Città & Storia

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ISSN 1828-6364 Città & Storia Anno XII, n. 1 gennaio-giugno 2017

SOMMARIO

Città e luoghi del lavoro a cura di Giovanni Favero e Paola Lanaro

G. Favero, P. Lanaro Introduzione, pp. 3-12 V. Levorato, Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili vene- ziani nel XVI secolo: il monastero di Santa Maria Maddalena detto delle “Convertite”, pp. 13-30 R. Parisi, Fabbriche extra-moenia. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale, pp. 31-57 I. Tolic, Negozi italiani moderni. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’ “adorabile crisi”, pp. 59-87 N. Terekhova, Togliattigrad. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’ita- liana, pp. 89-106

Postfazione G. Zilio Grandi, Quando ‘i luoghi’ del lavoro cambiano: storia d’impresa e di lavoratori, pp. 107-111

Saggi

B. Marin, Marquer et pratiquer les lisières urbaines. Les portes de ville à l’Époque moderne, pp. 113-130

A. Citarella, Il principato Citra e l’infanzia abbandonata. L’assistenza pub- blica in una provincia del Regno delle Due Sicilie, pp. 131-155 Schede

Silvia Beltramo, Flavia Cantatore, Marco Folin (eds), A Renaissance Architecture of Power: Princely Palaces in the Quattrocento (S. Fatuzzo); Wolfgang Sonne, Urbanity and Density in 20th-Century Urban Design (F. De Pieri); Roberto D’Arienzo, Métabolismes urbains. De l’hygiénisme à la ville durable: Naples 1884- 2004 (G. Corona); Milena Farina, Luciano Villani, Borgate romane. Storia e forma urbana (C. Quaglio); Gabriele Corsani, Heleni Porfyriou, Borghi rurali e borgate. La tradizione del disegno urbano in Italia negli anni Trenta (F. Coricelli); Bruno Ziglioli, “Sembrava nevicasse”. La Eternit di Casale Monferrato e la Fibronit di Broni: due comunità di fronte all’amianto (G. Cristina); Martin Baumeister, Dieter Schott, Bruno Bonomo (eds.), Cities Contested: Urban Politics, Heritage, and Social Movements in Italy and West Germany in the 1970s (F. La Manna); Irene Sartoretti, Intimi universi. Un viaggio attraverso spazi, arredi e vissuti dome- stici (G. Caramellino); C. Alessandro Mauceri (a cura di), Guerra all’acqua. La riduzione delle risorse idriche per mano dell’uomo (C.M. Pulvirenti), pp. 157-166

Riferimenti autori «Città e Storia», XII, 2017, 1, pp. 3-12, doi:10.17426/87849, ©2017 Università Roma Tre-CROMA

Città e luoghi del lavoro

INTRODUZIONE* Giovanni Favero, Paola Lanaro Università Ca’ Foscari Venezia

1. Il tema del nucleo monografico del fascicolo –Città e luoghi del lavoro – è stato al centro di un convegno dell’Associazione italiana di storia urbana (AISU) svoltosi il 29 aprile 2016 all’Università Ca’ Foscari di Venezia, nel Dipartimento di Management. Il tema è stato affrontato con un approccio metodologico lar- gamente multidisciplinare, tenendo assieme storia dell’architettura, storia eco- nomica, storia sociale e storia politica. Analoga impostazione ha avuto la call for paper promossa da “Città e Storia”, che è scaturita dal convegno AISU e che è stata alla base per la selezione dei contributi per il presente volume. L’idea del convegno, e poi del volume, nasce dalla constatazione che in verità soprattutto la realtà spaziale dei luoghi di lavoro, la loro stessa rappresentazione hanno, come ha ribadito anche Franco Franceschi in molti suoi saggi, riscosso poco interesse nella letteratura di ambito storico architettonico. Quale il motivo? È presto detto. Qualche anno fa ad uno dei convegni del centro Palladio una dei due curatori di questo volume faceva osservare a Franco Barbieri come le attività proto industriali della lavorazione della seta negli spazi di alcune ville venete, come villa Contarini a Piazzola, sfuggissero all’attenzio- ne di architetti e storici dell’arte; al che lui rispose “noi ci occupiamo del bello non del brutto” (conseguenza questo del fatto che l’economia è considerata una scienza triste?). Qualche anno dopo, in una delle mostre organizzate al Cisa da Guido Beltramini e Howard Burns e dedicate a Palladio, in una delle vetrine delle tante sale facevano bella mostra di sé i bozzoli bianchi. Ed in effetti un rapido sondaggio ha evidenziato come rappresentazioni pittoriche di luoghi di lavoro siano pervenute in numero ridotto. Il riferimento qui va soprattutto alle tavolette solitamente di accompagnamento agli statuti delle corporazioni. Ad esempio la casa editrice “Cierre” ha di recente pubblicato le immagini legate alle “mariegole” * Pur essendo il testo di responsabilità comune, il primo paragrafo è attribuibile a Paola Lana- ro, il secondo a Giovanni Favero. 4 Giovanni Favero, Paola Lanaro veneziane che arricchiscono Palazzo ducale a Venezia1. Anche le immagini dello studiolo di Francesco I a Palazzo Vecchio a Firenze ripropongono luoghi di lavoro come la vetreria, la fonderia, la bottega dell’orefice etc. Non dimentichiamo che spesso molte di queste attività ritenute inquinanti e/o brutte, erano concentrate nelle aree periferiche della città, nel caso venezia- no alla Giudecca o nell’isola di Murano (e questo è il noto caso dell’industria vetraria), anche se evidentemente questo aspetto non sempre le immagini lo mettono a fuoco. Così era per gli “squeri”, vale a dire i luoghi dedicati alla costruzione delle imbarcazioni, come ben evidenzia la mappa di Jacopo De’ Barbari (1500) che li colloca ai margini della stessa città lagunare. Altrettanto rari sono i disegni rappresentanti gli spazi che all’interno dei monasteri e/o conventi erano occupati da attività economiche2. Si pensi alla redditizia attività di produzione tessile svolta dagli Umiliati o all’attività di stampa o ancora tes- sile – soprattutto serica – nei monasteri veneziani femminili come quello delle Maddalene alla Giudecca (cioè le ex prostitute). Al massimo quello che viene rappresentato sono gli ampi spazi dedicati all’attività agricola nei giardini e ne- gli orti circostanti gli stessi conventi. È noto come anche molti edifici divenuti in una diversa fase congiunturale – il riferimento qui è alla penisola italiana, ma non solo – palazzi nobiliari o ville, erano adibititi ab origine ad attività di produzione tessile. A Verona, l’ultimo piano di palazzo Giusti, denominato poi a seguito della realizzazione del magnifico giardino all’italiana Giusti del Giardino, era adibito a stenditoio di panni essendo i Giusti importanti mer- canti imprenditori a livello internazionale oltre che membri del patriziato (la stessa cosa può essere detta per gli Stoppa, anche questi grandi imprenditori del tessile)3. Resta da sottolineare che tutto questo si manifestava nella fase dello sviluppo economico della penisola. Con il processo di aristocratizzazione molti patrizi persero la componente imprenditoriale influendo sugli stessi edifici di loro proprietà che non furono più caratterizzati come centri commerciali o di produzione (appunto come il caso di palazzo Giusti del Giardino o di palazzo Stoppa ambedue collocati nelle contrade industriali della città scaligera, l’at- tuale Veronetta).

1 H. Lyle, La miniatura per le confraternite e le arti veneziane. Mariegole dal 1260 al 1460, Sommacampagna, 2015. 2 Sulle rappresentazioni artistiche o di mappe: D. Calabi, L. Galeazzo (a cura di), Acqua e cibo a Venezia. Storie della laguna e della città, Venezia, 2015. 3 Uno dei primi lavori che ha affrontato il tema della città in un concetto di spazio ampio e varie- gato è stato il volume miscellaneo curato da E. Guidoni, U. Soragni (a cura di), Lo spazio nelle città venete (1348- 1509). Urbanistica e architettura, monumenti e piazze, decorazione e rappresentazione, Roma, 1997. A seguire Shaping Urban Identity in Late Medieval Europe (eds.), Leuven, 2000. Introduzione 5

Diverso il discorso per le ville venete che, nella svolta agraria e nella dinamica proto industriale, si collegarono strettamente al ruolo di centri produttivi come Villa Contarini a Piazzola, che si specializza nella produzione della seta anche se ancora conosciamo poco della sua organizzazione produttiva. Ma anche qui le tracce artistiche o le stesse sopravvivenze sono limitate. Gli stessi spazi adibiti ad alloggiare le fiere, elemento importante dell’economia cin- que-settecentesca – che ebbe a caratterizzare con forte impatto le strutture urbane a livello europeo – hanno lasciato scarse tracce. La Fiera in Muro di Verona – ma lo stesso si potrebbe dire di analoghi edifici nel settentrione dell’Italia – di mano di Scipione Maffei, eretta nel sito di Campo Marzo in prossimità della Dogana e dell’Adige, è scomparsa nel nulla. Di essa abbiamo solo qualche disegno in quanto venne ideata nel Settecento come prima ‘fiera in muro’ (prima erano solo strutture mobili in legno), modello poi esportato in tutta Europe. Di conseguen- za gli architetti, volendo visualizzarla come edificio nuovo, ne conservarono i disegni. Ne rimangono al loro posto ampi spazi vuoti in parte rimasti inalterati ancora oggi come polmoni verdi delle città4. Insomma i luoghi di lavoro solo in piccola misura attirano l’interesse degli architetti o degli esponenti del gruppo dirigente e hanno lasciato tracce di un qualche peso negli archivi. Certo l’immagine tradizionale con riferimento alla produzione industriale di stampo medievale o in generale pre-moderna è la bot- tega, spesso luogo di lavoro e di abitazione della famiglia, del mercante o dell’ar- tigiano5. Qui convivevano, o meglio si sovrapponevano, gli spazi dove erano in funzione i macchinari più o meno complessi con gli spazi abitati in modo affol- lato dai componenti della famiglia (talora nelle campagne anche gli animali e questo per lungo tempo). D’altra parte il mercante o l’artigiano erano considerati come “il buon padre di famiglia” e solo questo indica una mescolanza (forse an- che una sociabilità, tipica dell’età) che progressivamente perderà peso con il lento affermarsi di un concetto di privacy sostenuto dalle idee illuministe e forse prima gianseniste. Differenze di genere? Sembra che non ce ne siano nel godimento degli spazi: certo alcuni lavori erano di pertinenza delle donne (ad esempio le “magistre”, a

4 Sulle fiere e sui mercati vedi: S. Cavaciocchi (a cura di),Fiere e mercati nella integrazione delle economie europee secc. XII-XVII, Firenze, 2001; P. Lanaro, E. Svalduz (a cura di), Le reti dello scambio. Uomini, merci, architetture (XV- XIX sec.), “Cheiron”, 2008, 50. 5 Per i luoghi di lavoro in età medioevale, con riferimento alle botteghe e alle famiglie ma anche a strutture più ampie, vedi: F. Franceschi, “.. e seremo tutti ricchi”. Lavoro, mobilità sociale e conflitti nelle città dell’ Italia medievale, Pisa, 2012; M. Scherman, Familles et travaille a Trevise a la fin du moyen age, Roma, 2013; L. Molà, States and Crafts: Relocating Technical Skills in Renaissance Italy, in E. Welch, M. O’Malley (eds.), The Material Renaissance, Manchester, 2007, pp.133-153. 6 Giovanni Favero, Paola Lanaro cui viene affidato il compito di istruire i giovani e bambini soprattutto nel settore tessile, operano in strutture di loro esclusiva pertinenza; oppure nelle campa- gne le contadine, a cui viene affidata la cura degli animali da cortile). In genere sembrano essere i salari e lo svolgimento di lavori meno specializzati a portare a distinzioni di genere6. Certo mentre una volta le donne erano meno visibili e restavano nell’ombra, ora l’interesse per la storia di genere ci fa vedere una realtà più sfaccettata e composita con una presenza diffusa del lavoro femminile in spazi sovente condivisi con gli uomini. È questo il caso dell’arsenale di Venezia, la pri- ma forma di grande impresa del mondo occidentale, dove non mancano testimo- nianze di donne impegnate nella tessitura della canapa o nella fabbricazione delle vele o nel loro ripristino nel caso di lacerazioni. Sono temi ancora da indagare in pieno, ma tutto lascia presupporre che le novità in questo settore possano essere tante e sorprendenti. E questo anche ad alto livello. Qui il riferimento è alle donne imprenditrici o a quante, durante la mancanza per impegni lavorativi dei mariti, li sostituivano intra moenia. Si pensi alle patrizie veneziane che seguivano gli affari del casato o alle patrizie di terraferma. Esse in caso di necessità, ad esempio se vedove, si mettevano a capo delle reti mercantili del marito o della famiglia, questo grazie alla dote che veniva loro restituita. Abbiamo testimonianze che anche le nobili francesi all’interno della famiglia (intra moenia) si occupassero di imprese da loro stesse coordinate, senza l’ausilio di intermediari maschili. A livello più basso dobbiamo anche ricordare le donne imprenditrici che nel settore serico operavano nei centri urbani coordinando il lavoro delle operaie o delle incannatrici, cercando di controllare che non ci fossero furti di materia prima. Ovviamente la famiglia appare uno dei luoghi privilegiati per lo svolgimento di un lavoro e non solo femminile. Soprattutto questo per i lavori meno specia- lizzati che potevano essere svolti anche all’interno delle mura domestiche. In tutta Europa l’esercizio di un mestiere era, in genere, sottoposto all’iscrizio- ne a una corporazione che dettava norme relativamente anche agli spazi: al fine di controllare la concorrenza, ad esempio, non potevano essere installate più di un certo numero di botteghe in aree predefinite e questo, come è ovvio, pesava anche sullo stesso sviluppo delle attività industriali che non potevano espandersi con li- bertà o secondo le regole del mercato. Tutto questo aveva effetti sulle dimensioni delle botteghe anche se esistevano imprese di grandi dimensioni, con mercanti

6 Sul lavoro femminile vedi A. Bellavitis, Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna, Roma, 2016; L. Molà, Le donne nell’industria serica veneziana del Rinascimento, in L. Molà, R.C. Muller, C. Zanier (eds.), La seta in Italia dal Medioevo al Seicento, Venezia, 2000, pp. 423-459. Introduzione 7 alle cui dipendenze lavoravano decine di operai. È questo il caso del mercante imprenditore vicentino Pelo, del settore tessile che, come è stato ricostruito da Edoardo Demo, aveva alle sue dipendenze circa una cinquantina di lavoratori. Dimensioni che richiamano alla mente le strutture toscane di età medievale e le politiche organizzative legate al boom – laniero prima, poi serico – dei centri urbani dell’Italia centrale come Firenze, Pisa e Perugia. Gli storici economici sanno bene che la bottega di proprietà o in affitto rap- presenta un archetipo, ma che l’espansione dell’attività protoindustriale legata all’allargamento dei mercati porta rapidamente all’erezione di grandi edifici, dove gli operai potevano superare il centinaio di unità. Poiché l’energia era prodotta in larga misura da corsi d’acqua naturali o artificiali, spesso il processo di fabbricazione si svolgeva in aree percorse da fiumi o canali o in luoghi co- munque che potevano avere un accesso all’acqua che permetteva una più facile commercializzazione dei prodotti grazie al trasporto per via fluviale, meno co- stoso di quello via terra7 . Anche i macchinari si evolvono con rapidità: i mulini da seta alla bolognese, enormi strutture alte centinaia di metri che sfruttavano le acque artificiali e non della città di Bologna e che vedevano al lavoro uomini, donne e bambini senza differenze di genere, offrivano una idea dell’alta intensità di labour force, specia- lizzata nella produzione di veli. Nello stesso tempo tale fenomeno contribuiva ad un alto tasso di inquinamento, presentandosi come una prima forma di fabbrica moderna. La rete di canali necessaria al funzionamento di questi enormi macchi- nari stravolge la stessa città. Essa viene così caratterizzandola in modo distintivo a tale punto che il museo della città di Bologna, non da molti anni allestito in palazzo Pepoli, prevede su un piano la ricostruzione dei sotterranei percorsi fitta- mente da quelle acque necessarie al funzionamento degli enormi mulini da seta alla bolognese. Mulini che avevano comunque un impatto non minimo sulla salubrità urbana non trattandosi certo di acque pulite. In questo senso non possiamo non fare un richiamo all’Arsenale di Venezia considerato come prima forma di grande impresa, almeno da quando Frederic Lane nella sua storia di Venezia l’ha descritta come tale, e al suo interno orga-

7 Sul legame acqua industria e attività lavorative, A. Guenzi, Acqua e industria a Bologna in antico regime, Torino 1993; E. Demo, ‘L’anima della città’. L’industria tessile a Verona e Vicenza, 1400-1550, Milano, 2001; Id., L’impresa nel Veneto tra Medioevo ed Età moderna, “Annali Storia dell’impresa”, XIV, 2003, 14, pp. 251-262; C. Poni, La seta in Italia una grande industria prima della rivoluzione industriale, Bologna, 2009; E. Filipponi, L’Europa delle acque. Progetti napoleonici per Parigi e per Padova (1797- 1814), Dottorato di ricerca interateneo (Cà Foscari, Iuav, Verona) in Storia delle arti, ciclo XXIX, anno di discussione 2016-2017, tutors Guido Zucconi, Paola Lanaro, Isabelle Bakouche. 8 Giovanni Favero, Paola Lanaro nizzata in una prospettiva manageriale. Va notato che gli “arsenalotti” erano ospitati in piccole abitazioni, che ancora oggi si vedono nelle vicinanze dello stesso arsenale, appena fuori dalle mura che delimitavano la fabbrica e che erano loro assegnate a prezzi agevolati. Proprio questo probabilmente favoriva la sociabilità tra i lavoratori, che costituivano un gruppo intimamente coeso all’interno della società veneziana e nello stesso tempo fortemente elitario. E che in caso di bisogno potevano anche svolgere funzioni militari e di pompieri. Le dimensioni dell’Arsenale, che si dice fondato nel 1104, col tempo aumenta- rono: si diversificò in arsenale Vecchio, Nuovo e Nuovissimo occupando gran parte dell’area nord-orientale con una capacità produttiva crescente. Esso si caratterizzava anche, nonostante la presenza di officine e di binari per lo spo- stamento del materiale, per l’intrinseca bellezza delle stesse architetture. Non dimentichiamo, infatti, che grandi architetti come il Sansovino e il Sanmi- cheli vennero chiamati dalla Repubblica a edificare al suo interno al fine di creare una struttura osservata con stupore da ambasciatori e illustri visitatori che espressero parole di meraviglia nelle loro testimonianze. La costruzione di galere cresce nel tempo e permette a Venezia di allestire, durante la battaglia della Sacra Lega, un numero esorbitante di imbarcazioni che consentiranno la vittoria a Lepanto8. Non possiamo non sottolineare infine come sovente nella penisola, come in tutta Europa, le stesse strade erano luoghi di lavoro: si cucinava, si faceva merca- to, si raccoglievano le orine per l’industria tessile, nei corsi d’acqua si scaricavano i residui della lavorazione delle pelli e delle fabbriche adibite a macelli. Ancora una volta la comunità sembra avere antropologicamente il sopravvento sull’indi- viduo che con difficoltà riesce a emergere. È una dimensione corale che unisce maschi e femmine, adulti e infanti e che lascia poco spazio all’espressione indivi- duale. Parlare dei luoghi di lavoro, con riferimento all’età medievale e moderna, ci ha spinto inevitabilmente a descrivere le origini dell’impresa, con particolare ri- guardo all’area della pianura padana nel momento del suo massimo splendore dal Trecento al Cinquecento. Il tutto cambierà con la crisi demografica ed economica del Seicento e lo spostamento dell’attività lavorativa dalla città verso la campagna, sia dal punto di vista manifatturiero sia agrario. Altre realtà europee assisteranno a percorsi diversi nel momento in cui saranno le economie atlantiche a suben- trare a quelle mediterranee. Sarà allora la campagna a giocare a lungo il ruolo di protagonista nel campo del lavoro e la bottega urbana, di origine medievale e di

8 G. Bellavitis, L’Arsenale di Venezia. Storia di una grande struttura urbana, Venezia, 1983, e più recentemente P. Ventrice, L’arsenale di Venezia: tra manifattura e industria, Sommacampagna, 2009. Introduzione 9 stampo italiano legata ad un manufatto di alta qualità, lascerà poco alla volta il campo in Europa alle prime forme di fabbrica di ampie dimensioni, spesso volute dallo stato centrale. In queste fabbriche, attraverso le nuove tecnologie studiate Luca Molà, si punta lentamente ad un manufatto non più destinato alle élite. Ma come dimostreranno alcuni saggi di seguito pubblicati, un po’ alla volta la città tornerà a essere al centro dell’attività industriale, come attesta anche la ricerca di Maurizio Gribaudi Paris ville ouvriere dedicata a Parigi fra Sette e Ottocento, le cui ricostruzioni dettagliate quartiere per quartiere danno una immagine viva di una città operaia che prende corpo anche socialmente, quindi politicamente9. Tutto questo conferma l’idea espressa di recente da Giovanni Levi che se esiste un tempo lungo, in esso tutto si mescola sovrapponendosi in fasi di continuità e discontinuità.

2. I saggi raccolti in questo volume dimostrano la varietà dei luoghi in cui il lavoro ha trovato spazio, e la ricchezza dei metodi d’indagine che gli storici possono usare per studiarne l’articolazione. Il lettore è invitato a spostarsi dai mo- nasteri femminili nella Venezia del Rinascimento ai negozi e bar nell’Italia fra le due guerre, dalle politiche di localizzazione industriale a Napoli fino all’insedia- mento urbano di Togliattigrad, costruito attorno alla fabbrica di automobili Fiat in Unione Sovietica. E nello spostarsi da un luogo all’altro è sollecitato a guardare ciò che accade inforcando di volta in volta occhiali diversi: quelli di chi legge i documenti d’archivio con un’attenzione specifica ai rapporti di genere, piuttosto che quelli dello studioso che cerca nelle riviste di architettura gli indizi di una più ampia trasformazione della vita urbana. In questo percorso, il tema del lavoro e della città come luogo in cui questo si svolge è discusso e problematizzato sotto molteplici aspetti. Il lavoro stesso infatti non è necessariamente quello degli operai di fabbrica, ma può essere anche quello delle commesse o delle monache; la città può essere luogo di attività produttive ma anche e soprattutto di consumo, può nascere ed espandersi attorno a un nuovo insediamento industriale, o vedere inesorabilmente fuoriuscire l’industria verso poli e insediamenti esterni. Un filo conduttore che emerge dalla lettura è il ruolo del lavoro come stru- mento di disciplinamento e di organizzazione dei comportamenti e degli usi del- lo spazio urbano, che lo attraversa dall’interno o condiziona dall’esterno. Ė così nel caso dell’attività lavorativa delle monache veneziane di cui ci racconta le vi- cende Vania Levorato: il lavoro di ricamo, piuttosto che la tessitura o la tipografia

9 Per l’età contemporanea vedi M. Gribaudi, Paris ville ouvriere. Une histoire occulté (1789- 1848), Paris, 2014. 10 Giovanni Favero, Paola Lanaro sono concepiti come strumenti per controllare il tempo delle meretrici pentite rinchiuse nel convento ed evitare irrequietudini, ma diventano anche modi per esprimere un’autonomia altrimenti negata, per costruire un’identità collettiva le- gata al riscatto attraverso la penitenza. La stamperia è avviata dalle monache nella fase forse più turbolenta della storia del monastero delle Convertite, con l’appog- gio di un rettore che viene infine decapitato in seguito all’emergere di scandalose relazioni all’interno del convento. La duplice funzione del lavoro, strumento tanto di disciplinamento quanto di libera espressione, costituisce uno dei temi ricorrenti nel volume assieme a quello del suo accentramento o decentramento all’interno della fabbrica e rispetto ai centri urbani. Roberto Parisi, nel suo saggio che prende in esame le politiche di localizzazione industriale a Napoli e in Campania nel corso di più di un secolo, identifica chiaramente, con Tommaso Detti, nel luogo del lavoro la chiave per storicizzare l’età industriale come un periodo storico specifico, con un inizio e una fine10. La fase in cui il lavoro viene accentrato nella fabbrica pone infatti alla politica il problema di collocare l’industria in luoghi a essa destinati, prossimi alla città ma fisicamente separati. Il problema emerge in Italia sin dal tardo Ottocento, e nel caso di Napoli viene declinato nei termini della realizzazione di un modello di “quartiere industriale”. La fase successiva, quella del periodo fra le due guerre e in Italia della dittatura fascista, è oggetto, nel saggio di Ines Tolic, di uno studio che affronta il tema dei luoghi del lavoro da un punto di vista originale, che illumina il ruolo delle atti- vità commerciali nella creazione della città contemporanea. Durante la crisi degli anni Trenta la progettazione architettonica dei negozi diventa infatti occasione per sperimentare nuovi stili funzionali a contenere i costi e attirare la clientela. L’esito è la creazione di nuovi spazi di consumo, dalle cappellerie a cristallerie, librerie e bar, che diventano, da un lato, potenti agenti di trasformazione dello spazio urbano, ma che dall’altro influenzano anche gli ambienti domestici, an- ticipando e promuovendo soluzioni tecniche che verranno trasferite in seguito all’interno delle case. L’autrice è attenta a definire i limiti temporali di questo processo, che culmina negli anni Trenta per mutare radicalmente dopo la guerra e soprat- tutto negli anni del “miracolo economico”, quando lo sviluppo della mobilità automobilistica privata e lo sviluppo dei consumi di massa sposta, o meglio estende i luoghi di consumo alle aree periferiche ed esterne alla città, che si espande. Il supermercato, l’autogrill e il centro commerciale sono citati

10 Sui luoghi del lavoro come indicatore della fine dell’età industriale: T. Detti,Fine del No- vecento, fine dell’età industriale o fine del capitalismo?, “I viaggi di Erodoto”, 1998, 34, pp. 36-43. Introduzione 11 nel testo come esempi di una delocalizzazione del consumo, cui corrispon- de un abbandono dei centri urbani come luoghi del tempo libero. Ancora una volta, tale tendenza è correttamente storicizzata come caratteristica di un periodo ben definito, che culmina con la crisi petrolifera e conosce diverse inversioni di tendenza. La fase del “miracolo economico” è individuata come momento cruciale di trasformazione anche da Roberto Parisi, che nella sua disamina di lungo periodo delle scelte di ubicazione delle attività industriali a Napoli la indica come punto di avvio e di prima verifica dello sviluppo “per poli” avviato dalle politiche per il Mezzogiorno, in particolare con la creazione dello stabilimen- to AlfaSud di Pomigliano d’Arco. La golden age del dopoguerra appare più in generale il momento in cui la fabbrica fordista diventa egemone e trasforma il territorio attraverso la creazione di insediamenti industriali specifici. Il “fordi- smo all’italiana” è peraltro protagonista del solo saggio che tratta un caso non italiano tra quelli raccolti in questo volume, ovvero quello dello stabilimento costruito da tecnici Fiat a Stavropol sul Volga, rinominata Togliattigrad nel 1964, alla morte del segretario del Partito Comunista Italiano. Il rapporto tra l’azienda italiana, i vertici sovietici e l’amministrazione americana è individua- to da Natalia Terekhova come un caso significativo per comprendere come i rapporti tra i blocchi durante la guerra fredda venissero ridefiniti dall’azione dei circoli imprenditoriali, come già suggerito da Valentina Fava11. Gli inter- stizi aperti da queste iniziative ebbero effetti imprevisti e talora destabilizzanti, aprendo spazio ad ambizioni di consumo a lungo termine incompatibili con la politica economica del regime sovietico. è con la fine della guerra fredda, nella seconda metà degli anni Ottanta, che si compie infine un ulteriore passaggio, che porta in Occidente al superamento del modello fordista della catena di montaggio con il passaggio alla “produzio- ne snella” e al just in time. È ancora Parisi a chiudere cronologicamente la sua disamina dell’evoluzione dei luoghi del lavoro nel caso napoletano mostrando come lo stabilimento FIAT di Melfi rappresenti bene questo passaggio nelle sue implicazioni territoriali, per cui il lavoro esce definitivamente dalla città e diventa mobile, non più residenziale: la fabbrica è uno snodo attraverso il quale passano flussi di materiali, prodotti e uomini, superando definitivamente il modello delle aree di sviluppo industriale, precocemente entrato in crisi12.

11 V. Fava, La Fiat e la AutoVAZ di Togliatti. Alla ricerca del fordismo perduto, “Storicamente”, 2013, 9; http://storicamente.org/fava (ultimo accesso 27/12/2017). 12 S. Adorno, Le Aree di sviluppo industriale negli spazi regionali del Mezzogiorno, in Istituto dell’Enciclopedia Italiana, L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana, 4, I, Roma, 2015, pp. 375-394. 12 Giovanni Favero, Paola Lanaro

L’ultima incarnazione della fabbrica apre peraltro la possibilità di una sua radi- cale trasformazione, laddove diventi possibile separare telematicamente il lavoro dalla presenza fisica del lavoratore. Come ha sostenuto Joel Mokyr, la progressiva coodificazione e formalizzazione della conoscenza tacita, inseparabile dalle perso- ne che ne sono portatrici, rende pensabile far viaggiare l’informazione anziché le persone13. Le trasformazioni che ne derivano non riguardano soltanto il luogo del lavoro, ma anche quello del consumo e gli stessi ambiti domestici. Allo storico della città e del lavoro oggi è toccato vivere in tempi interessanti.

13 Sulle trasformazioni odierne del lavoro e dei suoi luoghi: J. Mokyr, I doni di Atena: le origini storiche dell’economia della conoscenza, Bologna, 2004, pp. 152-162. «Città e Storia», XI, 2017, 1, pp. 13-30, doi: 10.17426/70101, ©2017 Università Roma Tre-CROMA

Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo: il monastero di Santa Maria Maddalena detto delle “Convertite” Vania Levorato Università Ca’ Foscari, Venezia

Abstract: The paper examines the situation of female monasteries in Venice during the early mod- ern age, with particular reference to the Monastery of Santa Maria Maddalena, known as the “Convertite”, founded in the mid-16th century and located on the island of Giudecca in Venice . In this monastery, intended to accommodate former redeemed prostitutes, various work activities, weaving and printing works were carried out for a few years. The typographical activity reflected a social redemption of the converted nuns. Through the pastoral visit of Patriarch Priuli, of 1591, we will know some spaces of the monastery. Keywords: Venice; Nuns; Typography; Monastery of Santa Maria Maddalena; Pastoral Visits.

1. Introduzione Le giovani figlie della nobiltà veneziana vissute fra XVI e inizio XIX secolo non avevano molte scelte per il loro futuro: o erano destinate ad un matrimonio di convenienza, o finivano in monastero. Sposare le figlie femmine diventava, per le famiglie aristocratiche, un grave impegno economico, di gran lunga supe- riore al pagamento della retta monacale. Numerosi ricercatori, tra cui Gabriella Zarri1, Mary Laven2 e Gisela Jutta Sperling3, hanno studiato sia le complesse reti che legavano i monasteri femminili alle realtà sociali, economiche e civili della Serenissima, sia alcune caratteristiche della vita quotidiana condotta da un vero e proprio ‘esercito’ di monache rinchiuso tra le mura conventuali. Un punto trova d’accordo gli studiosi, ed è quello di riconoscere all’istituto monastico una dop- pia veste. Se per tante religiose, monacate forzatamente, il monastero rappresentò una vera e propria prigione, per altre si rivelò un luogo in grado di offrire una

1 In particolare, si vedano: G. Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in G. Chittolini, G. Miccoli, «Storia d’Italia Annali», IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, 1986, pp. 357-429; Ead., Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo: studi e testi a stampa, Roma, 1996; Ead., Monasteri femminili in Italia nel secolo XVI, “Rivista di Storia e letteratura religiosa”, XXXIII, 1997, pp. 643–699; Ead., Recinti, Donne Clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, 2000. 2 M. Laven, Monache. Vivere in convento nell’età della Controriforma, Bologna, 2004 3 J.G. Sperling, Convents and the Body Politic in Late Renaissance Venice, Chicago, 1999. 14 Vania Levorato significativa opportunità di autonomia, sfociata in alcune, se pur brevi, esperien- ze imprenditoriali. Maria Teresa Borraccini cita, come esempio, la badia di San Jacopo a Ripoli a Firenze: che ha visto il coinvolgimento diretto delle monache domenicane nel proseguire median- te la nuova tecnologia, il lavoro tradizionale di trasmissione dei testi, per cui dal 1476 al 1484 suor Marietta e suor Rosarietta, collaborarono alla composizione dei caratteri delle pubblicazioni sotto la guida dei confratelli4.

2. Monasteri femminili Oggi come nel passato, camminando per le calli di Venezia, è facile imbat- tersi in tante mura alte e spesse che identificano e delimitano i numerosi edifici religiosi disseminati fin dall’antichità tra centro storico e laguna veneziana. Que- sta ricerca si pone l’obiettivo di indagare le vicende accadute proprio fra quelle mura, in particolare nei monasteri femminili veneziani della prima età moderna, analizzando contestualmente la loro interazione con la realtà urbana, economica e sociale, e prestando particolare attenzione, sia per l’attività lavorativa svolta sia per gli spazi utilizzati, al Monastero di Santa Maria Maddalena, detto “delle Convertite”5, uno dei tanti monasteri femminili presenti a Venezia in quell’epo- ca, sito presso l’isola della Giudecca dalla metà del XVI secolo. Quello delle Convertite fu, oltre che un monastero assai ‘chiacchierato’, come del resto la gran parte degli altri monasteri femminili, per i vari episodi di dubbia moralità che con sempre maggiore frequenza comparivano nelle cronache dei diaristi veneziani dell’epoca, anche un fervente luogo di preghiera nonché centro di produzione culturale ed economica. Se, da un lato, il governo veneziano tene-

4 R.M. Borraccini, All’ombra degli eredi: l’invisibilità femminile nelle professioni del libro. La fattispecie marchigiana, in M. Santoro (a cura di), La donna nel Rinascimento meridionale. Atti del convegno internazionale, (Roma, 11-13 novembre 2009), Roma, 2010, pp. 413-428: 417. Per approfondire il tema, vedi il “Diario” del monastero, conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, (Magl. X, 143). 5 E. Barbieri, Per monalium poenitentium manus, La tipografia del Monastero di Santa Maria della Giudecca detto delle Convertite 1557 -1561, “La Bibliofilia”, 2011, 3, pp. 303-353. Il mo- nastero agostiniano di Santa Maria Maddalena, detto delle ‘Convertite’ sito presso l’isola della Giudecca a Venezia, fondato nel 1543, restaurato e riconsacrato nel 1579, venne soppresso nel 1806. Fino al 1857 fu ospedale militare, in seguito, e fino ai nostri giorni, carcere femminile. Oggi solo una lapide sul muro del carcere, ricorda la presenza nel passato delle Convertite. Si pre- cisa che le monache agostiniane del Monastero di Santa Maria Maddalena vengono denominate “Convertite”, quale nome ispirato a S. Maria Maddalena, la prima santa peccatrice che si pentì da- vanti a Gesù per i propri peccati. Per altre notizie sui monasteri presenti a Venezia vedi F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova, 1758. Per i monasteri siti presso l’isola della Giudecca, vedi anche F. Basadella, Quando a Venezia il “Ghetto” si chiamava Giudecca, Venezia, 1983. Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo 15 va in grande considerazione l’‘esercito’ di monache al quale chiedeva sovente di intercedere con la preghiera in caso di eventi calamitosi come guerre e pestilenze, dall’altro doveva fare costantemente i conti con la realtà dissoluta e scandalosa presente in moltissimi monasteri. Per comprendere appieno come si viveva nei monasteri femminili della Serenissima, è necessario fare una breve premessa, ed immaginare le monache intente, più che alla meditazione e alla preghiera, all’ar- dua lotta contro la noia delle lunghe e interminabili giornate vissute in clausura. Preziosa alleata era l’attività lavorativa, fortemente incentivata dalle autorità ec- clesiastiche, timorose di irrequietudine e ribellione alla regola monastica. Scandi- re la giornata delle monache tra contemplazione e attività lavorative diverse si era rivelato un efficace strumento di controllo. Nel mondo femminile dell’epoca, dalle popolane alle nobildonne, nei son- tuosi palazzi e tra le mura dei monasteri, l’attività lavorativa più diffusa era senza dubbio l’antica arte del ricamo insieme a quella della tessitura. Famosissimi in tutta Europa erano i ricami veneziani fatti con le sete preziose e i fili d’oro che arrivavano direttamente dai mercati dell’Oriente, ed erano eseguiti con il “punto tagliato”6 o il “punto in aria”, destinati poi in futuro a identificare l’autentico merletto veneziano. La stessa dogaressa Morosina Morosini7, alla fine del XVII secolo, si adoperò personalmente per l’istituzione di un’officina, sita nella zona di Santa Fosca a Venezia, produttrice di ricami e merletti, capace di dare lavoro ad oltre cento donne guidate da esperte maestre ricamatrici conosciute comune- mente come “maestre da trazer sede”8. Dalle mani delle monache uscivano veri e propri capolavori, frutto anche di lunghi anni di lavoro, il più delle volte destinati ad ornare altari e paramenti delle chiese veneziane, esposti durante le festività religiose, o, ancora, donati dalle religiose alle famiglie di origine in occasione di matrimoni e battesimi9, quasi a

6 P.G. Molmenti, La Storia di Venezia nella vita privata. Dalle origini alla caduta della Repubblica, 3, Trieste, 1973, II, pp. 154-157. Sempre Molmenti precisa che esistevano moltissimi libri di modelli di pizzi e ricami stampati a Venezia. Il punto cosiddetto “punto a rosa” o “punto Venezia”, era quello ritenuto più elegante e venne copiato in tutta Europa. Per altre notizie sull’ar- te del merletto veneziano, vedi U. De Gheltof, I merletti a Venezia, Venezia, 1876, e T. Plebani, Ricami di ago e di inchiostro: una ricchezza per la città (XVI secolo), “Archivio Veneto”, CXLIII, VI s., 2012, 3, pp. 97-117. 7 Ibidem p. 154. Morosina Morosini (1545 – Venezia, 22 gennaio 1614), moglie del Doge Marino Grimani, fu dogaressa della Serenissima Repubblica di Venezia dal 1595 al 1605. 8 L. Molà, Le donne nell’industria serica veneziana del Rinascimento, in R.C. Mueller, C. Zanier, L. Molà (a cura di), La seta in Italia dal Medioevo al Seicento. Dal baco al drappo, Venezia, 2000, p. 424 e nota 2 p. 449. 9 I. Campagnol, Penelope in clausura, lavori femminili nei monasteri veneziani della prima età moderna, “Archivio Veneto”, CXLIII, VI s., 2012, 3, pp. 117-126. 16 Vania Levorato ricordare con il prezioso manufatto la loro presenza viva ai familiari, anche se ormai rinchiuse tra le mura claustrali. Molto diffusa era anche l’arte di torcere e filare cotone e sete, attività che si svolgeva nelle stanze più grandi del monastero chiamate “lavoratori”, in cui non era raro trovare veri e propri mulini in grado di filare e torcere grossi quantitativi di sete10. A Venezia l’industria serica era presen- te in diversi monasteri femminili11, come quello di San Zaccaria, di San Servolo, di San Gerolamo, di S. Francesco della Croce, e ben 40 monache erano addette alla tessitura nel monastero del Corpus Domini. Lo storico Luca Molà, precisa che “i rapporti delle monache con il mercato cittadino non erano però diretti, ma venivano tenuti da alcuni tra i più stimati setaioli di Venezia che tutelavano i loro interessi nella veste di fattori”12.

3. Vita all’interno dei monasteri All’interno dei monasteri, si trovavano due tipologie di monache, le monache “da coro” e le monache “converse”13. Le prime, di nobili origini, apportavano una dote assai cospicua al monastero, godevano di privilegi e avevano diritto alla professione dei voti. Le “converse”, invece, di umili origini, senza dote, erano considerate di status inferiore, non professavano i voti ed erano addette a tutte le attività lavorative di maggior fatica, dai lavori di natura agricola alla cura degli orti e giardini e all’accudimento di animali da cortile, oltre ad essere vere e pro- prie serve al servizio delle monache coriste. Il Patriarca Lorenzo Priuli14, durante la visita patriarcale al monastero di Santa Maria Maggiore, distribuì tra le mo- nache ben cinquanta mansioni lavorative, che andavano da infermiera a maestra di coro, da giardiniera a bibliotecaria, da portinaia a tessitrice, quasi a intendere che fosse possibile una carriera lavorativa all’interno del convento15. Tra le tante

10 L. Molà, Le donne nell’industria…, cit, pp. 424-425. Scrive l’autore: “Sappiamo infatti che la lavorazione della seta, compresa l’orditura, era una pratica ampiamente diffusa in molti monasteri di monache cittadine, come avevano affermato gli stessi setaioli davanti al Senato nel 1529 e come continueranno a ripetere con monotona insistenza lungo tutto il XVI secolo. 11 Ibidem. Luca Molà precisa inoltre “Nel 1587, nel corso di un’indagine governativa sui li- velli di occupazione generati dall’industria serica all’interno dei conventi, la badessa di S. Maria Maggiore scrisse di proprio pugno che nel monastero avevano ‘seda da lavorar quanto possiamo e di avantagio, che molte volte non possiamo suplire’, dichiarazione identica a quelle rilasciate dalle madri superiori di S. Zaccaria, di S. Servolo, di S. Gerolamo, e di S. Francesco della Croce, mentre al Corpus Domini erano addirittura una quarantina le monache dedite alla lavorazione della seta”. 12 Ibidem, p. 425. 13 M. Laven, Monache. Vivere in convento , cit., p. 27. 14 Lorenzo Priuli fu Patriarca di Venezia dal 1591 al 1600, anno della sua morte. 15 Ibidem, p. 28. Ovviamente alle monache da coro, erano riservati i lavori meno pesanti, come insegnanti delle novizie, guardiane, o custodi delle tante chiavi del monastero. Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo 17 attività quotidiane, indispensabili per la gestione delle economie proprie del mo- nastero, non mancava la produzione di pane e di dolci. Alcuni monasteri femmi- nili erano talmente rinomati nel preparare dolci che, tra i tanti doni che venivano offerti in occasione dell’elezione del Doge, “le più graziose regalie provenivano da monasteri, per esempio quelli di San Zaccaria e San Lorenzo erano tenuti a dare ogni anno in 17 volte calisoni (ciambelle) n. 1020”16. I monasteri veneziani presentavano un impianto architettonico assai simile: l’ edificio principale era la chiesa o la cappella, che a seconda del prestigio del monastero, racchiudevano veri e propri capolavori artistici, firmati dai pittori e scultori fra i più illustri e ricercati del tempo. Per esempio, la chiesa del mona- stero delle Convertite contava ben sei altari. Era affiancata dal campanile e dai chiostri, da altri locali, tra i quali il refettorio, la cucina, l’infermeria, il dormi- torio suddiviso in “celle”, la biblioteca, il “lavoratorio”, la “specieria”. Vista la particolarità dell’urbe veneziana, ogni monastero presentava quasi sempre due ingressi, uno che dava sulla calle o campo, detta la porta da terra17, e l’altro di- rettamente sull’acqua, attiguo alla “cavana”, ossia il ricovero coperto delle tipiche imbarcazioni veneziane, indispensabili per i trasporti delle persone e delle merci che entravano ed uscivano dal monastero.

4. Monacazioni forzate I conventi veneziani erano veri e propri microcosmi capaci di ospitare cen- tinaia di donne, spesso monacate forzatamente dalle proprie famiglie di origine che, imponendo questa scelta alle proprie figlie, salvaguardavano il patrimonio familiare. Quella delle monacazioni forzate fu una pratica ancor più diffusa a partire proprio dalla fine del XV secolo, quando un netto aumento demografico, dovuto a condizioni economiche generali più favorevoli e ad una qualità di vita migliore in tutta Europa, trasformò i monasteri femminili18 di qualsiasi ordine in quelli che Gabriella Zarri definì “contenitori dell’eccedenza demografica”19. Oltre agli spazi chiusi, i monasteri comprendevano anche una varietà di spazi aperti, delimitati da mura perimetrali, con uno o più chiostri a seconda della grandezza del monastero, con splendidi giardini che ospitavano le monache per gran parte delle loro giornate. Maria Pia Pedani rileva che:

16 P. G. Molmenti, La Storia di Venezia nella vita privata, cit., II, p. 431. Vedi anche B. Cecchetti, Il Doge di Venezia, Venezia, 1864, p. 234. 17 Ibidem, p. 173. 18 Per approfondire le tematiche sociali alla base delle monacazioni forzate, vedi J.C. Davis, The decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore, 1962, pp. 62 -67. 19 G. Zarri, Recinti, Donne Clausura, cit., pp. 51-53. 18 Vania Levorato

dopo tutto è proprio nel Cinquecento che il chiostro si apre, sia architettonicamente con ampi archi e giardini al centro, sia intellettualmente, divenendo un luogo d’incontro per gli uomini del Rinascimento20. L’imposizione della clausura21, tra le direttive imposte dal Concilio di Tren- to22, portò di fatto ad un radicale, e per certi versi brutale, cambiamento archi- tettonico che ridimensionò gli spazi monastici, i quali, da aperti ed accoglienti, diventarono spazi destinati ad isolare e segregare le monache dal resto del mondo. Fu tutto un fiorire di grate, di finestre oscurate, di portoni e portoncini le cui chiavi venivano consegnate solamente alle monache più anziane e più fidate. Il parlatorio, unico luogo in cui le religiose potevano entrare in contatto con il mondo esterno, divenne l’elemento simbolico della definitiva e netta separazione delle religiose dalla società. Le stesse autorità civili e patriarcali agevolarono e favorirono l’acquisto, da parte dei monasteri, di terreni confinanti con i privati, al fine di allontanare le religiose dalla vista di sguardi indiscreti, aumentando gli spazi destinati a giardini, frutteti e alla cura degli animali da cortile23. E’ in questo modo che le comunità monacali femminili vengono isolate all’interno degli spazi urbani con mura e recinti e, come osserva Gabriella Zarri, riportano alla metafora di origine medievale dell’horto conclusus24, dove l’immagine della monaca è vista

20 M.P. Pedani, L’osservanza imposta: I Monasteri conventuali femminili a Venezia nei primi anni del Cinquecento, “Archivio Veneto”, CXXVI, V, s. 179, 1995, pp. 113-125. 21 Già Papa Bonifacio VIII (Anagni 1230 - Roma 1303) nel 1298 aveva emanato una bolla, denominata Periculoso, nella quale imponeva la norma della clausura perpetua “per tutte le singole monache, presenti e future di qualsiasi congregazione e ordine, in qualsiasi parte del mondo ri- siedano”. Si ribadiva l’importanza della clausura, necessaria a vivere la vita consacrata lontano da episodi scandalosi e tentazioni mondane, le stesse indicazioni che saranno ribadite nei tentativi di riforma nel Cinquecento dalle autorità ecclesiastiche veneziane, e poi con il Concilio di Trento. L’istituto della clausura fu reso molto più rigido durante la Controriforma con il Decretum de regu- laribus et monialibus scritto nell’ambito della XXV sessione del Concilio tridentino (3-4 dicembre 1563), che comprendeva ben 22 deliberazioni che introducevano la riforma della vita comunitaria nelle congregazioni religiose maschili e femminili. Esiste un’ampia bibliografia riguardo l’inaspri- mento della clausura femminile in seguito al Concilio di Trento; per una visione generale si vedano G. Zarri, Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo: studi e testi a stampa, Roma, 1996 e il dettagliato testo di J. G. Sperling, Convents and the Body Politic in Late Renaissance Venice, Chicago, 1999. 22 Il Concilio di Trento (Trento 1545-1563), cercò di riformare la Chiesa cattolica contro le nuove idee calviniste e protestanti. Per una visione generale si veda G. Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in G. Chittolini, G. Miccoli, «Storia d’Italia Annali», IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, 1986, pp. 357-429. 23 A. Lirosi, I monasteri femminili a Roma tra XVI e XVII secolo, Roma, 2012, p. 172. 24 G. Zarri, Recinti. Donne…, cit., pp. 21-25. L’ hortus conclusus o giardino recintato, è la forma tipica di giardino medievale, legato soprattutto a monasteri e conventi. Come dice il nome stesso si tratta di una zona verde, generalmente di piccole dimensioni, e circondata da alte mura, Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo 19 come vergine, ma anche come sposa consacrata a Cristo, e i conventi come veri e propri recinti per indicare come la vita delle donne nella prima età moderna fosse delimitata da un perimetro fisico e morale, controllato da altri sia nell’uso del proprio corpo, che della propria volontà. Un recinto inteso come protezione, perché tutto ciò che è oltre il muro è peccato25. A contraddistinguere la realtà dei monasteri femminili veneziani della prima età moderna vi è inoltre lo stato di agitazione che pervade le tante religiose26 rin- chiuse nei monasteri della Serenissima. Causa primaria era il processo di riforma all’interno dei monasteri femminili che in questa fase prende vigore, seppur non senza difficoltà, ma forte dell’accordo tra il patriarcato e le autorità governative veneziane, concordi nella campagna intrapresa contro le spese superflue, i com- portamenti immorali e i tanti scandali a carattere sessuale che spesso avevano investito i monasteri femminili. I noti diaristi dell’epoca, da Marin Sanudo a Girolamo Priuli, riferendosi proprio ai monasteri conventuali, non usarono mez- ze parole, definendoli lupanari o “pubblici bordelli”27, arrivando addirittura a sostenere che il degrado morale ormai dilagante nella città lagunare derivasse anche dal lassismo serpeggiante nei conventi veneziani. Nei monasteri, a episodi di assoluto e sincero misticismo, se ne contrapponevano altri in cui corruzione e depravazione erano frutto dell’estrema infelicità di tante giovani donne prigio- niere che, con tutte le loro forze, rincorrevano, anche attraverso episodi di ribel- lione, la loro giovinezza perduta e il desiderio di mondanità28. In questo contesto trova perfetta collocazione la decisione, presa il 18 ottobre 1521 dal Consiglio dei Dieci, di fondare una nuova magistratura, appositamente pensata per controllare da una prospettiva etica, ma soprattutto economica, le caotiche dinamiche dei monasteri; il nome scelto per questa istituzione fu “Magistratura dei Provveditori Sopra Monasteri”29. Inizialmente destinata ad avere durata temporanea, dal 1528 dove i monaci coltivavano essenzialmente piante e alberi per scopi alimentari e medicinali. Vedi anche G. Zarri, Donna, disciplina, creanza, cit., p. 221. 25 G. Zarri, Recinti. Donne…, cit., p. 22 26 M. Laven, Monache. Vivere in un convento..., cit., vedi nota 4, p. 214. Nel 1581 a Venezia si contano ben 2545 monache che vivono in convento, su una popolazione totale di 134.871 abitanti. Vedi Biblioteca Museo Correr, “Descrition de tute le aneme che sono in Cita fata l’anno 1581”, ms. P.D. 230 b. II, Appendice I. Vedi anche G. Zarri, Monasteri femminili in Italia nel secolo XVI, “Rivista di Storia e letteratura religiosa”, XXXIII, 1997, pp. 643–699. 27 Suscitò molto scalpore in città la predica di Fra Timoteo da Lucca che nel giorno di Natale del 1497 dal pulpito di San Marco, davanti al Doge e alle autorità disse: “(…) quando viene qual- che Signore in questa terra di Venezia li mostrate li Monasteri di Monache, non Monasteri ma postriboli e bordelli pubblici”. 28 G.P. Molmenti, La storia di Venezia…, cit., I, p. 127. 29 Per uno studio approfondito sulla Magistratura dei Provveditori sopra Monasteri si veda, I. 20 Vania Levorato divenne di fatto un organo ordinario del governo veneziano, indispensabile per sanare i problemi derivanti dalla presenza dei tanti monasteri femminili dissemi- nati tra centro storico e laguna.

