Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) in Storia delle Arti e conservazione dei Beni artistici

Tesi di Laurea

Dalla corte di alla città di : Claudio Ridolfi e la pala di San Tomio, un’opera e il suo contesto nella Verona del Seicento

Relatore Prof. Augusto Gentili

Laureanda Alessandra Vallesi Matricola 986489

Anno Accademico 2011 / 2012

Dalla corte di Urbino alla città di Verona: Claudio Ridolfi e la pala di San Tomio, un’opera e il suo contesto nella Verona del Seicento.

A mia madre e mio padre per la loro tenace e silenziosa fiducia

INDICE

- RITORNO ALLE ORIGINI 5

PRIMA PARTE – UN PERCORSO A RITROSO: da Urbino a Verona I.1 – Nella terra dei Della Rovere 9 I.2 – La moralizzazione dell’arte e gli “abusi” della pittura 27 I.3 – Venezia e il suo paladino in un mondo di apparenze 32 I.4 – Verona, Minor Jerusalem 40

SECONDA PARTE – A DUE PASSI DA PIAZZA DELLE ERBE: la Circoncisione di Claudio Ridolfi nella chiesa di San Tomio II.1 – Le origini di una chiesa antica 52 II.2 – Il Nome da venerare 65 II.3 – Una famiglia da rintracciare 71 II.4 – Intrecci, litigi e committenze 76

TERZA PARTE – ICONOLOGIA DI UN DIPINTO: l’immagine specchio di una Compagnia e di un committente III.1 – La Circoncisione: un rito antico 82 III.2 – Un’ambiziosa trattatistica: esegesi di un modello divino 89 III.3 – La parte per il tutto 107 III.4 – Tre racconti sovrapposti (o forse quattro) 116 III.5 – Raffronti tra maestri 124 III.6 – Brevi citazioni e raffinati dettagli 129

- SOTTO LA PELLE DEL QUADRO 132

APPENDICE DOCUMENTARIA 136

DATI BIBLIOGRAFICI (secondo l’ordine cronologico di pubblicazione) 177

ILLUSTRAZIONI 194

La prima impressione è più profonda di tutte le altre, è d’altra specie e d’importanza decisiva. Il primo incontro con un’opera d’arte resta impresso, già per il fatto che vi si collega l’entusiasmo.

Max J. Friedländer

RITORNO ALLE ORIGINI

Ho apprezzato per la prima volta le opere di Claudio Ridolfi attraverso un catalogo. Non è stato un inizio folgorante, uno di quelli in cui passando davanti a un dipinto si rimane attoniti e in rigoroso silenzio. In un primo momento ho soltanto immaginato come potessero essere le sue opere viste da vicino, poiché non sapevo bene chi fosse, dove fosse nato, quale città avesse ereditato la maggior parte dei suoi lavori; soltanto un nome in particolare lo rendeva familiare ai miei studi, . Claudio Ridolfi entrò a far parte della sua bottega soltanto pochi anni prima che morisse1, ma in quel breve periodo di tempo ereditò tanto: una maniera “aristocratica”2 nel dipingere e un nome che lo qualificò sempre nelle città in cui si trovò ad operare, il “Veronese”. Aveva quindici anni quando la sua carriera artistica ebbe inizio a Venezia nella bottega più fiorente del tempo e terminò otto anni dopo per ritornare poi nella sua terra natale e proseguire quella che sarebbe stata una ricca e remunerativa carriera artistica. L’intento della mia ricerca non sarebbe quello di ripercorrere cronologicamente le tappe della vita artistica del Ridolfi e quindi, in ordine, dal suo primo maestro, Paolo Veronese. Ma dall’altro grande precettore, Federico Barocci che gli diede gli strumenti per affinare e personalizzare le sua tecnica senza mai deporre gli insegnamenti veneziani del Caliari ormai acquisiti. Il Ridolfi è stato definito dalla Baldelli un “simpatico minore”3 che non può essere annoverato tra i grandi, né tra chi abbia avuto una tale influenza da essere riconosciuta come caratterizzante di una determinata regione, in questo caso, le Marche. Ma un posto di rilievo gli spetta. Perché non fu affatto un pedissequo rifacitore delle opere del Barocci4, ma un artista eclettico, certo non “uomo di cultura”5, ma di sicuro un pittore attento a recepire le differenti “maniere” che lo circondavano, a riproporle in base al suo gusto, al suo sentire.

1 Precisamente saranno tre gli anni che il Ridolfi passerà a fianco del Veronese, dal 1585 al 1588. Poi sarà Benedetto ad istruirlo nei successivi anni di apprendistato. 2 Cfr. R. Pallucchini, Pittura veneziana del Cinquecento, Vol. II, XLI, Novara, 1944. 3 M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 35. 4 Cinquant’anni di Pittura Veronese:1580-1630, catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974, pg. 180. 5 «Si deve constatare con rammarico, che pur vissuto nei tre grandi centri di cultura, costituenti con Firenze il faro di tutto il mondo europeo, il Ridolfi non fu uomo di cultura: è soltanto pittore, e pittore inizialmente di istinto e in seguito accademico, appunto perché privo di idee, divelto dai fermenti culturali, che addirittura non riescono a penetrare nelle sue composizioni pittoriche, storicamente trascurate e prive di contenuto intimo», M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 19. 5

L’inizio del mio lavoro si potrebbe definire fortuito, ma la motivazione crebbe ben presto grazie ad un’opera. Mi capitò di soffermarmi spesso sulle opere che il Veronese eseguì nella e per la sua terra d’origine6 e una in particolare attirò la mia attenzione più delle altre, la Circoncisione. Dai colori caldi e delicati, la scena rappresentata mi appariva intima e raccolta e, più che un rito sacro eseguito sotto gli occhi di un pubblico orante, dava l’idea di un’atmosfera familiare e circoscritta nella quale il Bambino occupava il posto d’onore, centrale (fig. 1).

6 Licisco Magagnato nel catalogo della mostra del 1974, Cinquant’anni di Pittura Veronese:1580-1630 (pg. 181), scrisse che era ancora aperta la questione della cronologia delle opere veronesi del pittore che l’autore distingue in tre macrogruppi: “il giovanile, quello del 1617 e del 1620, e quello di un ritorno del 1639, documentato da una sua presenza non sappiamo quanto lunga presso i confratelli della Compagnia del Divino Amore di Santa Libera”. 6

PRIMA PARTE

UN PERCORSO A RITROSO: da Urbino a Verona

Eravamo nella prima decade del Seicento. Ogni giorno, eccettuata la stagione invernale, che in Urbino è costantemente rigida, un bell’uomo sui trenta o trentacinque anni scendeva frettoloso delle scalette di San Giovanni e, varcata la porta di via Valbona, recavasi al Casino di Ca’ Condi, a circa mezzo chilometro dalla città. Nella bella casa, piena d’aria e di luce, le cui finestre a levante presentano un panorama incantevole, con i monti lontani, sotto un cielo purissimo, era (e credo che vi sia ancora) una grande sala. Quivi nella buona stagione teneva lo studio Claudio Ridolfi detto, dalla sua città natale, il Veronese. Non di rado un simpatico vecchietto, ancora ben portante e tutto lindo della persona, si recava a Ca’ Condi e vi si tratteneva a parlare lungamente delle cose dell’arte e dei lavori che il valoroso e giovane suo amico andava componendo. Il vecchio dagli occhi fulgidi e dalla mano ancora ferma e docile, era Federico Barocci7.

7 E. Calzini, “Claudio Ridolfi pittore veronese”, in Rassegna Bibliografica dell’Arte Italiana, XVI, (1911), n° 1-4.

I UN PERCORSO A RITROSO: da Urbino a Verona

I.1 NELLA TERRA DEI DELLA ROVERE

Il primo contatto che Claudio Ridolfi ebbe con il maestro urbinate avvenne nel 15908. Ebbe modo di conoscere una nuova cultura, un nuovo modo di vedere, una dolce, per lui inedita, maniera di disegnare, quella che lo avrebbe affascinato nel breve periodo romano9 quando conobbe colui che sarebbe diventato suo amico e maestro10. Il ritratto che ne fa Egidio Calzini nel suo articolo ripropone esattamente ciò che il Bellori ci ha raccontato nelle sue Vite11; il Barocci viene descritto come un uomo affabile, stimato da coloro che gli erano accanto, sia che fossero principi o uomini semplici, un animo schivo e devoto che preferì la mansuetudine della sua terra 12 all’ambiente chiassoso di una città troppo grande e competitiva13.

8 Claudio Ridolfi aveva vent’anni. Il biografo Carlo Ridolfi e l’altro autore delle Vite Diego Zannandreis, sbagliando, collocarono la data di nascita del pittore nel 1560, cioè ben dieci anni prima della reale datazione. (Si confrontino i documenti 1, 2, pgg. 137-142). Soltanto le ricerche di Egidio Calzini (1911) fecero sì che venisse precisato l’anno di nascita del nostro, dato che dall’Anagrafe della Contrada del Ponte della Pietra a Verona, Claudio, nell’anno 1593, risultava avere ventritré anni; il padre Fabrizio Ridolfi, morì nel 1594 e, secondo il biografo, Claudio trascorse i primi anni della sua giovinezza a Verona.; M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg.4; E. Calzini, “Claudio Ridolfi pittore veronese”, in Rassegna Bibliografica dell’Arte Italiana, n° 1- 4 (1911) 2.; L. Mochi Onori, “Claudio Ridolfi”, in Le Arti nelle Marche al Tempo di Sisto V, a cura di P. Dal Poggetto, Cinisello Balsamo (Milano), 1992, pgg. 431-433. 9 «Ebbe ivi [a Roma] occasione di vedere più quadri di Federico Baroccio ed incantato al par di molti altri dell’amenità dello stile […] senza riflettere ad altro si diresse ad Urbino», A. Ricci, Memorie storiche delle arti e degli artisti della Marca di , Macerata, 1834, pg. 242. 10 “[…] trattennesi alcun tempo in Casa il celebre Federico Barocci; e tanto s’affezionò a quel delicato modo di dipingere; che abbandonando in parte l’ottima maniera del Veronese, a quella del Barocci s’applicò”. F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del Disegno da Cimabue in qua che contengono tre decennali, dal 1580 al 1610. Opera postuma di Filippo Baldinucci fiorentino Accademico della Crusca. All’Altezza Reale di Cosimo III Granduca di Toscana, Firenze, 1702, pg. 210. 11 Si confronti il documento 3 in Appendice documentaria, pgg. 142-143. 12 Urbino, insieme ad altre città limitrofe, fu una città che accolse pittori eccelsi, soprattutto veneti: uno in particolare diede nuovo respiro all’arte marchigiana dei primi del Cinquecento, Lorenzo Lotto. È indubbio che questo artista, insieme alle opere di Tiziano eseguite per i Duchi di Urbino ed esposte nella galleria ducale, abbia influenzato il Ridolfi che, come sostiene la Baldelli, “se ne avesse avuto tutte le capacità, avrebbe potuto essere in quell’ambiente, e con quella scuola, con quei contatti, un secondo Lotto”.; M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 34.; Per un approfondimento riguardo ai rapporti che Tiziano strinse con la città di Ancona e Urbino si confronti il testo Ancona e le Marche per Tiziano. 1490-1990, Mostra didattica, Ancona, 1990.; Tiziano. La pala Gozzi di Ancona. Il restauro e il nuovo allestimento espositivo, Mostra e catalogo a cura di M. Polverari, Casalecchio di Reno (Bologna), 1988. 13 È ormai famoso il presunto avvelenamento che il Barocci era convinto di aver subito da parte di alcuni colleghi invidiosi durante il suo soggiorno a Roma.; A. Emiliani, Federico Barocci, Ancona, 2008; H. Olsen, 9

Adolfo Venturi lo descrisse come un uomo che “cercò talora di parlare di forza, e non riuscì. Parlò quasi sempre di gioia e di grazia; fu il cantore delle piccole luci, dei sentimenti delicati, dolci, un po’ ristretti: e in ciò fu grande”14. Così grande che uno tra i più grandi se ne accorse e ne ammirò la pittura, Pieter Paul Rubens15. Come questi, anche il giovane Ridolfi, incantato da quella pittura di grazia e celata fatica, deve aver osservato e studiato a lungo il modo di operare dell’anziano maestro, riuscendo in alcuni dipinti a rendere quella dolcezza di arie nei volti16 da poter essere considerato un degno allievo del suo precettore17. A Urbino, l’antica Casa dei Conti18, detta anche Ca’ Condi (figg. 2-3), divenne lo studio pittorico del giovane veronese nel quale si ritrovò a disposizione un vero e proprio deposito di immagini19: all’interno vi erano disegni di Raffaello, probabilmente delle copie eseguite dal Barocci, disegni di quadri mai realizzati o dispersi, cartoni di dipinti ancora visibili nei musei e nelle chiese arroccate in paesi non lontani da Urbino. Gli infiniti schizzi realizzati dal maestro erano praticamente a portata di mano del giovane pittore e quel prezioso luogo d’incontro e di studio condiviso, rese possibile un

Federico Barocci, Copenhagen, 1962; Giannotti, Pizzorusso, Federico Barocci 1535-1612. L’incanto del colore. Una lezione per due secoli, Cinisello Balsamo, 2009. 14 Studi e Notizie su Federico Barocci ( A cura della Brigata urbinate degli Amici dei Monumenti), Firenze, 1913, pgg. 20- 21. 15 “Federico Barocci (1535 ca. – 1612) attirò Rubens sia come disegnatore che come compositore. Studi a penna ed acquerello di alcuni gruppi destinati alle parti più interne delle ali della Deposizione di Anversa, mostrano una sorprendente somiglianza, per stile e tecnica, con le composizioni figurative del Barocci per i dipinti che Rubens conosceva a memoria a Roma […]. La comprensione del Barocci fu determinante per l’allontanamento di Rubens dallo stile veneziano di rendere i dettagli di un paesaggio. […]Urbino, sebbene non fosse un attivo centro artistico, a parte lo studio del Barocci, lo attraeva in quanto città natale di Raffaello e come scena del mecenatismo illuminato di un tempo da parte dei Signori del luogo per i pittori del nord”. M. Jaffé, “A Roma e Firenze: tra manierismi e modernità”, in Rubens e l’Italia, Roma, 1984, pgg. 52-63. Si vedano in particolare le pgg. 57-58. 16 Si confronti S. Dalla Rosa, Scuola Veronese di Pittura, ovvero raccolta delle migliori produzioni da tutti li più eccellenti professori veronesi fatte ad olio, o a fresco così in pubblico come a privati disegnate, ed incise da Gaetano Zancon e corredate delle notizie, osservazioni, e memorie de’ rispettivi loro autori estese da Saverio Della Rosa Professor di Pittura, Accademico Clementino, Direttore della pubblica Accademia di pittura, e scoltura in Verona, Vol. I, 1806, a cura di G. Marini, G. Peretti, I. Turri, Verona, 2011, pg. 59. 17 “[…] certo ad Urbino fu attratto dal raffinatissimo mondo formale e coloristico baroccesco, che costituiva un’isola di elegante manierismo nell’area adriatica dell’Italia centrale”. R. Pallucchini, La Pittura Veneziana del Seicento, Milano, 1981, Vol. I, pg. 111. 18 Si veda il capitolo intitolato “Lo «studio» del Barocci (documenti)”, in Studi e Notizie su Federico Barocci (A cura della Brigata urbinate degli Amici dei Monumenti), Firenze, 1913. 19 Per un elenco specifico delle opere presenti nello studio di Federico Barocci, Ivi, pgg. 75-85. 10 dialogo confidenziale tra un amabile conoscitore di cose dell’arte e un attento ascoltatore20. Definito alcune volte “allievo”, altre volte “seguace” del maestro urbinate fu di certo uno stretto amico e confidente dell’ormai anziano Federico Barocci, pur essendo entrambi in fondo due animi decisamente contrastanti: l’uno dedito ad una vita solitaria e senza figli, l’altro uno spirito allegro vivificato dalla sua numerosa prole21. Il fatto che il primo incontro fra i due pittori sia avvenuto nel 1590, nonostante alcune fonti lo facciano risalire al 160322, è confermato dallo stesso Ridolfi in un documento del 12 novembre del suddetto anno. Franco Negroni, in un suo articolo, si sofferma su una tela in particolare, forse attribuibile al Ridolfi, che ha come soggetti La Madonna, il Bambino e i SS. Tommaso e Marco, posta sull’altar maggiore della Chiesa di Torre S. Tommaso ad Urbino. Nella visita apostolica di Mons. Morelli, il 9 settembre 1725, l’opera viene detta essere del Sordo, cioè del Viviani, allievo del Barocci, anche se, secondo il Negroni, il dipinto ha dei chiari rimandi veneti. Se si pensa sia stato il Ridolfi ad eseguirla, bisogna pensarlo come un giovane di vent’anni agli inizi della sua carriera; poiché se eliminiamo il fatto che l’incontro del Ridolfi col Barocci sia avvenuto nel 1603, il primo contatto fra i due risale al 159023, quando Claudio si trovava già in pianta stabile ad Urbino. Così scrive:

Adì 12 di novembre 1590 in Urbino. Io Claudio Ridolfi confeso per questo presente scrito di mia propria mano di avere avuto dal III° Sig.re Federico Buonaventura in più e diverse partite scudi sensantanove corenti è bolognini trenta qualli mi ha pagato per saldo di altra tanta soma pervenuta nelle sue mani per ordine del Sig.re Fabrizio Ridolfi mio padre […]. Io Claudio Ridolfi o’ scrito di

20 «L’incontro col maestro urbinate fu l’avvenimento principale che agì sullo spirito del Veronese, ed ebbe notevoli conseguenze nella sua arte». Cfr. M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 8. 21 Il Ridolfi e sua moglie Vittoria de’ Maschi ebbero sette figli: nel 1613 nacque Leonora, due anni dopo Francesco Luigi, nel 1623 Laura, poi Cesare Silvestro, Bernardino, Francesca e Maria Veronica, che morirà giovane, nel 1646, due anni dopo la morte del padre. ; Ibidem, pgg. 8-10. 22 La Baldelli fa risalire il soggiorno romano del Ridolfi tra il 1594 e il 1602, specificando che non si tratta di una datazione certa.; M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 26. 23 Anna Fucili Bartolucci nel saggio La scuola baroccesca, Claudio Ridolfi e i suoi epigoni conferma che il pittore giunse per la prima volta ad Urbino nel 1590 e, sempre nello stesso anno, conobbe il Barocci. Il saggio in questione fa parte di Arte e cultura nella provincia di Pesaro e Urbino dalle origini a oggi, a cura di F. Battistelli, Venezia, 1986, pg. 313.; La Pittura in Italia. Il Cinquecento, a cura di G. Briganti, Milano, 1988, Vol. I, pg. 397. 11

mia propria mano. Io Benedetto Genga fui presente a quanto di sopra. Io Alessandro Giorgi fui presente a quanto sopra24.

Di solito la prima opera che viene collocata agli inizi della carriera pittorica del Ridolfi nelle Marche è l’Invenzione della Croce del 1597, eseguita per i Cappuccini di Ripatransone. La stessa Baldelli lo pone in apertura del catalogo dedicato alle opere marchigiane come prima opera eseguita nella terra di adozione 25 . Ma quali opere effettivamente recano evidente l’influenza del vecchio Barocci, di quali opere in particolare Ridolfi ha eseguito copie o ne ha tratto ispirazione per dipinti che avrebbe eseguito di lì a pochi anni, cosa rimane nei suoi lavori degli elementi acquisiti dal Caliari e dal Palma negli anni che trascorse a Venezia?

Risale al 1590 la piccola tela raffigurante l’Istituzione dell’Eucarestia26 (fig. 4), dipinta dal Ridolfi esattamente nell’anno del suo primo soggiorno a Urbino. Le modeste dimensioni del quadro (51,3x24,8 cm.), unite alla pregiata qualità della resa pittorica, hanno fatto pensare che questo piccolo dipinto ad olio non fosse un semplice bozzetto preparatorio, ma un oggetto di devozione privata, “o forse, data la forma allungata, di una portella per un tabernacolo o di una tela destinata ad un ciborio”27. Cristo sta per distribuire il pane della Comunione, San Pietro, inginocchiato, è pronto a riceverlo; alle sue spalle uno degli apostoli sembra si stia alzando di soppiatto dalla tavola, prima di abbandonarla alla chetichella; in basso, in primo piano, un gatto minaccioso si scaglia contro un cane anch’esso alquanto irrequieto. Sullo sfondo, il brusio dei commensali; uno di loro, nel mezzo, tiene stretto nel pugno un coltello, mentre San Giovanni, alle spalle del Cristo, osserva rapito il rito eucaristico.

24 Biblioteca Univers. Busta 99, fasc.5, fol.212. A tergo del foglio si legge: «Scritto el Ricevuto del Veronese sotto il dì 12 Nov. 1590», in F. Negroni, “Un inedito di Claudio Ridolfi”, in Notizie da Palazzo Albani, 1975- 1977.; G. Calegari, “Claudio Ridolfi tra Veneto e Marche” in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 20. 25 Risale esattamente a un anno prima la pala dell’Assunzione di Madonna di Campagna a Verona eseguita praticamente alla vigilia della sua partenza per le Marche; potremmo quasi definirlo un dipinto “spartiacque” che chiude il breve inizio della sua carriera artistica a Verona e apre la sua ascesa nella terra dei Della Rovere. Questa datazione al 1596, era stata proposta da Licisco Magagnato nel 1974, in occasione della mostra dedicata ai Cinquant’anni di pittura veronese 1580-1630. Enrico Maria Guzzo fa invece risalire il dipinto al 1589- 1590, dati i forti influssi veronesiani. L’Assunzione doveva collocarsi in uno dei quattro altari della suddetta chiesa accanto alle due tele di Felice Brusasorci e Paolo Farinati. Viene definita la pala più vicina alla “maniera paulesca”, essendo ancora particolarmente vivi i precetti del suo primo maestro. 26 Il dipinto è conservato nella Sala del Concilio del Museo Diocesano di Treviso. 27 C. Rigoni, “Due dipinti di Claudio Ridolfi e Francesco Maffei al Museo Diocesano di Treviso”, in Verona Illustrata, Rivista del Museo di Castelvecchio, Verona, 2004, n. 17, pg. 76. 12

Il modello sembra derivato da Palma il Giovane, che nell’Ultima Cena per la parrocchiale di Rovato ripropone lo stesso episodio adottando uno schema compositivo verticale, sviluppato lungo la diagonale creata dalla tavola. Il prototipo è l’Ultima Cena dipinta da Tiziano ad Urbino, dipinto che rinnovò la tradizione iconografica cinquecentesca consacrata dal modello leonardesco attraverso l’innovativo schema verticale della composizione28.

Dunque due matrici venete. Ma venete non sono le tonalità dei colori, il modo in cui viene steso il colore, i contorni sfumati delle figure, la luce tenue che dà volume alle forme. Tra il 1594 e il 1610 (datazione piuttosto dilatata in mancanza di informazioni certe), il Ridolfi dipinse il Noli me tangere (fig. 5) oggi conservato a palazzo Anselmi ad Urbino.

Il Signore risorto, con tutto il fianco destro nudo ed il sinistro ricoperto da un ampio mantello grigiastro, appare nelle sembianze di ortolano alla Maddalena che, genuflessa, stende la mano per toccarlo, avvolta in ampie vesti di rosa e di gialletto29.

La sua provenienza è sconosciuta e di certo non fa parte delle opere maggiori di Claudio. Per questo dipinto il pittore non scelse come modello il dipinto omonimo eseguito dal Barocci nel 159030, più ampiamente conosciuto per gli evidenti influssi derivati dal Correggio, ma una seconda versione “di qualche anno più tardi” eseguita per una chiesa di Lucca. L’indicazione è piuttosto scarna, ma viene riportata sia dal Bellori31 che dal Baldinucci il quale scrive:

28 Ibidem. 29 M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 61. 30 Il dipinto in questione è conservato nell’Alte Pinakotek di Monaco. 31 “Fece l’altra tavola del Noli me tangere per li Signori Buonvisi, che doveva collocarsi in una chiesa di Lucca, figuratovi il Signore, che apparso in forma d’Hortolano, si ritira la Madalena, la quale genuflessa stende la mano per toccarlo: e si tiene ancor questa fra le migliori opere e più lodevoli del suo pennello”. G. P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, Roma, 1672, pg. 184. H. Olsen identifica il dipinto in questione, del quale non si conosceva l’ubicazione, con quello conservato nella collezione del Visconte di Allendale a Bywell Hall all’interno della cappella di Bretton Park Wakefield. È possibile avere un’idea del dipinto originale consultando il saggio di Tschudi Madsen in Burlington Magazine, CI, 1959, pg. 274.; H. Olsen, Federico Barocci, Copenhagen, 1962, pgg. 183-184.; Cfr. M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 61. 13

Si pregiò la Città di Lucca d’aver un suo Quadro dell’Istoria della Maddalena dopo la Resurrezione, che noi diciamo il Noli me tangere32.

