prova di verifica. Il loro scopo non è la semplice verosimiglianza, ma la somiglianza al vero85.

L’autobiografia, dunque, è un genere caratterizzato da un forte legame con il reale, con la “vita” di cui Bazlen cercava un’espressione sincera sulla pagina letteraria: ma questo aspetto si trova ad essere in stridente contrasto con una concezione estetica, come è quella di e dei molti critici che hanno seguito il suo pensiero, che affer- ma con forza la necessità dell’autonomia dell’arte. Con questa defini- zione, Croce afferma la doverosa immunità dell’arte da atteggiamenti eteronomi, cioè rivolti ad altro che non sia «intuizione lirica, dove il secondo termine [...] sta, appunto, a specificare la peculiarita dell’intui- zione»86. Poco spazio, dunque, è lasciato all’esperienza, a quell’autobio- grafia che Bazlen così definisce: «come, nel momento in cui scrivo, credo mi si presenti di averlo vissuto»87. La vocazione empirica era infatti per Bazlen una componente fondamentale dei fattori di interes- se di un’opera letteraria: ed è proprio questa caratteristica che Croce pone come peculiare della «letteratura» in confronto alla «poesia»: il primo termine, comunque, non ha un «significato negativo, giacché

81 Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana cit., p. 291. 82 Ibidem. 83 Ibidem. 84 Ivi, p. 290. 85 Philippe Lejeune, Il patto autobiografico cit., p. 38. 86 Ernesto Paolozzi, L’estetica di Benedetto Croce, Napoli, Guida, 2002, p. 21. 87 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 208.

73 designa un ruolo»88, ma tale ruolo è appunto quello del «non poetico, dell’empirico»89. Anche in ragione della propria adesione al reale, l’autobiografia si pone inoltre come «genere»90, peculiare nel suo definirsi «meno attraverso gli elementi formali di cui è costituito, che attraverso il “contratto di let- tura”»91: quest’ultimo consisterebbe cioè in uno specifico «patto auto- biografico», improntato, come si è visto, sulla realtà e per molti aspet- ti alternativo al patto di lettura che sottosta ad un’opera di finzione. Anche questo aspetto non sembra poter trovare d’accordo l’estetica crociana, che faceva della riconsiderazione dei generi letterari in chia- ve per lo più negativa una componente della propria «teoria liberatrice dell’attività artistica»92 e delineava, inoltre, una stretta connessione fra il contenuto e la forma, considerando la seconda come diretta espres- sione del primo. Bazlen non può certo essere ridotto a un cultore del contenuto, né tantomeno etichettato come un promotore della lettera- tura di genere (si pensi ad esempio a quanto scrive in una lettera del 1952 a Sergio Solmi, dove la fantascienza è denotata come «penosa- mente cattiva letteratura, [...] legata ad un livello culturale di terzo ordi- ne»93): ma, alla luce di quanto visto finora, si possono comprendere le ragioni del suo interesse per gli autori «boicottati sia dal fascismo, sia da un certo tipo di crocianesimo, che era poi una di quelle ideologie abbastanza imperanti»94, e che secondo lui intorpidiva la curiosità verso il nuovo dei letterati e dei lettori italiani. Tale pensiero «si era saldato, per così dire, con gli interessi dominanti di Adriano [Olivetti]»95, il quale dunque compensò, accogliendo le sue proposte, il fatto che Bazlen «ogni tanto faceva un po’ il consulente di qualche editore ma tutti gli editori avevano paura delle sue idee perché erano intempestive»96. Di questa intempestivita sarà una prova il rifiuto che negli anni Cinquanta la casa editrice Einaudi avrebbe opposto alle

88 Ernesto Paolozzi, L’estetica di Benedetto Croce cit., p. 29. 89 Ivi, p. 28. 90 Philippe Lejeune, Il patto autobiografico cit., p. 6. 91 Ibidem. 92 Ernesto Paolozzi, L’estetica di Benedetto Croce cit., p. 66. 93 Lettera di Roberto Bazlen a Sergio Solmi, 19 novembre 1952, in Roberto Bazlen, Scritti cit. p. 280. 94 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 95 Foà, pag. 3. 96 Ibidem.

74 proposte, da parte di Bazlen, circa il varo di diverse collane, spesso caratterizzate da una forte presenza del genere autobiografico (aspet- to, quest’ultimo, sul quale si avrà occasione di tornare). Ulteriore indice di un interesse per l’autobiografia consapevole e per così dire sistematizzato da parte di Bazlen è il fatto che, come per i Saggi, le opere proposte per la collana «Mondi e destini» mostrino ele- menti di interconnessione che vanno al di là dell’appartenenza al gene- re. Pertinenti a quelli che si sono visti essere i suggerimenti per la col- lana dei Saggi, ad esempio, sono la biografia di Naropa, monaco bud- Le biografie di Naropa e dista del XII secolo, e l’autobiografia di Santa Teresa d’Avila. santa Teresa d'Avila Allo stesso modo, la presenza fra le proposte di Bazlen di The house of exile di Nora Waln testimonia il suo interesse per il mondo orientale, questa volta visto con gli occhi di una donna americana che nel 1933 ha pubblicato il resoconto del proprio viaggio in Cina. Il nome del tra- duttore, Fabrizio Onofri (citato anche per la traduzione di Smara, reso- conto di viaggio ad opera di Michel Vieuchange), permette peraltro di osservare il “metodo” adottato da Bazlen per ottemperare al proprio dovere di selezione di traduttori e collaboratori per le Nuove Edizioni Ivrea: egli cioè prediligeva evidentemente la scelta di persone note, o meglio amiche, ed è questo un atteggiamento che rimarrà invariato La scelta dei traduttori. negli anni a venire. Fra i due, infatti, vi era un rapporto di «reciproco, appassionato interesse»97 ed amicizia, tanto che Onofri, in uno dei per- sonaggi principali del suo romanzo Manoscritto98, adombrò la figura del- l’amico triestino. Viceversa, alla fine degli anni Cinquanta sarà ancora Bazlen a cercare di aiutarlo, proponendo a Paolo Boringhieri99 di farsi editore della rivista «Tempi moderni», di cui Onofri era stato fondato- re nel 1957. Si può spiegare nello stesso modo la significativa presen- za del nome di Eugenio Montale come traduttore delle memorie del- l’infanzia passata in Argentina di William Henry Hudson, immaginan- do inoltre che sia iniziata qui la consuetudine di Montale con questo autore, del quale tradurrà il romanzo Green mansions100. Infine, si noti

97 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 125. 98 Sebastiano Carpi [pseudonimo di Fabrizio Onofri], Manoscritto, Torino, Einaudi, 1948. 99 Testimonianza di questo episodio, sul quale si tornerà in seguito, resta nel carteggio fra Roberto Bazlen e Paolo Boringhieri, la cui lettura è stata gentilmente concessa dall’editore Bollati Boringhieri. 100 William Henry Hudson, La vita della foresta, traduzione di Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 1987. La pubblicazione della traduzione montaliana, apparsa nella collana «Scrittori tradotti da scrit-

75 ancora fra i nomi dei traduttori, qui nel caso dell’Autobiografia di Santa Teresa D’Avila, il nome di Weiss, dunque, molto probabilmente, dello psicanalista freudiano con il quale, soprattutto in questi anni, Bazlen era in stretto contatto. Per quanto riguarda gli altri titoli di cui Bazlen raccomanda la pubbli- cazione per la collana «Mondi e destini», colpisce il peso che rispetto all’insieme hanno gli autori provenienti dall’ambito mitteleuropeo, o comunque di lingua tedesca. Come si è già evidenziato, infatti, con essi, e con la loro pratica del genere dell’autobiografia, egli aveva avuto sin da giovane particolare familiarità, avendone assorbito gli stimoli attra- verso l’ambiente culturale nel quale era cresciuto ed avendo la possibi- lità di leggerli in lingua originale. Si può allora facilmente comprende- re la presenza di veri e propri scrittori, per esempio Rilke, Goethe e Schiller, ma anche di personaggi provenienti da altri ambienti, come nel caso di Metternich e della nobile ungherese Romola Nijnski: pre- senze, queste ultime, che si possono giustificare anche con l’ambigua posizione del genere autobiografico rispetto al campo propriamente letterario. Ed è forse per questa stessa ragione che molte delle opere catalogate come «scritti autobiografici»101 consistono in realtà di reso- conti di viaggio (quindi potenzialmente ascrivibili al genere dell’odepo- rica) o raccolte di lettere: rimane comunque il fatto che, pur non trat- tandosi di testi autobiografici a tutti gli effetti, la quota di “realtà”, di esperienza vissuta da un soggetto che si configura prima come perso- na che come autore, e in questi testi molto elevata, e costituisce per Bazlen uno dei loro maggiori fattori di interesse. Si è infatti visto nel primo capitolo come proprio Rilke102 e Goethe siano indicati, nelle Note senza testo, come le due opposte polarità, a cavallo fra Ottocento e Novecento, del modo di rapportarsi al problema del rapporto artista- opera. Resta peraltro da osservare, ed è questo un aspetto caratteristico del- l’operato editoriale di Bazlen, che agli autori da lui ritenuti di maggio-

tori», è dunque posteriore alla morte del poeta. 101 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato. 102 A proposito di Rilke, si segnala che il suo epistolario, insieme alle Elegie duinesi e ai Sonetti ad Orfeo, verra acquistato nel luglio del 1946 dalla casa editrice Cederna. Per la parziale consultazione dell’ar- chivio di quest’ultima si ringrazia Gianni Antonini.

76 re interesse egli riserverà una sorta di “fedeltà” sul piano editoriale: è infatti frequente il ritornare delle medesime proposte a diversi editori, nella speranza prima o poi di ottenerne la pubblicazione. Per fare un primo significativo esempio dell’attaccamento di Bazlen nei confronti dei “suoi” autori, le Lettere a un giovane poeta e le Lettere a una giovane signo- ra verranno riproposte da Adelphi, nella medesima traduzione di Leone Traverso segnalata nel catalogo delle Nuove Edizioni Ivrea: la pubblicazione da parte della casa editrice milanese risale al 1980, dun- que quasi quarant’anni dopo il progetto di Ivrea e soprattutto quindi- ci anni dopo la morte di Bazlen. Non sono però, questi, tempi che debbano stupire, dal momento che sono in molti a sottolineare che Foà e Bazlen a partire dai primi anni Sessanta «prepararono lunghi elenchi di titoli»103, come si è visto spesso tratti dal lavoro svolto in passato presso altre case editrici: ma «alcuni di quei primitivi proget- ti, ancora non realizzati, lo saranno negli anni successivi»104 alla fonda- zione della casa milanese. Di Goethe, uno dei massimi autori in lin- gua tedesca, Bazlen invece consiglia ad Einaudi, nel 1953, una biogra- fia. In una lettera a Foà, infatti, egli riferisce dell’opera di «Heinrich Meier: Goethe, leben und werk [Goethe, vita e opera], di cui m’han detto cose che mi convincono. Poiché avete fatto un libro su Shakespeare, perché no»105. Risulta quasi scontato notare, a questo proposito, il fatto che Bazlen resti incuriosito non da un’opera di cri- tica su Goethe, o da una possibile riedizione dei suoi scritti, ma da un testo che consiste nella ricostruzione della vita dello scrittore. Anche nel caso del nome di Lawrence, uno degli autori che, come si è visto, Stuparich citava fra le letture innovative proposte da Bazlen all’am- biente culturale di Trieste106, si assiste ad una serie di successive pro- poste nelle lettere indirizzate nel tempo alle varie case editrici: all’Epistolario proposto alle Nuove Edizioni Ivrea seguirà infatti il suggerimento, nel 1962 ad Einaudi, della pubblicazione di una biogra- fia. Il succedersi delle proposte di Bazlen relative a Lawrence e Goethe, dunque, procede su binari paralleli: a una prima segnalazione di volu- mi di lettere, infatti, Bazlen fa seguire, presso altre case editrici, la pro-

103 Giovanni Mariotti, L’oracolo di Adelphi cit., p. 156. 104 Ibidem. 105 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 10 aprile 1953. 106 Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi cit., p. 15.

77 posta di ricostruzioni biografiche, forse a immaginario completamen- to degli epistolari. Quel che conta, di fatto, è che non si tratta mai del- l’opera letteraria dei due autori, la quale forse per Bazlen non si sareb- be caratterizzata per essere «vivissima»107, come invece è per lui una biografia. Si veda infatti come si articola, a proposito di Lawrence, la proposta di Bazlen:

D.H. Lawrence: a complete biography: biografia dei due Lawrence108, scritta da centinaia di persone che li hanno conosciu- ti. Escluso farla completa, tre volumi, in tutto circa duemila pagi- ne. Ma pare sia vivissima – pensa se potrebbe interessare una ridu- zione109.

La biografia di D. H. Il destinatario della segnalazione è in questo caso Daniele Ponchiroli, Lawrence viene proposta a succeduto a Luciano Foà nel ruolo di corrispondente di Bazlen presso Daniele Ponchiroli, succes- Einaudi: Foà, infatti, aveva già da un anno abbandonato il proprio sore di Foà all’Einaudi. posto di lavoro a Torino per trasferirsi a Milano, dove nel giugno del 1962 avrebbe fondato la casa editrice Adelphi. A questo proposito, è indicativo che una delle prime opzioni di pubblicazione richieste da Adelphi all’Agenzia Letteraria Internazionale sia stata, appunto nel luglio del 1962, proprio quella per le Lettere di Lawrence110: testimo- nianza, questa, quantomeno dell’auspicio di realizzare i progetti di pubblicazione che Bazlen aveva per le Nuove Edizioni Ivrea. L’esempio forse più rilevante, fra le opere afferenti al «fondo Olivetti», della caparbietà con la quale Bazlen accompagnava i propri autori pre- diletti, o comunque ritenuti validi, alla pubblicazione è però quello di Il caso di Father and Son di Father and son di Edmund Gosse: un’opera che esula, come nel caso di Edmund Gosse. Lawrence, dall’ambito mitteleuropeo, essendo Gosse uno scrittore e giornalista inglese, e da quello dell’autobiografia intesa in senso stret- to, dal momento che il libro è catalogabile come romanzo autobiogra- fico. La prefazione firmata dall’autore, infatti, chiarisce preliminarmen-

107 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, foglio di «segnala- zioni» indirizzato da Roberto Bazlen a Daniele Ponchiroli, gennaio 1962. 108 Bazlen si riferisce qui, probabilmente, a uno dei due fratelli maggiori dello scrittore inglese, Ernest o George Lawrence. 109 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, foglio di «segnala- zioni» indirizzato da Roberto Bazlen a Daniele Ponchiroli, gennaio 1962. 110 Si veda a questo proposito: Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1962, b. 12A, fasc. 7 (corrispondenza Adelphi Edizioni), Adelphi Edizioni a Linder, Milano, 18 luglio 1962.

78 te quanto segue: «in un’epoca come la nostra111, in cui la narrativa assu- me forme così fantasiose e tuttavia plausibili, è forse necessario avver- La biografia come documento. tire che la seguente narrazione - [...] - è, in tutte le sue parti, scrupolo- samente veritiera»112, e si pone dunque come «documento»113. Non è quin- di la presenza di una forma di finzione ciò che permette di avvicinare questo libro al genere del romanzo, ma forse il fatto che, per ammis- sione dello stesso autore, ci sono aspetti, per esempio i nomi dei per- sonaggi, «in cui ci si è scostati dalla pura verità»114, e il tono generale del testo è indicato dallo stesso Gosse come oscillante fra due categorie che hanno molto di letterario, ovvero il «comico»115 ed il «tragico»116. Due categorie, peraltro, rispetto alle quali Bazlen era sensibile, dal momento che di esse parla in uno degli aforismi delle Note senza testo: «il tragico è ancora più subalterno del comico»117. Nella scelta di questo titolo si può dunque forse vedere un anello di congiunzione fra i testi proposti che si possono considerare eminente- mente non letterari e quelli dove si può invece rilevare anche un aspet- to di seppur moderata finzione. Questa ipotesi, suffragata dal fatto che alla collana «Mondi e destini» segua, nel «fondo Olivetti», una «Collana Letteraria» sempre diretta da Bazlen, trova un riscontro anche sul piano della teoria letteraria. Sulla base della necessità di «distinguere soprattutto il romanzo autobiografico dall’autobiografia»118, infatti, è stato indagato il rapporto, che non si sa quanto consciamente Bazlen ripercorre nelle sue proposte per le Nuove Edizioni Ivrea, fra i due generi, intesi come rappresentanti rispettivamente di una scrittura di verità e di una di finzione:

Non si tratta [...] di sapere se è più vera l’autobiografia o il roman- zo. Né l’una, né l’altro; all’autobiografia mancheranno la comples- sità, l’ambiguità, ecc., al romanzo l’esattezza; si tratterebbe dunque dell’una più l’altro? Piuttosto, dell’una in rapporto all’altro119.

111 La prefazione risale al settembre del 1907, data della prima edizione del libro. 112 Edmund Gosse, Padre e figlio, traduzione di Bruno Fonzi, Milano, Adelphi, 1965, p. 3. 113 Ibidem. 114 Ivi, p. 4. 115 Ibidem. 116 Ibidem. 117 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 188. 118 Philippe Lejeune, Il patto autobiografico cit., p. 38. 119 Ivi, p. 46.

79 Per quanto riguarda invece il percorso editoriale che concretamente, e suo malgrado, Bazlen farà compiere a Father and son di Edmund Gosse, Father and Son presso F.lli Bocca, Boringhieri e dal carteggio con Erich Linder risulta che nel 1954 egli ne acquisterà i Adelphi diritti di traduzione, per proporlo rispettivamente, sempre negli anni Cinquanta, alle case editrici Bocca e Boringhieri: l’ultima tappa di que- sto lungo percorso sarà la pubblicazione, come secondo titolo della «Biblioteca Adelphi», nel 1965. Si avrà modo, in seguito, di tornare più approfonditamente sui ripetuti tentativi da parte di Bazlen per ottene- re la pubblicazione di Father and son: è però interessante evidenziare, in questa sede, il fatto che nei primi tre titoli120 pubblicati dalla «Biblioteca Adelphi» si possano vedere

tre opere rare che, nel loro insieme, esprimono il mondo interiore di Bazlen, ne traducono lo spirito e il gusto come perfetto testa- mento spirituale di chi, fino alla fine, si attenne al dovere di funge- re da ponte, da veicolo di cultura121.

La pubblicazione di questi testi come si è visto avvenne a partire dal 1965, quindi appena dopo la morte di Bazlen. Ma si può presupporre che egli accolse il progetto con uno spirito diverso da quello che era sot- tostato alle prime proposte di quelle stesse pubblicazioni, “invecchiate” ormai di vent’anni. Quest’ultimo aspetto è sottilmente evidenziato da Luciano Foà nell’intervista firmata da Domenico Porzio, nel momento in cui, parlando della fondazione di Adelphi, egli afferma che

mettere subito sul piatto una grossa impresa è stata una cosa che è stata fatta anche se Bazlen non era del tutto d’accordo. [...] la posi- zione di Bazlen era che questa casa editrice nasceva in ritardo in confronto a tutto quello che lui aveva accumulato in non so quan- ti anni di letture... in cinquant’anni122.

Una constatazione, questa, che si trova corredata dall’osservazione di Roberto Calasso, il quale nella seconda parte dell’intervista risponde

120 Oltre a Padre e figlio, si fa qui riferimento a L’altra parte di Alfred Kubin e Manoscritto trovato a Saragozza del polacco Jan Potocki. 121 Aurelia Gruber Benco, Ispirata a Roberto Bazlen l’eccezionale Biblioteca Adelphi, in «Umana», n. 6-10, giugno-settembre 1965, p. 34. 122 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d.

80 insieme a Foà alle domande di Porzio. Calasso infatti evidenzia il fatto che «in realtà nel ’62 [Bazlen] era in anticipo su oggi. Cioè lui vedeva delle cose come già bruciate [...], [cose che] non erano state percepite prima e che lui aveva già percepito»123.

2.2.3 La «Collana Letteraria».

Come si è accennato nel precedente paragrafo, la presenza nel pro- gramma delle Nuove Edizioni Ivrea di «opere biografiche e autobio- grafiche in cui si riflettevano quelle che [Bazlen] chiamava “vite esem- plari” nei campi più diversi»124, e che potrebbero essere considerate come il segno di un rifiuto in toto delle potenzialità della letteratura nella rappresentazione del reale, trova un contrappunto nella presenza, nello stesso programma, di una «Collana Letteraria». Essa è indicata come «a cura di Roberto Bazlen»125 e può essere dunque considerata come il primo esempio di una serie di libri dalle «caratteristiche comu- ni»126, riflettenti la posizione del loro curatore rispetto «ai modelli let- terari, o ai dibattiti culturali, o alle riflessioni filosofiche»127 del periodo in cui essi vengono proposti. Si vedano allora i titoli che si trovano compresi nella collezione:

Collana Letteraria (a cura di Roberto Bazlen) La Collana letteraria curata Hopkins - Poesie (traduzione prof. Augusto Guidi) da Bazlen. Hofmannsthal - Saggi (oppure Lettera a Lord Chandos ed altri saggi) (traduzione Leone Traverso) Hofmannsthal - Andreas (diritti: sono in corso le trattative; comun- que, il libro può e deve essere pubblicato subito perché è in prepa- razione presso altri editori i quali non posseggono i diritti. Traduzione: Gabriella Bemporad). Rilke - Elegie duinesi (traduzione: Leone Traverso).

123 Ibidem. 124 Foà, pag. 3. 125 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato. 126 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale, Napoli, Liguori, 2007, p. 79. 127 Ibidem.

81 Claudel - Presence et prophetie (traduzione: ). Mirò - Figure della passione del signore (traduzione: Mario Socrate). Kierkegaard - La ripresa (traduzione: Angela Zucconi). Rilke - Sonetti ad Orfeo (traduzione: eravamo in trattative per rileva- re quella di Prati). Alain - Entretiens avec le sculpteur. (tradotto a cura di Umberto Morra, cui fu corrisposto un compenso di £ 1500 (manoscritto rivenduto da Sergio Solmi). Si è incaricato un amico residente a Parigi di trattenere i diritti). Ball - Cristianesimo bizantino (tradotto dalla prof. Luisa de Col; cui fu corrisposto un compenso di £ 5400. non si poté acquistare i diritti a causa del divieto della propaganda germanica; l’editore ci assicurò un diritto di priorità per la propagazione del contratto a guerra finita). Raby - Poeti latini del trecento (affidata al prof. Arrigo Levasti, a cui sono state versate £. 2500. Il libro dovrebbe essere in gran parte tradotto. I diritti devono essere acquistati in Inghilterra). Buber - Storie chassidiche (affidata a Marcella Ravà a cui sono state affidate £. 5000. Il lavoro dev’essere pronto per un terzo. I diritti devono essere trattati in Palestina)128.

Ad un primo sguardo ai titoli sopra elencati, non sembra inopportuno ipotizzare che nel caso della «Collana Letteraria» Bazlen abbia privile- giato la propria tendenza all’asistematicità, alla scelta dei testi fra le discipline e i campi più disparati. Non risulta immediato, infatti, rin- tracciare quelle «caratteristiche comuni» che, solitamente, dovrebbero congiungere i diversi titoli proposti all’interno di una stessa collana: disparati sono i generi proposti, dalla poesia, alla saggistica, alla narra- tiva, e le provenienze degli autori, mai italiani ma varianti al loro inter- no fra l’onnipresente Austria, l’Inghilterra, la Francia, infine la Spagna. A questo proposito, può stupire ad esempio la presenza di Gerard Manley Hopkins, poeta inglese la cui opera si colloca nella seconda metà dell’Ottocento, ma scoperto dalla critica solo il secolo successi- vo: profondamente estraneo, comunque, agli altri due autori europei di una certa notorietà presenti nell’elenco, quali sono Rilke e Hofmannsthal. Può però forse aver avuto rilevanza, ai fini della scelta di Bazlen, il fatto che Hopkins, attraverso una serie di innovazioni rit-

128 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato.

82 miche ed espressive di grande forza simbolica, abbia rinnovato consi- derevolmente il codice poetico inglese, anticipando sviluppi, per esem- pio il verso libero, appartenenti alla poesia del Novecento. Più facil- mente spiegabile è invece la presenza nel programma della «Collana Rilke e Hofmannsthal. Letteraria» di Rilke e Hofmannsthal, considerati «autori tipicamente “bazleniani”»129, forse perché entrambi austriaci ed operanti nei primi decenni del Novecento (tanto che i due furono personalmente in con- tatto, come dimostrano le lettere che si scrissero). A proposito di Rilke, si assiste al completamento della proposta che era stata iniziata per la collana «Mondi e destini»: Bazlen infatti accosta alla produzione epi- stolare del poeta austriaco quella più caratteristica, ovvero appunto i lavori poetici. La scelta dei titoli, poi, risulta guidata da una certa con- sapevolezza, visto che le Elegie duinesi possono essere considerate fra le raccolte più rilevanti della cultura mitteleuropea, e che nell’insieme delle opere di Rilke si pongono in significativa contiguità stilistica e contenutistica con l’altra raccolta proposta da Bazlen alle Nuove Edizioni Ivrea, ovvero i Sonetti ad Orfeo. Per quanto riguarda invece il caso di Hofmannsthal, può fare riflettere il fatto che di questo autore Bazlen proponga la pubblicazione di Andreas130, dunque un romanzo volutamente incompiuto e per questo assimilabile al già considerato «gusto [di Bazlen] per quel “non finito”, tanto più rivelatore, per lui delle opere finite e costruite»131 (il quale come si è visto si esplica fra l’altro nell’incompiutezza dello stesso Capitano di lungo corso). Merita qualche considerazione, inoltre, la proposta della Lettera di Lord Chandos (che Bazlen indica erroneamente come Lettera a Lord Chandos), un testo datato 1902 e costituito dall’immaginaria lettera che in età eli- sabettiana un giovane scrive al filosofo empirista Francesco Bacone per motivare la propria scelta di abbandono dell’attività letteraria. «Il mio caso, in breve, è questo: ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento»132: da passi come que- sto si comprende perché, nella sua Introduzione, Claudio Magris defini- sca la Lettera di Lord Chandos come

129 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 79. 130 Si segnala che il romanzo è indicato da Bazlen con un titolo abbreviato. Quello completo corri- sponde a Andreas oder Die Vereinigten [Andrea o i ricongiunti]. 131 Sergio Solmi, Nota, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 270. 132 Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, traduzione di Marga Vidusso Feriani, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1985, p. 43.

83 un manifesto del deliquio della parola e del naufragio dell’io nel con- vulso e indistinto fluire delle cose non più nominabili né dominabi- li dal linguaggio; in tal senso il racconto è la geniale denuncia di un’esemplare condizione novecentesca133.

Significativo è poi il fatto che gli elementi appena citati furono tanto sentiti da Hofmannsthal da spingerlo ad abbandonare quasi definitiva- mente la scrittura letteraria in favore di quella per il teatro: un’arte, dunque, che non si serve unicamente del linguaggio verbale per rap- presentare la realtà. Alla luce di quanto si è visto circa il personale pen- siero di Bazlen sul problematico rapporto fra l’autore, la “vita”, e la sua possibilità di resa sulla pagina, si può allora comprendere senza diffi- colta la fascinazione che un’opera come quella di Hofmannsthal dove- I traduttori per Rilke e va esercitare su di lui. Hofmannsthal: Gabriella Significativi sono poi, a proposito di Rilke e Hofmannsthal, i tradutto- Bemporad e Leone ri segnalati: si tratta infatti per il primo del già citato Leone Traverso, Traverso. per il secondo invece di Gabriella Bemporad, con la quale negli anni Bazlen avrà innumerevoli contatti. Figlia del noto editore fiorentino, la Bemporad sarà infatti più volte traduttrice per Einaudi grazie alla sua mediazione. A legarla a Bazlen, in effetti, dovevano essere l’amicizia e i diversi interessi condivisi, come quello, in prima istanza, per la psicoa- nalisi junghiana praticata da Ernest Bernhard, alla quale entrambi si sottoposero (senza contare il fatto che proprio lei sarà la traduttrice dell’unica opera di Bernhard, Mitobiografia, pubblicata, si può dire non a caso, da Adelphi134). Entrambi inoltre dovevano nutrire interesse appunto per le opere di Hofmannsthal, oggetto della tesi di laurea della Bemporad, e che lei si troverà a tradurre più volte per Adelphi, a par- tire dagli anni Settanta. Interessante è il fatto che fra le traduzioni di Hofmannsthal svolte da Gabriella Bemporad per Adelphi figuri pro- prio l’Andreas: si tratta dunque di una traduzione che risale agli anni delle Nuove Edizioni Ivrea, e che, dopo essere stata pubblicata dalla casa editrice Cederna, ricompare appunto presso Adelphi. È infine da notare che già nel 1956 Bazlen stesso, scrivendo a Linder a proposito di una sua traduzione di un’opera di Hofmannsthal, indicasse la

133 Claudio Magris, Introduzione, in Lettera di Lord Chandos cit., pp. 6-7. 134 Ernst Bernhard, Mitobiografia, a cura di Hélène Erba-Tissot, traduzione di Gabriella Bemporad, Milano, Adelphi, 1969.

84 Bemporad come possibile revisore della traduzione: «le sue ultime tra- duzioni di Hofmannsthal» riferisce infatti Bazlen «sono fatte con 135 molto geschmakt [gusto]» . I testi di Paul Claudel e Si possono invece probabilmente motivare con gli interessi di Bazlen Gabriel Mirò. in ambito religioso i testi di due autori di area mediterranea, quali sono il francese Paul Claudel e lo spagnolo Gabriel Mirò, entrambi operan- ti, in quella che sembra essere quasi una costante degli autori proposti per la «Collana Letteraria», e per molte delle future proposte da parte di Bazlen, nella prima metà del Novecento. Si tratta, in entrambi i casi, di opere di prosa e saggistica religiosa: nel caso dell’opera del primo dei Presenza e Profezia di Claudel due autori, Presence et prophetie [Presenza e profezia] è interessante notare presso le Edizioni di Comunità. che essa sarà pubblicata nel 1947 dalle Edizioni di Comunità, nell’au- torevole traduzione di Sandro Penna che si trova indicata sin dal pro- gramma che si sta citando in questa sede. La pubblicazione del saggio di Claudel presso le Edizioni di Comunità, unitamente al fatto che né Claudel né Miro si troveranno più citati nelle successive lettere edito- riali di Bazlen, può dunque far immaginare che probabilmente la pub- blicazione di questo testo nella «Collana Letteraria» corrispondesse più al desiderio di Olivetti che a quello di Bazlen, o forse che egli non ne ritenesse imprescindibile la pubblicazione se non nell’ambito del pro- gramma delle Nuove Edizioni Ivrea. Rimane comunque il fatto che, al di là della responsabilità personale nella proposta dell’uno o dell’altro titolo, o delle ipotesi che si possono fare per motivarne la presenza nel «fondo Olivetti», alla «Collana Letteraria» prevista per le Nuove Edizioni Ivrea doveva sottostare la volontà di proporre un percorso tematico attinente alla Storia della religioni: lo dimostra anche, fra l’al- tro, un titolo come Cristianesimo bizantino, ovvero il saggio datato 1923 di Hugo Ball, artista e scrittore che fu tra i fondatori del dadaismo. Una ragione simile a quella appena addotta si può citare inoltre per la pre- senza nel programma del filosofo della religione e sociologo austriaco Le Storie chassidiche di Martin Martin Buber: la scelta da parte di Bazlen delle sue Storie chassidiche può Buber. essere forse spiegata con la vicinanza che, come si è più volte posto in evidenza, egli aveva con la cultura ebraica. È inoltre importante sotto- lineare il fatto che nel caso delle Storie chassidiche si sia in presenza di un

135 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 47 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 29 gennaio 1956.

85 testo di ambito narrativo, o comunque genericamente letterario: un aspetto, questo, che appare scontato per un testo la cui pubblicazione è prevista in una collana denotata specificatamente come «letteraria», ma che tale non è se si considera che, delle dodici opere proposte, solo la metà non è costituita da titoli di saggistica (si pensi infatti, oltre ai titoli non narrativi già messi in evidenza, a Entretiens [interviste] avec le sculpteur del filosofo francese Alain). Questa anomalia si può forse spiegare con la concezione, per molti aspetti sfiduciata, che Bazlen aveva dell’opera letteraria in sé stessa, nonché con l’interesse che egli nutriva, e continuerà a nutrire negli anni, per opere che esulino da tale ambito: ma non è forse improprio ipotizzare, nell’elaborazione del- l’elenco di titoli che dovevano comporre la collezione letteraria, anche la presenza di voci diverse da quella di Bazlen, sebbene tale aspetto sia molto difficilmente dimostrabile. Un caso che può forse suggerire come nella scelta delle opere presentate nella «Collana Letteraria» siano intervenute più figure è quello dell’opera di Kierkegaard La L’opera di Kierkgaard e le traduzioni di Angela ripresa: un testo filosofico-psicologico che significativamente compa- Zucconi. rirà, nel 1954, nel catalogo delle Edizioni di Comunità136, come si è visto rispondenti all’idea editoriale di Adriano Olivetti. Kierkegaard, peraltro, compare con altri titoli sia nel programma delle Nuove Edizioni Ivrea, sia in quello delle Edizioni di Comunità, dunque appunto all’interno di gruppi di testi sui quali si può immaginare Bazlen non avesse grande influenza (anche se la collocazione del filo- sofo danese all’interno dell’esistenzialismo, dunque di una filosofia molto lontana dall’idealismo, doveva presumibilmente trovare Bazlen favorevole alla pubblicazione). D’altro canto, può tuttavia far riflet- tere il nome indicato per la traduzione di La ripresa: si tratta di Angela Zucconi, la quale collaborerà più volte nel corso degli anni con Adriano Olivetti (essendo fra l’altro stata incaricata della traduzione di «tutto Kierkegaard»137) ma che, come risulta dal carteggio di Bazlen con l’Agenzia Letteraria Internazionale, ebbe appunto molti contat- ti anche con quest’ultimo. Si può forse allora immaginare che il ruolo di Bazlen nella diffusione delle opere di Kierkegaard non sia stato decisivo, ma forse nemmeno del tutto irrilevante. In primo luogo,

136 Søren Kierkegaard, La ripresa. Tentativo di psicologia sperimentale di Constantin Constantius, Milano, Edizioni di Comunità,1954. 137 Valerio Ochetto, Adriano Olivetti industriale e utopista, Ivrea, Cossavella Editore, 2000, p. 108.

86 infatti, sarà proprio lui a segnalare il lavoro della traduttrice all’Agenzia Letteraria Internazionale, come si può leggere in una lettera indirizza- ta a Luciano Foà del marzo del 1948: in tale occasione, Bazlen segna- la che la Zucconi «sta lavorando sulla traduzione di Kierkegaard»138, ed aggiunge che sarebbe disposta ad eseguire traduzioni anche da altre lingue scandinave. Ed ancora, due mesi dopo (il 3 maggio 1948) Bazlen cercherà di “sistemare” la traduzione, appunto ad opera della Zucconi, delle lettere fra il filosofo e la sua compagna Regina Olsen: ad essere segnalata a Foà è la casa editrice Cederna come possibile acquirente della traduzione, anche se il progetto non andrà in porto perché, scrive Foà il 12 maggio, «il vento della crisi libraria soffia vio- lentissimo e anche il team Kierkegaard - Olsen non riesce facilmente a farsi strada»139. Infine interessante, anche alla luce di quanto visto nel precedente capitolo circa il rapporto di Bazlen con il sistema scolasti- co italiano, e quanto egli scrive a Foà nel maggio del 1949: «ho propo- Una proposta di antologia sto alla Zucconi di fare un’antologia antiscolastica (cioè di brani di per Angela Zucconi. romanzi, autobiografie, ed eventualmente dipinti e fotografie (da film) sugli orrori della scuola vom altertum zur gegenwart [dall’antichità ai giorni nostri]»140. Una lettera, quest’ultima, che permette di intravedere una consuetudine fra Bazlen e la traduttrice, che consentiva loro anche l’elaborazione di comuni progetti editoriali. Ancora, nel passo appena citato si può vedere nuovamente la predilezione di Bazlen per il gene- re autobiografico, il quale secondo lui, evidentemente, avrebbe dovu- to trovare uno spazio non solo nelle pubblicazioni della «grande casa editrice»141 che avrebbe dovuto aprire «agli italiani quegli orizzonti che il provincialismo fascista più che vietare aveva fatto smarrire»142, ma anche nei programmi scolastici.

138 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 11 marzo 1948. 139 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 12 maggio 1948. 140 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1949, b. 2, fasc. 24 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 18 maggio 1949. 141 Valerio Ochetto, Adriano Olivetti industriale e utopista cit., p. 106. 142 Ibidem.

87 2.3 I rapporti di Bazlen con l’Agenzia Letteraria Internazionale.

2.3.1 Il carteggio con Luciano Foà: 1946-1949.

Come si è visto nel primo paragrafo del presente capitolo, poco dopo la nascita della sua amicizia con Luciano Foà, Bazlen intraprese un rapporto di collaborazione, oltre che con le già viste citate case edi- Roberto Bazlen, Luciano trici, con l’Agenzia Letteraria Internazionale. Foà infatti era tornato Foà e Erich Linder. a lavorarvi, dopo l’esperienza di Ivrea e gli anni passati in Svizzera fino alla fine della guerra, avvalendosi allora dell’aiuto del giovane Erich Linder, già collaboratore di Olivetti. Negli anni del dopoguer- ra, i due dunque lavoreranno insieme nella gestione dell’Agenzia Letteraria Internazionale, fino a che Foà si trasferirà a Torino per assumere il ruolo di segretario generale presso Einaudi e Linder si sostituirà completamente a lui all’interno dell’Agenzia. L’avvicendarsi di personaggi nell’Agenzia Letteraria Internazionale trova riscontro nel mutare dei destinatari delle lettere che ad essa Bazlen indirizzerà negli anni (comunque non sempre specificati, dun- que difficili da determinare con certezza), e che si trovano archiviate nel fondo Erich Linder, presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano: gli elementi di interesse di questo ampio car- teggio sono molteplici. In esso, infatti, si può in primo luogo vedere riflesso il tipo di atteggiamento con il quale Bazlen si rivolgeva alle persone con cui di volta in volta si trovava a lavorare: non il freddo rapporto professionale, nel quale, come si vede per esempio rileg- gendo le lettere a Solaria, Bazlen si trovava a disagio, ma il colloquio con una persona amica ed intima, in questo caso rispettivamente Luciano Foà ed Erich Linder. Non è infrequente, infatti, intravede- re nelle lettere all’Agenzia le ragioni che talora guidavano Bazlen nelle sue scelte, vale a dire gusti personali, passioni ed idiosincrasie: se infatti, e per ragioni che si sono già viste, «leggere sembra per Bobi preludere quasi a una forma di compartecipazione attiva con l’opera»143, si comprende facilmente come l’«irradiare le proprie sco- perte agli amici [divenga] un suo, personalissimo, mezzo di espres- sione»144. Inoltre, al di là di questa «peculiare attitudine a consigliare

143 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 34. 144 Ibidem.

88 libri [...] ai suoi amici»145, il carteggio con l’Agenzia Letteraria Internazionale, per la sua posizione super partes rispetto alle varie case editrici, illumina le relazioni di Bazlen, spesso altrimenti per lo più avvolte nell’ombra, con alcune di esse. In conseguenza di questo aspet- to, il carteggio che dal 1946 al 1949 Bazlen intrattiene con l’amico Foà tratta prevalentemente, ma non esclusivamente, della ridistribuzione del «mitico fondo NEI - [...] cui attingeranno massicciamente gli edi- tori serviti dal suo genio [di Bazlen] nel Dopoguerra»146: lo conferma il fatto che la prima lettera del carteggio, indirizzata da Foà a Bazlen l’8 dicembre 1946, chiami in causa, come si è già accennato, «i libri di Astrolabio»147 e «Jung delle N.E.I»148.

2.3.2 La pubblicazione delle opere di Freud e Jung in Italia e la colla- borazione di Bazlen con Astrolabio.

Adriano Olivetti vuole pub- 149 «Jung nelle NEI: l’ultima parola di Adriano è che li vuole fare tutti lui» : blicare tutto Jung ma il è questa una delle prima frasi che si legge nel carteggio fra Roberto progetto non si realizza. Bazlen e Luciano Foà, come rappresentante dell’Ali (sigla per Agenzia Letteraria Internazionale). Nella sua semplicità, l’affermazione appena citata permette di ipotizzare che, almeno in un primo momento, Adriano Olivetti fosse rimasto fermo nella propria volontà di pubblicare, ora con i tipi delle Edizioni di Comunità, l’intera opera di Jung. Il progetto, però, per le ragioni che si sono già viste, non trovò realizzazione, così che il pensiero junghiano venne introdotto in Italia attraverso le pubblicazioni di diverse case editrici, prima fra tutte Astrolabio. Vale la pena di soffer- marsi brevemente sulle origini e i caratteri della casa editrice romana, con la quale Bazlen intrattenne un rapporto di intensa collaborazione durato dieci anni. Astrolabio si presenta per la prima volta nel panorama edito- riale italiano nel 1944, con la pubblicazione del Dizionario filosofico di Voltaire. A guidare la casa editrice è Mario Meschini Ubaldini, «uno dei

145 Ivi, p. 59. 146 Dario Biagi, Il dio di carta: vita di Erich Linder cit., p. 44. 147 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1946, b. 1, fasc. 28 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 8 dicembre 1946. 148 Ibidem. 149 Ibidem.

89 precursori della diffusione della psicologia e psicanalisi in Italia»150: in effetti, nel giro di due anni Astrolabio comincia a costruire «una propria identità»151, fondata sull’esplorazione di quel «campo editoriale non sfrut- tato»152 in Italia, costituito appunto dalle opere fondamentali della psica- nalisi freudiana e della psicologia analitica junghiana. In tal senso, Bazlen dà con il proprio lavoro un contributo decisivo, che si può vedere rifles- so anche nel suo scambio di lettere con Foà. Bazlen e Ernst Bernhard a Roma. Trasferitosi a Roma nel 1939, Bazlen nello stesso anno conosce Ernst Bernhard, allievo di Jung e personalità di estrema importanza nella diffu- sione del suo metodo in Italia: un metodo al quale Bazlen si sottopose tempestivamente per combattere i propri «gravi disturbi nevrotici»153, che l’analisi freudiana intrapresa anni prima con Weiss non era riuscita a risol- vere. Quello che interessa in questa sede, però, è che fra Bazlen e Bernhard si instaurò una relazione di tipo non soltanto terapeutico, ma anche professionale: nel 1945, infatti, lo psicanalista junghiano sarà pre- sentato proprio da Bazlen a Ubaldini con conseguenze non indifferenti, visto che nella «Presentazione della casa editrice»154 si afferma che «l’in- La nascita di “Psiche e contro decisivo per l’orientamento della neonata Astrolabio fu quello con Coscienza” di Astrolabio. Ernst Bernhard». In effetti, nel 1947 nacque la famosa «Psiche e Coscienza», ovvero «una collana di testi e documenti per lo studio della psicologia del profondo, diretta dal dott. Ernst Bernhard», come si legge nella quarta di copertina dei libri pubblicati. È importante specificare, però, che lo psicanalista non operò da solo nella direzione di «Psiche e Coscienza». Una «comunicazione personale di Ubaldini»155 ad Aldo Carotenuto, infatti, sottolinea che, accanto a Bernhard, Bazlen fu «di grandissimo aiuto per il lancio della collana»156: ovvero, più precisamente, egli «agisce da tramite fra [Ubaldini] e Berhard»157 anche dopo aver pre- sentato i due, ed in tal modo, «grazie a una diversa congiunzione di fat- tori storico-editoriali, [...] riesce ad attuare quanto rimasto precedente-

150 Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia, 1945-2003, Torino, Einaudi, 2004, p. 195. 151 Domenico Lombrassa, Un pesarese coraggioso e geniale: Mario Meschini Ubaldini, in I cento anni del “Mamiani”: 1984-1994, Pesaro, Cassa di Risparmio di Pesaro, 1986, p. 123. 152 Ivi, p. 124. 153 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 123. 154 Presentazione della Casa Editrice Astrolabio Ubaldini Editore, documento gentilmente concesso da Francesca Proto e Francesco Gana, Direttore Editoriale della Casa Editrice. 155 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 71. 156 Ibidem. 157 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 60.

90 mente incompiuto»158. Il riferimento è evidentemente alle opere proposte da Bazlen per le Nuove Edizioni Ivrea, come fra le altre cose il suo car- teggio con l’Agenzia Letteraria Internazionale contribuisce a mettere in evidenza. Nella lettera che si è citata in apertura di questo paragrafo, infatti, appare evidente che Foà si rivolga all’amico triestino come al mediatore dei rap- porti fra l’ALI e Astrolabio. Foà infatti, dopo aver parlato dei titoli jun- ghiani, così scrive poco sotto: «Astrolabio avrebbe interesse di pubblica- re le opere di Freud? Noi ci siamo messi in contatto con i proprietari dei diritti a Londra»159. Rispetto a tale questione Foà torna nei primi giorni del marzo 1947, quando comunica a Bazlen che l’editore inglese in pos- sesso dei diritti delle opere di Freud cederebbe ad Astrolabio «Neue folge [Nuova serie] e Vorlesungen [Lezioni]»160, a patto che «a rivedere i testi sia Weiss»161. Foà, dunque, svolge il proprio lavoro di agente letterario mediando fra i detentori dei diritti delle opere di Freud e Astrolabio, alla quale egli si rivolge nella persona di Bazlen. Un altro segno della collabo- razione di quest’ultimo con la casa editrice si trova poi nel fatto che nella quarta di copertina della Introduzione allo studio della psicanalisi (Prima serie La traduzione di Bazlen de e Nuova Serie), dunque l’opera a cui Foà si riferisce, è L’interpretazione L'interpretazione dei sogni per dei sogni, il traduttore indicato è proprio Roberto Bazlen. I volumi ven- Astrolabio. gono di fatto immessi nel mercato editoriale nel 1948, ma da quanto si sta vedendo in questa sede emerge chiaramente il fatto che il progetto era in elaborazione già da almeno un anno. Riguardo alla prima opera, poi, la nota che riferisce che la «traduzione italiana [è] interamente rive- duta [...] da Edoardo Weiss» indica che le richieste dell’ALI sono state fatte rispettare da Bazlen. Tali traduzioni, che vedono i fondamenti del pensiero freudiano «pubblicati in Italia per la prima volta»162, inducono a riflettere sul fatto che, se certamente Bazlen a partire dalla fine degli anni Trenta si trovò in maggiore consonanza con Jung, che egli concepiva come «il figlio ribelle»163 del fondatore della psicanalisi, questo non gli faceva dimenticare la massima importanza della conoscenza, in Italia,

158 Ibidem. 159 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1946, b. 1, fasc. 28 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 8 dicembre 1946. 160 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1947, b. 1, fasc. 25 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 10 marzo 1947. 161 Ibidem. 162 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 60. 163 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 125.

91 anche delle opere di Freud. Bazlen stesso espone chiaramente il proprio pensiero a riguardo, in un breve intervento, intitolato «Freud», pubblica- to nella raccolta dei suoi Scritti.

Nell’ambito della cultura occidentale, Freud ha scoperto una nuova dimensione dell’uomo. E tutte le riserve che si possono fare sull’ope- ra di Freud, e sono molte, non intaccano la sostanzialità definitiva di questa sua grande scoperta164.

Questa l’apertura dell’articolo di Bazlen, scritto intorno al 1947 «per il settimanale Omnibus»165, è corrispondente, forse, alla necessità di presen- tare la nascente collana «Psiche e Coscienza». Nelle parole appena citate si scorge preliminarmente tanto la stima provata nei confronti del «patriarca onnipotente»166 Freud, quanto anche la velata dichiarazione della necessità di aprirsi a nuovi stimoli. Una necessità che in Bazlen pog- gia su una consapevolezza profonda, acquisita negli anni, che gli permet- te di argomentare con una certa incisività quanto dichiarato in apertura del proprio intervento. Bazlen infatti, nello sviluppo del proprio discor- so, avverte a proposito del fondatore della psicoanalisi che «genialità implica unilateralità, implica monomania»167, così che la scoperta da parte di Freud di «un mondo nuovo»168 ha portato lui e coloro i quali hanno seguito il suo pensiero «a voler spiegare il tutto da una sola visuale par- ziale»169. Sono queste le ragioni che portano Bazlen ad affermare che Freud «benché morto dieci anni or sono [nel 1939], è uno scienziato del diciannovesimo secolo»170: una definizione, questa, che non pare essere del tutto lusinghiera. Rimane il fatto che, nonostante la dichiarata diffi- denza nei confronti dello scienziato viennese, Bazlen dimostra, con un’onestà intellettuale degna di nota, di comprendere il fatto che se «la meccanicità delle sue applicazioni dà fastidio, [se] le sue deduzioni sono diventate piatte e meschine»171, ciò è dovuto anche al fatto che il pensie- ro di Freud «è già ovvio, quotidiano, corrente, banale»: laddove però que-

164 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 259. 165 Così si trova indicato dai curatori del volume degli Scritti di Bazlen. Cfr. Ivi, p. 256, nota 1. 166 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 125. 167 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 259. 168 Ibidem. 169 Ibidem. 170 Ivi, p. 260. 171 Ibidem.

92 sto avviene anche perché «la prova della grandezza di certe scoperte sta proprio nel fatto che diventano subito “naturali”»172. Nel suo breve arti- colo, insomma, Bazlen pone con ordine tutte le premesse necessarie a presentare il proprio lavoro di traduzione, nonché enuncia una serie di “avvertimenti al lettore”, che lo accompagnino nella lettura di Freud. In perfetta coerenza col suo essere «marginale per vocazione»173, peraltro, Bazlen sottolinea la portata dell’operazione editoriale, ma non l’artefice di essa, vale a dire appunto se stesso:

Un volume di Freud, Lezioni introduttive allo studio della psicanalisi, inizia una nuova collezione, vasta e attuale, di testi e documenti psicologi- ci. Il volume riunisce una ristampa corretta della prima traduzione italiana della prima serie di conferenze e la serie nuova, finora mai pubblicata in volume. C’è, in Italia, una generazione che da anni non trova nelle librerie quest’opera classica. Freud, nell’ultimo periodo del fascismo, era proibito. Per questa generazione, il volume sarà una rivelazione174.

Tornando ora alla già citata lettera di Foà del 10 marzo 1947, in essa egli accenna a due questioni che permettono nuove osservazioni circa l’ope- rato di Bazlen nella fine degli anni Quaranta: finito di trattare la questio- ne della cessione dei diritti di Freud, infatti, Foà riferisce a Bazlen di non avere ancora ricevuto risposta «da Pantheon per Einführung in das Wesen der Mythologie di Jung-Kerenyi»175. Il titolo citato in tedesco da Foà corri- sponde a null’altro che ai Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, un’opera che come si è visto Bazlen aveva proposto per la collana dei Saggi delle Nuove Edizioni Ivrea: il fatto che Foà tenga aggiornato l’ami- co circa lo stato dei diritti dell’opera porta a pensare che Bazlen fosse interessato alla questione, magari considerando la possibilità di una pub- blicazione del saggio presso Astrolabio. D’altronde, che il suo lavoro presso la casa editrice romana fosse anche motivato dalla volontà di non disperdere le idee concepite per il progetto di Ivrea è confermato da un altro elemento. Bazlen infatti, attraverso Foà, insiste in quel periodo

172 Ibidem. 173 Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia, 1945-2003 cit., p. 195. 174 Roberto Bazlen, Scritti cit., pp. 260-261. 175 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1947, b. 1, fasc. 25 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 10 marzo 1947.

93 anche perché ad Astrolabio siano cedute altre due opere di Jung, ovve- ro La realtà dell’anima e Tipi psicologici, come emerge dal passo che segue: «Adriano manderà direttamente a Bernhard quella parte di Wirklicheit der Seele [Le realtà dell’anima] che è già tradotta. Credo che se Bernhard Il caso Jung: Astrolabio insistesse un po’, Adriano gli cederebbe anche Psychologische Typen [Tipi pubblicherà I Tipi psicologici psicologici]»176. Di fatto, delle tre opere junghiane appena citate, solo le tradotto da Cesare Musatti ultime due verranno pubblicate da Astrolabio, rispettivamente i Tipi e La Realtà dell’anima. I prolegomeni invece sono psicologici nel 1948, nella traduzione di Cesare Musatti risalente ai tempi pubblicati da Einaudi nella di Ivrea, e La realtà dell’anima l’anno successivo. I Prolegomeni, invece, Collana Viola diretta da troveranno spazio nel 1948 nella neonata «collana viola» einaudiana, De Martino e Pavese. diretta da Cesare Pavese ed Ernesto De Martino, sulla quale si avrà modo di soffermarsi in seguito. Il ruolo di Bazlen all’interno di Astrolabio, però, non si limita alla già di per sé rilevante traduzione di due opere di Freud. Fra il 1947 e il 1949, infatti, egli attende anche alla traduzione di testi junghiani: del 1947, infat- ti, è la traduzione di Psicologia ed educazione, il secondo volume pubblicato nella collana «Psiche e coscienza», mentre di due anni successiva e la pub- blicazione di Psicologia ed alchimia. Ed è forse anche lo stretto contatto con questo «difficile e nello stesso tempo sconcertante lavoro di Jung»177 che avvicinò Bazlen ad alcuni di quelli che sarebbero diventati i suoi interes- si primari, e che fin da ora trovano un’applicazione editoriale: ovvero, come si è già in parte visto, i

testi mitologici, religiosi, alchemici e astrologici di qualsiasi civiltà, dato che in tali opere, per così dire “impersonali”, si manifestava, secondo Jung, la psiche collettiva, così centrale nel pensiero dell’ana- lista svizzero178.

Si comprende allora la presenza nel programma di «Psiche e Coscienza», accanto a Psicologia ed alchimia di Jung, di testi come l’I Ching, con la prefa- zione dello stesso Jung, e dell’opera di Lily Abbegg In Asia si pensa diver- samente, un’opera che Bazlen chiede personalmente all’ALI di poter pren- dere in visione, il 18 dicembre 1947. A ulteriore testimonianza dell’impe-

176 Ibidem. 177 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 127. 178 Si cita ancora dalla Presentazione della Casa Editrice Astrolabio Ubaldini Editore, gentilmente con- cessa dalla casa editrice stessa, nella quale appunto si fa riferimento all’impegno di Bazlen anche nella collana «Civilta dell’Oriente».

94 gno di Bazlen in questo senso si può citare il suo contributo, rispetto al quale però non è stato possibile trovare documentazione, alla collana Il contributo di Bazlen alla «Civiltà dell’Oriente», diretta da Emilio Servadio, la quale appunto «anno- Collana Civiltà dell’Oriente vera le opere fondamentali per la conoscenza del buddismo Zen e tibe- di Servadio. tano, oltre che della religione induista»179. Del rapporto di Bazlen con il proprio occasionale lavoro di traduttore resta peraltro una traccia nel carteggio con Foà. In una lettera del 24 otto- bre 1948, infatti, Bazlen così si rivolge all’amico, confidando nei suoi innumerevoli contatti con le case editrici italiane: «intanto, se ti è possibi- le, pescami, faute de mieux [in mancanza di meglio], una traduzione paga- ta non troppo male»180. All’occorrenza, dunque, Bazlen cercava lavori di traduzione per una semplice ragione economica: ma ciò non toglie che questa attività probabilmente avesse per lui anche un senso diverso, se si considera che le traduzioni svolte per Astrolabio porteranno tutte il suo nome (cosa che non avverrà per quelle einaudiane) e che egli doveva guardare al suo lavoro con un certo orgoglio, come dimostra il passo immediatamente successivo a quello appena citato: «Sembra che io tradu- ca bene. Debenedetti ha dichiarato che ho fatto l’unica traduzione italia- na decente di un libro scientifico - ma ci metto molto tempo, e lascio depositare molto a lungo, per cui vivere con traduzioni mi sarebbe impossibile»181. Rimane però il fatto che, come in tutti i rapporti profes- sionali che Bazlen ebbe nel corso della sua vita, non sia possibile vedere in lui una posizione unilaterale rispetto a quanto svolto. Da un lato, infat- ti, c’è la soddisfazione appena vista, e la fiducia in se stesso che portava Bazlen a proporsi per nuove traduzioni. Dall’altro lato, però, egli non rinuncia mai a sminuire il proprio lavoro, spesso a rinnegarlo. In una let- tera del dicembre 1948, per esempio, egli chiarisce a Foà che «la traduzio- ne approvata da Giacomino [Debenedetti] è quella di Psicologia ed edu- cazione di Jung»182. Ma l’approvazione di Debenedetti non deve valere poi La traduzione di Psicologia e educazione di Jung. tanto agli occhi di Bazlen, se egli subito di seguito, a preventiva giustifica- zione di eventuali imperfezioni, specifica che essa è stata «pubblicata

179 Domenico Lombrassa, Un pesarese coraggioso e geniale: Mario Meschini Ubaldini cit., p. 126. 180 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 24 ottobre 1948. 181 Ibidem. 182 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 11 dicembre 1948.

95 senza le mie correzioni con sbagli di stampa and so on da Meschini»183. Alla luce di quanto appena visto, allora, il fatto che Bazlen abbia voluto, nel caso di Astrolabio, riconoscere la “paternità” delle proprie traduzioni si accompagna comunque ad un aspetto non positivo, dal momento che, oltre a sminuire la traduzione junghiana, egli rinnega anche quella freu- diana. Nella stessa lettera dell’11 dicembre 1948, infatti, Bazlen prosegue Le vicende della traduzione con parole di risentimento nei confronti di Mario Meschini Ubaldini, poi- de L'interpretazione dei sogni di Freud. ché egli «ha messo il mio nome sulla traduzione del sogno di Freud che uscirà adesso»184: nemmeno di essa, dunque, Bazlen era del tutto soddi- sfatto. Un ulteriore elemento di riflessione circa l’enigmatico atteggia- mento rispetto al proprio lavoro è fornito dalla nota che si può leggere nell’edizione Boringhieri dell’opera di Freud (la casa editrice torinese, infatti, acquisterà i diritti di molte delle opere di Astrolabio, negli anni Cinquanta). Nel presentare una traduzione che non è quella di Bazlen, infatti, l’editore specifica quanto segue, mettendo sì in luce le imperfezio- ni che in effetti intaccavano il lavoro, ma anche rilevando i suoi aspetti di valore e dunque, contemporaneamente, l’atteggiamento autodenigratorio del traduttore:

si è tenuta presente, oltre alla traduzione inglese, [...], la tradu- zione italiana di Roberto Bazlen [...], spesso imperfetta – il tra- duttore non desiderava che gli venisse attribuita, trattandosi, diceva, solo di un primo abbozzo cui venne data dignità di edi- zione a sua insaputa – ma talvolta illuminante185.

2.3.3 L’attività di Bazlen alla fine degli anni Quaranta.

Gli attriti con Ubaldini circa i tempi e le modalità delle consegne delle tra- duzioni (che si verificarono, a quanto si legge dal carteggio con Foà, anche a proposito di Psicologia e alchimia) portarono Bazlen, sin dalla lette- ra dell’11 dicembre 1948, ad affermare che «naturalmente, molto più di

183 Ibidem. 184 Ibidem. 185 Sigmund Freud, Opere 1899. L'interpretazione dei sogni, traduzione di Elvio Facchinelli e Herma Trettl Facchinelli, Torino, Bollati Boringhieri, 1966, p. XXII. 96 una traduzione mi interesserebbe un po’ di aria nuova»186. Sembra dun- La rottura con Astrolabio que che molto prima dell’effettiva rottura con Astrolabio, avvenuta nel nel 1955. 1955, Bazlen sentisse la necessità di estendere la rete delle proprie colla- borazioni: e un grande aiuto in questo senso, prima e dopo l’esplicita richiesta che si è appena citata, gli proveniva dal contatto costante con l’Agenzia Letteraria Internazionale, e con l’amico Luciano Foà in partico- Il ruolo di Foà e dell’ALI. lare. Attraverso questa relazione, infatti, Bazlen poté distribuire libri e consigli presso diverse case editrici, condizionandone l’operato in manie- ra più significativa di quanto si possa pensare se si guarda alle sole colla- borazioni “ufficiali”. Al di là di esse, infatti, dal carteggio emerge la mol- teplicità di ruoli che Bazlen assolveva per l’Ali, ed attraverso essa, per la Le attività di Bazlen per cultura italiana in generale: a questo proposito, si può citare uno dei temi l’ALI sono molteplici e non ricorrenti nel carteggio, ovvero l’attività di Bazlen non solo nel campo solo di riferimento dell’editoria libraria. Il 2 novembre 1947, infatti, Foà chiede all’amico di all’editoria. prendere contatti con il mondo cinematografico romano, nell’eventuale prospettiva che l’Ali inizi a lavorare in questo ambito. La ragione di ciò, peraltro, risiede anche nel fatto che, come avverte Foà in una sua lettera, «con gli editori italiani, credo proprio che non ci sia nulla da fare per te. Sono tutti in grave crisi»187. Alla proposta di Foà, Bazlen risponderà fra l’altro una quindicina di giorni dopo, offrendosi prevalentemente come lettore di opere che possano eventualmente fungere da soggetti per film: «passato questo periodo di lavoro, vedrò di farmi segnalare commedie che forse potrebbero andare - tu intanto mandami tutto quello che hai»188. Ed in effetti, da questa lettera in poi, di tanto in tanto comparirà la segna- lazione di qualche commedia, ma anche di testi come i Viceré di De Roberto, per un’eventuale trasposizione cinematografica; il tutto, peraltro, accompagnato da diverse sollecitazioni, come nella lettera del 18 dicem- bre 1947, dove si legge «mandami soggetti, libri, eccetera [...], ed anche commedie. Ho bisogno di guadagnare qualche soldo»189. Un’altra attività non immediatamente connessa al lavoro per case editrici riguarda la scrit-

186 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 11 dicembre 1948. 187 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1947, b. 1, fasc. 25 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 2 novembre 1947. 188 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1947, b. 1, fasc. 25 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 16 novembre 1947. 189 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1947, b. 1, fasc. 25 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 18 dicembre 1947.

97 tura di articoli o brevi saggi, che Foà propone a Bazlen e rispetto alla Un altro compito che quale quest’ultimo si mostra sfuggente come si è ormai visto più volte. Il Bazlen assolve per guada- gnare è quello di scrivere 4 febbraio 1948, evidentemente rispondendo a una proposta di Foà in tal articoli o saggi. Ne propone senso, Bazlen si pronuncia circa l’opportunità di un proprio saggio su uno su Svevo a Solaria. Svevo. L’atteggiamento, però, ricalca quello visto a proposito delle pro- poste da parte di «Solaria»:

saggio biografico Svevo: volentieri, qualora la famiglia abbia materia- le sufficiente e me lo mandi a Roma. Stabilirmi a Trieste per ricerche ecc. non mi conviene. Non salterebbe fuori un saggio molto lungo, [...]. Comunque, tra biografia e – più importante della biografia – ambientazione, salteranno fuori – se non mi viene un attacco di epi- grammaticità – almeno dieci pagine190.

Come per le eventualità di collaborazioni per «Solaria», dunque, Bazlen sembra aperto alla possibilità di scrivere un saggio, ma ben presto lascia anche emergere la propria ritrosia, confermata anche dal fatto che esso non verrà pubblicato. Un mese dopo la lettera appena citata, infatti, egli promette a Foà di rimettersi a lavorare al saggio su Svevo, evidentemen- te nel frattempo accantonato, con queste parole:

devo mettere a posto quelle moltissime faccende che sono stato costretto a trascurare [...], poi vedo se mi riuscirà nuovamente di lede- re il mio pudore, e di trascrivere e correggere quell’abbozzo che ti ho mostrato qui a Roma191.

L’avversione all’idea di pubblicare, di uscire dall’ombra nella quale amava avvolgersi, emerge ancora in una lettera del maggio 1948, dove a questo suo atteggiamento Bazlen non allude ironicamente come nel caso del- l’ipotetico saggio su Svevo, ma fa aperto riferimento. Infatti, di fronte all’opportunità di recensire un volume di diari di Leo Longanesi, Bazlen, discussa l’eventuale struttura dell’articolo, così conclude: «del resto, Montale s’è stabilito a Milano, redattore del Corriere della Sera. Se hai occasione di vederlo, discuti pure con lui il problema dei miei articoli,

190 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 4 febbraio 1948. 191 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 11 marzo 1948. 98 insistendo naturalmente sul mio più stretto incognito»192. Più fattivo appare invece l’atteggiamento di Bazlen rispetto al lavoro strettamente legato all’ambito dell’editoria libraria. È importante sottoli- neare a questo proposito che la natura della collaborazione con l’Agenzia Letteraria Internazionale gli richiedeva di far fruttare non solo le proprie vastissime conoscenze letterarie, ma anche un tipo di consapevolezza diversa, vale a dire quella circa le dinamiche specifiche dell’editoria italia- na: dunque le strategie degli editori, i diversi tipi di pubblico a cui essi si rivolgevano, le possibilità che un libro aveva di soddisfare le aspettative dei lettori. È evidentemente la considerazione di questi fattori, per esem- pio, che spinge Bazlen a proporre una raccolta di lettere inedite di D’Annunzio, possedute e messe in vendita da «Luciana Walmarin, che fu [sua] amante»193: ma la proposta è rivolta esclusivamente ad editori stranie- ri, perché «in Italia se ne ricava pochissimo»194. Le singole opere che Bazlen di lettera in lettera segnala a Foà, il quale evidentemente poi le distribuisce ai diversi editori, sono numerose: appare tuttavia più interessante cercare di seguire l’articolarsi di una sua proposta organica per alcuni editori, che in alcune sue lettere egli specifica come diretti destinatari delle sue propo- ste. È questo il caso, per fare un primo esempio, delle Edizioni di Le Edizioni di Comunità. Comunità, una realtà alla quale Bazlen poteva guardare con una certa attenzione e consapevolezza, dal momento che essa era figlia di un pro- getto, quello delle Nuove Edizioni Ivrea, nel quale egli aveva avuto un ruolo primario. Olivetti stesso doveva essere memore dell’articolato lavo- ro svolto da Bazlen per le Nuove Edizioni Ivrea, e testimonianza ne è l’esi- stenza di un «accordo», dunque di una nuova forma di collaborazione, fra i due. Ad esso Bazlen fa riferimento in una lettera del 19 gennaio 1949, anche se lo spirito con cui egli sembra collaborare al lavoro di Olivetti non sembra affatto lo stesso che lo aveva guidato nella partecipazione al pro- getto di Ivrea. Bazlen infatti così presenta la situazione: «con Adriano, [...], c’è stato una specie di accordo, che ho dovuto accettare, ma che in parte, naturalmente, mi è peinlich [imbarazzante]»195. Si può forse immaginare

192 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 3 maggio 1948. 193 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 4 aprile 1948. 194 Ibidem. 195 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1949, b. 2, fasc. 24 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 19 gennaio 1949.

99 che le difficoltà che egli percepiva nella sua nuova forma di collaborazio- Il diverso atteggiamento ne con Olivetti fosse dovuta anche alla consapevolezza di un mutato verso le Edizioni di Comunità. clima culturale, e soprattutto ai già considerati cambiamenti negli obietti- vi editoriali di Olivetti stesso: sin da una lettera dell’anno precedente, infatti, Bazlen aveva parlato di alcuni libri «residuati delle n.e.i.»196, defi- nendoli, in un atteggiamento tra il presuntuoso e il paternalistico, «tutti libri che, dopo la seconda guerra mondiale e prima della terza, sono diventati una scocciatura innocente e ben intenzionata, degna di essere pubblicata dalle “Edizioni di Comunità”»197. Oltre a questo però Bazlen specifica con una certa chiarezza le ragioni della propria scarsa convin- zione, dando un quadro esauriente circa la propria posizione rispetto al panorama letterario e culturale di quegli anni.

proprio nelle cose che lo interessano lo posso aiutare molto poco, sia perché, più tempo passa, meno roba [...] decente da segnalare e da pubblicare ci sarà - non credo che possa nascere ancora un’ope- ra letteraria di vera importanza, e quel tanto di positivo che si sta creando e verrà sempre di più creato in Europa, dalla fisica moder- na alla psicologia, e di pensiero in genere, è troppo lontano dagli interessi di Adriano198.

Il pessimismo che si legge in questo passo, peraltro, non toglie l’impegno Le difficoltà a formulare che a dispetto di esso Bazlen mette nel proprio lavoro: ed è questa una una nuova proposta editoriale. costante che caratterizza fortemente il suo modo di operare. Alla difficol- tà di trovare opere che soddisfino Olivetti e il pubblico della sua casa edi- trice, allora, Bazlen risponde proponendo, come si è già visto, un saggio del pensatore svizzero Max Picard, «che, malgrado una certa impazienza che mi provoca qualche volta, è uno dei pochi scrittori di cui si possa rispondere»199. La segnalazione di un autore quale Picard, molto vicino al pensiero cattolico, può peraltro spiegare il riferimento che Bazlen pochi giorni dopo fa al proprio segnalare «libri “religiosi” a Comunità»200. Come autore, anche se con titoli diversi da quelli che Bazlen aveva proposto,

196 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 24 ottobre 1948. . Ibidem. 197 Ibidem. 198 Ibidem. 199 Ibidem. 200 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1949, b. 2, fasc. 24 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 26 gennaio 1949.

100 Picard comparirà nel catalogo delle Edizioni di Comunità: non così, però, avviene nel caso di altri testi, prevalentemente saggi, e di un volume di corrispondenze di Antoine de Saint-Exupery, che Bazlen in diverse lette- re segnala. Riguardo alla «lista di libri tedeschi, che potrebbero interessa- re non soltanto “comunità”»201 e che Bazlen promette di inviare a Foà, I rifiuti di Olivetti. invece, la vaghezza del riferimento non permette una verifica sul catalo- go della casa editrice di Olivetti. Si può ad ogni modo affermare che il nuovo «accordo» con Olivetti non ponesse Bazlen, come era avvenuto per le Nuove Edizioni Ivrea, in una posizione rilevante rispetto alla scel- ta delle opere da pubblicare, ma prevedesse anche una sua attività di tipo più semplicemente redazionale. Il 20 aprile 1949, infatti, in una lettera indirizzata alle Edizioni di Comunità, Bazlen così scrive a proposito di Presagi di un mondo nuovo di Hermann von Keyserling202: «poiché Luciano [Foà] mi ha scritto che avete bisogno urgente delle bozze, ve le rimando oggi stesso, dopo aver letto attentamente soltanto poco più di un centi- naio di pagine»203. Bazlen era dunque evidentemente incaricato di rivede- re il testo: tuttavia è importante sottolineare che oltre allo svolgimento di questo compito egli era tenuto anche ad esprimere un parere sulla sua presentazione, ovvero sui caratteri di quel «patto editoriale»204, che sem- pre «orienta l’atto di lettura»205. Nella sua lettera, infatti, egli continua con- sigliando, per meglio contestualizzarlo, di mettere «bene in rilievo la data nel quale il libro fu pubblicato per la prima volta»206, per poi approfondi- re ulteriormente in che cosa secondo lui dovrebbe consistere un eventua- le testo introduttivo:

se poi si dovesse temere che certe pagine del libro vengano inter- pretate come “filofasciste” [...], fate fare una brevissima introdu- zione da una persona garantitamente antifascista (credo che Solmi la potrebbe fare benissimo: sono problemi e posizioni che lo inte- ressano molto), menzionando nella prefazione che Keyserling era in disgrazia presso il Terzo Reich, che non aveva il permesso di

201 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1949, b. 2, fasc. 24 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 19 gennaio 1949. 202 Hermann Von Keyserlin, Presagi di un mondo nuovo, Milano, Edizioni di Comunità, 1949. 203 Archivio Storico Olivetti, Ivrea, lettera di Roberto Bazlen alle Edizioni di Comunità, Roma, 20 aprile 1949. 204 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 158. 205 Ibidem. 206 Ibidem.

101 pubblicare, che è morto tra vere privazioni nei pressi di Innsbruch – dovrebbe bastare207.

Nel caso del rapporto fra Bazlen e Olivetti, dunque, si può dire che era il primo a indicare i libri a Luciano Foà, il quale ottemperando al proprio dovere di agente letterario li proponeva a sua volta all’editore. Con altre case editrici il caso è leggermente diverso, come si può vedere a proposi- Il rapporto con Guanda. to del caso di Guanda. La casa editrice fondata nel 1932 è segnalata infat- ti, in tutte le biografie di Bazlen, come una di quelle con le quali egli col- laborò: di questa collaborazione, però, non restano che scarsissime trac- ce, la prima delle quali si trova appunto nella lettera del 24 ottobre 1948, che Bazlen scrive a Foà.

Guanda è stato a Roma: è un periodo di secca, e di crisi molto acuta, si trova nuovamente con molti soldi in mano. Vuol fare uni- camente libri di poesia (“la fenice”), libri sui musicisti, e libri per bambini. [...]. M’ha, indirettamente, [...] pregato di scriverti io. Fa’ come meglio credi.

In questo caso, dunque, sembra che il ruolo di Bazlen consista nel pre- sentare un nuovo editore all’Agenzia Letteraria Internazionale, la quale peraltro, sempre attraverso una lettera di Foà, accetterà di buon grado la collaborazione. A quanto si può leggere nel carteggio di Bazlen con l’Agenzia, il suo ruolo in questo ambito sarà limitato, o comunque non documentabile, ma decisivo nel caso della pubblicazione di un libro in particolare: si tratta dell’antologia Poesia dei popoli primitivi di Eckart von Sydow. Con queste parole, infatti, egli lo segnala a Foà: «poesia dei popo- li primitivi [...]: se non l’avevi dato a suo tempo a Einaudi, manda per favore l’esemplare che ti ho dato a Guanda, possibilmente subito»208. In primo luogo, dunque, Bazlen si occupa di fare arrivare il libro all’editore, ricalcando così il ruolo di «scouting»209 che apparterrebbe all’agente lette- rario: come si è visto nel passo della lettera appena citata, infatti, Bazlen è consapevole delle energie che Guanda stava investendo nella collana di

207Archivio Storico Olivetti, Ivrea, lettera di Roberto Bazlen alle Edizioni di Comunità, Roma, 20 aprile 1949. 208 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1949, b. 2, fasc. 24 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 26 maggio 1949. 209 Alberto Cadioli , Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 51.

102 poesia «Fenice», la quale in effetti determina «fin dal 1939 il ruolo e l’im- magine che distingueranno la casa editrice per vari decenni»210, ed eviden- temente per questa ragione decide di segnalare il titolo. Il contributo all’attività di Guanda tuttavia non si limita a questo, visto che nel frontespizio del libro, pubblicato solo nel 1951211, si legge che la «versione», ovvero l’edizione, è «a cura di Roberto Bazlen», mentre più discretamente la traduzione e attribuita a «R.B.». In primo luogo, sembra di vedere che con lo scorrere degli anni la disponibilità di Bazlen a firma- re le proprie traduzioni sia in qualche modo scemata, rispondendo anche alla sua tendenza a «vivere cancellando»212, dal momento che esse si tro- vano firmate nel caso della pubblicazione di Freud e di Jung a partire dal 1947, poi contrassegnate da una sigla, come avviene nel caso della tradu- zione per Guanda che si sta qui considerando, ed infine presentate sotto pseudonimo in tutte le future traduzioni per Einaudi. Al di là di questo aspetto, se l’edizione è presentata come «a cura di Roberto Bazlen» si può ipotizzare che elementi paratestuali quali la presentazione che si legge nel risvolto siano stati da lui scritti, o quantomeno certamente approvati. In effetti, leggendo attentamente questa breve presentazione del testo, non appare improprio rintracciarvi alcune delle “parole chiave” del pensiero letterario-editoriale di Bazlen e degli ambiti culturali dei quali egli parteci- pava. «Per la prima volta in Italia»213: è questo il sintagma d’apertura del- l’introduzione, che richiama al già visto valore, letterario ma evidente- mente anche editoriale, della «primavoltità»214, intesa come l’eccezionalità, il valore aggiunto che il nuovo in sé e per sé costituisce ai fini dell’arric- chimento del pubblico. Pare inutile soffermarsi nuovamente, inoltre, sulla necessita che ormai da anni Bazlen percepiva di un rinnovamento della cultura italiana. Cio che è pubblicato «per la prima volta» consiste poi in «testi in versione limpida e intimamente partecipe, la voce poetica dei popoli al margine della Storia»: il fascino del libro sembra dunque risie- dere nella spontaneità di un «canto naturale», estraneo a quella «prestazio-

210 Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia, 1945-2003, Torino, Einaudi, 2004, p. 117. 211 Poesia dei popoli primitivi: lirica, religiosa, magica e profana, scelta, introduzione e note a cura di Eckart von Sydow, Parma, Guanda, 1951. 212 Così Bazlen descrive il proprio carattere in una lettera a Lucia Rodocanachi, datata 16 agosto 1942. Si veda a questo proposito Giuseppe Marcenaro, Una amica di Montale: vita di Lucia Rodocanachi, Milano, Camunia, 1991, p. 172. 213 Ibidem. Tutte le citazioni che seguono sono tratte dal risvolto di copertina dell’edizione Guanda, del 1951, della Poesia dei popoli primitivi. 214 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 230. 215 Ivi, p. 211.

103 ne»215 in cui Bazlen vedeva imbrigliata l’opera figlia di un «malentendu piccolo borghese»216. Contro questa degenerazione che per lui nasce anche da un’evoluzione storica, egli dunque propende per la produzione poetica di popoli che appunto alla storia sono estranei: una scelta che, peraltro, ha indotto molti a parlare dello stesso Bazlen come un «uomo post-storico, del quale nessun quadro culturale [...] riuscirà a fare giu- stizia»217. Se l’originalità di una pubblicazione che presenti la poesia dei popoli primitivi è indubitabile, resta però il fatto che nello scritto intro- duttivo che si sta qui analizzando l’interesse di questa poesia sia pre- sentato non solo nei suoi intrinsechi caratteri di naturalezza e sempli- cita. Un accento particolare infatti è posto sul fatto che la «nozione del “primitivo”» sia stata oggetto dello studio di «etnologi e psicologi moderni» (gli stessi di cui Bazlen favoriva la pubblicazione in altre case editrici) e che essa abbia aperto «orizzonti alla conoscenza del mito, dell’inconscio»: concetti, questi ultimi, dalla chiara eco junghiana, e, come si è visto, di grande rilievo anche nel pensiero, negli Scritti, e nelle pubblicazioni caldeggiate da Roberto Bazlen. Per quanto riguarda la sua attività editoriale nella seconda metà degli anni Quaranta, resta da segnalare un’altra collaborazione annoverata nelle biografie, ma che ancora una volta non può essere approfondita per mancanza di documenti in proposito. Si tratta della collaborazione con Bompiani, intrapresa probabilmente sin dagli ultimi mesi della guerra. Tramite della conoscenza fu Erich Linder, che nel 1945 lavora- La collaborazione con va presso l’agenzia letteraria dell’editore, e che appunto «si vanta di Bompiani tramite l’amico aver sistemato presso Bompiani l’amico Bazlen»218. In effetti, il 21 mag- Erich Linder. gio 1945 Valentino prende nota a proposito di

Bobi Bazlen. Disposto a una più vasta, anche totale collaborazio- ne: letture, segnalazioni, dirigere una collana. È straordinario. [...]. Cos’è che lo muove e lo chiama? È tutto cultura e si direbbe che non contenga altro dentro di sé. Ma qualche segno avverte che non è vero: forse legge per non pensarci. Si agita sulla sedia come se avesse la coda219.

216 Ibidem. 217 Roberto Calasso, Da un punto vuoto, Introduzione a Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 15. 218 Dario Biagi, Il dio di carta: vita di Erich Linder cit., p. 67. 219 Valentino Bompiani, Vita privata, Milano, Mondadori, 1973, pp. 238-239. 104 Da questo efficace ritratto umano e professionale non è dato di determi- nare in cosa esattamente consistesse il lavoro di Bazlen presso Bompiani, né il carteggio con Foà fornisce informazioni in proposito. Qualche trac- Tracce della collaborazione cia di questo aspetto del percorso professionale di Bazlen resta però nel si trovano nel carteggio con suo carteggio con l’amica Lucia Rodocanachi, alla quale, come farà anche l’amica Lucia Rodocanachi. negli anni della collaborazione con Einaudi, Bazlen si impegnerà a pro- curare lavori e traduzioni. Il 22 giugno 1946, infatti, scrive all’amica che «per ciò che riguarda possibili traduzioni, troppo tardi per autori e libri decenti. Tutti hanno già proposto tutto. Tutti gli editori, compreso Bompiani con cui ho parecchio da fare, sono carichi di libri decenti che vengono smaltiti molto lentamente»220. Bazlen, dunque, sembra coinvol- to dal lavoro per l’editore milanese, ma anche come sua consuetudine guarda ad esso con un certo ostentato distacco, che sembra lo porti a pro- digarsi più per l’amica in cerca di traduzioni che per uno dei propri dato- ri di lavoro. Un mese dopo la lettera appena citata, infatti, Bazlen ancora una volta le raccomanda di «mandarmi i libri di cui mi hai scritto. Se [...] dovessi raccomandarli a Bompiani, farei del mio meglio per farti avere la traduzione»221. Resta da sottolineare che nei frammenti di lettere con Lucia Rodocanachi, riportati nella biografia di lei, Bazlen riporta, oltre a numerosi stati d’animo, immagini, brevi racconti che aiutano molto a comprendere l’uomo222, le ragioni della fine del proprio rapporto con Bompiani, il quale

S’è arenato completamente nelle cose che più mi interessano, ed i pochi romanzi americani che mi manda giustificano che mi metta a vomitare mezz’ora dopo averli ricevuti senza il bisogno di continua- re a leggerli223.

Al di là della differenza di vedute che poteva allontanarlo dall’editore, stupisce di leggere un tale disgusto nei confronti della letteratura ame-

220 Lettera di Roberto Bazlen a Lucia Rodocanachi (Roma, 22 giugno 1946) in Giuseppe Marcenaro, Una amica di Montale: vita di Lucia Rodocanachi cit., pp. 191-192 221 Lettera di Roberto Bazlen a Lucia Rodocanachi, Roma, 31 luglio 1946, in Ivi, p. 192. 222 Si veda un solo esempio, tratto da una lettera del 2 dicembre 1947, in cui Bazlen parla dei pro- pri «molti miti e ricadute, da cui, come ultimo risultato, si distilla un signore stanco con occhiali che in questo momento è seduto davanti a una macchina in via Margutta sette. Sì, cara Lucia, e potrei continuare con questo tono, ma spero ti basti il tono, e che tu non abbia bisogno di varia- zioni per capire la melodia». Cfr. Ibidem. 223 Lettera di Roberto Bazlen a Lucia Rodocanachi, Roma, 9 agosto 1947, in Ibidem.