5. Il Monastero di Santa Maria Maddalena detto “delle Convertite” Il già citato Monastero di Santa Maria Maddalena, detto “delle Convertite”30, ebbe una storia piuttosto travagliata. Fondato a metà del XVI secolo presso l’i- sola della Giudecca a Venezia, fu destinato ad accogliere donne di malaffare o ex prostitute, desiderose di cambiare vita e di redimere con la preghiera e il lavoro un’esistenza vissuta nel peccato. Un desiderio alquanto comune nella Venezia del- la prima età moderna, ove il commercio del sesso era diffusissimo: il censimento31 del 1509 contava ben 11.16432 cortigiane, di varia estrazione sociale, alcune delle quali di rango talmente elevato da essere conosciute e citate nella letteratura e nelle opere di pittori e artisti. dell’epoca. Il governo veneziano, sempre attento al suddetto fenomeno, emise, già dal XIII secolo, una legge che confinava le meretrici in un’area ben delimitata, situata vicino a Rialto e conosciuta come il “Castelletto”, prevedendo, inoltre, pene molto severe per coloro che non rispet- tassero tale zona. Il tema della prostituzione dunque, assai sentito nella Venezia di età moderna, è legato a doppio filo alla storia del monastero delle Convertite: quest’ultimo sarà infatti una delle prime istituzioni che accoglierà tante ex mere- trici, decise a riscattarsi dal peccato dedicandosi alla vita religiosa. Il Cinquecento si rivela il secolo che dimostrerà un inedito sentimento di sensibilità verso il mondo femminile, con l’istituzione di numerose istituzioni religiose e laiche, che si adopereranno in molti paesi europei per porre un freno alla prostituzione, alla

Giuliani, Genesi e primo secolo di vita del Magistrato sopra Monasteri, Venezia 1519-1620, Padova, 1963. 30 F. Sansovino, G. Martinioni, Venetia Citta Nobilissima, Et Singolare: Descritta in XIIII. Libri con l’aggiunta di tutte le cose notabili, Venezia, 1663, pp. 257-258. Così il Sansovino descrisse il monastero delle Convertite “et pochi anni sono, si fabricò il monistero delle Convertite, […]. Quivi dimorando assai numero di donne e tutte bellissime percio chè non vi si accettano se non quelle che hanno somma beltà, acciochè pentendosi non ricaggino ne peccati per la forma loro attrattiva degli altri desiderii si esercitano con ordine mirabile in diversi artificij . Le opere uscite dai torchi delle convertite recano la scritta “per manus monialium poenitentium”. Vedi A. Tessier, Ancora sopra alcune rare stampe fatte per le mani delle convertite della Giudecca presso Venezia, anni 1557, 1558, 1559, e sopra la veneta officina all’insegna della “speranza”, estratto dal “Giornale di erudizione”, Firenze, n. 23-24, 1890. 31 Vedi anche G. Tassini, Cenni storici e leggi circa il libertinaggio in Venezia: dal secolo decimo- quarto alla caduta della Repubblica, Venezia, 1968. 32 M. Sanudo, Diarii, VIII, dice il diarista: “adì 15 zugno 1509, descrizione de le anime che si trova in la città di Venexia. homeni e done, vechi, puti e pute anime 300.000” di queste anime, 11.164 erano prostitute. Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo 21 miseria e allo sfruttamento lavorativo che colpiva in particolare modo proprio il mondo femminile, dell’infanzia abbandonata e dei poveri33. Presso l’Archivio di Stato di Venezia34 è conservato un documento a stampa con i Capitoli del nuo- vo istituto, datato 1719, che ripercorre la storia del Monastero di Santa Maria Maddalena, detto delle Convertite, dalle sue origini. Già a partire dal 1525 è documentata, presso l’ospedale degli Incurabili di Venezia, la presenza di alcune “donne peccatrici a Dio convertite” sofferenti di malattie veneree. Nel 1534 un primo gruppo di ex-prostitute convertite, che vivevano presso alcune casette35 site nella parrocchia di S. Eufemia alla Giudecca, manifestò l’intenzione di fondare un proprio istituto, sull’esempio di quello eretto e approvato dalla Santa Sede a Roma (fig. 1). Il monastero venne dedicato a Santa Maria Maddalena, la prima ‘santa peccatrice’ per eccellenza. L’autorizzazione con bolla papale non tardò ad arrivare, i lavori di costruzione della fabrica furono talmente veloci che, solo otto anni dopo – nel 1542 – le prime 14 monache Convertite poterono varcare la soglia del monastero. Sempre dal Capitolo veniamo a sapere che il primo rettore del monastero delle Convertite fu Don Piero Lioni Bresciano36, con il compito di “assistere ad esse”. E’ curioso notare che, malgrado questo documento riporti la data del 1719, non faccia alcun riferimento alle nefandezze compiute dal primo rettore di cui poi si racconterà, ma si limiti a giudicarne positivamente l’operato verso le monache come colui che “ben le governò con molti vantaggi”. Il rettore restò in carica per ben 18 anni, fino al 1560. Proprio il giorno dell’inaugurazio- ne, durante il percorso che conduceva le monache dalla chiesa di S. Eufemia al monastero, accadde un curioso episodio: il demonio invidioso di un’opera così giusta, fece cadere rovinosamente il ponte su cui passavano. Ma il Signor Iddio che benedice i giusti fini, non permise succedesse loro alcun male e, assicurando la sua favorevole protezione, le fece giungere salve al luogo destinato37.

33 M. Laven, Monache. Vivere ...cit., p. 138. A Venezia durante la Controriforma, esistevano altre istituzioni a soccorso delle fanciulle indigenti, tra cui Santa Maria delle Zitelle ‒ fondato nel 1559 ‒ e l’istituto di Santa Maria del Soccorso, fondato nel 1578 e patrocinato dalla famosa cor- tigiana Veronica Franco; vedi M.F. Rosenthal, The Honest Courtesan: Veronica Franco, citizen and Writer in Sixteenth-Century Venice, Chicago, 1992. 34 ASVe, Fondo di Santa Maria Maddalena, b. 50. Presso l’Archivio di Stato di Venezia è con- servato l’intero fondo del Monastero di Santa Maria Maddalena. Si tratta di un fondo privo di indice e mai inventariato. 35 ASVe, X Savi sopra le decime, b. 102. 36 M. Laven, Monache. Vivere., cit., p. 153. Il prelato, originario della Valcamonica, entrò nel monastero della Giudecca come confessore delle monache e quando morì, il 10 novembre 1561, aveva 43 anni. 37 ASVe, Fondo Monastero di Santa Maria Maddalena, b. 50. 22 Vania Levorato

Fig. 1 - J. de’ Barbari, Veduta di Venezia, 1500. Indicazione della zona dell’Isola della Giudec- ca, dove verrà costruito il Monastero delle Convertite a metà del XVI secolo.

Dal 1551, trascorso un periodo di prova, le monache poterono fare la pro- fessione dei voti. Con l’autorizzazione di Papa Giulio III, fu poi concesso loro il diritto a seguire la regola di S. Agostino38. Il libro del Capitolo attesta come i primi anni di vita nel monastero fossero assai produttivi, si legge infatti: quindi s’andò in giorno in giorno manifestando sempre più l’opera di Dio, aumentandosi il numero delle Convertite e nel 1562 con la benedizione del Patriarca Trevisan, furono serrate in clausura. Le Convertite, visto il loro passato di meretrici, non portavano alcuna dote al monastero, e questo fu causa di perenni e gravissime difficoltà economiche39. Per ovviare a tali problemi finanziari, il Senato veneziano concesse al monastero l’autorizzazione ad intraprendere un’attività lavorativa che permettesse alle mo- nache di rendersi economicamente autonome, esercitando l’arte di torcere e filare utilizzando un “molino da filatoio”. Recita infatti la delibera del 1553:

38 Per approfondire la tematica della regola di S. Agostino nei monasteri femminili veneziani, vedi M.P. Pedani, Monasteri di agostiniane a Venezia, “Archivio Veneto”, V, 125, pp. 35-78. 39 La perenne crisi economica del monastero, indusse il Maggior Consiglio in data 19 marzo 1550, a deliberare una legge che obbligava i notai a chiedere ai testatori se era loro intenzione donare denaro alle Convertite. Vedi ASVe, Comp. Leggi, b, 288. f. 324. Nel 1601 i Pregadi de- cisero che la pubblica autorità provvedesse ai bisogni delle religiose. Lo stesso Senato deliberò l’elezione di 12 governatori (6 nobili e 6 cittadini, poi aumentati a 20) per fare in modo che le monache ricevessero aiuti economici urgenti vista la gravissima crisi finanziaria in cui versavano, acuita anche dalla peste. Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo 23

Dalla supplicazione delle povere donne Convertite di questa città si è inteso la grande po- vertà del loro monastero, et il bisogno delle cose necessarie al vitto quotidiano, nel quale esse che sono in n. di 22040 si ritrovano al presente, et insieme l’honestissimo loro deside- rio, il quale è di poter con le proprie loro fatiche acquistarsi [...] un molino da filatoio, il qual non è bastevole al suo bisogno e vogliamo dichiarare che possano far il mestiero del filatoio di fillar et torzer come si conviene nella questa soa supplicazione, sopra la quale hanno riferito con giuramento li Provedidori quanto per la scrittura loro hora letta e si è inteso e cosa molto pia esaudire la dimanda di dette povere donne [...]. L’anderà parte […] che per la declaratione dela concessione […] fatta, sia preso che possa- no nel monastero loro esercitar l’arte del filatoio con quel aiutto esercitata da doi maestri di due botteghe di essa arte 41. Particolarmente interessante è la locuzione contenuta nella delibera del Se- nato in riferimento a “l’honestissimo loro desiderio”, che rimarca e sottolinea la ferma volontà di queste donne di voler rendere il Monastero delle Convertite finanziariamente autonomo. Altrettanto evidente è l’intento di far comprendere a chiunque non solo la sincerità e l’autenticità del loro desiderio di redenzione, ma anche, mediante la pratica diretta di un’attività lavorativa, di un vero e proprio riscatto sociale. Il Senato veneziano, nell’esaudire queste richieste, concesse alle monache la possibilità di specializzarsi nell’arte della torcitura e filatura, permet- tendo a due esperti maestri di bottega di insegnare loro il mestiere. Seppur non esplicitamente nominata dalle autorità civili, vi fu anche un’altra, assai particolare, attività lavorativa intrapresa dalle Convertite, che, a partire dal 1557 e fino al 1561, attivarono una stamperia. Anche se nel Cinquecento non era raro trovare donne ‒ solitamente mogli, vedove o figlie di tipografi‒ occupate nell’attività familiare42, la stamperia delle Convertite ebbe una certa fama. Il caso delle “monache tipografe”43 fu citato per primo, nel 1907, da Vittorio Rossi44 il quale, venuto in possesso di un libretto dedicato al Beato Bernardino da Feltre (datato metà del XVI secolo), osservò la scritta sul frontespizio “stampato per le

40 Le tante suppliche rivolte dalle Convertite alle autorità civili, per richiedere aiuti economici, rivelano un numero di presenze delle Convertite, mediamente compreso le duecento e le quattro- cento unità. 41 ASVe, Senato Terra, 1553 – 1554, Reg. 39, c. 70. 42 Per quanto concerne l’attività tipografica cinquecentesca in Italia vedi F. Ascarelli, M. Menato, La tipografia del ’500 in Italia, Firenze,1989, pp. 400-401. 43 Una citazione sulle Convertite compare anche in G. Tassini, Curiosità veneziane ovvero ori- gini delle denominazioni stradali di Venezia, Venezia, 1887, pp.198-199. 44 V. Rossi, Altre donne tipografe nel Cinquecento, “Il libro e la stampa: Bullettino ufficiale della Società Bibliografica Italiana”, I, 1907, 4-5, pp. 135-136. Altra bibliografia sull’attività di stampa in G. Volpi, La libreria de’ Volpi e la stamperia Cominiana, Padova, 1756, p. 272 dove è riportata l’attività di stampa delle monache: “queste religiose avranno avuto una piccola stamperia per im- primere in essa colle proprie mani libri sacri e adattati alla professione religiosa”. 24 Vania Levorato mani delle Convertite”. Lo storico Edoardo Barbieri45 ha approfondito la ricerca su questa particolare tipografia, analizzando tecnicamente anche i singoli testi. L’attività tipografica si mantenne attiva dal 1557 fino al 1561, periodo in cui furono stampati all’incirca una ventina di libretti contenenti principalmente pre- ghiere di Santi e Beati vissuti nel XIII secolo, sia in volgare che in latino. Secondo Barbieri, la tipologia, la quantità dei testi pubblicati e l’organizzazione lavorativa necessaria alla loro stampa sono comparabili alla produzione di una qualsiasi altra tipografia cinquecentesca46. In particolare: nel 1557 vennero pubblicate 2 edizioni, nel 1558 5 edizioni, nel 1559 10 edizioni (alcune vendute presso la libreria alla Speranza sita in campo Santa Maria Formosa) nel 1560 7 edizioni (alcune vendute presso la libreria alla Speranza sita in campo Santa Maria Formo- sa) e nel 1561 1 edizione che corrispose alla fine della attività tipografica; infine nel 1562 l’attrezzatura viene liquidata ed acquistata da Lorenzo Pasquato, tipografo di Padova47. Le monache stesse erano addette in prima persona al funzionamento della tipografia, probabilmente con l’aiuto esterno di collaboratori addetti al controllo meccanico delle attrezzature presenti. Se ne deduce, di conseguenza, che le mo- nache fossero donne istruite, in grado di leggere e scrivere già prima di entrare in monastero48. D’altronde era noto come moltissime donne ‘pubbliche’ veneziane frequentassero i salotti dei palazzi e gli ambienti letterati più prestigiosi della Se- renissima. Lo stesso Molmenti, ad esempio, così decantava i talenti intellettuali delle cortigiane veneziane: Volevano le prostitute ornare la loro bellezza con tutte le attrattive della cultura, col canto, colla musica e le loro case, ove si raccoglievano letterati e poeti, divenivano nuovi parnasi49. L’immagine editoriale che compare sul frontespizio dei libri stampati nel Monastero delle Convertite è davvero significativa: riporta l’immagine di Santa Maria Maddalena, coperta da lunghi capelli, che viene sollevata dagli angeli in trionfo, circondata in basso da tante minuscole monache devote in preghiera. Su tutte le edizioni veniva poi impressa una di queste frasi, solitamente in latino o italiano, che tendevano a sottolineare fermamente la volontà del riscatto sociale e religioso attraverso preghiera e lavoro: “In coenobio Sanctae Mariae Magdalenae per monalium poenitentium manus” da inten-

45 E.R. Barbieri, Per Monalium poenitentim manus…, cit., pp. 303-353. 46 Ibidem, p. 316. 47 Ibidem, p. 313. 48 Ibidem, p. 317. 49 G.P. Molmenti, La Storia di Venezia, cit., II, p. 466. A Venezia le cortigiane erano dette “oneste”, se intellettualmente elevate e cortigiane “di lume”, quando esercitavano per pochi denari nelle zone più misere della città. Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo 25

dersi stampato “per le mani delle Convertite”, oppure “Ecco la gran bontà di Dio verso il peccatore che si riduce a penitentia” ed ancora “Optimam parte elegit sibi Maria, quae non auferetur a bea in Aeternum”, cioè “ognun che il mondo desidera sprezzare, questo vivo esempio debba considerare”50. Alcuni dei libretti riportavano delle dediche a badesse veneziane, o alle mo- nache del Monastero veneziano di San Lorenzo51, altri esemplari, stampati tra il 1557 e il 1559, vennero venduti presso la libreria alla Speranza, sita in Campo Santa Maria Formosa a Venezia. Purtroppo, ad oggi, i documenti archivistici rinvenuti, relativi a questa attività di vendita, risultano ancora molto scarni. Non vi è dubbio comunque che le Convertite rappresentarono una tipologia di don- ne moderne, determinate ad utilizzare il loro lavoro non solo per ricavarne un risultato economico, ma soprattutto come efficace strumento di comunicazione sociale: era possibile, anche per delle ex meretrici, redimersi e riscattarsi agli occhi della società. Ancora il Molmenti, così scrisse di queste monache. Solo pochi anni dopo, precisamente nel 1561, il Monastero delle Convertite sarà tuttavia al centro di un grave scandalo che susciterà enorme scalpore in città e vedrà coinvolto il già citato rettore del monastero, Don Piero Lioni Bresciano. Il religioso venne non solo accusato di aver abusato sessualmente di più di venti monache, ma di aver soppresso barbaramente i figli nati da queste illecite relazioni. Nel 1561 Don Lioni venne condannato a morte, con decapitazione pubblica tra le due colonne in Piazza San Marco, luogo deputato alle esecuzioni capitali della Serenissima. Reo confesso52, il rettore chiese perdono a tutti, cercando in tutti i modi di difendere l’innocenza della priora del monastero, Petronilla Cadena, la quale, condannata alla reclusione perpetua, morirà nel 1564. Il 1561 fu un anno infausto che coincise sia con la fine della produzione tipografica del monastero sia con la condanna a morte di Don Piero Lioni, il quale seppur autore dei turpi fatti commessi, fu sicuramente anche il primo ispiratore53 e sostenitore delle attività produttive interne al monastero che videro le monache attive in prima persona, come forza lavoro. Il gravissimo scandalo e l’ormai imminente riforma tridentina convinsero le autorità religiose e civili a interdire tutte quelle attività lavorative che

50 E. Barbieri, Per Monalium poenitentim manus…, cit., p. 312. 51 Ibidem, p. 320. Precisamente è dedicato il Giustiniano n. 20. 52 Biblioteca Museo Correr, Venezia, Codice Cicogna 3239 (già 2082). Sempre sulla confessione del Rettore, vedi la dettagliata relazione del Nunzio apostolico Ippolito Capilupi, riportata in G.B. Intra, Di Ippolito Capilupi e del suo tempo, “Archivio storico Lombardo”, XX, 1893, v. 10, pp. 76-141. 53 E. Barbieri, Per Monalium poenitentium manus.., cit., p. 320. Il rettore era istruito, alcuni documenti attestano studi di diritto canonico a Padova. Di qui forse la conoscenza del rettore con il tipografo padovano Pasquati, a cui andranno le attrezzature tipografiche delle convertite una volta dismessa l’attività. 26 Vania Levorato inevitabilmente avrebbero portato le religiose ad avere contatti con persone esterne al monastero. Nel 1562, le Convertite vennero dunque “serrate”54 in clausura dal Patriarca Giovanni Trevisan55 e venne sospesa l’attività tipografica, che mal si con- ciliava con quella che doveva essere la vita di clausura femminile.

6. Le visite pastorali ai monasteri femminili Le dettagliate relazioni delle visite pastorali restano tutt’ora uno strumento asso- lutamente prezioso, per comprendere appieno quali cambiamenti portò la riforma tridentina nella vita quotidiana delle monache, forse la vera chiave di accesso per entrare in quei monasteri trasformati in vere e proprie prigioni. L’isola della Giudecca nel Cinquecento era considerata il giardino di Venezia, con i suoi profumati giardini ed immensi orti ricchi di piante e verdure di ogni tipo. La planimetria di Matteo Pagan56 del 1559 individua, quali spazi occupati dal monastero delle Convertite, una chiesa, due edifici ad uso abitativo, un’ampia zona scoperta coltivata confinante con la laguna57. Circa un secolo dopo, la pianta del 1660 di Giovanni Merlo rivela un importante ampliamento degli spazi abitativi con la chiesa ora situata nel lato orien- tale58. Entreremo quindi all’interno del convento, seguendo virtualmente il Patriarca Lorenzo Priuli59 durante la sua visita pastorale alle Convertite. Gli ordini del Priuli, integerrimo sostenitore delle norme tridentine60, incisero in modo radicale sugli spazi architettonici. Nel freddo del mese di gennaio del 1592, più precisamente dal giorno 11, il patriarca Priuli si recò per due giorni in visita pastorale presso il Monastero di Santa Maria Maddalena61, ispezionando dettagliatamente tutti i locali del monastero. Le visite pastorali erano in realtà rigidi strumenti di controllo, intesi a reprimere qual- siasi ribellione e riportare l’osservanza stretta della clausura. In poco tempo e in modo brutale, vennero eliminati quegli spazi di libertà conquistati nel corso dei secoli da

54 Per “serrare in clausura” è inteso che le Convertite divennero un vero e proprio ordine mo- nastico di clausura separato dal resto del mondo. 55 Giovanni Trevisan fu patriarca di Venezia dal 1560 al 1590. 56 La planimetria di Matteo Pagan del 1559, è riprodotta in J. Schulz, The printed plans and panoramic views of Venice (1486-1797), Firenze, 1970, fig. 22, p. 132. 57 B. Aikema, D. Meijers, Nel Regno dei Poveri, Arte e Storia dei Grandi Ospedali in età moderna 1474-1797, Venezia, 1989, pp. 191-195. 58 Ibidem, p. 191. La pianta di Giovanni Merlo, è riprodotta in J. Schulz, The printed plans..., cit., f. 35, p. 145. A tutt’oggi è stimata in circa 4000 metri quadrati la superficie occupata dal carcere femminile. Le detenute sono tutt’ora occupate nella coltivazione di verdure biologiche negli orti. 59 Archivio Storico del Patriarcato di Venezia, (d’ora in avanti) ASPV, Archivio Segreto, Visite monasteri femminili, Registro Visite Patriarca Priuli, 1592-96, bb. 2-3. 60 La normativa in questione è regolata nel Concilio di Trento, canone III della XXIV sessione e nel canone VIII della XXII sessione. 61 ASPV, Vis. past. Priuli, 1592-96, b. 3. Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo 27 tante monache infelici. Se, in alcuni monasteri, le monache erano pie ed osservanti e vestivano l’abito previsto dall’ordine monastico di appartenenza, in molti altri casi la situazione era ben diversa. Lo stesso Patriarca Priuli denunciava: Havendo noi inteso con nostro gran dispiacere, che in alcuni monasteri di Monache si sia introdotto il portar li vili, et bende di seta stoccate con lasciarsi videre li capelli, et anco arriciati, et li carni scoperte con gran scandalo. Con le presenti nostre habbiamo voluto ammonire, et commandare […]. et s’abbi cura […] che si conservino nella loro purità ne- gli habiti antichi con li capelli tagliati, che non si vedano con li vili non di seta né stocati, né con le carni coperte da i vascapi..et dai vili. A chi contrarà a questa nostra constitutione et ordine, li mettiamo la pena d’esser priva un’anno di parlatorio62. Altre relazioni raccontano di cucine che abbondavano di ogni ben di Dio, di celle arredate con i mobili della famiglia di origine, a testimonianza della gran- de libertà, del benessere e del prestigio di cui godevano certi monasteri. In altri conventi, invece, in particolare quelli dislocati nelle isole della laguna, la vita era assai grama tra malaria, estrema povertà, tanto che scarseggiava anche il minimo necessario per sopravvivere. Le visite patriarcali nei monasteri della Serenissima, di prassi, si svolgevano in modo semplice ma efficace: il patriarca, con un suo vicario, si recava personalmente presso il monastero, ed ispezionava con visita “oculare” tutti gli edifici del monastero. La visita poteva durare anche più gior- nate, dedicate a perlustrare i locali, controllare la documentazione finanziaria, la lista dei sacerdoti e delle persone ammesse ad entrare nel monastero. Il patriarca non trascurava inoltre di dedicarsi all’ascolto di ogni singola monaca, con lo scopo di comprendere le problematiche esistenti all’interno del monastero tra le stesse religiose o con la badessa, ma soprattutto di reprimere idee religiose sospet- te63. Nel giorno stabilito il patriarca si recava al monastero, celebrava la Messa alla presenza di tutte le monache. Seguiva poi l’incontro con il Capitolo delle monache professe, alle quali ripeteva le solite raccomandazioni, ovvero di vivere rispettando la regola di appartenenza con decoro e onestà e di condividere la gior- nata comunitariamente con le consorelle (cosa, questa, estremamente difficile). Le liti e le divisioni in fazioni, a seconda delle famiglie di origine, erano infatti all’ordine del giorno. Il Patriarca iniziava la visita oculare e ispettiva dalla chiesa, proseguiva poi con gli altri locali, refettori, cucine, celle, per concludere con la visita alla biblioteca. I provvedimenti dei patriarchi erano rivolti nello specifico a controllare gli spazi comuni, come i parlatori e le porte di accesso ai monasteri, per impedire in modo rigoroso l’ingresso ai non autorizzati. Quello dei patriarchi

62 Ibidem, b. 3, f. 206. 63 G. Zarri, Monasteri femminili e città, Storia d’Italia, IX, in G. Chittolini, G. Miccoli, (a cura di), La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Bologna, 2000, p. 404. 28 Vania Levorato era un compito assai difficile: entrare nei monasteri e incontrare tante donne colte, intellettualmente preparate ma costrette a prendere il velo, e impartire pure regole e punizioni, appariva spesso come una paradossale forzatura. Non a caso il Patriarca Giovanni Tiepolo64 scrisse amaramente sul destino di queste donne nobili, istruite ed “in grado di comandare il mondo”, descrivendole in modo esplicito come monacate forzatamente e rinchiuse non per loro scelta religiosa, ma per salvaguardare i patrimoni familiari. Tornando alla relazione della visita del patriarca Priuli65, veniamo a sapere che nei giorni successivi alla visita pastorale, il suo Vicario incontrò le monache del Monastero, in totale 241, così suddivise: […] Converse n. 27; Novizze n. 10; Professe da pater noster con velo bianco n. 23; Pro- fesse da choro con velo negro n. 181 […]66. Il Patriarca Priuli, che si era premurato di preavvisare la badessa del suo arrivo con due giorni di anticipo, dopo aver celebrato la messa e impartito la benedizio- ne a tutte le religiose, iniziò la visita pastorale partendo dalla chiesa del monaste- ro, dedicata a Santa Maria Maddalena. Esaminò i paramenti, i due altari e ordinò due nuovi inginocchiatoi e di riparare il marmo dell’altare67 che era “imperfetto e … fu ordinato che si finisca da chi è stato principiato”68. Comandò poi di mettere dei drappi più pesanti alle finestrelle in modo che il sacerdote, che celebrava la messa guardando verso l’alto e quindi verso il coro, potesse vedere solo l’ombra delle monache. Alle stesse monache da coro veniva raccomandato che, durante la predica, coprissero il viso con “veli ordinarii”. Attraversando i parlatori grande e piccolo il patriarca scrive, “s’avvertisca che le porte dei Parlatorij non habbino catenazzo da chiuder di dentro ma solo si chiudano di fuori”69. Senza dubbio le direttive patriarcali condizionarono pesantemente l’architet- tura e gli spazi dei monasteri. Lo stesso Priuli, visitando la parte esterna del mo- nastero fece scrivere che

64 M. Laven, Monache. Vivere…, cit., p. 31. BCMCVe, Codice Cicogna 2570, cc. 299-304. Giovanni Tiepolo fu Patriarca dal 1619 al 7 maggio 1631. 65 Archivio Storico del Patriarcato di Venezia, (d’ora in poi ASPV), Archivio Segreto, Visite pastorali a monasteri femminili, Priuli (1592-1596), b. 3. 66 Ibidem. 67 Ibidem. Seppur di piccole dimensioni, la Chiesa delle Convertite contava ben 6 altari, con opere pittoriche di Palma Il Giovane e di seguaci del Veronese. Per le opere artistiche presenti nella chiesa delle Convertite, vedi M. Boschini, Le ricche miniere della pittura veneziana, Venezia, 1674. Il benefattore Bartolomeo Bontempelli dal Calice nel 1579 si interessò per un generoso restauro dell’oratorio del convento. Per approfondimenti vedi B. Aikema, D. Mejers, Nel regno dei poveri …, cit., p.193. 68 Ibidem 69 Ibidem. Attività lavorative e spazi nei monasteri femminili veneziani nel XVI secolo 29

[...] vi è una calle la quale sbocca nella laguna, dove si può nascondere quantità grande de gente, Però ordinò che si procuri che detta calle sia stroppata dalla parte della laguna, et che sia di sopra via tra muro et muro coperta che niuno possa entrare dentro […]70. Ordinò anche di eliminare dal muro di cinta “quei merli vecchi”71 che pote- vano essere usati come scalette per entrare nel monastero di nascosto. Le finestre di legno dovevano avere una doppia chiave, e le chiavi dovevano essere conser- vate dalla madre Priora, o in mano della più vecchia sagrestana. Furono visitati anche i quattro dormitori, e l’infermeria. Per i dormitori contigui alle case, il Priuli ordinò di “stroppare” le finestre che guardavano verso i coppi per impedire la vista altrui, e ordinò altresì che, nel dormitorio di ponente, il soffitto venisse rifatto per “rimediar al caldo dell’estate et al freddo dell’inverno, perché le mo- nache patiscono”72 dimostrando attenzione per la salute delle monache. Anche il campanile, considerato possibile elemento di intrusioni non autorizzate, doveva essere innalzato, le chiavi delle porte di accesso conservate solo dalla priora; alle finestre dovevano essere “messi ferri alli balconi, in maniera che non impediscano il suono delle campane”73. Si ordinò che le galline fossero tolte dalla parte del convento ove si trovavano in quanto “danno anche non poco disturbo con il strepito che fanno alle monache mentre sono in choro”74. Il patriarca visitò poi i luoghi inferiori, “cavane, magazeni, luoco da far pane, la- vanderie, cucine, dispensa, refettorio, speciaria, parlatorij inferiori, noviziato, corte e orto”, e ordinò di ampliare il “luoco” ove si riuniva il Capitolo, utilizzato anche come “lavoratorio” (dove probabilmente si trovavano anche la stamperia e i molini da filatoio). L’attività di ricamo si svolgeva anche nelle singole celle. Il Priuli, im- pegnato a impartire ordini su quali fossero gli interventi architettonici più urgenti, inviò sin dall’arrivo i suoi prelati alla biblioteca del convento, per visionare tutti i libri a stampa “pubblici e privati di detto monasterio, et li fece sottoscriver dal suo cancelliero, ordinando che quelli soli che fossero sottoscritti et non altri possino esser letti dalle monache”75. La presenza della biblioteca, ottimamente fornita di libri, testimonia l’interesse nella lettura da parte delle monache. Non ci è dato conoscere quali fossero i pensieri di Priuli o degli altri patriarchi veneziani durante le visite patriarcali mentre attraversavano i lunghi corridoi, le celle, i chiostri, incontrando gli sguardi infelici di centinaia di donne per la

70 Ibidem. 71 Ibidem. 72 Ibidem. 73 Ibidem. 74 Ibidem. 75 Ibidem, f. 84 r. 30 Vania Levorato maggior parte monacate forzatamente. Imporre regole, abiti monastici, chiudere finestre e alzare muri non sarebbe comunque servito a molto, perché, come scrive Mary Laven: nessuna quantità di energia riformatrice sarebbe stata sufficiente a trasformare i conventi di Venezia in ben regolate comunità di monache obbedienti, finché queste istituzioni fossero state piene di donne che non avevano alcuna vocazione per la vita religiosa76.

7. Conclusioni Come detto, il XVI secolo riconosce al ruolo femminile, seppur tra mille ostacoli e contraddizioni, un nuovo protagonismo. Il lavoro delle donne nella prima età moderna, fortemente ostacolato dall’irrigidimento delle norme delle arti corporative, gode invece proprio all’interno dei monasteri femminili di una certa visibilità ed autonomia. E’ un tema questo assai interessante, che necessita di ulteriori ricerche. In alcune relazioni delle visite pastorali di età moderna, è possibile trovare gli elenchi con i nomi di tutte le monache presenti, la loro età, ed anche la tipologia di lavoro a cui erano addette: questi documenti evidenzia- no così una vera e propria organizzazione interna del lavoro. Accanto ai ruoli lavorativi tradizionali, di addette alle cucine, infermiere, farmaciste, contadine, portinaie, si notano anche monache produttrici di dolci e di pane, e abilissime ricamatrici di sete e tessuti che spesso erano destinati alla vendita. La vicenda del- le Convertite, abili filatrici e tipografe, testimonia un’esperienza assolutamente moderna, generata da uno spirito imprenditoriale femminile77 e da un sincero slancio verso un’autonomia personale e sociale.

76 M. Laven, Monache. Vivere…., cit., p. 36. 77 Per approfondire il tema delle donne lavoratrici nei secoli passati, vedi anche P. Lanaro, La storia, le storie: alla ricerca delle donne a Verona, in A. Smith, Paola Lanaro (a cura di ), Donne a Verona. Una storia della città dal Medioevo ad oggi, Sommacampagna, 2012, pp. 11-28. «Città e Storia», XI, 2017, 1, pp. 31-57, doi: 10.17426/69536, ©2017 Università Roma Tre-CROMA

Fabbriche extra-moenia. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale Roberto Parisi Università del Molise

Abstract: This essay proposes a reflection on the dynamics and the practices of the lo- cation of the space of work in the peri-urban area of Naples between the second half of the Eighteenth Century and the late Twentieth Century. The author traces the history of the “equipped industrial areas” of Naples through the main stages of the process of the ur- ban transformation driven by the pre-arranged localization of manufacturing plants. With the aim of identifying the coordinates of a possible periodization, the essay is articulated according to a time sequence conventionally marked by three main stages: the two decades 1884- 1904, through the directories applied in Naples for the realization of a model of “industrial quar- ter”; the decade 1957-1967, characterized by the beginning of the politics of industrialization in Southern Italy; the five years 1986-1991, marked by the development of the intermodality and by the introduction of the paradigm of the “lean production system”. Keywords: Naples; Industrial Architecture; Urban Planning; Equipped Industrial Areas.

Introduzione Nel 1998, sulle pagine de “I Viaggi di Erodoto”, nell’ambito di una riflessione su alcune questioni di periodizzazione dell’età industriale, Tommaso Detti indi- viduò nel “luogo del lavoro” una delle principali chiavi di lettura per cominciare a storicizzare la fine del Novecento, constatando che il lavoro, “dopo essere stato decentrato per secoli a domicilio, [e poi] accentrato per un certo periodo nella fabbrica, [era tornato] ad essere privo di un luogo fisico ben definito”1. In effetti, a distanza di vent’anni dalle osservazioni di Detti, nei paesi occi- dentali di più antica industrializzazione i concetti novecenteschi di ‘fabbrica’ e di ‘lavoro’ sono profondamente mutati. In molti settori produttivi il lavoro è tor- nato ad adattarsi alla dimensione fisica di contenitori urbani o rurali preesistenti, impegnando in prevalenza luoghi aperti e facilmente modificabili, capaci cioè di rispondere meglio alle esigenze di flessibilità e di fluidità logistica che impone il mercato globale2.

1 T. Detti, Fine del Novecento, fine dell’età industriale o fine del capitalismo?, “I viaggi di Erodoto”, 1998, 34, pp. 36-43. 2 S. Marini, A. Bertagna, F. Gastaldi (a cura di), L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto, Macerata, 2012; M. Pilar Vettori, Architettura aziendale. Ricerca e progetto nei luoghi della produzione, Santarcangelo di Romagna, 2013. 32 Roberto Parisi

In qualche caso, come era già emerso in occasione della XVII Triennale di Milano (1986), la telematica ha favorito il ritorno alla dimensione domestica di alcune fasi dell’attività produttiva3. Oggi, la fabbrica occidentale non rappresenta quasi più il ‘tempio’ del lavoro sicuro e garantito. La cultura ecologica ne ha influenzato la trasformazione in una sorta di laboratorio scientifico, trasparente e ad alta automazione, e la sua con- figurazione spaziale è diventata per l’impresa uno strumento di comunicazione sempre più sofisticato. La sua immagine riflette strategie di brand management e di experience business, ma soprattutto un nuovo paradigma progettuale, secondo cui la “forma” dell’architettura non segue più la “funzione”, ma il “flusso”4. Questo nuovo modo di intendere lo spazio del lavoro, che può assumere i ca- ratteri di una fabbrica modulare (o frattale) quando è parte integrante, alla scala globale, di un articolato sistema transnazionale di collegamenti logistici e telema- tici, affonda le radici nel passaggio storico dal modello taylor-fordista dell’assem- bly line a quello toyotista del just in time. In Italia, questo passaggio si colloca alla fine del cosiddetto ‘secolo breve’ e si concretizza per la prima volta nel nucleo industriale di San Nicola di Melfi, in provincia di Potenza, con la realizzazione della Fiat-Sata5. La versione melfitana del toyotismo ha infatti segnato una forte discontinuità nel rapporto di più lungo periodo instauratosi in Italia tra la città e il luogo del lavoro, in parte già entrato in crisi nel corso degli anni Settanta del Novecento con le prime esperienze terri- toriali delle Aree di Sviluppo Industriale6. Almeno sul piano teorico, la ‘svolta’ degli anni Settanta-Novanta del Nove- cento coincide con la definitiva separazione fisica tra la città e l’industria. In base a un complesso sistema di dispositivi di pianificazione urbanistica e di pro- grammazione economica, lo spazio del lavoro è stato concentrato in aree dedi- cate, poste ad una relativa distanza dai centri urbani e adeguatamente attrezzate a livello infrastrutturale, sia per consentire l’approvvigionamento energetico e lo smaltimento degli scarti dell’attività produttiva, sia per favorire il trasporto intermodale.

3 A. Castellano, R. Sommariva (a cura di), Il Luogo del Lavoro. Dalla manualità al comando a distan- za, XVII Triennale di Milano, catalogo della mostra (Milano, maggio-settembre 1986), Milano, 1986. 4 R. Parisi, Industrial Architecture, in U. Carughi, M. Visone (a cura di), Time Frames: Conservation Policies for Twentieth-Century Architectural Heritage, London 2017, pp. 395-404. 5 D. Cersosimo, Viaggio a Melfi. La Fiat oltre il fordismo, Roma 1994; Dalla fabbrica integrata alla città: lo stabilimento Fiat di Melfi, numero monografico di “Controspazio”, 1995, 1. 6 S. Adorno, Le Aree di sviluppo industriale negli spazi regionali del Mezzogiorno, in L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, 4, Roma 2015, I, pp. 375-394. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 33

Nell’esperienza di Melfi i principali elementi di discontinuità riguardano sia l’interno del luogo di lavoro, sia l’esterno, nei suoi rapporti con l’ambiente natu- rale e antropico. Oltre alle nuove misure di tutela ambientale, essi si possono individuare nel ciclo di produzione, caratterizzato dall’introduzione dell’Ute (Unità tecnologica elementare), che sostituisce anche ideologicamente i sistemi d’impronta taylor- fordista della ‘catena’ e dell’‘isola’; nel carattere giuridico della base contrattuale adottata, che nell’organizzazione del lavoro impone una de-gerarchizzazione dei ruoli del personale; nella tempistica delle varie fasi di progettazione ed esecuzione dell’impianto, che riconduce il progetto e il cantiere alla logica del just in time; nel rapporto con l’ambiente antropico, che si traduce nella scelta aziendale di non perseguire alcuna politica di social housing. Infine, nella configurazione dello spa- zio del lavoro, che incorpora il nuovo modello di lay-out della ‘produzione snella’, eliminando ad esempio dal repertorio degli edifici ausiliari la ‘palazzina uffici’ e i magazzini di stoccaggio e adottando materiali, colori e soluzioni impiantistiche adeguate per garantire, senza soluzione di continuità, il flusso e il movimento controllato di uomini, macchine e prodotti7. Questo insieme di elementi consente dunque di fissare i primi anni Novanta del Novecento come termine ad quem di una possibile periodizzazione della sto- ria del rapporto che si è instaurato in Italia, nel corso della ‘lunga’ età industriale, tra il luogo del lavoro e la città. Più complessa risulta invece l’individuazione convenzionale del termine a quo, poiché l’accentramento del lavoro in un unico luogo e il rapporto che si instaura tra questo e la città è un processo con molte variabili, che si manifesta in Italia fin dall’età medievale anche in ambienti rurali e che convive, ancora in piena età industriale, con il lavoro a domicilio. Si può però convenire sul fatto che, almeno in Italia, pur manifestandosi in molti centri urbani già durante l’ancien régime, il processo di localizzazione preordinata di manifatture e industrie in una fascia periurbana, prossima alla ‘città chiusa’ ma fisicamente separata da essa, matura pienamente nel corso del tardo Ottocento, pressoché in concomitanza con quella che la storiografia economica considera l’‘età del decollo’. In questo più ampio quadro di riferimento si colloca il caso-studio di Napoli, preso in considerazione per affrontare il tema attraverso una riflessione di sintesi sulle dinamiche e sulle pratiche di insediamento extra-moenia dei luoghi del lavo- ro tra la metà dell’Ottocento e la fine del ‘secolo breve’8.

7 R. Parisi, Fabbriche d’Italia. L’Architettura industriale dall’Unità alla fine del Secolo breve, Milano, 2011. 8 Per un quadro comparativo di riferimento si rimanda a R. Parisi, La fabbrica extra-moenia. 34 Roberto Parisi

Con riferimento all’arco cronologico proposto, la dimensione urbana del luo- go del lavoro viene indagata in rapporto all’evoluzione dei sistemi di mobilità, alle istanze sociali di sicurezza e igiene, ai diversi regimi di controllo e di gestione del suolo. In questa prospettiva d’indagine, diventano centrali anche il ruolo che progressivamente ha assunto la voce ‘edilizia’ nei bilanci delle imprese produttive coinvolte e il processo di graduale maturazione di appropriati domini professio- nali nei settori della pianificazione dello spazio urbano-industriale e della proget- tazione dell’architettura del lavoro. Con l’intento di individuare le principali coordinate di una possibile perio- dizzazione, il saggio si articola secondo una sequenza temporale convenzional- mente scandita secondo tre fasi principali: il ventennio 1884-1904, attraverso i dispositivi messi in atto a Napoli per la realizzazione di un modello di ‘quartiere industriale’; i decenni compresi tra il 1904 e il 1939, durante i quali si assiste alla graduale espansione dei quartieri industriali ad est e ad ovest della città e alle prime esperienze di decentramento al di fuori dei confini comunali, mentre alla scala nazionale matura il dibattito urbanistico sulle ‘zone industriali’; il secondo Novecento, con particolare riguardo al decennio 1957-1967, di avvio e di prima verifica delle politiche di industrializzazione per poli innescate nel Mezzogior- no, e al quinquennio 1986-1991, contrassegnato dall’ingresso dell’intermodalità nelle prime esperienze di delocalizzazione dei luoghi del commercio e dai primi approcci territoriali al paradigma della ‘produzione snella’ di matrice toyotista.

1884-1904. La città e il luogo del lavoro nell’età del decollo industriale Le leggi speciali per il ‘Risanamento’ e per il ‘Risorgimento economico’ di Napoli, promulgate rispettivamente il 15 gennaio 1885 (n. 2892) e l’8 luglio 1904 (n. 351), sono state considerate dalla storiografia due tappe fondamentali della storia della città partenopea9 e più in generale due dispositivi normativi che hanno influenzato in maniera significativa le pratiche urbanistiche condotte in molte città italiane tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento10. Emanata in seguito alla devastante epidemia di colera che aveva colpito Na- poli tra agosto e settembre del 1884, la legge del 1885 consentì di risanare da un punto di vista ambientale una parte del centro storico e allo stesso tempo, anche

Per una storia della periferia urbano-industriale in Italia, in A. Ciuffetti, R. Parisi (a cura di), L’Archeologia Industriale in Italia. Storie e storiografia (1978-2008), atti del convegno nazionale (Termoli, 5-6 dicembre 2008), Milano, 2012, pp. 264-282. 9 P. Belfiore, B. Gravagnuolo, Napoli. Architettura e Urbanistica del Novecento, Roma-Bari, 1994. 10 G. Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942), Milano, 1989; C. Giovannini, Risanare le città. L’utopia igienista di fine Ottocento, Milano, 1996. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 35 sul piano infrastrutturale, di fissare le prime direttrici di espansione territoriale oltre i limiti della città consolidata11. Analogamente, la legge ‘nittiana’ del 1904 favorì il rilancio dello spazio urbano-industriale di Napoli in una nuova prospet- tiva politico-economica, dando avvio allo sviluppo della moderna periferia con un progetto di localizzazione preordinata dei luoghi del lavoro12. I piani scaturiti da entrambe le leggi si inquadrano nella stagione igienista che caratterizzò l’esperienza urbanistica in Italia tra i primi decenni post-unitari e gli anni venti del Novecento13. Non a caso, la fase apicale di quella stagione coin- cise con la prima esposizione nazionale di igiene organizzata a Napoli nell’anno 190014, nonostante i problemi che emersero poco dopo in seguito alla nota ‘in- chiesta Saredo’ sul sistema clientelare e affaristico degli anni del “Risanamento”15. Con riferimento però alle questioni di igiene urbana, che allora ponevano il rapporto tra la città e l’industria e che trovarono una prima risposta norma- tiva nel titolo terzo della cosiddetta legge “Crispi-Pagliani” “sull’ordinamento dell’amministrazione e dell’assistenza sanitaria del Regno” (legge n. 5849 del 22 dicembre 1888), raramente la storiografia ha colto la stretta correlazione esistente tra il progetto per un “quartiere industriale” contenuto nel piano di risanamento e ampliamento di Napoli (1884) e quello per una “zona industriale” approvato dal Governo nel 1906 in applicazione della legge del 190416. Spesso, infatti, la legge e i relativi piani attuativi per il “Risanamento” sono stati considerati dei dispositivi indifferenti alla questione socio-economica e dun- que non idonei a incidere sull’assetto industriale della città; ruolo che invece si riconosce nella legge sul “Risorgimento”. Anche se applicata in un contesto imprenditoriale locale ritenuto incapace di esprimere un’autonoma forza propul-

11 G. Alisio, Napoli e il Risanamento. Il recupero di una struttura urbana, Napoli, 1980. 12 G. Acocella (a cura di), Lo Stato e il Mezzogiorno. A Ottanta anni dalla legge speciale per Napoli, Atti del Convegno (Napoli 10-11 dic. 1984), Napoli, 1986. 13 R. Parisi, Le forme d’Igèa e le persuasioni di Prometeo. Fabbriche, sanatori e “città giardino” a Napoli, in G. Corona, S. Neri Serneri (a cura di), Storia e ambiente. Città, risorse e territori nell’Ita- lia contemporanea, Firenze, 2007, pp. 123-140. 14 R. Parisi, Verso la città salubre. Lo spazio produttivo a Napoli tra storia e progetto, “Meridiana”, 2001, 42, pp. 53-74; Id., Cultura igienista e spazio della produzione a Napoli tra Otto e Novecento, in I. Zilli (a cura di), La natura e la città. Per una storia ambientale di Napoli fra ’800 e ’900, Napoli, 2004, pp. 109-138. 15 M. Marmo, L’economia napoletana alla svolta dell’inchiesta Saredo e la legge dell’8 luglio 1904 per l’incremento industriale di Napoli, “Rivista storica italiana”, 1969, 4, pp. 954-1023; S. Marotta, Corruzione politica e società napoletana: l’inchiesta Saredo, Napoli, 2012. 16 Precisi riferimenti alla relazione tra i due dispositivi di legge sulla questione industriale di Napoli sono in A. Mioni, Le trasformazioni territoriali in Italia nella prima età industriale, Venezia, 1986 (1976); M.R. Pessolano, Il risanamento di Napoli e la legge del 1904, in G. Acocella (a cura di), Lo Stato e il Mezzogiorno…, cit., pp. 151-160: 151-152. 36 Roberto Parisi siva, la legge speciale per Napoli del 1904 segna, a giudizio di alcuni studiosi, un momento di rottura nel rapporto storicamente determinatosi in Italia tra la città e l’industria, poiché disciplinò le misure per la realizzazione della “prima zona industriale italiana”17. Su tale assunto poggia la tesi di fondo, messa a punto nel corso degli anni Ot- tanta e ripresa più recentemente18, che nella prima “zona industriale” di Napoli sia da riconoscere un modello che senza soluzione di continuità è stato adottato in Italia per quasi tutto il Novecento, fino all’applicazione dei piani regolatori per le “Aree di sviluppo industriale” (ASI) istituite con la legge speciale n. 634 del 29 luglio 1957, nota come “legge Pastore”. Tuttavia, come si cercherà di approfondire più avanti nel testo, almeno fino agli anni Trenta del Novecento, le zone concepite in Italia e attrezzate a livello infrastrutturale per l’allocazione preordinata di impianti industriali, di cui l’e- sempio napoletano costituisce senz’altro un modello di riferimento, rispondono quasi sempre a una tipologia di insediamento dal carattere tipicamente urbano e per questo motivo, sotto il profilo urbanistico, simile o equivalente a un ‘quar- tiere industriale’. Da questo punto di vista, Napoli costituisce senz’altro un caso paradigmatico, non solo perché, come si è anticipato, già nell’ambito del piano di risanamento della città era stato previsto un quartiere da destinare, attraverso speciali agevola- zioni, “all’impianto di nuove industrie ed allo sviluppo di quelle esistenti”19, ma anche perché quest’idea risale alla prima metà dell’Ottocento (fig. 1). Infatti, sulla base di una prima ipotesi di lavoro avanzata nel 1854, l’ingegnere Luigi Giura elaborò un progetto “per rilegare in apposito quartiere le arti insalu- bri ed incomode”, che nel 1860 fu presentato al Consiglio Edilizio di Napoli20. L’area destinata ad accogliere questo quartiere era molto probabilmente quella posta ad oriente della città, dove si erano attestate le prime due ferrovie borboni- che per Castellammare e per Capua e dove, tra il 1835 ed il 1845, era stato rea-

17 A. Graziani, L’economia italiana dal 1945 a oggi, Bologna, 1989, p. 43. 18 R. Petri, Dal ‘porto industriale’ all’’area di sviluppo’. Industria e territorio in sessant’anni di legislazione speciale, “Quaderni storici”, 1987, 2, pp. 297-345; S. Magagnoli, Le aree industriali attrezzate: genealogia ed evoluzione di un modello di sostegno allo sviluppo locale, “Storia urbana”, 2011, 130, pp. 11-43. 19 Atti del Consiglio Comunale di Napoli, anno 1887, tornata del 12 ottobre 1887, pp. 657-659. 20 Archivio di Stato di Napoli, Ministero degli Interni, III inventario, fascio 378, f. 21, “Rapporto dell’11 dicembre 1860”. Ulteriori dettagli sul progetto di Giura sono in R. Parisi, Luigi Giura 1795-1864. Ingegnere e architetto dell’Ottocento, Napoli, 2003. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 37

Fig. 1 - Napoli. Pianta dell’area di S. Erasmo ai Granili (1867-74) con l’indizione degli sta- bilimenti metalmeccanici sorti nel primo nucleo del quartiere industriale orientale (Società Napoletana di Storia Patria, Coll. 6.E.5.9). lizzato il “rione Conceria”21, che costituisce uno dei primi casi di delocalizzazione preordinata di impianti produttivi in un’area a carattere monofunzionale, esterna alle mura urbane (extra-moenia). Composto da più di cinquanta manifatture (tra pelliccerie e cuoiami) per un numero complessivo di circa mille addetti e attrez- zato con un nucleo di abitazioni per circa trecento persone, quel rione divenne parte integrante di un più ampio quartiere a prevalente destinazione produttiva, sviluppatosi lungo l’antica consolare litoranea per la Calabria, tra l’edificio set- tecentesco dei “Granili” e il tracciato della linea ferroviaria per Portici22. Al suo interno, nel corso degli anni, si insediarono numerosi altri opifici, specializzati in settori differenti (dal tessile al chimico, alla produzione di macchine per l’indu- stria e l’agricoltura)23. In alcuni casi si trattava di impianti caratterizzati da una

21 A. Gigante, Viaggio da Napoli a Castellamare, Napoli, 1845, pp. 21-22. 22 R. Parisi, Architettura del lavoro e trasformazioni urbane a Napoli in età industriale: l’area di S. Erasmo ai Granili, “Bollettino dell’Associazione per l’Archeologia Industriale”, 1993, 35-37, pp. 14-34. 23 Sull’area orientale di Napoli, con particolare riguardo alla dimensione storica dello spazio urbano-industriale, si rimanda a R. Parisi, Lo spazio della produzione. Napoli: la periferia orientale, Napoli, 1998. 38 Roberto Parisi

Fig. 2 - Napoli. Pianta del porto militare e mercantile. In alto a dx, lungo il ponte della Maddalena, è visibile il quartiere della “Conceria” realizzato negli anni 1835-1845 (da “L’In- gegneria Moderna”, 1911). singolare razionalità costruttiva, strutturati con nuovi materiali edilizi e dotati anche di una certa dignità formale, segno evidente di una sensibilità impren- ditoriale progressivamente più attenta alla qualità dello spazio del lavoro e alle condizioni igieniche dei lavoratori (fig. 2). A parte il quartiere della concia, che rimase un’iniziativa isolata, tutti gli im- pianti industriali sorti successivamente nella periferia orientale di Napoli si era- no insediati senza alcun riferimento urbanistico, occupando lotti liberi presenti lungo i tracciati della due ferrovie borboniche o a ridosso della nuova stazione centrale, che fu localizzata nel 1861 al centro della fascia periurbana prossima all’antico pomerio urbano, pregiudicando un più razionale processo di espansio- ne della città�. Tuttavia, numerose erano anche le attività di carattere produttivo presenti nel centro storico24 e in particolare nel fossato di Castel Nuovo, che ancora alla fine

24 Sulle condizioni igieniche e sociali dei ‘quartieri bassi’ di Napoli si veda C. Petraccone, Condizioni di vita delle classi popolari a Napoli dall’Unità al Risanamento 1861-1885, “Storia Urbana”, 1978, 4, pp. 209-220. Un primo tentativo di georeferenziazione delle attività produt- Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 39 dell’Ottocento poteva considerarsi una delle zone a più alto tasso d’inquinamen- to della città�. Il problema dell’insalubrità dell’industria urbana fu affrontato fin dai primi anni sessanta dal medico igienista Marino Turchi25, ma un ulteriore passo in avanti si registra in seguito all’epidemia di colera che colpì la città nel 1873 e che vide impegnato il “medico statista” Achille Spatuzzi in una sistematica topografia medica del tessuto insediativo. Alla fine del suo mandato (1879), Spatuzzi evidenziò non solo il problema della presenza di molte industrie inquinanti nel centro storico della città, ma anche la necessità di intervenire su quegli “stabilimenti industriali, messi fuori dell’abitato, [che] hanno locali di lavorazione pessimi, mentre sono situati in luoghi adattissimi”, come appunto l’area orientale di Napoli. A suo avviso, non era sufficiente concentrare l’industria in una determinata zona esterna alla città, ma era necessario garantire la presenza di infrastrutture adeguate per il controllo ambientale degli scarti della produzione e più in particolare per “raccogliere gli scoli […] per servirsene o ad irrigare le vicine terre o per altri usi industriali”26. Tale questione, peraltro, era stata oggetto di una dettagliata relazione presen- tata dall’ingegnere napoletano Giuseppe Garzia, già ufficiale del genio civile, in occasione del secondo congresso nazionale degli Architetti e Ingegneri Italiani, svoltosi a Firenze nel settembre 1875. La lettura dell’intervento di Garzia chiarisce bene il livello di consapevolezza raggiunto in Italia sul problema urbano degli “stabilimenti industriali insalubri, incomodi e pericolosi” e l’apporto fornito dalla cultura tecnica napoletana per la sua risoluzione. Garzia, infatti, attingendo direttamente alla legislazione di altri stati europei, aveva affrontato il problema declinandolo sotto due aspetti, quello della salubrité interieure, riguardante “la salute degli operai nello interno degli opificii”, e lasa - lubrité exterieure, tesa a “proteggere il vicinato”27. A suo avviso l’Italia scontava un enorme ritardo rispetto agli altri paesi europei, poiché non si era ancora dotata di

tive presenti nell’Ottocento nel centro storico è in P. Rossi, L’area industriale orientale nel secolo scorso: progetti e trasformazioni urbanistiche dopo il 1860, in A. Vitale (cura di), Napoli un destino industriale, Napoli, 1992, pp. 329-334. Per gli anni della mobilitazione industriale (1917) si veda A. De Benedetti, La Campania industriale. Intervento pubblico e organizzazione produttiva tra età giolittiana e fascismo, Napoli, 1990. 25 R. Parisi, Verso una città salubre…, cit., pp. 56-58. 26 A. Spatuzzi, La costituzione sanitaria di Napoli. Note statistico-etiologiche in rapporto alla mortalità del sessennio 1873-78, Napoli 1879, pp. 139-140. 27 Memoria del Cav. Ing. Giuseppe Garzia, in Secondo congresso degli architetti e ingegneri italiani in Firenze. Atti, Firenze, 1876, pp. 528-532. 40 Roberto Parisi uno strumento legislativo nazionale in grado di classificare le industrie in base a livelli di nocività ambientale e di uniformare in tal senso i regolamenti d’igiene e di polizia emanati in diverse città. Negli atti del congresso Garzia non mancò di aggiungere alcuni dettagli sul caso di Napoli, dove il locale regolamento d’igiene, approvato dal Ministero nel 1872 e pubblicato due anni dopo, aveva previsto la classificazione delle industrie insalubri in tre diverse tipologie, in base al livello di nocività. Sulla base di queste esperienze e delle numerose proposte urbanistiche elabo- rate in seguito a un concorso di idee bandito nel 187128, il municipio di Napoli mise a punto tra il 1882 e il 1884 un progetto di massima per un “quartiere industriale” da realizzare nell’area orientale della città, che unitamente ad un più ampio piano di bonifica e di ampliamento fu esposto e presentato all’esposizione nazionale di Torino del 188429, pochi mesi prima dell’epidemia colerica. Nell’ambito dei lavori del ‘Risanamento’ quel progetto fu stralciato e affidato, nel febbraio 1885, ad una speciale commissione, coordinata dall’ingegnere mu- nicipale Adolfo Giambarba, con il preciso scopo di sviluppare ulteriori aspetti tecnici e ambientali non ancora approfonditi. Tra la fine del 1885 e il 1897 furono elaborati tre ipotesi per un quartiere industriale, tutte e tre respinte dal governo centrale per ragioni connesse all’in- sufficienza di risorse finanziarie e alla mancanza di ulteriori dettagli tecnici sulle infrastrutture previste30. Tuttavia, già nella duplice definizione del progetto messo a punto nel biennio 1885-87, erano presenti i principali elementi di una tipica area industriale attrez- zata. La suddivisione in lotti regolari, un parco verde inteso come filtro in grado di separare il quartiere dal resto della città, la rete interna stradale e ferroviaria, la creazione di un canale navigabile di collegamento con il porto e una serie di incentivi e agevolazioni fiscali per l’acquisizione dei terreni e per l’approvvigiona- mento delle risorse energetiche e delle materie prime. Nell’ultima versione del 1897, il progetto recepì anche i dispositivi della legge sanitaria del 1888, predisponendo una suddivisione del quartiere industriale in tre aree differenti, in base al grado di insalubrità delle industrie (fig. 3). Gli indirizzi di carattere tecnico-urbanistico contenuti in questo progetto orienteranno, a partire dal 1902, i lavori della Reale Commissione per l’incre-

28 G. Alisio, Lamont Young. Utopia e realtà nell’urbanistica napoletana dell’Ottocento, Roma, 1978. 29 R. Moschitti, Napoli all’esposizione generale italiana in Torino nel 1884, Napoli, 1884, p. 374. 30 G. Russo, Il risanamento e l’ampliamento della città di Napoli, Napoli, 1960, pp. 502-511. Russo ripercorre tutto l’iter procedurale dal progetto ottocentesco per un quartiere industriale fino ai dispositivi dalla legge del 1904. Una corretta sintesi di questo lavoro è in P. Sica, Storia dell’Ur- banistica. L’Ottocento, 2, Roma-Bari, 1991, II, pp. 561-565. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 41

Fig. 3 - Napoli. Pianta con l’indicazione delle due nuove zone industriali localizzate ad oc- cidente e a oriente della città. Aggiornamento al 1917 del “Nuovo piano di risanamento e ampliamento della città” del 1910 con l’indicazione degli stabilimenti militari ausiliari (Da A. De Benedetti, La Campania industriale, 1996). mento industriale di Napoli e troveranno una piena applicazione nel 1906, attra- verso le norme disciplinate dalla legge sul “Risorgimento di Napoli” del 1904 per la realizzazione di una “zona industriale”.