Il Ridolfi prese quindi spunto dalla versione lucchese che, molto probabilmente, dovette aver visto dal vivo durante il suo primo soggiorno urbinate oppure, una seconda ipotesi ugualmente valida, è che potrebbe aver preso a modello l’incisione che Luca Ciamberlano (fig. 6) eseguì nel 160933: in questo caso la Maddalena viene raffigurata mentre tenta di avvicinarsi a Cristo il quale si ritrae con gesto solenne – “ritratto di alterezza senza davvero leziosità”34 - dal tocco dell’incredula peccatrice35. Di una terza versione del Noli me tangere del Barocci, di formato minore rispetto al dipinto di Monaco (fig. 7), ma comunque estremamente affine sia nella composizione che nei colori, un certo Giovanni Battista Staccoli36 (forse un “agente” che il cardinal Leopoldo de’ Medici inviava affinchè andasse a caccia di opere d’arte) riferisce che “nel 1658, presso Ambrogio, nipote del Barocci a Urbino, era un Noli me tangere alto tre piedi e largo due e mezzo nel quale tuttavia non risultava finito se non il dorso, braccia, testa e panneggiamento”. Si aggiungeva inoltre che la figura della Maddalena era stata terminata “dal signor Ambrogio nipote del Baroccio” 37 . Molto più semplicemente il Barocci potrebbe aver eseguito un cartone più piccolo sul quale fare degli studi, magari più accurati e “di fattura più fine” poiché “tutti gli aspetti e gli atteggiamenti del dipinto vi vengono esaminati con la consueta straordinaria precisione: il corpo, il panneggiato ed il gesto non interdicente ma quasi esplicativo del Cristo, la positura della Maddalena […] e soprattutto quel suo difficilissimo gesto di stupore e di

32 F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del Disegno da Cimabue in qua che contengono tre decennali, dal 1580 al 1610. Opera postuma di Filippo Baldinucci fiorentino Accademico della Crusca. All’Altezza Reale di Cosimo III Granduca di Toscana, Firenze, 1702, Vol. V, pg. 114. 33 Si tratta di un bulino di mm. 394x267. In basso a sinistra reca la scritta: “Federicus Barocius Urbinas Inuentor et pinxit / Lucas Ciamberlanus Urbinas I. V. Doctor delineauit / et sculpsit. Anno 1609”. Sul margine della stampa è presente la dedica che Luca Ciamberlano rivolse a Clemente Bartolo d’Urbino. La stampa è conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, nel Gabinetto delle Stampe, inv. n. 2484. 34 A. Emiliani, Federico Barocci, Ancona, 2008, pg. 243. 35 Nel 1816 il dipinto lucchese del Barocci verrà preso a modello per un’incisione da Raffaello Morghen. 36 “Per esempio, due disegni degli Uffizi, citati dal Baldinucci come si è detto, nel 1673 erano già nella raccolta del cardinal Leopoldo; ma non si sa per ora quando e come questi li abbia acquisiti, anche se ciò avvenne probabilmente attraverso i suoi agenti nelle Marche, tipo Giovanni Battista Staccoli che dalla fine degli anni ’50 gli procurava fra gli altri i disegni del Barocci”. A. Forlani Tempesti, “Risultanze sui disegni di Claudio Ridolfi”, in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 159. 37 Mostra di Federico Barocci (Urbino, 1535-1612), Catalogo critico a cura di A. Emiliani con un repertorio di disegni di G. Gaeta Bertelà, Bologna, 1975, pgg. 155-157.; A. Emiliani, Federico Barocci, Ancona, 2008, pgg. 239-249. 14 amoroso tormento”38 (fig. 8). Non sarebbe stata la prima volta per il pittore eseguire copie di minore formato dei suoi dipinti, come narra lo stesso Bellori nell’ormai celebre passo delle sue Vite, quando dice che “quanto il colorito, dopo il cartone grande, ne faceva un altro picciolo, in cui compartiva le qualità de’ colori con le loro proporzioni; e cercava di trovarle tra colore e colore; acciocché tutti li colori insieme avessero tra di loro concordia ed unione, senza offendersi l’un l’altro; e diceva che sì come la melodia delle voci diletta l’udito, così ancora la vista si ricrea dalla consonanza de’ colori accompagnata dall’armonia de’ lineamenti. Chiamava però la pittura musica, ed interrogato una volta dal duca Guidobaldo che cosa e’ facesse: «Sto accordando, rispose, questa musica», accennando il quadro che dipingeva”39. Resta il fatto che il Ridolfi scelse di rappresentare la versione meno nota del Noli me tangere, quella riprodotta dal Ciamberlano. Non sappiamo se vide la copia incisa, il dipinto originale del maestro, o entrambi le opere, quello che è interessante notare è che il pittore scelse il modello “più disegnato”, dai gesti più ricercati, in un certo senso, scelse di rappresentare un Cristo dalle movenze “più aristocratiche”. Il Martirio di San Sergio (fig. 9), opera datata intorno al 161040, venne eseguita esattamente due anni prima della scomparsa del suo maestro. Ma in questo caso tutti i rimandi conducono al suo primo precettore, Paolo, e all’opera che il pittore dovette aver scelto come modello per la rappresentazione del suo santo, cioè il Martirio di San Giorgio (fig. 10). I rimandi alla pala del Veronese sono indiscutibilmente evidenti e la commistione delle “due anime” di Claudio, così le chiamava Carlo Volpe41, vengono qui esplicitate in maniera eloquente: dal dipinto del 1566, il Ridolfi riprese non solo la figura del santo, ma anche quella dei due carnefici e dell’angelo che reca la corona del martirio. Il manigoldo in primo piano che stringe l’alabarda presenta invece dei chiari rimandi barocceschi; potrebbe essere uno dei tanti pastori raffigurati di spalle presenti nelle Natività o nelle Adorazioni tanto cari al modo di comporre del vecchio maestro42.

38 Ivi, pg.156. 39 Si confronti il documento 3 in Appendice documentaria, pgg. 142-143. 40 Esattamente un anno dopo, la visita pastorale di Mons. Ala cita espressamente la pala posta sull’altare maggiore della chiesa di San Sergio a Urbino dicendo: “iconam salis magnam in qua imago S. Sergi”. Cit. Arch. Curia Arciv., Sacre Visite, Mons. Ala, Urbino, n. 6, in M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 69. Il dipinto è tuttora collocato nella chiesa di San Sergio a Urbino. 41 G. Calegari, “Claudio Ridolfi tra Veneto e Marche” in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 20. 42 “La traduzione della composizione di Veronese nel linguaggio di Barocci, aggiornato secondo le istanze controriformistiche, è qui completa e perfetta, ma l’anima di Veronese appare appunto neutralizzata, 15

Ma il Ridolfi non fu il solo ad ispirarsi al San Giorgio di Veronese, anche il Barocci nell’esecuzione della Madonna del Popolo (fig. 11), eseguita nel 1575, riprese alcune “soluzioni” proprie del pittore veneto. Così scrive Stuart Lingo in proposito:

Veronese’s solutions in this particular painting are in fact remarkably akin to Barocci’s in the Madonna del Popolo: background angels and attendant figures evanesce into the heavenly light but the principal holy characters are all clearly delineated and richly colored, even if their garments are not simply rendered with the unmodulated brilliant colors that would appeal only to the “ignorant”43.

Anche nella Presentazione della Vergine al Tempio (fig. 12) eseguita dal Ridolfi per la Chiesa di Santo Spirito ad Urbino 44 , dipinta all’incirca tra il 1621 e il 1625, non mancano espliciti rimandi al maestro veronese. La pala raffigura il Gran Sacerdote che accoglie Maria che sale la scalinata del Tempio e la sua posizione non può far altro che riportare alla mente quella assunta da Ester davanti ad Assuero, precisamente la sua incoronazione45. Maria sta salendo gli scalini del Tempio, accanto al sacerdote c’è un levita con un cero in mano, dietro dei bambini recano altri ceri, i genitori di Maria, Gioacchino ed Anna, sono raffigurati sull’estrema destra46. Ridolfi eseguì un’altra Presentazione della Vergine al Tempio (fig. 13), più o meno negli stessi anni (1625), oggi conservata nella Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino, che quasi sicuramente deriva da quella urbinate della chiesa di Santo Spirito anche se in alcune parti, secondo quanto riporta il Negroni, si potrebbe pensare ad una mano diversa, magari ad uno dei suoi allievi più vicini, Girolamo Cialdieri. Si pensa sia stata eseguita all’incirca nel 1630, naturalmente tenendo ben presente l’opera del maestro. Esiste poi una terza Presentazione della Vergine al Tempio, una replica, eseguita per la Chiesa di S. Andrea di Pergola nella quale i personaggi rappresentati sono gli stessi, ma

sterilizzata”. S. Marinelli, “La pittura veneta nelle Marche dalla fine del Cinquecento alla fine del Seicento”, in Pittura veneta nelle Marche, a cura di V. Curzi, Cinisello Balsamo (Milano), 2000, pg. 243. 43 S. Lingo, Federico Barocci. Allure and Devotion in Late Renaissance Painting, Singapore, 2008, pg. 198. 44 R. Pallucchini, La pittura veronese tra “maniera e natura”, in Arte Veneta, 1974, pg. 133. 45 A. Gentili, La bilancia dell’arcangelo, vedere i dettagli nella pittura veneziana del Cinquecento, Roma, 2009, pgg. 163- 173.; A. Niero, “Il programma teologico di Paolo Veronese in San Sebastiano”, in Da Tiziano a El Greco. Per la storia del Manierismo a Venezia. 1540-1590, Milano, 1981, pgg. 327-329.; A. Gentili, M. Di Monte, Veronese nella Chiesa di San Sebastiano, Venezia, 2005. 46 Quest’opera venne eseguita pochi anni dopo la Circoncisione della Chiesa di San Tomìo, nel periodo immediatamente successivo al suo ritorno a Corinaldo. La mano del Gran Sacerdote nel dipinto della Presentazione ricalca perfettamente quella di Mohel nella Circoncisione del 1617. 16 viene modificato lo sfondo che riprende quello dello Sposalizio di Santa Caterina, dipinto eseguito dal Ridolfi per la Chiesa di Santa Caterina, ora conservato in S. Andrea. Di queste tre versioni del dipinto risulta dunque evidente quanto viva sia ancora la formazione veronesiana, e allo stesso tempo si palesa l’abilità del Ridolfi nel fondere insieme i precetti acquisiti nella vecchia bottega con quelli nuovi del maestro urbinate. Risulta chiaro osservando la Presentazione della Vergine al Tempio (fig. 14) di Federico Barocci, nella quale il gruppo centrale di Maria e del Sommo Sacerdote appare quasi speculare a quello realizzato da Claudio nella Presentazione eseguita tra il 1621 e il 1625 per la chiesa di S. Spirito a Urbino. In questo caso le due figure principali, unite a quelle di Maria e Giuseppe, sono raffigurate di lato, mentre nel dipinto del Barocci l’episodio si svolge frontalmente e ha il suo culmine nella placida figura del Gran Sacerdote. Credo che l’opera che meriti di essere menzionata più di ogni altra tra quelle eseguite dal pittore prima del suo soggiorno veronese (anche se ricordata sempre come semplice copia dal maestro), sia il Crocefisso Spirante (fig. 15), dipinto tra il 1611 e il 1616; probabilmente iniziò la sua esecuzione dopo aver terminato il San Sergio e portò a compimento l’opera prima della sua partenza. Il Cristo si staglia solitario sulla croce, con gli occhi rivolti verso il Padre, non vi è alcun riferimento spaziale, soltanto un cielo plumbeo lo circonda rischiarato da uno squarcio di luce che si apre alle sue spalle47. Anche in questo caso il Barocci è il modello da seguire. Il Crocefisso Spirante (fig. 16) venne realizzato dal maestro nel 1604 per Francesco Maria II della Rovere48; anch’esso è immerso nello stesso cielo, sullo sfondo il paesaggio urbinate - Palazzo Ducale, il borgo di via Valbona, “la linea mediana è tracciata dal grande Mercatale, il terrapieno che regge l’intero Palazzo”49 - tutto sembra schiacciarsi “al centro per ingrandire la luce del tramonto”50. Sembra quasi che il pittore abbia reso in immagine le parole che Bernaldino Baldi un secolo dopo avrebbe dedicato

47 Il dipinto si trova nella chiesa di San Francesco a Corinaldo e molto probabilmente venne concepito per quella stessa chiesa. 48 Dal Bellori ci viene riferito che il dipinto venne collocato accanto al feretro del duca Francesco Maria, ma questa notizia venne poi successivamente smentita dall’Olsen che riteneva invece fosse una copia. Nel 1628, nel testamento del duca era infatti scritto che il dipinto era destinato “Alla Maestà del Re Cattolico”. Giunto in Spagna il Crocefisso venne collocato nella Cappella dell’Alcazar, poi nel Palacio Nuevo. Infine giunse al museo del Prado per essere esposto soltanto nel 1964. 49 A. Emiliani, Federico Barocci, Ancona, 2008, Vol. II, pg. 361. 50 Cit. A. Venturi, Opere inedite di Federico Barocci, in M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 74. 17 alla città di Urbino 51 , ma nel dipinto del Barocci il paesaggio pur non essendo il protagonista della scena, ne costituisce parte integrante. Circa settant’anni prima Michelangelo realizzò un Cristo in croce52 (fig. 17), con il solo legno piantato nel terreno di un colle, un teschio ai piedi, due angeli disperati al suo fianco, mentre sembra stia per pronunciare le ultime parole prima di concedere la sua anima a Dio. È il disegno che il Barocci prese a modello per il suo Crocefisso che rese estremamente umano raffigurando il Cristo soltanto con lo sguardo rivolto verso l’alto, in intimo e silenzioso colloquio con l’Altissimo.

Il cielo è di piombo. E su queste masse scure, ora, e, sia pure in grado minore, sin dall’origine, si distacca affatto la figura del Cristo, costrutta plasticamente, con riflessi alabastrini. Federico Barocci ha voluto qui rappresentare Cristo morente: e se la sua fantasia pittorica ha soprattutto goduto nel contrasto fra la luminosa consistenza del corpo del Cristo e l’ombra incerta del paese e del cielo; la virtuosità psicologica di lui ha trovato un campo straordinario nel volto di Cristo che abbandona al cielo l’ultimo sguardo. Di rado, l’opera più semplice, più sincera, più severa, più profonda spiritualmente, è scaturita dalla mano di Federico Barocci53.

Tiziano, nella Crocefissione (fig. 18) “fatta di macchie”, che realizzò per la chiesa di San Domenico ad Ancona nel 1558, rappresentò un Cristo dal volto reclinato, scuro, ormai inerme; le parole del Figlio sono state già rivolte al Padre e l’abbraccio straziante di San Domenico si unisce al dolore della Croce, “immagine di un’umanità che, disposta alla rinuncia di sé, votata all’eroismo religioso, è comunque insufficiente, da sola, alla propria salvezza, e resta al suolo; ma è anche un’umanità che s’aggrappa alla fede: non riconoscendo se non lo strumento che la riscatta, si chiude nella contemplazione del sacrificio divino”54.

51 “[…] egli è vestito copiosamente d’herbe, e dotato d’alberi d’ogni sorte così sterili, come fruttiferi; e ciò perche non sono generalmente le cime, e le falde de suoi Monti sassose, e discoscese, come di molti vediamo, né scoprono il sasso nudo, mà sono coperti di terreno così polposo, e buono, che giàmai non si stanca di produrre frutti soavissimi […]. Tiene dunque natura di mezzo il Territorio della mia Patria, poiche paragonato à Monti egli è Collina, e appresso à Piani egli è Monte”. B. Baldi, Encomio della Patria di Monsignor Bernardino Baldi da Urbino abate di Guastalla al Serenissimo Principe Francesco Maria II. Feltrio Della Rovere Duca VI d’Urbino, Urbino, 1706, cc. 31-32. 52 Il disegno venne realizzato nel 1530. 53 Studi e Notizie su Federico Barocci (A cura della Brigata urbinate degli Amici dei Monumenti), Firenze, 1913, pgg. 125- 126. 54 M. Polverari, “Le pale d’altare per le chiese di S. Francesco ad Alto e S. Domenico” in Ancona e le Marche per Tiziano. 1490 – 1990, Mostra didattica, Ancona, 1990, pg. 32. 18

In questo caso, è Tiziano il modello osservato dal Barocci. Nel dipinto raffigurante La Crocefissione e i dolenti, è a lui che guarda per rendere la figura di San Giovanni sotto la croce, reso come un giovane dagli occhi pietosi e insieme increduli che allarga le braccia in un misto di stupore e disperazione55 (fig. 19). Anche nella figura di Cristo, Barocci è più che mai vicino al maestro veneziano, tanto che sembra quasi porre in secondo piano “ogni residua certezza strutturale”56 e lasciare un più ampio spazio alla luce, al colore, ad un incarnato fatto di pennellate vibranti57.

Si potrebbe anzi dire che l’ammirazione verso Tiziano non sarà mai più così materialmente esplicita, ma verrà piuttosto ricondotta verso modi assai personali di stesura cromatica, come l’affiorare del cinabro, la schiumosità di superficie e quella stessa vibrazione malinconica e indistinta che si stende sulla perfetta unione pittorica delle opere maggiori dell’artista58.

Nella Crocefissione con i dolenti e San Sebastiano (fig. 20) terminata nel 1596, Barocci modella il corpo del Cristo non più con una lieve “sprezzata pittura di tocco”59, ma seguendone i contorni palmo a palmo, rende perfetto ed eburneo il corpo anche sulla croce, come quello di San Sebastiano, più simile ad un Apollo che a un martire60. Cosa accade invece nel crocefisso che il Ridolfi eseguì nel 1638 per la Chiesa di Santa Maria del Piano, dove il corpo di Cristo sembra tingersi di toni bluastri e verdi, freddi61, dove il bianco delle carni non è più vivo come quello baroccesco, ma esanime come

55 “The composition and overall design is greatly influenced by Titian’s Crucifixion in Ancona of 1558. Titian was the preferred artist of Duke Guidobaldo II and with this work Barocci took up the struggle to replace him as the favoured painter of the Urbino court”. P. Gillgren, Siting Federico Barocci and the Renaissance Aesthetic, Great Britain, 2011, pg. 85. 56 A. Emiliani, Federico Barocci, Bologna, 1985, Vol. I, pg. 36. 57 La composizione del Barocci riprese, come ovvio, anche dalla Crocefissione con Santa Maria e San Giovanni di Piero della Francesca, pala eseguita tra il 1444 e il 1464, oggi conservata nella Pinacoteca Comunale di Sansepolcro. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Si veda in particolare la descrizione data da Peter Gillgren a proposito del Martirio di San Sebastiano del Barocci, eseguito tra il 1557 e il 1558 per la Cattedrale di Urbino; frequenti furono i riferimenti del pittore alla statuaria classica, come accadde per la realizzazione di questa pala: “There are references to the well-known Apollo di Belvedere in the figure of St. Sebastian with his outstretched right arm, repente and mirrored by the archer. The latter figure’s position with the right foot on an antique fragment emphasizes the sculptural and classical connotation”. P. Gillgren, Siting Federico Barocci and the Renaissance Aesthetic, Great Britain, 2011, pg. 81. 61 “Dalla Beata Michelina sembrano derivare, oltre al grandeggiare barocco della protagonista, le tonalità sulfuree e tabaccose, nonché le sfaldature luministiche dello sfondo”. Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 143. 19 quello di un corpo morto? Le nubi si addensano dietro la croce, quasi la avvolgono, soltanto il potente squarcio di luce che emana la figura di Cristo sembra tenerle a distanza62 (fig. 21). La Maddalena ai suoi piedi, è un tocco di luce più caldo, più terreno, dato dalle sue vesti aranciate che sembrano contrapporsi a quel pulviscolo oro e bianco che circonda il crocefisso.

Frequentemente ricorrente nell’arte di Controriforma, il tema della Maddalena come penitente premiata esaltava la dottrina tridentina del merito, in opposizione al concetto luterano di giustificazione per sola fede. La rara iconografia della Maddalena, figura solitaria ai piedi della Croce, trae diretta ispirazione da Palma il Giovane: strettissimo è infatti il rimando all’opera omologa che Palma dipinse tra il 1580 e il 158263.

Questa Crocefissione, conservata nella Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro (fig. 22), fu la struttura sulla quale Ridolfi compose la sua pala; ma il tutto risulta profondamente mutato. La Maddalena dipinta da Palma sembra prostrarsi quasi di volata ai piedi della croce ed è vicina al suo Cristo, sia nella scelta compositiva, sia nei toni cromatici64; la Maddalena del Ridolfi è accasciata compostamente, con una mano si sostiene al legno, con l’altra sembra suggerire la sua presenza, che partecipa al dolore del suo Signore e gli rivolge uno sguardo appassionato65, ma distante66.

62 “Sotto il cielo livido rischiarato dalla luce del divino morente, si profila un piccolo paesaggio su cui spicca un tempio romano, reminescenza storica certamente del tempio di Venere che sorgeva nel luogo della Chiesa di S. Maria del Piano”. M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 167. 63 Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 142. 64 “La maniera tizianesca, calda, sgranata, sensibile alla luce, l’equilibrio altissimo della composizione impostata sul gesto della Maddalena che si china verso destra a cui fa da contrappunto sulla sinistra lo sprofondarsi di una veduta immaginaria, la croce che occupa tutta l’altezza della tela senza peraltro incombere, fanno di questa opera una delle pagine più alte e significative della giovinezza del Palma”. S. Mason Rinaldi, Palma il Giovane: l’opera completa, Venezia-Milano, 1984, pg. 138.; Si confronti in proposito la Crocifissione e santi che Palma il Giovane eseguì, nel 1599, per la chiesa degli Zoccolanti di Potenza Picena. Nel dipinto, la figura di Maria Maddalena quasi tocca con le mani il sangue di Cristo, mentre abbraccia sommessamente il legno della croce (fig. 23). 65 “[…] creatura umanissima, tra le più felici dell’immaginario femminile ridolfiano, che associa al candore inesausto una sensualità sommessa e inconsapevole”. Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 142. 66 Si confronti M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 167. 20

Ridolfi, prima di legarsi indelebilmente al Barocci, è stato definito un artista che, a differenza degli altri pittori veronesi suoi coevi, si distacca da quella fase di rinnovamento che pervade la sua città d’origine Verona e rimane ancorato all’ormai abusato termine di “maniera”67. “Maniera” che domina ancora a Venezia negli ultimi anni del Cinquecento68, dove il Ridolfi non rimase insensibile agli influssi del Palma (posto in cima alla classifica dei manieristi dal Boschini), oltre che del Veronese69. Ma il manierismo di cui tanto si è discusso e che sembra dilagare nella Venezia di fine secolo, non venne recepito in misura così preponderante da tutti gli storici. Freedberg ritenne che, in questa specifica città, non si potesse parlare di manierismo come in tutte le altre, poiché così fortemente radicata era “la prevalenza di quegli elementi di luce e colore”, insiti nella “sostanza della pittura veneziana che sarebbero in contraddizione con il Manierismo, sostanzialmente fondato sul disegno” 70 . In questo caso, Paolo Veronese rientrerebbe, e a pieno titolo, all’interno del filone manierista; è un “foresto” a Venezia, nasce a Verona e le sue prime conoscenze, i primi viaggi, lo educano al disegno, al “buon disegno”, quello di Giulio Romano, tanto che Francesco Sansovino nel 1556 definì “il soffittato di Paulo et compagni Veronesi [in Palazzo Ducale]: opera ueramente di disegno, et gentile”71. Fu questa capacità di disegnare, fatta di contorni decisi, di linee sinuose arricchite e colmate dal “colore timbrico”, caratterizzante la pittura del Caliari, che Claudio Ridolfi conobbe e fece sua negli anni di studio e di apprendistato nella bottega veneziana; una pittura che, pur essendo eminentemente timbrica, venne accolta e di buon grado a

67 “Maniera”, anzi, “Maniere” che il Boschini suddivise attribuendole a sette diversi pittori: primo fra tutti, Palma il Giovane, a seguire Leonardo Corona, Andrea Vicentino, Sante Peranda, Antonio Aliense, Pietro Malombra e Girolamo Pilotto. M. Boschini, Le ricche Minere della pittura veneziana, Venezia, Francesco Nicolini, 1674, pgg. 67-68.; Cfr. Cinquant’anni di pittura veronese, 1580-1630, Catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974, pg. 182.; “Convenzioni della «maniera» e istanze di rinnovamento in Jacopo Palma il Giovane”, in Cultura e Società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di V. Branca e C. Ossola, Città di Castello, 1984, pgg. 207-228.; F. Hartt, “Le pouvoir et l’individu dans l’art maniériste”, in Symboles de la Renaissance, textes de F. Hartt, M. Muraro, A. Warburg, Vol. II, Paris, 1982, pgg. 13-19. 68 Da Tiziano a El Greco. Per la storia del Manierismo a Venezia. 1540-1590, Milano, 1981. Si confronti in particolare pgg. 11-68. 69 “[…] la base della formazione del Ridolfi resta veronesiana, anche se in quegli anni a Venezia fu attratto dal fascino del gusto più chiaroscurato e di marcato accento tardo manieristico di Palma il Giovane”. R. Pallucchini, La Pittura Veneziana del Seicento, Milano, 1981, Vol. I, pg. 111. 70 Citato in: T. Pignatti, “Veronese e il manierismo” in Cultura e Società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di V. Branca e C. Ossola, Città di Castello, 1984, pg. 152.; Cfr. S. Freedberg, Disegno versus Colore and Venetian Painting in the Cinquecento, in “Florence and Venice”, I, Firenze, 1980. 71 F. Sansovino, Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia, cioe usanze antiche. Pitture e pittori. Scultore e scultori. Fabriche e palazzi. Huomini uirtosi. I principi di Venetia. E tutti i patriarchi., Di m. A. Guisconi – In Venetia, 1556, c. A IV v. 21

Venezia72, tanto da concorrere al fianco dei due grandi maestri affermati, Tiziano e Tintoretto. Pallucchini scrisse che l’arte di Paolo ebbe imitatori legati ad un solo determinato periodo della sua carriera artistica, “le cui fisionomie rimasero limitate ad un particolare momento del suo linguaggio”73, ma a questo proposito è necessario tenere presente che il periodo in cui Claudio fu attivo a Venezia nella bottega del Caliari, questi stava dando vita ai suoi ultimi capolavori, i più poetici, quelli illuminati da un “patetismo religioso”74 che avrebbe raggiunto il suo apice nel Cristo nell’orto sorretto da un angelo (fig. 24), nel quale la luce assunse un vero e proprio “significato spirituale” 75 , e nel Miracolo e conversione di San Pantalon (fig. 25), pala commissionata esattamente un anno prima della morte del pittore76. Ridolfi conobbe dunque l’opera del giovane Caliari attraverso i lavori che vide profusi nella città lagunare, ma conobbe anche, e da vicino, i dipinti di un pittore alla fine della sua carriera artistica, dipinti fatti di colori e toni decisamente diversi 77 , realizzati in un’atmosfera profondamente mutata. Stando a quanto detto, il Ridolfi, essendo stato a stretto contatto con la bottega veronesiana, avrebbe dunque fatto parte di quelle “maniere” di cui aveva tanto parlato il Vasari, “maniere” d’imitazione, dove bastava prendere un braccio, una bella mano e un panneggio affinchè si riuscisse ad ottenere un disegno “perfetto”. Ma non fu esattamente così, o perlomeno lo sarebbe stato se fosse rimasto a Venezia per tutti gli

72 “Paolo Veronese, nella sua formazione, terrà conto del cromatismo timbrico locale, del manierismo mantovano ed emiliano, nonché del classicismo sanmicheliano. Quel che è sorprendente è che un pittore veronese si trasferisca a Venezia, apportatore di un codice espressivo basato sul colore timbrico assolutamente in contrasto con quello tonale in ventato da Giorgione e sviluppato da Tiziano, e vi trovi fortuna”. R. Pallucchini, Veronese, Milano, 1984, pg. 8. 73 “[…] in un certo senso si può dire che il veronesismo fu un fenomeno abbastanza circoscritto, proprio per le difficoltà nell’affrontare l’imitazione di un gusto cromatico e formale così complesso ed aristocratico al tempo stesso”. R. Pallucchini, La Pittura Veneziana del Seicento, Milano, 1981, Vol. I, pgg. 21-22. 74 T. Pignatti, Veronese, Venezia, 1976, Vol. I, pg. 86. 75 Ivi, pg. 99. 76 “La Conversione di San Pantalon sembra in effetti riassumere ed esasperare le principali caratteristiche di questa produzione tarda: dal forte patetismo, alla scelta di colori e toni scuri e spenti, all’estrema essenzialità dell’ambientazione, tutte componenti radicalmente all’opposto rispetto alla ricchissima scelta cromatica, alla profusione di elementi narrativi e fantasie architettoniche di gran parte della precedente carriera pittorica del maestro”. A. Aymonino, “La Pala di San Pantalon: immagine devozionale e manifesto politico”, in Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XV, n. 30, 2005, pg. 159. 77 “Nell’ultimo Paolo le forme tendono a svincolarsi da ogni impegno semantico, da ogni costrizione di verosimiglianza; il discorso, sempre così limpido e compiuto, va facendosi sempre più conciso ed ellittico; la pennellata ch’era precisa si fa allusiva; il disegno mordente diviene evasivo […]. Per dirla in breve, dal tono narrativo Paolo passa al tono lirico. Toccata con le Cene la massima espansione in latitudine, l’arte di Paolo si approfondisce in sempre più alta e pura interiorità. Ed ecco la sua prodigiosa sapienza e fantasia coloristica divenire puro lirismo cromatico”. L. Coletti, “Lezioni su Paolo Veronese all’Università di Pisa”, 1941, in L’opera completa del Veronese, presentazione di G. Piovene, Milano, 1968, pg. 13. 22 anni a seguire; ma decise di recarsi altrove, e di assimilare in quel periodo giovanile di apprendistato tutti gli stimoli possibili. Alla morte del grande vecchio, fu Palma78 che prese in mano e gestì con la sua bottega (se così possiamo ancora chiamarla sul finire del Cinquecento) la vita artistica veneziana e proprio in quegli anni Claudio entrò a far parte di quell’atmosfera crepuscolare che Mario Praz identificava per la sua ricchezza e mutabilità, personificandola, con il dio pagano Vertumno79. Palma (che se avesse indossato i panni del dio pagano non sarebbe apparso poi così disdicevole), divenne un nuovo punto di riferimento per il Ridolfi dopo la morte del maestro veronese, e singolari furono le affinità che legarono, perlomeno in parte, la vita di Claudio al suo nuovo mentore80; come Palma aveva conosciuto e ammirato gli ultimi lavori di Tiziano81, così il Ridolfi, agli esordi della sua carriera pittorica, si trovò a contatto con le opere più liriche e abbacinanti del Veronese maturo82. Come Palma venne accolto dalla famiglia dei Della Rovere a Urbino grazie ad un ritratto, che mai fu più propizio83, così anche il Ridolfi84,