105 L’avversione di Bazlen nei ricana da parte di un intellettuale tanto aperto all’estero come fu confronti di edeologie e Bazlen. Ma che egli, forse soprattutto negli anni del dopoguerra, correnti culturali italiane. mostrasse una particolare e quasi cieca avversione verso molte ideolo- gie e correnti culturali italiane e non, è facilmente rilevabile dalla defi- nizione, per fare un solo esempio, che in una lettera alla Rodocanachi del gennaio del 1949 Bazlen dà di Ladri di biciclette di De Sica: «il punto L’impietoso commento su più basso nel quale sia caduta l’Italia»224. Una definizione che non si “Ladri di biciclette”. stenta a comprendere, se si considera che già nel 1945 Bazlen scriveva all’amica che «ora che è venuta a mancare la complicità antifascista, è venuto a cadere l’unico legame che avessi con tutta questa brava gente che ha aspettato ventidue anni per fare carriera»225; opinioni come que- ste, peraltro, giustificano forse anche il giudizio positivo che egli dedi- L’elogio del romanzo ca a un romanzo dall’impronta tradizionale come Menzogna e sortilegio di Menzogna e sortilegio della , che gli sembra «il primo romanzo italiano con vera Morante. sostanza scritto dopo la guerra»226.

2.3.4 1948-1949: l’inizio delle consulenze editoriali per Einaudi.

«Facevo da braccio secolare del consigliere-ispiratore Roberto Bazlen»227: così Luciano Foà ricorda, in un’intervista, il tipo di rappor- to che sul piano professionale lo legò all’amico triestino. Guardando allo svolgersi del carteggio durato decenni fra Bazlen e Foà, si com- prendono facilmente le ragioni dell’affermazione appena citata. Il rap- porto di Bazlen con Einaudi, nelle biografie solitamente collocato negli anni Cinquanta, ebbe infatti inizio alla fine degli anni Quaranta, Il lavoro con l’Einaudi e la quando Foà, in quanto agente letterario nella paterna Agenzia prosecuzione del sodalizio Letteraria Internazionale, iniziò a mediare i rapporti fra l’amico triesti- con Foà che divenne no e la casa editrice torinese. Quando poi Foà stesso si trasferirà nel Segretario Generale della casa editrice torinese. capoluogo piemontese, a lui Bazlen continuerà a scrivere; questa volta, però, rivolgendosi non più all’agente letterario, bensì al segretario generale della casa editrice torinese. Tornando al carteggio fra Foà e Bazlen, il primo segnale di un contatto fra quest’ultimo ed Einaudi si

224 Lettera di Roberto Bazlen a Lucia Rodocanachi, Roma, 16 gennaio 1949, in Ivi, p. 193. 225 Lettera di Roberto Bazlen a Lucia Rodocanachi, Roma, 9 settembre 1945, in Ivi, p. 190. 226 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 3 maggio 1948. 227 Roberto Barbolini, Fratelli di carta, in «Panorama», a. XXIII, n. 1, 7 gennaio 1994, p. 92.

106 trova in una lettera del 24 ottobre 1948, nella quale Bazlen così scrive:

A giorni ti rimanderò [...] la White goddess di Graves. E ti scrive- Graves, la prima proposta. rò anche quel tanto che saprò scrivere su questo libro: è un bel pasticcio: l’ho quasi finito, superficialmente, con molto lavoro e molta fatica, e veramente non so che pesci pigliare. Il materiale è molto bello, e sicuramente plausibile (con riserve), ma formulare l’uso che ne ha fatto Graves non è facile. Tenterò di farlo con molta cautela, anche per la posizione ambivalente che Pavese ha nei miei riguardi. Comunque, avere il lettorato di Einaudi (se paga) è una cosa che mi farebbe molto piacere. Sarebbe la meno peggio delle parecchie possibilità di lavoro che cominciano ad offrirmisi in questo momento228.

Bazlen, dunque, si presenta ad Einaudi con la proposta dell’opera di un famoso poeta e saggista, che nel suo La Dea Bianca svolge uno studio sulla mitologia celtica: un ambito, alla luce di quanto si è visto fino ad ora, dal quale era molto incuriosito. Accanto alla segnalazione dell’interesse del testo, però, egli segnala anche le difficoltà che la sua lettura ha compor- tato, ponendo tale aspetto in connessione con «la posizione ambivalente» di Pavese: un fattore, quest’ultimo, che Bazlen sembra considerare come un possibile ostacolo alla propria collaborazione con Einaudi. I timori che si leggono nel passo appena citato si possono ricondurre al lavoro che Pavese con Ernesto De Martino aveva svolto per il varo, alla fine del La Collana Viola di Pavese 1947, della «Collezione di studi etnologici, psicologici e religiosi», detta e De Martino. altrimenti «collana viola». Durante la fase di programmazione della colla- na e di scelta dei titoli che in essa sarebbero dovuti confluire, Pavese si era rivolto ad Erich Linder. In una lettera del 1 ottobre 1947, infatti, così scri- veva: «esce a dicembre la “Collezione di studi etnologici, psicologici e reli- giosi” da me personalmente coccolata [...]. Bisogna che quel briccone di Luciano se ne ricordi, e non ci ripeta lo scherzo di Jung. Smetta di rifor- nire Astrolabio, Ivrea»229. Pavese, dunque, era indispettito dalla cessione delle opere di Jung alle Nuove Edizioni Ivrea e ad Astrolabio, due conte- sti editoriali nei quali Bazlen aveva lavorato con considerevole impegno.

228 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 24 ottobre 1948. 229 Cesare Pavese, Lettere 1945 - 1950, Torino, Einaudi, 1966, p. 175.

107 E che anche lo stesso Bazlen fosse oggetto del suo risentimento è dedu- cibile da un’altra lettera di Pavese, questa volta diretta a Foà, di poco suc- cessiva a quella appena citata:

non parlarmi del fondo Ivrea. È come l’antro di Trofonio. Né di Le diffidenze di Pavese nei Bazlen che voglio lasciare ad Astrolabio. Mandami invece [...] i titoli confronti di Bazlen. che ti paiono buoni e vedremo. Tieni presente che [...] a noi interes- sa la vera e propria etnologia, oppure buona psicanalisi230.

Dalla lettura di questo passo, la diffidenza di Pavese sembra da ricondur- si quasi unicamente a ragioni di concorrenza fra case editrici, dal momen- to che anche lo scrittore, appunto come Bazlen, aveva interesse alla pub- blicazione di Jung e che proprio tale questione sarebbe stata causa di con- trasti fra lui e De Martino: quest’ultimo, infatti, dopo la pubblicazione nella «collana viola» dei Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia e dell’ope- ra, sempre di Jung, L’Io e l’inconscio, avrebbe opposto resistenza al fatto che «la collana [fosse] già connotata nettamente in senso junghiano»231. Ad ogni modo, alle speranze e alle esitazioni di Bazlen Foà risponde pronta- mente pochi giorni dopo la sua lettera del 24 ottobre 1948, accennando a una sorta di “strategia” per introdurre l’amico nella casa editrice di Torino: «aspetto il rapporto sul Graves. Prima di abbordare il problema del “lettorato”, penso sia meglio avviare già dei rapporti. Dopo i primi due o tre libri, entrerò in azione»232. Quest’ultimo suggerimento verrà seguito da Bazlen, il quale infatti, per fare un solo esempio, pochi mesi Le fiabe di Andersen tra- dopo aggiungerà alla proposta di Graves quella relativa alla pubblicazio- dotte da Marcella Rinaldi. ne di una raccolta di fiabe di Andersen.

A proposito di Einaudi, manca in Italia un’edizione completa, o almeno una scelta piuttosto vasta, delle fiabe di Andersen - non esi- stono che edizioni per ragazzi, in traduzioni meno che discrete [...]. Non credi che Einaudi, dopo aver fatto quattro volumi di Mille e una notte potrebbe fare uno o due volumi grossi di Andersen? - anche

230 Ivi, p. 181. Si fa presente, inoltre, che un’interessante ricostruzione delle vicende delle opere di Freud e Jung in Italia si trova nel recente libro di Giulia Boringhieri, Per un umanesimo scientifico, in particolare alle pagine 195-197. Cfr. Giulia Boringhieri, Per un umanesimo scientifico. Storia di libri, di mio padre e di noi, Torino, Einaudi, 2010. 231 Cesare Pavese, Ernesto De Martino, La collana viola: lettere 1945-50, a cura di Pietro Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 30. 232 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 28 ottobre 1948.

108 come opera letteraria e non soltanto come libri per bambini - te lo chiedo perché una mia amica che non conosci e che sa benissimo il danese, ha fatto qualche tentativo di traduzione di Andersen, e par- ticolarmente di quelle fiabe che passavano per intraducibili [...] con un risultato veramente buono233.

Dal passo appena citato, si può vedere nuovamente come, a volte, le pro- poste editoriali che Bazlen formulava nascessero, oltre che dalle sue let- ture, dalla vicinanza con intellettuali, scrittori e soprattutto traduttori che in lui speravano di trovare una via alla pubblicazione. In questo caso a presentargli il proprio lavoro di traduzione delle fiabe di Andersen è Marcella Rinaldi, la quale peraltro nel corso degli anni sarà più volte ripre- sentata da Bazlen, con successo, ad Einaudi. Anche questo specifico caso, nel quale oltre ad una collaboratrice egli suggerisce una particolare for- mula editoriale che renda la letteratura per ragazzi appetibile agli adulti, andrà a buon fine234: anche perché, come si legge dal passo appena cita- to, la Rinaldi trovava in Bazlen, nei mesi a cavallo fra il 1948 e il 1949, un occhio particolarmente attento alle pubblicazioni, dunque ai possibili interessi, di Einaudi. Se dunque dall’esempio citato si può dedurre che Bazlen seguisse il consiglio di Foà relativo alla segnalazione di diversi tito- li ad Einaudi, riguardo alla specifica questione del saggio di Robert Graves, la sua risposta in proposito ripresenta invece l’atteggiamento sfuggente e a tratti sfiduciato che si è visto più volte: anche se, in questo frangente, più che indifferenza sembra di leggere in Bazlen una forte insi- curezza, che sul piano editoriale può essere ricondotta al fatto che egli «fece da consulente per diversi editori [...] senza mai ottenere quei risul- tati che si riprometteva»235. È dunque, forse, questa frustrazione delle sue aspettative che lo spinge a scrivere a Foà:

ti accludo una estremamente povera e poco impegnativa pagina su Graves236. Visto che passo per matto, non volevo prendere troppo le

233 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 2, fasc. 24 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 19 gennaio 1949. 234 Si veda infatti, qualche anno dopo, l.uscita nei «Millenni» di Hans Christian Andersen, Fiabe, traduzione di Alda Manghi e Marcella Rinaldi, Torino, Einaudi, 1954. 235 Intervento di Luciano Foà al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85 cit., p. 15. 236 Di questa scheda di lettura purtroppo non resta traccia nel carteggio fra Bazlen e Foà.

109 difese di quell’altro matto furioso che è Graves. Vedi se può bastare in caso contrario dimmi come devo fare237.

A queste parole Bazlen aggiunge a mano: «e consegna il foglio unica- Il successo di White Goddes mente se sei convinto che vada bene»238, ulteriore indice dello scrupo- di Graves muoverà Pavese a lo con il quale egli si apprestava a presentare una propria proposta edi- richiedere altri pareri di toriale a Pavese e alla casa editrice Einaudi. Dalla risposta di Foà che si Bazlen. può leggere nel carteggio, emerge tuttavia anche il fatto che la preoc- cupazione di Bazlen fosse, almeno riguardo alla questione della White Goddess di Graves, in buona parte ingiustificata, dal momento che il 20 novembre Foà scrive all’amico: «Pavese, dopo aver letto il tuo rappor- to, ci scrive di aver un desiderio matto di rileggere il Graves. Spediscimelo, per favore, al più presto»239. Si suppone dunque che la lettera editoriale di Bazlen non fosse così poco convincente, dal momento che essa spinse Pavese a richiedere altri pareri ed infine, il 25 febbraio 1949, i diritti dell’opera a Foà240. Resta da sottolineare che La Dea Bianca di Graves, nonostante la vicenda cui si è appena fatto cenno, non verrà pubblicata da Einaudi, essendo compresa «tra i libri che nel 1951, dopo la morte di Pavese, De Martino avrebbe consiglia- La morte di Pavese e i to di espungere»241 dal programma della «collana viola»: in compenso, mutamenti nella Collana conformemente a quanto si è visto e si vedrà essere un percorso Viola. comune a moltissime delle opere proposte da Bazlen a diverse case editrici, il saggio di Robert Graves comparirà, moltissimi anni dopo, nel catalogo della casa editrice Adelphi242. Resta comunque il fatto che, proseguendo nella lettura del carteggio fra Foà e Bazlen, si può rinve- nire un’ulteriore ragione della circospezione con la quale egli si avvici- na alla possibilità di collaborazione con Einaudi. Essa riguarda ancora una volta la figura di Cesare Pavese, di grande importanza all’interno della casa editrice torinese, ma anche all’interno della Frassinelli degli

237 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 5 novembre 1948. 238 Ibidem. 239 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1948, b. 1, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Foà a Bazlen, Milano, 5 novembre 1948. 240 A questo proposito si veda Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 524-525. 241 Ivi, p. 538. 242 Robert Graves, La Dea Bianca, Grammatica storica del mito poetico, traduzione di Alberto Pellissero, Milano, Adelphi, 1992.

110 anni Trenta, un’esperienza editoriale alla quale, come si è visto, anche Bazlen aveva partecipato. Tornando sulla questione relativa ad Einaudi, alla quale egli guardava con soggezione ma anche con una certa speranza, così infatti Bazlen scrive a Foà, mostrando di essere a conoscenza di alcune delle dinamiche interne alla casa editrice:

Einaudi: non mi hai più scritto come stia la situazione ai miei riguardi. Cian m’ha accennato vagamente, ma anche lui non sape- va nulla di preciso, che Pavese ha fatto opposizione. Del resto, benché non mi conoscesse e non sapesse nulla di me, mi sono imbattuto già una volta nell’opposizione di Pavese, quindici anni fa, all’epoca di Frassinelli: aveva opposto il suo veto contro il mr. Weston di Powys, che stavo per far fare a Frassinelli, con una let- tera che Frassinelli mi mostrò in seguito, e che era di un’animosi- tà veramente degna di nota243.

243 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1949, b. 2, fasc. 24 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 25 gennaio 1949.

111

3. La collaborazione con Einaudi: lettere editoriali e traduzioni.

3.1 La collaborazione con Einaudi e il carteggio con Erich Linder: caratteri generali.

Mi sono trovato sul collo soltanto lavori seccanti e deprimenti, tra i quali la traduzione della Melanconia (sic!) della Warburg, e [...] non potevo scrivere lettere perché dovevo finirli, e [...] mi mettevo a dor- mire per non cominciarli; e [...] gran parte dei soldi per questi lavo- ri li avevo già spesi, mentre non mi riusciva di farmi pagare da altri editori per lavori già fatti; - [...] poiché non m’interessano più i libri degli altri, mi sono messo a scrivere per conto mio, il che assorbe ed è zeitraunbend [porta via tempo]1.

Dalle parole appena citate, tratte da una lettera all’amica Lucia Rodocanachi del marzo 1951, si può trarre una seppur vaga immagine Il principio della dell’attività di Bazlen al principio degli anni Cinquanta, nonché dedurre collaborazione con la casa lo spirito con il quale vi si accostava: uno spirito che pare di scarsa con- editrice Einaudi. vinzione e di svogliatezza, stati d’animo che trovano nella continuazio- ne della stesura del Capitano di lungo corso un solo parziale rimedio. Al di là delle problematiche del tutto personali che, secondo Foà, portavano Bazlen a vivere «giorni e giorni di torpore e di malinconia»2, l’indolenza con la quale egli presenta una delle prime attività che svolse per Einaudi può essere ricondotta a diverse ragioni: da un lato, forse, la situazione

1 Lettera di Roberto Bazlen a Lucia Rodocanachi, Roma, 3 marzo 1951, in Giuseppe Marcenaro, Una amica di Montale: vita di Lucia Rodocanachi cit., p. 193. 2 Gabriella Ziani, Scrisse sempre, ma non finì mai, in «Il Piccolo», 14 aprile 1993, p. 4.

113 interna alla casa editrice tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, dall’altro le riserve con cui sin dall’inizio Bazlen aveva accet- tato la prima proposta di collaborazione da parte di Einaudi. Dalla con- sultazione del fascicolo dedicato a Bazlen presso l’archivio della casa edi- La proposta di tradurre trice, infatti, si può seguire l’articolarsi della proposta che, sin dal 1949, Saturno e la melanconia di gli viene avanzata per la traduzione di Saturno e la melanconia di Erwin Panofsky, Klibanski e Saxl. Panofsky, Raymond Klibanski e Fritz Saxl, l’opera a cui appunto egli si riferisce nella sua lettera a Lucia Rodocanachi: già dall’agosto del 1949, infatti, Bruno Fonzi, interlocutore di Bazlen fino all’arrivo di Foà a Torino, si era messo in contatto con lui, annunciandogli che

si tratterebbe di tradurre dal tedesco: Saturn and Melancholy (stu- dio di storia delle religioni, di filosofia naturale e d’arte) di Fritz Saxl e Erwin Panofsky, in collaborazione con Raymond Klibansky. Sono 400 grandi pagine di bozze che discutono la teoria degli umori fisi- ci e del temperamento attraverso tutte le citazioni classiche, delle varie epoche romane e dei trattatisti alchimisti medievali, fino al Rinascimento ove si chiarisce l’ultimo scopo del libro: l’analisi ico- nografica e simbolica della Melancolia di Durer3.

Dalle parole di Fonzi, in effetti, Saturno e melanconia appare come un’ope- ra che, alla luce del già visto interesse di Bazlen per materie di studio quali l’alchimia o la storia delle religioni, poteva interessarlo e stimolarlo nel lavoro di traduzione. La risposta che però si legge a proposito del lavoro su quest’opera rivela una forte diffidenza da parte sua: Bazlen infatti, dopo aver «dato un’occhiata molto attenta al volume»4, dichiara di accettare il lavoro, ma anche sin da subito lo descrive come «una fac- cenda un po’ preoccupante»5: a inquietarlo è ad esempio la traduzione di quelle «citazioni classiche» che Fonzi annoverava come caratteristiche del libro, ostiche di per sé ma anche perché «creano un macello, e costi- tuiscono vera vita buttata via sia per il traduttore che per l’editore»6. A guidare la risposta di Bazlen alla prima proposta di collaborazione da parte di uno dei maggiori editori italiani è dunque il criterio del rispetto

3 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Bruno Fonzi a Roberto Bazlen, 2 agosto 1949. 4 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 11 settembre 1949. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 114 della «vera vita», che senza mai smentire se stesso egli porta avanti su diversi piani, da quello editoriale, a quello letterario, a quello appunto personale: tanto che Foà, l’amico forse più caro che egli abbia avuto, parla di lui come «di un uomo che prende [...] sul serio la propria vita, facendone un capolavoro di coerenza tra idee e comportamento»7. Non è difficile, peraltro, esemplificare quanto Foà osserva a proposito del- l’amico triestino. Quest’ultimo infatti, valutate da un punto di vista stret- tamente professionale le difficoltà che il libro presenta, prevede di finire la traduzione «non prima dell’estate del ’52»8 e pone una serie di condi- zioni, consistenti nella richiesta di agevolazioni che la casa editrice deve garantirgli, perché possa rispettare le scadenze. Stabilito questo, Bazlen conclude con un’osservazione in cui non è improprio intravvedere l’om- bra del Capitano di lungo corso, o comunque dell’uomo che in qualsiasi cir- costanza pone la propria «vera vita» come una priorità irrinunciabile: «non vorrei ipotecare tre anni di vita, e vedermi piovere addosso bozze da correggere in un momento nel quale navigo in non so quali altri mondi»9. L’immagine di se stesso collegata a quella della navigazione e del mare è solo il primo esempio dell’intervento di una particolare forma di fantasia, verrebbe da dire una suggestione immaginifica, all’interno del carteggio con Einaudi, un aspetto sul quale si avrà modo di tornare: accanto a queste parole, comunque, Bazlen conclude facendo più con- cretamente riferimento alla propria attività in quei mesi, ovvero presu- mibilmente le varie traduzioni, considerate nel capitolo precedente, di testi ad opera di Freud e Jung:

caro Fonzi, non creda che io esageri le difficoltà. Ho finito proprio adesso un lavoro di questo genere (ma molto più facile), il quale m’è servito, se non altro, ad imparare ad essere molto più cauto10.

La collaborazione con Einaudi, come si è visto desiderata da tempo, si apre dunque con un lavoro di traduzione, il cui svolgimento verrà per la verità trascinato per molti anni: accanto ad esso, inoltre, col tempo Bazlen approfondisce i propri rapporti con la casa editrice torinese, fino

7 Gabriella Ziani, Scrisse sempre, ma non finì mai cit., p. 4. 8 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 11 settembre 1949. 9 Ibidem. 10 Ibidem.

115 ad assumere il ruolo di consulente editoriale. Come si è accennato in apertura del presente paragrafo, però, questo ruolo sarà assunto non senza difficoltà, visto anche che in generale, in quegli anni, «lo status dei consulenti Einaudi appariva a volte tutt’altro che definito»11: il caso di Bazlen è in questo senso particolarmente rappresentativo dal momento che, per quanto come si è appena visto i contatti con la casa editrice abbiano inizio sin dal 1949, solo dieci anni dopo la collaborazione verrà ufficializzata da un contratto. Un aspetto, quest’ultimo, che appare anco- ra più singolare se si considera che già dal 1953, in una nota rivolta a Giulio Einaudi, Luciano Foà sottolineava la rilevanza del contributo che già in quel periodo Bazlen aveva fornito alla casa editrice:

Roberto Bazlen. Da tre anni collabora con segnalazioni e con pare- Una nota di Foà per Giulio ri, senza aver ricevuto da noi un soldo, a parte qualche libro. Cinque Einaudi. opere segnalate da lui [...], sono state accolte nel nostro programma, tra cui l’Antico Testamento nella versione di Villa (versione alla quale egli stesso dovrà in parte collaborare). Inoltre parecchie sue segnalazioni e proposte sono allo studio. Penso che, a parte il lavo- ro di consulenza per la versione dell’Antico Testamento, bisogne- rebbe riconoscergli una somma una tantum per il lavoro fatto in questi anni12.

L’occasione per il tentativo di Foà di definire almeno economicamente la posizione del suo amico all’interno della casa editrice è offerta, come si può leggere, da un progetto relativo alla presentazione di «una tradu- zione nuova dei libri biblici (unicamente il Vecchio Testamento)»13, che Bazlen aveva proposto alla casa editrice: un progetto che verrà intrapre- so per poi essere accantonato dopo qualche anno14. Nonostante questo episodio, tuttavia, «un rapporto di consulenza ufficiale, con tanto di con-

11 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 475. 12 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, s.d. 13 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 13 ottobre 1953. 14 La traduzione dell’Antico Testamento, ad opera del poeta e biblista Emilio Villa, aveva inizial- mente trovato un.accoglienza molto positiva presso il comitato editoriale della casa editrice, che pensava di includerla nella collana dei «Millenni». Il lavoro, peraltro, era seguito personalmente da Bazlen, il quale il 24 gennaio 1957 ne commentava la prima parte dicendo che «stilisticamente era un disastro. Gliel’ho fatto rifare, spiegandogli tutto quello che a mio parere non andava bene» (cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di

116 tratto, si instaurò appena nel 1959»15: prima di questa data, infatti, stan- Le differenze di pensiero tra do ai già citati ricordi di Foà, Bazlen ed Einaudi.

il momento non era certo propizio a una collaborazione di Bobi con la Einaudi. La guerra fredda imperversava e i rigori ideologico- politici erano al loro culmine. Un vero dialogo con un uomo così istituzionalmente anti-ideologico come lui era impossibile16

Se dunque l’inconciliabilità ideologica ostacolò il pieno ingresso di Bazlen nella casa editrice torinese, accanto ad essa non è improprio vedere, come ragione di un rapporto che Foà definisce «lungo e stenta- La mancata frequentazione to»17, il contributo della sua complessa personalità: egli infatti non si pre- delle riunioni del mercoledì. sentò mai alle famose “riunioni del mercoledì” einaudiane, e sempre delegò la lettura delle sue lettere editoriali all’amico Foà. In effetti, con l’arrivo dell’amico dall’ALI, nel 1951, le lettere di Bazlen per Einaudi si infittiscono, si articolano, e mostrano un maggior coinvolgimento nello svolgimento del proprio lavoro di consulente editoriale: ma senza che ciò si traduca mai in un progetto editoriale compiuto e concretamente realizzato, anche quando egli avanza esplicite proposte in questa direzio- ne. Resta comunque vero, nonostante la solo parziale riuscita di una col- laborazione durata più di un decennio, che in essa si possano isolare delle fasi, dei nuclei di proposte fra loro collegate, e diverse modalità di realizzazione delle stesse: quel che più conta, nelle lettere editoriali invia- te ad Einaudi si può cercare di isolare alcuni temi e caratteri ritornanti, vista prima di tutto l’estrema fedeltà di Bazlen alle proprie idee lettera- rie, che egli sembra non poter fare a meno di riproporre caparbiamente. Esse infatti si trovano ripetute e riformulate di lettera in lettera, e tutta- via non trovano una realizzazione compiuta in una collana che le rappre- senti: un aspetto, quest’ultimo, da ricondursi alla responsabilità tanto del consulente, spesso vago nelle proprie proposte, quanto dell’editore, che

Roberto Bazlen a Luciano Foà, 24 gennaio 1957). Le mancanze del traduttore, anche nel senso di frequenti ritardi di consegna, unite al sorgere di dubbi da parte dell’editore circa la convenien- za del progetto, portarono comunque, alla fine degli anni Cinquanta, ad accantonarlo. Per una trattazione più approfondita su questo aspetto si puo vedere Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., pp. 711-712. 15 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 81. 16 Intervento di Luciano Foà al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85 cit., p. 17. 17 Ivi, p. 18.

117 come si è detto spesso mostrò nei suoi confronti una certa freddezza18. Per quanto riguarda le diverse fasi del rapporto con Einaudi, le poche lettere che nel biennio 1949-1950 Bazlen si scambiò con Bruno Fonzi testimoniano che in quel periodo l’unica forma di collaborazione fu appunto la traduzione di Saturno e melanconia: non è possibile dunque ipo- tizzare che già in quel periodo svolgesse un’attività di vero e proprio consulente editoriale, basata sul contatto diretto con la casa editrice. A dimostrarlo è anche il fatto, introdotto in chiusura del capitolo preceden- te, che appunto i titoli consigliati già dal 1948 siano stati rivolti all’edito- re grazie al tramite dell’Agenzia Letteraria Internazionale. D’altronde, nella sua lettera dell’agosto 1949, Bruno Fonzi così articola la propria proposta di traduzione di Saturno e melanconia: «tempo fa incaricammo Luciano Foà di chiederle se sarebbe stato disposto a fare un lavoro per noi. Non ne abbiamo più saputo niente, e forse Foà se ne sarà dimenti- cato. Perciò le rifaccio io tutta la storia»19. Il rapporto di Bazlen con Einaudi sembra dunque realizzarsi sempre in relazione a quello che Foà ha con la casa editrice: ed è appunto solo nel 1951, quando Foà si tra- sferisce a Torino per assumervi il ruolo di segretario generale di Einaudi, che si possono iniziare a leggere i pareri di lettura che Bazlen scriveva per la casa editrice. A questo proposito è interessante notare che una delle ragioni addotte da Foà per il proprio trasferimento a Torino è pro- prio il fatto che nel dopoguerra gli fosse venuto a mancare l’elemento, diciamo l’interesse politico che animava il [suo] lavoro prima all’Agenzia Letteraria»20, cosa che appunto lo spinge ad andare «da Einaudi, la cui produzione [gli] sembrava quella più interessante in Italia»21, anche «per Luciano Foà segretario 22 generale presso Einaudi. ragioni [...] di varietà politica» : una prospettiva, dunque, molto diversa da quella dell’amico, almeno dal punto di vista politico. Ad ogni modo, a Foà Bazlen indirizza le proprie lettere, affidandogli la loro consegna a personaggi quali Calvino, Cases, o Fruttero, o demandandone la lettura durante «le famose riunioni del mercoledì dei consulenti e dei redattori

18 Si fa presente che il particolare aspetto della collaborazione di Bazlen con Einaudi relativo alla proposta di nuove collane sarà oggetto di trattazione specifica nel capitolo seguente del presen- te lavoro. 19 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Bruno Fonzi a Roberto Bazlen, 2 agosto 1949. 20 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 21 Ibidem. 22 Ibidem.

118 della casa editrice»23: segno questo di una sua personale timidezza, ma anche del fatto che le modalità della sua collaborazione con la casa edi- trice stentavano ad essere definite con esattezza. È solo nel dicembre del 1959, infatti, che i “foglietti” che Bazlen spedisce a casa Einaudi si tro- vano distinti fra quelli delle «richieste» (ovvero «libri cui voglio dare una prima occhiata io»24) e quelli invece delle «segnalazioni»25, cioè libri che Bazlen già conosce e che pensa possano interessare l’editore. Prima di questa data, negli anni fra il 1951 e il 1959, per Einaudi Bazlen si occu- pera della realizzazione della traduzione delle opere più diverse, nonché invierà un grandissimo numero di “foglietti” ricchi di proposte di pub- blicazione e pareri editoriali. Solo una minima parte di essi avrà un segui- to e come si è già visto la maggior parte dei titoli ai quali Bazlen teneva maggiormente confluiranno, negli anni Sessanta, nel catalogo di Adelphi. Resta comunque da rilevare il fatto che, prima della succitata organizzazione in fogli di «richieste» e «segnalazioni», le lettere per Einaudi, rivolte alla persona di Foà, sono caratterizzate da un maggior coinvolgimento, o comunque dalla presenza di questioni personali che si accostano a quelle professionali: non è forse un caso, ad esempio, che solo negli anni della presenza di Luciano Foà presso Einaudi Bazlen abbia «osato» proporre, seppur disordinatamente e con una vaghezza e mancanza di energia che lo stesso Foà gli rimprovera, diversi progetti di collane, non a caso riecheggiati nella struttura della proposta editoriale adelphiana. Un aspetto, quest’ultimo, sul quale si avrà modo di tornare. Lo stesso tipo di relazione, che intreccia strettamente l’aspetto persona- le e quello professionale, si può trovare anche nel carteggio che Bazlen continua a intrattenere con un altro grande amico, Erich Linder: come si è già accennato, infatti, partito Foà per Torino Bazlen continuerà a intrattenere rapporti con l’ALI, attraverso appunto un frequente scam- bio di lettere. Esse peraltro permettono di chiarire almeno parzialmente alcuni punti, altrimenti oscuri, della sua attività editoriale: come negli anni Quaranta, infatti, nei Cinquanta egli non si limiterà alla collabora- zione con la sola casa editrice Einaudi ma, al contrario, forse anche in

23 Intervento di Luciano Foà al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85 cit., p. 17. 24 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 25 Ibidem.

119 conseguenza delle difficoltà a vedere qui attuati i propri progetti, cerche- rà di realizzarli, parallelamente, attraverso la collaborazione con altre case editrici, quali Bocca e Boringhieri. L’insoddisfazione di Bazlen doveva d’altronde essere molto profonda, e come sempre sconfinante nell’ambito della «vera vita», se all’amico Linder nel 1956 arriverà a con- fessare quanto segue:

io ho dormito esaurientemente per un anno e mezzo, rinfacciando- mi di aver troppo sonno o di essere troppo pigro. [...]. Medito [...] di lasciare possibilmente presto [...] questo Vaterland [patria] che, al mio risveglio, ho trovato più scocciante che mai. Il programma si forma lentamente, ma molto eindeutig [chiaramente]; quando sarà definitivamente formulato, ti racconterò26.

Alla sua idea di trasferirsi, a quanto si legge, a Parigi, Linder così rispon- de, fornendo un’ulteriore prova del tipo di rapporto che legò Bazlen a quasi tutte le persone con le quali portò avanti progetti di natura, in teo- ria, unicamente editoriale:

il tuo progettato abbandono, definitivo, delle native shores mi rat- trista: [...] la tua presenza era un confortante punto fermo. È vero che praticamente vado a Parigi più spesso che a Roma, e che in sostanza cambia la dislocazione del punto, non la sua fermezza27.

3.2 La collaborazione con Einaudi: temi principali.

3.2.1 Il rapporto con le letterature straniere: la Mitteleuropa.

«Qualcuno ha [...] detto che l’allontanamento da Trieste di Bazlen era alla ricerca di quella dimensione europea (inseguita nei libri) che egli non riusciva a trovare a Trieste, dove avrebbe preteso di trovarla»28: la citazione appena riportata permette di riflettere ancora una volta sul

26 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 46 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 29 gennaio 1956. 27 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 46 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 29 febbraio 1956. 28 Intervento di Elvio Guagnini al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85 cit., p. 75. 120 ruolo della città d’origine nella formulazione delle istanze culturali che egli portò avanti lungo l’intero corso della propria carriera editoriale. È però anche bene sottolineare il fatto che se da un lato, come si è visto, Trieste si rivelò ben presto essere un ambiente troppo angusto per le aspi- razioni di Bazlen, dall’altro la nascita di quelle stesse aspirazioni fu favo- rita in lui, e in un certo senso ispirata, proprio dalla città in cui nacque. Non è infatti casuale che il primo, e forse più noto, parere editoriale for- nito ad Einaudi sia stato relativo a un libro, L’uomo senza qualità di Musil, pubblicato a partire dal 1930 e più che mai rappresentativo del lento disgregarsi dell’Impero Asburgico. Il parere circa questo romanzo non fu dovuto ad un’iniziativa personale di Bazlen, come invece spesso avverrà in futuro, ma alla richiesta da parte di Fonzi, dopo che a questo Il caso Musil. proposito era stato dato un parere negativo, almeno rispetto alla pub- blicazione, da parte di Delio Cantimori e Norberto Bobbio. Fonzi infat- ti il 16 marzo 1951 annuncia a Bazlen di stargli inviando «tre volumi del lungo romanzo incompiuto: Der mann ohne eigenschaften [L’uomo senza qualità] di , che lei quasi certamente conoscerà: gradirem- mo anche per questo il Suo parere»29. Nel formulare la sua richiesta di un parere da parte di Bazlen su un libro considerato con grande proba- bilita oggetto delle sue conoscenze, Fonzi gli invia inoltre «i più cordia- li saluti, anche da Luciano Foà, nuovo collega»: la promozione da parte di Bazlen dell’opera di Musil ha inizio dunque in corrispondenza del- l’ingresso di Foà nella casa editrice Einaudi. Il ricordo di quest’ultimo a tale proposito è d’altronde ulteriormente chiarificatore:

Nel 1951 ero da poche settimane a Torino, [...] quando mi capitò di vedere un giudizio di Norberto Bobbio [...] su «L’uomo senza qualità» di Musil. Non capii per quale ragione quest’opera, pur sempre di narrativa, fosse stata data in lettura a Bobbio, professo- re di filosofia del diritto. Comunque Bobbio era rimasto colpito dal libro, ma non ne vedeva la possibilità di una pubblicazione a causa della sua complessità e della sua lunghezza. Allora pensai di spedi- re i tre volumi a Bazlen per avere un suo giudizio30.

29 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Bruno Fonzi a Roberto Bazlen, 16 marzo 1951. 30 Intervento di Luciano Foà al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal

121 Di fronte alla richiesta che gli proviene da Torino, Bazlen articola la propria risposta in diverse lettere editoriali. In prima istanza, infatti, egli risponde a Fonzi dando una concisa definizione dello spirito che anima il libro e contestualizzando, altrettanto concisamente, questo spirito in una precisa temperie storica e letteraria:

è uno di quei mondi che si creano strada facendo, e non è, per for- tuna, l’esecuzione burocratica di un programma prestabilito; del resto, data la visuale (molto «fra due guerre») dalla quale è visto il mondo della disgregazione, (che nel caso concreto è la disgregazio- ne dell’impero austro-ungarico), era quasi inevitabile che il libro rimanesse frammentario31.

La descrizione dell’Uomo senza qualità come «mondo» può essere forse indicata come un primo segnale di quella che sembra una particolare sin- tonia percepita da Bazlen con esso: si è visto infatti come due anni prima, discutendo la possibilità di svolgere la traduzione di Saturno e melanconia per Einaudi, egli avesse usato la stessa parola per designare i diversi periodi della propria stessa vita, quando parlava a Fonzi di un «momento nel quale navigo in non so quali altri mondi»32. Al di là di que- sta «spia» verbale del fatto che Bazlen fosse attratto da quella che senti- va come una “non programmaticità” del romanzo di Musil, è interessan- te segnalare che la sua sensibilità nei confronti dell’opera dello scrittore austriaco dovesse anche poggiare su basi culturali ben radicate nel tempo. Bazlen, infatti, dopo avere introdotto il parere circa il romanzo incompiuto di Musil preferisce al contrario consigliare dei romanzi che, provenienti dalla medesima temperie culturale dell’Uomo senza qualità, si presterebbero con maggiore semplicità alla pubblicazione. «Poiché mi avete tirato fuori i romanzi della disgregazione (sic!)»33, Bazlen cita, con il titolo in tedesco, il «primissimo libro»34 dello stesso Musil, ovvero I tur-

Gruppo ’85 cit., p. 17. 31 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 19 marzo 1951. 32 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 11 settembre 1949. 33 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 19 marzo 1951. 34 Ibidem.

122 bamenti del giovane Torless, nonché I sonnambuli di Hermann Broch, «pro- babilmente molto più accessibile e più commerciabile del romanzo di Musil benché di livello non inferiore»35. Le notazioni appena considera- te permettono di sottolineare come accanto a una grande familiarità con le opere degli scrittori mitteleuropei fosse presente in Bazlen anche la lucida volontà di presentarli nel modo più opportuno per il pubblico e per l’editore: nel primo caso, sottoponendo ad esso una serie di pub- blicazioni «progressive» e preparatorie, nel secondo tenendo presenti anche considerazioni di ordine commerciale, che possono condiziona- re profondamente il «giudizio di pubblicabilità»36 del testo. Ed effettiva- mente è la contemporanea considerazione di tutti questi fattori a guida- re Bazlen nella formulazione del proprio giudizio. Nella lettera specifi- catamente dedicata all’Uomo senza qualità, infatti, egli considera l’opera in primo luogo da un punto di vista critico-letterario, necessariamente preliminare alla valutazione dell’eventuale apprezzamento da parte del pubblico. Il romanzo di Musil, dunque, «come livello, non si discute, e [...] va pubblicato ad occhi chiusi37»: una valutazione giustificata median- te la considerazione del «valore sintomatico in ogni singola pagina» e del «valore assoluto in moltissime parti», che fanno del libro «una delle faccende più grosse tra tutti i grandi esperimenti di narrativa non con- formista, fatti dopo la prima guerra mondiale». Una volta esposte que- ste considerazioni, però, come si è detto Bazlen passa a considerare il fatto che il libro sia «da discutersi molto, invece, da un punto di vista editoriale-commerciale», e questo dal momento che esso è

1°) troppo lungo 2°) troppo frammentario 3°) troppo lento (o noioso, o difficile, o come vuoi chiamarlo) 4°) troppo austriaco

In particolare il quarto punto dello schematico giudizio fornito rispet- to al romanzo costituisce un anello di congiunzione fra i diversi ordini di considerazioni che egli svolge nell’insieme della lettera: il romanzo di Musil, vale a dire, è «carico di allusioni a forme di vita, abitudini, istitu-

35 Ibidem. 36 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 135. 37 Roberto Bazlen, Scritti cit., pp. 273 - 279. Da queste pagine sono tratte tutte le citazioni che seguono. 123 zioni [...] poco familiari al lettore italiano». Se addirittura anche la «fisio- nomia dei nomi e dei cognomi» viene considerata «di una sintomaticità e di una precisione clinica sbalorditiva», si può comprendere allora per- ché Bazlen avanzi delle perplessità rispetto alla convenienza della pub- blicazione del libro in Italia. Rimane però anche il fatto che la conside- razione che egli aveva della letteratura come qualcosa riguardante da vicino la vita e l’intimità della persona doveva fargli controbilanciare le considerazioni strettamente economiche con alcune di diverso ordine: ovvero, la speranza che in qualsiasi lettore italiano, d’altronde conside- rato di «livello [...] infinitamente più alto di quanto si ritenga comune- mente», la mancata partecipazione al contesto storico-letterario cui Musil si riferisce potesse essere compensata con una partecipazione, appunto, di natura umana, e quasi istintiva. Così Bazlen descrive i momenti che secondo lui dovrebbero susseguirsi nella lettura:

ti succede che attraverso questi interminabili dialoghi, saggi, tratta- ti, feuilletons - e dopo esserti abbondantemente irritato e annoiato - ti si formi lentamente un mondo vivissimo, le persone [...] assu- mono lentamente una densità ed una plastica da grandissimi per- sonaggi da romanzo, [e] l’azione, della quale non ti sei accorto, fila che è un gusto, e non ti sei annoiato, ma [...] ti sei divertito, hai compartecipato, [...] per due mesi sei vissuto in parte di quel mondo, e [...] ti sei innamorato di Agathe, la sorella dell’uomo senza qualità.

La presenza di «un mondo vivissimo» nel quale il lettore, al di là della propria cultura e provenienza, si immerge e del quale partecipa e per Bazlen una ragione più valida di qualsiasi altra per promuovere il libro. Lo stesso comitato editoriale di Einaudi, d’altronde, dovette trovare convincente il suo giudizio «assai lungo ed estremamente circostanzia- to»38: il quale infatti, stando alla memoria di Foà, ebbe «l’effetto di tra- volgere ogni resistenza alla pubblicazione di quella grande opera»39.

38 Intervento di Luciano Foà al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo '85 cit., p. 17. 39 Ibidem. È interessante peraltro osservare che anche Franco Fortini, al quale nel giugno del 1951 era stato richiesto un parere sul romanzo ed un saggio di traduzione, indicò l’opera di Musil come “molto notevole”. La citazione della lettera di Fortini, datata 30 luglio 1951, è tratta da Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 818.

124 L’Uomo senza qualità, infatti, verrà pubblicato in tre volumi, a partire dal 1957, nella collana di narrativa e teatro dei «Supercoralli», nata nel 1948 e ospitante «autori contemporanei italiani e stranieri di grande rilievo»40. Così come all’influenza di Bazlen sono da ricondursi le pubblicazioni nel 1959 de I turbamenti del giovane Torless nei «Coralli», e l’anno successi- vo de I sonnambuli di Hermann Broch (nella stessa collana dell’Uomo senza qualità).

Almeno sul fronte della diffusione della letteratura mitteleuropea (fosse essa relativa al periodo della «disgregazione» o meno) Bazlen riuscì dun- que a vedere seguiti, presso Einaudi, buona parte dei propri consigli editoriali. Tale positivo risvolto del suo lavoro, peraltro, si manifesta a proposito di Musil anche successivamente all’iniziale consiglio circa la pubblicazione della sua opera, dal momento che anni dopo, nel 1959, egli verrà incaricato di trattare i rapporti con i curatori del terzo volu- me del romanzo. A testimoniarlo è una lettera del 14 giugno 1959, nella quale Bazlen descrive lungamente «le due ore esatte di colloqui [...] veramente emozionanti»41 appena avute con «Ernst Kaiser»42 e sua moglie, ovvero due studiosi che «lavorano da più di sei anni [...] sulle note di Musil»43 e che ad Einaudi fanno una serie di proposte. Esse con- sistono nella pubblicazione di un loro saggio sull’autore austriaco, l’or- ganizzazione di una mostra, a Roma, «del materiale di Musil»44, ed infine la riorganizzazione dei frammenti che compongono l’ultima sezione del romanzo: da quanto si può riscontrare nel catalogo di Einaudi, di tutte queste proposte dalla casa editrice verrà accolta solo quella circa l’edizio- ne critica del testo, dal momento che appunto Kaiser e sua moglie risul- tano i curatori del terzo volume dell’Uomo senza qualità45. Al di là dei risul- tati, è comunque interessante porre in evidenza l’impegno di Bazlen per un’ottimale presentazione dell’opera di Musil, e della letteratura mitte- leuropea in generale, dal momento che, ad esempio, nella stessa lettera del 14 giugno egli propone, contestualmente all’organizzazione della

40 Gian Carlo Ferretti, Storia dell'editoria letteraria in Italia, 1945-2003 cit., p. 149. 41 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 14 giugno 1959. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 Ibidem. 45 Robert von Musil, L'uomo senza qualità, III, traduzione di Anita Rho, a cura di Eithne Wilkins e Ernst Kaiser, introduzione di Cesare Cases, Torino, Einaudi, 1962.

125 mostra romana, di

agitare le acque più possibile, per esempio mostra Musil coinciden- te con presentazione Toerless (il Toerless Vi consiglierei di pubbli- carlo a parte; è il pendant, molto più sostanziale, della Morte a Venezia, scritto molti anni prima della morte a Venezia; è breve; molto morboso; giocando su Mann, si dovrebbe poterlo vendere molto, ma molto più del M.o.E [ovvero l’Uomo senza qualità]46 .

Sembra di vedere riproposto, in queste parole, l’atteggiamento tenuto Il caso Musil in confronto a quello sveviano. circa vent’anni prima a proposito del «caso Svevo», che come si è visto era consistito prevalentemente nella cura affinché l’opera fosse presen- tata nel modo più rispettoso possibile tanto della volontà dell’autore quanto delle esigenze del pubblico. A queste ultime in particolare Bazlen dà grande rilievo nel momento in cui, un mese dopo aver pre- sentato i Keiser all’editore, egli dà un giudizio circostanziato circa il loro saggio su Musil: egli cioè considera preliminarmente che «come intro- duzione a Musil, in Italia, per gente che non ne sa niente, e particolar- mente per quel brutto mondo di lettori che legge saggi senza leggere gli autori di cui i saggi trattano, non basta»47. D’altro canto, però, Bazlen specifica anche che un saggio su Musil potrebbe avere una valenza positiva se presentato insieme ad un testo introduttivo: con l’ausilio di quest’ultimo, infatti, «il (mostruoso) feno- meno Musil diventa molto organico»48. Così come nel 1925 Bazlen aveva voluto «far scoppiare la bomba Svevo con molto fracasso»49 e, come si è visto, aveva fatto molto perché ciò avvenisse, allo stesso modo negli anni Cinquanta, per Musil ed altri autori, egli cerca di “accompagnare” la pubblicazione con tutti gli ausili che permetterebbero una loro piena accettazione e comprensione da parte del pubblico italiano: anche se, alla luce di passi in cui quello di alcuni lettori è designato come «un brut- to mondo», è bene considerare come, rispetto a questi ultimi, sull’inten- to divulgativo spesso abbia il sopravvento una certa supponenza.

46 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 luglio 1959 47 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 luglio 1959. 48 Ibidem. 49 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 365.

126 Ad ogni modo, tra il 1951, anno della prima lettera editoriale riferita a Musil, e il 1960, che vede la pubblicazione dei Sonnambuli di Broch, innu- merevoli sono le proposte da parte di Bazlen di opere provenienti dal- l’ambito mitteleuropeo o più generalmente tedesco, a lui particolarmen- te vicino, come si è visto, in conseguenza della almeno temporanea con- divisione di un «ben determinato humus culturale»50. Questo peculiare, e particolarmente caratterizzante, aspetto dei gusti let- terari di Bazlen si tradurrà dunque in una forte insistenza per la pubbli- cazione della letteratura mitteleuropea: ma, è bene notarlo, senza che ciò si traduca mai in un atteggiamento acritico, essendo al contrario molto più consona a Bazlen la costante messa in discussione delle proprie idee, fino ad arrivare spesso al paradosso. Il caso di Broch può essere in que- sto senso rappresentativo: dopo la prima citazione del 1951, come si è I sonnambuli di Broch. visto, in rapporto all’opera di Musil, Bazlen torna a insistere su I sonnam- buli sei anni dopo, quando scrive a Foà riferendosi ad un’ulteriore pro- posta, relativa a questo autore, fatta a Renato Solmi nel 1953:

Broch: ne avevo parlato con René Solmi, quattro o cinque anni fa. L’aveva respinto con tanta energia che non m’è sembrato il caso di riparlarne. A mio parere, va fatto. Certi effetti, of course, vanno perduti [...]. Prima di compromettermi definitivamente, vorrei rive- dere il terzo volume51.

Avendo evidentemente constatato l’aprirsi della disponibilità dell’edito- re nei confronti della pubblicazione di Broch, Bazlen torna a proporlo solo un paio di mesi dopo, dando ancora una volta un giudizio quanto mai positivo circa questo autore. Il 21 ottobre 1957, infatti, egli parla di: «Die schuldlosen [Gli incolpevoli]: letto anni fa. Riletto una seconda volta: alcune tra le più belle pagine di Broch. D’altra parte in nessun libro suo che conosca, il suo ibrido è così penoso, quasi doloroso»52. Bazlen dunque identifica come valore positivo la presenza, nell’opera di Broch,

50 Claudio Magris, Il mito asburgico. Umanità e stile del mondo austroungarico nella letteratura austriaca moderna, Torino, Einaudi, 1963, p. 14. 51 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 17 giugno 1957. 52 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 21 ottobre 1957. Il conciso giudizio fornito sarà comunque sufficiente ad incentivare la pubblicazione dell’opera nella stessa collana de I sonnambuli, ovvero i “Supercoralli”. Cfr. Hermann Broch, Gli incolpevoli. Romanzo in undici racconti, traduzione di G. Gozzini Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1963.

127 di quella che appare come un’identità sofferta e caratterizzata da un forte disorientamento. Allo stesso modo il carattere dell’ibrido, inteso però dal punto di vista dello stile e della struttura dell’opera, doveva averlo con- quistato anche in I sonnambuli, un romanzo che a parere della critica rompe con

l’ultima parvenza del racconto classico, sviluppando contempora- neamente la narrazione su diversi piani e dissolvendo ogni struttu- ra tradizionale con l’alternare indifferentemente saggi filosofici, squarci lirici, meditazioni religiose e pagine narrative53.

Ai ripetuti elogi nei confronti della prosa di Broch si contrappone il giu- Le poesie di Broch. dizio, fornito poco tempo dopo, sulle sue poesie: il 22 novembre 1957, infatti, Bazlen le definisce «veramente disperanti»54. La valutazione nega- tiva di una parte dell’opera di un autore non è, ovviamente, di per sé pro- blematica: ma tale diventa se di seguito a questa considerazione Bazlen annota, senza fornire spiegazioni in merito, che le poesie di Broch sono disperanti «come mi sembra disperante tutto Broch, particolarmente da quando mi sono messo in testa di finire Der Versucher [Il tentatore], per cui soffro ogni sera con una decina di pagine, e sono 600 pagine fitte»55. Nel giro di un mese, dunque, il giudizio circa l’opera dello scrit- tore austriaco è sottoposto a un ripensamento: così che, coerentemente con le proprie concezioni teoriche, Bazlen si affretta a chiedere di poter leggere «i volumi dei saggi e della corrispondenza»56, nella forte convin- zione che al letterario possa supplire il non letterario, se non addirittura la «vera vita» dello scrittore. Rimane comunque da considerare che probabilmente la disapprova- zione circa l’opera di Broch fosse dovuta alla delusione di fronte, appunto, a una sola parte di essa. Nel luglio del 1957, infatti, Bazlen indicava il valore di questo autore come prova del disvalore di un altro rappresentante della letteratura mitteleuropea, il quale, come ad esempio

53 Claudio Magris, Il mito asburgico. Umanità e stile del mondo austroungarico nella letteratura austriaca moderna cit., p. 300. 54 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 22 novembre 1957. 55 Ibidem. 56 Ibidem.

128 «Roth»57 e «Musil»58(dunque autori molto spesso citati nelle lettere edito- riali), ha «rievocato, direttamente o indirettamente, l’atmosfera e le carat- 59 teristiche della civiltà danubiana» : si tratta in questo caso di Heimito Doderer e I demoni. von Doderer, autore del romanzo I demoni e considerato «uno dei più scanzonati eppur fedeli eredi della tradizione francogiuseppina»60.È peraltro interessante notare che anche a proposito di quest’ultimo autore l’opinione di Bazlen non resta affatto ferma nel tempo: la prima volta che egli lo cita, ancora nel 1954, dice infatti di trovarlo «molto bello»61, ma nei successivi pareri di lettura tale giudizio non viene con- fermato. La bellezza delle pagine di Doderer sembra infatti quantome- no non essere tale da reggere seppur minimamente il confronto con l’opera di autori a lui contemporanei o comunque assimilabili, fra i quali come si è accennato Bazlen cita anche Broch. Una considerazio- ne, questa, che è segno da un lato della continua rivalutazione a cui Bazlen sottoponeva le proprie letture, dall’altro del fatto che egli non promuovesse alcun gruppo di autori o forma letteraria acriticamente e senza porre le proprie personali distinzioni:

in questo frattempo, ho riletto il secondo della trilogia di Broch [...]; bellissimo, e da farsi senz’altro. Invece ho smesso, dopo aver letto ancora un centinaio di pagine, i Daemonen. Insulso, ributtante, e noioso. Leggi una pagina di Doderer dopo una pagina di Broch, e perfino di Doeblin, e naturalmente di Musil, e capirai per cosa è giu- sto non farlo. A tua richiesta (ma spero ti convinca da te) disposto a scriverti uno sfogo più esauriente (benché, per quella roba lì, non meriti perder tempo)62.

Uno «sfogo [...] esauriente», peraltro, Bazlen in realtà lo aveva già forni- to un mese prima della lettera appena citata, in un parere che si trova riportato nella raccolta degli Scritti bazleniani: ulteriore conferma, que-

57 Claudio Magris, Il mito asburgico. Umanità e stile del mondo austroungarico nella letteratura austriaca moderna cit., p. 14. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Ivi, p. 274. 61 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 14 gennaio 1954. 61 Ibidem. 62 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 7 luglio 1957.

129 sta, della sua significatività. Il giudizio su Doderer, infatti, si fonda in prima istanza sulle concezioni già viste nel primo capitolo come caratte- ristiche di Bazlen e di molti altri letterati e scrittori triestini, vale a dire il deciso rifiuto della concezione dell’opera letteraria come pedestre «pre- stazione»63: così, a proposito de I demoni, se da un lato egli è disposto ad ammettere che «la Leistung [la prestazione] è considerabile»64, dall’altro lato però puntualizza che solo in «certi buoni scrittori di poca sostanza (Thomas Mann; in parte anche Joyce) la Leistung diventa sostanza»65 :

In Doderer [la Leistung] invece non serve ad altro che a nasconde- re, a mascherare, una mancanza di sostanza assoluta, il vuoto puro. Non c’è che molta furberia, una grande eleganza superficiale che non compensa la hybris fondamentale, un’intelligenza molto paras- sitaria e, se gratti, molto banale66.

La povertà di un libro che è anche e soprattutto povertà del suo autore, dal momento che Bazlen chiama in causa la sua «intelligenza» ed apre il proprio giudizio premettendo che Doderer «non [gli] è simpatico»67, fa sì che tra le altre cose egli trovi «strano che piaccia a Cases»68. In effetti, i due consulenti si trovarono molto spesso a valutare insieme l’opportu- nità della pubblicazione di un libro, anche se la tendenziale condivisione di prospettiva, dal momento che anche Cases nei suoi pareri «tendeva a sottolineare gli aspetti di crisi e di disgregazione»69 che emergevano dalla «produzione tedesca più recente»70, in questo caso si verifica solo par- zialmente. Già nel novembre del 1956, infatti, il maggior consulente di Einaudi per la letteratura tedesca aveva scritto a proposito de I demoni:

È uno di quei libri che o li traducete voi o non li traduce nessuno. È infatti certamente notevole ma pesantissimo. [...]. Spirito e stile proustiano-musiliano. [...]. Libro, insomma, di livello culturale ele- vato e di ambizioni pure elevate, ma di lettura piuttosto faticosa. [...]. Penso che bisognerà tradurlo prima o dopo, ma senza nessu-

63 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 211. 64 Ivi, p. 284. 65 Ibidem. 66 Ibidem. 67 Ibidem. 68 Ibidem. 69 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 846. 70 Ibidem.

130 na urgenza. Si è vissuti sinora senza Musil e si potrà vivere benis- simo per altri 10 o 20 anni senza Doderer71.

I demoni sono dunque considerati un romanzo la cui pubblicazione non è segnata da una particolare urgenza, ma che dovrebbe rientrare a pieno diritto nel panorama editoriale italiano: e la loro pubblicazione, con quel- lo stesso ritardo che Cases stesso aveva ammesso, è solo una dimostra- zione della maggiore influenza che il suo pensiero presumibilmente aveva rispetto a quello di Bazlen72. Resta comunque fermo il fatto che, al di là dello specifico caso di Doderer, Cases forniva certo un fondamen- tale «supporto critico alla crescente attenzione della casa editrice per la grande letteratura di lingua tedesca del Novecento»73, ma anche capitava che questo avvenisse «in controcanto con Bazlen, da cui spesso veniva- no gli impulsi iniziali»74. Pur con riserve e parziali contraddizioni, dunque, Bazlen diede grande rilievo a quegli autori mitteleuropei che, certo con diverse modalità, ave- vano a posteriori evocato nei loro romanzi l’atmosfera di un impero in declino: ma è bene tenere presente, per dare conto nel modo più esau- riente possibile del suo vasto operato editoriale, che non fu solo il mondo della «disgregazione» visto dagli occhi di scrittori austriaci ad attirare la sua attenzione. Essendo l’interesse di Bazlen rivolto all’opera letteraria come frutto diretto dell’esperienza di un uomo, è infatti com- prensibile che la sua curiosità spazi, per così dire, nel tempo e nei luoghi dove egli identifica dei “nuclei di esperienza”, dei «mondi» ritenuti vali- di. È anche per questa ragione, dunque, che nelle lettere editoriali indi- rizzate a casa Einaudi si possono da un lato rintracciare i nomi di nume- rosi scrittori provenienti dagli Stati nati dall’Impero Asburgico ma appunto non legati alla sua lenta «disgregazione», dall’altro autori prove- nienti dal nord Europa, o dalla Polonia, che interessavano invece Bazlen per il periodo specifico in cui erano vissuti.

Magda Szabo: Das Fresko [L’affresco]: [...]. Of course vieux jeu, ecc. - insopportabilmente. Soltanto che la Magda Szabo è un’unghe-

71 Ivi, p. 847. 72 Heimito von Doderer, I demoni. Dalla cronaca del caposezione Geyrenhoff, traduzione di Clara Bovero, Maura Mancinelli, e Anita Rho, Torino, Einaudi, 1979. 73 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit. p. 846. 74 Ibidem.

131 rese, dunque d’una bravura carogna che, rispetto a prodotti anglo- sassoni simili, è quasi genialità. Io mi sono annoiato, particolarmen- te perché i capitoli [...] sono eccessivamente lunghi. Ma devo dire che, benché sia superfluo tutto il libro, non c’è una parola superflua. Se avete bisogno di un libro superfluo fatto molto bene, eccolo pronto. Ma sono per no75.

L’affresco di Magda Szabo, Il romanzo che Bazlen prende in considerazione nel passo appena cita- scrittrice ungherese. to, L’affresco della scrittrice ungherese Magda Szabo, risale al 1958: dun- que, ovviamente, nasce da un contesto geografico, ma soprattutto stori- co, completamente diverso rispetto a quello da cui potevano essere nate le opere di Musil, di Broch, o di Doderer. Resta però il fatto che, nono- stante il consiglio, infine, di non pubblicare il romanzo, Bazlen individui nella sola provenienza dell’autrice la ragione della sua bravura: Magda Szabo è ungherese, «quindi [il corsivo è di chi scrive] di una bravura caro- gna», e questo aspetto basta a farle guadagnare il riconoscimento di una abilità artistica di gran lunga maggiore rispetto a quella dei ben più noti autori anglosassoni. Tale abilità, peraltro, sembra consistere soprattutto in una scrittura essenziale, dunque in sostanza in uno stile snello e lon- tano da quell’eccesso di enfasi che rientra fra le più frequenti critiche che Bazlen muove agli scrittori. Secondo un ragionamento che non appare dissimile a quello che lo guida nelle valutazioni su Magda Szabo, peraltro, molti saranno i nomi Gli scrittori yiddish raccomandati da Bazlen. di scrittori yiddish che Bazlen raccomanderà. Egli infatti apprezza le loro capacità di rappresentazione di un mondo quanto mai lontano da quel- lo del lettore italiano e, anche in questo caso, l’immediatezza della loro scrittura: tutti aspetti che per Bazlen assumono un positivo valore «antropologico»76. Resta però anche ferma la riserva che un tale tipo di scrittura possa essere un ingrediente non apprezzabile per il lettore ita- liano, secondo Bazlen più affascinato dalle ampollosità dello stile. Comunque, nella stessa lettera in cui dà il proprio parere circa L’affresco di Magda Szabo, egli, valutando la possibilità di pubblicazione da parte di Einaudi di un’antologia di letteratura yiddish, propone appunto anche l’assunzione di un consulente specifico per la letteratura ebraica, che

75 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 21 giugno 1961. 76 Ibidem.

132 sappia dunque introdurla nel catalogo della casa editrice nel modo più convincente e coerente con la sua “strategia”.

In David Laube: quattro racconti di quattro scrittori ebraici recenti. Due bellissimi. Non vi dico di farlo, perché un libro antropologico di pochi autori mi pare non vostro stile. Ma in ogni caso, vedere di pescare un consulente per la letteratura ebraica moderna, e chieder- gli che vi parli dei libri più lunghi di Jizchazk Schenhar e di Chajim Hasas. Meritano. [...]. (Molto bella anche la novella di Jehuda Ja’ari, ma di una purezza e di una semplicità - e di una lentezza - che qui da noi non attaccano)77 .

3.2.2 La letteratura del «giro di secolo»78.

«In genere, vi consiglio di cercare tra la letterature del giro di secolo, Il demone meschino di Fëdor dove c’è da pescare molto più di quanto si crede»79: così, il 28 aprile 1951, Sologub. Bazlen introduce un romanzo, Il demone meschino del russo Fëdor Sologub, al quale doveva tenere particolarmente, se dieci anni dopo, nel 1961, il nome di Sologub si legge ancora nelle lettere indirizzate ad Einaudi. Nonostante la tenacia con cui Bazlen torna negli anni a parlare di questo titolo, già dal 1954 la sua pubblicazione avverrà ad opera di Garzanti: cosa che comunque non toglie l’interesse che esso ha come esemplificazione delle idee editoriali e letterarie di Bazlen, ma anche della difficoltà che si può rilevare in lui a seguire “da vicino”, vale a dire con una costanza che si esplichi nel breve periodo, il percorso editoriale dei suoi autori prediletti. Per quanto infatti già dal 1951 Bazlen affermi che Il demone meschino è «un libro bellissimo»80, bisognerà attendere tre anni, dunque il 1954 in cui appunto cade la pubblicazione da parte di Garzanti, perché egli si soffermi sulle qualità del libro in una lettera edi- toriale ad esso specificatamente dedicata. «Ho avuto la sensazione di tro- varmi davanti a uno dei libri più perfetti o almeno più vivi per me, di quell’immenso periodo che va dalla fine del secolo alla prima guerra

77 Ibidem. 78 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 1 settembre 1951. 79 Ibidem. 80 Ibidem.

133 mondiale»81. Allontanandosi dal suo consueto stile, fatto di «subitanei sbalzi di valutazione, caratteristici di una spregiudicata lettura in fieri»82, in questo caso Bazlen circoscrive puntualmente gli elementi che per lui ren- dono il primo quindicennio del Novecento «immenso», aggettivo che nasconde una sua decisa predilezione appunto per la letteratura prodot- ta in questo periodo: «era il momento in cui nascevano le nuove formu- lazioni psicologiche, e la narrativa migliore e più attuale era tutta sul limi- te fra la creazione di immagini spontanee e la formulazione di determi- natori comuni»83. Un giudizio, quest’ultimo, dal quale sembra di poter vedere che se programma, se tecnica (definiti «determinatori comuni») potevano esservi in uno scrittore, essi erano ammissibili solo in seno a quelle «nuove formulazioni psicologiche», freudiane e junghiane, per la cui pubblicazione, come si è visto, Bazlen si era speso e si spenderà. Ed è anche da notare che le osservazioni di carattere storico-letterario che egli fa in merito a Il demone meschino di Sologub si trovano per così dire riflesse nelle notazioni editoriali che nella stessa lettera si possono legge- re: Bazlen cioè sembra creare un parallelo fra il clima culturale che aveva aperto il ventesimo secolo84 e quello che caratterizza i lettori a lui con- temporanei, nel momento in cui afferma che, nelle «letterature del giro di secolo», «i meno-di-trent’anni di oggi faranno scoperte emozionanti e troveranno le radici più vicine, e finora sconosciute, di tutti i loro moti- vi e di tutti i loro problematismi»85. I problemi di quei giovani che «lo interessavano come tali, come persone che la vita non aveva ancora gua- stato»86 potrebbero dunque trovare un sollievo e una risposta nell’«autentico»87, nel «mitico»88, nel «sogno»89 che caratterizzano Il demo- ne meschino di Sologub, romanzo che risale al 1905: che i quarant’anni che separano la prima edizione del libro dalla sua traduzione italiana non costituiscano per Bazlen un ostacolo al suo valore è d’altronde confer-

81 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 280. 82 Sergio Solmi, Nota, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 269. 83 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 281. 84 A tale clima, peraltro, almeno dal punto di vista letterario egli aveva fatto cenno in una sezio- ne delle Note senza testo dal titolo “Problema dell’epoca”: al suo interno, un aforisma parla infatti dei “grandi complicati dell’Ottocento”, definiti unicamente come “figure della dissoluzione, senza soluzioni”. Cfr. Ivi, p. 183. 85 Ivi, pp. 280-281. 86 Testimonianza di Luciano Foà riportata in Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 71. 87 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 282. 88 Ibidem.

134 mato dalla risposta che il 4 luglio 1954 egli fornisce a un’osservazione di Foà. Quest’ultimo doveva evidentemente aver fatto notare all’amico quella che riteneva una mancanza di attualità del libro, se Bazlen gli risponde come segue:

non d’accordo col tuo argomento: “resto ormai noto”: vale per tutti i classici. Ciò che conta, sempre, è la grande carica della erstmalig- keit [lett. «per la prima volta»]. O almeno l’attualità frenetica nel momento in cui il libro fu scritto90.

Il demone meschino, dunque, ha valore prima di tutto come libro che incar- na quella che nelle sue Note senza testo Bazlen designa, senza però davve- Il concetto di primavoltità. ro definirla, come «primavoltità»91: dunque un’«attualità frenetica», un’ur- genza che quasi costringe l’autore alla scrittura, e che è segnata da una «carica» tale da perdurare negli anni, costituendo un valore alternativo rispetto al rientrare o meno di un libro nella categoria dei “classici”. Dal passo appena citato, si comprende perché a proposito di Bazlen si trovi scritto che «rinnegava [...] apertamente il valore dei classici e si avventu- rava in ardite esplorazioni culturali, cercando lo strano, l’inconsueto»92. Il confronto di un libro come Il demone meschino con altri ad esso contem- poranei, e soprattutto di gran lunga più noti, non doveva quindi spaven- tarlo in alcun modo o spostare il suo giudizio, dal momento che appun- to alla stabile appartenenza di un libro al panorama letterario egli predi- ligeva la «primavoltità»: per tale ragione, ad esempio, il romanzo di Sologub per Bazlen «non è soltanto l’unico romanzo russo che rimanga del 900-917, ma anche uno dei pochissimi non sfioriti di quel periodo (e di dopo) di tutto il mondo»93. Un tipo di giudizio molto simile a quello appena citato vale d’altronde Mysterien di Knut Hamsun. anche per un altro autore operante fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, ovvero il norvegese Knut Hamsun. La prima presen- tazione da parte di Bazlen del suo Mysterien si colloca poco prima di quel-

89 Ibidem. 90 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 4 luglio 1954. 91 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 230. 92 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 123. 93 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 30 agosto 1961.

135 la di Sologub, ovvero nel luglio del 1953, quando Bazlen lo indica come un romanzo «che frega tutta la letteratura americana di questi ultimi trent’anni»94: una letteratura nei confronti della quale, tranne poche ecce- zioni, egli nutriva una certa diffidenza, forse in conseguenza del suo rite- nere «superflua [...] probabilmente tutta l’America»95. Anche a proposito di Hamsun, peraltro, Bazlen pone in evidenza la novità del romanzo, rimasta tale dopo la sua prima pubblicazione avvenuta nel 1892, atten- dendo però otto anni per tornare a parlarne. Solo nel maggio del 1961, infatti, Hamsun ricompare come uno dei «uno degli ultimi grandi romanzieri europei»96, forse in ragione del fatto che la «parte vecchia»97di Mysterien, ovvero quella che potrebbe risultare più lontana dalla mentali- tà e dall’orizzonte d’attesa del lettore del Novecento, per Bazlen «non pesa»98. Al contrario, il romanzo appare caratterizzato da un elemento di «primavoltità», laddove con essa questa volta sembra si intenda più la decisiva presenza di un elemento di innovazione, consistente nel fatto che il protagonista di Mysterien è definito come «Il Grande Sgangherato in preda all’inconscio, inventato dieci anni prima delle prime pubblica- Il rifiuto di Mysterien e zioni psicoanalitiche di Freud»99: Hamsun, insomma, è riuscito a creare l’inasprirsi di una un personaggio che addirittura anticipa quelli che per Bazlen sono fra gli già compromessa apporti culturali più “vivi” ed innovativi di tutto il Novecento. Resta tut- collaborazione. tavia da evidenziare il fatto che, così come nel caso di Sologub, la pro- posta di Bazlen relativa all’opera di Hamsun non verrà accolta da Einaudi: ulteriore ragione di delusione per lui, che in effetti, soprattutto negli ultimi anni della propria collaborazione con Einaudi, non manche- rà di fare presente quantomeno il proprio disappunto. A Daniele Ponchiroli, ad esempio, Bazlen chiederà esplicitamente di «tener d’oc- chio (o far tener d’occhio) anche i romanzi non impossibili (anche se discutibili) che vi ho segnalato in questi ultimi anni, e di cui non ho sapu- to più nulla»100: fra essi, appunto, egli cita in primo luogo Il demone meschi-

94 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 2 luglio 1953. 95 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 15 febbraio 1960. 96 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 310. 97 Ibidem. 98 Ibidem. 99 Ivi, pp. 310-311. 100 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 22 dicembre 1961.

136 no di Sologub, «che mi ostino a considerare uno dei romanzi ancora vivi del primo anteguerra»101. Se frequente è la presenza, fra le proposte editoriali di Bazlen, di autori la cui opera si colloca fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX seco- lo, è perché in essi appunto egli doveva trovare un elemento di novità e di attualità, per di più non ancora scoperto in Italia: cosa che ancora una volta fa di lui un anticipatore, se ad esempio rispetto ad Hamsun egli afferma, nel 1961, di «averlo riletto [...] dopo 40 anni»102. Ad ogni modo, è bene comunque puntualizzare che se in particolare nei romanzi del «giro di secolo» Bazlen evidentemente trovava un apporto valoriale più innovativo rispetto ad esempio ai romanzi americani (per cui, ad esem- pio, il protagonista di Mysterien «tiene discorsi nietzscheani tutti sballati e in fondo tutti giusti»103), è però altrettanto vero che la novità in sé e per sé, al di là del suo collocarsi in un dato periodo, lo attraeva particolar- mente. È questo un aspetto che emerge ad esempio in un «bellissimo»104 parere a proposito di Ferdydurke dello scrittore polacco Witold Il parere su Ferdydurke di Gombrowicz, dunque un romanzo che si colloca successivamente Witold Gombrowicz. rispetto a quelli appena citati, essendo del 1937.

Direi assolutamente di SÌ!!! Mi sono divertito un mondo e mezzo; ed è uno degli alleati più one- sti che si possano avere nella vera rivoluzione contro il amore, la arte, gli immortali principi e tutte le fregnacce che sai105.

Con quella che ancora una volta appare come una almeno ostentata freddezza, Bazlen mostra nel passo appena citato quell’aspetto, che si è già rilevato per esempio rispetto alla sua posizione circa il fascismo e soprattutto l’antifascismo, di deciso rifiuto di qualsiasi valore o posizio- ne culturale che egli consideri precostituiti, invecchiati, o, sembra, sem- plicemente condivisi da troppi: rompendo con questo tipo di valori, che per la verità egli cita molto vagamente, Ferdydurke è da lui considerato, in ultima istanza, «un libro molto rispettabile, e veramente sano»106.

101 Ibidem. 102 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 310. 103 Ivi, p. 311. 104 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 105 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 285. 1067 Ibidem.

137 Sono questi ultimi aggettivi insoliti in uno scritto che, sebbene non pre- disposto alla pubblicazione, aveva comunque una valenza critica e di orientamento per il comitato editoriale einaudiano. Essi però, oltre ad essere molto frequenti nello stile di scrittura di Bazlen, a ulteriore testi- monianza del suo rapporto spontaneo e diretto col dato letterario, dovettero comunque risultare convincenti anche per Einaudi, dal momento che Ferdydurke verrà pubblicato, nella già citata collana dei «Coralli», già nel 1961, cosa che fa di Gombrowicz, fra l’altro, «lo scrit- tore polacco famoso che ha scoperto Bobi»107.

3.2.3 Lo «sguardo di Orfeo».

«Robbe-Grillet è uno dei tanti (dei quasi tutti) che stanno preparando la Robbe-Grillet e Blanchot. terza guerra mondiale; e da una cultura ridotta in questo stato non rima- ne altro che emigrare»108: è questo, in sintesi, il giudizio che nel maggio del 1956 Bazlen fornisce a proposito di uno dei maggiori rappresentan- ti del Nouveau roman francese, imputandogli sostanzialmente una capaci- tà di innovazione solo apparente, ed anzi addirittura «vergognosamente in ritardo»109 rispetto ad autori quali Dostoevskij. La stessa diffidenza, peraltro, lo guida quattro anni dopo almeno nelle prime battute del suo giudizio verso un altro saggista e romanziere francese vicino al Nouveau roman, Maurice Blanchot. A proposito del suo saggio Lo spazio letterario, infatti, Bazlen prima di tutto denuncia, in una lettera datata 9 aprile 1961, «certi suoi giri a vuoto, intorno a solidificazioni come il désir e la nuit e l’angoisse e quella mort che ti raccomando particolarmente, solidifica- zioni che si sono putrefatte nel simbolismo francese e nel classicismo postsimbolista»110: a Blanchot, insomma, Bazlen imputa la mancanza di reale capacità innovativa in favore dell’involuzione su temi e topoi lettera- ri per lui ormai sclerotizzati, ed ai quali si riferisce con un certo pungen- te sarcasmo. D’altronde, anche a uno scrittore sperimentale quale Alain Robbe-Grillet Bazlen aveva associato «uno dei tanti aggettivi di moda

107 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 108 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 283. 109 Ivi, p. 282. 110 Ivi, p. 305.

138 come “allucinato”, o “magico” o che so io»111, ad ulteriore messa in evi- denza di una supposta novità, che per lui non è tale. Allo stesso tempo, però, a proposito di Blanchot egli si mostra disposto a riconoscere anche gli aspetti positivi del suo lavoro: essi infatti sembrano quasi progressi- vamente emergere, di frase in frase, nello svolgersi del parere editoriale, di modo che il giudizio iniziale risulta in sostanza ribaltato. Quel che più conta, non è improprio vedere in alcuni aspetti del pensiero di Blanchot alcuni fondamentali puntelli teorici per le posizioni di Bazlen, che spes- so perdono di mordente perché segnate da un’eccessiva indeterminatez- za, causata dal fatto che, «nemico giurato di tutti i sistemi e di tutte le teo- rie in quanto tali, non ci offre esplicite spiegazioni in merito [alle proprie idee]»112. Nel frangente del giudizio relativo all’opera di Blanchot, Bazlen infatti così prosegue con le proprie considerazioni:

Mi sono messo a sfogliare L’Espace littéraire dapprima soltanto di malavoglia, poi anche irritatissimo di trovarlo meno irritantemente acrobata spirituale di quanto lo credessi, finché mi sono trovato Lo sguardo di Orfeo. davanti al capitolo «Le Regard d’Orphée» e qui mi sono messo d’impegno, perché [...] so che quando c’è di mezzo Orfeo (e Euridice poi!) trovo la chiave di tutta la mia intolleranza113.

Bazlen dunque ammette quello che è anche un suo personale pregiudi- zio, nel momento in cui si mostra irritato dal fatto di non avere trovato, in Blanchot, quelle caratteristiche che pensava lo avrebbero infastidito. Al contrario egli ammette, ed è questo il punto centrale del suo giudizio, di essersi «trovato davanti a sei pagine stupende, scritte non al di qua né al di là ma sullo spartiacque, dove la paradossalità inafferrabile del rap- porto artista-opera è espressa come non l’ho trovata espressa mai»114. Con «spartiacque» Bazlen intende per così dire il centro di quel proble- ma, relativo al rapporto fra lo scrittore e la sua opera, dunque fra la «vita» e la sua trasposizione sulla pagina, che come si è visto per lui era centra- le e fondante molte delle sue posizioni teoriche e scelte editoriali: in ragione di questo, la formulazione da parte di Blanchot di problemi affi- ni a quelli percepiti da Bazlen suscita il suo entusiasmo, e la sua piena

111 Ivi, p. 283. 112 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 89. 113 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 306. 114 Ibidem.

139 raccomandazione del libro, seppur nella consapevolezza che esso «non può avere molto successo»115. Una considerazione che evidentemente non spaventò nemmeno l’editore, se il libro venne poi pubblicato, nel 1967, all’interno della collana dei Saggi einaudiani116. L’opera «non ha nulla a che vedere col significato, col senso, come lo implicano l’esistenza del mondo e lo sforzo della verità, la legge e la chia- rezza del giorno»117: è questa solo una delle considerazioni presenti nel- l’opera di Blanchot circa l’«incompatibilità fondamentale»118 fra l’«imma- ginario»119 e il «mondo della realtà»120, nelle quali Bazlen doveva trovare riecheggiato il proprio personale sentire. In particolare, nelle pagine che Blanchot dedica al noto mito di Orfeo Bazlen poteva trovare un elemen- to propositivo che in qualche modo rispondeva ai suoi stessi dubbi, seb- bene presentato, attraverso il mito, in chiave metaforica e quasi sibillina: caratteristiche, queste ultime, che comunque dovevano risultargli conge- niali, se si pensa allo stile della sua stessa scrittura. «Orfeo è disceso verso Euridice: Euridice è, per lui, l’estremo che l’arte possa raggiungere; costituisce, sotto un nome che la dissimula [...], il punto profondamente oscuro verso cui l’arte, il desiderio, la morte, la notte sembrano tende- re»121. Interessante è notare il fatto che in questo passo Blanchot enume- ri esattamente quel «désir», quella «nuit» e infine quella «mort» che come si è visto suscitavano la massima irritazione di Bazlen. D’altra parte, però, questa formulazione costituisce la base da cui l’autore parte per trattare il problema che considera centrale, ovvero quello dello «sguardo di Orfeo»122: esso costituisce nello stesso momento la vanificazione e l’inveramento dell’opera, in una visione per molti aspetti vicina al para- dosso, come vicine al paradosso erano molte delle posizioni di Bazlen. Lo sguardo di Orfeo è infatti il

gesto proibito [...] che [egli] deve compiere per portare l’opera al di là di ciò che la garantisce, e può compiere ciò solo dimenticando l’opera, nel trasporto di un desiderio che gli viene dalla notte e che

115 Ibidem. 116 Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, traduzione di Gabriella Zanobetti, Torino, Einaudi, 1967. 117 Ivi, p. 228. 118 Jean Pfeiffer, La passione dell’immaginario in Maurice Blanchot, Lo spazio letterario cit., p. XI. 119 Ibidem. 120 Ibidem. 121 Maurice Blanchot, Lo spazio letterario cit., p. 147. 122 Ibidem.

140 è legato alla notte come la propria origine. In questo sguardo, l’ope- ra è perduta. È il solo momento in cui essa si perde completamen- te, in cui qualcosa di più importante dell’opera, di più destituito d’importanza che l’opera, si annuncia e si afferma. L’opera è tutto per Orfeo, eccetto quello sguardo in cui essa si perde; cosicché essa può appunto superarsi soltanto in quello sguardo, per unirsi alla sua origine e consacrarsi nell’impossibilità123.

La «paradossalità del rapporto artista-opera»124, che Bazlen sentiva per- sonalmente e ritrovava espressa nelle pagine di Blanchot, consiste quin- di proprio nel fatto che «l’ispirazione»125, dunque lo sguardo di Orfeo, si configura come «la negazione dell’opera in sé e per sé»126, divenendo «l’ultimo dono dell’artista alla sua opera, ma [...] anche il momento solen- ne in cui la sacrifica»127. Essa è insomma quello sguardo privo di volontà, di programma, di tecnica, che Bazlen richiedeva allo scrittore, “fidando- si” solo del valore e della veridicità dell’esperienza. Oltre a questo fon- damentale aspetto, diversi dovevano essere gli elementi di interesse che Lo spazio letterario aveva agli occhi di Bazlen: si può infatti immaginare, ad esempio, che la trattazione in chiave mitica di un discorso teorico (con uno spirito dunque molto simile a quello che guida la trattazione del mito di Odisseo nel Capitano di lungo corso) dovesse essere vissuto come un ulteriore elemento di consonanza con il proprio pensiero. Inoltre, le riflessioni di Blanchot si trovano esemplificate mediante trat- tazioni singole circa autori, quali Kafka, Rilke, Hofmannsthal, ed infine Hölderlin128, che come si è visto avevano in diverse circostanze cattura- to l’interesse di Bazlen. Forse anche alla luce di queste considerazioni, egli riteneva particolarmente valido il pensiero di Blanchot, tanto da invitare Foà, sempre nella lettera del 9 aprile 1961, a confrontare le sue

123 Ivi, pp. 149-150. 124 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 306. 125 Gianni Puglisi, Che cosa è lo strutturalismo, Roma, Astrolabio, 1970, p. 118. 126 Ibidem. 127 Ibidem. 128 Del poeta tedesco, infatti, il 1 luglio 1953 Bazlen aveva proposto, per i “poeti tradotti con testo a fronte” le “traduzioni ritmiche, buone e fedeli (ottime quelle in ritmi classici) di Hölderlin. Tante, direi, da farne già un volume. E di molte già il commento (solido) pronto” di Giorgio Vigolo. (Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lette- ra di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 1 luglio 1953). Il progetto peraltro andrà in porto, come dimostra la presenza, nella “Nuova collana di poeti stranieri con testo a fronte”, del seguente tito- lo: Friedrich Hölderlin, Poesie, traduzione e saggio introduttivo di Giorgio Vigolo, Torino, Einaudi, 1958.

