U N I V E R S I T A' D I P I
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View metadata, citation and similar papers at core.ac.uk brought to you by CORE provided by Electronic Thesis and Dissertation Archive - Università di Pisa DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA CORSO DI LAUREA IN LINGUE E LETTERATURE MODERNE EUROAMERICANE TESI DI LAUREA Fuori dal canone? Voci della critica e della letteratura femminile contemporanea. CANDIDATO RELATRICE Silvia Giannarelli Chiar.ma Prof.ssa Roberta Ferrari ANNO ACCADEMICO 2015/2016 A mio zio Andrea. INDICE INTRODUZIONE 1 CAPITOLO 1. LA CRITICA FEMMINISTA Lo sviluppo 8 The woman as a reader 14 The woman as a writer 25 CAPITOLO 2. UN ESEMPIO DI LETTERATURA FEMMINILE: THE GOLDEN NOTEBOOK DI DORIS LESSING Il contesto 37 Il romanzo 40 CAPITOLO 3. I GENDER STUDIES Lo sviluppo 60 Speaking of and for gays and lesbians 66 Speaking as gays and lesbians 76 CAPITOLO 4. UN ESEMPIO DI LETTERATURA LGBT: THE GRACEKEEPERS DI KIRSTY LOGAN L’autrice 81 Il romanzo 81 CAPITOLO 5. THIRD WORLD WOMEN’S STUDIES Lo sviluppo 94 What others say 101 What black women say 106 CAPITOLO 6. UN ESEMPIO DI LETTERATURA FEMMINILE “BLACK”: SMALL ISLAND DI ANDREA LEVY Il contesto 110 Il romanzo 111 CONCLUSIONI 127 BIBLIOGRAFIA 132 INTRODUZIONE All’interno del panorama inglese si iniziò a parlare di canone letterario, inteso come elenco delle migliori opere della tradizione, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, grazie all’intervento di critici e autori quali Matthew Arnold e, più tardi, T. S. Eliot e F. R. Leavis. Il primo vedeva la letteratura come un possibile rimedio contro il progressivo declino del sistema di credenze e valori, causato dall’avvento del materialismo e dell’utilitarismo, che rischiava di dividere la società inglese dell’epoca; per ottenere questo risultato, essa doveva rimanere disinteressata, neutrale rispetto a qualsiasi programma politico. Allo stesso modo, la critica letteraria doveva mirare ad una conoscenza “pura”, analizzando l’opera in se stessa, e aiutando le persone a riconoscere “the best that has been known and thought in the world”1, concetto con cui Arnold definiva la cultura e spingeva verso il riconoscimento di un canone che emergesse dalla conoscenza collettiva.2 Il problema della teoria culturale di Arnold era che i valori che attribuiva alla cultura avevano carattere universale ed eterno: erano validi per ogni epoca e per ogni condizione dell’essere umano; la vera conoscenza acquisiva così un’essenza che trascendeva la storia, essendo le sue fondamenta sempre le stesse nel corso dell’evoluzione umana. Sarà quest’idea che verrà contestata dai critici più recenti, che accuseranno Arnold di aver creato una letteratura generalizzante e appannaggio di poche menti sublimi, quelle dei poeti e degli intellettuali, i soli capaci di raggiungere e di trasmettere agli altri questa conoscenza che sembra trovarsi al di là della realtà quotidiana.3 Dopo la Prima Guerra Mondiale, la questione riguardante la definizione di una cultura letteraria inglese fu ripresa da T. S. Eliot, il cui contributo si rivelerà determinante per il processo di fondazione del canone, soprattutto grazie al concetto dell’impersonality. Secondo lo scrittore, la poesia non doveva riportare l’esperienza personale e intima dell’autore, ma trascendere la sua individualità e farsi portavoce dell’intera tradizione; di conseguenza, le parti migliori di un testo poetico non erano quelle originali, ma quelle in cui era possibile ritrovare la voce dei predecessori, che attraverso il poeta si esprimevano.4 Eliot attuò dunque una “depersonalizzazione” della poesia e dell’arte in generale: un artista, da 1 Matthew Arnold, Culture and Anarchy (1869), cit. in Peter Barry, Beginning Theory. An Introduction to Literary and Cultural Theory, Manchester and New York, Manchester University Press, 20093, p.25. 2 Cfr. Peter Barry, op. cit., pp. 25-26. 3 Cfr. David Carter, Literary Theory, Harpenden, Pocket Essential, 2006, p. 22. 4 Cfr. Peter Barry, op. cit., p. 27. 1 solo, non aveva valore, né significato; egli acquistava queste qualità solo se messo in relazione con gli artisti che lo avevano preceduto. La tradizione letteraria veniva vista da Eliot come una sorta di corrente, di continuum che percorreva tutti i periodi storici, e che andava via via accrescendosi grazie all’aggiunta delle nuove opere letterarie che ad essa si rifacevano.5 Rispetto alla definizione di cultura data da Arnold, quindi, quella di Eliot si differenzia, perché è insieme senza tempo e storica: da un lato, trascende le particolarità contingenti specifiche dell’autore e del suo periodo storico, dall’altro non è costituita da un set predefinito e invariabile di elementi, ma, come abbiamo visto, è un tutto che si sviluppa e si modifica per accogliere i lavori più recenti. Nonostante questa maggiore flessibilità rispetto all’idea arnoldiana, a mio avviso, anche la tradizione proposta da Eliot rimane circoscritta: in primo luogo perché, prendendo in considerazione le caratteristiche che secondo lui un poeta tradizionale dovrebbe avere (impersonality, indirectness etc.), il canone che ne deriva risulta molto ristretto; come sostiene anche David Carter in Literary Theory “This meant of course that Eliot’s canon of good poetry was severely limited in scope: he found little use for most of the poets in the previous two centuries!”