78 Così Pietro Zampetti descrisse il pittore, come un uomo “del suo tempo […]. La sua pittura – questo è un punto fermo – non guida i tempi, è al contrario guidata dalla situazione in cui egli si trova a vivere e della quale vuol essere insieme interprete e devota espressione […]. Palma il Giovane è davvero a Venezia l’ultimo grande pittore del Cinquecento, il continuatore di una tradizione cui rimane legato, della quale si sente erede e responsabile”. P. Zampetti, I pittori bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Il Cinquecento III, Bergamo, 1979, pg. 19. 79 “Vertunno è meno sfrenato, esperimenta mutazioni in vista d’un fine, cambia più volte la sua figura per entrar nelle grazie della bella ninfa Pomona, cioè personifica il mutare delle culture per ottenere la fertilità dei campi raffigurata in Pomona, la dea dei frutti. E così l’età che egli è atto a impersonare è caratterizzata da una serie di tentativi, di atteggiamenti, di assaggi di nuovi accordi, che preludono a quella che sarà poi la piena orchestra del barocco”. M. Praz, “Studi sul Manierismo”, in Il giardino dei sensi. Studi sul manierismo e il barocco, Vicenza, 1975, pg. 33. 80 Il Marinelli adombra la possibilità che Claudio sia stato introdotto all’interno della bottega del Barocci proprio grazie alla figura di Palma. Così scrive: “L’attività di Palma per le Marche fu particolarmente intensa nell’ultimo decennio del Cinquecento, quando forse Ridolfi era ancora nella sua bottega a Venezia, e si riduce quando Ridolfi arriva a Urbino, senza creare apparentemente conflitti di commissioni”. S. Marinelli, “La pittura veneta nelle Marche dalla fine del Cinquecento alla fine del Seicento”, in Pittura veneta nelle Marche, a cura di V. Curzi, Cinisello Balsamo (Milano), 2000, pg. 236. 81 Palma, appena quindicenne, copiò il toccante Martirio di San Lorenzo nella chiesa dei Crociferi, mentre Tiziano andava elaborando le ardenti “poesie” destinate a Filippo II.; Si confronti S. Mason Rinaldi, Palma il Giovane: l’opera completa, Venezia-Milano, 1984. 82 Mi riferisco alle opere eseguite intorno agli anni ’80 nelle quali la sua pittura subisce “a mysterious transformation […], one which transmutes solid substance into vibrant light” e “adjusted not only his subjects but their pictorial character as well toward a newly severe and realistic mode”. W. R. Rearick, “The "twilight" of Paolo Veronese”, in Crisi e rinnovamenti nell’autunno del Rinascimento a Venezia, a cura di V. Branca e C. Ossola, Città di Castello, 1991, pgg. 240-241. 83 Mi riferisco al ritratto che Palma fece nel 1564 a Guidobaldo II della Rovere mentre il duca si trovava a Venezia. Questo ritratto venne così apprezzato dal duca Guidobaldo che condusse il pittore ad Urbino. In seguito il duca, divenuto suo mecenate, gli permise di intraprendere il soggiorno a Roma per migliorare le qualità del suo giovane pupillo. 84 “Le vicende biografiche di Claudio Ridolfi e di Jacopo Palma il Giovane, ripercorse nel rapporto privilegiato che i due artisti veneti ebbero con le Marche prima e dopo il soggiorno a Roma, costituiscono 23 agli inizi del nuovo secolo, venne accolto dai discendenti della famiglia ducale guidato da colui che maggiormente ne aveva rappresentato i fasti, Federico Barocci. Dunque Veronese e Palma furono i primi due cardini sui quali si andava formando la cultura pittorica del giovane, ma a quelle “radici venete timbrate e composite” si aggiunse poi “la vicinanza del Barocci: e allora la scena si anima di altre presenze, che la rendono meno aulica e più famigliare”85. Più familiare. Sotto la guida del vecchio Barocci, il nostro imparò a rendere le figure, già ben disegnate grazie alla lezione veronesiana, con lineamenti più sfumati, con colori caldi, ambientazioni meno auliche. Modi di vedere e sentire acquisiti attraverso lo studio e la vicinanza della pittura romana, toscana, e soprattutto emiliana86; tradizioni confluite e mediate dalla mano di un pittore consapevole.

[…] si pone come il migliore anello di congiunzione fra il maturo manierismo e la nuova attenzione al reale, favorito in ciò dalla sua sostanziale indipendenza da scuole definite e per la sua collocazione cronologica, che ancora dal pieno Cinquecento lo porta a scavalcare il nuovo secolo. Egli fu tramite alla riscoperta dei veneti e del Correggio pur nella perdurante fedeltà alla tradizione disegnativa toscana di primo Cinquecento, per molti disegnatori delle successive generazioni […]87.

Sembra quasi che i colli della Marca siano un porto franco per animi sensibili e melanconici; c’è persino chi ha parlato di “sentimento del luogo”88. Lorenzo Lotto morì

l’estrema testimonianza di un nuovo difficile equilibrio, se non già di un vano disegno culturale antiromano della corte urbinate nei decenni immediatamente precedenti alla sua devoluzione, come suggerisce Sergio Marinelli. Quest’evento storico vedrà, insieme all’estinzione del ducato, l’irrimediabile declino dell’astro veneziano in tutto il territorio marchigiano”. Pittura veneta nelle Marche, a cura di V. Curzi, Cinisello Balsamo (Milano), 2000, pg. 11. 85 G. Calegari, “Claudio Ridolfi tra Veneto e Marche”, in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 20. 86 “Penso che difficilmente altre zone della penisola abbiano veduto la contemporanea presenza di tanti artisti e correnti pittoriche, quante sono quelle che si intrecciano nelle Marche ai primi del Seicento. I bolognesi sono presenti con opere di grande importanza e suggestione: ddal Reni al Guercino, fino a […]”. P. Zampetti, “Claudio Ridolfi e gli eventi nella pittura marchigiana tra Manierismo, Controriforma e origini dell’arte barocca”, Ivi, pg. 19. 87 A. Forlani Tempesti, “Il disegno italiano nel Seicento”, in La Pittura in Italia. Il Seicento, a cura di M. Gregori, E. Schleier, Milano, 1989, Vol. II, pg. 559. 88 Mostra di Federico Barocci (Urbino, 1535-1612), Catalogo critico a cura di A. Emiliani con un repertorio di disegni di G. Gaeta Bertelà, Bologna, 1975, pg. 26. 24 a Loreto nel 155689, Federico Barocci, pur con i suoi sporadici soggiorni90, rimase devoto alla sua patria fino al 1612, anno della sua morte, Claudio Ridolfi abbandonò Verona per stabilirsi definitivamente a Corinaldo, il Tasso91 compose dei memorabili versi in onore della città di Urbino e della sua corte, cercando di trovare ristoro e pace in essa. C’è chi invece, a differenza degli spiriti melanconici, svolse importanti commissioni per ben altre corti, lontane dalla propria terra, e di certo più illustri, ma allo stesso tempo riuscì a mantenere sempre stretti e duraturi i rapporti instaurati con i duchi di Urbino, inviando opere nella città e nei paesi limitrofi. Tiziano ritrasse più volte il duca Francesco Maria Della Rovere, alcuni ritratti lo immortalarono al fianco di sua moglie, Eleonora Gonzaga, e molte altre ancora furono le opere che abbellirono la casata roveresca, insieme ai dipinti che il pittore eseguì per alcune chiese nella città di Ancona, come San Francesco ad Alto e San Domenico. Diversi e lontani furono gli ingegni che si ritrovarono, anche per breve tempo, in questa regione di confine92 e due furono quelli che spiccarono maggiormente, Lotto, e Tiziano appunto.

89 “Così poco dopo l’1 settembre 1556, moriva quasi dimenticato uno dei fondatori della pittura moderna […]. Poco avventurato in vita, il vagabondo Lorenzo Lotto doveva peregrinare per secoli prima che la critica si accorgesse di lui, restituendolo al suo posto tra i genii della pittura”. T. Pignatti, Lorenzo Lotto, Venezia, 1953, pg. 181. Si veda anche P. Zampetti, Lorenzo Lotto nelle Marche, Urbino, 1953; B. Berenson, Lorenzo Lotto, a cura di Luisa Vertova, Milano, 2008. 90 Federico Barocci si recherà, giovanissimo, a Roma per la decorazione del Casino di Pio IV, poi, in seguito a Perugia dove lascerà la toccante Deposizione eseguita per la Cattedrale di San Lorenzo tra il 1567 e il 1569; si tratterrà infine per breve tempo a Ravenna e Firenze. Nonostante i rari spostamenti, la sua pittura coinvolse grandi artisti quali il giovane Pieter Paul Rubens e Bartolomé Esteban Pérez Murillo. Cfr. H. Olsen, Federico Barocci, Copenhagen, 1962, pg.130; M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 31. 91 «O del grand’Apennino / figlio picciolo sì, ma glorioso / e di nome più chiaro assai che d’onde, / fugace peregrino / a queste sue cortesi amiche sponde / per sicurezza vengo e per riposo. / L’alta Quercia che tu bagni e feconde / con dolcissimi umori, ond’ella spiega / i rami sì ch’i monti e i mari ingombra, / mi ricopra con l’ombra. / L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega / al suo fresco gentil riposo e sede, / entro al più denso mi raccoglia e chiuda, / sì ch’io celato sia da quella cruda / e cieca dea, ch’è cieca e pur mi vede, / ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle, / e per solingo calle / notturno io mova e sconosciuto il piede; / e mi saetta sì che ne’ miei mali / mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali». È un breve estratto della canzone O del grand’Apennino che Torquato Tasso compose nel 1578 e lasciò incompiuta. In questa prima stanza il poeta fa riferimento alla valle del Metauro e, attraverso l’immagine dell’alta Quercia (stemma gentilizio della famiglia Della Rovere), alla corte di Urbino affinché questa potesse proteggerlo e recargli sicurezza e fresco gentil riposo. T. Tasso, Rime, in Opere, vol. I, a cura di B. Maier, Milano, 1963. 92 Così Pietro Zampetti enumera il susseguirsi, nelle diverse province marchigiane, dei vari maestri che nel corso dei secoli lasciarono qualcosa della loro arte: “I più noti pittori veneziani del tardo gotico raggiungono Pesaro, Recanati, Sanseverino, Fermo e vi lasciano i loro polittici; da Paolo Veneziano a Jacobello del Fiore a Michele Giambono e a tanti altri. Ma è con il Rinascimento che i rapporti divengono più intensi; se Gentile da Fabriano era andato a Venezia, qui ora giungono prima Crivelli, poi Giovanni Bellini, quindi Lorenzo Lotto che di poco precede Tiziano, il quale sarà seguito in tempi brevi da Gerolamo Savoldo e verso la fine del 25

Non v’è possibilità di confronto tra loro, Tiziano guardava il mondo dall’alto di una sensibilità aperta, comprensiva, di origine classica, e vedeva le vicende umane come fatti appunto della storia, della quale il piccolo evento fa sì parte, ma è una parte del tutto. Il Lotto vive il particolare e ne fa il centro del mondo: l’inquieto nella mente – come egli era e scrive di sé stesso – entra nella psicologia del profondo, guarda entro la coscienza, e non sa più uscirne93.

Un’inquietudine che divenne compagna stretta del Barocci un secolo dopo, ma che lo rese in grado di realizzare umili e straordinarie figure di pura grazia. Ridolfi non fu in grado di “oscurare la Natura” 94 come il suo maestro, ma riuscì ugualmente a distinguersi 95 , ad attenersi (con le dovute libertà) a quelle “ispirazioni” religiose particolarmente sentite nelle città in cui operava, a creare una bottega, a svolgere importanti commissioni per una famiglia i cui fasti stavano per concludersi con l’estinzione della casata roveresca e la morte del duca Francesco Maria II Della Rovere nel 163196.

Cinquecento da Palma il Giovane”. Ancona e le Marche per Tiziano. 1490 – 1990, Mostra didattica, Ancona, 1990, pg. 16. 93 Ivi, pg. 17. 94 È una citazione, Obscuravit Naturam, ripresa dall’iscrizione posta sopra la tomba del pittore urbinate nella chiesa di San Francesco. Cfr. F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del Disegno da Cimabue in qua che contengono tre decennali, dal 1580 al 1610. Opera postuma di Filippo Baldinucci fiorentino Accademico della Crusca. All’Altezza Reale di Cosimo III Granduca di Toscana, Firenze, 1702, pgg. 116-117. 95 Così scrisse Amico Ricci a proposito della pittura del Ridolfi: “[…] Qui sta pertanto il merito principale di Claudio, all’opposto degli altri discepoli e imitatori del Baroccio, poiché seppe distinguere i principali pregi, ed omise il manierismo che degradò una scuola, la quale avrebbe avuto più vanto, se più Claudi vi fossero stati”. A. Ricci, op. cit., in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 28. 96 “Nel principe roveresco trovano espressione i motivi di una famiglia al tramonto che si raccoglie in se stessa dopo gli splendori del Rinascimento. Portato per natura all’austerità contemplativa e alla solitudine, tanto da venire chiamato «principe monaco», e dal padre Guidobaldo II, totalmente diverso da lui per carattere, «principe meglio atto a regnare sopra libri che sopra gli uomini», accentuò queste tendenze del suo animo a causa della morte del figlio Federico Ubaldo nel 1623, e con la prospettiva della fine sicura della sua dinastia”. M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 28. 26

I.2 LA MORALIZZAZIONE DELL’ARTE E GLI “ABUSI” DELLA PITTURA.

[…] po’, volta a me, mi concia sì, c’oltr’all’esser vecchio, in quel col mie fo più bello il suo viso, ond’io vie più deriso son d’esser brutto; e pur m’è gran ventura, s’i’ vinco, a far bella, la natura97.

E l’arte, nella nuova terra di adozione di Claudio, da che parte andava? Quali menti guidavano la pittura in una regione in cui convivevano corte e papato? Sotto quali stimoli operava? Per Michelangelo l’arte equivaleva ad una sfida. Per lui, diversamente dalla natura, l’arte aveva una bellezza imperitura, resistente al tempo, scevra dalla caducità e capace persino di rendere più bella la natura stessa. Ma è proprio su questa rappresentazione della natura, quella che non si attiene alla sua semplicità, alle sue norme e che invece si contorce e si allunga98, che lo studioso fabrianese Giovanni Andrea Gilio si interrogava e ragionava nel suo dialogo. “Se l’arte è simia della natura, perché non deve in questa imitarla?” Con una domanda il Gilio replicava alle risposte - non proprio confacenti al suo giudizio - dategli dai pittori, con i quali diceva di ragionare spesso, ma di non avere poi molto in comune.

Oggetto principale dei suoi strali è proprio Michelangelo, di cui riconosce il genio, ma del quale deplora le invenzioni. Lo ritiene, anzi, il pittore che più di ogni altro si allontana dai canoni evangelici, per inseguire una visione personale degli eventi religiosi e ciò - a suo dire – va respinto senza mezzi termini99.

97 M. Buonarroti, Rime, a cura di E. Noè Girardi, Bari, 1960, [CLXXII]. 98 “onde mi pare ch’oggi i moderni pittori, quando a fare hanno qualche opera, il primo loro intento è di torcere a le loro figure il capo, le braccia o le gambe, acciò si dica che sono sforzate, e quei sforzi a le volte sono tali che meglio sarebbe che non fussero […]”.; G. A. Gilio, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie con molte annotazioni fatte sopra il giudizio di Michelagnolo et altre figure, tanto de la nova, quanto de la vecchia capella del Papa. Con la dichiarazione come vogliono essere dipinte le sacre immagini, Camerino: per Antonio Gioioso, 1564. Il passo è tratto dalla dedica iniziale che il Gilio fa all’Illustrissimo e reverendissimo Mons. il Cardinale Farnese, c.1. 99 P. Zampetti, “Claudio Ridolfi e gli eventi nella pittura marchigiana tra Manierismo, Controriforma e origine dell’arte barocca”, in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 14. 27

Vi era dunque l’esigenza di una pittura decorosa, ligia alle Sacre Scritture, senza fronzoli né “abusi”, nella quale fosse narrata l’“historia” senza tante libertà interpretative, poiché sarebbe potuto subentrare e quindi riproporsi quel paventato rischio ermeneutico proprio della Riforma luterana100.

Disse M. Silvio: «Anzi, più assai dà il pittore che il maestro, perché quello insegna a cento, e questa è veduta da decemila; quello si può ognora disdicendo correggere, e questa, se non si rade dal muro, non si può emmendare. Qual sarà quello ostinato (eccetto non sia luterano) che, vedendo l’imagine del nostro Signore crocifisso piagato e sanguinolento, non abbia qualche rimorso ne la consienza e non gli venga voglia di onorarla e di farli riverenza?»101.

Dunque si esigeva una pittura che ispirasse commozione, che legasse intimamente lo spirito del fedele al mistero che gli veniva posto dinanzi, che riuscisse ad “imprimere nel popolo il vero culto di Dio e la grandezza delle cose eterne, e convertire come ministro celeste i cuori delle nazioni intiere, e cangiarli in altra forma, e seco rapirli in cielo”102. Non molto si era detto durante l’ultima sessione conciliare, quando a riguardo si erano spese ben poche parole:

[…] Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza […]103.

Nei primi anni del Seicento lo stesso Palma il Giovane collaborò con Odoardo Fialetti e Giacomo Franco nella stesura dei rispettivi saggi: Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del corpo humano, edito nel 1608, e il De excellentia et nobilitate delineationis libri duo, edito sempre a Venezia nel 1611. Sempre negli stessi anni, più precisamente nel 1607, Federico Zuccari pubblicò a Torino l’Idea de’ Pittori, Scultori et Architetti, uno scritto nel quale l’“idea” di cui parlava era descritta come

100 M. Di Monte, “Gilio, Giovanni Andrea” in Dizionario Biografico degli Italiani, Catanzaro, 2000, pg. 753. 101 G. A. Gilio, “Degli errori e degli abusi de’ pittori”, in Trattati d’arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, Bari, 1961, pg. 109. 102 G. Paleotti, “Discorso intorno alle imagini sacre e profane”, Ivi, pg. 233. 103 Decisioni dei Concilii Ecumenici, op. cit., pp. 712-714, in A. De Bernardi, S. Guarracino, Laboratorio storico dal Medioevo all’età Moderna, Vol. I, Milano, 1987, pg. 665. 28 un’essenza puramente umana, soggettiva, un “disegno interno, che si identifica con un’idea o forma dell’intelletto”, che non aveva nulla in comune con l’ “idea” platonica, astratta e lontana104. Sono scritti in cui è fortemente sentita la matrice artistica centro-italiana, pur essendo stati pubblicati a Venezia, e quindi di certo non proprio affini alla tradizione pittorica della Serenissima; sono infatti espliciti i riferimenti all’Accademia bolognese dei Carracci e al tumultuoso ambiente romano agli albori del Barocco. Ma gettando uno sguardo fuori dall’Italia, si noterà come la situazione nei confronti delle immagini sia divenuta motivo di discussione anche in altre nazioni, soprattutto nella “cattolicissima” e controriformata Spagna, in cui gli scritti a riguardo proliferavano e uno in particolare più di tutti gli altri, poiché il suo influsso oltrepassò i confini nazionali e si diffuse in tutta Europa. Nel 1562, san Francesco Borgia chiese a Jerónimo Nadal di illustrare e quindi di collaborare al suo scritto che rappresentava una sorta di riflessione o commento ai Vangeli della Domenica. Chiese dunque al gesuita spagnolo di eseguire delle immagini che riuscissero ad esplicare i suoi concetti con semplicità, affinchè i fedeli non potessero “ingannarsi scambiando una cosa per l’altra” 105 e per facilitare loro la meditazione. Fu un’opera che impegnò molto il gesuita e, mentre soltanto alcune delle tavole da lui eseguite vennero stampate a Roma in quegli anni, l’intero scritto venne dato alle stampe soltanto nel 1675. Molti altri furono i trattatisti che si dedicarono alla stesura di opere simili e, allo stesso modo, molti altri furono coloro che illustrarono i loro brani; ma un testo in particolare del già citato Nadal si inserì prepotentemente nella lista degli scritti “catechistici”, le Evangelicae Historiae Imagines (figg. 26-27-28), pubblicato ad Anversa nel 1593, ovviamente correlato delle consuete immagini. Ogni episodio venne raccontato dallo studioso in maniera rigorosa, contribuendo fortemente “all’addottrinamento” dei devoti, prendendo ad esempio sia testi patristici, sia alcuni studi di personaggi ecclesiastici, ma anche libri profani che molto spesso suggerivano spunti e conferme riguardo gli episodi da narrare.

Dunque si accumulavano trattati, scritti teologici, precetti artistici, esempi da seguire, positure da evitare, immagini da non ritrarre, pitture da contemplare. Claudio Ridolfi si

104 G. R. Hocke, “Aion e Chronos: l’espansione dell’immaginazione”, in Tiziano e il manierismo europeo, a cura di R. Pallucchini, Città di Castello, 1978, pg. 438. 105 “engañarse tomando una cosa por otra”. Ivi, pg. 113. 29 trovò esattamente nel mezzo di quel mare magnum di precetti, artistici e religiosi, e scelse di operare secondo la maniera più consueta, senza grandi slanci innovativi, attento alle richieste e pronto ad adattarsi alle diverse esigenze di committenza. Insomma fu un pittore che si attenne diligentemente ai dettami del Concilio, si accinse a dipingere immagini che non potessero trarre “in inganno le anime semplici”, che non avessero “attrattive provocanti”, nessuna “immagine insolita”106. Così scrisse Filippo Baldinucci nelle ultime righe della biografia dedicata al Ridolfi:

Fra le buone qualità di che ebbero le Pitture di questo Artefice, assai rilusse l’accuratezza nel procurare, che ei fece sempre, che le sue figure fusser bene adattate agli Ufizzi loro; parte principalissima dell’ottimo Pittore, non sempre da tutti ben praticata107.

Le immagini dovevano adattarsi ai loro uffizzi; suonava quasi come una sorta di dogma, ripetuto strenuamente durante tutta la seconda metà del Cinquecento. Gabriele Paleotti, nel 1582, pubblicò un trattato intitolato Discorso intorno alle immagini sacre e profane, testo nel quale venivano esplicitati suggerimenti estetici atti ad educare lo sguardo del fedele; Gregorio Comanini, nel 1591, diede alle stampe Il Figino. Ovvero del fine della pittura; lo stesso Carlo Borromeo, nel 1577, aveva pubblicato a Milano le Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae, scritto nel quale l’Arte è serva di Dio, poiché “non vi è arte fine a se stessa perché ogni cosa deve avere un fine pratico e simbolico”108. Citando i nomi degli autori, ho indirettamente richiamato le loro città di appartenenza: Bologna, Mantova, Milano e naturalmente Roma, la matrice primaria. Venezia non appare. Quei trattati risultavano un po’ troppo “distanti” dalla sua mentalità, sia territorialmente, sia concettualmente; si pensi al Gilio, il quale rivolgeva le sue accorte riflessioni in special modo alla maniera romana, agli “elementi desunti dalla mitologia pagana”, ad “un soverchio virtuosismo e un’eccessiva esibizione di nudi”109. Allo stesso modo gli scritti del Paleotti e del Borromeo, che sì toccarono la Serenissima, ma soltanto marginalmente in confronto alle città del centro Italia.

106 E. Mâle, L’Arte religiosa nel ’600. Italia Francia Spagna Fiandra, Milano, 1984, Cap. I, pg. 23. 107 F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del Disegno da Cimabue in qua che contengono tre decennali, dal 1580 al 1610. Opera postuma di Filippo Baldinucci fiorentino Accademico della Crusca. All’Altezza Reale di Cosimo III Granduca di Toscana, Firenze, 1702, Vol. V, pg. 210. 108 S. Tuzi, le Colonne e il Tempio di Salomone. La storia, la leggenda, la fortuna, Roma, 2002, pg. 108. 109 P. Humfrey, “La pala d’altare veneta nell’età delle riforme”, in La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, a cura di M. Lucco, III, Milano, 1999, pgg. 1136-1137. 30

Diverse e molteplici erano le questioni che angustiavano Venezia sul finire del Cinquecento, non si trattava soltanto di problemi di censura letteraria, né dei soliti processi rivolti ai pittori ritenuti troppo poco devoti. I tempi stavano mutando. La sicurezza di un tempo, andava affievolendosi e agli inizi del nuovo secolo, pur nella sua sfolgorante ricchezza e febbrile risolutezza, Venezia non sarebbe più stata il centro del mondo.

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I.3 VENEZIA E IL SUO PALADINO, IN UN MONDO DI “APPARENZE”.

Già, per sentire odore di maiale, cibarsi della carne che il vostro profeta, il Nazareno, popolò di diavoli con una magia. Sono disposto a comprare e vendere con voi, parlare con voi, e così di seguito; ma non sono disposto a mangiare con voi, bere con voi, e né a pregare con voi110.