141 pagine «con le scemenze su Orfeo nel libro di Marcuse, verso la fine, libro che avete accettato»129: si tratta in questo caso di Eros e civiltà, un 130 La traduzione di Eros e civil- saggio che peraltro già dal 1956 Bazlen aveva acconsentito a tradurre . tà con lo pseudonomo di In esso, tuttavia, egli doveva trovare più elementi di disvalore che non di Lorenzo Bassi. valore: un atteggiamento che non è difficile riscontrare anche rispetto ad altre opere tradotte per Einaudi. Al di là della coincidenza di vedute sul piano teorico che spinge Bazlen a caldeggiare la pubblicazione del libro di Blanchot, è inoltre interessan- te notare che il pensiero del saggista e romanziere francese assunse per lui tale rilevanza da portarlo a considerare alcuni libri alla luce delle sim- bologie e delle riflessioni da lui proposte: è Bazlen stesso ad ammetter- lo, nel momento in cui, solo un mese dopo la lettura di Lo spazio lettera- rio, egli scrive a Foà che «in Borges, e in parte in Blanchot, ho trovato i più comodi puntelli per quello che ti ho scritto quando mi sono arrab- biato con Sansom»131. Il riferimento è al parere editoriale che Bazlen aveva inviato pochi giorni prima a proposito di The Body, romanzo fir- mato dall’inglese William Sansom, rispetto al quale in primo luogo egli The Body di William Sansom. mette in evidenza, con impietoso sarcasmo, la completa mancanza di originalità. L’autore, infatti,

ha quella sensiblerie anonima basata sulla sofisticata conoscenza di quello che gli high-brow inglesi ritengono l’insondabilità della human condition [...] e la applicano sugli ultimi avanzi di Maupassant e Cecov spazzandoli in direzione di Proust e della Woolf, sollevando molto pulviscolo Dostoevskij132.

Dalla lettura di questo passo, risulta evidente come Bazlen imputi a Sansom una sostanziale mancanza di spontaneità, che rende il suo The body una sorta di vuoto scimmiottamento di opzioni stilistiche o conte- nutistiche un tempo rivoluzionarie, che tuttavia divengono banali nel momento in cui sono solo frutto di imitazione, e non fertile terreno di

129 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 306. 130 La traduzione, sulla quale si avrà modo di ritornare, verrà comunque realizzata, come fra l’al- tro testimonia il catalogo delle pubblicazioni Einaudi, dove Bazlen compare con lo pseudonimo di Lorenzo Bassi: Herbert Marcuse, Eros e civiltà, introduzione di Giovanni Jervis, traduzione di Lorenzo Bassi, Torino, Einaudi, 1964. 131 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 18 maggio 1961. 132 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 308.

142 evoluzione. A questo proposito, è interessante citare un aforisma delle Note senza testo, nel quale Bazlen afferma che «noi non abbiamo model- li, abbiamo solo precursori»133: in questo passo il fatto che l’opera dei grandi autori del passato non sia prototipo per un’imitazione condotta sulla sua falsariga, ma punto di partenza per un percorso indipendente, è indicato come un dato reale. Ma se si considera quanto Bazlen scrive per esempio a proposito di Sansom (e per la verità anche a proposito di molti altri autori), si comprende come quello che in sostanza è «lo sguar- do di Orfeo» appartenesse secondo lui solo a pochi. Non è infatti impro- prio vedere l’influenza delle formulazioni circa lo «sguardo di Orfeo» nella pretesa che l’opera non si fondi su uno sforzo di scrittura, dunque anche di imitazioni di modelli passati, ma sul naturale fluire di uno sti- molo che, appunto, «è più importante»134 di essa, in quanto muove da ragioni umane.

Mi sembra [...] raccapricciante il fatto che in Europa ci sia un uomo (tra infiniti altri, circa come lui) non stupido, con doti non disprez- zabili, umanamente probabilmente non troppo scadente che chi sa perché, [...], passa a tavolino, per un anno intero, non so quante ore al giorno, rompendosi la testa per «creare» un barbiere alle prese col suo senso d’inferiorità davanti a un garagista. In che mondo siamo? À quoi bon? Dell’à quoi bon, e delle ragioni (non «ciniche» , non disu- mane, anzi!) per cui ora [...] è il momento di farla smettere con i per- sonaggi «piccoli» , coi drammi soltanto descrittivi [...], ti scrivo un’al- tra volta135.

Nel caso di The body, dunque, lo «sguardo di Orfeo», o meglio la sua assenza, è assurto a movente, per quanto non esplicitato, della critica di Bazlen al libro: Sansom, cioè, ha scritto «rompendosi la testa», e senza volgersi a qualcosa di più importante del risultato del proprio sforzo. È inoltre anche interessante rilevare il fatto che in molti altri casi la presen- za dello «sguardo di Orfeo», rievocata esplicitamente o meno, sia anche quella caratteristica che suscita la sua passione per un libro. È questo il caso del romanzo dello scrittore ungherese László Németh, pubblicato Una vita coniugale di László nel 1965 nella collana dei «Supercoralli» con il titolo Una vita coniugale136 , Német.

133 Ivi, p. 229. 134 Maurice Blanchot, Lo spazio letterario cit., p. 149. 135 Roberto Bazlen, Scritti cit., pp. 310-311. 590 László Németh, Una vita coniugale, traduzione di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1965.

143 rispetto al quale Bazlen dà un primo deciso giudizio il 12 novembre 1960, avvertendo che «è da prendersi ad occhi chiusi [...]: è l’unico romanzo di razza che io abbia letto da quando leggo per voi»137. Un pare- re più articolato, nel quale il nome di Orfeo compare esplicitamente, si può leggere nella lettera del 10 aprile 1961, nella quale Bazlen fornisce la propria risposta all’esplicita richiesta da parte di Foà di un «giudizio dettagliato»138, richiesta così motivata: «Sapendo che il libro ti è piaciuto molto, vorrei vedere se non è il caso di tenerlo presente per il premio internazionale che sarà attribuito a Formentor ai primi di maggio»139. Nella sua lettera, datata 10 aprile 1961, dunque il giorno seguente rispet- to al giudizio su Blanchot, Bazlen premette di non conoscere «con esat- tezza le condizioni del premio»140, cosa che lo costringe a scrivere «del premio che darei io, a un autore vivente [...] per un’opera narrativa pie- namente realizzata»141: una premessa, questa, che mette in evidenza quanto il giudizio sia condizionato dalla soggettività di chi lo scrive.

Ti ripeto: opera pienamente realizzata. E con questo, scarto tutta la narrativa sperimentale (l’unica che ancora, e non troppo, mi interes- si) perché premierei coraggio, disinvoltura, spregiudicatezza, avven- turosità, consapevolezza di problemi scottanti, insofferenza di dischi vecchi e tutto quello che vuoi, in altre parole posizioni forse fertili e buone intenzioni, ma non quell’opera per intenderci sulla quale vi ho messo sotto gli occhi l’Orphée di Blanchot142.

In questo passo dalla lettura non immediata, Bazlen crea una completa sovrapposizione fra la figura di Orfeo così come Maurice Blanchot la descrive e la scrittura di Németh, che evidentemente condivide qualco- sa con la narrativa sperimentale, ma anche per certi aspetti la supera. Al di là del consueto ribaltamento paradossale per cui di seguito Bazlen afferma anche che «sub specie Orphée non premierei nessuno»143, risul-

137 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 12 novembre 1960. 138 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 19 febbraio1961. 139 Ibidem. 140 Ibidem. 141 Ibidem. 142 Ibidem. 143 Ibidem.

144 ta interessante cercare di circoscrivere in che cosa consista per Bazlen il quid che Németh ha rispetto a quegli scrittori, dunque come concreta- mente si realizzi lo «sguardo di Orfeo». In primo luogo, come si è già parzialmente visto, una dote di Németh risiede nel suo scrivere «mode- stamente»144, cosa che determina il fatto che nelle sue pagine «non [ci sia] puzza di volontà di opera d’arte, non [ci sia] emulazione»145. Al di là di questo aspetto, lo «sguardo di Orfeo» si configura anche come ciò che rende il romanzo

ricco, perché crea ininterrottamente qualcosa, senza ripetersi mai. Pensa al soggetto [...]: una specie di summa, di elenco di paradigmi, ma sempre vivo, mai “calcolato” o pedante - senza sospetto di fila- telia. È tutto necessario. Un miracolo146.

La posizione di Bazlen è in questo caso pienamente lucida: la vitalità della scrittura, dunque il fatto che essa non risponda ad un piano prece- dentemente elaborato, si traduce in una fertile creazione, la quale, rispondendo a una necessità personale, non può ripetersi, ma al contra- rio può solo affermarsi nella propria unicità. È questa la ragione che nel caso di Németh, e come si è già detto di altri autori, determina la com- partecipazione di Bazlen al libro, il suo coinvolgimento personale ed in ultima istanza il suo impegno per la pubblicazione. È curioso inoltre notare che la profondità, l’urgenza che genera l’opera, appaia mancante nei romanzi dello stesso Blanchot, che Bazlen si trova chiamato a giudicare. Il romanziere e saggista francese, quindi, almeno dal suo punto di vista, sembra aver creato sul piano teorico un “mito” di grande valore concettuale, che tuttavia poi non ha trovato quell’appli- cazione pratica, nell’opera, che ne testimoni la veridicità: in ragione di questo, l’«onestà» di Blanchot, dunque insieme la spontaneità e la fedel- tà a un’idea ben precisa dello scrivere che Bazlen molto spesso chiama in causa, risulta sostanzialmente compromessa. Di uno dei quattro romanzi di cui gli è stata affidata la lettura (ma senza specificare di quale si tratti), infatti, egli rileva che

144 Ibidem. 145 Ibidem. 146 Ibidem.

145 ha pagine (pagine!) che toccano per la loro precisione, petulanza e monomania - ma quello che è plausibile in una pagina, spesso in una frase diventa (almeno lo sospetto) esercizio, virtuosismo, gusto della sonata su una corda sola; l’Erlebnis [esperienza] gli scappa per la tangente della pagina scritta così bene147.

Con le parole appena citate, peraltro, Bazlen sostanzialmente conferma un giudizio che pochi mesi prima Calvino aveva dato circa il Blanchot romanziere, sostenendo che «è uno che lavora con grande rigore, nien- Il giudizio di Calvino su 148 Blanchot. te da dire, però è assolutamente negato a farsi leggere» . Proseguendo con le proprie considerazioni, Calvino inoltre sostiene che Blanchot «non prende; resta freddo e grigio»149: un’affermazione che sembra espri- mere le conseguenze più generali di quanto Bazlen aveva osservato sul piano della riuscita dello stile dello scrittore. L’ossequio alla pagina lima- ta che secondo Bazlen guida Blanchot nella sua scrittura narrativa smen- tisce insomma gli assunti espressi in Lo spazio letterario, laddove ad esem- pio si dice che «scrivere, incomincia con lo sguardo di Orfeo. Questo sguardo è l’impulso del desiderio che spezza il destino e la preoccupa- zione del canto e, in questa determinazione inspirata e incurante esso raggiunge l’origine, consacra il canto»150.

3.2.3 Lo «sguardo di Orfeo» nelle lettere editoriali.

Resta a questo punto da sottolineare un possibile altro risvolto delle posizioni che si trovano riassunte nello «sguardo di Orfeo», ovvero la rielaborazione di un mito che vede nello scrivere, come si è visto, un «desiderio che spezza [...] la preoccupazione del canto»151, prescinden- do dunque dai suoi risultati. Dallo specifico punto di vista di Bazlen, per questa ragione l’opera si deve porre, prima di tutto, come il dialo- go di un uomo con un altro uomo, giocato sulla condivisione di

147 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 21 ottobre 1960. 148 Lettera di Italo Calvino a Luciano Foà (San Remo, 26 giugno 1960) in Italo Calvino, I libri degli altri: lettere 1947-1981, Torino, Einaudi, 1991, p. 334. 149 Ibidem. 150 Maurice Blanchot, Lo spazio letterario cit., p. 151. 151 Ibidem.

146 un’esperienza e di una visione della realtà che in virtù della sua forza si fa appunto letteratura: come si è visto nel primo capitolo del presente lavoro, una conseguenza di questo risiede in primo luogo nel fatto che Bazlen rinunci alla scrittura di una propria opera dal momento che, appunto, non riesce a credere fino in fondo nella sua efficacia e nella possibilità che ancora l’autore possa porsi come «demiurgo, creatore di una struttura unica e totalizzante, percepita come rappresentazione della realtà»152 da sottoporre al lettore. D’altra parte, però, sembra anche che egli non rinunci del tutto, o forse non riesca a rinunciare, alla narrazione, e soprattutto alla narrazione come lui la concepisce, dun- La narrazione come que come condivisione di un’esperienza con un interlocutore che attra- condivisione di un’esperienza. verso la partecipazione emotiva ne uscirà arricchito. A questo propo- sito, Sergio Solmi sottolinea il fatto, per così dire sospetto, che Bazlen abbia conservato con cura, invece di distruggere, «i suoi quaderni e disegni [...] in un filo di ironica speranza»153. Secondo Solmi, infatti,

l’abbandono alla sorte di simili orme, segni, concrezioni, di tali testimonianze cristallinamente enigmatiche di un «passaggio», s’accorderebbe abbastanza bene al suo gusto per i documenti di vita, per i diari, per quel «non finito», tanto più rivelatore, per lui, delle opere finite e «costruite»154.

A parere di chi scrive, non è improprio vedere nel tono stesso di alcu- ne lettere editoriali una ulteriore esemplificazione di quanto Solmi giu- stamente osserva. Non è difficile, infatti, percepire come Bazlen colle- ghi strettamente il giudizio circa un libro con la circostanza nella quale lo ha letto: la quale, mediamente, viene descritta con un’attitudine appunto narrativa, e si fonde con gli aspetti caratteristici del libro, in un interessante gioco di condizionamenti reciproci. Un esempio partico- larmente significativo in tal senso è costituito dal parere editoriale del 2 giugno 1960 relativo a Le monde desert di Pierre Jean Jouve, opera che non troverà posto fra le pubblicazioni dell’Einaudi. A proposito di que- Le monde desert di Pierre Jean Jouve. sto libro Bazlen infatti preliminarmente dichiara che «qui c’entra un fatto personale»155, descritto subito di seguito con dovizia di particolari.

152 Paola Zelco, Roberto Bazlen: la scrittura dissolta cit., p. 20. 153 Sergio Solmi, Nota, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 270. 154 Ibidem. 155 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto 147 Per dare conto del coinvolgimento e del particolare spirito che le sue parole tradiscono, si cita il parere nella sua quasi totale interezza:

Anche questo l’ho letto in treno, attraversando la Svizzera, in un Quando il giudizio sul libro infernale vagone letto di tipo razionalissimo che non conoscevo, è condizionato da e che di giorno non ha divano, ma soltanto una poltrona di metal- circostanze personali. lo in un ambiente di metallo, e ci si sente come sulla sedia elettri- ca durante un viaggio interplanetario. [...]. In treno, faceva freddo, avevo passato una notte irritante sulle ruote, avevo una sgradevo- le sensazione di febbre, mi sono nuovamente sentito sfiorato dalla polmonite. Per cacciare questa sensazione, prendo in mano il libro [...], e mi trovo davanti al monologo durante il delirio di una pol- monite. Letto a freddo, forse mi sarebbe sembrato voluto, artifi- ciale, tirato per i capelli, - ma letto in quelle condizioni mi sono accorto che era di una precisione fotografica, e tutto quello che avrebbe potuto sembrare “stile” non era che una geniale econo- mia. Ho letto di un fiato tutto il libro sotto questo segno, e devo dire che mi ha “gepackt” [avvinto]156.

A dispetto del parere immediatamente successivo, a proposito di un romanzo del quale si dice unicamente che è «uno schifo»157, nel caso di Jouve è evidente come la forza della narrazione, che salva il suo libro dall’essere «voluto, artificiale», risvegli anche la compartecipazione di Bazlen e inconsciamente la sua personale necessità di raccontare e di abbandonarsi ad un gusto della descrizione (per esempio quella del treno) che nulla ha davvero a che fare con il libro in questione. Lo scambio fra lo scrittore e il lettore è dunque avvenuto, e permette a quest’ultimo di spaziare, di modificare il proprio giudizio e dare ad esso una forma che in parte esula dallo «schema»158 consueto delle let- tere editoriali, fondato principalmente su tre elementi, ovvero «la pre- sentazione [...] dell’autore»159, «la descrizione del testo»160, infine «il giu- dizio [...] sulla pubblicabilità»161. Inoltre, nel caso specifico di Jouve, la

Bazlen a Luciano Foà, 2 giugno 1960. 156 Ibidem. 157 Ibidem. 158 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 135. 159 Ibidem. 160 Ibidem. 161 Ibidem.

148 forza e l’evidenza della descrizione libera infine lo scrittore, almeno agli occhi di Bazlen, dal pericolo di incarnare quegli «altissimi ideali deodorati»162 nei quali lo scrittore è cresciuto e che avrebbero potuto condizionarlo negativamente: la spontaneità della scrittura, che accen- de il piacere e il bisogno di raccontare del lettore stesso, positivamen- te mette a tacere in Jouve «i concetti, il vocabolario, i luoghi comuni, i pregiudizi, i tabù, i miti»163, che a Bazlen risultavano, come si è visto, particolarmente odiosi. Se l’incontro tra l’esperienza dell’autore e quella del lettore spinge que- st’ultimo a “mettersi in gioco” sul piano del racconto (di modo che la lettura diviene «una continuazione di quella fittissima rete di rapporti umani che Bobi Bazlen andava tessendo di giorno in giorno»164), non è d’altra parte infrequente, come si è già accennato, la presenza di uno stimolo, per così dire, di fantasia, una fascinazione delle immagini, che può apparire come un’applicazione dello «sguardo di Orfeo» alla forma della lettera editoriale: vale a dire che, occasionalmente, per un momento Bazlen “si distrae” dalla finalità prima del proprio scritto, e mostra qualcosa di sé, o comunque qualcosa di altro rispetto al parere di lettura: cosa che aiuta a comprendere perché le lettere editoriali pos- sano essere considerate «le forme scritte in cui l’ingegno di Roberto Bazlen si esprime meglio»165. La momentanea deriva su un piano diver- so da quello del semplice parere editoriale avviene per esempio nel caso del parere circa il romanzo dell’americano Edmund Wilson Memoirs of Hecate county, nel quale il fastidio per una scrittura evidente- mente troppo scontata, quindi troppo poco stimolante, si traduce nel breve quadro che avvilisce lo scrittore a ruolo di cameriere, dipingen- do quindi il lettore come avventore libero di manifestare la propria insoddisfazione: «Wilson [...] mi serviva le pagine con stile perfetto, e l’unica cosa che sentivo veramente era l’irritazione di non potergli get- tare la mancia in faccia»166. Memoirs of Hecate county, peraltro, è nella stes- sa lettera posto a confronto con un altro romanzo americano, che

162 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 2 giugno 1960. 163 J. T., Uno strano caso di sterilità letteraria, in “Settanta”, agosto-settembre 1970, p. 78. 164 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 93. 165 Ivi, p. 134. 166 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 maggio 1960.

149 invece ha suscitato l’entusiasmo di Bazlen, e che meriterebbe dunque la mancia negata a Wilson. Si tratta di The looking glass di William The Looking Glass di William March. March, per descrivere il quale, nella lettera del 9 marzo 1960, egli aveva utilizzato l’evocativa metafora della «carne viva del racconto»167, pro- dotto da un autore che è «un matto con l’anima a fior di pelle»168. Il carattere viscerale dello scrivere di March determina così il fatto che in confronto al suo romanzo «tutto era piatto, anemico, sterile, di un materiale plastico sintetico (immagine che vale, passata la sbornia di William March, per quasi tutta la narrativa anglo-americana)»169. Lo stesso Bazlen, dunque, definisce il proprio parere editoriale come «immagine», e tuttavia nel farlo non dimentica totalmente la finalità prima di ciò che sta scrivendo, se tornando a parlare del romanzo come possibile pubblicazione egli conclude, in ossequio a un ragiona- mento di ordine editoriale, proponendo di «farlo e lanciarlo»170. La struttura generale della lunga lettera che ospita il parere editoriale circa The looking glass può inoltre esemplificare per un’ultima volta quel- la particolare forma di rapporto partecipativo e vitale, di interazione anche fantasiosa, che Bazlen sembra intrattenere nei confronti dei libri la cui lettura gli era affidata da Einaudi. Nel tentativo di disporre ordi- natamente una serie molto numerosa di pareri, infatti, egli chiarisce preliminarmente che «la mia norma e il mio argomento più valido sono il gusto e la compartecipazione con i quali li ho letti»171: e si può poi immaginare che sia appunto la «compartecipazione» che Bazlen sente o meno nel corso della lettura che lo porta a disporre le proprie trattazioni in categorie create ad hoc. Egli infatti parla in primo luogo dei libri «dei quali mi sento di rispondere» (o ancora, «che mi hanno dato veramente qualcosa»), seguiti dai «libri che non mi sento di scar- tare senza possibilità di appello», per concludere infine, «velocemente», con le «condanne senza appello». All’interno di questa “griglia”, che in se stessa tradisce anche solo un minimo aspetto di giocosità e soprat- tutto di creatività, i giudizi sui singoli libri ospitano poi altrettante brevi notazioni che coloriscono il semplice parere editoriale: la tendenza alla

167 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 293. 168 Ibidem. 169 Ibidem. 170 Ivi, p. 294. 171 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 9 marzo 1960. Le citazioni che seguono sono tratte dalla stessa lettera.

150 creazione di immagini e metafore si rivela poi soprattutto, in questo caso, circa i pareri negativi, laddove per esempio l’opera della scrittrice irlandese Iris Murdoch è definita, senza altra notazione, «prima della Iris Murdoch. classe; perfetta; sapore dei cibi congelati, prima di essere sgelati com- pletamente», dunque con un giudizio all’insegna del comico al quale fanno seguito le poche parole dedicate al sessuologo americano John Money: «altro primo della classe. Questo però, di una classe di defi- cienti». Giudizi impietosi e argomentati solo dall’evidenza delle imma- gini utilizzate, ai quali fanno da controcanto le brevi note positive come quella relativa all’opera dello scrittore russo Aleksandr Grin:

come per certe fiabe, si può capire soltanto mentre la si vive leg- gendola, - e come per certe fiabe, non si può dire se è bella o brut- ta - o si ingrana o non si ingrana. Io ho ingranato; quanta gente ci sia, in Italia, che possa ingranare, non so; io ne conosco parecchia.

Sembra dunque che «lo stretto legame esistente tra l’idea di letteratura (e di scrittura) coltivata dal lettore editoriale e il giudizio da lui espres- so»172 in Bazlen si declini anche in quanto si è appena cercato di descri- vere: ovvero la tendenza ad esprimere i propri pareri editoriali anche all’insegna del gioco descrittivo, della partecipazione emotiva, insom- ma di uno spirito e un’attitudine che non sono unicamente quelli del lettore editoriale che offre il proprio parere alla casa editrice. Tali aspetti, inoltre, nel caso di Bazlen costituiscono forse l’ultima applica- zione del sistema di reciproci richiami che lega il suo pensiero teorico con la scelta di non scrivere ed, infine, con il suo lavoro editoriale. Come si è visto nel primo capitolo, infatti, la scrittura, e soprattutto la pubblicazione, non sono strade che Bazlen si senta di intraprendere per intrattenere un proficuo dialogo con il pubblico dei lettori, cosa che lo spinge alla scelta, rappresentata metaforicamente ne Il capitano di lungo corso, di dedicarsi al lavoro editoriale: il quale dunque può essere visto come personale opzione rispetto alla «condizione estrema in cui la cultura letteraria del Novecento ritaglia il suo spazio più autentico e vitale»173. La coerenza della base teorica del proprio agire è dunque

172 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 140. 173 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 109.

151 molto forte: non è forse ingannevole, tuttavia, anche la percezione che se da un lato «il mandato letterario viene rifiutato, non assolto in quan- to già decaduto»174, dall’altro nel rifiuto di Bazlen si aprano piccoli spi- ragli, che probabilmente suppliscono a una soluzione non sempre sen- tita come soddisfacente. In questo modo, la lettera editoriale sembra essere intesa anche come una particolare e personalissima forma di prosa, di «possibilità espressiva»175, di divertito dialogo di un lettore La lettera editoriale come forma di prosa. con un altro lettore, nel tentativo di avvincerlo e convincerlo a legge- re a propria volta: ne emerge dunque un’urgenza di contatto con il pro- prio interlocutore che non è forse molto diversa da quella che, anche alla luce delle considerazioni circa «lo sguardo di Orfeo», secondo Bazlen dovrebbe guidare l’autore nel gesto della scrittura. Il risultato, in alcune lettere, sembra essere una sorta di reinvenzione ed ulteriore coloritura dello scrivere e dell’inventività altrui tramite l’intervento della propria inventività, che si esplica nel «porgere, [...] mostrare, [...] segnare in margine, [...] spargere indizi di quell’altrove che come un abisso soggiace a tutto lo scrivibile e il dichiarabile»176. Per fare un ulti- mo esempio, la descrizione, indirizzata a Italo Calvino, della trama di A house for Mr Biswas di V. S. Naipaul si trasforma nelle veloci e diver- tite righe che si riportano di seguito, dedicate alla descrizione delle vicende di un personaggio, indiano come l’autore che lo ha creato, destinato a «morire [...] disoccupato e di mal di cuore, dopo essere stato ammalato di stomaco per almeno quattrocento pagine»177:

metti assieme tutti questi capitoli, e hai non soltanto la vita com- pleta del Signor Biswas, ma anche quella (completa) del clan di sua moglie, che lo divora - suocera, se ben ricordo undici cognate tra cui tre vedove (vedove!) e dunque otto cognati, più due cognati fratelli della moglie, sorella della suocera, cognato della suocera, un grouillement di infiniti nipoti in un caos garantitamente napo- letano, tutti ben caratterizzati, tutti distinguibili, tutti ininterrotta- mente in piena azione, per lo più nefasta178.

174 Ivi, p. 108. 175 Ivi, p. 62. 176 Rolando Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro cit., p. 78. 177 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Italo Calvino, 21 febbraio 1962. 178 Ibidem.

152 3.2.4 Gli autori italiani.

Se, come si è visto fino ad ora, il criterio primo dei giudizi dati da Bazlen consisteva nella valutazione di quella che è da lui definita come una «compartecipazione» rispetto al libro, e dunque una relazione prima di tutto umana con il suo autore, non sarebbe inopportuno aspettarsi da parte sua la promozione, accanto a quegli autori mitteleu- ropei che come si è visto egli promosse tenacemente, di scrittori italia- ni, partecipi dunque di «mondi» tendenzialmente molto vicini a quelli che egli stesso condivideva. Al contrario, però, l’esiguità di nomi italia- ni citati nelle lettere ad Einaudi induce a riflettere ulteriormente circa le sue esigenze come lettore, a volte contraddittorie e spesso difficili da delineare. A questo proposito, poi, si può osservare che se a proposi- to di Einaudi è bene tenere a mente che il ruolo principale di Bazlen era, come si è detto, quello di consulente per le letterature straniere, d’altro canto, anche nel caso degli altri numerosi editori con i quali col- laborò, la proposta di autori italiani, contemporanei o meno, è presso- ché nulla.

In genere, come vedrai, comincio a puntare, per i Coralli, su libret- ti di - o su - altre culture. Non esotismi decorativi [...], né usi e costumi da romanzo coloniale inglese. Ma che ci sia almeno un paesaggio poco noto, o un modo di vivere che non sia il nostro. Tutto quello che raccontano - o che si svolge tra - i visi pallidi, è diventato di una monotonia esasperante: la Invernizio e Blanchot sono diventati quasi la stessa cosa179.

Dal passo appena citato emerge con una certa evidenza la denuncia da parte di Bazlen di una certa monotonia e mancanza di vitalità (dunque di interesse) nella letteratura europea, la quale si traduce nella proposta, in questo caso, del romanzo di un autore camerunense, ovvero Le vieux négre et la medaille di Ferdinand Oyono, rispetto al quale egli comunque specifica che si tratta di un «autore negro, non primitivo, ma letterato francese»180: tutte caratteristiche che non varranno comunque a deter-

179 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 21 ottobre 1960. 180 Ibidem.

153 minare la scelta di acquisto dei diritti, se un anno dopo, il 22 dicembre 1961, Bazlen lamenterà la mancata pubblicazione del libro, questa volta definito come «un’inezia molto simpatica»181. Ad ogni modo, in conseguenza di quanto si è appena rilevato si può supporre che accan- to alla necessità di «compartecipazione», che avrebbe potuto spingere Bazlen in direzione della letteratura italiana, doveva intervenire anche L’unicità del libro. un altro valore per lui fondamentale, ovvero l’unicità del libro, la sua capacità, appunto, di presentare agli occhi del lettore «un modo di vive- re che non sia il nostro». È comunque bene tenere a mente che all’in- terno di questo criterio generale sia però ancora una volta la vicinan- za, la presenza di un orizzonte di valori condiviso da autore e lettore, a guidare l’attenzione di Bazlen verso uno scrittore italiano piuttosto che un altro. L’esempio di Stelio Mattioni, autore non a caso triestino del quale egli, oltre che «ignoto “regista” del “caso Svevo”»182 è consi- derato «scopritore»183, è a questo proposito significativo: e ciò a mag- gior ragione se si considera che il parere editoriale relativo alla sua rac- colta di novelle I sosia compare proprio nella stessa lettera, quella del 21 ottobre 1960, in cui Bazlen dichiara la propria intenzione di punta- re, per i Coralli, su «altre culture». La lettura data dell’opera e del per- sonaggio di Mattioni (come sempre strettamente connessi fra di loro) è infatti condotta tenendo in gran conto la sua provenienza triestina:

è venuto a trovarmi, qualche settimana fa, un non intellettuale trie- stino, l’ometto Stelio Mattioni, sotto i 40 anni, impiegatino self- Stelio Mattioni. made, provincialissimo come non lo si può essere che a Trieste, simpaticissimo (anche alla Ljuba), autore di un volume di versi disprezzatissimo da Stuparich and Co, [...] e mi ha lasciato il suo piuttosto grosso manoscritto, i Sosia, 3 lunghe novelle184.

In primo luogo, dunque, come spesso avviene Bazlen dà un veloce inquadramento, ma sempre di grande incisività, circa l’autore, conside- rato come uomo, anzi come «ometto», con un termine che si riferisce

181 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 22 dicembre 1961. 182 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 19. 183 Ibidem. 184 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 21 ottobre 1960.

154 dunque anche all’aspetto fisico di Mattioni. Quel che più conta, nel caso specifico la valutazione circa l’uomo è data sulla base della prove- nienza da una città, appunto la stessa nella quale Bazlen era cresciuto e si era formato, che viene considerata come ragione del provinciali- smo di Mattioni. Il fatto poi che il gruppo di intellettuali con i quali egli ha a che fare sia costituito da «Stuparich and Co.» non sembra costitui- re un elemento positivo, se si considera quanto Bazlen andava dicen- do di lui e della sua opera letteraria185: come a dire che ai limiti della mentalità di Mattioni dovevano corrisponderne di paragonabili nella cerchia degli intellettuali della sua città, che Bazlen conosceva molto bene. Al di là di queste prime considerazioni di natura umana, nelle quali la presenza di Trieste è forte, ma di segno negativo, è interessan- te notare quanto si può leggere a proposito dell’opera in sé e per sé dello scrittore: anche nella formulazione del giudizio circa quest’ulti- ma, infatti, la città, o meglio la sua produzione letteraria, ha un ruolo determinante, questa volta però in quanto termine di paragone per la produzione dei giovani autori triestini. Della raccolta I sosia, infatti, dopo aver dichiarato che «non mi sembra roba da buttar via alla legge- ra»186, Bazlen osserva quanto segue:

c’è aria (non imitazione) di Svevo, c’è in certi episodi l’intensità che avevano a suo tempo (ora l’hanno perduta, e si sono dissolti in con- fusione, in leziosità stilistiche - ho tentato di rileggerli mesi fa) i Tre crocifissi di Quarantotti, c’è necessità - anzi un (molto modesto) demone.

Sembra dunque che il valore che caratterizza l’opera di Mattioni sia da vedersi prevalentemente nel suo riecheggiare un elemento noto non solo a Bazlen, ma a qualsiasi lettore italiano, ovvero il tono della scrittura sve- niana. L’esigenza del nuovo, dell’unicità del libro, sembra dunque qui tra- dotta in una ricerca di segno quasi opposto, ovvero la riconoscibilità della scrittura di Mattioni sotto l’insegna di quella di uno dei maggiori

185 Si ricordi a questo proposito il già citato passo di una lettera del 1949 di Bazlen all’amico trie- stino Giorgio Voghera, nella quale si legge: “ho capito una volta di più perché non voglio rivede- re trieste (anche il libro di Stuparich che ho sfogliato rapidamente, me lo fa comprendere, grün- dlich [“a fondo”]). La citazione è tratta da Roberto Bazlen, Giorgio Voghera, Le tracce del sapiente, Lettere 1949-1965 cit., p. 29. 186 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 21 ottobre 1960. Da essa sono tratte le citazioni che seguono.

155 autori della letteratura di Trieste. Tale tipo di atteggiamento, in parte diverso da quello che si è fino ad ora rilevato, deriva forse anche dal fatto che come si è visto gran parte dei “valori letterari” cui Bazlen si richia- ma sono riconducibili al contesto triestino: rispetto ad un «mondo» che egli conosceva così bene perché era stato anche il suo, dunque, gli era forse inevitabile cercare ciò che gli era noto e che gli risultava ricono- scibile. In tal modo, la «necessità», valore come si è visto fondante in Bazlen ed equivalente alla forza dell’esperienza che spinge alla scrittu- ra, appare qui adombrata da valutazioni di ordine diverso, in nome delle quali, ad esempio, l’«ingenuità» di Mattioni è designata come «quasi scostante», e a «chi guarderà le novelle» viene consigliato di superare «la barriera dell’home made». La spontaneità e la semplicità della scrittura, che in altri contesti avevano raccolto ogni approvazio- La spontaneità e la ne da parte di Bazlen, in questo frangente appaiono invece più come semplicità della scrittura elementi di disvalore, o comunque rientrano fra quegli aspetti rispetto come elementi di disvalore. ai quali egli sembra prescrivere un impegno e un miglioramento all’au- tore. Stupisce infatti, se si pensa a quanto detto fino ad ora, che Bazlen osservi fra l’altro che «se un Vittorini se la sentisse di “educarlo”, come ha fatto con uno degli scrittori di Menabò, potrebbe saltar fuori, mi pare, molto più di uno scrittore da Menabò». A fronte di giudizi già citati in cui Bazlen elegge a motivo di valore di un libro il fatto che esso sia «nato - non [...] scritto»187, può risultare disorientante che per un giovane autore, del quale peraltro riconosce l’abilità, egli pensi addirit- tura ad una forma di “educazione”, dunque, sembra, all’apprendimen- to di modalità di scrittura ritenute più consone rispetto a quelle adot- tate spontaneamente da Mattioni. Oltre a quelle già considerate, altre possibili ragioni dell’ipotesi di revi- sione di I sosia sollevata da Bazlen si possono leggere in una lettera inviata allo scrittore pochi giorni dopo quella einaudiana, il 25 ottobre 1960. In essa, in primo luogo Bazlen lo mette in guardia da eccessive illusioni di pubblicazione («dubito molto. Ma stiamo a vedere»188). Un aspetto, d’altronde, sul quale fa alcune considerazioni anche nella let- tera a Foà, nel momento in cui, dopo aver ventilato l’ipotesi che

187 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 291. Si tratta in questo caso del già parzialmente citato parere edi- toriale circa Blind Owl dello scrittore iraniano Sadègh Hedayàt. 188 Lettera di Roberto Bazlen a Stelio Mattioni (Venezia, 25 ottobre 1960) in Roberto Bazlen, Scusi questo tono da maestrino. Una lettera inedita allo scrittore triestino, in “il Piccolo”, 14 aprile 1993, p. 5.

156 Mattioni possa diventare uno «scrittore da Menabò»189, egli osserva che queste sarebbero «fortune, mi pare, che non sono nel destino di Mattioni»190: sono, queste, riserve per la verità ingiustificate, dal momento che Il sosia già nel 1962 verrà pubblicato nei «Coralli»191, col- lana di narratori contemporanei italiani ed esteri. Il fatto che le propo- ste di Bazlen ebbero un seguito tangibile, peraltro, è testimoniato da una lettera che il 29 novembre 1960, dunque un mese dopo la sua segnalazione, Calvino scrive appunto a Vittorini, al quale poi il libro «piacque»192, per annunciargli che

siamo in possesso d’uno scrittore che mi pare del tutto eccezionale. Non somiglia a nessuno, ha un mondo fantastico proprio e di gran- de forza, ed è “misterioso” sul serio, senza nessuna compiacenza fumistica. Si chiama Stelio Mattioni, [...] è triestino. Ci arriva trami- te Bobi Bazlen193.

Al di là di questo, è interessante notare come nella sua lettera a Mattioni Bazlen ponga la sua scrittura in opposizione a quella degli altri autori ita- liani (un aspetto rilevato anche da Calvino), dall’altro gli consigli un lavo- ro di rigida revisione, dunque appunto anche di parziale snaturamento della propria spontaneità, in ossequio al gusto del lettore italiano. La terza novella della raccolta è così presentata come «non bella, anzi, ma necessaria, intensa, in certi punti un po’ invasata»194 e tali aspetti sono indicati come positivi, dal momento che «sono qualità che non appar- tengono agli italiani»195. Subito di seguito, tuttavia, Bazlen prosegue

189 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 21 ottobre 1960. 190 Ibidem. 191 Stelio Mattioni, Il sosia, Torino, Einaudi, 1962. È interessante notare, peraltro, che a partire dalla fine degli anni Sessanta diverse opere di Mattioni entreranno a fare parte del catalogo Adelphi. 192 Bruno Maier, Saggi sulla letteratura triestina del Novecento cit., p. 289. 193 Lettera di Italo Calvino a Elio Vittorini (29 novembre 1960) in Italo Calvino, I libri degli altri: lettere 1948-1981 cit., p. 348. Il seguito della lettera che Calvino scrive a Vittorini, peraltro, per- mette di vedere come in effetti l’ipotesi ventilata da Bazlen di un Mattioni come “scrittore da Menabò” fu accettata e portata avanti all’interno della casa editrice. Calvino infatti a proposito dei tre racconti de I sosia afferma che «si potrebbe sceglierne uno dei tre [...] per il Menabò, data la notevole lunghezza, e poi pubblicarne tre nei Coralli». Sarà quest’ultima possibilità ad essere realizzata da Einaudi. 194 Lettera di Roberto Bazlen a Stelio Mattioni (Venezia, 25 ottobre 1960) in Roberto Bazlen, Scusi questo tono da maestrino. Una lettera inedita allo scrittore triestino cit., p. 5. 195 Ibidem.

157 annotando che «d’altra parte c’è qualche ingenuità, certi svolgimenti poco (o niente motivati), - e quello che gli “italiani” non perdonano, qualche infelicità o goffaggine d’espressione»196: tutti aspetti di fronte ai quali, inaspettatamente, Bazlen assume consapevolmente «un tono didattico, da maestrino»197, del quale si scusa con lo scrittore, e che in effetti appare inaspettato a maggior ragione se si considera la sezione delle Note senza testo relativa all’immaginario dialogo fra un «allievo»198ed un «maestro»199. In essa, per fare un solo esempio, alla domanda «allora non sei una guida?»200 postagli dall’allievo, il maestro umilmente risponde: «no, quanto te, perché tu mi sei venuto incontro... e che tu mi sia venuto incontro è il mio limite»201. Resta comunque il fatto che se da un lato non è improprio vedere una parziale incoeren- za nell’atteggiamento di Bazlen nei confronti di Mattioni, dall’altro lato, alla luce delle testimonianze di quest’ultimo, il suo atteggiamento non deve essere considerato eccessivamente severo. L’immagine che di Bazlen lo scrittore triestino restituisce è infatti quella del paziente mae- stro, descritta nelle Note senza testo e caratterizzata dalla

soddisfazione di avermi “scoperto”, che nei suoi giudizi non ebbe mai l’aspetto di una lezione, ma d’incoraggiamento continuo sì, e direi interessato oltre i limiti di un espertissimo nei confronti di uno scrittorello spontaneo che cercava di corrispondere alle sue speran- ze facendo del proprio meglio202.

D’altronde, non è inopportuno considerare il fatto che lo stesso Calvino, nella già citata lettera a Vittorini a proposito de I sosia, descritti come la rappresentazione di «un fondo di ambienti piccolo borghesi triestini visti senza misericordia, sul quale si staccano le storie più strane»203, ponga in evidenza, ad esempio, il fatto che «il primo è molto sgangherato e scritto

196 Ibidem. 197 Ibidem. 198 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 222. 199 Ibidem. 200 Ivi, p. 223. 201 Ibidem. 202 Intervento di Stelio Mattioni al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85 cit., p. 58. 203 Lettera di Italo Calvino a Elio Vittorini (29 novembre 1960) in Italo Calvino, I libri degli altri: lettere 1947-1981 cit., p. 348.

158 coi piedi, e poi man mano negli altri racconti si va facendo più bravo»204: un parere che insomma dimostra, insieme alle ammissioni di Mattioni stesso, quanto forse le osservazioni di Bazlen non fossero arbitrarie. Sempre strettamente legato al mondo intellettuale triestino è un altro libro italiano, dal titolo Il segreto, con il quale Bazlen sembra mostrare una certa affinità: tuttavia è bene tenere conto che essa non è espressa nelle lettere inviate ad Einaudi, presso il quale d’altronde egli stesso riconosce che «il mio campo è rigidamente ridotto alle letterature estere»205. Le trac- ce dell’apprezzamento circa questo romanzo vanno invece cercate nel carteggio intrattenuto negli anni, per la verità con una certa incostanza, con l’amico Giorgio Voghera, autore del più volte citato Gli anni della psi- 206 canalisi. L’amicizia con Voghera non fu «in nessun caso [...] letteraria» , L’amicizia con Giorgio 207 visto il fatto che su questo tema tra i due non ci fu mai «un’intesa» : li Voghera e il manoscritto del divideva, infatti, il fatto che l’amico fosse più «legato alla cultura classi- padre Guido. ca»208, cosa che come si è visto non apparteneva del tutto a Bazlen. Eppure quest’ultimo, chiamato ad esprimere il proprio parere circa il romanzo Il segreto, del padre di Giorgio, Guido Voghera, non mancherà di dare una lettura, tanto “veloce” quanto significativa, che tuttavia non prende «in considerazione [...] la possibilità di una pubblicazione»209. Secondo un atteggiamento che non gli era del tutto estraneo, infatti, Bazlen procrastina il più possibile il momento in cui dovrà rispondere alle domande che gli vengono poste. Giunto poi quel momento, egli espone concisamente idee e pareri sui quali promette di ritornare, lasciandoli, come ad esempio avviene anche per il Capitano di lungo corso, «concludersi in nebbioso avvenire, o [...] non concludersi mai»210. Dalla lettura delle lettere fra Bazlen e Giorgio Voghera, infatti, emerge che il manoscritto de Il segreto, il cui autore volle peraltro restare anonimo, affi- dandolo al figlio per una pubblicazione postuma, fu consegnato a

204 Ibidem. 205 Lettera di Roberto Bazlen a Stelio Mattioni (Venezia, 25 ottobre 1960) in Roberto Bazlen, Scusi questo tono da maestrino. Una lettera inedita allo scrittore triestino cit., p. 5. 206 Intervento di Giorgio Voghera al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85 cit., p. 23. 207 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 21. 208 Ibidem. 209 Intervento di Giorgio Voghera al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85 cit., p. 23. 210 Sergio Solmi, Nota, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 270.

159 Bazlen già dal 1949: il 23 dicembre di quell’anno, infatti, egli scrive che «per non “sfogliare rapidamente” il tuo manoscritto, non l’ho ancora letto», concludendo con la promessa di farlo «nei primi giorni di genna- io»211, ed esprimendo la consueta avversione nei confronti della città natale («intanto, a Trieste, non salutarmi nessuno, ma salutami i tuoi, che sono in Palestina»212). Più importante è il fatto che dalle parole che si sono appena citate risulti evidente che a Bazlen venga fatto credere che Il segreto sia opera di Giorgio Voghera. Con questa fallace consapevolez- za, dopo aver lasciato scorrere due anni, il 20 novembre 1951 Bazlen formula il proprio parere sul manoscritto: un giudizio che appare in sostanza molto positivo. In primo luogo, infatti, Bazlen premette che vorrebbe trattare la questione a voce, «una volta, molto a lungo»213, dal momento che il romanzo «implica tali problemi che non hanno nulla a che fare [...] con le usuali discussioni dei “casi di vita”»214. Posto questo, così prosegue nel proprio giudizio:

l’unica cosa che ti posso dire è che mi ha toccato moltissimo, che se il termine non fosse troppo logoro ti direi che sono veramente vis- suto sotto il fascino di certe tue lucidità (ti ripeto che l’ho letto in due giorni e mezzo, e non per buttarlo giù e farla finita), e che chi sa vivere con tale intensità un’esperienza non ha il diritto di fermar- si, e di chiudere bottega215.

Per quanto, come si è detto, egli non si sia potuto impegnare per la pub- blicazione de Il segreto, è evidente che avendone avuto la possibilità Bazlen avrebbe promosso il romanzo: nel parere appena citato, infatti, egli pone in luce il coinvolgimento che la forza e l’intensità di un’espe- rienza causano in chi legge e che, come si è visto, in numerosi casi lo ave- vano spinto a caldeggiare la pubblicazione di un romanzo. In cosa poi l’esperienza descritta da Giorgio Voghera consista, lo specifica Linuccia Saba, figlia di Umberto e altra attrice nel caso de Il segreto, nell’introdu-

211 Lettera di Roberto Bazlen a Giorgio Voghera (Roma, 23 dicembre 1949) in Roberto Bazlen, Giorgio Voghera, Le tracce del sapiente, Lettere 1949-1965, a cura di Renzo Cigoi, Udine, Campanotto Editore, 1995, p. 29. 212 Ibidem. 213 Ivi, p. 31. 214 Ibidem. 215 Ibidem.

160 zione al romanzo, che verrà infatti pubblicato, firmato da un «Anonimo Triestino», nel 1961 all’interno della collana dei «Nuovi Coralli».

Era un lungo, straziante, serrato monologo, prima del bambino, poi del ragazzo e infine dell’uomo. Quasi senza avvenimenti ester- ni, per pagine e pagine, restiamo avvinti al corso di una vita, alle esperienza, le speranze, la disperazione, le fatiche del protagonista sempre sperando, con lui e contro di lui, che si liberi e parli. [...]. Ed è questo, forse, il fascino del racconto: un racconto che è la nascita, lo svilupparsi e lo stabilizzarsi di un amore e della sua geli- da, soverchiante ombra, la sotterranea nevrosi che proprio l’amo- re libera e scatena216.

Il romanzo di Guido Voghera, dunque, si caratterizza per una forte impronta psicologica, che lo avvicina a generi quali la «narrativa di ana- lisi e di memoria, [...], [l’]autobiografia, [il] journal intime»217, per la pre- senza di «una nevrosi», termine che come si è visto Bazlen aveva dovu- to sentire più volte nell’ambiente in cui era cresciuto, e che appunto ora ritrovava nella scrittura di una persona che a quello stesso ambien- te aveva partecipato. La profondità, l’autoanalisi, l’espressione sincera del sé tornano dunque a catturare il suo interesse, dal momento che con questi argomenti, come si è visto nel primo capitolo, egli aveva avuto a che fare sin da giovane. In tal modo, «certi aspetti della lettera- tura triestina»218 presenti nel romanzo, nonché una «certa aura mitteleu- ropea del Mann, del Kafka, del Musil»219, ed infine le «dottrine freudia- ne»220 dovevano appunto trovare in Bazlen un’accoglienza molto con- sapevole. Accanto alla positiva rilevazione dell’«intensità»dell’esperien- za è però opportuno notare che Bazlen, in una lettera di poco succes- siva a quella citata, ritorni sulla questione del manoscritto de Il segreto, denunciandone questa volta, seppur con una buona dose di oscurità, i limiti. Dopo aver specificato che la trattazione della questione richie- derebbe tempo ed energia, Bazlen la definisce affermando in prima istanza che «mi sembra il momento di affrontare una lebenseinstellung

216 Linuccia Saba, Introduzione a Anonimo Triestino, Il segreto, Torino, Einaudi, 1961, pp. 5-6. 217 Bruno Maier, Saggi sulla letteratura triestina del Novecento cit., p. 29. 218 Ibidem. 219 Ibidem. 220 Ibidem.

161 [regola di vita] (e la possibilità di affrontarla esiste [...]) che comincia a diventare un po’ troppo deleteria, non dico per te, ma per tutti, e con la quale sarebbe ora di farla finita»221. L’entità di tale «regola di vita» è quanto mai difficile da cogliere, dal momento che, visto il modo in cui è descritta, non è chiaro se sia collegata a una riflessione di natura let- teraria o umana. Partendo però dal presupposto che, come si è visto, i due aspetti erano per lui quasi completamente sovrapponibili, si può forse immaginare che la formulazione che segue consista nella velata critica a una mancanza di vitalità tanto dell’uomo quanto dello scritto- re, che Bazlen ancora credeva essere Giorgio Voghera:

del resto è una faccenda che ho formulato credo fino in fondo, e sulla quale ho già scritto parecchio - pensa che quasi tutta la cul- tura che in un certo modo ci ha determinato o espresso in questi secoli, è stata fatta da gente che non ha superato la crisi dei 42 anni; i Pascal, Spinoza, Kierkegaard, ecc. ecc. - e che ora è giunto il momento in cui verso i quarantadue bisognerebbe finalmente cominciare a vivere222.

La questione resta a questo punto in tutti i sensi sospesa, vista la pres- soché completa interruzione del carteggio fra il 1951 e il 1961: è in questo anno, infatti, che Giorgio Voghera torna a rivolgersi all’amico, per chiarire definitivamente quali siano l’origine e l’autore de Il segreto. La lettera che il 2 luglio Bazlen riceve, infatti, contiene in primo luogo la «scusa di una grossissima bugia e [...] una piccola, ma calda e insi- La risoluzione del caso de Il stente preghiera»223. Di seguito, infatti, Voghera rivela che Il segreto con- segreto. siste nelle memorie non sue ma di suo padre e prosegue spiegando che «io volevo che tu le leggessi ed esprimessi il tuo parere; ed anche papà lo desiderava, ma non voleva assolutamente che tu sapessi che le aveva scritte lui»224: un uomo di molti anni più vecchio di Bazlen, che lo aveva

221 Lettera di Roberto Bazlen a Giorgio Voghera, Roma, 28 dicembre 1951. In Roberto Bazlen, Giorgio Voghera, Le tracce del sapiente, Lettere 1949-1965 cit., p. 35. 222 Ibidem. In effetti, nelle Note senza testo si può trovare testimonianza della riflessione a cui Bazlen allude nella sua lettera a Voghera. In uno degli aforismi, per la verità fra i meno concettualizzati, si legge infatti: «morti o crollati nella mia età critica (42 anni) nella mia situazione: Spinoza, Kierkegaard, Pascal, Nietzsche, Van Gogh, Kafka». Cfr. Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 178. 223 Lettera di Giorgio Voghera a Roberto Bazlen, Trieste, 2 luglio 1961. In Roberto Bazlen, Giorgio Voghera, Le tracce del sapiente, Lettere 1949-1965 cit., p. 41. 224 Ibidem.

162 conosciuto quando era nient’altro che un ragazzo, aveva dunque grande soggezione e timore del suo parere circa la propria opera. Ulteriore testi- monianza, quest’ultima, della stima che la sua figura, anche quando egli era molto giovane, doveva raccogliere: ad essa peraltro, come si è già visto, Bazlen avrebbe risposto negli anni con sempre maggiore freddez- za, se ad esempio nella risposta inviata a Giorgio Voghera si percepisce chiaramente l’intento di mostrarsi superiore all’ambiente letterario triesti- no, ma anche genericamente italiano. Non è allora difficile capire, vista la sua estraneità quantomeno pretesa a questi “mondi”, la grande volontà di viaggiare e soprattutto l’interesse e l’affezione molto più per le opere let- terarie straniere che non per quelle italiane. Così infatti Bazlen scrive il 30 agosto 1961 dalla provincia di Merano, una delle mete preferite, appun- to, dei suoi viaggi lontano dai centri nevralgici della cultura italiana:

In ogni caso, stai tranquillo - da quando è uscito il libro sono com- pletamente fuori dal mondo (e particolarmente da quello che legge subito le novità italiane), e dopo di qua - vado in mondi dove l’italiano non lo leggono (credo a Londra) per cui, anche volendo- lo, non sono stato e non sarò in grado di commettere indiscrezio- ni. Del resto, e benché praticamente io lavori molto per Einaudi, fuori dal mondo del Klatsch [pettegolezzo] letterario lo sono da anni e anni. E sto benissimo. - Anche da quello triestino225.

3.3 Le traduzioni per Einaudi.

3.3.1 Le traduzioni di opere di saggistica.

Come si è avuto modo di considerare in apertura del presente capito- lo, la collaborazione di Bazlen con Einaudi inizia, oltre che con alcuni consigli editoriali forniti tramite l’Agenzia Letteraria Internazionale, con la traduzione del saggio Saturno e la melanconia di Raymond Klibansky, della quale egli inizia a discutere con l’editore nell’agosto del 1949. L’atteggiamento tenuto da Bazlen in questa circostanza, come si è visto tendenzialmente diffidente verso il lavoro che si accin-

225 Lettera di Roberto Bazlen a Giorgio Voghera, Merano, 30 agosto 1961. In Roberto Bazlen, Giorgio Voghera, Le tracce del sapiente, Lettere 1949-1965 cit., p. 45.

163 geva ad intraprendere, troverà riscontro anche nelle diverse altre tradu- zioni svolte per l’editore torinese. È tuttavia bene sottolineare che quella che sembra una costante tendenza a sminuire il proprio lavoro, o le opere tradotte, atteggiamento che in alcuni casi determinò la man- cata pubblicazione delle stesse, non sia l’unico aspetto rilevabile a pro- posito delle modalità di lavoro del Bazlen traduttore. Si può infatti spesso constatare anche il suo impegno affinché l’adozione di misure di tipo redazionale ed editoriale, soprattutto nel caso delle opere lette- rarie, aumenti la vendibilità del libro o semplicemente ne favorisca la comprensione da parte del pubblico; o ancora, non è improprio rileva- re anche in questo frangente della collaborazione di Bazlen con Einaudi, che d’altronde corre parallelo alle sue consulenze editoriali, un certo grado di progettualità, ed il tentativo di arricchire l’offerta einaudiana con nuovi progetti editoriali o semplicemente tramite la presentazione di nuovi traduttori. Resta comunque invariato nel tempo il suo mantenersi «ostinatamente deciso a restare inedito»226, il che ha fatto sì che «le sue [...] traduzioni di saggi e racconti apparvero quasi sempre con nome fittizio»227, rendendo assai poco nota l’attività di Bazlen come traduttore. È infine da sottolineare, prima di considerare i singoli casi delle opere tradotte, come nelle traduzioni effettuate per Einaudi si possano vedere rappresentati alcuni dei principali interessi di Bazlen. A tale proposito si può dunque presupporre che la qualità delle sue traduzioni fosse favorita dalle sue conoscenze nell’ambito in questione, nonché dal suo bilinguismo italo-tedesco, al quale si aggiun- geva la conoscenza dell’inglese228: aspetti, questi, che non tolgono la sua accettazione di lavori, per esempio la traduzione del poeta ameri- cano William Carlos Williams, tendenzialmente estranei al campo delle sue competenze e dei suoi interessi più consolidati. Il caso di Saturno e la melanconia, in effetti, può essere preso ad esempio Il caso di Saturno e la melanconia. di questo ed altri elementi che si sono fino ad ora accennati. La pro- posta della traduzione di un libro indicato da Luisa Mangoni come un «classico»229, infatti, prima di essere sottoposta a Bazlen da Bruno

226 Sergio Solmi, Nota, in Roberto Bazlen, Scritti cit., 270. 227 Ibidem. 228 Per una trattazione approfondita circa questo aspetto si può vedere il paragrafo dedicato da Giulia de Savorgnani al rapporto di Bazlen con la “questione della lingua”. Cfr. Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., pp. 127-131. 229 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 539. 164 Fonzi, era stata avanzata da Pavese, in una lettera del 22 luglio 1949 indirizzata a Foà. In essa, lo scrittore forniva una breve descrizione del libro, mostrando anche la preoccupazione che la traduzione venisse ultimata in breve tempo:

Dunque abbiamo i diritti di Saturn and Melancholy di Saxl e Panofsky, aiutante Klibansky, del Warburg Institute. Il libro studia con somma erudizione la teoria degli umori, dei caratteri e dei pia- neti. Finisce con un’analisi millimetrica delle Melanconie di Dürer. Ci puoi garantire che Bazlen lo tradurrà, davvero, in meno di un anno?230

La preoccupazione mostrata da Pavese circa la necessaria tempestività del lavoro di traduzione si spiega presumibilmente col fatto che egli fosse consapevole del disaccordo di Ernesto De Martino rispetto alla pubblicazione del libro. In effetti, Saturno e melanconia costituirà uno di quei titoli che, nel 1951, dopo la morte di Pavese, De Martino espun- gerà dalla «Collana viola»: con esso lo stesso destino toccherà all’ope- ra di Robert Graves, il primo autore che, come si è visto, Bazlen aveva proposto con una certa insistenza alla casa editrice Einaudi, mostran- do dunque una certa affinità di concezione con Pavese circa il taglio da dare alla «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici». Saturno e la melanconia, infatti, era considerato da De Martino come un testo rappresentante quelle «aperture tematiche»231 promosse da Pavese, volte a creare una «polifonia»232 all’interno della collana, che egli disap- provava. Al di là di questo, resta comunque il fatto che, a dispetto di quel che Pavese sperava, il libro andrà incontro a una «lunga e tormen- tata vicenda editoriale»233. A quanto si può leggere nelle lettere inviate alla casa editrice Einaudi, infatti, Bazlen, dopo avere seppure con qual- che riserva accettato la traduzione, sollevava anche, sin da subito, una serie di problematiche ad essa connesse, consistenti, come si è sottoli- neato in apertura del presente capitolo, nel fatto che «le bozze tedesche erano non definitive, alcune citazioni presentavano punti interrogativi, alcuni richiami erano evidentemente provvisori, le bozze erano in

230 Cesare Pavese, Lettere 1945-1950, Torino, Einaudi, 1966, p. 402. 231 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 538. 232 Ibidem. 233 Ivi, p. 539.

165 parte terze, in parte quarte [...] e in parte quinte»234. Tutti aspetti che portavano Bazlen ad assumere l’atteggiamento che si è più volte riscontrato nelle sue collaborazioni editoriali, caratterizzato dalla ten- denza a mantenersi vago circa i propri impegni, o ancora di più a pro- crastinarne le scadenze. In tal modo, a dispetto della premura di Pavese, con il quale comunque egli non tratta direttamente, Bazlen così descrive l’andamento del proprio lavoro:

Non posso fissarvi in modo impegnativo il ritmo col quale mande- rei le singole parti della traduzione, né fissarvi la data di consegna dell’ultima pagina; ci sono troppe parole che non ho trovate in nes- sun vocabolario, troppe cose che veramente non so come risolverò, né so a chi rivolgermi per farmi aiutare. Il testo inglese mi aiuterà moltissimo (particolarmente nell’interpretazione dei brani in tede- sco medievale), ma rimarrà comunque un certo numero di proble- mi per i quali mi devo rimettere nelle mani del Signore235.

Anche solo la presenza nel saggio di «brani in tedesco medievale» per- mette di vedere come egli avesse ragione nel rilevare che la traduzione non potesse essere immediata: è però anche da considerare che un anno dopo, quando Bazlen scrive a Fonzi per informarlo di trovarsi già allo stadio di revisione del proprio lavoro, gli chiede di tardare il termi- ne di consegna «entro un limite decoroso»236. Le ragioni addotte per il suo ritardo consistono, tuttavia, non solo nel fatto che il lavoro di revi- sione «sia molto più lungo e faticoso di quanto immaginassi»237, ma anche, paradossalmente, nel clima romano, «contro il quale non ce l’ho fatta»238: un aspetto d’altronde spesso utilizzato come scusa per ritardi, mancanze o malumori239. La completa opinabilità delle osservazioni

234 Ivi, p. 539, nota n. 403. 235 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 11 settembre 1949. 236 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 16 luglio 1950. 237 Ibidem. 238 Ibidem. 239 Si può a questo proposito citare quanto Luciano Foà scrive in un suo ricordo di Bazlen, nel quale osserva, a proposito dei momenti di infelicità o difficoltà che egli viveva, il fatto che “cer- cava di occultarli, a parole o per iscritto, con le sue lagnanze per lo scirocco romano, per l’aria cattiva che respirava, per i rumori che sentiva in strada sotto le sue finestre”. Cfr. Gabriella Ziani, Scrisse sempre, ma non finì mai cit., p. 4.

166 fatte nel momento in cui Fonzi gli concede la procrastinazione dei ter- mini, ponendo «come limite decoroso la fine d’ottobre»240 nella consa- pevolezza che il lavoro sia «ammazzante»241, costituisce d’altronde un’ulteriore conferma di un atteggiamento spesso in buona parte arbi- trario: rispetto alla difficoltà della traduzione, infatti, Bazlen sembra aver scordato gli ostacoli tecnici, per rilevare al contrario la scarsa vivacità del testo da rivedere, dunque sostanzialmente la pesantezza del lavoro.

credo che il limite che lei m’ha fissato sia veramente decoroso - ma non consideri troppo indecoroso se - ma credo di no - lo dovessi oltrepassare di qualche settimana - come vedrà, la “melanconia” non ha nulla a che fare con una traduzione, ma con qualcosa che sta a mezza strada tra il gioco di pazienza ed il lavoro forzato, e perfino le dosi (minime) di revisione che introduco di nascosto nella mia giornata pesano molto di più di quanto potrebbero pesa- re ore ed ore di traduzione un po’ viva242.

L’atteggiamento di marcata insofferenza che si legge chiaramente nel passo appena citato, comunque, non toglie che nei fatti Bazlen cerchi Le revisioni delle traduzioni. di ovviare ai diversi ordini di difficoltà riscontrati nel testo, mostrando di avere comunque a cuore la sua finale pubblicazione: già nel novem- bre del 1950, infatti, egli chiede l’aiuto di «gente del mestiere»243, indi- cata nelle figure di un grecista ed un medievalista, per aiutarlo nel lavo- ro di revisione, pur avendo già sottoposto «la traduzione a tre miei conoscenti non specializzati, ma lettori molto attenti»244. Bazlen dun- que manifesta indirettamente la necessità, non si sa se per indolenza o per incertezza circa la qualità del proprio lavoro, di un intervento ester- no sulla propria traduzione. Tale aiuto, dopo le richieste che si sono viste, gli arriverà l’anno successivo, nel 1951, da una figura della statu- ra di Giulio Argan: così che, nel giugno di quell’anno, Bazlen può pro- Giulio Argan.

240 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Bruno Fonzi a Roberto Bazlen, 1 settembre 1950. 241 Ibidem. 242 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 20 settembre 1950. 243 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 19 novembre 1950. 244 Ibidem.

167 mettere a Foà, come sempre mischiando ragioni personali e professio- nali, che «a meno che la costruzione davanti a casa mia non mi metta in condizioni di non poter lavorare in casa - o altre sciagure simili [...] entro settembre [avrete] tutto a Torino»245. La questione circa la pubblicazione di Saturno e la melanconia sembrereb- be a questo punto chiusa, ma la lettura del carteggio di Bazlen con la casa editrice Einaudi permette in realtà di rilevare un suo accantona- mento per ben cinque anni, ovvero fino al 29 settembre 1956, quando egli torna a scrivere a Foà di nuovo a proposito della semplice revisio- ne del proprio lavoro: a tale proposito, tuttavia, Bazlen introduce ora il nuovo nome di Gabriella Bemporad, sua amica e traduttrice presen- Gabriella Bemporad tata da lui in diverse occasioni, per un’ulteriore revisione, pur osservan- do che «del resto, il manoscritto che ti avevo mandato era stato rivisto (e date le osservazioni che mi ha fatto, mi pare molto coscienziosa- mente) da Argan»246. Evidentemente, dunque, forse per un’osservazio- ne da parte dell’editore, o forse per personale scrupolo di Bazlen, la sua traduzione viene interamente corretta un’altra volta, forse anche in virtù del fatto che Argan, compatibilmente con il proprio ambito di studi, si era occupato prevalentemente della «parte figurativa»247 del libro. Di fatto, comunque, il 14 ottobre Bazlen informa Foà che «la Bemporad, dopo qualche esitazione, ha accettato»248, e nel farlo sotto- pone all’amico una serie di questioni ancora da rivedere, contenute in un «elenco [...] delle cose da mettere in chiaro nella traduzione»249. Quella che inizialmente appariva come una considerevole resistenza all’idea di impegnarsi nella traduzione dell’opera di Erwin Panofsky viene dunque rimpiazzata da un’altrettanto considerevole attenzione per la qualità del risultato finale del proprio lavoro: resta comunque il fatto, che in effetti spiega l’osservazione di Luisa Mangoni circa la tra- vagliata storia editoriale di Saturno e la melanconia, che il libro pubblica- to solo a partire dal 1983 nella collana dei Saggi einaudiani risulterà tra-

245 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 28 giugno 1951. 246 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 29 settembre 1959. 247 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 539, nota n. 403. 248 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 14 ottobre 1956. 249 Ibidem.

168 dotto non da Roberto Bazlen, il quale d’altronde difficilmente avreb- be acconsentito a firmare il proprio lavoro, bensì dallo storico dell’ar- te Renzo Federici250. Dunque, presumibilmente, il lavoro che aveva coinvolto il consulente triestino, seppure con alterni umori, per diver- si anni, risultò in sostanza, come d’altronde molte delle proposte avan- zate all’editore, svolto completamente a vuoto. Per molti aspetti paragonabile alla vicenda di Saturno e la melanconia è quella relativa ad Astrazione ed empatia di Wilhelm Worringer, della cui Il caso di Astrazione ed traduzione Bazlen si occupa a partire dal 1953: anche in questo caso, empatia di Worringer. infatti, si tratta di un saggio che, per la verità più specificatamente rispetto all’opera di Panofsky, tratta di problemi di Storia dell’arte. Come nel caso che si è appena considerato, inoltre, la traduzione che Bazlen porterà a termine non sarà quella infine pubblicata dall’editore. Ad ogni modo, da una lettera inviata a Foà nel febbraio del 1953 risul- ta che la proposta di tradurre il saggio dello storico dell’arte tedesco era stata rivolta a Bazlen, appunto all’inizio di quell’anno, da Giulio Argan. Egli in effetti era stato l’autore, nel 1952, della proposta di pub- blicazione del saggio, nel contesto di un «intensificarsi dei suoi rappor- ti con la casa editrice»251 che lo portava a incentivare la riproposta delle opere, come appunto era quella di Worringer, «di critica d’arte ottocen- tesca»252. Stando a quanto Luisa Mangoni riporta nella sua ricostruzio- ne della storia della casa editrice torinese, peraltro, la proposta di Argan aveva incontrato «il convinto assenso di Einaudi»253, il quale vedeva in essa la creazione di un filone «di ricerca [...] di notevole inte- resse»254: dalle lettere di Bazlen, invece, si può rilevare un atteggiamen- to non altrettanto entusiastico, ma comunque interlocutorio, a propo- sito del progetto della pubblicazione di opere, non solo Astrazione ed empatia, di Wilhelm Worringer. Come risulta dalle lettere che Foà e Bazlen si scambiarono nei primi mesi del 1954, infatti, il consulente triestino fa presente al suo amico che «ad Argan interesserebbero anche [...] dei libri preparati a suo tempo per le Nuove Edizioni Ivrea,

250 Erwin Panofsky, Raymond Klibansky, e Fritz Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filo- sofia naturale, religione e arte, traduzione di Renzo Federici, Torino, Einaudi, 1983. 251 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 496. 252 Ibidem. 253 Ibidem. 254 Archivio Einaudi, Torino, lettera di Giulio Einaudi a Giulio Argan (incart. Argan), 21 novem- bre 1952. La lettera è citata in Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta

169 di cui esistono già le traduzioni pronte»255, fra i quali egli cita appunto un’altra opera di Worringer, dal titolo Arte egiziana256: in tale richiesta da parte di Argan, derivante evidentemente dalla conoscenza delle opere Il rapporto con Argan sin che Olivetti intendeva proporre, si può peraltro vedere la traccia della dalle Nuove Edizioni di sua probabile partecipazione al progetto di Ivrea, oltre alla sua presen- Ivrea. za in esso come autore di una Antologia della critica d’arte257. Ad ogni modo Bazlen, in quanto stretto collaboratore di Adriano Olivetti al tempo delle Nuove Edizioni Ivrea, conservava evidentemente una copia della traduzione dell’Arte egiziana, se in una lettera del 31 genna- io 1954 egli avvisa l’amico di avergliela spedita, «in modo che tu ti possa mettere in contatto con Comunità per l’acquisto»258. Anche se la traduzione di Arte egiziana non figurerà nel catalogo Einaudi, il fatto che essa venga citata tanto da Bazlen quanto da Argan permette di ipo- tizzare la partecipazione dello storico dell’arte al progetto di Ivrea non solo come autore, bensì anche come un collaboratore che in quanto tale presumibilmente aveva avuto a che fare con Bazlen, il quale fu uno dei maggiori consulenti della casa editrice. Resta comunque il fatto che la probabile parziale condivisione, in passato, di un progetto editoriale comune non spinge Bazlen ad accettare incondizionatamente la pro- posta di Argan circa la traduzione di Astrazione ed empatia: al contrario, il 16 luglio 1954, probabilmente in seguito al fallimento delle trattative con le Edizioni di Comunità, dunque di fronte alla necessità di rispon- dere circa la possibilità di essere il traduttore dell’opera, egli informa Foà circa il fatto che «i due Worringer li consegnerò probabilmente ad Argan e gli cercherò un traduttore decente. [...]. Io finisco di guardar- li, ma credo che la traduzione mi scoccerebbe troppo»259. La riluttanza

agli anni sessanta cit., p. 496. 255 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 15 marzo 1951. 256 Dai materiali relativi alle Nuove Edizioni Ivrea che si sono potuti consultare, presso la Fondazione Mondadori di Milano, nell’archivio della casa editrice Rosa e Ballo, risulta in effetti la presenza, per una collana di “Storia e critica d’arte”, della traduzione, ad opera di Cordelia Gundolf, di Arte egiziana di Wilhelm Worringer. Cfr. Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato. 257 Nella stessa collana in cui figurava Arte egiziana di Worringer, infatti, si trova l’indicazione di una Antologia della critica d’arte ad opera appunto di Giulio Argan. Cfr. Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo, b. 16, fasc. 1, ds non datato. 258 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 31 gennaio 1951. 259 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto

170 di fronte alla prospettiva di affrontare la traduzione di Astrazione ed empatia, peraltro, fa sì che un anno dopo, nell’aprile del 1955, Bazlen La proposta di Lucia Rodocanachi come proponga, secondo una consuetudine che si è più volte rilevata, l’ami- traduttrice di Astrazione e 260 ca Lucia Rodocanachi per svolgere il lavoro al suo posto : una propo- empatia. sta che tuttavia, almeno stando a quanto si può leggere nel carteggio fra Bazlen e Foà, cade sostanzialmente a vuoto. Se tuttavia, a partire dal 1959, il nome di Worringer ricompare nelle lettere che i due amici si scrivono, si può evidentemente supporre che buona parte delle trat- tative per questa traduzione non si siano svolte per via epistolare, o che le lettere ad essa relativa siano andate perdute. Il 22 gennaio 1959, infatti, Foà si rivolge a Bazlen in una lettera che lascia chiaramente intendere che infine la traduzione di Astrazione ed empatia sia stata asse- gnata proprio a lui: il segretario generale di Einaudi, infatti, sollecita l’amico, nella trattazione di diverse questioni «urgenti»261, a consegnare il lavoro, dal momento che «Bollati, incaricato da Einaudi, deve esami- nar[lo] con urgenza per farsi un’idea dell’importanza del testo e delle possibilità di illustrarlo»262. La risposta che Bazlen fornisce a questo

Bazlen a Luciano Foà, 16 luglio 1951. 260 Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 11 aprile 1955. Come si è già accennato, infatti, diverse sono le circostanze in cui Bazlen fa il nome dell’amica presso l’editore Einaudi. Già nel 1953, infatti, Bazlen le aveva annunciato, come si legge in una lettera a lei rivolta, che “Luciano [...] mi assicu- ra che ti manderà qualcosa, anzi, se non dovessero decidere per il Forster, probabilmente Heinrich Mann” (Cfr. Genova, Il Novecento: catalogo della mostra: Genova, centro dei Liguori, 20 maggio- 10 luglio 1986 cit., p. 426). Una promessa, questa, che trova un preciso riscontro nel carteggio fra Bazlen e Foà, come si può vedere da una lettera scritta da quest’ultimo pochi giorni prima: “Rodocanachi: per Howards end non abbiamo ancora deciso. Eventualmente le affideremmo qualche altra cosa, magari qualche romanzo di Heinrich Mann (o le novelle)” (Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 6 ottobre 1953). Se né la traduzione dell’opera di Mann né quella del romanzo di E.M. Forster Howards end vennero poi realizzate, è interessante notare che una buona parte delle opere di Dylan Thomas indicate nel Catalogo Einaudi risultano appunto tradotte da Lucia Rodocanachi. Rispetto a questi lavori, peraltro, Bazlen prenderà precisa posizione, difendendone la qualità ai fini appunto di convincere Foà ad assegnarle anche la traduzione dell’opera di Worringer: “RODOCANACHI: a Arenzano, ho letto una novella di Thomas tradotta da lei, e l’ho confrontata col testo che avete stampato. La traduzione m’è sembrata molto buona”. Posto questo, Bazlen contesta puntualmente una serie di correzioni che l’editore ha apportato al lavo- ro della traduttrice, per concludere infine giustificando la propria “pedanteria” col fatto che “mi sembra giusto difendere una traduzione fatta meglio di quanto possa sembrare”. (Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 29 settembre 1956). 261 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 22 gennaio 1959. 262 Ibidem.

171 proposito è particolarmente rappresentativa del suo atteggiamento, che tende ad accostare lo scrupolo per una traduzione che sia il più possibile fedele e chiarificatrice rispetto all’originale ad una personalis- sima insofferenza verso il proprio lavoro e, molto spesso, verso gli autori che si trovava a tradurre:

l’ho tradotto molti anni fa, sul testo tedesco, e senza essere stato effettivamente in grado di risolvere la traduzione di certi termini concettuali che poi effettivamente sono risultati intraducibili. Poi ho avuto in mano la traduzione inglese. [...] il traduttore inglese (di certo d’accordo con Worringer) ha semplificato la terminologia (cosa che da solo non mi sarei sentito autorizzato a fare) ed ho rifat- to la traduzione partendo da quella polenta che avevo fatto io, ma introducendo le modifiche terminologiche della traduz. inglese. Ed è saltato fuori un testo, arido come quello tedesco, ma almeno com- prensibile. Ora, dopo anni volevo rivedere questa seconda mia tra- duzione, ma è così noiosa che a Roma non ce l’ho fatta263.

Il fatto che il testo originale sia di per sé «arido», comunque, non toglie che nell’indicare la «prima versione»264 del proprio lavoro, che è quella che invierà a Bollati, egli la definisca «sgrammaticata, inesatta, poco comprensibile e con correzioni semi-illeggibili»265, ma comunque suffi- ciente per quella ricerca di illustrazioni che egli ritiene necessaria, con- tribuendo in tal modo anche alla cura editoriale del libro. L’insoddisfazione e le critiche circa il lavoro svolto furono probabil- mente la causa di una lunga fase di revisione del testo, della quale Bazlen si incaricherà e rispetto alla quale si troverà in più occasioni ad essere incalzato dall’amico. A questa personale lentezza, sono poi da aggiungere i problemi che Bazlen manifesta nella traduzione della pre- fazione al saggio di Worringer, esposti in una lettera del 7 giugno 1959. In essa, con un certo sarcasmo, egli annovera, fra le fasi del suo lavo- ro, il «tentativo di unire in frasi quello che ho capito, non l’insieme, che è una banalità che si potrebbe dire in tre righe chiarissime»266.

263 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 23 gennaio 1959. 264 Ibidem. 265 Ibidem. 266 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 7 maggio 1959.

172 Un’osservazione, questa, alla quale fa seguito una telegrafica e quasi amara conclusione, come sempre frutto di una personale visione delle cose: «NON GARANTISCO - ma finirà che diventa giorni e giorni di vita»267. Di fatto, comunque, nei mesi successivi l’impegno per la crea- zione di un libro qualitativamente migliore possibile andrà intensifi- candosi, coinvolgendo anche il vasto campo di conoscenze che Bazlen poteva vantare, come ad esempio nel caso dell’aiuto che egli ammette 268 di avere ricevuto, per la traduzione di alcuni termini, da «Rachewiltz» : L'amicizia con Boris De si tratta cioè di Boris De Rachewiltz, genero di Ezra Pound, del quale Rachewiltz, genero di Ezra egli era grande amico, cosa che gli permetteva la consultazione della Pound. biblioteca del poeta, conservata nel castello di Brunnenburg, presso Merano269. Nella stessa lettera, peraltro, Bazlen aggiunge un consiglio circa la promozione del libro: «per réclame, fascetta intorno alla coper- tina, ecc. potete mettere qualcosa come “impostazione fondamentale del problema arte astratta - realismo”. Dovrebbe forse servire a ven- dere, del resto è vero [...]. Che dio me la mandi buona»270. Quella che dunque appare anche come una certa cura editoriale del testo non dovette comunque risultare sufficiente ai fini della pubblicazione della traduzione di Bazlen: dal giugno del 1959, infatti, la questione non verrà più trattata nel carteggio, e soprattutto la traduzione che nel 1975 comparirà nella Piccola Biblioteca Einaudi271 non sarà a suo nome. La mancata pubblicazione delle traduzioni di saggi di Storia dell’arte, che Bazlen aveva intrapreso tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà dei Cinquanta, trova tuttavia, per così dire, un risarcimento nella presentazione al pubblico, per quanto sotto pseudonimo, di altre due

267 Ibidem. 268 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 17 maggio 1959. 269 Nelle lettere di Bazlen ad Einaudi, in effetti il nome di Boris de Rachewiltz e di sua moglie Mary compare con una certa frequenza. L’amicizia che lo legava alla coppia, infatti, permetteva a Bazlen la proposta di pubblicazioni che avrebbero potuto avere una loro specifica originalità, come emerge ad esempio da una lettera del 10 gennaio 1960, nella quale Bazlen scrive: “ho deci- so che entro quest’estate vado da loro, al castello, dove ci sono quattro grandi biblioteche inte- ressanti (per es. tutta la biblioteca di Ezra Pound) e dove pescherò”. Nella stessa lettera, Bazlen propone la pubblicazione, poi non realizzata, delle opere di un particolare tipo di teatro giappo- nese, il teatro Nô: “la Mary R. ha molto altro materiale inedito che sta traducendo, Vi direi di scri- vere subito, parlando del vostro progetto di un volume di Nô, e proponendo un accordo”. Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 10 gennaio 1960. 270 Ibidem. 271 Wilhelm Worringer, Astrazione ed empatia, introduzione di Jolanda Nigro Cove, traduzione di Elena Deangeli, Torino, Einaudi, 1975.

173 Eros e civiltà di Herbert opere di saggistica da lui tradotte: un ambito che dunque si pone come Marcuse. prevalente nei lavori di traduzione svolti da Bazlen. Nel catalogo Einaudi, infatti, la traduzione di Eros e civiltà di Herbert Marcuse2721 e L’uomo artificiale di Jean Rostand è indicata ad opera di Lorenzo Bassi, ovvero lo pseudonimo scelto, come si vedrà, a proposito di una sua traduzione dell’opera di Brecht. In particolare la traduzione del saggio di Marcuse riveste un certo interesse, sia rispetto al percorso culturale di Bazlen, il quale si rapportava ad un’opera che per molti aspetti rom- peva con le teorie della psicologia junghiana e freudiana, o comunque le sviluppava, sia rispetto alla linea editoriale e culturale della casa edi- trice Einaudi: nel 1956, quando il lavoro gli viene proposto, in partico- lare la collana dei Saggi si poneva infatti come «la cartina di tornaso- le»273 di «inquetudini, [...], incertezze, [...] fermenti [...] di un momento di difficile trapasso»274 nella cultura italiana, mentre la sua pubblicazio- ne, nel 1964, dunque in un clima culturale mutato, costituirà «quasi un preludio a quell’Uomo a una dimensione, pubblicato nel Nuovo Politecnico nel 1967»275, che avrebbe dato «il suo segno a una nuova stagione politica»276. Ad ogni modo, la prima lettera che Bazlen scrive a proposito del saggio di Marcuse, il 29 settembre 1956, lo vede già impegnato nel lavoro, anche se «ancora poco, perché stavo male»277, cosa che lo porta a promettere di finire la traduzione entro un mese, come in effetti testimonia il suo ritornare sulla questione in ottobre, in una lettera che mostra le difficoltà incontrate anche da un punto di vista tecnico. A proposito di esse, Bazlen, facendo riferimento alla ver- sione inglese del saggio, chiede la consulenza di Renato Solmi, il quale in effetti aveva proposto la pubblicazione del libro:

annoiandomi, vado lentamente avanti, e fra due settimane al più tardi, sarà finito [...]. Domanda intanto a René Solmi (e salutamelo), se il modo come ho tradotto due concetti inventati hélas da Marcuse, lo convince, o se può suggerirmi soluzioni meno sinistre.

272 Herbert Marcuse, Eros e civiltà, traduzione di Lorenzo Bassi, Torino, Einaudi, 1964. 273 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 813. 274 Ibidem. 275 Ivi, p. 823. 276 Ibidem. 277 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 29 settembre 1956.