Tra shop management e zoning. Luoghi del lavoro e zone industriali (1904-1939) Con l’articolo 6 della legge 351 del 1904 furono considerate di “pubblica utilità le opere necessarie alla creazione d’una zona da dichiararsi aperta, […], destinata alla costruzione di case operaie e popolari e di stabilimenti industriali”. In applicazione di questa norma, l’ufficio tecnico del comune individuò nell’area orientale il luogo più opportuno per la realizzazione di una “zona industriale” e il 30 ottobre 1905 portò a compimento la redazione del relativo piano regola- tore, che fu approvato quasi integralmente dal Governo con legge n. 570 del 14 ottobre 1906. 42 Roberto Parisi

L’unica parte che il Ministero dei Lavori Pubblici stralciò dal piano, ritenen- dola troppo onerosa, riguardava la scelta di adottare un sistema di “epurazione biologica” delle acque cloacali e dei rifiuti speciali delle industrie, in modo da separare le infrastrutture per lo smaltimento degli scarti delle attività produttive da quelle relative alla fognatura cittadina31. Si trattava di una scelta all’avanguar- dia in Italia, che attingeva alle esperienze già realizzate in Francia, in Inghilterra e in Olanda e che testimoniava l’alto livello qualitativo raggiunto nell’ambiente tecnico napoletano nel campo dell’igiene urbana e dell’ingegneria sanitaria. Sul piano storiografico, è altrettanto significativa la scelta operata dagli inge- gneri municipali di confermare la periferia orientale della città come sede della nuova “zona industriale” di Napoli. Questo dato, infatti, contrasta con l’interpre- tazione dominante, secondo cui l’ubicazione dell’Ilva di Bagnoli sia da conside- rarsi come una scelta disciplinata, anche da un punto di vista urbanistico, dalla legge sul risorgimento economico del 1904. Viceversa, la realizzazione del grande impianto siderurgico nella periferia oc- cidentale della città è da considerarsi in deroga a quel dispositivo normativo, perché avvenuta dopo il decreto di approvazione del piano regolatore della zona industriale orientale (1906) e dunque in pieno conflitto con i principi di igiene urbana che ne avevano ispirato la redazione32. Quella scelta ubicazionale influirà in maniera significativa sullo sviluppo ur- bano-industriale di Napoli. A distanza di un ventennio, infatti, quando si porterà a compimento l’idea nittiana della “Grande Napoli”, con l’annessione ammini- strativa dei comuni limitrofi (1925-1926), la città risulterà compressa ad est e ad ovest da due grandi zone industriali33. Quella occidentale era dominata dal grande impianto dell’Ilva e dalla nuova “cementeria”, realizzata nel 1927 dalla Società Cementerie Litoranee. Quella orientale, invece, secondo il medico igie- nista Arturo Marotta, era la “vera zona industriale della città […] co’ suoi ma- stodontici ed ultrapotenti impianti, co’ suoi grandiosi mezzi di produzione, co’ suoi novelli metodi di lavorazione e con le conseguenti grandi agglomerazioni di masse lavoratrici”34.

31 La legge 8 luglio 1904 per il Risorgimento Economico di Napoli e la sua applicazione, Napoli, 1908, p. 39. 32 Quest’aspetto, di centrale importanza per valutare gli effetti della legge del 1904, è ben evidenziato in B. Gravagnuolo, Dal Liberty alle guerre, in P. Belfiore, B. Gravagnuolo, Napoli. Architettura e Urbanistica del Novecento, Roma-Bari, 1994, pp. 3-68: 13. 33 F. Castanò, La crescita incostante. Il motore industriale nei piani per la “grande Napoli” dall’al- ba del Novecento agli anni settanta, “Storia e problemi contemporanei”, 2014, 65, pp. 152-157. 34 A. Marotta, L’igiene industriale a Napoli, “Bollettino del Comune di Napoli”, I, 1927, 2, pp. 47-51: 47. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 43

In entrambe le periferie ad est e ad ovest della città, il luogo del lavoro extra- moenia poteva esprimersi alla scala urbana secondo varie modalità: impattan- do in maniera quasi spontanea sul paesaggio, come testimoniano il gigantismo dell’acciaieria e del pontile attrezzato dell’Ilva a Bagnoli; attraverso il controllo estetico delle cortine edilizie prospicienti la strada, come negli impianti ad alta automazione della Centrale termoelettrica della Società Meridionale di Elettricità “Maurizio Capuano” o della Centrale del Latte di corso Malta35, dove le forme neoliberty degli esterni alludono alla distribuzione degli ambienti interni, mo- dulati a loro volta in base ai processi di pastorizzazione e ai percorsi imposti dal nastro trasportatore36; mediante la monumentalità di nuovi volumi in cemento armato, come i Silos della Ferrobeton realizzati nel porto commerciale o come gli impianti a intelaiatura portante con pilastri a fungo che caratterizzano il com- plesso della Cirio lungo il litorale marittimo di Vigliena37. Infine, sfruttando ra- zionalmente l’altimetria e la morfologia dell’area d’insediamento, come nel caso dei blocchi in linea terrazzati di “Poggio Alto” e “Poggio Basso” attraverso i quali le Manifatture Cotoniere Meridionali si appropriarono della collina di Poggiore- ale, trasformandola in un paesaggio periurbano apparentemente in sintonia con la natura, da promuovere anche a scopo pubblicitario38 (figg. 4-5). Si tratta spesso di esperienze che restituiscono l’immagine di una fabbrica ‘ordinata’ secondo principi di igiene industriale, piuttosto che di una fabbrica ‘ra- zionale’, costruita sulla base di consapevoli tecniche di organizzazione scientifica dei tempi e dei modi della produzione39. Sotto il profilo dell’igiene urbana, però, quell’ordine che informa la fabbrica

35 R. Parisi, L’architettura industriale, in A. Vitale, S. de Majo (a cura di), Napoli e l’industria. Dai Borboni alla dismissione, Soveria Mannelli, 2008, pp. 342-366. 36 Lo stabilimento municipale del Latte, “Bollettino del Comune di Napoli”, 2, 1928, I, 2, pp. 15-23; V. Vetere, La questione del latte e la centrale municipale del latte in Napoli, Napoli 1930. 37 R. Parisi, Il porto militare e civile di Napoli come Patrimonio Industriale, “Patrimoine de l’in- dustrie”, 2005, 14, pp. 39-46. 38 Manifatture Cotoniere Meridionali, iconografico a cura di G. Parisio, Roma s.d. [ma 1921]. Sul tema si veda R. Parisi, Iconografia e paesaggi del lavoro. Riflessioni e prospettive di ricerca, in A. Berrino, A. Buccaro (a cura di), Delli aspetti de Paesi. Vecchi e nuovi Media per l’immagine del Paesaggio, 2, Napoli, 2016, I, parte prima (Costruzione, descrizione, identità storica), pp. 279-288. 39 Su singoli episodi di architettura industriale realizzati nell’Italia del Novecento la bibliografia è vastissima. Tra i contributi di carattere generale si vedano in particolare R. Guiducci, Presente e futuro dell’architettura industriale in Italia, “Zodiac”, 9, 1962, pp. 127-145; P. De Meo, M.L. Scalvini, Destino della città. Strutture industriali e rivoluzione urbana, Napoli, 1965; R. Gabetti, Architettura industria Piemonte negli ultimi cinquant’anni, Torino, 1977; O. Selvafolta, Lo spazio del lavoro 1750-1910, in A. Castellano, a cura di, La macchina arrugginita, Materiali per un’arche- ologia dell’industria, Milano, 1982, pp. 39-71; R. Raja, Architettura industriale. Storia, significato e progetto, Bari 1983; R. Parisi, Fabbriche d’Italia…, cit., passim. 44 Roberto Parisi

Fig. 4 - Napoli. Veduta dello stabilimento delle Manifatture Cotoniere Meridionali nella zona industriale orientale (da Manifatture Cotoniere Meridionali, album illustrato a cura di Giulio Parisio, s.d., ma 1921).

Fig. 5 - Napoli. Dipinto ad olio dello Stabilimento Cirio a Vigliena (1930 ca) progettato dagli architetti Angelo e Alessandro Trevisan (Pascarola, Caserta, Archivio storico Cirio). Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 45 moderna napoletana non oltrepassa il recinto del lotto in cui essa insiste. Negli anni Venti, le due “aree industriali attrezzate” di Napoli cominciavano a mostrare tutti i limiti di un progressivo scollamento tra disegno urbanistico e assetto eco- nomico dell’impianto urbano, che invece era stata una prerogativa dei progetti per il quartiere industriale concepiti nella stagione del ‘Risanamento’. Quella salubrité exterieure evocata ancora prima dall’ingegnere Garzia era venuta meno a causa dell’oggettiva difficoltà di regolare in una nuova prospettiva di sviluppo il complesso rapporto urbano tra industria e ‘vicinato’. Nell’area occidentale, la localizzazione dell’Ilva aveva irrimediabilmente mor- tificato il disegno borghese di favorire lo sviluppo del turismo archeologico e balneare e di localizzarvi quartieri residenziali per le classi più agiate40. Ad oriente, la gestione speculativa dei suoli di proprietà della Società Veneta di Costruzioni, fondata da Alessandro Rossi e Stefano Breda, aveva ritardato l’intervento di delo- calizzazione di una parte consistente delle industrie insalubri ancora presenti nel centro storico, pregiudicando il necessario raccordo tra i nuovi rioni operai pre- visti dal piano di Risanamento e le industrie presenti nell’area41. Inoltre, a causa della dilatazione dei tempi di attuazione del piano regolatore della zona industria- le e dei successivi piani di ampliamento, l’insediamento dei nuovi impianti era avvenuto senza un adeguato controllo dei rapporti di mediazione ambientale con il tessuto preesistente, soprattutto per quanto riguarda quelli petrolchimici della Socony Oil e dell’Agip42. Questo tipo di problema fu ulteriormente aggravato dal mancato coordina- mento tra le attività promosse dall’Istituto Autonomo delle Case Popolari e quel- le regolate dai diversi organi di gestione della zona industriale orientale, dal 1918 affidata all’Ente Autonomo del Porto e nel 1926 passata all’Alto Commissario per la città e la provincia di Napoli43 (fig. 6). Una svolta verso un maggiore coordinamento tra pianificazione urbanistica e programmazione economica si registra, almeno sul piano delle intenzionalità, nel

40 Per la storia urbanistica dell’Ilva di Bagnoli si rimanda a V. Andriello, A. Belli, D. Lepore, Il luogo e la fabbrica. L’impianto siderurgico di Bagnoli e l’espansione occidentale di Napoli, Napoli, 1991. Sui progetti per l’area occidentale si veda F. Mangone, G. Belli, Posillipo, Fuorigrotta e Bagnoli. Progetti urbanistici per la Napoli del mito. 1860-1935, Napoli, 2011. Per gli aspetti am- bientali si veda G. Corona, Industrialismo e ambiente urbano: le molte identità di Bagnoli, in S. Adorno e S. Neri Serneri (a cura di), Industria, ambiente e territorio, Bologna, 2009, pp.189-211. 41 R. Parisi, Un “Genio” in crisi tra “ragion di Stato” e logiche di mercato. Ingegneri militari e trasformazione urbane a Napoli nell’Ottocento, “Città e Storia”, 2009, 2, pp. 205-219. 42 S. Barca, Napoli orientale: la città del rischio, “I frutti di Demetra”, 2005, 7, pp. 33-39. 43 Sulla storia edilizia delle periferie urbane di Napoli si veda L. Pagano, Periferie di Napoli. La geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica, Napoli, 2001; U. Carughi (a cura di), Città architettura edilizia pubblica. Napoli e Il Piano Ina-Casa, Napoli, 2006. Fig. 6 - Napoli. Progetto di ampliamento della zona industriale orientale (da Alto Commis- sariato per la città e provincia, Napoli. Le opere del regime, 1930). Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 47 corso degli anni Trenta, quando si verificò una convergenza d’interessi tra alcuni dei principali protagonisti della storia economica e urbanistica di Napoli di quel periodo, come Alberto Beneduce, presidente dell’Istituto per la Ricostruzione In- dustriale (IRI), sotto il cui controllo confluì l’Ilva, Giuseppe Cenzato, presidente della SME e dell’Unione Industriali, e l’urbanista Luigi Piccinato, cooptato nel 1934 nella commissione per il piano regolatore generale della città, in qualità di rappresentante della Fondazione Politecnica creata dallo stesso Cenzato44. Nella relazione di presentazione del Piano regolatore, approvato dal governo nel 1939, quella industriale appare come una componente non secondaria della questione urbanistica di Napoli. Registrando la presenza di industrie ancora sparse in “località inadatte al loro esercizio […] e mal servite dai mezzi di comunicazione per l’afflusso delle mae- stranze” e, allo stesso tempo, rimarcando “che la creazione del grande stabilimen- to industriale dell’Ilva [aveva] compromessa la sistemazione integrale” dell’area flegrea, il piano intendeva sancire il passaggio culturale dalla “vecchia” urbanistica degli ingegneri sanitari alla “tecnica urbanistica moderna” e dunque ai principi dello zoning, secondo i quali occorreva perseguire “una disposizione del tutto aperta, a quartieri staccati gli uni dagli altri, intramezzati da zone libere, da par- chi, da campagna, e ciascuno con una propria fisionomia”45. In quest’ottica il piano del 1939 destinò alla zona industriale il “vasto terri- torio orientale […] dove [erano] più facili i raccordi ferroviari e quelli portuali”. Inoltre, separando il luogo del lavoro dalla residenza, conferì ai vicini quartieri di Barra e Ponticelli un “carattere popolare operaio”46 e proiettò l’intero sistema urbano in una dimensione comprensoriale, secondo uno schema “stellare linea- re”, perché adatto a un “organismo aperto e dinamico, capace […] di espansione lineare”47. In definitiva, almeno sulla carta, il salto di scala territoriale e la piena adesione alla logica dello zoning resero il Piano regolatore di Napoli del 1939 un stru- mento in grado di innescare meccanismi di rigenerazione dello spazio urbano- industriale, in piena sintonia con gli indirizzi teorici che in quegli erano emersi nell’ambiente tecnico urbanistico, sia a livello nazionale che internazionale.

44 A. De Benedetti, La via dell’industria. L’Iri e lo sviluppo del Mezzogiorno 1933-1943, Catanzaro, 1996, pp. 71-74. Sul piano regolatore del 1939 resta fondamentale V. De Lucia, A. Jannello, L’urbanistica a Napoli dal Dopoguerra ad oggi: note e documenti, “Urbanistica”, 1976, 65, pp. 5-104: 5-14. 45 Piano regolatore generale della Città di Napoli, Relazioni della Commissione intersindacale per il piano regolatore generale della Città di Napoli, Napoli, 1936, p. 35 46 Ibidem, p. 46. 47 Ibidem, p. 34. 48 Roberto Parisi

L’allontanamento dalla città storica e l’autonomia funzionale di una zona indu- striale, la separazione rispetto alle residenze operaie attraverso un parco o un’area destinata ad usi agricoli, la localizzazione di nuclei attrezzati secondo una direttrice lineare affiancata alle infrastrutture di comunicazione sono tutti aspetti che riflettono in buona parte sia i principi della Charte d’Athènes elaborata in occasione del quarto Congresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM, 1933)48, dove il luogo del lavoro fu oggetto di specifiche osservazioni e raccomandazioni, sia gli esiti del di- battito culturale che su questi temi animava l’ambiente tecnico italiano di quegli anni. Infatti, si collocano tra il 1926 ed il 1930 gli sforzi condotti da Gaetano Min- nucci, attraverso la rivista giovannoniana di “Architettura e arti decorative”, e di Enrico Bonicelli, nell’ambito delle attività didattiche del Politecnico di Torino, per affrontare il tema della fabbrica in una diversa prospettiva progettuale, nel tentativo di opporre al dominio degli ingegneri di produzione una figura di ar- chitetto più attento all’organizzazione scientifica del lavoro49. Nel riflettere sul superamento dello schema casa-bottega tipico delle mani- fatture e degli opifici a corte, la manualistica tecnica del tempo fece emergere la necessità di affrontare le due principali tipologie della modern factory, “multipia- no” o “ad un solo piano”, senza però sostenere a priori l’una o l’altra soluzione, ma subordinando la scelta alla categoria merceologica di riferimento, al ciclo di produzione e soprattutto alle caratteristiche urbanistiche del sito d’insediamento. Il tentativo di opporre al dominio degli ingegneri di produzione una nuova figura di “architetto per l’industria”, spinse i teorici dell’architettura ad applicare i concetti di standard, lavorazione in serie e funzionalità non più solo allo spazio fisico della fabbrica, ma alla casa dell’operaio e dell’impiegato, ai luoghi della loro formazione e del loro tempo libero50. Nel corso degli anni Trenta, partendo dall’assunto che “la fase di accentra- mento delle industrie nei grandi agglomerati urbani sembra[va] ormai superata”, si consolidò il processo di tematizzazione dei concetti di “Decentramento urba- no” e “decentramento industriale” e fu affrontato in dettaglio il problema dei piani regolatori degli stabilimenti industriali 51.

48 P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, Roma, 1988. 49 G. Minnucci, L’architettura e l’estetica degli edifici industriali, “Architettura e Arti Decorative”, XI-XII, 1926, 2, pp. 481-583; E. Bonicelli, L’architettura industriale nei suoi elementi costruttivi e nella sua composizione, Torino, 1930. 50 G. Pagano, Architettura industriale in Italia, “Le Arti”, 1939, 4, pp. 358-364. 51 C. Chiodi, Decentramento urbano e decentramento industriale. Problemi urbanistici e proble- mi industriali, Milano, 1928; G.A. Castellazzi, Il piano regolatore degli stabilimenti industriali, “Il Politecnico - Giornale dell’ingegnere architetto”, 1930, 8, pp. 486-497; 9, pp. 546-558. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 49

Il quadro dei riferimenti si spostò decisamente dalla dimensione locale a quella internazionale e attraverso l’attenta disamina di esperienze condotte negli Stati Uniti d’America (Central Manufacturing District di Chicago e di Los Angeles), in Inghil- terra (Port Sunlight, New Earswick, Letchworth, Welwyn), in Germania (Bacino della Ruhr) o in Russia (Elektrowos, Lemnakan, Magnitogorsk), la pubblicistica di settore mise a fuoco il problema delle zone industriali in una prospettiva territoriale52. Questo stesso approccio si può riscontrare anche nel nuovo ruolo direzionale che il Piano regolatore del 1939 conferì alla città di Napoli e che fu sostenuto da un punto di vista politico-economico anche attraverso la rivista “Questioni meridionali”, fondata nel 1934 da Giuseppe Cenzato e attivamente frequentata da Luigi Piccinato53. Infatti, l’ipo- tesi di realizzare un “grande quartiere degli affari” nella prima zona industriale orientale, contenuta nel piano regolatore del 1939, implicitamente teneva conto della necessità di decentrare alcune delle attività produttive insediate al suo interno a partire dal 1906. Quell’idea si concretizzò solo dopo vent’anni, ma cominciò a strutturarsi in tempo reale fin dal 1 aprile 1939, con l’avvio dei lavori per la realizzazione del “grande complesso industriale”54 dell’Alfa Romeo Avio a Pomigliano d’Arco, pic- colo casale agricolo posto lungo l’antica consolare per le Puglie, a poco più di dieci chilometri da Napoli (fig. 7).

Città e fabbrica tra industria e commercio. La direttrice storico-territoriale Napoli- Pomigliano nel secondo Novecento Pur trattandosi di un’iniziativa concepita nell’ambito delle politiche belliche del regime, l’insediamento dell’Alfa Romeo Avio è un tipico esempio di decentramento industriale praticato attraverso la tecnica urbanistica dello zoning e la logica proget- tuale dell’assembly line55. Profondamente rinnovato nella sua componente territo- riale, il rapporto tra il luogo del lavoro e la città sperimentato a Pomigliano si può considerare come l’esito di una stretta collaborazione tra un architetto-urbanista come Alessadro Cairoli56, un ingegnere di produzione come Ugo Gobbato e un capo-progettista aereonautico come l’ingegnere Filippo Zappata57.

52 L. Dodi, Zone industriali. Note urbanistiche, “Il Politecnico”, 1935, 10, pp. 557-568; 12, pp. 646-658; 53 Su Piccinato si veda ora G. Belli, A. Maglio (a cura di), Luigi Piccinato (1899-1983). Architetto e urbanista, Ariccia 2015. 54 A. Cairoli, Un grande complesso industriale nel Mezzogiorno, “Edilizia moderna”, 1942, 37, pp. 28-30. 55 R. Parisi, Una company town di Stato nell’Italia meridionale. Pomigliano d’Arco dall’Alfa Avio all’Alfa Sud (1939-1968), “Ricerche storiche”, 2009, 1, pp. 167-182. 56 C. Coppo, L’insediamento aeronautico Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco, in C. de Seta (a cura di), L’Architettura a Napoli tra le due guerre, Napoli, 1999, pp. 122-128; S. Stenti (a cura di), Città Alfa Romeo. 1939 Pomigliano d’Arco. Quartiere e fabbrica aeronautica, Napoli, 2003. 57 Augusto De Benedetti dedica due corposi capitoli alla nascita e allo sviluppo dell’Alfa Avio 50 Roberto Parisi

Fig. 7 - Veduta aerea dell’insediamento dell’Alfa Romeo Avio di Pomigliano d’Arco nel 1943 (Pomigliano, Archivio Aeritalia).

In quattro anni (1939-1943), su una superficie di oltre 300 ettari esterna al nucleo abitato, si realizzarono un campo di volo con pista di lancio, un complesso industriale con vari reparti (costruzione e riparazione di motori, velivoli da guerra e produzione di laminati), un articolato sistema di attrezzature e alloggi per gli operai, tra cui un quartiere residenziale di 600 alloggi dotati di “orti” condominiali. La palazzina direzionale e la stazione ferroviaria completarono l’insediamento, che dopo tre anni dall’inizio dei lavori assunse una fisionomia abbastanza defi- nita: un lungo asse viario (“viale Alfa Romeo”), quasi perpendicolare al tracciato della Strada Nazionale delle Puglie e della linea ferroviaria Napoli-Nola-Baiano, rispetto al quale si distribuivano tre zone distinte per ciascuna funzione: a nord, e dell’Alfa Sud a Pomigliano rispettivamente in Id., La via dell’industria…, cit., pp. 123-134 e in Id., Lo sviluppo sospeso. Il Mezzogiorno e l’impresa pubblica, Soveria Mannelli, 2013, pp. 235-256. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 51 verso il vicino comune di Acerra, erano distribuiti i vari reparti produttivi; al centro le attrezzature d’uso comunitario, direzionale e di rappresentanza, mentre a sud erano localizzate le “palazzine” operaie. In definitiva, si trattava di un villaggio autosufficiente ed al tempo stesso auto- nomo rispetto al piccolo nucleo urbano. Inoltre, esso si configurava come un’area industriale decentrata rispetto a Napoli, ma ad essa adeguatamente collegata da un punto di vista logistico. Quella scelta ubicazionale sopravvivrà all’azienda. Al suo posto, infatti, dopo i danni del secondo conflitto bellico, sorgerà nel 1949 la società Aerfer-Officine di Pomigliano per Costruzioni Aeronautiche e Ferroviarie, nella quale la Finmec- canica fece confluire nel 1956 gli impianti di Capodichino e del Vasto, questi ultimi presenti fin dal 1904 nella zona industriale orientale di Napoli. Sotto la regia dell’IRI, il processo di dismissione del doppio nucleo napoletano dell’Aerfer fu articolato secondo due traiettorie territoriali, una destinata a spo- stare il comparto ferroviario del Vasto a Pozzuoli, dove al posto dell’Armstrong sorse successivamente la Sofer; l’altra destinata a ricompattare il polo aeronautico di Pomigliano d’Arco. A Pozzuoli, accanto all’usine vert con cui magistralmente Luigi Cosenza e Pie- tro Porcinai assecondarono la retorica olivettiana, tesa ad affrancare l’“uomo del sud […] dal ritmo vitale del cielo e della terra”58, si consolidò il nucleo metalmec- canico legato al comparto ferroviario, legittimando in questo modo la presenza massiccia dell’industria nell’area flegrea e quindi la problematica sopravvivenza dell’Ilva nel quartiere napoletano di Bagnoli (fig. 8). A Pomigliano, invece, la rivitalizzazione del polo aeronautico rafforzò il ruolo primario della direttrice orientale verso Nola nel difficile processo di decompres- sione industriale della città di Napoli, leitmotiv di tutte le ipotesi di piano regola- tore elaborate a partire dal secondo dopoguerra. Infatti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, impaludata nelle politiche di edi- lizia speculativa, che prima il blocco laurino e poi il potere democristiano dei Gava avevano favorito59, Napoli era ancora compressa tra le due grandi zone industriali che occupavano una porzione consistente della periferia ad est e ad ovest della città.

58 Il brano è ripreso dal cinegiornale (Settimana Incom) Nel mondo dell’industria. Pozzuoli: inaugurato il nuovo stabilimento Olivetti che impiega 450 persone tra impiegati ed operai (28 aprile 1955), conservato presso l’Archivio Istituto Luce, n. di catalogo 01241. Sull’opera di Cosenza si veda G. Cosenza, F. D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza. L’opera completa, Napoli, 1987; A. Buccaro, G. Mainini (a cura di), Luigi Cosenza oggi, 1905-2005, Napoli, 2006. 59 G. Galasso, Tradizione, metamorfosi e identità di un’antica capitale, in Id. (a cura di), Napoli, [Roma-Bari], 1987, pp. XI-XLV. 52 Roberto Parisi

Fig. 8 - Napoli. Altoforno dell’Ilva di Bagnoli nella zona industriale occidentale (da Bagnoli anni cinquanta. 1911-1961, Italsider, 1961).

Ciò nonostante, le pratiche di delocalizzazione delle attività inquinanti pre- senti nel centro storico si consumarono all’interno della stessa città, con uno spostamento di pochi chilometri verso la zona industriale orientale. Il caso della Manifattura Tabacchi di Gianturco, sorta nel cuore di Napoli Est, appare in tal senso emblematica. Il proposito di dismettere i due tabacchi- fici ottocenteschi di S. Pietro Martire e dei SS. Apostoli60 e di concentrare tutte

60 R. Parisi, Il tabacco a Napoli. Architettura e produzione nelle manifatture ottocentesche, in P. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 53 le attività in un unico complesso da localizzare nella zona industriale di Napoli risaliva al 1930, ma il progetto fu portato a compimento solo nel 195661. Il nuovo impianto coinvolse nella fase di realizzazione un tecnico di primo piano come Luigi Nervi e fu presentato nel cinegiornale Incom come “la mani- fattura del primato”62, in quanto dotata, tra le prime in Italia, “di un comples- so di impianti tecnologici a ciclo completamente meccanizzato”. Per ciascuna delle due linee di lavorazione, infatti, ogni fase del ciclo produttivo era caratte- rizzata dalla presenza di macchine automatiche e di quadri di comando che ne scandivano i tempi grazie ad un articolato sistema di trasportatori. La nuova fabbrica napoletana si impose volumetricamente e morfologica- mente nel contesto della zona industriale come un insieme di segni fortemente caratterizzati, ma l’innovazione introdotta nei processi produttivi e nell’orga- nizzazione dello spazio del lavoro, compreso quello destinato ai servizi sociali e alle attività comunitarie, si rivelò sostanzialmente estranea ai principi che di lì a poco orienteranno il dibattito urbanistico e politico-economico sul nuovo con- cetto di “zona industriale” introdotto con la legge n. 634 del 29 luglio 195763. In definitiva, le due zone industriali di Napoli si configuravano in quegli anni non più come ‘zone attrezzate’ dove era insediata la fabbrica extra-moenia, ma come ‘quartieri’ industriali in corso di saturazione, promiscuamente fagoci- tati nel tessuto residenziale circostante. Non a caso, nel corso degli anni Sessanta, sulle pagine di “Urbanistica” comincia- rono ad emergere i limiti della programmazione territoriale allora in atto e soprattutto i problemi derivanti da un uso distorto del progetto urbanistico, spesso piegato alla necessità di ‘razionalizzare’ processi già avviati o già predisposti per attingere alle mi- sure statali di sostegno finanziario tramite la Cassa per il Mezzogiorno64.

Chierici, R. Covino, F. Pernice (a cura di), Le fabbriche del tabacco in Italia. Dalle manifatture al patrimonio, Torino, 2012, pp. 179-190. 61 R. Parisi, La Manifattura Tabacchi “Galileo Ferraris” e il patrimonio industriale di Napoli-Est, in R. Del Prete (a cura di), Dentro e fuori la fabbrica. Il tabacco in Italia tra memoria e prospettive, Milano, 2012, pp. 83-97. 62 Archivio dell’Istituto Luce, Tabacchi e industrializzazione all’esame del Parlamento, 15/08/1957, Cinegiornale Incom, n. 01568. 63 Sul dispositivo di legge si veda N. Dattomo, Nota sulla legge 634/57, “Storia Urbana”, 2011, 130, pp. 8-10. Sul dibattito urbanistico scaturito dalla legge cfr. R. Parisi, Stato e fabbri- che. Architettura e urbanistica per le aree di sviluppo industriale nel secondo Novecento meridionale, “Patrimonio Industriale”, 2011, n. 8, pp. 57-69. In merito al dibattito parlamentare di quegli anni sul tema delle zone industriali si veda R. Parisi, Tra acciaio e petrolio. Storia dello spazio urbano- industriale di Napoli (1945-1985), “Italia contemporanea”, 2017, 285, pp. 21-48. 64 P. Radogna, Sviluppo industriale e programmazione territoriale nel Mezzogiorno, “Urbanistica”, 1965, 45, pp. 9-40. 54 Roberto Parisi

In questa chiave va dunque letto il complesso percorso che, a partire dal 1962, portò alla definitiva approvazione, nell’ottobre del 1968, del piano re- golatore dell’Area di Sviluppo Industriale del Consorzio della provincia di Na- poli65. “Decentramento urbano” e “decentramento industriale”, che nel caso di Napoli si sarebbero dovute tradurre in un piano di decompressione e di delo- calizzazione alla scala regionale, verso le fasce più interne della Campania, si tradussero in un programma che destinò al Consorzio ASI napoletano il più alto tasso di concentrazione industriale, distribuendolo nei sette agglomerati che in gran parte componevano la fascia interna più prossima al capoluogo (Caivano, Acerra, Pomigliano d’Arco, Nola-Marigliano, Giugliano-Qualiano, Casoria-Arzano-Frattamaggiore, foce Sarno) (fig. 9). Lungo la storica direttrice della consolare delle Puglie, dove erano presenti gli agglomerati industriali di Acerra, Pomigliano e Nola-Marigliano, si consu- marono alcuni dei passaggi più significativi del rapporto tra città e luogo del lavoro nel secondo Novecento. Mentre nella “area Aerfer” del Vasto, situata nella parte storica della zona industriale orientale, la società Mededil, anche attraverso l’IRI, riuscì a con- cludere il processo di totale dismissione industriale degli impianti esistenti e ad avviare quello di riconversione dei suoli in un ‘quartiere degli affari’, dove sorgerà negli anni Ottanta il Centro Direzionale di Napoli, nell’area industriale di Pomigliano, in una porzione dell’originario impianto dell’Alfa Romeo Avio non ancora recuperata, la stessa IRI impose l’insediamento dell’Alfa Sud. Concepito anch’esso come un complesso all’avanguardia, secondo un pro- getto coordinato dall’ingegnere Rudolf Hruska, e portato a compimento in quattro anni (1966-1972), il nuovo impianto automobilistico sancì la defini- tiva trasformazione di Pomigliano d’Arco in una tradizionale città-fabbrica66, proprio mentre falliva il proposito dell’IRI e della FIAT di realizzare nello stes- so consorzio ASI una “nuova città industriale” per trecentomila abitanti, che Franz Di Salvo aveva tradotto in un utopico progetto per una megastruttura urbana, nell’ambito di un articolato sistema lineare di città satelliti67. Pur essendo condizionato da quel regime di monopolio del settore delle costruzioni che l’industria pubblica e privata aveva creato attraverso “imprese

65 L. Barbato, Politica meridionalistica e localizzazione industriale. Dalla legge Pastore all’Alfa Sud, Padova, 1968. 66 R. Parisi, Dalla terra alla fabbrica. Pomigliano d’Arco 1939-2009: genesi, sviluppo e recupero di uno spazio urbano-industriale, “Patrimonio Industriale”, 2010, 6, pp. 44-54. 67 G. Fusco, Architettura e territorio. Piani e progetti per Nola, Napoli, 1998; Id., Franz Di Salvo. Opere e progetti, Napoli, 2003. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 55

Fig. 9 - Napoli. Localizzazione dei poli e delle aree di sviluppo industriale della provincia previste nel piano comprensoriale del 1964 redatto da Luigi Piccinato (da “Urbanistica”, 1976, n. 65). edili integrate” come la Fiat Engineering e l’Italstat68, anche questo progetto rispondeva alla necessità di liberare Napoli dalla morsa delle grandi industrie di base che occupavano le sue due storiche zone industriali. Il piano regolatore ap- provato nel 1972 sancì il loro definitivo stato di obsolescenza urbana attraverso una precisa norma di attuazione, in base alla quale esse venivano destinate “ad attività industriali di tipo manifatturiero, con esclusione di industrie di base ed

68 M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Torino, 1986 (1982), pp. 131-136. 56 Roberto Parisi industrie nocive ed inquinanti”69. Tuttavia, in deroga a tali norme, gli impianti dell’Ilva a Bagnoli e le raffinerie di petrolio nell’area orientale continueranno a occupare lo spazio urbano-industriale di Napoli fino ai primi anni Novanta. Proprio negli anni Settanta-Novanta del Novecento, nonostante un avvio contrassegnato dalla grande crisi petrolifera e da una crescente consapevolezza mondiale dei limiti dello sviluppo capitalistico, si assiste a un passaggio si- gnificativo nelle dinamiche di diffusione delloscientific management, che dalla fabbrica cominciarono ad estendersi al territorio e alle comunità locali, manife- standosi nella piena maturazione della società del consumo. Inoltre, come è sta- to osservato, è in questo periodo che “il settore secondario viene scavalcato dal terziario, innescando una radicale e problematica trasformazione del lavoro”70. Alla scala urbana, questo fenomeno si riscontra nella profonda evoluzione spaziale e logistica dei luoghi del commercio, che interessò Napoli in una pro- spettiva metropolitana, lungo la direttrice di sviluppo territoriale per Nola, di cui Pomigliano d’Arco era diventata un punto nodale. Mentre nella città dell’Alfa il luogo del lavoro cominciava ad avvertire i primi effetti dei profondi mutamenti in atto nell’arcipelago meridionale della Fiat, caratterizzato dal progressivo passaggio dall’automazione rigida alla pro- duzione snella che si andò configurando per tappe traT ermoli (1971-1986) e Melfi (1990-92), a Napoli l’antica piazza Mercato fu investita da un irre- versibile processo di dismissione produttiva, indotto dalla volontà di alcuni imprenditori locali di delocalizzare all’esterno della città la propria attività di commercio all’ingrosso. In seguito a questa scelta, sorse l’idea di realizzare un Centro Integrato Ser- vizi (CIS) e di localizzarlo all’interno dell’agglomerato industriale di Nola. Re- alizzato a partire dal 1977, il CIS di Nola si configurò fin dall’inizio come una vera e propria fabbrica a sviluppo lineare per la grande distribuzione all’in- grosso. Otto “isole-mercato” costituite da blocchi a corte aperta caratterizzano ancora oggi un impianto neo-ippodameo per il movimento integrato di uomini e di merci, su una superficie di oltre due milioni di metri quadrati71. Al nucleo iniziale, si sono aggiunte nel corso degli anni Ottanta le infrastrutture neces- sarie per lo sviluppo dell’intermodalità, mentre la più recente realizzazione, su

69 Comune di Napoli, Progetto del nuovo piano regolatore generale - Relazione, Napoli, 1969, art. 18 - Zona industriale. 70 S. Musso (a cura di), Il Novecento 1945-2000. La ricostruzione, il miracolo economico, la globalizzazione, Roma, 2015. 71 R. Parisi, Architetture e urbanistica per l’industria. Pratiche e scenari, in U. Carughi, M. Visone (a cura di), L’area metropolitana di Napoli. 50 anni di sogni utopie realtà. Cesare Ulisse ar- chitetto, Roma, 2010, pp. 115-131. Dai quartieri per le “arti insalubri” alle aree di sviluppo industriale 57

Fig. 10 - Nola (Napoli). Veduta aerea del Consorzio Ingrosso Sviluppo (CIS). In primo pia- no, il centro commerciale al dettaglio (“Vulcano buono”) in corso di realizzazione su progetto del Renzo Piano Building Workshop (da “Patrimoine de l’industrie”, 2005, n. 14). progetto del Renzo Piano Building Workshop, di un ipermercato destinato al commercio al dettaglio (“Vulcano buono”) ha portato a compimento la tra- sformazione di questa appendice extra-moenia del commercio di Napoli in una nuova versione di “città-mercato”72 (fig. 10).

72 G. Fusco, Architetture intermodali. Il Sistema Interportuale dell’area metropolitana di Napoli, “Patrimoine de l’industrie”, 2005, 14, pp. 21-25.

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2006 nn. 1-3, La peste a Roma (1656-1657), a cura di I. Fosi

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Negozi italiani moderni. Merce e architettura

commercio e città ai tempi dell’ “adorabile crisi”* Ines Tolic Università di Bologna

Abstract: After the economic crisis of 1929 and in the attempt to attenuate its effects, architects started to transform commercial spaces with the goals to reduce maintenance costs and to attract customers with the stylistic novelty. Soon afterwards, professional periodicals like “Domus” and “La Casa bella” started to look with great interest at architectural solutions designed for com- mercial purposes, considering them as exemplifications of modernity and of the most updated aesthetic tendencies. Resorting to architectural journals and archival documents, this work aims at critically and historically framing the debate about stores during the economic crisis, considering them as occasions for architectural experimentation and agents of urban transformation. Keywords: Modern Stores; Urban Modernization; Economic Crisis; “Domus”; “La Casa bella”

1. Botteghe d’arte Nel 1927, Guido Marangoni scrisse che “per mantenere alle Esposizioni di Monza la loro duplice funzione di educatrici del gusto artistico nei produttori e nel pubblico” bisognava “aggiungere alle sale della futura Biennale un reparto di Botteghe d’arte […], dove le grandi industrie [avrebbero potuto] liberamente vendere i loro prodotti al pubblico […]. Così” – concludeva l’autore – “si po- trà continuare più precisa e gagliarda la ricerca delle strade nuove e delle forme schiettamente rappresentative della nostra epoca” 1. Il regolamento dell’esposizio- ne venne dunque integrato con due nuovi articoli (14 e 15), con cui si metteva a disposizione dei produttori le sale del pianterreno a patto che le “facessero ar- redare da artisti e da architetti in modo da convertirle in negozi tipici ed esem- plari con carattere originale ed armonioso”2. Queste ‘Botteghe d’arte’ avevano il compito principale di “servire d’esempio e d’incitamento per una maggiore cura dell’estetica moderna del negozio e della vetrina”, incoraggiando così la nascita di una vera e propria “estetica dei luoghi di vendita”. I ‘bottegai’, purtroppo, si limitarono ad addobbare le loro sale “coi soliti criteri senza preoccuparsi degli elementi necessari a un vero e proprio negozio a servizio del pubblico”. Solo la

*Casa Bella, Adorabile ‘crisi’, “La Casa bella”, V, 1932, 49, s.p. 1 G. Marangoni, La IIIa mostra internazionale delle arti decorative, Monza 1927. Notizie - rilie- vi - risultati, Bergamo, 1927, p. 40. 2 Ibidem. Fig. 1 - Botteghe d’arte, sezione piemontese alla terza Mostra internazionale delle arti decora- tive di Monza, 1927, G. Marangoni, La IIIa mostra internazionale delle arti decorative, Monza 1927. Notizie - rilievi - risultati, Bergamo, 1927, tav. I. sezione piemontese sembrava aver compreso bene l’invito di Marangoni. Infatti, grazie alla sensibilità spiccatamente moderna di un gruppo di artisti, vi si pote- vano ammirare una “genialissima” macelleria (Felice Casorati), una confetteria (Francesco Menzio), un bar (Emilio Sobrero), una farmacia (Gigi Chessa), la sala Stipel (Teonesto Deabate) e “la civettuola bottega della fioraia della ditta Lenci”3. Un’altra opera meritevole di attenzione era la Bottega delle due Riviere, realizzata dall’architetto genovese Mario Labò. Per il resto, concludeva Marangoni, si trattò di un esperimento non riuscito che, nonostante questo, “bisognerà ripetere con fiducia in una delle prossime Biennali”4 (figg. 1 e 2).

3 Ibidem, p. 41. 4 Ibidem, p. 42. Fig. 2 - Botteghe d’arte, sezione piemontese alla terza Mostra internazionale delle arti decora- tive di Monza, 1927, G. Marangoni, La IIIa mostra internazionale delle arti decorative, Monza 1927. Notizie - rilievi - risultati, Bergamo, 1927, tav. II.

Si potrebbero forse rintracciare in questo esperimento di scarso successo le origini di un ragionamento sull’estetica dei luoghi di vendita in Italia. Il negozio, questo luogo del ‘non ozio’ secondo l’etimologia latina della parola e dunque del lavoro a tutti gli effetti, iniziò a diventare un tema architettonico a sé stante come anche una questione di organizzazione cittadina in seguito ai processi di indu- strializzazione. Questi ultimi portarono, stando a George Nelson, alla scissione del binomio casa-lavoro che rese indipendenti da un punto di vista funzionale e progettuale i luoghi di produzione, della distribuzione e del consumo5. Nel XIX secolo, in particolare, si era poi assistito alla moltiplicazione delle architetture

5 G. Nelson, Foreward, in E. Nicholson, Contemporary Shops in the United States, New York, 1945, pp. 5-9:6. 62 Ines Tolic progettate esplicitamente per la vendita, ma soprattutto all’avvento di tipologie fino a quel momento inedite come i grandi magazzini che condizionavano in modo significativo il panorama urbano di quegli anni, non solo nelle grandi città (Parigi, Londra, Berlino) ma anche nei centri provinciali (Marsiglia, Liverpool, Hannover)6. Queste ‘cattedrali del commercio’, erette da entrambe le parti dell’o- ceano, subirono un duro colpo alla fine degli anni Venti del XX secolo quando, a causa della crisi, il volume degli acquisti precipitò bruscamente. Nella “trade war” che ne scaturì7, i commercianti grandi e piccoli si ingegnarono per trovare armi adatte a contrastare la difficile situazione, individuando soprattutto nella modernità architettonica un potente alleato8. “In the perspective of fifty years” – scriveva Norman Bel Geddes nel 1932 – “the historian will detect in the decade of 1930-1940 a period of tremendous significance. […] Doubtless he will ponder that, in the midst of a world-wide melancholy owing to an economic depression, a new age dawned with invigorating conceptions and the horizon lifted”9. Nello stesso periodo, l’orizzonte iniziava ad espandersi anche in Italia. Alla Triennale del 1930 le idee di Marangoni non furono portate avanti ma vi si poteva comunque osservare un fatto degno di attenzione: la suddivisione in regioni dell’e- sposizione precedente venne abbandonata adottando ora la logica delle sezioni tema- tiche. Questa scelta appariva significativa soprattutto alla luce del processo che, avvia- to in quegli anni e promosso dal regime fascista, portò in ultima analisi alla creazione di uno spazio di consumo nazionale che sarebbe stato fondamentale per la diffusione delle idee, delle merci e delle architetture moderne10. Lo stesso Gio Ponti ne intuì l’importanza occupandosi della questione in un articolo del 1931 dal titolo Occorre dare un mercato nazionale alla produzione moderna italiana. Nel breve scritto, il diret- tore di “Domus” sollecitò i connazionali – produttori, distributori e consumatori – ad adottare quanto prima “le idee e le architetture straniere” che permettevano alla con- correnza internazionale di produrre prodotti moderni, “tecnicamente, artisticamente

6 S. Tsung Leong, Evolution of shopping, in Ch. Grunenberg, M. Hollein (eds), Shopping. A century of art and consumer culture, Ostfildern-Ruit, 2002, pp. 79-83. 7 M. Ketchum Jr., Shops & Stores, New York, 1948, p. 7. 8 Negli anni della crisi, il dibattito sugli spazi commerciali negli Stati Uniti è particolarmente vivace e ricco di contributi. In particolare, sulla modernizzazione degli spazi con l’obiettivo di ridurre le spese di gestione, si vedano: K. Kingsley Stowell, Modernizing Buildings for Profit, New York, 1935; L. Parnes, Planning stores that pay. Organic design and layout for efficient merchan- dising, New York, 1948. Più recentemente, sulle trasformazioni degli spazi commerciali e il loro effetto sulla città contemporanea, si veda G. Esperdy, Modernizing Main Street. Architecture and Consumer Culture in the New Deal, Chicago-London, 2008. 9 N. Bel Geddes, Horizons, Boston, 1932, p. 3. 10 E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, Roma-Bari, 2016, pp. 87-96. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 63

Fig. 3 - Luciano Baldessari con Luigi Figini e Gino Pollini, Bar Craja, Milano, 1930, CASVA, Gli archivi del progetto a Milano - Comune di Milano, Fondo Luciano Baldessari, BALD.I_D_04d. ed economicamente migliori” e distribuirli in maniera più efficiente di quanto venga fatto in Italia. Il punto di riferimento, naturalmente, erano gli Stati Uniti, ma anche paesi più vicini a noi come la Francia e la Germania, presso le quali la produzione e la distribuzione risultavano decisamente più aggiornate. “Non dobbiamo affatto” so- steneva ancora Ponti “invocare protezioni alle produzioni”, ma dobbiamo “chiedere, adottare, esigere [prodotti] moderni” e, allo stesso tempo, “protestare contro il finto antico dei palazzi, degli uffici, delle fabbriche, dei transatlantici”11. Solo sfruttando le opportunità offerte dall’epoca contemporanea, Ponti vedeva una possibilità per la produzione nazionale di rafforzarsi al punto da poter competere finalmente con quella estera. E per conseguire questo obbiettivo, occorreva innanzitutto educare il pubblico italiano al nuovo gusto in fatto di merci, architetture e città tramite articoli, libri e mostre, ma anche – come vedremo – bar e negozi.

2. Dallo stile al registratore di cassa Un’immagine conservata presso l’Archivio di Luciano Baldessari ritrae gli in- terni del bar Craja. Il famosissimo luogo di ritrovo di industriali e intellettuali del- la Milano anni Trenta era considerato, all’epoca, “l’ultima espressione del gusto moderno”12. L’illustrazione (fig. 3) – che purtroppo qui viene riprodotta in bianco e nero – era stata realizzata partendo dai ricordi della figlia del proprietario, quando

11 G. Ponti, Occorre dare un mercato nazionale alla produzione moderna italiana, “Domus”, IV, dicembre 1931, 48, p. 32. 12 La città che si rinnova, “La Casa bella”, IV, 1931, 40, pp. 16-21. Fig. 4 - Luciano Baldessari con Luigi Figini e Gino Pollini, Bar Craja, Milano, 1930, “La Casa bella”, IV, 1931, 40, p. 19. il bar aveva ormai chiuso al pubblico, con l’obiettivo di preservare la memoria degli interni e, soprattutto, dei suoi colori. Considerando che le immagini degli spazi commerciali risalenti al periodo fra le due guerre mondiali sono in bianco e nero, il documento appare interessante e va tenuto a mente nell’analisi degli spazi com- merciali di quegli anni (fig. 4). In altre parole, la caratteristica principale dei negozi moderni non si esauriva nella funzionalità degli spazi, che soddisfaceva il com- merciante, ma constava anche di una vivace esperienza cromatica, che appagava i Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 65 clienti. Così, nel bar Craja, il pavimento era stato realizzato con ceramica Ferrari in liste verde chiaro e scuro, mentre le pareti erano rivestite di legno lucido, di tonalità rossa. Il soffitto era in vetro bianco laccato alla nitro, mentre la luce veniva diffusa tramite velari. Gli attaccapanni e il diaframma erano realizzati in legno nero, con finiture in metalli nichelati opachi, cristalli fumé e trasparenti. Inoltre, l’ambiente si presentava strutturato sulla base di un rigoroso assetto geometrico di linee e pia- ni ortogonali. Questi ultimi convergevano in un ideale punto di fuga prospettico nella fontana in metalli nichelati di Fausto Melotti, collocata nella parete di fon- do, proprio di fronte all’ingresso13. Nel primo piano dell’immagine troneggia un registratore di cassa, quasi a sottolineare lo scopo commerciale di questo luogo. La presenza della cassa è tutt’altro che rara fra le fotografie degli spazi commerciali del periodo e richiama alla memoria un editoriale apparso su “La Casa bella” dal titolo, appunto, Dallo stile al ‘registratore di cassa’. “Ci sia permesso di far presente una no- stra considerazione che viene ad innestarsi sulla questione dello stile moderno e che riceve luce d’attualità dalle nuove botteghe” si poteva leggere nello scritto del 1931. I negozi di linea schiettamente attuale, di un modernismo senza mezzi termini, […] si sono rivelati ottime attrazioni per il pubblico che li affolla e li preferisce ai loro con- generi di fisionomia più consueta; in una parola il ‘moderno’ ci appare anche in Italia […] un ottimo agente di vendita […]. Una volta tanto l’Arte con l’iniziale maiuscola discende dal suo empireo a spiegare i fenomeni della vita […]: dal nuovo del negozio al nuovo delle merci e dei sistemi14. Quest’ultima frase, più che chiudere il ragionamento, sembra sollevare una domanda: sono stati effettivamente i negozi, in Italia, a imporre con la propria modernità quella delle merci, oppure sono stati gli oggetti standardizzati, la produzione in serie, la riproducibilità tecnica di una sempre più vasta gamma di prodotti immessi sul mercato ad aver innescato un cambiamento che, in ultima analisi, ha imposto una trasformazione agli spazi di vendita, condizio- nando perfino l’immagine dei centri urbani? E quali sono i nuovi sistemi a cui si fa riferimento? In The Principles of Scientific Management, Taylor aveva sostenuto che, vista l’“inefficiency in almost all of our daily acts”, i principi alla base del suo trattato avrebbero dovuto applicarsi ad ogni settore: the management of our homes; the management of our farms; the management of the business of our tradesmen, large and small; of our churches, our philanthropic institutions, our universities, and our governmental departments.