Quando penso alla Venezia di fine Cinquecento ho in mente la città irrequieta e profondamente contraddittoria descritta da Shakespeare; Antonio e Shylock rappresentano il disprezzo e la presunta superiorità di un credo sull’altro. Ebrei e cristiani convivono insieme disgustati gli uni degli altri nella tanto presunta e declamata città liberale e tollerante di Venezia, dove un turbinio di mercanti provenienti da paesi lontani, ricchi e nobili veneziani, prostitute, commercianti, virtuosi predicatori cristiani e avidi ebrei non fanno che alimentare quella società mercantile e contrattuale che rende onore soltanto al denaro e a sterili rapporti di interesse. La Venezia raccontata da Shakespeare rappresentava ancora, in quegli anni, la città modello, la città cosmopolita, multietnica e ineguagliata dove, al tempo stesso, era profondamente radicata la discriminazione nei confronti delle diverse etnie e religioni; così veniva immaginata, come una realtà che in fondo, non era poi così lontana dalla verità storica, ma certamente ricca di elementi irreali, carica di un disprezzo che non ricalcava perfettamente i comportamenti dei cittadini veneziani del tempo. Fu da sempre una città che, nel continuo andirivieni di uomini delle più disparate etnie, incluse sempre tutto e tutti cercando di trarne ogni volta il meglio per se stessa. Venezia era la città che Jean Bodin aveva immaginato nel suo Colloquium heptaplomeres111 descrivendola quasi come una rediviva Babele. Montaigne, scendendo in Italia nel 1580, visitò sia Venezia che Roma e le definì entrambe due città “cosmopolite”, ma decisamente diverse: Roma era il centro religioso per eccellenza, Venezia era una città di mercanti, di commercio, di scambi continui112. La prima persona che il filosofo

110 W. Shakespeare, The Merchant of Venice, introduzione di N. D’agostino, prefazione, traduzione e note di A. Serpieri, Milano, 2010, Atto I, scena III. 111 J. Bodin, Colloquium heptaplomeres de rerum sublimium arcanis additis, Parigi, 1857. 112 “Erano sudditi del Dominio, da terra e da mar, italiani da molti luoghi della penisola, forestieri provenienti d’oltralpe e d’oltremare. I tedeschi costituivano da tempo uno degli assi portanti dell’economia veneziana […]. Tra loro non mancavano certo i protestanti; e altrettanto valeva per i grigioni, solitamente addetti ad attività più umili. C’erano parecchi greci, tra i quali abbondavano quelli di rito ortodosso […]. C’erano i 32 incontrò appena giunto nella Serenissima fu Arnaud Du Ferrier, ambasciatore francese presente a Venezia da dieci anni; ufficialmente cattolico, ufficiosamente calvinista. Questi a sua volta aveva avuto modo di stringere una forte amicizia con il servita Paolo Sarpi, incontro straordinariamente propizio e importante per il teologo, poiché Du Ferrier fu presente nell’ultima fase del Concilio, e potè descriverla dettagliatamente al Sarpi. Tre menti dunque si incrociano nella stessa città, e ognuno coglie dall’altro quello che più gli aggrada, influisce sul suo pensiero, lo cambia, lo rafforza, ne fa un vero e proprio “mezzo” di persuasione, o perlomeno di riflessione. All’incirca nel 1620, il servita donò a Marco Trevisan, uomo del quale aveva profonda stima113, la traduzione italiana del saggio di Montaigne Sull’Amicizia per contribuire al legame già ben avviato tra il patrizio veneziano e Nicolò Barbarigo. Il motivo di quel dono, si palesava nello scritto. Il saggio Sull’amicizia era un modo per auspicare che il rapporto tra i due patrizi si fondasse su un legame forte, che comprendesse tutti gli ambiti, che richiedesse “una corrispondenza e un’adeguatezza di ogni aspetto dell’altro”114 e non soltanto riguardo una singola, specifica caratteristica. Quattro anni prima, nel 1616, si era presentato il problema di conferire il titolo di dottore senza tener conto della religione che si professava, fatto non poco importante dato che nel 1555, una bolla emanata da Paolo IV vietava agli ebrei di essere dottori e Sarpi, in proposito, riteneva strenuamente che la “professione” di fede non fosse in alcun modo riferibile e pertinente alla “professione” di un uomo. Nel 1621 si ritornò di nuovo a discutere della questione. Una questione che in fondo si radicava negli scritti di Montaigne, che non facevano altro che sottolineare la differenza sostanziale tra i legami sociali, e quindi pubblici, e quelli che invece riguardavano la sfera soggettiva e privata. Questo elenco apparentemente sconclusionato di eventi e di uomini, mostra in realtà una situazione complessa e a dir poco ingarbugliata. Ciò che ne risulta, è la descrizione di un uomo del tardo Cinquecento che, stando alle parole di Montaigne, non faceva altro che “darsi in affitto”, cioè si trovava vincolato in un mondo di apparenze nel quale non lasciava mai trasparire la sua vera e propria indole. Ma allora se tutto era governato da una realtà di comodo e di falsità, tanto valeva sistemare anche i propri libri “proibiti” in

turchi, che vivevano prevalentemente sparsi per la città […]”. G. Cozzi, “Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare”, in Venezia e la Roma dei Papi, Banca Cattolica del Veneto, Milano, 1987, pg. 28. 113 Sarpi lo definì un uomo “che mi parla non in maschera”. V. Frajese, Sarpi Scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna, 1994, pg. 66. 114 Ibidem. 33 un cantuccio e “dichiarare” i non sospetti. Questa occasione venne offerta al Sarpi grazie all’Inchiesta promossa dal vescovo Agostino Valier, che nel 1598 risultava come prefetto della Congregazione dell’Indice. Lo scandaglio delle opere promulgato dal Valier era stato definito “moderato” rispetto agli Indici indetti nel 1590 e nel 1593, e inoltre l’indagine era basata essenzialmente sull’“autodichiarazione” delle opere possedute. Autodichiarazione o dissimulazione 115 ? Credo possano considerarsi termini interscambiabili, poiché negli anni a cavallo tra Cinquecento e Seicento, la dissimulazione era capillarmente diffusa in quella promiscuità di pensieri che la situazione politico-religiosa andava fomentando; Torquato Accetto pubblicò nel 1641 il suo unico trattato intitolato Della dissimulazione onesta, nel quale descriveva e testimoniava quanto fosse presente e incombente l’autorità della Chiesa in quegli anni ed esortava quindi i lettori a praticare la dissimulazione, consigliando di tenere celate le proprie convinzioni. Così scriveva:

Orrendi mostri sono que’ potenti che divorano la sostanza di chi loro soggiace; onde ciascuno, che sia in pericolo di tanta disavventura, non ha miglior mezzo di rimediar che l’astenersi dalla pompa nella prosperità e dalle lagrime e da’ sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que’ dell’animo116.

Paolo Sarpi non fu affatto un abile “nasconditore” delle cose dell’animo, anzi, sfogava i suoi pensieri negli scritti e quando si trovò a dover descrivere le diverse tipologie di filosofo nell’Arte di ben pensare117, tra dogmatico, didattico e scettico, non nascose la sua preferenza per quest’ultima categoria, perfettamente coincidente col pensiero di Montaigne e del coevo Pierre Charron. Tra il 1585 e il 1588, anni in cui Claudio Ridolfi si trovava a Venezia a stretto contatto col Caliari, Paolo Sarpi era attivo a Roma, sotto il pontificato di Sisto V, in qualità di

115 La lista dei libri dichiarati da Sarpi alla Congregazione dell’indice è stata definita un “misto di sincerità e dissimulazione”. Ivi, pg. 70. 116 T. Accetto, “Del dissimular all’incontro dell’ingiusta potenzia” in T. Accetto, Della dissimulazione onesta, Genova, 1983, cap. XIX. 117 Quest’opera si potrebbe considerare come una sorta di Zibaldone che Sarpi scrisse nell’arco di circa vent’anni. Venne composto nel periodo precedente all’Interdetto, quindi non ancora vincolato dalle pressioni della Serenissima, né dai suoi incarichi pubblici, come invece lo sarà dopo la fatidica data del 1606 quando il servita scese letteralmente in campo “muovendosi con perspicacia e prudenza, ma anche con decisione, in vista di risultati politici da ottenere, di interlocutori da convincere, di forze da spostare ed attrarre alle proprie posizioni e di altre, avversarie, da dividere e scompaginare”. V. Frajese, Sarpi Scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna, 1994, pg. 39. 34

Procuratore dell’Ordine. L’ambiente nel quale si trovò immerso era di opposizione rispetto al pontificato in carica e due in particolare erano i personaggi di spicco: il professore di Controversie del Collegio Romano, il Bellarmino, e il canonista Martin de Azpilcueta, il dottor Navarro. Esattamente nel 1586 Bellarmino, che aveva instaurato stretti rapporti col Servita, diede alle stampe uno scritto intitolato Disputationes de controversiis christianae fidei nel quale si negava palesemente il potere Temporale del pontefice, rimarcando quindi la distinzione tra le due chiavi, quella d’argento e quella d’oro. Naturalmente le sue teorie non furono accolte di buon grado dalla Curia romana e il libro venne messo all’Indice nel 1590.

Proprio la commistione fra l’ambito spirituale e quello temporale favorì tale accentramento nelle mani dei pontefici, e, nel 1595 Paolo Paruta, redigendo una relazione al doge al termine della sua missione diplomatica a Roma, notò che «questa autorità de’ pontefici, già alquant’anni, si è andata sempre allargando», così che il papato si è evoluto in «monarchia»118.

L’ambasciatore si era inoltre soffermato a ragionare anche sul fatto, di non poco conto, che il Papato, nel giro di alcuni anni, avrebbe inglobato al suo interno “due grossi feudi, quello di Ferrara e quello di Urbino, a causa delle famiglie che ne erano investite”119. Ferrara sarebbe caduta ben presto nelle mani di Roma, nel 1598, mentre per la città di Urbino avrebbe dovuto attendere fino al 1634.

La teoria formulata dal Navarro tentava di rovesciare la dottrina di San Tommaso, dottrina secondo la quale “l’obbedienza” alle leggi era vincolante sia davanti al Principe, sia davanti a Dio; così facendo Navarro toglieva alle leggi del politico il supporto divino. Sarpi volle mettere a confronto la dottrina del canonista con quella del filosofo Montaigne il quale, nel saggio Dell’Esperienza, scrisse appunto che le leggi venivano rispettate non per il fatto di essere giuste, ma per il semplice fatto di essere leggi: la differenza sostanziale tra i due pensatori si palesava nel momento in cui l’uno “legittimava la positività della legge politica”, l’altro promuoveva invece la differenza tra gli usi, i costumi e le tradizioni.

118 P. Paruta, op. cit. pg. 513, in C. Vivanti, “Sarpi e la chiesa nell’età della Controriforma”, in Studi Veneziani, N. S. LIV (2007), Pisa – Roma, MMVIII, pg. 121. 119 G. Cozzi, “Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare”, in Venezia e la Roma dei Papi, Milano, 1987, pg. 26. 35

Nei suoi saggi Montaigne descrisse una “legge positiva”, resa valida dal comando e non dalla legge naturale; anche Sarpi ragionava allo stesso modo, anche per lui qualsiasi legge doveva essere legata ad un ambito circoscritto, oggettivo, così come aveva scritto Montaigne nei suoi Saggi:

[…] non bisogna lasciare al giudizio di ciascuno la conoscenza del proprio dovere, bisogna prescriverglielo, non lasciarlo scegliere al suo giudizio; altrimenti, secondo la debolezza e varietà infinita delle nostre ragioni e opinioni, noi ci fabbricheremmo alla fine dei doveri che ci porterebbero a mangiarci gli uni con gli altri, come dice Epicuro. La prima legge che Dio diede all’uomo fu una legge di pura obbedienza120.

Nell’ambito morale, il pensiero di Sarpi prendeva nettamente le distanze da quello tomista, poiché distingueva ciò che era “interno”, da ciò che era “esterno”; quest’ultimo venne descritto come “passivo, che non erra, uniforme in tutti gli uomini”, l’“interno”, definito come uno stato attivo, diverso, incline a sbagliare. Sarpi, come noto, era sia un servita sia un consultore in iure, di conseguenza la sua persona in primis aveva due “apparenze”, due forme, quelle che Montaigne confluendole in una sola chiamava “etica della maschera”121, il solo modo invalso di preservare la libertà di pensiero, che restava privato, mentre all’ “esterno” si restava fedeli alle pompose cerimonie.

Il suddito avrebbe aderito alle cerimonie pubbliche stabilite dalla tradizione rimanendo libero di valutarle e giudicarle presso il foro interno della sua convinzione intima e segreta: la religione pubblica sarebbe stata professata dalla maschera portata nel teatro dello Stato, mentre il volto avrebbe esercitato il culto dettato dal suo giudizio122.

120 M. de Montaigne, Saggi, II, XII, pg. 171. 121 “Qui veut se mêler d’affaires publiques ou privées doit prendre dès l’abord le parti de se déguiser et de se méfier. L’hypocrisie, la duplicité, la cautèle ne sont pas des découvertes qu’on fait sur le tard: c’est le biais par lequel s’offre le monde à qui prétend y entrer. Sur ce point, l’éducation n’est pas longue à acquérir. La politique se définit, dans son principe, comme adresse, astuce, ruse […]. J. Starobinski, “Montaigne et la polemique contre les apparences”, in Postello, Venezia e il suo mondo, a cura di M. Leathers Kuntz, Città di Castello (PG), 1988, pg. 390. 122 V. Frajese, “Montaigne col cappuccio”, in Sarpi scettico. Stato e Chiesa tra Cinque e Seicento, Bologna, 1994, pg. 148. 36

Charron fece della maschera l’uniforme del saggio. Montaigne divenne spettatore del mondo menzognero123, del quale non volle far parte, dal quale prese le distanze, e collocandosi all’ “esterno” del mondo, non potè far altro che riflettere su una questione in particolare, quella religiosa. Sarpi, che aveva accolto e compreso profondamente le parole dello scettico Montaigne (tanto da essere definito un “Montaigne col cappuccio”124), riteneva che il potere ecclesiastico doveva essere separato da ogni potere normativo, doveva limitarsi al culto e insieme essere una magistratura all’interno dell’ordinamento civile. Il Papato risultava essere esattamente all’opposto; aveva infatti una diversa legittimità ed era un potere esterno alla società.

[…] il papa mostra di avere «rinunciato tutti li offici che Cristo ha dato a San Pietro: predicare, insegnare, ministrare li sacramenti, pascere il grege di Cristo». Le cure mondane hanno trasformato il suo «officio pastorale in una fiscalità» e fatto dimenticare che «la gloria di Dio […] stii nella salute delle anime e bontà interiore»125.

Interna alla società e profondamente radicata, era invece la comunità ebraica, che nei primi decenni del Seicento era quasi raddoppiata e le già difficili condizioni abitative peggiorarono; a questa situazione si aggiunse l’impossibilità di “uscire dal Ghetto durante le solenni festività della Pasqua cristiana ed in alcune altre occasioni” 126 , l’obbligo di indossare i berretti gialli che distinguesse gli ebrei dagli altri cittadini, il divieto di svolgere determinati lavori esclusivamente riservati ai cristiani. Ma allo stesso tempo sarebbe scorretto omettere “un dialogo culturale che superava le barriere confessionali: le autorità veneziane non vietavano ai cristiani l’ingresso nelle sinagoghe, nonostante le preoccupazioni espresse dal patriarca Lorenzo Priuli; ed intellettuali come Sarpi erano certamente in contatto con dotti rabbini, assicurando così una qualche continuità a rapporti che erano stati probabilmente più intensi nella prima metà del ’500, cioè nell’età di Francesco Zorzi e di Guglielmo Postel”127.

123 Postello, Venezia e il suo mondo, a cura di M. Leathers Kuntz, Città di Castello (PG), 1988, pg. 391. 124 É il titolo dato ad uno dei capitoli del libro di Vittorio Frajese, Sarpi scettico. Stato e Chiesa tra Cinque e Seicento, Bologna, 1994, Cap. IV. 125 P. Sarpi, op. cit. pg. 398, in C. Vivanti, “Sarpi e la chiesa nell’età della Controriforma”, in Studi Veneziani, N. S. LIV (2007), Pisa – Roma, MMVIII, pg. 125. 126 G. Trebbi, “La società veneziana”, in Storia di Venezia. Dal Rinascimento al Barocco, a cura di G. Cozzi e P. Prodi, Roma, 1994, Vol. VI, pg. 200. 127 Ibidem. 37

Guillaume Postel morì nel 1581, ma molto lasciò attraverso i suoi scritti e la carica rivoluzionaria del suo pensiero, tanto da essere accostato al servita Paolo Sarpi in maniera del tutto pertinente.

What is so attractive in the heretical Sarpi as in the heretical Postel is that their rejection of contending orthodoxies was based upon a search for a middle way, a Golden Mean, in an age of extremes. Just as the Protestant Reformers during Postel’s career (endeed 1581) had rendered moderation all but impossible, so the Council of Trent (1545-1563) had rendered Venice’s middle way between Anglicanism and the Roman Papacy impossible128.

Una “via di mezzo”, un punto che facesse dialogare i due poteri non c’era stato. Troppi erano stati gli scontri, le presunte minacce, la volontà di non cedere e rimanere fermi nelle proprie posizioni portate avanti strenuamente sia dal Papato che da Venezia. Scoppia l’Interdetto, ma le angherie a volte rese manifeste, a volte gelosamente covate dalle due città non si arrestano, anzi persistono fino al 1607 in una “sorta di braccio di ferro in cui la Sede Apostolica, con tutta quell’autorità spirituale e politica che aveva voluto inalberare, si trovava a competere con un principe non più di prima grandezza, forte soprattutto delle convinzioni religiose e morali di un gruppo dei suoi uomini di governo, e della adesione che questi erano riusciti ad ottenere dagli altri in nome delle tradizioni di indipendenza di Venezia”129. L’Interdetto del 1606 proclamato da papa Paolo V fu sì una controversia che coinvolse irrimediabilmente l’ambito religioso e politico, ma toccò in profondità anche quello pittorico. Pallucchini fece infatti risalire all’Interdetto la causa di quella stasi della pittura veneziana che nei primi anni del Seicento iniziava a rendersi manifesta130. Un anno dopo l’Interdetto, nello scritto pubblicato da Pierre de Lancre intitolato Tableau de l’inconstance et instabilité de toutes choses, vi era condensato tutto lo

128 P. Grimley Kuntz, “Process philosophy: Postel, Sarpi, and Whitehead”, Ivi, pg. 347. 129 G. Cozzi, “Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare”, in Venezia e la Roma dei Papi, Milano, 1987, pg. 34. 130 “È difficile dire se lo scontro politico tra Roma e Venezia ebbe conseguenze sulla cultura pittorica lagunare: certo ne stimolò l’isolamento in funzione conservatrice e quindi tardo manieristica. Solo nel 1620 un veneziano – passato a Roma alla scuola del Caravaggio negli ultimi anni del Cinquecento – tornò in patria per morirvi, ma non senza indicare con esempi significativi i principi della nuova cultura che aveva sostituito alla normativa della “maniera” la poetica della natura”.; R. Pallucchini, La Pittura veneziana del Seicento, Milano, 1981, pgg. 15-16. Si confronti in proposito, R. Pallucchini, “Palma il Giovane e il Tardomanierismo nel Veneto: le «Sette maniere»”, in Da Tiziano a El Greco. Per la storia del Manierismo a Venezia. 1540-1590, Milano, 1981, pgg. 55-61. 38 spirito del nuovo secolo. Uno spirito fatto di volontà di rigore misto a un sentimento di profonda incertezza; ciò che appariva era una cultura in cui, tra i tanti aspetti, due erano quelli che contrastavano maggiormente e che, allo stesso tempo, coesistevano l’uno al fianco dell’altro:

[…] da una parte un pensiero politico sempre più disincantato, razionalizzato, altamente positivizzato, dall’altra istituzioni sempre più cariche di cerimoniali di consacrazione, poteri taumaturgici e liturgie rappresentative. Ed è necessario dar conto delle ragioni per le quali, da una parte si estendeva la consapevolezza della artificialità delle leggi e della pura esteriorità della loro obbligazione, mentre dall’altra si intensificava un vincolo che pretendeva l’adesione dell’interno131.

Le tematiche fin qui trattate presentano “un certo grado di generalità”, e pur non rientrando negli specifici confini del mio studio, credo siano pertinenti per poter conoscere quanto di quelle situazioni il Ridolfi visse in maniera marginale e quanto invece in prima persona, trovandosi in una regione in cui il Papato spadroneggiava da secoli e non lasciava adito ad astruse “liberalità” di pensiero. Come ha scritto lo storico Giuseppe Gullino nel saggio dedicato alla Pittura veneta nelle Marche, queste “vissero a lungo lo scontro, ma anche la complementarietà, di influenze diverse, prime fra tutte quelle di Venezia e Roma”. A Verona cosa avrebbe incontrato?

131 V. Frajese, Sarpi Scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna, 1994, pg. 53. 39

I.4 VERONA, MINOR JERUSALEM

Verona fu una delle tante città satellite di Venezia132, ma tra il 1580 e il 1630 subì un forte rinnovamento anche grazie all’opera del Sanmicheli il quale “impresse alla città quel caratteristico volto classico, così diverso e per molti versi antitetico a quello delle altre città venete e semmai piuttosto simile, per taluni accenti, a quello di Mantova, o addirittura di Brescia”133. È importante quindi capire in quale direzione si sia mossa in quegli anni l’arte sacra a Verona, quali cambiamenti mise in atto dopo l’emanazione dei decreti conciliari e soprattutto quale forma di espressione scelse di adottare; se ad ispirarla non furono soltanto artisti come Vasari, Giulio Romano e Parmigianino, ma una radicata idea di cambiamento134, di stimoli diversi, di accostamento a una nuova cultura, in questo caso romana-emiliana, decisamente lontana da quella veneziana 135 . Rodolfo Pallucchini scrisse che l’innovazione nella pittura veronese seicentesca era stata “quella di aver reagito al ʻmanierismoʼ non puntando sulla capitale lagunare, che poco poteva offrire a riguardo, ma tentando un approccio diretto con la cultura polivalente romano- emiliana”136, sottolineando inoltre che gli artisti nati a Verona tra il 1570 e il 1580 non furono affatto una generazione “univoca”,ma anzi, lontani e variegati furono gli sviluppi della loro arte137. In primo luogo è bene sottolineare il fatto che la generazione di artisti nata tra il 1550 e il 1580 non ha come punto di riferimento Venezia, ma città facenti parte della valle del Po; mi riferisco in particolare a Bologna, Ferrara, Parma, Modena, Mantova e Verona138.

132 È bene sottolineare il fatto che la città di Verona, pur essendo sottoposta al dominio di Venezia, era anche la città che controllava tutto lo Stato di Terraferma, e citando la parole di Alvise Contarini, poteva definirsi «quasi uno vinculo che lo tiene insieme».; V. Branca, C. Ossola, Cultura e Società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, Città di Castello, 1984, pg. 22.; R.Pallucchini, Veronese, Milano, 1984, pgg. 7-8.; 133 Cinquant’anni di Pittura Veronese:1580-1630, catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974, pgg. 13-39; F. D’Archais, “La pittura nelle chiese e nei monasteri di Verona”, in Chiese e Monasteri a Verona, a cura di G. Borelli, Verona, 1980. 134 “I primi decenni del Seicento sono caratterizzati nella cultura figurativa veronese da un generale clima di rinnovamento, che ripropone la città come uno dei poli della storia della pittura italiana di questi anni”. Ivi, pg. 505.; Cfr. R. Longhi, “Il trio dei veronesi”, in Vita Artistica, I, 1926. 135 G. Cozzi, “Politica, Cultura e Religione”, in V. Branca, C. Ossola, Cultura e Società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, Città di Castello, 1984, pgg. 21-29. 136 R.Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, I, Milano, 1981, pgg. 15-16, 109. 137 Ivi, pg. 110. 138 W. Arslan, Il concetto di “luminismo”e la pittura veneta barocca, Milano, 1946, pgg. 13-14.; Cfr. Cinquant’anni di Pittura Veronese:1580-1630, catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974. 40

Felice Brusasorci fu degno rappresentante di quest’ultima poiché, oltre ad essere stato maestro del trio veronese Turchi, Ottino e Bassetti i quali operarono magistralmente nella città scaligera, nel 1567 venne accolto nell’Accademia Filarmonica di Verona, circolo culturale della città del quale partecipavano tutte le famiglie facoltose139, tra le quali spiccava anche la famiglia Ridolfi140. Il padre di Claudio, Fabrizio Ridolfi, aveva illustri predecessori sia nell’ambito culturale che ecclesiastico, tanto che Antonio Cartolari, nei suoi Cenni sopra varie famiglie illustri di Verona, pone i Rodulphi141 tra le famiglie iscritte al Nobile Consiglio di Verona142. Nonostante la vicinanza della famiglia Ridolfi e del Brusasorci, Bartolomeo Dal Pozzo ci riferisce che tra i giovani artisti allievi del pittore, Claudio Ridolfi non compare tra i suoi apprendisti. È un fatto ormai accreditato che la sua formazione ebbe inizio a Venezia, nella bottega del Caliari per poi continuare di pari passo con quella di Palma che, in qualche modo, diventerà un nuovo punto di riferimento per il giovane pittore143. La Verona conosciuta e vissuta dal Ridolfi, ancora adolescente, e poi successivamente da pittore affermato, era e rimase una città in vivo fermento e in pieno sviluppo economico144. Saldamente legata alla diocesi milanese, la figura di Carlo Borromeo145

139 Nel 1616 Giovanni Bonifacio dedica la sua opera, L’arte de’ Cenni, agli “Illustrissimi Sig. Academici Filarmonici” membri dell’ “honoratissima Academia” poiché “sicome la città di Verona è tra l’altre maggiori d’Italia, per ogni nobile conditione riguardeuole: cosi non essendo l’Academia Filarmonica ad alcun’altra inferiore, non poteva né maggiore, né più amorevole protettione ritrouargli […].; G. Bonifacio, L’arte de’ Cenni con la quale formandosi favella visibile, si tratta della muta eloquenza che non è altro che un fecondo silenzio, divisa in due parti, Vicenza, appresso Francesco Grossi, 1616, pg. IV. 140 “L’Accademia Filarmonica impegnò infatti per circa ottant’anni i suoi membri - i dilettanti aristocratici sotto la guida dei musici professionisti – in un vero e proprio furore musicale, dando frutti splendidi che solo in questi anni andiamo riscoprendo: fu un’impresa grandiosa che alimentò una cultura raffinata, sulla quale s’innestano negli ultimi decenni del secolo gli interessi paralleli per il collezionismo archeologico e per quello artistico: i Bevilacqua, i Giusti, i Sagramoso, i Canossa, i Sarego, i Nogarola, i Lavezzola, i Ridolfi, i Giuliari, in Accademia coltivavano la musica ed in casa costituivano le basi di quelle raccolte che in parte dureranno poi, e si arricchiranno, fino al Settecento”. Cinquant’anni di Pittura Veronese:1580-1630, catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974, pgg. 20-21, 181.; Si confronti anche G. Turrini, L’Accademia Filarmonica di Verona dalla fondazione (maggio 1543) al 1600 e il suo patrimonio musicale antico, Verona, 1941. 141 Oppure Rodolphi, dall’etimo greco “rodon”, cioè “rosa”, presente nel motto sul portale di casa Rodolfi a Verona. 142 A. Cartolari, Famiglie già ascritte al Nobile Consiglio di Verona con alcune notizie intorno parecchie case di lei a cui s’aggiungono il nome la dichiarazione ed un elenco di varie delle passate sue magistrature ed altre memorie riguardanti la stessa città, Parte I, Verona, 1854, pgg. 230-234. 143 L. Magagnato, Claudio Ridolfi, in Cinquant’anni di Pittura Veronese:1580-1630, catalogo della mostra, Vicenza, 1974, pg. 181.; M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 12. 144 Così scriveva Zaccaria Sagredo nel 1618: “[…] in Verona il negocio è grande e potria essere maggiore, come è senza fallo verissimo, perché capitano in Città da diverse parti sopra settantamila coli di merci tra quali ventimila da Bolzano di sommo valore et importanza. Negotiamo alemanni, fiamenghi, fiorentini, milanesi per lo più […]”. Questo breve passo viene riportato da Giorgio Borelli nell’articolo “Un caso di crisi urbana nel secolo della decadenza italiana”, in La pittura a Verona tra Sei e Settecento, Catalogo della Mostra a cura di L. Magagnato, Verona, 1978, pg. 251. 41 divenne familiare quanto quelle dei vescovi veronesi che si succedettero nel tempo tanto che, prima di diventare arcivescovo della città lombarda, il Borromeo fu un intimo confidente del veronese Matteo Giberti e, successivamente, dell’operoso cardinale Agostino Valerio il quale sosteneva ardentemente che gli interessi di Venezia dovessero coincidere con quelli di Roma146. La figura di Carlo Borromeo 147 poteva considerarsi centrale e fortemente sentita a Verona tanto che dopo la sua canonizzazione, avvenuta nel 1611, venne costruita nel 1614 una chiesa in suo onore, la Chiesa di San Carlo 148 e la sua immagine venne immortalata in numerosi dipinti, soprattutto nella città scaligera.