174 Performance principle = principio di prestazione (forse, benché sia una soluzione che non amo, messo fra virgolette) che, per quanto brutto, è meno indeterminato di principio di esecuzione. Surplus repression = repressione addizionale278

Le ragioni della noia manifestata da Bazlen, accanto alla rilevazione di difficoltà derivanti dalla pura pratica traduttiva, non sono tuttavia da spiegarsi con una personale indolenza: esse infatti vengono molto organicamente esposte in una lunga lettera del dicembre 1957, dunque dopo una pausa di un anno nella vicenda editoriale relativa a Eros e civil- tà. In essa, Bazlen, oltre a rilevare come di consueto la propria insod- disfazione rispetto a quanto svolto, discute una serie di questioni tra- duttive che mostrano l’accuratezza della sua riflessione circa le tesi esposte da Marcuse: una riflessione che, peraltro, lo porta ad esprime- re un giudizio sostanzialmente negativo circa un’opera che, al contra- rio, rivestiva una certa importanza per gli intellettuali della casa editri- ce Einaudi. L’apertura della lettera, per la verità, è dedicata ad una severa autocritica, che lo porta ad affermare che «ciò che credo invece che funzioni male, è il mio italiano. Mi sono sforzato, all’ultimo momento, di appiccicare alla traduzione un po’ di grammatica e un po’ di sintassi; ma non sono in grado di giudicare se basti»279: di fronte a questo dubbio, Bazlen chiede che il proprio lavoro sia interamente rivi- sto da Fonzi, al quale lascia la piena libertà di «fare tutte le correzioni stilistiche che crede necessarie, senza interpellarmi»280. Non così inve- ce, avviene per quanto riguarda la traduzione della «terminologia»281 del filosofo tedesco, rispetto alla quale evidentemente aveva riflettuto tanto da poter giustificare puntualmente, o comunque difendere in quanto inevitabili, le proprie scelte traduttive, come ad esempio si legge nel passo che segue: «ci sono state delle ragioni per cui è risulta- to indispensabile tradurre sensorietà e non sensualità (benché la Sinnlichkeit [sensibilità] kantiana venga usualmente tradotta con sen- sualità) ecc.»282. Alla disponibilità quantomeno a discutere le proprie

278 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 14 ottobre 1956. 279 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 11 dicembre 1957. 280 Ibidem. 281 Ibidem. 282 Ibidem.

175 scelte, che si era vista anche nel momento in cui Bazlen aveva richie- sto il parere di Renato Solmi, nella conclusione della lettera si accosta tuttavia, come si è accennato, un ragionamento di diverso ordine, signi- ficativamente connesso alla scelta di non apporre la propria firma alla traduzione: invitando Foà a scegliere al posto suo lo pseudonimo, Bazlen manifesta con decisione quello che appare un rifiuto completo dell’opera, la quale evidentemente rappresenta valori, probabilmente di natura politica, ma per lo più legati al suo interesse riguardo alla psico- logia analitica, che egli non condivideva.

non voglio entrarci nemmeno con la scelta dello pseudonimo; in parte, perché il libro mi sembra pericoloso (delle ragioni per le quali proprio non mi va, se ne parla una volta a voce), in parte per- ché c’è un attacco contro Jung che Jung (che si merita molti attac- chi) proprio non si merita283.

L’accostamento, come si è visto, di ragioni personali, ideologiche e tec- niche porta inoltre Bazlen, che come si è visto alla fine comparirà sotto pseudonimo come traduttore di Eros e civiltà, a porre le sue regole per le traduzioni che gli verranno proposte in futuro: «mandami un libro che mi faccia venir voglia di tradurlo bene; o almeno un libro che non mi faccia far fatica. Far vera fatica per esser costretti a tradurre non bene un libro che non si approva, è troppo sterile»284. Un’opera di que- La traduzione de L’uomo arti- sto genere, a giudicare dalla maggiore facilità con la quale arriva alla ficiale di Rostand, sempre fir- pubblicazione, è la raccolta di saggi del biologo e filosofo francese Jean mato con lo pseudonimo di Rostand, presentata da Einaudi con il titolo L’uomo artificiale285: il 22 Lorenzo Bassi. gennaio del 1959, infatti, evidentemente dopo avergli presentato una prima offerta, Foà ricorda all’amico di essere in attesa di «una tua risposta per il Rostand e per il Lorenz»286, dunque prospettando la tra- duzione non solo dei saggi del filosofo francese, ma presumibilmente anche di un’opera di Konrad Lorenz. Nella sua risposta, peraltro, Bazlen mostra di accettare entrambe le proposte, dal momento che stende un piano di lavoro contemporaneo sui due autori: evidente-

283 Ibidem. 284 Ibidem. 285 Jean Rostand, L’uomo artificiale, traduzione di Lorenzo Bassi, Torino, Einaudi, 1959. 286 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 22 gennaio 1959.

176 mente, comunque, esso non troverà realizzazione, non si sa per responsabilità del traduttore o dell’editore, visto che l’opera dell’etolo- go austriaco non risulta nel catalogo Einaudi. A partire dalla lettera in cui Bazlen accetta entrambi gli incarichi, d’altronde, egli sembra soffer- marsi maggiormente sul lavoro di Rostand, del quale egli afferma che

è un bel pasticcio - di pagine e pagine, se togli l’enfasi (che però è un’enfasi non stupida) non rimane che una misera vescica sgonfia- ta. Per cui dimmi: 1°) se sono autorizzato a tagliare sia frasi qua e là, sia pagine inte- re (in genere al principio e alla fine) 2°) se tagliando pagine intere si presenta la necessità di creare un nesso, posso farlo con (pochissime) parole mie? 3°) se certe sbrodolature posso riassumerle, con le parole sue, in poche frasi mie287.

Bazlen dunque mostra un certo interesse per l’opera sulla quale sta lavorando, come egli apertamente dichiara e come d’altronde si può dedurre dal suo impegno per eliminare le lungaggini che imputa all’au- tore. Al di là di questo, è da rilevare la maggior incisività del suo lavo- ro in questo frangente, dal momento che, oltre a partecipare alla scel- ta dei saggi che avrebbero dovuto costituire il volume, egli sostanzial- mente non tornerà più sulla questione fino alla consegna. Nel maggio del 1959, infatti, di fronte alla richiesta pervenutagli pochi giorni prima da Foà circa il fatto che «c’è una certa urgenza per il Rostand. Potresti mandarmelo entro il mese?»288, Bazlen risponde di avere ultimato la tra- duzione, e chiede unicamente di pagargli la breve consulenza di un «biologo a Roma (basterebbe mezz’ora, anche meno)»289.

3.3.1 Le traduzioni di opere di saggistica.

La cura che Bazlen metteva affinché l’opera fosse presentata in manie-

287 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 4 febbraio 1959. 288 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 8 maggio 1959. 289 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 12 maggio 1959.

177 ra ottimale al pubblico, al di là delle sue personali incertezze e dell’ef- fettiva pubblicazione dei suoi lavori, appare confermata, ed anzi La traduzione dei racconto aumentata di grado, nel caso delle due traduzioni di opere letterarie che di William Carlos Williams. egli svolse per Einaudi. La prima, relativa a una raccolta di racconti del poeta imagista americano William Carlos Williams, risale al 1951, dun- que si colloca fra i primi lavori commissionatigli dall’editore. A quan- to risulta dalla lettura del carteggio con Foà, la prima proposta per la pubblicazione della raccolta, che apparirà nel 1961 nei «Supercoralli»290, è da ricondursi, come è facile aspettarsi, a Vittorini, il quale «voleva qualche anno fa che il libro lo facesse Einaudi»291. Nel momento in cui Foà propone il lavoro a Bazlen, nondimeno, egli lo informa che «Vittorini non vuol più tradurre e così la faccenda è rimasta. Si potreb- be ora rimettere in moto la macchina»292. Come si è già accennato, Bazlen non nascondeva una certa diffidenza nei confronti, sembra, della cultura e del popolo americani in genere, pur sempre, comunque, avendo cura di distanziare il proprio giudizio da eventuali implicazioni ideologiche, come si può leggere in un parere editoriale dedicato alla scrittrice Maude Hutchins. A tale proposito, infatti, egli scrive che «a me non dispiace - [...] perché, poverina [...] si difende (e nel mondo americano, mi pare, vuol dire parecchio - anche se per noi i nemici sono troppo facili, e le armi di difesa troppo ovvie)»293. Queste, per la verità molto generiche, posizioni, si riflettono in un’idea della lettera- tura americana decisamente severa, che egli espone confrontando l’opera dello scrittore ungherese László Németh, come si è visto da lui particolarmente apprezzato, con una non meglio specificata letteratu- ra nazionale statunitense:

è logico che i libri scritti in una lingua che non sia una delle cinque lingue correnti non possano venir conosciuti che in ritardo. È un handicap con cui bisogna fare i conti. Non riconoscerlo, significa escludere a priori quasi tutte le letterature mondiali (e non soltanto questo; ma anche lavorare con prospettive sbagliate. O per esempio

290 Williams Carlos Williams, I racconti del dottor Williams, introduzione di Van Wyck Brooks, tradu- zione di Lorenzo Bassi, Torino, Einaudi, 1963. 291 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 13 novembre 1951. 292 Ibidem 293 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 15 febbraio 1960.

178 dare un piano di rilievo a una letteratura così inconcludente e pro- vinciale come quella americana. Non è una boutade. Confrontala con quel pochissimo della letteratura ungherese che conosciamo)294.

Alla luce di quanto osservato, non avrebbe stupito il rifiuto di cimen- tarsi nella traduzione di un autore rappresentante di una letteratura ed “Williams è l’unico america- una cultura tanto sgradite: ed in effetti, quando Bazlen, per la verità un no che io tolleri ancora”. anno dopo la proposta di Foà, risponde sulla questione, precisa che Williams è l’«unico americano che io tolleri ancora»295. Oltre a questo, fra le ragioni che lo spingono ad accettare egli annovera anche il fatto di avere già svolto una traduzione di Williams (uscita per la rivista di cultura americana «Prospettive U.S.A.» nel 1952296) che lo ha fatto «diventar matto»297 e nella quale ha «trovato gli stessi scogli»298 rilevati nella raccolta di racconti: scogli che però egli deve avere infine aggira- to, o comunque affrontato, e che dunque potrebbero costituire piutto- sto un rassicurante elemento di consuetudine con l’autore. La tradu- zione in sé e per sé, in effetti, verrà ultimata in tempo breve, dal momento che già nel novembre del 1953 Bazlen può informare Foà di averla finita. La pubblicazione del libro nella collana dei «Supercoralli», Dalla traduzione della tuttavia, avverrà dieci anni dopo, e le problematiche ad essa connesse raccolta alla sua trovano conferma nei lunghi archi temporali durante i quali, nel car- pubblicazione. teggio con Foà, non si trova menzione dell’andamento del lavoro su William Carlos Williams: tutti aspetti che lasciano intendere le difficol- tà incontrate nell’arrivare a un testo definitivo che possa essere conse- gnato all’editore. In effetti, nel momento in cui informa Foà di aver concluso la prima stesura della traduzione, Bazlen chiede la consulen- za di specialisti per la resa degli americanismi di cui è ricco il testo di Williams, ed inoltre fa presente quanto segue:

intanto non potresti tra le cose che state preparando, cercarmi subito qualcosa che mi vada bene e che, una volta tanto non mi

294 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 20 aprile 1961. 295 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 16 dicembre 1952. 296 William Carlos Williams, La distruzione di Tenochtitlán e Commedia morta e sepolta, in “Prospettive U.S.A”, a. I, n. 1, autunno 1952, pp. 30-41 e 52-61. 297 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 16 dicembre 1952. 298 Ibidem.

179 faccia diventar matto. Mi andrebbe bene qualche tedesco, sul tipo di Joseph Roth, anche (ma meno) Heinrich Mann, o roba del genere. Ma se mi dici in genere cosa state preparando, lasciando- mi la scelta, mi fai un vero piacere: ho bisogno di qualcosa da poter fare subito. [...] (ho pensato alla narrativa tedesca perché lì, veramente, posso fare bene 20 pag. al giorno; ma segnalami anche teatro, saggi (se sono il contrario della malinconia [...]): ed anche roba francese o americana (se sono il contrario di Williams, o della Hutchins la quale (benché io non c’entri direttamente) mi fa da un mese perdere due ore al giorno299.

Richiedendo traduzioni di opere letterarie in tedesco, dunque, Bazlen mostra chiaramente la maggior immediatezza con la quale traduce da questa lingua, come sarebbe ovvio aspettarsi: accanto a questo aspetto, tuttavia, e nonostante il fastidio che egli manifesta a proposito del lavo- ro svolto su Williams, è interessante notare l’allusione ad un suo impe- gno ai fini della pubblicazione di autori americani. Accanto alla traduzio- ne del poeta, infatti, a quanto sembra Bazlen sta aiutando l’amica La collaborazione con Adriana Motti nella traduzione di Diary of love della già citata Maude Adriana Motti per la Hutchins300: una traduzione rispetto alla quale, presumibilmente, sin dal- traduzione di Diary of Love l’origine Bazlen aveva avuto un ruolo non irrilevante, se si considera che di Maude Hutchins. nel settembre del 1952 proprio a lui Bruno Fonzi aveva chiesto di indi- care un traduttore appunto per questo romanzo301. Oltre a questo aspet-

209 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 23 novembre 1953. 300 Maude Hutchins, Diario d’amore, traduzione di Adriana Motti, Torino, Einaudi, 1959. Dei lavo- ri della nota traduttrice de Il giovane Holden, peraltro, Bazlen si farà sempre garante, proponendo- la come si è visto per la traduzione del romanzo cinese Monkey, pubblicato nel 1959, e difenden- do la qualità del suo lavoro. Si può vedere, a questo proposito, una lettera del 14 gennaio 1954, nella quale appunto Bazlen discute l’assegnazione della traduzione del romanzo cinese ad Adriana Motti, mostrando anche di avere seguito da vicino la traduzione della scrittrice americana: «Monkey: l’Adriana Motti va benissimo, e grazie che glielo riservi. Non giudicarla in base al ritmo traduzione Hutchins. Che è già fatta, e credo che su nessun libro Einaudi sia stato lavorato tanto (devi credermelo sulla parola, vedrai come tutto sembra semplice)». Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 14 gennaio 1954. Infine, nell’agosto del 1954 il consulente triestino proporrà all’editore una raccolta di novelle ad opera della traduttrice, poi non pubblicata, delle quali specifica che «sono state scritte sempre di getto, ognuna in una sera sola, e non sono state corrette. Per cui, per un’eventuale pubblicazione, va considerata una certa ripulitura stilistica, ed eventualmente qual- che piccola modifica in qualche episodio. Il problema è di sapere se a tuo avviso Vittorini pub- blicherebbe un volumetto di novelle di questo genere nei Gettoni». Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 4 agosto 1954. 301 Cfr. a questo proposito Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento

180 to, non è forse casuale la richiesta di Bazlen, inoltrata il giorno successi- vo a quello della lettera appena citata, di poter prendere visione della nuova raccolta di un altro poeta americano influenzato dall’imagismo, 302 ovvero Wallace Stevens , nel probabile tentativo di approfondire il con- Wallace Stevens. testo culturale nel quale l’opera di Williams si era sviluppata. La compresenza di costanti difficoltà nella resa in italiano della lingua del poeta e la tendenza a trattare aspetti della pubblicazione di Williams non strettamente collegati alla traduzione che Bazlen stava svolgendo si trova peraltro confermata da quanto si può leggere in una lettera datata luglio 1954, l’ultima prima di un lungo silenzio, rotto solo nel 1959, circa la traduzione della raccolta di racconti. In questa lette- ra, infatti, Bazlen mostra di volere arricchire la presentazione al pub- blico del poeta con altri titoli, come dimostra la proposta di “un’edi- zione bilingue delle ultime poesie di «William Carlos Williams»303, le quali «con qualche riserva sul loro contenuto, sono tra le pochissime poesie leggibili che mi sono passate tra le mani dopo la guerra»304: a tale proposito, peraltro, viene anche fatto il nome di un possibile tradutto- re, evidentemente ritenuto particolarmente adatto, ovvero . L’interesse che Bazlen mostra ad inserire l’opera del poeta ame- ricano all’interno di un progetto editoriale di più ampio respiro si trova d’altronde controbilanciata, nella stessa lettera, dall’ammissione delle difficoltà incontrate nel proprio lavoro:

Conto di ricominciare a lavorare a metà settembre, e come prima cosa tenterò di dare l’ultima limata a William Carlos Williams, che ti manderò entro ottobre se mi deciderò a mandartelo. Mangiano clams con molta disinvoltura: non so se me la sentirò di mandar- ti un manoscritto in cui mangiano arselle (cozze disgraziatamente no, e gamberi o gamberetti, che sarebbero la soluzione con meno risalto, sarebbero troppo inesatti). (Equivoco con datteri, non puoi dire sempre datteri di mare; vongole non mi vanno bene per altre ragioni, eccetera eccetera eccetera)305.

Bazlen, lettera di Bruno Fonzi a Roberto Bazlen, 15 settembre 1952. 302 Cfr. a questo proposito Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 23 novembre 1953. 303 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 16 luglio 1954. 304 Ibidem. 305 Ibidem.

181 La proposta circa una pubblicazione più strutturata delle opere di Williams sembra da questo punto in poi sostituire quasi integralmente il suo ruolo di traduttore dei racconti firmati dal poeta, tanto che quan- do nel 1959 Bazlen torna a trattare la questione, lo fa soprassedendo quasi completamente circa il progredire del proprio lavoro. Nella sua lettera, infatti, egli insiste sul fatto che «più importante di tutto, sareb- be una scelta, un po’ vasta, delle poesie, per i “poeti tradotti con testo a fronte”», rispetto alle quali egli pensa in un certo senso a sviluppare quanto, in quegli anni, l’editoria italiana aveva già proposto dell’opera del poeta. Bazlen, infatti, fa presente che «le trad. della Vittoria Guerrini nel volumetto di Scheiwiller306 sono fatte benissimo, idem quelle di Sereni307; forse ve ne farebbero altre»308: in effetti, la pubblica- zione nel 1961 di una selezione delle poesie di Williams nella «Nuova collana di poeti tradotti con testo a fronte» porterà appunto i due nomi da lui indicati309. Oltre a questo aspetto, nella stessa lettera egli fornisce il proprio parere circa un possibile ulteriore filone della pubblicazione delle opere del poeta, quello relativo alle sue Selected letters, di fatto accennando anche un giudizio critico circa l’opera dell’autore, e rile- vandone la scarsa notorietà in Italia: dunque, sostanzialmente, mostrando di avere ben presenti ragioni critiche ed editoriali, che tut- tavia fanno passare in secondo piano la traduzione dei racconti, ai quali viene dedicato solo un veloce cenno.

Selected Letters. [...]. A quanto ricordo, sono molto belle, non hanno soltanto interesse biografico, e il bisogno di una poesia “nuova” e il logorio dei ritmi vecchi non è mai stato espresso, che io sappia, con tanta matter-of-facteness e con un’insistenza così autentica. Servirebbero, se non altro, pubblicandole, a compensa-

306 William Carlos Williams, Il fiore e il nostro segno. Poesie di Williams Carlos Williams, traduzione di Cristina Campo, Milano, All’insegna del Pesce d’oro, 1958. Si fa presente che Cristina Campo era lo pseudonimo della poetessa e traduttrice Vittoria Guerrini. 307 William Carlos Williams, Poesie, versioni di Vittorio Sereni, immagini di Sergio Dangelo, Milano, Edizioni del triangolo, 1957. 308 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 9 aprile 1959. 309 William Carlos Williams, Poesie, tradotte e presentate da Cristina Campo e Vittorio Sereni, Torino, Einaudi, 1961. Rispondendo alla proposta di Bazlen, d’altronde, Foà gli fa presente che un progetto affine è già stato concepito da Sereni, come si legge dal passo seguente: “L’idea di Sereni [...] sarebbe di mettere insieme in un volume le sue versioni con quelle della Guerrini, che gli sembrano molto buone”. Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incarta- mento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 14 aprile 1959.

182 re almeno in parte l’ondata di banalità che verrà sollevata dalla pubblicazione dell’epistolario di Saba. [...]. D’altra parte. W.C.W. è troppo poco conosciuto in Italia per fare, come secondo suo libro, le lettere (se trovo un luogo dove lavorare, le novelle vorrei man- darvele entro l’estate. E come introduzione, non so se gioverebbe fare invece l’autobiografia, molto bella anche questa, ma forse - non me la ricordo - troppo legata all’ambiente letterario america- no che qui non si conosce)310.

Dall’aprile del 1959 le lettere che Bazlen invia trattando della pubbli- cazione di William Carlos Williams sono numerose, e tutte impronta- Cristina Campo. te alla convinta promozione delle qualità di Cristina Campo, alla quale era legato anche da un rapporto d’amicizia, come traduttrice («le [sue] traduzioni di W. C. Williams sono perfette - tra le pochissime belle tra- duzioni poetiche italiane che conosca»311). Accanto a questo aspetto, Bazlen fornisce il proprio contributo circa la selezione delle poesie che si potrebbero integrare nella raccolta in lavorazione, mantenendo sem- pre desta l’attenzione alla riuscita del volume come frammento rappre- sentativo ed esauriente circa l’opera del poeta americano. Dopo avere proposto i testi della raccolta dal titolo The desert music («con delle poe- sie che sono fra le più belle, moderne, che conosca»312) Bazlen infatti arriva a proporre la collocazione di «un piccolo gruppo di lettere»313 a corredo della raccolta che Einaudi si accinge a pubblicare, vedendo in esse una possibile funzione di supporto per il lettore alla comprensio- ne delle poesie: secondo lui, infatti, «con 5-10 lettere, scelte bene, met- tete assieme la sua ars poetica completa, e date alle poesie uno sfondo molto più fresco di quanto possa dare una prefazione»314. Dalla diffidenza iniziale, dunque, Bazlen è arrivato a formulare un giudi- zio circa l’opera del poeta americano che gli permette di indicare all’edi- tore il modo migliore per sottoporla ai lettori: resta però il fatto che ancora nel settembre del 1960, dunque poco prima che da Torino gli

310 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 9 aprile 1959. 311 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 16 dicembre 1959. 312 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 14 aprile 1959. 313 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 1 maggio 1960. 314 Ibidem.

183 arrivi una prima sollecitazione formale alla consegna della traduzione che gli era stata commissionata, egli si mostri in difficoltà rispetto a quel- lo che in origine avrebbe dovuto essere il suo unico compito. Egli infat- ti così presenta lo stato della traduzione dei racconti di Williams: «finita da anni. Insoddisfacente. Rifatta. Insoddisfacente. [...] la rivedrò que- st’inverno, e spero vada finalmente a posto. Salvo certi punti (parecchi) che nessuno degli americani cui ho chiesto mi ha saputo spiegare»315. I problemi incontrati al momento della traduzione del 1952 per la rivista Le consulenze di Adriana «Prospettive U.S.A», i quali avevano richiesto la «collaborazione di Motti, Giacomo Adriana [Motti], Giacomo [Debenedetti], americani, même intervento di Debenedetti e »316, si sono dunque ripresentati al momento di svolgere una Moravia. nuova traduzione per Einaudi, che peraltro non smette di sollecitarne la consegna. Essa tuttavia avviene solo alla fine del 1961, quando Bazlen invia all’editore «un manoscritto rivisto da molte persone e credo già pubblicabile com’è»317, per il quale comunque chiede una nuova revisio- ne ad opera di Adriana Motti: una traduttrice nella quale, come si è visto, egli aveva molta fiducia e che, «per il parlato di Williams, è la persona più indicata che conosca»318. Che effettivamente a lei siano poi stati affidati diversi compiti, nella fase finale della preparazione dell’edizione dei rac- conti del poeta americano, è d’altronde dimostrato da quanto si legge in una sua lettera rivolta a Italo Calvino, al quale evidentemente era affida- ta la cura dei rapporti «ufficiali» con la traduttrice. Il 10 dicembre del 1962, infatti, Adriana Motti si dice «d’accordo su Williams [...] e sul tito- lo (anche se a Bobi non piacerà. D’accordo anche su prefazione, che ho tradotto e sto rivedendo)»319. Osservazioni, queste, al quale lo scrittore risponde nel febbraio del 1963, facendole al contrario presente che «a Bobi Bazlen»320, il quale dunque seguì le vicende del libro fino agli ultimi passi prima della pubblicazione, «il titolo I racconti del dottor Williams piace moltissimo, anzi, lo esige»321.

315 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 18 settembre 1960. 316 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 1 gennaio 1961. 317 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 4 ottobre 1961. 318 Ibidem. 319 Lettera di Italo Calvino ad Adriana Motti (10 dicembre 1962) in Italo Calvino, I libri degli altri: lettere 1947-1981 cit., p. 415. 320 Lettera di Italo Calvino ad Adriana Motti (6 febbraio 1963) in Ivi, p. 423. 321 Ibidem.

184 La seconda traduzione letteraria che Bazlen svolge per Einaudi nel 1958 riguarda un romanzo postumo di Bertolt Brecht, Gli affari del La traduzione dell’opera signor Giulio Cesare, dunque, come nel caso di Williams, un’opera postuma di Brecht Gli affari sostanzialmente minore all’interno della produzione dell’autore: al di là del Signor Giulio Cesare. di questo, la vicenda editoriale di questo romanzo presenta decisamen- te meno aspetti di problematicità rispetto a quanto si è visto riguardo al poeta americano, anche in conseguenza del fatto che in questo secondo caso Bazlen incontrò diverse difficoltà e si impegnò attiva- mente per organizzare la pubblicazione. Resta comunque il fatto che anche in questa circostanza egli, una volta firmato il contratto per la traduzione, cerchi di accostare al proprio lavoro quello di una tradut- trice che considera capace, la sua amica Gabriella Bemporad, il cui La proposta di lavoro più volte aveva proposto ad Einaudi. In una lettera datata 7 feb- collaborazione con braio 1958, infatti, Bazlen fa presente che la Bemporad ha già tradot- Gabriella Bemporad. to alcune poesie di Brecht, che dunque si potrebbero riunire in una raccolta: una proposta alla quale Foà risponde informando l’amico che le «poesie di Kalendergeschichten [Storie da calendario] le sta già tradu- cendo Fortini, come pure le altre poesie di Brecht»322. Se dunque il ten- tativo da parte di Bazlen di lavorare con Gabriella Bemporad, o comun- que di promuoverne l’attività presso l’editore, non avrà seguito, è però importante rilevare che proprio l’opera che Foà indica come assegnata alla traduzione di Franco Fortini, ovvero Storie da calendario, verrà poi inclusa nell’edizione, uscita nella collana dei «Supercoralli», de Gli affari di Giulio Cesare323. L’accostamento del proprio lavoro a quello di Fortini, peraltro, non fu presumibilmente sgradito a Bazlen: a dimostrarlo è il giudizio decisamente negativo che egli, nel momento in cui ha finito di tradurlo, fornisce a proposito del romanzo postumo di Brecht, cosa che probabilmente faceva sì che anche a suo parere esso necessitasse di essere pubblicato insieme ad un’altra opera dello stesso autore.

Brecht: è veramente un libro insulso e geistlos [inutile] (bada che certe cose di Brecht mi piacciono, m o l t o!). Cioè il primo getto pieno di sgrammaticature. Frasi buttate giù alla meglio, effetti non sfruttati, ecc. di un libro che, lavorato e finito, avrebbe forse potu-

322 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 8 marzo 1958. 323 Bertolt Brecht, Gli affari del signor Giulio Cesare e Storie da calendario, traduzione di Lorenzo Bassi, Paolo Corazza e Franco Fortini, Torino, Einaudi, 1959.

185 to essere un po’ meglio (non troppo)324.

La rilevazione della scarsa qualità e rilevanza del romanzo di Brecht, accanto alla considerazione delle caratteristiche della sua trama, gli per- mette peraltro di fare alcune osservazioni che da un lato mostrano la già vista attenzione ai fini di una presentazione ottimale del testo, questa volta da un punto di vista commerciale, dall’altro tradiscono nondime- no una certa supponenza rispetto al pubblico immaginato per il libro:

Ho pensato che già che lo pubblicate, sarebbe giusto pubblicarlo prima possibile. Il libro non tratta che di trucchi elettorali, volta- faccia di partiti e cose simili, e in clima di elezioni (anche se pas- sate da poco) e con fascetta adeguata potrebbe avere una sua banale attualità, e venir venduto un po’ di più, tra tutta quella gente che vuole leggere nei libri quello (né più né meno) che leg- gono ogni giorno sul giornale325.

Ad un pubblico che, a giudicare da come viene descritto, sostanzial- mente manca di fantasia può dunque bastare un’attualità definita «banale»: nel formulare un giudizio come quello che si è appena letto, dunque, Bazlen sembra non avere davvero a cura la percezione da parte del pubblico dell’opera, come era stato nel caso di Williams, bensì la semplice riuscita dell’investimento attuato dall’editore. È comunque vero che, al di là delle personali ragioni che potevano spin- gerlo in questa direzione, egli torna poco dopo ad insistere sulla sua idea, mostrando, dunque, quantomeno una certa convinzione. Pochi giorni dopo il parere che si è appena visto, infatti, Bazlen torna a con- sigliare di pubblicare il romanzo di Brecht «con urgenza»326, motivando la propria insistenza con il fatto che «certi titoli di giornale che mi sono

324 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 13 maggio 1958. Il giudizio sull’opera di Brecht si troverà corredato da ulteriori osservazioni che Bazlen farà scrivendo a Carlo Fruttero, che negli ultimi stadi prima della pubblicazione si occuperà del libro. A lui, presentando il proprio lavoro, Bazlen scrive che “il testo tedesco, è una prima stesura, dura, non curata, approssimativa, con sintassi polentosa e ana- coluti. Ho tentato di dare un tono trascurato e disordinato anche all’italiano, ma ho visto, leggen- do la traduzione stampata, che è soltanto sgradevole (non che il libro in tedesco non sia sgrade- vole, anzi!). Dunque cambia quanto vuoi”. Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Carlo Fruttero, 14 gennaio 1949. 325 Ibidem. 326 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 20 maggio 1958.

186 caduti sotto gli occhi, e certe parole lette sui manifesti, sono tali e quali certi punti del “Caesar”»327: per rafforzare la propria proposta, inoltre, egli chiama in causa anche la sua influenza negli ambienti culturali almeno romani, cosa che in questo caso potrebbe secondo lui dare voce, dunque incrementandone la vendita, non solo al romanzo da lui tradotto, ma anche al resto dell’opera di Brecht.

Non parlo di grande successo. Ma facendo far subito qualche recensione nei giornali (il Giacomo Debenedetti, per esempio, m’ha detto che dovrebbe fare la critica letteraria in un quotidiano (importante e nuovo, ma non so come si chiami) [...]; e se gli chie- do di farmi l’articolo subito, me lo fa senz’altro) e forse non ven- dete soltanto un po’ di più di quel che sarebbe la vendita norma- le, ma spingete (un poco) anche la vendita del Teatro328.

La convinzione con cui Bazlen caldeggia la strategia di promozione che si è fino ad ora descritta permette di rilevare una certa consapevo- lezza, da parte sua, circa quello che poteva essere un modo per pro- muovere un libro evidentemente ritenuto altrimenti troppo “debole”. Le strategie di promozione del libro. Accanto a questo aspetto, tuttavia, si può rilevare anche la personale, si potrebbe dire consueta, insoddisfazione circa la qualità del proprio lavoro, che lo porta, nella stessa lettera, a chiedere a Foà un giudizio in proposito: «dimmi com’è la traduzione. Non sono assolutamente in grado di rendermene conto, [...]. - bada che certe soluzioni che posso- no sembrare strambe, sono più aderenti di quanto possa sembrare»329. Alle questioni sollevate da Bazlen l’amico risponderà informandolo che «il libro non uscirà, quasi certamente, fino all’anno prossimo»330, dal momento che il 1958 ha già visto la pubblicazione di altre opere di Brecht e dunque con la proposta di questo autore «non si può esage- rare»331: nel contempo, tuttavia, Foà implicitamente approva la tradu- zione che Bazlen ha svolto, dal momento che non la commenta, ma semplicemente ne sollecita la consegna, tornando a contattarlo, quan- do la pubblicazione è ormai prossima332, per sapere sotto quale nome

328 Ibidem. 329 Ibidem. 330 Ibidem. 331 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 22 maggio 1958. 332 Ibidem.

187 vada indicata la traduzione. La risposta che Bazlen scrive pochi giorni dopo è forse, nella sua semplicità, indicativa di un atteggiamento sem- pre a metà fra un’ironia quasi paradossale, la decisa volontà di non ren- dere mai pubblica la propria persona e il proprio lavoro, ed un atteg- giamento rispetto ad esso che combina impegno e, a volte sembra, disinteresse: «nome traduttore Brecht: quello che vuoi, ma non il mio. Mi pare che i traduttori dal tedesco dovrebbero chiamarsi Lorenzo. Come cognome non so: il più banale possibile»333.

333 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 22 gennaio 1959.

188 4. Le proposte di collane per Einaudi e Bocca.

4.1 I «libri piccoli» da Einaudi a Bocca.

Come si è specificato in apertura del precedente capitolo, la consulen- za che per un decennio Bazlen fornì alla casa editrice Einaudi si svol- se quasi totalmente “a distanza”, tramite le lettere inviate a Luciano Foà. A questo proposito, Giulia de Savorgnani riferisce di un solo incontro con Giulio Einaudi, cosa singolare all’interno di un rapporto protrattosi per lungo tempo, e che peraltro nasconde qualche ragione di interesse. Sembra infatti che

in quell’occasione anche l’editore torinese, come la maggior parte dei suoi colleghi, rimase affascinato dalla personalità di Bazlen, tanto da pensare di affidargli la direzione di una collana tutta sua. Ma anche in questo caso l’entusiasmo si raffreddò ben presto e L’incontro con Giulio Einaudi. così la “linea Bazlen” non riuscì ad affermarsi1.

La frequente mancanza di entusiasmo nei confronti dei progetti di Bazlen costituisce un aspetto che si è già posto in evidenza. È però anche vero che la tendenza di quest’ultimo a viaggiare e mantenere una certa distanza rispetto ai luoghi dove si sarebbe dovuto svolgere il suo lavoro ebbe forse un ruolo non indifferente nella scarsa incidenza delle sue proposte; tanto più se si considera che il fatto di non essere anche fisicamente legato, per così dire, alla redazione einaudiana gli permet-

1 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 103, nota n. 40.

189 teva di tentare l’almeno parziale realizzazione su diversi fronti dei pro- pri progetti editoriali. La lettura del carteggio con Erich Linder aiuta a mettere in luce questo aspetto, pur nella difficoltà di cercare di rico- struire la fisionomia di progetti che si sovrappongono e confondono fra loro, in un arco temporale che va dal 1953 alla fine della collabora- zione con Einaudi. Ad ogni modo, la prima proposta da parte di Bazlen relativa non a un singolo libro, ma a un insieme di testi in qual- che modo fra loro connessi risale al luglio del 1953, quando egli così presenta a Foà un elenco di autori e titoli in dodici punti:

Ti ho detto a Torino (e ne ho parlato brevemente anche con Einaudi) che quasi non esistono traduzioni accessibili e non impe- netrabili di quasi tutti i testi mitologici, religiosi, iniziatici, folklori- stici ecc. che vengono comunemente citati nei libri di psicologia, antropologia, storia delle religioni ecc. - È un materiale che sta per diventare di attualità (senza dimenticare che comprende gran parte delle cose più v i v e di questo mondo) e credo che, presen- tato in modo altrettanto vivo, e proteggendolo dagli attentati della La proposta di una collezio- filologia pura, si potrebbe (lentamente e andando con i piedi di ne di testi mitologici, religio- piombo), mettere assieme una collezione non insoddisfacente da si, iniziatici, folkloristici. un punto di vista strettamente commerciale2.

Nel passo appena citato si possono rintracciare molti degli aspetti che caratterizzano maggiormente le modalità e i caratteri dell’operato di Bazlen, così come si è cercato di descriverli in questa sede: oltre a fare cenno a un dialogo intrattenuto, ma «brevemente», con Einaudi, egli infatti presenta una collana rispondente a quelli che si sono visti esse- re fra i suoi interessi primari, che vorrebbe vedere diffusi in Italia non solo tramite testi teorici e saggistici. Al contrario, la loro presentazio- ne deve avvenire in maniera “viva”, come “vivi” sono definiti esplici- tamente appunto i titoli proposti, dal momento che si pongono come corredo antologico di un sapere che si sta progressivamente diffon- dendo in Italia. Bazlen infatti pone l’accento sull’«attualità» che carat- terizzerebbe le sue scelte: un valore che, come si è visto, era per lui fon- damentale, e che tuttavia non gli impedisce di mantenere ferma l’atten- zione per la gradualità, dunque anche la qualità, del raccoglimento da

2 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953.

190 parte del pubblico di determinati stimoli. Infine, accanto a moventi di ordine culturale la sua proposta vaglia anche un aspetto commerciale, rispetto al quale la collezione non sarebbe «insoddisfacente»: il possi- bile successo che egli prospetta, dunque, si giustifica anche con la con- sapevolezza, sebbene non espressa esplicitamente in questo passo, del fatto che le case editrici italiane non abbiano ancora sfruttato appieno le potenzialità offerte dal vastissimo ambito della «psicologia, [dell’] antropologia, [della] storia delle religioni». Valutando più da vicino quest’ultimo aspetto, si può allora rintracciare l’origine del progetto presentato nel 1953 in una lettera di due anni precedente, cosa che dimostra che l’idea di Bazlen, nata da valutazioni commerciali e cultu- rali assieme, poggiasse su una riflessione molto ben radicata, e lasciata decantare per due anni della sua collaborazione con Einaudi. L’interesse per la progettazione di una nuova linea nelle pubblicazioni della casa editrice era stato peraltro espresso anche da altri consulenti e collaboratori, quali Vittorini e Chabod3. Luisa Mangoni, nella sua rico- struzione della storia di casa Einaudi, descrive tale interesse come l’«espressione di una [...] mediazione culturale rispetto a nuove curiosità percepite come in crescita nella cultura italiana»4, specificando però anche quanto questa «mediazione» fosse in sostanza «disarticolata»5. Un agget- tivo che si applica evidentemente bene allo svolgersi dei suggerimenti dei consulenti Einaudi, ma che può anche ben rappresentare la reazione della casa editrice di fronte ad essi, come si avrà modo di considerare. Tornando allo specifico progetto di Bazlen e soprattutto alle sue origi- ni, è importante rilevare che appunto già in una lettera del 1951, rivol- ta ancora a Bruno Fonzi, egli fornisce il proprio parere circa un saggio di un allievo di Jung, Hans Schär, citando fra l’altro la «collana viola»6, nella quale secondo lui «il libro [...] dovrebbe rientrare»7. Al di là del giudizio fornito circa l’opera di Schär, è interessante notare che Bazlen osservi che «particolarmente in campo “viola” in Italia resta da pub- blicare ancora quasi tutto - e non penso soltanto agli studi moderni,

3 Si veda e a questo proposito Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., pp. 708-709. 4 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 710. 5 Ibidem. 6 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 maggio 1951. 7 Ibidem.

191 quanto al materiale sul quale questi studi lavorano, testi etnologici, antichi libri religiosi, raccolte di favole ecc.»8. L’idea di Bazlen, dunque, si configura come un completamento di quel «campo viola», ovvero relativo alla già citata «collezione di studi religiosi, etnologici e psicolo- gici» creata nel 1948 da Cesare Pavese ed Ernesto de Martino, la quale evidentemente secondo lui necessitava di un’integrazione. È appunto una proposta in tal senso, dunque, che egli avanza ad Einaudi due anni dopo, nel luglio del 1953, tramite la presentazione del breve elenco che si riporta di seguito:

POPOL VUH (libro sacro dei Maya Quiché) Leggende e miti ebraici antichi (scelta dal Ben Gorion) Le opere proposte da Bazlen MILAREPA (Vita e Canti di un Santo tibetano) nel catalogo Einaudi. PLUTARCO: Iside e Osiride La Vita di APOLLONIO DI TIANA PAUSANIA: Viaggio in Grecia ORAPOLLO: I geroglifici CONFUCIO: Analecta Il Libro della Pittura bizantina Il Sogno della Camera Rossa PARACELSO SWEDENBORG9

Come si è già visto nel corso del primo capitolo del presente lavoro, la proposta di molti dei testi sopra elencati può essere considerata come frutto delle suggestioni delle teorie della psicologia analitica junghiana, cosa che non stupisce se si considera che sin dalle prime battute della «Collana viola» «Jung [aveva dato] la sua impronta all’in- tera collezione»10: la comune derivazione dei titoli, il loro supposto ruolo, come insieme, di «prolungamento» antologico della «viola» ed infine il fatto che Bazlen stesso indichi esplicitamente il proprio elen- co come «collezione» dovevano giustificare la speranza di vederli pubblicati appunto come un insieme, una collana di testi fra loro strettamente connessi. È però proprio questa speranza che Foà,

8 Ibidem. 9 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953. 10 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 516. 192 nella sua risposta al progetto di Bazlen, mortifica, anche se, come si vedrà, non per una chiusura a priori, sua o di altri, rispetto all’idea in sé della creazione di una nuova collezione, dal momento che «è quasi sempre avvenuto che le nostre collane nuove siano nate quasi natural- mente da altre collane»11. La vera ragione dell’impossibilità di realizza- re il progetto di Bazlen così come lui lo ha prospettato risiede dunque altrove, ma ad essa Foà non fa esplicito riferimento, contando eviden- temente sulla possibilità che l’amico possa comunque intendere la natura del problema. Chiarito infatti che «una collana del genere non potrebbe inserirsi nel programma della nostra Casa che affiancandosi La mediazione di Foà. alla collana viola», Foà puntualizza anche che

la “Viola” è affidata alla direzione di De Martino, e poiché è evi- dente che una certa armonia di indirizzo dovrebbe regnare tra le due collane (quella critico-storica e quella di testi), abbiamo molti dubbi che l’impresa, così come tu la prospetti (cioè come collana) possa essere facilmente realizzata.

Puntualizzando quanto si è appena visto, Foà sembra dunque cercare di ovviare ai possibili «problemi di congestione con de Martino»12, direttore appunto della «collana viola». Ma soprattutto, si può capire da queste parole che la mancanza di affinità del progetto di Bazlen fosse non solo con la «collana viola», ma anche con l’indirizzo che ad essa il suo direttore, Ernesto De Martino, intendeva dare. In questo specifi- co senso, l’intervento di Foà offre «esemplare testimonianza di quella complessa mediazione interna, di quel dar spazio a istanze che anda- vano maturando, particolarmente evidente [...] nelle collane a spettro largo»13. Come si è già avuto modo di rilevare, infatti, de Martino era sostanzialmente contrario ad una esplicita connotazione della collana in senso junghiano, cosa che in effetti la realizzazione del progetto di Bazlen avrebbe contribuito a comportare. La proposta è dunque boc- ciata nella sua forma originaria, e per la verità troverà anche scarsissi- ma realizzazione nella modalità alternativa che Foà, presumibilmente dopo aver discusso la questione all’interno della casa editrice, delinea:

11 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 6 ottobre 1953. Dalla stessa lettera sono tratte le citazioni che seguono. 12 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 710. 13 Ivi, p. 711.

193 «la cosa più semplice per ora ci sembra che sia di vedere quali dei libri da te consigliati possano meglio rientrare in una delle collane già esi- stenti, e specialmente nei Saggi, nei Millenni e nell’Universale»14. La «collana viola», dunque, passa in secondo piano, come d’altronde l’idea di pubblicare organicamente «i dodici volumi proposti in luglio»15: il tutto per ragioni che non si trovano spiegate in altro modo che quello che si è appena descritto. La risposta della casa editrice rife- rita da Foà dovette in effetti causare la perplessità, e forse il risentimen- to, di Bazlen: prova ne è il fatto che egli, smentendo il quasi abituale atteggiamento procrastinante, in questo caso risponda dopo pochi giorni, esprimendo esplicitamente il proprio pensiero: «Testi mitologi- ci, religiosi, ecc.: come corpo unico, avrebbero avuto maggior peso»16. Se comunque Bazlen mostra di avere colto il messaggio contenuto nelle parole dell’amico, nel momento in cui afferma che «dati gli argo- menti che m’hai scritto, niente in contrario di cominciare con l’inserir- li in collezioni già esistenti»17, resta però il fatto che egli non sembra accettarli completamente, se poche righe sotto, passando in rassegna le diverse componenti della proposta formulata in luglio, così prosegue, approfondendo le ragioni della sua prima affermazione:

SWEDENBORG: è l’esempio tipico di quella categoria di autori che la casa ed. Einaudi può pubblicare unicamente in una collezione di materiale psicologico-religioso. In una collezione, avrebbe un’illumi- nazione e un’accentuazione giustificabili. Che vi mettiate a pubblica- re Swedenborg, così [...], (e non escludo che sarebbe un libro che “va”), è un po’ buffo. Dunque, eventualmente in un secondo tempo18.

Venuta a cadere la prospettiva di dare vita a una collana completa, dun- L’accantonamento della que, Bazlen in alcuni casi rinuncia ai singoli titoli, evidentemente in proposta di collezione. nome dell’importanza «dell’illuminazione e del valore di contrappun-

14 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 6 ottobre 1953. 15 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 13 ottobre 1953. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto

194 to»19 che egli attribuiva ad un testo «nell’insieme della collana»20: decon- testualizzato rispetto a una rete di titoli che ne sostenga il senso ed indi- rizzi la percezione da parte del pubblico, dunque, il titolo perde signifi- cato e, forse, anche interesse. Non lo perde però del tutto, se Bazlen, in chiusura della lettera in cui lamentava la perdita di «peso» dei titoli se non presentati in un’unica collezione, torna a ricordare a Foà che «se come direzione, Vi interessa, avreste da tradurre, ritradurre, scoprire e inven- tare almeno metà della letteratura di questo mondo»21, evidentemente alludendo a un proprio possibile contributo in questa direzione. Per la verità, tale contributo da parte di Bazlen nello «scoprire e inven- tare» correnti culturali inedite, sarà da un lato impoverito dal rifiuto, rispetto a diverse opere, da parte di Einaudi, dall’altro realizzato, per quanto solo in parte e prevalentemente come tentativo, mediante la collaborazione con diverse case editrici. Il caso dei dodici titoli appena citati è a questo proposito indicativo. Di essi, cioè, solo due troveran- no posto all’interno del catalogo Einaudi e comunque in due collane differenti, dal momento che Popol Vuh. Le antiche storie del Quiché22 figu- ra nella Nuova Serie dell’Universale Einaudi, collana volta alla pubbli- cazione di «testi classici»23 ritenuti «essenziali per il dibattito culturale Il sogno della camera rossa. italiano»24, mentre Il sogno della Camera Rossa. Romanzo cinese del secolo Romanzo cinese del secolo 25 XVIII e altri romanzi cinesi XVIII verrà pubblicato all’interno dei «Millenni». A questo proposi- antichi. to è però anche bene specificare che lo stimolo alla pubblicazione del libro non è da ricondursi alla sola influenza di Bazlen, se nella sua risposta Foà gli aveva fatto presente che «avevamo già pensato di pub- blicare nei Millenni Il sogno della Camera Rossa e così altri romanzi cine- si antichi (tra cui Monkey)»26: tale proposta è dunque da ricondursi anche, e forse soprattutto, all’influenza ben più rilevante di Elio

Bazlen a Luciano Foà, 3 maggio 1951. 20 Ibidem. 21 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 13 ottobre 1953. 22 Popol Vuh, Le antiche storie del Quiché, a cura di Adrián Recinos, traduzione di Lore Terracini, Torino, Einaudi, 1960. 23 Cinquant’anni di un editore: le edizioni Einaudi negli anni 1933 - 1983, Torino, Einaudi 1983, p. 626. 24 Ibidem. 25 Il sogno della Camera Rossa. Romanzo cinese del secolo XVIII, a cura di Franz Kuhn, presentazione di Martin Benedikter, traduzione di Clara Bovero e Carla Pirrone Riccio, Torino, Einaudi, 1958. 26 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 6 ottobre 1953.

195 Vittorini, il quale in effetti in quel periodo «suggeriva ulteriori allarga- menti di campo verso le antiche letterature cinese e giapponese»27. Vittorini, dunque, si trovava evidentemente in accordo con la conside- razione di Bazlen secondo la quale le traduzioni di tali testi «sono nel- L’influenza di Vittorini nelle l’aria e non giungerebbero troppo inaspettate ai lettori italiani»28, scelte dei testi antichi di potendo tuttavia dare maggiore concretezza a questa considerazione di letteratura cinese e quanto il consulente triestino potesse fare. Resta comunque da sotto- giapponese. lineare il fatto che le «27 illustrazioni originali fuori testo di Kai Ch’i» indicate nel Catalogo Einaudi per Il sogno della Camera Rossa sono forse da ricondursi all’indicazione, che Bazlen aveva fornito presentando il suo elenco di titoli, circa il fatto che essi fossero libri «anche facilmen- te e giustificatamente illustrabili»29. Ed anche per il romanzo cinese Monkey, pur non avendolo direttamente proposto, Bazlen avrà un ruolo di rilievo. Già in una lettera del 13 dicembre 1953, infatti, scrive- rà a Foà: «Monkey invece ti pregherei di darlo alla Adriana Motti»30, pro- muovendo in questo modo una traduttrice che aveva svolto, in alcuni casi grazie all’amico triestino, e svolgerà molti lavori per la casa editri- ce31. Anche solo nelle pubblicazioni rispetto alle quali Bazlen ebbe un qualche tipo di ruolo, tutte avvenute fra il 1958 e il 1960, si può allora vedere un esempio di quella «linea complessivamente in crescita nella casa editrice, anche su sollecitazione, in qualche caso inaspettata e pro- prio perciò più significativa, dei suoi consulenti»32, di cui Luisa Mangoni rileva la presenza. È infine anche bene tenere presente che riguardo a romanzi come Monkey o Il sogno della Camera Rossa, è stata posta in rilievo anche la ragione politica che spingeva l’editore alla pub- blicazione, se la fine degli anni Cinquanta vide fra l’altro «l’incontro di Giulio Einaudi con una delegazione della Repubblica Popolare Cinese, alla quale [...] mostra le sue edizioni dei massimi romanzi cinesi»33. Resta però da osservare un ulteriore elemento, a conferma tanto di una

27 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 708. 28 Ibidem. 29 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953. 30 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 13 dicembre 1953. 31 Nel caso specifico del romanzo cinese che si sta qui prendendo in considerazione, si veda infat- ti il Catalogo Einaudi, sempre all’interno della Nuova Serie dell’Universale Economica: Wu Ch’êng-ên, Lo scimmiotto, prefazione di Arthur Waley, traduzione di Adriana Motti dal testo ingle- se di Arthur Waley, Torino, Einaudi, 1960. 32 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 708. 33 Libri e scrittori di via Biancamano, casi editoriali in 75 anni di Einaudi, a cura di Roberto Cicala e 196 proposta editoriale «disarticolata»34 da parte di Einaudi, quanto della tendenza di Bazlen a lavorare su piani diversi, estendendo cioè le pro- prie proposte, contestualmente o col passare degli anni, a più editori: senza che tuttavia questo comporti necessariamente il buon esito delle proprie proposte. Se infatti come si è appena visto dei dodici consigli presentati nel luglio del 1953 solo due ebbero seguito presso Einaudi, degli altri dieci solo una minima parte ebbe destino affine presso altri editori. Come ormai risulta ovvio aspettarsi, infatti, due dei titoli pro- posti troveranno spazio, con un ritardo di molti anni, nella Biblioteca Adelphi, rispetto alla quale l’influenza di Bazlen si rivela, col procede- re del discorso che si sta svolgendo in questa sede, sempre più consi- stente. La Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato35, infatti, verrà pubbli- cata solo nel 1978, preceduta nel 1966 dalla Vita di Milarepa36: si tratta dunque di due biografie, ulteriore conferma dell’interesse di Bazlen per quello specifico genere e del fatto che solo Adelphi lo abbia quasi pienamente assecondato. L’entità dei personaggi ritratti in questi testi, un mago vissuto nel I secolo dopo Cristo, dunque nel tardo mondo pagano, ed un religioso tibetano la cui vita si colloca nell’undicesimo secolo, tradiscono ulteriormente il fascino che Bazlen percepiva, come si è più volte sottolineato, verso «mondi» lontani nel tempo e nello spa- zio, nonché verso tutto quanto potesse avvicinarlo alla magia, alla sto- ria delle religioni e più in generale a tutti quei campi tematici in qual- che modo affini al pensiero junghiano. Alla stessa temperie, dunque allo stesso stimolo da parte di Bazlen, è da ricondursi Paragrano, opera dell’alchimista Paracelso37, che troverà posto nel 1961 Paragrano, opera nell’«Enciclopedia di autori classici» di Boringhieri, un altro editore dell’alchimista Paracelso, con il quale Bazlen intrattenne una corrispondenza. In essa, per la veri- pubblicato nel 1961 da tà, il testo di Paracelso non trova menzione, ma non è difficile suppor- Boringhieri. re il fatto che la sua pubblicazione sia stata il frutto della suggestione del consulente triestino, visto il suo metodo di lavoro fondato spesso sulla contemporanea raccomandazione di un titolo a diversi editori. Ben più rilevante, a quest’ultimo proposito, è quanto emerge dalla let-

Velania La Mendola, presentazione di Carlo Carena, Milano, EDUcatt, 2009, p. 15. 34 Ivi, p. 710. 35 Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, a cura di Dario Del Corno, Milano, Adelphi, 1978. 36 Vita di Milarepa, a cura di Jacques Bacot, traduzione di Anna Devoto, Milano, Adelphi, 1966. 37 Paracelso, Paragrano, introduzione, traduzione e note di Ferruccio Masini, Torino, Paolo Boringhieri Editore, 1961.

197 tura del carteggio fra Bazlen ed Erich Linder, con il quale, come si è visto, egli aveva un rapporto non solo di amicizia, ma anche di colla- borazione professionale, fondata appunto sul ruolo che l’Agenzia Letteraria poteva avere nella diffusione dei “suoi” titoli presso i vari editori italiani. All’interno del carteggio, infatti, si possono rintraccia- re, anche se non sempre con facilità, le tracce dei tentativi che egli attuò per vedere pubblicati i libri in cui credeva: la prima testimonian- za in tal senso si può leggere in una lettera datata 10 dicembre 1953, dunque solo due mesi dopo la risposta negativa che come si è visto Foà aveva dovuto inviare all’amico riguardo al suo progetto. Le parole con cui Bazlen introduce quanto egli vuole dire a Linder, peraltro, mostrano anche il fatto che, per ragioni forse di concorrenza fra case editrici, tale tentativo da parte sua potesse causargli qualche attrito con Einaudi. In apertura della sua lettera, infatti, specifica che essa «è anche per Luciano [Foà], cui non ha scopo che scriva separatamente; del resto la corrispondenza della faccenda di cui ti scrivo, è giusto che venga indirizzata all’ambiente neutrale dell’agenzia»38. È in effetti, come emerge dalla citazione che segue, proprio grazie al tramite di questo “ambiente neutrale” che Bazlen sperava di dare vita alle proprie proposte, dopo avere indipendentemente trovato una casa editrice che fosse disposta, almeno teoricamente, ad accoglierle. Si tratta della Fratelli Bocca, che aveva raccolto l’eredità di un’attività editoriale intra- presa ad Asti nel 1775 e conclusasi dopo la Prima Guerra Mondiale: I Fratelli Bocca Editori. nel 1936, infatti, la casa editrice era stata nuovamente fondata a Milano, con un programma che prevedeva prevalentemente la pubblicazione di testi filosofici. Ad essa appunto egli si riferisce quando scrive a Linder di stare

finalmente mettendo su quella specie di Insel-Büecherei [bibliote- ca isola] non Insel-Büecherei, con testi, in media, più high-brow, più ausgefallen [insoliti] o almeno meno noti di quelli che erano (in parte) i testi della vera Insel. La faccio con Bocca. Ho avuto parecchio da fare, quest’ultimo tempo, con De Marzio, che credo

38 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicembre 1953. Dalla stessa lettera sono tratte le citazioni che seguono.

198 conosci, e che mi sembra una persona più che decente non soltan- to per le misure dell’editoria italiana39.

Dalle parole appena lette emerge dunque il progetto di Bazlen, che di fronte al rifiuto di Einaudi si muove quasi tempestivamente per tradur- lo nella sua interezza presso un altro editore: nel farlo, inoltre, egli lo approfondisce e lo colloca, più esaurientemente di quanto non avesse fatto con Einaudi, all’interno del panorama editoriale non italiano, bensì europeo. A quanto si legge, la scelta di titoli formulata nel luglio ricalca infatti parzialmente quella della collana «Bücherei»: dunque una «Biblioteca» nella quale non è forse improprio vedere il prototipo del- l’omonima collana adelphiana. Ad ogni modo, ciò a cui in questo fran- gente Bazlen esplicitamente si riferisce come a un modello consiste in una collana, dal nome appunto di «Bücherei», appartenente alla casa editrice tedesca Insel Verlag, nata a Lipsia nel 1898: dal 1912, abban- donando le tradizionali pubblicazioni pregiate, essa aveva pubblicato testi di piccolo formato e prezzo ridotto, caratterizzati dalla proposta di opere brevi di autori tendenzialmente noti e da una certa cura tipo- grafica e redazionale. Da questo modello editoriale, dunque, Bazlen aveva tratto spunto per la propria proposta ad Einaudi, così come la si trova allusivamente descritta nella lettera rivolta ad Erich Linder. Dalla lettura di questa lettera, tuttavia, appare anche il fatto che il modello sia stato declinato in maniera personale, attraverso la proposta di titoli spesso afferenti al pensiero junghiano, da lui stesso descritti come «più insoliti [e] meno noti» rispetto al modello proposto dalla collana tede- sca: sebbene, come si è detto, la casa editrice Einaudi non si trovi nem- meno nominata nel passo che si è citato sopra, che egli a tali testi fac- cia riferimento nel momento in cui presenta il progetto a Linder è però inferibile anche solo a partire da un semplice dato linguistico. Esso, però, permette di rilevare appunto che i libri proposti a Bocca e quel- li proposti a Einaudi, se non erano esattamente gli stessi, derivavano comunque dalla medesima idea editoriale. Nella lettera a Linder, infat-

39 È interessante notare, peraltro, che già in una lettera del 28 ottobre 1953 Bazlen aveva annun- ciato l’avvio della propria collaborazione con la Fratelli Bocca Editori in una lettera all’amica Lucia Rodocanachi, alla quale stava cercando di procurare delle traduzioni presso Einaudi: “fra circa due settimane, dovrò aiutare un mio conoscente a fare un programma per una collezione di saggi per Bocca [...] e poiché gli indicherò parecchi stranieri, ti faccio saltar fuori qualcosa”. Cfr. Genova, Il Novecento: catalogo della mostra: Genova, centro dei Liguori, 20 maggio-10 luglio 1986, a cura di Giuseppe Marcenaro, Genova, Sagep, 1986, p. 426.

199 ti, Bazlen connota i testi proposti come «high-brow», vale a dire “di alta cultura”, “intellettuali”, in maniera speculare a come li aveva defi- niti già dal 1951, quando aveva scritto, a proposito del saggio dello jun- ghiano Hans Schär: «lo consiglierei senza esitazioni per una collana che […] intenda pubblicare tutti i testi psicologici importanti od utili ad un tempo, come lo sconsiglierei, […] senza esitazioni, per una collana che, diciamo, intenda essere un’antologia molto high-brow di questi stessi testi»40. In un passo come quello citato, dunque, non appare improprio vedere un’ulteriore definizione della proposta editoriale che appunto Bazlen aveva probabilmente iniziato a formulare nel 1951, per poi pre- sentarla nel 1953 a Einaudi e, successivamente, a Bocca. Il fatto che si tratti dello stesso progetto, poi, è confermato dalle osservazioni allusi- ve che egli fa di seguito, in merito appunto alla collaborazione che si sta prospettando con Bocca:

A me va molto bene, anche perché si tratterà di aggiornare, e par- ticolarmente cambiare livello, a tutta quella sua parte religioso-ini- ziatico-magico-psicologica, che è uno dei campi che mi interessa di più, e per i quali, salvo il Bocca di una volta, con tutta la sua bas- sezza provinciale [...] autodidatta, non c’erano, e non ci sono, altri editori in Italia41.

Il risentimento nei confronti di Einaudi, dunque, è tanto velato quan- Il risentimento nei confronti to evidente. Esso peraltro sembra derivare non solo e non tanto da di Einaudi. ragioni personali, quanto invece anche da una lucida valutazione rela- tiva al panorama editoriale italiano, che lo porta a constatare il fatto che il proprio progetto «high-brow» non potrebbe adattarsi che a un pic- colo editore marginale. Il passaggio dall’uno all’altro editore, inoltre, non doveva poggiare unicamente su ragioni di opportunità o di affini- tà personali con i diversi comitati editoriali, ma anche sulla coscienza dell’affinità e delle somiglianze, per quanto su scale dimensionali diver- se, fra le due case editrici, ulteriormente provate dal fatto che «la Fratelli Bocca [...] fu uno degli esempi storici a cui si ispirò Giulio

40 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 maggio 1951. 41 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicembre 1953. 200 Einaudi»42. Quest’ultimo, in effetti, così la ricorda, prima che l’attività venisse trasferita a Milano: «a Torino esistevano case editrici di cultu- ra, prima di tutto la F.lli Bocca, con un catalogo stupefacente, disper- so in seguito alla sua rovina. Ricordo la vecchia libreria Bocca [...]. Bocca, Laterza, Treves erano gli esempi storici»43. Bazlen, dunque, pen- sava forse di poter far leva anche su questa, seppur non bene definita, affinità: resta comunque il fatto, a testimonianza della consapevolezza che egli doveva avere tanto delle somiglianze quanto delle differenze fra i vari editori, che il progetto che egli configura per Bocca, per quan- to come si è detto concettualmente del tutto consonante con quello einaudiano, sia anche da lui adattato, ed arricchito, per la nuova casa editrice. È anche in questo specifico senso che si colloca il ruolo di Linder, dal momento che Bazlen, dopo i passi appena riportati, con- clude come segue:

Per cui, in genere [...] manda o mandami tutto quello che ti passa per le mani di quel genere. Ora, per i libretti piccoli, per i quali ti chiederò molti altri diritti col tempo ([l’editore] ne vuole fare di più di quanto io sia in grado di seguire, per cui dovrò un po’ fre- narlo), avrei per il momento bisogno di un Ronald Firbank: ho pensato al Prancing nigger44.

Da questo passo in poi, il contenuto della lettera prescinde completa- mente, per così dire, dal presupposto einaudiano, in quanto Bazlen da un lato enumera una serie di titoli, oltre al romanzo dell’autore inglese Firbank, che vorrebbe vagliare per la collezione di Bocca, dall’altro for- nisce ulteriori indicazioni circa lo sviluppo della sua idea editoriale. Accanto al nome di Firbank, infatti, egli cita in primo luogo il libro del- l’americano Thomas Wolfe «su come ha scritto i suoi romanzi (non ricordo il titolo)»45: si tratta del saggio The story of a novel, scritto nel 1936, interessante in primo luogo in quanto libro che evidentemente concepisce la scrittura come un’esperienza passibile di una trattazione autobiografica. Si può allora forse immaginare, nel momento in cui riferisce che «a suo tempo l’avevo letto per le N.E.I [Nuove Edizioni

42 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 103, nota n. 28. 43 Giulio Einaudi, Frammenti di memoria, Milano, Rizzoli, 1988, p. 15. 44 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicembre 1953. 45 Ibidem. 201 Ivrea]»46, che il libro fosse già stato considerato come un possibile tito- lo per la collana di autobiografie «Mondi e destini», parte del progetto che Bazlen aveva formulato per Olivetti negli anni Quaranta. «Einaudi, probabilmente, non lo fa, e ad Einaudi potrebbe convenire che venga pubblicato da un’altra casa editrice, che porterebbe il nome di Wolfe in un altro giro di lettori. Vedi tu, parlane con Luciano e, se puoi, man- damelo»47. Così Bazlen, appena dopo avere menzionato le Nuove Edizioni Ivrea, prosegue nella sua esposizione, mostrando ancora una volta la singolare tendenza a creare un ideale circuito fra le case editrici con le quali aveva lavorato in passato e le collaborazioni del presente. Ad esempio, rispetto al caso di Wolfe, la pubblicazione di una sua opera da parte di Bocca sembra avere un’utilità nella delineazione del suo pubbli- co anche rispetto alla proposta editoriale di Einaudi: il tutto, nel 1953, riguardo ad un libro che Bazlen aveva letto da almeno quindici anni. Nell’elencare a Linder i titoli che potrebbero nutrire la collana di Bocca, come si è detto, Bazlen non manca di descriverne ulteriormen- te i caratteri: un’attenzione, quest’ultima, che probabilmente aveva caratterizzato anche le collane prospettate per le Nuove Edizioni Ivrea, rispetto alle quali tuttavia la mancanza di documenti non forni- sce spazio all’approfondimento. Ad ogni modo, nelle informazioni via via fornite a Linder, e col suo tramite all’Agenzia Letteraria Internazionale, Bazlen in primo luogo chiarisce il fatto che il suo inte- resse è rivolto a quegli autori i cui «libri sono composti di molte parti indipendenti (raccolte di saggi, di memorie, ecc.)»48: di tali tipi di opere, infatti, gli sarà possibile “prelevare” «soltanto quel “cuore” comprimi- bile in una ottantina o poco più di pagine»49. Le dimensioni dei libri che desidera vedere pubblicati gli sono dunque molto chiare, così come chiara è l’idea relativa ad altri «aspetti materiali»50: di fronte alla richie- sta da parte di Linder, qualche giorno dopo, di delucidazioni circa la presentazione dei testi («rilegata o no, carta più o meno accettabile, stampa indecente come quella solita di Bocca, o stampa decorosa, se non bella, - e infine prezzo presumibile»51), Bazlen risponde con una

46 Ibidem. 47 Ibidem. 48 Ibidem. 49 Ibidem. 50 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 20. 51 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953,

202 certa approssimazione, chiarendo però alcuni punti che permettono di comprendere come gli «aspetti materiali» del libro possano essere con- siderati elementi attraverso i quali l’editore, in questo caso il consulen- te, «caratterizza il volume come proprio e i potenziali lettori riconosco- no l’edizione loro più consona rispetto alle altre»52. Bazlen infatti, rela- tivamente a quelli che ora chiama i «piccoli librini Bocca»53 chiarisce che, per quanto il loro formato sia ancora «allo studio»54, egli non conta I piccoli librini Bocca. di promuoverli «se non diventano libretti molto belli. Del resto, Bocca cambia stile (ed anche sostanza), e sta’ tranquillo che quell’odore di provincia non ci sarà più nemmeno nelle altre collezioni»55. La non meglio definita qualità materiale del libro, dunque, lo libera dal provin- cialismo che più volte egli indica come pecca delle pubblicazioni del piccolo editore milanese. Accanto alle seppur semplici indicazioni fornite circa la materialità del libro, un aspetto sul quale nella proposta ad Einaudi non si era pronun- ciato, ciò che si pone con una certa evidenza ed invita a riflettere ulte- riormente è il cambiamento che sembra investire il progetto nel pas- saggio da un editore all’altro, fermo restando comunque il fatto che esso non verrà realizzato in alcuno dei due casi. Bazlen non offre alcu- na spiegazione in merito, ma appare evidente che l’elenco di dodici autori ed opere che nel luglio del 1953 propone ad Einaudi ben poco abbia a che vedere con quanto solo qualche mese dopo viene pensato per la Fratelli Bocca. Nel primo caso, infatti, la collezione avrebbe dovuto costituire, come si è visto, un sostegno antologico a saggi e opere di psicologia e antropologia: i testi proposti sono dunque legati al mondo orientale, all’antichità, mediterranea e non, alla Storia delle religioni, infine all’alchimia, ambiti ai quali come si è visto Bazlen si era interessato in seguito all’approfondimento, ed alla traduzione, delle opere di Carl Gustav Jung. Il progetto formulato per l’editore Bocca, invece, pur presentando aspetti di affinità, se non identità, con quello einaudiano, se ne distin- gue però per quanto riguarda i titoli proposti: non è infatti difficile

b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 12 dicembre 1953. 52 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 20. 53 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 15 dicembre 1953. 54 Ibidem. 55 Ibidem.

203 notare come l’opera di autori quali Ronald Firbank, Thomas Wolfe o Llwellyn Powys56 sia tutta collocabile nell’ambito del Novecento. Allo stesso modo, la proposta di «raccolte di saggi»57, ma anche «di memo- rie»58 si distingue da quanto era stato pensato per Einaudi, e nel caso delle memorie fa piuttosto pensare al «versante freudiano» dei suoi interessi, consistente anche, come si è già accennato, in titoli che Bazlen aveva presenti da molti anni. Tale atteggiamento da un lato mostra la costanza con la quale egli tornava a riproporre le proprie idee ai diversi editori, dall’altro testimonia ulteriormente una visione non solo della letteratura, ma anche delle proprie scelte professionali come entità in fieri, dunque vitali perché in continuo mutamento. Un aspet- to che permette di richiamarsi ancora una volta alla difficoltà di coglie- re con precisione il significato ed il senso di idee che appaiono spesso aleatorie, ed in alcuni casi paradossali. D’altra parte, però, esso permet- te anche di approfondire ancora una volta perché del «suo rapporto con i libri»59 sia stato scritto che «non fu mai del tutto intellettuale, ma tanto spontaneo, vitale e creativo quanto il rapporto con gli esseri umani»60. Da questo punto di vista, si può allora comprendere perché l’idea editoriale che originariamente avrebbe dovuto presentare le testi- monianze di una letteratura millenaria si traduca ora nelle seguenti indicazioni, presentate a Linder per indirizzare la sua ricerca di altri titoli per l’editore Bocca, oltre a quelli che Bazlen ha già proposto:

Per tua norma, vorrei tenermi molto ai mezzi classici, o a scritto- ri anche recenti ma che, in un certo modo, si siano già “deposita- ti”; ciò non esclude però che ci possa mettere dentro anche cose modernissime (da Jouhandeau a Saint John Perse, da Rodker - col quale ero già in corrispondenza - ad Andrade)61.

Dopo una prima “smentita” della sua avversione nei confronti dei clas-

56 Si veda a questo proposito Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicem- bre 1953. 57 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicembre 1953. 58 Ibidem. 59 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 125. 60 Ibidem. 61 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicembre 1953.

204 sici, che già lascia immaginare la versatilità dei suoi criteri di giudizio, Bazlen segue invece la propria inclinazione a tendere verso il nuovo, verso quel «modernissimo» che nell’insieme dei titoli pensati per l’edi- tore Bocca si configura, alla luce del passo appena citato, come anche la scelta di una serie di poeti del Novecento, da Saint John Perse, Premio Nobel per la letteratura nel 1960, rispetto al quale dunque Bazlen mostra un certo intuito, a due rappresentanti del modernismo, quali l’inglese John Rodker ed il brasiliano, anche se in questo caso l’identificazione è più problematica, Carlos Drummond de Andrade. Le proposte appena citate, dunque, mostrano il fatto che le oscillazio- ni dei gusti e dei progetti di Bazlen non si manifestassero solo nel pas- saggio da un editore all’altro, ma anche all’interno del medesimo pro- getto. Nella lettera a Linder del 15 dicembre 1953, infatti, nel discute- re i primi titoli proposti per Bocca, Bazlen prosegue elencando, «natu- ralmente, anche volumetti illustrati: nel primo elenco che ho fatto, ce ne sono due soli: il discorso sulla moderne kunst [arte moderna] di I volumetti illustrati. Klee, con disegni di Klee (tutto il discorso non avrebbe avuto, sonst [altrimenti], che venti pagine)»62, dunque estendendo ulteriormente le direzioni verso le quali la sua proposta editoriale muoveva. A quest’ul- timo sviluppo della proposta dell’amico, Linder peraltro dà maggior seguito, dando vita a una discussione appunto sulla natura dei «librini Bocca». Il 23 dicembre 1953, infatti, nel lamentare il mancato appun- tamento con il rappresentante dell’editore, De Marzio, egli afferma anche che «se i librini saranno belli, ti manderò un progetto per una serie illustrata»63: da uno stimolo di Bazlen diverso rispetto a quello che sembrava il criterio fondante la collana per Bocca, ne nasce dunque un ulteriore, relativo appunto alla pubblicazione di libri d’arte illustrati, che in seguito sarà Linder a curare trattando direttamente con l’edito- re. Quello che però interessa evidenziare a tal proposito è che nell’ori- ginaria proposta di Bazlen circa la possibilità di inserire nella serie dei «librini Bocca» anche testi illustrati sia da vedersi ancora la suggestio- ne della collana tedesca che, come si è visto, egli aveva parzialmente preso a modello: la ragione della variabilità della proposta per l’edito- re italiano, dunque, è forse spiegabile anche con il fatto che il suo stes-

62 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 15 dicembre 1953. 63 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 23 dicembre 1953.

205 so modello prevedesse libri dei tipi più disparati. È d’altronde lo stes- so Bazlen a chiarire di stare facendo riferimento alla «Bücherei», nel momento in cui il 27 dicembre, rispondendo ad alcune riserve di Linder, egli riferisce che

non vorrei fare una “serie illustrata”, ma, come nella Insel Büecherei, illustrare i libri la cui illustrazione è indicata. Non farei il libro illustrato per il libro illustrato, ma soltanto dove, come documentazione, rinforzo, commento atmosferico, ciò sia neces- sario, o dove le illustrazioni abbiano un valore in sé, e per una feli- ce costellazione, si sposino bene col testo64.

Al modello della «Biblioteca» di Lipsia, dunque, Bazlen doveva riferir- si non solo per i tipi di libri proposti, come si è visto di non univoca definizione, quanto anche per la loro semplice cura materiale e reda- zionale, come il passo appena visto dimostra. Inoltre, non è forse improprio considerare anche il fatto che trattando appunto la questio- ne delle illustrazioni dei libri secondo il modello della casa editrice tedesca, Bazlen fa presente a Linder che «le copertine che [la Fratelli Bocca] sta studiando sono già su una strada europea, siamo d’accordo che per i librini consulterà Mardersteig e qualsiasi altra persona io gli suggerisca»65. Il nome che Bazlen fa in questo frangente non è casua- le, e permette di vedere un ulteriore possibile filo, per quanto sottile, che collega la casa editrice Adelphi, fondata nel 1962, con le idee e, in questo caso, i contatti, che Bazlen andava elaborando sin dalla prima metà degli anni Cinquanta. Giovanni Mardesteig, infatti, è il celebre tipografo di origine tedesca che aveva fondato a Verona, nel 1948, la Stamperia Valdonega, specializzata in edizioni pregiate. Alla sua opera, dunque, evidentemente anche sulla base di una conoscenza personale con il Mardersteig, Bazlen pensava per la Fratelli Bocca, al fine di garantire l’elevata qualità dei suoi «librini». Allo stesso modo, si può allora immaginare che anche la collaborazione che Adelphi intrattenne con il tipografo tedesco, culminata negli anni Ottanta nella coedizio-

64 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 27 dicembre 1953. 65 Ibidem.

206 ne66 di un libro sulle vicende editoriali di autori quali Rilke o Brecht, abbia tratto origine forse proprio dalla conoscenza che legava il tipo- grafo e il consulente triestino. Ad ogni modo, la collaborazione di Bazlen con Bocca nei mesi a caval- lo fra il 1953 e il 1954 continua e si sviluppa, seppure nella costante ambiguità di fondo circa la natura del progetto. Una volta escluso dal- l’insieme dei titoli proposti quello relativo ai libri specificatamente d’ar- te, dei quali si occuperà Linder, a quest’ultimo Bazlen continuerà a rivolgersi come ad un agente letterario che lo aiuti nel reperimento dei titoli e nella trattazione dei diritti dei diversi libri pensati per il piccolo editore milanese. Già nel dicembre del 1953, infatti, Bazlen informa l’amico che la «prima infornata [...] dovrebbe uscire entro l’anno»67, cosa che evidentemente lo spinge ad accelerare i tempi di programma- zione della collana, sia per quanto riguarda i titoli già considerati, sia per la ricerca di nuovi. Indicativa a questo proposito è la lettera del 13 gennaio 1954, nella quale, oltre a riprendere in considerazione il caso di Llewellyn Powys («non ne ho letto che poche pagine. E non ti posso dire se proprio questo suo libro sì. Comunque è un tipo di autore che mi va»68) Bazlen infatti prospetta un nuovo filone all’interno del pro- getto per Bocca, sempre connettendolo alla collana che fino ad ora si è cercato di descrivere, ma in realtà deviando rispetto alle caratteristi- che sia della «Bücherei» della casa editrice Insel, sia della collana pro- posta ad Einaudi l’anno precedente. Subito di seguito alle considera- zioni su Powys, infatti, egli scrive a Linder:

poiché conto di fare lo stesso tipo dei libri piccoli anche in un for- mato più grande, in modo da metterci dentro anche libri full lenght, se hai altra roba del genere in agenzia, manda senz’altro. Tra poco te ne chiederò parecchi io69.

I criteri materiali, che tuttavia comportavano anche delle precise con- seguenze sul piano della scelta dei testi, dal momento che prevedeva-

66 Sigfried Unseld, L’autore e il suo editore: le vicende editoriali di Hesse, Brecht, Rilke e Walser, Milano, Adelphi; Verona, Valdonega, 1988. 67 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 27 dicembre 1953. 68 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1954, b. 4A, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 13 gennaio 1954. 69 Ibidem.

207 no la considerazione di libri unicamente di piccole dimensioni, o comunque frazionabili, sembrano dunque non essere particolarmente vincolanti, dal momento che appunto da quanto si legge Bazlen sem- bra, più che ogni criterio, ossequiare quello del suo personale interes- se alla pubblicazione di un titolo. In questo modo, la «capacità della collezione di estendere gli stessi caratteri formali a libri diversi e [...] di permettere al lettore di sapere in anticipo cosa aspettarsi»70 sembra almeno in questo frangente non essere per lui una priorità. Se da un lato questo aspetto permette forse di comprendere meglio le difficol- tà che Bazlen ebbe sempre a vedere realizzate le proprie idee editoria- li, dall’altro è forse un esempio particolarmente significativo della ver- satilità e della vivacità degli interessi culturali di un intellettuale che non si legò mai ad un unico editore o ad un unico progetto editoriale. Resta comunque da porre in evidenza la sua pertinacia, che in altri passi del presente lavoro è stata definita come una “fedeltà” agli autori che apprezzava e lo portava a proporli a qualunque editore potesse essere ad essi interessato. Il primo titolo, di quelli «full lenght» (dunque libri anche di dimensio- ni consistenti, da pubblicarsi per intero), è infatti Out of Africa di Karen Blixen, citata nella lettera del 13 dicembre con il suo pseudonimo (Isaac Dinesen) e con un titolo, African farm, inesatto, ma facilmente riconducibile al suo più noto romanzo. Un romanzo che appunto Bazlen non dimenticherà, e che ripresenterà tre anni dopo, il 22 novembre 1957, all’editore Einaudi, mostrando le ragioni del suo apprezzamento: «straordinaria come Lebenshaltung [modo di vita] e decenza di Erleben [esperienza], ma temo che passerebbe inosservata come uno dei tanti libri di memorie di vita coloniale»71. Il criterio di scelta, dunque, è quello visto più volte relativo alla forza dell’esperien- za che il libro veicola, e che doveva avere affascinato Bazlen sin dal 1954. Dalla lettura del carteggio con Einaudi, peraltro, emerge anche l’ir- ritazione con la quale egli apprese della pubblicazione del libro da parte di Feltrinelli, un episodio che Bazlen affermerà averlo «seccato»72 e che è forse da vedersi come la ragione da un lato dell’aiuto che egli darà alla

70 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 77. 71 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 22 novembre 1957. 72 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 22 dicembre 1957.

208 traduttrice del libro per Feltrinelli73, dall’altro della cospicua presenza, anni dopo, di titoli della scrittrice danese nel catalogo di Adelphi. Un discorso affine a quello relativo all’opera di Karen Blixen si può peraltro fare per un altro testo, che, come si è avuto modo di vedere nel secondo capitolo, investiva un ruolo evidentemente di grande rilie- vo nell’insieme dei libri ai quali Bazlen era maggiormente affezionato. Si tratta del romanzo autobiografico dell’inglese Edmund Gosse Father and son, che nel suo ricomparire anche nei progetti editoriali portati avanti negli anni Cinquanta, dopo la sua inclusione nella collana «Mondi e destini» pensata per le Nuove Edizioni Ivrea, si pone come l’esempio più rilevante ed indicativo dell’atteggiamento, già più volte descritto, con cui egli cercava di ottenere la pubblicazione di un testo che trovava di valore. Il 2 febbraio 1954, dunque appena dopo avere nettamente ampliato i criteri di scelta per la collezione progettata con Bocca, Bazlen appunto menziona Edmund Gosse, permettendo di aggiungere, con le osservazioni che fa, un altro piccolo tassello alle scarsissime notizie che si hanno circa la sua collaborazione con Bompiani, un editore al quale, come si è visto, era stato brevemente legato nel dopoguerra. In apertura della sua lettera, infatti, Bazlen domanda a Linder se sia «ancora in rapporti freundschaftlich [amiche- voli] con Bompiani»74, aggiungendo che

a suo tempo, per “Corona” e “Grandi ritorni”, avevo messo in moto parecchi libri, di cui, visto che aveva sospeso la loro pubbli- cazione quasi gleichzeitig [contemporaneamente] a quando mi aveva dato l’incarico di mandarle avanti, non s’è fatto nulla. Ha voluto soltanto che gli fossero consegnate due o tre traduzioni, che poi non ha pubblicato. Tra queste, “Father and son”, di Gosse, che (lo conosci?) è un molto bel libro e che, per una mia collezione Bocca, mi andrebbe bene. Poiché sembra che non lo pubblichi potrebbe cedermi la traduzione?75

73 Nella lettera a Foà del 10 febbraio 1958, infatti, si legge: “se non ti dispiace, vorrei confiscare l’Out of Africa della Blixen (cioè la trad. tedesca): mi può servire per aiutare la Lucia Demby (Drudi) che lo traduce per Feltrinelli”. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 10 febbraio 1958. 74 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1954, b. 4A, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 13 gennaio 1954. 75 Ibidem.

209 La collaborazione di Bazlen con l’editore Bompiani, dunque, appare alla luce del passo appena citato come l’attività di scelta e proposta di titoli per due collane, soprattutto «Corona», di una certa rilevanza all’interno del programma della casa editrice. Una decina di anni dopo il lavoro svolto per l’editore milanese, egli tenta poi di “recuperare”, al fine di includerli nel nuovo progetto formulato per Bocca, alcuni dei testi «messi in moto» per l’editore milanese. Un aspetto, quest’ultimo, che permette di ipotizzare che nella disponibilità di Bazlen, ricordata da Bompiani in un passo già citato in questa sede, a «dirigere una col- lana»76 si possa vedere un progetto simile a quello che egli, negli anni Cinquanta, porta avanti per Bocca. Appunto ai fini della realizzazione di tale progetto, dunque, Linder si mette in contatto con Bompiani per poi, dopo qualche mese, riferirne la risposta all’amico. Il 2 dicembre del 1954, infatti, Bazlen viene informato del fatto che «Bompiani ha rispo- sto che è disposto a cedere il Gosse»77, aprendo così la possibilità del- l’acquisto dei diritti e della pubblicazione dell’opera da parte di Bocca. Nel caso dello scrittore inglese, dunque, la mediazione attuata da Linder ottiene risultati positivi, ma da quanto si legge nel carteggio su molti altri versanti i contatti fra l’Agenzia Letteraria Internazionale e l’editore Bocca si rendono ben presto problematici: il che probabil- mente costituisce un ulteriore motivo della mancata realizzazione del progetto di Bazlen. Sin dal marzo del 1954, infatti, Linder aveva espresso il proprio disappunto per l’incostanza delle risposte dell’edi- tore alle sue lettere, specificando che «anche nell’ambito della tua col- lana, mi ha rimandati firmati i contratti per Prancing Nigger, ma non ha pagato, e temo che sollecitarlo servirà a poco»78. Dalla lettura delle lettere che Linder si scambiò in quei mesi con il rappresentante della casa editrice, De Marzio, emerge in effetti la scarsa puntualità della Fratelli Bocca nel rispettare le scadenze contrattuali, prevalentemente relative ai pagamenti dei diritti delle opere, che ne avrebbero permes- so la pubblicazione: una situazione che si sarebbe protratta per un anno. Di fronte alle ripetute lamentele di Linder, infatti, l’8 gennaio 1955 Bazlen scrive all’amico promettendogli «dopo questa mia, una

76 Valentino Bompiani, Vita privata cit., pp. 238. 77 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1954, b. 4A, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 2 dicembre 1954. 78 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1954, b. 4A, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 22 marzo 1954.

