Relazione Di Massimo Sgaravato (625014
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INTRODUZIONE Ragioni di una scelta Appare oggi largamente scontato asserire che l’intero movimento comunista italiano e mondiale traesse dal mito sovietico una base indispensabile per il proprio consenso, e dunque l’azione politica condotta. È un’affermazione tanto banale quanto fondamentale proprio perché consente di dare il giusto peso all’ideologia nella modernità laddove oggi si vorrebbe derubricarla, così come l’intero corso degli avvenimenti del secolo breve, a mero accidente storico, o a fenomeno patologico della società del XX secolo, contrapposto ad un presente segnato dalla fine delle utopie. La cronaca dell’attualità ha già fatto ragione delle argomentazioni più fataliste in tal senso, e lascia peraltro la vivida impressione che la «dismissione delle idealità novecentesche»1 nella contemporaneità lasci intatta la funzione dell’ideologia nel mondo attuale, semmai ridisegnandosi secondo le rotte e gli scenari instabili che la globalizzazione traccia dalla fine dell’«età del comunismo sovietico», come l’ha definita una recente collezione di studi storici2. Diventa dunque indispensabile una riflessione più approfondita sul peso che questa forma di cultura sociale ha avuto in un recente passato le cui luci ed ombre si allungano anche sul nostro presente. Questa nostra età nelle parole del filosofo Gianni Vattimo vede l’uomo postmoderno conservare un rapporto col proprio passato segnato dalla verwindung, termine heideggeriano traducibile con rassegnazione e distorsione: dalla rassegnazione di non poter esimersi dall’adoperare le categorie della metafisica (in cui inserisce tutti i “grandi racconti” della modernità, comunismo compreso, segnati da un “pensiero forte” le cui categorie sono la verità, l’unità e la totalità) alla distorsione di queste in senso debole e nichilistico, ovvero senza la pretesa di istituire fondamenti teorici ultimi. È un problema che si pone anche allo storico contemporaneo dopo il ridimensionamento della grande tradizione italiana degli istituti storici legati ai partiti politici e contraddistinti ciascuno dal proprio fondatore eponimo. Esulando dai ragionamenti filosofici, lo storico De Luna consiglia ai neofiti di porre come argine al relativismo nella attività di ricerca il dovere morale dell’obbiettività, unita alla coscienza del ruolo giocato dalla personalità del ricercatore stesso. Per quanto mi riguarda, come giovane universitario la scelta del percorso di studi molto deve alla mia formazione politica e all’identità familiare, pienamente inserita nel microcosmo del comunismo italiano. Una caratterizzazione, si badi bene, che è sempre stata assai sofferta e problematica, come peraltro l’intera vicissitudine del rapporto tra Botteghe Oscure e Cremlino e la conseguente elaborazione teoretica, un pensiero che inoltre presiedeva alla formazione della coscienza del singolo militante, e alla sua percezione di essere parte di una grande comunità mondiale e dunque di una storia più ampia. Con tutta evidenza era nei momenti di crisi che un simile legame profondo diveniva soggetto alle tensioni profonde interne a quello che allora si definiva il movimento comunista interna- zionale, alla progressiva consapevolezza della realtà effettiva dei paesi del socialismo reale e quindi del peso che la propaganda aveva avuto nella costruzione della loro immagine. Cessata l’aura divina ed eroica che circondava il piccolo padre dei popoli col XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (in russo Vsesojuznaja kommunističesskaja partija, d’ora in poi VKP), era 1 Fumian, Verso una società planetaria, p. 5 2 Mi riferisco al volume I dell’opera L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico edita da Jaca Book in collaborazione colla Fondazione Luigi Micheletti. 1 stata la causa storica della rivoluzione e del movimento che concretamente la sosteneva ad imporre una sorta di auto-disciplina ai tanti militanti che erano rimasti tra mugugni e malumori fedeli al PCI, nella speranza che appunto anche nella tragica realtà dei paesi d’oltre cortina rivelatasi coi fatti d’Ungheria, rimanessero più in profondità le ragioni storiche che avrebbero portato ad un’evoluzione più compiuta verso il socialismo. Gli anni Sessanta da questo punto di vista segnavano un puntello ideale alla coscienza di molti comunisti: se nei primi anni del decennio l’URSS di Chruščëv sembrava fare i conti col proprio terribile passato e allo stesso tempo sfidare il futuro colonizzando lo spazio, la Rivoluzione dopo aver sfidato l’America nel giardino di casa proseguiva ora con la guerra in Vietnam, come peraltro molti altri episodi legati al Terzo Mondo ed alla decolonizzazione sembrava confermare. Anche in Europa del resto la situazione sembrava andare ben oltre la rigida