Si dovrà poi porre attenzione alla devozione ai nuovi Santi, e nella Diocesi è particolarmente importante il diffondersi del culto di S. Carlo Borromeo subito dopo la sua canonizzazione - avvenuta nel 1611 -, e quindi la presenza frequente della sua immagine nei dipinti: e questo fatto è indicativo dello stretto legame della chiesa veronese con quella milanese, e per contro del suo distacco dalle forme di pietà e di culto delle altre zone del Veneto149.

145 A partire dal 1620, grande sarà l’influenza di San Carlo a Venezia, tanto che nel 1628 alcuni patrizi veneziani chiederanno licenza di uscire dallo Stato al Consiglio dei X “per condursi alla devozione di San Carlo” e andare in pellegrinaggio a Loreto. 146 Cultura e Società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di V. Branca e C. Ossola, Città di Castello, 1984, pgg. 35-40. 147 Carlo Borromeo fu uno dei più attivi promotori dei dettami che la Chiesa andava promulgando in quegli anni e, insieme al Gilio e al Paleotti, non mancò di pronunciarsi anche nei riguardi delle arti, compreso il teatro. Fu lo stesso Carlo Borromeo a proporre al Paleotti uno scritto in cui venissero posti in evidenza e condannati gli spettacoli della commedia dell’Arte, definiti “luoghi dannosi al popolo in molti modi, perché portano fuori della città assai denari, e danno occasione a’ giovani e putti di rubare alli loro padri per pagare alla commedia, e fuggono la scuola e bottega e introducono per tutto mali costumi”.; Estratto da “Scrittura fatta per suo ordine, nella quale si pongono in vista alcune ragioni contro gli Spettacoli Teatrali”, 1578, in F. Taviani, La commedia dell’Arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, 1969. 148 Per questa chiesa il Ridolfi eseguì, nel 1615, una pala rappresentante la Madonna con Bambino e Santi Anna, Carlo Borromeo e Angeli musicanti. Pietro Bernardi, sempre per la medesima chiesa, eseguì due teleri rappresentanti alcuni episodi della vita del santo: San Carlo distribuisce il pane ai poveri e San Carlo fra gli appestati. Numerose furono inoltre le opere del Ridolfi - non destinate alla chiesa omonima - dedicate alla figura del Borromeo come la Madonna con Bambino e i Santi Carlo, Pietro e Francesco proveniente dalla chiesa di San Pietro Incarnario, oggi conservata all’interno del Museo Canonicale di Verona, la Madonna con Bambino e i Santi Paolo, Carlo Borromeo e Antonio Abate eseguita per la chiesa di Sant’Eufemia a Verona, la Madonna con Bambino e i Santi Francesco, il piccolo Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Carlo Borromeo oggi conservata nel deposito del Seminario Vescovile di Verona, l’Annunciazione e Santi Francesco di Paola, Giuseppe e Carlo Borromeo oggi al Museo di Castelvecchio. 149 F.Flores D’Arcais, “La pittura nelle chiese e nei monasteri di Verona”, in Chiese e Monasteri a Verona, a cura di G. Borelli, Verona, 1980, pg. 506. 42

Quindi una figura di certo presente in città, ma allo stesso tempo non particolarmente invadente e oppressiva nei riguardi dell’esecuzione delle opere d’arte come avveniva invece nell’ambiente milanese dove il gusto risultava fortemente orientato150. Domenico Priuli, un tempo rettore della città, nel 1578 scrisse di Verona:

Nella religione non credo sii città forse in tutta Italia che la superi151.

Il Valier voleva far sì che la città divenisse simbolo della Controriforma; venne paragonata persino alla città di Gerusalemme, Verona, minor Jerusalem, epiteto che ricorreva anche come iscrizione sul sigillo cittadino di fine Quattrocento. L’aristocrazia veronese poteva quindi trovare nei precetti della Controriforma un modo per sottolineare la sua identità, la sua autonomia nei confronti della dominante Venezia che con l’Interdetto del 1606 avrebbe coinvolto tutti i territori dello Stato veneto, compresa la città di Verona che avrebbe appoggiato con decisione le ragioni della Sede Apostolica e rifiutato quelle della Serenissima. Credo sia doveroso a questo punto soffermarsi sulla figura del Valier perché fu un vescovo che operò molto nella sua città e molto trasmise a suo nipote Alberto, che portò avanti i suoi precetti con forza e convinzione. Agostino Valerio 152 , nipote di Bernardo Navagero, si iscrisse, subito dopo aver vestito l’abito clericale, all’Accademia delle Notti Vaticane istituita da Carlo Borromeo a Roma. Seguì lo zio Bernardo al Concilio di Trento e iniziò a trascorrere una vita rigorosa, ricca di opere pie come l’assistenza degli appestati durante gli anni del contagio. Imitò il vescovo Giberti nel sostenere l’Opera della Dottrina Cristiana. Fu estremamente vicino al pontefice Pio V che raccomandò al vescovo Valier, nella Bolla del 1572, che fossero elette Chiese in suis Civitatibus et Diocesibus, che fosse insegnato il catechismo da uomini sapienti e infine che fossero istituite Società o Confraternita. Questa Bolla venne poi resa pubblica dal Valerio in lingua volgare e venne istituita la Congregazione ordinata dal Papa.

150 Cinquant’anni di Pittura Veronese:1580-1630, catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974, pg. 25. 151 Cultura e Società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di V. Branca e C. Ossola, Città di Castello, 1984, pg. 36. 152 Agostino Valerio nacque a Venezia il 7 aprile 1531 da una famiglia di patrizi e morì il 23 maggio 1606 a Roma. 43

Così scrisse Agostino Valerio in una ristampa del 1621 delle Regole per la Congregazione della Dottrina Cristiana nella Città e Diocesi di Verona nella lettera di premessa al libro:

Furono deputate già molti anni in questa città dalli Rev.mi Vescovi miei predecessori, le cui anime furono in gloria […] certe Chiese in tutte le pari della Città, nelle quali congregati ne’ giorni di festa i fanciulli e le fanciulle fossero da buoni Sacerdoti e da altre pie persone maschi e femmine gratis e per carità istruite in questa tanto necessaria dottrina153.

Questa istruzione venne diffusa in tutta la città e anche nelle chiese abbaziali e ciascuna attività svolta all’interno di queste Scuole veniva discussa e argomentata dal Priore nelle Congregazioni generali. Pochi anni dopo il vescovo Agostino Valerio diede alle stampe due nuovi libri intitolati rispettivamente, La Istruzione Cattolica della Fede e della vita Cristiana per li Fanciulli della Città e Diocesi di Verona e Dottrina Cristiana, quest’ultimo poi corretto nel 1621 dal nipote del vescovo, Alberto Valerio, al quale si aggiunse in quegli anni un nuovo scritto intitolato Della educazione Cristiana di Silvio Antoniano. Annoverata tra le numerose opere pie del nostro vescovo troviamo la restrizione degli ebrei nel ghetto della città poiché vivevano sparsi per la Città con gran disordine e scandalo de’ Cristiani154. Nel 1617, esattamente undici anni dopo la scomparsa del vescovo Valier, la sua opera veniva ancora ricordata:

Taccio ch’ei tolse alle pubbliche vie Gli ebrei, e nella mandra gli raccolse Opera in cui faticò la notte e il die155.

Il Valier mantenne la sua parola nel cercare di tener viva l’osservanza dei nuovi decreti del Concilio, soprattutto nelle città a lui più vicine, come Venezia, Padova, Vicenza,

153 G. Biancolini, Notizie storiche delle Chiese di Verona, Libro I, Verona, 1749, pg. 383. 154 Ibidem. 155 A. Grandi, Capitoli delle bellezze di Verona, Verona, 1617, in A. Castaldini, La segregazione apparente, Gli ebrei a Verona nell’età del ghetto (secoli XVI-XVIII), Città di Castello, 2008, pg. 7. Questi versi vennero composti in onore del cardinale Agostino Valerio, figura ancora viva e centrale nonostante fosse scomparso circa dieci anni prima. 44

Chioggia, l’Istria e la Dalmazia, sempre sostenuto nelle sue Appostoliche commissioni dal cardinale Borromeo. Quando nel 1583 Agostino Valerio divenne cardinale si trasferì a Roma, vicino al pontefice Gregorio XIII e lì morì nel 1606, mentre le sue spoglie vennero trasportate a Verona, nella Cattedrale. Il nipote Alberto, che gli succedette fino al 1630156, non fu una figura di spicco e popolare come il nonno. Poche sono le notizie che si hanno riguardo la sua vita, non si conosce neppure la sua data di nascita, ma l’inizio del suo episcopato cadde in una data importante, ricca di cambiamenti e di scelte ben ponderate. Nell’anno dell’Interdetto, il vescovo Alberto Valier si attenne prudentemente ai dettami del pontefice Paolo V, come specificò nella sua Relatio del 1607157, nella quale oltre agli espliciti riferimenti all’Interdetto di appena un anno prima, vi era un vero e proprio elenco di tutte le scuole, diocesi e parrocchie presenti a Verona nei primi anni del Seicento.

In quei quattro anni che il Ridolfi trascorse a Verona158 nessuno dei pittori attivi nella città fino a quel momento era presente; Marcantonio Bassetti, Alessandro Turchi e Pasquale Ottino si trovavano a Roma159 per il famigerato viaggio d’istruzione che ogni artista del tempo sperava di poter intraprendere. Quindi Claudio, appena tornato nella sua città natale dopo una lunga assenza, pur avendo mantenuto costanti contatti con essa160, si trovò ad essere uno dei pochi pittori rimasti in città e quindi altamente

156 Anno in cui morì a causa della pestilenza che divampò proprio in quell’anno. 157 Studi e documenti di storia e liturgia, XVI, Alberto Valier, Visite Pastorali del vescovo e dei vicari a chiese della città e diocesi di Verona, anni 1605 – 1627, Trascrizione dei Registri XVII – XVIII – XIX delle Visite Pastorali, a cura dell’Archivio Storico della Curia Diocesana di Verona, Verona, 1999, pgg. 297-301.; la trascrizione completa della Relatio si trova in Appendice documentaria, documento 4, pgg. 143-149. 158 Esattamente fino al 1620, poiché l’anno successivo il duca Federico Ubaldo della Rovere e Claudia de’ Medici convolarono a nozze e commissionarono al Ridolfi, affiancato dal suo allievo Girolamo Cialdieri, l’apparato effimero con figure allegoriche e alcune tele di notevoli dimensioni. Cfr. M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pgg. 12-13.; Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pgg. 26, 32-35; Cinquant’anni di pittura veronese, 1580-1630, Catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974, pgg. 180-182.; L. Mochi Onori, “Claudio Ridolfi”, in Le Arti nelle Marche al Tempo di Sisto V, a cura di P. Dal Poggetto, Cinisello Balsamo (Milano), 1992, pg. 432. 159 “Claudio Ridolfi, quasi figliuol prodigo, ha commissioni numerose e importanti per edifici pubblici e privati, nel vuoto creato dall’assenza di alcuni concorrenti”. Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 24. In quegli stessi anni anche il veneziano Carlo Saraceni si trovava a Roma, fedele seguace dei dettami caravaggeschi. 160 “Una presenza originale che rispecchia la singolarità del percorso esistenziale ed artistico di Claudio Ridolfi, il quale dalle Marche, dove trascorse gran parte della sua vita, continuò a mentenere un dialogo stretto 45 richiesto dai vari committenti essendo la triade dei veronesi operativi già da anni a Roma. Claudio non tardò quindi molto ad allontanarsi da Urbino dopo la morte del suo maestro avvenuta nel 1612, dicendo di non avere più particolari stimoli in campo artistico. Così scrisse in una lettera a Mons. Ottavio Orsino il 23 febbraio 1615 a Loreto:

Non posso già lasciar di dirle sinceramente, che in questo mio paese dopo la morte di Federico Barocci non vi è pittore di valore, et oltra di ciò alcuni allievi, che di lui son restati pur migliori di qualche altro […] tengono prezzi tanto alti che dalla stima o giuditio lor temerei che la Santa Casa ricevesse più tosto notabile danno che utile161.

Sappiamo quindi con certezza che nel 1617, il nostro, all’età di quarantasette anni, lasciò famiglia e figli per trasferirsi e sistemarsi alcuni anni nella sua città natale per eseguire nuove commissioni. La sua sicura permanenza a Verona è documentata da una lettera che il ricamatore Francesco Ligozzi inviò a suo cugino Jacopo il 30 novembre 1617 mentre questi si trovava a Firenze. Nell’epistola era scritto che il Ridolfi aveva “toltto a fitto la casa del q.m Paulo Farinatto pittore cum precio de ducatto 40 de pisona a l’anno et questo sono il melio pittore veronese che sia a Verona”162.

Nella prima decade del Seicento l’autorità religiosa a Verona aveva un posto di massimo rilievo e Agostino Valier se ne avvalse per mettere ordine nella sua città, soprattutto per quanto concerneva il problema della sistemazione degli ebrei che a Verona furono una presenza costante. Il ghetto venne costruito nel 1599163 e gli ebrei festeggiarono questo evento poiché offriva loro una sorta di protezione, di sicurezza verso coloro che non li vedevano di

con Verona e più in generale con il Veneto attraverso i viaggi e soprattutto l’invio di opere”. C. Rigoni, “Claudio Ridolfi a Vicenza”, in Verona Illustrata, Rivista del Museo di Castelvecchio, 2000, n. 13, pg. 29. 161 M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 15.; H. Olsen, Federico Barocci, Copenhagen, 1962, pg. 223. 162 E. Calzini, Claudio Ridolfi pittore veronese, in “Rassegna Bibliografica dell’Arte Italiana”, XVI, (1911), n° 1-4. (Il documento proviene da Antichi Archivi Veronesi. S. Lucia, miscellanea Ligozzi).; Cinquant’anni di pittura veronese, 1580-1630, Catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974, pg. 181. 163 Si confrontino i documenti 5, 6 in Appendice documentaria, pgg. 149-151. 46 buon occhio. Essi si trovarono esclusi eppure all’interno, al centro della città, accanto ai palazzi del potere e della piazza principale164. Prima dell’arrivo del Valier gli ebrei vivevano sparsi, insieme ai cristiani, ma in seguito il vescovo desideroso di porre fine a quella situazione decise di riunire gli ebrei nel ghetto prendendo esempio da Venezia, la città che lo istituì nel 1516 nel sestiere di Cannaregio165. Lo storico Roberto Bonfil così ha descritto l’istituzione del ghetto a Verona:

Il ghetto fu un fenomeno che ben rappresentò il trapasso di mentalità dall’Età medievale a quella moderna, nel senso che diventò una soluzione di compromesso tra la precedente tendenza ad accogliere gli Ebrei ovunque, diffusa fino alla metà del XVI secolo, e quella di espellerli, propria della fase successiva al Concilio Tridentino166.

Quando il Consiglio decise di erigere il ghetto ritennero fosse opportuno costruirlo vicino alla Piazza Granda, l’odierna Piazza delle Erbe, dove veniva svolto regolarmente il mercato167; la zona prescelta era quindi compresa fra via Mazzini, via Pellicciai e via Quintino Sella, nell’area soprannominata “sotto i tetti”. A Venezia questa denominazione era nata dal fatto di poter collocare delle tettoie in legno sui balconi o sulle altane così da avere a disposizione più spazi, non sempre facilmente vivibili, in cui sistemare le diverse famiglie168. Sempre in quello stesso anno, nel 1599, gli ebrei riuscirono ad acquisire alcune case “murà solarà in contrà di San Tomìo col suo portico” e, ovviamente, crearono ai vicini

164 Così scrisse Leon Modena ai capi della congregazione veronese: «Abbiamo sentito come siete stati riuniti insieme nel ghetto: un segno della riunione degli esiliati e della radunata dei dispersi d‘Israele».; A. Castaldini, La segregazione apparente, gli ebrei a Verona nell’età del ghetto: secoli XVI – XVIII, Città di Castello, 2008, pg. 23. 165 Nelle altre città della Terraferma i ghetti andarono via via diffondendosi a distanza di pochi anni: a Padova comparve nel 1603, a Rovigo nel 1613, poi a seguire quelli di Ferrara, Cento, Pesaro, Urbino e Senigallia.; Ibidem, pg. 31. 166 R. Bonfil, Gli ebrei in Italia nell’epoca del Rinascimento, Firenze, 1991, in A. Castaldini, La segregazione apparente, gli ebrei a Verona nell’età del ghetto: secoli XVI – XVIII, Città di Castello, 2008, pgg. 31-32. 167«potrebbono essere rinchiusi serrati et totalmente separati da cristiani tutti gli ebrei : ove facendosi alcune fabbriche dessignate potrebbono ivi abitare, essercitare gli loro traffichi et le loro cerimonie secondo li riti hebraici senza incomodo de alcuna persona». Sono le parole dei Commissari cui era stato affidato l’incarico di dare una sistemazione ai cittadini ebrei che vivevano a Verona.; Ivi, pg. 3.; S. Zaggia, “Gli spazi urbani degli ebrei nelle città della Terraferma veneta”, in La città italiana e i luoghi degli stranieri. XVI-XVIII secolo, a cura di D. Calabi, P. Lanaro, Roma-Bari, 1998.; Il testo è tratto da una lettera del 2 novembre 1586 e si trova conservato nell’Archivio di Stato di Verona (non viene specificato in quale Fondo). 168 A. Castaldini, La segregazione apparente, gli ebrei a Verona nell’età del ghetto: secoli XVI – XVIII, Città di Castello, 2008, pg. 26. 47 cristiani non pochi disagi come accadde, agli inizi del Settecento, al parroco di San Tomìo Andrea Gambaroni, il quale credette che alcuni ebrei fossero entrati nella sua contrada e avessero “distratto” o recato fastidi ai cittadini cristiani essendo la sua chiesa esattamente confinante col ghetto. Anche gli Israeliti, il cui numero è intorno a’ cinquecento, avean preso ad abitare gli uni separati dagli altri ne’ più bei luoghi, e nelle piazze loro mercature esercitare. Di questo la città ne portava molta vergogna, e l’anime pie se ne scandolezzavano. Ultimamente furono dall’illustrissimo signor Cardinale e Vescovo di Verona ordinati e posti de’ cancelli al luogo che volgarmente chiamasi il ghetto. La spesa, che non fu piccola, soddisfossi parte dalla città e parte da’ medesimi Israeliti. Or tutti vivono chiusi là entro, affatto disgiunti da’ cristiani, ed il popolo Veronese n’à vantaggio e decoro169.

A Verona, i rapporti tra cristiani ed ebrei furono quindi, come in ogni città in cui si insediarono170, di convivenza e convenienza allo stesso tempo, e non sempre fu così semplice mantenerle in equilibrio, soprattutto nei primi decenni del Settecento, quando il numero degli ebrei cominciò ad aumentare e la città non era più in grado di contenerli all’interno del ghetto171. Nell’Aprile del 1725 un certo Signor Gio: Battista Pauari, & Teresa Pauari sua Sorella in Contrà di S. Tomio concessero a due ebrei licenza […] di poter unire alla Clausura stessa la suddetta Casa172. Nei primi decenni del XVIII secolo, con il numero della popolazione ebraica in crescita e una richiesta sempre maggiore di spazio in cui stabilirsi e vivere senza incorrere in sanzioni, non stupisce affatto che questo Giovanni Battista Pauari abbia dato in affitto a due ebrei greci la propria casa. Quello che invece è interessante notare è il fatto che

169 D. Cervato, Diocesi di Verona, Padova, 1999, pgg. 338-339. 170 Anche a Venezia, sul finire del Cinquecento, la situazione ebraica dava non poche preoccupazioni. Il patriarca Lorenzo Priuli “aveva inviato al Senato un memorandum con cui richiamava a considerare i pericoli che la comunità ebraica rappresentava per la società cristiana, di indisciplina e di distrazione dal proprio impegno religioso, e lo invitava a prendere le debite precauzioni”. G. Cozzi, “Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare”, in Venezia e la Roma dei Papi, Milano, 1987, pg. 29. 171 Già nella Visita Apostolica del 1542, era noto al vescovo Giberti il grande afflusso di ebrei in quella specifica contrada; poi man mano gli ebrei aumentarono sempre di più sul finire del Cinquecento e fu necessario il ghetto per contenerli. “Contatti e relazioni fra israeliti e cristiani? In pratica, è da ritenersi sempre una correttezza di buon vicinato”. G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 23.; Si vedano in proposito i documenti 7, 8 in Appendice documentaria, pgg. 150-154. 172 ASVr, Chiesa di S. Tomio - Compagnia del SS. Sacramento, Liber tercius locatiorum ecclesia sancti Thome, Verona, 1411 – 1456, Mazzo n. 9, cc. 17 r. – 18 v., materiale non inventariato.; Cfr. il documento n. 12 in Appendice Documentaria. 48 questa famiglia Puari si trovi proprio nella contrada di San Tomio, a confine con il ghetto, quindi estremamente vicina alla chiesa173 e, come vedremo, strettamente legata al nostro dipinto.

173 “Non solo entro la contrada e parrocchia di S. Tomio, ma proprio in prossimità della chiesa, v’era il quartiere israelitico, denominato ghetto (dall’ebraico rabbinico ghet, reclusione, congrega)”. G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 23. 49

SECONDA PARTE

A DUE PASSI DA PIAZZA DELLE ERBE: la Circoncisione di Claudio Ridolfi nella Chiesa di San Tomio

E le suddette arterie, dai Leoni e dalla Brà convergenti nel Foro con un angolo retto, che, quasi al suo vertice, racchiude S. Tomio, negli Statuti Veronesi 1276 sono ambedue fra le raccomandate alla cura particolare del Podestà. Sicchè, pur la nostra chiesa venne a trovarsi in luogo di riguardo. Si direbbe, pertanto, che, oltre al precisarne l’ubicazione, quasi forse a darle pure un pochino di risalto e distinzione, le carte medievali l’abbiano voluta denominare S.Tomaso «in Fòro», o «presso il mercato». Il popolo, cominciò, e non smise più, S. Tomio174.

174 G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 16.

II A DUE PASSI DA PIAZZA DELLE ERBE: la Circoncisione del Ridolfi nella Chiesa di San Tomio

II.1 LE ORIGINI DI UNA CHIESA ANTICA

Fu per la chiesa di San Tomaso Apostolo175, detta anche S.Tomìo176 (fig. 30), confinante col ghetto ebraico e posta nel cuore pulsante della città, che Claudio Ridolfi dipinse la Circoncisione. Dopo aver attraversato Piazza delle Erbe177, centro vivo e colorato dove tutt’oggi si svolge il mercato cittadino e aver svoltato a destra in viale Mazzini, troviamo sulla sinistra, mimetizzato tra le vetrine dei negozi adiacenti, il portale laterale della nostra chiesa. Proseguendo oltre, in vicolo Samaritana, sulla sinistra, si apre un piccolo varco dove troneggia il portone principale con su scritto:

MARIAE LABIS NESCIAE ET THOMAE APOSTOLO TEMPLUM QUOD AD SCENICOS USUS TRANSLATUM FUERAT IOSEPHI GRASSER I PONTIF KLERIQUE UNIVERSI PROCERUM ET CIVIUM STUDIO ET CONLATIONE OB CHOLERAM AB URBE GENETRICIS DEI AUXILIO DEPULSAM SPLENDIDIORE CULTU RESTITUTUM DONARIIS ORNATUM

175 La figura dell’Apostolo Tommaso viene menzionata soprattutto da San Giovanni, ma uno in particolare è l’episodio che lo caratterizza: la sua incredulità (Gv. 20, 24-29). Così venne descritto da Isidoro nel suo libro intitolato De la Vita e de la Morte dei Santi: “Tommaso, apostolo di Cristo e somigliante al Salvatore, udendo fue incredulo, e veggendo credette. Questo predicoe il Vangelio a i Parti e a i Medi e a quelli di Persida e a gli Ircani e a’ Brattiani, ed entrando ne la orientale piaga e trapassando le ’nteriori contrade de’ pagani, ivi condusse la sua predicazione infino a la morte. Questi morette per trafittura di lance”. Jacopo da Varagine nella Legenda Aurea, dedica il V capitolo del I tomo alla figura di San Tommaso Apostolo, da non confondere con San Tommaso Cantuariense, al quale è dedicata un’altra chiesa, sempre nella città di Verona. Grazia Calegari sostiene che la chiesa di San Tommaso Cantuariense sia corrispondente a quella di San Tomio; non fa distinzione tra le due chiese che invece hanno storie e luoghi diversi. 176 G. Biancolini, Notizie storiche delle Chiese di Verona, Libro I, pgg. 382-383, Verona, 1749. Si confronti il documento 9 in Appendice documentaria, pgg. 154-155. 177 Così Luigi Simeoni descrisse la piazza delle Erbe, anticamente denominata piazza Maggiore: “[…] fino al secolo XIV qui si vendeva ogni genere di mercanzia, ad eccezione della legna, del carbone, del fieno e degli animali. Così sappiamo che presso S. Tomio si vendeva filo, lino e stoppa; davanti alla casa dei Mercanti stavano i sartori, i sogari, i solaroli e i pellettieri; attorno al Capitello i lardaroli, o venditori di carni porcine; dove è ora la colonna di S. Marco i venditori di lana e panni, e nel luogo ove ora sorge il palazzo Maffei, tenevano le loro tavole i cambiatori […]”. L. Simeoni, op. cit. pgg. 77-80, in G. Beltramini, Le strade di Verona entro la cerchia delle mura, Verona, 1983. 52

RELIGIONI PIORUM APERTUM ANNO M DCCC XXXXII178

Questa targa, posta sulla facciata della chiesa (figg. 31-32), porta la data del 1842; così Giuseppe Bennassuti descrisse la chiesa di San Tomio all’interno della guida Verona colla sua provincia descritta al forestiere e guida dell’amenissimo lago di Garda, edita a Verona in quello stesso anno.