210 lettera di De Marzio [...] col quale ho parlato ieri»79, ma in realtà già anticipando una spiegazione circa i comportamenti del rappresentante della Fratelli Bocca. Quest’ultimo, infatti, «si rende conto ecc. Però ti avviso fin d’ora che fino al momento dell’unificazione degli uffici (tra- sporta Milano a Roma) la confusione continuerà»80. La casa editrice, dunque, sta trasferendo la propria sede da Milano a Roma: un cambia- mento che evidentemente comporta il rallentamento della sua attività, come lo stesso De Marzio fa presente, nel marzo del 1955, a Linder, nel momento in cui scrive:

Non so se Bazlen ha avuto modo di raccontarLe che cosa è acca- duto [...]; penso che egli abbia avuto modo di accennarLe alle dif- ficoltà che sono insospettatamente sorte nell’amministrazione della nostra Casa Editrice. Esisteva a Milano una situazione della quale non ero perfettamente a conoscenza. Ho dovuto rimettere in ordine tutta l’amministrazione, affrettare il trasferimento a Roma, ridurre drasticamente le spese e rimediare all’enorme con- fusione che la divisione degli uffici fra Roma e Milano aveva pro- vocato. Ora finalmente, iniziato il trasferimento del magazzino da Milano a Roma, [...], ho un po’ di tempo per riprendere i contatti che avevo interrotti, quello con lei fra i primi81.

Il tentativo di ripresa dei rapporti fra la casa editrice e l’Agenzia Letteraria Internazionale risulta tuttavia insufficiente e tardivo, dal momento che da ormai un mese Linder si era rivolto a Bazlen, eviden- temente considerandolo una figura interna alla casa editrice, per fargli presente che «quanto a De Marzio, scusami, ma le scuse che ti offre per giustificare i suoi silenzi non significano niente»82. De Marzio dun- que doveva aver già tentato, probabilmente tramite la lettera di Bazlen che si è citata poco sopra, di recuperare i rapporti con Linder, il quale però appare irremovibile, e comunica all’amico, senza mezzi termini, la propria decisione:

79 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1955, b. 7, fasc. 42 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 8 gennaio 1955. 80 Ibidem. 81 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1955, b. 15, fasc. 8/16 (corrispondenza Fratelli Bocca Editori), De Marzio a Linder, Milano, 24 marzo 1955. 82 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1955, b. 7, fasc. 42 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 17 febbraio 1955.

211 capirei non potesse trattare con la dovuta fretta delle questioni amministrative; ma noi chiediamo soltanto risposte editoriali, che può mandare benissimo da Roma. [...]. Pensa che non m’ha anco- ra scritto per i libretti - e, se lo facesse ora, non mi fiderei più. [...]. Tu sei, personalmente, fortunato, perché ti segue e ti paga; a noi non conviene, in tutta onestà, fare molta fatica e prenderci molte inevitabili arrabbiature [...]. Da parte nostra, quindi, per quanto mi dispiaccia, [De Marzio] non avrà mai un libro83.

Se dunque a partire dal 1954 i rapporti fra l’Agenzia Letteraria Dal 1954 i rapporti tra l’ALI Internazionale e la Fratelli Bocca Editori iniziarono lentamente a gua- e la F.lli Bocca iniziano a starsi, si deve comunque tenere presente che questo non impedì un guastarsi. ulteriore sviluppo del progetto di Bazlen, il quale dunque, se da un lato come si è visto tentava di mediare fra le due parti, dall’altro se ne ren- deva del tutto indipendente, portando appunto avanti la propria per- sonale ricerca di libri per l’editore Bocca, o forse unicamente per una propria idea editoriale in realtà slegata dal catalogo di uno specifico editore. A proposito della collaborazione con il piccolo editore mila- nese, comunque, significativo è il fatto che tramite una lettera rivolta a Luciano Foà, datata 25 maggio 1954, Bazlen riapra la questione della cessione ad esso di alcuni titoli da parte di Einaudi, cosa che permette di ipotizzare la fisionomia del progetto prima del suo abbandono defi- nitivo (almeno per alcuni anni). In prima istanza, infatti, nella sua let- tera il consulente triestino domanda all’amico «a che punto siete (voi, Einaudi) con Norman Douglas»84, autore inglese rispetto al quale evi- dentemente gli era stato richiesto un parere. Tale parere è fornito subi- to di seguito: «i suoi quattro libri che mi avete mandato sono pratica- mente inservibili, e tirate le somme anche molto noiosi». Oltre a que- sto breve giudizio, tuttavia, Bazlen fa presente a Foà che «invece avevo messo «Old Calabria» già molto tempo fa in lista per i miei libretti Bocca, i quali libretti, in certi casi, saranno anche libri normali». La pre- senza nella collana dei «libretti» di Bocca di Old Calabria, dunque un resoconto di viaggio ad opera di un autore del Novecento quale Douglas, sembrerebbe dimostrare il fatto che Bazlen stia infine privi-

83 Ibidem. 84 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 25 maggio 1954. Dalla stessa lettera sono tratte le citazioni che seguono.

212 legiando quel progetto di pubblicazioni legate a libri di autori contem- poranei, spesso vicini al genere dell’autobiografia e in qualche modo votati all’approfondimento psicologico che, come si è visto, egli aveva sovrapposto all’originario progetto stilato per Einaudi, proponendo alla Fratelli Bocca Editori opere come quelle di Wolfe, della Blixen, di Edmund Gosse. E che a tale versante del proprio progetto egli sembri alludere è testimoniato dal seguito della lettera indirizzata a Foà, nella quale Bazlen domanda «cosa avete deciso per il Kubin, che, se non lo fate voi, lo farei fare qui»: il riferimento è a L’altra parte, un romanzo del 1908 ad opera del disegnatore boemo Alfred Kubin. Solo la data L’altra parte di Alfred Kubin. della prima edizione del libro, insieme alla sua provenienza mitteleuro- pea, dovevano costituire una non indifferente ragione di interesse, tanto più se si considera che il fatto che Kubin non fosse uno scritto- re di professione doveva evidentemente favorire, agli occhi di Bazlen, la spontaneità e la naturalezza della scrittura. Anche solo queste prime intuitive osservazioni possono aiutare a comprendere, dunque, l’attac- camento che Bazlen mostra per questo libro, iniziandolo ad introdur- re all’editore Einaudi a partire dal 1953 e riproponendolo per diversi anni alla stessa casa editrice. Come si è visto ormai in diversi casi, il libro consigliato caldamente all’editore torinese troverà spazio solo anni dopo, nel 1965, quando costituirà la prima pubblicazione della Biblioteca Adelphi85: chiaro sintomo della forte impronta che il gusto di Bazlen avrebbe dato alla collana di punta della neonata casa editri- ce. Il risvolto di copertina dell’edizione adelphiana, inoltre, permette di comprendere, oltre alle modalità tramite le quali la casa editrice mila- nese intendeva evidentemente presentare il libro, quelle caratteristiche intrinseche che evidentemente lo avvicinano ai testi autobiografici e legati all’immersione nel sé, insomma al “versante freudiano”, degli interessi di Bazlen, che egli andava elaborando sin dagli anni Cinquanta e del quale quindi la Biblioteca Adelphi accoglie inevitabilmente l’im- pronta. L’altra parte, infatti, costituisce l’unico romanzo di un illustra- tore vittima di «lunghi periodi di crisi psichica», superati appunto solo grazie alla composizione di un romanzo (ed alla sua illustrazione): il gesto della scrittura costituisce dunque «una discesa agli inferi» come quella dell’Orfeo del mito e, con esso, dell’Orfeo di Blanchot, rivelan-

85 Alfred Kubin, L’altra parte, traduzione di Lia Secchi, Milano, Adelphi, 1965. Le citazioni che seguono sono tratte dal risvolto di copertina di questa edizione.

213 dosi dunque come «una liberazione» per chi scrive; ma gli echi del pro- prio panorama culturale che Bazlen doveva percepire nel libro dell’illu- stratore boemo non si limitavano forse solo a questo, se si considera che lo «scenario del suo [di Kubin] unico romanzo», una città immaginaria dal nome di Perla, «è impregnato dei chiaroscuri di Praga, [...] città del Golem e di alchimisti», nonché città di Kafka, «il quale conobbe Kubin, l’ammirò e ne subì l’influenza, tanto che nelle sue opere si ritrovano, soprattutto nel Castello, alcuni dei motivi fondamentali di L’altra parte»86. Tanto l’opera di Norman Douglas quanto quella di Alfred Kubin, dun- que, sebbene provenienti da «mondi» molto diversi fra loro, sembrano testimoniare il fatto che Bazlen lasci gradualmente decadere l’iniziale progetto di pubblicazione di «tutti i testi mitologici, religiosi, iniziatici, folkloristici ecc. che vengono comunemente citati nei libri di psicolo- gia, antropologia, storia delle religioni»87: è però ad essi che, rendendo ancora più ostica la descrizione della sua idea di collana per Bocca, come per qualsiasi altro editore, Bazlen fa riferimento subito di segui- to alla richiesta di informazioni circa Douglas e Kubin. Chiedendo di «quella lista di libri di documenti religiosi, cosmogonici, eccetera, che ti ho mandato molto tempo fa»88, infatti, egli parzialmente smentisce quanto si è appena ipotizzato, ovvero l’abbandono del progetto di pubblicazione di opere afferenti al pensiero junghiano: un progetto al quale appunto in chiusura della lettera del 25 maggio 1954 egli sembra riallacciarsi, per tradurlo, come inizialmente aveva prospettato, presso il piccolo editore. Dalla lettura del carteggio con Linder, peraltro, emergono ulteriori titoli chiaramente riferiti a tali ambiti culturali, ovvero, in primo luogo, il saggio Philosophies of India di Heinrich Robert Philosophies of India di Zimmer, che fa pensare che la scelta non fosse solo riferita a testi anto- Heinrich Robert Zimmer. logici, ma anche a saggi veri e propri (di quello di Zimmer, in partico- lare egli scrive che è «bellissimo, e che - se sarà ancora libero - farò di

86 Bazlen, d’altronde, evidentemente concepiva l’influenza fra Kubin e Kafka come reciproca. A dimostrarlo è una testimonianza di Giorgio Zampa, il quale, descrivendo il proprio incontro con l’intellettuale triestino, così ricorda: “avevo scritto da qualche parte, tempo prima, una nota su un romanzo di Alfred Kubin, L’altra parte, affermando [...] che non trovavo nella narrazione nulla di kafkiano. Bazlen aveva sostenuto il contrario e ora voleva, disse, conoscere il mio punto di vista”. Cfr. Giorgio Zampa, Lo sconosciuto disse: sono Bobi, in “Il Giornale”, 13 settembre 1985, p. 28. 87 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953. 88 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 25 maggio 1954.

214 tutto per far c o l t e m p o - ora peserebbe troppo»89) . Ad esso si aggiunge Tibetan book of the great liberation, un testo non a caso oggetto di un commento ad opera dello stesso Jung90, e che Bazlen connette esplicitamente con l’elenco di proposte einaudiane, indicandolo come un libro che «dopo il Milarepa, farò di tutto per far fare»91 . Di fatto, dunque, la nuova formulazione delle proprie idee sembra prevedere l’accostamento dei due, per quanto molto ampi, ambiti tra i quali Bazlen aveva oscillato nei diversi momenti del proprio progetto, costi- tuendo l’apertura di una nuova, e diversa dalle precedenti, prospettiva editoriale: accanto alla scelta di «libri normali»92 insieme ai «libretti»93, dunque con ossequio agli aspetti materiali ed al formato del libro, Bazlen infatti sembra infine optare per anche per un accostamento dei due gruppi che egli aveva, non si sa quanto consapevolmente, costitui- to sulla base di criteri di ordine contenutistico. Può risultare disorientante, infine, il fatto che il chiaro tentativo che Bazlen nuovamente attua per “trapiantare” almeno una parte delle opere “junghiane” presso Bocca si trovi all’interno di una lettera per l’editore Einaudi, nella quale egli, consigliando a Foà la visione del catalogo di un editore tedesco, specifica quanto segue: «io mi sono poi guardato tre volumi di questa collezione per Bocca, che per molte ragioni non possono interessare la Bocca, ma invece, dato il genere di 94 lettori e particolarmente di acquirenti vostro, parecchio voi» . La con- Il diverso pubblico di sapevolezza che si trova qui espressa circa il fatto che il pubblico di lettori Einaudi e Bocca. Bocca potesse essere anche molto diverso rispetto a quello di Einaudi non sembra dunque costituire un ostacolo rispetto al tentativo di vede- re il progetto pensato per un editore realizzato da un altro: un tentati- vo la cui attuazione si pone evidentemente con sempre maggiore urgenza, dal momento che già in agosto Bazlen torna a sollecitare

89 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1955, b. 7, fasc. 42 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 8 gennaio 1955. 90 Si veda a questo proposito l’edizione italiana del libro, che non fu pubblicato dalla Fratelli Bocca Editori. Il libro tibetano della Grande Liberazione: il metodo per realizzare il Nirvana attraverso la conoscenza della Mente, a cura di W.Y. Evans-Wentz, con un commento psicologico di C.G. Jung, Roma, Newton Compton, 1975. 91 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1955, b. 7, fasc. 42 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 8 gennaio 1955. 92 Ibidem. 93 Ibidem. 94 Ibidem.

215 l’amico con una certa insistenza riguardo ai «testi religiosi ecc»95, sotto- lineando la propria necessità di «avere una risposta al più presto»: una sollecitudine che presumibilmente si spiega con l’inizio dello sposta- mento da Milano a Roma della Fratelli Bocca Editori e che porta Bazlen, in quello che sembra un insieme di dispetto e necessità di incal- zare una risposta da parte di Einaudi, a formulare la propria richiesta a Foà come segue: «devo prendere parecchie decisioni intorno a Bocca ed ho bisogno di sapere se, o quali, rimangono liberi (ti ripeto ancora una volta la preghiera di mandarmi, se non li fai, i testi che vi siete pro- curati nel frattempo)». Alla «preghiera» dell’amico, Foà risponde un paio di mesi dopo, forse dopo avere nuovamente consultato il comita- to editoriale einaudiano:

testi religiosi ecc. : ti devo dare una risposta su questo punto. Ho La scelta einaudiana del guardato la lista delle tue proposte, e ritengo che, per non rovinar- Popol Vuh. ti la possibilità di fare la collana con Bocca, possiamo lasciarti via libera su tutto, a parte il Popol Vuh, per il quale una decisione è stata presa qualche mese fa, quando ancora eravamo dell’idea di inserire alcune delle opere da te proposte nelle diverse nostre col- lane. Spero che la mancanza del Popol Vuh non danneggi troppo la tua progettata collana, ma non vedo proprio come, in questo momento, si possa ritornare sulla decisione presa dal Consiglio editoriale. Aggiungo che nella tua lista era comparso anche Il sogno della camera rossa che facciamo e che come ti devo aver già scritto a quel tempo, era già stato deciso prima della tua segnala- zione insieme ad altri romanzi classici cinesi. Per tutto il resto puoi quindi procedere96.

Attraverso la lettera di Foà, quindi, la casa editrice Einaudi fornisce a Bazlen il consenso alla realizzazione presso un altro editore delle dodi- ci proposte, connotate esplicitamente come una «progettata collana», che egli aveva avanzato nel luglio del 1953: a parte i due titoli che, come si è visto sopra, vennero effettivamente pubblicati presso Einaudi, e quelli che già appartengono alla casa editrice torinese, sem- bra dunque di poter leggere nelle parole di Foà la possibilità di una

95 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 8 agosto 1954. Dalla stessa lettera sono tratte le citazioni che seguono. 96 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 8 ottobre 1954.

216 positiva realizzazione del progetto di Bazlen. Come si è visto, tuttavia, per quanto si è potuto verificare essa nei fatti non verrà concretizzata, vista la rottura dei rapporti fra l’Agenzia Letteraria Internazionale e la Fratelli Bocca Editore sancita dalla lettera di Linder del febbraio 1955: La rottura fra Linder e a questo proposito, comunque, resta da porre in rilievo l’allusione, Fratelli Bocca. nella stessa lettera, da parte di Linder ai «due libretti già pubblicati»97, che non risultano nei cataloghi della Bocca ma che, vista la descrizio- ne che l’Agente letterario ne fornisce, sembrano corrispondere alle pubblicazioni che Bazlen aveva pensato per l’editore: «Secondo me è stato un errore farne soltanto due: avrebbe dovuto uscire con quattro, tutti insieme, e tutti di diversi colori. Questi due si assomigliano trop- po, e, con la distribuzione già piuttosto difettosa della Bocca, in libre- ria non si vedono affatto»98.

4.1.1 Il fallimento dei rapporti con la Fratelli Bocca Editori.

La lettera di Erich Linder che si è citata in chiusura del predente para- grafo sembra dunque testimoniare il completo fallimento di un’idea editoriale sviluppata nel corso di due anni, fra il 1953 e il 1955, e pro- posta parallelamente a due diversi editori: un fallimento che, come si è visto, trova ragione in una serie non indifferente di cause esterne alla volontà di Bazlen, ma che appunto si può anche spiegare con elemen- ti solo a lui riconducibili, e descrivibili come una personale riluttanza ad assumere e portare avanti un punto di vista univoco su un qualsia- si tema. Per queste stesse ragioni, il progetto che come si è visto era già stato apertamente accantonato da Einaudi e lentamente abbandonato da Bocca non solo viene nuovamente presentato sin dal 1956, ma ancora una volta è sottoposto a riformulazioni, modifiche, sviluppi ulteriori rispetto a quanto era già stato un discorso in fieri nei due anni precedenti. Non è a questo punto difficile comprendere come a pro- posito della figura di Bazlen nelle sue collaborazioni con vari editori, di cui Einaudi è un esempio particolarmente significativo, si possa

97 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1955, b. 7, fasc. 42 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 17 febbraio 1955. 98 Ibidem.

217 La “supremazia” del lettore. affermare che sostituì «alla posizione del critico quella del lettore»99, anteponendo, cioè, il proprio gusto, le proprie curiosità, il sovrapporsi spesso disordinato delle proprie letture alla costituzione di una collana dalla fisionomia ben definita. Se si considera la figura di Bazlen, dun- que, si può affermare che nel suo caso l’identità dell’editore, consisten- te più di tutto nel «ruolo, assegnato a un individuo o a un gruppo di persone diverse: direttori di collana, redattori, consulenti»100, risulti in molti casi compromessa. Essa, infatti, prevedrebbe in primo luogo la «configurazione di un progetto editoriale»101, dunque il «dar corpo materiale al passaggio dal “testo di uno scrittore” al “libro di un letto- re”, e più precisamente di un lettore potenziale che deve inverarsi in un lettore reale»102. Non è difficile, alla luce di quanto si è osservato fin da ora e si osserverà in seguito, notare come appunto la figura del “letto- re potenziale” al quale Bazlen pensava nella stesura dei propri proget- I lettori di Adelphi. ti non si concretizzi mai in quella di «un lettore reale», se si eccettua forse il caso di quei “lettori di “Adelphi”»103 ai quali egli potrà rivolger- si negli anni Sessanta. Prima del progetto adelphiano, comunque per lui solo in parte realizzato, in quanto immediatamente precedente la sua morte, nel suo operato è tuttavia possibile riscontrare innumerevo- li esempi di quanto si è appena osservato. In primo luogo, infatti, alla rottura dei rapporti fra Erich Linder e la Fratelli Bocca Editori seguirà l’allontanamento di Bazlen da questi ultimi, probabilmente in seguito alla consapevolezza dell’impossibilità, ancora una volta, di vedere rea- lizzati i propri progetti. L’insoddisfazione rispetto alla collaborazione con Bocca emerge infat- ti chiaramente da una lettera che Bazlen scrive a Linder il 27 agosto 1956, nella quale egli denuncia il fatto che «De Marzio ha poca voglia di fare l’editore, io ancora meno di fare il consulente per un editore che Prancing nigger di Ronald 104 Firbank. non ha voglia» : un’insoddisfazione che lo porta a non farsi scrupoli nel considerare «libero», ovvero cedibile, un libro come Prancing nigger di Ronald Firbank, come si è visto uno dei primi proposti per la colle-

99 Rolando Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro cit., p. 89. 100 Alberto Cadioli, L’editore e i suoi lettori, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2000, p. 30. 101 Ibidem. 102 Ibidem. 103 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 330. 104 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 46 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 27 agosto 1956.

218 zione di Bocca. Rispetto ad esso ora Bazlen scrive a Linder: «ricordati soltanto, se tu dovessi vendere i diritti ad altri, che da Bocca trovano, pronta, una traduzione ben fatta»105. Questo primo gesto di allontana- mento dall’editore, d’altronde, era stato anticipato da alcune conside- razioni fatte nel maggio dello stesso anno in risposta a una lettera di Linder. Quest’ultimo, infatti, si era espresso con un certo dispetto per sollecitare una risposta circa appunto il libro di Firbank, al quale dun- que l’editore doveva ancora essere legato da un contratto: «proprio ieri ho visto che Bocca ha ripreso a pubblicare (cose assolutamente mostruose in verità), e prima di annullare il contratto, vorrei sentire qualcosa da te»106. Al risentimento di Linder, che fra l’altro con scarsa diplomazia denuncia «lo stato comatoso di Bocca»107, Bazlen risponde appunto pochi giorni dopo, informando l’amico che «si dovrebbe fare un programma, ma non credo lo si potrà fare [...] prima del 10 - 15 di questo mese. (del resto [...] soltanto verso quella data vaglierei se mi convenga o non mi convenga continuare)»108. In sostanza Bazlen anti- cipa l’abbandono progressivo del proprio ruolo di consulente editoria- le per la piccola casa editrice e a partire da questo momento intrapren- de il tentativo di ridistribuire i titoli presso altri editori. A testimoniar- lo, per fare un primo esempio, è una lettera che l’anno successivo, il 1957, Bazlen indirizza a Vanni Scheiwiller, evidentemente interessato a una delle opere che erano state di Bocca: che il testo in questione si trovi nominato qui per la prima volta, peraltro, costituisce un indice del fatto che il carteggio con Linder, per quanto molto utile per cercare di ricostruire il lavoro di consulenza che Bazlen svolse per Bocca, non può comunque fornire notizie del tutto complete. Ad ogni modo, dalla sua risposta si può leggere solo il nome dell’autore dell’opera, ovvero l’orientalista Ernest Fenollosa: ma considerando che di essa Bazlen tornerà a parlare ad Einaudi, collegando il titolo appunto ai nomi di Scheiwiller e Bocca, non è improbabile l’ipotesi che si tratti di L’ideogramma cinese come mezzo di poesia: una ars poetica, che appunto

105 Ibidem. 106 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 46 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 26 aprile 1956. 107 Ibidem. 108 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 46 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 1 maggio 1956.

219 Scheiwiller pubblicherà nel 1960109. A proposito di essa, appunto nel 1957 Bazlen risponde all’editore informandolo che

malgrado tutte le ricerche, testo e traduzione del Fenollosa sono irreperibili, come del resto è andato smarrito da Bocca quasi tutto quello che avevo consegnato io stesso. Mi dispiace molto, ma veramente contro quella gente non so più che fare110.

La fine dei rapporti con La stessa acredine che, dopo la fine della loro collaborazione, aveva Bocca e Astrolabio. caratterizzato i pareri di Bazlen a proposito di Astrolabio e Mario Meschini Ubaldini è dunque percepibile anche nelle parole che egli dedica a Bocca. E che ci possa essere una somiglianza nel tipo di rap- porto che egli intrattenne con i due editori, quantomeno rispetto al seguito che le proposte di Bazlen ebbero presso di loro, è d’altronde confermato da quanto, il 12 febbraio 1958, egli risponde a Linder, evi- dentemente in seguito a una sua specifica richiesta in merito: «tenterò (tenterò!) di mandarti elenchi traduzioni non pubblicate Astrolabio e Bocca. Ma pescare quella gente (e dopo pescata, farla funzionare) ist muehe, muehe, muehe [è difficile, difficile, difficile]»111. Nella stessa let- tera, peraltro, egli torna a parlare anche del Prancing nigger di Ronald Firbank, che evidentemente fra il 1956 e il 1958 non era ancora riusci- to a “sistemare” presso un qualche editore: «di Bocca, oltre al Paracelso di cui ti avevo parlato, e di cui ti manderò un esemplare, bisognerebbe sistemare ancora la traduzione (di Sereni) del Prancing Nigger di Firbank. Hai qualcuno a cui lo potresti proporre?»112. Quella che nel 1956 Bazlen aveva vagamente indicato come «una traduzione ben fatta»113, si configura ora come opera di Vittorio Sereni: cosa che

109 Ernest Fenollosa, L’ideogramma cinese come mezzo di poesia: una ars poetica, introduzione e note di Ezra Pound, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1960. A questo libro Bazlen presumibilmente si riferisce in una lettera del 17 gennaio 1959, rivolta a Luciano Foà, nella quale riferisce che “un libretto che abbiamo perduto (ci tenevo moltissimo) era il Fenollosa, che avevo fatto tradurre per la collenzioncina Bocca, e che poi hanno dato al Vanni Scheiwiller (che lo deve aver pubblicato in questi ultimi mesi)”. Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 17 dicembre 1959. 110 Università degli Studi di Milano - Centro Apice, Archivio Scheiwiller (in corso di riordino), Carteggio Vanni, fasc. Bazlen Roberto, lettera di Bazlen a Vanni Scheiwiller, 22.11.1957. 111 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1958, b. 10, fasc. 54 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 12 febbraio 1958. 112 Ibidem. 113 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 46 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 27 agosto 1956.

220 forse ne agevolò la vendita, che si tradurrà nella pubblicazione del libro, pochi anni dopo, nella collana «I narratori di Feltrinelli»114, come uno dei «ben cinque romanzi di Firbank [che] erano stati acquistati da Feltrinelli, tramite Linder, fin dal 1959»115. Come era avvenuto in occasione dell’abbandono del progetto di colla- na presso Einaudi nel 1953, dunque, Bazlen molto presto si mobilita per fare sì che le proposte che egli ha avanzato per il programma di un editore non cadano completamente nel vuoto, ma possano trovare comunque posto nel panorama editoriale italiano: un aspetto del suo agire nel mondo editoriale che, come si è visto, corre parallelamente alla costante riformulazione e rivisitazione dei suoi stessi progetti. Si può allora, forse, vedere in questo un’ulteriore dimostrazione di quel- la ricerca del nuovo e del mutamento che era particolarmente caratte- ristica del suo metodo di lavoro. «Per tratteggiare i contorni di un’esi- stenza nutrita di libri, il ritratto di un uomo che credeva nella letteratu- ra sbocciata dalla vita è [...] necessario intrecciare strettamente rico- struzione biografica e indagine culturale»116: tale osservazione di Giulia de Savorgnani induce allora a considerare da un particolare punto di vista quanto emerge dal carteggio con l’amico Erich Linder, dal quale come si è visto spesso risultano con chiarezza gli umori e i progetti anche personali di Bazlen. Sin dalla fine del 1956, infatti, da una lette- ra scritta all’amico emerge il suo bisogno di «ricominciare a farmi una cultura ab ovo»117. Per questa ragione, egli chiede a Linder di vendere per lui alcuni suoi libri di cui si dice «carico», e che considera ormai «da buttarsi via», per trarne denaro da spendersi in libri nuovi, in questo caso presentati attraverso l’indicazione di un generico campo temati- co: «Aegypten! - per cui, se hai all’agenzia libri sull’Egitto, per favore, mandare».

Ho per es. la prima o la seconda edizione (erano leggermente

114 Ronald Firbank, Il cardinal Pirelli; La principessa artificiale e fuoco nero, cura e prefazione di , traduzione di Diana Bonacossa e Vittorio Sereni, Milano, Feltrinelli, 1964. 115 Roberta Cesana, “Libri necessari”: le edizioni letterarie Feltrinelli (1955-1965), Milano, Edizioni Unicopli, 2010, p. 502. 116 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 11. 117 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 46 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 13 dicembre 1956. Dalla stessa lettera sono tratte le citazioni che seguono.

221 diverse) dell’epistolario di Rilke in sei volumi, [...]. Ora, l’epistola- rio di Rilke spero di dimenticarmelo. Se lo dovessi mai riprende- re, prenderei in mano, direi, unicamente i due volumi dell’episto- lario con la Thurn und Taxis, nel qual caso, of course, rileggerei le lettere di lei, e non quelle di lui.

È questa la considerazione che Bazlen riserva all’insieme delle lettere di Rilke, che in buona parte, come si è visto nel secondo capitolo del presente lavoro, egli aveva previsto di pubblicare nella collana «Mondi e destini» delle Nuove Edizioni Ivrea. Al di là del sarcasmo che carat- terizzava spesso lo stile delle sue lettere - e che altrove gli fa scrivere, a proposito della medesima questione, che «il tutto va venduto a chilo (il che è un ottimo modo di fare la critica letteraria)»118 - si può dunque ipotizzare, anche sulla base di semplici osservazioni quotidiane come quella che si appena citata, come egli percepisse forse una necessità di rinnovamento delle proprie personali letture. Il «metodo» per fare que- sto, che alla luce di quanto si è visto fino ad ora si può immaginare egli applicherà anche al proprio successivo lavoro editoriale, è d’altronde da lui chiaramente esposto: «investo cultura passata in cultura futura, e arrivo ai libri che attualmente mi sono essenziali».

4.2 Dalle collezioni «grande» e «piccola» alla «Collezione dell’io».

Negli anni dal 1954 al 1959, come si è detto in apertura del presente capitolo, il ruolo di consulente editoriale rivestito da Bazlen per la casa editrice Einaudi non fu abbandonato, ma al contrario semmai raffor- zato dalla presenza, già dal 1951, dell’amico Luciano Foà come segre- tario generale della casa editrice. Non stupisce dunque che l’idea di Bazlen rispetto alla creazione di una collana organizzata secondo il suo gusto trovi nuovamente espressione, dopo i contatti intessuti con altri editori, proprio presso Einaudi, che per primo aveva declinato la pro- posta. La probabile dispersione di alcune lettere del fascicolo dell’ar- chivio dell’editore dedicato alla corrispondenza con il consulente trie- stino non permette, purtroppo, di ricostruire con precisione le circo-

118 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1958, b. 7b, fasc. 10 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 15 marzo 1957. Dalla stessa lettera è tratta la citazione che segue.

222 stanze e le modalità del varo del nuovo progetto editoriale: ma la natu- ralezza con cui Bazlen ad esso si riferisce nella prima lettera che ne porta traccia rende molto probabile il fatto che prima di essa il proget- to fosse evidentemente già stato discusso, anche solo in conversazioni personali fra Bazlen e Foà. Difatti, il 19 dicembre 1959 egli invia all’editore un elenco di libri, che si riporta di seguito, sotto la sola inte- stazione di «Collezione piccola»119, anticipato da nient’altro che due proposte di singoli titoli in quegli stessi giorni, e presentato unicamente come l’insieme di «quelli che potrebbero essere i primi dodici volumet- ti». Rispetto ad essi Bazlen fa solo alcune puntualizzazioni, ad esempio osservando che «se si potesse avere la traduzione del Tiro all’arco di Herriegel, la si pubblica subito, e si rimanda uno di questi dodici»: un’ipotesi valida tanto più se si considera che «visto che anche voi avre- te delle preferenze, [...] o che so io, Vi indico un secondo gruppo, egual- mente di dodici, dai quali si potrà attingere, e che, comunque, andrebbe- ro presi in considerazione per la pubblicazione in un secondo tempo». Di seguito, dunque, si riportano testualmente entrambi gli elenchi:

1. Il libro del Tè 2. Cabeza de Vaca 3. Hogg: Peccatore 4. Vita della contadina, raccontata a Tolstoi 5. Musil: Ueber die Dummheit [Sulla stupidità] (una lunga conferenza - molto bella) 6. Fukazawa: à propos des chansons 7. Tutuola: Bevitore Vino di Palma 8. Sauvageot: Commentaire (pensarci. Chiedere a Daniele [Ponchiroli] se l’ha finito). 9. Daumal : Monte Analogue 10. Ortega: un saggio (o diversi. Aspetto di vedere il volume di Sergio Solmi) 11. Una novella lunga (o un gruppo organico di novelle) di Dery. 12. Nossak: Der Untergang (la distruzione di Amburgo, di cui vi ho parlato)

119 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. Dalla stessa lettera sono tratte le citazioni che seguono.

223 Gruppo di riserva (Artaud, naturalmente, lo pubblicherei volentieri tra i primi, ma ci saranno pasticci di diritti di autore, ricerca testi, ecc.)

1. Artaud: Au pays des Tarahumeras (con aggiunti altri scritti del Messico) 2. Mandelstam: I due “racconti” (di cui non conosco che il Francobollo egiziano) 3. Wedekind: Mine Haha 4. Thurn und Taxis: Ricordi di Rilke 5. Dahlberg: The Flea of Sodom 6. Kierkegaard (documenti di K. - o forse, con meno entusiasmo lettere a Regina. Aspetto di ricevere il vol. inglese di documenti [...]) 7. Le satire del giovane polacco di cui Vi ho scritto ugualmente oggi. 8. The Way of a Pilgrim (l’autobiografia del Pellegrino Russo) 9. Poesie e racconti dei gauchos 10. Olecha: L’invidia (se non ripubblicato in Italia) 11. Una nobilissima riduzione per la radio francese di un dramma leggendario taoista 12. Un racconto lungo della Lagerlof

È bene puntualizzare, preliminarmente alla descrizione di titoli che si sono appena citati, il fatto che subito di seguito all’elenco relativo alla «Collezione piccola», Bazlen ne presenti anche uno relativo ad una «Collezione grande», sul quale si avrà modo di tornare. Per il momen- to, comunque, è sufficiente osservare quello che sembra un ritorno ad una fase intermedia del progetto formulato qualche anno prima per Bocca, che appunto prevedeva la distinzione fra due gruppi di libri, in base a criteri tanto materiali quanto contenutistici: il che fa pensare che nella creazione del nuovo prototipo di collana Bazlen tendenzialmen- te si riferisca a esso, ritraducendo presso Einaudi, per certi aspetti, quanto era stato pensato per Bocca. È inoltre interessante soffermarsi sulle indicazioni che egli stesso fornisce subito di seguito all’esposizio- ne del primo elenco, le quali forniscono insieme una dimostrazione del

224 metodo di lavoro che si sta cercando di descrivere in queste pagine ed una chiosa ad esso. Una volta presentato un elenco di titoli che egli stesso denota come «collezione», dunque almeno in teoria uno «spazio circoscritto [il corsivo è di chi scrive] dentro il catalogo di un editore»120, Bazlen infatti aggiunge che i titoli proposti sono da considerarsi «con riserva di cambiamenti strada facendo»; tali cambiamenti sembrano consistere nell’integrazione dell’elenco «sia [con] testi da pubblicarsi presto per ragioni di attualità, sia [con] nuovi libri scoperti». Il criterio primario nella costituzione delle sue collezioni, dunque, è prevalente- mente quello dell’urgenza, dell’«attualità», della scoperta di libri sempre nuovi che, meglio di quelli precedentemente proposti, aderiscano ad un interesse ed uno stimolo vitale e collocato nel presente: è anche questo aspetto, peraltro, che contribuisce a configurare il suo metodo più che altro come «lettura, non magistero interpretativo»121. Resta fermo, comunque, il fatto che accanto a quanto si è appena visto Bazlen specifica anche che «per Vostra norma: ho in riserva dozzine e dozzine di altri titoli», un’osservazione che permette di osservare come accanto ai libri «nuovi» egli si ripromettesse di proporre quei titoli, alcuni in parte già considerati, ai quali era per qualche ragione legato da tempo. Ad ogni modo, è a questo punto ancora più evidente, per- ché riconosciuta da Bazlen stesso, la sua quasi completa avversione all’idea di creare un modello di collana coerente e stabile nel tempo: un’avversione che in primo luogo risponde, a parere di chi scrive, ad una scelta consapevole, dettata dalla concezione, all’insegna di un forte vitalismo, del libro «quale veicolo di idee e di immagini nuove»122, dun- que quale «fonte di felicità non solo per chi lo scrive o lo legge, ma anche per chi contribuisce a farlo esistere»123. Non è difficile osservare come tale concezione poco si accordi con la definizione di collana come unificazione, «sotto un unico titolo e per lo più sotto una comu- ne grafica»124, di «libri affini per aree tematiche, per genere, per tenden- za»125. La presentazione di un insieme di titoli accomunati anche solo

120 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 77. 121 Massimo Cacciari, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Milano, Adelphi, 1980, p. 222. 122 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 13. 123 Ibidem. 124 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 77. 125 Ibidem.

225 da un «suggerimento editoriale per la [loro] modalità di ricezione»126, infatti, dal suo punto di vista corrispondeva evidentemente anche ad un “irreggimentare” il libro, un “imbrigliarlo”, privandolo così di potenzialità interpretative da parte del pubblico. È allora forse possibi- le vedere un ulteriore reciproco nesso fra l’agire editoriale di Bazlen e la sua identità di scrittore mancato: Il capitano di lungo corso, infatti, pro- prio allo stesso modo del progetto di varo di una collana che egli porta avanti per anni senza mai riuscire a realizzarlo, «rimane volutamente incompiuto»127, e dà piuttosto la precedenza «al suo predisporsi all’ac- cadere, restando strutturalmente aperto»128. Resta però il fatto che la personale resistenza alla concreta realizzazio- ne di un progetto editoriale (comunque anche ostacolata dalla scarsa accondiscendenza degli editori) è controbilanciata dallo stesso Bazlen con il continuo tentativo di creare quelle stesse collane, le quali costi- tuiscono la prova di un’onesta messa in discussione delle proprie idee e del proprio metodo. Ed è appunto da questo punto di vista che è opportuno cercare di analizzare l’elenco di testi che si è citato poco sopra, rispetto ai quali è evidente soprattutto un’evoluzione rispetto all’idea che era sottostata alla proposta formulata nel luglio del 1953 per lo stesso editore Einaudi: nel progetto del 1959, infatti, i «testi mitologici, religiosi, iniziatici, folkloristici»129, che come si è detto si riferivano prevalentemente ai fondamenti del pensiero junghiano, ven- gono sostituiti da una serie di titoli che ad un primo sguardo appaiono per lo più collocati nella contemporaneità, e riconducibili ad un più ampio e generico interesse antropologico, o comunque non stretta- mente letterario, soprattutto per quanto riguarda la scelta di opere Nella Collezione piccola una romanzesche. Nell’elenco dei libri che avrebbero dovuto comporre la forte commistione di generi. «Collezione piccola», comunque caratterizzato da una forte commi- stione di generi, le opere romanzesche appaiono infatti in minoranza, essendo solo quattro su un gruppo di ventiquattro proposte. È comunque interessante notare che nella loro totalità esse costituiscono un insieme abbastanza organico, riconducibile essenzialmente ad una forte impronta memorialistica ed autobiografica: Laissez moi

126 Ibidem. 127 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 109. 128 Ibidem. 129 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953.

226 (Commentaire), unica opera della francese Marcelle Sauvageot, è infatti il racconto, in forma epistolare, della lenta agonia di una giovane donna colpita dalla tubercolosi, nella quale si ritrova l’immagine del- l’autrice, morta appunto a trentaquattro anni. Allo stesso modo, alla forza dell’esperienza personale è riconducibile il romanzo, pubblicato in Italia con il titolo di La fine. Amburgo 1943130, di Hans Erich Nossack, costituito dall’allucinata descrizione della propria città natale rasa al suolo durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. È infi- ne di particolare interesse la presenza, nel minuto gruppo di romanzi facenti parte della «Collezione piccola», de Il Monte Analogo del filoso- fo francese René Daumal: un testo che costituirà la diciannovesima pubblicazione della Biblioteca Adelphi131, che Roberto Calasso addirit- tura ha descritto come «l’asse [...] verso cui la flottiglia dei libri unici [di Adelphi]132 orientava la rotta»133. Ed è appunto interessante notare che nel risvolto di copertina dell’edizione adelphiana questo romanzo di avventure sia descritto come la trasposizione del pensiero «lentamente maturato nelle esperienze dell’autore»134, con una forte messa in luce, quindi, dell’aspetto personale e in qualche modo autobiografico che lo caratterizza. Non è a questo punto forse improprio notare che il solo romanzo, fra quelli proposti, che presenzierà nel catalogo di Einaudi, all’interno dei «Supercoralli», sarà l’unico completamente estraneo al genere autobiografico, o alla presenza di una sua componente nel testo: si tratta cioè di Invidia135, opera risalente al 1922 dello scrittore russo Jurij Karlovic Oleša, la cui pubblicazione, comunque, era discus- sa da molti anni all’interno della casa editrice136. La scarsa incidenza delle proposte di narrativa. Alla scarsa incidenza delle proposte di Bazlen sul piano dei romanzi fa da riscontro un insuccesso simile sul fronte delle opere di narrativa

130 Hans Erich Nossack, La fine. Amburgo 1943, Bologna, Il Mulino, 2005. 131 René Daumal, Il Monte Analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche, Milano, Adelphi, 1968. 132 La definizione dei libri della Biblioteca Adelphi come “libri unici” è tratta dal risvolto di coper- tina delle prime pubblicazioni della collana. Su questo aspetto si avrà comunque modo di torna- re in seguito. 133 Roberto Calasso, Così inventammo i “libri unici”. Da Nietzsche a Kubin, Hesse e Walser, in “La Repubblica”, 27 dicembre 2006, pp. 56-57. 134 René Daumal, Il Monte Analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche, Milano, Adelphi, 1968. La citazione è tratta dal risvolto di copertina. 135 Jurij Karlovic Oleša, Invidia e I tre grassoni, saggio di Vittorio Strada, traduzioni di Giulio Dacosta e Clara Coïsson, Torino, Einaudi, 1969. 136 Si veda a questo proposito Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 329.

227 breve, la cui scelta appare in effetti più coerente con l’intestazione della collana come «Collezione piccola»: a ulteriore conferma del fatto che in questo caso Bazlen sembri sviluppare il progetto intrapreso con Bocca, si può in effetti ricordare che già dal dicembre del 1953 egli aveva parlato della propria volontà di pubblicare, eventualmente, «sol- tanto quel “cuore” comprimibile in una ottantina o poco più di pagi- ne»137, evidentemente, dunque, privilegiando l’aspetto delle ridotte dimensioni degli scritti proposti. Di fatto, comunque, tutte le novelle ed i racconti proposti per la «Collezione piccola» einaudiana non ver- ranno pubblicati dall’editore: è questo infatti il caso di Amos Tutuola, autore nigeriano, così come dei racconti di Dery, di Mandel’štam, della scrittrice svedese Selma Lagerlöf, infine di Mine Haha del tedesco Frank Wedekind. Rispetto a questi autori, peraltro, non sarà possibile leggere da parte di Foà, dunque in realtà da parte della casa editrice Einaudi, una risposta puntuale, come ad esempio era avvenuto in occa- sione della proposta formulata da Bazlen nel 1953. È però indicativo il fatto che, come in molti altri casi, almeno due dei titoli proposti per la sezione della «Collezione piccola» dedicata a novelle e racconti si trovino pubblicati anni dopo presso Adelphi: è questo infatti il caso de Il bevitore di vino di palma, di Amos Tutuola, pubblicato nel 1983 nella «Biblioteca Adelphi»138, e di Mine Haha, che invece troverà posto nella «Piccola Biblioteca Adelphi»139. Si inizia così a prospettare l’ipotesi, già in parte sollevata in questa sede, di una derivazione delle collane adel- phiane da quelle che in anni precedenti Bazlen aveva proposto ad altri editori. Tale ipotesi, peraltro, trova forse un’ulteriore dimostrazione nella distinzione, all’interno appunto del catalogo Adelphi, fra una col- lana “grande” ed una “piccola”, unite sotto il comune nome di «Biblioteca»: un nome che come si è visto probabilmente deriva da un’altra idea di Bazlen, ovvero l’imitazione del modello della collana tedesca «Bücherei» [Biblioteca] della casa editrice Insel di Lipsia. Il fatto che il ruolo di Bazlen per la costituzione della «Biblioteca» e della «Piccola Biblioteca» adelphiane sia un aspetto del suo lavoro editoria- le che merita di essere approfondito è d’altronde ulteriormente confer-

137 Ibidem. 138 Amos Tutuola, La mia vita nel bosco degli spiriti - Il bevitore di vino di palma, traduzione di Adriana Motti, con una nota di Itala Vivan, Milano, Adelphi, 1983. 139 Frank Wedekind, Mine Haha, ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle, traduzione di Vittoria Rovelli Ruberl, con un saggio di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1975.

228 mato, oltre che dagli elementi di presentazione «formale» delle collane che si sono appena descritti, anche da casi come quello della pubblica- zione dei racconti di Amos Tutuola, la cui traduzione ad opera di Adriana Motti è forse riconducibile appunto anche all’amicizia che la legava a Bazlen sin dai tempi della sua collaborazione con Einaudi. Lo stesso tipo di mediazione fra la casa editrice torinese e traduttori che le sarebbero in seguito stati fedeli vale fra l’altro per un altro titolo di quelli proposti nel 1959, uno dei pochi che Einaudi scelse di pubblica- re: si tratta dell’opera dello scrittore giapponese Schichiro Fukazawa dal titolo Le canzoni di Narayama140, la cui traduttrice, Bianca Garufi, è citata, appunto insieme ad Adriana Motti, come una delle «amiche romane»141 di Bazlen, che all’interno della casa editrice Einaudi erano «fra i collaboratori meno noti ma [a lui] più cari»142. La scelta di que- st’opera per la nuova versione della «Collezione piccola», peraltro, costituisce una delle rare proposte che possano essere ricondotte agli stimoli che egli aveva tratto dal pensiero junghiano, e che avevano determinato la totalità delle scelte dei titoli per la prima collana propo- sta ad Einaudi, nel 1953. La proposta dell’opera di Fukuzawa rappre- senta infatti, insieme alla vaga citazione di «un dramma leggendario taoista»143, il risultato di quell’interesse per l’Estremo Oriente, che L’interesse per l’Estremo appunto il pensiero junghiano stimolava e che Bazlen accolse ed assor- Oriente. bì profondamente: anche se in occasione della formulazione di un pro- getto di collana per Einaudi nel 1959 esso sembra parzialmente accan- tonato, per dare spazio ad interessi in parte di altra natura. Ad un ambito più genericamente antropologico possono infatti essere ricondotte le due proposte, viziate da una certa genericità, relative alle «poesie e racconti dei gauchos»144, nonché all’«autobiografia di un Pellegrino Russo»145. Molto più rigorosa appare invece l’indicazione di un’opera affine alle due che si sono appena citate, ovvero lo scritto di viaggio di Antonin Artaud Au pays des Tarahumeras. Il resoconto del periodo passato in Messico dallo scrittore francese doveva appunto

140 Schichiro Fukazawa, Le canzoni di Narayama, traduzione di Bianca Garufi, Torino, Einaudi, 1961. 141 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 85. 142 Ibidem. 143 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 144 Ibidem. 145 Ibidem.

229 fornire un’immagine di una certa evidenza circa un «mondo» e una cul- tura lontani: aspetti che nella visione di Bazlen, alla luce di quanto si è fino ad ora osservato, dovevano avere un grande valore. Nella lettera appena successiva a quella che si sta citando, infatti, egli specifica che «Artaud lo conosco poco (quando più mi interessava, i testi erano in Au pays des Tarahumeras di parte introvabili)»146, ma continua ad insistere sulla pubblicazione, se Antonin Artaud. non dell’opera completa dell’autore, quantomeno del suo resoconto di viaggio. Esso poi risulta in qualche modo valorizzato dall’accostamen- to ad un romanzo, Le cretois di Pandelis Prevelakis, rispetto al quale Bazlen fornisce un parere appunto nella stessa lettera dedicata ad Artaud. La sua bocciatura del romanzo è in questo caso molto decisa, e sembra poggiare prevalentemente sulla condanna degli aspetti, appunto, più strettamente letterari del libro: ad esempio, egli critica la presenza di «personaggi casuali, senza nessuna necessità che siano pro- prio loro»147, e constata il fatto che il quadro storico che caratterizza l’opera, giudicato positivamente, sia però compromesso da un’eccessi- va letterarietà, che lo porta ad affermare che «mi sembra veramente immorale continuare a propagandare i clichés omerici»148: dal confron- to fra i due pareri editoriali contenuti nella stessa lettera sembra dun- que che alla forza della descrizione di una realtà, che caratterizza il resoconto di viaggio di Artaud, sia contrapposta una supposta vacuità e superfluità, che secondo il suo parere la finzione romanzesca com- porta. Così facendo, il romanzo, sicuramente quello di Prevelakis, ma forse anche il genere letterario in sé e per sé, devia dall’imprescindibi- le campo della «necessità», intesa o come forza dell’esperienza o come evidenza della descrizione. Nonostante la valutazione positiva fornita da Bazlen, comunque, Au pays des Tarahumeras venne evidentemente rifiutato da Einaudi: tuttavia, come spesso avviene, esso apparirà come quarto titolo della «Biblioteca Adelphi»149, che appunto si conferma essere l’approdo dei più vari interessi culturali ed editoriali di Bazlen. Inoltre, all’interno della stessa collana avrà luogo la pubblicazione anche di uno degli altri

146 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, s.d. 147 Ibidem. 148 Ibidem. 149 Antonin Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, a cura di H.J. Maxwell e Claudio Rugafiori, Milano, Adelphi, 1966.

230 titoli proposti, segnati da una certa impronta antropologica, che si sono appena citati: l’«autobiografia di un pellegrino russo», infatti, verrà pubblicata da Adelphi nel 1972, con il titolo La via di un pellegri- no. Racconti sinceri di un pellegrino al suo padre spirituale150. A proposito delle ultime proposte analizzate, peraltro, è interessante osservare quanto Sergio Solmi, il quale come si è visto fu molto vicino a Bazlen, osser- va a proposito delle attitudini culturali dell’amico, nel momento in cui afferma che a proposito di esse «si può agevolmente rilevare, oltre l’in- teresse “letterario”, l’altro più pressante interesse “umano”»151. L’adesione ad un interesse di natura antropologica si può dunque con- nettere, oltre che ad una variazione rispetto alle suggestioni fornite dalla psicologia analitica, ad un allontanamento, le cui ragioni d’altra parte si sono già analizzate, dal campo propriamente letterario: un aspetto che appunto Solmi rileva con una certa evidenza, soprattutto relativamente alla maturità di Bazlen, nel momento in cui ricorda che «negli ultimi anni, mi disse una volta che la “letteratura” non lo inte- ressava più, ma soltanto, in essa e oltre di essa, l’“antropologia”»152. Le osservazioni di Solmi circa l’evoluzione degli interessi di Bazlen si possono allora connettere a quanto precedentemente visto circa l’ipo- tesi che nella proposta di collana per Einaudi avanzata nel 1959 sia da vedersi più che altro il riecheggiamento del progetto formulato per Bocca: nel 1953, descrivendo a Linder i tratti salienti del proprio pro- getto, egli aveva infatti chiarito di voler pubblicare prevalentemente «raccolte di saggi, di memorie, ecc.»153, dunque generi tendenzialmente lontani tanto dall’ambito letterario quanto da quello dei testi vicini alla psicologia analitica. In effetti, se si guarda i titoli proposti per la «Collezione piccola» che non si sono ancora presi in considerazione, essi sono quasi totalmente riconducibili a questi due ambiti tematici, per i quali tra l’altro spesso Bazlen “attinge” dalle proposte formulate in anni precedenti per altri editori. Sia Rilke sia Kierkegaard sono infat- ti autori che, come si è visto nel secondo capitolo del presente lavoro, Bazlen aveva cercato di promuovere soprattutto presso le Nuove

150 Anonimo russo, La via di un pellegrino. Racconti sinceri di un pellegrino al suo padre spirituale, tradu- zione di Alberto Pescetto, con un saggio di Pierre Pascal, Milano, Adelphi, 1972. 151 Sergio Solmi, Nota, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 269. 152 Ibidem. 153 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicembre 1953.

231 Edizioni Ivrea: la figura del poeta austriaco, del quale per la casa edi- trice di Adriano Olivetti egli aveva proposto le Elegie Duinesi e diverse raccolte di lettere, è infatti ora riproposta attraverso le memorie di Marie Thurn und Taxis, la principessa nel cui castello, presso Duino, egli aveva appunto composto le sue elegie. Allo stesso modo la tradu- zione delle lettere di Kierkegaard e della sua compagna Regina Olsen era già stata proposta da Bazlen, nel 1948, all’Agenzia Letteraria Internazionale, dopo l’inclusione di un’opera del filosofo danese nella «Collana Letteraria» della casa editrice di Ivrea. Il progetto editoriale presentato ad Einaudi alla fine degli anni Cinquanta, che, come si è visto, veniva elaborato già da diversi anni, trae dunque anche spunto, quantomeno sul piano dei titoli e degli autori proposti, da quanto in tutt’altro contesto culturale ed editoriale egli aveva pensato per la piccola casa editrice di Adriano Olivetti. Accanto a Rilke e Kierkegaard si può infatti citare, come ulteriore “ricordo” del progetto di Ivrea, Ortega Y Gasset, le cui opere, appun- to nella traduzione di Sergio Solmi, egli aveva proposto sia nel conte- sto della collaborazione con Solaria, sia all’interno della collana dei «Saggi» di Ivrea, e che nel frangente del nuovo progetto di Einaudi sono da collocarsi come esempio della componente saggistica della «Collezione piccola». Il filosofo spagnolo, dunque, si conferma come uno degli autori al quale Bazlen fu maggiormente legato, cosa che si può affermare anche a proposito di Robert Musil: come si è visto in apertura del presente capitolo, la pubblicazione dell’opera dello scrit- tore austriaco era stata oggetto di un grande impegno da parte del con- sulente triestino, all’inizio degli anni Cinquanta, come risultato di un’evidente volontà da parte sua di presentare al pubblico italiano i massimi risultati della produzione letteraria mitteleuropea. Questo sforzo di innovazione che Bazlen aveva compiuto a partire dal 1951 iniziava peraltro a dare i propri frutti quanto alla “sedimentazione” degli autori proposti, se nel 1965 L’uomo senza qualità, insieme ad altri romanzi «usciti in prima edizione nei Supercoralli»154, venne presenta- to in una nuova edizione all’interno dei «Millenni», «perché, [...], nel- l’ormai massiccio numero di opere pubblicate, la collana accennasse a

154 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 706. 155 Ibidem.

232 riassumere anche la funzione di sanzione di “classico” per un testo del Novecento»155. Accanto alla progressiva presentazione di Musil quale classico della letteratura novecentesca, dunque, Bazlen sceglieva già nel 1959 di renderne nota l’opera non narrativa, includendo nella propria proposta per la «Collezione piccola» la conferenza, tenuta dallo scrit- tore a Vienna nel 1937, «Sulla stupidità», che comunque l’editore, a dispetto della consistente presenza di opere di Musil all’interno del proprio catalogo, decise evidentemente di non pubblicare. La presenza di autori come Ortega Y Gasset o Musil, ai quali Bazlen era legato sin dalla propria gioventù, non esclude comunque la propo- sta, all’interno del progetto relativo alla «Collezione piccola», di quelle che si possono considerare novità, quantomeno relativamente alla rosa di autori che egli regolarmente tornava a riproporre ai diversi editori156. A tale proposito, gli esempi che si possono citare sono riconducibili tanto all’ambito della scelta di «saggi»157, quanto a quello delle «memo- rie»158, che sin dal 1953 Bazlen aveva indicato come gli ambiti favoriti da cui trarre le proprie scelte. Nel caso di The flea of Sodom dello scrit- The flea of Sodom di Edward tore angloamericano Edward Dahlberg, ad esempio, Bazlen propende Dahlberg. per un saggio di argomento letterario, un ambito dal quale, se si eccet- tua la proposta di Lo spazio letterario di Blanchot, egli traeva titoli con un certa parsimonia. Al genere memorialistico possono essere ricon- dotte, invece, le Memorie di una contadina raccolte da Lev Tolstoj, dun- que un autore “classico”, e presente con molti titoli all’interno del cata- Memorie di una contadina di logo einaudiano. In una lettera del 1955 a Luciano Foà Bazlen aveva Lev Tolstoj. mostrato di apprezzarne l’opera letteraria, nel momento in cui scrive- va «ho riletto direi, dopo quarant’anni esatti, la sonata a Kreutzer, sba- lorditiva ancora adesso»159: per il proprio progetto relativo al varo di una collana, per quanto dai caratteri fumosi e di difficile definizione, egli tuttavia promuoveva un’opera assai poco rappresentativa della produzione maggiore dell’autore russo. Quel che veniva privilegiato, al contrario, era il proprio personale interesse per gli scritti memorialisti-

156 A questo proposito è bene fare presente che i primi due titoli della “Collezione piccola”, pre- sentati come Il Libro del Tè e Cabeza de Vaca, si troveranno fra le proposte avanzate all’editore Boringhieri. Si avrà dunque modo di analizzarle in seguito. 157 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicembre 1953. 158 Ibidem. 159 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 11 aprile 1955.

233 ci, a maggior ragione dal momento che essi potevano soddisfare il suo interesse per l’antropologia: con tale termine, infatti, Solmi sottolinea che Bazlen

non intendeva già una “scienza”, [...], ma una libera e avventurosa conoscenza degli uomini, dei singoli, con le ineffabili striature del loro carattere, ambiente e storia, quali si rivelavano nei loro scrit- ti, o dietro di essi160.

In questo caso, l’«ambiente e la storia» nei quali doveva essersi svolta la quotidianità di una contadina russa si trova presentata dalla penna di uno dei più noti scrittori russi, in quello che sembra un tentativo, da parte di Bazlen, di porre l’abilità dello scrittore al servizio di quella che egli riteneva «vera vita»161. A proposito della proposta di collana che Bazlen formulò nel 1959, resta da specificare il fatto che accanto alla presentazione di quella «piccola», i cui tratti si sono appena cercati di delineare, egli preveda anche il varo di una «Collezione grande»162, che trova ancora una volta un corrispettivo nel piano di pubblicazioni steso nel 1953 per la Fratelli Bocca Editori, ma nessuna anticipazione, invece, nel carteggio con Einaudi. La prima menzione che Bazlen fa del proprio progetto, infat- ti, in una lettera del 16 dicembre 1959 nella quale promuove il lavoro Cristina Campo. della scrittrice e traduttrice Cristina Campo, prevede la presenza unica- mente di una «collezione piccola»163, alla quale appunto il lavoro della Campo «potrà servire molto»164. Così come per la «piccola», dunque, apparentemente non è semplice individuare quelli che furono i criteri che guidarono Bazlen nella scelta dei titoli per la «Collezione grande»: a maggior ragione se si considera che egli stesso, una volta elencata una serie di titoli, chiarisce che «a questa collezione vorrei pensarci molto lentamente. Ho buttato giù questi nomi alla rinfusa, senza consultare

160 Sergio Solmi, Nota, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 269. 161 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Bruno Fonzi, 11 settembre 1949. 162 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 163 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 16 dicembre 1959. 164 Ibidem.

234 tutti gli appunti - e soltanto in via indicativa»165. Sembra comunque che la «Collezione piccola» vada pensata anche in relazione alla sua omo- loga, non ancora del tutto completa per quanto riguarda la puntuale scelta dei titoli: i quali comunque sembrano consistere, sempre stando alle indicazioni fornite in merito, nella lunga serie di opere che nel tempo gli editori avevano rifiutato, dal momento che Bazlen parla di esse come il risultato di «appunti» presumibilmente raccolti nel tempo.

Collezione grande: I primi quattro: Gosse: Father and son Saxe Beauvoir e quasi sicuramente Neihardt: Eagle Voice (an aunthentic tale of the Sioux Indians) (A me pare di sì, idem a [Ponchiroli] - [...]) In caso negativo: sostituire con uno dei seguenti, tutti da prendersi in considerazione per la continuazione della collana:

Misia De Poncins: Kablouna Aksakow: La prima parte delle Cronache Henry Miller Swami Nikhilananda: Ramakrishna, Prophet of New India [...] Dickinson Boswell Herndon: Life of Lincoln (a meno che non convenga pubblicare estratti nella coll. piccola) Fothergill: Innkeeper’s Diary (idem) The Education of Henry Adams (di cui dovreste avere una traduzione pronta) Strindberg Strindeberg Strindberg Strindberg !!!!! Vera Figner Colloqui con Goethe

165 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. Dalla stessa lettera sono tratte le citazioni che seguono.

235 Lagerloef: diari e ricordi Mallea: Historia de una Pasion Argentina (con molti punti di domanda) Chaim Bloch: Lebenserinnerungen des Kabbalisten Chaijm Vital (Vienna 1927 - chi lo ripesca!) ecc. ecc. ecc. ecc. ecc.

Il primo titolo presentato per la «Collezione grande», assieme alla lunga fila di «eccetera» con la quale Bazlen scherzosamente chiude il proprio elenco, sembra dimostrare quanto si è appena ipotizzato, ovvero che la seconda collana dovesse presentare prevalentemente quei titoli che egli da tempo aspettava di vedere pubblicati: anticipan- do, in questo, una delle caratteristiche fondanti almeno delle prime pubblicazioni della Biblioteca Adelphi. La nuova proposta di Father and son di Edmund Gosse, peraltro, permette di vedere un’ulteriore con- nessione fra il progetto presentato nel 1959 ad Einaudi e quanto all’ini- zio del 1954 Bazlen aveva pensato per la Fratelli Bocca Editori, quan- do ai «librini Bocca»166 egli aveva accostato anche pubblicazioni in «un formato più grande, in modo da metterci dentro anche libri full lenght»167: Gosse appunto, dopo essere stato citato negli elenchi di pos- sibili pubblicazioni per le Nuove Edizioni Ivrea e per Bompiani, era stato incluso, insieme per esempio a Karen Blixen, in tale nuova tipo- logia di collana. La citazione del romanzo autobiografico di Edmund Gosse come prima pubblicazione della «Collezione grande» dunque, costituisce un “legame” non indifferente fra i due progetti: i quali forse, entrambi, comprendevano sostanzialmente libri di dimensioni consistenti, non frazionati a formare dei «librini», in alcuni casi depo- sitati da tempo negli appunti di Bazlen. La vaghezza di molte delle indicazioni relative ai titoli che compongono la «Collezione», d’altron-

166 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 15 dicembre 1953. 167 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1954, b. 4A, fasc. 36 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 13 gennaio 1954. 236 de, permette forse di rilevare un altro aspetto. Spesso infatti, come si può vedere anche solo a una prima lettura del progetto della collana, le proposte si trovano indicate solo tramite il nome dell’autore o l’in- dicazione del titolo, cosa che forse permette di rifarsi nuovamente a quanto Bazlen aveva chiarito a Linder nel dicembre del 1953, quando affermava: «per tua norma, vorrei tenermi molto ai mezzi classici, o a scrittori anche recenti ma che, in un certo modo, si siano già “deposi- tati”»168, una definizione nella quale si possono forse vedere adombra- ti, oltre agli autori proposti a suo tempo alla Fratelli Bocca Editori, anche, ad esempio, Emily Dickinson, Henry Miller, August Strindberg, che Bazlen non sente il bisogno di indicare con maggiore precisione. Resta però il fatto, di una certa rilevanza, che sia possibile approfondi- re e specificare ulteriormente quanto le somiglianze con il progetto formulato per l’editore Bocca tra il 1953 e il 1954, da un lato, e le indi- cazioni che Bazlen fornisce circa il fatto di avere «buttato giù questi nomi alla rinfusa»169, dall’altro, porterebbero a pensare. Uno sguardo più attento sui titoli proposti da Bazlen con il nome di «Collezione grande», infatti, permette di vedere come in realtà essi siano uniti da quel «denominatore comune» che aveva caratterizzato progetti come quello della collezione «Mondi e destini» per le Nuove Edizioni Ivrea, e continuerà a contraddistinguere le proposte per Einaudi: si tratta del carattere biografico o autobiografico, che come si è visto Bazlen pre- diligeva in seguito a precise ragioni teoriche. La rilevazione di tale aspetto fortemente caratterizzante le scelte relative alla «Collezione grande» è resa possibile, in prima istanza, proprio dall’osservazione del già evidenziato carattere autobiografico di un romanzo come Father and son di Edmund Gosse, che oltre a dare la propria impronta alla «Biblioteca Adelphi», essendo il secondo titolo della collana, evidente- mente doveva già assolvere a questo ruolo per la «Collezione grande», costituendo la prima opera proposta: d’altronde, non è questo l’unico testo, proposto per Einaudi, che trovi poi posto all’interno del catalo- go Adelphi. Lo stesso destino, infatti, avrà Cronaca di famiglia170 dello

168 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1953, b. 7, fasc. 48 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 10 dicembre 1953. 169 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 170 Sergej Timofeevic Akskakov, Cronaca di famiglia, traduzione di Angelo Maria Ripellino, con un saggio di , Milano, Adelphi, 1984. Dal risvolto di copertina di questa edizione sono tratte le citazioni che seguono.

237 scrittore russo Sergej Timofeevič Aksakov, ovvero l’opera, risalente al 1856 e pubblicata da Adelphi solo nel 1984, di un «imparziale narrato- re di racconti tramandatisi oralmente», dunque di un autore che «si sentiva incapace di “inventare”» e che dunque doveva trarre la propria vena scrittoria dalla realtà delle terra in cui era cresciuto. Sempre ricon- ducibile ad un’esperienza personale di una certa drammaticità è la testi- monianza, raccolta dallo scrittore John G. Neihardt, dello stregone Sioux Alce Nero circa la lotta del proprio popolo con i bianchi: con il Cronaca di famiglia e Alce nero titolo di Alce nero parla, nel 1968 essa costituirà la diciassettesima pub- parla pubblicati da Adelphi. blicazione della «Biblioteca Adelphi»171. La presentazione dell’opera non troppo tempo dopo il varo della collana, peraltro, costituisce una prova più certa, ad esempio in confronto alla pubblicazione di Aksakov solo nel 1984, dell’influenza del gusto di Bazlen nel carattere delle pubblicazioni della casa editrice milanese. Le osservazioni fatte fino ad ora circa la presenza di una forte impronta autobiografica all’interno della «Collezione grande» permettono peraltro di chiarire i diversi casi di un’indicazione eccessivamente vaga delle opere: ad esempio, l’ambigua citazione di «Saxe» è molto probabilmente ricon- ducibile all’opera dello scrittore francese Maurice Sachs, rispetto al quale si può leggere un parere nella lettera del 9 marzo 1960:

Maurice Sachs, Abracadabra: non mi piace. [...]. Ha pagine col sugo che cola come nel SABBAT - ma spesso il gioco diventa inconsistente e si perde nel lezioso e nell’estetizzante - in certi punti persino nel decorativo - non è spregevole, e lo potete far rimorchiare dal SABBAT, per ragioni commerciali. Non per altre172.

Dal passo appena citato, emerge con una certa chiarezza come dello scrittore francese Bazlen bocciasse con una certa severità il romanzo Abracadabra: esso infatti, è tanto «inconsistente» da necessitare di esse- re trainato da Sabbat, un’opera connotata sin dal sottotitolo (Souvenirs d’une jeunesse orageuse, ovvero «ricordi di una giovinezza tempestosa») in

171 John G. Neihardt, Alce nero parla. Vita di uno stregone dei Sioux Oglala, messa per iscritto da John G. Neihardt (Arcobaleno fiammeggiante), illustrata da Orso in piedi, traduzione di J. Rodolfo Wilcock, Milano, Adelphi, 1968. 172 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 9 marzo 1960.

238 senso marcatamente autobiografico. Non è dunque improprio ipotiz- zare che nella «Collezione grande» Bazlen volesse vedere pubblicato proprio quest’ultimo scritto. Un discorso affine vale anche per l’indi- 173 cazione relativa a «Vera Figner» , politica russa della quale, evidente- August Strindberg. mente, Bazlen proponeva le Memorie di una rivoluzionaria. Il caso di Strindberg, infine, permette alcune osservazioni, sulla base di quanto Bazlen aveva osservato già dal settembre del 1959:

Strindberg (le Historische Miniaturen [Miniature Storiche], che m’erano antipatiche già quando leggevo voracemente Strindberg quasi forty years ago, [...]), e Briefe [Lettere] che mi sembrano assieme a quelle di Van Gogh le lettere più emozionanti (o almeno il Briefband [il libro di lettere] più emozionante) di questi ultimi cento anni. Leggi Inferno, e dimmi com’è, così da solo, isolato, non verwoben [intrecciato] in quella stramba vita. Io, questa notte ho letto una novella di Strindberg (ce ne sono alcune qui datent [che sono datate]) da battere (se fossimo in un mondo di graduatorie, ma Gottseidank [grazie a Dio] siamo più in alto) Tolstoi174.

Delle opere citate, alla luce di quanto si è visto finora, appare eviden- te che quella che Bazlen pensava di integrare nel suo progetto per la «Collezione grande» fosse la raccolta di lettere, intesa come documen- to «emozionante»175, presumibilmente perché vero e legato ad espe- rienze reali. Tale aspetto, peraltro, permette di assumere Strindberg, insieme a Maurice Sachs, come esempio del fatto che la parte autobio- grafica, biografica o epistolare dell’opera di un autore fosse spesso quella maggiormente consolidata e coltivata nel tempo all’interno degli «appunti»176 di Bazlen, dal momento che egli stesso accenna al fatto di avere letto «voracemente» l’opera dello scrittore svedese da ben qua- rant’anni. Un aspetto confermato dalla citazione di Strindberg, già nelle Note senza testo, insieme a «Nietzsche, Wilde, Jarry, ecc.»177, fra i «grandi rivoluzionari della fine del secolo»178. La grande originalità del-

173 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1960. 174 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 12 settembre 1959. 175 Ibidem. 176 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 177 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 185. 178 Ibidem.

239 l’opera di Strindberg nel panorama della cultura a cavallo fra Ottocento e Novecento trova forse anche una ragione nella «vita stramba» da lui condotta, nel momento in cui essa sembra essere con- siderata come un valore riguardante e condizionante molto da vicino anche la sua opera letteraria: Bazlen, infatti, manifesta la difficoltà di leggere il romanzo Inferno scindendolo appunto dalla «vita stramba» di chi lo ha scritto. E non è improbabile che quest’ultimo aspetto, nella sua ottica, avesse un ruolo anche come componente del valore della novella che viene paragonata all’opera di Tolstoj: un autore del quale, pur nell’apprezzamento della sua opera letteraria, Bazlen aveva propo- sto per la «Collezione piccola» uno scritto che appunto esulava da tale ambito, essendo legato alla testimonianza di vita di una contadina russa. Ad ogni modo, della proposta relativa all’autore svedese nulla viene accolto da Einaudi, e solo una parte, comunque non quella pre- sumibilmente pensata per la «Collezione grande», viene accolta all’in- terno della «Biblioteca Adelphi»179. La scelta dell’opera di Strindberg, apertamente indicata nelle Note senza testo come valida testimonianza della «letteratura della fine del secolo»180 permette fra l’altro di osservare come all’interno delle scelte di opere biografiche ed autobiografiche pensate per la «Collezione grande» si possa anche riscontrare la sovrapposizione degli altri interessi che caratterizzavano il bagaglio culturale di Bazlen. Se appunto lo scritto- re svedese rappresenta la letteratura «del giro di secolo»181, che come si è visto era stata ampiamente promossa presso Einaudi, anche la scelta dei Colloqui con Goethe, ad opera del suo segretario Johan Peter Eckermann, non appare casuale: si può infatti vedere in essa l’ultimo tassello di una serie di proposte, avanzate negli anni per diversi edito- ri, di opere legate in qualche modo alla vita dello scrittore tedesco,

179 Delle diverse opere di Strindberg che si trovano nel catalogo di Adelphi, infatti, solo Inferno appare forse il frutto degli interessi di Bazlen, e comunque all’interno di un volume che raccoglie diverse opere dell’autore. Si veda infatti August Strindberg, Inferno - Leggende - Giacobbe lotta, a cura, e con un saggio, di Luciano Codignola, Milano, Adelphi, 1972. Che per un certo periodo egli si sia interessato dell’opera dell’autore svedese, d’altronde, è confermato dal già citato ricordo fir- mato da Giorgio Zampa, nel quale così si legge: “sul palchetto di un vicino scaffale, Bobi vide le opere complete di Strindberg in edizione svedese. Si occupava da un pezzo della loro presenta- zione italiana e volle sentire la mia opinione sui criteri da adottare. Era preferibile cominciare con il blocco degli scritti autobiografici, e poi fare seguire il teatro: in che modo? Per generi o per ordine cronologico”. Cfr. Giorgio Zampa, Lo sconosciuto disse: sono Bobi, cit., p. 28. 180 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 185. 181 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 1 settembre 1951.

240 nella volontà, forse, di illuminare l’aforisma che indicava appunto in Goethe l’esempio più rappresentativo di una «biografia assorbita nel- l’opera»182. Dopo i tentativi, considerati nel secondo capitolo del pre- sente lavoro, di vedere pubblicati presso le Nuove Edizioni Ivrea il Carteggio con Friedrich Schiller e presso Einaudi una biografia dello scrittore, la scelta dell’opera di un uomo che lo aveva conosciuto per- sonalmente appare del tutto coerente con la sovrapposizione, rilevata da Bazlen, fra la vita e l’opera di Goethe: come a dire che la pubblica- zione di testimonianze e documenti relativi alla prima non avrebbero potuto che chiarire ed arricchire anche la seconda. Si può inoltre cita- re un altro esempio della presentazione dei propri ambiti tematici pre- diletti nella forma di testi biografici, memorialistici, epistolari (ovvero tutti i generi «al confine e al di là della letteratura»183, o comunque ampiamente privilegianti l’aspetto della “vita”): la proposta di pubbli- cazione degli «appunti di un discepolo» del mistico indiano Ramakrishna e di Lebenserinnerungen des Kabbalisten Chaijm Vital [memo- rie del cabalista Chaijm Vital] ad opera del rabbino Chaim Bloch chia- ramente si collocano nell’ambito delle discipline toccate dal pensiero junghiano, costituendo dunque una parziale ripresa, seppur nell’ambi- to della proposta di una nuova e diversa linea editoriale, del progetto presentato ad Einaudi nel 1953 e solo in piccola parte riproposto nel programma della «Collezione piccola»: i collegamenti che si possono vedere tra quest’ultima e la «Collezione grande», d’altronde, sono espressamente chiariti da Bazlen, nel momento in cui, di seguito alla proposta di una biografia di Lincoln e di Innkeeper’s diary [diario di un locandiere] di John Fothergill egli specifica che di questi testi si potreb- bero «pubblicare estratti nella piccola»184. Tale osservazione, peraltro, permette di rilevare, a dispetto di quanto sembrerebbe, una maggior coerenza interna nella «Collezione grande», dal momento che la «pic- cola» appare caratterizzata per lo più dalle ridotte dimensioni, al di là delle tematiche trattate, dei libri proposti. Un’ipotesi che trova ulterio- re conferma nel fatto che della scrittrice svedese Selma Lagerlöf Bazlen proponga per la «Collezione piccola» un «racconto lungo»185,

182 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 184. 183 Rolando Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro cit., p. 76. 184 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 185 Ibidem.

241 per la «grande», invece, una raccolta di «diari e ricordi» dallo stampo esplicitamente autobiografico. Per quanto come si è visto anche all’in- terno della «Collezione piccola» la sezione autobiografica non fosse per nulla indifferente, si può forse ipotizzare che Bazlen volesse fra l’altro proporre nelle due collane testi diversi dei medesimi autori, caratterizzando appunto la “collana maggiore” in senso più marcata- mente autobiografico. La presenza di titoli nei quali si possono chiaramente vedere rappre- sentati ambiti culturali già esplorati da Bazlen, o autori scoperti e pro- posti da tempo, non toglie comunque che nella prima proposta relati- va alla «Collezione grande» trovino spazio anche biografie ed autobio- grafie “nuove”, cioè citate per la prima volta e non riconducibili ai con- testi fino ad ora delineati: cosa che, comunque, non esclude la confer- ma, anche a proposito di essi, dell’elaborazione coerente di una ben precisa linea editoriale. Oltre ai casi già considerati di Maurice Sachs e Vera Figner, un primo esempio che si può citare in questo senso è Kablouna di Gontrand de Poncins. quello di Kablouna, ovvero il resoconto del viaggio nell’Artico canade- se dell’avventuriero e scrittore francese Gontrand de Poncins, pubbli- cato per la prima volta in America nel 1941. Un’opera di questo tipo aveva attirato l’attenzione di Bazlen già dal marzo del 1959, spingen- dolo a darne un parere molto positivo ma indipendente dalla possibi- lità di inserire il titolo nella «Collezione grande», ai tempi evidentemen- te ancora non progettata. Resta il fatto che quanto Bazlen scrive a pro- posito di Kablouna nel marzo del 1959 può presumibilmente ben appli- carsi alla totalità dei titoli pensati per la collana einaudiana.

KABLOUNA non fatevelo scappare. Non si tratta di mettere in chiaro se, da un punto di vista sterilmente etnografico, segua metodi più o meno approvati dalla pedanteria di uno specialista. È un problema che non c’entra. Ciò che importa, invece, è che siamo a una nobiltà di Haltung [atteggiamento], a un’ultima one- stà e immediatezza di esperienza, una modestia che è profonda libertà, come tra i visi pallidi non esistono più. Farlo se non altro per mostrare com’è fatta una persona per bene (e, oltre a tutto il resto, come si descrive un personaggio)186.

186 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 marzo 1959.

242 Nell’attribuzione all’ambito etnografico anche di una certa sterilità sembra di vedere quantomeno una nuova formulazione del pensiero di Bazlen: se appare poco probabile la possibilità del sopirsi del suo inte- resse per discipline quali l’antropologia e l’etnografia, si può però affermare che sempre più, negli anni, egli richiedesse anche agli autori di opere di saggistica quella che a proposito di Gontrand de Poncins, e della sua opera, è definita come «onestà ed immediatezza di esperien- za»: una definizione per Bazlen presumibilmente applicabile a tutti i titoli della «Collezione grande». Come si è già in parte evidenziato, peraltro, è proprio la «nobiltà» delle esperienze dell’autore a determi- nare la qualità del suo libro, a proposito del quale, infine, viene forni- to un parere che sovrappone considerazioni umane e letterarie, privi- legiando però le prime: Gontrand de Poncins, cioè, è «una persona per bene», cosa che sembra determinare, ad esempio, la qualità della sua descrizione di un personaggio. L’immedesimazione ed il coinvolgi- mento di Bazlen sono a questo punto “automatici”, e lo portano, a fronte della descrizione del periodo passato dall’autore insieme alle popolazioni Inuit, a rilevare la banalità delle esperienze dei «visi palli- di»: ulteriore esempio della sua tendenza, espressa anche solo tramite scelte lessicali lievemente marcate, a «colorire la situazione di un auto- re e le caratteristiche di un libro»187. Ben più rilevante, invece, è l’in- fluenza che su di lui esercita un altro dei titoli proposti per la «Collezione grande», del quale, come nel caso di Gontrand de Poncins, aveva già parlato qualche tempo prima della presentazione del proget- to della nuova collana: anche se nell’elenco non si trova l’indicazione The books in my life di Henry Miller. del titolo, si tratta di The books in my life di Henry Miller, una raccolta di memorie dello scrittore americano sulle proprie esperienze di lettura. Sempre nel marzo del 1959, Bazlen aveva citato questo libro nel suo carteggio con Linder, definendolo un «gran bel libro»188. Le ragioni del proprio apprezzamento sono fornite, tre giorni dopo, in una lettera a Foà, dove Bazlen, a proposito dell’«autobiografia letteraria» di Miller, osserva quanto segue:

187 Sergio Solmi, Nota, in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 267. 188 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1956, b. 8, fasc. 46 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 9 marzo 1959.

243 T’ho detto che intendevo fare una lista dei libri che lui menziona, perché di lui mi fido come di pochi. Non soltanto è un lettore stra- ordinario (del resto, il libro è bellissimo), ma gli piacciono anche tutte le cose che piacciono a me (di cui, molte, in genere non prese troppo sul serio - ha per esempio un capitolo intero su Rider Haggard; e un altro, freneticamente entusiasta, su Blaise Cendrars; ecc.). Non ti mando tutta la lista [...], ma per oggi soltanto il tito- lo di quei pochi libri che interessano particolarmente me, o che forse potranno interessare voi189.

Le opere amate da Henry Miller, così come quelle proposte da Bazlen Moravagine di Blaise Cendrars. nelle sue consulenze editoriali, non vengono «prese troppo sul serio», come il caso di Blaise Cendrars, per fare un solo esempio, può testimo- niare: lo scrittore francese, infatti, era stato menzionato sin dal 1953190, fino all’aperta lode che si legge, a proposito del romanzo Moravagine, il 22 novembre 1957, quando Bazlen scrive che «ha delle pagine straor- dinarie»191. La riserva che egli stesso aveva sollevato in questa circo- stanza, relativa al fatto che «l’insieme è scostante, e non credo che in Italia attaccherebbe»192, può forse giustificare la mancata pubblicazione del romanzo da parte dell’editore. È però più difficile indicare le ragio- ni per cui lo stesso destino ebbe l’insieme di opere, citate da Miller, che Bazlen elenca di seguito al parere fornito circa The books in my life:

Richard Jefferies, The story of my heart: di cui sapevo già qualcosa, vagamente, e di cui ho trovato in Miller delle citazioni che mi sono andate nelle ossa. Frederick Carter: Symbols of revelation Eduardo Santiago: The Round. [...]193.

189 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 12 marzo 1959. 190 Il 28 agosto 1953, infatti, Bazlen scriveva: “e poiché siamo in tema letteratura francese, che voi fate senza troppa difficoltà, non avete mai pensato a Blaise Cendrars [...]?”. Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 28 agosto 1953. 191 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 22 novembre 1957. 192 Ibidem. 193 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 12 marzo 1959. L’elenco di titoli è riportato solo parzialmente, visto il seguito nullo che tale proposta ebbe presso l’editore, e il fatto che lo stesso Bazlen non torni più a menzionarla.