contrapposizione tra blocchi: cresceva l’agitazione sociale e la voglia di partecipazione politica contagiava i giovani, contribuendo a rendere il socialismo per i comunisti italiani un obiettivo da poter perseguire in autonomia. Ma al contempo, all’apice di questi fenomeni, tra ’67 e ’68 quel mondo oltre cortina che si era considerato fino a poco tempo prima come una terra d’elezione, attraversava una fibrillazione che nel caso praghese sembrava preludeva ad una ridefinizione stessa del socialismo reale, dando applicazione alle teorie che il PCI andava maturando in termini di internazionalismo da oltre un decennio. La presente tesi tratta dunque delle alterne vicende del PCI che precedono l’invasione di Praga da parte dei sovietici interrogandosi sull’interpretazione che i comunisti italiani maturarono sul nuovo corso politico inaugurato in Cecoslovacchia a partire dal gennaio 1968 dalla nuova classe dirigente del Partito Comunista Cecoslovacco, in lingua ceca Komunistická strana československa (d’ora in poi KSČ). Se si considera la fermezza con il PCI reagì all’invasione del paese, l’oggetto della mia analisi riveste un evidente valore paradigmatico nell’intera vicenda del Partito, ponendosi come un momento di evoluzione importante del comunismo italiano verso una più compiuta indipendenza che non semplice autonomia da Mosca, ma anche accelerando inesorabilmente la perdita di quel senso più profondo che il fallimento dell’intera esperienza del comunismo sovietico comportava. Quadro generale e metodo della ricerca Questo scritto non è semplicemente la storia, l’ennesima forse, del PCI e di una sua branca organizzativa in un dato periodo della sua vita. Il comunismo in Italia è stato ed in parte ancora è, una ragione di vita in grado di aggregare attorno a sé una comunità politica che concepiva sé stessa anche come una comunità di destino, un’avanguardia delle ragioni della Storia, tale da esigere un fondamentale impegno individuale e collettivo per la Causa. Pertanto il comunismo italiano non può essere compreso a fondo senza una riflessione sul carattere ideale e culturale della sua dimensione storica. Al di là dell’importanza dei singoli avvenimenti inerenti i suoi protagonisti ed il rapporto profondo che la unisce con la società italiana, la storia comunista può essere letta anche partendo dall’analisi di specifici dati strutturali permanenti che rinviano alla lunga durata. Mi riferisco alla realtà organizzativa (nello specifico senso di militanza 2 più che di gerarchia dirigenziale) e culturale del Partito, due aspetti tanto a livello di base quanto nell’intera nomenklatura indissolubilmente uniti. Ciò rivela un’evidente capacità di resistenza dell’intima identità comunista, non solo ideologica, ma anche in senso lato etica, intendendo l’ethos come una cultura caratterizzante fondata su specifiche e distintive categorie morali, anche contenutistiche (e quindi più soggette al valore dei simboli), che guidano l’azione. Tuttavia è l’ideologia, intesa come apparato concettuale che guida la percezione del mondo e definisce la propria coscienza sociale, a caratterizzare l’orizzonte di riferimento in cui l’etica si dispiega, con l’aggravante di fondare il proprio quadro stereotipato e pregiudiziale della contemporaneità sull’autorità insita nella inamovibile gerarchia della comunità di appartenenza, allora giustificata colla ambigua formula del centralismo democratico. Si formava allora in virtù del culto ideologico del ruolo e dell’unità del Partito un’etica della militanza, che subordinava a sé quella più propriamente civile e libertaria che comunque larga parte ebbe nella storia della sinistra nel XX ed in prospettiva rendeva entrambe incapaci di reagire al declino del sistema dei partiti negli anni Novanta. Fino ad allora invece ciò che indebolì effettivamente la resilienza e quindi la capacità di adattamento della comunità comunista agli sviluppi storici fu la subordinazione, sotto il nume tutelare dell’ideologia marxista-leninista, dell’etica della convinzione all’etica del successo, tanto che il progressivo esaurirsi del prestigio dell’esperienza sovietica, legato indissolubilmente con la lotta antifascista del conflitto mondiale, fu compensato dalla constatazione della funzione guida che Mosca assolveva, nonostante tutto, in un movimento mondiale che sembrava personificare in sé lo spirito della storia. In parole povere, il mito dell’URSS, che di quel senso comune sembrava essere il maggior garante, privava i comunisti italiani di quel necessario spirito critico per scindere le sorti del socialismo politico da quelle del “socialismo reale”. A ciò va aggiunto peraltro un’istintiva debolezza a confrontarsi colla effettiva realtà dei paesi del socialismo reale, essendo preponderante una lettura ideologica basata sui canoni dello storicismo di ascendenza