Storia Della Cultura Ligure 3
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ATTI DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA Nuova Serie – Vol. XLV (CXIX) Fasc. I Storia della cultura ligure a cura di DINO PUNCUH 3 GENOVA MMV NELLA SEDE DELLA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA PALAZZO DUCALE – PIAZZA MATTEOTTI, 5 Le biblioteche Alberto Petrucciani I libri e la biblioteca: una puntualizzazione preliminare Uno dei più tenaci luoghi comuni su Genova e la Liguria le indica come defilate, in secondo piano, periferiche o marginali, nella storia della cultura e delle lettere, e in particolare nella circolazione del libro. Questa constatazione – perché così si presenta, mentre bisognerà sempre verificare che non si tratti invece di un preconcetto – viene legata di solito alle radici e allo spirito mercantile della città e degli altri centri maggiori: Liguria del monachesimo, dei navigatori e dei mercanti, magari dei geografi e dei notai, dei predicatori e degli annalisti, dei finanzieri, dei palazzi e del collezionismo d’arte, ma non del libro e delle biblioteche. Il luogo comune, pur non mancando di fondamento, è opaco e sterile, pregiudica domande e risposte dello storico offrendo a buon mercato l’apparenza di una spiegazione, talora incanala la ricerca verso la scoperta di interessanti eccezioni che lo contraddicono, ma comunque non aiuta a com- prendere il profilo e i caratteri, assai peculiari, della cultura e della società genovese, nei diversi tempi. Da quando, innanzitutto, possiamo parlare di biblioteche, a Genova e in Liguria? Domanda non banale, appena si avverta che non vogliamo parlare semplicemente di libri , magari anche numerosi (ma, più spesso, in piccolo numero), bensì di raccolte librarie. Ad essere più precisi, non di un semplice accumulo di libri, grande o piccolo, di pregio o d’uso, ma di una universitas rerum , quindi – riutilizzando ai nostri scopi la nota formula proposta da Giorgio Cencetti per gli archivi – di una universitas librorum , di un com- plesso di risorse testuali percepito come tale, come costruzione intellettuale e materiale con una funzione, un progetto, un ordine, una “filosofia”, e naturalmente almeno uno (ma meglio più) utilizzatori. In questo senso si potrebbe dire che di storia delle biblioteche in senso pieno si può parlare dalla tarda età moderna e soprattutto nell’età contemporanea, a Genova in particolare dagli ultimi decenni del Settecento. — 233 — Per i benedettini di Santo Stefano e per il capitolo di San Lorenzo, per Eliano Spinola signore di Ronco e frate Agostino Giustiniani vescovo di Nebbio, perfino per il magnifico Giulio Pallavicino o il doge Gian France- sco Brignole Sale, dovremmo parlare propriamente dei libri , piuttosto che della biblioteca . O almeno, dobbiamo essere consapevoli che usando questo termine ci discostiamo, forse anacronisticamente, certo rischiosamente, da come essi stessi individuavano queste “cose”. Non solo nella visuale patri- moniale ed esterna dell’inventario notarile o dell’estimo, ma anche quando è il proprietario stesso a descriverle, registrarle, catalogarle. Conosciamo i libri della Cattedrale di San Lorenzo nel 1386 da una Rubrica librorum all’interno dell’ Inventarium sacristie , la più interessante biblioteca genovese fra Cinque e Seicento dall’ Inventario dei libri di Giulio Pallavicino rifatto nuovamente da lui medesimo , e ancora nel 1772 Giacomo Filippo Durazzo fa trascrivere e poi aggiorna di suo pugno l’ Inventario intero di tutti i libri fin qui comprati per mio uso . Ritornano quasi sempre gli stessi termini: libri , inventario . Di rado, e relativamente più tardi, spie lessicali significativa- mente diverse: libreria , biblioteca , indice , catalogo . Il libro è infatti, dal principio, un oggetto isolato e di natura privata, uno fra i tanti tipi di oggetti conservati in armadi e forzieri, venduti impe- gnati prestati o lasciati in eredità, e descritti, spesso alla rinfusa con le cose più disparate, negli inventari. Un oggetto del cui valore economico si è ben consapevoli, come si può rilevare dalle modalità di conservazione e dagli elementi della descrizione, e/o uno strumento di uso pratico, un “attrezzo” professionale del prete o del notaio. I libri posseduti dalle comunità religiose corrispondono al modello che Armando Petrucci ha tracciato per il periodo altomedievale: costituiscono, per la comunità, « anzitutto una proprietà di notevole valore, e perciò una parte del tesoro; quindi un complemento ne- cessario per lo svolgimento delle funzioni religiose nell’annessa chiesa; e infine uno strumento indispensabile per l’acculturazione del personale ec- clesiastico alfabeta e per il funzionamento della scuola (interna o anche aperta all’esterno) di solito annessa all’istituto ». Anche la raccolta, pur quando fisicamente riunita e considerata