13 Ibidem. Vedi anche C. De Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Roma- Bari, 1983 (1° ed. 1972), pp. 250-251. 14 Casa Bella, Dallo stile al ‘registratore di cassa’, “La Casa bella”, IV, 1931, 42, s.p. 66 Ines Tolic

E concludeva affermando: “in the past the man has been first; in the future the system must be first”15. Con le sue ricerche, Taylor sviluppò dunque un ap- proccio che andava ben oltre l’organizzazione efficiente del solo processo produt- tivo facendo intendere che quest’ultimo poteva diventare un modello per tutte le attività, compresa la vendita. Si prefigurava così un sistema, appunto, che avrebbe portato ogni uomo in ogni ambito “to his state of maximum efficiency”16. Negli Stati Uniti, l’ondata di modernizzazione riconducibile al diffondersi di queste idee trasformò la struttura distributiva riconfigurando e ridisegnandoin toto gli spazi di vendita. Tali trasformazioni sono testimoniate dal diffondersi di formati commerciali innovativi, la cui presenza sulla scena urbana statunitense si conso- lidò negli anni Trenta (come, ad esempio, i chain store o i supermarket). Questi formati crearono un divario a favore degli Usa che l’Italia recuperò solo a fine degli anni Cinquanta ma, a prescindere da questo ritardo, si può osservare come qui da noi, già a partire dagli anni Venti, i principi di Frederick W. Taylor, come anche le idee di Henri Fayol e Frank Gilbreth sulla razionalizzazione, furono adottati e promossi con grande convinzione dall’Ente Italiano di Organizzazione Scientifica (Eios). Si trattava di un’organizzazione, nata nel 1926 per volontà del- la Confindustria, che utilizzava l’omonima rivista per aggiornare i propri lettori sui benefici dell’organizzazione scientifica in tutti i campi, compresi distribu- zione e architettura17. Già nel 1928, l’Eios considerava “la scienza del vendere […] una parte integrante dell’economia […]. Se la produzione aumenta, è segno che il prodotto circola e si consuma, ma il mezzo perché questa circolazione e questo consumo avvengano è la vendita. Dalla vendita nascerà la ricchezza; e sarà quindi la vendita stessa che contribuirà ad aumentare la produzione. A queste verità assiomatiche non si giunge nella realtà che attraverso metodi ra- zionali, ed è perciò che la scienza del vendere dovrebbe assurgere a materia di dottrina e insegnamento”18. In seguito al 1929, l’Eios identificò nella mancanza di comunicazione fra produttori e distributori le ragioni della crisi economica. I commercianti, in altre parole, non avrebbero dovuto semplicemente limitarsi alla “vendita di ciò che alla produzione capita[va] di fare”, ma “coprire il suo ruolo di

15 F. Taylor, The principles of Scientific Management, London-New York, 1919 (1° ed. 1911), pp. 7-8. 16 Ibidem, p. 9. 17 G. Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale nell’Italia tra le due guerre, Torino, 1978 e P. Viani, Progettare l’impresa: Francesco Mauro e il dibattito europeo tra le due guerre, in D. Bigazzi (a cura di), Storie di imprenditori, Bologna, 1996, pp. 235-293. 18 Senza titolo, “L’organizzazione scientifica del lavoro. Rivista dell’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica”, III, 1928, 1, p. 17. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 67 comando e di controllo come sistema nervoso della vita economica”19. In altre pa- role ancora, la crisi aveva fatto emergere l’estrema importanza per la produzione di un’efficiente organizzazione delle vendite e quella degli spazi ad essa adibiti. Il mercato moderno veniva ora chiaramente inteso come un sistema che si reggeva sulla capacità del produttore di interpretare il gusto del pubblico e sulla dispo- nibilità del consumatore ad acquistare i suoi prodotti, mentre a fare da tramite fra i due troviamo i commercianti. Questi ultimi – “persone caute ma sensibili”20 – si sintonizzarono dunque con le ultimissime tendenze formali e trasformarono i propri negozi in maniera tale da adattarli meglio alle merci e ai consumatori, rimpinguando allo stesso tempo i propri registratori di cassa. Lavorava solo chi “si era adeguato prontamente, fiduciosamente, al gusto ed agli usi”, osservava Ponti nel 193321. I processi in atto non sfuggirono né a “Domus” né a “La Casa bella”, che dimostrarono di apprezzare enormemente i processi di modernizzazione in atto – se non altrove – almeno nei negozi22. Bisognerebbe a questo punto chiedersi chi erano i consumatori dalla cui sod- disfazione dipendeva il corretto funzionamento del sistema. Appena un anno dopo la pubblicazione del saggio di Taylor, Christine Frederick diede alle stampe The New Housekeeping: Efficiency Studies in Home Management23. Com’è noto, in quel testo la Friedrick sviluppò in maniera approfondita le idee esplicitate da Taylor applicandole alla casa e, soprattutto, alla cucina. Nel capitolo Business and economics dello stesso volume, l’autrice spinse però le proprie considerazioni ben oltre le mura domestiche considerando, nel sistema economico americano, il ruolo della donna in quanto consumatrice. Il rapporto fra donne e vita eco- nomica del paese venne ulteriormente indagato in Selling Mrs. Consumer, del 1929.24 Il consumerism americano, in cui i lavoratori vengono visti anche come consumatori oltre che come lavoratori e produttori, fu definito dall’autrice come una “new doctrine; […] the greatest idea that America has to give to the world”25. E considerando che gli uomini si stavano già adattando alla “machine age”, le

19 L. Urwick, Lo studio del “mercato” in vista di una distribuzione razionale, “L’organizzazione scientifica del lavoro. Rivista dell’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica”, IX, 1934, 6, pp. 279-283:280. 20 Arch., Valore economico del rinnovamento del gusto, “Domus”, V, 1932, 53, p. 251. 21 G. Ponti, L’arte contro la crisi, “Domus”, VI, 1933, 62, p. 55. 22 Si veda a questo proposito in particolare G. Ponti, Arte e industria, “Domus”, V, 1932, 54, pp. 323-324. 23 Ch. Frederick, The New Housekeeping: Efficiency Studies in Home Management, Garden City (NY), 1913. 24 Ch. Frederick, Selling Mrs. Consumer, New York, 1929, p. 214. 25 Ibidem, pp. 4-5. 68 Ines Tolic donne avrebbero dovuto quanto prima comprendere i meccanismi alla base della “advertising age”, visto che erano proprio loro, secondo l’autrice, a giocare un ruolo di primissimo piano nel sistema economico nazionale. Come la Frederick negli Stati Uniti, anche l’Eios, in Italia, dedicava grande attenzione alle donne. Nel 1929, infatti, l’ente aveva fondato la rivista Casa e lavoro e ne aveva affidato la direzione a Maria Gasca Diez. Sebbene l’autrice possa definirsi una sorta di versione italiana della Frederick per molti versi26, nei primi numeri della rivista mancavano quasi totalmente scritti su temi legati ai consumi o suggerimenti alle consumatrici. Poco dopo la crisi questo cambiò e la lettrice cui idealmente si rivolgeva la rivista iniziò ad essere proiettata negli spazi commerciali. Proprio qui, lei ora doveva assolvere “un altissimo compito”: “qualcuno ha calcolato che il 70% degli acquisti si effettuano dalla donna o per la donna. Basterà questo per avere un’idea di quello che valga l’attenzione messa a profitto di spese veramente utili e redditizie, o meglio, di spese indispensabili”27. Gli acquisti della popo- lazione femminile, insomma, diventarono negli anni Trenta una questione di rilevanza nazionale, un punto che non sfuggì nemmeno alle riviste di architettura e, in particolare, a “Domus” sulle cui pagine sempre più articoli si rivolgevano esplicitamente alle lettrici con rubriche come, ad esempio, quella dal titolo In giro per acquisti. A questo punto, si potrebbe forse ipotizzare che la donna, in quanto medium fra negozio e casa, abbia svolto in questo periodo un ruolo importante (seppur non ufficiale e difficilmente verificabile) nel processo di modernizzazione degli spazi pubblici e privati: esposta al nuovo gusto fuori casa, nei negozi dove si recava a fare acquisti per la famiglia, ne riportava al suo interno frammenti in grado di trasformare poco per volta il paesaggio domestico (e viceversa) come anche quello dei percorsi urbani28.

3. Lo stile moderno fuori casa In un articolo apparso su “Domus” nel 1929, Ponti si lamentò della lentezza con cui le nuove tecniche costruttive e i nuovi materiali andavano diffondendosi nelle abitazioni private. Molta più soddisfazione, invece, si poteva provare camminando per le vie cittadine, dove i negozi sembravano offrire un’interpretazione sempre aggiornata della modernità: “Quando spalancheremo anche le porte delle nostre case alla tecnica nuova? Quando ci libereremo dai mobili coi bucolini del tarlo e

26 K. Cosseta, Ragione e sentimento dell’abitare. La casa e l’architettura nel pensiero femminile tra le due guerre, Milano, 2000. 27 Un altissimo compito, “Casa e lavoro. Rivista dell’Ente nazionale Italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro”, III, 1931, 1, pp. 1-2:2. 28 Sulla questione, si veda P. Sparke, Interni moderni, spazi pubblici e privati dal 1850 a oggi, Torino, 2011. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 69 pur fatti ieri? Sarà un giorno di consolazione: sarà ricuperata la moralità, in ordine estetico, della nostra casa, insieme col buon gusto e col buon senso”29. Per far com- prendere meglio in cosa consistesse la modernità, l’articolo era illustrato con una serie di spazi commerciali: gli esterni del negozio Haardt a Milano di Pier Giorgio Magistretti e il Gallenga a Roma, ad opera di Emanuele Cito di Filomarino e Luigi Broggi; fra gli spazi interni si potevano trovare, ad esempio, quello di Zio Bucchi in Via Sistina a Roma su progetto di Mario Ridolfi. Infine, veniva proposto il negozio Stipel, realizzato da Piero Portaluppi e ubicato nell’ottocentesca Galleria Vittorio Emanuele di Milano che, nel corso degli anni successivi, iniziò a popolarsi di spazi sempre più moderni30 (fig. 5). Per Ponti, lo spazio progettato da Portaluppi era da elogiare perché, tramite il linguaggio architettonico utilizzato, riusciva a comunica- re anche al passante più distratto “il suo scopo e il suo contenuto”. L’illuminazione elettrica della facciata, tema di grande interesse in questi anni, diventava proprio nel caso della Stipel una “forza tutta moderna”, in grado di catturare l’attenzione avvalendosi anche di effetti “lampeggianti”31. La luce, come anche le insegne dei negozi, acquistarono in questi anni caratteristiche intrinsecamente architettoniche da un punto di vista compositivo, venendo esaltate dall’impiego di materiali come, ad esempio, i marmi scuri. Queste qualità particolari, sempre più diffuse negli spazi commerciali dell’epoca, portarono i negozi ad instaurare un rapporto sempre più forte con il contesto urbano: la loro modernità fu vista come sintomatica del desi- derio di rinnovamento ad ampio raggio e il loro aumentare fu interpretato come conferma di un futuro diventato ineluttabile. Particolarmente significativi appaiono in questi anni gli spazi commerciali realizzati da Melchiorre Bega. Architetto di origine bolognese, poi trasferitosi a Milano negli anni Venti, Bega era definito “uno specialista, un monopolizzatore dell’arredo artistico nei locali pubblici” e “un creatore molto raffinato e felice in quel campo assai difficile che è l’estetica moderna del negozio”32. L’importanza di questo progettista emerge chiaramente nelle parole di Raffaello Giolli, il qua-

29 G. Ponti, Lo stile moderno fuori di casa, “Domus”, II, 1929, 17, pp. 29-36:31. 30 Nel 1932, Figini e Pollini vi realizzarono la libreria Treves-Treccani-Tumminelli, la cui mo- dernità si poneva in netto contrasto con la “fastosa galleria Vittorio Emanuele”. Vedi Città 1932, “La Casa bella”, V, 1932, 50, s.p. Per il negozio di cappelli Barbisio, sempre in Galleria, Pietro Lingeri realizzò invece “vetrine modernissime” ottenendo un “bell’effetto di contrasto nello sche- ma architettonico”. Vedi Città 1932, “La Casa bella”, V, 1932, 52, s.p. 31 Ego Sum, Il negozio Stipel a Milano, “La Casa bella”, II, 1929, 5, pp. 36-38:37. Sugli effetti dell’illuminazione notturna a scopo pubblicitario, vedi anche V. Abbati, Le luci della città. Luce e architettura, “Domus”, IV, 1931, 47, pp. 32-33 e L. Schreiber, Pubblicità luminosa, “Casabella”, VII, 1934, 74, pp. 12-19. 32 O. Belsito-Prini, Melchiorre Bega architetto, “La Casa bella”, I, 1928, 12, pp. 52-53; Un nuovo negozio a Milano, “Domus”, VIII, 1935, 87, pp. 38-39. Fig. 5 - Piero Portaluppi, Negozio Stipel, Milano 1928, fotografia di Antonio Paoletti, per concessione della Fondazione Piero Portaluppi, Milano. le nel 1937 scriveva che “i negozi di Bega portarono sul marciapiede d’Italia la polemica della Triennale”. In altre parole, all’autore sembrava che i progetti del bolognese, moderni senza mezzi termini, avessero trasformato la modernità “in un fatto pubblico imponente, con cui [doveva] far di conto non solo la cosiddetta estetica cittadina ma anche la cosiddetta opinione pubblica”33. Fra le tante opere di Bega pubblicate sulle riviste di settore basti menzionare: la cappelleria Giusti su via Rizzoli a Bologna, il negozio Rimmel a Milano, il ristorante-birreria Pilsner a Venezia e il negozio di abbigliamento Piperno Alcorso di Piazza Fiume a Roma, re- alizzato assieme a Mario Marchi nel 1937. A proposito di quest’ultimo, “Domus”

33 R. Giolli, L’opera di Melchiorre Bega, “Casabella”, X, 1937, 119, pp. 6-9, ora in S. Zironi, Melchiorre Bega architetto, Milano, 1983, pp. 21-27. Fig. 6 - Melchiorre Bega e Mario Marchi, Negozio Piperno Alcorso, Roma, 1937, “Domus”, XI, 1938, 123, pp. 34-35. sottolineava l’appropriato sistema di organizzazione spaziale in relazione alle at- tività di compravendita come anche i sistemi elaborati per la regolamentazione dei flussi. All’opportuna organizzazione degli spazi si affiancava “un’atmosfera rilassante”, raggiunta tramite un accurato studio delle modalità di illuminazione dello spazio interno, nel quale la diffusione della luce naturale era garantita dalle ampie vetrate come anche dalle superfici riflettenti del soffitto e del pavimento che, nell’insieme, creavano “un ambiente privo di frenesia”. Ma l’elemento più interessante era, ancora una volta, l’illuminazione elettrica, che nelle ore serali trasformava l’opera in una sorta di faro urbano34 (fig. 6).

34 Il nuovo negozio a Roma, “Domus”, XI, 1938, 123, pp. 34-41. 72 Ines Tolic

Fig. 7 - Melchiorre Bega, Pasticceria Motta in piazza Duomo, Milano, 1933, Archivio Melchiorre Bega, b. 151.

Negli anni Trenta, Bega aveva già instaurato una collaborazione continuativa con importanti ditte come, ad esempio la Perugina o la milanese Motta. L’apice del rapporto con quest’ultima può senz’altro essere considerata la pasticceria in Piazza Duomo, rappresentativa di una nuova consapevolezza in merito all’esi- genza di una corretta presentazione dei prodotti e all’organizzazione moderna degli spazi commerciali. In questo caso, Bega adottò un linguaggio caratterizzato da una “semplicità essenziale e mai povera, una cura ed una ingegnosità grande nel particolare, e ricco poi di elementi eccezionali che rappresentano, nell’ordine che regola tutto l’assieme, un ben calcolato gioco di fantasia”35. Dai portici di Piazza Duomo si accedeva alla pasticceria tramite un ingresso iconico, formato da due vetrine a colonna di cristallo con ossatura in metallo similoro (fig. 7). In particolare nelle ore serali, l’effetto dell’insieme, raggiunto non solo tramite gli elementi architettonici ma anche tramite l’illuminazione attentamente studiata, non poteva che essere spettacolare. Dall’ingresso si poteva poi intravedere l’ele-

35 Un negozio d’eccezione, “Domus”, VII, 1934, 74, p. 28, ora in L. Donzelli, Lo stile Bega. Opere, progetti, idee di un protagonista del professionismo milanese, Lodi, 2016, p. 111. Fig. 8 - Melchiorre Bega, Scala elicoidale della Pasticceria Motta in piazza Duomo, Milano, 1933, Archivio Melchiorre Bega, b. 151. gante scala elicoidale, successivamente riproposta sia nel Gran Caffé Italia che nel già menzionato Piperno Alcorso, entrambi ubicati a Roma. La scala, con i suoi 3,2 metri di diametro e 5,8 metri di dislivello, era realizzata in legno macassar, mentre i gradini erano rivestiti in gomma Pirelli (fig. 8). In legno macassar erano stati realizzati anche i banchi, disposti da entrambi il lati dello spazio interno, mentre per le pareti l’architetto aveva adottato un compensato laccato e battuto di tonalità rossa. Di colore complementare, invece, il pavimento che era stato rivestito di marmo cipollino verde. Ad impreziosire lo spazio (e a risparmiare la vista di un potenzialmente intimidatorio registratore di cassa a chi entrava nel locale), Bega si era avvalso di due diaframmi reclamistici in cristallo dorato con motivi incisi e luminosi realizzati da Fontana arte (fig. 9). Sul lato sud del locale, 74 Ines Tolic

Fig. 9 - Melchiorre Bega, Interno della Pasticceria Motta in piazza Duomo, Milano, 1933, Archivio Melchiorre Bega, b. 151. i prodotti erano stati esposti in due vetrine ad anello che, debitamente illuminate, creavano una scenografia straordinariamente elegante. L’insieme era impreziosito da cristalli incisi, da mosaici e lampadari Venini in vetro di Murano e da una “grande pittura a olio dietro cristallo smarginata su fondo di cristallo a incisioni ed a foglia d’oro” realizzata da Ponti36. Al piano superiore, aperto al pubblico qualche tempo dopo, era stato allestito un ambiente meno sfavillante che ospi- tava sale da tè. Dopo aver affidato i soprabiti al guardaroba, comprensivo di un mobile ricoperto di linoleum color avorio e un attaccapanni di metallo cromato, l’avventore poteva rilassarsi in una preziosa sala foderata di pannelli in pergamena fissati con borchie di metallo cromato. L’ambiente si presentava arricchito con la- vori di artisti quali Bruno Santi, Giulio Rosso, Pietro Melandri e altri che, con le proprie opere, contribuivano a rendere ambigua la funzione dello spazio in con- siderazione (fig. 10). Infatti, oltre a presentarsi agli avventori come un’elegante

36 Ibidem. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 75

Fig. 10 - Melchiorre Bega, Sala al primo piano della Pasticceria Motta in piazza Duomo, Milano, 1933, Archivio Melchiorre Bega, b. 151.

“casa lontana da casa”, quello del Motta in Piazza Duomo era un luogo tanto di produzione quanto di consumo e, allo stesso tempo, una sorta di piccolo museo dell’arte contemporanea. In breve, il bar Motta si configurò in quel periodo come un’opera d’arte totale, ispirata dalla modernità stessa sia nelle forme sia nei conte- nuti che, nel luogo simbolo del capoluogo lombardo, attirava gli avventori e am- maliava la critica37. Il successo del Motta fu tale che la ditta continuò a rivolgersi all’architetto anche negli anni successivi, ogni volta che il locale in Piazza Duomo necessitava di essere aggiornato: infatti, conclusasi la Seconda guerra mondiale, lo spazio venne interamente rivisto da Bega stesso nel 1948. Parallelamente alla realizzazione dei negozi, l’architetto curava l’immagine pubblica della Motta an- che in altre occasioni, realizzando vere e proprie architetture pubblicitarie come il padiglione della ditta alla Triennale nel 1933, alla Fiera campionaria di Milano

37 Vedi anche: M. Labò, Architettura arredamento del negozio, Milano, 1936, p. 169, Melchiorre Bega - Architetto. Architetture d’interni (1931-1936), Milano, 1937, pp. 9-19, e C. Braga e C. Casati, Negozi. 53 esempi, Milano, 1955, tav. 84. Fig. 11 - Melchiorre Bega, Padiglione Motta alla Fiera campionaria, Milano, 1950, Archivio Melchiorre Bega, b. 488. nel 1937 e, successivamente, a quella del 195038 (fig. 11). La collaborazione si proiettò anche nel secondo dopoguerra con la realizzazione di altri negozi, padi- glioni e perfino di autogrill, come il famoso Cantagallo sull’Autostrada del Sole. Si trattava di una tipologia architettonica importata direttamente da oltreoceano, la quale si rivolgeva non più al pedone urbano, ma al consumatore motorizzato tipico del miracolo economico39 (fig. 12). Alla realizzazione di architetture, Bega affiancò anche un’intensa attività di-

38 Sull’“architettura pubblicitaria”, vedi V. Marchi, Italia nuova, architettura nuova, Foligno- Roma, 1931, pp. 115-119. 39 Sulla tipologia e il contesto italiano, si veda: L. Greco, Architetture autostradali in Italia. Progetto e costruzione negli edifici per l’assistenza ai viaggiatori, Roma, 2010. Fig. 12 - Melchiorre Bega, Motta Grill Cantagallo, Autostrada del Sole - tratta Bologna- Firenze, 1961, Archivio Melchiorre Bega, b. 551. vulgativa che trovò spesso posto sulle pagine di “Domus”. Dalla rivista, proprio negli anni della Seconda guerra mondiale, egli invitò i progettisti a riprendere il discorso relativo all’architettura dei negozi, “ormai da tempo trascurati se non addirittura ignorati”40. Visti i tempi, l’autore sembrava sentire quasi il dovere di giustificare questo suo invito ad occuparsi di una questione forse ritenuta poco consona al clima bellico. Ma, diceva, “l’anima dell’architettura è stata sempre ‘una’, qualsiasi fosse stato il suo oggetto, nello stile formale e nello stile storico seppur diversa nel carattere per via delle eventuali applicazioni funzionali”. Gli spazi commerciali, secondo l’architetto, venivano realizzati da progettisti che ave- vano avuto il coraggio di cimentarsi con compiti pieni di vincoli ed esposti alla facile critica; non da meno era stato il coraggio di quegli esercenti che, avendo deciso di rinnovare i propri locali in un’epoca di evoluzione stilistica, avevano dovuto poi continuare a riformarli per rimanere al passo con la concorrenza. Dopo svariati anni e nonostante le numerose realizzazioni affidate a “mestieranti irresponsabili al servizio di committenti impreparati”, si era ormai giunti ad una fase in cui nel rifare il negozio non ci si limitava più a rinnovarne la decorazione ma a riformare l’ambiente nella sua interezza, il tono come anche la struttura, puntando alla creazione di “un nuovissimo organismo”41. L’esercente, alla ricerca di maggior richiamo e praticità, sembrava aver imparato a lavorare con il proget-

40 M. Bega, Negozi, “Domus”, XV, 1942, 170, pp. 74-81:77. 41 Ibidem. 78 Ines Tolic tista, individuando in quest’ultimo un alleato importante per gli affari. In questo momento, appariva finalmente possibile a Bega affermare l’esistenza di una vera e propria “architettura del negozio”, con le sue regole e i suoi canoni: peculiarità di richiamo propagandistico, istintività degli interessi, grande chiarezza e immedia- tezza nella visione della merce, comodità per impiegati e clienti, accurato studio funzionale dei percorsi di cose e persone, coerenza e chiarezza di stile, un’alta dignità di stile ed esecuzione, perfezione degli impianti tecnici42. Riassumendo, si potrebbe dire che la necessità di aggiornare lo spazio per la vendita con l’obiettivo di attirare l’acquirente aveva prodotto proprio negli anni della crisi un corpus di opere estremamente rilevanti per il dibattito architettoni- co contemporaneo che pur si presentava incentrato sulla casa. Attingendo a piene mani dal repertorio modernista, architetti come Melchiorre Bega avevano creato opere in grado non solo di valorizzare la merce, ma anche di suggerire atmosfere che, con un po’ di fantasia (e disponibilità economica), potevano essere riadatta- te alla sfera domestica. Esemplare da questo punto di vista il negozio realizzato in via Montenapoleone a Milano dall’architetto Giancarlo Palanti per Helena Rubinstein: le immagini pubblicate su “Domus” mostrano in questo caso un in- terno che, senza l’ausilio delle didascalie, potrebbe facilmente essere scambiato per un interno domestico, squisitamente moderno. Occorre anche specificare che, grazie alle generose superfici vetrate che caratterizzano l’opera, il passante non aveva bisogno di entrare nel negozio per poter fruire di questa “bella casa per la casa della bellezza”, venendo esposto alla modernità ben prima di accedere allo spazio43 (fig. 13). Da questo punto di vista, dunque, i negozi assunsero un ruolo straordinario nel processo di definizione di uno stile di vita moderno che andava gradualmente trasformando anche la sfera privata. E infatti, “l’arreda- mento dei negozi interessa quanti amano la casa perché in essi sono sperimentate forme e modi che possono consecutivamente essere adottati nell’arredamento domestico”44.

4. La città che si rinnova A partire dal 1933, gli articoli che incitavano all’adozione del nuovo stile la- sciarono sempre più spazio ad una compiaciuta osservazione delle trasformazioni ormai in atto. “Ho già segnalato” scrisse Ponti a questo proposito fin dal 1929 il rapido rinnovarsi dell’arredamento dei negozi, l’adeguarsi alle nuove forme da parte proprio della classe più sensibile alle realtà e più cauta nel determinarsi ad opere e

42 M. Bega, Il palazzo di vetro a Roma, “Domus”, XV, 1942, 172, pp. 348-369:349. 43 Bella casa per la casa della bellezza, “Domus”, X, 1937, 120, pp. 56-57. 44 Negozi, “Domus”, X, 1937, 117, p. 31. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 79

Fig. 13 - Giancarlo Palanti, Negozio Helena Rubinstein, Milano, 1937, “Domus”, X, 1937, 120, pp. 56-57. spese, i commercianti. […] Ho voluto passeggiare in veste di statistico in tre arterie di questa nostra Milano, Via Dante, Via Orefici, Portici settentrionali. Ecco i risultati: Via Dante, 75 negozi rinnovati e moderni su 139 (oltre la metà), Via Orefici 40 su 72 (oltre la metà), Portici settentrionali, 32 su 52 (60%)45. L’anno successivo, si apprende da una pubblicità per i pavimenti Pirelli, il Popolo d’Italia avviò una campagna “per invitare i negozianti ad aggiornare le loro botteghe”46. Dopo aver creato uno spazio di consumo nazionale, il fascismo ora interveniva direttamente negli spazi della vendita sollecitandone la moder- nizzazione. Questo moltiplicarsi di negozi moderni non poteva non provocare effetti di magnitudo urbana47 (fig. 14). Nello stesso periodo, e non a caso, su “La Casa bella” comparve una nuova rubrica dal titolo emblematico: La città che si rinnova48. L’autore di questo primo articolo si proponeva di fermare l’attenzione

45 G. Ponti, Moderno o non moderno, “Domus”, VI, 1933, 71 p. 574. 46 La rinascita dei negozi - Pavimenti Pirelli (pubblicità), “Domus”, VII, 1934, 74, p. XVI. 47 Per avere un’idea dell’impatto delle insegne commerciali sul panorama urbano (e dell’effetto ‘tumultuoso’ che la loro massiccia presenza esercitava sui contemporanei) si veda il collage Insegne, “Domus”, V, febbraio 1932, 50, s.p. 48 Il primo articolo della serie viene pubblicato su “La Casa bella”, III, 1930, 36, pp. 15-17. 80 Ines Tolic

Fig. 14 - Insegne moderne, “Domus”, V, 1932, 50, pp. 108-109.

“su tutto quello che può costituire un indice di modernità coerente ed equilibra- ta”, ma non più come nei pochi anni appena trascorsi con lo scopo di illustrare le ultime tendenze formali (o le loro motivazioni) ai lettori. “Ormai”, prosegue l’autore, le nostre città accennano a cambiare aspetto sotto l’impulso di una vita più febbrile e mo- derna, e sta per accadere anche fra di noi quel fenomeno di evoluzione che ha trasformato tante città estere”49. Lo scopo dell’articolo, dunque, era quello di seguire tramite le nuove archi- tetture la nascita di una nuova immagine per la città italiana, espressione univoca di “molteplici aspirazioni collettive”50. Ad illustrare lo scritto concorrevano appe- na due progetti che, a dire la verità, apparivano diversi fra loro tanto nello stile quanto nella funzione. Da una parte, il Palazzo della Cassa delle Assicurazioni Sociali (oggi sede dell’Inps) in Piazza Missori a Milano, realizzato da Marcello Piacentini. Qui, su uno zoccolo in granito d’Ornavasso lucido si innestava l’ordi- ne superiore “che per maestà veramente colossale si riattacca[va] all’architettura

Vedi anche R. De Simone, Il razionalismo nell’architettura italiana del primo Novecento, Roma- Bari, 2011, pp. 103-126. 49 Ibidem, p. 15. 50 Ibidem, p. 17. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 81 palladiana mentre riprende[va] e [faceva] nuova l’eleganza del secondo ordine del teatro di Marcello”51. Dall’altra parte, il complesso residenziale a Rozzano (Milano), realizzato da Enrico A. Griffini eG iovanni Manfredi. La semplicità dei volumi e quella del partito architettonico, come anche l’ubicazione periferica dell’edificio ne enunciano irrimediabilmente la caratura popolare. Forse troppo diverse le due opere perché il lettore potesse farsi un’idea del modo in cui la città contemporanea si stava rinnovando. Nell’editoriale del numero successivo il discorso venne ripreso, affermando che purtroppo le “costruzioni moderne si contano sulle dita della mano destra e il rifacimento edilizio della città è in mano a capimastri e di architetti fuori dal loro tempo”52. Ed ecco dunque che “La Casa bella”, come “Domus” prima di lei, volge la propria attenzione alle botteghe che andavano “mutando, un po’ ovun- que, l’aspetto delle nostre città”53. Nelle cinque ‘botteghe’ presentate in questo numero, “forse più delle case dell’altra volta” – ammetteva l’autore – era possibile individuare “un indirizzo preciso di gusto”. L’evidente compiacenza con cui il pubblico frequentava locali rinnovati (come, ad esempio, la galleria-libreria Il Milione che viene citata come esempio) era da intendersi come segno del favore sempre più largo che godevano presso gli italiani gli oggetti moderni e, poiché “l’aspetto di un negozio è quasi sempre legato intimamente alle cose che in esso si vendono”, stava ad indicare che il pubblico ora aspirava “per le sue ore di sva- go ad un ambiente nuovo, in cui sentirsi con franchezza del proprio tempo”54. Il progetto di sistemazione della Casa dell’Indanthern a Milano, incuneato fra due edifici ottocenteschi, lasciava comprendere bene la forza rinnovatrice dell’ar- chitettura moderna come anche le sue potenzialità comunicative all’interno del tessuto urbano. Nell’oscurità delle ore notturne, grazie all’illuminazione dell’in- terno, le generose vetrine al piano terra trasformavano l’edificio in una lanterna che con la propria luce attirava i passanti55. I commercianti, insomma, avevano trovato nella modernità architettonica e tecnologica un alleato che, abbattendo virtualmente le mura del negozio, faceva sconfinare lo spazio commerciale nella città rinnovando così l’immagine di quest’ultima (fig. 15). Già dal numero successivo, fra ‘le città che si rinnovano’, troviamo non solo Milano ma anche Como, Napoli e Venezia. La presenza di negozi moderni in queste ultime due appare un fatto particolarmente apprezzato dall’autore, che lo

51 Ibidem. 52 Casa bella, Confronti e panorami, “La Casa bella”, IV, 1931, 37, s.p. 53 La città che si rinnova, in “La Casa bella”, IV, 1931, 37, s.p. 54 Ibidem. 55 Ibidem. 82 Ines Tolic

Fig. 15 - La città che si rinnova, “La Casa bella”, IX, 1931, 37, p. 14. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 83 interpreta come una “conquista lenta, ma inevitabile, che compie in tutta l’Italia il gusto nuovo”56. Nessuna sorpresa per Como in questo caso, che si confermava uno dei vertici del triangolo industriale assieme a Torino e Milano. Qui era da poco stato inaugurato il negozio di parrucchiere di Giuseppe Terragni con i suoi “gabinetti smontabili di noce lucido, e pareti scorrevoli sospese su cuscinetti a sfere”. Per il pavimento era stato scelto un linoleum striato azzurro, mentre le pareti erano rivestite “di bourette di seta beige, su telai staccati dal muro”. Dei negozi presentati in questo numero, solo quello realizzato da Terragni sembra- va aver raggiunto “un rigore formale intenso” che l’autore dell’articolo sperava potesse presto ritrovarsi anche in altre opere italiane, realizzate in un triangolo industriale “più vasto e completo [che avrebbe compreso] il Piemonte, la Sicilia e la Venezia Giulia”57. Dello stesso Terragni non possiamo non citare il rinomato Vitrum, negozio di cristalleria e ceramiche della ditta Camanni allestito in piazza del Duomo della stessa città. In questo caso, Terragni aveva scelto il marmo cipol- lino verde per la facciata che, nelle ore serali, veniva illuminata da lettere lumino- se in tubi al neon, incastrate in quelle di marmo. “Le vetrine [erano] incorniciate in ottone cromato e illuminate dalle pareti e dall’architrave. L’interno [aveva] pareti ricoperte di lastre di eternit legate in metallo” e “pavimento di linoleum arancione e azzurro”58. Proprio la vetrina luminosa del Vitrum era, per “La Casa bella”, emblematica della città che si rinnovava, trovando in questo diaframma traslucido un “valore singolare di modernità e bellezza”59 (fig. 16). “L’estetica della città nuova”, dunque, passava ineluttabilmente tramite la pro- duzione architettonica contemporanea60 e nello specifico poteva essere osservata nei negozi visto che, come faceva notare la rivista, “la crisi non fa costruire case o ne fa costruire soltanto delle brutte”61. Con il moltiplicarsi dei negozi moderni e a causa del linguaggio formalmente affine adottato in ciascuno di questi, “Domus” iniziò, nel 1933, a parlare non più solo di città ma di rinnovamento dell’Italia intera. Nel primo articolo della serie venivano dunque presentati sì i nuovi negozi di Milano, senz’altro da considerarsi la città più ‘rinnovata’ d’Italia, ma anche uno di Cagliari. Non a caso, si trattava di un negozio Olivetti, ditta fra le più mo-

56 La città che si rinnova, “La Casa bella”, IV, 1931, 38, s.p. 57 Ibidem. 58 Aspetti di ambienti d’oggi, “Domus”, IV, 1931, 42, p. 44. 59 La città che si rinnova, “La Casa bella”, IV, 1931, 44, s.p. Sulle vetrine, vedi anche quelle piene di invenzioni formali presentate da Chessa e Cuzzi alla Mostra della moda e dell’ambienta- zione di Torino: La mostra della moda e dell’ambientazione a Torino, “La Casa bella”, V, 1932, 54, pp. 59-58. 60 La città che si rinnova, “La Casa bella”, IV, 1931, 41, s.p. 61 Arch. Peressutti e Rogers. Bar a Milano, “La Casa bella”, VI, 1931, 1, p. 16. 84 Ines Tolic

Fig. 16 - Giuseppe Terragni, Negozio Vitrum, Como, 1930, “Domus”, IV, 1931, 42, pp. 44-45. derne d’Italia, che con i negozi di Torino, Napoli o Roma, aveva già dato prova di comprendere le nuove esigenze di presentazione e promozione dei prodotti, offrendoli come epicentri di modernità nel panorama urbano nazionale62.

5. Conclusioni Nel 1948, George Nelson scriveva: It is still in fashion in some quarters to affect a belief that commercial building is in some way inferior to ‘fine’ architecture based, probably on the notion that the quality of a design is in some way related to the nobility of its purpose. E aggiungeva, non senza sarcasmo: If this were true, it would be rather embarrassing to have to explain why we build such good stores and such atrocious churches. Or why our national monumento to Thomas Jefferson lacks the interest and integrity of seed store in San Francisco”63.

62 L’Italia che si rinnova, “Domus”, VI, 1933, 70, p. 555. Sulla Olivetti, i suoi prodotti e le sue architetture, la bibliografia è vastissima. Per un approfondimento sui negozi, si segnala D. Scodeller, Negozi. L’architetto nello spazio della merce, Milano, 2007, pp. 104-139. 63 G. Nelson, Foreword, cit., pp. 5-9:8. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 85

Forse contrapponendo i valori etici alla società dei consumi, la critica del secondo Novecento ha creato una contrapposizione tra architettura ‘im- pegnata’ e architettura ‘commerciale’ relegando così la seconda in una zona marginale del dibattito critico e della trattazione storiografica. In realtà, com’è stato dimostrato, negli anni fra le due guerre mondiali l’argomento interessava molto chi si occupava di architettura e città: “Domus” aveva indi- cato nei negozi un modello da seguire per l’allestimento dello spazio dome- stico, mentre a “La Casa bella” non erano sfuggiti gli effetti che le moderne cappellerie, cristallerie, librerie e bar stavano esercitando sulla città. Il tutto avveniva proprio negli anni della crisi economica, che sembrava aver portato i commercianti, i loro negozi e i loro architetti a giocare un ruolo non secon- dario nel dibattito sulla modernità e sulla modernizzazione. Per descrivere i negozi di ultima generazione, nel 1949 si usò il termine “estetica totale”, indicando con esso la ricerca di un progetto comprensivo, in grado di evi- tare una qualsiasi “frattura” nel rapporto merce – allestimento – contenitore architettonico – spazio urbano. Nello stesso periodo, si iniziava a dare per assodato che gli spazi commerciali fossero in grado di anticipare soluzioni formali e tecnologiche, le quali poi si sarebbero fatte strada anche in altri contesti, come appunto gli ambienti domestici64. Le architetture commercia- li, insomma, “studiate con raffinata sapienza di particolari, seppur aderenti a temi specifici”, diventarono in questo contesto “un utile contributo per chi [voleva] essere informato sulle tendenze up to date”65. Nei decenni successivi, prenderà forma quello che comunemente viene indicato come ‘il miracolo economico’66. Più della merce, il protagonista di questo momento storico sono i consumi, nella cui impennata è possibile ri- trovare l’elemento caratterizzante la società contemporanea. Da un punto di vista architettonico, i luoghi e il lavoro di distribuzione cambiarono comple- tamente. Le città si espansero e i cittadini si dotarono di mezzi di trasporto veloci, imponendo l’adozione di tipologie prima inesistenti in Italia come il

64 Forme nei negozi. Particolari di arredamento, XXII, “Domus”, 1949, 232, pp. 38-39. 65 C. De Carli, F. Albini, M. Zanuso, Negozi: Valigeria Franzi. Una libreria. Un negozio per macchine calcolatrici, XIX, “Domus”, 1946, 207, pp. 36-41. 66 In generale, sull’evoluzione dei consumi in Italia, vedi E. Scarpellini, L’Italia dei consumi, cit.; sul ruolo degli Stati Uniti d’America nella modernizzazione dei consumi (anche in Italia), vedi V. De Grazia, L’impero irresistibile: la società dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino, 2006; sullo shopping e le sue ripercussioni sulla società e la città, vedi Chuihua Judy Chung et al. (eds), Harvard design school guide to shopping; Köln, 2001; per l’architettura degli spazi della merce fra Otto e Novecento, vedi D. Scodeller, Negozi, cit.; per una selezione di flagship store, vedi G. Giammarresi, La moda e l’architettura, Milano, 2008. 86 Ines Tolic supermercato, l’autogrill o il centro commerciale. Nasceva anche la “superar- chitettura”, ovvero “l’architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al superconsumo, del supermarket, del superman e della benzina super”67. Contestualmente, si sviluppò un dibattito sul rapporto fra città e questi luoghi che culminò con la fondazione anche dell’Associazione italiana di urbanistica commerciale [Aiuc]. Fra i temi affrontati dall’asso- ciazione, particolarmente significativo appare quello dei centri storici che, sempre più inadatti alla frenetica vita quotidiana, si videro in questo perio- do sempre più abbandonati tanto dai residenti quanto dai commercianti. Il centro commerciale della città, in altre parole, “non coincideva più con il nucleo urbano, storico e residenziale”68 e bisognava dunque sviluppare nuovi strumenti per affrontare la situazione. Si trattava di un problema in cui si in- trecciavano interessi politici, economici e, naturalmente, anche commerciali che meritano senza dubbio una trattazione autonoma. Concludendo, il processo di trasformazione delle città per mano dei com- mercianti è naturalmente ancora oggi in corso, seppur con caratteristiche proprie alla nostra epoca. Da una parte, sembra che il secolo attuale, forgiato da onnipresenti forze massmediatiche e da logiche di mercato globali, abbia contribuito alla spettacolarizzazione dell’architettura contemporanea e, in particolare, dei luoghi di vendita69. Un fenomeno particolarmente evidente nel caso di rinomati brand internazionali, sotto la cui spinta i centri storici si stanno trasformando in luoghi monofunzionali destinati allo shopping. Le necessità dei nuovi committenti, impegnati a cercare visibilità non più su sca- la urbana o nazionale ma su quella mondiale, sono diventate più complesse e, a soddisfarle, è emersa anche una nuova tipologia di progettista: l’archi- star70. D’altra parte, nel nuovo sistema commerciale, globale e iperconnesso, parlare solo di spazi commerciali o architettura destinata ad ospitare attività di compravendita appare riduttivo. L’inesorabile affermarsi dell’e-commerce rischia di rendere superflui proprio i negozi, che già mostrano segni di insof- ferenza o, in altri casi, spirito di adattamento. E’ il caso del Samsung 837 di New York, realizzato da Morris Adjimi e inaugurato nel 2016. Definito the“

67 R. Gargiani, B. Lampariello, Superstudio, Roma-Bari, 2010, p. 6. Vedi anche G. Mastrigli (a cura di), Superstudio. Opere 1966-1978, Macerata, 2016, pp. 4-11. 68 La Rinascente e i centri storici, in Centri storici e strutture commerciali. Un problema, un viag- gio, un dibattito, Milano, 1975, p. 11. Vedi anche Camera di commercio internazionale, Sezione italiana (a cura di), Distribuzione e sviluppo urbanistico, Milano, 1962. 69 G. Giammarresi, La moda e l’architettura, cit., p. 22. 70 G. Lo Ricco, S. Micheli, Lo spettacolo dell’architettura: profilo dell’archistar, Milano, 2003, pp. 184-213. Merce e architettura, commercio e città ai tempi dell’“adorabile crisi” 87 un-store”, questa architettura non nasce per vendere, ma semplicemente per esporre i prodotti del colosso sudcoreano71. L’“un-store” potrebbe rivelarsi una nuova tipologia di spazio commerciale, oppure potrebbe essere solo una fase nel processo di adattamento delle ‘botteghe’ alla contemporaneità. Non è dato sapere come andranno le cose, ma la storia di queste trasformazioni, iniziate all’alba del nuovo millennio, sarà molto probabilmente, ancora una volta, una storia urbana.

71 Si vedano: C. Welch, Samsung’s new flagship NYC building isn’t a retail store at all, “The Verge”, 23 febbraio 2016, https://www.theverge.com/2016/2/23/11099014/samsung-837-nyc- walkthrough e Z. Zellers, Samsung 837 Flagship: The Un-Store, “Design:Retail”, 6 giugno 2016, http://www.designretailonline.com/projects/stores/samsung-837-flagship-the-un-store/. European Association for Urban History 14th International Conference on Urban History

URBAN RENEWAL AND RESILIENCE Cities in comparative perspective

ROME / ITALY AUGUST 29 - SEPTEMBER 1, 2018

The official conference programme of lectures and sessions will be accompanied by a lively social programme, including receptions, a conference dinner and the opportunity to visit major cultural sites in and around Rome.

Important dates

25 January 2018: Start of early registration

15 May 2018: Deadline for early registration

5 August 2018: Deadline for full text submissions

eauh2018.ccmgs.it

EAU H ROME 2018 «Città e Storia», XI, 2017, 1, pp. 89-106, doi: 10.17426/86925, ©2017 Università Roma Tre-CROMA

Togliattigrad. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana Natalia Terekhova National Research University Higher School of Economics, Moscow

Abstract: The author considers perspective the thesis according to which the main issue of the Russian history of XX s. consists not in revolutions and wars but in the massive urbanization of the country. The construction of towns around gigantic plants in remote zones stimulated rapid industrial development. During this process, the Soviets used the new approaches in the organization of the working process, developed by Henry Ford, and combined it with the abolition of private property. Togliatti, a single- industry town, was named after the leader of the Italian communists but became the capital of the Soviet automotive industry with the help of the antagonists of the comrade Palmiro - the owners and the managers of FIAT. Why did Nikita Khrushchev preferred the Italian Way Fordism’s solution? What were the goals, conditions and the consequences of the “affair of the century”? Keywords: Togliatti; Khrushchev; Fordism; Soviet Urbanization.

Le radici del particolare fenomeno di cui vogliamo parlare in questa sede risal- gono al 1903, quando nacquero due realtà apparentemente diverse in due parti del mondo distanti: l’azienda innovativa di Henry Ford in America ed il partito bolscevico in Russia, anch’esso assai innovativo. Nel corso di sei decenni la storia ha avvicinato questi due soggetti così diversi, nell’ambito del paradigma della storia del management e dell’incessante ricerca di metodi di amministrazione delle unità pro- duttive in diversi settori della società umana: industria, gestione urbana, ingegneria sociale, approcci antropologici. Questi ambiti appaiono filologicamente diversi, con un diverso indirizzo politico o religioso, ma in realtà, sono finalizzati a risolvere gli stessi problemi che rientrano nel quadro generale dello sviluppo economico. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la passione per l’automobile non risparmiò nessuno in Europa e in America. Agli italiani è ampiamente noto l’ini- zio della storia del settore automobilistico e della FIAT1. Meno noti sono i fatti relativi alla prima automobile russa che fu costruita nel 1896 dagli ingegneri Evghenij Jakovlev e Petr Frees2. Nel 1898 a San Pietroburgo fu aperta la prima

1 V. Castronovo, FIAT, 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano, 1999. Ringrazio il dott. Renato Iannacchino, Università degli Studi di Genova, Biblioteca di Scienze Umanistiche per avermi predisposto il suddetto volume. 2 Si veda sul tema: V. Petrov, Istoria otečestvennogo avtomobilestroenija v Rossii do 1917 goda [La storia dell’industria automobilistica in Russia prima del 1917], Moskva, 2001. 90 Natalia Terekhova concessionaria di automobili, mentre la prima esposizione automobilistica inter- nazionale ebbe luogo a Mosca nel 1908, dove furono esposte più di 150 auto- vetture costruite in Francia, Germania, Gran Bretagna e di produzione locale. In quell’occasione, 30 mila persone visitarono gli affollati padiglioni, confermando il crescente interesse dei russi per il settore automobilistico. All’inizio del 1914, la Russia occupava il decimo posto al mondo per numero di automobili in cir- colazione, con 10 mila unità, preceduta dall’Italia, al nono posto, con 12 mila automobili. Nel 1909 furono aperte le prime concessionarie Ford a Mosca e a San Pietroburgo, nonché a Riga, a Varsavia e ad Odessa che, all’epoca, facevano parte dell’Impero Russo mentre, sempre nello stesso anno, sui giornali locali ap- parve la pubblicità dei prodotti dell’azienda americana. In quel periodo la pro- duzione russa era limitata: dal 1909 al 1919 lo stabilimento Russo-Balt produsse circa 1000 auto, l’azienda dell’ing. Puzyrev, invece, dal 1911 al 1914 appena 38 automobili3.