Fu qui una chiesa intitolata a s. Tommaso e questa venne nell’anno 1814 ridotta ad uso di teatro, il quale acquistato, nell’anno 1837 da alcune cristiane persone lo disfecero e ristabilirono la chiesa che ora si vede dedicandola alla B. V. ed a s. Tommaso Apostolo. L’interno di questo tempio è molto gentile179.

La soppressione di alcune parrocchie avvenuta nel giugno del 1805, comprese anche quella di S. Tomio. Soltanto un anno prima, Saverio Dalla Rosa aveva intrapreso un tour per le chiese di Verona descrivendo minuziosamente tutto ciò che contenevano al loro interno e San Tommaso rientrava nella lista180. A ben vedere, questa visita del pittore si potrebbe considerare come un vero e proprio inventario dei dipinti che di lì a poco avrebbero lasciato la loro sede d’origine per non farvi più ritorno181. Nel 1806 la chiesa divenne “sussidiaria” di S. Nicolò, nel 1808 venne trasformata in semplice “oratorio”, fino a che non venne chiusa definitivamente e venduta al conte Morando, che nel 1814 ne fece un teatro provocando grande scandalo persino nella comunità ebraica. L’edificio - prima adibito a chiesa, poi a teatro e di nuovo a chiesa - venne dunque acquistato nel 1837 182 e “riportato allo splendore” durante il vescovato di Iosephi

178 “A Maria senza peccato e Tommaso Apostolo / tempio / che era stato trasformato per uso scenico / da Giuseppe Grasser I pontefice e chierico dell’universo / per studio e consolazione dei nobili e dei cittadini / a causa del colera espulso dalla città con l’aiuto di Dio creatore / restituito al culto più splendido ornato di doni / aperto nell’anno 1842 per la religione dei pii”. 179 G. Bennassuti, Verona colla sua provincia descritta al forestiere e guida dell’amenissimo lago di Garda, Verona, 1842, pg. 69. 180 La trascrizione completa della visita di Saverio Dalla Rosa nella chiesa di S. Tomio si trova in Appendice documentaria, documento 10, pgg. 156-158. 181 “Il manoscritto riporta nel 1804 la ricompensa di 880 troni avuta dalla municipalità per la stesura del «catastico universale delle pitture, scolture di Verona» e l’informazione che il prezioso elenco venne «mandato a custodirsi nella biblioteca pubblica del liceo”. P. Marini, “Con fatica uguale al premio. Saverio Dalla Rosa tra rivoluzione e restaurazione”, in Esatta nota distinta di tutti li quadri da me Saverio Dalla Rosa dipinti, col preciso prezzo, che ne ho fatto, e memoria delle persone, o luoghi, per dove li ho eseguiti di Saverio Dalla Rosa, con un saggio di P. Marini, Verona, 2011, pg. 7. 182 Così scriveva Giuseppe Grasser nell’anno in cui vennero iniziati i lavori di ripristino della chiesa: “In questa terza settimana d’Agosto ho veduto dar principio alla erezione del cavo ed altar maggiore nella chiesa 53

Grasser “per l’ardore e il conforto dei nobili e dei cittadini”. Ma Giuseppe Grasser non vide i lavori ultimati poiché morì a causa di una febbre miliare esattamente due anni dopo l’acquisizione del tempio, il 22 novembre 1839183; l’iscrizione lo ricorda come colui che ridiede nuova vita allo stabile e per questo meritevole dedicatario della targa onorifica affissa nel 1842184 all’ingresso di San Tomio. La chiesa non ebbe vita facile; dopo le varie ristrutturazioni subite nel corso degli anni, tra il 1848 e il 1851, S. Tomio accolse al suo interno anche il clero della Chiesa di Santa Maria della Scala185 (poiché questa era stata occupata dagli austriaci) e successivamente venne aperta come “rettoria” e non più come parrocchia. Divenne in seguito la sede di numerose confraternite tra cui quella dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù che, fino al 1969, veniva detta confraternita delle Figlie del S. Cuore di Gesù per la loro particolare devozione. Ma la storia di questa chiesa non ebbe inizio con la sua riapertura nel 1842, anzi la struttura stessa celava in sé un passato antichissimo, nascosto all’occhio di un visitatore odierno, proprio perché radicato nelle sue fondamenta186. Secondo la tradizione infatti, l’edificio sarebbe sorto sopra un tempio pagano dedicato alla dea Vesta.

[…] il casamento quasi di facciata, da scavi fatti anni or sono, fu trovato fondato sopra antiche statue. Presso una casa attigua esiste anche un pozzo in cantina, la cui acqua è sempre al medesimo livello; si vorrebbe che fosse il pozzo delle Vestali187.

Da altre cronache del tempo, come testimonia Pier Zagata nel 1747, la chiesa veniva chiamata S. Tommaso delle Fanciulle poiché vi risiedevano molte monache188 e forse,

di S. Tomio per tanti anni ad uso di teatro”. D. A. Pighi, La chiesa di S. Tommaso Apostolo. Cenni storici in occasione della Cinquantenaria memoria della sua riapertura, Verona, Tipografia di Giacomo Craut, 1892, pg. 6. 183 Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, 2002, Vol. 58, pgg. 576-579. Si veda in proposito l’Orazione in morte di Mons. Giuseppe Grasser vescovo di Verona recitata da D. Cesare Bresciani per ordine dell’amplissimo Capitolo degl’Ill. rr. Monsignori canonici della cattedrale li XXV Novemcre MDCCCXXXIX giorno della sua tumulazione, Verona, 1840, cc. III-XXXVIII.; D. A. Pighi, La chiesa di S. Tommaso Apostolo. Cenni storici in occasione della Cinquantenaria memoria della sua riapertura, Verona, Tipografia di Giacomo Craut, 1892, pgg. 5-9. 184 Il vescovo in carica in quell’anno era Aurelio Mutti, il quale ebbe l’onore di riaprire la chiesa che per ben ventidue anni era stata adibita a teatro. 185 Nell’Archivio di Stato di Verona, molte notizie riguardanti la chiesa di S. Tomio si trovano infatti in alcune buste riferite alla chiesa di Santa Maria della Scala. 186 “Il che porge occasione incidentale di far supporre, che anche la nostra parrocchiale, in luogo centrale e relativamente popolato, abbia avuto rifacimenti o trasformazioni lungo i secoli, specialmente in quelli del rinascimento, come accadde a molte chiese in città e territorio”. G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 86. 187 D. A. Pighi, op. cit. pg. 1, in A. Benetti, S. Tomio di Verona: chiesa di S. Tommaso Apostolo, Verona, 2000, pg. 28. 54 come afferma il Pighi, “sugli albori del cristianesimo in Verona, alle Vestali professanti una verginità imperfetta e le molte volte menzognera, sarebbero sottentrate le vergini cristiane, sante di corpo e di spirito”189.

Et non sola pars Episcopij, sed cum ea monasterium S. Marie, quod situm est ad portam Organi, tria alia monasteriola regalia, idest S. Petri in Mauratica, S. Stephani in Ferrariis, S. Thome puellarum in Urbe, sed duo Regis Xenodochia, unum quod est ad portam S. Firmi, aliud, quod dicitur Calaudustera190.

Dal 1172 il monastero delle monache risultava soppiantato da una “Collegiata di preti”191 e soltanto nel 1194 la chiesa di S. Tomio divenne parrocchia192 e vero e proprio fulcro della vita religiosa, non soltanto della contrada omonima, ma anche di altre nel circondario.

Il passato di San Tomio ha dunque un inizio lontano; tutti i cambiamenti e i restauri apportati al suo interno col volgere degli anni, lasciano oggi, poco o niente della fervida attività che un tempo rendeva viva la sua comunità di fedeli. Dei sette altari che vi erano in principio, ne restano soltanto cinque e nessuna delle pale che prima li adornava è posta nel suo luogo di origine193 (fig. 33). Agli inizi dell’Ottocento, con l’arrivo di Napoleone e la chiusura della chiesa, tutti i dipinti presenti all’interno furono sistemati altrove, nella Pinacoteca Comunale, e di

188 Questa notizia viene ripresa dallo stesso Biancolini nel libro IV delle Notizie storiche delle Chiese di Verona specificando che “alla pagina 382 del Primo Libro di queste Notizie dicemmo essere stata questa Chiesa un tempo di Vergini Vestali. Lo che non è certo, ma Sancti Thomae puellarum in Urbe si chiamava perché era da Monache Cristiane fino nell’VIII Secolo uffiziata, come si ha in Carta data fuori dal Panvinio”. Ivi, pg. 751. 189 D. A. Pighi, La chiesa di S. Tommaso Apostolo. Cenni storici in occasione della Cinquantenaria memoria della sua riapertura, Verona, Tipografia di Giacomo Craut, 1892, pgg. 1-2. 190 G. B. Biancolini, Cronica della Città di Verona descritta da Pier Zagata,, ampliata e supplita da Giambattista Biancolini, annessovi un Trattato della Moneta Antica Veronese Ec. Insieme con altre utili cose tratte dagli Statuti della Città medesima al nobile signor Dionisio Nichesola patrizio veronese, Verona, 1745-1749, Vol. I- parte II, pg. 350.; si confronti il documento 9 in Appendice documentaria, pgg. 154-155. 191 D. A. Pighi, La chiesa di S. Tommaso Apostolo. Cenni storici in occasione della Cinquantenaria memoria della sua riapertura, Verona, Tipografia di Giacomo Craut, 1892, pg. 2. 192 “La parrocchia di S. Tomaso aveva confini piuttosto ristretti, data la numerosità delle parrocchie urbane, in una città di cerchia relativamente non ampia, e data l’ubicazione della nostra, non alla periferia, ma nel cuore. La sua circoscrizione, pertanto, era determinata da Via Nuova (parte prima), Piazza Erbe, Vicolo Corte Spagnola, e si spingeva in Via Cappello fino a Via Stella (lato destro)”. M. Billo, op. cit. pg. 42, in G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 39. 193 “Invece di sette altari, quanti esistevano prima della soppressione e chiusura, ne furono eretti cinque; il maggiore, di fronte, nel mezzo: quattro laterali nel corpo della chiesa, due per parte, in marmo bianco e tutti uguali”. Ivi, pg. 121. 55 certo il loro trasferimento dovette svolgersi poco prima che l’edificio venisse trasformato in teatro (1806).

L’invasione francese dell’anno 1797 aveva disperso le numerose collezioni artistiche raccolte dalle più nobili famiglie durante il placido dominio veneziano; poi nel 1805 a impinguare il demanio furono tolti dalle profanate chiese veronesi ben settemila quadri e venduti; ma tra le rapine dei francesi e l’avidità degli incettatori Saverio Dalla Rosa, buon pittore amatissimo delle patrie glorie, propose e ottenne dalla municipalità che le pitture migliori fossero conservate in una pubblica galleria comunale194.

Ma come doveva apparire la chiesa al suo interno sul finire del Seicento, quando ormai tutte le opere si trovavano collocate al loro posto? Negli anni in cui il Ridolfi si recò a Verona, l’interno della chiesa di San Tomio ancora non possedeva nessuna delle pale d’altare che di lì a pochi anni avrebbero decorato e rinnovato gli altari laterali della chiesa (alcuni ancora da costruire), compreso il telero di Marcantonio Bassetti con L’incredulità di San Tommaso (figg. 34-35) che sarebbe stato posto sull’altare maggiore soltanto nel 1628. Gli altri due altari collocati ai lati avrebbero custodito, di lì a pochi anni, rispettivamente un’opera di Carlo Bonomo195 (Carlo Bonone) che rappresentava Maria Vergine, la Carità e San Giovanni, e il San Pietro eseguito dal Bassetti. Tutte e tre le opere recavano la data del 1628196. Proseguendo nella descrizione con i dipinti posti al di fuori dalla balaustra, la quale separava la zona riservata al presbiterio da quella destinata ai fedeli, nel primo altare a destra vi era la Circoncisione del Ridolfi eseguita nel 1617 e a seguire la Cena del Signore (fig. 36) di Santo Prunati, una delle ultime pale a fare la sua comparsa sull’altare. Nel primo a sinistra sarebbe stata posta invece la pala di San Bernardo che calpesta il demonio eseguita da Alessandro Turchi nel 1624 e nel secondo San Martino con il povero di Andrea Voltolini197.

194 Pinacoteca Comunale di Verona, Bergamo, 1912, pg. 5. 195 La presenza di questa pala viene confermata anche dal Marinelli il quale specifica che, nel 1628, il ferrarese “aveva lasciato una pala in San Tomio, vicino ad un’opera di Bassetti”. S. Marinelli, “Lo stile «eroico» e l’Arcadia”, in La pittura a Verona tra Sei e Settecento, Catalogo della Mostra a cura di L. Magagnato, Verona, 1978, pg. 31. 196 Ivi, pg. 77. 197 Domenico Brusasorci dipinse l’affresco di San Tommaso posto in cima alla porta laterale esterna, del quale oggi soltanto una minima parte è ancora visibile. D. A. Pighi, La chiesa di S. Tommaso Apostolo. Cenni storici in occasione della Cinquantenaria memoria della sua riapertura, Verona, Tipografia di Giacomo Craut, 1892, pg. 3. 56

Riguardo il dipinto eseguito dal Bassetti per l’altare maggiore, importanti indicazioni ci vengono riferite dal nostro pittore, studioso e collezionista Saverio Dalla Rosa198, nipote del Cignaroli, il quale redasse alcuni inventari tra il 1700 e il 1800 molto dettagliati e carichi di informazioni che permisero, attraverso una minuziosa schedatura delle opere veronesi sia pittoriche che scultoree, di costituire un vero e proprio catalogo consultabile. Lo studioso cita infatti, all’interno dell’elenco dei quadri veduti nelle chiese veronesi, questa pala insieme ad un’altra, eseguita l’anno successivo, presente nella sagrestia di San Tomio. Così scrive:

[…] due opere rare di questo pittore stanno nella chiesa parrocchiale di San Tommaso Apostolo, una nel coro, l’altra nella sagrestia, la prima che rappresenta il Salvatore quando del buon discepolo si degnò di dissipare il sospetto, la seconda con la Vergine in alto, e sotto li santi Pietro, Giovanni etc., da esso fatta nel 1628 […]199.

Nell’articolo Note sur Marcantonio Bassetti et ses copies d’apres les maître di Hélène Sueur l’autrice pone, come altri studiosi, L’Incredulità del Bassetti vicino all’Incredulità del Caravaggio eseguita nel 1599 e oggi conservata a Postdam. Così il Ridolfi parla del Bassetti:

Avuti i principij da Felice Brusasorci se ne passò a Venezia e vi si trattenne per qualche tempo, copiando le pitture più eccellenti del Tintoretto […] tratto poi dalla curiosità, se ne andò a Roma, dove studiò parimente da quelle pitture […]200.

198 E. M. Guzzo, Quadrerie barocche a Verona, le collezioni Turco e Gazzola in Studi storici Luigi Simeoni, XLVIII, 1998.; “«Nota delle pitture degli autori veronesi per farne l’incisione ed altri anedoti» di Saverio Dalla Rosa sul patrimonio artistico veronese”, in Studi storici Luigi Simeoni, LII, 2002.; B. Chiappa, Esatta nota distinta di tutti li quadri da me Saverio Dalla Rosa dipinti, col preciso prezzo, che ne ho fatto, e memoria delle persone, e luoghi, per dove li ho eseguiti, Verona, 2011.; ASVr, busta 834, Musei - Oggetti di antichità - Tesori – Biblioteche – Archivi – Beni di Pubblica Istruzione – Museo Moscardo, anno 1868-1869 prec. 1803: Minute spese incontrate da Saverio Dalla Rosa per trasporto statue, busti. 199 S. Dalla Rosa, “Tavola cronologica de’ pittori veronesi posti secondo l’epoca più conosciuta del loro fiorire, se non si ebbero punti sicuri per fissare quella della nascita o della loro morte […]”, in Scuola Veronese di Pittura, ovvero raccolta delle migliori produzioni da tutti li più eccellenti professori veronesi fatte ad olio, o a fresco così in pubblico come a privati disegnate, ed incise da Gaetano Zancon e corredate delle notizie, osservazioni, e memorie de’ rispettivi loro autori estese da Saverio Della Rosa Professor di Pittura, Accademico Clementino, Direttore della pubblica Accademia di pittura, e scoltura in Verona, Vol. I, 1806, a cura di G. Marini, G. Peretti, I. Turri, Verona, 2011, pgg. 193-194. 200 C. Ridolfi, Le meraviglie dell’arte ovvero le Vite degli illustri pittori veneti e dello Stato, Venezia, 1648. 57

Il Bassetti soggiornò a Roma dal 1616 al 1620-1621 e in questi anni si dedicò a copiare opere del presente, come quelle del Caravaggio, e i maestri del passato. La Roma che il Bassetti vide da studioso era in quegli anni fortemente influenzata da due personalità carismatiche, quella di San Filippo Neri (1515-1595) e quella del gesuita Ignazio di Loyola201 (1491-1556), ma nonostante il clima particolarmente fervido e ricco di Roma, il Bassetti non smise di inviare opere nella sua città; è degli anni in cui il nostro era ancora attivo a Verona, la pala che Marcantonio dipinse per la Cappella Varalli nella chiesa di S. Stefano rappresentante i Cinque vescovi martiri veronesi. Il soggiorno romano non sembrò entusiasmarlo poi molto tanto che in una lettera inviata al Palma il 16 maggio del 1616 scrive:

Ed io avrei gran contento che VS. [Palma] ne vedesse qualcheduna [accademia alla veneziana], acciò mi diresse e mostrasse la vera strada, perché il mio genio non si conforma troppo con questi di Roma […]202.

In seguito ritornò di nuovo a Venezia per rivedere l’amico Palma, per il quale provava profondo rispetto e ammirazione, e in particolare Tintoretto. Dal Palma il Bassetti trasse spunto per la Flagellazione soprattutto per quanto riguarda la resa del corpo di Cristo, e a Verona il pittore dedicò particolare attenzione a Tiziano e a Paolo Farinati che, secondo quanto ci viene raccontato dal Ridolfi sarebbe stato il “protettore” di una Accademia del Disegno. Molte furono le copie eseguite dal Bassetti da Polidoro da Caravaggio poiché, come racconta il Ridolfi riferendosi a Palma il Giovane, la sua maniera era molto vicina a quella veneziana. Ma ripartiamo dall’inizio e soffermiamoci sul dipinto di Claudio: il biografo Ridolfi nel 1648 riferisce soltanto che il nostro pittore eseguì una toccante Purificazione della Vergine senza specificare il luogo esatto della sua collocazione; Baldinucci, nelle Notizie, non lo cita neppure 203 ; Dal Pozzo nel 1718 riprese esattamente la stessa

201 Il collegio romano istituito dal Loyola era un vero e proprio centro culturale e spirituale; la Ratio studiorum – Ratio atque institutio studiorum Societatis Jesu fondata nel 1599, istituì 446 regole che i diversi collegi erano obbligati a rispettare. Due erano le componenti fondamentali di questo metodo di studio: forte attenzione alla didattica e la sua precisa suddivisione nei tre diversi ambiti: teologia, filosofia e lettere. 202 M. G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII, Milano, 1822, lettera CXXI, pg. 484. 203 F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del Disegno da Cimabue in qua che contengono tre decennali, dal 1580 al 1610. Opera postuma di Filippo Baldinucci fiorentino Accademico della Crusca. All’Altezza Reale di Cosimo III Granduca di Toscana, Firenze, 1702, Vol. V, pgg. 209-210. 58 definizione del Ridolfi per descrivere il dipinto204 che vide collocato all’interno della chiesa nel primo altare a destra, poi si corresse alcune pagine dopo citando l’opera del Ridolfi come Circoncisione del Signore205; il Lanceni, due anni dopo, riporta nella sua descrizione una collocazione diversa, secondo altare a destra dirimpetto l’altare di San Bernardo206, anche se in realtà equivarrebbe alla stessa posizione data da Dal Pozzo, poiché lo storico in questo caso deve aver inteso come primo altare quello all’interno della balaustra recante il dipinto del Bonone; il Biancolini conferma la posizione della pala nel primo altare a destra, ma non fa riferimento a quello di San Bernardo sopra citato, se non nel volume IV delle Notizie storiche delle chiese di Verona, nel quale specifica che “di questa Chiesa altro non sappiamo aggiungere se non che fu ommesso dire per dimenticanza, che la pala di S. Bernardo, […] è opera di Francesco Turchi detto l’Orbetto”207.

204 “[…] e di nuouo per la Chiesa di S. Tomaso detto Tomio di Verona dipinse la Purificazione della Vergine tocca con graziosa maniera”. B. Dal Pozzo, Le Vite de’ Pittori, degli Scultori, et Architetti Veronesi. Raccolte da varj Autori stampati, e manuscritti, e da altre particolari memorie, in Verona, 1718, pg. 163. 205 “Al primo laterale destro fuori della balaustra la Circoncisione del Signore, opera bellissima di Claudio Ridolfi”.; Ivi, pg. 264. 206 G. B. Lanceni, Ricreazione pittorica o sia Notizia universale delle pitture nelle chiese, e luoghi pubblici della città, e diocese di Verona. Opera esibita al genio de’ dilettanti dall’Incognito Conoscitore, parte prima [-seconda] con gl’indici necessarj – in Verona: per Pierantonio Berno, 1720, Parte I, pgg.115-116. 207 G. Biancolini, Notizie storiche delle Chiese di Verona, Verona, 1749, Libro IV, pg. 752. 59

LANCENI: 1720

CHIESA DI SAN TOMMASO APOSTOLO

CAPPELLA MAGGIORE Incredulità di San Tommaso (Marcantonio Bassetti)

I ALTARE A DESTRA I ALTARE A SINISTRA Maria Vergine, la Carità, San Giovanni San Pietro (Carlo Bonomo) (Marcantonio Bassetti)

BALAUSTRA

II ALTARE A DESTRA II ALTARE A SINISTRA La Circoncisione San bernardo che calpesta (Claudio Ridolfi) il demonio, in alto il Salvatore (Orbetto)Alessandro Turchi

III ALTARE A DESTRA III ALTARE A SINISTRA Cena del Signore San Martino con il povero (Santo Prunati) (Andrea Voltolini)

IV ALTARE A DESTRA IV ALTARE A SINISTRA Angeli che sostengono S.Giovanni Battista in atto di il Venerabile battezzare il Signore (Andrea Voltolini) (Andrea Voltolini)

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BIANCOLINI: 1749

CHIESA DI SAN TOMMASO APOSTOLO

CAPPELLA MAGGIORE Gesù e l’Apostolo Tommaso (Marcantonio Bassetti)

“A MANO DESTRA” “A SINISTRA” MariaVergine,la Carità e San Giovanni San Pietro (Carlo Bonomo/Bononi) (Marcantonio Bassetti)

I ALTARE A DESTRA I ALTARE A SINISTRA Circoncisione di Gesù Bambino Il Salvatore battezzato (Claudio Ridolfi) da S. Giovanni Battista (Andrea Voltolini)

II ALTARE A DESTRA II ALTARE A SINISTRA La cena del Signore con gli Apostoli San Martino a cavallo (Santo Prunato) (Andrea Voltolini)

61

A questo punto è necessario fare un passo ulteriore, e osservare che due furono le principali confraternite che questa chiesa possedeva al suo interno208: una dedicata al Nome di Gesù e legata al dipinto del Ridolfi, l’altra al Corpo di Cristo, Compagnia che avrebbe commissionato il dipinto della Cena del Signore al pittore Santo Prunati. Così descrisse la pala il suo allievo Giambettino Cignaroli:

[…] è sparso certo sublime stile che le antiche celebrate scuole rimembra. Evvi un vero e sodo impasto che tizianeggia, tutta la massa di grave armonia ripiena restando nascosta l’arte da una schietta [c.162r] semplicità che innamora. Alcune teste degli apostoli sono veramente mirabili, e mirabile ancora l’artifizio del campo con le abbagliate figure, lo che fa trionfino le masse alluminate dinanzi, ma in tal guisa che il loro chiarore non offende, mentre poi insensibilmente verso l’oscuro dileguandosi, producono un pastoso rilevato, e di tal sapore che molto diletta”209.

L’opera, nel 1806, entrò a far parte della “raccolta delle migliori produzioni da tutti li più eccellenti professori veronesi fatte ad olio, o a fresco” di Saverio Dalla Rosa e venne tradotta in acquaforte dall’incisore Gaetano Zancon (fig. 37). La pala del Prunati non passò mai inosservata, le fonti la ricordano sempre affissa al suo altare, Biancolini la definì opera “eccellente”210. Annessa all’altare, veniva poi ricordata la Confraternita che lì celebrava i propri offici e molte informazioni a riguardo venivano riporatate dalle puntuali Visite Apostoliche.

208 “Intorno alle Chiese e ai Monasteri fiorirono, soprattutto a partire dal Cinquecento, numerose confraternite. Ispirate a princìpi spirituali ed a finalità religiose e caritative, queste associazioni parvero a un certo punto affermare qualche tendenza laicale nel loro impegno, vantando una propria autonomia nei confronti del clero. Quanto di tale laicità si dovette all’azione genuina degli iscritti e quanto all’abile governo della Serenissima, che attraverso la laicità mirava a diminuire il potere ecclesiastico?”. G. Barbieri, “Religione e religiosità a Verona da Raterio al secolo XVIII: i tratti di una tipologia”, in Chiese e Monasteri a Verona, a cura di G. Borelli, Verona, 1980, pg. 294.; “Nikolaus Pevsner a émis l’hypothèse que la réforme des anciens ordres monastiques et la création de nouveaux avaient été importantes pour l’histoire du Maniérisme. Mis à part la Société de Jésus, tous ces ordres manifestent des ressemblances frappantes dans leurs buts et dans leurs méthodes. Tous imposent un désintéressement absolu, une extrême pauvreté et l’aide charitable portée aux malades et aux déshérités. Tous se concentrent sur la simple prédication de l’Évangile et l’oubli des subtilité théologiques. Tout portent une dévotion particulière au Saint Sacrement”. F. Hartt, “Le pouvoir et l’individu dans l’art maniériste”, in Symboles de la Renaissance, textes de F. Hartt, M. Muraro, A. Warburg, Vol. II, Paris, 1982, pg. 15. 209 S. Dalla Rosa, Scuola Veronese di Pittura, ovvero raccolta delle migliori produzioni da tutti li più eccellenti professori veronesi fatte ad olio, o a fresco così in pubblico come a privati disegnate, ed incise da Gaetano Zancon e corredate delle notizie, osservazioni, e memorie de’ rispettivi loro autori estese da Saverio Della Rosa Professor di Pittura, Accademico Clementino, Direttore della pubblica Accademia di pittura, e scoltura in Verona, Vol. I, 1806, a cura di G. Marini, G. Peretti, I. Turri, Verona, 2011, pg. 274. 210 G. B. Biancolini, Notizie storiche delle Chiese di Verona, Verona, 1749, Vol. I, pgg. 382-383. 62

In San Tomio la confraternita del Corpo di Cristo risultava quasi certamente dal 1529, ma compariva con un proprio altare annesso soltanto nella Visita Apostolica del 1553, quando l’altare venne incluso con gli altri sei facenti parte della chiesa.