244 Il libro dello scrittore americano, dunque, doveva anche fungere da sti- molo a nuove possibili pubblicazioni da parte dell’editore, e soprattut- to a nuove letture per il pubblico: un aspetto che permette di vedere come lo scambio umano che per Bazlen era garantito dalla presenza in un’opera di un forte aspetto autobiografico potesse realizzarsi anche sul piano culturale. È inoltre interessante notare che dei libri citati da Miller, che egli avrebbe voluto vedere pubblicati, l’unico su cui egli deciderà di insistere, prima presso Einaudi e poi come si vedrà presso Boringhieri, sarà ancora una volta un testo autobiografico, ovvero The story of my heart di Richard Jefferies. È opportuno comunque ricordare che The books in my life, al contrario dei titoli in esso menzionati, sareb- be stato pubblicato da Einaudi, sebbene in netto ritardo rispetto alla proposta che Bazlen aveva fatto. Esso, infatti, troverà posto nella Nuova Serie dei «Supercoralli» solo nel 1976194, costituendo, insieme all’opera di , l’unica proposta relativa alla «Collezione grande» che abbia avuto seguito presso Einaudi: alla luce di quanto si è detto fino ad ora, non è difficile ricostruire quale opera della scrittrice femminista francese Bazlen avesse immaginato per la «Collezione grande», ovvero le Memorie di una ragazza per bene, pubbli- cate anch’esse nei «Supercoralli» nel 1960195.

4.3 La «collezione dell’io».

Una volta descritto il complesso articolarsi, negli anni Cinquanta, della proposta da parte di Bazlen circa il varo di una nuova collana da parte di Einaudi, resta da osservare come esso non sia stato abbandonato con leggerezza dal comitato editoriale della casa editrice, ma al contra- rio sia stato ampiamente discusso e considerato, soprattutto nel tenta- tivo di integrarlo in una strategia di concorrenza con altri editori e di coerenza con la linea editoriale einaudiana. In questo senso, un ruolo Le proposte di Bazlen per rilevante ebbe Italo Calvino, la cui influenza all’interno della casa edi- Einaudi e il ruolo di Italo trice è superfluo rilevare: in due lettere inviate a Giulio Einaudi rispet- Calvino. tivamente nel novembre 1959 e nel gennaio 1960, infatti, lo scrittore,

194 Miller, I libri della mia vita, traduzione di Bruno Fonzi, Torino, Einaudi, 1976. 195 Simone de Beauvoir, Memorie di una ragazza per bene, traduzione di Bruno Fonzi, Torino, Einaudi, 1960.

245 evidentemente interpellato sulla questione, esprimeva un parere che merita di essere approfondito in questa sede. La prima lettera che Calvino spedisce da New York, dove si trovava in quel periodo, mette infatti chiaramente in luce l’ulteriore connotazione che all’interno del comitato editoriale di Einaudi si tentò di dare al progetto di Bazlen: anche se è bene tenere a mente il fatto che il 22 novembre 1959, data della lettera di Calvino, a quanto risulta, il consulente triestino non aveva ancora inviato il proprio elenco di titoli all’editore, ma presumi- bilmente gliene aveva solo parlato nell’incontro cui Giulia de Savorgnani fa riferimento nel proprio lavoro196. Di seguito si riporta l’apertura del parere di Calvino:

Il patrimonio più prezioso di una casa editrice è il carattere, la fisionomia. (Il che sul piano commerciale si traduce nella capacità di crearsi, mantenere e accrescere un pubblico proprio). Dunque a ognuno le proprie silerchie, attenzione agli sconfinamenti spiri- tualistici, bisognerebbe fare delle antisilerchie tali da marcare deci- samente la differenza tra il nostro modo di rispondere a quegli interessi e il modo di Alberto [Mondadori] e Giacomino [Debenedetti]197.

Dalle parole appena citate, appare evidente che nel progetto di Bazlen fosse stato visto un probabile valido concorrente alla collana che sin dall’inizio aveva caratterizzato fortemente il catalogo della neonata Le affinità con la Biblioteca delle Silerchie. casa editrice Il Saggiatore, ovvero appunto la «Biblioteca delle Silerchie», fondata nel 1958 e diretta da Giacomo Debenedetti: un’ini- ziativa che, oltre a causare preoccupazioni di ordine commerciale all’editore Einaudi, poteva effettivamente trovare diversi punti di con- tatto, e di confronto, con i progetti ideati nel tempo da Bazlen. Sotto la direzione di Debenedetti, come si è visto suo caro amico e da lui indirizzato nell’approfondimento di diversi ambiti culturali, la «Biblioteca delle Silerchie», si componeva infatti di «squisiti, divaganti,

196 Giulia de Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., p. 103, nota n. 40. Il passo è già stato citato nel presente capitolo, e fa effettivamente riferimento all’incontro che avvenne fra Bazlen e Giulio Einaudi, il quale secondo la de Savorgnani pensò “di affidargli la direzione di una collana tutta sua”. 197 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (New York, 22 novembre 1959) in Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Milano, Arnoldo Mondadori, 2000, p. 617.

246 colorati volumetti»198, che nelle tematiche toccate spaziavano «dall’anti- chità al Novecento, dal racconto, al saggio, al manuale, al diario»199, seguendo il «gusto per la scoperta, la riscoperta, e l’invenzione a tutto campo»200 del suo direttore: caratteristiche per certi aspetti accostabili a quelle delle proposte formulate nel tempo da Bazlen. Al di là di que- sta generica somiglianza, si possono inoltre rilevare alcuni elementi di consonanza fra i gusti di Giacomo Debenedetti, così come emergono dalle sue scelte editoriali, e quelli del suo amico, il quale in effetti in passato li aveva, per alcuni aspetti, indirizzati201: la seconda pubblicazio- ne della «Biblioteca delle Silerchie», ovvero Storia di un romanzo di Thomas Wolfe, era infatti, come si è visto, un titolo che Bazlen aveva proposto a Bocca, nonché presumibilmente alle Nuove Edizioni Ivrea e alla stessa casa editrice Einaudi. Allo stesso modo, coerente con i suoi gusti e le sue proposte editoriali erano titoli, «all’avanguardia nel panorama editoriale italiano»202, come la Lettera al padre e Preparativi di nozze in campagna di Kafka, Romanzo e mitologia di Thomas Mann e dello studioso di Storia delle religioni Kéreny, ma soprattutto Dèmoni e visio- ni notturne di Alfred Kubin, come si è visto un autore dal quale Bazlen era particolarmente affascinato. Debenedetti, inoltre, oltre ad occupar- si della scelta dei titoli e della cura delle edizioni, esercitava, attraverso la scrittura delle note editoriali che accompagnavano titoli come quel- li che si sono appena citati, «un vero e proprio intervento militante sul- l’idea di letteratura e di critica»203: un ruolo che Bazlen, anche di fronte

198 Michele Gulinucci, Debenedetti e “Il Saggiatore” in Giacomo Debenedetti, Preludi. Le note editoria- li alla “Biblioteca delle Silerchie”, a cura di Michele Gulinucci, introduzione di , Theoria, Roma, 1991, p. 22. 199 Ibidem. 200 Ibidem. 201 L’aspetto dell’influenza della figura di Bazlen su Giacomo Debenedetti si è già rilevato nel primo capitolo del presente lavoro. Si ricorda comunque che, da quanto emerge da opere biogra- fiche sul critico letterario, Bazlen avrebbe favorito in lui l’interessamento a discipline quali la psi- coanalisi o l’antropologia culturale, nonché ne avrebbe stimolato la lettura “di autori ancora da scoprire come Kafka”. Per una trattazione approfondita circa i rapporti fra i due intellettuali, si veda Paola Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Lecce, Manni, 2001, da cui sono tratte le notizie qui esposte. Si può inoltre aggiungere, a ulteriore testimonian- za di una fertile vicinanza culturale, l’indicazione di Bazlen fra i collaboratori di una rivista pro- gettata a Roma nel dopoguerra da Debenedetti e . Per quanto mai realizzata, essa comunque prevedeva la pubblicazione “di un saggio di Jung nella traduzione di Bobi Bazlen”. Cfr. Marcello Ciocchetti, Prima di piantare i datteri. Giacomo Debenedetti a Roma (1944-1945), Pesaro, Metauro edizioni, 2006, p. 61. 202 Michele Gulinucci, Debenedetti e “Il Saggiatore” in Giacomo Debenedetti, Preludi. Le note editoria- li alla “Biblioteca delle Silerchie” cit., p. 28.

247 all’eventuale attribuzione della direzione di una collana, avrebbe presu- mibilmente avuto difficoltà ad esercitare, vista la sua ritrosia di fronte alla scrittura ed al dialogo diretto con il pubblico dei lettori. Ad ogni modo, la sua proposta, che avrebbe dovuto “rispondere” appunto alla collana de Il Saggiatore, presumibilmente non convinceva del tutto Einaudi: il quale infatti, come risulta dalla lettera del 22 novembre 1959, chiedeva a Calvino una «controproposta»204, che potesse integra- re quanto delineato dal consulente triestino. Ad essa, peraltro, lo scrit- tore rispondeva solo in parte, rimarcando preliminarmente le difficol- tà nell’elaborare una propria proposta, «stando qui [a New York] iso- La profonda diversità tra lato, fuori da quella possibilità di verifica continua delle proprie idee Italo Calvino e Roberto 205 Bazlen. che è data dal lavoro in comune» , secondo un’idea dell’attività edito- riale molto diversa da quella di Bazlen, il quale lavorava lontano dalla casa editrice e cercava prevalentemente il dialogo con la sola persona di Foà. Posta questa puntualizzazione, che si univa alla difficoltà di esprimere un parere circa un progetto non ancora puntualmente for- mulato, lo scrittore esprimeva comunque un giudizio, il quale tuttavia sembra riguardare più la propria personale idea che non quanto Bazlen doveva avere in mente, soprattutto sul piano dei contenuti che la pro- gettata collana «antisilerchie» avrebbe dovuto veicolare. Accanto a tale aspetto, comunque, a segnare la distanza di vedute rispetto a Calvino è anche la differenza dei presupposti commerciali ed editoriali da cui quest’ultimo muove. Per fare un primo esempio, l’esordio del parere dello scrittore consiste, come si può leggere, nella messa in evidenza dell’estrema rilevanza, dal suo punto di vista, della delineazione di un pubblico ben determinato e della sua conseguente “fidelizzazione”: cosa che Bazlen non poteva fino in fondo condividere, visto il suo metodo consistente nella pre- sentazione quasi parallela di collane fra loro molto simili, se non ugua- li, a diversi editori. Al di là di questa osservazione, che probabilmente Calvino sollevava solo sulla base di proprie idee personali, è comunque importante sottolineare che egli dichiari esplicitamente di non avere pienamente inteso il senso della proposta di Bazlen all’interno del cata-

203 Alberto Cadioli, Letterati editori, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 145. 204 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (New York, 22 novembre 1959) in Italo Calvino, Lettere 1940-1985 cit., p. 617. 205 Ibidem. 248 logo einaudiano. Rispetto alla «Collezione grande», che evidentemente contava già qualche titolo, se Calvino la indica come «collana Beauvoir»206, egli infatti scrive:

Quanto alla collana Beauvoir la interpreto come necessità di sgan- ciare dai «Saggi» i volumi più letterari, al confine con la narrativa e nello stesso tempo incrementarne un po’ la produzione, dato che i «Saggi» sono sovraccarichi. Ho capito il punto? Neanche così l’iniziativa mi riesce chiara, anche perché non ne vedo le caratteri- stiche editoriali: saranno libri più agili, che costino meno? [...]. O saranno libri rilegati che vogliono porsi su un piano di eleganza ancora maggiore dei «Supercoralli»? In questo caso dovrebbe essere una scelta molto ristretta, ma insomma sarebbero dei «Saggi» strenna un po’ diversi dagli altri207.

Ad essere evidenziate, infatti, sono le fumose «caratteristiche editoria- li» della «Collezione grande», ma presumibilmente anche di quella «pic- cola», rispetto alle quali, in effetti, Bazlen non farà alcuna menzione nemmeno al momento di una più precisa descrizione di quanto aveva in mente: nella sua lettera del 19 dicembre 1959, nella quale sono riportati gli elenchi di opere che avrebbero dovuto comporre le due collane, le uniche informazioni che si possono leggere in proposito riguardano infatti la distinzione tra le dimensioni dei volumi che si sarebbero dovuti pubblicare, dunque risultano sostanzialmente incom- plete. La considerazione di quanto egli aveva pensato per Bocca, tutta- via, permette di inferire che, delle due ipotesi considerate da Calvino, la seconda, relativa cioè alla presentazione dei volumi su un piano di «eleganza», fosse quella corretta. Oltre a questi aspetti, appare anche chiaro che Calvino sembra percepire, al di là della propria comprensio- ne del progetto, il fatto che l’idea originaria relativa alla «Collezione grande» sia diversa da quanto lui stesso evidentemente auspica, essen- do secondo lui volta alla pubblicazione di testi «letterari, al confine con la narrativa»: una connotazione che a Bazlen in realtà non doveva risul- tare gradita, viste le sue opinioni circa la letteratura e le sue capacità di vera rappresentazione della vita, che lo conducevano in una direzione in buona parte estranea alla narrativa.

206 Ibidem. 207 Ibidem.

249 Al di là della più o meno corretta interpretazione del progetto da parte di Calvino, comunque, è possibile rilevare come quella che egli inter- preta come una collana legata alla presentazione di testi letterari non risponda alla propria volontà di varare una collana che prima di tutto si caratterizzi per il suo carattere «antisilerchie»: tale ruolo, secondo Calvino, sarebbe al contrario assolto da «una collana (o un’antologia) di morale dell’uomo moderno, di testi che esemplifichino nella vita e nella morale pratica tutto ciò che serve all’uomo moderno per dirsi completo e che l’ideologia o l’organizzazione non gli dà o gli nega»208. Tale definizione, tuttavia, è annoverata dallo scrittore fra quelle che lui definisce le «linee generali»209 che egli sta «maturando da tempo»210, puntualizzando comunque di non essere «ancora al punto di sfornare un piano editoriale orientato in questo senso»211. Per quanto dunque l’idea da lui presentata sia per sua stessa ammissione tanto vaga quan- to quella di Bazlen, appare con una certa evidenza il fatto che la con- cezione di Calvino della collana «antisilerchie» che si andava progettan- do sia improntata ad un’impostazione presumibilmente saggistica, o comunque lontana da quelli che lui definisce come «sconfinamenti spi- ritualistici», dai quali l’editore si sarebbe dovuto guardare. Il pensiero di Bazlen, che comunque muoveva da una simile constatazione di un’incompletezza e di un disorientamento dell’uomo moderno, non poteva tuttavia che distanziarsi da quanto Calvino espone nella sua let- tera. Il suo progetto relativo alla costituzione di una «Collezione picco- la» e di una «grande», infatti, era il frutto di un percorso personale, por- tato avanti indipendentemente attraverso la collaborazione con diversi editori: un progetto che sin da una lettera non datata, ma risalente al maggio del 1959, egli aveva definito, parlando di Edward Dahlberg, dunque uno degli autori che entrerà a fare parte della «Collezione pic- cola», come «quella collezione di esperienze dirette che non si farà mai»212, nel quale egli avrebbe incluso lo scrittore «senza esitazioni»213. Bazlen, dunque, sembra marcare le distanze tanto dal campo letterario,

208 Ibidem. 209 Ibidem. 210 Ibidem. 211 Ibidem. 212 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, s.d. 213 Ibidem.

250 quanto da quello di una trattazione teorica di un problema che Calvino definisce come «morale». Questa differenza, apparentemente solo ter- minologica, ma in realtà sostanziale anche solo in sede dell’abbozzo teorico del progetto, costituì forse un elemento non irrilevante rispet- to al suo accantonamento: anche se è bene sottolineare che Calvino, al di là delle diffidenze che segnano il suo parere, si mostra decisamente aperto alla discussione del progetto, nel momento in cui chiede all’edi- tore: «perché non mi fai mandare un primo abbozzo di piano di Bobi? Io faccio le mie osservazioni e questo mi permette di formulare delle controproposte»214. Questa disponibilità, tuttavia, non troverà in Bazlen una risposta del tutto adeguata, ulteriore elemento che proba- bilmente favorì il fallimento del progetto. Da quanto si può leggere nel carteggio con Foà, infatti, nelle settima- ne immediatamente successive alla lettera di Calvino, Bazlen non pre- senterà quel piano organico che lo scrittore aveva richiesto, inviando al contrario nient’altro che un elenco di opere, privo di un commento e di un’esposizione dei presupposti teorici e commerciali che avrebbero potuto chiarire i suoi dubbi. Nella lettera del 19 dicembre 1959, nella quale come si è visto egli presenta i titoli che dovrebbero costituire la «Collezione grande» e la «Collezione piccola», non si trova alcuna allu- sione ai pareri di Calvino, né alcun inquadramento del proprio proget- to all’interno del catalogo einaudiano. È comunque bene puntualizza- re il fatto che probabilmente il parere che Calvino aveva inviato da New York non era stato sottoposto a Bazlen, il quale in effetti, sia in occasione della presentazione dei titoli, sia nelle settimane successive, sembra proseguire il proprio lavoro prescindendo completamente da quanto Calvino aveva osservato da New York: a dimostrarlo è ad esempio la proposta, dieci giorno dopo l’invio degli elenchi dei titoli per le due collezioni, di pubblicare nella «Collezione piccola» The blind Owl215, romanzo dello scrittore iraniano Sadègh Hedayàt che Bazlen, come si è visto, apprezzava molto per la sua naturalezza e paragonava all’opera di Kafka: il parere che nel marzo del 1960216 egli invierà ad Einaudi a proposito di quest’opera, tuttavia, non contiene alcuna for-

214 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (New York, 22 novembre 1959) in Italo Calvino, Lettere 1940-1985 cit., p. 617. 215 Si veda a questo proposito: Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamen- to Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 29 dicembre 1959. 216 Il parere relativo a The blind owl, già citato in questa sede, si trova pubblicato nella raccolta degli

251 mulazione più articolata del progetto, né tantomeno alcuna allusione alle ragioni per cui essa dovrebbe esservi inclusa. Tuttavia è bene rile- vare anche il fatto che, se Bazlen non mostra di avere recepito gli sti- moli a una migliore delineazione del progetto che gli arrivavano da Calvino, quest’ultimo porta avanti il proprio tentativo di costruire un dibattito in proposito, in seguito anche all’aver potuto, nel frattempo, vedere l’insieme di testi che Bazlen aveva presentato all’editore: cosa che lo porta, il 18 gennaio 1960, a rivolgersi nuovamente a Giulio Einaudi, in una lettera che espone più approfonditamente le sue osser- vazioni. In questo caso, inoltre, la lettera di Calvino viene mostrata a Bazlen, come quella che Foà gli scrive il 12 febbraio 1960 dimostra chiaramente:

intanto ti mando il «responso» di Calvino a Einaudi che gli aveva chiesto cosa pensava della collana autobiografica. A parte l’inizio, che troverai sconcertante, mi pare che ci sia dentro tutto e che, anzi, costituisca una fusione tra la collana piccola e quella grande217.

Le parole di Luciano Foà che si sono appena citate permettono di osservare preliminarmente come all’interno della casa editrice, sia attraverso il pensiero di Calvino, sia attraverso quello di Giulio Einaudi, si stesse tentando una «fusione» delle due collane che Bazlen aveva pensato, collocandole nel loro insieme sotto la definizione di «collana autobiografica»: una proposta che in sé e per sé, si può imma- ginare, il consulente triestino non avrebbe avuto ragioni per disappro- vare, ma che, forse nascendo da una non del tutto corretta interpreta- zione della sua idea, lo porterà sostanzialmente a disapprovare il pare- re di Calvino, come si avrà modo di vedere. Quest’aspetto, comunque, non toglie che, alla luce di quanto si è osservato in questa sede, alcuni elementi dei pareri espressi dallo scrittore appaiano pienamente giusti- ficati. Egli infatti così si pronuncia, in primo luogo, circa la «Collezione piccola»:

Mi è difficile fare una critica argomentata all’elenco di Bazlen, dato che molti

Scritti di Bazlen. Si veda Roberto Bazlen, Scritti cit., pp. 290-292. 217 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 12 febbraio 1960.

252 di quei titoli non li conosco neanche di nome. Il mio parere è che è troppo letteraria, che ci vedrei anche testi d’interesse storico, memorie tipo Venturi che lì troverebbero il loro esito: ma insom- ma quello che mi interesserebbe è vedere una linea di ricerca, mentre qui siamo su un terreno di gusto, così come sempre a gusto e a caso si sono fatte le collane di questo genere218.

Calvino, dunque, torna a rilevare, all’interno della proposta di Bazlen, quella componente letteraria che in realtà egli per molti aspetti rigetta- va, sia attraverso la propria scelta di non scrivere, sia per quanto riguar- da la formulazione dei criteri che lo guidavano nella scelta dei titoli da proporre in quanto consulente editoriale: criteri che, come si è visto, rispetto alla collana che stava progettando già nel maggio del 1959 lo avevano portato a parlare di testi che presentassero al lettore non rie- laborazioni letterarie, ma «esperienze dirette»219. Accanto a questo, Calvino tuttavia tocca un punto che innegabilmente, nel bene e nel male, caratterizza l’operato editoriale di Bazlen, ovvero il tendenziale ossequio prima di tutto alle ragioni del proprio gusto personale. Questo aspetto, che egli stesso comunque si attribuiva220, comportava in effetti, come si è più volte rilevato in questa sede, il rendersi vago di quella «linea di ricerca» che Bazlen sicuramente aveva presente, ma che appunto non di rado tendeva sostanzialmente a smentire. A quest’ulti- mo proposito, si è ad esempio considerato come i titoli che compon- gono la «Collezione piccola» spesso non risultino del tutto coerenti fra loro, presentando come si è visto racconti e alcuni romanzi (dunque quel versante «letterario» che Calvino rilevava), nonché una serie di opere saggistiche alle quali è difficile attribuire l’etichetta di «esperienze dirette». Di fronte a questa, comunque parziale, incoerenza di Bazlen, è comunque rilevante il fatto che la mancata conoscenza di alcuni titoli

218 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (Chicago, 18 gennaio 1960) in Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Milano, Arnoldo Mondadori, 2000, p. 636. 219 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, maggio 1959. 220 In una lettera risalente al 9 marzo 1960, che si è già citata in questa sede, Bazlen infatti chiari- sce esplicitamente, a proposito di una lunga serie di libri sui quali si accinge ad esprimere un pare- re, che “la mia norma e il mio argomento più valido sono il gusto e la compartecipazione con i quali li ho letti” Cfr. Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 9 marzo 1960.

253 da parte di Calvino poteva in effetti impedirgli di cogliere l’aspetto anche storico che caratterizzava alcune delle proposte per la «Collezione piccola», come nel caso, per fare un solo esempio, di La fine. Amburgo 1943, di Hans Erich Nossack, le cui caratteristiche di memo- ria di un preciso fatto storico si sono già analizzate in questa sede. Oltre agli aspetti visti fino ad ora, che da soli formano una critica non irrilevante alla proposta di Bazlen, Calvino sembra poi individuare diversi altri punti che a suo parere indeboliscono il progetto relativo alla «Collezione piccola». In primo luogo, infatti, egli pone l’accento sulla godibilità che deve caratterizzare il testo, sia nel caso del proget- to di Bazlen, sia nel caso di quelle «idee generali» riguardo a «come io vedrei la coll. piccola»221, che lo scrittore allegherà alla propria lettera a Giulio Einaudi. Rispetto a entrambe le proposte, infatti, egli scrive

ben mi rendevo conto [...] che una collana così dev’essere fatta tutta di titoli, titoli attraenti, libri subito da leggere: e io primo non ho una valanga di titoli da contrapporre o amalgamare a quella di BB [Bobi Bazlen], secondo c’è il problema di fare una collana divertente, tutta di titoli vivi, il che partendo da criteri generali è più difficile222.

La volontà di presentare «titoli vivi» aveva sicuramente caratterizzato anche la proposta di Bazlen, nel momento in cui in calce all’elenco di opere per la «Collezione piccola» specificava la possibilità di includer- vi «testi da pubblicarsi presto per ragioni di attualità, [...] nuovi libri scoperti»223. Nel caso di Calvino, tuttavia, essa sembra trovare una ragione anche commerciale, che nello sviluppo del proprio discorso lo scrittore chiama apertamente in causa. Egli, infatti, puntualizza che «in America [...] c’è un criterio di mercato che guida, e ogni titolo dev’es- sere capace di vendere [...], quindi anche se è una cosa preziosa deve essere o di un autore classico o rispondere a un interesse vivo»224: un’af- fermazione che mostra l’implicita convinzione, in qualche modo ricol-

221 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (Chicago, 18 gennaio 1960) in Italo Calvino, Lettere 1940-1985 cit., p. 636. 222 Ibidem. 223 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 224 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (Chicago, 18 gennaio 1960) in Italo Calvino, Lettere 1940-1985 cit., p. 636.

254 legabile alla prospettiva «antisilerchie»225 che aveva caratterizzato le prime mosse della sua critica, che la «Collezione piccola», così come La complessità delle proposte di Bazlen. era stata formulata, non avrebbe incontrato successo di pubblico, dun- que nemmeno buoni risultati commerciali. I testi che Bazlen aveva proposto, in effetti, si caratterizzavano in molti casi per una ricercatez- za e una probabile complessità che appaiono difficilmente apprezzabi- li dal grande pubblico. Si può, tuttavia, anche riflettere sul fatto che molte di quelle stesse opere, insieme a numerose altre di quelle amate da Bazlen, saranno accolte dagli anni Sessanta nel catalogo di casa Adelphi: la sua proposta, spesso considerata appunto «snob e ultraso- fisticata»226, come lo stesso Roberto Calasso mette in evidenza in un’in- tervista, d’altro canto riuscirà a realizzare proprio quel successo com- merciale che Calvino auspicava, ma che non vedeva realizzabile trami- te i titoli della «Collezione piccola». È invece «grazie al successo com- merciale»227, come osserva ancora Calasso, «che [noi di Adelphi] abbia- mo potuto fare scelte a cui altrimenti avremmo dovuto rinunciare, come per esempio la creazione della Biblioteca orientale»228. Resta da osservare che Calvino, una volta mosse a Bazlen le critiche fino ad ora considerate, allega alla propria lettera quelle «contropropo- ste»229 che aveva promesso a Giulio Einaudi già nel novembre del 1959, presentate con il titolo di Appunti e idee generali per una piccola collezione di testi di ricerca morale per l’uomo moderno230. Rispetto ad esse, Calvino nella propria lettera afferma che si tratta di «qualche idea di come vedrei io la coll. piccola»231: una presentazione che permette di vedere come con i suoi Appunti egli di fatto supplisca a quanto era mancato da parte di Bazlen, ovvero appunto un testo che tracciasse i lineamenti teorici della collana e chiarisse il criterio in base al quale i titoli erano stati scel- ti. Criteri che, per quanto egli li definisca come semplici «idee genera- li», mostrano in realtà un alto livello di «lucidità» e sistematizzazione:

225 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (New York, 22 novembre 1959) in Ivi, p. 617. 226 Pierluigi Battista, Meglio soli che in poltiglia. Intervista con Roberto Calasso, in “Panorama”, 19 dicem- bre 1996, p. 193. 227 Ibidem. 228 Ibidem. Alla luce di quanto si è visto fino ad ora, non appare improprio vedere in una propo- sta come la “Biblioteca orientale” un’ulteriore traccia dell’eredità lasciata da Bazlen ad Adelphi. 229 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (New York, 22 novembre 1959), in Ivi, p. 617. 230 Lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi (New York, 22 novembre 1959) in Ivi, p. 621. 231 Ivi, p. 636.

255 La caratteristica della collana dovrebbe essere nel far scaturire le linee d’una morale dall’attività pratica, dal fare tecnico ed econo- mico, dalla produzione, dal lavoro insomma (e nel lavoro rientra l’organizzazione del lavoro). Ma esistono, dei libri di questo tipo? Io credo che basti riesaminare con questo occhio i testi minori delle varie letterature e se ne possono trovare di bellissimi232.

Il passo che si è appena citato costituisce l’apertura dell’appunto di Calvino, definita da Foà, nel momento in cui presenta il testo a Bazlen, come «sconcertante»233: lo stesso aggettivo, peraltro, è utilizzato dal consulente triestino nel momento in cui, in una lettera di qualche gior- no successiva, egli commenta quanto gli è stato sottoposto. «Ho dato una rapida occhiata al promemoria di Calvino. Per me un po’ sconcer- tante, considerando che, se dovessi formulare «lo scopo» delle due col- lezioni, direi che è quello di abolire il termine di “morale”»234. Come si è accennato, con queste parole, per la verità, Bazlen rimarca la propria distanza dallo scritto di Calvino non solo relativamente al suo incipit, ma da un punto di vista molto più generale, ovvero riguardante l’im- postazione teorica che nella sua idea sarebbe dovuta sottostare alle «due collezioni». Alla luce di quanto si è visto fino ad ora, non è diffi- cile comprendere come a Bazlen potesse risultare estranea, se non sgradita, qualsiasi formulazione di valori condivisi da un’ampia comu- nità di persone: cosa che lo portava ad essere «disincantato, libero da ogni remora»235, e ad elaborare valori, letterari ma non solo, collocati sul confine del completo disimpegno, «che non avevano riscontri nell’Italia di allora»236, e tanto meno in un intellettuale come Calvino. Anche solo dalla «sconcertante» apertura dei suoi Appunti, infatti, emerge con una certa chiarezza il fatto che quest’ultimo intendesse attribuire alla collana un’accezione anche politica, se così la si può defi- nire, ravvisabile nella volontà di parlare di «organizzazione del lavo-

232 Italo Calvino, Saggi, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Milano, Arnoldo Mondadori, 2000, p. 1705. 233 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 12 febbraio 1960. 234 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 15 febbraio 1960. 235 Rolando Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro cit., p. 73. 236 Ibidem.

256 ro»237 e di proporre, ad esempio, «memorie di testimonianza economi- ca»238, ovvero legate ai mestieri, per poi «arrivare all’industria moderna, magari per concludere che non c’è niente, e già questo sarebbe un risultato, l’indicazione d’una lacuna»239. La prospettiva di Calvino appa- re dunque per molti aspetti quella di un «intellettuale impegnato»240, come Giulio Bollati afferma in un intervento appunto sul suo lavoro editoriale, e come non è difficile affermare anche solo sulla base del- l’ideazione di una collana esplicitamente indicata come «di ricerca mora- le»: una definizione, quest’ultima, che tradisce quella «passione di rin- novamento»241 che Bollati sottolinea a proposito della sua figura. A tutto questo fa da riscontro in Bazlen un atteggiamento spesso improntato alla diffidenza, se non addirittura all’aperta avversione: o ancora, nel caso specifico del suo rapporto con lo scrittore, a un vela- to sarcasmo. È difficile, ad esempio, vedere come del tutto casuale il fatto che, nel suo parere, indirizzato proprio all’autore de Il sentiero dei nidi di ragno, circa il romanzo dello scrittore indiano V.S. Naipaul A house for Mr Biswas, Bazlen scriva che «non è un caso neorealisticamen- te pietoso»242. La distanza ideologica che allontanava Bazlen da Calvino, o in genera- le da molte figure interne alla casa editrice, è d’altronde rilevata aper- tamente da Foà, che in un’intervista già citata in questa sede afferma che i pareri del consulente triestino «erano sempre visti in [una] tem- perie diciamo marx-sociologica»243 e conseguentemente, spesso, «bloc- cati»244. È però importante osservare che se da un lato il tipo di orien- tamento che guidava i due intellettuali nella stesura dei loro progetti era molto diverso, dall’altro i problemi che essi affrontavano erano al contrario affini: il che determina il fatto che sia comunque possibile rilevare alcuni punti di contatto del «promemoria»245 di Calvino con il

237 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1705. 238 Ibidem. 239 Ibidem. 240 Giulio Bollati, Calvino editore in Calvino & l’editoria, a cura di Luca Clerici e Bruno Falcetto, Milano, Marcos y Marcos, 1993, p. 8. 241 Ivi, p. 5. 242 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Italo Calvino, 21 febbraio 1960. 243 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 244 Ibidem. 245 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 15 febbraio 1960.

257 pensiero di Bazlen. Nella «ripugnanza per l’invivibilità del presente»246, una formula che Giulio Bollati cita da un saggio di Calvino per rileva- re appunto un problematico rapporto con la realtà, non è forse impro- prio ravvisare, infatti, quel disagio che in Bazlen si traduceva nelle affermazioni circa l’impossibilità di scrivere libri, e di costruire una proficua corrispondenza, per così dire, fra lo scrivere e il vivere. La constatazione di una problematicità profonda nel rapporto con il pre- sente, poi, nel caso di Calvino si congiungeva alla vita della casa editri- ce cui egli era strettamente legato: vale a dire che, di fronte alla consta- tazione del fatto che «la società va verso la complessità»247, e nel diffi- cile tentativo di fornire al lettore gli strumenti adeguati per affrontarla, l’intera casa Einaudi vive

un periodo di opacità tra i secondi anni cinquanta e i primi sessan- ta, mentre case editrici milanesi che hanno radici in una cultura più pragmatica si aprono più facilmente alle nuove scienze (Il Saggiatore) o alla sperimentazione spregiudicata dei limiti (Feltrinelli)248.

Il varo da parte de Il Saggiatore della «Biblioteca delle Silerchie», dun- que, è indicato anche da Bollati come un aspetto di problematicità per la casa editrice Einaudi: ed è appunto a questa iniziativa editoriale che Calvino aveva originariamente risposto nella sua ideazione della colla- na di «ricerca morale»249, presentata poi in alcuni Appunti organizzati in base a una strutturazione e ad una concettualizzazione molto precisa. Dopo la proposta di considerare «testi minori delle varie letterature»250, che presumibilmente incontrava il pieno consenso di Bazlen, Calvino infatti delinea una serie di temi generali che vorrebbe vedere trattati nei libri della collana, e che in alcuni casi corrispondono precisamente alle opere che Bazlen aveva annoverato negli elenchi relativi alla «Collezione grande» e quella «piccola»: è questo il caso delle già citate

246 Giulio Bollati, Calvino editore in Calvino & l’editoria cit., p. 12. La citazione di Calvino è tratta da Bollati da La letteratura come proiezione del desiderio (Per l’Anatomia della critica di Northrop Frye) in Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980. 247 Giulio Bollati, Calvino editore cit., p. 11. 248 Ibidem. 249 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1705. 250 Ibidem.

258 «memorie», ampiamente rappresentate nel programma di Bazlen, anche se ad esse Calvino attribuisce la connotazione più specifica di «testimonianza economica»251, scritte da «chiunque abbia fatto un mestiere con passione e competenza»252. Le memorie proposte dallo scrittore, infatti, sono da lui collocate sotto il primo dei temi generali che egli elenca, ovvero la «morale del fare»253: in essa, peraltro, non è improprio vedere quella che Bollati definisce una «religione del lavoro, inteso come razionalità costruttiva e come dovere»254, che appunto non a caso costituisce «la base più sicura dell’impegno di Calvino»255. Allo stesso modo, alla categoria della «morale del fare» è ascritta anche la pro- posta di «trattati»256 che «si fondino su una ragione poetica e morale»257, fra i quali Calvino annovera «quei libri orientali (giapponesi) che tra- mandano le regole di qualsiasi arte elementare»258: l’interesse per l’Oriente, dunque, è condiviso anche dallo scrittore, il quale però espli- citamente dichiara di voler valorizzare i testi da esso provenienti per il «loro giusto carattere di etica immanentistica»259, dunque in chiara opposizione agli «sconfinamenti spiritualistici»260 che egli aveva sin da subito dichiarato di volere evitare. Se la prospettiva di Calvino era con- divisa dall’intera casa editrice, non è peraltro improbabile che in pro- poste di Bazlen quali «Ramakrishna, Prophet of New India (appunti di un discepolo sul R. [Ramakrishna]»261 fosse visto appunto uno «spiri- tualismo» eccessivo, d’altronde a suo tempo in qualche modo anticipa- to dalle «accuse di irrazionalismo mosse al Pavese etnologo e indaga- tore del mito»262. Trattando del «confronto con la natura»263, riportato subito di seguito alla «morale del fare», Calvino riesce invece (è difficile dire quanto consa-

251 Ibidem. 252 Ibidem. 253 Ibidem. 254 Giulio Bollati, Calvino editore cit., p. 8. 255 Ibidem. 256 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1705. 257 Ibidem. 258 Ibidem. 259 Ibidem. 260 Italo Calvino, Lettere 1940 - 1985 cit., p. 617. 261 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 262 Giulio Bollati, Calvino editore cit., p. 9. 263 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1706.

259 pevolmente) a fornire un valido puntello teorico ai vari resoconti di viaggi ed esplorazioni, che come si è visto Bazlen aveva incluso nelle collane proposte tanto ad Einaudi quanto agli editori con i quali aveva precedentemente collaborato. Secondo Calvino, infatti, il rapporto con la natura è «la situazione da cui prende le mosse il fare umano»264, di modo che diviene per lui opportuna la messa in rilievo, attraverso la loro pubblicazione nella collana, della «ricchezza poetica e morale che avranno sempre le testimonianze degli esploratori, di chiunque si trova a lot- tare con la natura»265; tale ricchezza, indirettamente rilevata anche da Bazlen con proposte quali Au pays des Tarahumeras di Artaud e Kablouna di Gontrand de Poncins, è peraltro tale da costituire un insieme di testi vivi, «da leggere subito, non da conservare tra i classici»266. Un’osservazione, quest’ultima, che sembra essere in accordo con la precedenza che Bazlen tendeva a dare a testi «nuovi», non rientranti nel canone dei classici: fermo restando il fatto che la «vitalità» che Calvino riscontrava nei resoconti degli esploratori poggiava sempre su un piano valoriale ben preciso, nel momento in cui egli osservava che «il criterio dev’essere fisso all’attualità della morale del limite umano»267. La medesima ottica lo guidava poi nell’esposizione circa due nuove com- ponenti della collana da lui immaginata, ovvero «la morale della ricerca (libri di scienziati)»268 e quella «dell’agire storico»269, rispetto alle quali, pre- sumibilmente, Bazlen percepiva una minore affinità: se infatti è indub- bio l’interesse che egli dedicò, sia sul piano delle traduzioni sia su quel- lo delle proposte editoriali, ad ambiti scientifici nuovi come la psicolo- gia analitica e la psicoanalisi (che lo stesso Calvino prendeva in consi- derazione proponendo «qualche operetta esemplare di Freud»270) è altamente improbabile che vedesse in essi una «via di conoscenza tota- le, [una] reintegrazione di un umanesimo completo»271, vista la sua sostanziale diffidenza verso qualsiasi chiave di lettura della realtà che si pretendesse completa272. Allo stesso modo, si può immaginare che

264 Ibidem. 265 Ibidem. 266 Ibidem. 267 Ibidem. 268 Ibidem. 269 Ivi, p. 1707. 270 Ibidem. 271 Ibidem. 272 A questo proposito, si può ricordare l’aforisma delle Note senza testo, che si è citato nel primo

260 Bazlen non sentisse con particolare urgenza il tema della «morale del- l’agire storico»: è lo stesso Calvino a rilevarlo, nel momento in cui, in un articolo dedicato appunto alla figura del suo collega triestino, ricorda fra i suoi interessi «tutto ciò che non erano lo storicismo, lo hegelismo, l’etico politico dominanti nella cultura italiana (in quella ufficiale come in quella di opposizione)»273. In effetti, al di là delle categorie che Calvino elenca nel suo articolo, non è difficile vedere la distanza che separava la sua concezione circa il fatto che «l’uomo non passivo verso la storia è quello più idoneo oggi a esprimere un’etica legata al fare»274 e la visione di Bazlen: il quale, nelle Note senza testo, definisce la «parte storica in noi»275 come «la più caduca, la più ctonia, la meno cristalliz- zata»276, in quella che appare quasi come una contrapposizione fra la realizzazione personale di un individuo e la sua partecipazione allo svolgersi della storia: «più ci realizziamo in pieno, meno disponibilità abbiamo per la “storia”»277. Tale visione, molto più individualistica e disimpegnata di quella che guidava Calvino, non toglieva comunque il fatto che anche Bazlen potesse vedere un aspetto di interesse, almeno a livello di proposta editoriale, in quelle che lo scrittore definisce come «testimonianze di rivoluzionari» (rappresentate nel programma della «Collezione grande» dalle memorie di Vera Figner) e «testimonianze sul- l’etica del potere» (nelle quali non è improprio vedere proposte quali la biografia di Lincoln, sempre nella «Collezione grande»). Del resto, lo stesso Calvino mostrava di voler immettere nella «collana di ricerca morale» una serie di testi maggiormente legati al singolo ed alla vita personale, rappresentati dalle tematiche della «morale dell’eros e dell’amo- re» (che nel suo proporre «testi di varia esemplificazione del rapporto amoroso»278 non sembra trovare riscontri in quanto Bazlen aveva pro- posto per le sue collane) e la molto vaga «persona umana», ovvero una sezione della collana che avrebbe dovuto includere testi che potessero proporre risposte alla domanda così formulata da Calvino:

capitolo del presente lavoro, nel quale Bazlen denunciava il fatto che “l’àncora dell’umanesimo è affondata”. Cfr. Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 220. 273 Calvino, La psiche e la pancia, in “La Repubblica”, 1 giugno 1983, p. 20. 274 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1707. 275 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 200. 276 Ibidem. 277 Ibidem. 278 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1708.

261 si può esprimere un valore umano esemplare non in rapporto a particolari cose che si fanno, a partcl. stuaz. [particolari situazioni] in cui ci si trova, ma solo per un particolare modo di vivere la pro- pria vita, di usare l’esperienza stessa come mezzo di espressione?279

Nelle parole che si sono appena citate, si può vedere uno dei punti di maggiore vicinanza fra gli «Appunti» di Calvino e le collezioni pensa- te da Bazlen in base a precise posizioni teoriche: quanto egli intende- va sotto l’indicazione della «primavoltità»280 come «unico valore»281, infatti, consisteva appunto tanto in una «minuscola invenzione, un gesto rapido»282, quanto nel più ampio significato che l’intera esperien- za di una persona, fosse essa un personaggio storico, uno scrittore, o anche semplicemente se stesso, poteva veicolare. Si sono già indicati, in questa sede, diversi esempi di tale primato dell’esperienza persona- le nel sistema di valori e nelle scelte editoriali di Bazlen: è però oppor- tuno, a questo punto, sottolineare come esso trovasse un riscontro anche nella riflessione di un intellettuale in realtà profondamente distante da molte delle sue posizioni, cosa che però non impediva una parziale convergenza in sede di scelte editoriali. Anche Calvino, infat- ti, indica l’«esperienza religiosa della propria interiorità»283 come fonda- mentale nella «persona umana», cosa che lo porta a proporre «la lettera- tura dell’interiorità laica e moderna»284: un aspetto che, certo con alcu- ne differenze d’impostazione, si trova comunque rappresentato nelle proposte di Bazlen per le sue collezioni, come ad esempio il caso dell’«autobiografia di un pellegrino russo»285, e molti dei titoli proposti per la collana «Mondi e destini» e la «Collana letteraria» delle Nuove Edizioni Ivrea, possono dimostrare. Allo stesso modo, se Calvino pro- pone, sempre nel generale ambito della «persona umana», testi che ne raccontino «l’educazione»286, intesa come «memorie di educatori o di giovinezza o racconti che possano valere a dare un’idea moderna di

279 Ibidem. 280 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 230. 281 Ibidem. 282 Roberto Calasso, Da un punto vuoto in Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 20. 283 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1708. 284 Ibidem. 285 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 286 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1708

262 pedagogia in senso lato»287, dal canto suo Bazlen indica, nel program- ma presentato il 19 dicembre 1959, titoli come Father and son di Edmund Gosse, Mine haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle di Frank Wedekind ed infine The education of Henry Adams. Titoli che, nel loro insieme, indicano la volontà, sebbene non esplicitata chiaramente come nel caso di Calvino, di fornire stimoli di riflessione circa la gio- ventù e l’educazione della persona. Pur nella sostanziale differenza di vedute circa il varo di una collana esplicitamente connotata in senso morale, che si manifestava poi nella divergenza su singoli punti288, non è dunque infrequente il caso di uno sviluppo ed un approfondimento teorico, da parte di Calvino, di quan- to Bazlen aveva in un certo senso solo accennato, tramite l’immissione di determinati titoli nelle sue proposte per l’editore Einaudi. Ne conse- gue la parziale sovrapponibilità di alcune posizioni dei due intellettuali, rilevabile chiaramente nell’ultimo punto del programma stilato da Calvino, che appunto nel suo insieme racchiude alcune di quelle che si sono viste essere le idee fondamentali di Bazlen. Lo scrittore, infatti, chiude il proprio catalogo «morale» chiamando in causa un tema molto ampio, indicato come «Poesia e arte»289, rispetto al quale, con la preci- sione che si è già posta in evidenza, egli preliminarmente puntualizza che «lo metto all’ultimo perché naturalmente è il polmone della collana e tende a sovrastare tutto, se non si tengono delle rigide proporzioni»290: le sue affermazioni, peraltro, ottengono anche il risultato di dare mag- giore organicità alle posizioni di Bazlen, come risulta evidente dalla puntualizzazione circa il fatto di voler «fare una collana orientata e non una delle solite universali, decisa su criteri di puro gusto»291. a) la conoscenza poetica di se stessi, cioè i testi diaristici, psicologici, intimi, moralistici di scrittori o poeti nonché gli epistolari. b) la morale del fare poetico: e qui c’è la miniera degli scritti degli scrittori e artisti sul proprio mestiere [...];

287 Ibidem. 288 Per fare un ultimo esempio, si può presupporre che la proposta da parte di Calvino, avanzata subito di seguito a quella relativa alla “persona umana”, di una sezione relativa alla “morale pra- tica del filosofo”, per la quale lo scrittore pensava agli “scritti di morale o vita pratica di Croce”, non incontrasse l’approvazione di Bazlen. 289 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1708. 290 Ibidem. 291 Ibidem.

263 c) la poesia è morale di per sé: e così possiamo far entrare nella collana anche opere creative minori, trouvailles preziose ecc.; basta salvare il senso delle proporzioni; d) la poesia come prima voce umana: e lì ci mettiamo tutte le testimonianze di persone del popolo, fiabe popolari, la poesia primitiva ecc. ecc. là dove poesia religione morale sono ancora tutt’uno292.

Non è difficile percepire come diversi elementi dei punti sviluppati da Calvino tocchino da vicino il personale sentire di Bazlen. Si è infatti cercato di mostrare nei precedenti capitoli come la frequentissima pro- posta, da parte sua, di autobiografie, epistolari, scritti memorialistici, di scrittori ma non solo, fosse il risultato della constatazione della perdi- ta di una felice corrispondenza fra la “poesia” e la “vita”: tale consta- tazione lo conduceva appunto alla valorizzazione estrema del secondo polo, per esempio attraverso la ricerca, in ambito letterario, di «valori intrinseci di autenticità e verità, tralasciando ben più vaste problemati- che di ambito critico-culturale»293. La scelta di Bazlen, tuttavia, si trova espressa frammentariamente nelle Note senza testo e metaforicamente ne Il capitano di lungo corso, ma comunque mai tramite una sistematica trattazione teorica, cosa che spesso impedisce di vederne le ragioni e le connessioni più profonde. È per questo motivo che Calvino, indican- do testi quali «testimonianze di persone del popolo, fiabe popolari, la poesia primitiva»294 come rappresentativi della condizione «dove poesia religione morale sono ancora tutt’uno»295, riesce ad illuminare un’altra possibile ragione di interesse, da parte di Bazlen, appunto verso quel tipo di opere. Se si considera infatti come, almeno rispetto alla proget- tata collana einaudiana, lo scrittore privilegiasse una condizione della morale «pratica», dunque concreta e fattiva, si può comprendere come egli nella poesia primitiva vedesse appunto la corrispondenza fra “vita” e “poesia” che Bazlen non trovava più nella letteratura dell’età contem- poranea: in tal modo scelte presenti e passate, come la «vita della con- tadina raccontata a Tolstoj»296 e la Poesia dei popoli primitivi di Eckart von

292 Ivi, p. 1709. 293 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 22. 294 Italo Calvino, Saggi cit., p. 1709. 295 Ibidem. 296 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959.

264 Sydow297, pubblicata nella «Fenice» di Guanda nel 1951, si possono spiegare anche con gli «appunti» di Calvino, oltre le già rilevate «spin- te» che la psicologia analitica junghiana e l’antropologia avevano eser- citato in direzione di quel tipo di opere. Alla luce di quanto si è fino ad ora osservato circa gli «Appunti e idee generali per una piccola collezione di testi di ricerca morale per l’uomo moderno»298, non è difficile comprendere perché Luciano Foà, nel presentarli a Bazlen, osservi come essi costituiscano «una fusione fra la collana pic- cola e quella grande»299: le osservazioni dello scrittore, infatti, per la sistematicità con cui sono esposte, ma soprattutto per il fatto di inte- grare allusivamente testi che facevano parte sia della «Collezione gran- de», sia di quella «piccola», paiono smentire le sue precisazioni, espo- ste nel titolo del proprio appunto e nelle lettere a Giulio Einaudi, circa il fatto di riferirsi unicamente alla seconda. L’assenza di particolari cri- tiche rispetto alla «Collezione grande», d’altra parte, è da Calvino stes- so spiegata con il fatto che quest’ultima sia «più solida, almeno per i titoli che conosco»300, della sua omologa: cosa che lo porta a conclude- re che «qui ci sono meno problemi perché si tratta di fare una buona collana di letteratura non narrativa con quanto di meglio c’è in giro»301. Presumibilmente, dunque, il progetto dello scrittore, per quanto non Calvino vede una possibile del tutto esplicitato, consisteva nella presentazione di una collana che fusione tra le due collezioni fondesse in maniera organica le due collezioni pensate da Bazlen, man- pensate da Bazlen. tenendo però le ridotte dimensioni dei volumi, che nel progetto di Bazlen avrebbero dovuto caratterizzare una sola delle collane: in tal modo, il carattere della collezione di concorrente alla «Biblioteca delle Silerchie», la quale anche puntava sulla pubblicazione di «volumetti»302, sarebbe emerso con evidenza, mentre la densità concettuale risultante dalla fusione delle due collezioni sarebbe risultata accresciuta. È tuttavia bene sottolineare che tanto rispetto al «problema [...] edito- riale, di che tipo di libro vogliamo fare»303, quanto rispetto a quello teo-

297 La proposta da parte di Bazlen relativa alla pubblicazione di quest’opera, seguita alla cura del volume, è stata trattata nel secondo capitolo del presente lavoro. 298 Italo Calvino, Lettere 1940 - 1985 cit., p. 621. 299 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 12 febbraio 1960. 300 Italo Calvino, Lettere 1940 - 1985 cit., p. 636. 301 Ibidem. 302 Giacomo Debenedetti, Preludi. Le note editoriali alla “Biblioteca delle Silerchie” cit., p. 22. 303 Italo Calvino, Lettere 1940 - 1985 cit., p. 636.

265 rico, Calvino sottolinei di voler «creare una dialettica [delle proprie idee] con quelle di Bazlen»304. L’esigenza da lui espressa, peraltro, è evi- dentemente condivisa da Foà, come si può vedere da quanto egli scri- ve all’amico nel presentargli il giudizio dello scrittore chiedendogli «un tuo parere più particolareggiato che è possibile»305. La ricchezza delle posizioni espresse da Calvino, dunque, rendeva necessario che anche Bazlen si «compromettesse», formulando cioè un piano teorico che convincesse Giulio Einaudi ad investire sul progetto. Di fronte alle sol- lecitazioni di Foà in tal senso, nella lettera del 15 febbraio 1960, nella quale Bazlen commenta il «promemoria» di Calvino definendolo «sconcertante» per via della sua forte accezione morale, egli promette che «presto ricomincerò a scrivere, e ti scriverò finalmente anche delle due collezioni»306. Come si è già avuto modo di accennare, tuttavia, la risposta del consulente triestino non verrà mai inviata, forse anche per Le resistenze di Bazlen. la consapevolezza dello scarso peso che le proprie posizioni potevano avere in confronto a quelle dello scrittore: certamente, inoltre, a causa del suo essere «inabile per temperamento e per scelta al rigore forma- le di una scrittura critico-giornalistica, cui era stato più volte sollecita- to»307, per esempio, in questo caso, da Foà ed indirettamente da Calvino. L’atteggiamento di Bazlen, dunque, sembra piuttosto volto a fingere che quanto egli aveva pensato non fosse stato sottoposto a una critica ed un arricchimento puntuale ed organico da parte dello scrit- tore, così che, nei mesi successivi, egli continuerà ad avanzare propo- ste all’editore, in quella che sembra una costante oscillazione fra idee diverse, o comunque una ferma decisione di non pronunciarsi circa i criteri generali che ad esse sottostavano. Tale atteggiamento di certo non poteva accordarsi con quanto Giulio Einaudi esplicitamente chia- risce in un’intervista, nel momento in cui afferma che «senza progetto non si fa nulla, bisogna avere le idee di quello che si vuole fare»308, soprattutto in seguito al fatto che «le situazioni mutevoli nella nostra

304 Ivi, p. 637. 305 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 12 febbraio 1960. 306 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 15 febbraio 1960. 307 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 3 308 Giulio Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, interviste di Paolo Di Stefano, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2001, p. 57.

266 società ti obbligano a dei mutamenti, [...], a degli avanzamenti improv- visi»309: affermazioni, queste, che tradiscono appunto la grande impor- tanza attribuita, non a torto, all’aspetto della progettualità ai fini della riuscita del ruolo culturale assolto da una casa editrice. Bazlen al con- trario, nonostante le sollecitazioni non sembra avere una posizione ferma nemmeno su quanto aveva precedentemente proposto, nel momento in cui, tornando su Marie Thurn und Taxis, inclusa nel pro- gramma di dicembre nella «Collezione piccola», egli scrive:

MARIE THURN UND TAXIS: MEMOIRS OF A PRINCESS: dipende se farle rientrare nella collezione grande o in quella pic- cola. Decideremo quando vi avrò scritto delle collezioni. In ogni caso, mi sembrano molto belle, sia come materiale, sia come Echtleit [autenticità] di scrittura310.

Alla vaghezza dei criteri editoriali, dal momento che quanto era stato pensato per la «Collezione piccola» ora ha perso la propria collocazio- ne, supplisce comunque, almeno relativamente al titolo proposto, la consapevolezza circa le ragioni del suo meritare la pubblicazione, rile- vabili nell’autenticità della scrittura che Bazlen spesso indica come valore primo in un libro: un elemento che, per quanto vago, può esse- re indicato come uno di quelli fondanti la collana. L’indecisione circa la collocazione delle memorie di Marie Thurn und Taxis nell’una o nel- l’altra collana tradisce, comunque, anche il fatto che egli non avesse rinunciato alla distinzione fra due diverse collezioni, per quanto fra loro collegate: cosa che trova ulteriore conferma nel fatto che nella stessa lettera, a proposito dello scrittore ungherese Tibor Dery, del quale era stata pensata una «novella lunga»311 per la «Collezione picco- la», ora Bazlen osservi che «nella collezione piccola, un gruppo di que- ste novelle, come pensavo, non lo metterei troppo volentieri. Dery è troppo ricco, troppo vasto per esaurirsi in piccoli destini»312. La diffe- renziazione fra le due collane, dunque, per quanto ancora non concet-

309 Ivi, pp. 57-58. 310 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 9 marzo 1960. 311 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 312 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 9 marzo 1960.

267 tualizzata ma al contrario indicata sempre con connotazioni differenti, sembra essere rimasta prioritaria per Bazlen: cosa che, se si legge quan- to Foà risponde alle sue proposte di quei mesi, presumibilmente a nome anche di Giulio Einaudi, permette di vedere un certo distacco fra quanto il consulente e l’editore progettavano. L’1 aprile del 1960, infatti, Foà scrive all’amico rimproverandogli la mancata risposta a quanto Giulio Einaudi gli aveva richiesto, e incorag- giandolo a impegnarsi in questo senso. Di una certa rilevanza è poi il fatto che, riferendosi al nebuloso complesso di progetti formulato da Bazlen e rivisto da Calvino, Foà ne parli come della «collana dell’io»313:

La collana dell’“io” è rimasta fluttuante nell’aria. Einaudi avrebbe La «collezione dell’io», sinte- desiderato avere una tua presa di posizione di fronte alle idee espo- si del confronto fra Calvino ste da Calvino. Intanto la De Beauvoir esce nei “Supercoralli” (cioè e Bazlen. la collana di narrativa) e tutto il resto (Gosse ecc.) è accantonato all’anno prossimo. Io insisto perché preferirei che la collana inizias- se su una buona base di convinzione di Einaudi e degli altri, in par- ticolar modo di Calvino che, mi sembra, ha dimostrato un interes- se più vivo di qualsiasi altra persona qui per questa iniziativa314.

La prima citazione della «collana dell’“io”», in altri casi indicata come «collezione», risulta dunque non essere attribuibile a Bazlen, bensì a Foà in quanto tramite delle decisioni del comitato editoriale einaudia- no: il fatto che a proposito di essa il segretario generale di Einaudi citi le opere di Simone de Beauvoir ed Edmund Gosse, originariamente pensate per la «Collezione grande», permette poi di immaginare che corrispondesse appunto al progetto di Bazlen, rispetto al quale l’edito- re sceglieva di marcare, attraverso il nome, il carattere autobiografico dei testi proposti. Più difficile è indicare se in questa formulazione, da parte della casa editrice, del progetto del consulente triestino, fosse anche prevista la creazione parallela della «Collezione piccola»: anche se questo appare improbabile, vista la lettura che era stata data del parere di Calvino circa quest’ultima come una «fusione»315 delle due e visto soprattutto il fatto che essa, nelle lettere che a Bazlen arriveran-

313 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 1 aprile 1960. 314 Ibidem. 315 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 12 febbraio 1960.

268 no da Torino, non verrà più nominata. Resta comunque il fatto che, come nel caso della proposta avanzata nel 1953 circa la pubblicazione di «testi mitologici, religiosi, iniziatici, folkloristici»316, Foà prospetta la pubblicazione, in questo caso di un solo titolo, in collane già esistenti, e rimanda il vero e proprio varo della collana: alla quale d’altronde Bazlen, nei suoi successivi pareri, continua ostinatamente a riferirsi come a un versante di un progetto che per lui doveva svilupparsi su due binari. In una lettera di un mese successiva a quella di Foà, infatti, Bazlen da un lato mostra di avere accettato le proposte che gli prove- nivano dalla casa editrice, nel momento in cui egli stesso propone Le meurtre rituel di Paul Sèrant «per la collezione dell’Io, ma non soltanto per questa»317, e dall’altro non manca di indicare un titolo, Le château du dessous di Louis Pauwels, «come riempitivo della piccola»318. Ad ulteriore testimonianza dell’oscillazione fra l’accettazione e la messa in discussione della parziale modifica ai propri progetti che l’edi- tore Einaudi aveva attuato, si possono infine citare brevemente altri due pareri editoriali. Il primo, relativo a La defaite di Pierre Minet, si trova in una scheda datata sempre 9 maggio 1960, ed inclusa nella rac- colta degli Scritti di Bazlen. In essa fra l’altro si legge: «se, come spero, la collezione dell’io si fa, va fatto senza discussione - ma anche se non si fa, vi direi di farlo in ogni caso». Con queste parole, dunque, Bazlen sembra mostrare non solo di avere accettato le modifiche che erano state apportate al suo progetto, ma anche di sperare che esso, in una forma o nell’altra, trovasse finalmente realizzazione. Il coinvolgimento che sembra mostrare nella questione relativa alla «Collezione dell’io», peraltro, trova un’ulteriore dimostrazione nel fatto che con la proposta di La defaite Bazlen voglia «nutrire» la collana con un testo che gli sta particolarmente a cuore. Il romanzo autobiografico di Pierre Minet, infatti, descrive l’abdicazione del suo autore al ruolo di scrittore, un aspetto che come si è visto riguardava molto da vicino il suo persona- le vissuto, portandolo a descrivere il sentimento che la lettura gli ha suscitato come segue:

316 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953. 317 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 9 maggio 1960. 318 Ibidem.

269 Non ho mai letto un libro dove l’insofferenza sia così istintiva, e così echt [auntentica], e così lontana da ogni possibilità di com- promesso - e ci sono pagine, particolarmente nei capitoli centrali, sull’esaltazione e l’euforia della libertà che vanno nelle ossa, e che mi hanno veramente portato a vergognarmi della vita che faccia- mo tutti319.

Resta però anche il fatto che accanto a quella che pare una più decisa adesione al progetto relativo alla «Collezione dell’io» si possa citare quanto un mese dopo Bazlen scrive a proposito di un libro, La leggen- da del Santo bevitore di Joseph Roth, il quale, forse non a caso, verrà pro- posto nel 1975 nella «Piccola Biblioteca Adelphi»320. Nel breve parere che egli fornisce a proposito dell’opera di uno degli autori di punta della casa editrice che sarebbe nata a Milano di lì a poco, infatti, Bazlen mostra di non avere affatto rinunciato all’idea della «Collezione picco- la», della quale, sebbene di scorcio, egli accenna una veloce definizione.

ROTH: DIE LEGENDE DES HEILIGEN TRINKERS [La leggenda del Santo bevitore]: [...] te la mando perché è Joseph Roth at his best, perché non si poteva raccontarla meglio, perché quanto mondo abbia messo in poche pagine non sovraccariche è un miracolo, e perché è un caso tipico che giustifica la piccola col- lezione (di piccoli outsider di autori di libri grossi ce ne sono fin troppi)321.

Il libro di Roth, dunque, costituisce un «miracolo» all’interno di quello che Bazlen delinea come il campo dal quale attingere titoli per la sua «Collezione piccola»: in tale breve definizione, peraltro, si può vedere una dimostrazione del fatto che l’idea che la «Collezione dell’io» sia da considerarsi «una collana di carattere autobiografico che egli aveva suggerito, nel 1960, all’Einaudi»322 vada in parte ridimensionata. In primo luogo, infatti, la prima citazione del progetto in questa forma non proviene da Bazlen, bensì da Foà, nonché appunto l’intento pro-

319 Ivi, pp. 296-297. 320 Joseph Roth, La leggenda del Santo bevitore. Racconto, traduzione di Chiara Colli Staude, Milano, Adelphi, 1975. 321 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 2 giugno 1960. 322 Manuela La Ferla, Diritto al silenzio: vita e scritti di Roberto Bazlen cit., p. 66.

270 gettuale del consulente triestino sembra essere dedicato maggiormen- te a quei «libretti» di cui, sebbene molto fumosamente, egli parlava da anni. Che d’altronde i pareri editoriali che si sono appena citati non siano stati ritenuti sufficienti come presa di posizione da parte di Bazlen rispetto alla «collezione dell’io» è ulteriormente dimostrato da quanto Foà gli scrive, con quella che sembra una certa preoccupazio- ne, il 13 luglio 1960, nell’ultima lettera che da Torino verrà inviata circa il dibattuto progetto: «ti prego, in ogni caso, mandami quella presenta- zione della grammatica della collana perché mi sembra ormai urgente decidere per il sì o per il no. (tra l’altro Feltrinelli vuole fare una colla- na di epistolari)»323. Con queste parole, peraltro, Foà attribuisce alla col- lezione il ruolo di concorrente al catalogo di un’altra casa editrice, oltre, come si è visto, Il Saggiatore: il progetto relativo al varo della «Collezione dell’io» appare dunque per certi aspetti più il frutto delle strategie editoriali della casa editrice Einaudi che non delle aspirazioni di Bazlen. Il quale infatti, rivolgendosi ormai a Daniele Ponchiroli, dunque ad un passo dalla creazione di Adelphi, mostrerà il proprio Il giudizio di Bazlen sul dispiacere per il fallimento della «Collezione piccola» come «cornice»324 fallimento del progetto. editoriale. Al nuovo destinatario delle proprie lettere, dopo il ritorno di Foà a Milano, Bazlen infatti scriverà, a proposito dell’«autobiografia simpatica, delicatissima e banale di un pittore cinese del ‘600»325:

è un residuo del momento in cui mi sembrava avreste fatto quella collezione di testi brevi di cui s’era parlato, e in quella avrebbe potuto rientrare benissimo. Ma così, isolato, troppo breve, senza una cornice, meglio lasciar perdere326.

323 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Luciano Foà a Roberto Bazlen, 13 luglio 1960. 324 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Daniele Ponchiroli, 3 dicembre 1961. 325 Ibidem. 326 Ibidem.

271

5. La collaborazione con Boringhieri e la nascita di Adelphi.

5. 1 La casa editrice Boringhieri.

«Dunque dalla Einaudi o meglio dai suoi guai finanziari nascono molte cose buone. Boringhieri, poi un po’ di Saggiatore, un po’ di “Oscar”.... Dimenticavamo l’Adelphi»1: con queste parole l’editor Severino Cesari, in un volume di interviste a Giulio Einaudi, invita l’editore a descrivere quel frammento di storia della casa editrice, relativo agli anni Cinquanta e Sessanta, che appunto condurrà alla nascita di esperienze editoriali nuove e quanto mai fertili. Le difficoltà di natura economica che Cesari addita a unica ragione delle diverse «scissioni» da Einaudi, tuttavia, vanno forse considerate accanto ad altre di natura diversa, relative cioè Le scissioni da Einaudi. alle scelte e all’evoluzione interna della grande casa torinese. Il caso della nascita della realtà editoriale che dalla fine degli anni Ottanta prenderà il nome di Bollati Boringhieri è a questo proposito indicativo. Nell’introduzione al catalogo della casa editrice, infatti, Francesco Cataluccio evidenzia come ad esempio l’einaudiana Piccola biblioteca scientifico-letteraria, collana economica che dal 1949 univa la divulgazio- ne scientifica a testi letterari a destinazione popolare, fosse avvertita come «un corpo estraneo»2 all’interno del catalogo di Einaudi. In effet- ti, anche lo studio di Luisa Mangoni indica, relativamente all’anno 1951,

1 Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Roma, Edizioni Theoria, 1991, p. 205. 2 Francesco M. Cataluccio, Cinquant’anni di libri e buone idee, in Catalogo storico delle edizioni Bollati Boringhieri 1957/1987/2007, a cura di Irene Amodei e Valentina Parlato, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. X.

273 una «crisi aperta nella casa editrice»3: essa è appunto ricondotta dalla stu- diosa anche alla scarsa caratterizzazione della serie grigia, vale a dire quella letteraria, in conseguenza della «mancanza di un orientamento di fondo che ispirasse le scelte»4. Accanto a questa problematica, di per sé assai rilevante, si verificò inoltre, all’interno della stessa collana, l’assun- zione, da parte dei consulenti scientifici, di una «sempre maggiore auto- nomia»5, che li portò progressivamente a trovarsi in riunioni separate rispetto a quelle del mercoledì. La consapevolezza del cambiamento in atto, unita indubbiamente alle ragioni economiche di cui parla Cesari, conduceva l’editore a creare, nel 1951, una «società separata»6, dedicata alle pubblicazioni di natura scientifica e appunto chiamata Edizioni scientifiche Einaudi. La sua direzione veniva affidata a Paolo Boringhieri, già consulente per la Piccola biblioteca scientifico-lettera- ria, il quale di fatto diede progressivamente vita a un progetto editoriale distinto rispetto a quello di Einaudi: uno sviluppo, quest’ultimo, che si può spiegare ad esempio con la peculiare idea di Boringhieri «che la modernizzazione della società italiana passasse attraverso la divulgazio- ne della scienza»7, ma anche con il suo interesse per specifici ambiti disci- plinari. Tutto questo induceva Einaudi, in seguito a una crisi finanziaria, a procedere nel 1956 ad una «amputazione [...] molto dolorosa»8, consi- stente nella cessione alla nuova sigla editoriale creata nel frattempo da Boringhieri di una serie di collane, appunto coerenti con le iniziative del nuovo editore. Si tratta infatti della Biblioteca di cultura scientifica, quel- L’inizio di Boringhieri come la di cultura economica, la «collana viola», i Manuali Einaudi e i Testi per “Edizioni scientifiche dirigenti, tecnici e operai, ambiti dei quali, peraltro, fin dal 1951 Einaudi Einaudi”. aveva garantito «di non occupar[si] più per alcuni anni»9. «Paolo Boringhieri, che era stato redattore Einaudi, all’inizio ha pub- blicato come Edizioni scientifiche Einaudi. Poi è rimasto solo con il suo cielo stellato»10: così Giulio Einaudi descrive, sembra anche con un

3 Luisa Mangoni, Pensare i libri: la casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta cit., p. 655. 4 Ivi, p. 654. 5 Ivi, p. 650. 6 Ibidem. 7 Francesco M. Cataluccio, Cinquant’anni di libri e buone idee, in Catalogo storico delle edizioni Bollati Boringhieri 1957/1987/2007 cit., p. XI. 8 Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi cit., p. 205. 9 Ivi, p. 142. 10 Ivi, p. 205. Il riferimento di Einaudi è evidentemente al marchio scelto da Boringhieri, costitui- to da un’incisione quattrocentesca accompagnata appunto dalla scritta “celum stellatum”.

274 poco di amarezza, il processo che si è appena cercato di delineare. In questa sede, quello che importa maggiormente rilevare è il fatto che al «cielo stellato» di Boringhieri si sia avvicinato, sin dal 1952, anche Roberto Bazlen. La natura di questa collaborazione può essere vista, a Nel 1952 Bazlen inizia la parere di chi scrive, in connessione con quella intrattenuta negli anni collaborazione con Sessanta con la milanese Adelphi. Non è infatti improbabile l’ipotesi Boringhieri. che il coinvolgimento di Bazlen in nuove esperienze editoriali nate «dalla Einaudi»11, dunque in seguito a una differenza di vedute su cosa fosse necessario pubblicare nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, si trovi giustificato anche dalla sua difficoltà a costruire un dialogo proficuo con l’editore, come si è avuto modo di rilevare nei capitoli precedenti. Nei cataloghi editoriali di Boringhieri ed Adelphi, dunque, Bazlen poteva evidentemente trovare maggiore spazio per quei proget- ti che, come si è visto, egli portava avanti da anni: gli ambiti della pro- posta dell’editore torinese che vedranno la sua collaborazione, in effet- ti, risultano pienamente rispondenti ai suoi interessi (si pensi solo alla «collana viola»), o comunque sempre in qualche modo legati al lavoro svolto in passato per altri editori.

5.2.1 Le opere psicologiche e psicanalitiche presso Boringhieri.

La collaborazione di Roberto Bazlen con la casa editrice Boringhieri costituisce un aspetto dell’operato del consulente triestino per la verità poco studiato, del quale tuttavia rimane interessante testimonianza nel breve carteggio conservato presso la casa editrice. Le lettere che si sono consultate sono datate dall’ottobre del 1952 ai primi anni Sessanta e dunque permettono di indicare gli estremi cronologici della sua collabo- razione con l’editore torinese: il lavoro svolto da Bazlen in questo ampio arco di tempo, dunque, corre parallelo all’evoluzione che dalla creazione di una «società separata» dell’Einaudi conduce a una sigla editoriale da essa completamente distinta. Di essa nel carteggio rimane traccia nel mutamento dei destinatari delle lettere del consulente: infatti solo dal 1959 le lettere di Bazlen sono chiaramente indirizzate a Paolo Boringhieri, con il quale comunque il rapporto, per quanto cordiale, non

11 Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi cit., p. 205.

275 sembra essere di particolare amicizia personale come con Luciano Foà ed Erich Linder. Ad ogni modo, la collaborazione di Bazlen con la casa editrice di Boringhieri si realizza per buona parte contestualmente a quella intrattenuta con Einaudi: diventa così possibile vedere in questo ulteriore passo della sua carriera di consulente editoriale una via di pos- sibile realizzazione di progetti e idee che presso Einaudi trovavano scar- so spazio di sviluppo, come si avrà modo di rilevare. La prima lettera, datata 9 ottobre 1952, del carteggio con la neonata casa editrice riguarda un testo di psicologia, evidentemente ritenuto da Bazlen oggetto di interesse specifico da parte di Boringhieri. Si tratta la prima proposta di Bazlen: del Trattato di psicologia di David Katz, la cui vicenda Bazlen seguirà da il Trattato di psicologia di 12 David Katz. vicino fino al 1960, anno della pubblicazione : di sua competenza, infatti, risulta la cura dell’edizione italiana, che consiste nella scelta dei saggi da tradurre e in quella di eventuali saggi aggiuntivi rispetto all’edizione originale. Un aspetto che, ancora una volta, testimonia la profonda conoscenza da parte di Bazlen della disciplina psicologica: è infatti interessante considerare che forse proprio questa conoscenza lo portava a compiere personalmente alcune traduzioni per il Trattato, sebbene come sempre non firmate, o forse in questo caso nemmeno pubblicate: l’indicazione nel catalogo di Bruno Callieri come tradutto- re dell’opera, infatti, non permette in questo caso di definire i nomi dei traduttori per i singoli saggi. È comunque da sottolineare il fatto che in una lettera del 14 gennaio 1956 Bazlen scriva a Boringhieri che «il dottor Callieri ha discusso con me tutti i punti che gli sembravano dubbi»13, a ulteriore testimonianza della sua attiva, ed evidentemente molto consapevole, partecipazione al progetto. A quanto risulta dalla lettura del carteggio con la casa editrice Einaudi, d’altronde, fu sempre Bazlen a curare, relativamente alla pubblicazione dell’opera di Katz, alcuni aspetti dei rapporti fra Einaudi e la «società separata» facente capo a Boringhieri. In una lettera del giugno 1957, infatti, è Bazlen a rivolgersi a Foà, in quanto segretario generale di casa Einaudi, per inti- margli: «vedi per favore che le Scientifiche paghino il Callieri»14.

12 Cfr. Catalogo Boringhieri: David Katz (a cura di), Trattato di psicologia, prefazione di Alberto Marzi, traduzione di Bruno Callieri, Torino, Paolo Boringhieri, 1960. 13 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 14 gennaio 1956. 14 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 17 giugno 1957.

276 Accanto a questi aspetti è interessante inoltre sottolineare che, al di là dell’avvenuta o meno pubblicazione delle traduzioni svolte specifica- mente da Bazlen, a proposito di esse sia possibile rilevare quello stes- so atteggiamento spesso auto denigratorio che si è già visto a proposi- to dei lavori di traduzione svolti per Einaudi in quegli stessi anni: con- segnando il proprio lavoro il 25 maggio 1959, infatti, Bazlen avverte che «bisognerà che qualcuno ci appiccichi un po’ di grammatica, un po’ di stile, un po’ di bellezza»15, sottolineando però anche che «il sem- plicismo veramente disarmante della dizione, e tutta la banalità e la superficialità del contenuto, e l’inesattezza dei termini, sono origina- li»16. Anche le opere sulle quali Bazlen in un modo o nell’altro lavora per conto di Boringhieri, dunque, possono servire a esemplificare quell’at- teggiamento quasi paradossale di impegno e sfiducia, verso il lavoro pro- prio ed altrui, che si è più volte riscontrato in questa sede: un aspetto che risulta in questo caso a maggior ragione singolare. A Boringhieri, infat- ti, Bazlen aveva raccomandato sin dal 1952 un Atlante di psicologia, sem- pre ad opera di David Katz, del quale egli stesso cinque anni prima, nel 1947, aveva parlato a Foà in quanto rappresentante dell’Agenzia Letteraria Internazionale, prospettandone la pubblicazione presso Astrolabio17. L’atteggiamento oscillante rispetto all’opera di David Katz, comunque, non toglie l’impegno e il coinvolgimento di Bazlen per la pubblicazione di opere di psicologia, un ambito che indipendentemente da lui trova ampio spazio nel catalogo di Boringhieri, e che nel suo par- ticolare percorso editoriale, come si è visto, aveva rivestito un ruolo non secondario, se si considera la collaborazione con Astrolabio che nel 1952 era formalmente ancora in corso. Secondo un metodo di lavoro più volte considerato in questa sede, infatti, Bazlen in diversi casi cercherà di «spostare» opere, da lui proposte o comunque considerate positivamen- te, da un editore all’altro. È questo il caso, ad esempio, di The psychology of women di Helene Deutsch, della quale il 21 giugno 1953 Bazlen scrive alle

15 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 25 maggio 1959. 16 Ibidem. 17 Si veda a questo proposito Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1947, b. 1, fasc. 25 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Foà, Roma, 14 dicembre 1947. In tale lettera, infatti, Bazlen chiede a Foà di procurargli appunto l’Atlante di psicologia di Katz per “completare il programma della seconda serie” della neonata collana “Psiche e coscienza”.

277 Edizioni scientifiche Einaudi che «Astrolabio [...] ha già la traduzione pronta, mi pare buona»18. L’editore romano, infatti, «da quando il pro- prietario ha comprato una zincografia non stampa più [...] e cede tutti i diritti e tutte le traduzioni che ha»19: di queste, in particolare il lavoro di Helene Deutsch è da lui promosso «perché ha avuto molto successo, [...], e potrebbe essere commercialmente buono. Come libro è esaurien- te, chiaro, decoroso, e non eccessivamente irritante»20. Effettivamente, come altre opere di psicologia, il libro verrà pubblicato da Boringhieri nella Biblioteca di cultura scientifica21, cosa che permette di segnalare, per quanto riguarda le opere di psicologia, una buona riuscita della col- laborazione fra editore e consulente. Il riferimento ad Astrolabio fatto da Bazlen nel momento in cui propo- ne l’opera di Helene Deutsch, peraltro, permette di porre in evidenza un altro rilevante aspetto della natura della collaborazione con il neonato editore torinese: come Giulia de Savorgnani sottolinea, infatti, Boringhieri «acquistò, fra l’altro, i diritti delle opere di Freud e di Jung L’acquisizione da parte di 22 Boringhieri delle opere di che Bazlen aveva curato per Astrolabio, comprese le sue traduzioni» . Freud e Jung. Di questo passaggio di titoli da un editore all’altro si trova testimonian- za sia nel catalogo di Boringhieri, sia nel carteggio con la casa editrice: le traduzioni delle opere di Jung Psicologia ed alchimia23 e Psicologia ed educazio- ne24 figurano infatti nel catalogo di Boringhieri con la firma di Bazlen, con l’aggiunta di un’opera, Lo sviluppo della personalità25, che in effetti in una lettera dell’11 giugno 1961 egli annuncia di stare traducendo. Per quanto riguarda le opere di Freud, invece, si è già visto nel secondo capi- tolo del presente lavoro come Boringhieri abbia pubblicato una tradu- zione diversa da quella di Bazlen, della quale comunque l’editore speci-

18 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 21 giugno 1953. 19 Ibidem. 20 Ibidem. 21 Helene Deutsch, Psicologia della donna. Studio psicanalitico, prefazione di Emilio Servadio, tradu- zione di Isabella Daninos-Lorenzini, Torino, Paolo Boringhieri, 1957. 22 Giulia De Savorgnani, Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio cit., pp. 80-81. 23 Carl Gustav Jung, Psicologia e alchimia, traduzione di Roberto Bazlen, interamente riveduta da Lisa Baruffi, cura editoriale di Maria Anna Massimello, Torino, Bollati Boringhieri, 1992. 24 Carl Gustav Jung, Psicologia e educazione, avvertenza di Antonio Vitolo, traduzione di Roberto Bazlen, con una cronologia, Torino, Paolo Boringhieri, 1979. 25 Carl Gustav Jung, Lo sviluppo della personalità, traduzioni di Roberto Bazlen e Rossana Leporati, cura editoriale di Anna Maria Massimello, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. 26 Sigmund Freud, Opere 1899. L’interpretazione dei sogni, cit., p. XXII. 27 Ibidem.

278 fica in nota di avere «tenuto conto»26, definendola «talvolta illuminante»27. Più in particolare, dalle lettere che Boringhieri e Bazlen si scambiarono emerge come quest’ultimo abbia svolto anche in questo caso il ruolo di mediatore fra diversi editori. Il 4 giugno 1959, infatti, Paolo Boringhieri gli fa presente di volere pubblicare Tipi psicologici di Jung, scrivendogli quanto segue: «può aiutarmi a prendere contatto con Astrolabio [...]? Potrebbe forse fare una telefonata per “raccomandarmi”, dato che temo che Alberto Mondadori sia anche lui in lizza per opere di questo genere?»28. Da un frammento come quello che si è appena citato emer- ge dunque con una certa chiarezza che le case editrici le cui pubblicazio- ni potevano entrare in concorrenza con quelle di Einaudi, per esempio Boringhieri e ancora di più il Saggiatore di Alberto Mondadori, si trova- vano a loro volta in conflitto per l’acquisizione di opere fondamentali, come quelle di Freud e Jung. In questo contesto, Bazlen da un lato, come si è visto, aveva tentato con Einaudi la creazione di una collana che cor- rispondesse alla proposta del Saggiatore, mentre dall’altro si curava che la pubblicazione di quelle che di fatto erano le opere principali della col- lana «Psiche e coscienza» di Astrolabio trovassero la collocazione miglio- La mediazione di Bazlen con re possibile nel panorama editoriale italiano. Dopo avere specificato che Astrolabio «il pericolo non è Mondadori: non so chi»29, infatti, qualche giorno dopo Bazlen torna a rivolgersi a Boringhieri per tracciargli un quadro preciso della situazione delle opere di Jung, con parole che mettono in evidenza il ruolo di Bernhard in quanto «padre» della collezione: «il Dott. Bernhard avrebbe preferito che tutta la sua collezione (Psiche e coscien- za) finisse nelle stesse mani. Effettivamente ha un suo diritto di esisten- za anche come organismo»30. Quel che più conta, dal seguito della lette- ra che si sta citando appare evidente il ruolo centrale, nella gestione dei diritti delle opere di Freud e Jung, ricoperto da Bazlen, al quale Bernhard, anni dopo la realizzazione del progetto di «Psiche e coscien- za», affida di fatto la responsabilità della gestione delle opere comprese nella collana. Bazlen infatti così scrive a Boringhieri: «ho parlato con Bernhard (che non ha alcun diritto legale, ma è persona che non si meri-

28 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo Boringhieri a Roberto Bazlen, 4 giugno 1959. 29 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 6 giugno 1959. 30 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 14 giugno 1959.