Il “fordismo” e l’industrializzazione sovietica Secondo le ultime ricerche degli storici russi4, l’economia del paese dei Ro- manov non fu catastroficamente danneggiata durante la Prima guerra mondiale, mentre sarebbe stata la presa del potere da parte dei bolscevichi nell’ottobre del 1917 a portarla sull’orlo dell’abisso per via delle misure repressive intraprese nei confronti dei titolari, amministratori e dirigenti delle aziende private. Il nuovo governo era intenzionato a superare l’anarchia nelle fabbriche e aumentare la pro-

3 Maggiori dettagli si possono trovare nella rivista specializzata del settore: E.Kuprin, A. Rubec, Rossijskomu avtomobil’nomu transportu - 100 let, [Il trasporto automobilistico russo compie 100 anni ], “Avtomobil’nyj transport”, 1996, 10. 4 S. Voronkova, Zavodskoe stroitel’stvo v Rossii v gody Pervoj mirovoj vojny (k probleme razvitija promyšlennogo potenziala) [La costruzione delle fabbriche negli anni della Prima guerra mondiale (il problema dello sviluppo del potenziale industriale)], “Economičeskij žurnal”, 2002, 2(5); B. Mironov, Blagosostоjanie naselenija i revolucii v imperskoj Rossii. XVIII-načalo XX veka [Il tenore di vita della popolazione e le rivoluzioni nella Russia imperiale, XVIII-inizio XX secolo], Moskva, 2010; L. Grinin, O pričinach russkoj revolucii [Delle ragioni della rivoluzione russa], “Istoria i matematica. Kliodinamica”, Almanacco 7, Moskva, 2010; B.Mironov, Strasti po revolucii [Le pas- sioni per la rivoluzione], “Ves’ mir”, Moskva, 2013; A. Markevič, M. Harrison, Pervaja mirovaja vojna, Graždanskaja vojna i vosstanovlenije: nacional’nyj dochod v Rossii v 1913-1928 [La Prima guerra mondiale, la Guerra Civile e ricostruzione: il reddito nazionale della Russia 1913-1928], Moskva, 2013; Y. Petrov (a cura di), Rossia v gody Pervoj mirovoj vojny: economičeskoe položenie, social’nye processy, političeskij krizis. [La Russia negli anni della Prima guerra mondiale: economia, processi sociali, crisi politica], Moskva, 2014; A. Gruzinov, Rossijskaja industria nel 1917: dinami- ka i struktura proizvodstva [L’industria russa nel 1917: dinamica e struttura della produzione] in Y. Petrov (a cura di) Russkaja revolucia 1917 goda: vlast’, obščestvo, kul’tura [Rivoluzione russa del 1917: potere, società, cultura]. I, Moskva, 2017. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana 91 duttività del lavoro ad ogni costo. Gli slogan rivoluzionari del lavoro liberato da qualsiasi sfruttamento, proclamati al momento dell’arrivo al potere, vennero col passar dei mesi sostituiti dai tentativi di irrigidire la disciplina, sempre rafforzata con l’aggravarsi della guerra civile e la devastazione del paese. Nel 1918 il lavoro venne proclamato ‘obbligatorio’ per tutti e ciò venne confermato dal nuovo Co- dice del diritto del lavoro. Il Consiglio dei commissari del popolo, sotto la guida di Vladimir Lenin, nel 1919, proibì l’abbandono e qualsiasi cambio del posto di lavoro, imponendo severe misure disciplinari e una serie di punizioni. Nel giugno 1920 fu approvato il documento del governo sulle tariffe del costo della manodopera da applicare su tutto il territorio del paese. Quel documento fissava le norme per la produzione dei manufatti e un salario uguale per ogni categoria di lavoratori. Verso la fine della guerra civile, il concetto di ‘mobilizzazione forzata’ si trasformò in un sistema di lavoro militarizzato. Uno dei maggiori leader dei bolscevichi Lev Trockij affrontò il problema dichiarando: “Come mobilizzare la forza lavoro dei contadini? La necessità di usare il dicastero militare per risolvere questo problema è troppo evidente e non ha bisogno di alcuna prova”5�. Duran- te il IX Congresso del partito bolscevico dell’aprile 1920, Trockij annunciò che ciascuno doveva “considerarsi un soldato del lavoro che non può disporre libera- mente di sé stesso”6. I nomi di quelli che abbandonavano il cosiddetto “fronte del lavoro” venivano pubblicati nelle liste dei disertori, le nuove delibere del governo prevedevano la creazione dei “battaglioni penali” e la deportazione dei colpevoli nei campi di concentramento7. Il Congresso deliberò anche di far accrescere ‘la propaganda tra l’elemento proletario femminile, coinvolgendolo all’obbligo del lavoro’ e alla partecipazione ai famosi ‘subbotnik’, una tradizionale forma sovieti- ca di lavoro non remunerato nel giorno di sabato che era finalizzata ad avvicinare la realizzazione del comunismo. La presenza massiccia di donne nello svolgimen- to di lavori anche pesanti impressionò i viaggiatori italiani di passaggio in quel periodo nella Russia sovietica8. L’introduzione dell’obbligo di lavoro totale, la

5 L. Trockij, Mobilizacia truda [La mobilizzazione del lavoro], “Ekonomičeskaja žizn’”, 28 gennaio 1920, No.18, p. 2. 6 L. Trockij, Očerednyje zadači chozjajstvennogo stroitel’stva. Devjatyj s’ezd RKP(b). Protokoly [I compiti prioritari dello sviluppo economico. Il IX Congresso del RKP(b). Protocolli], Moskva, 1920, p. 102. 7 KPSS v rezoluciach, rešenijach s’ezdov, konferenzij i plenumov [Il PCUS nelle delibere dei con- gressi, convegni e plenum (1898-1986), II, Мoskva, 1982. 8 Si vedano le testimonianze riportate da Antonello Venturi e Eugenia Tokareva negli Atti del convegno organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Mosca a novembre del 2012 e a marzo 2013 a cura di E. Krupenina, Putešestrvie v Italiju – Putešestvie v Rossiju [Il viaggio in Italia – Il viaggio in Russia], Moskva, 2014: A. Venturi, Ital’jancy v “strane sovetov”: načalo 20-ch godov [Italiani nel “Paese dei soviet” all’inizio degli anni ‘20], pp. 85-93; E. Tokareva, Nekotorye 92 Natalia Terekhova mobilizzazione forzata di manodopera, il salario appiattito, il disprezzo nei con- fronti degli specialisti tecnici e dei laureati in ingegneria, comportò una drastica riduzione della produttività. Nel 1921 l’obbligo del lavoro e le “armate di lavoro” furono abolite e fu introdotta la Nuova politica economica (NEP). La chiusu- ra delle fabbriche, l’uccisione o la fuga dei titolari avevano provocato il crollo dell’industria9, la riduzione del numero degli operai e la mancanza di giovani apprendisti. A causa delle difficoltà nel rifornire di alimenti le città, la popolazio- ne, infatti, si rifugiava in campagna per reperire più facilmente il cibo. Il governo adottò misure per trattenere i ragazzi, aprendo scuole di formazione professionale dotate di mense e provvedendo alla distribuzione del vitto agli allievi. Sempre in quel periodo venne inaugurato l’Istituto centrale dello studio del lavoro, il cui direttore Alexej Gastev rimase in carica fino al suo arresto nel 193810. Lo scopo di quell’ente era l’organizzazione scientifica del processo lavorativo e lo studio di nuovi metodi di preparazione professionale degli operai. Secondo Gastev il paese doveva riorganizzare completamente la struttura produttiva ed effettuare una trasformazione radicale del lavoro. Egli affermava: “l’impatto combattivo sul fronte del lavoro richiede l’innesto della cultura del lavoro”11. Per raggiungere questi obiettivi in parte contraddittori, l’Istituto optò per sviluppare la scienza del lavoro e la gestione dei processi produttivi. L’ingegneria sociale era così chiamata a formulare i principi ed elaborare nuovi metodi dell’organizzazione aziendale. Nello stesso tempo il lavoro di un operaio doveva esser trasformato da pesante fatica a processo positivo e creativo. L’approccio scientifico al problema della forza lavoro faceva parte del progetto di formazione di ‘un uomo nuovo’, della costruzione del socialismo, accompa- gnato dall’introduzione massiccia della razionalizzazione e ‘scientificazione’ di tutti i settori della vita del paese. L’approccio scientifico venne contrapposto al lavoro forzato del periodo del comunismo di guerra e generalmente si sviluppò secondo la prassi che era stata introdotta all’estero, soprattutto nelle fabbriche Ford. Le sezioni dell’Istituto aperte presso le aziende nazionalizzate si occuparono “dell’armonizzazione dell’interazione tra l’uomo e la macchina e dell’ottimizza-

razmyšlenija o dokumentach Guido Miglioli v archive Krestinterna [Alcune considerazioni a propo- sito dei documenti di Guido Miglioli conservati all’Archivio del Crestintern], pp. 99-105. 9 E. Cinnella, Inžener Gaetano čocca nella Russia di Stalin:”Suždenija o bol’ševizme” [L’ing. Gaetano Ciocca nella Russia di Stalin: Giudizio sul bolscevismo”], in E. Krupenina (a cura di), Putešestrvie v Italiju, cit., pp.137-148: 137. 10 Alexej Gastev fu fucilato nel 1939 insieme ad altri 198 dirigenti accusati di trozkismo e terrorismo. 11 A. Gastev, Naši zadači [I nostri compiti], Ed.Istituto del lavoro, Moskva, 1921, p. 11. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana 93 zione delle relazioni all’interno della fabbrica”12. Diversi consulenti dell’organiz- zazione scientifica del lavoro operarono nelle 400 sedi sparse in tutto il paese. Nel 1924 il metodo elaborato dal Centro fu lodato dal vertice del partito per la sua universalità, velocità e per il potenziale, in quanto rappresentava il risultato di molteplici prove biomeccaniche, ergonometriche e psicotecniche di laboratorio. Idee di ravvicinamento tra il lavoro manuale e quello intellettuale furono promosse invece da Anatolij Lunačarskij, ministro dell’istruzione pubblica, che criticò il sistema di Gastev affermando che “gli allievi educati a risparmiare ogni movimento lavora- no troppo meccanicamente, senza analizzare i processi nei quali sono coinvolti, non sono armati teoricamente”13. La critica dei principi dell’organizzazione scientifica del lavoro accresceva con la riduzione della NEP e l’arrivo al potere di Stalin. Nel 1937 l’Istituto fu trasferito all’interno del Commissariato della difesa e nel 1940 in quello dell’aviazione in vista delle priorità militari del partito e del governo. Questa breve panoramica sulla vivace discussione svoltasi nell’URSS sui pro- blemi connessi al lavoro spiega l’enorme popolarità del fenomeno della catena di montaggio e delle idee formulate da Henry Ford. Il suo primo libro pubblicato nel 1922 fu subito tradotto in russo, riscuotendo enorme interesse tra il pubblico14. Ciononostante, l’esperienza dell’imprenditore americano che rivoluzionò il mondo del lavoro passò in sordina, minimizzata: il 5 gennaio del 1914 Ford introdusse le 8 ore di lavoro ed iniziò a pagare agli operai uno stipendio di 5 dollari al giorno. La gran parte dei bolscevichi proveniva da ceti benestanti, famiglie di nobili, commercianti, impiegati statali di alto livello; parlavano diverse lingue straniere, molti avevano studiato all’università e nei seminari. Al contrario, Henry Ford sin da piccolo conosceva il mondo del lavoro contadino, non amava lo studio, si vantava di non leggere mai niente, professava il culto della persona semplice, era contrario al coinvolgimento delle donne nei lavori non domestici per mantenere l’integrità della famiglia e garantire la cura e la sorveglianza materna ai figli15. Per gli ideologi del regime bolscevico lo stipendio adeguato degli operai non era inve- ce un obiettivo, il loro ideale consisteva nell’educare un lavoratore fiero e coscien-

12 L. Borisova, Trudovye otnošenija v sovetskoj Rossii (1918-1924) [I rapporti di lavoro nella Russia sovietica 1918-1924], Мoskva, 2006, p. 20; A. Silin, Discussia 20-ch godov o putjach podgo- tovki rabočich kadrov v SSSR. [La discussione degli anni ’20 sulle vie della preparazione dei quadri operai nell’URSS], “Clio”, 12 (72), 2012, p. 165. 13 Central’nyj Institut truda [Istituto Centrale del lavoro], “Smena”, 21, 1929. 14 M. Il’čenko, V. Martjanov (a cura di), Postfordizm. Concepcii, instituty, praktiki [Il Postfordismo. Concetti, istituti, pratiche], Moskva, 2015, p. 173. 15 Lo storico russo Boris Špotov ha dedicato diverse sue opere alla figura di Henry Ford, tra le quali si consiglia: B. Špotov, Henry Ford: žizn’ i biznes. [Henry Ford: la vita e il business], Moskva, 2003. 94 Natalia Terekhova te della sua missione rivolta verso la liberazione dei proletari di tutto il mondo, verso un futuro migliore che faceva dell’operaio l’uomo di dignità superiore, non un semplice servitore delle macchine. É noto che l’industriale americano aveva una cultura di matrice protestante fondamentalista16, che ha poi tradotto ed applicato in molti schemi sociali da lui realizzati, anche quelli per i quali fu assai criticato. Manteneva inoltre un’enorme quantità di spie e delatori, il che lo accumunava al regime comunista17. Ford non si fidava dell’URSS e tutte le sue iniziative sociali erano indirizzate ad evitare che la sua America finisse sulla strada sovietica. L’ironia stava nel fatto che lui voleva creare un’alternativa a quell’Unione Sovietica immaginaria che veniva promossa dai propagandisti filosovietici all’Occidente e con la quale la realtà del primo paese di ideologia comunista aveva poco in comune. Secondo alcuni autori rus- si, l’autoritarismo ed il paternalismo caratterizzavano ugualmente sia il sistema creato da Ford sia quello del comunismo sovietico che si distinguevano per l’alto salario e per le otto ore di lavoro cinque giorni a settimana del modello america- no18. L’URSS però emulava senza scrupoli le idee del nemico di classe. La catena di montaggio e la specializzazione del lavoro a livello operativo furono accolte con grande entusiasmo nel paese del “lavoro liberato dalle catene dello sfrutta- mento”. Nei primi anni del regime sovietico i contributi degli studiosi Alexandr Bogdanov, Alexej Gastev, Osip Ermanskij, Platon Kerženzev ebbero grande risal- to. Decine e decine di libri, saggi, articoli nelle riviste furono dedicati al sistema di Ford e alla sua interpretazione da parte dell’ideologia sovietica. L’economista Ermanskij elaborò la teoria della razionalizzazione socialista. Nel libro La mia vita, il mio lavoro – che venne tradotto in russo come La mia vita, il mio successo in quanto l’attività di un capitalista non poteva esser chiamata “lavoro” – Ford espose le basi del suo sistema. Solo nel triennio 1924-1927, il volume ebbe in Russia sette edizioni. Il suo secondo libro Oggi e domani fu edito nell’URSS ben dieci volte. Il successo ottenuto presso la leadership sovietica, gli esperti, i giornalisti, gli ingegneri, gli studenti fu enorme, rimanendo uno dei temi dominanti del discorso pubblico. Feliks Dzeržinskij, principalmente noto per essere stato il fondatore ed il primo capo della temuta polizia segreta sovietica Čeka, nel 1925 scrisse: senz’altro dobbiamo seguire la strada del fordismo e il nostro compito consiste […] nello studiare questo sistema, popolarizzarlo, farlo conoscere ai nostri ingegneri, tecnici, operai,

16 Il fondamentalismo è una corrente protestante che si sviluppò negli USA tra la seconda metà del XIX e la Prima Guerra mondiale. 17 A. Кustarev, Ford i socialism [Ford ed il socialismo], “Novoe vremja”, 31 agosto, 2003, p. 5. 18 Ibidem. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana 95

giovani. La questione centrale della nostra industria è nella razionalizzazione della nostra tecnica e dell’organizzazione della produzione. Questo compito può diventare l’impera- tivo categorico della ‘morale’ e della ‘volontà’ di tutti i nostri lavoratori e amministratori in qualsiasi settore essi lavorino. Altrimenti, non soltanto non riusciremo a introdurre il socialismo, ma non riusciremo mai a sostenerlo, non rafforzeremo l’Unione degli Operai e dei Contadini, non rafforzeremo il proletariato come classe che ha preso il potere, non rafforzeremo il nostro Stato contro le forze esterne nemiche di esso19. Nel 1925 Ford vendette ai sovietici una grossa quantità di trattori ‘Fordson’, diventando uno dei primi imprenditori occidentali a fare affari con l’URSS no- nostante il mancato riconoscimento ufficiale del paese bolscevico da parte del governo americano. Il trattore prodotto da Ford costava 371 dollari e il 10% della produzione totale fu assorbita dagli acquisti del governo sovietico. Tra aprile e agosto 1926, cinque esperti furono da lui inviati nell’URSS per esplorare il terreno e capire se fosse possibile estendere la collaborazione da Leningrado al Caucaso. Gli scrupolosi americani raccolsero una gran quantità di dati, molti dei quali deludenti: notarono infatti l’assenza di un’organizzazione produttiva accettabile e di qualità strutturale nonché un’assoluta mancanza di ordine sui posti di lavoro. Nelle 266 pagine del resoconto si rilevava tra l’altro che i nuovi trattori erano rimasti per mesi all’aperto nei porti senza essere utilizzati e senza manutenzione e, successivamente erano stati danneggiati nel corso del trasporto, avvenuto utilizzando le linee ferroviarie, soprattutto durante le fasi di scarico dai treni poiché non venivano usate precauzioni particolari e i mezzi finivano depo- sitati senza cura sulle banchine. Nel 1927 Ford si rivolse ai sovietici con la proposta di ospitare 100 tecnici per insegnare loro ad usare e manutenere i suoi trattori ‘Fordson’. Promise a tutti i tecnici sovietici i soliti 5 dollari al giorno per i primi due mesi e un aumento a 6 dollari nei successivi. Grazie a questi soggiorni i sovietici poterono rendersi conto della vita quotidiana degli operai degli stabilimenti Ford. Al ritorno pubblica- rono le loro impressioni sulla stampa (era ancora possibile farlo in quegli anni). Raccontarono che erano rimasti impressionati dalle condizioni di vita degli ope- rai americani: case di 3-4 stanze per famiglia, arredate con gusto, confortevoli, fornite d’acqua calda, elettricità, gas nella cucina. Anche le donne americane, facilitate nello svolgimento delle faccende domestiche, usavano le lavatrici, mai viste in URSS ed altri comodi utensili per far asciugare il bucato e stirarlo20. De- stò grande meraviglia fra gli operai sovietici, inoltre, che in pochi mesi di lavoro i colleghi delle aziende Ford potessero acquistare un’automobile.

19 F. Dzeržinskij, Izbrannye proizvedenija [Opere scelte], II, Moskva, 1972, p. 72. 20 V. Vasiljev, 110 dnej u Forda [110 giorni da Ford], “Ural’skij rabočij”, 22 luglio, 1927. 96 Natalia Terekhova

L’ammirazione della dinamicità e dell’altissimo livello tecnologico americano traspariva anche nelle missive dei rappresentanti commerciali dell’URSS a New York. Per esempio uno di loro scriveva nel 1928: Dobbiamo emulare e sviluppare nell’URSS la produzione di massa di automobili, radio, biciclette, macchine fotografiche, orologi. L’industria americana lavora per il consumatore e ciò costituisce la sua potenza21. In quell’anno fu anche firmato un accordo con il governo sovietico, per con- sulenza ed assistenza tecnica, relativo alla costruzione del gigantesco stabilimento Gor’kovskij per la produzione di camion a Nižnij Novgorod22. Il prof. Lavrov, uno degli entusiasti del “fordismo”, svolse un’attività di vera e propria propaganda descrivendo in una diecina di libri il metodo applicato dall’industriale americano, analizzandone i pregi e i limiti e riportando il termine “fordismo”23 sulla copertina di uno di essi. Lavrov elaborò l’idea dell’utopia co- struttivista che prevedeva la costruzione del comunismo attraverso la ‘fordizzazio- ne’ di tutti i processi lavorativi. Il pubblico sovietico si interessò di tutto ciò che aveva a che fare con Henry Ford compreso il libro di Luis Lochner Henry Ford e ‘La nave della pace’, edito nel 1925, con la prefazione di Maxim Gorkij, dalla casa editrice ‘Vremja’, cioè ‘Tempo’. Da notare che con questo nome fu creata un’associazione, la più numerosa (in termini di iscritti) della Russia sovietica, che si dedicava allo studio dell’organizzazione scientifica del lavoro e del tempo. Alla guida di essa fu Platon Keržencev, il quale cercava di applicare l’organizzazione scientifica del lavoro e del tempo a tutte le sfere dell’attività umana. L’importan- za della suddetta associazione fu sottolineata dal fatto che al momento del lan- cio di essa venne eletto presidente onorario il capo del governo Vladimir Lenin. Dopo la morte del leader dei bolscevichi, Keržencev ricevette un altro incarico dal partito comunista, quello di ambasciatore a Roma. Tra il 1925 e il 1926 ebbe la possibilità di incontrare e di scambiare opinioni con il leader dei comunisti italiani Antonio Gramsci, che fu spesso ospite all’ambasciata sovietica. Le pagine dedicate all’“americanismo e fordismo” furono successivamente tra le più studiate e citate dei suoi Quaderni dal carcere24. Nel 1935 la biografia di Henry Ford fu pubblicata persino nella prestigiosa

21 B. Špotov, “Zapadnyj factor” v industrializacii SSSR, 1920-1930 [“Il fattore occidentale” nell’industrializzazione dell’URSS, 1920-1930] in Atti del convegno sull’eredità industriale, Gus’- Chrustal’nyj, Saransk, 2006, p. 490. 22 La città fu fondata nel 1221 dal principe Yurij Vsevolodovič, nel 1932 le diedero il nome dello scrittore Maxim Gorkij. 23 N. Lavrov, Fordizm: učenie o proizvodstve veščej [Fordismo: dottrina sulla produzione delle cose], Leningrad, 1928. 24 G. Liquori, P.Voza (a cura di). Dizionario gramsciano 1926-1937, Roma, 2009, p. 40. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana 97 serie fondata da Maxim Gorkij ed intitolata Vita di uomini illustri25. Verso la fine della Seconda guerra mondiale anche Stalin si pronunciò su Ford, riconoscendo- ne i meriti. Lo storico Boris špotov riporta le sue parole del 1944 in occasione di un ricevimento in presenza di ospiti americani: è stato lui [Henry Ford-NdA] a darci una mano nel costruire le nostre fabbriche […] i sovietici hanno imparato molte cose dagli americani, la loro esperienza fu usata nella costruzione dell’industria dell’URSS26. Sono noti i tentativi intrapresi durante la Grande guerra da parte del governo russo di instaurare una collaborazione con la FIAT, lasciata poi in sospeso a causa degli eventi rivoluzionari del 1917 e ripresa dai sovietici dopo la sanguinosa Guerra civile. Durante la Nuova politica economica (NEP) voluta da Lenin numerosi fu- rono i “sondaggi da parte italiana e da parte sovietica affinché la FIAT si impegnasse nella produzione in Russia di camion e trattori agricoli”’27. Non va dimenticato l’importante episodio della costruzione da parte della RIV del grosso stabilimento di cuscinetti a sfera a Mosca28. Numerosi erano anche gli ingegneri29 e gli operai italiani che giungevano nell’Unione Sovietica attirati dai guadagni promessi agli stranieri o dal richiamo ideologico, attratti dal sogno di partecipare alla costruzione del primo paese socialista sulla Terra30. Nel clima di piena fiducia nelle tecnologie occidentali al tempo dei Soviet anche la FIAT riuscì a individuare nicchie di mer- cato. Per arrivare al momento della sua grande gloria, tuttavia, il fordismo italiano dovette aspettare la morte di Stalin, avvenuta nel marzo del 1953.

Chruščiov e la FIAT La nuova tappa della storia politica, sociale ed economica dell’URSS è legata alla figura di Nikita Chruščiov31. Senza approfondire in questa sede l’immenso apporto allo sviluppo sociale e economico dell’URSS32 in undici anni del suo governo, ci limi-

25 N. Beljaev, Henry Ford, Moskva, 1935. 26 B. Špotov, Henry Ford: žizn’ i biznes. [Henry Ford: la vita e il business], cit., p. 357. 27 V. Castronovo, FIAT, 1899-1999. Un secolo di storia italiana, cit., p. 1069. 28 E. Cinnella, Inžener Gaetano čocca nella Russia di Stalin:”Suždenija o bol’ševizme” [L’ing. Gaetano Ciocca nella Russia di Stalin: “Giudizio sul bolscevismo”], in Putešestvie v Italiju - Putešestvie v Rossiju [Il viaggio in Italia - Il viaggio in Russia], cit., p. 140. 29 La vicenda di uno di loro fu ricostruita da Ettore Cinnella. Si veda E. Cinnella, Ibidem, pp. 137-147. 30 Molti di quegli italiani divennero vittime delle purghe staliniane. Si veda E. Dundovich, F. Gori, Italiani nei lager di Stalin, Roma, 2006. 31 W.J. Tompson, Khrushchev: A Political Life, New York, 1995; W. Taubman, Khrushchev: The Man and His Era, New York, 2003. 32 Si veda la raccolta di documenti conservati negli archivi russi: A. Artisov et al. (a cura di), Nikita Sergeevič Chruščev. Dva cveta vremeni. Dokumenty [Nikita Sergeevič Chruščiov. Due colori del tempo. Documenti], Moskva, 2009. 98 Natalia Terekhova tiamo a notare che fu proprio lui a dare un nome italiano alla lontana città sul fiume Volga. Dopo la morte di Stalin nel 1953 e prima ancora dell’epocale XX Congresso del PCUS33�, che tanto rammaricò i rappresentanti del Partito Comunista Italiano, vennero intraprese misure concrete per lanciare la produzione di autovetture, non più solo camion, autobus, trattori o carri armati. L’iniziativa partiva immancabilmente dal Comitato Centrale del PCUS che, all’interno del suo dipartimento di metalmec- canica, già nel 1954 aveva istituito un nuovo reparto automobilistico. La leadership del partito seguiva costantemente lo sviluppo di questo settore nel mondo, finanziando le riviste specializzate e le traduzioni dei materiali che riguardavano le novità dell’industria occidentale, mentre venivano inviati all’e- stero gli ingegneri e la documentazione da loro stesa al rientro in Patria veniva attentamente esaminata34. Fu organizzato un laboratorio per lo studio di proto- tipi costruiti da tecnici e meccanici locali. Nei pressi di Mosca fu inaugurato il primo sito di prova delle autovetture di progettazione sovietica. Nel 1957 per la prima volta fu organizzato il convegno pansovietico dei costruttori di automo- bili. In contemporanea, venne intensificata l’attività dell’Istituto scientifico di progettazione NAMI35�. Nel 1958 il Comitato Centrale del partito comunista deliberò sulla necessità di sviluppare il settore automobilistico e la produzione di automobili di tipo FIAT. Fu acquisita la licenza, ma il progetto non andò in porto. Nonostante ciò, nel 1960 apparve il nuovo modello ZAZ-965. Il famoso Zaporožec pesava 650 chili, la sua scocca era molto simile a quella della Fiat-600. All’inizio degli anni ’60 negli Stati Uniti vi era un’automobile ogni 2,7 abi- tanti, in URSS una per ogni 23836. Questo divario spiacevole andava superato. Dopo il lancio dello “Sputnik” nel cosmo e il volo del primo cosmonauta Yurij Gagarin sembrava che tutto fosse possibile per il popolo sovietico. Il governo di Chruščiov fu caratterizzato da un’apertura inaudita. Nel 1959, per la prima volta nella storia, un leader sovietico fece un lungo viaggio negli Stati Uniti. Nel 1960 si recò in Francia, dove visitò la fabbrica della Renault e commentò:

33 Al XX Congresso del PCUS tenutosi nel 1956, il nuovo capo del partito e del paese Nikita Chruščiov fece un discorso inaspettato accusando Stalin di ingenti crimini, sconvolgendo i comuni- sti sovietici e gli ospiti stranieri. Grazie a questo intervento fu lanciato il nuovo periodo nella storia dell’URSS chiamato “destalinizzazione”, caratterizzato dalla notevole attenuazione del repressivo re- gime politico. 34 A.Ruchadze, Osobennosti stroenia avtomobilej na anglijskich fabrikach “Ostin”, “Woxhall”, “Ford” [Le peculiarità della costruzione delle autovetture nelle fabbriche inglesi ‘Ostin’, ‘Woxhall’, ‘Ford’]. NAMI, Moskva, 1958. 35 Il Centro statale di ricerca e progettazione automobilistica costituito nel marzo del 1920 a Mosca. 36 N. Terekhova, Italianskaja privivka sovetskomu avtopromu [Il vaccino italiano all’industria automobilistica sovietica], “Ekspert”, 16 (895), 2014, p. 35. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana 99

le automobili ci sono piaciute ma non sarà facile intraprendere una collaborazione tra due sistemi così diversi come quello capitalista e quello socialista�37. Invece dopo soli due anni la sua opinione cambiò. Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale la FIAT aveva comincia- to a seguire attentamente il mercato sovietico, ma solo dopo l’inizio del processo di ‘destalinizzazione’ si aprirono delle opportunità al di là della ‘cortina di ferro’. Piero Savoretti, leggendario rappresentate del business italiano e anche della FIAT nell’URSS a partire dal 1954, informava costantemente i vertici dell’azienda torine- se sui progetti e sui programmi del Comitato sovietico per la pianificazione dell’e- conomia e sui progetti del Ministero del Commercio Estero dell’URSS relativi ai rapporti economici con l’Occidente. Non si può però parlare di una strategia indi- pendente dei suddetti dicasteri, considerando che tutte le decisioni sulle questioni generali – ma spesso anche su questioni di gran lunga meno importanti – venivano prese solo ed esclusivamente dal Comitato Centrale del PCUS. Nel 1962 a Mosca nel parco Sokol’niki venne organizzata una mostra dell’in- dustria italiana. Un importante contributo alla sua realizzazione fu dato da Savo- retti, che seppe coinvolgere e portare nel paese dei Soviet più di 60 aziende ita- liane. Chruščiov visitò la mostra e fu oltremodo contento di infilarsi, corpulento com’era, in una FIAT, guidandola per un giro improvvisato nel parco. Divenne emblematico l’episodio in cui Chruščiov, in presenza dei membri del Politburo e dei ministri del governo sovietico, si espresse favorevolmente nei confronti degli imprenditori italiani che avevano avviato rapporti commerciali con l’URSS, de- finendoli persone intelligenti e coraggiose ed aggiunse: I due sistemi, quello capitalista e quello socialista, devono essere in contatto, sviluppare rapporti e in altre parole coesistere38. Forse non sarebbe una grande esagerazione ammettere che grazie agli impren- ditori italiani avvenne un importante cambiamento negli atteggiamenti del lea- der sovietico. Non si potrebbe escludere che proprio allora i massimi dirigenti del PCUS cominciarono ad avere fiducia nei confronti dei partner italiani. Que- sta tendenza venne confermata anche dagli incontri personali, i cui resoconti sono conservati negli archivi della FIAT. Potrebbe sembrare strano ma gli inter- locutori avevano le stesse opinioni su molte vicende politiche ed internazionali. Chruščiov parlava bene di Kennedy e criticava spietatamente Stalin che “non capiva un cavolo né di economia, né di industria, né di energia e tantomeno di

37 N. Chruščiov, Vremja.Ljudi. Vlast’. Vospominania, [Tempo. Personaggi. Potere. Memorie.], Moskva, 1999, IV, p. 143. 38 V. Castronovo. FIAT, 1899-1999. Un secolo di storia italiana, cit., p. 1067. 100 Natalia Terekhova agricoltura”39. Invece dopo i colloqui con il capo del Governo Sovietico Aleksey Kosygin, il presidente della Fiat ebbe impressioni ben diverse. Contrariamente alle aspettative incontrò una persona dura e fu costretto ad ascoltare un’aspra critica del mercato comune. Ogni nostra obiezione veniva trascurata. Poi Kosygin dichiarò di non credere che gli americani facessero qualcosa per la distensione. Facemmo un sospiro di sollievo quando si riuscì a lasciare il tema politico così scivoloso e passare alle problematiche economiche40�. Nonostante l’esistenza di un mito, costruito successivamente, la decisione di sigla- re il contratto con la FIAT fu presa all’inizio del 1964 da Chruščiov in persona. Fu Nikita Sergeevič a confermare ai vertici della fabbrica torinese l’intenzione di firmare un accordo per la costruzione di uno stabilimento di produzione di autovetture e non di trattori, contrariamente alle intese prese durante le trattative preliminari. Il presi- dente dell’azienda torinese Vittorio Valletta che seguì il progetto quotidianamente lo testimonia sulle pagine del volume di Castronovo. Lo contraddice Luis Siegelbaum che riteneva il Ministero delle Costruzioni Automobilistiche artefice nel 1965 del progetto italo-sovietico41. E’ stato possibile giungere ad una conclusione diversa da quella del collega americano anche grazie alla ricerca condotta dall’autrice del presente saggio nel 2013 presso il RGAE (Rossijskij gosudarstvennyj archiv economiki), non- ché all’archivio RGANI (Rossijskij gosudarstvennyj archiv novejšej istorii)42�.

Perché Togliattigrad? Il luogo dell’ardua impresa divenne Stavropol-sul-Volga, una piccola città che a causa dell’intervento italiano ricevette un immenso impulso per il suo sviluppo. Se all’inizio degli anni ’60 contava 12 mila abitanti, quando fu avviata la nuova fabbrica il loro numero superò i 250 mila. Praticamente fu costruita non solo una grande azienda produttiva, ma una nuova città con infrastrutture moderne, negozi, scuole e quant’altro necessario per la vita degli operai e dei tecnici. Per la sua rapida crescita, è stata paragonata ad alcune città americane. L’antica Stavro- pol, dopo esser ribattezzata con il nome del capo del partito comunista italiano Palmiro Togliatti, alla fine degli anni ’60 - inizio anni ’70 del XX secolo divenne la capitale dell’industria automobilistica dell’URSS.

39 Ibidem, p. 1068. 40 Ibidem, p.1069. 41 Si veda: L. Siegelbaum, Cars for Comrades. The life of the Soviet Automobile, New York, 2008. 42 Si veda: N. Terekhova, “Kontrakt veka”: FIAT i političeskije predposylki sovetsko-italianskoj economičeskoj sdelki [“The contract of the century”: FIAT and political preconditions of Soviet- Italian affair] in: XVth April International Academic Conference on Economic and Social Development, National Research University Higher School of Economics, Moscow, 2014. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana 101

Dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica molte città si liberarono dell’ere- dità sovietica nei propri nomi, ma ‘il compagno Togliatti non mollò le sponde del Volga’. Così dicono quelli che auspicano che alla città venga prima o poi restitui- to il suo nome originale. Negli anni ‘90 fu organizzato anche un referendum per ripristinare il vecchio nome come era già successo in quel periodo a San Pietro- burgo (ex Leningrado), Tver’(ex Kalinin), Ekaterinburg (ex Sverdlovsk), Nižnij Novgorod (ex Gorkij). Il famoso scrittore Alexander Solženicin al suo rientro dall’esilio, dopo la caduta del regime sovietico, si recò a Togliattigrad per convin- cere gli abitanti ad eliminare il cognome di “quel funzionario del Comintern”43; ma in pochi si presentarono alle urne e il nome italiano rimase. L’antica cittadella fortificata fu fondata negli anni ’30 del XVIII secolo suggel- lando la lunga storia di contatti e conflitti tra russi e calmucchi, cominciata nel lontano 1608 sotto lo zar Vassilij šujskij. A testimoniarlo è un documento del 1737 firmato dall’Imperatrice Anna Ioanovna, con il quale si assegnava la terra in questione alla vedova di un principe calmucco che giurò fedeltà ai russi e ac- cettò ufficialmente la cristianizzazione. Questo processo forzato portò al drastico cambio di tradizioni e di usanze di 2200 calmucchi abituati alla vita nomade, che continuarono, anche se clandestinamente, a professare il buddismo. Cento anni dopo, l’Imperatore Nicola I ordinò l’espulsione dei calmucchi, esiliati nella zona delle steppe di Orenburg vicino agli Urali. Le esigenze militari e politiche di uno Stato in espansione furono all’origine dello sviluppo della città alla quale spettava la funzione di baluardo nella difesa dei territori acquisiti. All’inizio del Novecento la popolazione si aggirava intorno a 6 mila persone, Stavropol vantava un ospedale, 6 scuole, due alberghi, 6 fabbriche, un mulino ad acqua e quattro mulini a vento. Verso la metà del XX secolo il numero degli abitanti raddoppiò. Nel 1950 Stavropol divenne un grande cantiere con la costruzione di una nuova centrale elettrica sul fiumeV olga, divenuta in seguito famosa e denominata Vladimir Le- nin. Come conseguenza, la vecchia città rimase completamente inondata e negli anni 1953-1955 fu spostata di 18 km. Questo drastico intervento fu poeticamen- te battezzato come ‘seconda nascita’ della città, rientrava nell’ambito del processo dell’industrializzazione accelerata, accompagnata dall’urbanizzazione, che viene definita da alcuni studiosi russi il risultato più significativo dello sviluppo storico della Russia nel XX secolo44.

43 Si vedano i dettagli in: N. Terekhova, Togliatti, l’amico dimenticato. Il leader comunista nella storiografia sovietica e quella russa, “Nuova Storia Contemporanea”, 2, 2014, pp. 115-132. 44 A. Senjavskij, Urbanizacia Rossii v XX veke. Rol’ v istoričeskom processe [Urbanizzazione della Russia nel XX secolo. Il ruolo nel processo storico], Moskva, 2003, p. 3. Sono tante le opere degli studiosi russi su questo tema, ci limitiamo a riportarne solo alcune: A. Senjavskij, Rossijskij gorod v 1960-e – 1980-e gg.[La città russa negli anni 1960-1980], Moskva, 1995; A. Achiezer, Dialektika 102 Natalia Terekhova

La terza nascita appunto è quella legata al nome italiano, che le fu conferito nell’agosto del 1964 subito dopo l’improvvisa morte in Crimea del leader del PCI. Dopo l’accaduto Nikita Chruščiov ebbe una sorta di senso di colpa per la poca ospitalità mostrata, infatti il compagno Togliatti arrivò da Roma apposita- mente per discutere alcuni problemi delicati del movimento operaio internazio- nale, ma l’appuntamente al Cremlino venne rimandato più volte. La tensione nei rapporti tra PCI e il partito comunista sovietico, delineatasi ancora all’inizio degli anni ‘50, si inasprì per l’ennesima volta, anche se i rapporti intergovernativi con l’Italia erano in espansione45. Il ‘caro amico italiano’, leader del più grande partito comunista in Occidente, dovette attendere per avere un’udienza al vertice, passando del tempo nella zona balneare del Mar Nero. Durante la sua visita al campeggio dei pionieri Artek in Crimea, il compagno Togliatti ebbe un malore. I medici, per alcuni giorni, cercarono di salvargli la vita, ma il massimo dirigente sovietico non si recò neanche a salutarlo, presentandosi solo alla cerimonia fune- bre. I testimoni ricordano che Chruščiov prese a cuore l’accaduto ed era rattri- stato dal fatto che un evento così tragico aveva avuto luogo “nel suo territorio”46. Per cancellare l’impressione spiacevole dell’incontro mai avvenuto, il Soviet Supremo deliberò di assegnare il nome del comunista italiano a qualche luogo legato al lungo periodo vissuto dal leader italiano in Unione Sovietica, al riparo dalle persecuzioni del regime di Mussolini. La vecchia Samara portava già il nome del bolscevico Kuibyšev, non si osò toccare la capitale baškira Ufa. La scelta cadde sulla piccola cittadina di Stavropol-sul-Volga (città della Croce) anche se il com- pagno Togliatti non vi era mai stato ed era un ateo convinto. Lo storico Aleksandr Zavalnyj racconta che la popolazione locale era assolutamente contraria al nuovo nome. I contadini dicevano che Togliatti suona bene solo perché così chiamavano i loro vitellini: ‘Tilyati’47. urbanizacii i migrazii v Rossii [Dialettica dell’urbanizzazione e della migrazione in Russia], “Obščestvennye nauki i sovremennost’”, 2000, 1; Y. Pivovarov, Urbanizacia v Rossii v XX veke: predstavlenija i realnost’ [Urbanizzazione in Russia nel XX secolo: idee e realtà],“Obščestvennye nauki i sovremennost”, 2001, 1; A. Karpov, Urbanizacia i sovetskij gorod, [Urbanizzazione e la città sovietica], “Zapad-Rossija-Kavkaz”, 2, Moskva-Stavropol, 2003. 45 Si veda a proposito: A. Gromyko, A. Adamišin, G. Andreotti ed altri (a cura di), SSSR-Italia. Stranicy istorii. Dokumenty i materialy [URSS-Italia. Pagine di storia. Documenti e materiali], Moskva, 1985; F. Bettanin, M. Prozumenščikov, A. Roccucci, A. Salacone (a cura di), L’Italia vista dal Cremlino. Gli anni della distensione negli archivi del Comitato centrale del PCUS 1953-1970, Roma, 2015; A. Salacone, La diplomazia del dialogo. Italia e Unione Sovietica tra distensione e coe- sistenza pacifica 1958-1968, Roma, 2017. 46 E. Žirnov, Poslednij den’ Palmiro [L’ultimo giorno di Palmiro], “Kommersant Vlast”, 36, 11 settembre 2001, p. 56. 47 A. Zaval’nyj, Samarskie sud’by [Le sorti di Samara], Samara, 2010, n.4, p. 37. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana 103

Negli anni Cinquanta e Sessanta, Palmiro Togliatti, tornato in patria nel 1944, cri- ticò furiosamente i proprietari e i dirigenti della Fiat per lo sfruttamento degli operai e gli attivisti del suo partito organizzarono numerosi scioperi nella fabbrica di Torino. In base alle testimonianze raccolte da Valerio Castronovo, la direzione della FIAT, dopo aver appreso il nome del posto scelto per la costruzione dello stabi- limento VAZ, rimase disorientata: nei precedenti 20 anni infatti aveva condotto una politica volta a sradicare tra i propri dipendenti le idee socialiste e comuniste, licenziando proprio i sostenitori di Palmiro Togliatti. Comunque, i proprieta- ri della FIAT preferirono non esporsi. Tra i tecnici italiani giunti a costruire la fabbrica sul Volga vi erano anche quelli che a casa leggevano regolarmente il giornale ‘Unità’. Arrivati in Unione Sovietica, scoprirono ben presto che l’organo di stampa ufficiale del PCI, nell’Unione Sovietica, era vietato perché l’idea della cosiddetta “strada italiana verso il socialismo”, proposta da Palmiro Togliatti sen- za prendere in considerazione le disposizioni ideologiche del PCUS, era respinta dal Partito comunista sovietico, motivo per cui tutte le copie dei giornali italiani venivano sequestrate48. Al momento non abbiamo nessuna prova documentata della partecipazione di comunisti italiani al concepimento e alla realizzazione di questo progetto epocale, nonostante ciò sia diventato un altro mito persistente. Comunque due anni dopo l’apparizione del nome del leader dei comunisti italiani nella toponimia della valle del Volga, venne concluso un accordo tra il gruppo automobilistico FIAT e il Governo sovietico per la costruzione di una gigantesca fabbrica automobilistica. Allora ciò risultava essere il più importante accordo di questo genere nella storia degli scambi internazionali. Il valore dell’ac- cordo era stimato intorno a 642 milioni di dollari di cui 247 milioni venivano destinati all’acquisto di macchinari in Italia, mentre 55 milioni di dollari an- davano spesi per acquisire tecnologie negli Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Svizzera e Germania. Man mano che il progetto veniva sviluppato gli acquisti di macchinari continuavano ad aumentare. Alla fine, solo le forniture di macchinari americani raggiunsero un valore di 50 milioni di dollari. Il nuovo stabilimento sul Volga doveva risolvere i problemi legati all’arretratezza sovietica nella produzione di automobili di massa, dare un impulso all’introduzione di tecnologie avanzate e di moderni metodi gestionali. Grazie alla realizzazione di questo progetto l’URSS entrò nel secolo automobilistico, dando la possibilità alla popolazione sovietica, per la prima volta nella storia del paese comunista, di entrare in possesso di un oggetto più grande del cappotto d’inverno (tutte le case e gli alloggi erano infatti proprietà di Stato).

48 T. Zonova, Italia 2oj poloviny XX veka v sovetskoj istoriografii [L’Italia della II metà del XX secolo nella storiografia sovietica], inPutešestvie , cit., p. 201. 104 Natalia Terekhova

Ad ogni modo, la storia di Togliattigrad non è un fenomeno originale e va inserita all’interno di soluzioni urbanistiche applicate a diversi insediamenti sor- ti durante il regime sovietico: le cosiddette monogoroda (monocittà), concepite come veri laboratori del lavoro comunista nell’ambito del progetto di industria- lizzazione. Un fenomeno sociale e antropologico unico per la sua massiccia pre- senza nel tessuto industriale e demografico, nonché per l’importanza che investi- rono nell’ambito di quel tipo di economia pianificata di mobilizzazione che se- guiva i compiti politici stabiliti dal partito comunista. Un tema che meriterebbe la stesura di un contributo a parte. Purtroppo passò inosservato il cinquantenario di quell’importante episodio della storia economica internazionale che risulta strettamente legato alla storia urbana, alla storia aziendale e alla storia del management. Nel 1966 il governo so- vietico concluse il famoso “contratto del secolo” con la Fiat per la costruzione di uno stabilimento automobilistico gigantesco nel primo paese di ideologia comu- nista e, dopo soli 4 anni, nel 1970, dalla catena di montaggio del Volzskij Avto- mobilnyj Zavod (VAZ) uscirono le prime nuove auto. Diversamente dall’idea di Henry Ford di facilitare gli operai nell’acquisto di autovetture da loro prodotte, in URSS gli operai erano assai ostacolati nel farlo perché si creò da subito un deficit di produzione di un bene che, in assenza di libero mercato, fu distribuito dagli enti incaricati dal partito comunista. Gli operai che in 47 mesi riuscivano a raccogliere la somma necessaria di 5600 rubli dovevano comunque mettersi in lista e attendere altri 7-10 anni. Nondimeno numerose tecnologie d’avanguardia furono trasferite da Ovest a Est, migliaia di ingegneri e tecnici italiani parteciparono alla costruzione del VAZ mentre quattro mila specialisti sovietici visitarono gli impianti produttivi della FIAT a Torino. Le enormi difficoltà riscontrate dal management italiano durante la tappa preparatoria sono descritte brillantemente da Valerio Castrono- vo nel suo FIAT, 1899-1999. Un secolo di storia italiana (1999). L’opera non fu mai tradotta in russo, perciò nel comporre la storia della VAZ nel 2006 gli storici russi49 hanno omesso l’apporto degli imprenditori italiani, concentrandosi sugli sforzi della parte sovietica, che furono altrettanto ingenti. Ciò va considerato alla luce del contesto internazionale di allora, caratterizzato dalle contrapposizio- ni della Guerra fredda, come ben analizzato da Valentina Fava. Secondo la stu- diosa, il ruolo “riservato dai politici nella configurazione postbellica dei blocchi ideologici veniva gradualmente e coerentemente rivisto dai circoli industriali ed

49 S. Zuravlev, A. Sokolov et al. (a cura di), AvtoVAZ mezdu prošlym i buduščim. 1966-2005 [L’Autovaz tra il passato ed il futuro. 1966-2005], Moskva, 2006. Città-laboratorio del lavoro comunista e del fordismo all’italiana 105 imprenditoriali”�50. Ciò può trovare la sua conferma nelle parole del presidente della FIAT Vittorio Valletta che nel 1945 disse all’ambasciatore sovietico a Roma: per il mio paese l’avviamento dei rapporti economici adeguati con l’URSS sarebbe di- ventato un importante contrappeso alla penetrazione del capitale inglese e americano nell’economia italiana51. Gli studiosi della storia dell’azienda torinese ‘armata’ dall’esperienza dell’atti- vità svolta all’estero52, sanno bene come i vertici di essa si muovessero abilmente tra l’Amministrazione americana, il Governo sovietico e le rivendicazioni dei pro- pri operai. Nei due anni precedenti alla firma del contratto, il presidenteV alletta aveva visitato ben quattro volte la Casa Bianca a Washington. Sarebbe quindi una semplificazione considerare il “contratto del secolo” un classico accordo bilatera- le. Anzi, attualmente, gli storici tendono a giudicare i rapporti stretti della FIAT con l’Amministrazione americana un elemento determinante che ha permesso di realizzare la collaborazione tra la fabbrica di Torino e il governo sovietico53. Comunque, lo studio approfondito delle circostanze della terza vita della città di Stavropol-sul-Volga (ora Togliattigrad) come città-laboratorio del lavoro co- munista avviata dagli esponenti dell’industria occidentale, continua a richiedere attenzione dei ricercatori di diversi paesi, confermando l’importanza e il ruolo chiave di una città-luogo di lavoro dove si incrociano concetti assai diversi. Non possiamo non essere d’accordo con la definizione coniata dall’amba- sciatore americano a Mosca a proposito dell’accordo della FIAT con i sovietici: “l’affare del secolo”! Era il 1966 e tutti i giornali del tempo ripresero la notizia, che riscosse interesse e rispetto per gli sforzi congiunti. “Una grande conquista diplomatica, un’operazione politica ed economico-finanziaria senza precedenti realizzata congiuntamente in difficili condizioni”54 dicono gli storici oggi. Sviluppi inaspettati ci hanno permesso di approfondire il tema del “fordismo all’italiana” nel primo paese comunista che basava la sua ideologia sull’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e proibiva ai propri cittadini qual- siasi iniziativa economica che fosse al di fuori di quella statale. Il paese rappresen- tava un sito sperimentale suddiviso in diversi ‘laboratori del lavoro comunista’,

50 V. Fava, La Fiat e la AutoVAZ di Togliatti. Alla ricerca del fordismo perduto, “Storicamente”, 9, 2013. http://www.storicamente.org/07dossier/est/fava.htm 51 V. Castronovo, Con la Russia la storia è tutta a gas, “Il Sole 24 ore”, 14 gennaio, 2011. 52 A. Tappi, Un’impresa italiana nella Spagna di Franco. Il rapporto FIAT-SEAT (1950-1980), Perugia, 2008; R. Chivino, Fiat in Poland, Yugoslavia and Russia as remembered by Riccardo Chivino, Torino, 2015. 53 V. Castronovo, FIAT 1899-1999, p.1059. Si veda anche: V. Fava, La Fiat e la AutoVAZ di Togliatti, cit. 54 V. Fava, ibidem. 106 Natalia Terekhova e uno dei più interessanti divenne Togliattigrad. L’ingrandimento forzato, in un brevissimo arco di tempo, di un piccolo centro di periferia, dove la leadership dell’URSS ha voluto dare inizio a un processo di modernizzazione industriale, non fu un caso isolato, come abbiamo già menzionato. Tuttavia, la specificità di questa città, diventata capitale automobilistica dell’URSS, ebbe conseguenze difficilmente calcolabili all’inizio del progetto, in quanto segnò il passaggio alla proprietà privata e al consumo che, secondo recenti ricerche, potrebbe aver dato inizio al processo di distruzione del regime sovietico dall’interno55.

A conclusione di questo saggio desidero ringraziare il dott. Massimo Spinelli per avermi coadiuvato alla stesura in lingua italiana di questo testo.

55 R. Kononenko, E. Jarskaja-Smirnova, Avtomobil’ ne roskoš’, a sredstvo desovetizacii [L’automobile non è un lusso, ma il mezzo di desovietizzazione], “Sociologičeskij zurnal”,̌ 2009. «Città e Storia», XI, 2017, 1, pp. 107-111, doi: 10.17426/26750, ©2017 Università Roma Tre-CROMA

QUANDO ‘I LUOGHI’ DEL LAVORO CAMBIANO: STORIA DI IMPRESA E DI LAVORATORI Gaetano Zilio Grandi Università Ca’ Foscari Venezia

Queste osservazioni introduttive affrontano un tema che sembrerebbe, prima facie, molto lontano dai temi di cui normalmente si occupa il giuslavorista. Ma è anche vero che i luoghi dell’impresa sono anche i luoghi del lavoro; e che ove si svolgono attività lavorative, ivi si aprono problematiche giuridiche e organiz- zative rilevanti. Tra queste vorrei brevemente affrontare quelle attinenti la normativa su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; i fenomeni di decentramento e esternalizzazione delle attività produttive, anche al di fuori dei confini nazionali; e infine, e soprat- tutto, il rilievo della persona del lavoratore e della sua dignità, quale elemento imprescindibile della relazione sociale tra impresa, nei suoi diversi, anche lontani, luoghi, e appunto lavoratore.

1. Per quanto riguarda la “salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, occorre in verità andare indietro nel tempo; quanto meno all’affermazione, anche nel nostro paese, della rivoluzione industriale, con evidente ritardo rispetto ad altre nazioni. Se precedentemente il lavoro era costituito, quasi esclusivamente, da attivi- tà agricole, e dunque non poneva altri problemi che quelli di una correzione dell’orario massimo di lavoro (v. r.d. l. 692/1923), è infatti solo con l’industria- lizzazione, e parallelamente con i fenomeni della emigrazione sud/nord, che si pongono ulteriori questioni. In prima battuta ciò significa che i ‘luoghi’ del la- voro si spostano già all’interno del nostro paese: dalle campagne del centro-sud, alle fabbriche della Lombardia. E già questo deve apparire agli occhi dello storico come qualcosa di rilevante, seppure collocato in fondo solo un centinaio di anni orsono. In seconda battuta, il passaggio da una attività fondamentalmente manuale, nel senso di assenza di macchinari, ad un modo di lavorare collegato alla pre- senza di “macchine inanimate”, come recita la normativa in materia di infortuni sul lavoro (v. il testo unico d.p.r. 1124/1965, ma in realtà già la legge istitutiva dell’obbligo assicurativo del 1898), ha posto, ovviamente, problemi specifici con riguardo alla tutela della persona del lavoratore, che costituisce, come si vedrà 108 Gaetano Zilio Grandi in conclusione, il vero ‘faro’ delle nostre considerazioni. Se i luoghi di lavoro, dunque, possono creare nuovi rischi ai lavoratori, ben si comprende in tutta la sua portata l’art. 2087 del codice, tipico esempio di norma ‘aperta’ nella materia lavoristica. Affiancato dall’art. 2043 e da altre norme non indifferenti al tema, quale ad esempio l’art. 2059, l’art. 2087 del nostro codice introduce un fondamentale principio, ovvero quello per cui il datore di lavoro deve adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (subordi- nati, aggiungiamo noi). Vero è che ad esso seguono norme speciali (i c.d. decreti prevenzionistici della metà degli anni ’50), ma è sull’art. 2087 che si erige la costruzione di un sistema di protezione dei lavoratori, ovunque essi svolgano la propria attività sul territorio nazionale, che viene poi raccolto dal ‘mitico’ d.lgs. 626/1994 e quindi dal testo unico 81/2008.

2. Ma ecco che abbiamo toccato il secondo tema posto all’inizio. Anche l’im- presa – e non solo i prestatori di lavoro – si muove; essa come un’agile tenda1 si sposta laddove trova fattori di produzione maggiormente convenienti, siano essi amministrativi, logistici e di altro genere, oltre che ovviamente, di costo del lavoro. è così che si apre un percorso che arriva a superare, come immaginabile, i confini dello Stato, muovendosi sotto la spinta del vento della globalizzazione dei mercati ma anche, e soprattutto, di una tendenziale e generalizzata riduzione dei trattamenti economici e normativi garantiti ai lavoratori subordinati. In una parola la ‘produzione’ segue il sentiero tracciato dal risparmio dei costi del lavoro; dapprima spostandosi leggermente – e con modalità organizzative che meritano l’attenzione dei colleghi aziendalisti – verso l’Est Europa; e poi, una volta che l’Europa si allarga cercando ulteriori spazi che divengono, ad un tempo, luoghi di produzione più economici e nuovi mercati, cercando e trovando nuovi ‘terri- tori’ ove insediarsi. Saldandosi così le due tipiche e centrali esigenze dell’impresa contemporanea: ‘risparmiare e vendere’ di più all’estero, anche in considerazione del forte appiattimento del mercato interno. Solo che così facendo le imprese, originariamente italiane, ma oramai multi- nazionali, paradossalmente attivano meccanismi reattivi sia da parte delle orga- nizzazioni internazionali preposte a vigilare su tali fenomeni (ad es. l’OIL, ma con scarso successo), sia da parte degli stessi paesi ove le produzioni si spostano, perché si afferma l’idea che essi stessi dovrebbero in qualche modo limitare le la-

1 V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, 2006. QUANDO ‘I LUOGHI’ DEL LAVORO CAMBIANO 109 vorazioni non rispondenti agli standard del diritto del lavoro internazionale (mi- nori, lavoro notturno, lavoro in schiavitù, etc.); ma, così facendo, condannandosi ad una nuova marginalità economica, in contesti geopolitici, peraltro, tutt’altro che tranquilli. E a nulla sembra aver portato, almeno sul piano della efficacia dissuasiva (mancando una sostanziale reazione) la tecnica, pure brillantemente sostenuta da parte della dottrina, dei c.d. codici di condotta2. Se dunque negli anni ’60 e ’70 si poteva parlare di decentramento, cui faceva riscontro una normativa antifraudolenta, che continua in parte a svolgere ancor oggi i propri effetti (la pur abrogata legge 1369/60, ma anche la legge sul lavoro a domicilio nella sua versione smart working), diverse sono state le più recenti tecniche attraverso le quali l’impresa e il lavoro cambiano ‘luogo’. A partire dal 1996 la scissione tra impresa datrice di lavoro e impresa utilizzatrice scalfisce uno dei paradigmi del diritto del lavoro subordinato la corrispettività bilaterale del contratto. Per dirla con un cantante, lei chi è (l’impresa utilizzatrice, datore di lavoro sostanziale)? E invece questo schema, solo accennato quale mera deroga nella legge 196/1997, trova pieno accoglimento nella riforma Biagi (d.lgs. 276/2003) non solo nella “somministrazione di lavoro” ma anche negli istituti del “distacco” (anche comunitario) e, più di recente, nella “rete di imprese” (legge 33/2009 e quindi legge 99/2013). Senza considerare che il “trasferimento d’azienda” e soprattutto del ramo d’azienda, diviene uno strumento classico di gestione delle crisi imprenditoriali e produttive (art. 2112 del codice civile, ma alla luce dell’e- norme dibattito giurisprudenziale e delle modifiche al testo normativo). Arrivando, infine e come già anticipato, alla configurazione di una impresa ‘globale’ in un’economia ‘globalizzata’ e con un lavoro senza più confini la fabbri- ca diviene cioè reperto di archeologia industriale, sostituito da distretti, gruppi, reti, o addirittura un algoritmo, causa scatenante di quella che oggi viene definita Gig Economy3. Le conseguenze di tale stato delle cose sono sotto gli occhi di tutti. Il lavoro non solo si riduce quantitativamente ma perde di peso specifico qualitativo; non solo spesso temporaneo ma ‘ordinariamente’ limitato: mini Jobs, voucher, “lavoro intermittente”, “somministrato”, “a tempo determinato” e, nel migliore dei casi, a tempo indeterminato ma “a tutele crescenti”: ovvero con possibilità di recesso salva (solo) una indennità risarcitoria (d.lgs. 23/2015).

2 A. Perulli, Diritto del lavoro e globalizzazione: clausole sociali, codici di condotta e commercio internazionale, Padova, 1999. 3 D. Garofalo, Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative, Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale, WP 04/2017. 110 Gaetano Zilio Grandi

3. In tale contesto, indubbiamente cambiato anche rispetto al più recente pas- sato, e reso vieppiù problematico dell’inseguirsi di distinte ed eterogenee crisi economiche e finanziarie, salta agli occhi il ruolo sempre più defilato non tanto del lavoro – perché la fine del lavoro (Rifkin) non appare realistica, mentre va se- riamente valutata la sorte dei prestatori di lavoro; più correttamente dei lavoratori autonomi oltre che dei subordinati. Ma le norme costituzionali italiane sono particolarmente chiare su un princi- pio che qui interessa: la dignità della persone e, dunque, del lavoratore, di qua- lunque lavoratore, a prescindere dallo schema contrattuale adottato. L’art. 41, c. 2, è illuminante: l’iniziativa economica privata è libera ma nei limiti, appunto, della tutela della “dignità umana”. Il punto sta proprio qui. Come scritto parecchio tempo addietro, dobbiamo domandarci se “la dignità umana ha un prezzo”. Ciò che potrebbe desumersi prima facie dalle recenti riforme del c.d. Jobs Act (legge delega 183/2014, d.lgs 22 e 23/2015 e 81/2015) 4. E, riprendendo la domanda iniziale, non possiamo non vedere come cambiando i luoghi dell’impresa mutino anche quelli del lavoro: quel lavoro, specie manifat- turiero5, che è scomparso invero non ritornerà più, almeno nelle stesse forme e numeri. Eccessivo è infatti il divario tra i costi delle lavorazioni tra il nostro ed altri ordinamenti e, come accennato, non ci sono codici di condotta o clausole sociali che tengano. E allora è su un altro versante che il nostro sistema-paese deve investi- re: deve a nostro avviso conservare quell’area di ‘lavoro autonomo’ che il legislatore invece sembra perseguitare (art. 2 d.lgs. 81/2015), in quanto presuntivamente rite- nuto non genuino; deve realmente occuparsi della tutela ‘nel mercato’ del lavoro in un contesto nel quale, e non da oggi, le fasi di lavoro e non lavoro saranno sempre più frequenti (non basta creare un’agenzia, Anpal); deve infine – e torniamo al no- stro tema – valorizzare i ‘luoghi’ e altresì le caratteristiche delle produzioni italiane: non per un mal-nascosto vezzo di nazionalismo, ma in quanto, a prescindere dallo schema contrattuale utilizzato (subordinazione, autonomia, collaborazioni, con- tratti di subfornitura, etc.), è quello che il nostro paese sa fare meglio.