Ebbe l’altare proprio, che dalla Visita 29 febbraio 1553 è esplicitamente elencato coi sette della chiesa. Però, ripetiamo l’ipotesi, la Compagniaa insediata nel suo altare per l’innanzi, magari fin dall’inizio di fondazione. Al detto altare essa provvede interamente, e vi fa celebrare tutte le feste e, dapprima, anche due volte in settimana, ma, in seguito, una sola, per diminuzione di rendite211.

La presenza di una confraternita del santissimo Sacramento all’interno di una chiesa, ne sottolineava e affermava l’importanza e, allo stesso tempo, necessitava di specifiche mansioni: “la collaborazione con il parroco nel mantenimento corretto della sacra Specie, la partecipazione in corpo alle processioni mensili e a quella annuale del Corpus Domini, il coordinamento dell’attività caritativa della parrocchia, e soprattutto l’obbligo della comunione frequente in ottemperanza al nuovo orientamento in materia, sancito dal concilio” 212 . Nella Visita Apostolica del 1640 l’altare della societas veniva provvisto del necessario dai confratelli; in quella successiva del 1657 risultava possedere “molti legati dispendiosi” e i massari risultavano avere il “governo” dell’altare, in comune con la confraternita della Circoncisione.

Altare Corporis Christi et Capella, cum portatili. Cui adest societas eiusdem, quae non nulla pia sed nimis onerosa legata habet, et in eo celebrare facit omnibus festis diebus, et semel in hebdomada, et providet de necessarijs, et de ceris pro deferendo Santissimo ad infirmos, et processionibus, illiusque massarij regimen habent cum societatis Circumcisionis Domini213.

Questa societas Circumcisionis Domini iniziò a costituirsi nella chiesa, proprio nel 1553214 e venne appunto definita nella Visita Apostolica di quell’anno, agli albori della

211 D. Zannandreis, op. cit. pg. 296, in G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 90. 212 G. Angelozzi, Le confraternite laicali: un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna, Brescia, 1978, pg. 42. 213 Estratto dalla Visita Apostolica del 3 Novembre 1657 nella Chiesa di San Tommaso Apostolo. G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso Apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pgg. 151-154. Si confronti il documento 13 in Appendice documentaria, pgg. 164-165. 214 Si confronti la trascrizione completa delle Visita Apostolica del 23 febbraio 1553 in Appendice documentaria, documento 11, pgg. 158-162. 63 sua nascita, “compagnia picciola”215. Nelle notizie forniteci dalle Visite che seguirono, quella del 1640 e del 1657, gli adepti della confraternita non furono mai numerosi, anzi, essa non risultava avere una legittima istituzione e inoltre habet quaedam pauca legata.

Anche la «Compagnia del Nome di Gesù» ha un suo altare, o più esattamente, la Visita 1553 dice, che è annessa «ad un altare», di cui non è specificata la propria denominazione; ma che è quello, nel 1629 espressamente chiamato davvero del «Nome di Gesù», e della «Circoncisione» (medesima cosa) nelle Visite 1640 e 1657. Non è chiaro, quindi, se la Compagnia sia nata contemporaneamente all’altare, ovvero se questo, esistente già prima, abbia prestato opportunità di annettervela. Comunque, del 1553 è la prima notizia dell’esistenza, sia dell’una che dell’altro216.

Nel 1657, la Confraternita della Circoncisione possedeva dunque pochi legati, quindi risulta chiaro che i massari della societas del Corpo di Cristo si occupassero anche della gestione delle mansioni della confraternita che aveva sede nell’altare a fianco, devota al Santissimo Nome di Gesù.

215 “L’altar che e dall’altro canto non è dotato et al presente vi e una compagnia picciola del nome di Jesu; la quale compagnia hora ha le infrascritte cose, videlicet Quattro candelieri dotto net doi di ferro – Tovaglie doi col segno di IHS. Uno confalone. Uno crocifisso di legno. Dopieri con le sue steche”. Archivio Curia Vescovile, op. cit. Vol. X, pp. 17 ss, Ivi, pg. 149. 216 L. Fanfani, op. cit. pg. 162, Ivi, pg. 91. 64

II.2 IL NOME DA VENERARE

Si trattava di una Confraternita in cui i fedeli affidavano e rivolgevano le loro preghiere al Santissimo Nome poiché “Iesus est proprium nomen Christi, qui salutem nostram et redemptionem est operatus: qui liberavit nos ab aeternae perdizione, et gratiam promeruit perveniendi ad vitam aeternam. De illo ergo beneficio quod longe maximum est inter omnia, quae Deus nobis praestitit, agimus gratias Deo, quando honoramus nomen Iesu: quia illud nomen clare ab oculos ponit illud beneficium: cum Iesus non sit aliud quam Salvator […]”217. Molanus, teologo del Cinquecento, affermava che Gesù era il nome proprio di Cristo e che questo Nome aveva operato la nostra redenzione. Il Nome acquisiva quindi una forte valenza simbolica, sia che venisse pronunciato, sia che fosse scritto; era un simbolo che incarnava l’intera persona di Cristo218 e, onorandolo, si omaggiava l’intero suo operato. Il fondamento del culto legato al SS. Nome di Gesù risaliva a tempi molto antichi; già nel Vecchio Testamento il nome di Gesù occupa un posto predominante, sia nell’Esodo che nel Libro dei Numeri, il suo Nome viene citato numerose volte. In quest’ultimo è scritto:

Tali sono i nomi degli uomini che Mosè mandò ad esplorare il paese. Però, ad Osea, figlio di Nun, Mosè pose nome Giosuè219.

217 Molanus, op. cit., in A. Montanaro, Il Culto al SS. Nome di Gesù: teologia, storia, liturgia, Napoli, 1958, pg. 6. 218 Nella cultura ebraica quando si onorava il nome di una persona si onorava la persona stessa, facendo sì che non venisse dimenticata, cosa che invece accadeva al “nome dell’iniquo”, il quale era destinato all’oblio. Nel libro dell’Ecclesiastico (41,11-14) è scritto: “Il corpo dell’uomo è vanità, ma il buon nome non sarà cancellato. Abbi cura del tuo buon nome, che durerà più che mille tesori d’oro. Una vita felice ha i giorni contati, ma un nome buono rimane per secoli”. Lo stesso concetto viene ribadito nel libro dei Proverbi (22, 1-2) dove è scritto: “Il buon nome vale di più che grandi ricchezze, la stima, più che l’oro e l’argento”. A questo proposito Landolfo di Sassonia riporta nel suo scritto le parole del teologo Sant’Agostino sottolineando che vi è differenza “dal nome di Giesù, al nome di Christo, poiché Giesù è nome proprio ma Christo è nome comune & di sacramento. Oltre ciò christo è nome di gratia & Giesù è nome di gloria”. Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo nostro redentore scritta da Landolfo di Sassonia dell’ordine certosino. Et di nuovo tradotta da M. Francesco Sansouino. Nella quale con pia et santa dottrina si espongono con facilità gli Evangelij che corrono in tutto l’anno secondo le sentenze de Santi et più approuati Dottori. Et con più diuote meditazioni et Orationi conformi all’Euangelio. Opera non meno necessaria a Predicatori et Parrocchiani, i quali nelle feste principali dichiarano l’Euangelio à popoli loro, che ad ogni altro Christiano che desideri uiuer secondo la santa fede Cattolica. Con le tavole de Vangeli correnti per tutto l’anno et delle cose notabili, et de capi principali poste à loro luoghi, in Venetia: appresso Iacopo Sansouino il Giouane, 1570, Cap. X, pg. 25. 219 Num. 13, 16-17. 65

Osea, in ebraico salvezza, venne chiamato Giosuè, cioè Jahvé salva e venne incaricato, dopo la morte di Mosè, di guidare il popolo di Israele verso la Terra Promessa; nell’Ecclesiastico si parla di un Gesù, figlio di Sirach, mentre i profeti Aggeo e Zaccheo parlano di un terzo Gesù, figlio di Giosedec e Sommo Sacerdote che guidò il popolo ebreo a Gerusalemme da Babilonia. Questi sono gli episodi del Vecchio Testamento che in qualche modo preannunciano il Nome del nuovo Messia; Dio stesso, nel momento in cui consegnò le tavole a Mosè, impresse nei Comandamenti il divieto di invocare il Nome di Dio invano220 e soltanto nel Nuovo Testamento viene rivelato il nome di Gesù, il figlio di Dio fatto uomo. L’acquisizione del Nome proprio, simboleggia che Cristo è sì divino, ma anche umano poiché identificato da un nome proprio e in ebraico Jěhôšûaʽ, Giosuè, significa Dio è salute221. La figura che da sempre è stata riconosciuta quale guida della Compagnia del SS. Nome di Gesù è quella di San Bernardino da Siena. Fu questi che ideò il famoso monogramma, poi acquisito anche dall’ordine Gesuita, costituito da dodici raggi posti circolarmente su uno sfondo celeste che stavano a simboleggiare i quattro Incipienti, i quattro Proficienti e i quattro Perfetti. La frase paolina “In nomine Iesu omne genu flectatur caelestium, terrestrium et infernorum”, tratta dalla Lettera ai Filippesi (2,10), era scritta lungo il perimetro del cerchio in caratteri gotici; al centro del sole spiccava il monogramma IHS e l’eta greca, unita ad una linea trasversale, formava una croce che recava, nei rispettivi punti, i tre chiodi della crocefissione. Il culto del SS. Nome di Gesù si diffuse enormemente in tutta la penisola, soprattutto attraverso le tavolette monogrammate che San Bernardino222 fece circolare in molte città, una tra le tante, Modena, alla quale il santo lasciò in dono, alla Compagnia della Santissima Nunziata, una delle sue preziose tavolette con iscritto il monogramma. L’importanza del culto in questa città venne ulteriormente attestata da un documento,

220 Ex. 20, 7- Deut. 5,11- Lev. 24,16. Inoltre, profondo era il rispetto e, allo stesso tempo, il timore che gli Ebrei nutrivano nei confronti del Nome di Dio. Per questo motivo erano obbligati ad usare appellativi come Šaddai o Adonai che evitavano ai credenti di pronunciare quel Nome Sanctum et terribile. 221 Nella lingua greca Σωτήρ, Ιησο ῦς significa Gesù il Salvatore, come sottolinea l’evalgelista Matteo nel passo (1,21-22) nel quale dice: “Vocabis nomen eius Iesum: ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum”.; si confronti anche l’articolo di F. Saracino, “Il Nome dipinto. Jacopo de’ Barbari, il Cristo benedicente e il Tetragramma”, in Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XIII, 2003, n.26, pgg. 14-35. 222 In un articolo di Mattia Biffis dedicato alla pala col Battesimo di Cristo di Battista Franco a San Francesco della Vigna, l’autore pone in evidenza nella nota 17 che non fu soltanto San Bernardino ad occuparsi della diffusione del culto del Nome di Gesù, ma anche Ubertino da Casale il quale “proponeva di allestire un vessillo ad incitamento dei cristiani”.; Venezia Cinquecento, studi di storia dell’arte e della cultura, XVII, 2007, n. 33, pgg. 30-45. 66 scritto in lingua volgare, che descriveva la profonda devozione nei confronti del SS. Nome di Gesù e, allo stesso tempo, lo stretto legame che univa questo culto al giorno della Circoncisione.

L’è facto manefesto e noto per parte de li massarj de la nuntiada a zascaduna persona, che el die de la cerconcixione del nostro signore misere yhu xpo, la quale sarà el die daninovo, el se farà una solempne festa del nome yhu a logo de lo oratorio de la nuntiada, el quale è apresso di fra del carmene, e lì se mostra quella devota e benedecta reliqua del nome de yhu, la quale è sta dada in custodia e guardia a quilli de la compagnia de la nuntiada per lo reverendissimo padre misere fra bernardino de l’ordene de l’oservanza de san francesco. Sapiando che zascaduna persona, che ie vignirà devotamente contrita e confessa di so pecha, per zascaduna volta che lì farà onore a quella benedecta reliqua de yhu, averà ottanta die de perdonanza223.

La passione di San Bernardino nel predicare raggiunse anche “Vinegia”, toccando Padova, Mantova e Verona e, nonostante la sua fama fosse ormai più che affermata, gli oppositori non tardarono a farsi sentire. I processi che si susseguirono non portarono dannosi scompensi all’operato di San Bernardino, il quale reagì sempre strenuamente alle accuse di idolatria, o peggio ancora, di eresia. Le prime confraternite sorsero nel Medioevo, ma inizialmente potevano dirsi “associazioni” poiché non avevano veri e propri statuti con regole proprie. Infatti, queste Confraternite del Nome di Gesù originariamente si chiamavano Societates SS. Nominis Dei, o Iuramentorum proprio perché i confratelli dovevano impedire, tramite la loro supervisione, che venissero compiuti dei giuramenti “illeciti”, oppure Confraternitates SS. Nominis Jesu224. Secondo il Mariotti, la prima Confraternita legata al culto del Nome di Gesù nacque a Burgos, in Spagna, ad opera di un domenicano. Infatti, tenendo conto degli scritti pontifici 225 , questa confraternita venne istituita dall’ordine Domenicano (anche se l’ordine Francescano non mancò di rendere omaggio al Nome di Gesù). Un terzo punto

223A. Montanaro, Il Culto al SS. Nome di Gesù: teologia, storia, liturgia, Napoli, 1958. 224 Ibidem. (cfr. capitolo V) 225 Il Mariotti si riferisce al Breve Decet Romanum Pontificem di Pio V, al Breve Alias per fel. Rec. Pium di Gregorio XIII, al Breve Nuper pro parte del B. Innocenzo XI, alla Costituzione Pretiosus in conspectu Domini di Benedetto XIII. 67 da tenere presente è il fatto che questo culto venne istituito dopo il II Concilio di Lione e quindi prima dell’avvento della figura di San Bernardino.

Nel 1401 accade un fatto importante a Seehausen, vicino Osterburg, in Sassonia. Bonifacio IX concedeva indulgenze ai fedeli che, in specifiche festività, avessero donato offerte all’altare intestato ad una certa Societas sive Confraternitas Domini nostri Iesu Christi. Dal nome della societas si pensava si trattasse della confraternita del SS. Sacramento, ma questa supposizione perse di valore poiché quest’ultima venne approvata da Paolo III soltanto il 30 novembre del 1539. Quindi, riordinando cronologicamente le varie date, la nascita di questa “associazione” ha origini ben più antiche di quelle che si supponevano; la storia della Confraternita non nasce con la figura di San Bernardino anche se viene spesso ricordato come il fondatore del culto del SS. Nome di Gesù insieme con la sua ormai famosa tavoletta monogrammata. Inizialmente si trattava di un ristretto gruppo di fedeli che offrivano un particolare omaggio al culto del Nome di Gesù; poi, nel 1432 con Andrea Diaz226 in Portogallo e Diego da Vittoria in Spagna, venne istituita la vera e propria Confraternita. Due sono i momenti importanti da tenere a mente a proposito di questa Confraternita, entrambi avvenuti nel 1564. Sono due documenti stilati da Pio IV nello stesso giorno: il Breve Iniunctum nobis e la Bolla Salvatoris et Domini. Nel primo, il Papa scrisse di aver saputo della nascita di una Confraternita prima nella città spagnola di Burgos e che poi si fosse diffusa anche in altre città limitrofe. Queste nuove confraternite erano sorte con lo scopo di proibire “le bestemmie, gli spergiuri e i giuramenti illeciti” e di far sì che “i fedeli cristiani con piacere ne entrassero a far parte di modo che la Compagnia fosse onorata con grandi doni di grazia spirituale e dagli amici degli apostoli fosse sostenuta con privilegi”227. Quindi, affinché i fedeli entrassero libentius all’interno della Confraternita venivano concesse indulgenze, sia plenarie che parziali. L’indulgenza plenaria veniva consentita a quei confratelli che ogni anno nel

226 Negli anni in cui Andrea Diaz si trovò ad operare in Portogallo come vescovo domenicano ci fu una pestilenza che cessò subito dopo aver reso omaggio al SS. Nome di Gesù. Dopo questo episodio, nel 1432, nacque la Confraternita che venne poi riconosciuta dalla Chiesa nel 1564 con una regola ufficiale di Pio IV. 227 E affinché “ipsa confraternitas in maiori semper reverentia habeatur, et christifideles eo libentius illam ingrediantur, quo ipsa amplioribus decorata spiritualium gratiarum donis, et apostolicis fuerit suffulta privilegiis”. Ivi, pgg. 198-199. 68 giorno della Circoncisione228 (il 1˚ Gennaio) avessero partecipato, almeno in parte, alla cerimonia della festa. Negli anni che seguirono, altri Pontefici elargirono concessioni alla Compagnia del Gesù: Gregorio XIII nel 1575, Paolo V nel 1612, Urbano VIII, Benedetto XIII nel 1727, San Pio X nel 1909. Venivano concesse invece indulgenze parziali di dieci anni a quei confratelli che avessero assistito alla messa celebrata nella prima domenica di ogni mese e a coloro che predicavano di “non abusare del giuramento” e di accogliere la Regola della Confraternita. Cento giorni venivano abbonati a coloro che redarguivano chiunque venisse colto in fallo pronunciando una bestemmia o proferisse i già citati “giuramenti illeciti”. Nel giorno della Circoncisione i confratelli potevano scegliersi un confessore che avrebbe assolto le loro pene e, qualora si fosse reso necessario, avrebbe commutato i voti. Nella Bolla il Pontefice sottolineava i punti trattati nel Breve ed esortava a proseguire nella giusta direzione quei vescovi che in Spagna avevano dato vita alla Confraternita. Nella Regola era scritto:

- Evitare sempre con grande diligenza ogni bestemmia e, per quanto possibile, il giuramento; - correggere i figli, i dipendenti; - ammonire gli estranei; - confessarsi, comunicarsi e festeggiare solennemente il SS. Nome di Gesù nel giorno della Circoncisione; ascoltare la S. Messa, riuniti insieme, nella prima domenica di ogni mese, e raccogliere le libere offerte; - eleggere nella Confraternita due presidenti e tre o quattro consiglieri, e annualmente da questi detti fossero designati coloro che provvedessero anche “ut…et festum Dominici Nominis solemnius peragatur”229.

Il pontefice Pio V portò avanti l’opera del suo predecessore e continuò quindi a promuovere opere pie concedendo quaranta giorni di indulgenza ai confratelli che

228 “La festività della Circoncisione risale ai primi secoli (V-VI) della Chiesa; e fu istituita anche per un motivo di affermazione della Religione cristiana, contro le usanze pagane. Infatti, al 1º di gennaio i pagani (come, per es., a Roma, nelle Gallie e in Africa) praticavano opere superstiziose e idolatriche, specie in onore di Giano bifronte. E in tal giorno, oltre la Messa della Circoncisione, la Chiesa faceva celebrare un’altra Messa, che era registrata sotto questa rubrica: (ad) prohibendum ab idolis”. A. Montanaro, Il Culto al SS. Nome di Gesù: teologia, storia, liturgia, Napoli, 1958, pg. 226. 229 Questa Regola è ripresa dal Bremond il quale a sua volta cita quella edita “auctoritate Ill.mi ac Rev.mi D. D. Petri Gonzales de Mendoza Episcopi Salmanticensis”, 1560-1574. Si vedano le pgg. 200-201. 69

“facessero da pacieri”230; stabilì inoltre che la Confraternita potesse sorgere in qualsiasi città o luogo che avesse le chiese dell’Ordine dei Predicatori e che non venissero edificate chiese senza la licenza del Priore conventuale o provinciale domenicano. Gregorio XIII con la Bolla Salutem Cuntarum concesse l’indulgenza plenaria l’11 ottobre del 1576 ai confratelli della Compagnia del Rosario che avessero invocato “in eorum mortis articulo Nomen Jesu ore, vel corde”. La Chiesa dunque dispensava indulgenze alle Confraternite del Nome di Gesù invogliando i fedeli ad assistere alle celebrazioni religiose e ad essere ferventi promotori di opere di carità. Nel 1530 concesse la festività liturgica del SS. Nome di Gesù all’Ordine Francescano e nel 1721 venne esteso Urbis et Orbis.

Pronunciando quel Nome 231 , i malati venivano guariti, i demoni scacciati, prodigi venivano compiuti soltanto appellandosi al Nome divino. Così San Tommaso parlava degli effetti che la sua evocazione aveva nei riguardi dei fedeli:

La potenza del Nome di Gesù è grande, è multipla. È un rifuglio per i penitenti, un sollievo per i malati, un aiuto nella lotta, nostro appoggio nella preghiera, perché ci ottiene il perdono dei peccati, la grazia della salute dell’anima, la vittoria contro le tentazioni, la potenza e la fiducia di ottenere la salvezza232.

230 Da ricordare il Breve Cunctorum del 20 settembre 1569 insieme al Breve Decet Romanum Pontificem redatto due anni dopo dallo stesso pontefice. 231 L’importanza del Nome venne messa in rilievo dal mistico spirituale Bartolomeo Cambi da Salutio il quale, oltre alla stesura di numerosi scritti imperniati sull’amore di Dio e su una fervida e costante Imitatio Christi, scrisse, nel 1614, la Vita dell’anima, opera interamente dedicata alla contemplazione del nome di Gesù. 232 “Et secondo Pietro da Rauenna, questo è quel nome ch’ai ciechi diede il uedere a sordi l’udire a zoppi l’andare, a muti il parlare, a morti il uiuere, & la uirtù di questo nome cacciò tutta la potenza del diauolo da corpi assediati da lui”. Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo nostro redentore scritta da Landolfo di Sassonia dell’ordine certosino. Et di nuovo tradotta da M. Francesco Sansouino. Nella quale con pia et santa dottrina si espongono con facilità gli Evangelij che corrono in tutto l’anno secondo le sentenze de Santi et più approuati Dottori. Et con più diuote meditazioni et Orationi conformi all’Euangelio. Opera non meno necessaria a Predicatori et Parrocchiani, i quali nelle feste principali dichiarano l’Euangelio à popoli loro, che ad ogni altro Christiano che desideri uiuer secondo la santa fede Cattolica. Con le tavole de Vangeli correnti per tutto l’anno et delle cose notabili, et de capi principali poste à loro luoghi, in Venetia: appresso Iacopo Sansouino il Giouane, 1570, Cap. X, pg. 25. 70

II.3 UNA FAMIGLIA DA RINTRACCIARE

Stando alle descrizioni dateci dalle varie fonti, il dipinto del Ridolfi non fece molta strada nel corso degli anni: la sua collocazione passò dal primo al secondo altare a destra, senza mai cambiare effettivamente posizione. L’altare sul quale venne affissa la pala, oltre ad essere intestato alla Compagnia del Gesù, come specificato nelle Visite Pastorali 233 a partire dal 1553 234 , apparteneva anche alla famiglia Padovani 235 (De Paduanis, Pauari?).

Altare circumcisionis Domini nostri, dominorum haeredum de Paduanis, qui provident et faciunt celebrari una vice in qualibet hebdomada; in hoc adest societas circumcisionis sed non constat de legitima illius institutione. Alter nuncupatum corporis Christi, in quo adest societas eiusdem quae providet ex legatis de necessariis; adest onus celebrandi diebus festis et duabus vicibus in hebdomada236.

Quindi, gli eredi dei signori de Paduanis provvedevano e facevano celebrare una funzione ogni settimana in quel preciso altare nel quale vi era anche una societas circumcisionis che però non risultava avere una legittima istituzione poiché veniva richiesta una nuova erectio della confraternita, come esplicitamente riportato al termine della visita apostolica:

pro altare circumcisionis, petatur nova erectio dictae societatis cum novis indulgentiis237.

233 La Visitatio era una sorta di “controllo” , di “supervisione” che veniva eseguita nelle parrocchie: in quelle occasioni si prendeva nota della struttura della chiesa, dei vari arredi, dei dipinti che necessitavano di restauri, etc. 234 “L’altar che e dallaltro canto non è dotato et al presente vi e una compagnia picciola del nome di Jesu; la quale compagnia hora ha le infrascritte cose, vide licet Quattro candelieri dotton et doi di ferro – Tovaglie doi col segno di IHS. Uno confalone. Uno crucifisso di legno. Dopieri con le sue steche”. Estratto della Visita Apostolica del 1553, in G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso Apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 149. 235 Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 76. 236 Studi e documenti di storia e liturgia, XII, Marco Giustiniani, Visitationes Pastorales ecclesiarum civitatis et dioecesis veronensium ab anno 1632 usque ad annum 1650, Trascrizione del Registro XX delle Visite Pastorali a cura dell’Archivio Storico della Curia Diocesana di Verona, Verona, 1998, pg. 237.; la trascrizione completa della Visita Apostolica del 1640 nella chiesa di San Tomio si trova nell’Appendice documentaria, documento 12, pgg. 162-163. 237 Ivi, pg. 238. 71

Durante una Visita Apostolica, diversi potevano essere i giudizi dati dal vescovo nel descrivere lo stato di “manutenzione” della chiesa visitata. Di solito si seguiva il seguente ordine: si partiva da una definizione honorifica, cioè eccellente, poi a seguire, satis honorifica, decens, satis decens, non satis decens, veter238. Nella Visita Apostolica del 7 Agosto 1640, l’aggettivo decens239 ricorre una sola volta; per il resto, gli arredi della chiesa si limitano a “soddisfare” o meno lo sguardo del vescovo che, durante i consueti “controlli” nelle varie parrocchie, non si atteneva soltanto al loro “disciplinamento”, ma “forniva indicazioni precise in materia liturgica e artistica, arrivando addirittura a compilare una lista delle pale d’altare a seconda della loro "idoneità" devozionale”240. Il nostro vescovo, soffermandosi davanti all’altare “dei signori eredi de Paduanis”, non fece alcun accenno alla pala del Ridolfi che in quell’anno (1640) era logico si trovasse ancora nel suo luogo deputato. Non viene nominato alcun dipinto, ci si sofferma soltanto sull’appartenenza dei rispettivi altari, sul numero delle messe che vi erano celebrate, sugli arredi liturgici presenti. Nella successiva Visita Apostolica, quella del 3 Novembre 1657, l’opera del Ridolfi continua a non essere menzionata, pochi sono i particolari aggiunti rispetto a quella effettuata precedentemente, se non per il fatto di citare un nome, Iacobum de Paduanis.

Altare Circumcisionis Domini cum portatili ad incontrum suprascripti et equalis ferme structurae per q. D. Iacobum de Paduanis. Cuius haeredes provident, et quotidie in eo celebrare faciunt. – Adest societas eiusdem, sed caret legitima institutione. habet qaedam pauca legata cum onere celebrandi singula quaque tertia Dominica cuiuslibet mensis241.