.6 Secondariamente, Eliot, quando parla di tradizione, si riferisce sempre alla cultura inglese o europea, come mostrano alcuni passi del suo saggio Tradition and the Individual Talent (1919), dimostrando così di prendere in considerazione esclusivamente il pensiero occidentale nella sua trattazione. Sulla scia di Arnold ed Eliot si pose anche F.R. Leavis, il quale, in The Great Tradition (1948), propose il suo canone letterario inglese: i great novelists erano Jane Austen, George Eliot, Henry James e Joseph Conrad. Secondo Leavis, l’opera di questi quattro autori doveva essere insegnata nelle università, con lo scopo di affinare e migliorare la cultura nazionale; essi avrebbero come qualità in comune quella di esaltare la vita e promuovere la consapevolezza di tutti i valori e le possibilità che essa può offrire all’uomo, contro la sterilità e la disumanizzazione del materialismo e dell’industrializzazione.7 Di primo acchito, questa visione moraleggiante e sociale della letteratura, unita al fatto che Leavis scelse come modelli della cultura nazionale quattro autori non propriamente convenzionali (due donne e 5 Cfr. T. S. Eliot, “Tradition and the Individual Talent” (1919), in T. S. Eliot, The Sacred Wood (1920), Bartleby.com, 1996 http://www.bartleby.com/200/sw4.html (ultimo accesso 25/02/2016). 6 Cfr. David Carter, op. cit., p. 23. 7 Cfr. R. Selden, P. Widdowson, P. Brooker, A Reader's Guide to Contemporary Literary Theory, Edinburgh, Pearson Longman, 20055, p. 25. 2 due autori non di origini inglesi), potrebbe far pensare ad una scelta rivoluzionaria, finalmente rivolta verso le alterità o le minoranze, e non circoscritta all’ambiente britannico; in realtà, anche il canone leavisiano si rivela elitario e limitante: innanzitutto, è basato su una scelta esclusiva ed arbitraria, decisa da Leavis stesso, di quali debbano essere i valori da conservare, e dei (pochi) autori che meglio li incarnano. Inoltre, l’impronta morale del suo pensiero, il cui scopo ultimo è quello di predisporre il lettore alla forza della vitalità, non fa altro che isolare la letteratura, rendendola indipendente da altre considerazioni di tipo linguistico, storico o filosofico.8 In generale, si può dire che queste teorie di inizio secolo puntassero ad un’idealizzazione estetico-umanistica della letteratura: si focalizzavano sul testo in sé, che veniva considerato come un’unità oggettiva, simbolo delle virtù umane schierate contro la disumanizzazione in atto nella civiltà del periodo. Il controeffetto di questo tipo di analisi fu una gerarchizzazione delle opere: solo alcune di esse, infatti, rispondevano ai criteri sopra elencati, e potevano quindi essere considerate letterarie, degne di essere studiate e di entrare a far parte della tradizione. Ciò, naturalmente, portò ad una divisione tra lavori di serie A e serie B, all’esclusione di molta letteratura importante, e, inevitabilmente, alla costituzione di un canone parziale, esclusivo e artificiale, frutto cioè di un processo di selezione basato sulla singola volontà dei critici, ma spacciato per un naturale sviluppo immanente alla cultura. Queste furono le ragioni che spinsero la critica della seconda metà del ‘900 a rifiutare e a scardinare la tradizione letteraria, in modo da re-inserirvi e analizzare senza preconcetti tutte quelle voci che, fino a quel momento, non erano state prese in considerazione; un esempio fra tutte: la scrittura femminile.9 Figura centrale in questo processo di smantellamento è sicuramente Jacques Derrida, che con il suo Decostruzionismo rivoluzionò il panorama culturale di fine anni Sessanta. Il filosofo francese parlò di un evento che mutò completamente il nostro modo di pensare; esso implicherebbe un decentramento dell’universo intellettuale, segnando una rottura epocale tra il passato e la modernità: la cultura del passato si fondava sull’idea che vi fosse una norma a regolare qualsiasi cosa, e che fosse l’uomo, al centro dell’universo, a detenerne il controllo. Queste regole, di matrice occidentale, si consolidarono come punto di riferimento indiscusso di qualsiasi attività culturale o intellettuale, portando alla marginalizzazione e alla 8 Cfr. Peter Barry, op. cit., p. 16. 9 Cfr. R. Selden, P. Widdowson, P. Brooker, op. cit., pp. 15-16. 3 degradante