4 G. Zilio Grandi, Anche la dignità umana ha un prezzo: licenziamento illegittimo e art. 41, 2° comma Cost., “Giurisprudenza italiana”, I, 1991, 1; M. Biasi, G. Zilio Grandi, Contratto di rete e diritto del lavoro, Padova, 2014; M.T. Carinci, Dall’impresa a rete alle reti d’impresa: scelte organizzative e diritto del lavoro: atti del Convegno internazionale di studio, Università di Milano, 26-27 giugno 2014, Milano, 2015; I. Alvino, Percorso di lettura su reti di imprese e diritto del la- voro, “Giornale di Diritto del lavoro e relazioni industriali”, 154, 2017; M.G. Grieco, Il rapporto di lavoro nell’impresa multidatoriale, Torino, 2017; P. Saccomanno, Il contratto di rete: profili di un’indagine aperta, “Contratto e impresa”, 2017, 2. 5 S. Micelli, Fare è innovare. Il nuovo lavoro artigiano, Bologna, 2016. QUANDO ‘I LUOGHI’ DEL LAVORO CAMBIANO 111

I ‘luoghi’, dunque, della produzione tornano ad essere il momento di congiun- zione virtuosa tra impresa e lavoro, non più in una logica di contrapposizione ma di sempre più intensa collaborazione. A questo il legislatore, le parti sociali, gli osservatori debbono a nostro avviso guardare, avendo comunque come stella polare la dignità umana del singolo lavoratore, valore costituzionalmente impre- scindibile6.

6 L. Guaglione, F. Malzani, Come cambia l’ambiente di lavoro: regole, rischi, tecnologie, Milano, 2007; F. Malzani, Ambiente di lavoro e tutela della persona: diritti e rimedi, Milano, 2014. «Città e Storia», XI, 2017, 1, pp. 113-130, doi: 10.17426/25192, ©2017 Università Roma Tre-CROMA

Saggi

Marquer et pratiquer les lisiÈres urbaines Les portes de ville À l’Époque moderne Brigitte Marin Aix Marseille Univ, CNRS, TELEMME

Abstract: Based on the Portes et périphéries articles published in «Città e Storia» (2016/2), this work examines city gates in the early modern period in their architectural dimension, as monuments, and in their material, social and symbolic functions. The latter involve setting specific communities and their activities, organising circulations and controlling exchanges, and defining internal and external territorialities. The Portes et périphéries articles explore how, beyond their significance as monuments, citizens and travellers make these gates their own. It opens new paths of enquiry by crossing basic elements of urban modelling as defined over the centuries, with the significance these gates have been given by different communities according to their uses, their management, their rearranging, and how they have been integrated into various narrative and visual contexts. Keywords: City Gates; Monumentality; Mobility; Neighbourhoods; Memory.

Organisée dans le cadre du projet Settling in motion. Mobility and the making of the urban space in the early modern cities, coordonné par Eleonora Canepari et soutenu par la Fondation A*Midex, Initiative d’Excellence d’Aix-Marseille Uni- versité, la journée d’études intitulée « Portes et faubourgs dans les villes modernes. Lieux, espaces, pratiques sociales »1, dont les contributions ont été publiées dans « Città e Storia » (dossier Portes et périphéries, 2016, XI, 2), invitait à une analyse des seuils et des bordures de la cité à partir de leur dimension sociale, en mettant l’accent sur les expériences des habitants et sur leurs mobilités, en relation avec les fonctions de passage et d’accès à la ville de ces lieux, qui articulent l’intérieur et l’extérieur de la cité, les territoires intra-muros et les marges urbaines ou, encore au-delà, leurs arrière-pays. Les articles de ce dossier suggèrent, à la lumière des études sur les ceintures et les périphéries urbaines, quelques observations et points de discussion qui,

1 Journée d’études organisée par E. Canepari et N. Vidoni, Maison méditerranéenne des sciences de l’homme, Aix-en-Provence, 25 novembre 2015, avec le soutien du Laboratoire International Associé « MediterraPolis – Espaces urbains, mobilités, citadinités. Europe méridio- nale-Méditerranée. XVe-XXIe siècle ». Ce travail a bénéficié d’une aide du gouvernement français, gérée par l’Agence Nationale de la recherche au titre du projet Investissement d’Avenir A*MIDEX portant la référence n° ANR-11-IDEX-0001-02. 114 Brigitte Marin dans les pages qui suivent, regarderont essentiellement les portes et leurs usages sociaux, saisis dans leurs effets sur les structures et l’organisation matérielles des villes comme sur la perception des espaces urbains par les contemporains.

1. Comme le mentionne le Dictionnaire universel de Furetière, “porte”, ce « passage ou vuide pratiqué exprès dans un mur pour donner entrée dans le bâtiment » s’est dit « premièrement des villes »2, avant de prendre l’acception générique qu’on lui connaît : c’est donc « par excellence un mot de la ville »3. Cette construction singulière, parfois monumentale, inséparable de la muraille qui défend la ville et la définit tout à la fois4, a en premier lieu été étudiée du point de vue de son architecture et des techniques de fortification, dans une perspective d’histoire militaire et d’histoire de l’urbanisme. La porte impose en effet sa silhouette dans le paysage ; elle signale la cité, dans l’Europe occidentale moderne, à ceux qui s’en approchent, et s’expose au regard de ceux qui arrivent comme un seuil à franchir pour pénétrer dans le tissu urbain. Elle manifeste la présence physique de la ville sur le territoire, son ordre matériel comme sa dimen- sion symbolique, à savoir l’idéal urbain d’une communauté unie, réglée et har- monieuse5. Composante cardinale de “la certitude du paysage”6 urbain, la porte, par ses caractères architectoniques et ses ornements, délivre un message sur la ville, donne à entendre sa grandeur, sa gloire ou la majesté de ses pouvoirs. Dans son analyse iconographique de la Porta Romana de Milan, érigée au XIe siècle et détruite, avec les fortifications adjacentes de la Rocchetta, à la fin du XVIIIe

2 A. Furetière, Dictionnaire universel, contenant généralement tous les mots français, tant vieux que modernes, et les termes de toutes les sciences et des arts, Paris, 1690, “porte”. 3 Notice “porte” de C. Lamarre, in Ch. Topalov, L. Coudroy de Lille, J.-Ch. Depaule et B. Marin (dir.), L’aventure des mots de la ville à travers le temps, les langues, les sociétés, Paris, 2010, pp. 972-976 : 972. 4 Le critère de la “clôture commune” est une composante essentielle de la définition de la ville sous l’Ancien Régime, souvent rappelé dans les définitions des dictionnaires de l’époque. Cf. C. Lamarre, “ville”, in Ch. Topalov, L. Coudroy de Lille, J.-Ch. Depaule et B. Marin (dir.), L’aventure des mots de la ville à travers le temps, les langues, les sociétés, cit., pp. 1315-1320. 5 Ainsi, dans l’“Allégorie du Bon Gouvernement” (1338-1340), fresque du palais communal de Sienne d’Ambrogio Lorenzetti, « la muraille et la porte séparent radicalement deux espaces, l’intérieur de la cité et le contado soumis à sa loi […]. La porte de la cité est le lieu où s’articulent les deux versants, intérieur et extérieur, de l’espace politique et de l’empire de la justice, garantis par les figures allégoriques du Bon Gouvernement face à la Tyrannie », J.-Cl. Schmitt, Le seuil et la porte. À propos de la Porta Romana de Milan, in P. Boucheron, J.-Ph. Genet (dir.), Marquer la ville. Signes, traces, empreintes du pouvoir (XIIIe-XVIe siècle), Paris-Roma, 2013, pp. 167-168. 6 J’emprunte l’expression à M. Roncayolo, La ville et ses territoires, Paris, 1990, p. 37 : « La ville classique d’Europe occidentale, enfermée dans ses murs, bien définie par rapport au plat pays, offre la certitude du paysage ». Voir aussi C. De Seta, Le mura simbolo della città, in C. De Seta, J. Le Goff (a cura di), La città e le mura, Roma-Bari, 1989, pp. 11-12. Les portes de ville À l’Époque moderne 115

Fig. 1 - Hartmann Schedel, Roma, Liber chronicarum, Nuremberg, 1493. siècle, Jean-Claude Schmitt a mis en évidence des « homologies formelles entre la porte de la ville et le porche de l’église » qui montrent « la circulation de modèles idéologiques entre l’ecclesia, pensée traditionnellement comme le ‘seuil’ ou la ‘porte’ de la cité céleste, et la communauté urbaine, jalouse de son indépendance et trouvant dans le décor de ses portes fortifiées le ‘vecteur’ des valeurs attachées à la liberté urbaine »7. Expression d’une conception protectrice, unificatrice et ordonnée du corps urbain, la porte matérialise, par ses lignes architecturales, ses sculptures et ses inscriptions, le prestige singulier et l’histoire glorieuse de la cité. Comme le résume Vincenzo Ruffo, auteur d’un programme d’embellissements de la ville de Naples à la fin du XVIIIe siècle, la porte doit montrer « la magni- ficenza, e grandiosità della città che si va ad abitare »8. Aussi les portes ont-elles été abondamment décrites et représentées dans les récits de voyage, les guides, les descriptions, les gravures, etc. pendant les siècles des temps modernes. Comme l’a remarqué Claudio Canonici, « a partire della Roma instaurata [Flavio Biondo da Forlì, 1444-1446], la descrizione del sistema delle porte di Roma […] diventa un elemento centrale della rappresentazione della città e della sua immagine »9. On peut observer, par exemple, la place qu’occupent les portes, situées au premier plan, dans la vue de Rome d’Hartmann Schedel en 1493 (fig. 1).

7 J.-Cl. Schmitt, Le seuil et la porte…, cit., p. 174. 8 V. Ruffo, Saggio sull’abbellimento di cui è capace la città di Napoli, Napoli, 1789, p. 24. 9 C. Canonici, Per una storia culturale, istituzionale e sociale di un ‘non-luogo’. Le porte di Roma e l’immagine della città, in M. Boiteux, M. Caffiero, B. Marin (a cura di), I luoghi della città. Roma moderna e contemporanea, Roma, 2010, pp. 119-151 : 127. Voir aussi « Roma moderna e contem- poranea », XXII, 2014, 1, dossier Entrare in città. Le porte di Roma, G. Bonaccorso, C. Conforti (a cura di). 116 Brigitte Marin

Nombreux sont les éléments matériels qui signalent les multiples fonctions des portes. En premier lieu, celles-ci marquent les limites de la ville et, par l’ouverture percée dans l’enceinte, l’espace d’un franchissement possible et contrôlable. Chaînes, grilles, postes de garde, clefs, indiquent cette fonction de gestion des flux d’entrée et de sortie, outillée par la porte, comme la protection qu’elle offre aux habitants en se refermant devant les troubles, les assauts ou les menaces de contagions. Par ailleurs, l’aspect visuel des portes, les éléments décoratifs, véhiculent un message, celui des pouvoirs urbains. Pour l’architecte Francesco Milizia, « le porte pubbliche destinate alla custodia ed alla sicurezza delle città debbono, come le porte degli edi- fizi privati, spiegare diverso carattere secondo l’indole della città, o secondo i siti particolari dove sono collocate ». Aussi, recommande-t-il, pour les places d’armes et les citadelles, d’en rehausser la solidité et l’aspect militaire, tandis qu’aux places marchandes, sera plus appropriée « un indole di modestia conveniente alla natu- ra del commercio »10. Dans les faits, ce rôle d’expression générique d’une identité citadine n’est pas uniformément confié à toutes les portes d’une enceinte urbaine, loin s’en faut. Leur conformation est plutôt le produit de circonstances localisées, de contextes sociaux et spatiaux particuliers, qui en déclinent mille singularités. À Naples, les portes de l’enceinte littorale, mesquines, privées de décoration, chargées de médiocres constructions entassées, dénotent la vocation commerciale et produc- tive de cette zone maritime. A contrario, Porta Capuana ou Porta Reale ont une fonction affirmée de représentation qui se manifeste dans leur architecture et leurs éléments décoratifs. Porta Capuana donne en effet accès à une des principales rues de la ville, le decumanus majeur (via dei Tribunali) qui traverse la cité d’est en ouest. Aussi fut-elle reconstruite sous les Aragonais, au moment de l’édification de la nou- velle enceinte à partir de 1484, sous la forme d’un arc revêtu de marbre blanc de Carrare, entre deux imposantes tours cylindriques, Onore et Virtù, par l’architecte Giuliano da Maiano (fig. 2). C’est par cette porte que les troupes de CharlesVIII pénétrèrent dans la ville en 1495, que Charles Quint fit son entrée triomphale en 1535 – Porta Capuana s’orne alors du blason de l’empereur en mémoire de cet évé- nement –, ou encore que Charles de Bourbon prit possession de la ville le 10 mai 1734. Porta Reale, également appelée Porta dello Spirito Santo, décorée de blasons et d’inscriptions, magnifiait la nouvelle entrée septentrionale de la ville, à l’extrémité de la nouvelle rue ouverte en 1536 par le vice-roi Pedro de Toledo (fig. 3). L’aspect des portes illustre donc leur caractère polyfonctionnel et ses gradients ; elles sont plus ou moins tournées vers telle ou telle autre fonction (militaire, fiscale, monumentale, etc.) en lien avec leur localisation et leurs rapports avec d’autres éléments du tissu urbain (rue, place, marché, forteresse, édifices publics, etc.), situés à proximité.

10 F. Milizia, Principj di archittetura civile [1785], éd. par G. Atolini, Milano, 1847, p. 298. Les portes de ville À l’Époque moderne 117

Fig. 2 - Porta Capuana, Naples, photographie de Brigitte Marin (CC BY-NC-ND).

Fig. 3 - Détail de la vue d’Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis Neapolitanae cum omnibus viis accurata et nova delineatio, 1670 (Bibliothèque nationale de France), avec l’emplacement de la Porta Reale à l’extrémité de la via Toledo. 118 Brigitte Marin

Fig. 4 - Porta San Gennaro, Naples, photographie de Brigitte Marin (CC BY-NC-ND) (fresque de Mattia Preti avec San Gennaro, Santa Rosalia et San Francesco Saverio).

Enfin, les portes, dans leur dimension monumentale, répondent souvent davantage aux exigences symboliques de l’État et de l’Église qu’à des fonctions concrètes, nécessaires à la vie quotidienne des habitants ; elles deviennent alors des lieux centraux dans le déroulement des rituels urbains politico-religieux. Elles peuvent être les supports d’une sacralisation de l’espace, comme après la peste de 1656, lorsque la ville de Naples commande au peintre Mattia Preti une série d’images de la Vierge et des saints protecteurs de la cité, placées au-dessus des portes de la ville, comme on peut le voir aujourd’hui encore Porta San Gennaro (fig. 4). Plus souvent, cette symbolique de l’ordre de la ville, ainsi manifeste à ceux qui y arrivent ou veulent s’y installer, exalte la grandeur des pouvoirs sou- verains. La Porta d’Alcalà, réalisée à Madrid entre 1769 et 1778 par Francesco Sabatini, à la gloire de Charles III, pour commémorer le début de son règne et son installation dans cette capitale en 1759, reprend le modèle des arcs de triomphe romains (fig. 5). Les portes de ville À l’Époque moderne 119

Fig. 5 - Vue de la porte d’Alcalá, une des principales de Madrid, gravure d’Esteban Boix, dessin de José Gómez de Navia, fin du XVIIIe siècle (CC BY-NC 2.5 ES).

2. À distance d’une approche classique centrée sur la construction, la monu- mentalité et la décoration, la rencontre proposait de porter l’attention sur les usages qui mettent en évidence les diverses fonctions des portes et leurs significa- tions comme lieux de passage, de médiation, pour ceux qui entrent dans la ville comme pour ceux qui en sortent. Deux éléments doivent être alors croisés pour prendre la mesure du rôle des portes dans la ville : la mobilité des hommes et des biens qui “passent” par les portes, celles-ci étant autant d’instruments de contrôle des flux pour des raisons fiscales, sanitaires ou de sécurité ; et les activités, avec leurs empreintes matérielles, qui au contraire s’implantent, temporairement ou durablement, sur ces carrefours d’échanges et de circulation. Cette double ca- ractérisation, entre mouvement et fixation, renforce la complexité des pratiques sociales qui, aux portes de la ville, s’imbriquent les unes avec les autres, et qui mettent en contact des acteurs nombreux et divers. Ce déplacement du regard conduit à mieux saisir, à travers les usages, les perméabilités entre l’intérieur de la 120 Brigitte Marin cité et les territoires environnants, alors que l’approche par la matérialité, dans la continuité avec l’enceinte, marque davantage la limite qui distingue deux aires, celle de la protection et du privilège citadins, à l’intérieur, et celle du risque et de l’insécurité à l’extérieur. Autour de ce lieu qu’est la porte circulent et se fixent des individus qui, par leurs façons d’habiter l’espace, de travailler et de vivre la ville, transforment cet espace-seuil. Restituer des comportements et des pratiques autour des portes per- met de mettre en lumière la production quotidienne de l’espace par la diversité des usages, individuels et collectifs. Cet élément du bâti est alors moins identifié comme un point de rupture et de séparation dans la morphologie urbaine, que comme un micro-territoire de contacts, un pôle agrégateur d’activités, celles des habitants comme de ceux qui se rendent temporairement en ville. L’intensité des passages et des fréquentations, les mobilités quotidiennes, font du reste de ces portes des points d’information essentiels, puisque ce sont des lieux privilégiés pour les publications officielles, leurs cris et leurs affichages11. Point de transit, la porte est le lieu, pour ceux qui entrent et sortent de la ville, où se vivent des expériences singulières de la viscosité de l’espace et des contraintes que celui-ci fait peser sur les corps et leurs déplacements. Les moda- lités d’accès ont moins à voir avec l’architecture, encore que les dispositifs visuels et matériels agissent sur les corps et les contraignent, qu’avec des usages et des conjonctures. Quotidiens, saisonniers ou d’exception lors des moments d’alerte, les rythmes d’ouverture et de fermeture gouvernent la vie citadine. La porte exige des tactiques et des ruses lorsqu’il faut tromper les gardes postés à cet endroit12. Par temps de conflit, elle peut devenir seuil de vie. Une fable d’Al-Fârâbî, phi- losophe du Xe siècle, illustre le pouvoir contraignant de la porte sur les corps, et les stratagèmes imaginés pour en détourner les menaces. Elle met en scène un ascète persécuté par un sultan tyrannique qui interdit qu’il ne sorte de la cité pour se réfugier ailleurs. Aussi est-ce à la porte que se joue sa vie lorsque, déguisé en noceur pris de boisson, il répond au garde qui lui demande qui il est, sur le ton

11 L. Cuvelier a mis en évidence l’« importance des portes dans la géographie de l’information parisienne » (p. 325), tant pour l’affichage officiel que pour la communication d’annonces de spec- tacles ou d’autres faits particuliers, usages qui donnent forme, en ces lieux, à de nouvelles pratiques citadines autant que policières : Des espaces périphériques au cœur de la diffusion de l’information. Portes parisiennes et affichage au XVIIIe siècle, « Città e Storia », XI, 2016, 2, pp. 323-337. 12 A. Montenach a mis en évidence, sur le cas de Lyon, la place des portes dans la topo- graphie de la fraude et le rôle des femmes dans ces passages liés à des formes illégales de commerce. Cf. “Il entre plus que jamais dans cette ville des marchandises de contrebande”. Portes et périphéries dans l’économie clandestine aux XVIIe et XVIIIe siècles : l’exemple de Lyon, « Città e Storia », XI, 2016, 2, pp. 233-246. Les portes de ville À l’Époque moderne 121 de la boutade, qu’il est l’ascète recherché : « le garde supposa donc qu’il se moquait, ne s’opposa pas à son passage, et il trouva le salut sans avoir rien dit de faux »13. Dans son Journal de voyage en Italie (1580-1581), Montaigne témoigne, à Ferrare par exemple, du contrôle des papiers d’identification et des billets de santé, par lequel les cités cherchent à se préserver de la peste, préalable à l’entrée dans la ville : « Là, pour leur foi et bollette, on nous arrêta longtemps à la porte, et ainsi à tous »14 . À Lucques, « les étrangers n’y entrent que par une porte où il y a une grosse garde »15. À Augsbourg, il décrit en détail une double porte avec pont-levis, dont l’ouverture et la fermeture sont actionnées par d’ingénieux mécanismes, « une des plus artificielles choses qui se puisse voir », à telle enseigne que « la reine d’Angleterre a envoyé un ambassadeur exprès pour prier la seigneurie de découvrir l’usage de ces engins ». Par cette porte, où les gardes exigent un droit de franchissement, on reçoit à toutes heures de la nuit quiconque y veut entrer soit à pied, soit à cheval, pourvu qu’il dise son nom, et à qui il a son adresse dans la ville, ou le nom de l’hôtellerie qu’il cherche. Deux hommes fidèles, gagés de la ville, président à cette entrée. […] La porte qui répond au-dehors, est une porte revêtue de fer : à côté, il y a une pièce de fer qui tient à une chaîne, laquelle pièce de fer l’on tire […] celui qui est entré se trouve dans un pont […] Quand ce pont est passé, on se trouve dans une petite place où on parle à ce premier portier, et dit-on son nom et son adresse […]16. Une petite barrière de fer est alors d’abord ouverte, donnant accès au pont- levis, après lequel une nouvelle porte s’ouvre sur une salle où l’étranger paie la somme due pour son passage, avant de pénétrer enfin dans la ville par une der- nière “grosse porte” qui se clôt derrière lui. Au temps de la Ligue, les portes de Pa- ris sont incessamment surveillées par les gardes. Là sont vérifiées les identités des personnes qui entrent et sortent – les passeports se généralisent en cette période de conflit –, comme en témoignent de nombreuses arrestations17. La porte est aussi l’instrument des tentatives, vaines le plus souvent, de contrôles migratoires. Ainsi, à Milan, dès le XVe siècle, « incapace di arginare il flusso dei ‘montanari’ e ‘vallarani’ che fuggono le carestie e la miseria, il potere ducale tenta di stabilirli

13 Al-Fârâbi, Le Compendium des Lois de Platon, cité par A. Benmakhlouf, L’identité. Une fable philosophique, Paris, 2011, p. 20. 14 M. de Montaigne, Journal de voyage en Italie, in Œuvres complètes, Paris, 1967, p. 483 (arri- vée à Ferrare le 16 novembre 1580). 15 Ibidem, p. 511 (5 mai 1581). 16 Ibidem, pp. 471-472 (octobre 1580). 17 D. Roussel, Aux portes de Paris : savoirs sociaux urbains et épreuves de seuils au XVIe siècle, « Città e Storia », XI, 2016, 2, pp. 287-304 (en particulier pp. 300-303 sur les modalités d’identification au passage des portes). 122 Brigitte Marin alle porte della città »18. Cette fonction de filtre, cette position médiane entre le dehors et le dedans, la porte étant à la fois ce qui autorise l’accès ou le contact, et ce qui exclut, sépare, tient à distance, est représentée de façon emblématique dans la communauté idéale imaginée par Tommaso Campanella au début du XVIIe siècle. L’espace de la Cité du Soleil est organisé par quatre rues et quatre portes en correspondance avec les points cardinaux. Ses habitants échangent des biens avec des marchands « des diverses parties du monde », mais pour « ne pas laisser corrompre les mœurs par les esclaves et les étrangers », ils cantonnent ce commerce aux lisières urbaines : « c’est pourquoi toute vente et tout achat se fait aux portes de la ville »19. Si la porte est un instrument de gestion des flux d’entrée et de sortie, des hommes comme des biens, avec ses dispositifs de contrôle, liés à la sécurité et à la fiscalité, cette interface entre les faubourgs et la ville est aussi un lieu de fixation d’activités qui acquièrent ainsi une visibilité particulière. La place occupée par ces activités, en situation de limite, est alors loin d’être synonyme de marginalité, de relégation ou de subordination. Les pratiques de l’échange s’y manifestent sous des formes intenses et variées, et les étals des marchés y génèrent des espaces où les recoins les plus étroits sont âprement disputés et embarrassent les circulations. Les images pittoresques de Naples au XIXe siècle montrent les portes conges- tionnées de présentoirs, de paniers, de charriots exposant à la vente des denrées de toutes sortes ; un spectacle encore quotidien dans cette ville au début du XXe siècle, comme l’observe Giuseppe Porcaro : Fino a cinquanta anni fa, si può dire, i larghi ai due ingressi della porta [Capuana], e per- sino il suo atrio, erano ancora, come facilmente può osservarsi sulle oleografiche cartoline del tempo, letteralmente invasi ed assediati da puosti di venditori dei più disparati generi, specie commestibili20 (fig. 6). Mais les portes ne sont pas seulement des lieux d’agrégation de vendeurs au détail et d’ambulants, cherchant à tirer parti d’un lieu de passage fréquenté. Des équipements centraux de la vie citadine s’y installent aussi durablement, pour des raisons logistiques (transports, chargements et déchargements de biens encom- brants), d’accessibilité et de sécurité. Les “fosse del grano”, le grand grenier à grain de la ville de Naples est ainsi édifié, à partir du XVIe siècle, au dos de la muraille, “fuori porta reale”. Cette localisation présentait l’avantage d’éloigner

18 P. Boucheron, Milano e i suoi sobborghi: identità urbana e pratiche socio-economiche ai confini di uno spazio incerto (1400 ca - 1550 ca), « Società e storia », XVII, 2006, 112, p. 243. 19 T. Campanella, La Cité du Soleil ou idée d’une république philosophique [1602], in Œuvres choisies de Campanella, Paris, 1844, p. 201. 20 G. Porcaro, Le porte di Napoli, Napoli, 1970, p. 31. Les portes de ville À l’Époque moderne 123

Fig. 6 - Rudolf von Alt, Porta Capuana, 1867, Neue Pinacothek de Munich (CC BY-SA 4.0). du centre de la ville, densément habité, de grandes masses de céréales, présentant des risques d’explosion, d’incendie, voire, comme on le croyait alors, de “conta- gion” par leur émission de gaz, de disposer de l’espace nécessaire aux manœuvres des véhicules de transport, tout en assurant aisément leur sécurité aux abords de l’enceinte21. Ailleurs, comme en Bourgogne, une salle d’assemblée, un beffroi, voire le siège même de la municipalité, pouvait, au Moyen Âge et ultérieure- ment, prendre place au-dessus d’une porte urbaine22. La densité des activités qui se concentrent autour des portes de la médina de Tunis se matérialise dans des marchés, polyvalents et spécialisés, des mosquées du côté intérieur et extérieur, des hammams, des fondouks pour abriter les marchands et leurs marchandises. D’autres s’implantent encore aux portes qui donnent accès aux deux faubourgs,

21 « È vero che l’annona vol star dentro; ma per questa machina non havemo loco capace dentro la città; oltre c’havendo loco, saria pericoloso di contagione, già che sapete molto bene che la polvere e la puzza del grano è pestifera, e che stando fora non offende l’habitato. Ma avertirete bene che ad ogni modo il grano è dentro, mentre la fabrica è congionta con torrioni delle mura, guardata in modo che non può temere ». G.C. Capaccio, Il Forastiero, Napoli, 1634, p. 819. 22 C. Lamarre, Petites villes et fait urbain en France au XVIIIe siècle, Dijon, 1993, p. 571 sq. 124 Brigitte Marin au nord et au sud, et où l’on perçoit les taxes, pour l’accueil des ruraux venant vendre les productions agricoles sur les marchés urbains23. Partout, ce sont aussi de multiples espaces, en lien avec la présence de la porte, qui, autour de cette dernière, aussi bien à l’intérieur qu’à l’extérieur, de taille souvent fort réduite, font l’objet d’une dense réglementation des usages. Par exemple, dès 1560, en relation avec la magnificence donnée à la Porta Capuana mentionnée plus haut, le vice-roi don Perafán de Ribera, duc d’Alcalà, interdit les campements de tziganes (“tende de’ Zingari”) qui s’installaient au début de la route à laquelle la porte donnait accès, en direction de Poggioreale24. La densité de l’occupation, la présence de tavernes et d’auberges, entraîne une animation et une affluence constantes, où se mêlent diverses sociétés, qui attirent à leur tour les spectacles, les divertissements, ou les mendiants. La présence de ces foules dicte des normes d’arrangement des entrées de ville au XVIIIe siècle, et invite architectes et urbanistes à proposer des élargissements de voies, l’ouverture de places et de promenades : L’ingresso della Città è destinato all’entrata ed uscita degli abitanti, e de forestieri; per evitare gl’imbarazzi, che porta seco il gran consorso particolarmente nelle città molto popolate, è necessario che tutto vi sia libero e spazioso, che molte strade larghe dritte e convergenti all’ingresso siano con ordine disposte, che tutte terminino in una grande piazza esterna, da cui si passi in altra regolare piazza interna, dalla quale si facciano partire quante più strade si possano per communicare agli diversi quartieri della città25. Les constructions territoriales liées aux entrées de ville débordent largement leurs espaces contigus, et en ce sens la porte fait sentir sa présence même à dis- tance de sa localisation topographique. Le rôle des portes est, dans certains cas, essentiel dans l’organisation et la rationalisation administratives de la ville en four- nissant une logique à ses découpages internes en quartiers, en fournissant une clef de répartition des juridictions26. Ainsi, Florence est divisée au XIe siècle en quatre quartieri qui prennent le nom des quatre portes principales de la ville : San Piero, del Vescovo, San Pancrazio et Santa Maria. À Bologne, à Pérouse, à Ferrare, les circonscriptions de la ville prennent également le nom des portes qui y donnent accès, ce qui témoigne d’un ordre territorial lié au périmètre défensif et aux fonctions militaires qu’avaient, à l’origine, ces circonscriptions (surveillance

23 A. Saadaoui, Les portes de la ville de Tunis à l’époque ottomane, lieux de passage, de transi- tion et de sociabilité, « Città e Storia », XI, 2016, 2, pp. 305-322. 24 G. Porcaro, Le porte di Napoli, cit. 25 V. Ruffo, Saggio sull’abbellimento di cui è capace la città di Napoli, cit., p. 23. 26 Plusieurs cas de divisions administratives générées par les portes sont étudiés, par exemple, in J. Heers (dir.), Fortifications, portes de villes, places publiques dans le monde méditerranéen, Paris, 1985. Les portes de ville À l’Époque moderne 125 des portes, de l’enceinte, levée des milices). À Milan, après la destruction des remparts par les troupes impériales, en 1162, l’enceinte est reconstruite, munie de six portes. Porta Comacina, Porta Nuova, Porta Orientale, Porta Romana, Porta Ticinese et Porta Vercellina commandent la répartition de l’espace urbain en six unités, et le mot porta y prend le sens de quartier : unité topographique de base de l’administration communale, la Porta remplace très pré- cocement, et, semble-t-il, radicalement, la vicinia comme référence de localisation, asso- ciée à la paroisse. Il semble bien que la Porte ait même été vécue à Milan comme un cadre de solidarité effective, provenant du service de la garde27. Ce lien étroit entre les portes de la ville et l’expression d’une “citoyenneté” locale, se rencontre dans de nombreuses villes, comme à Paris au XVIe siècle, où le service de garde repose sur les “bourgeois”, sous la responsabilité des quarteniers, à la tête des quartiers de Paris28. Les portes ordonnent également la géographie suburbaine : les routes sur les- quelles elles s’ouvrent génèrent et guident les implantations des faubourgs. Ainsi, au-delà de son usage comme point de repère, fréquent pour indiquer des localisa- tions dans les villes anciennes encore privées de numérotage des maisons, compte tenu de sa bonne visibilité dans la topographie, la porte joue un rôle essentiel dans l’organisation d’ensemble de l’espace urbain. Elle structure de la sorte, de fa- çon moins immédiatement perceptible, des appartenances territoriales citadines.

3. La porte, comme ouvrage de défense ouvrant un accès contrôlé à la com- munauté urbaine, perd de son importance à partir du XVIIIe siècle. Sa matérialité devient alors un obstacle à la circulation et au libre développement du commerce. Sa fonction militaire est désormais obsolète et, lieu d’entassement des hommes et des activités urbaines, elle cristallise les critiques au nom de l’embellissement des cités et de leur assainissement. L’intensification des trafics, la multiplication des voi- tures et des carrosses exigent d’éliminer autant que possible les obstacles générateurs d’embarras urbains. Pour l’architecte Vincenzo Ruffo, auteur d’un projet de réa- ménagement de Naples afin de l’élever au rang d’une grande capitale européenne : tante antiche porte inutili, ancora esistenti, come S. Gennaro, Costantinopoli, Sciuscella, Medina, e quattro o cinque altre situate alla strada nuova, sono d’imbarazzo, d’incom- modo, e di niun’ornamento alla città ; dovrebbero perciò abbatersi, e demolirsi29.

27 P. Boucheron, Le pouvoir de bâtir. Urbanisme et politique édilitaire à Milan (XIVe-XVe siècles), Roma, 1998, p. 99. 28 D. Roussel, Aux portes de Paris : savoirs sociaux urbains et épreuves de seuils au XVIe siècle, cit., p. 291. 29 V. Ruffo, Saggio sull’abbellimento di cui è capace la città di Napoli, cit. p. 39. 126 Brigitte Marin

Si ces démolitions sont nombreuses, la porte résiste toutefois, et se maintient comme un haut-lieu de l’urbanité. D’une part, elle se transforme parfois en arc de triomphe inspiré de l’antique, à la gloire des monarques ou en hommage aux hommes illustres incarnant le génie du lieu. Selon l’architecte Pierre Patte, dans une ville bien construite, les portes s’annonceraient par de magnifiques arcs-de-triomphe, élevés en l’honneur de ceux qui auraient bien mérité de l’État, ou qui l’auraient glorieusement gouverné. Placés aux entrées d’une ville, ces monuments frapperaient les étrangers, et contribueraient à leur donner une grande idée de la Nation, en leur retraçant sa gloire. Après ces arc-de- triomphe, il faudrait que l’on trouvât une place demi-octogone ou demi-circulaire, percée de rues qui aboutiraient de tous côtés, et qui seraient terminées par des objets intéressants, tels que des fontaines, des aiguilles, des statues pédestres ou équestres, et des bâtiments publics30. À partir des portes monumentales se déploie ainsi un ensemble de voies et de constructions, reliées entre elle sur les plans fonctionnel et visuel. Animé par les mêmes principes, Vincenzo Ruffo recommande de démolir à Naples la Porta Capuana qu’il décrit désormais comme « meschina ed angusta », en dépit de son prestige lié à la geste des souverains, pour lui substituer un « arco Trionfale in forma di Porta, che indicherebbe il principio della Città »31. Aussi construit- on encore des portes au XVIIIe siècle, mais dans un objectif autre que celui des siècles précédents. Elles sont élevées dans une perspective d’embellissement des villes, comme à Madrid, avec la Porte d’Alcalà citée plus haut. Une construction citée en exemple par Francesco Milizia dans son traité d’architecture au chapitre « Ingresso di una città » : Madrid, che deve la sua pulizia e le sue nuove bellezze alla beneficenza del suo re Carlo III, ha acquistata fra le altre la superba porta di Alcalà, architettata dal brigadiere don Francesco Sabatini primo architetto. Questa porta ha cinque ingressi: tre arcuati uguali nel mezzo e due quadrati ai fianchi, il maggior ornamento è all’esteriore [...]. Questo maestoso ingresso è preceduto da uno stradone: introduce ad una piazza destinata per la caccia de’ tori, ed infila la famosa strada d’Alcalà la più spaziosa delle strade, che taglia quasi tutto Madrid di mezzo32. La porte exalte alors sa fonction d’entrée urbaine, représentative du prestige des pouvoirs de gouvernement et de la magnificence de la cité. Sa localisation peut se détacher du tracé des anciens remparts et, visuellement, cette fonction d’entrée urbaine associe à la porte, ou à l’arc qui l’a remplacée, d’autres éléments à

30 P. Patte, Mémoires sur les objets les plus importants de l’architecture, Paris, 1769, p. 10. 31 V. Ruffo, Saggio sull’abbellimento di cui è capace la città di Napoli, cit. pp. 30-31. 32 F. Milizia, Principj di archittetura civile [1785], cit., pp. 207-208. Fig. 7 - Matteo Zampella (actif à Naples dans la seconde moitié du XIXe siècle), Vado del Camine, Naples (CC PD-Mark 1.0).

aménager : axes routiers élargis et rectilignes, places au tracé régulier, promenades plantées, etc.33 Une autre transformation architecturale substitue à d’anciennes portes démolies de nouvelles qui matérialisent un seuil par l’érection de deux pi- liers, entre lesquels peuvent aisément passer les carrosses, sans contrainte de hau-

33 Sur les transformations de l’architecture des portes en France au XVIIIe siècle, du fait du déclin de leur rôle défensif, voir C. Lamarre, Les portes des villes à la fin du XVIIIe siècle, crise de l’architecture et crise du symbole, in F. Michaud-Fréjaville, N. Dauphin, J.-P. Guilhembet (dir.), Entrer en ville, Rennes, 2006, pp. 61-72. L’auteur montre aussi comment « le monument se disso- cie progressivement de sa seconde fonction originelle, magnifier l’entrée de ville, car cette entrée devient de plus en plus diffuse dans les agglomérations qui ne cessent de croître en dépit des inter- dictions de bâtir et des tentatives de discréditer les grandes villes » (p. 62). 128 Brigitte Marin teur. C’est cette solution que choisit par exemple l’architecte Giovanni Bompiede dans les années 1740, à l’occasion de la construction d’une nouvelle rue littorale sur le rivage oriental de Naples, la via della Marina. Une partie de l’enceinte maritime est alors abattue pour laisser la place à une ouverture monumentale, Porta reale della Marina ou Vado del Carmine (1748) (fig. 7), qui donne accès à la Piazza Mercato à la place de l’ancienne Porta della Conceria. D’autre part, si l’on ne se limite pas à la pensée architecturale et aux grands projets d’aménagement voulus par les autorités citadines, et que l’on se tourne vers les habitants et leurs usages quotidiens, on peut observer combien certaines pratiques citadines se sont durablement fixées aux portes, qui sont à la fois des éléments de repérage dans l’espace, de qualification des lieux, et les supports d’une mémoire collective locale, voire d’un patriotisme urbain. Cet attachement des citadins à leurs portes apparaît dans toute sa vivacité dans les cas, parfois do- cumentés, où ceux-ci s’opposent à une démolition. Par exemple, à Cravant, petite ville de l’Auxerrois, l’annonce de la destruction d’une porte, en 1775, entraîne un soulèvement populaire34. Les tentatives de désencombrements des autorités se heurtent, semblablement, à la résistance des usagers ordinaires de l’espace. Ainsi, à Naples, le Corps de Ville propose en 1754 de déplacer le marché de produits alimentaires situé à l’intérieur de la Porta San Gennaro, à l’extérieur des murailles, au Largo delle Pigne, dans des boutiques et constructions réalisées aux frais de la municipalité. En effet, l’étroitesse du lieu, la foule des acheteurs et les difficultés qu’avaient les carrosses à passer par cette porte, auraient motivé des plaintes adressées à la Ville. Mais les propriétaires des maisons situées près de la porte, ainsi que les commerçants, adressent leurs recours au roi et s’opposent à la relocalisation d’un espace marchand qui fait vivre de nombreuses familles du quartier, de toutes conditions. Autour de la porte, une économie locale s’est construite et un tissu social s’est organisé, dont les équilibres se trouveraient me- nacés par le projet d’aménagement35.

34 C. Lamarre, Les portes des villes à la fin du XVIIIe siècle, crise de l’architecture et crise du sym- bole, cit., p. 63. 35 Selon ces suppliques, les propriétaires des immeubles et des boutiques seraient alors « spo- gliati del proprio mantenimento, che vengono colle loro famiglie a ricavare dalle piggioni solite pagarsi da medesimi venditori [...] » ; de plus, « a settembre dello scorso anno il Reggio Portulano, e Deputazione insieme ridussero la presente Piazza di S. Gennaro, comodissima non men al passaggio de Cittadini, che al trafico delle carozze » ; enfin, « grandissimo incommodo recarebbe a Cittadini l’andar a comprare i Commestibili in un luogo in tutt’i tempi dell’anno disaggiato ». Archivio di Stato di Napoli, Camera di Santa Chiara, Bozze di consulta, vol. 187, inc. 55 (1754) : Intorno al passaggio de’ venditori de commestibili dalla Porta di S. Gennaro alla Piazza grande detta delle Pigne sotto le mura di S. Agnello. Les portes de ville À l’Époque moderne 129

Les usages sociaux transforment, au cours du temps, la matérialité des portes, qui constitue un gisement de ressources et de valeurs spatiales activables et exploi- tables de mille manières36. Attachée à une fonction intermédiaire entre le dedans et le dehors, avec sa double façade, vers l’intérieur et vers l’extérieur, la porte pola- rise l’attention de ceux qui observent et décrivent la ville, tout comme de ceux qui y vivent, même lorsqu’à l’issue d’agrandissements ou de réaménagements, elle a perdu sa caractéristique première d’entrée de ville pour se retrouver loca- lisée dans le tissu de la ville même. Certaines portes marquent alors des limites, des seuils, dans la ville même comme la porte Santo Spirito pour Borgo à Rome, ou la porte Settimiana au Trastevere. En outre, les portes sont parfois déplacées, relocalisées, réutilisées dans de nouveaux contextes urbains, au fil du temps, ce qui témoigne de la valeur patrimoniale qui leur est localement accordée. Dans un ouvrage paru en 1566, Del sito et lodi della città di Napoli, Giovanni Tarchagnota, historien et poète, prend la mesure des grandes transformations qu’a connues la ville avec le programme d’agrandissement du vice-roi Don Pedro de Toledo (1532-1553). Soucieux de conserver pour la postérité la mémoire de lieux qui s’effacent avec cette “mutatione grande”, c’est significativement aux portes qu’il prête sa première attention : « Ora, per gratia ditemi, chi mi sapra mostrare di qui à cento anni, dove fosse Porta Petruccia, Porta Reale, Porta di San Spirito, Porta Donnorso, e molti altri cosi fatti luoghi della città ? »37. Il renseigne leur situation originelle, leur histoire, et leur relocalisation au service de la nouvelle enceinte. Ainsi, porta Reale, che era in capo della strada di Nido presso Santa Chiara, [Pedro de Toledo] la trasferì, dove la veggiamo hora in capo della sua strada, che egli chiamò de Toledo [...] Et questa stessa porta Reale antica era già stata da Carlo II fatta, quando egli ampliò da questa parte la città.38 Au cours des siècles, la porte reste un “lieu” de la ville parmi les plus notables39 : une portion d’espace, distincte et isolable, et un agencement d’éléments matériels qui fixent des valeurs, qui sont identifiés par leurs particularités formelles et uti- lisés par les acteurs dans de multiples pratiques (défense, gestion, accueil, com-

36 B. Lepetit, Temps des formes, temps des usages, « Le Courrier du CNRS », 81, La Ville, pp. 73-74. 37 G. Tarchagnota, Del sito et lodi della città di Napoli con una breve historia de gli re suoi, & delle cose più degne altrove ne’ medesimi tempi avenute, Napoli, 1566, p. 10. 38 Ibidem. 39 E. Bentivoglio définit la porte comme « una porzione ‘spaziale’ limitata, ma pregnante di significati materiali e ideali, in definitiva un ‘luogho’ ». Cf. « Introduzione », in M. Curti, Tra permanenze e innovazioni tipologiche. Le ‘Porte di città’ di Domenico Lucchi (1784) confrontato con i modelli precedenti, Roma, 1990, p. 5 (cité par C. Canonici, Per una storia culturale..., cit., note 4). 130 Brigitte Marin merce, mendicité, fêtes et jeux, découpages territoriaux, usages du passé, etc.). Distinguées, repérées, nommées, les portes occupent une place singulière dans l’espace urbain dont elles orientent la lecture ; autour d’elles se construisent des identités spatiales à partir d’usages sociaux, de récits historiques ou mytholo- giques, de représentations figurées, de discours de qualification40. Elles inscrivent une mémoire dans la culture et le paysage urbains41. Abondamment mentionnées, décrites, dessinées, pour leur valeur topogra- phique, monumentale, antiquaire, historique ou religieuse, les portes, lorsque leur fonction première de clôture et de défense s’est étiolée avant de disparaître tout à fait à la fin de la période moderne, ne s’en sont pas moins affirmées dura- blement comme des landmarks, que ce soit en lisière de la ville, pour en magni- fier les entrées, ou au cœur du tissu urbain, en raison des extensions urbaines successives à leur construction. Éléments centraux de la représentation des villes, elles jouent également un rôle important dans la vie urbaine, en attirant des activités et des métiers spécifiques, en organisant des circulations autant que des territorialités intra et extra-urbaines. En explorant, au-delà des significations de la porte-monument, leurs appropriations matérielles, sociales et symboliques par les citadins ou des occupants temporaires (étrangers ou gens de passage), les contributions publiées dans le dossier Portes et périphéries invitent à poursuivre l’enquête, selon une voie tracée par Bernard Lepetit42, en croisant ces éléments de base de la forme urbaine, tels qu’ils se sont inscrits dans une durée pluriséculaire, et les affectations de sens dont les ont investis les sociétés, par leurs usages, leurs gestions, leurs réagencements, leurs mises en récits et en images.

40 M. Lussault, L’homme spatial. La construction sociale de l’espace humain, Paris, 2007, p. 93. 41 « Ainsi pas de lieu sans une mémoire qui, ramenant par le récit le fil de son origine pour en lever l’oubli, cible les emblèmes de son histoire, retouche les limites géographiques de son aire officielle, suggère son authenticité en évoquant sa pérennité, scande ses moments constitutifs et ses temps ‘forts’. Le lieu et la mémoire en effet se nouent l’un avec l’autre comme les deux faces complémentaires d’une réalité sociale territorialisée et différenciée, généalogiquement et collecti- vement organisée et, de ce fait, incommensurable à tout autre », Y. Lamy, introduction au dossier Fabrique des Lieux, « Genèses », XI, 2000, 40, p. 2. 42 « [...] à partir des conditions du moment de leurs équilibres et de l’ensemble des ‘valeurs dormantes’ (l’expression est de Fernand Braudel) que les espaces citadins contiennent, les sociétés urbaines sont engagées, au présent, dans un processus de réaffectation et de revalorisation de leurs espaces d’hier, qui engage pour partie l’avenir des formes, des pratiques, des valeurs citadines », B. Lepetit, La ville moderne en France. Essai d’histoire immédiate, in J.-L. Biget, J.-C. Hervé (dir.), Panoramas urbains. Situation de l’histoire des villes, Paris, 1995, p. 206. «Città e Storia», XI, 2017, 1, pp. 131-155, doi: 10.17426/38091, ©2017 Università Roma Tre-CROMA

Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata L’assistenza pubblica in una provincia del regno delle due Sicilie* Anna Citarella Università degli studi “Magna Græcia” di Catanzaro

Abstract: This article deals with public assistance in the Nineteenth Century in the Principato Citra, where, until the mid-nineteenth century, many welfare projects were launched. The government only partially supported such initiatives. In Salerno was realized the male orphanage, which resulted, with Giovinazzo’s, the most dynamic of the kingdom. The brefrophy, however, was closed due to lack of funding, which also prevented the construction of the orphanage for girls. A male orphanage was opened up in Salerno and Giovinazzo, if carried out by further research work, would prove that pro- vincial administrations were more efficient during the second Bourbon period, in meeting the demands of the citizens, unlike the 18th century, when embryonic peripheral administrations were accused by Zurlo of having failed their reformist plan. The central power, which at the end of the eighteenth cen- tury implemented some reforms, developed during the French period, proved inadequate in meeting provincial instances, for reasons that can not always be attributed to financial constraints. Keywords: Kingdom of the Two Siciles; Principato Citra; Public Assistance; Abandoned Children; Brephotrophy and Orphanage.

Introduzione Le province, che costituivano il regno di Napoli, presentavano all’inizio del XVIII secolo caratteristiche demografiche diverse.L ’asse Napoli-Salerno-Caserta si apprestava a divenire conurbazione ad alta densità di abitanti e le parti delle pro- vince, che si trovavano sul collegamento della capitale con i due capoluoghi, ospi- tavano gran parte della popolazione del regno. Il resto del sud Italia, che costituiva la parte più estesa del territorio dello stato era scarsamente popolato, se si esclude la Terra di Bari con prevalenza di zone malariche a bassissima densità abitativa come quella costiera del Tirreno fino ai confini dello Stato pontificio, quella soggetta alla transumanza del Tavoliere di Puglia e la ionica settentrionale, che comprendeva un’ampia zona di confine tra Calabria Citra, Basilicata e Terra d’Otranto definita non a caso il deserto del regno. Vi erano poi situazioni più articolate, come le parti urbanizzate della Capitanata e il Principato Citra che si possono definire con Aure-

*Abbreviazioni: ASN per Archivio di Stato di Napoli; F. per fascio. 132 Anna Citarella lio Musi subregioni,1 cioè entità provinciali che si differenziavano dalla capitale con caratteristiche proprie e con aree geo-economico-sociali autonome. Il Principato Citra, oggetto di questo articolo, nonostante le iniziative degli amministratori locali non ottenne salvo poche eccezioni un’adeguata collabora- zione, specialmente finanziaria, dal governo centrale, che impedì un più deciso e armonico sviluppo, che lo avvicinasse agli standard del capoluogo. In questa sede si analizzeranno varie iniziative dell’amministrazione provincia- le dedicate all’assistenza pubblica in favore degli orfani e dei projetti, ossia i neo- nati abbandonati. Si esaminerà la loro condizione nella provincia, con particola- re riferimento all’istituto di Salerno delegato al loro accoglimento, detto A.G.P. dall’acronimo delle prime parole che l’angelo rivolse a Maria per annunciarle il concepimento di Gesù, ai progetti per la costruzione di due orfanotrofi pubblici, uno per i bambini, l’altro per le bambine di età superiore ai sette anni. Parlare di assistenza pubblica agli albori del XIX secolo è quasi anacronistico perché, se è vero che con la creazione del Ministero degli Interni nel 18062, la ge- stione della beneficenza pubblica dalle università passò alle province, diventando più centralizzata e controllata e anche vero che la Chiesa con l’ospitalità sporadi- ca, che offriva ai mendicanti nei conventi, e con quella programmata per alcune categorie negli istituti a ciò delegati continuerà a fornire un contributo tutt’altro che trascurabile fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. In Inghilterra, sin dalla fine del Settecento, si attuò una diversa divisione di spesa tra stato e parrocchie3. Lo stesso non può dirsi per la Scozia, dove solo dal 1855 i figli illegittimi furo- no riportati nei registri parrocchiali, mentre i bambini abbandonati erano affidati esclusivamente alla chiesa, che manifestava un’ingerenza maggiore che altrove nel controllo dei costumi sessuali4. A Parigi alla fine del XVIII secolo entrava ogni anno nell’asilo di San Vincenzo circa un terzo di tutti i bambini nati e abbandonati. La spesa era a carico della chiesa e di nobili benefattori, ma pochi ne uscivano vivi. Con l’abolizione del feu- dalesimo anche negli stati annessi all’impero napoleonico il mantenimento dei trovatelli passò al potere centrale, che inscrisse le spese nel bilancio dello stato5.