nel suo insieme, vale in quanto attrezzatura professionale d’uso pratico o, dal Quattrocento, quale compo- nente del decoro signorile, in cui singoli pezzi e gruppi di libri possono confluire, o al contrario disperdersi, secondo le circostanze del momento. Non come organica testimonianza culturale, che si proponga una docu- mentazione sistematica e approfondita, una continuità nel tempo (familiare — 234 — o, meglio, istituzionale), una funzione più larga dal punto di vista delle fi- nalità e dell’accessibilità. Nel primo Cinquecento Agostino Giustiniani e Filippo Sauli avvertono, come vedremo, l’esigenza di prolungare nel tempo l’uso pubblico e la con- servazione dei libri non comuni che si sono procurati con spesa e fatica, ma il secondo non esita a dividere la sua raccolta e comunque manca, in en- trambi i casi, un adeguato punto di riferimento istituzionale. Nel primo Sei- cento il medico Demetrio Canevari trova negli usuali strumenti giuridici dell’epoca il mezzo per garantire la conservazione, nell’ambito familiare, della sua amata libreria, e alla metà del secolo frate Angelico da Ventimiglia ottiene un breve papale di riconoscimento della Biblioteca Aprosiana, ma solo dagli ultimi decenni del Settecento, con Paolo Girolamo Franzoni e la Biblioteca degli Operai evangelici, si affaccia una piena consapevolezza della biblioteca non solo come raccolta di libri, meglio se numerosi e pregiati, magari da conservare gelosamente, ma come “organismo che cresce”, se- condo la formula del bibliotecario indiano S.R. Ranganathan, e come servi- zio organizzato per il pubblico. I. I libri della sacrestia, i libri dello scagno, i libri del palazzo 1. Il libro nella Liguria medievale Nell’ampia sintesi su Libri e cultura in Liguria tra Medioevo ed età mo- derna con cui apriva il convegno savonese del 1974, Geo Pistarino esordiva notando « la difficoltà di definire l’esatta posizione, il reale valore, le dimen- sioni dell’incidenza del libro e della biblioteca in una società di artigiani, mercanti, marinai, uomini d’arme ». Inesatto gli sembrava anche considerare la Liguria come pienamente omogenea sul piano culturale: « Genova opera dal centro, in una posizione di preminenza, nella quale, però, il livello medio della cultura non assurge a pari grado, in termini di armonico sviluppo civile, con quello politico-economico, in quanto la circolazione delle idee non tiene il passo, per ampiezza e vivacità, con quella dei traffici. Nell’estremo Levante le si contrappongono, sia pure in tono minore, Sarzana e la Lunigiana, politicamente configurabili nel quadro della prevalenza genovese, ma spiritualmente e culturalmente aperte, o più aperte, all’influsso toscano [...]. Nell’immediato Ponente qualche spunto notevole offre Savo- na, qualche altro, ma più tardi rispetto al periodo qui preso in esame, Ventimiglia: per il resto, vuoi per nostra deficienza d’informazione, vuoi per effettiva situazione di fatto, è quasi un deserto, punteggiato qua e là dall’oasi d’una biblioteca ecclesiastica, come — 235 — quella, più antica, del vescovato di Albenga o quella, quattro-cinquecentesca, del con- vento dei Domenicani di Taggia ». Le prime raccolte librarie liguri che hanno lasciato tracce di sé sono non solo modeste sul piano quantitativo – anche secondo gli standard dei tempi, beninteso, e senza picchi che pure si riscontrano in altre aree – ma soprattutto caratterizzate da un’evidente ed immediata funzione pratica, d’uso, piuttosto che da una cornice o una prospettiva culturale. Le ragioni di questi tratti caratteristici sono state ricercate nella peculiarità della società genovese e ligure, stretta dalle montagne e quindi proiettata sul mare e verso i commerci, « con una classe di governo proveniente dalla mercatura e la con- seguente mancanza d’un mecenatismo principesco » (ancora Pistarino), quindi pragmatica ed operativa, il che non vuol dire ignorante. « Il mercante genovese, per non parlare dell’artigiano o dell’uomo di nave o di guerra, frequenta la scuola da ragazzo. Ma quando ha imparato a leggere, a scrivere, a fare di conto, si sente appagato, pronto alla vita, e non chiede di più: al massimo, tiene presso di sé un Capitulum per l’esatta informazione sulle norme che regolano l’attività pratica del cittadino e dell’imprenditore ». Non esiste uno Studium , fino al privilegio di Sisto IV (1471) che consente al Collegio dei teologi la facoltà di rilasciare lauree (cosa che non comporta, comunque, la creazione di un’istituzione di tipo universitario, per la quale bisognerà aspettare la seconda metà del Seicento). Una società, quindi, aperta fin dal Medioevo ai più diversi apporti culturali, dell’Occidente cri- stiano e dell’Oriente greco, arabo ed ebraico, della tradizione scolastico- ecclesiastica e delle giovani conoscenze tecniche e pratiche, poi alle mode e ai valori della nuova cultura