279 ta carognate) e [...] per quel che lo riguarda, mi ha permesso di farne quel che meglio credo»31. Il ruolo affidato dallo psicanalista junghiano a Bazlen, comunque, non impedirà la nascita di un aperto contrasto fra Astrolabio e Boringhieri, che sfocerà in una causa legale. Quel che, tut- tavia, conta porre in evidenza in questa sede è il ruolo di Bazlen in rap- porto a questi testi: dopo avere scoperto con anticipo e contribuito a dif- fondere in Italia (anche mediante le sue traduzioni) le opere fondamen- tali del pensiero freudiano e junghiano, infatti, ancora alla fine degli anni Cinquanta egli è coinvolto in prima persona nel tentativo di renderle fruibili al pubblico32. Oltre a questo, in alcune delle altre proposte di opere psicologiche da parte di Bazlen si può vedere la scelta, così come avviene per le opere letterarie presentate ad Einaudi, di optare per la pubblicazione di testi che in qualche modo si chiariscano ed arricchisca- no vicendevolmente. È questo il caso della proposta di un’opera, Complesso Archetipo Simbolo nella psicologia di C. G. Jung di Jolande Jacobi, che Bazlen promuove con le seguenti ragioni: «la critica è stata ottima; e lo ritiene un libro utilissimo (anch’io: fa veramente ordine tra tutta la confusione che regna tra la gente che legge Jung non sistematicamen- te)»33. Il caso dell’opera di Jolande Jacobi, peraltro, permette di vedere come ormai all’inizio degli anni Sessanta Einaudi e Boringhieri fossero due entità completamente distinte, e peculiarmente caratterizzate nelle loro proposte editoriali. Quando infatti Bazlen viene informato che è ancora Einaudi a detenere un’opzione di pubblicazione per quel testo, così egli motiva la richiesta a Luciano Foà di rinunciare ad essa: «molto più che in Einaudi rientra in Boringhieri (sia perché in qualche modo continua il libro della Jacobi che ha Boringhieri, sia perché siamo in psi-

31 Ibidem. 32 Resta comunque fermo il fatto che, accanto al ruolo decisivo rivestito da Bazlen rispetto al pas- saggio delle opere di Freud e Jung, si possa riscontrare, rispetto a quelle stesse opere, il suo carat- teristico atteggiamento, verrebbe da dire sfuggente e lunatico. Nel pieno delle lettere che Boringhieri gli invia a proposito del conflitto con Astrolabio, ad esempio, Bazlen arriva a rispon- dergli quanto segue: “All’Ubaldini non ho detto nulla della tua lettera, e non gli dirò nulla. Non ho voglia (mai, e particolarmente in questi giorni in cui sono assorbito da altro) di passare ore al telefono per sorbirmi le sue contro ragioni. Scusa”. Cfr. Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 3 otto- bre 1962. 33 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 6 gennaio 1961. 34 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 20 marzo 1961.

280 cologia quasi tecnica)»34. Bazlen dunque è ben cosciente delle differenze tra le offerte dei due editori torinesi e in questo specifico frangente mostra di avere una certa cura a proposito di quelle pubblicazioni di «psicologia quasi tecnica» sulle quali si era concentrato Boringhieri. A confermarlo ulteriormente è l’insistenza con la quale il consulente trie- stino torna a rivolgersi a Foà, qualche mese dopo, per sollecitare la sua rinuncia all’opzione sul titolo della Deutsch. Il 4 giugno 1961, infatti, Bazlen scrive all’amico: «se non l’hai ancora fatto, per favore fallo pre- sto: ho molto interesse che il libro venga tradotto e pubblicato»35. Le competenze che Bazlen doveva avere circa gli aspetti più tecnici della psicologia (ravvisabili anche nel gran numero di psicanalisti e psi- La consulenza per testi di chiatri segnalati come possibili collaboratori) si trovano inoltre coniu- psicologia scientifica gate alla volontà di divulgazione, o quantomeno di vantaggiosa, dal punto di vista commerciale, diffusione delle opere pubblicate da Boringhieri: è questo il caso di un testo che unisce psicologia analitica e storia dell’arte, come è facilmente deducibile dal titolo Il mondo arche- tipico di Henry Moore. L’analisi di impostazione junghiana dell’opera dello scultore britannico viene infatti proposta da Bazlen a Boringhieri con la giustificazione che «mi pare, potrebbe servire a far entrare i tuoi libri in ambienti dove, altrimenti, penetrano difficilmente»36. Una carat- terizzazione più precisa dei contesti dove i libri di Boringhieri fatiche- rebbero maggiormente ad entrare si trova subito di seguito al passo appena riportato, dove Bazlen delinea un abbozzo di strategia editoria- le indicativo dell’intento di collaborare attivamente al successo dell’edi- tore: «con un cataloghetto dei tuoi libri psicologici e letterari (non quel- li scientifici) messo in ogni esemplare, cominceresti forse a penetrare in quel mondo che, se vede solo scienza e classici, prende paura»37. Ed è forse anche l’atteggiamento propositivo che Bazlen mostra in questo frangente a favorire la scelta di pubblicazione da parte dell’editore38, che qualche giorno dopo scrive senza mezzi termini: «sono anch’io entusiasta all’idea di pubblicarlo»39.

35 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 4 giugno 1961. 36 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 11 giugno 1961. 37 Ibidem. 38 Erich Neumann, Il mondo archetipico di Henry Moore, traduzione di Renato Rho, Torino, Paolo Boringhieri, 1962. 39 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo Boringhieri a Roberto Bazlen, 16 giugno 1961.

281 5.1.2 Il contributo alla «collana viola».

Alla luce di quanto si è osservato fino ad ora, la collaborazione di Bazlen con Boringhieri, e lo stesso potrebbe dirsi di Adelphi, ebbe proporzio- nalmente maggiori risultati positivi rispetto a quella con Einaudi. È comunque opportuno tenere presente che anche presso Boringhieri i consigli di Bazlen trovarono realizzazione solo per quegli ambiti che già precedentemente caratterizzavano il catalogo dell’editore; egli dunque, come in altri casi già considerati, non permise una maggiore caratteriz- zazione delle proprie proposte in base ai progetti editoriali del consulen- te. Come per le opere di psicologia, infatti, l’editore accolse le proposte La “collana viola” di Pavese di Bazlen relativamente ai testi componenti la «collana viola», storica ini- e De Martino ceduta nel ziativa di Pavese e De Martino che come si è visto nel 1956 era stata 1956 a Boringhieri. ceduta a Boringhieri, per la verità ormai da anni coinvolto nel progetto. Stando a quanto si può leggere nell’introduzione al catalogo di Boringhieri, infatti, già nel 1952 De Martino aveva confessato al collega:

Io credo di dover concludere che non siamo riusciti a inserire pie- namente la collana nel vivo degli interessi della cultura nazionale. Persino Calvino mi diceva celiando (ma era poi una celia?) che la collana viola era per lui la collana dei negretti. La verità è che la col- lana non è riuscita a vincere il nostro provincialismo culturale e, pas- sata la prima ondata di moda e curiosità, i nostri lettori hanno tutta l’aria di voler ripiegare sulle posizioni tradizionali40.

Il «provincialismo» era un carattere della cultura italiana, come si è visto più volte, amaramente rilevato anche da Bazlen: è però anche vero che forse non avevano giovato al successo della «collana viola» anche le divergenze verificatesi tra i suoi due creatori, alle quali si è precedente- mente fatto cenno in questa sede. Si è infatti visto come De Martino avesse abbastanza presto iniziato a manifestare il proprio disaccordo circa un’eccessiva connotazione della collana in senso junghiano, linea quest’ultima che invece era appoggiata da Pavese. Presumibilmente, Paolo Boringhieri assumeva la gestione della «collana viola» consapevo- le della problematica relativa alla scelta dei titoli e all’impostazione gene- rale, che in effetti sotto la nuova sigla editoriale assunse una fisionomia

40 Francesco M. Cataluccio, Cinquant’anni di libri e buone idee, in Catalogo storico delle edizioni Bollati Boringhieri 1957/1987/2007 cit., p. XI.

282 parzialmente nuova: in primo luogo, infatti, veniva seguito il «nuovo corso»41 impresso da De Martino alla collana dopo la morte di Pavese, consistente nell’estromissione «dei testi di psicologia e [nell’] innesto di L’accantonamento dei testi 42 tematiche folkloriche» , mediante il semplice cambiamento del nome. psicologici nella Collana Dopo diversi passaggi, infatti, dalla denominazione completa della Viola presso Boringhieri. «collana viola», ovvero «Collezione di studi religiosi, etnologici e psico- logici», era venuto a cadere «psicologici», vale a dire l’aggettivo in un certo senso più discusso. La scelta di connotare, negli anni fra il 1960 e il 1962, la collana di Pavese e De Martino come «Biblioteca di cultu- ra etnologica e religiosa» si spiega molto probabilmente anche con il fatto che nel catalogo del nuovo editore diversi fossero gli spazi speci- ficamente deputati alla presentazione di opere di psicologia: la «colla- na viola», dunque, poteva essere maggiormente caratterizzata nella direzione dei testi riguardanti il folklore e la religione. Accanto a quan- to si è osservato, tuttavia, è interessante notare che il contributo di Bazlen ad essa si muova anche sul terreno della psicologia analitica junghiana, dunque in quella che appare un’evidente ripresa delle posi- zioni di Pavese, come si è visto da lui condivise. In una lettera del 29 marzo 1961, una delle prime relative a opere pro- poste per la «collana viola» o comunque in quella sede infine pubblica- te, Bazlen infatti segnala un’opera di Jung, La realtà dell’anima, della quale si occuperà, rivedendola fino alla pubblicazione43, insieme ad altri testi dello stesso autore che sarebbero dovuti confluire nella collezio- ne delle sue Opere. Quel che importa rilevare in questa sede è la collo- cazione di un’opera di Jung, grazie anche alla spinta esercitata in que- sto senso da Bazlen, in una collana che si era da poco svincolata, attra- verso un semplice cambiamento di denominazione, dalla presentazio- ne di opere di argomento psicologico. Almeno per quanto riguarda questo titolo, dunque, Boringhieri aveva evidentemente dato ascolto alle suggestioni che gli venivano da Bazlen, il quale d’altronde mostra con una certa convinzione di voler dare il proprio contributo alla col- lezione: cosa che, come si è visto, non era avvenuta allo stesso modo per quelle collane einaudiane che avrebbero dovuto essere affidate alla

41 Cesare Pavese, Ernesto De Martino, La collana viola: lettere 1945-50 cit., p. 42. 42 Ibidem. 43 Cfr. Catalogo Boringhieri: Carl Gustav Jung, La realtà dell’anima, traduzione di Paolo Santarcangeli, Torino, Boringhieri, 1963.

283 sua personale direzione. Nella lettera in cui aveva proposto la pubbli- cazione della junghiana Realtà dell’anima, infatti, il consulente triestino si esprime come segue: «più ci penso, più mi sembra giusto che tu non lasci cadere la viola. So che non ti è simpatica, ma ha avuto e può avere (sempre più) una sua funzione. Pensaci, e se sei d’accordo, la viola te la posso nutrire bene»44. Stando a quanto si legge nel frammento appe- na citato, in effetti la collocazione e l’organizzazione della «collana viola» all’interno del catalogo di Boringhieri doveva avere comportato non pochi problemi, tanto più se, come Bazlen sottolinea, l’editore stesso non era particolarmente convinto del progetto. A ulteriore conferma di quella che spesso appare una predilezione per le opere di saggistica di argomento antropologico, piuttosto che per le opere letterarie, Bazlen dunque insiste con l’editore perché la «Biblioteca di cultura etnologica e religiosa» non venga per così dire trascurata: e proprio per dare nuovo stimolo ad essa, nella lettera che si è appena citata egli propone un’opera, L’Egitto magico-religioso di Boris de Rachewitz, che in quello stesso anno Boringhieri deciderà di pub- blicare45. Il breve scambio di lettere che editore e consulente si scam- biano a proposito della pubblicazione di questo libro contiene diversi elementi di interesse. Boringhieri, infatti, «legato ideologicamente alle posizioni cattolico-comuniste dell’amico e collega Felice Balbo»46 era da poco uscito da una redazione, quella einaudiana, che come si è visto si caratterizzava per un’identità politica tendenzialmente militante: un aspetto che non è improprio pensare abbia compromesso il rapporto con «un uomo [...] istituzionalmente anti-ideologico»47 quale Roberto Bazlen era. Resta il fatto, però, che se nella collaborazione con Einaudi i suoi consigli, stando alle testimonianze di amici e colleghi, erano in certi casi stati ostacolati per questa ragione, nel rapporto con Boringhieri la divergenza ideologica conduce al contrario a un dialogo, e soprattutto non porta l’editore a lasciare cadere la sua proposta. Ricevuta la lettera

44 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 29 marzo 1961. 45 Boris de Rachewitz, Egitto magico-religioso, Torino, Boringhieri, 1961. 46 Francesco M. Cataluccio, Cinquant’anni di libri e buone idee, in Catalogo storico delle edizioni Bollati Boringhieri 1957/1987/2007 cit., p. XI. 47 Intervento di Luciano Foà al convegno su Roberto Bazlen tenutosi a Trieste il 16 aprile 1993. Ora in Giorgio Dedenaro (a cura di), Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo ’85 cit., p. 17.

284 circa l’Egitto magico-religioso, infatti, Boringhieri così si rivolge a Bazlen, facendo probabilmente anche affidamento sull’amicizia che, come si è L’egitto magico - religioso di de Rachewiltz. visto precedentemente, legava il consulente alla figlia di Ezra Pound, Mary de Rachewiltz, e a suo marito:

vorrei che tu mi dicessi fino a che punto l’autore è fascista. Non che nel libro non ci siano cose in questo senso, e io d’altra parte non sono disposto a dare peso a queste cose più del dovuto, ma tuttavia non vorrei esporre [...] la casa, la collana, a critiche che possano avere fondamento. E siccome pare proprio che, fascista, Boris lo sia, tu dovresti dirmi amichevolmente il tuo parere su questo punto48.

Un passo come quello che si è appena citato permette di rilevare, inol- tre, le incertezze con le quali Boringhieri si apprestava ad assumere il controllo completo della «collana viola», temendo appunto le critiche che ad essa potevano essere mosse, ed al contempo volendosi garantire una certa libertà nelle scelte editoriali: di fronte a questo, egli si rivolge a Bazlen considerandolo un amico, o quantomeno una figura «complice» nel progetto relativo alla collana fondata da Pavese e De Martino. In effetti, la risposta che Boringhieri potrà leggere pochi giorni dopo mostra chiaramente la volontà di Bazlen di rispondere esaurientemente, fornendo una serie di informazioni di interesse e soprattutto permetten- do di riflettere ancora una volta sulla sua particolare posizione rispetto alla politica e alla cultura italiane in toto. La difesa di Rachewiltz dall’ac- cusa di fascismo, con la quale egli apre la sua lettera dicendo che l’auto- re del libro «non è (probabilmente!) fascista»49, rivela d’altro canto un’ani- mosità non indifferente nei confronti di un’ampia porzione di un mondo intellettuale nel quale Bazlen, pur sempre con il paradossale L’attacco agli intellettuali atteggiamento di distacco che lo contraddistingueva, era pienamente antifascisti. inserito: a proposito degli «antifascisti», infatti, egli parla senza mezzi ter- mini di «disumana ottusità e [...] meschina Phantasielosigkeit [mancanza di immaginazione]», aspetti questi che rendono «comprensibile» il fatto che Rachewiltz risulti loro «sospetto». Affermazioni di questo genere

48 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo Boringhieri a Roberto Bazlen, 31 marzo 1961. 49 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 7 aprile 1961. Le citazioni che seguono sono tratte dalla stessa lettera.

285 sono corredate dalla discutibile osservazione che «ogni fascismo ha l’an- tifascismo che si merita - vecchio proverbio cinese fatto in questo momento e che ti dedico [...] ma subire la loro dittatura non mi par giu- sto. Del resto l’anti - antifascismo l’ho inventato già nel ’40 o ’41». L’astio che Bazlen, citando se stesso50, mostra nei confronti di ambienti che comunque non vengono indicati con precisione può forse essere spie- gato con la diffidenza che all’interno di casa Einaudi egli aveva in qual- che circostanza riscontrato nei propri confronti. Nel passo citato, tutta- via, non è dato di leggere un’esposizione argomentata di ragioni che in questa sede si possono quindi solo supporre: senza contare il fatto che l’affermazione secondo cui «ogni fascismo ha l’antifascismo che si meri- ta» contiene in sé una non indifferente dose di paradosso. D’altro canto, è comunque opportuno rilevare che, entrando nello specifico merito del libro di Boris de Rachewitz, Bazlen sia maggiormente in grado di svilup- pare un ragionamento che non sia unicamente idiosincratico. L’autore del libro, infatti, «sguazza in zone della coscienza pericolose proprio per- ché i lettori di Croce le considerano tabù»: ragione per la quale «è logico che chi scrive un libro sull’Egitto magico facendo i conti con la magia, non può avere la hélas trasparenza dei lettori di Croce». La specifica materia del libro di Boris de Rachelwitz, dunque, è addotta a non impro- babile ragione della diffidenza nei suoi confronti: sono, queste, parole in cui si trovano riecheggiate posizioni anticrociane che, come si è visto, Bazlen aveva sempre sostenuto. Nel corso della lettera, peraltro, egli le arricchisce con ulteriori argomentazioni51, le quali valgono forse anche a spiegare parte del suo stesso operato e gusto editoriale: «le mitologie visionarie in cui naviga hanno sicuramente poco in comune con ogni forma di razionalismo illuminista, ma si agitano molto al di là del livello politico e della posizione fascista - antifascista». Iniziata la propria rispo- sta sulla base di osservazioni di ordine politico, per quanto, come si è

50 Si è infatti già osservato nel secondo capitolo del presente lavoro come Bazlen, già nel 1945, avesse parlato all’amica Lucia di quella “brava gente che ha aspettato ventidue anni per fare car- riera” (Lettera di Roberto Bazlen a Lucia Rodocanachi, Roma, 9 settembre 1945. In Giuseppe Marcenaro, Una amica di Montale: vita di Lucia Rodocanachi cit., p. 190). Si vedano inoltre, a questo proposito, le già citate posizioni espresse da Bazlen nelle Note senza testo (cfr. Roberto Bazlen, Scritti cit., pp. 322-323). 51 Resta comunque il fatto che appena di seguito alle parole appena citate si legge un passo come quello che segue, nel quale emerge nuovamente il forte e astioso sarcasmo del quale si è già par- lato: “ha inoltre l’aggravante di non aver avuto bisogno di Danilo Dolci per imparare a leggere e a scrivere - di abitare in un castello vicino a Merano anziché nella periferia di Milano - di aver [...] sposato la figlia di un mostro più interessante di Parri”.

286 visto, in realtà tendenzialmente autoreferenziali, Bazlen dunque cerca di attirare l’attenzione di Boringhieri su una valutazione apolitica dell’ope- ra di Boris de Rachewitz: una valutazione che forse egli avrebbe auspi- cato da parte di Einaudi circa le proprie stesse proposte. Un aspetto della lunga risposta fornita da Bazlen a Boringhieri che importa infine rilevare è il riferimento, in chiusura della lettera, al rappor- to fra il nuovo editore ed Einaudi: rispetto alla grande casa torinese, infatti, il consulente triestino in primo luogo sottolinea la progettata pubblicazione (poi non avvenuta) di traduzioni e opere a cura dei coniu- gi de Rachelwitz, come a voler indicare l’opportunità di seguire una scel- ta che era già stata dell’editore «maggiore». Soprattutto, Bazlen fa espli- cito riferimento a quanto si è precedentemente osservato circa gli accor- di iniziali fra Einaudi e Boringhieri, così che il tentativo di ricostruire il lavoro editoriale di una singola personalità permette di illuminare par- zialmente anche alcuni aspetti delle più ampie dinamiche del panorama editoriale italiano. Nella sua lettera, infatti, Bazlen chiarisce che

se ti ho fatto mandare questo manoscritto, è stato perché, per mio impegno l’avevo prima segnalato a Einaudi, ma Luciano [Foà] mi ha risposto che per un anno o non so quanto, non potevano farlo per il loro impegno con te (concorrenza con la viola) e allora sono stato io a chiedergli il permesso di segnalarlo a te, e lui me l’ha dato.

A quanto si può leggere nel passo appena citato, dunque, le consulenze che Bazlen forniva a Boringhieri dovevano tenere presente degli accor- di, per così dire, di non concorrenza intrattenuti da Einaudi con que- st’ultimo: il lavoro svolto per il nuovo editore, dunque, non era del tutto libero da condizionamenti, tanto più se si considera che sin dalle sue prime battute l’esistenza stessa della consulenza di Bazlen relativamente alla «collana viola» di Boringhieri aveva richiesto l’approvazione di Einaudi, fornita tramite la mediazione di Foà. Prima di presentare i con- sigli editoriali di cui si è discusso nel presente paragrafo, infatti, Bazlen aveva esplicitamente scritto a Paolo Boringhieri: «spero di poterti fare anche una proposta di programma decente per la “viola”. Ho parlato con Luciano [Foà] e forse potrò essere più elastico»52. Un accenno un

52 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 17 novembre 1960.

287 po’ più dettagliato a questo programma, poi, sebbene ancora sprovvisto dell’indicazione precisa di titoli, si può leggere nella lettera successiva a quella citata, nella quale Bazlen scrive: «per la viola, i più attuali sarebbe- ro quelli di cui ti ho parlato (storia della parapsicologia - studi sulle forme inferiori della mistica). Li ha Einaudi, e continua a non decidersi. Ma darò un ultimatum a Luciano»53. Il ruolo di mediazione che Bazlen svolgeva fra Einaudi e Boringhieri Bazlen mediatore fra permette peraltro di collegarsi al terzo ed ultimo titolo consigliato per la Einaudi e Boringhieri. «collana viola»: si tratta di L’Alchimia di Titus Burckhardt, rispetto al quale appunto la risposta dell’editore viene sollecitata con una certa urgenza. In una lettera datata 16 febbraio 1961, infatti, Bazlen esordisce parlando di una «questione super urgente»54, che viene così spiegata: «Linder vuol togliermi i diritti della Alchemie di Titus Burckhardt, se non gli rispondo entro... domani. Con Linder non si scherza! Avrà certo avuto una richiesta da altri. Ti prego quindi di dirmi a volta di corriere qualcosa»55. La forte sollecitazione da parte di Bazlen, dunque, ebbe l’ef- fetto desiderato, se si considera che il libro verrà pubblicato nello stesso anno 1961 appunto all’interno della «Biblioteca di cultura etnologica e religiosa»56. Negli anni dal 1961 al 1963, dunque, dei sette titoli usciti nella «collana viola» tre sono da ricondursi senza dubbi alla figura di Bazlen: il quale dunque in questo caso apporta un contributo che si può definire quantomeno non indifferente. È interessante considerare, poi, come la linea lungo la quale queste proposte si collocano riprenda il pen- siero junghiano vero e proprio, come avviene nel caso di Realtà dell’ani- ma, ma anche testi il cui interesse era certo accresciuto proprio dalla psi- cologia analitica. La scelta di proporre L’Alchimia di Burckhardt, infatti, è dal consulente così motivata: «l’argomento va, il libro è serio, è fatto da

53 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 1 dicembre 1960. È da segnalare, peraltro, che riguardo alle stesse opere alla quali aveva fatto riferimento nella lettera dell’1 dicembre 1960, Bazlen fornirà un aggiornamen- to l’anno successivo, il 15 giugno 1961, scrivendo a Boringhieri: “forse, per la viola e per altro, ti potrò aiutare più sistematicamente, anzi vedo che quel libro sulla storia della parapsicologia, e quel- li sulle forme inferiori della mistica, che ti interessavano, quasi sicuramente saranno liberi”. Cfr. Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 15 giugno 1961. Di queste opere, tuttavia, forse solo per la vaghezza con le quali Bazlen le indica, non è rimasta traccia nel catalogo della “collana viola”. 54 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 16 febbraio 1961. 55 Ibidem. 56 Titus Burckhardt, L’Alchimia, traduzione di Angela Staude, Torino, Boringhieri, 1961.

288 un qualcuno (cioè non è la solita compilazione erudita ma è pensato da una vera testa) e completa abbastanza il libro di Jung»57. È dunque Bazlen stesso a rendere esplicito il legame del libro che sta proponendo con le teorie junghiane, a dispetto dell’apparente pretesa dell’editore di non pubblicare più, nella «collana viola», libri afferenti alla psicologia e alla psicanalisi. Accanto all’aspetto appena considerato, infine, in questo frangente Bazlen introduce un’ulteriore questione, che permette di vede- re come anche nel caso di Boringhieri egli abbia cercato di portare avan- ti un progetto formulato negli anni, e che di fatto con ogni editore ten- tava di riaprire: il libro di Burckhardt è infatti «consigliabile anche per un’altra ragione»58, che Bazlen descrive dicendo che

la successione, in Italia, dei Fratelli Bocca (cioè della vera Bocca, come avrebbe potuto essere [...], e non com’è stata macellata dalla misteriosofia della piccola provincia) è sempre ancora libera, e forse, lentamente (Jung, Freud, ecc. c’entrano) potresti assumerla - per tastar terreno, tenta di cominciare con questo59.

5.1.3 La ripresa dei progetti di collane.

La lettera che si è citata in chiusura del precedente paragrafo è datata 16 febbraio 1961, e si riferisce alla possibilità che Boringhieri possa acqui- La possibilità di acquisto del stare il catalogo della Fratelli Bocca Editori: un’operazione in questo catalogo dei Fratelli Bocca frangente apertamente motivata con il legame sussistente fra le opere Editori da parte di pubblicate dalla Fratelli Bocca Editori e quelle di Freud e Jung, due auto- Boringhieri. ri «seguiti» da Bazlen nel suo lavoro per Astrolabio. Solo questo aspetto, che parzialmente si è già evidenziato, permette di rilevare, da un punto di vista generale, la profonda reciproca connessione fra i diversi ambiti del lavoro editoriale di Bazlen. Il fatto poi che egli proponga a Boringhieri in particolare l’acquisizione delle opere di Bocca costituisce un’esemplificazione evidente della tendenza a portare avanti, nelle colla- borazioni con diversi editori, quello che appare come lo stesso progetto editoriale. Come si è osservato nel precedente capitolo, infatti, sin dal

57 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 16 febbraio 1961. 58 Ibidem. 59 Ibidem.

289 1953 Bazlen aveva formulato diversi progetti, per quanto ampi e mute- voli, relativi alla creazione di una collana, presso Einaudi o Bocca: la let- tura del carteggio con Boringhieri permette di vedere come sostanzial- mente la stessa operazione sia svolta presso questo editore, dal momen- to che in esso si trovano citati sia titoli già compresi nei progetti edito- riali descritti nel capitolo precedente, sia titoli «nuovi», ma facilmente riferibili allo stesso ambito. Già dal 1959, infatti, nelle sue lettere a Boringhieri si trovano citati alcuni dei testi che si sono già considerati in questa sede, in quanto facenti parte, appunto, di varie sue precedenti proposte. A provarlo è la prima opera segnalata nelle lettere inviate all’editore che sembrano essere riferibili alla vasta e, per molti aspetti, confusa tematica delle proposte di collane da parte di Bazlen: si tratta infatti di quel Father and son di Edmund Gosse che, come si è visto, egli aveva proposto ad ogni editore con il quale si era trovato a collaborare, compresi i Fratelli Bocca. La lettera in cui questo titolo viene nominato, peraltro, è datata 19 maggio 1959, dunque si colloca solo qualche mese prima dell’invio ad Einaudi dell’elenco dei titoli che sarebbero dovuti rientrare nella «Collezione Grande»60: un elemento, questo, che porta a ipotizzare il fatto, prevedibile se si considera il modo di operare di Bazlen nel panorama editoriale italiano, che egli stesse cercando di rea- lizzare il proprio progetto, o una parte di esso, anche presso Boringhieri. Si può infatti notare che nella stessa lettera in cui viene fatto il nome di Edmund Gosse (rispetto al quale l’editore viene sollecitato con insisten- za se non altro a restituire il volume, in quanto «non ho altri esemplari, e farmeli dare dalla Bocca significa perdere giorni di vita»61), diversi siano i titoli collegabili appunto al modello della «Collezione Grande», come l’atipicità rispetto alle opere presentate di consueto a Boringhieri da sola porta a rilevare. Per quanto, come si è visto, le proposte fatte negli anni a Bocca ed Einaudi siano sostanzialmente diverse fra loro, sebbene reci- procamente collegabili, un titolo come The power within us. Cabeza de Vaca’s relation of his journey from Florida to the Pacific, 1528-1536 è quasi cer-

60 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 19 dicembre 1959. 61 Come si è detto nel quarto capitolo, infatti, tramite la mediazione di Linder nel 1954 Bazlen aveva cercato di ottenere da parte di Bocca la pubblicazione di Father and son di Edmund Gosse. Del piccolo editore, scrivendo a Boringhieri, Bazlen dice ora che “c’è solo un impiegato, che non si pesca mai”. Cfr., anche per la citazione nel testo, Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 19 maggio 1959.

290 tamente riconducibile a quel gruppo di testi a sfondo autobiografico, spesso consistenti in resoconti di viaggio, che Bazlen aveva sempre com- preso nelle sue proposte di collane per altri editori. In questo caso, infat- ti, si tratta della trasposizione, in forma di poema, del racconto di un viaggiatore nel Nord America del sedicesimo secolo, ad opera di Haniel Long, poeta americano vissuto all’inizio del Novecento: un titolo in real- tà nuovo rispetto a quelli solitamente nominati da Bazlen, ma appunto facilmente riconducibile alle sue predilezioni, come può forse ulterior- mente indicare una semplice notazione bibliografica che egli fornisce. L’edizione del libro di Haniel Long indicata da Bazlen, infatti, compren- de una prefazione di Henry Miller, il cui libro The books in my life Bazlen proporrà in dicembre per la «Collezione Grande»: la scelta sarà motiva- ta anche con il fatto che a Miller «piacciono gli stessi libri che piacciono a me»62, dunque forse il fatto che lo scrittore americano si sia personal- mente occupato del libro di Long incoraggia la scelta da parte di Bazlen. Al di là di questo aspetto minore, le altre proposte contenute nella lette- ra per Boringhieri del 19 maggio 1959 sono tali da permettere di parla- re, a proposito di essa, di un certo grado di progettualità, dunque di con- fermare lo stretto legame sussistente fra i progetti presentati a Bocca, Einaudi e Boringhieri. Subito di seguito alla proposta di Haniel Long, infatti, Bazlen continua come segue:

Le manderò i due volumetti con i quali la Bocca ha attentato alla vita di quella mia piccola collezione (TUTUOLA, KAKUZO). Non badi alla presentazione; io non c’entro, come non c’entro nella pre- fazione e traduzione di Kakuzo. I libretti non sono quasi stati distri- buiti, e può considerarli quasi inediti. L’edizione si potrebbe prele- vare quasi a prezzi di bancarella63.

Il passo appena citato di fatto costituisce un’anticipazione di quanto Bazlen farà presente a Boringhieri il 16 febbraio 1961 in merito, come si è visto, alla possibile acquisizione in toto del catalogo di Bocca: i libri proposti nel maggio del 1959, ovvero Il bevitore del vino di palma di Amos Tutuola e Il libro del tè di Kakuzo Okakura, vengono infatti chiaramente

62 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 12 marzo 1959. 63 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 19 maggio 1959.

291 presentati come edizioni, pubblicate ma poi non distribuite, ad opera dell’editore Bocca, dunque presumibilmente facenti parte del progetto ad esso presentato, con il tramite di Erich Linder, nel 1954. Quello che stupisce è che dei testi sopra citati si è in questa sede parlato a proposi- to della collaborazione non con Bocca, bensì con Einaudi, dal momen- to che entrambi figurano nell’elenco di titoli della «Collezione Piccola» presentato all’editore nel dicembre 1959: Bazlen, dunque, non solo aveva tentato di proporre i titoli che si stanno citando in questa sede prima a Bocca e poi a Einaudi, ma fra questi due momenti aveva tenta- to la realizzazione del progetto anche presso Boringhieri. Lo stesso discorso, infine, vale per un testo indicato come «il libretto su zen e tiro all’arco»64, pubblicato «da quella piccola casa editrice misteriosofizzante di Torino, di cui non ricordo più il nome»65, in quella che appare come un’ironica allusione alla Fratelli Bocca Editori: il riferimento è a Lo zen e il tiro all’arco di Eugen Herrigel, ovvero il racconto di un professore di filosofia tedesco circa la propria esperienza a Sendai negli anni fra il 1924 e il 1929. Anche in questo caso, il libro figura nel progetto relativo alla «Collezione Piccola» presentato ad Einaudi il 19 dicembre 1959. La citazione, nella stessa lettera, dei testi che si sono fino ad ora consi- derati non permetterebbe di per sé di parlare di una vera e propria pro- posta di collana da parte di Bazlen: resta però il fatto che la risposta for- nita da Boringhieri sia in questo senso inequivocabile. L’1 giugno 1959, infatti, l’editore scrive al consulente: «la sua collaborazione mi sarebbe molto gradita; debbo però dirle che sono ora impegnato in uno sforzo per far prosperare le tre nuove collane che ho iniziato l’anno scorso e non posso iniziare una nuova collana»66: i titoli presentati quasi disordi- natamente da Bazlen nella lettera del 19 maggio, dunque, sono visti dal- l’editore come componenti di una collezione unitaria, cosa che d’altron- de avverrà nel momento in cui essi verranno presentati ad Einaudi, pochi mesi dopo. Resta il fatto che dei libri di Tutuola, di Kakuzo, di Long ed infine di Herrigel, nessuno troverà posto nel catalogo di Boringhieri: tuttavia tre di questi titoli, ovvero tutti eccettuato Kakuzo, secondo un percorso quasi scontato appariranno sotto la sigla editoria-

64 Ibidem. 65 Ibidem. 66 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo Boringhieri a Roberto Bazlen, 1 giugno 1959.

292 le di Adelphi, nelle collane «Biblioteca» e «Piccola Biblioteca». La collo- cazione nell’una o nell’altra collana adelphiana ricalca poi, in alcuni casi, quanto Bazlen aveva pensato includendo i titoli nella collezione grande o piccola67. Si deve comunque puntualizzare che la pubblicazione da parte di Adelphi del libro di Haniel Long nel 2006 impedisce di ipotiz- zare un’influenza diretta di Bazlen: nondimeno, essa non esclude forse il fatto che anche le più recenti pubblicazioni di Adelphi vadano conside- rate anche come il frutto di uno stile peculiare, nella scelta dei libri, che a lui può essere ricondotto. Il seguito della lettera in cui Boringhieri declina le offerte di Bazlen per- mette comunque di fare alcune ulteriori osservazioni. L’editore, infatti, una volta specificato di non potersi impegnare nella creazione di una nuova collana, assume un atteggiamento del tutto assimilabile a quello che, come si è visto, era stato anche di Foà e di casa Einaudi. Boringhieri, infatti, accetta di

pubblicare nell’Enciclopedia di autori classici i classici da Lei even- tualmente proposti (Moro ecc.) [...] e in più vorrei fare, ad esempio, il Libro del Tè fuori collana come libro raffinato anche dal punto di vista grafico. La può interessare un tipo di collaborazione di questo genere? A me farebbe molto piacere68.

Dal passo che si è appena riportato, dunque, emerge la volontà di Boringhieri di collocare singolarmente alcuni dei libri proposti da Bazlen all’interno di collane preesistenti, ad esempio l’Enciclopedia di autori classici a cura del filosofo Giorgio Colli. La controproposta dell’editore viene fra l’altro modellata su un testo, le Lettere dal carcere di Tommaso Moro, del quale non si trova traccia nelle lettere anteriori a quella che si è appena citata: le risposte di Bazlen a questo proposito, comunque,

67 Si veda infatti, a questo proposito, il catalogo di Adelphi: Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’ar- co, traduzione di Gabriella Bemporad, introduzione di Daisetz T. Suzuki, Milano, Adelphi, 1975. Amos Tutola, La mia vita nel bosco degli spiriti - Il bevitore del vino di palma, traduzione di Adriana Motti, con una nota di Itala Vivan, Milano, Adelphi, 1983. Haniel Long, La meravigliosa avventura di Cabeza de Vaca, traduzione di Hélène Benazzo Boesch, Milano, Adelphi, 2006. Il libro di Herrigel passa dalla “Collezione piccola” alla “Piccola Biblioteca Adelphi”, così come quello di Long. Diverso è il caso de Il bevitore del vino di palma che, forse perché pubblicato dall’editore milanese insieme a un altro titolo, viene “spostato” dalla “Collezione piccola” alla “Biblioteca Adelphi”. 68 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo Boringhieri a Roberto Bazlen, 1 giugno 1959.

293 risultano del tutto chiarificatrici. Di fronte a quella che in ogni caso si può definire come una grande disponibilità al dialogo da parte dell’edi- tore, infatti, il consulente risponde in un primo momento per sollecita- re una risposta sul libro che gli sta più a cuore, del quale il 2 luglio 1959 scrive: «mi sappia dire, in modo assolutamente non impegnativo, se Gosse, Father and son, più sì o più no. È l’unico libro di cui le ho parlato per il quale dovrò forse (forse) prendere una decisione piuttosto pre- sto»69. Posta questa sollecitazione, Bazlen torna a rivolgersi all’editore il 27 luglio, riferendosi in effetti alle Lettere di Moro come a un libro che si trova sotto la sua responsabilità: da questo momento in poi, infatti, egli si curerà di mediare i rapporti fra Boringhieri e la traduttrice del libro, Maria Teresa Pieraccini Pintacuda. Interessa maggiormente rilevare, tuttavia, quanto emerge dal passo che segue la citazione: esso, infatti, mostra chiaramente come Bazlen abbia accettato l’integrazione della sua proposta nella strategia editoriale del- l’editore cui si sta rivolgendo, e si mostri dunque più concreto e dispo- nibile nel seguire le sue direttive. Se, come si è visto, nel caso di Einaudi Foà deve a più riprese sollecitare l’amico affinché fornisca programmi teorici delle collane presentate all’editore, nel caso di Boringhieri Bazlen provvede con una certa tempestività a svolgere quanto egli gli ha indica- to: un aspetto che si può forse spiegare con il fatto che il lavoro per Paolo Boringhieri era più circostanziato rispetto a quello svolto per Einaudi, e presentato, senza necessità di mediazioni, direttamente all’edi- tore. Sempre nella lettera del 27 luglio, infatti, Bazlen scrive: «Enciclopedia di autori classici: non ho fatto in tempo a farle un elenco sistematico dei libri ex collezione piccola che potrebbero rientrare nei classici. Le accludo una lista, fatta in fretta e alla rinfusa, di idee che si potrebbero considerare»70. Per quanto della lista a cui Bazlen si riferisce non ci sia traccia all’interno del suo carteggio con Boringhieri, appare con una certa evidenza che l’integrazione dei testi proposti a Bocca nell’Enciclopedia di autori classici fosse da lui accolta non problematica- mente, ma anzi con la volontà di collaborare al progetto. La citazione da

69 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 2 luglio 1959. 70 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 27 luglio 1959.

294 parte di Boringhieri, circa un mese dopo, del libro di Jefferies The story of my heart, insieme alla promessa che «dei suoi consigli qualcosa mature- rà»71, permette di isolare un altro possibile titolo pensato per Boringhieri, ma anche, in quegli stessi mesi, per Einaudi. Nell’elenco di testi scoper- ti da Bazlen grazie alla lettura di The books in my life di Henry Miller, infat- ti, quello di Jefferies verrà segnalato ad Einaudi anche perché ha dei passi «che mi sono andati nelle ossa»72. Il legame di The story of my heart con quanto Bazlen a questo punto stava pensando per l’Enciclopedia di autori classici può essere confermato con il fatto che anche per questo libro, così come per le Lettere dal carcere, la traduttrice indicata sia Maria Teresa Pieraccini Pintacuda, come emerge dal passo che segue: «Pieraccini d’accordo con trad. lettere [...] di Moro. Mi mandi presto il testo. E possibilmente subito la “Story of my heart” che vorrei passarle immediatamente. Più in là, vorrei bloccarla per certi lavori Einaudi»73. Un’allusione, quest’ultima, che in effetti può essere documentata con quanto scritto da Bazlen due anni dopo a Foà, nel tentativo di procura- re alla traduttrice un lavoro stabile: «non so se hai già mandato il libro da esperimento traduzione [...] alla Pintacuda. Vedi per favore se trovi qual- cosa [...] - ha finito proprio adesso la «Story of my heart» [...] e vorrei avesse un lavoro più continuativo»74. A quanto emerge dall’archivio Einaudi, dunque, anche la proposta rela- tiva alle memorie di Richard Jefferies viene accolta da Boringhieri, se Bazlen può annunciare a Foà l’avvenuta traduzione del testo da parte della Pieraccini Pintacuda. Non sembra tuttavia di poter chiarire ulterior- mente, tramite il confronto fra il materiale d’archivio delle due case edi- trici, il fatto che in realtà nel catalogo di Boringhieri si possa trovare solo la raccolta delle Lettere di Tommaso Moro75, mentre entrambi i titoli si trovano riportati in una lettera rivolta a Luciano Foà e datata 16 dicem- bre 1959. In essa, nel citare una serie di «traduzioni italiane già esistenti

71 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo Boringhieri a Roberto Bazlen, 4 settembre 1959. 72 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 12 marzo 1959. 73 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo Boringhieri a Roberto Bazlen, 5 dicembre 1959. 74 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 18 aprile 1961. 75 Tommaso Moro, Lettere dalla prigionia, traduzione di Maria Teresa Pintacuda Pieraccini, Torino, Boringhieri, 1961.

295 (edite e inedite) che si possono (ri)pubblicare»76, Bazlen scrive fra l’altro: «per eventuali cambi con Boringhieri (ma soltanto se potete farlo con molta delicatezza): le lettere dal carcere di Moro, e Jefferies: Story of my heart»77. Il passo che si è appena citato, contenuto in una lettera di pochi giorni anteriore a quella in cui Bazlen espone le proposte circa la «Collezione grande» e quella «piccola», permette di vedere come egli, di fronte alla possibilità che un editore potesse decidere di non realizzare i La “resilienza” di Bazlen. suoi progetti, non esitasse a proporli subito ad un altro, anteponendo la circolazione dei libri che gli erano cari alla loro pubblicazione sotto un’unica etichetta editoriale. D’altronde, a conferma di ciò si possono citare i diversi titoli e passi di lettere in cui la volontà di influire quasi contemporaneamente su editori diversi appare evidente, senza contare che è egli stesso, in diverse circostanze, a manifestarla. Poco dopo aver concluso la questione relativa alla traduzione di The story of my heart e Le lettere dal carcere di Moro, infatti, Bazlen torna a fare pre- sente che «mi pare che i libri della Bocca si possano avere per un pezzo di pane»78, nell’evidente tentativo di convincere Boringhieri ad acquistar- li per inserirli poi nelle preesistenti collane: per argomentare ulterior- mente la propria proposta, egli continua affermando che «c’è un sacco di roba da buttare via subito, ma anche molti libri di filosofia ecc. che continuano ad avere un certo valore e che, nelle mani di chi abbia un’or- ganizzazione vendita, potrebbero forse fruttare parecchio (forse!)»79. Le ragioni addotte in questo passo, dunque, appaiono di natura prevalente- mente commerciale: ovvero un progetto editoriale per la verità già rea- lizzato potrebbe, secondo Bazlen, essere acquisito da un editore che disponga di mezzi più efficaci, in modo da poter ottenere da quest’ulti- mo anche un vantaggio di natura economica. Accanto a questo aspetto, tuttavia, rimane che Bazlen non dimentichi affatto il versante culturale dell’operazione che sta tentando di compiere, così che, oltre a mostrarsi attento nell’esposizione delle ragioni culturali che lo guidano nella sua iniziativa, proprio in nome di esse egli arricchisce i titoli già proposti con altri recentemente scoperti.

76 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 16 dicembre 1959. 77 Ibidem. 78 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 21 gennaio 1960. 79 Ibidem.

296 ma in genere, ti ripeto ancora una volta quello che ti ho detto spes- so: che la casa editrice che manca veramente in Italia e della quale mi sentirei di rispondere è una Fratelli Bocca fatta bene, non pro- vinciale e di livello garantito80.

Nel passo appena citato si può leggere il criterio che guida Bazlen in quella che progressivamente si è configurata come la sua consulenza per l’Enciclopedia di autori classici, e che corrisponde al tentativo di propor- Il progetto dell’Enciclopedia re, presso un nuovo editore, un gruppo di titoli corrispondenti a un pas- di autori classici. sato progetto editoriale. È necessario comunque tenere presente da un lato come egli non abbia esitato a proporre anche titoli recentemente scoperti, dunque citati per la prima volta nel carteggio con Boringhieri, dall’altro come gli ambiti del proprio lavoro dai quali egli trae spunto per le proposte all’editore siano diversificati. Accanto alla «riscoperta» di titoli pensati per Bocca o per le proposte einaudiane del 1959, infatti, devono essere considerate lettere come quella del 14 maggio 1961, nella quale Bazlen suggerisce, senza peraltro fornire specifiche motivazioni, la pubblicazione di autori come Pausania ed Orapollo: ovvero, rispettiva- mente, Pausania il Periegeta, che operò sotto la dinastia romana degli Antonini, e l’autore di un trattato sui geroglifici, risalente a circa il IV secolo d.C.. Quello che interessa sottolineare in questa sede è che, tra- mite la proposta del Viaggio in Grecia di Pausania e dei Geroglifici di Orapollo, Bazlen riprenda sostanzialmente un frammento delle opere che aveva proposto, il 3 luglio 1953, ad Einaudi, presentandoli come «testi mitologici, religiosi, iniziatici, folkloristici»81 che potevano fungere da supporto antologico ai libri proposti all’interno della «collana viola». Lo stesso discorso può essere fatto per il Physiologus, un testo didatti- co di autore ignoto risalente al II secolo d.C. e riguardante la descri- zione di piante e animali: nel 1953, Bazlen lo aveva presentato come esempio di quelle «cose più correnti e più note»82 fra le quali Einaudi avrebbe potuto scegliere se avesse deciso di dare realizzazione al suo progetto circa i «testi mitologici, religiosi, iniziatici, folkloristici»83.

80 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 15 giugno 1961. 81 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953. 82 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 10 ottobre 1953. 83 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto

297 Tutti e tre i testi che si sono fino ad ora citati, peraltro, sono da Bazlen indicati come proposte «per i classici»84, così che diventa facile offrire esempi diversificati di come dal 1959 in avanti alcuni dei titoli compresi in progetti passati vengano «riutilizzati» per l’Enciclopedia di autori clas- sici. Accanto ad essi, come si è accennato, Bazlen non esita a presentare testi nuovi, come nel caso di Eureka di Edgar Allan Poe, indicato da Il caso di Eureka di Edgar Bazlen, l’1 dicembre 1960, come un libro «su misura per i tuoi classici»85, Allan Poe. che egli offre con la prefazione dello scrittore Giovanni Cavicchioli (i cui libri e le cui consulenze editoriali, peraltro, Bazlen aveva offerto anche a Foà e a Linder): la decisione da parte di Boringhieri circa la pubblicazio- ne del libro è motivata appunto con il fatto che «se non ti decidi presto, [Cavicchioli] la fa per Guanda»86. Si tratta, in questo caso, di un poema in prosa, come Poe stesso lo defi- nisce, tratto da una conferenza tenuta a New York nel 1848 sul tema della «Cosmogonia dell’Universo», al quale Boringhieri riserva in un primo momento una buona accoglienza (a differenza dei testi di Pausania, Orapollo e del Physiologus, sul quale l’editore non si pronuncia). Presto, infatti, la pubblicazione dell’Eureka con la traduzione di Maria Teresa Pieraccini Pintacuda e la prefazione di Giovanni Cavicchioli appare un dato certo, ma nel luglio del 1961 Bazlen riceve, evidentemen- te, la richiesta di fermare il procedere del lavoro, se così scrive a Boringhieri: «caro Paolo, nulla in contrario di scrivere io alla Pintacuda - ma poiché non conosco le ragioni per cui vuoi che lei sospenda (s’è fatto vivo Cavicchioli? Eureka pubblicato da altri?) è meglio se scrivi tu»87. La richiesta viene accolta, come si può leggere dalla risposta che Boringhieri scrive, annunciando di avere «messo tutto a posto con la Pintacuda»88: le parole usate dall’editore in questa circostanza permettono di indicare le ragioni per cui la pubblicazione di un testo proposto da Bazlen, per la verità comunque con non troppo entusiasmo, venga poi nel corso del tempo scartata.

Bazlen a Luciano Foà, 3 luglio 1953. 84 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 14 giugno 1961. 85 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 1 dicembre 1960. 86 Ibidem. 87 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 18 luglio 1961. 88 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo

298 Finora nessuno aveva letto il saggio di Poe e ci eravamo fidati del nome ma avendo finalmente avuto l’opportunità di leggerlo (in un volume scovato da Giorgio Colli [...]) è stata una delusione. Infatti Colli lo trova un tentativo di filosofia così fallito che non vuole pub- blicarlo nella collana89.

Un passo come quello appena citato è di particolare interesse, in quan- to permette di vedere come, in maniera non dissimile rispetto a quanto avveniva presso Einaudi, Bazlen dovesse comunque occasionalmente affrontare un aperto disaccordo circa le proprie proposte editoriali. In Il rifiuto di Giorgio Colli per questo caso, a esprimere dissenso è Giorgio Colli, il filosofo direttore il saggio di Poe. dell’Enciclopedia degli autori classici, il quale si oppone con decisione all’immissione del saggio di Poe nella sua collana, proprio in quanto di tratta di una raccolta di testi «di cultura filosofica»90: a lui Bazlen cerca di rispondere con diversi brevi appunti inseriti nelle proprie lettere, trami- te i quali cerca di fornire a Colli e Boringhieri gli strumenti a suo parere necessari per un’adeguata lettura del libro, che consistono nella corretta valutazione del suo campo disciplinare. «Ho dato soltanto un’occhiata (è difficile, e non ho tempo) all’“Eureka” di Poe, che per Dio non va con- siderata un testo filosofico, e quindi non la si può giudicare sub specie philosophiae»91. Accanto a questa semplice considerazione, Bazlen fa presente all’editore le recensioni positive che il libro ha ottenuto, e che vengono in qualche modo presentate come più rilevanti rispetto al pro- prio parere, nella consueta presa di distanza da quanto proposto o fatto: «Eureka (di cui non conosco che qualche brano), non va pubblicato cer- tamente come opera filosofica. In ogni caso, oltre all’avallo (per me abbastanza valido) di Cavicchioli, ha anche l’avallo di Valéry»92. I brevi passi citati in questa sede, i quali comunque non ebbero l’effetto di determinare la pubblicazione del libro, non permettono certo di par- lare di un dibattito particolarmente profondo circa la natura e l’imposta- zione dell’Enciclopedia di autori classici: tuttavia, è interessante notare la

Boringhieri a Roberto Bazlen, 5 settembre 1961. 89 Ibidem. 90 Francesco M. Cataluccio, Cinquant’anni di libri e buone idee, in Catalogo storico delle edizioni Bollati Boringhieri 1957/1987/2007 cit., p. XII. 91 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 23 ottobre 1961. 92 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 12 settembre 1961.

299 presenza, in questo caso, almeno di un tentativo di creare una maggiore comunicazione fra il consulente e la casa editrice, se ad esempio qualche mese dopo Bazlen scriverà a Boringhieri che «oggi invece ho parlato con Giorgio Colli (molto bene)»93, facendo tra l’altro presente che il filoso- fo «ha verso tutte e tre le opere, una posizione che mi pare equa e ragionevole»94. In questo caso, il dibattito fra Colli e Bazlen non verte più sul poema in prosa di Poe, bensì su altre tre opere, come quelle dello scrittore americano apparentemente nuove nel panorama delle consuete proposte di Bazlen: esse sono nondimeno facilmente ricon- ducibili al gusto e agli ambiti culturali che costituivano alcuni fra i mag- giori interessi dell’intellettuale triestino. Si tratta, in primo luogo, de Il Gospel di Ramakrishna ad opera di Swami Nikhilananda, che Bazlen così, qualche tempo prima, aveva descritto:

il Gospel di Ramakrishna, quel bellissimo diario del monaco vis- suto nella comunità di R. [Ramakrishna], l’unico diario a questo mondo che noti, giorno per giorno, la vita quotidiana di un santo (se l’introduzione dell’edizione che ti mando ti sembra troppo pesante, ce ne sarebbe quella, di un’altra edizione, brevissima, di Aldous Huxley - ed esiste anche un articolo di Thomas Mann)95.

Il campo che questa proposta, da sola, permette di delineare è quello della mistica indiana: alla luce di quanto considerato, non è difficile vedere le ragioni di interesse che questo genere di libri doveva avere per Bazlen, tanto da portarlo ad arricchire la propria proposta con altre due indicazioni: la prima, relativa ai «quattro volumetti sullo yoga, di Vivakananda [...] che a suo tempo sono stati pubblicati, male, da Bocca»96. La proposta del testo di un altro mistico indiano, della quale non si trova traccia nei carteggi letti, derivava in questo caso da una precedente pubblicazione (rispetto alla quale, come di consueto, Bazlen non risparmia una nota di critica) da parte della Fratelli Bocca Editori: e sempre dall’ambito in cui la piccola casa editrice operava, che quindi per molti aspetti corrisponde ai gusti e alle scelte editoriali

93 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 18 novembre 1961. 94 Ibidem. 95 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 15 giugno 1961. 96 Ibidem.

300 di Bazlen, sembra tratta l’ultima proposta contenuta nella lettera del 15 giugno 1961, ovvero «i tre volumetti (non meravigliarti; leggili, sono inaspettatamente belli) di Romain Rolland su R. [Ramakrishna] e V. [Vivekananda]»97. Nei passi appena citati, dunque, il consulente pro- spetta per l’editore tre pubblicazioni tra loro strettamente correlate, e come si è detto facilmente collegabili a quanto egli aveva svolto in pas- sato per altri editori. Resta il fatto, tuttavia, che nel catalogo di Boringhieri non rimanga alcuna traccia di esse, sebbene Bazlen cerchi di illustrare chiaramente l’opportunità della pubblicazione, sia per la loro facile integrazione nell’Enciclopedia di autori classici, sia per sem- plici ragioni di convenienza commerciale.

Ora, per il Gospel, se ti interessa, è facile: rientra benissimo nell’enciclopedia degli autori classici. Per gli altri è un po’ più complicato. Ma ti consiglierei in ogni caso di leggerli, e di pensarci ([...] non escluderei che il Rolland - in un volume solo, se credi - possa diventare un affare abbastanza buono)98.

Dal punto di vista della concreta realizzazione dei progetti editoriali di Bazlen all’interno dell’Enciclopedia di autori classici, anche in questa circostanza, come era stato nel caso di altri editori, non si può parlare di una completa riuscita della collaborazione. Di tutti i titoli che si sono considerati in questo paragrafo, infatti, le sole Lettere dalla prigionia di Tommaso Moro trovarono spazio nella collana gestita da Giorgio Colli, unitamente all’opera di Paracelso, Paragrano99, anch’essa compresa nel- l’elenco presentato ad Einaudi nel 1953, della quale si è avuto modo di parlare nel corso del terzo capitolo del presente lavoro. L’influenza complessiva della figura di Bazlen all’interno della neonata casa editrice Boringhieri appare dunque proporzionalmente più consistente nell’am- bito della «collana viola» che non in quello dell’Enciclopedia di autori classici. Invita tuttavia a riflettere quanto si può leggere nell’introduzio- ne al Catalogo Bollati Boringhieri a riguardo:

97 Ibidem. 98 Ibidem. 99 Paracelso, Paragrano, introduzione, traduzione e note di Ferruccio Masini, Torino, Paolo Boringhieri Editore, 1961.

301 anche se non ebbe grande successo commerciale, questa collana ha segnato la storia della cultura italiana del dopoguerra rappre- sentando, con i suoi testi, proprio quel ponte tra le due compo- nenti della proposta della casa editrice: la scienza e la mitologia. Molti di questi titoli (e la loro filosofia eterogenea) costituiranno la base dell’altra casa editrice sorta dall’Einaudi: l’Adelphi, che si avvarrà del lavoro di Colli nell’edizione delle Opere di Nietzsche e della Sapienza greca100.

La stessa Bollati Boringhieri, dunque, presenta al pubblico la propria Da Boringhieri alla nascita di storia e il proprio catalogo ponendo parte di essi in connessione con Adelphi. Adelphi, nata nel 1962: tale aspetto può valere, in questa sede, come introduzione al discorso che si svolgerà circa la casa editrice milanese, ultimo e più rilevante frutto del lavoro editoriale di Roberto Bazlen. Il passo appena letto, infatti, invita a riflettere sul fatto che, accanto al concreto passaggio di alcuni intellettuali (per esempio, appunto, Giorgio Colli) dall’una all’altra casa editrice, il rapporto con Boringhieri vada visto come ulteriore passaggio intermedio del percor- so che conduce alla creazione di Adelphi. Diventa così a maggior ragione possibile vedere come per certi aspetti il dialogo con uno spe- cifico editore sia da Bazlen posto in secondo piano rispetto a quello con il pubblico, al quale egli voleva sottoporre testi ritenuti di valore. Che il suo lavoro presso un editore vada sempre visto parallelamente a quello svolto per un altro è d’altronde infine dimostrato da un breve e telegrafico passaggio di una lettera inviata a Boringhieri il 24 giugno 1960, dalla quale appare evidente come, accanto alla collaborazione con Einaudi e a quella con Boringhieri, nel 1960 Bazlen stesse già vaglian- do l’opportunità di apportare dei cambiamenti nelle proprie collabora- zioni, un aspetto che prelude all’iniziativa adelphiana: «Ho visto Luciano [Foà] a Roma. Dobbiamo decidere se ancora necessaria mia presenza Torino»101.

100 Francesco M. Cataluccio, Cinquant’anni di libri e buone idee, in Catalogo storico delle edizioni Bollati Boringhieri 1957/1987/2007 cit., p. XIII. 101 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 24 giugno 1960. 302 5. 2 Adelphi.

5.2.1 La nascita di Adelphi e i rapporti con Einaudi.

In una lettera del 1964 indirizzata a Paolo Boringhieri, dai toni più per- sonali di quelli utilizzati di consueto, è possibile rintracciare uno dei primi riferimenti diretti, da parte di Bazlen, all’esperienza di Adelphi. Una volta raccontato con il caratteristico tono ironico e pungente di essere «ritornato molto malinconico dal Veneto (per le nebbie del Po), per cui ho passato un idillico Natale a letto, digiunando»102, egli infatti conclude con una formula insieme brusca ed allusiva: «il resto è Adelphi, e poco più»103. Sulla base di parole come quelle appena citate, è oppor- tuno riflettere su come la nascita della casa editrice milanese sia stata una tappa fondamentale del percorso culturale, ma anche umano, di Bazlen: a confermarlo sono posizioni come quella di Gian Carlo Ferretti, il quale Adelphi approdo del afferma che «alle origini di Adelphi c’è il forte legame umano e intellet- percorso culturale, ma anche umano, di Bazlen. tuale di Luciano Foà e Roberto [...] Bazlen»104. Come si è già avuto modo di accennare, la fondazione della casa editri- ce nel 1962 trova nondimeno una causa scatenante nell’evoluzione della storia di casa Einaudi e dunque coinvolge anche altri intellettuali che in essa a quel tempo operavano. È questo il caso del già citato Giorgio Colli, il quale dalla fine degli anni Cinquanta riveste il ruolo di direttore dell’Enciclopedia di Autori Classici per Boringhieri, ma anche di «diret- tore de facto della collana einaudiana dei Classici della Filosofia»105: pro- prio all’interno di essa nascono dissensi con il resto della casa editrice, i quali determinano il fatto che «ben presto il segretario generale Foà [diventi] il suo interlocutore privilegiato»106. In questa situazione, già di per sé significativa, matura il caso relativo alla pubblicazione dell’opera omnia di Nietzsche: ricevuta l’approvazione dell’editore a tale proposi- to, il filosofo inizia a lavorarvi insieme al collega Mazzino Montinari, lasciando in un primo momento in sospeso il problema dell’opportuni-

102 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 2 giugno 1964. 103 Ibidem. 104 Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia, 1945-2003 cit., p. 195. 105 Stefano Guerriero, Adelphi al paragone, in «Belfagor», a. LVII, n. 3, 31 maggio 2002, p. 347. 106 Ivi, p. 348.

303 tà dell’elaborazione di un’edizione critica completamente nuova. Un problema che viene risollevato prepotentemente dalle scoperte fatte appunto da Montinari presso il Nietzsche-Archiv di Weimar, che com- prendono «una messe di scritti tale da rendere ineludibile il problema della definizione di un testo critico»107. Si configura dunque un’impresa editoriale di grande portata, circa un filosofo che peraltro rischia di caratterizzare l’offerta di Einaudi in una direzione che non è quella gene- ralmente assunta dalla casa editrice. La reazione al suo interno fu dun- que quella di un progressivo abbandono del progetto, descrivibile come segue:

ormai la rottura è nell’aria: Montinari è a Weimar nella primavera del ‘61, nel giugno dello stesso anno Foà lascia casa Einaudi, nel giugno ‘62 nasce la Adelphi, che [...] permette a Colli di iniziare la monu- mentale opera di edizione critica108.

Alla luce di quanto osservato anche nel precedente paragrafo, dunque, l’insoddisfazione di Colli trova una risposta in quella di Foà, ragione per la quale il filosofo verrà pienamente integrato all’interno del progetto adelphiano. Al di là di questo, è interessante approfondire, attraverso le parole dirette di Foà, il percorso che conduce alla creazione di Adelphi. Nell’intervista rilasciata a Domenico Porzio, infatti, egli in primo luogo chiarisce le ragioni dell’abbandono del proprio lavoro presso Einaudi: tuttavia, citata la questione relativa alla pubblicazione degli scritti di Nietzsche, Foà aggiunge che «non è che per me questa sia stata una cosa decisiva, era una delle tante, io volevo tornare a Milano, ero ancora incer- to se tornare a lavorare all’agenzia, però avevo già in mente di fare un’at- tività editoriale»109. A spingere Foà ad abbandonare il proprio lavoro presso Einaudi, dunque, è un insieme di ragioni personali e non, alle quali egli aggiunge infine un aspetto presumibilmente percepito anche Foà lascia Einaudi. da Bazlen, o meglio forse direttamente riferito alla sua attività presso lo stesso editore. Si tratta cioè di «una certa scontentezza, perché io sugge- rivo certe cose, di fare una certa collana in un certo modo»: queste pro-

107 Ibidem. 108 Ibidem. 109 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. Le citazioni che seguono sono tratte dalla stes- sa fonte.

304 poste, come si è visto, spesso venivano lasciate cadere. A tale proposito, il seguito delle parole di Foà permette di evidenziare il legame, al quale si è già fatto cenno, fra le esperienze editoriali di Boringhieri ed Adelphi. Foà, infatti, ricorda che «c’era una vaga consulenza tra Bazlen e Boringhieri, molto vaga, perché consulente per Boringhieri su quel piano [...] di cose non scientifiche era Colli»: quest’ultimo aspetto indu- ceva Foà (il quale in effetti ammette: «mi spaventava l’idea di fare una casa editrice nuova») a pensare, presumibilmente insieme a Bazlen, a «una specie di succursale di Boringhieri a Milano per le cose non scien- tifiche, che andavano dalla letteratura alla filosofia». Il nucleo originario del progetto che in seguito avrebbe portato alla crea- zione di Adelphi, dunque, nasce in realtà anche dal rapporto che Bazlen intratteneva con Boringhieri: ulteriore testimonianza del ruolo insieme nascosto e decisivo da lui ricoperto in questo frangente. Per finanziare il progetto che si è fino ad ora descritto, del quale tuttavia non si trova testimonianza nel carteggio intrattenuto con lo stesso Paolo Boringhieri, Foà entrò in contatto con Roberto Olivetti, figlio di Adriano e dunque forse memore del rapporto che aveva legato il padre, nei primi anni Roberto Olivetti viene coin- Quaranta, sia a lui sia a Bazlen. L’idea di creare una casa editrice che volto per un finanziamento desse maggiore respiro alla sezione letteraria dell’offerta di Boringhieri, alla casa editrice. dunque in sostanza a molte delle proposte che si sono analizzate nel paragrafo precedente, dovette tuttavia fallire in breve tempo, se Foà semplicemente afferma nella sua intervista che Boringhieri e Roberto Olivetti «non si sono messi d’accordo, perché ognuno voleva avere la maggioranza, per cui Olivetti ha detto “facciamo una casa editrice noi”. E così è nata l’Adelphi». Poco dopo l’atto di fondazione, datato giugno 1962, venne tuttavia a cadere il sostegno economico da parte dello stes- so Olivetti, impegnato contemporaneamente nelle Edizioni di Comunità: diverrà così necessario, accanto ai capitali di Foà e dell’indu- striale Alberto Zevi, l’apporto fornito oltre che da Roberto Calasso, da soci amici come Giulia Devoto-Falck, Anne Devoto e Alberto Falck, nonché da Dominique de Menil e dall’antropologo Francesco Pellizzi. L’apporto di Bazlen alla fondazione di Adelphi, com’è prevedibile, non si colloca dunque sul piano economico, bensì evidentemente su quello dell’ideazione e della progettazione dei primi passi della casa editrice, di

305 modo che «la sua impronta continuerà ad essere determinante ben oltre questa data»110. L’esatta entità di questa «impronta» all’interno dell’impre- sa adelphiana non è di immediata definizione, anche in conseguenza dello scarso materiale consultabile in proposito: resta comunque il fatto che molte siano le tracce, già in parte prese in considerazione in questa sede, della presenza e dell’ascendente di Bazlen nel catalogo di quella che, nel tempo, è diventata una casa editrice di grande rilevanza nazionale. Risulta infatti in primo luogo significativo che, nel descrivere la storia di Adelphi «dal punto di vista genetico puro»111, Foà affermi: «io avevo già fatto un po’ di programma, nel ’61, molto generico, di libri che Einaudi non vole- va fare: moltissimi venivano da Bobi»112. Questa frase, dunque, costituisce solo una delle tante prove della rilevanza, non sempre posta in evidenza, della figura di Bazlen nella storia e nell’identità di Adelphi: un aspetto che si può dedurre facilmente, almeno nelle sue cause e nelle sue origini, anche dalla lettura del carteggio con la casa editrice Einaudi. Iniziata infatti nell’agosto 1961 la corrispondenza con il sostituto di Foà, Daniele Ponchiroli, le lettere e le proposte di Bazlen si fanno progressivamente più scarse, e spesso tradiscono un insieme di stanchezza e, verrebbe da dire, amarezza: un sentimento che riguarda tanto la propria collaborazio- ne con l’editore torinese, quanto anche in generale il panorama letterario italiano e non. A testimoniarlo sono le ragioni, spesso tendenzialmente vacue, addotte per promuovere la pubblicazione di un libro («con la mise- ria che c’è, farlo!»113), che spesso si traducono in giudizi generici ed impie- tosi. Rispetto al romanzo dell’autore vietnamita Pham Van Ki, ad esem- pio, si può leggere, in una lettera a Ponchiroli, quanto segue:

ma io direi di farlo. Con la misera di romanzi che c’è (oggi, per caso, ti scrivo di libri decenti - ma non dimenticare che ho, qui a casa, dozzine e dozzine di romanzi che mi avete mandato e che non si meritano nemmeno lo sforzo - che dovrò fare - di rispedirli a Torino), questo almeno ha un ambiente interessante114.

110 Stefano Guerriero, Adelphi al paragone cit., p. 347. 111 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 112 Ibidem. 113 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Daniele Ponchiroli, 16 aprile 1962. 114 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Daniele Ponchiroli, 12 aprile 1962.

306 Bazlen, dunque, appare progressivamente sempre più stanco e demoti- vato rispetto al proprio operato presso Einaudi, e forse anche in buona parte deluso da esso. In effetti, riguardo a The desperate people di Farley Mowat, ovvero un’opera accostabile al già citato resoconto di viaggio Kablouna di Gontrand de Poncins, egli fa esplicito riferimento alla diffi- denza incontrata presso Einaudi nei confronti di uno dei suo generi pre- diletti, ovvero appunto l’autobiografia: «“Kablouna” non vi è stato pos- sibile perché tirate le somme era un libro di esperienze personali - que- sto è più facile contrabbandarlo come sociologia, antropologia o che so io»115. La consapevolezza del mancato accordo con l’editore circa la pro- posta di opere di genere in vario modo autobiografico, inoltre, porta nelle ultime battute del carteggio con Einaudi ad un completo e diso- rientante rinnegamento delle iniziative che egli stesso aveva tentato di introdurre presso l’editore, e forse anche in qualche modo della propria professionalità: tutti aspetti particolarmente testimoniati nella lunga let- tera del 16 giugno 1962, forse non a caso in buona parte riportata nella raccolta degli Scritti. In essa, infatti, la lunga catena di progetti di collane ampiamente dedicate all’autobiografia e al resoconto di esperienze per- sonali che, come si è visto, era confluita nell’idea della «Collezione del- l’io» viene bruscamente liquidata, in occasione della proposta di Mythologies di Yeats. Dopo avere fornito un breve parere circa il libro, infatti, Bazlen scrive a Ponchiroli: «È rimasto da me dall’epoca in cui Luciano pensava di fare con voi quella collezione di scritti autobiografi- ci che poi è andata in niente. Ma per voi, ora - non so»116. Un atteggia- mento, questo, che si trova ulteriormente confermato da quanto si legge nel parere immediatamente successivo a quello citato, relativo ancora una volta ad una raccolta di memorie: «un documento onestissimo. Ma per voi...?»117. Accanto alla lucida consapevolezza della differenza di vedute che lo separa dall’editore, inoltre, Bazlen non risparmia nemme- no se stesso e il proprio lavoro, nel momento in cui dichiara: «finirà che sarò costretto a dichiarare il mio fallimento come lettore di romanzi»118.

115 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Daniele Ponchiroli, 4 ottobre 1961. 116 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Daniele Ponchiroli, 16 giugno 1962. 117 Ibidem. 118 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 319.

307 5.2.2 Il lavoro di Bazlen presso Adelphi.

I caratteri delle ultime fasi della collaborazione con Einaudi, apparente- mente privi di particolare interesse ai fini del discorso che si sta facendo, aiutano, a parere di chi scrive, a chiarire la posizione di Bazlen rispetto alla neonata iniziativa editoriale intrapresa da Luciano Foà: stanco di una decennale, e non sempre proficua, collaborazione con Einaudi, infatti, egli doveva accogliere positivamente la nascita di una casa editrice che con molta probabilità si sarebbe mostrata più aperta alle sue proposte. Più di tutto, i brevi passi che si sono riportati dalla fase conclusiva del carteggio di Bazlen con Einaudi rivelano con sufficiente chiarezza gli aspetti della propria proposta che egli percepiva come maggiormente problematici. Non doveva dunque risultargli difficile formulare con luci- dità e precisione le proprie aspettative circa l’identità di Adelphi ed il proprio lavoro per la neonata casa editrice: il quale dunque si configura Adelphi si configura come il come il lascito più organico e definito delle sue idee e suggestioni cultu- lascito più organico e defini- to delle idee e suggestioni rali. Si può, a questo proposito, facilmente osservare come in effetti le culturali di Bazlen. lettere editoriali indirizzate ad Adelphi che si possono leggere nel volu- me degli Scritti, per quanto di numero infinitamente inferiore rispetto a quelle conservate presso l’Archivio Einaudi, rivelino un maggiore grado di progettualità e consapevolezza circa il lavoro svolto: a questo aspetto, poi, si deve senza dubbio aggiungere il fatto che i documenti di cui si dispone circa il lavoro presso Adelphi, essendo selezionati dalla stessa casa editrice per la raccolta degli Scritti, favoriscono appunto la sensazio- ne di trovarsi di fronte a un progetto di gran lunga più organico rispet- to a quanto era stato svolto in passato. Al di là di queste puntualizzazioni, è forse opportuno considerare alcu- ni aspetti delle lettere inviate alla nuova casa editrice, con lo specifico destinatario dell’amico Luciano Foà, dal momento che appunto rivelano un atteggiamento per molti aspetti rinnovato circa il nuovo lavoro, e in alcuni casi volto a quella teorizzazione e chiarificazione dei propri inten- ti che molte volte era mancata nella collaborazione con Einaudi. Al fine di porlo più chiaramente in evidenza, si inizia con il riportare un ultimo frammento del carteggio einaudiano, tratto dalla già citata lettera a Daniele Ponchiroli del 16 giugno 1962:

308 È un libro che racconta un’esperienza e so che in genere non vole- te farli. Ma poiché avete fatto varie eccezioni quando si tratta di guerra, resistenza e cattivi tedeschi, ti consiglierei di non scartarlo senza avergli dato un’occhiata molto attenta119.

Le parole di Bazlen, caratterizzate da un forte sarcasmo nei confronti delle scelte e dell’impegno di casa Einaudi, si riferiscono alle memorie di Christopher Burney dal titolo Solitary confinement, incentrate sull’esperien- za dell’autore nel carcere francese di Fresnes, durante l’occupazione nazista. In effetti, quello che Bazlen pone in maggiore evidenza nella sua lettera è proprio la natura memoriale dell’opera che sta consigliando ad Einaudi: il tutto nella piena consapevolezza, tuttavia, che sarà proprio questo aspetto a determinare la mancata pubblicazione da parte dell’edi- tore torinese. Ai fini del discorso che si sta facendo circa la collaborazio- ne con Adelphi, tuttavia, è interessante notare ciò che nondimeno Bazlen segnala come dote del libro, vale a dire, in conformità con quan- to si è più volte rilevato, l’autenticità e, dunque, l’immediatezza e l’unici- tà della scrittura:

non c’è il prima, non c’è quel dopo di cui tutti gli altri avrebbero fatto il piatto forte (deportazione in un campo di concentramen- to in Germania). [...] non c’è Anna Frank, non ci sono i terrori della fucilazione incombente. Non c’è che solitudine accompagna- ta da molta fame, e intramezzata da qualche interrogatorio [...]. Ma i conti con la solitudine sono fatti (e raccontati) con una purezza, con una profondità, da farne - per me - l’unico libro determinato dalla seconda guerra mondiale che conosca, di cui mi senta di rispondere in pieno120.

Le caratteristiche del libro, per quanto presentate con parole dagli accen- ti discutibili, dal momento che tendono a banalizzare eventi storici di portata epocale, sono tali da indurre Bazlen a promuoverlo con convin- zione, nonostante la già considerata diffidenza che egli prevede di incon- trare presso Einaudi. In effetti, come risulta prevedibile, l’opera di Christopher Burney non sarà pubblicata dall’editore torinese, bensì da

119 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 319. 120 Ibidem.

309 Adelphi121, come diciottesimo titolo della «Biblioteca»: ulteriore testimo- nianza, questa, del peso considerevole che la figura di Bazlen rivestì rispetto alle pubblicazioni dell’editore. Rilevante, poi, è il fatto che in alcune espressioni utilizzate nel risvolto di copertina non sia difficile scorgere i segni di una diretta influenza della lettera, per quanto in origi- ne indirizzata ad Einaudi; la casa editrice milanese, dunque, ha fatto pro- prie le parole e le concezioni di Bazlen, nonostante al momento del- l’uscita del libro, nel 1968, egli sia morto già da tre anni. In primo luogo, infatti, anche il risvolto di copertina dell’edizione adelphiana pone in evi- denza la «discrezione» e la «trasparenza» di un autore che compie un «“esercizio di libertà” nella solitudine», per continuare come segue:

Un’altra conferma del carattere inconfondibile di questo libro di guerra, dove non troviamo una parola che possa fomentare il vitti- mismo dei buoni perseguitati, ci è dato dal taglio del racconto, tutto concentrato sui fatti e pensieri essenziali alla comunicazione di una esperienza ben determinata, da una misura anche formale persona- lissima, che ubbidisce a quella disciplina impervia, serena, alla quale l’autore deve, forse, di essere riuscito a sopravvivere alle sue vicen- de e, soprattutto, di averle sapute vivere.

Una volta lette queste parole, non risulta difficile rintracciare il tono e le modalità espressive proprie delle lettere di Bazlen, sia nel momento in cui provocatoriamente si fa riferimento al «vittimismo dei buoni perse- guitati», sia quando con forza si veicola l’attenzione del lettore sull’uni- cità dell’esperienza vissuta dall’autore, che gli ha permesso di raggiunge- re un risultato «inconfondibile». Resta comunque da osservare, a proposito di Cella d’isolamento, un aspet- to solo apparentemente irrilevante: nel presentare il libro ad Einaudi, nel 1962, Bazlen come si è visto lo definisce esplicitamente come «un libro che racconta un’esperienza»122, aggiungendo tuttavia di sapere «che in genere non volete farli»123. Il rifiuto nei confronti di Cella d’isolamento, dunque, non è previsto da parte del pubblico, bensì da parte dell’edito- re, che appunto non «vuole fare» un certo tipo di opere: un aspetto che

121 Christopher Burney, Cella d’isolamento, Milano, Adelphi, 1968. Le citazioni che seguono sono tratte dal risvolto di copertina della presente edizione. 122 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 319. 123 Ibidem.

310 permette di osservare come scarsa sia la consapevolezza, o forse più che altro l’attenzione, mostrata da Bazlen nei confronti di un pubblico di certo non scarsamente identificato, come quello einaudiano. A questo atteggiamento, riscontrabile nell’intero carteggio con la casa editrice Einaudi, fa da controcanto, nel rapporto con Adelphi, uno per molti aspetti assai diverso: il confronto è in questo senso facilitato dal fatto che il libro oggetto della prima lettera editoriale rivolta al nuovo editore, The informed heart di Bruno Bettelheim, è legato a una riflessione sulla Seconda Guerra Mondiale come quello di Burney. Nel caso della lettera rivolta ad Adelphi è infatti evidente una forte consapevolezza, da parte di Bazlen, del pubblico cui egli desidera rivolgersi e degli autori che pre- ferisce, sulla base di una riflessione evidentemente maturata negli anni e, per alcuni aspetti, in conseguenza del rapporto intrattenuto con Einaudi. Nel consigliare il libro Bazlen specifica in primo luogo che, secondo lui, si tratta di «due libri; l’uno dei Bettelheim (plurale) fino a pag. 107; l’altro, di Bettelheim (singolare), le altre duecento pagine»124: rispetto ad esse, egli senza mezzi termini afferma che «tutto il mio astio e la mia reazio- ne sono diretti verso i Bettelheim (plurale) delle prime cento [...] pagi- ne»125, vale a dire, semplificando126, gli autori e forse, in genere, gli opera- tori culturali, che si servono di parole inflazionate e «di massa»127 per par- lare al pubblico. È Bazlen stesso a farne un problema, appunto, di cul- tura di massa, nel momento in cui scrive a Foà:

che nessuno venga a raccontarmi che tu o io viviamo [...] la pres- sione della cultura di massa. Ciò che succede veramente è che L’avversione verso la cultura viviamo in un mondo nostro e in un’epoca nostra, e che più o di massa. meno raramente ci troviamo alle prese con seccature provocate da

124 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 321. 125 Ibidem. 126 La lettera circa The informed heart è infatti molto lunga, e soprattutto ricca di quelle metafore e figurazioni che, come si è osservato, caratterizzano fortemente lo stile della scrittura di Bazlen. Se ne cita solo una, particolarmente interessante perché, come d’altronde tutta la lettera che si sta analizzando, costituisce una lucida esposizione delle ragioni che lo hanno guidato nel suo lavoro editoriale. “In altri termini: nessuno di noi vuole che alla gente cada una tegola sulla testa. Per questo siamo anche disposti a pubblicare un libro che dica alla gente di stare attenta quando va per strada [...]. Ma pubblicarlo dando la sensazione [...] che tutta la fisica [...] si risolva nella legge di gravità, e ora che l’abbiamo capito possiamo metterci a dormire, è un altro paio di maniche. Sarebbe un libro pericoloso. In questo caso cosa si fa? Due cose: 1) Un’azione pratica [...] per educare la gente a non camminare lungo i muri. 2) stampare libri difficili che trattino di fisica moderna ed ultra. Sperando che i lettori vadano più ultra ancora”. Cfr. Ivi, pp. 324-325. 127 Ivi, p. 322.

311 gente che [...] subisce la pressione della cultura di massa, dalla quale seccatura ci difendiamo con risultati più o meno brillanti. [...]. Del resto, che quella gente ci sfiori e ci possa rappresentare un problema, parla contro di noi128.

È abbastanza singolare trovare da parte di Bazlen una formulazione organica, per quanto discutibile, della propria visione della società e della cultura contemporanea. E ancora più singolare è il fatto che, per quan- to da una prospettiva fortemente elitaria, e per certi aspetti forse poco realistica, le sue osservazioni lo portino a chiarire l’atteggiamento che l’editore dovrebbe tenere, in un discorso che dunque tocca anche, sep- pur velatamente, i toni dell’autocritica. Preliminarmente, infatti, Bazlen applica in un certo senso il principio della «primavoltità» al lavoro cultu- rale, nel momento in cui afferma che «i primi che hanno capito il peri- colo della massa e per denunciarlo hanno trovato le prime parole, che erano loro, e le hanno dette con un tono loro e con un accento loro, non sono stati banali, è ovvio»129. Un’osservazione, questa, dai tratti generali e vaghi, dal momento che non è facile capire a quale tipo di iniziativa cul- turale Bazlen si stia qui positivamente riferendo. Resta comunque che da questo momento egli entra nel merito della proposta adelphiana, per definirla in conseguenza delle idee appena considerate. A essere scartati per una possibile pubblicazione, infatti, sono quelli che sono stati definiti, per le ragioni viste sopra, come «i Bettelheim», per via dell’utilizzo, da parte loro, «di certe parole che spererei che l’Adelphi non pubblichi mai (a meno che non sia per prendere una posizione con- tro)»130. È solo una volta esposte tutte le considerazioni in questa sede esaminate e riguardanti in qualche modo il composito insieme di autori, editori e lettori, che Bazlen definisce chiaramente quella che secondo lui dovrebbe essere la posizione di The informed heart di Bruno Bettelheim all’interno del catalogo adelphiano, o più precisamente nella collana dei «Saggi», nata nel 1965. «Pubblicarlo ora, tra i primi libri (tra cinque anni sarebbe uno dei tanti, dei moltissimi, e verrebbe neutralizzato dagli altri) mi sembra troppo un programma, una presa di posizione»131. Se si con- sidera la frase appena citata come una testimonianza del metodo di lavo-

128 Ibidem. 129 Ibidem. 130 Ivi, p. 324. 131 Ibidem. 312 ro della redazione adelphiana, non è difficile rilevare come la voce di Bazlen dovesse avere un grande rilievo non solo rispetto a collane come la «Biblioteca», ma anche, ad esempio, nel meno noto caso dei «Saggi»: la precisione e la determinazione nel definire l’impostazione generale della collana nascente è senza dubbio di gran lunga maggiore in con- fronto a quanto si è visto nel caso della collaborazione con Einaudi. A quest’ultimo proposito, si può inoltre rilevare un ulteriore aspetto deter- minato da Bazlen e fortemente caratterizzante l’immagine della casa edi- trice, vale a dire la forte presenza della discutibile tendenza al distacco nei confronti di un’amplissima porzione dei potenziali lettori italiani, soprattutto quelli dei primi anni Sessanta. Dopo avere annoverato, fra le doti di Bettelheim, la capacità di fornire una riflessione incentrata sulla reazione interiore dell’individuo di fronte a esperienze come quelle nei campi di concentramento nazisti piuttosto che sulla descrizione dei campi in sé, Bazlen infatti così conclude il suo parere editoriale:

capisco benissimo che esiste della gente che non ci è ancora arri- vata e che va educata. Ma dobbiamo metterci d’accordo sul limite La formazione del lettore da cui cominciare l’educazione. In caso contrario conviene molla- secondo Bazlen. re la casa editrice e dare i soldi alla società per la lotta contro l’anal- fabetismo o pubblicare libri di lettura per la prima. Per la gente che crede all’ambiente, e non vede la psiche [...] direi che non ha scopo perdere tempo132.