1 A. Musi, Regione, provincia e società nel Mezzogiorno, “Quaderni sardi di storia”, I, 1980, 1, pp. 83-100: 92. 2 Bullettino delle leggi, 1806, n. 132. 3 S. Williams, The maintenance of bastard children in London, 1790-1834,“The Economic History Review”, vol. 69, 2016, pp. 945-971; R.Woods, The population history of Britain in the nineteenth century, Cambridge, 1995. 4 L. Leneman, R. Mitchison, Scottish illegitimacy ratios in the early modern period, “The Economic History Review”, 1987, 40, pp. 41-63:54. 5 M. Gerber, Bastard: Politcs, Family, and law in early Modern France, Oxford, 2012. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 133

I principali stati europei vararono una legislazione a favore delle madri nubili. In Francia già a partire dal 17936 e successivamente con i decreti del 1810 e del 18117 le assistite furono esentate dalle spese per il parto, ricevettero un corredo per il neonato e un assegno mensile per dieci mesi. Il Belgio accolse il modello francese durante l’annessione alla Francia ma dal 1837 adottò un nuovo sistema normativo che affidava la gestione e il finanziamento di tutte le opere pie dallo stato ai comu- ni8. Anche nella cattolica Spagna Carlo IV intervenne con un’ordinanza del 1811, che prevedeva sanzioni per chi avesse offesi o discriminati i trovatelli9. In Italia fu concesso alle donne nubili di partorire in istituti pubblici prede- terminati10. A Torino nell’Opera delle Partorienti, a Milano nella Pia Casa degli Esposti e delle Partorienti, a Trento nel Triplice Istituto delle Laste, a Catania nella Casa del Santo Bambino11. A Torino, grazie a un accordo tra l’Ospedale di S. Giovanni Battista e l’ imprenditore tessile Pietro Manzolino, si cercò anche di garantire un futuro alle esposte. All’età di dieci anni, fino a un massimo di 300, sarebbero entrate nell’opificio di Manzolino, avrebbero imparato un mestiere per poter andare via non prima di cinque anni. L’Ospedale Maggiore e il Comune di Torino si impegnavano a versare un contributo annuale, mentre gli utili del lavoro di apprendistato delle ragazze sarebbero stati a vantaggio di Manzolino12. Durante il decennio francese qualcosa cominciò a cambiare anche nel Mez- zogiorno. La soppressione dei monasteri e dei luoghi pii dopo il 1806 modificò, in tema di beneficenza, il rapporto tra stato e chiesa e tra questa e i fedeli13. La carità individuale cominciò a lasciare posto all’intervento statale, che lentamente organizzò la sua opera. Il ricorso ai beni ecclesiastici stava diventando una pratica consuetudinaria

6 C. Bressan, I trovatelli e la chiusura delle ruote, Padova, Fratelli Salmin Editori, 1870, p. 15 7 Ibidem, pp. 15-16 e pp. 30-32. 8 Ibidem, pp. 15-16 e pp. 36-38. 9 C. Romey, Histoire d’Espagne depuis le premiers temps jusquà nos jours, X, Parigi, Furne et Cie, 1839, p. 323. 10 V. Hunecke, Intensità e fluttuazioni degli abbandoni dal XV al XIX secolo, in Enfance aban- donnee et societè en Europe, XIV-XX siècle, Actes du colloque international de Rome (30 et 31 janvier 1987), Roma, Ecole Française de Rome, p. 31. 11 Ibidem. 12 R. Audisio, La “Generala di Torino” Esposte, discoli, minori corrigendi (1785-1850), Fondazione Camillo Cavour, Santena, 1987, pp. 50-53. Per l’assistenza femminile a Torino nell’Ottocento cfr. anche S. Barbero, Donne consacrate e recupero delle “pericolanti” nella Torino preunitaria, in S. Bartoloni (a cura di), Per le strade del mondo. Laiche e religiose fra Otto e Novecento, Bologna, 2007. 13 G. Moricola, L’industria della carità. L’albergo dei Poveri nell’economia e nella società napole- tana tra ’700 e ’800, Napoli, 1994, p. 28. 134 Anna Citarella nei paesi europei14 anche per soccorrere le finanze pubbliche che, per la nascente industrializzazione, dovevano provvedere alla costruzione di infrastrutture e di quanto occorresse per facilitare lo sviluppo economico15. Di questo clima, che si potrebbe definire anticlericale, beneficiò anche l’assistenza pubblica. Sin dalla metà del Settecento vi erano stati alcuni provvedimenti legislativi per razionalizzare gli interventi statali in favore dei ceti più poveri. A Napoli Carlo nel 1734 subito dopo la conquista del regno emanò alcuni decreti per limitare l’ingerenza della chiesa. Nel 1738 abrogò “i testamenti dell’anima”, con i quali cospicui patrimoni erano trasferiti alla Chiesa in articulo mortis, talvolta anche da chi pensava soltanto di confessarsi. Il sacerdote infatti non aveva bisogno di alcuna documentazione che testimoniasse un lascito testa- mentario in favore della Chiesa eseguito sul letto di morte. Già nel corso del Settecento ma ancor più nell’Ottocento queste eredità diminuirono. Il com- pito dell’assistenza fu sempre più spesso delegato agli eredi, che molte volte non si curavano di gestire le opere di beneficenza, lasciando che il legato del testatore non avesse alcun effetto. Nel 1741 Carlo di Borbone, nel concordato con la Santa Sede, delineò i con- fini entro cui la Chiesa poteva esercitare il suo potere sui luoghi pii e incrementò l’autorità statale, assoggettando a tassazione alcuni beni ecclesiastici inscritti nel catasto onciario. La volontà del re di modernizzare lo stato e di avocare ad esso la pubblica assistenza ebbe anche una testimonianza materiale con la costruzione del Real Albergo, adibito a ricovero dei poveri di tutto il regno a spese dello stato. Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat continuarono con maggiore con- vinzione l’opera di laicizzazione dello stato iniziata dai primi due Borbone16. Un solido contributo l’offrì il primo, che nel 1806 diede vita ai Consigli pro- vinciali17. Con questi nuovi organi si adottarono le modalità della pubblica am- ministrazione francese e lo stato fu dotato di una salda burocrazia che rese più moderna l’organizzazione del territorio con nuove divisioni amministrative18. I

14 L. Pezzolo, L’economia d’antico regime, Roma, 2005, p. 56. 15 L. Leneman, R. Mitchison, Scottish illegitimacy, cit., p. 44. 16 P. Villani, La vendita dei beni dello stato nel Regno di Napoli 1806-1815, Milano, 1964. 17 A. Scirocco, I problemi del Mezzogiorno negli atti dei Consigli provinciali 1808-1830, “Archivio Storico per le Province Napoletane”, 1971, 3 e 4, pp. 7-30. A. Scirocco, I corpi rap- presentativi del Mezzogiorno dal Decennio alla Restaurazione: il personale dei Consigli provinciali, “Quaderni storici”, XIII, 1978, 37, pp. 45-68. R. De Lorenzo, Una fonte per la conoscenza del Mezzogiorno nel Decennio francese: gli atti dei Consigli distrettuali del 1808, “Archivio Storico per le Province Napoletane”, XCVI, 1978, 17, pp. 67-89. 18 R. Feola, Lo stato amministrativo nel Regno di Napoli dall’età napoleonica alla restaurazio- ne, in Il Mezzogiorno fra ancien régime e Decennio francese, Venosa, 1992; A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino, 1941; V. Di Donato, Note sul personale e sul funzionamento del Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 135 consiglieri erano nobili, notabili, ex militari, solo i rappresentanti del clero fu- rono esclusi. Nel 180919 fu istituito il Consiglio generale degli ospizi, che aveva il compito di sovraintendere alle amministrazioni degli stabilimenti di pietà e dei luoghi pii laicali e a tutti gli istituti che portassero soccorso ai poveri e ai bisognosi. Competeva ai Consigli anche la vigilanza e il controllo dell’ammini- strazione, dell’economia e della disciplina. Lo stato tuttavia non si accollò alcun onere economico relativo al funzionamento di questi istituti. Sporadici furono gli interventi in questo senso20. Si incrementarono invece i sistemi di vigilanza su di essi per estromettere la guida ecclesiastica21.

1. Il Principato Citra: una provincia in affanno Il Principato Citra22rispecchiava la composizione socio-economica dell’intero regno e anche dell’attuale Italia. Al nord vi era l’area di Salerno, una sorta di avam-

Consiglio Provinciale di Terra di Lavoro (1806-1861): premesse all’inventario della serie Intendenza- Consigli Provinciali e Distrettuali, conservate nell’Archivio di Stato di Caserta, “Rivista Storica di Terra di Lavoro”, IV, 1979, 1-2, pp. 163-177; R. Lalli, I Consigli dei Distretti del Molise, 1808- 1819, Isernia, 1980; R. Lalli, I Consigli della Provincia di Molise, Campobasso, 198I, II-IV. F. D’Agostino, Il Consiglio Provinciale di Terra di Bari, in L’età della Restaurazione 1815-1830, Atti del III Convegno di studi sul Risorgimento in Puglia, Cassano Murge, 1983, pp. 90-104.; M.S. Corciulo, I Consigli generali e distrettuali di Terra d’Otranto dal 1808 alla rivoluzione del 1820- 21, in A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società e istituzioni, Bari, 1988, pp. 35-60; L. Calabresi, Il personale politico dei Consigli provinciali in Basilicata 1808-1821, “Bollettino della Basilicata”, 2001, 17, pp. 7-35. 19 Bullettino delle leggi, 1809, n. 269. 20 Il decreto del 16 ottobre del 1809 sui bambini abbandonati precedette il regolamento per l’assistenza ai projetti del 30 aprile 1810, che uniformava il settore a livello nazionale. Nel 1818 fu varato un decreto che ordinava la costruzione di sei orfanotrofi provinciali: ad Aversa per le province di Terra di Lavoro e di Molise; a Salerno per il Principato Citra e la Basilicata; ad Atripalda per il Principato Ultra e la Capitanata; a Sulmona per i tre Abruzzi; a Giovinazzo per Terra di Bari e d’Otranto; a Serra S. Bruno per le tre Calabrie. Bullettino delle leggi, 1806, n.132. Bullettino delle leggi, 1809, n. 493; Collezione leggi e de’ decreti reali del Regno delle due Sicilie, 1818, n.1203. 21 Con il decreto del 14 settembre 1815, Ferdinando I, tornato a Napoli, dette una nuova organizzazione al ramo della beneficenza pubblica e con il successivo dell’1 febbraio 1816 creò i Consigli degli ospizi, che furono confermati anche negli ordinamenti. Si cominciava a pro- filare una più netta presenza dello stato. Il Ministro dell’interno aveva la facoltà di modificare gli ordinamenti vigenti. Con le istruzioni ministeriali del 1820 i Consigli degli ospizi furono sottoposti per qualsiasi decisione al ministero dell’interno con “un’officina separata da quelle dell’Intendenza”. 22 Per i provvedimenti legislativi e amministrativi relativi alla provincia di Principato Citra, G. Mottola, F. Sofia, F. Timpano, Prime note sulla demografia del Principato 1815-1858, in F. Sofia (a cura di), Salerno e il Principato Citra nell’età moderna (secoli XVI-XIX), Atti del Convegno (Salerno, Castiglione dei Genovesi, Pellezzano, 5-7 dicembre 1984), Napoli, 1987, pp. 193-214. 136 Anna Citarella

Fig. 1 - Il Principato Citeriore. Fonte: illustazione di Mario il “cartaro”. A. 1613, Archivio provinciale di Eboli, Manoscritti, busta 23. posto di Napoli, sede d’industrie cotoniere trasferite sull’Irno dagli Svizzeri all’ini- zio dell’Ottocento e al sud il Cilento, con i valli di Diano e di Novi, estremamente povero23. Il territorio era quindi caratterizzato da un’evidente dicotomia24. Dal 1806 la provincia fu divisa nei distretti di Salerno, Sala e Vibonati. Que- sto era il capoluogo del Cilento, il più decentrato, economicamente debole e spo- polato. Caratterizzato da una polverizzazione d’insediamenti, aveva la gran parte della popolazione concentrata in pochi comuni con zone desolate, un’agricoltura caratterizzata dall’autoconsumo e molti terreni lasciati incolti per mancanza di acqua e di mercato25. Era il luogo dove l’alimentazione di sussistenza degli abi- tanti, che perdurerà ancora a metà del XX secolo, è stata esaltata come “dieta mediterranea”.

23 M. Coppola, Squilibri socio-economici e distribuzione del reddito nel Principato Citra agli inizi del secolo XIX, Ibidem, pp. 139-160. 24 V. Aversano, Cirillo G., Quadro agrario e attività “civili” in Principato Citra ai primi dell’Ot- tocento, ibidem, pp. 210-235:225. 25 V. Aversano, F. Guerrieri, M. Stigliano, Sul sito di alcuni “villages desértés” del Principato: riflessioni geografiche, Ibidem, pp. 307-349. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 137

Fig. 2 - Particolare della zona cilentana del Pricipato Citeriore. Fonte: G.B. Pacichelli, Il re- gno di Napoli in prospettiva, Napoli, 1702, p. 234.

Gran parte della popolazione si trovava però nel distretto di Salerno26, il più ricco, sviluppato, confinante con le zone depresse del Cilento ma anche della Basilicata e del Principato Ultra. Il distretto di Sala rappresentava il confine tra il nulla cilentano e la più ricca Salerno. Agli inizi dell’Ottocento per manifatture e servizi27, il distretto salernitano nel regno era secondo solo a Napoli. Le attività extra-agricole avevano un ruolo rile- vante nella sua economia, caratterizzata da una struttura tripolare: manifatture, centro cittadino, casali agricoli. Il cotone alimentava una fiorente manifattura sull’Irno28. Notevole anche le manifatture di lana a Baronissi e a Sanseverino29.

26 M. Coppola, Squilibri socio-economici e distribuzione del reddito nel Principato Citra agli inizi del secolo XIX, cit. 27 Ibidem. 28 D. Cosimato, L’arte della lana nella valle dell’Irno in Id., Saggi di storia minore, Salerno, 1964, pp. 89-106:98; S. De Majo, Industria laniera e strutture socio-professionali nel Regno di Napoli nella seconda metà del Settecento. I casi di Arpino, Salerno e Sanseverino, in G. Civile (a cura di), Studi sulla società meridionale, Napoli, 1978, pp. 165-219. 29 M. Coppola, Squilibri socio-economici, cit., p. 148. 138 Anna Citarella

Sulla costiera amalfitana si producevano carta, ceramiche e paste alimentari 30., a Cava panni di lino e, durante il blocco continentale, anche di cotone coltivato nei terreni circostanti e nella Puglia salentina31. Il settore primario della provincia era particolarmente fiorente nell’Agro No- cerino-Sarnese, principale fornitore dei mercati napoletani32, caratterizzato da una resa agricola molto elevata e da tre avvicendamenti colturali all’anno senza al- cuna concimazione33. Da questo settore giungevano alle casse del fisco 3.218.366 ducati annui contro 669,204,5 provenienti dalle altre attività economiche34. Lo stato di relativo benessere di parte della provincia salernitana si tradusse in un incremento di popolazione, che passò da 442.000 abitanti a 600.000 tra il 1815 ed il 1858 con marcate differenze tra la zona interna, che tendeva a spopo- larsi e la fertile pianura che con la costa35 incrementava la densità demografica36. Alta, rispetto al contesto nazionale e anche italiano, era la propensione all’al- fabetizzazione dei ceti mercantili37. Ad Amalfi e a Positano, tradizionali centri di commerci marittimi, oltre il 90% della popolazione era alfabetizzata 38 così come a Cava e nella zona dell’Agro Nocerino-Sarnese. Anche tra i ceti artigiani, tra i bottegai e i venditori al minuto la richiesta di istruzione era considerevole39. A una fiorente economia però non facevano riscontro corrispondenti livelli di benessere sociale e di qualità della vita. Le condizioni igienico-sanitarie, l’acqua potabile, il sistema fognario, privo di manutenzione, alimentavano infezioni e malattie gastroenteriche40. Non c’era alcun ospedale, il primo sarà impiantato a Salerno soltanto dopo l’Unità41. Negli ultimi decenni del secolo XIX le condizioni di vita in alcune zone della stessa

30 F. Assante, Aspetti della vita economica e sociale della “Costiera” nel Settecento, “Rassegna del Centro di Cultura e Storia amalfitana”, III, 1983, 5, pp. 80-109: 105; F. Assante, La ricchezza di Amalfi nel Settecento, Napoli, 1967, p. 63. 31 P. Villani, Note sulle manifatture della provincia di Salerno nel decennio francese, Il Piacentino, 1958, 2, pp. 1-58:27. 32 V. Aversano, G. Cirillo, Quadro agrario e attività, cit., p. 217. 33 M. Coppola, Squilibri socio-economici… cit., p. 152. 34 V. Aversano, G. Cirillo, Quadro agrario e attività, cit., p. 228. 35 G. Mottola, F. Sofia,Prime note sulla demografia, cit., p. 207. 36 V. Aversano, G. Cirillo, Quadro agrario e attività, cit., p. 229. 37 M.R. Pelizzari, I segni dell’alfabetizzazione in Principato Citra a metà Settecento, in F. Sofia (a cura di), Salerno e il Principato Citra, cit., pp. 795-824: 807. 38 Ibidem, p. 805 39 Ibidem, pp. 805-809. 40 G. Greco, Malattie e marginalità nell’area salernitana dell’Ottocento, in F. Sofia (a cura di), Salerno e il Principato Citra, cit., pp. 781-794. 41 G. Giletti, Relazione letta il 17 maggio 1874 all’atto dell’insediamento del nuovo consiglio comunale, Salerno, 1874, p. 36. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 139

Salerno erano precarie con “quartieri osceni e schifosi…, ove gl’individui che abi- tano quei tuguri vivono peggio dei bruti, ammonticchiati gli uni su gli altri in un aere putrido e greve”.42 Il cimitero, costruito dopo l’editto di Saint-Cloud fuori le mura urbane, era stato inglobato dalla città che cresceva ed era anch’esso fonte di infezioni43. Non può stupire che ancora a fine Ottocento la mortalità infantile fosse elevatissima con punte tra il 1893 e il 1897 del 30% circa44. Le condizioni sanitarie della provincia erano allarmanti, nonostante numerosi interventi degli amministratori provinciali specialmente in materia assistenziale.

2. L’assistenza in Principato Citra agli inizi dell’Ottocento: i progetti del Consiglio Provinciale Agli inizi dell’Ottocento in tutto il regno di Napoli esisteva un’unica struttura pubblica destinata all’accoglienza dei poveri, dei derelitti e anche dei bambini orfani e abbandonati, il Real Albergo dei Poveri, costruito da Ferdinando Fuga per ordine di Carlo45. In Principato Citra, come nelle altre province del regno, l’assistenza pubblica stentava ad affermarsi. I consiglieri provinciali di Salerno, non appena insediatisi, all’inizio del perio- do francese riordinarono e riqualificarono il ramo assistenziale, dedicando una particolare attenzione ai “projetti”. Sin dal 1808 tracciarono una mappa delle istituzioni provinciali delegate alla loro accoglienza e del numero di bambini che in esse vivevano sulla cui base delineò un piano. Nonostante l’impegno del governo nei confronti dei projetti, quasi sempre or- ganizzativo ma non economico, poco o nulla era cambiato negli anni del primo periodo borbonico e di quelli trascorsi con i napoleonidi. Non si erano impiegati mezzi finanziari sufficienti per ovviare alla desolazione in cui versava l’intero setto- re46. Al ritorno dei Borbone il Consiglio provinciale di Principato Citra elaborò un nuovo progetto articolato su due punti fondamentali: la ristrutturazione del brefo- trofio e l’apertura di due orfanotrofi, uno per i bambini e uno per le bambine di età superiore ai sette anni, sia che fossero rimasti senza genitori, sia che, compiuti i sei anni, provenissero dal brefotrofio o dalle balie, che si prendevano cura dei projetti47. I tre istituti avrebbero avuto sede a Salerno con un unico centro direttivo48.

42 F. Frate, Relazione al ricostituito Consiglio comunale di Salerno, 1884, p. 27. 43 Ibidem. 44 G. Greco, Malattie e marginalità, cit., p. 788. 45 G. Moricola, L’industria della carità, cit., p. 34. 46 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 183/1, Principato Citra, 1808. 47 Non tutti i neonati erano accolti nelle A.G.P., alcuni, specialmente quelli sani, erano affidati alle balie esterne. 48 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056, Principato Citra, 1818. 140 Anna Citarella

Accanto a quelle salernitane, “per raccogliere ed allevare queste vittime dell’in- continenza pubblica”49, si sarebbero dovute affiancare altri due istituti nei capo- luoghi dei distretti di Sala e di Vibonati50. L’evidente intento degli amministratori era di creare una struttura articolata in più sedi specifiche, per le diverse età dei bambini abbandonati, che li tutelasse dalla nascita fino all’età adulta. Per la prima volta nel regno si propose un pro- getto organico e aderente ai bisogni degli esposti51 degno degli standard dell’Eu- ropa più sviluppata. I consiglieri provinciali però ben conoscevano le condizioni finanziarie del regno52 e perciò erano sicuri che il governo non avrebbe fornito il denaro occorrente per realizzare l’intero progetto. Cercarono di aggirare l’ostaco- lo con la proposta minimale di attingere a quel poco che avanzava delle rendite dei luoghi pii laicali53. Nel 1815, in poco più di un quinquennio, fu realizzata la sede centrale dell’organizzazione, l’orfanotrofio di San Ferdinando, per i maschi maggiori di sei anni,54 in cui trovarono accoglienza anche alcuni anziani. Il governo, come previsto, non fornì tutti i fondi necessari, né stanziò una cifra annuale sufficien- te per il funzionamento dell’istituto. Ai consiglieri non restò che esprimere il proprio rammarico sia per i 1.600 ducati appena che lo stato aveva versato per la costruzione, sia per l’insufficiente capienza della dotazione annua assegnata55. Il San Ferdinando era comunque soltanto un orfanotrofio. La Casa Santa di A.G.P. 56, ossia il brefotrofio, era esistente ma non fu oggetto di alcun intervento fino al 1816 quando il Consiglio provinciale svelò i motivi della crudele sorte che era quasi sempre toccata ai projetti lì ospitati. Da gennaio a settembre 1816 infatti ne erano stati accolti 285 e solo 36 avevano superato il primo anno di vita. Anche in una società dove è noto la mortalità infantile era elevatissima e conside- rata quasi una fatalità, quelli erano comunque numeri spaventosi. Il Consiglio individuò all’origine di tale immane disastro una sola causa: la man- canza di balie57. I bambini erano morti di fame o di malattie anche non gravi, ma

49 Ibidem. 50 Ibidem. 51 Ibidem. 52 N. Ostuni, Finanza ed economia nel Regno delle due Sicilie, Napoli, 1992, cit., pp. 66. 53 A.S.N., Ministero dell’interno, F.183/1, Principato Citra, 1809. 54 Ibidem, F. 4056, Principato Citra 1816. 55 Ibidem. 56 Le A.G. P. erano opere caritative, presenti in tutti i capoluoghi di provincia, dove i neonati morivano per diverse cause, legate perlopiù alla mancanza di balie e a malattie infettive. Le stime della mortalità a Napoli nel corso dell’’800 oscillano tra il 70 e il 90%. G. Da Molin, I figli della madonna. Gli esposti all’Annunziata di Napoli (secc. XVII-XIX), Bari, 2001, p. 9. 57 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056, Principato Citra, 1816. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 141 fatali per il loro fisico malnutrito. Le balie non erano disponibili perché il loro “pagamento assai sovente ritardato e la tenuissima mercede che ricevono influisce moltissimo sul pessimo trattamento dei medesimi e assai spesso sulla loro sorte”58. Nel maggio 1817 il Consiglio incaricò due consiglieri, Andrea Lauro e Aniello Siani, di redigere una relazione in cui fosse illustrato lo stato della Casa Santa, gli interventi necessari per porre fine alla “strage degli esposti” ed evitati, per l’anno in cui sarebbero stati in carica, abusi e “disguidi”59. In questo modo a Salerno si intendeva intervenire per porre rimedio a drammatiche situazioni che accomu- navano l’Italia e gran parte dell’Europa60. A ottobre i consiglieri ribadirono le cause della morte di tanti neonati già espresse con i primi risultati dell’indagine. L’assoluta carenza di risorse economiche impediva l’assunzione di un numero sufficiente di balie, che non solo erano pagate poco e male ma dovevano allattare talvolta anche quattro bambini ciascuna. L’unico rimedio prevedibile in quelle condizioni era un intervento dello stato efficace e immediato61. Nel 1818 a fronte di una mortalità ancora più elevata degli anni scorsi ‒ su 229 projetti entrati nella Casa da gennaio a settembre solo 21 avevano superato il primo anno di vita ‒ il presidente del Consiglio provinciale, accertata l’indispo- nibilità dello stato, propose di spostare la Casa Santa nel convento del Carmine di proprietà del comune. Il provvedimento fu motivato dai reclami del proprieta- rio, che intendeva riappropriarsi per vendere l’immobile che fino ad allora aveva ospitato l’A.G.P. Il nuovo locale avrebbe dovuto favorire il miglioramento delle condizioni di vita dei neonati, sia per il tipo di costruzione, sia per l’esposizione e sarebbe stato aggregato per l’amministrazione all’ormai ben avviato orfanotrofio di San Ferdinando62. Per il trasloco però servivano immediatamente 2.000 ducati che il governo non intendeva versare. La provincia era sprovvista di fondi e le somme derivanti dalla beneficenza scarseggiavano63. Tutte le possibilità dell’amministrazione ordinaria erano precluse. I consiglieri provinciali decisero allora di coinvolgere il Vaticano, proponendo di ridurre la spesa del Ministero degli affari ecclesiastici per messe e anniversari e di destinare i risparmi alla costruzione del brefotrofio. La proposta per le autorità ecclesiastiche non poteva che essere encomiabile. Si chiedevano inoltre solo 8.000 ducati da prelevare su un fondo di 41.000 e invece fu respinta64.

58 Ibidem. 59 Ibidem, 1817. 60 G. Da Molin, I figli della madonna, cit. p. 9. 61 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056, Principato Citra, 1816. 62 Ibidem, 1818. 63 Ibidem. 64 Ibidem. 142 Anna Citarella

Dei 2.000 ducati per il trasferimento nel nuovo locale non ci fu bisogno per- ché il proprietario non trovò acquirenti per il vecchio65. La Casa Santa rimase dov’era e il progetto di concentrare gli istituti in un’unica amministrazione nau- fragò. Non restava che tentare di rendere più salubri le sale del vecchio edificio66. Sembra che in poco tempo qualche risultato si ottenne. Nel 1819 la condizione igienica dei locali era sensibilmente migliorata, il mobilio e la biancheria rinnovati e vi erano anche novità positive per le balie, che apparivano ben nutrite e maggiormente soddisfatte sotto l’aspetto finanziario con ricadute positive per la salute dei neonati67. Il Consiglio continuò a perseguire il nuovo progetto, costruendo un’infermeria e destinando “una somma per fondo di gratificazione alle balie che avranno meglio trattati e nutriti i projetti” 68 e a consolidare i risultati già raggiunti. Nel 1821 si resero più confortevoli i locali, che apparivano angusti per ospitare tutti gli esposti, si ristrutturarono le stanze da letto delle balie, si costruì “una loggia alla parte di mezzogiorno per asciugare i panni dei projetti e delle balie”. I bambini ospitati era- no 47 per 25 balie, il rapporto era sceso a meno di 2:1 da 4:1 di qualche anno prima ma la situazione finanziaria restava quanto meno precaria69. Nessun finanziamento era stato concesso dallo stato, tutto era stato eseguito assumendo un tale carico di debiti nel corso degli anni che l’istituto nel 1822 fu chiuso. L’idea del ripristino del brefotrofio fu abbandonata non solo per mancanza di finanziamenti, ma anche perché i consiglieri giunsero alla conclusione che era stato “in tutti i tempi la strage dei projetti”70. I neonati della provincia avrebbero avuto maggiori possibilità di sopravvivere se fossero stati accolti nelle ruote dei comuni “ove una commissione di persone probe e sensibili all’altrui miseria, avrebbe potu- to assai meglio invigilare all’esistenza dei medesimi, che sarebbero sostenuti dalla massa generale per il mantenimento dei projetti per quale articolo il Consiglio implorerà da S.M. un aumento nella somma” a loro destinata. Si sperava che il re si commuovesse davanti ad uno spettacolo così miserando e accorresse in aiuto71. Ma fu inutile, come inutile fu anche il tentativo del 1823 di riaprire la Casa Santa. Il Consiglio ribadì la decisione di dividere tra le università della provincia il peso dell’assistenza ai proietti. Tutte le spese per il mantenimento del neonato fino a sei anni sarebbero state a carico dell’università, che l’aveva accolto. Dopo, se si trattava di un maschio, sarebbe stato inviato all’orfanotrofio di San Ferdinando.

65 Ibidem, 1819. 66 Ibidem. 67 Ibidem. 68 Ibidem. 69 Ibidem, 1821. 70 Ibidem. 71 Ibidem, 1823. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 143

Per le bambine, a sette anni, quando il comune non avrebbe più pagato la balia, non erano previsti ricoveri. L’attenzione del Consiglio fu attirata dalle ine- vitabili conseguenze che sarebbero ricadute sulle bambine abbandonate per la seconda volta72. La loro sorte era ineludibile. Poche sarebbero state accolte in uno degli undici conservatori per donne pericolate e pericolanti presenti sul territorio della provincia73, pochissime sarebbero rimaste con la balia per essere impiegate nel lavoro dei campi o in quelli domestici in casa di qualche famiglia benestante, alle altre, quasi tutte, non restava che prostituirsi. Queste alternative e l’ignobile trafila non erano un mistero. Gli amministratori di Principato Citra furono i più attivi del regno nell’inten- to di soccorrere le bambine. Dal 1818 al 1845 presentarono proposte esecutive in ogni particolare, con l’indicazione sia dei locali più idonei per ospitarle, sia dei fondi necessari, sia delle modalità per reperirli74. Sin dal 1818 si propose di creare “un reclusorio di cui mancava la provincia […] per ricevere tutte le projette femmine, per istruirle nelle arti e preservarle dalla corruzione”75. Il locale, sito nelle vicinanze dell’orfanotrofio di S. Ferdinando, fu individuato in una parte dell’antico Ospizio del Carmine”76, un’altra parte avrebbe dovuto accogliere i bambini abbandonati. Furono previste spese di primo impianto per 2.000 ducati77 per i quali fu- rono opposte dal governo le solite difficoltà. I consiglieri allora elaborarono un altro progetto. Le projette sarebbero state ospitate nel conservatorio di Parete,

72 Sulla scorta di quanto fatto dai francesi, si rese più razionale l’assistenza con il regio decreto del 4 giugno 1818. Si fondarono sei orfanotrofi per le quattordici province del regno non solo per i projetti dall’età di sette anni, ma anche per i poveri, i vagabondi e per “tutti coloro che me- riteranno di esservi rinchiusi”. Le province sprovviste di orfanotrofio avrebbero inviato i bambini in quella più vicina. Ciò provocherà non poche dispute tra i Consigli provinciali. Le strutture di accoglienza dovevano essere scelte tra quelle già addette ad uso pubblico, in modo da utilizzare i fondi adoperati per il loro funzionamento, che sarebbero stati incrementati dal surplus dei bilanci dei luoghi pii laicali. A capo degli ospizi ci sarebbe stato un direttore. Su tutti avrebbe vigilato il ministero dell’Interno, coadiuvato dagli intendenti delle province e dai rispettivi Consigli provin- ciali. Collezione delle leggi e de’ decreti reali, 4 giugno 1818, n.1203. 73 G. Boccadamo, I conservatori femminili a Napoli e nel Regno nella prima metà dell’Ottocento: persistenze e innovazioni, in A. Bianchi (a cura di), L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento. Da Milano a Napoli: casi regionali e tendenze nazionali, Brescia, 2005, p. 804. 74 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056, Principato Citra, 1818, 1822, 1824, 1826, 1827. F. 4057, Principato Citra, 1828, 1829, 1830, 1831, 1833, 1835. F. 4058, Principato Citra,1840, 1842, 1843, 1844, 1845, 1846. 75 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056, Principato Citra, 1818. 76 Ibidem, In un primo momento si era pensato di trasferire in questo locale anche i neonati ospitati nella Casa Santa di Salerno. 77 Ibidem. 144 Anna Citarella dotato di una rendita di appena 151 ducati annui, impiegati fin allora per “le fanciulle orfane povere ed oneste del casale”78. Contemporaneamente si sarebbe soppresso il conservatorio di Giffoni trasferendo la sua rendita di 400 ducati annui al nuovo istituto di Parete, che sarebbe divenuto l’orfanotrofio provin- ciale delle projette. Ai 551 ducati, che si sarebbero così ottenuti ciascun anno, i consiglieri proponevano di aggiungere il ricavato di un testatico sugli abitanti dei comuni della provincia per raggiungere il totale di 1600 ducati79. Il progetto naufragò per diversi motivi. Innanzitutto perchè il comune di Giffoni sarebbe stato privato di un bene proprio anche se “ora non è[ra] abba- stanza utile per difetto di amministrazione”80, poi perché il Comune di Casale avrebbe perso quel “vantaggio creatogli da qualche suo benefico cittadino con un’ istituzione che riguarda esclusivamente le sue fanciulle povere ed orfane ed oneste le quali verrebbero ad essere accomunate alle projette” 81 e infine perchè le popolazioni della provincia avrebbero dovuto pagare lo scotto di un’ulteriore imposta. Nel 1822 fu rinnovata la richiesta per un orfanotrofio femminile con un finanziamento simile a quello chiesto qualche anno prima al Ministero degli af- fari ecclesiastici, cioè “la riduzione delle messe dei luoghi pii”82. Nelle more per evitare che si gettassero sulla strada le ultime bambine che avevano compiuto i sette anni, si prolungò di un anno il periodo di tempo che avrebbero trascorso con le balie. L’età del distacco fu fissata a otto anni sia per i maschi, che dopo sarebbero stati inviati all’orfanotrofio di S. Ferdinando, sia per le femmine. Il baratro che le bambine avrebbero trovato dinanzi a sé, dopo la separazione dalle balie era talmente avvertito e temuto, che vi fu chi avanzò un provvedi- mento semplicissimo ma efficace, contrario ai deliberati governativi, perciò re- spinto. Il consigliere Criscuolo propose, nell’attesa che fosse costruito l’orfano- trofio per le femmine, già deliberato ma non ancora finanziato, di continuare a inviare i maschi all’età non di otto, ma di sei anni al San Ferdinando, che già era operativo e di utilizzare i risparmi per lasciare le bambine con le balie non fino a otto ma a nove anni. Il denaro risparmiato con una minore permanenza totale di un anno sarebbe stato utilizzato per incrementare da otto a dodici ducati la paga mensile delle balie83. L’anno di svolta sembrò essere il 1824 quando il re approvò finalmente un

78 Ibidem. 79 Ibidem. 80 Ibidem. 81 Ibidem. 82 Ibidem, 1822. 83 Ibidem. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 145 nuovo progetto84. Il locale per l’orfanotrofio femminile fu individuato nel mo- nastero soppresso dei Domenicani di Salerno, che sarebbe stato ristrutturato con una spesa di 6.000 ducati così ricavati: 1.600 ducati dal fondo del mantenimento dei projetti; 1.300 ducati dal fondo di 3.689,37 annuali, assegnati per le feste, a carico dei luoghi pii; 2.100 ducati dal fondo di 43.113 delle elemosine annuali; 1.000 dal fondo di 2.795 ducati per le spese impreviste.85 Questo progetto fu approvato86 ma dopo numerose obiezioni. Problemi sor- sero per la scelta del locale che fu individuato nel 1826 nel convento di soppressi Antoniani di Vietri.87 I fondi furono giudicati insufficienti “perché quelli dei projetti [erano] stati distribuiti ai comuni e quelli dei luoghi pii non po[teva]no togliersi agli usi ai quali [erano] addetti”88. La metà del finanziamento previsto insomma non era più disponibile. Nel 1828 il Consiglio generale lamentò i continui ostacoli frapposti per im- pedire l’esecuzione di un progetto che era stato approvato dal re89. Ma intanto fu posto in evidenza un altro rilevante problema, costituito dal denaro che avreb- bero dovuto versare i luoghi pii. Nel 1831 il Consiglio osservò che quelli laicali avevano un fondo annuale giudicato eccessivo di ducati 19.552,25, destinati alla celebrazione di messe e “propose che S.M. poteva degnarsi di ottenere il bene- placito pontificio per la loro riduzione e per l’applicazione di annui ducati 6.000 fra i 19.552,25 alla dotazione dell’orfanotrofio”90, che non era più individuato né a Salerno, né a Vietri bensì a Cava dei Tirreni nel convento soppresso di S. Francesco. La decisione in merito fu affidata al ministro degli Affari ecclesiastici, che rigettò la richiesta perché non era corredata da informazioni ritenute da lui ne- cessarie quali “la notizia distinta degli stabilimenti di beneficenza della provincia gravati da simili pesi, le rendite, le opere che vi sono ingiunte, il numero delle messe a carico di ciascuno e quale riduzione se ne domanda con le osservazioni necessarie a dimostrarne il bisogno”91. Gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento videro il rinnovarsi delle proposte

84 Ibidem, 1824. 85 Ibidem. 86 Ibidem. 87 Ibidem, 1826. 88 Ibidem. 89 Ibidem, 1828. 90 Ibidem, F. 4057, Principato Citra, 1831. 91 Ibidem. 146 Anna Citarella e dei rifiuti più o meno pretestuosi. Il sito era sempre in discussione e nel 1833 si propose addirittura di ampliare la “casuccia” del parroco di S. Domenico di Spa- rano dove già vivevano alla meno peggio circa 25 projette salvate dalla pietà del prelato92. Si ricercavano ovunque fondi ma nel 1835 l’unica soluzione possibile restava ancora il ricorso alla “riduzione delle messe di cui son gravati i luoghi pii della Provincia”93. Dopo il 1835 non si rintracciano più proposte. Nel 1840 il Consiglio si li- mita a rammaricarsi che l’orfanotrofio femminile fosse stato approvato ma mai realizzato. Nel 1842 e nel 1843 si cerca senza convinzione di trovare i capitali con qualche improbabile risparmio sui compensi delle balie e con ancor più impro- babili fondi provinciali. Si fa strada l’idea dell’autofinanziamento.L ’orfanotrofio poteva disporre del “prodotto del lavoro giornaliero delle alunne”94. Questa stra- da non fu percorribile perchè non esisteva un capitale iniziale, ossia non si po- tevano allestire gli alloggi e acquistare le macchine necessarie per filare e tessere. Fino al 1845 continuò la girandola di idee più o meno originali ma l’orfano- trofio femminile non fu mai realizzato95 e alle projette, una volta compiuto l’anno del distacco dalla balia, restarono le poche vecchie, tragiche alternative.

3. La realizzazione di un progetto: l’orfanatrofio di San Ferdinando Con quello di Giovinazzo l’orfanotrofio di San Ferdinando di Salerno fu re- putato il migliore del regno. Fondato nel 1815, prima del decreto del 181896, era stato già deliberato dall’amministrazione francese. La gestione economica era il fulcro del suo successo. La provincia di Principato Citra aveva a disposizione per il mantenimento dei projetti una cifra che tra il 1818 e il 1845 passò da 16.630 a 30.675 ducati97. I conti relativi all’amministrazione dell’orfanotrofio non sono reperibili tranne quello della Tabella 1. Il conto morale rappresentatovi è emblematico della politi- ca borbonica sull’assistenza ai bambini abbandonati. La casa dei projetti nel 1822 dal totale nazionale destinato all’assistenza e diviso tra tutte le province riceve ducati 1.000 dal fondo provinciale di beneficenza di Principato Citra e 2.387,72 da quello della Basilicata che, non avendo istituti sul proprio territorio, inviava i suoi a Salerno e pagava una retta annuale per ciascun ricoverato.

92 Ibidem, 1833. 93 Ibidem, 1835. 94 Ibidem, F. 4058, Principato Citra, 1843. 95 Ibidem, 1844, 1845. 96 Collezione delle leggi e de’ decreti reali, 4 giugno 1818, n. 1203. 97 A.S.N., Ministero dell’interno, Principato Citra, F. 4056-4085 Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 147

Tabella 1 - Conto morale dei fondi per il mantenimento dell’orfanotrofio di San Ferdinando Ducati

Introito 1822 1825 1826

Ratizzo dei ducati 4.016 per il 1822 3.597,39

Case di Beneficenza della Provincia 2.719,00

Provincia di Principato Citra 1.000,00

Provincia di Basilicata 2.387,72

Prodotto delle arti dell’orfanotrofio 585,50

Luoghi Pii della provincia arretrati 1820 632,00

Luoghi Pii della provincia arretrati 1821 344,43

Totale 11.266,04 9.296,73 9.244,13

Fonte: A.S.N., Ministero dell’interno, II Inventario, Fascio 4056.

Altre entrate non derivavano dal potere centrale. L’orientamento politico go- vernativo era di versare un finanziamento annuale minimo mentre al resto dove- vano provvedere province e comuni. Per questo motivo il Principato Citra elevò molte proteste sull’entità delle cifre che la provincia di Basilicata avrebbe dovuto pagare per l’ospitalità con- cessa ai suoi cittadini. Questa richiese a più riprese la costruzione di un suo orfanotrofio più che, come affermavano i suoi consiglieri, per evitare disagi ai bambini, che dovevano affrontare un viaggio lungo e pericoloso, per non versare denaro ad un’altra provincia sottraendo risorse al proprio territorio. La provincia di Principato Citra, dal canto suo, già nel 1821 aveva fatto presente che mantenere i projetti della Basilicata era insostenibile per il costo elevato, circa grana 12 al giorno per ciascun ragazzo, a fronte di una retta di soli grana 898. Secondo gli amministratori dell’orfanotrofio i motivi del ricorrente deficit risiedevano proprio nell’esiguità delle somme corrisposte dalla provincia di Ba- silicata. Nel 1822 le tensioni tra gli amministratori delle due province si fecero ancora più forti perché dal Principato Citra reclamavano 1.073 ducati “per le spese fatte dallo stabilimento nel riattare le camerate per ricevere i reclusi

98 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056, Principato Citra, 15 ottobre 1821. 148 Anna Citarella di Basilicata99. Solo per quell’anno perciò la Basilicata dovette corrispondere all’orfanotrofio la cifra indicata inT abella 1. Si trattava di un quarto del budget totale della Basilicata disponibile per l’assistenza. Con il resto doveva provvede- re ai projetti che risiedevano nella provincia e che ancora non avevano l’età per essere inviati a Salerno. Negli anni però i reclami dell’amministrazione del San Ferdinando si atte- nuarono probabilmente perché l’introito annuo si incrementava di pari passo con lo sviluppo delle attività manifatturiere degli ospiti dell’orfanotrofio100, dalle quali si ottennero redditi che già nel 1822 ammontavano a circa il 5% delle entrate totali. Altre derivavano dagli arretrati dei luoghi pii della provin- cia, con un introito pari a poco meno del 10% del totale (Tabella 1). A queste cifre andrebbero poi aggiunti ducati 3.241 che l’orfanotrofio pretendeva per un non meglio specificato “attrasso di Scafati”, che da anni, a dire degli am- ministratori, non era versato101. Per gli anni trenta dell’Ottocento l’orfanotrofio poté contare su di un budget di circa 10.000 ducati annui. Negli anni successivi si può ipotizzare un notevole incremento grazie alla efficiente direzione e alla vendita dei prodotti delle mani- fatture. Anche la situazione igienica dell’istituto dovette migliorare in seguito alle più floride condizioni finanziarie.

Tabella 2 - Reclusi nell’orfanatrofio di San Ferdinando 1816-1832

Anni 1816 1818 1823 1826 1827 1828 1829 1830 1832

Reclusi 285 142 212 239 254 248 306 294 278

Fonte: A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056.

La spesa totale nel 1822 (Tabella 3) ammontò a Ducati 10.067,65 con un avanzo di gestione di 1.198,39. L’orfanotrofio godeva quindi di ottima salute finanziaria sin quasi dalla sua fondazione. Per allevare e ospitare i ragazzi e per gli stipendi dei dipendenti era spesa quasi tutta la cifra a disposizione, mentre le altre voci, oltre quella esigua che riguardava i ragazzi lucani, erano di valore trascurabile.

99 Ibidem. 100 S. Riboldi, Laboratori e maestri artigiani negli orfanotofi maschili. I martinitt a Milano tra Otto e Novecento, in C. Cenedella, G. Fumi (a cura di), Oltre l’assistenza, lavoro e formazione profes- sionale negli istituti per l’infanzia “Irregolare” in Italia tra Sette e Novecento. Milano, 2015. 101 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056, Principato Citra, maggio 1822. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 149

Tabella 3 - Spese per il mantenimento del Real orfanotrofio di San Ferdinando Ducati

Spese 1822 1825 1826

Deficit 1821 134,07

Ospitii e impiegati 9.657,59

Due projetti della Basilicata 13,30

Lavori di restauro 40,25

Stipendio al cassiere 222,44 Totale 10.067,65 9.738,53 10.415,54

Fonte: A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4065.

Gli amministratori dell’orfanotrofio, sin da primi anni, perseguirono l’intento di offrire ai ragazzi un luogo in cui poter essere educati e non solo reclusi. Fon- damentale era l’acquisizione di un mestiere, che avrebbe loro consentito sia di lavorare, per evitare che mendicassero o delinquessero, una volta divenuti adulti sia soprattutto di sostenere le finanze dell’orfanotrofio finché ne erano ospiti. Per questo motivo sorse immediata l’esigenza di allestire nei locali dell’orfanotrofio una moderna manifattura tessile. Nel 1818 il piano fu razionalizzato. Alcuni projetti furono avviati a un me- stiere, altri ad attività intellettuali, che consistevano, a seconda delle inclinazioni manifestate da ciascun ragazzo, nello studio della grammatica italiana, della lin- gua latina, del disegno, della musica militare, tipico insegnamento quest’ultimo di altri orfanotrofi102. Non mancarono tuttavia gravi episodi di sopraffazione generati dalla pro- miscuità tra uomini e ragazzi. Se i metodi utilizzati dai prefetti delle camerate erano violenti, secondo i canoni dell’epoca, dovevano accadere episodi di altro genere e più gravi se il Consiglio provinciale del 1819 rimosse i prefetti, addetti alla sorveglianza dei ragazzi nelle camerate, perché di dubbia morale e di cattivo esempio. Si auspicava la loro sostituzione con “uomini di conosciuti costumi”103, si chiedeva però anche l’abolizione della punizione “delle battiture che aspramen- te si adopera[va] contro i fanciulli e i reclusi che avviliva il carattere e invece di Cittadini darebbe alla società uomini depravati e schiavi”104. Insomma si cercava di introdurre nell’orfanotrofio un metodo educativo più moderno. Grazie a tutte queste accortezze la vita, l’avanzamento negli studi, le produzio-

102 Ibidem, 27 ottobre 1818. 103 Ibidem. 104 Ibidem. 150 Anna Citarella ni, i conti economici migliorarono progressivamente sin dalla fondazione dell’isti- tuto. Nel 1822 infatti non si riscontrava ancora una chiara intenzione di favorire lo sviluppo delle manifatture. Ancora nel 1823 il Consiglio provinciale lamenta- va che “le arti non [era]no animate e protette” e che bisognava “spingerle anche per un punto di finanze, perché avrebbero apportato un guadagno vistoso che avrebbe fatto un vantaggio notabile al mantenimento di quello stabilimento”105. Nel rapporto dell’anno seguente si ribadisce che i “reclusi restavano oziosi per mancanza di lavori” e si chiedono fondi per l’acquisto di materie prime “per farsene lavori e vendersi a conto dello stabilimento, facendo così un vantaggio nell’atto che si evita la dannosa inerzia dei reclusi”106. Al ministro dell’Interno fu inutilmente chiesta “una somma sulla resta di cassa del ratizzo assegnato”107. Anche nel 1825 si rileva che i locali dello stabile erano ben tenuti, ma non altret- tanto poteva dirsi degli ospiti a causa delle scarse risorse finanziarie. Fino alla fine degli anni trenta, i maggiori problemi per l’orfanotrofio erano costituiti dalle difficoltà di avviare manifatture tessili all’interno dello stabilimen- to per mancanza di finanziamenti per acquistare macchinari più evoluti. Laddove invece valeva la sola volontà degli amministratori si riscuotevano successi. Le condizioni igieniche dell’edificio ad esempio erano buone e anzi si progettavano ampliamenti poiché gli arrivi erano continui mentre il numero dei decessi era in netta flessione. Nel 1826 gli stessi consiglieri provinciali esortavano a diffidare delle appa- renze. Era vero che i ragazzi apparivano decentemente vestiti e curati ma in realtà soffrivano la fame “giacché non si passano che grana sei meno un quarto”. Per risparmiare l’appalto di fornitura del cibo fu revocato e organizzata una cucina interna108. Le macchine per filare non erano moderne perché costavano troppo e allora si erano avviate numerose altre attività che richiedevano meno impegno di capitali tra le quali la “scarperia”, la “teleria”, la “sartoria”, la “stamperia”109. Era stato an- che ingaggiato un “maestro di falegnameria sottile” e un maestro di musica, che aveva riunito i ragazzi in un’ orchestra divenuta il vanto dello stabilimento. Come calzolai erano impegnati 30 ragazzi, che lavoravano anche fuori dall’i- stituto. Il maestro infatti versava annualmente “in forza di contratto legale ducati 150, con la facoltà di estrarre dal luogo dieci dei trenta e condurli a travagliare

105 Ibidem. 106 Ibidem. 107 Ibidem, 5 maggio 1824. 108 Ibidem, 30 maggio 1826. 109 S. Margoni, Le officine e scuole di tipografia e legatoria presso gli istituti assistenziali nell’Italia dell’Ottocento, in C. Cenedella, G. Fumi (a cura di), Oltre l’assistenza, cit., Milano, 2015. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 151 nella sua bottega”110. Per la tessitura, per la quale erano disponibili undici telai, “il prodotto per due terzi va a vantaggio del luogo l’altro terzo si dà al capo telaio con l’obbligo di dar brema e sapone”111. Per la sartoria vi era un maestro esterno, che percepiva un salario di 30 carlini al mese, più una percentuale di due grana per la “tagliatura” di ogni abito, che i reclusi avrebbero confezionato. Il mastro falegname invece non riceveva compensi. La tipografia “stampava gli atti dello stato civile dell’intera provincia, i giornali dell’intendenza, e potrebbe apportare un sensibile vantaggio e dare un abbondante profitto”112 se avesse avuto dalle istituzioni pubbliche altre commesse. Nel 1826 le potenzialità dell’orfanotrofio erano ancora scarsamente sfruttate. Dei 239 projetti soltanto 80 erano impegnati nell’apprendimento di un mestie- re. Gli altri restavano nell’istituto senza alcuna attività, pochi per mancanza di volontà, quasi tutti per l’insufficienza di materie prime e per “la sovrabbondanza del numero degli individui”113 in rapporto agli spazi utili per impiantare altre attività. Nel 1827 i ragazzi, che non erano occupati, vengono addetti alla lavanderia coadiuvando la sola lavandaia in servizio che, per 10 ducati mensili, avrebbe dovuto provvedere alle esigenze di 100 persone tra ospiti e impiegati. Questa decisione giovò alla pulizia e all’igiene dei ragazzi e dei loro letti114. Nello stesso anno si inaugurò anche una scuola di religione. L’insegnante era il cappellano dell’orfanotrofio e avrebbe impartito lezioni ai ragazzi, che ormai erano diventati 254, secondo l’età e degli impegni che avevano all’interno della struttura. Dopo aver rassettato il letto ciascun ragazzo sarebbe stato impiegato giornal- mente secondo una precisa tabella. Gli ospiti erano divisi in quattro classi. La prima era composta da coloro che dovevano uscire dal locale per le arti e questi avevano un’ora sola per le lezioni. Le ore delle altre tre classi erano distribuite nell’arco della giornata: un’ora della stessa mattina per la 2a classe, e due ore del giorno per la 3a e la 4a115. La sartoria e la teleria si appaltarono ad artigiani locali, i quali avevano facoltà di far svolgere il lavoro per i propri clienti dai ragazzi dell’istituto. Si era visto infatti che il laboratorio artigiano che costruiva scarpe, già affidato a un privato, aveva prodotto notevoli risultati non solo per il canone che l’orfanotrofio riceveva ma per le nozioni che apprendevano i ragazzi, grazie alla varietà degli ordini che

110 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4056, Principato Citra, 30 maggio 1826. 111 Ibidem. 112 Ibidem, 23 maggio 1826. 113 Ibidem. 114 Ibidem. 115 Ibidem. 152 Anna Citarella dovevano soddisfare116. Le manifatture servivano sia lo Stato con la stamperia, sia i privati con la sartoria e la teleria. Non si ha notizia di frizioni con privati deter- minati dalle attività produttive del San Ferdinando, grazie forse al valore etico di tale attività. I giovani dovevano cercare un reinserimento nel tessuto sociale e il loro impegno non poteva che essere ben visto da tutti. La cucina dal 1827 era gestita dall’orfanotrofio. Da allora il vitto dei ragazzi sembrò sensibilmente migliorare. A pranzo disponevano di una minestra di pasta o di legumi e nei giorni di “grasso quattro once di carne”. Nei giorni di magro qualche uovo o baccalà. A cena e a pranzo si distribuivano 16 once di pane al giorno, circa 450 grammi. Era un regime alimentare in grado di propinare le necessarie calorie a un bambino in fase di sviluppo. Dovette apparire forse trop- po ricco per i tempi, se alcuni ispettori suggerirono di sostituire qualche volta la carne con mezza oncia di formaggio. Il pane invece si doveva distribuire anche a colazione. Il trattamento alimentare dei ragazzi apparve agli ispettori addirittura tale da viziare gli ospiti i quali, sarebbero stati probabilmente destinati, una volta usciti dall’orfanotrofio, a una dieta alimentare molto scarsa e a stento avrebbero mangiato “un pezzo di carne in qualche giorno dell’anno”117. L’istituto nel 1828 appariva “migliorato notabilmente nelle arti, nell’ educazio- ne, nella disciplina, nel mantenimento e nel tutto assieme tanto che presenta[va] un aspetto totalmente diverso dal suo primo essere. L’attuale forza dei reclusi ascende al numero di 248 e sono tutti addetti alle arti come segue: alla musica 98, alla sartoria 31, alla tessitoria 46, bombagiari 23, al disegno 30, per l’applicazione 3, calzoleria 20, falegnami 3, stamperia 3, barbieri 2, prefetti 1, bidello al Consiglio di Basilicata 1, vecchi 13”118. L’attività dei ragazzi più apprezzata era la musica. L’orfanotrofio di San Ferdinando insomma si era imposto come modello di organizzazione per tutto il Regno e soprattutto per la capitale, dove negli analoghi istituti regnava il caos119. Il monitoraggio degli organismi di controllo era approfondito e costante ma i miglioramenti strutturali dipendevano da finanziamenti che soltanto lo stato po- teva distribuire. I locali ad esempio erano divenuti troppo angusti per il numero degli ospiti. Per questo motivo i ragazzi dividevano i letti singoli, dando luogo a “sconci che meritano di essere corretti”. L’infermeria doveva tornare dove stava prima del trasferimento. Le stanzette dove era stata spostata si dovevano riservare agli ammalati gravi e in pericolo di vita120. L’amministrazione dell’orfanotrofio

116 Ibidem, 7 maggio 1827. 117 Ibidem. 118 Dei 248 presenti nell’orfanotrofio di San Ferdinando nel 1828, 106 provenivano dalla pro- vincia di Basilicata. A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4057, Principato Citra, 1828. 119 Per il Real Albergo dei Poveri, cfr. G. Moricola, L’industria della carità, cit., p. 61. 120 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4057, Principato Citra, maggio 1829. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 153 auspicava investimenti in tutte le attività praticate e reclamava inutilmente possi- bili soluzioni per reperire capitali. In assenza dell’intervento statale, il Consiglio poteva immaginare soltanto ar- tifici contabili che operavano travasi di fondi da un capitolo del bilancio, spesso già insufficiente, a un altro. Nel 1829, quando le attività erano state tutte impian- tate e bisognava soltanto rafforzarle, propose di considerare gli introiti provenien- ti dalle “arti” presenti nell’orfanotrofio come un fondo a parte da stralciare dallo stato discusso dell’opera, finalizzandolo alla sola attività di miglioramento “fino a che questo non sia giunto a una lodevole perfezione”121. Non si considerava che le manifatture erano state impiantate per finanziare le spese dell’orfanotrofio e ora si voleva trasformare il loro introito in finanziamento del capitale d’esercizio delle manifatture stesse. Ciò significava far passare in secondo piano le attività dell’istituto non direttamente produttive, che erano il vero scopo dell’orfanotro- fio e, come fece notare la Consulta nel 1830, si finiva col trascurare l’educazione religiosa alla quale per altro era abbinato lo studio dell’italiano122. In risposta il Consiglio provinciale propose il miglioramento della “sola scuola di leggere e scrivere che trovasi in un certo languore”. Insomma, risolti i problemi di sopravvivenza, ora si discuteva della qualità del servizio impartito dalla struttu- ra. Notevole attenzione fu riservata agli ammalati, divisi secondo le patologie123, in locali più ampi e soprattutto lontani dall’aula adibita all’insegnamento della musica124, che portava “un vistoso prodotto all’amministrazione e forniva degli eccellenti allievi alle bande dei Reali eserciti”125. Altra attività degna di nota era l’alfabetizzazione, eseguita con i nuovi metodi di Bell e Lancaster. Questo sistema ebbe molto successo e fu seguito anche negli anni successivi. Con esso si formavano i cosiddetti “maestrini”, ragazzi partico- larmente bravi, che si occupavano dell’educazione dei compagni, consentendo il risparmio dello stipendio dei maestri. Risultarono così vantaggiosi alla struttura che il Consiglio provinciale chiese di non congedarli “dallo stabilimento se non quando altri li avessero sostituiti”126. L’orfanotrofio non era più il luogo lugubre che si trovava ancora in altre pro-

121 Ibidem. 122 Ibidem, 10 maggio 1830. 123 In particolare si chiedeva di “istituire due sezioni separate l’una per i malati contagiosi l’altra per i moribondi”. Nell’orfanotrofio erano ospitate anche persone anziane, nel 1830 12 su 294 ospiti. Ibidem, 12 maggio 1832. 124 Nel 1832 nell’infermeria vi erano 18 letti, di cui uno con materasso in lana per i malati più gravi. Ibidem. 125 Ibidem. 126 A.S.N., Ministero dell’interno, F. 4058, Principato Citra, 10 maggio 1842. 154 Anna Citarella vince del regno ma era quasi diventato una cittadella dei ragazzi. Negli anni la musica e la tessitura127 migliorarono con i servizi offerti, come il vitto, tornato in appalto ad una ditta privata, che però sembrava somministrare pasti di qualità soddisfacente128. Anche le condizioni igienico-sanitarie migliorarono ancora129. La vita130 continuò a svolgersi regolarmente e nelle relazioni annuali le lodi per la buona amministrazione si susseguirono. Nel 1839 si chiese di dare al di- rettore sia maggiori mezzi finanziari, sia maggiori poteri dal momento che la stessa commissione d’indagine osservava “che il consiglio degli ospizi nella parte amministrativa non e[ra] diligente come nel passato e che questa indulgenza e[ra] compensata dalla vigilanza del direttore”131. I ragazzi formatisi nell’istituto si inserirono nelle imprese locali fornendo manodopera specializzata. L’orfanotrofio diS . Ferdinando di Salerno sopravvisse al regno delle due Sici- lie e si inserì nella nuova realtà sociale italiana, contribuendo allo sviluppo dell’ar- tigianato locale.

Conclusioni Il Settecento rappresenta per lo stato sociale un momento di svolta, determinato dalle nuove idee illuministiche, che imposero ai sovrani maggiore attenzione alle condizioni della popolazione. Contemporaneamente lo sviluppo economico della fine del secolo trasformò la società creando nuove necessità. Nelle nazioni dove maggiore fu lo sviluppo manifatturiero proliferarono le idee legate allo stato sociale. Lo stesso in parte accadde anche negli stati che non furono toccati dalla nuova industrializzazione. Nel Regno di Napoli fu specialmente il Principato Citra a perseguire nuovi canoni di miglioramento della vita dei ceti meno avvantaggiati. Dal 1808, anno in cui fu creato dalle riforme francesi, come per le altre province, il Consiglio generale di Principato Citra cercò principalmente di procurare una tutela ai projetti, le cui esigenze erano sempre state, specialmente per le bambine, ignorate dal potere centrale.

127 Ibidem, 7 maggio 1834. 128 La dieta era migliorata rispetto agli anni precedenti “in ciascun giorno è assegnato loro un pane di 16 once e per zuppa tre e mezza di semola e pasta bianca”. Ibidem, 12 maggio 1832. 129 Ibidem. 130 Gli amministratori dell’orfanotrofio di San Ferdinando, si è visto, per i metodi di insegna- mento si erano ispirati al modello anglosassone e non è da escludere, visiti i risultati raggiunti, che fosse proprio il modello londinese, con la grande cura che poneva nel miglioramento della qualità della vita dei projetti, a guidare i direttori che si avvicendarono alla guida dell’orfanotrofio. G. Moricola, L’industria della carità, cit., p. 68. 131 Ibidem, F. 4058, Principato Citra, 1844. Il Principato Citra e l’infanzia abbandonata 155

Il Consiglio riuscì in pochi anni a dare prima una speranza e poi una pro- spettiva di vita a questi bambini e immaginò una dislocazione degli istituti di accoglienza, che avrebbe dovuto rappresentare quasi un bastione difensivo per chi era ospitato. La Casa Santa, ovvero il brefotrofio, struttura risalente ai secoli scorsi, sarebbe dovuta essere trasferita in una zona limitrofa a quella individuata per la costruzione dell’ orfanotrofio maschile di San Ferdinando. Nella stessa area sarebbe dovuto sorgere un orfanotrofio per le bambine, istituzione sconosciuta in tutte le province del regno. Questi i progetti. Quello complessivo subì notevoli modifiche per mancanza del necessario sostegno finanziario dello stato. Il clero, che nel corso degli anni era stato estromesso dal settore dell’assistenza, pur chia- mato in soccorso degli amministratori, si rifiutò di appoggiare un’iniziativa che appariva solidamente laica. Il governo centrale sostenne soltanto in parte le iniziative ma solo quelle relati- ve ai maschi di età superiore ai sette anni. Solo per loro fu realizzato l’orfanotrofio pubblico di San Ferdinando di Salerno che, negli anni, divenne un centro di eccellenza, perché sperimentò metodologie didattiche anglosassoni all’avanguar- dia e allestì un centro manifatturiero, per consentire agli ospiti di apprendere un mestiere, e, allo stesso tempo, per autofinanziare l’istituto. L’orfanotrofio per le bambine di età superiore ai sette anni non fu mai costru- ito. I progetti furono puntualmente bocciati. La Casa Santa di Salerno dopo vari tentativi di recupero fu chiusa nel 1822 per mancanza di fondi. I neonati esposti nei paesi della provincia furono accolti nelle ruote comunali.

Studi di Storia Urbana/Urban History Studies

Collana diretta da/Series directed by Donatella Calabi e Carlo M. Travaglini

1. Le nobiltà delle città capitali, a cura di Martine Boiteux, Catherine Brice, Carlo M. Travaglini, Università Roma Tre-CROMA, 2009, pp. 372, € 20,00.

2. Giulia Vertecchi, Il «masser ai formenti in Terra Nova». Il ruolo delle scorte granarie a Venezia nel XVIII secolo, Università Roma Tre-CROMA, 2009, pp. 196, € 16,00.

3. Built City, Designed City Virtual City. The Museum Of The City, edited by Donatella Calabi, Università Roma Tre-CROMA, 2013, pp. 256, € 25,00.

4. Digital Urban History. Telling the History of the City in the Age of the Ict Revolution, edited by Rosa Tamborrino, Università Roma Tre-CROMA, 2014, pp. 160, € 25,00.

5. Il fuoco e la città. Storia, memoria, architettura, edited by Franco Benucci, Andrea Caracausi, Luca Mocarelli, Elena Svalduz, Università Roma Tre-CROMA, 2016, pp. 152, € 25,00.

Per informazioni, acquisti di singoli fascicoli contattare: CROMA - tel. 06.57334050, fax 06.57334030, www.croma.uniroma.it [email protected] «Città e Storia», XII, 2017, 1, pp. 157-166, doi: 10.17426/31287, ©2017 Università Roma Tre-CROMA

Schede a cura di Salvatore Adorno ([email protected]) e Filippo De Pieri ([email protected])

Silvia Beltramo, Flavia Cantatore, Marco Folin (eds), A Renaissance Architecture of Power: Prin- cely Palaces in the Quattrocento, Leiden-Boston, Brill, 2016, pp. 465, ISBN 9789004243613

Pubblicato dalla casa editrice olandese Brill nella collana «The Medieval Mediterranean», il volume è dedicato ai palazzi, sedi rappresentative del potere signorile nell’Italia del Quattro- cento. Esso mette a confronto alcuni degli esempi più noti e studiati, da Urbino a Mantova, da Firenze a Milano, con altri meno frequentati, giunti all’attenzione degli studiosi attraverso ricerche più recenti, come i casi di Saluzzo, Carpi, o della Sicilia aragonese. Il tema delle corti italiane del Rinascimento ha goduto di grande fortuna storiografica, ma solo negli ultimi decenni è riuscito a travalicare i confini geografici tradizionali, con uno spostamento dell’at- tenzione anche verso i centri minori o verso zone tradizionalmente ritenute periferiche. La critica ha inoltre ampliato gli strumenti di indagine a propria disposizione, attraverso ricerche d’archivio sistematiche e un dialogo serrato con la storia politica, sociale ed economica. La tematica circoscritta scelta dai curatori permette di cogliere appieno, e nello spazio di un unico volume, alcune direzioni intraprese dalle ricerche recenti e le loro future potenzialità. Il volume è diviso in due parti, una prima dedicata ad alcuni argomenti generali, la se- conda a case studies specifici. Dei saggi iniziali, quello di Marco Folin funge da introduzione al tema, tracciando l’evoluzione dell’idea stessa di palazzo dalla rocca medievale alla dimora rinascimentale e ponendo l’accento sulle linee guida che informano gli studi riuniti nella seconda parte: dal rapporto con il tessuto urbano circostante, ai modelli, alla distribuzione interna in rapporto alla funzione sociale e abitativa degli spazi. Flavia Cantatore prosegue il discorso presentando una panoramica della trattatistica architettonica del Quattrocento, mentre Silvia Beltramo affronta la complessa questione delle vestigia medievali nell’architet- tura del Rinascimento. Andrea Longhi si concentra infine su un tema circoscritto, lo sviluppo e la diffusione delle cappelle palatine, tutt’altro che scontato per gli studi italiani. I dieci casi esposti nella seconda parte offrono un panorama sull’argomento che, non po- tendo di necessità risultare completo ed esaustivo, riesce tuttavia a far emergere la complessità e molteplicità di soluzioni messe in campo dai principi italiani per palesare la posizione di po- tere raggiunta o, in alcuni casi, solo vagheggiata: dai palazzi signorili dei marchesi di Saluzzo (Beltramo) al più noto castello Sforzesco (Scotti); da Mantova (Girondi) a Venezia (Casini); dalla Ferrara di Ercole I (Folin) alla Imola di Girolamo Riario (Zaggia) fino al Palazzo dei Pio a Carpi che ambisce a imitare quello Ducale di Urbino (Svalduz). Passando per la Firenze dei Medici (Ferretti), a Roma, con il palazzo Vaticano voluto da papa Martino V (Cantatore), al Castel Nuovo di Napoli (de Divitiis) e allo Steri di Palermo (Nobile). Il taglio dato ai vari contributi, in cui si ricostruiscono attraverso un’attenta lettura di fon- ti e documenti le fasi costruttive degli edifici e il loro contesto geografico, politico e culturale, 158 SCHEDE restituisce un quadro delle diverse corti preciso e lineare, che permette di comprendere le scel- te dei principi committenti, attentissimi a che il messaggio da propagandare fosse ben chiaro a tutti, dai sudditi ai potentati vicini e lontani. Ai saggi si affianca un apparato bibliografico vasto e aggiornato, caratteristica che rende il volume un utile strumento di studio. Il volume è stato redatto in inglese e ha l’obiettivo di presentare al pubblico internazionale i risultati delle ricerche italiane più aggiornate, nel solco aperto da alcune recenti pubblica- zioni come il volume Courts and Courtly Arts in Renaissance Italy, del 2010, curato da Marco Folin, di cui il lavoro risulta quasi il naturale prosieguo. Grazie all’approccio comparativo adottato, le corti e i palazzi principeschi offrono un punto d’osservazione efficace, e allo stesso tempo aperto alle diverse suggestioni provenienti da altre discipline, per comprendere più in generale l’architettura del Rinascimento.

Simone Fatuzzo

Wolfgang Sonne, Urbanity and Density in 20th-Century Urban Design, Berlin, DOM Publi- shers, 2017, pp. 360, ISBN 9783869224916

La casa editrice berlinese DOM ripubblica in edizione inglese un volume che Wolfgang Sonne aveva pubblicato in edizione tedesca nel 2014 e che propone un interessante tentativo di sintesi retrospettiva intorno ad alcune linee di ricerca del disegno urbano del ventesimo secolo. La tesi proposta dall’autore è che esista una tradizione del moderno che non si identi- fica né con le posizioni radicalmente antiurbane né con le proposte di radicale trasformazio- ne dell’ambiente urbano fatte proprie da molte delle esperienze moderniste più storicizzate. Lungo tutto il Novecento, è possibile al contrario identificare il permanere in ambito inter- nazionale di un denso nucleo di riflessione intorno ai due temi chiave dell’urbanità e della densità, ovvero intorno a ipotesi di riforma della città che si confrontano con la possibile permanenza di alcune delle modalità di uso dello spazio che caratterizzavano la città conso- lidata. L’ipotesi vale tanto in chiave retrospettiva, come esplorazione di alcuni capitoli della storia dell’urbanistica contemporanea, quanto in chiave prospettiva, nel senso di un possibile dialogo tra conoscenza storica e direzioni di riflessione del progetto urbano contemporaneo Il volume copre un periodo che va dall’ultimo scorcio dell’Ottocento alla contempora- neità e una geografia che prende in esame diversi contesti europei e nordamericani. Una delle implicazioni del tema scelto dall’autore sta nel fatto che il lavoro tende a concentrarsi su una dimensione del fare città che si situa su una scala intermedia tra architettura e urbanistica e che pone un forte accento sulla dimensione spaziale. Il racconto si apre con un capitolo che esplora le diverse sfumature assunte, prima e nel corso del ventesimo secolo, dalle tre parole chiave che ne articolano la riflessione, ovvero urbanità, densità e storia. I cinque capitoli che seguono sviluppano il racconto focalizzandosi di volta in volta intorno ad alcune questioni chiave. Il capitolo II, Urban residential reform blocks, 1890-1940, osserva le ricerche condotte intorno al tema dell’isolato urbano, e in particolare del superblock, all’interno di varie sfaccet- tature dei modernismi architettonici di primo Novecento. Il capitolo III, Squares and streets as a public stage 1890-1940, segue alcune delle linee di continuità che uniscono il progetto urbano di inizio secolo alla città ottocentesca. Il capitolo IV, High-rises as generators of pu- blic urban space 1910-1950, osserva alcune strategie progettuali che vedono nell’edificio alto Schede 159 meno un elemento di rottura di forme di urbanità consolidata che un elemento catalizzatore per un possibile nuovo disegno dello spazio pubblico. Il passaggio alla seconda metà del No- vecento si compie sotto il segno di due metafore, quelle della ricostruzione e della riparazione. Il capitolo V, Conventional and traditionalist reconstruction 1940-1960, discute le tendenze ‘tradizionaliste’ della ricostruzione postbellica in diversi paesi europei, mentre il capitolo VI, Repairing the city 1960-2010, ricostruisce le tappe di un ritorno di interesse per l’eredità fisica della città densa che ha tra i propri punti di riferimento iniziali le esperienze di conservazione dei tessuti storici delle città condotte in Europa tra anni sessanta e settanta. Il volume ha uno dei propri punti di forza nella lussuosa veste editoriale e nel ricco ap- parato iconografico, che consente una narrazione visiva sfumata e articolata, certo lontana dagli stereotipi del genere. Si tratta di un lavoro che non ha l’ambizione di essere una storia comprensiva dell’urbanistica del ventesimo secolo ma solo l’esplorazione di alcune tradizioni specifiche, anche se proprio in virtù di questa delimitazione preliminare i punti di incontro e di dialogo tra ricerche apparentemente più ‘tradizionaliste’ e altre più ‘radicali’ intorno alle questioni del disegno urbano tendono talvolta a rimanere sottotraccia.

Filippo De Pieri

Roberto D’Arienzo, Métabolismes urbains. De l’hygiénisme à la ville durable: Naples 1884- 2004, Genève, MētisPresses, 2017, pp. 326, ISBN 9782940563135

L’obiettivo del libro è quello di esaminare l’evoluzione storica di Napoli tra diciannovesi- mo e ventesimo secolo a partire da una prospettiva ecosistemica. L’autore analizza le trasfor- mazioni metaboliche e cioè quell’insieme di flussi che la città assorbe, metabolizza ed espelle attraverso varie forme. Si tratta di un processo lento che prende le mosse dalla fase della città igienico-sanitaria dopo il colera del 1884, attraversa la prima guerra mondiale ed il fascismo, conosce un’accelerazione dopo gli anni cinquanta con il trionfo di un modello di sviluppo economico fondato sul consumismo, per giungere al 2004 con il tentativo di invertire questo trend dotandosi di un piano regolatore fondato su “zero consumo di suolo”. Seguendo queste fasi cronologiche, Roberto D’Arienzo analizza il passaggio del contesto urbano da un ciclo circolare-valorizzante, nel quale i ‘resti’ delle attività umane e produttive che vengono esercitate sono percepiti come risorsa, ad un altro ciclo lineare e dissipativo re- sponsabile della trasformazione del ‘resto’ in rifiuto. Il primo tende a prolungare la vita delle risorse attraverso il riciclaggio, mentre il secondo, una volta trasformate le risorse in prodotti di consumo, se ne libera senza valorizzarle. Il risultato è molto originale. La storia di Napoli guardata dal punto di vista del processo metabolico proviene dalla lettura di una grande quantità di fonti che Roberto D’Arienzo ha raccolto presso gli archivi della Prefettura e dei servizi sanitari, nei manuali tecnici e nei testi legislativi, nel “Bollettino del Comune di Napoli” e nei testi di antichi autori, nei giornali coevi. L’autore le legge attraverso l’applicazione di una griglia interpretativa fondata su una serie di categorie e di linguaggi che fanno riferimento a diversi saperi disciplinari: la storia dell’ambiente e quella dell’architettura, l’ecologia e l’economia, la filosofia e la scienza della pianificazione. Il tutto è, inoltre, corredato da un grande numero di fotografie, planimetrie, carte geografiche. 160 SCHEDE

Di grande interesse per gli storici è la parte più specificamente ottocentesca in cui l’autore analizza il funzionamento di un sistema di scambi sinergici grazie alle attività svolte da una serie di mestieri (per esempio lo chiffonnier o “robivecchi”) fondati sul recupero e la valorizza- zione dei ‘resti’. C’era a Napoli un mercato di materie recuperate e trasformate grazie ad una domanda proveniente dalle attività produttive come la fabbricazione dei fertilizzanti, della colla, della carta. Il libro è scritto con un linguaggio molto ricco ed efficace e si configura come un contri- buto storiografico eccellente all’urban environmental history, un filone di studi che ha cono- sciuto uno sviluppo importante negli Stati Uniti con i libri di Martin Melosi, in Francia con quelli di Sabine Barles (che cura l’introduzione), e in Italia con le ricerche di Simone Neri Serneri. Attraverso la storia metabolica di una città situata alla periferia del mondo occidentale, popolosa e povera di risorse e di materie prime, protagonista tra il 2007 e il 2008 di una delle più drammatiche emergenze rifiuti mai conosciute in questa parte del pianeta, Roberto D’A- rienzo spiega e illumina i meccanismi profondi attraverso i quali è avvenuto il più ampio ed epocale processo di sostituzione di una società dello spreco ad una del recupero, come frutto del successo economico e culturale di un modello di sviluppo fondato sulla filosofia di una crescita dissipativa e senza limiti.

Gabriella Corona

Milena Farina, Luciano Villani, Borgate romane. Storia e forma urbana, Melfi, Libria, 2017, pp. 208, ISBN 9788867641062

Il libro di Milena Farina e Luciano Villani indaga la storia e le forme delle borgate romane costruite in epoca fascista, di cui propone una lettura riabilitante. Il testo mette esplicita- mente in discussione l’interpretazione consolidata che tende a ridurre le borgate ad episodi di esclusione sociale e scarsa qualità architettonica e urbana. Un immaginario che gli autori riconducono ad una storia ormai datata, inevitabilmente legata alla damnatio memoriae della politica pubblica fascista, oltre che ad una serie di difficoltà contingenti che hanno segnato la vita di una popolazione eterogenea ma indubbiamente marginalizzata. Il testo si inserisce tra i rari tentativi di riparlare, dopo più di vent’anni di diffuso disinte- resse, della città residenziale pubblica, anche e soprattutto nelle sue forme ordinarie. Nel vasto e ricco campo degli studi urbani che si sono occupati della periferia romana, gli autori rico- noscono un interesse specifico alle borgate la cui costruzione è iniziata tra il 1929 e il 1941. Interesse giustificato non solo dalla necessità di aggiornare un ambito di ricerca tutt’altro che esaurito, ma anche dall’aver individuato in questi nuclei, avamposti della colonizzazione della cintura periferica esterna della capitale, un campo di progettualità rivolta al futuro. A sostegno della loro tesi i due autori propongono uno sguardo duplice, perfettamente conforme alle discipline che sono loro proprie (rispettivamente, la progettazione architet- tonica e la storia). Uno schema interpretativo ripreso letteralmente nella struttura del libro, articolato in due sezioni principali, metodologicamente distinte ma complementari. Nella prima Luciano Villani propone una ricostruzione dell’origine e della storia delle borgate, che, alla luce di una grande eterogeneità di fonti − in parte frutto di un recente la- Schede 161 voro di riorganizzazione di materiale d’archivio − ne offre una visione evolutiva e articolata, in aperta antitesi alla tradizione che vede la nascita delle borgate esclusivamente come l’altra faccia degli sventramenti urbani del Ventennio. Così anche il Duce e la gerarchia fascista assumono il ruolo di coprotagonisti in un quadro complesso di attori e rapporti di potere mutevoli. Nella seconda sezione Milena Farina ricostruisce una tassonomia dei principali temi com- positivi che hanno ispirato la progettazione delle borgate, delineandone un’identità distin- guibile, portatrice di qualità e potenzialità specifiche. L’analisi è supportata da un chiaro ed efficace apparato grafico, costante supporto alla narrazione. I contributi più innovativi e interessanti offerti per un’interpretazione rivisitata delle bor- gate romane sono proprio quelli che godono di una struttura argomentativa che attinge a en- trambi i campi di studio. Inserendo le borgate nel quadro comparativo di una storia più lunga e più ampia, che le inquadra come tasselli tanto della tradizione architettonica italiana quanto del dibattito proprio al razionalismo europeo, gli autori arrivano a dipingerne un’immagine di grande eterogeneità sia dal punto di vista storico che spaziale. Delle borgate si inizia a di- stinguere un quadro ricco e variegato, in cui gli esiti urbani non solo leggibili separatamente da quelli sociali, politici e economici. Se le sorti assolutamente diversificate delle borgate mettono alla prova qualsiasi tentativo di risalire a principi di causalità generalizzabili, il testo raggiunge efficacemente l’obiettivo di far emergere il potenziale non manifesto di queste specifiche parti di città, testimoniato dal recente insorgere di una sub-cultura locale e di un sempre più forte riconoscimento identi- tario. Poco, invece, si vede del potenziale di progettualità futura più volte citato nel libro, lasciando uno spunto aperto a nuovi possibili sviluppi.

Caterina Quaglio

Gabriele Corsani, Heleni Porfyriou, Borghi rurali e borgate. La tradizione del disegno urbano in Italia negli anni Trenta, Roma, Palombi Editori, pp. 282, ISBN 9788860607713

Il volume curato da Corsani e Porfyriou documenta la produzione di borghi e borgate realizzati in Italia a cavallo tra gli anni Venti e Quaranta dalla dittatura fascista. Gli autori am- biscono sia ad ampliare il racconto degli insediamenti di fondazione alle esperienze coloniali meno studiate sia ad attribuire a questi il ruolo di oggetti rappresentativi del disegno urbano di matrice italiana. Il libro si apre con due saggi che fungono da cornice interpretativa per l’intero testo. Corsani esplora l’evoluzione degli insediamenti rurali e periurbani dal Settecento al Nove- cento, rivendicando l’autonomia dei borghi e delle borgate italiane degli anni Trenta, pur inquadrandoli nella tradizione del garden suburb inglese e dei primi villaggi operai. Questa indipendenza è da attribuirsi, secondo il saggio della Poryfriou, all’impulso di figure come quella di Giovannoni, il quale avrebbe portato in Italia la lezione di Camillo Sitte su un dise- gno urbano artistico basato sulla percezione visiva. Nella sezione centrale, nove autori descrivono i progetti di nuovi insediamenti rurali sorti in tutto il territorio dell’Italia fascista nel corso del Ventennio. Oltre ai più noti interventi dell’Agro Pontino e dell’Agro Romano, lo sguardo si estende verso il foggiano e la Sicilia e 162 SCHEDE verso esempi meno conosciuti con il racconto delle realizzazioni e progetti nelle colonie, dalla Grecia all’Africa Orientale. Ognuno dei saggi è corredato da schede illustrative sui casi studio dotate di planimetrie e fotografie d’epoca. I disegni supportano le tesi degli autori sulla specificità e la pluralità di questo corpus documentario. Ad una lettura trasversale l’elemento generatore della piazza emerge come tratto distintivo di queste esperienze di disegno urbano, mentre i linguaggi impiegati e le variazioni tipologiche narrano una pluralità di approcci di ibridazione sia con l’architettura rurale sia con il razionalismo di matrice internazionale. L’ultima sezione tenta di tracciare una connessione tra i progetti descritti nel secondo capitolo e gli interventi italiani di decentramento urbano del secondo dopoguerra, in partico- lare La Martella e Borgo Venusio, nei dintorni di Matera. Segue un contributo antropologico sul riconoscimento della popolazione attuale di Latina con i simboli del fascismo. Seppure riferito ad una città di fondazione e non ad un borgo rurale, questo saggio è posto strategi- camente in chiusura ad alimentare le ragioni della conservazione degli interventi urbani del fascismo slegando la questione ideologica da quella identitaria. Il volume, oltre a fornire materiale inedito che contribuisce ad arricchire il campo degli studi urbani sul ventennio fascista, ha il merito di superare i confini disciplinari affidando il racconto a punti di vista differenti che ricadono comunque sempre entro un ambito di de- scrizione spaziale. Si possono identificare due principali questioni aperte che la ricerca pone. Da un lato, si pone l’interrogativo sulle prospettive di recupero e conservazione di molti di questi borghi e borgate che ad oggi risultano in stato di abbandono. Dall’altro, il tema della paternità italiana di una determinata tradizione di disegno urbano, che può offrire spunti per ulteriori ricerche in chiave comparativa con altri casi internazionali.

Federico Coricelli

Bruno Ziglioli, “Sembrava nevicasse”. La Eternit di Casale Monferrato e la Fibronit di Broni: due comunità di fronte all’amianto, Milano, Franco Angeli, 2016, pp. 160, ISBN 9788891750235

Il volume di Ziglioli si colloca nel filone di studi che va progressivamente affermandosi anche in Italia e che unisce le tematiche della storia ambientale e sociale alle tecniche del- la storia orale. La ricerca mette in comparazione i casi dei due stabilimenti di produzione dell’amianto di Broni (Fibronit) e Casale Monferrato (Eternit) con l’intento di capire perché, mentre nel centro piemontese “la storia dell’amianto si è trasformata in un fattore ‘unificante’ per la comunità” entrando “a far parte dell’identità cittadina”, a Broni “il tema […] resta tuttora un fattore divisivo” (p. 16). Si tratta però di una storia ambientale che diventa “urbana”, e più precisamente “comuni- taria”, a causa dello stretto – e purtroppo in gran parte nefasto – legame che si instaura tra gli impianti e i contesti cittadini in cui essi sorgono: ciò non solo a livello socio-occupazionale ed economico, ma soprattutto dal punto di vista epidemiologico, vista la pervasività delle conseguenze sanitarie della contaminazione dell’aria causata dalle polveri fibrose di asbesto, il cui impatto mortale travalicò ampiamente l’ambito della fabbrica, fino a diventare addirittura più ricorrente tra la popolazione ‘civile’ rispetto che tra i lavoratori degli impianti industriali. Nella cittadina del Monferrato il progressivo processo di ‘autocoscienza’, prima all’interno della fabbrica e successivamente in tutto il tessuto sociale locale, dei rischi mortali da conta- Schede 163 minazione da asbesto iniziò alla fine degli anni settanta e, col sorgere di casi sempre più nu- merosi di mesotelioma pleurico, portò a un’aperta contestazione nei confronti dell’impianto, che fu chiuso nei primi anni novanta. A Casale tale processo fu possibile grazie all’azione del sindacato, che portò la questione alla ribalta cittadina e che, contestualmente, riuscì ad agglomerare attorno alla battaglia per la salute pubblica anche i medici del locale ospedale. Nel frattempo, a livello nazionale, i rischi dell’esposizione all’amianto portarono al varo di una legislazione che nel 1992 di fatto proibì la produzione del materiale da costruzione e il suo uso così versatile che ne aveva decretato, insieme al basso costo, l’enorme successo, so- prattutto negli anni del boom economico. L’azione della cittadinanza culminò infine nell’iter processuale che negli anni Duemila portò i vertici dell’azienda a giudizio e i cui esiti tuttavia non sembrano aver dato un degno risarcimento alle vittime delle polveri di amianto. A Broni, invece, seppur in presenza di dinamiche del tutto simili a quelle casalesi, come evidenziano in maniera spesso toccante i verbali dei Carabinieri che raccolgono le testimo- nianze dei lavoratori della fabbrica redatti per il processo iniziato nel 2005 presso il tribunale di Voghera, la vicenda fu sottaciuta per paura che la fabbrica potesse chiudere, a fronte di una debolezza sindacale sui temi di sicurezza sul lavoro, di un’assenza delle forze politiche e di una memoria divisa, scomoda e financo rimossa. Segno, probabilmente, oltre che di una minore forza di coesione da parte della comunità pavese, anche del fatto che a Broni tale ‘antologia di Spoon River’ non è ancora conclusa.

Giovanni Cristina

Martin Baumeister, Dieter Schott, Bruno Bonomo (eds.), Cities Contested: Urban Politics, Heritage, and Social Movements in Italy and West Germany in the 1970s, Frankfurt-New York, Campus, 2017, pp. 420, ISBN 9783593506975

Le città italiane e tedesche negli anni settanta sono l’oggetto di questo volume colletta- neo, che raccoglie le relazioni di un convegno che ha avuto luogo all’Istituto storico tedesco di Roma nel maggio del 2015. La scelta di mettere in relazione i contesti urbani dei due Paesi durante un decennio carico di tensioni e conflitti sociali – ma anche portatore di nuovi modi di amministrare gli spazi urbani secondo sensibilità più attente alla dimensione ‘culturale’ delle città – si basa sul rico- noscimento degli anni settanta come un “period of structural rupture” (Raphael), sia in Italia che in Germania occidentale. D’altra parte, appaiono molte le differenze che distanziano, sia per natura, che per intensità e ‘temporalità’ dei fenomeni, la condizione delle città nelle due nazioni. Tale difformità di situazioni ha impedito al volume una piena adozione del metodo comparativo: i vari saggi, infatti, si soffermano su specificicase studies, alcuni dei quali, al li- mite, analizzando le forme della mobilitazione dell’emigrazione italiana a Monaco (Prontera) o l’impatto che il Movimento del ’77 ebbe sulle “proteste urbane” in Germania occidentale (Haumann), delineano un possibile ponte ideale tra le esperienze italiana e tedesca. La gran parte dei contributi ha invece come oggetto, in maniera esclusiva, singoli aspetti del panorama urbano tedesco o italiano. Gli anni settanta sono intesi sia come uno spartiacque rispetto alla golden age postbellica e al suo ciclo espansivo, sia come una fase in cui emerge una “urban crisis” che si palesa sotto 164 SCHEDE diversi aspetti. Il volume organizza i saggi in tre filoni tematici che prendono in considera- zione, rispettivamente, le politiche urbane riconducibili all’integrazione, all’edilizia pubblica e all’agenda culturale, il tema dei centri storici, nel rapporto tra “protection and reinvention” (Vinken, Nucifora), e le forme della mobilitazione sociale in ambito urbano. Quasi paradigmatico è il caso della città di Bologna, che a fine anni settanta costituì un modello all’avanguardia di amministrazione comunale, anche all’estero, grazie al Peep del centro storico varato da Cervellati, che nel volume è analizzato dai saggi di Bodenschatz, Ulshöfer, Zucconi e Cristina. Inoltre, centrale appare il ruolo del Pci come attore politico quasi esclusivo, nel panorama partitico dell’epoca, nel portare avanti una riflessione sulla città in epoca di crisi, come evidenzia il saggio di Bartolini, ma anche in una fase in cui emergeva- no nuove esigenze da parte della cittadinanza. Relativamente al contesto romano, se il Pci ‘in- dipendente’, messo alla prova dell’amministrazione capitolina, cercava di portare avanti una politica di edilizia pubblica barcamenandosi tra “utopia” (Vidotto) e problematico rapporto con la protesta per la casa guidata dall’estrema sinistra (Villani), dall’altro lato lo stesso partito sembrava più a suo agio nell’organizzazione delle politiche culturali, come dimostra il saggio di Colozza sull’‘estate romana’ durante le sindacature di Nicolini e Petroselli. In definitiva, si tratta di un volume ben costruito e riuscito, che può senz’altro fare da apripista per ulteriori ricerche ‘transnazionali’ che possano considerare le città degli anni set- tanta includendo auspicabilmente anche i contesti francese, britannico e spagnolo.

Fabrizio La Manna

Irene Sartoretti, Intimi universi. Un viaggio attraverso spazi, arredi e vissuti domestici, Milano, Mimesis, 2016, pp. 172, ISBN 9788857536651

In una contemporaneità aperta al continuo cambiamento e fortemente segnata dalla plu- ralizzazione e diversificazione dei modi dell’abitare, come si configura oggi lo spazio domesti- co, tra il permanere di significati tradizionali associati alla casa e l’emergere di nuove esigenze e valori abitativi? È questo l’interrogativo che nel 2013 ha spinto l’autrice, Irene Sartoretti, docente presso l’ENSA di Strasburgo, a intraprendere il suo lungo e affascinante viaggio per interni domestici milanesi. Come sottolinea Giampaolo Nuvolati nella sua prefazione, l’intento del libro appare chia- ro sin dalle prime pagine: osservando comportamenti abitativi e raccogliendo storie e progetti di vita, l’autrice intende mettere in tensione l’immagine tradizionale della casa come luogo privilegiato per l’affermazione di identità, con una nozione di casa contemporanea in perma- nente cambiamento, dove anche l’arredo domestico rispecchia l’instabilità di identità sociali che continuamente si reinventano e i processi di individualizzazione dello spazio in atto. Adottando una prospettiva di lunga durata, l’autrice esplora la nozione di casa nella sua evoluzione dalla casa borghese, segnata dalla specializzazione degli spazi domestici, e da un universo di valori che trova una prima codificazione nei modelli abitativi ottocenteschi, alla casa moderna, che deve il suo sviluppo all’affermarsi di teorie igieniste e di una nozione og- gettiva di comfort, fino alla casa contemporanea che, con l’emergere di nuovi modi di vita, rimette in questione modelli abitativi e familiari dominanti fino alla fine degli anni settanta. Un’esplorazione tra pratiche abitative e aspirazioni residenziali che si muove tra l’analisi Schede 165 architettonica e la ricerca sociologica e prende vita anche attraverso le interviste e le fotografie di Roberto Manueli, che privilegiano un segmento riconoscibile di quella che Sartoretti de- finisce “una classe media acculturata metropolitana e cosmopolita”. Si tratta di venti giovani coppie d’età compresa tra i trenta e i quarant’anni, senza figli, che si trovano nella prima tappa del ciclo di vita insieme e condividono ruoli professionali, progetti di vita aperti al cambia- mento e scelte residenziali (hanno deciso di vivere nella Milano intra-moenia). Un segmento tuttavia solo apparentemente omogeneo che riflette in realtà un universo di contraddizioni e stili di vita variegati, anche riconducibili al diverso contesto geografico di provenienza, titolo di godimento dell’abitazione, situazioni familiari, e tipo di studi. La fotografia che emerge, restituita con straordinaria sensibilità dall’autrice, mette a fuoco la pluralizzazione delle esigenze e la diversificazione dei modi di vivere la casa e concepire lo spazio domestico, dove anche nella scelta dell’arredo risuona la ricerca costante di flessibilità, individualizzazione riflessiva, singolarizzazione e temporalità, espressione di processi sociali in atto e fenomeni della contemporaneità. Ed è proprio in questo approccio che risiede l’interesse del percorso esplorativo, anche sul piano metodologico: attraverso l’osservazione ravvicinata di spazi, vissuti domestici e oggetti d’arredo, le biografie di case e le microstorie collezionate dall’autrice permettono di intro- durre dinamiche di ampia portata, confrontandosi con un’interpretazione dell’abitare che in realtà non si limita allo spazio domestico ma ne indaga le proiezioni (simboliche) e le diverse scale, concentrandosi sugli spazi di soglia e di confine, e privilegiando una dimensione globale e astratta che contribuisce a ridefinire il concetto di abitare contemporaneo.

Gaia Caramellino

C. Alessandro Mauceri (a cura di), Guerra all’acqua. La riduzione delle risorse idriche per mano dell’uomo, con la collaborazione di Marina Forti e i contributi di Guido Caminiti e Amedeo Rossi, Rosenberg & Sellier, Torino, 2016, pp. 203, ISBN 9788878854888

Autore di diversi lavori sui temi dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile e della geopoli- tica internazionale, il curatore affronta la questione dell’accesso alle risorse idriche nel mon- do attuale attraverso un approccio sistemico su scala globale. Grazie a questa prospettiva la questione dell’acqua è sottoposta a un esame critico utile a scandagliare tutti i nodi tematici di un problema strategico cruciale per la geopolitica mondiale. Il risultato è un libro multi- prospettico, capace di mettere in luce lo stato delle risorse idriche dal punto di vista quantita- tivo e qualitativo, le variegate possibilità di accesso all’acqua, i cambiamenti in corso e le loro cause, il loro impatto sull’ambiente, la demografia, l’economia e la pace, il ruolo degli attori nazionali e sovranazionali nella gestione del patrimonio idrico. Questo grazie a un’analisi meticolosa delle dichiarazioni di intenti e delle pratiche dei governi in ogni continente. Si tratta di uno studio di ampio respiro che include i contributi di Amedeo Rossi, già autore di articoli e monografie sulla Palestina, che in questo caso si è occupato del rapporto tra risorse idriche e questione arabo-israeliana; diverse schede curate dalla giornalista Marina Forti, firma delle pagine su Canada, California, Michigan e area indocinese; e infine l’inter- pretazione di Guido Caminiti, a cui sono affidati i capitoli sul Mediterraneo e sulla siccità e gli sprechi idrici in Italia. 166 SCHEDE

Il libro è di facile lettura, anche grazie all’equilibrata composizione delle parti: a una prima introduzione, suddivisa in due capitoli sui problemi ambientali, sanitari e geopolitici legati all’acqua, segue un’articolazione per aree geografiche che offre ai lettori una prospettiva realmente globale attraverso un’analisi dello stato delle risorse idriche in tutti i continenti. All’interno del testo sono presentate alcune utili mappe geografiche (che la scelta di una diversa soluzione grafica, magari a colori, avrebbe potuto valorizzare meglio) e diverse tabelle che rielaborano i dati prodotti da istituzioni e da organizzazioni non governative. La ricca sitografia, aggiornata al 15 settembre 2016, concede al lettore la possibilità di tornare rapida- mente alle fonti principali del libro: documenti prodotti dalle agenzie delle Nazioni Unite, dai governi, dalle ONG, dalle istituzioni economiche sovranazionali o nel corso degli incon- tri tra i leader mondiali e articoli sulla questione ambientale pubblicati su riviste scientifiche internazionali. Il volume è dunque un prezioso strumento per trarre un bilancio sulle condizioni del patrimonio idrico mondiale e sulle ragioni storiche della sua precarietà, ma rappresenta anche una denuncia delle gravi responsabilità politiche della società contemporanea che compro- mettono la qualità della vita delle generazioni presenti e di quelle future.

Chiara Maria Pulvirenti Hanno collaborato al fascicolo 2017-1

Gaia Caramellino, Politecnico di Milano, [email protected]

Anna Citarella, Università “Magna Græcia” di Catanzaro, [email protected]

Gabriella Corona, CNR, Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo, [email protected]

Federico Coricelli, Politecnico di Torino, [email protected]

Giovanni Cristina, EHESS, Centre de Recherches Historiques, [email protected]

Filippo De Pieri, Politecnico di Torino, [email protected]

Giovanni Favero, Università di Venezia, [email protected]

Simone Fatuzzo, Università di Padova, [email protected]

Paola Lanaro, Università di Venezia, [email protected]

Fabrizio La Manna, Università di Catania, [email protected]

Vania Levorato, Università di Venezia, [email protected]

Brigitte Marin, Aix Marseille Univ, CNRS, TELEMME, [email protected]

Roberto Parisi, Università del Molise, [email protected]

Chiara Maria Pulvirenti, Università di Catania, [email protected]

Caterina Quaglio, Politecnico di Torino, [email protected]

Natalia Terekhova, National Research University Higher School of Economics, Moscow, [email protected]

Ines Tolic, Università di Bologna, [email protected]

Gaetano Zilio Grandi, Università Ca’ Foscari Venezia, [email protected]

città e storia www.croma.uniroma3.it

2006 n. 1, La cifra della città. Architetture e trasformazioni urbane, a cura di R. Morelli, M.L. Neri n. 2, La città allo specchio, a cura di C. Conforti, L. Nuti e C.M. Travaglini

2007 n. 1, La città cosmopolita, a cura di D. Calabi n. 2, Shopping and Housing. Shops, Merchants’ Houses and the Market Place in Europe in the Early Modern Age, a cura di Rosa Tamborrino, Evelyn Welch

2008 n. 1-3, I Musei della città, a cura di D. Calabi, P. Marini e C.M. Travaglini

2009 n. 1, Lo sguardo della storia economica sull’edilizia urbanaa cura di M. Barbot, A. Caracausi e P. Lanaro n. 2, Spazi e cultura militare nella città dell’Ottocento, a cura di M. Savorra, G. Zucconi

2010 n. 1, Studi di storiografia urbana n. 2, Burocrazie tecniche, a cura di S. Adorno, F. De Pieri 2011 n. 1, L’Aquila oltre i terremoti. Costruzioni e ricostruzioni della città, a cura di S. Ciranna, M. Vaquero Piñeiro n. 2, La città dei letterati, a cura di P. Gibellini

2012 n. 1, Tales of the City: Outsiders’ Descriptions of Cities in the Early Modern Period, a cura di Flaminia Bardati, Fabrizio Nevola and Eva Renzulli n. 2, La città che cambia. Riconversioni e metamorfosi, a cura di Giovanni Favero, Paola Lanaro 2013 n. 1, The Mega Event New Research Perspective in Economics, Exhibitions, Urban Transformation, a cura di Roberta Morelli, Donatella Strangio n. 2, Il passato conteso. Metamorfosi di alcune “città di confine” nel Mediterraneo orientale tra Ottocento e Novecento, a cura di Cristina Pallini, Heleni Porfyriou

2014 n. 1, Digital methods for urban history, a cura di Keti Lelo, Eva Chodějovská n. 2, Tra pubblico e privato. Case per dipendenti nell’Italia del secondo Novecento, a cura di Gaia Caramellino, Alice Sotgia

2015 n. 1, Acque amiche, acque nemiche. una storia di disastri e di quotidiana convivenza, a cura di Massimo Galtarossa, Laura Genovese n. 2, Fascicolo miscellaneo 2016 n. 1, Use of History in the Making of Urban Heritage, a cura di Gábor Sonkoly n. 2, Portes et péripheries, a cura di Eleonora Canepari, Nicolas Vidoni

Editors: Donatella Calabi, Università IUAV di Venezia; Carlo M. Travaglini, Università «Roma Tre»

Editorial board: Salvatore Adorno, Università di catania; Claudia Conforti, Università di Roma «Tor Vergata»; Filippo De Pieri, Politecnico di Torino; Alberto Grohmann, Università di Perugia; Alberto Guenzi, Università di Parma; Marco Iuliano, University of Liverpool, School of Architecture; Paola Lanaro, Università Ca’ Foscari di Venezia; Keti Lelo, Università «Roma Tre»; Brigitte Marin, Aix-Marseille Université; Luca Mocarelli, Università di Milano «Bicocca»; Francesc Muñoz, Universitat Autònoma de Barcelona; maria Luisa Neri, Università di Camerino; Carlos Sambricio, Universidad Politécnica de Madrid; Gábor Sonkoly, University of Budapest; Peter Stabel, University of Antwerp; Giuseppe Stemperini, Università «Roma Tre»; Donatella Strangio, Sapienza Università di Roma; Rosa Tamborrino, Politecnico di Torino; Guido Zucconi, Università IUAV di Venezia

Editorial Advisory Board: Maurice Aymard, EHESS, Paris; Alfredo Buccaro, Università di Napoli Federico II; Aldo Castellano, Politecnico di Torino; Jean- François Chauvard, Université Lumière Lyon 2; Eva Chodějovská, Istituto di Storia dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca; Matthew Davies, Birkbeck, University of London; Dirk De Meyer, Ghent University; David H. Friedman, MIT, Cambridge (Ma); Bernard Gauthiez, Université Lyon-III «Jean Moulin»; Maurizio Gribaudi, EHESS, Paris; Enrico Iachello, Università di Catania; Derek Keene, University of London; Renée Kistemaker, Amsterdam Museum; Hidenobu Jinnai, Hosei University, Tokyo; Miguel Angel Ladero Quesada, Univ. Complutense, Madrid; Daniele Manacorda, Università «Roma Tre»; Ferdinand Opll, Universität Wien; Joan Roca, Museu d’Història de Barcelona (MUHBA); Walter Rossa, Universidade de Coimbra; Alison Smith, Wagner College, New York; Rosemary Sweet, Centre for Urban History, Leicester; Paul Zanker, Scuola Normale Superiore, Pisa

Coordinano la rubrica delle Schede bibliograficheS alvatore Adorno ([email protected]) e Filippo De Pieri ([email protected]) Responsabile segreteria di redazione: Simona Bultrini,Università «Roma Tre» Proposte di contributi, manoscritti e pubblicazioni per recensione vanno inviati a [email protected] | [email protected] Tutte le proposte di pubblicazione di saggi sono valutate secondo il criterio internazionale del blind referee. Articles appearing in this journal are abstracted and indexed in: EBSCO DISCOVERY SERVICE; Elsevier/Scopus I sommari e gli abstracts di «Città e Storia», sono consultabili sul sito: www.croma.uniroma3.it

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La rivista è pubblicata dall’Università degli Studi Roma Tre-Croma con l’Associazione Italiana di Storia Urbana (AISU) EDITORIAL Rules

1. Manuscript formulation of theory, in J. Benson, L. Ugolini (eds.), Cultures of selling. Perspective on Manuscripts should be sent to the editor-in-chief by electronic mail: consumption and society since 1700, Ashgate, 2006, pp. 265-291:280. [email protected], as an attached file. The format should be as sober When a citation of a book or article is repeated later, the author must be indi- as possible, with single spacing, no style sheet, no tabulation, in Garamond cated as usual while the title of the work should be abbreviated (to the first two or characters (12 for the text, 10 for the footnotes). The large files (greater than three words), followed by a comma and the expression “cit.” (in Roman script), 5 MB) should be sent to the same address using the site wetransfer.com. The followed by the page number(s). City and date of publication are to be omitted. file should be called: “author name.paper.doc”. For example: S. Lomax, The view from the shop: window display, cit., p. 270. Along with the text of the article should be sent the abstract (in Italian When the second citation of a text immediately follows the first the word and English) of max 1000 characters or 170 words and a maximum of 5 “Ibidem” should be used in italics without page number if the citation refers keywords; the file will have the name : “author name.abstract.doc”. to another line one the same page. The article should specify the phone number, e-mail and postal address of For example: Ibidem. If the second citation refers to: S. Lomax, The view the author. The author must indicate his or her institutional affiliation, when from the shop: window display, cit., p. 270. applicable. Otherwise, if the citation refers to another page in the same text, the word “Ibidem” should be used, also in italics, followed by the page number. 2. Quotations For example: Ibidem, p. 275. If the second citation refers to: S. Lomax, The Quotations should be placed between inverted commas (“ ”) with citation view from the shop: window display, cit., p. 275. of the source. Any omissions should be indicated with three dots between Please in the initial submission of the article do not include any acknowl- brackets […]. To facilitate reading it is preferable to eliminate any abbrevia- edgement or self-referencing in either the main text or footnotes. If you refer tions contained within the quoted material, and to modify punctuation and to data that is available on a particular website that you have created, please accentuation to conform to modern usage. do not give the exact web address at this stage simply note that such a website exists. It is imperative that you remain anonymous to the referees. 3. Bibliographic references The author’s first and middle names (only the initials) and surname in regular type 4. For citations of archival documents and manuscripts followed by a comma (in the case of more than one author, the names should be Following any references to the specific document, specify the archive (in separated by a comma), the complete title of the work or article, in italics, followed Roman type), the source and the series, if there is one (in italics), the enve- by a comma (in the case of foreign language titles other than French, English, lope or register and, lastly, if applicable, the page (indicating whether recto Spanish, and German, the title’s translation should be provided between square or verso) If citation of an archival document is repeated and if the name of brackets), city of publication, the date of publication, the page reference (p. or pp.) the some archive is repeated it is necessary to precede the numbered notes For example: V.E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna, 1971, p.77. with an unnumbered annotation, referred to from the title of the article with C. Accasto, V. Fraticelli, R. Nicolini, L’architettura di Roma Capitale. 1870- an asterisk, in which a list of the abbreviations used is given, e.g., ASR = 1970, Roma, 1971, pp. 65-90. Archivio di Stato di Roma; BAV = Biblioteca Apostolica Vaticana The title For works in more than one volume, after the title the number of the vol- of manuscript documents should be given in regular type between inverted umes should be indicated (in Arab numerals), followed by the city, year (or commas (“ ”); d) references to manuscript pages should use the following years) of publication, specific indication of the volume (in Roman numerals) abbreviations: c.= carta; cc. = carte; r = recto; v =verso. and the pages referred to. Examples: Archivio di Stato di Roma, Camerale II, Arti e mestieri, b. 22. For example: P.P. Letarouilly, Édifices de Rome moderne […], 4, Paris, 1868- ASR, Camerale II, Arti e mestieri, b. 24. 1874, II, pp. 112-125. ASR, Trenta Notai Capitolini, Not. De Sanctis, 1769, vol. I, cc. 153r-155v. An exception are dictionaries, encyclopedias, etc. for which only the volume BAV, Vat. Lat., 1160. cited should be given. “Lettera del cardinal Camerlengo al Principe”, 1750, Archivio di Stato di For example: G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, VIII, Roma, Camerale II, Sale e Tabacchi, b. 15, f. 119. Roma, 1841, pp. 64-78. For anonymous works and for collective works the title should be given, as 5. Tables, Graphs, Images above, preceded by the name/s of the editor/s if applicable (in regular type, All images must be provided only in jpg format, with a dpi resolution of 300 with the first name initialed, followed by the words “ed./eds.” in brackets dpi for 20x30 cm images. round); for foreign works it is preferable to indicate “edited by” in the origi- They must be labelled progressively (Fig. 1, Fig. 2, …) and accompanied by nal language, as it appears on the frontispiece; a caption with the Author’s name (if known), Title (when given) or Subject, For example: P. Carusi (a cura di), La Capitale della nazione. Roma e la sua Indication “partial” or “detail” (if the image is not complete), Date and Source. provincia nella crisi del sistema liberale, Roma, 2011. The author must state that the images are free from copyright or, if not, show J. Stobart, A. Hann, V. Morgan (eds.), Space of consumption: leisure and shop- the authorization obtained for the reproduction. ping in the English town c.1680-1830, London and New York, 2007. For example: Fig. 4 - G. Primoli, Everyday life in piazza di Trevi, 1890 ca., A. Pelletier, J. Rossiaud, F. Bayard, P. Cayez (sous la dir.), Histoire de Lyon des FP, 6459/A. origins à nos jours, Lyon, 2007. Fig. 8 - A. e P.F. D’Alessandri, The fountain of the Acqua Felice in piazza S. For conference proceedings the following indication should then be includ- Bernardo, 1860, MRAF, AF 1228. ed, in Roman type and preceded by a comma: Proceeding of the conference Fig. 2 - G. Maggi, Map of Rome in 1625, reprint 1774, BNCR, detail. … (city, date). Fig. 3 - M. Pampani, Watercolour map of a large piece of land in the rione For example: R. Tamborrino, E. Welch (eds.), Shopping and Housing. Shops, Monti district, 1613, ASR, TNC, Ufficio 8, vol. 45. Merchant’s Houses and the market Place in Europe in the Early Modern Age, Proceeding of the conference (Lyon, 27th-30th August 2008), Rome, 2008. Tables must be numbered and provided with headings (in italics). They For journal articles indicate, as above, the author’s name (in regular should not be formatted. type) and the title of the article (in italics), followed by the name of For example: Table 1 - Houses with shop premises in probate inventory samples, the periodical between inverted commas (“Studi Storici” not preceded seventeenth-eighteenth centuries by “in”), the indication of the volume in Roman numerals, of the year of publication, of the issue number (not preceded by “n°” or by “is- Graphs must be numbered and provided with headings (in italics). sue”), of the overall pages and, when appropriate, of the specific page Moreover, for these, the author must provide not only the image but also the or pages cited (the opening and closing pages should be indicated in Excel database so that they may be properly laid out. their entirety: pp. 235-254); For example: For example: G. Giarrizzo, Intellettuali e Mezzogiorno nel secondo dopoguerra, Graph 1 - Distribution of museum visitors by age (years 2003-2007) “Studi Storici”, XX, 1979, 1, pp. 91-110: 93. For contributions to collective works or miscellaneous collections, the au- It is particularly recommended to always indicate: thor and title of the contribution should be indicated as above, adding the - In reference volumes: place and date of issue; complete reference to the collective work in which it is contained (preceded - In the citation of articles: the complete information about the journal (vol- by “in”), specifying comprehensive page numbers, followed by the specific ume, calendar year, issue number, page numbers in which the complete text pages being referred to. of the article is included). For example: S. Lomax, The view from the shop: window display, the shopper and the Please avoid all text formatting/tabulating.