Alla luce di quanto osservato fino ad ora, risulta molto interessante il netto cambiamento che si verifica fra la lettera inviata ad Einaudi a proposito di Cella d’isolamento di Burney e quella per Adelphi relativa a The informed heart di Bettelheim, tanto più se si considera che fra le due intercorre solo un mese e mezzo, essendo la seconda datata 31 agosto 1962: a cambiare, evidentemente, è nient’altro che la convinzione con la quale Bazlen si accostava ad un progetto, quello adelphiano, del quale non a caso è ritenuto il «punto di riferimento ideale»133. È inoltre importante tenere presente che il saggio di Bettelheim com- parirà tra le prime uscite della collana per la quale Bazlen l’aveva pen-

132 Ivi, p. 325. 133 Stefano Guerriero, Adelphi al paragone, in «Belfagor», a. LVII, n. 3, 31 maggio 2002, p. 348.

313 sato134, configurandosi come il solo titolo, fra quelli consigliati diretta- mente ad Adelphi, che sia stato effettivamente pubblicato dall’editore. Degli altri quattordici pareri editoriali rivolti alla casa editrice milanese che si trovano nella raccolta degli Scritti, invece, nessuno risulta avere tro- vato la via della pubblicazione: su questo aspetto si avrà modo di soffer- marsi in seguito, ma per il momento è importante sottolineare il fatto che le caratteristiche delle lettere ad Adelphi alle quali si è finora fatto cenno risultano tendenzialmente costanti in tutto il carteggio. Quest’ultimo comunque, è bene sottolinearlo, è caratterizzato da dimen- sioni molto ridotte, in ragione da un lato del fatto che la collaborazione con Adelphi durò solo dal 1962 al 1965, dal momento che in quell’anno Bazlen morì, dall’altro che di questo triennale carteggio la casa editrice, molto probabilmente nella persona di Roberto Calasso, ha antologizza- to solo le lettere ritenute più interessanti ai fini della composizione del volume degli Scritti. Poste queste riserve, ciò che emerge con forza e chiarezza è l’aspetto della lucida consapevolezza del proprio pubblico, che evidentemente nasce da un’altrettanto lucida autoconsapevolezza. Il nome Adelphi, infatti, secondo quanto Calasso dichiara nell’intervista Adelphi e la ricerca di affini. rilasciata a Domenico Porzio, «significa fratelli»135, definizione arricchita da quanto afferma Foà, il quale parla di «una casa editrice che cercava degli affini»136, dunque anche nel tentativo di costituire «un modo inter- no, un rapporto interno fra le persone che ci lavoravano»137. Il progetto di Foà e del suo amico Bazlen ha dunque «due facce»138: quella della messa in atto, in conseguenza appunto di una particolare affinità di scel- te fra i componenti della redazione, di progetti rimasti irrealizzati negli anni e quella della ricerca di una fascia di pubblico che ad essi venga len- tamente introdotta ad interessarsi. Lo dimostra in primo luogo il parere immediatamente successivo a quello circa il saggio di Bruno Bettelheim, datato 16 settembre 1962, nel quale il nucleo della «gente che vorresti far

134 Bruno Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, traduzione di Piero Bertolucci, Milano, Adelphi, 1965. 135 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. Una testimonianza come quella che si è appe- na citata trova peraltro un significativo riscontro in un’intervista a Roberto Calasso, nella quale egli parla esplicitamente, a proposito della redazione adelphiana “degli inizi”, di un “comune sen- tire”. Cfr. Massimo Fini, Piccoli editori crescono in “Europeo”, 19 luglio 1986, p. 113. 136 Ibidem. 137 Ibidem. 138 Ibidem.

314 pensare»139 è esplicitamente nominato: ad esso l’autore del saggio che Bazlen sta considerando, ovvero lo psicanalista Erich Neumann, ha il pregio di porre «grandi interrogativi molto fertili»140. Quel che più conta è che subito di seguito alla breve definizione che si è ora citata, Bazlen contestualizzi il libro di Neumann in quella che egli vorrebbe essere la collana dei Saggi: «ti ripeto, non dice molto ma mi pare che al “molto”, a idee nuove, ci conviene rinunciare a priori»141. Un primo aspetto che, dunque, emerge chiaramente dal carteggio intrattenuto con Adelphi, è la generale insoddisfazione circa le proposte editoriali di quel periodo, che Bazlen, come si è visto, manifestava già nelle sue lettere a Daniele Ponchiroli: nel caso della collaborazione con Adelphi, tuttavia, questa insoddisfazione è in un certo modo invertita di segno, dal momento che porta in primo luogo a formulare, seppur indirettamente, il propo- sito di stimolare quantomeno la «gente che vorresti far pensare». Oltre a questo, Bazlen arriva nel tempo a isolare con maggiore precisione l’ambito tematico che secondo lui, almeno nella saggistica, potrebbe assolvere a questo ruolo. «Se i “saggi” devono servire a portare qualcosa di nuovo, non ci resta che la parapsicologia: il nuovo nella matematica e nella fisica sono for- La parapsicologia come mule, che non potremo mai pubblicare; nelle altre scienze, risulta soltan- nuova scienza. to da lavori specializzati»142. Il parere appena citato si riferisce a due saggi appunto di parapsicologia, vale a dire The sixth sense e The infinite hive di Rosalind Heywood. Sebbene con un certo ritardo, dal momento che la lettera citata fu inviata a Foà solo il 25 luglio 1964, Bazlen è dunque giun- to a formulare una proposta circa una disciplina che egli percepisce come nuova e, nel caso specifico della Heywood, «di un’onestà lampan- te, di un’oggettività feroce, di un buon senso incrollabile, di una diffiden- za esemplare di ogni misticismo»143: è comunque opportuno tenere pre- sente che, nel carteggio con Boringhieri, la parapsicologia era stata con- sigliata sin dal 1960144, dunque forse la proposta non immediata ad Adelphi potrebbe essere motivata da riserve circa la pubblicazione pres-

139 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 326. 140 Ibidem. 141 Ibidem. 142 Ivi, pp. 346-347. 143 Ivi, p. 346. 144 Cfr. Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Paolo Boringhieri, 15 giugno 1961.

315 so questo specifico editore. Resta comunque il fatto che la predominan- za di opere di saggistica nelle proposte apertamente avanzate ad Adelphi è rilevabile con facilità, dunque permette di rilevare una parziale evolu- zione nelle scelte di Bazlen e, soprattutto, che il profilo del nuovo edito- re, almeno dal punto di vista delle ipotesi di pubblicazione, si andava nel tempo definendo con chiarezza. In quest’ottica, il fatto che i libri propo- sti di cui si è appena parlato non siano stati effettivamente pubblicati non ha forse eccessivo rilievo, dal momento che importa maggiormen- te in questa sede tracciare i contorni di un progetto editoriale pensato abbastanza organicamente da Bazlen. È ad esempio interessante rileva- re il netto rifiuto che egli oppone a un libro, La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas S. Kuhn, che presto avrebbe ottenuto grande noto- rietà, grazie alla pubblicazione einaudiana del 1969145. Rispetto ad esso, il giudizio di Bazlen è impietoso, dal momento che a proposito dell’auto- re egli parla preliminarmente della «pretesa quasi arrogante di insegnare qualcosa a qualcuno che non sia morto prima del ’14»146. A questa osser- vazione fa da seguito la segnalazione precisa di pagine

dove troverai considerazioni di un superfluo e di una banalità grot- tesche, quasi come in ogni pagina (dico quasi perché - nel senso più bassamente corrente - il Kuhn non è uno stupido, e su 50 riflessio- ni una deve andargli bene per forza) che aprirai a caso147.

Al di là della forte disapprovazione a proposito del libro di Kuhn, risul- ta interessante evidenziare che, con il consueto peculiare stile, Bazlen ponga il suo rifiuto in diretta relazione con le caratteristiche, o meglio la qualità, delle pubblicazioni adelphiane: «dimmi se Adelphi può pubbli- care una simile lavatura di piatti! (Anzi di pentole - la prima cosa che mi aveva messo a disagio, era lo stridio di latta!)»148. D’altronde, il seguito della lettera rivela con ancora maggiore evidenza la consapevolezza dei confini, per così dire, fra le pubblicazioni dei diversi editori. Proponendo il confronto fra La struttura delle rivoluzioni scientifiche e un non meglio spe- cificato «libro sul pensiero europeo»149 del filosofo Léon Brunschvigc,

145 Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, traduzione di Adriano Carugo, Torino, Einaudi, 1969. 146 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 344. 147 Ibidem. 148 Ibidem. 149 Ivi, p. 345.

316 Bazlen in primo luogo definisce quest’ultimo come «una testimonianza sconvolgentemente autentica e convincente del miracolo del pensiero europeo»150, per poi, significativamente, concludere: «non ti dico di farlo senz’altro: [...] anche perché sconfina troppo nei saggi di Einaudi, o in “Comunità”. Ma usalo almeno, per favore, come pietra di paragone per il Kuhn»151. Bazlen sembra insomma avere un’idea abbastanza chiara del tipo di pubblicazioni che egli vuole vedere realizzate presso Adelphi, soprattutto riguardo ai Saggi: un aspetto, questo, che come si è già accennato deve essere visto in stretta connessione con la progres- siva individuazione di quegli «affini»152 ai quali, come si è visto, Adelphi cercava di parlare. A esemplificare questo tipo di atteggiamento può essere utile la citazione della lettera del 18 febbraio 1963, relativa a Silence, raccolta di saggi e interventi di John Cage: Bazlen infatti pro- Silence di John Cage. muove la pubblicazione di questo libro, specificando tuttavia di essere giunto a questa conclusione attraverso «una via poco usuale»153. L’opera, infatti, può essere pubblicata «unicamente come saggi di un musicista; dunque a condizione [...] che Cage abbia una vera importan- za, non soltanto sintomatica, ma come inventiva»154. In sostanza, la condizione posta per la pubblicazione risiede nella capacità del libro, e dunque del suo autore, di sapere parlare al lettore in termini non ecces- sivamente specialistici: a chiarirlo ulteriormente è ciò che Bazlen scri- ve di seguito, nominando esplicitamente i «lettori di “Adelphi”»155 e indicando per loro una precisa cura dell’edizione:

gran parte dei lettori di «Adelphi» dovrebbero trovarsi nelle mie condizioni, anzi aggravate dal fatto di avere maggiori pregiudizi contra e pro [...] di quanti ne abbia io, e dunque mi pare indispen- sabile un’introduzione molto concreta, storica e analitica, e molto chiara e senza parole iniziatiche di cui si presuppone la conoscenza, che situi la figura di Cage in un complesso di problemi spiegati in modo che io possa capirli156.

150 Ibidem. 151 Ibidem. 152 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. 153 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 330. 154 Ibidem. 155 Ibidem. 156 Ibidem.

317 La convinzione circa l’opportunità di pubblicare il saggio di Cage, dun- que, si trova strettamente connessa alla consapevolezza che il pubbli- co debba esserle avvicinato con gli strumenti ritenuti opportuni, ovve- ro un testo introduttivo che nel seguito della lettera viene indicato come necessariamente firmato da uno specialista. Solo così l’«inventi- va» e la novità che sempre vengono elevate a ragioni di pubblicazione di un’opera possono realmente raggiungere i lettori: fermo restando il fatto che il tentativo della casa editrice, come si sta vedendo in buona parte determinato da Bazlen, di porsi come «un amico colto, curioso, sensibile, che sa consigliare libri non sempre (anzi quasi mai) di facile lettura ma [...] coinvolgenti e stimolanti»157 non toglie anche considera- zioni di ordine più ampio. In questo senso, appare significativo che un Il rifiuto di Galassia libro divenuto poi di grande rilevanza come Galassia Gutenberg di Gutemberg di McLuhan. Marshall McLuhan sia liquidato, in una lettera del 5 dicembre 1962, come segue: «mi ha piuttosto irritato, e per conto mio vorrei farla fini- ta con la Geistesgeschichte [storia del pensiero] causale; un libro, anche confuso e pessimo, di astrologia fa vedere più di quanto facciano pen- sare centinaia di queste piccole prospettive monomani»158. Il saggio di McLuhan non incontra evidentemente i favori di Bazlen: è però signi- ficativo che, in una prospettiva più ampia, vale a dire quella di «una casa editrice che pubblichi per lettori di un’Europa del ’63»159, la deci- sione finale circa la pubblicazione del libro cambi significativamente e si faccia in un certo senso più complessa e ragionata. «D’altra parte, il modo di come ha impostato il problema, per gran parte degli italiani può significare un passo avanti; [...]. Dunque: hélas sì»160. Lo svolgersi di un ragionamento come quello appena visto permette di porre in luce che, accanto alla valutazione dei «lettori Adelphi» come «affini», ci sia, da parte di Bazlen, il proposito anche solo accennato di allargarne il numero, e non solo per ragioni di mera convenienza com- merciale. L’obiettivo, vale a dire, sembra in alcuni casi essere la progres- siva creazione di una «comunità di lettori»161, definibile come «un insie-

157 Maddalena Camera, Adelphi - Grandi scoperte, con eleganza, in «Il Giorno», 16 marzo 1986, p. 31. 158 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 329. 159 Ivi, p. 331. La definizione citata è tratta dalla lettera editoriale, della quale si è appena parlato, relativa a Silence di John Cage, datata 18 febbraio 1963. 160 Ivi, p. 330. 161 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 8.

318 me di individui accomunati non dall’atto dell’acquisto, ma dal fatto di leggere gli stessi libri, e che utilizzano (almeno per via ipotetica) le stes- se modalità per accostarsi ad essi»162. In ultima istanza, comunque, la volontà di parlare a un pubblico composto per lo più da lettori forti sem- bra predominante e, in alcuni passaggi, accompagnata da quella nota di astio e rivalità politico-sociale che si è già più volte rilevata. Questo atteggiamento nei confronti di una grossa parte, se non tutta, la socie- tà italiana del tempo è lampante in una delle poche lettere relative ad un’opera narrativa che si trovino raccolte nel volume degli Scritti. Si tratta infatti di Journal à quatre mains delle due sorelle Benoîte e Flora Groult, del quale Bazlen, dopo avere affermato di considerarlo come un vero e proprio diario, nonostante «in copertina, sotto il titolo [ci sia] scritto “roman”»163, afferma che si tratta di «un veramente straordina- rio e affascinante “documento di civiltà”»164, caratterizzato fra l’altro da «vitalità scatenata e scanzonata e [...] responsabilità, [...] eleganza intel- ligenza riflessività leggerezza, e [...] vera e profonda umanità»165. Tutti questi aspetti, che peraltro in sostanza sono quelli quasi sempre mag- giormente apprezzati da Bazlen sul piano letterario, lo portano a pro- muovere il testo e a dichiararsene «innamorato»166, ponendo tuttavia una riserva molto interessante:

Non voglio convincerti, perché ho ancora la lucidità di sapere che sono innamorato, e che assumermi la responsabilità della pubblica- zione significherebbe anche la responsabilità del tuo martirio. Perché «Adelphi» andrebbe incontro al martirio, accuse di frivolez- za, di snobismo, squalifica implicita, e peggio: Montenapoleone. In Italia, tutto quello che non è miseria neorealista, provinciale o uni- versitaria è Montenapoleone167.

Nel momento in cui propone con convinzione la pubblicazione di un libro, Bazlen evidentemente è del tutto consapevole, almeno in conse- guenza di una personale visione delle cose sviluppata negli anni, circa la

162 Ibidem. 163 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 334. 164 Ibidem. 165 Ivi, p. 335. 166 Ivi, p. 336. 167 Ibidem.

319 reazione che, di fronte ad essa, avrà una parte del pubblico e degli intel- lettuali italiani. Non è evidentemente questa la sede per entrare nel meri- to di quello che non è nemmeno un dibattito, bensì la riflessione, viene infine da dire, di un intellettuale per lo più diffidente rispetto ad un impegno in qualche misura politico, nonostante la passata collaborazio- La diffidenza di Bazlen per ne a un’iniziativa come quella delle Nuove Edizioni Ivrea. È però impor- l’impegno politico. tante sottolineare il fatto, assai significativo, che con le parole appena riportate Bazlen in sostanza realizzi una previsione decisamente prossi- ma al vero circa quelle che saranno le critiche mosse a casa Adelphi: se non le critiche, comunque, l’immagine che nel tempo sarà associata alla casa editrice, con diverse accezioni. Sembra insomma che la percezione comune di casa Adelphi sia in buona parte stata determinata, appunto, dal lascito intellettuale di Bazlen, dall’influenza della sua figura. Diversi giornalisti delle più disparate testate, infatti, parlano del fatto che «l’esse- re selettivi [appartenga] alla storia dell’Adelphi»168, la quale dunque da molti è considerata la casa editrice «forse [...] più intelligente e [...] più elegante e raffinata d’Italia»169. Allo stesso modo, non è difficile leggere osservazioni circa il fatto che «la sua [di Adelphi] fortuna è coincisa con un periodo di profondo mutamento»170, interpretato da Franco Fortini come segue:

[Adelphi] ha adempiuto in modo splendido il proposito di porre a disposizione di una parte dei nuovi intellettuali del ceto medio-alto una tradizione culturale evitata dalla cultura dell’idealismo italiano e, in vari modi e istanze, combattuta o ignorata dalla cultura della sini- stra rivolta all’hegelo-marxismo o a Gramsci171.

In sostanza, dunque, Fortini vede nell’offerta della casa editrice la rispo- sta a una domanda culturale maturata in quegli anni almeno in alcuni strati della società: un punto di vista che si può forse arricchire con l’os- servare che il messaggio di uno «straordinario editore»172 come Adelphi possa in effetti finire con l’essere inteso come un implicito invito «all’im-

168 Antonio Gnoli, Da Roth a Walcott ecco l’Adelphi mittelcaraibica, in «La Repubblica», 18 ottobre 1992, p. 26. 169 Maddalena Camera, Adelphi - Grandi scoperte, con eleganza cit., p. 31. 170 [s.n.], L’oracolo di Adelphi. Vita e gesta di un editore di qualità, in «Europeo», 14 ottobre 1988, p. 42. 171 Franco Fortini, C’era una volta la Mitteleuropa, in «L’Espresso», 2 maggio 1993, p. 103. 172 Edmondo Berselli, Sublime, si stampi, in «L’Espresso», 18 luglio 2002, p. 101.

320 politico come unica chance intellettuale per i contemporanei»173. Secondo altri osservatori, invece, il lavoro di Adelphi non corrisponde, come per Fortini, a quello di un’«intelligente industria culturale»174, dal momento che «mai Foà e Calasso hanno pubblicato un libro che non amavano, pensando che lettori più stupidi di loro lo avrebbero forse gra- dito»175: un giudizio in qualche modo condiviso anche da Gian Carlo Ferretti, che nella sua Storia dell’editoria letteraria parla di «una triangolazio- ne editore-opera-lettore fondata su un’affinità elettiva, esclusiva ed esclu- dente»176. Ancora, con forte accento polemico, secondo alcuni alla base delle molteplici proposte editoriali adelphiane si troverebbe «una certa ambiguità di fondo»177, in virtù della quale l’editore «imbonitore» offri- rebbe ai lettori «creduloni» nient’altro che un libro «bello, [...] facile, [...] di moda»: in una parola, fintamente «culturale». Con le brevi citazioni appena riportate si è voluto mostrare come, nella diversità delle impo- stazioni e dei punti di vista, a proposito di Adelphi sia costante la messa in evidenza di quella che si può variamente definire come originalità, ricercatezza, snobismo, o comunque fortissima distinzione rispetto alle altre maggiori case editrici italiane. Non è difficile a questo punto con- statare il fatto che, parlando appunto di «martirio, accuse di frivolezza, [...] snobismo»178, Bazlen mostri di avere piena coscienza della propria posizione culturale, e di come essa sarebbe stata percepita e collocata, sebbene a suo parere solo in senso negativo, nell’ambito della cultura ita- liana degli anni Sessanta e seguenti.

5.2.3 La Biblioteca Adelphi e l’«eredità» delle precedenti collaborazioni.

Nel corso del paragrafo precedente si è già avuto modo di rilevare come dei sedici titoli per lo più di saggistica che, stando alla documentazione costituita dagli Scritti, Bazlen aveva consigliato direttamente ad Adelphi, solo uno, vale a dire le memorie di Bettelheim, ha trovato effettiva pub- blicazione: un aspetto che porterebbe a smentire l’ipotesi di una sua pro-

173 Ibidem. 174 Franco Fortini, C’era una volta la Mitteleuropa cit., p. 103. 175 Giovanni Mariotti, L’oracolo di Adelphi, in «L’Espresso», 7 dicembre 1980, p. 153. 176 Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia, 1945 - 2003, Torino, Einaudi, 2004, p. 199. 177 Fabrizio Rondolino, A me non piacciono i libri Adelphi. È grave?, in «Panorama», 8 marzo 2001, p. 87. Dallo stesso articolo sono tratte le citazioni che seguono. 178 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 336.

321 fonda influenza sul catalogo adelphiano, ma che parimenti può essere contraddetto con facilità da un altro ordine di osservazioni. Si è già avuto modo di constatare in diversi passaggi del presente lavoro come una grande percentuale dei libri presentati via via ai diversi editori sia poi in realtà confluita nel catalogo adelphiano. A testimoniarlo, è la semplicissi- ma considerazione del fatto che, fra i primi venti titoli presentati dalla «Biblioteca Adelphi», ben nove si sono già citati in questa sede come documentate proposte di Bazlen per altri editori, mentre diversi altri sono con estrema facilità riconducibili al suo gusto e ai suoi interessi179. Al fine di esemplificare un’ultima volta il processo che dalle diverse case editrici conduce ad Adelphi, si cita il caso di Pagan mysteries of the Reinassance di Edgar Wind, che Bazlen aveva consigliato a Foà, come possibile pubblicazione per Einaudi, in una lettera del 10 febbraio 1960: un caso particolare per la collocazione che infine il libro troverà, vale a dire non nella «Biblioteca Adelphi», bensì nella collana «Il ramo d’oro»180, nonché per le osservazioni che Bazlen espone nel corso della lettera edi- toriale rivolta ad Einaudi. Anche relativamente a un’opera qualificabile senza dubbi come saggio, infatti, Bazlen pone a criterio fondante la «vitalità» dell’esposizione, ovvero la trattazione della materia come, prima di tutto, parte di una «realtà viva»181: rispetto a questi criteri, viene constatata per diversi aspetti la manchevolezza del libro, anche se alla fine esso viene consigliato, quantomeno per il suo valore in confronto alla cultura contemporanea.

Naturalmente, siamo ancora in una motivgeschichte [storia dei motivi], senza il sospetto che quei «motivi» erano (e sono) una real- tà viva, e determinante (lebensbedingend [condizioni di vita)]; ven- gono trattati come se fossero idee astratte e decorative, o formula- zioni morali, hangen in der luft [sospese in aria], indipendenti [...]. Ma c’è, almeno, una certa coerenza e una certa organicità nello svi- luppo dei motivi - e già questo, in questa nostra disperata cultura, è già qualcosa182.

179 Si vedano, ad esempio, testi come Il segreto del teatro No di Zeami Motokiyo, uscito come quin- to titolo e Le nove porte. I segreti del chassidismo di Jirí Langer, numero 12 della Biblioteca. 180 Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, traduzione di Piero Bertolucci, Milano, Adelphi, 1971. 181 Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen, lettera di Roberto Bazlen a Luciano Foà, 10 febbraio 1960. 182 Ibidem.

322 Bazlen, insomma, in un saggio che secondo lui ha il solo merito di «[dire] quasi qualcosa»183 all’interno di una cultura «disperata»184, vorrebbe vede- re una maggiore aderenza alla vita, alla realtà dei motivi trattati: se si è citata questa ulteriore lettera editoriale nella quale emergono con eviden- za i criteri che lo guidano nella valutazione di un libro è per mostrare come gli stessi criteri, o quantomeno, idee editoriali contigue ad essi, costituiscano la base teorica delle pubblicazioni di Adelphi, soprattutto della «Biblioteca». Nei primi risvolti di copertina dei libri pubblicati nella collana a partire dal 1965, infatti, è possibile leggere una sorta di nota, scomparsa in corrispondenza del quarto volume uscito, che fornisce una definizione tanto esauriente quanto sintomatica delle idee su cui poggia la realizzazione della collana:

una serie di libri «unici», scelti secondo un unico criterio: la profon- dità dell’esperienza da cui nascono e di cui sono viva testimonian- za. Libri di oggi e di ieri - romanzi, saggi, autobiografie, opere tea- I “libri unici” secondo trali - esperienza della realtà o dell’immaginazione, del mondo degli Bazlen. affetti o del pensiero185.

In un breve testo come quello appena citato si può rintracciare, oltre alla «serie di informazioni o spunti interpretativi utili per il potenziale letto- re»186 che si trova spesso nelle quarte o nei risvolti di copertina, l’eco delle posizioni di Bazlen e delle sue opzioni teoriche: diventa così ancora più facile comprendere perché sia diffuso il parere secondo cui egli «ebbe il merito di delineare gli orizzonti culturali entro i quali si sarebbe [...] mossa l’esperienza adelphiana che ancora oggi, a distanza di molti anni [...], trova nel suo progetto di partenza un costante motivo d’ispirazio- ne»187. Il risvolto di copertina dei primi libri della «Biblioteca Adelphi», pertanto, rispecchia per molti aspetti il complesso di idee circa la scrittu- ra, e la sua necessaria vitalità, che Bazlen aveva esposto nelle sue Note senza testo e che si è cercato di delineare nel primo capitolo del presente

183 Ibidem. 184 Ibidem. 185 Come si è detto, il passo appena citato si può trovare nel risvolto di copertina delle prime pub- blicazioni della “Biblioteca Adelphi”. 186 Alberto Cadioli, Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale cit., p. 173. 187 Domenico Arenella, Un lungo serpente di pagine. “Biblioteca Adelphi”, in Anna Longoni, Domenico Arenella (a cura di), Una collana tira l’altra: dodici esperienze editoriali, Pavia, Santa Caterina, 2009, p. 47.

323 lavoro. È d’altronde lui stesso a confermarlo, in testi privati e personali come tutti quelli riportati negli Scritti, vale a dire le lettere all’amico trie- stino Giorgio Voghera. A lui, infatti, Bazlen cerca di procurare lavori redazionali o di traduzione per il nuovo editore, ma anche chiede di indi- care a sua volta possibili pubblicazioni: aspetti, questi, che determinano la necessità di specificare quali siano i criteri di scelta dei libri per la «Biblioteca», corrispondenti a loro volta con quanto si troverà scritto nel risvolto di copertina. In una lettera datata 14 agosto 1963, infatti, Bazlen chiede a Voghera di segnalare «autobiografie con vero fondo»188, promet- tendo di affidargli la loro eventuale traduzione. Questa indicazione, già di per sé rilevante, è arricchita da un altro conciso prospetto di quelle che dovrebbero essere le caratteristiche della «Biblioteca»:

l’intenzione di questa nostra collezione di autobiografie ecc. (che però non verrà presentata come collezione, ma come libri singoli) è di dare «Erlebnisse» [esperienze] vive, e mostrare forme di vita, nel La Biblioteca Adelphi come modo più spontaneo e meno intimidatorio possibile189. collana di libri unici. Già nel 1963, dunque, Bazlen ha chiare in mente quelle che saranno le caratteristiche principali della «Biblioteca Adelphi», ed è in grado di for- mularle in maniera non troppo dissimile da come esse saranno poi pre- sentate ai lettori. Conta comunque sottolineare, in primo luogo, che il riferimento esplicito al genere autobiografico rispecchia l’influenza, fra l’altro, di progetti elaborati con Einaudi quali ad esempio la «Collezione dell’io»190. In secondo luogo, è molto rilevante che una delle caratteristi- che più spiccate della «Biblioteca» si trovi descritta direttamente dalla penna di Bazlen, che ebbe dunque un ruolo di primo piano nell’idearla: a confermarlo, si possono citare le parole di Calasso, che nell’intervista rilasciata a Domenico Porzio afferma che la collana «è nata da dei libri che erano stati proposti da Bazlen come libri unici»191. Si tratta, vale a dire, di quanto è descritto, nel risvolto di copertina dei libri, come il fatto

188 Lettera di Roberto Bazlen a Giorgio Voghera, 14 agosto 1963. In Roberto Bazlen, Giorgio Voghera, Le tracce del sapiente, Lettere 1949-1965 cit., p. 61. 189 Ivi, p. 59. È inoltre interessante considerare come la lettera sia fortemente improntata alle sue idee ed idiosincrasie: lo si può vedere dal passo in cui dichiara di volere “evitare per esempio (ma non mi riuscirà) che l’Adelphi pubblichi mai la parola etica”. Cfr. Ibidem. 190 Si ricorderà, inoltre, che nel quarto capitolo del presente lavoro si è considerata l’ipotesi che anche il nome “Biblioteca” e la divisione delle collane in una “Grande” e “Piccola” ha probabil- mente origine nei progetti che Bazlen in passato aveva presentato ad Einaudi e Bocca.

324 che la «Biblioteca» non sia presentata «come collezione, ma come libri singoli»: in altre parole, quello che manca è uno «scheletro» teorico, un filo concettuale che colleghi fra di loro i titoli che vengono presentati al pubblico, come avviene nella maggior parte dei casi. In effetti, la com- mistione di generi e tipologie di testi appare sin dall’inizio come forte- mente caratterizzante le prime pubblicazioni di Adelphi192. Diventa a questo punto possibile affermare che la «Biblioteca Adelphi» realizza la scelta primaria di Bazlen, ovvero il rifiuto, più volte visto a proposito della collaborazione con Einaudi, di fornire ragioni teoriche per le pro- prie scelte editoriali, che in questo caso viene elevato a criterio e pecu- liarità di una collana. L’unicità dei libri vantata nel risvolto di copertina va dunque intesa anche nel senso che ai propri lettori la casa editrice offre di volta in volta un’opera che non è assimilabile alle altre, prece- denti e successive. Il «libro unico», dunque, è

un libro irresponsabile nei confronti [...] delle intenzioni ideologiche o pedagogiche. Suoi caratteri sono la novità, l’irregolarità, la capaci- tà di sorprendere. Più vuota che piena, la nozione è evidentemente legata a una certa pratica della lettura, bruscamente convertita, senza mediazioni intellettuali visibili, in programma editoriale193.

Le considerazioni appena riportate permettono di collocare il gusto per- sonale di Bazlen, evidente artefice della «pratica della lettura» asistemati- ca e ossequiente al criterio del solo gusto personale di cui si parla nel brano, anche all’interno di un contesto più ampio, così che la specificità di Adelphi rispetto agli altri editori diventa più facilmente rilevabile. Il modello adelphiano, vale a dire, si pone come «una sorta di rovescio La proposta adelphiana come rovescio dei quella 194 dell’Einaudi» , soprattutto rispetto a quella «impostazione organicista e einaudiana.

191 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. Alle parole di Calasso che si sono citate, inol- tre, Foà aggiunge un’altra interessante caratterizzazione della collana: “c’era anche questa idea, che ci fosse questa continuità, pensa anche alla numerazione, di una rivista che pubblicava con questo spirito: come una volta venivano fondate le riviste, non le case editrici, da parte di un gruppo di persone che avevano un’affinità di idee, che si capivano”. Cfr. Ibidem. 192 È bene comunque fare presente che, secondo alcuni, un’altra caratteristica fondamentale della “Biblioteca Adelphi” corrisponde all’essere “focalizzata su una linea fantastica, o comunque non realista”, secondo una tendenza impressa da una prima pubblicazione come L’altra parte di Alfred Kubin. Cfr. Stefano Guerriero, Adelphi al paragone cit., p. 349. 193 Giovanni Mariotti, L’oracolo di Adelphi, in «L’Espresso», 7 dicembre 1980, p. 155. 194 Domenico Arenella, Un lungo serpente di pagine. “Biblioteca Adelphi” cit., p. 48.

325 pedagogica»195 che sempre aveva caratterizzato la casa editrice torinese, e che con molta probabilità aveva trovato la disapprovazione e il disaccor- do di Bazlen: il quale, allontanandosi da questo ambiente, contribuisce e si impegna a creare una casa editrice che rispecchi pienamente la sua posizione. Che nella scelta di privilegiare «l’unicità del titolo piuttosto che la coerenza tematica d’insieme»196 si possa vedere un elemento se non di polemica, quantomeno di decisa differenziazione rispetto ad Einaudi, è confermato dalle parole di Roberto Calasso, dunque una per- sonalità molto vicina a quella di Bazlen: in un’intervista, infatti, dopo avere manifestato la propria fiducia nel fatto che gli «affini» di Adelphi, da lui indicati come «i lettori un pochino più svegli»197, abbiano «la per- cezione» che le eclettiche proposte dell’editore «[stiano] insieme per qualche ragione», denuncia con un certo spregio l’«idea tutta einaudiana di essere la coscienza della nazione». Anche un testimone autorevole come Italo Calvino, il quale, come si è visto, aveva avuto modo di cono- scere Bazlen e lavorare con lui presso Einaudi, ricorda il «suo amore per i libri piccoli e unici, fuori da ogni classificazione di scuola o di tenden- za (in un’epoca prima dei “tascabili”)»198: un’osservazione che, ricollegan- dosi ai libri tascabili, permette di riflettere su un altro possibile collega- mento fra la figura dell’intellettuale triestino e alcuni aspetti della storia editoriale italiana. Che il riferimento sia alla «Biblioteca Adelphi», e forse anche alla «Piccola Biblioteca», è poi dimostrato dal fatto che Calvino subito di seguito specifichi che questa idea «diede l’impostazione all’Adelphi»199. La paternità di Bazlen sul peculiare criterio di scelta carat- terizzante la «Biblioteca», nonché sui primi titoli che vennero pubblica- ti, è dunque comprovata, tanto più se si considera che lo stesso Roberto Calasso ammette che «in quei primi anni il programma aveva totalmen- te l’impronta di Bazlen»200. La lettura delle interviste e testimonianze circa la nascita di Adelphi per- mette però di mettere in evidenza un ulteriore elemento di netta distin- zione della proposta del nuovo editore rispetto a quella di Einaudi.

195 Ibidem. 196 Ivi, p. 50. 197 Massimo Fini, Piccoli editori crescono cit., p. 113. Le citazioni che seguono sono tratte dallo stes- so articolo. 198 Italo Calvino, La psiche e la pancia cit., p. 20. 199 Ibidem. 200 Massimo Fini, Piccoli editori crescono cit., p. 113.

326 Rispetto ad essa, tuttavia, l’ideazione sembra più che altro da ricondursi non a Bazlen, ma alle figure a lui vicine, quali appunto Luciano Foà e Roberto Calasso: è quest’ultimo a raccontare, in una lunga ricostruzione della nascita della casa editrice, che al momento di scegliere lo stile delle copertine della «Biblioteca» l’opzione primaria fu quella di evitare l’uti- lizzo del bianco «perché era il punto di forza della grafica Einaudi, la più bella allora in circolazione»201. Quello che all’interno della casa milanese era avvertito come un «obbligo [...] di differenziarci al massimo»202 si tra- dusse nella scelta dei colori pastello, fino ad allora estranei alle copertine italiane, e soprattutto nell’utilizzo della grafica ideata dall’illustratore Aubrey Beardsley: nel 1895, infatti, egli aveva creato le copertine per la collana «Keynotes» dell’editore inglese John Lane, che in effetti sono pressoché pienamente assimilabili a quelle della «Biblioteca Adelphi». Tramite l’adozione della stessa grafica per ogni uscita della collana, dun- que, la redazione adelphiana sceglieva di collocare i suoi «libri unici» in un contenitore editoriale riconoscibile, se non per il genere dei libri pro- posti, per lo stile delle sue copertine, con la sola differenziazione, di tito- lo in titolo, rispetto al colore. È importante sottolineare, però, che que- La particolare attenzione per sta scelta, particolarmente fortunata in quanto presto rivelatasi in grado le copertine. di contraddistinguere fortemente l’immagine adelphiana, fu attuata da Foà: essa infatti è frutto del desiderio di presentare i libri comunque all’interno di una collana e non «ciascuno con un impianto diverso della copertina - e magari con formati diversi»203, secondo un progetto alter- nativo che forse non è improprio ricondurre a Bazlen e alla sua forte responsabilità nell’ideazione dei «libri unici». Resta a questo punto da mettere in luce un elemento non indifferente ai fini di una valutazione quanto più veritiera possibile dell’operato di Bazlen presso Adelphi: la sua partecipazione e il suo contributo al pro- getto non escludono infatti la possibilità, o meglio la necessità, di rileva- re come la riuscita della collaborazione non sia stata scontata e priva di difficoltà nemmeno in questo caso. In primo luogo, è opportuno tenere bene a mente quanto Calasso così ricorda:

per più di trent’anni, Foà e io abbiamo vagliato, provando e ripro-

201 Roberto Calasso, In copertina metteremo un Beardsley, in «La Repubblica», 28 dicembre 2006, p. 54. 202 Ibidem. 203 Roberto Calasso, Così inventammo i libri unici, in «La Repubblica», 27 dicembre 2006, p. 57.

327 vando centinaia e centinai di immagini, formati, colori di fondo. Bazlen non poté partecipare a questo gioco, perché il finito di stam- pare del primo volume della Biblioteca coincise con il mese della sua morte: luglio 1965204.

La partecipazione di Bazlen ad alcuni aspetti del lavoro di Adelphi, dun- que, non poté per ovvie ragioni essere diretta: nondimeno, rimane che l’ipotesi che si è sollevata poco sopra circa la sua disapprovazione delle copertine della collana trova conferma in un breve passo di una lettera all’amico Erich Linder. L’occasione è quella dello scambio di opinioni circa i libri del nuovo editore, che l’agente letterario205 in una lettera di pochi giorni prima aveva criticato. A lui Bazlen risponde con una lette- ra per molti aspetti allusiva, ma che non lascia molti dubbi circa il suo parere sulle caratteristiche della «Biblioteca Adelphi»: «A Luciano, per la parte esterna di “Biblioteca”, avevo già l’intenzione di scrivere una lette- ra molto energica per conto mio. Non so se servirà»206. Allo stesso modo, oggetto della disapprovazione tanto di Bazlen quanto di Linder sono la pubblicazione delle Note azzurre di Carlo Dossi, uno dei primi volumi usciti per la collana dei «Classici»207. A questo proposito, sempre in rispo- sta alle aspre critiche mosse dall’amico, Bazlen scrive: «per fortuna, l’edi- zione di lusso del Dossi non l’ho vista. Mi basta, del resto, la vergogna del testo»208. In questo caso, dunque, la disapprovazione di Bazlen sem- bra riguardare maggiormente l’aspetto testuale: una forte critica alla cura formale delle varie edizioni, comunque, si può trovare poche righe sotto, dove a essere stroncati sono i «Saggi». «Per fortuna i classici non sono andati troppo (dico: troppo) male. [...]. Poi ci sono stati i «Saggi», che nascondo affinché nessuno li veda»209. Anche nel caso di Adelphi, dun- que, Bazlen non rinuncia del tutto al proprio atteggiamento tendente al

204 Roberto Calasso, In copertina metteremo un Beardsley cit., p. 55. 205 Si ricorda che non è improbabile l’ipotesi che Linder, in quanto appunto massima autorità dell’Agenzia Letteraria Internazionale, abbia avuto un ruolo nella cessione del catalogo di Frassinelli ad Adelphi: se si considera la collaborazione, negli anni Trenta, di Bazlen con l’edito- re torinese, non è difficile ipotizzare che tramite questa operazione un’altra importante porzione dei libri scelti da Bazlen sia confluita nel catalogo di Adelphi. 206 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1964, b. 21, fasc. 20 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 30 dicembre 1964. 207 Carlo Dossi, Note azzurre, testo, prefazione, note e indici analitici a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1964. 208 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1964, b. 21, fasc. 20 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 30 dicembre 1964. 209 Ibidem.

328 pessimismo e all’insoddisfazione: sentimenti che peraltro si trovano manifestati anche al di fuori degli scambi con Linder, improntati comun- que alla massima discrezione, se in chiusura della propria lettera l’agen- te letterario scrive: «guai a te se bisbigli una parola a Luciano delle mie critiche»210. Critiche simili a quelle appena viste, infatti, si possono rin- tracciare nel carteggio con Giorgio Voghera, in particolare nella lettera del 18 gennaio 1964, nella quale Bazlen scrive: «bene che Adelphi ti sia piaciuta. Fa’ propaganda e fa’ andare i volumi. [...]. Se vanno, potremo fare roba molto più inaspettata e inquietante, in caso contrario dobbia- mo continuare nella forma blanda e piuttosto phantasielos [priva di fan- tasia] che hai visto»211. Risalendo al gennaio del 1964, è difficile che la let- tera che si è appena citata possa riferirsi alla «Biblioteca Adelphi», colla- na varata, come si è visto, l’anno successivo: resta comunque il fatto che, oltre a permettere di vedere come egli stesse lavorando in una prospet- tiva di lungo periodo, dunque con la volontà di disporre le pubblicazio- ni in modo progressivo, essa mostri le critiche, in questo caso pare di natura contenutistica, che egli muoveva alle produzioni di Adelphi. Le ragioni di disappunto delle quali si è fino ad ora fatto cenno devo- no necessariamente essere completate da un’ulteriore, conclusiva riflessione, in verità suscitata non tanto da una testimonianza diretta del pensiero di Bazlen in merito, quanto da osservazioni di diverso ordine, vale a dire riferite alla tempestività della messa in atto delle sue proposte. Un solo, ultimo esempio può valere a mostrare con eviden- za quanto in realtà risulta facilmente deducibile dalle osservazioni fino ad ora esposte: si tratta dell’ottava opera pubblicata nella «Biblioteca Adelphi», Il libro dell’Es di Georg Groddeck212, vale a dire un «trattato psicoanalitico sotto forma di romanzo epistolare»213, dunque per molti aspetti corrispondente al tipo di pubblicazioni caratterizzanti la colla- na. La scelta di quest’opera da parte di Adelphi è senza dubbio da ricondursi al consiglio di Bazlen, dal momento che già nel 1961 egli la proponeva ad Einaudi: il caso è sotto questo aspetto simile ai numero-

210 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1964, b. 21, fasc. 20 (corrispondenza Roberto Bazlen), Linder a Bazlen, Milano, 28 dicembre 1964. 211 Lettera di Roberto Bazlen a Giorgio Voghera, Roma, 18 gennaio 1964. In Roberto Bazlen, Giorgio Voghera, Le tracce del sapiente, Lettere 1949-1965 cit., p. 75. 212 Georg Groddeck, Il libro dell’Es. Lettere di psicoanalisi a un’amica, traduzione di Laura Schwarz, prefazione di Lawrence Durrell, Milano, Adelphi, 1966. 213 La citazione è tratta dal risvolto di copertina dell’edizione Adelphi.

329 si che si sono visti fino ad ora, ma anche particolarmente rilevante e significativo, dal momento che quello che sembrerebbe un intervallo di cinque anni fra la lettura del libro da parte di Bazlen e la sua pubblica- zione da parte di Adelphi è in realtà assai più ampio. Nella lettera indi- rizzata a Luciano Foà in quanto segretario generale di Einaudi, infatti, egli fa presente che «a suo tempo, - l’ho letto subito dopo uscito - era un libro sconvolgente, divertentissimo, non sempre accettabile»214: la prima edizione de Il libro dell’Es, come il risvolto di copertina dell’edi- Il libro dell’Es zione adelphiana contribuisce a rilevare, risale al 1923. Il contesto, dunque, è quello della giovinezza trascorsa a Trieste, dove Bazlen conobbe il libro (pubblicato, infatti, a Vienna) grazie appunto al con- tatto con l’ambiente culturale che si è descritto nel primo capitolo: nel suo Gli anni della psicanalisi, infatti, Giorgio Voghera ricorda l’«amore»215 di suo padre Guido, autore de Il Segreto, per Il libro dell’Es, «amore che egli instillò, o per lo meno rafforzò, anche in Bobi»216. Fra la lettura del libro e la sua pubblicazione, dunque, sono trascorsi ben quarantatré anni e già nel 1961 Bazlen riflette sulla differenza di percezione del testo molto probabilmente maturata nel frattempo. Subito dopo il passo appena citato, infatti, egli scrive: «l’ho riletto (in parte), e non so rendermi conto dell’impressione che possa fare su chi lo avrà in mano ora per la prima volta - probabilmente meno sconvolgente e più accet- tabile, abbastanza divertente»217. Con queste parole, insomma, Bazlen rende evidente che con il passare del tempo l’effetto del libro può esse- re, per così dire, scemato. La validità della pubblicazione presso Einaudi (in realtà poi non verificatasi) vanificherebbe dunque, in quan- to tardiva, la portata del libro: egli stesso considera, in qualche modo, questa ipotesi se, una volta affermato che «a mio parere, va tradotto [...]: è uno dei quattro o cinque classici della psicoterapia moderna»218, nondimeno chiede all’editore di «vedere che impressione fa a chi lo legge ora, molto in ritardo»219. L’aspetto sul quale si vuole in questa sede porre l’accento è che il «ritardo» apertamente denunciato da Bazlen a proposito de Il libro

214 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 315. 215 Giorgio Voghera, Gli anni della psicanalisi cit., p. 27. 216 Ibidem. 217 Roberto Bazlen, Scritti cit., p. 315. 218 Ibidem. 219 Ibidem.

330 dell’Es sia in realtà un dato rilevabile a proposito di moltissime altre pubblicazioni di Adelphi, o forse, in realtà, del progetto in sé relativo alla creazione della casa editrice: a sottolinearlo è lo stesso Foà nell’in- tervista rilasciata a Domenico Porzio, nella quale appunto egli ammet- te che «la posizione di Bazlen era che questa casa editrice nasceva in ritardo in confronto a tutto quello che lui aveva accumulato»220, come si è visto, nel corso di un periodo molto lungo e ricco di cambiamen- ti storici e culturali. «Quello che è successo in questi anni», dunque pre- sumibilmente le pubblicazioni di Adelphi, è infatti secondo Calasso, «un rimescolamento di cose esistenti, che non erano state percepite prima e che lui aveva già percepito»: all’«entusiasmo» rispetto alle Nuove Edizioni Ivrea che Foà rileva, dunque, doveva fare da contro- canto un sentimento differente nei confronti della nascita di Adelphi, a proposito della quale, non a caso, Calasso nuovamente puntualizza che «c’erano degli autori per lui essenziali che non voleva tanto pro- porre adesso, perché considerava che dovessero essere parte di qualco- sa di acquisito, e l’Italia non aveva acquisito per nulla». L’atteggiamento pessimistico, o comunque mai del tutto entusiasta che si è visto a pro- posito di diverse iniziative trova in effetti, nel caso di Adelphi, ragioni concrete e comprensibili, tanto più che, stando sempre alla testimo- nianza fornita a Domenico Porzio da Foà e Calasso, la consapevolez- za del ritardo adelphiano conduceva Bazlen a «cercare un nuovo che fosse nuovo anche per lui», rintracciabile probabilmente in alcuni tito- li del catalogo dell’editore, che tuttavia non è possibile individuare. Che lo spirito fosse quello di volontà di ricerca di novità in conseguenza del ritardo, e dunque della perduta vitalità ed interesse, delle pubblicazioni adelphiane è d’altronde dimostrato da un passaggio di una lettera a Linder, significativamente collocata nel gennaio 1965, dunque all’inizio dell’esperienza della «Biblioteca» e pochi mesi prima della sua morte. Per argomentare quello che sembra aperto disprezzo nei confronti del- l’edizione delle Note azzurre di Dossi, infatti, egli infatti così scrive all’amico:

non credo (mai creduto) alla Kulturgeschichte [storia della cultu-

220 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio, intervista di Domenico Porzio a Luciano Foà, s.d. Le citazioni che seguono sono tratte dalla stes- sa fonte.

331 ra], alla Literaturgeschichte [storia della letteratura], ai Blickwinkel [prospettive] e non so che. L’unica misura che conosca è la mia Verwandlung [trasfomazione], cioè la differenza tra il signor Bazlen prima d’aver letto un certo libro e il signor Bazlen dopo averlo letto. E il signor Bazlen dopo aver sfogliato il Dossi per forse un’ora, era un uomo che aveva perso un’ora in cattiva com- pagnia, che ha respirato un’aria che anche senza velleità spaziali è diventata irrespirabile, e che aveva bisogno di un bagno caldo221.

221 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder, Serie annuale 1965, b. 28, fasc. 33 (corrispondenza Roberto Bazlen), Bazlen a Linder, Roma, 5 gennaio 1965.

332 Conclusioni

«L’influenza di Bazlen sull’editoria italiana [...] resta difficile da rico- struire per il suo caratteristico modus operandi di suggeritore nell’ombra, restio a incarichi ufficiali che si possono desumere approssimativa- mente dalle lettere editoriali»222. L’autorevole parere di Gian Carlo Ferretti risulta, alla luce di quanto si è fino ad ora considerato, piena- mente condivisibile: è proprio a partire da questa considerazione che si è cercato di portare alla luce, nel corso del presente lavoro, gli ele- menti che possono contribuire a descrivere con maggiore precisione la figura di Bazlen e la sua influenza nel panorama editoriale italiano. La tendenza ad agire in maniera ufficiosa e velata è in effetti un dato incontrovertibile della personalità di Roberto Bazlen: è opportuno però considerare come sia possibile cercare di superare la netta sensa- zione di trovarsi di fronte a un personaggio «nell’ombra» e nascosto, descritto unicamente dalla propria personale enigmaticità e dall’aned- dotica che spesso la accompagna. Si vuole cioè porre in evidenza come la ricerca in archivio possa permettere, e in questa sede forse abbia effettivamente permesso, di esemplificare ed approfondire quei dati che una ricostruzione unicamente biografica o basata sulle sole testi- monianze pubblicate può senza dubbio mettere in luce, ma appunto non considerare nella loro completa estensione. Una breve considerazione di quanto la casa editrice Adelphi ha scelto

222 Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia, 1945 - 2003 cit., p. 196.

333 di conservare della personalità che più l’ha influenzata può fornire una significativa argomentazione rispetto a quanto si sta considerando: quello che in questa sede si è citato come un volume antologico di Scritti ha infatti origine in una serie di pubblicazioni separate che fra il 1968 ed il 1973 furono presentate come una piccola collezione, dal nome «Quaderni di Roberto Bazlen». Le Lettere editoriali223, le Note senza testo224 ed Il capitano di lungo corso225 furono dunque presentate al pubbli- co come tre pubblicazioni separate: è evidente dunque una certa volontà di valorizzazione, testimoniata anche da una lettera di Paolo Boringhieri a Luciano Foà, nella quale l’editore torinese scrive, dopo «aver guardato la corrispondenza con Bobi Bazlen»226, di avere l’im- pressione che «non ci sia alcuna lettera che si presti ad essere pubbli- cata, anche se singoli brani qua e là sono ovviamente spiritosissimi e interessanti»227. Resta tuttavia che l’intenzione di raccogliere documen- ti circa il lavoro di Bazlen anche presso editori che non fossero Adelphi o Einaudi si è concluso, nei fatti, in una selezione netta rispet- to alla grande mole di materiale in realtà disponibile: conseguenza di questo è che, ad esempio, del migliaio di lettere conservato presso l’Archivio della casa editrice Einaudi a Torino, nella raccolta degli Scritti si trovi rappresentata una minima percentuale, sulla quale si sono poi basate le pur ricchissime monografie dedicate a Roberto Bazlen. Con il presente studio e con il lavoro di ricerca che lo ha preceduto si è dun- que tentato di aggiungere qualche elemento nella documentazione relativa al lavoro editoriale di Bazlen e nella sua contestualizzazione. L’assenza di materiali presso l’archivio Olivetti di Ivrea è stata così «aggirata» tramite la ricerca svolta presso la fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano, dove è stato possibile prendere visione di interessanti documenti circa l’attività delle Nuove Edizioni Ivrea. Allo stesso modo, si è cercato di valorizzare tutto il materiale d’archi- vio inedito che si è potuto analizzare e che, a parere di chi scrive, costi- tuisce una risorsa fondamentale per lo studio della personalità intellet-

223 Roberto Bazlen, Lettere editoriali, a cura di Roberto Calasso e Luciano Foà, Milano, Adelphi, 1968. 224 Roberto Bazlen, Note senza testo, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1970. 225 Roberto Bazlen, Il capitano di lungo corso, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1973. 226 Archivio della casa editrice Bollati Boringhieri, Torino, incartamento Bazlen, lettera di Paolo Boringhieri a Luciano Foà, 19 aprile 1968. 227 Ibidem.

334 tuale di Roberto Bazlen. Le osservazioni che diventa possibile svolgere sulla base di un’ampia serie di documenti permettono infatti di dare maggiore consistenza all’immagine di Bazlen e soprattutto alla sua particolare posizione nei confronti del panorama editoriale e culturale italiano: in questo modo, si spera, diventa più facile comprendere tanto l’unicità quanto la rap- presentatività della sua figura. Riconsiderando i passi della carriera che si è cercato di ricostruire, infatti, viene in prima istanza da osservare l’originalità di un personaggio dagli interessi quanto mai diversificati, che diede il proprio contributo ad un numero non indifferente di case editrici italiane ed ebbe modo di confrontarsi con personalità quali Montale, Saba e Calvino: tutti aspetti, questi, ai quali Bazlen si rappor- tò con un’attitudine peculiare, e non sempre facile da definire. Resta tuttavia da considerare che i particolari atteggiamenti che lo distingue- vano da molti intellettuali coevi costituiscono, per così dire, risposte personali a circostanze che in un modo o nell’altro tutti gli intellettua- li e i letterati che lavorarono in campo editoriale dovettero fronteggia- re. A suscitare questa conclusiva riflessione è stata la lettura dell’Introduzione, ad opera di Vittorio Spinazzola, agli atti del convegno dedicato nel 1990 ad una delle figure più rappresentative della «condi- zione dell’intellettuale umanista che si fa prestatore d’opera presso un’impresa editoriale»228, vale a dire Italo Calvino: è lo stesso Spinazzola, in effetti, a specificare in apertura del proprio intervento come quanto osservato a proposito dello scrittore sia in realtà «gene- ralizzabile»229, dal momento che «nel corso del Novecento si è infittita sempre di più la schiera degli scrittori, o più latamente degli intellettua- li di formazione umanistica, che hanno esercitato un’attività importan- te nel mondo dell’editoria»230. Per quanto si sia visto in questa sede che la condizione di scrittore sia da Bazlen rifiutata, in seguito ad una scel- ta strettamente saldata a quella di lavorare in editoria, è innegabile che non pochi degli aspetti chiamati in causa da Spinazzola a proposito di Calvino siano riferibili anche a lui stesso. Le vicende che si sono descritte in questa sede, dunque, possono forse anche servire per

228 Vittorio Spinazzola, Introduzione, in Calvino e l’editoria cit., p. XI. 229 Ivi, p. XII. 230 Ibidem.

335 un’ulteriore considerazione di quella «somma di fenomeni e vicende d’indole sia storica sia istituzionale»231, sullo sfondo delle quali, in effet- ti, vanno necessariamente valutate. In questo modo, l’originale rappre- sentazione, depositata ne Il capitano di lungo corso, della scelta di non scri- vere, per lavorare in editoria e valorizzare i libri ritenuti «unici», può essere forse vista anche come un esempio del fatto che, tra «letterati editori», nessuno «ha fatto oggetto di discorso le proprie esperienze di lavoro, in sede di saggismo critico o almeno di resoconto testimonia- le: semmai, ha inteso darne una trasposizione metaforica»232. Come si è visto, infine, è facile osservare come lo stile che spesso caratterizza le lettere di Bazlen si allontani significativamente dalla concezione del parere editoriale come uno scritto che «obbedisce non a criteri deter- minati soggettivamente [...] ma improntati a una norma di utilità azien- dale»233: è tuttavia altrettanto immediato rilevare la piena rappresentati- vità di una condizione evidentemente generalizzata, per cui «chi lavo- ra nell’editoria, per l’editoria, si trova a dover conciliare e mediare la sua personale idea di letteratura con gli orientamenti della ditta che lo paga»234. Le modalità dei rapporti che si svilupparono fra Bazlen e gli editori con i quali nel tempo collaborò, dunque, vanno considerate anche in un’ottica più ampia, che permette di seguire l’evoluzione di un singolo, e certamente originale, intellettuale come il rispecchiamento di momenti particolari della storia editoriale italiana.

231 Ivi, p. XI. 232 Ivi, p. XIII. 233 Ivi, pp. XV-XVI. 234 Ivi, p. XVI.

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Cinquant’anni di un editore: le edizioni Einaudi negli anni 1933-1983, Torino, Einaudi, 1983.

Catalogo storico edizioni Frassinelli, 1931-1991, a cura di Roberta Oliva, Milano, Frassinelli, 1991.

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Catalogo storico delle edizioni Bollati Boringhieri 1957/1987/2007, a cura di Irene Amodei e Valentina Parlato, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

Sitografia.

Casa editrice Adelphi, www.adelphi.it

Casa editrice Astrolabio, www.astrolabio-ubaldini.com

Fondazione Adriano Olivetti, www.fondazioneadrianolivetti.it

349 Archivi.

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Archivio Einaudi, Torino, Fondo Collaboratori italiani, incartamento Bazlen .

Archivio Storico Olivetti, Ivrea.

Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Erich Linder.

Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Domenico Porzio.

Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Fondo Rosa e Ballo.

Università degli Studi di Milano - Centro Apice, Archivio Scheiwiller (in corso di riordino).

350 INDICE DEI NOMI

Abbegg, Lily 94 Adams, Henry 235, 263 Aksakov, Sergej 235, 237 Alain (Chartier, Émile-Auguste) 82, 86 Altenberg, Peter 18 Andersen, Hans Christian 108 Andrade, Carlos Drummond de 205 Angioletti, Giovanni Battista 26 Antonicelli, Franco 55-6 Apollonio di Tiana 192 Ara, Angelo 8, 10, 17, 27 Argan, Giulio 167-70 Artaud, Antonin 224, 229-30, 260

Balbo, Felice 284 Ball, Hugo 82, 85 Ballo, Ferdinando 62 Barth, Karl 64 Bassi, Lorenzo (ps. Roberto Bazlen) 4, 142, 174 Bazlen, Georg Eugen 12 Beardsley, Aubrey 327 Bemporad, Gabriella 81, 84, 168, 185 Benco, Silvio Enea 19 Berdjaev, Nikolaj Aleksandrovič 66 Bergson, Henri 64 Bermann, Elsa 66 Bernhard, Ernst 3, 84, 90, 94, 279 Bettelheim, Bruno 311-4, 321 Bin-Gorion, Mikhah Yosef 192 Blanchot, Maurice 138-42, 144-6, 153, 213, 233 Blixen, Karen 208-9, 213, 236 Bloch, Chaim 236, 241 Bloch, Marc 14

353 Blumenthal, Ljuba 41, 60, 154 Bobbio, Norberto 121 Bolaffio, Vittorio 19 Bollati, Giulio 171-2, 257-9 Bompiani, Valentino 104-5, 209-10 Bonaventura, Tecchi 31 Borges, Jorge Luis 142 Boringhieri, Paolo 75, 274-6, 279, 282-5, 287, 290-1, 294-5, 297-300, 302-3, 305, 315, 334 Boswell, James 235 Brecht, Bertolt 174, 185-8, 207 Broch, Hermann 43, 55, 123, 125, 127-9, 132 Brunschvigc, Léon 316 Buber, Martin 82, 85 Buonaiuti, Ernesto 66 Buonarroti, Filippo 65 Burckhardt, Carl Jacob 65 Burckhardt, Titus 288-9 Burney, Christopher 309-11, 313

Cage, John 317-8 Calasso, Roberto 33, 41, 80-1, 227, 255, 314, 321, 324, 326-7, 331 Callieri, Bruno 276 Calvino, Italo 5, 36, 118, 146, 152, 157-8, 184, 245-6, 248-50, 252-4, 256-66, 268, 282, 326, 335 Camerino, Aldo 66 Campagnolo, Umberto 64-5 Campailla, Sergio 11 Campana, Dino 20 Campo, Cristina 182-3, 234 Cankar, Ivan 22 Cantimori, Delio 121 Cao Xueqin 192, 195-6 Carducci, Giosue 21 Carmelich, Giorgio 19 Carocci, Alberto 28-32, 69 Carotenuto, Aldo 90 Carter, Frederick 244 Cases, Cesare 118, 130-1 Cataluccio, Francesco 273 Cavicchioli, Giovanni 298-9 Cecchi, Emilio 23 Čechov, Anton 142 Cendrars, Blaise 244 Cesari, Severino 273-4

354 Chabod, Federico 191 Chartier, Émile-Auguste vedi Alain Chiodi, Pietro 64 Ciampini, Raffaele 65 Claudel, Paul 82, 85 Cocteau, Jean 14 Colli, Giorgio 293, 299-305 Confucio 49, 192 Crébillon, Claude-Prosper Jolyot de 21 Croce, Benedetto 9, 58, 73, 263, 286

Dahlberg, Edward 224, 233, 250 D’Annunzio, Gabriele 20-21, 99 Daumal, René 223, 227 Dawson, Christopher 66 de Beauvoir, Simone 235, 245, 268 De la Boétie 65 Debenedetti, Giacomo 25, 28, 38, 41, 95, 184, 187, 246-7 de Col, Luisa 82 de’ Liguori Carino, Beniamino 65 Del Re, Bruno 66 De Martino, Ernesto 94, 107-8, 110, 165, 192-3, 282-3, 285 De Marzio (F.lli Bocca) 198, 205, 210-2, 218 Demby, Lucia 209 de Poncins, Gontran 235, 242-3, 260, 307 De Roberto, Federico 97 Déry, Tibor 223, 228, 267 De Sica, Vittorio 106 Deutsch, Helene 277-8, 281 Devoto-Falck, Giulia 305 Dewey, John 66 Dickinson, Emily 235-6 Döblin, Alfred 31, 129 Doderer, Heimito von 129-32 Dolci, Danilo 286 Doriguzzi, Mirto 71 Dossi, Carlo 328, 331-2 Dostoevskij, Fëdor 138, 142 Douglas, Norman 212, 214 Dürer, Albrecht 114, 165

Eckermann, Johan Peter 240 Eliot, Thomas Stearns 14

355 Einaudi, Giulio 116, 169, 189-90, 196, 201, 245-6, 252, 254-5, 265, 266, 268, 273-4

Facchi, Giorgio 64 Falk, Alberto 305 Faulkner, William 14 Federici, Renzo 169 Fenollosa, Ernest 219-20 Ferrabino, Aldo 61 Ferretti, Gian Carlo 303, 321, 333 Figner, Vera 235, 239, 242, 261 Filostrato, Lucio Flavio 192, 197 Firbank, Ronald 201, 204, 218-21 Foà, Augusto 53, 77 Foà, Luciano 3, 4, 41, 53-60, 61, 63-4, 67, 70, 78, 80-1, 87-91, 93, 95-8, 101-2, 106-10, 115-9, 121, 124, 127, 135, 141-2, 156, 165, 168-71, 176, 178-9, 185, 187, 189-90, 192- 6, 198, 212-3, 215-6, 222-3, 228, 233, 243, 248, 252, 256-7, 265-6, 268-71, 276-7, 280- 1, 287-8, 293-5, 298, 302-8, 311, 314-5, 321-2, 327-31, 334 Fonzi, Bruno 114-5, 118, 121-2, 165-7, 175, 180, 191 Forster, Edward Morgan 171 Forti, Alessandro 66 Fortini, Franco 124, 185, 320-1 Fothergill, John Rowland 235, 241 Frank, Anna 309 Freud, Sigmund 2, 3, 12, 47, 58-9, 68, 91-3, 96, 103, 115, 136, 174, 260, 278-9, 289 Frobenius, Leo 65, 68-9 Fruttero, Carlo 118, 186 Fukazawa, Schichiro 223, 229

Gabrieli, Vittorio 71 Gadda, Carlo Emilio 55 Gargiulo, Alfredo 23 Garufi, Bianca 229 Gide, André 14 Ginzburg, Leone 55 Giotti, Virgilio 19, 28 Gobetti, Piero 19 Goethe, Johann Wolfgang von 33, 40, 71, 76-7, 235, 240-1 Gombrowicz, Witold 137-8 Gosse, Edmund 71, 78-80, 209-10, 213, 235-7, 263, 268, 290, 294 Gramsci, Antonio 320 Granet, Marcel 66, 68-9 Graves, Robert 107-10, 165 Grin, Aleksandr 151

356 Groddeck, Georg 329-30 Groethuysen, Bernard 66 Groult, Benoîte 319 Groult, Flora 319 Guandalini, Ugo 102 Guerrini, Vittoria vedi Campo, Cristina Guidi, Augusto 81 Guizot, François 65

Haggard, Henry Rider 244 Hamilton, Alexander 65 Hamsun, Knut 135-37 Hasas, Chajim 133 Hedayat, Sadegh 36, 156, 251 Heiler, Friedrich 66 Hemingway, Ernest 14 Herndon, William Henry 235 Herrigel, Eugen 223, 292 Heywood, Rosalind 315 Hofmannsthal, Hugo von 81-5, 141 Hogg, James 223 Hölderlin, Friedrich 141 Hopkins, Gerard Manley 81-2 Hudson, William Henry 71, 75 Hutchins, Maude 178, 180 Huxley, Aldous 21, 300

Invernizio, Carolina 153 Ivanov, Vyacheslav Ivanovich 65, 69

Ja’ari, Jehuda 133 Jacobi, Jolande 280 James, Henry 21 Jarry, Alfred 239 Jay, John 65 Jefferies, Richard 244-5, 295-6 Joyce, James 14, 130 Jouhandeau, Marcel 204 Jouve, Pierre Jean 147-9 Jung, Carl Gustav 2-3, 47-8, 66-8, 89, 91, 93-5, 103, 107-8, 115, 174, 176, 191-2, 203, 215, 229, 278-80, 283-4, 289

Kafka, Franz 8, 11, 13, 18, 24-5, 36, 43, 46, 48, 55-6, 141, 161-2, 214, 247, 251

357 Kassner, Rudolf 14, 69 Katz, David 276-7 Keiser, Ernst 125-26 Keyserling, Hermann Graf 67, 69, 101 Kerényi, Kàroly 65-6, 68, 93, 247 Kierkegaard, Søren 82, 86-7, 162, 224, 231-32 Klee, Paul 205 Klibanski, Raymond 114, 163, 165 Konrad, Lorenz 176 Kubin, Alfred 213-4, 247 Kuhn, Thomas S. 316-7

La Ferla, Manuela 34, 47 Lagerlöf, Selma 224, 228, 236, 241 Lavelle, Louis 64 Lawrence, David Herbert 14, 72, 77-8 Le Senne, René 64 Levasti, Arrigo 82 Levi, Paola 56 Levi Minzi, Clotilde 12 Lincoln, Abraham 235, 241, 261 Linder, Erich 3, 5-6, 80, 84, 88, 104, 107, 113, 119-20, 190, 198-9, 201-2, 204, 206-7, 209-11, 214, 217-21, 231, 236, 243, 276, 288, 292, 298, 328-9, 331 Long, Haniel 223, 233, 291-3 Longanesi, Leo 98

Madison, James 65 Magris, Claudio 8, 10, 17, 27, 83 Mallea, Eduardo 236 Mallet du Pan, Jacques 65 Manacorda, Giuliano 28 Mandel’štam, Osip 224, 228 Mangoni, Luisa 164, 168-9, 191, 196, 273 Mann, Heinrich 171, 179 Mann, Thomas 31, 126, 130, 161, 247, 300 Marcel, Gabriel 64 March, William 150 Marchi, Giorgio 32 Marcori, Angiolo 71 Marcuse, Herbert 142, 174-5 Mardesteig, Giovanni 206 Mattioni, Stelio 4, 13-5, 154-9 Maupassant, Guy de 142

358 McLuhan, Marshall 318 Meier, Heinrich 77 Menasse, Giuseppe 24, 56 Meschini Ubaldini, Mario 89-90, 96, 220, 280 Metternich, Klemens von 71, 76 Miegge, Giovanni 64 Milarepa 49, 197, 215 Mill, John Stuart 64 Miller, Henry 225, 236, 243-5, 291, 295 Minet, Pierre 269 Mirò, Gabriel 82, 85 Mondadori, Alberto 246, 279 Money, John 151 Montale, Eugenio 1, 2, 18-22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 71, 75, 98, 335 Montinari, Mazzino 303-4 Moore, Henry 281 Morante, Elsa 106 Moravia, Alberto 184 Moro, Tommaso 293-6, 301 Morpurgo, Giulio 18 Morra, Umberto 82 Motti, Adriana 180, 184, 196, 229 Mowat, Farley 307 Murdoch, Iris 151 Musil, Robert 18, 43, 55, 121-7, 129, 131-2, 161, 223, 232-3 Musatti, Cesare 94

Naipaul, V.S. 152, 257 Naropa 71, 75 Neihardt, John G. 235, 238 Németh, László 143-5, 178 Neumann, Erich 281, 315 Newman, John Henry 67 Nietzsche, Friedrich 162, 239, 302-4 Nikhilananda, Swami 235, 300 Nižinskij, Romola 71, 76 Nossack, Hans Erich 223, 227, 254

Okakura, Kakuzo 223, 233, 291-3 Oleša, Jurii Karlovič 224, 227 Olivetti, Adriano 3, 56-5, 67, 69-71, 74, 85-6, 88-9, 94, 99-102, 170, 202, 232, 305 Olivetti, Roberto 305 Olsen, Regina 87, 224, 232

359 Onofri, Fabrizio 66, 71, 75 Orapollo 192, 297-8 Ortega y Gasset, José 65-6, 69, 223, 232-3 Otto, Walter Friedrich 65, 68 Ouspensky, Peter D. 66 Oyono, Ferdinand 153

Panofsky, Erwin 114, 165, 168-9 Paracelso 50, 192, 197, 220, 301 Parri, Ferruccio 286 Pascal, Blaise 162 Pascoli, Giovanni 21 Passerin d’Entrèves, Alessandro 64-5 Pausania 192, 297, 298 Pauwels, Louis 269 Pavese, Cesare 55, 94, 107-8, 110, 165-6, 191, 259, 282-3, 285 Pellegrini, Alessandro 62, 71 Pellizzi, Francesco 305 Penna, Sandro 82, 85 Perse, Saint-John 204-5 Peterich, Eckart 31 Peterson, Erik 66, 68 Pham Van Ky 306 Picamus, Daniela 41 Picard, Max 66, 70, 100-1 Pieraccini Pintacuda, Maria Teresa 294-5, 298 Pignato (poeta) 21 Piovene, Guido 247 Pirenne, Henri 66 Pivano, Fernanda 64 Plutarco 192 Poe, Edgard Allan 298-300 Ponchiroli, Daniele 78, 136, 223, 235, 271, 306-8, 315 Porzio, Domenico 53-4, 58, 61, 80-1, 304, 314, 324, 331 Potocki, Jan 80 Pound, Ezra 173, 220, 285 Powys, Llwellyn 204, 207 Powys, Theodore Francis 111 Prati, Raffaello 71, 82 Prevelakis, Pandelis 230 Prezzolini, Giuseppe 23 Proust, Marcel 142

360 Quarantotti Gambini, Pier Antonio 10, 19, 28, 41, 55, 155

Raby, Frederic James Edward 82 Rachewitz, Boris de 173, 284-7 Rachewitz, Mary de 173, 285, 287 Ramakrishna 235, 241, 259, 301 Rathenau, Walther 66 Ravà, Marcella 65, 82 Rho, Anita 56 Rilke, Rainer Maria 33, 34, 71, 76, 81-4, 141, 207, 222, 224, 231-2 Rinaldi, Marcella 109 Robbe-Grillet, Alain 138 Rodker, John 204-5 Rodocanachi, Lucia Morpurgo 18, 24, 105-6, 113, 171, 199, 286 Rodocanachi, Paolo Stamaty 18 Rolland, Romain 301 Rosa, Achille 62 Rosati, Salvatore 72 Rostand, Jean 174, 176-7 Roth, Joseph 11, 48, 129, 179, 270 Rougemont, Denis de 66 Roussel, Raymond 21 Ruffini, Francesco 66

Saba, Linuccia 160 Saba, Umberto 8, 10-1, 13, 15, 19, 25, 28, 40-1, 160, 183, 335 Sachs, Maurice 235, 238-9, 242 Saint-Exupery, Antoine de 101 Sansom, William 142-3 Santiago, Eduardo 244 Sauvageot, Marcelle 223, 227 Savorgnani, Giulia de 189, 220, 246, 278 Saxl, Fritz 115, 165 Scalero, Alessandra 65 Schär, Hans 191, 200 Scheiwiller, Vanni 56, 219-20 Schenhar, Jizchak 133 Schiller, Friedrich 71, 76, 241 Schmitz, Ettore vedi Svevo, Italo Schubart, Walter 66, 68 Schweitzer, Albert 66 Sèrant, Paul 269 Sereni, Vittorio 181-2, 220

361 Sert, Misia 235 Servadio, Emilio 95 Shakespeare, William 77 Slataper, Scipio 8-10, 16 Soavi, Giorgio 59 Socrate, Mario 82 Solmi, Renato 127, 174, 176 Solmi, Sergio 19, 22, 28, 41, 65-6, 74, 82, 147, 223, 231-2, 234 Sologub, Fëdor 133-7 Solov’ëv, Vladimir Sergeevič 66 Spann, Othmar 64 Spinazzola, Vittorio 335 Spinoza, Baruch 162 Stepun, Fyodor 66 Stevens, Wallace 181 Strindberg, August 235-6, 239-40 Stuparich, Giani 10, 14-5, 19, 24, 28, 58, 77, 154-5 Svevo, Italo 2, 8, 10-1, 18, 22-28, 29-30, 43, 98, 126, 154-5 Swedenborg, Emanuel 192, 194 Sydow, Eckart von 102, 265 Sykes, Gerald 36 Szabo, Magda 131-2

Teresa d’Avila 71, 75-6 Thomas, Dylan 171 Thurn und Taxis, Marie 222, 224, 232, 267 Tolstoj, Lev Nikolaevič 223, 233, 239-40, 264 Trakl, Georg 14 Traverso, Leone 71, 77, 81, 84 Tucci, Giuseppe 71 Tutuola, Amos 223, 228-9, 291-2

Ubaldini, Mario vedi Meschini Ubaldini, Mario Unamuno, Miguel de 65

Valéry, Paul 14, 299 van Gogh, Vincent 162, 239 Veneziani Schmitz, Livia 26 Venturi, Adolfo 253 Vieuchange, Michel 71, 75 Vigolo, Giorgio 141 Villa, Emilio 116 Vital, Chaijm 241

362 Vittorini, Elio 30, 55, 156-8, 178, 191, 195-6 Vivekananda, Swami 300-1 Voghera, Giorgio 10, 12, 13, 15, 38, 47, 49-50, 155, 159-60, 162-3, 324, 329-30 Voghera, Guido 4, 159-62, 330 Voltaire 89

Walmarin, Luciana 99 Waln, Nora 71, 75 Wassermann, Jakob 31 Wedekind, Frank 224, 228, 263 Weiss, Edoardo 12, 17, 59, 90-1 Wilde, Friedrich 239 Wilhelm, Richard 66, 69-70 Williams, William Carlos 164, 178-86 Wilson, Edmund 149-50 Wind, Edgar 322 Wolfe, Thomas 201-2, 204, 213, 247 Woolf, Virginia 142 Worringer, Wilhelm 169-72 Wu Ch’êng-ên 195-6

Yeats, William Butler 307

Zampa, Giorgio 19, 23, 214, 240 Zevi, Alberto 305 Zimmer, Heinrich Robert 66, 68-70, 214 Zorzi, Renzo 65 Zucconi, Angela 82, 86-7 Zveteremich, Pietro Antonio 66

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INDICE DEGLI EDITORI, DELLE COLLANE E DELLE RIVISTE Si siglano con asterisco (*) le collane formulate a livello di progetto e mai realizzate. I numeri di pagina in corsivo sono da intendersi come trattazioni specifiche.

366 Adelphi 1, 6, 33, 50, 53, 57, 60-1, 77-8, 80, 84, 110, 119, 197, 206, 209, 218, 227-8, 230- 1, 237-8, 255, 271, 273, 275, 282, 292, 302-6, 308-332, 333-4 Biblioteca Adelphi 80, 197, 213, 227-8, 230-1, 236-8, 240, 292, 313, 321-332 Biblioteca orientale 255 Classici 328 Il ramo d’oro 322 Piccola Biblioteca Adelphi 228, 270, 292, 324, 326 Quaderni di Roberto Bazlen 2, 334 Saggi 312-3, 315, 317, 328

Agenzia Letteraria Internazionale 3, 53-4, 59, 69, 78, 86-7, 88-111, 117-9, 163, 198, 202, 210-1, 217, 232, 277, 304, 328

All’insegna del Pesce d’oro 182, 219-20

Astrolabio 3, 5, 68, 70, 89-96, 107-8, 220, 277-80, 289 Civiltà dell’Oriente 94-5 Psiche e coscienza 3, 90, 92, 94, 277, 279

Baretti (il) 22, 24

Fratelli Bocca 5, 80, 120, 198-222, 224, 228, 231, 234, 236-7, 247, 289-92, 294, 296-7, 300, 324

Bollati Boringhieri 273, 301-2

Bompiani 3, 104-5, 209-10, 236 Corona 209-10 Grandi ritorni 209

Boringhieri 5, 6, 68, 80, 96, 120, 197, 245, 273-81, 282-302, 303, 305 Biblioteca di cultura etnologica e religiosa (Collana viola) 274-5, 282-89, 301 Biblioteca di cultura scientifica 274, 278 Enciclopedia di autori classici 197, 289-302, 303 Cederna 56, 61, 70, 84, 87

Edizioni di Comunità 61, 64-5, 70, 85-6, 89, 99-101, 170, 305, 317

Edizioni scientifiche Einaudi 274, 276, 278

Einaudi 4, 5, 21, 48, 60, 74, 77-8, 84, 88, 94, 102-3, 105-11, 113-271, 273-7, 279-80, 282, 284, 286-8, 290-5, 297, 302-4, 306-11, 313, 317, 322, 324, 325-7, 329-30, 334 Biblioteca di cultura economica 274 Biblioteca di cultura scientifica 274 Classici della Filosofia 303 *Collezione dell’io 5, 245-71, 307, 324 Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici (Collana viola) 94, 107- 8, 110, 165, 190, 192-4, 274-5, 297 *Collezione grande 5, 222-45, 249-51, 254, 258, 261, 265, 267-8, 290-1, 293, 296 *Collezione piccola 5, 222-45, 249-53, 255, 258, 265, 267-71, 292-4, 296 I Coralli 125, 138, 153-4, 157 I Gettoni 180 I Millenni 116, 194-5, 232 Manuali Einaudi 274 Nuova collana di poeti con testo a fronte 141, 182 Nuova Universale Einaudi 194-6 Nuovi Coralli 161 Piccola Biblioteca Einaudi 173 Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria 273-4 Serie grigia 274 Saggi 140, 168, 174, 194, 249, 317 Supercoralli 125, 127, 143, 178-9, 185, 227, 232, 245, 249, 268 Testi per dirigenti, tecnici e operai 274 *Testi mitologici, religiosi, iniziatici, folkloristici 5, 190, 192, 194

Esame (l’) 23

Feltrinelli 208-9, 220, 258, 271 I narratori di Feltrinelli 220

Fiera letteraria (la) 25-6

Frassinelli 3, 54-5, 110-1, 328 Biblioteca Europea 55, 56 Garzanti 133

368 P. Gobetti 19

Guanda 102-3, 265, 298 Collezione Fenice 102-3, 265

Il Saggiatore 246, 248, 258, 271, 273, 279 Biblioteca delle Silerchie 246, 247, 258, 265

Insel 198-9, 207, 228 Bücherei 198-9, 206-7, 228

Italia Letteraria (l’) 40

John Lane 327 Keynotes 327

Laterza 201

Menabò 156-7,

Mondadori Oscar 273

Morreale 26

Nuove Edizioni Ivrea 3, 6, 55, 56-87, 89, 91, 93, 99-101, 107-8, 169-70, 201-2, 209, 222, 231-2, 236-7, 241, 247, 262, 320, 331, 334 *Collana filosofia 64 *Collana Letteraria 71, 79, 81-7, 232, 262 *Humana civilitas 64 *Mondi e destini 70-81, 83, 202, 209, 222, 237, 262 *Saggi 65-8, 70, 75, 93, 232 *Storia e critica d’arte 170

Nuovo Politecnico 174

Parnaso 22

Piccolo (il) 54

Prospettive U.S.A. 179, 184 Quindicinale (il) 23, 24

369 Ricciardi 56

Rosa e Ballo 3, 61-2, 70

Solaria 2, 26, 28-32, 69, 88, 98, 232

Tempi moderni 75

Times Literary Supplement 54

Treves 201

Voce (la) 9, 73

370

La versione finale .pdf di questo libro è stata realizzata nel mese di giugno 2013

Rispetta il tuo ambiente, pensa prima di stampare questo libro

Nato a Trieste al tramonto dell’epoca asburgica, Roberto Bazlen (1902-1965) costituisce un caso singolare nella storia dell’editoria e della cultura italiana: scrittore mancato, seppu- re per scelta; misterioso amico e dispensatore di consigli per intellettuali come Adriano Olivetti, per cui costruisce il catalo- go delle Nuove Edizioni di Ivrea, Eugenio Montale, Erich Linder; avido lettore e intellettuale egli stesso. Ma soprattutto, consulente editoriale di lungo corso, interlocutore a distanza di editori di pregio: dal suo piccolo appartamento romano di via Margutta, moltissime furono le lettere, affollate di proposte, pareri di lettura, impietose stroncature, inviate ad Einaudi, a Boringhieri, all’Agenzia Letteraria Internazionale. Poco resta, di Valeria Riboli (Milano, 1986) si è laurea- tutto questo, nei cataloghi e nella storia degli editori, con i quali ta con lode, nel dicembre 2011, il rapporto fu costellato di difficoltà e resistenze: troppa era la all'Università degli Studi di Milano con distanza da un intellettuale formatosi nella cultura mitteleuro- una tesi dal titolo Roberto Bazlen edito- pea e pioneristico ricettore delle novità d'Oltralpe. La proposta re nascosto, relatore il Professor Alberto editoriale da lui pensata resta quindi, per lo più, solo ideale. Cadioli. Nel 2009 ha pubblicato presso Velata memoria della sua figura resta ancora, forse, nel catalo- l’editore Marco del Bucchia (Lucca) il go di Adelphi, tardiva realizzazione del suo progetto culturale. saggio Angiò e il mare sul romanzo Angiò uomo d'acqua di Lorenzo Viani. Ha frequentato nel 2012 il Master in Editoria Libraria organizzato da Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Università degli Studi di Milano e Associazione italiana editori.

isbn 978 88 967 7020 7 www.fondazioneadrianolivetti.it

www.fondazioneadrianolivetti.it ISBN 978 88 967 7013 9