238 S. Mason Rinaldi, “'Hora di nuovo vedesi…'. Immagini della devozione eucaristica in Venezia alla fine del Cinquecento”, in Venezia e la Roma dei Papi, Milano, 1987, pgg. 171-196.; A. Aymonino, “La Pala di San Pantalon: immagine devozionale e manifesto politico”, in Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XV, n. 30, 2005, pgg. 170-179. 239 “[…] decenti tabernaculo magno aurato custoditum”. Studi e documenti di storia e liturgia, XII, Marco Giustiniani, Visitationes Pastorales ecclesiarum civitatis et dioecesis veronensium ab anno 1632 usque ad annum 1650, Trascrizione del Registro XX delle Visite Pastorali a cura dell’Archivio Storico della Curia Diocesana di Verona, Verona, 1998, pg. 237. 240 Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XV, n. 30, 2005, pg. 162. 241 G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 153. Si veda la trascrizione completa della Visita Apostolica in Appendice documentaria, documento 13, pgg. 164-165. 72

Viene citato dunque il “nome del benemerito principale”242 dell’altare e, stando alle notizie riportate nel Libro de’ morti nell’Archivio Parrocchiale di S. Tomio in S. Nicolò243, un solo Jacobum/Giacomo Padovani morì prima del 1657, precisamente il 24 maggio del 1638.

Il cognome Padovani era assai diffuso a Verona, ma non risulta nell’elenco delle famiglie nobili veronesi. Antonio Cartolari, nel 1854, cita una famiglia Padovani all’interno dell’elenco delle famiglie non appartenenti al ceto nobiliare, ma che “avendo possedimenti in città o nel nostro territorio, faceansi iscrivere nel Campione d’estimo” e, “quantunque molte tra loro fossero d’origine illustre, pure (salvo qualche caso) non venivano aggregate al Nobile Consiglio se non dopo un mezzo secolo ed altre dopo cent’anni, e fin dugento, ed anche più”244. Questo è quanto accade alla famiglia Padovani la quale risulta nell’Estimo di Verona dal 1572 e viene ascritta al Nobile Consiglio nel 1739. Intercorrono esattamente centosessantanove anni tra le due iscrizioni. Nel fondo Antico Archivio del Comune sotto la voce Campion d’Estimo cittadino distribuito per contrade dell’anno 1572, sotto la contrada di S. Thoma, compare infatti:

Franciscus? vitrinius ab insigne Navis quondam Giovanni de Paduanis245.

Sappiamo dell’esistenza di un Giovanni Padovani, arciprete della chiesa di S. Margherita, molto vicino al vescovo Valerio, che oltre a celebrare messe era particolarmente dedito allo studio dell’astronomia.

Nel caso di Giovanni Padovani siamo di fronte […] ad una notevole personalità, che sapeva associare l’impegno indagatore delle leggi dell’universo astronomico alla fede e al ministerio sacerdotale quotidianamente esecitato nella sua piccola Chiesa urbana246.

242 Ivi, pg. 92. 243 Oggi nell’Archivio Storico della Curia Vescovile di Verona. 244 A. Cartolari, Famiglie già ascritte al Nobile Consiglio di Verona con alcune notizie intorno parecchie case di lei a cui s’aggiungono il nome la dichiarazione ed un elenco di varie delle passate sue magistrature ed altre memorie riguardanti la stessa città, Parte II-III, Verona, 1854, VI.; G. Rapelli, I cognomi del territorio veronese, Verona, 2007, pg. 513. 245 ASVr, Antico Archivio del Comune, Campione d’Estimo cittadino distribuito per contrade, n. 267, anno 1572, c. 5 v. 246 G. Barbieri, “Religione e religiosità a Verona da Raterio al secolo XVIII: i tratti di una tipologia”, in Chiese e Monasteri a Verona, a cura di G. Borelli, Verona, 1980, pg. 316. 73

Su questo personaggio, nulla di più (per il momento). E ritorniamo dunque alla nostra omonima famiglia che, nell’anno 1616, risulta stabile nella contrada di San Tomio, infatti nell’Estimo compare scritto:

Jacobus de Paduanis Vitriarius ad Navem f. q. Augustini cui fratribus et Diana souore247.

Jacopo de Paduani, figlio di Agostino con i fratelli e sua sorella Diana, fa di mestiere il vetraio e la sua bottega reca l’insegna di una Nave. È lo stesso Jacobus de Paduanis menzionato nella Visita Apostolica del 1657, nella quale viene specificato che sono i suoi eredi a provvedere alla manutenzione dell’altare. Nel 1725, la famiglia composta dal Signor Gio. Battista Pauari e Teresa Pauari sua Sorella, risulta residente nella già citata contrada e acconsente agli ebrei, essendo la loro casa confinante col ghetto, di prenderne in affitto una parte, il piano superiore, lasciando i cristiani liberi di circolare nei piani inferiori dove si trovava la loro bottega248. Nel 1669, Andrea Vendramin aveva espressamente vietato, se non prima di aver ricevuto l’assenso da parte della “Banca dell’Università stessa” e dai “Signori Presidenti”, di “vender, ò affittar Case, o in qual si sia modo dar ricetto nel Ghetto di questa Città ad alcuno Hebreo, che d’altro luogo fosse venuto per habitar in questo”249. I signori Pauari seguirono l’iter burocratico come stabilito e cinque anni dopo, nel 1730, la vicenda del parroco Andrea Gambaroni, di cui si è discusso precedentemente a proposito della sua indignazione nei confronti degli ebrei che entravano e uscivano dalla sua contrada senza alcun riguardo, sembra collegarsi in qualche modo a questa famiglia. Gli ebrei rappresentavano una minaccia secondo il parroco per la comunità di fedeli della parrocchia di San Tomio, così si rivolse all’avvocato Giuseppe Micheli e chiese un ulteriore supporto al parrocchiano Basilio Birochi, che nel suo testamento aveva espressamente proibito ai suoi eredi di vendere la casa agli ebrei, per i quali serbava un atteggiamento a dir poco intollerante.

247 ASVr, Antico Archivio del Comune, Campione d’Estimo cittadino distribuito per contrade, n. 271, anno 1616, c. 7 v. 248 ASVr, Chiesa di S. Tomio - Compagnia del SS. Sacramento, Liber tercius locatiorum ecclesia sancti Thome, Verona, 1411 – 1456, cc. 17 v. – 18 r., materiale non inventariato.; si confronti il documento 7 in Appendice documentaria, pg. 152. 249 ASVr, Registro, Proclami, 212 – 418. 74

A questo punto della storia, subentra la risposta della comunità ebraica alle accuse del Gambaroni: gli ebrei si appoggiarono alla “dichiarazione scritta di un altro cristiano, che si era mostrato lieto di cedere la sua casa agli ebrei invitando i vicini a fare lo stesso”250. Non viene specificato chi fosse quest’“altro cristiano” che cedette la sua casa agli ebrei, ma l’idea che si potesse identificare con il Pauari residente nella contrada di San Tomio poichè soltanto cinque anni prima, nel 1725, diede in affitto una parte della sua dimora ai suddetti, resta un’ipotesi allettante. Il 12 dicembre del 1736 “i Signori Presidenti” avanzarono una “richiesta di acquisto delle case di quattro artigiani, confinanti con quelle ebraiche «sopra la strada della piazza delle Erbe, da una parte, e dall’altra con la strada pubblica che porta sopra la via Nuova»; anche in questo caso, i locali che si trovavano a piano terra restarono di proprietà dei cristiani per poter continuare ad esercitare la loro professione, mentre quelli al piano superiore divennero nuove dimore per gli ebrei251. Le date incalzano, un evento segue l’altro, un filo sottile sembra legare le diverse vicende e ordire una fitta trama, non necessariamente da sbrogliare.

250 A. Bonamini, op. cit., pp. 68-69, in A. Castaldini, La segregazione apparente. Gli ebrei a Verona nell’età del ghetto (secoli XVI – XVIII), Città di Castello, 2008, pg. 22. 251 Ivi, pg. 34. 75

II.4 INTRECCI, LITIGI E COMMITTENZE

Nel 1619, un certo Giovanni de’ Fidenti indica nel suo testamento l’altare della Circoncisione come modello da seguire per la costruzione del suo altare252, che verrà terminato nel 1624 e arricchito da una pala di Alessandro Turchi.

L’altare è situato di fronte a quello della Circoncisione, e, a somiglianza di questo (rifatto di fresco), ora è stato costruito in forma assai elegante dai Fidenzi. Costoro soddisfano alla celebrazione della Messa quotidiana, giusta il testamento del loro antenato Fiorino, e provvedono d’ogni cosa253.

L’altare in questione è quello dedicato a San Bernardo e, stando a quanto scritto nella Memoria di Locacioni per la Venerabile Chiesa di San Tomio, il signor Zuane Fidenti pagò la somma dell’affitto fino all’anno 1692254. Ma il nome del Fidenti è legato a ben altre storie. Compare infatti anche all’interno di un documento appartenente al registro dei processi della Chiesa di San Tomìo, dove si discuteva a proposito di un litiggio mosso al Reverendo Breonio e indirizzata al Rev.mo Sign. Vicario. Così recita il documento:

Rev.mo Sign. Vicario, Il genio litigioso del Rever.do Gio. Battista Breonio non hauerei creduto tale, quanto la fama lo pubblicava, se hora non me ne fosse toccato far l’esperienza con il litiggio presente mossomi dal medesimo contro ogni raggione, et giustizia. Sino l’anno 1620, i 3 […] dove istituì il q. Sign. Giouani Fidenti una manzionaria all’Altare di S. Bernardo posto nella mia Chiesa Parochiale di S. Tomio, avviò li fosse celebrata una Messa quotidiana, e come nel suo testamento del dì, come sopra, lasciando alli suoi eredi il ius patronato per l’elezione del Cappellano […]255.

I dettagli dell’alterco nato tra il Cappellano e il Reverendo Giovan Battista Breonio, mostrano che il litigio sorse evidentemente a causa dello sgarbato e irrispettoso comportamento di quest’ultimo, ma permette altresì di sottolineare un fatto non poco

252 La pittura nel Veneto, il Seicento, a cura di M. Lucco, Milano, 2000, pgg. 329-334. 253 G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pgg. 93-94. 254 Si confronti il documento 14 in Appendice documentaria, pg. 166. 255 Si veda il testo integrale in Appendice documentaria, documento 15, pgg. 166-172. 76 importante a riguardo, e cioè che l’altare in questione, quello di San Bernardo, era uno dei tre “altari dotati” all’interno di San Tomio, insieme a quello di S. Mammaso256, protettore dell’Arte dei Formaggeri 257 e a quello dedicato alla Madonna della Misericordia. Nella Visita Apostolica del 1553 è infatti scritto:

[…] Quorum tria sunt dotata videlicet Altare S. Mariae a misericordia cuius dotis fructus sunt libre 200. […] Altare S. Bernardi dotatum cuius fructus sunt ducati octo vel circa in anno cum onere celebrandi singula hebdomada in die martis. […] Altare S. Mammae dotatum cuius fructus sunt sex ducati in anno cum onere unius missae in hebdomada in die Jovis […]258.

L’altare di S. Mammaso sorse nel 1444, ma la sua cappellania non ebbe lunga vita poiché “essendo vacante la cappella «propter absentiam et privationem» dell’ultimo «rettore» di essa Don Gerardo da Reggio” 259 , nel 1477 viene eletto un nuovo cappellano. Si hanno notizie dell’altare fino al 1553, poi nelle Visite Apostoliche successive i vescovi tacciono a riguardo poiché l’Arte si era trasferita nell’oratorio dedicato al Santo patrono e, in seguito, nella chiesa di S. Eufemia. Nel 1842, quando San Tomio divenne di nuovo chiesa, l’Arte dei Formaggeri vi fece ritorno insieme alla pala del santo che decorava il suo altare. Dell’altro altare dotato, quello di S. Maria della Misericordia, si hanno notizie a partire dal 1526 grazie alla descrizione di un inventario che ne elenca le suppellettili e inoltre, sappiamo che nel 1628 la pala che vi era affissa precedentemente, venne sostituita con quella di Carlo Bonone rappresentante Maria Vergine, la Carità e San Giovanni. Ma un’altra Arte era presente all’interno di San Tomio, quella dei Pezzaroli, i quali risultavano avere come propria sede l’altare di S. Martino, che a sua volta venne costruito e decorato molto probabilmente durante il parrocchiato di Gabriele Onofri.

In addietro, e, molto meno, in antico, nessuna traccia, in S. Tomio, né dell’Arte affidatasi alla protezione di S. Martino, né di un altare intitolatogli, all’infuori della

256 San Mammaso fu un martire di Cesarea che visse sotto l’imperatore Aureliano. 257 Si confronti V. Chilese, “La ricchezza delle corporazioni ed il suo utilizzo. Il caso di Verona in età moderna”, in Studi storici Luigi Simeoni, Istituto per gli studi storici veronesi, Vol. LV, (2005), pgg. 215-233. 258 Estratto della Visita Apostolica del 1553, in G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pgg. 145-146. 259 G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 73. 77

tardiva documentazione della Visita 7 agosto 1640, che, si riporta ad un’epoca anteriore, forse non lontana: dunque, probabilmente al rettorato di Don Onofri260. L’altare in questione avrebbe custodito una delle ultime pale che decoravano la chiesa prima della sua chiusura; sia il Biancolini che il Lanceni riportarono nei loro scritti la presenza della pala di Andrea Voltolini rappresentante il partono dell’Arte dei Pezzaroli, San Martino261.

La storia degli altari, delle Confraternite, delle Arti che crebbero all’interno di questa chiesa, mi portano a considerare un ulteriore fatto, ormai evidente. San Tomio era una parrocchia viva e ricca di accoliti, che soprattutto durante il rettorato di Gabriele Onofri vide la sua massima fioritura attraverso la costruzione di un nuovo altare, quello dei Pezzaroli, l’installazione in situ del telero del Bassetti raffigurante l’Incredulità di S. Tommaso, insieme al San Pietro e alla pala del Bonone, tutte terminate nel 1628, esattamente due anni prima della morte di Don Gabriele Onofri; e ancora, nel 1624, venne affissa all’altare di S. Bernardo la pala di Alessandro Turchi, seguita poi da quella del Prunati e del Voltolini sul finire del Seicento. Come scrisse il Crosatti circa settant’anni fa, “non si può affermare, se e quale parte attribuire a Don Onofri, riguardo alle opere dei detti due pittori”262, ma resta comunque un fatto indiscutibile che la maggior parte delle pale presero posto, nei rispettivi altari, esattamente durante il suo parrocchiato. E la famiglia Padovani? Quale posto occupa nella storia di questo altare? Soffermiamoci per un attimo sul lavoro che svolgeva all’interno della contrada di San Tomio. La voce dell’estimo recitava Vitrinius ab insigne Navis263. L’insegna, di certo posta in bella vista, doveva distinguere la bottega dagli altri empori presenti nelle zone limitrofe. A Verona, come abbiamo detto, vi erano numerose Corporazioni che, distribuite e sviluppatesi in diverse e specifiche aree della città, molto spesso facevano costruire un proprio altare, con pala annessa, in onore del loro santo protettore.

260 Ivi, pg. 104. 261 La pala venne poi sostituita, come riporta lo Zannandreis, da un dipinto di Domenico Zanconti. 262 Ivi, pg. 98. 263 Nelle Allegoriae quaedam Scripturae Sacrae, è scritto che “Iesu Nave imaginem Salvatoris expressit, qui nos in terram repromissionis induxit, et in regnum caelestis gloriae collocavit”: “Gesù espresse con la Nave l’immagine del Salvatore, che ci condusse nella terra della promessa di redenzione, e ci collocò nel regno della gloria celeste”. A. Montanaro, “L’insegnamento dei Padri sul culto al SS. Nome”, in Il Culto al SS. nome di Gesù. Teologia, Storia, Liturgia, Napoli, 1958, pg. 61. 78

[…] in S. Maria della Scala: gli Speziali, i Fabbri e Calderai, i Sensali o Mediatori, i Calzolai, i Battilana, i Torcolotti (o portatori di vino); in S. Fermo Maggiore i Barcaioli e i Falegnami; in S. Maria in Organo i Radaroli; in S. Pietro Incarnario i Lapicidi e Muratori; in S. Eufemia i Pistori, i Bombardieri, gli Osti e i Merzari; in S. Anastasia i Mugnai; in S. Maria Antica i Sarti; in S. Tommaso Cantuariense i Linaroli e i Tintori; in S. Pietro in Monastero (S. Peretto) i Barbieri ecc264.

La Corporazione dei Fabbri operava in S. Maria della Scala, situata in una traversa di via Mazzini, vicinissima alla contrada di San Tomio (fig. 38), e comprendeva di certo al suo interno anche i “vetrai”, poiché Verona, a differenza di Venezia, non possedeva un’Arte che si occupasse della lavorazione artistica del vetro, di conseguenza i vetrai non potevano che essere dei semplici tagliatori, dei fabbri. Evidentemente questa famiglia di vetrai, appartenente alla parrocchia di San Tomio e stabilitasi nella contrada a partire dal 1572, come registrata nell’estimo, deve aver voluto come proprio altare quello intestato alla Compagnia del Nome di Gesù già dal 1553. Probabilmente i componenti della famiglia De Paduanis erano membri della Confraternita, quando ancora non risultava avere pauca legata, né essere mancante di una legittima istituzione, ma operosa e al culmine delle loro attività.

Crosatti riporta:

Addì 4 giugno 1629 muore Giovanni Padoani, ed è tumulato «nella sepoltura posta avanti l’Altar del S. mo Nome di Gesù in S. Tomio, da essi Signori Padoanni (sic) con bellissima struttura restaurato et adornato»265.

Adornato dalla pala del Ridolfi, la quale risultava collocata sull’altare da poco più di dieci anni.

264 L. Rognini, “Le arti minori”, in Chiese e monasteri a Verona, a cura di G. Borelli, Verona, 1980, pg. 582. 265 G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pg. 92.

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TERZA PARTE

ICONOLOGIA DI UN DIPINTO: l’immagine specchio di una Compagnia e di un committente

[…] quando, il giorno del giudizio, essendosi tutte le anime liberate dalla corruzione della carne, entreremo nella corte esterna del regno dei cieli per contemplare eternamente il volto del Creatore. Se ne ha la prefigurazione nella circoncisione dei piccoli nel tempio del Signore in Gerusalemme […]. Il tempo di quest’ingresso tanto a lungo bramato […] è quell’ottavo giorno in cui si celebra la circoncisione. [Inoltre] la pratica quotidiana della virtù […] è la nostra giornaliera circoncisione, vale a dire la continua purificazione del cuore, che mai manca di celebrare il sacramento dell’ottavo giorno […] così detto perché esso esemplifica il giorno della Resurrezione del Signore266.

266 Venerabile Beda, In die festo circumcisionis domini, op. cit., in L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’epoca moderna, Milano, 1986, pp. 53-54.

III ICONOLOGIA DI UN DIPINTO: l’immagine specchio di una Compagnia e di un committente.

III.1 LA CIRCONCISIONE: UN RITO ANTICO

Colui che dimorava in alto Troneggiante in segreta beatitudine, per noi fragile polvere ha svuotato la sua gloria, fino alla nudità267.

Il dipinto descrive nei dettagli il rito ebraico268 e, ad un primo sguardo, più che metterne in risalto l’aspetto celebrativo, ne esalta quello intimo. L’episodio viene inquadrato all’interno di due grandi colonne tortili collocate sullo sfondo, al centro delle quali sono il Gran Sacerdote e il Cristo bambino. Sono presenti Maria, in primo piano, e San Giuseppe, sullo sfondo a destra, che assistono al rito. Simeone accoglie il Bimbo, mentre colui che ritualmente pratica il rito della circoncisione269 (Brit Milah) è il personaggio seduto in primo piano, Mohel270. Sullo sfondo alcune figure recano dei ceri, richiamo evidente alla Candelora, mentre davanti,

267 “[…] he, that dwelt above / High-throned in secret bliss, for us frail dust / emptied his glory, even to nakedness;”. J. Milton, Upon the Circumcision, op. cit., in L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’epoca moderna, Milano, 1986, pg. 61. 268 Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 76. 269 Il termine Circoncisione deriva dal latino circum – caedo e dal greco περι – τέμνω, letteralmente “tagliare in tondo”. Mentre negli scritti di Omero il verbo aveva assunto un significato traslato come quello di rapinare o sottrarre, in Erodoto, e negli scrittori successivi, il verbo circoncidere indicherà il vero e proprio atto di recidere la carne. 270 Il rito della Circoncisione veniva eseguito con un coltello di selce (né di ferro, né di bronzo), segno che la cerimonia aveva origini molto antiche; Landolfo di Sassonia scrisse nel suo libro sulla Vita di Giesu Christo che “si faceua la circoncisione co coltelli di pietra, perche la pietra era Christo”. Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo nostro redentore scritta da Landolfo di Sassonia dell’ordine certosino. Et di nuovo tradotta da M. Francesco Sansouino. Nella quale con pia et santa dottrina si espongono con facilità gli Evangelij che corrono in tutto l’anno secondo le sentenze de Santi et più approuati Dottori. Et con più diuote meditazioni et Orationi conformi all’Euangelio. Opera non meno necessaria a Predicatori et Parrocchiani, i quali nelle feste principali dichiarano l’Euangelio à popoli loro, che ad ogni altro Christiano che desideri uiuer secondo la santa fede Cattolica. Con le tavole de Vangeli correnti per tutto l’anno et delle cose notabili, et de capi principali poste à loro luoghi, in Venetia: appresso Iacopo Sansouino il Giouane, 1570, Cap. X, c. 26, v.; Si veda in proposito Le immagini bibliche, Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia, a cura di L. Ryken, J. C. Wilhoit, T. Longman III, Milano, 2008.; G. Heinz-Mohr, Lessico di iconografia cristiana, Vicenza, 1984, pg. 104. Per quanto riguarda la figura di Mohel, molto rare sono le opere in cui viene rappresentato seduto sullo “scranno di Elia”, soprattutto nella tradizione italiana; di solito il rito veniva eseguito in piedi vicino ad un altare. Si confronti l’opera di Fra Ugolino da Prete Ilario in cui il vecchio Simeone compare seduto sul trono mentre regge il Bambino; l’affresco è situato nel coro della Cattedrale di Orvieto ed è stato eseguito tra il 1370 e il 1384. 82 sotto l’affilata mano di Mohel, due bambine tengono a bada in una cesta due colombe bianche271 che verranno offerte in sacrificio. La luce calda delle candele illumina le figure poste in primo piano, mentre lascia in una soffusa penombra i personaggi sullo sfondo, tra i quali è presente Giuseppe che si sorregge al suo bastone, senza prestare particolare attenzione al rito che si sta compiendo sotto i suoi occhi. Si tratta infatti di un’azione che si sta ancora svolgendo pur essendo già stato eseguito il taglio del prepuzio: il levita272 alla sinistra del Gran Sacerdote (quasi un pastore bassanesco) si sporge in avanti, sull’altare, ed è intento nella lettura di alcuni passi di un testo sacro, probabilmente riferiti al rito della Circoncisione poiché tiene ferme con entrambi gli indici alcune parti del libro273. La figura alle spalle di Simeone sorregge uno scrigno dorato, chiuso, con delle bende poste sulla sommità. Il panno bianco sotto il corpo del Bambino reca alcune macchie di sangue, segno che il rito è stato appena compiuto e il coltello274 è ancora nelle mani di Mohel275. I personaggi che partecipano all’evento sono tutti in primo piano con lo sguardo rivolto verso il Bambino; soltanto le due coppie poste ai lati della tela, una composta dai due giovani (uno recante un cero) all’estrema sinistra, l’altra formata da San Giuseppe e il suo interlocutore, non soffermano il loro sguardo sul corpo di Gesù. Queste due coppie simmetriche, posizionate ai margini del dipinto delimitano lo spazio, chiudono il cerchio che si stringe intorno al Cristo bambino e sottolineano la presenza delle due colonne salomoniche sullo sfondo, appena visibili, che permettono di stabilire il luogo (“non – luogo”) in cui si sta svolgendo la Circoncisione. Boccaccio Boccaccino, artista cremonese, nel 1516 – 1517 eseguì un affresco con la Circoncisione di Cristo per il Duomo della sua città. Credo sia doveroso citare

271 Vorrei ricordare a questo proposito un dipinto francese (di cui non conosciamo l’autore), eseguito nei primi anni del Cinquecento, che rappresenta una Circoncisione. Il pittore, in questo caso, non raffigurò le consuete colombe bianche da offrire in sacrificio, ma uno scoiattolo. Questo scambio, apparentemente curioso, non deve affatto stupire poiché lo scoiattolo prefigura il sacrificio, così come il sangue versato per la prima volta da Cristo bambino prefigura la sua Passione.; A. Gentili, “Lotto, Cariani e storie di scoiattoli”, in Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, X, n. 20, 2000, pgg. 11-14. 272 Al levita era riservata la funzione di ministro del culto, era un aiutante del sacerdote presente durante le celebrazioni. 273 Ho cercato di vedere se si riuscisse a leggere qualcosa nelle due pagine aperte del libro; l’unico particolare ben visibile è la loro suddivisione in colonne. 274 Nella prima lettera ai Corinzi (10, 4) viene specificato che la Circoncisione avveniva con un coltello di pietra poiché petra erat Christus. Cfr. Io. 1, 17. 275 Per avere un’idea di cosa dovesse essere assistere ad una Circoncisione, cito l’episodio accaduto a Michel de Montaigne nel gennaio del 1581 quando visitò una sinagoga di Roma. Nel suo Viaggio in Italia narra appunto di aver assistito ad una Circoncisione; l’atmosfera in cui si trovò immerso fu un coacervo di voci sovrapposte, canti e recitazioni di preghiere. Un brusìo continuo e confusionario che gli rimase fortemente impresso tanto da riportarlo nei suoi scritti. 83 quest’opera276 non tanto per il tema trattato, quanto per una sua peculiarità che mi permetterà di arrivare al nocciolo del discorso. Nell’affresco del Boccaccino (fig. 39), sullo sfondo, a sinistra della colonna posizionata centralmente277 in primo piano, c’è una scritta in lingua ebraica; il significato di questa iscrizione è Beth Ha – Miqdash, cioè Tempio di Gerusalemme. Il pittore voleva evidentemente sottolineare il luogo in cui veniva compiuto il rito, un luogo di cui però nelle Sacre Scritture non viene data una precisa indicazione. Una soluzione deduttiva ha portato i teologi a pensare che il luogo fosse lo stesso della nascita, Betlemme, poiché soltanto in seguito la famiglia si recherà a Gerusalemme, nel Tempio, per presentare il loro primogenito278. Parallela a questa versione corre la versione “ufficiosa”, quella apocrifa dello Pseudo- Matteo, nella quale si attesta che il rito della Circoncisione venne eseguito sia all’interno del Tempio, sia nella città di Betlemme.

Il sesto giorno entrarono in Betlemme, dove passarono il giorno settimo. L’ottavo giorno circoncisero il bambino e gli diedero nome “Gesù”, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito. Terminati i giorni della purificazione di Maria, secondo la Legge di Mosè, Giuseppe condusse il bambino al tempio del

276 R. Venturelli, “Il nome del Tempio. La Circoncisione del Boccaccino e la controversia cristiano – giudaica sull’Incarnazione”, in Venezia Cinquecento. Studi di Storia dell’arte e della cultura, XII, 2002, n. 23, Appendice, pgg. 175-194. 277 Nella simbologia cristiana, la colonna posta al centro di un dipinto simboleggiava l’Incarnazione; nella Circoncisione del Mantegna del 1470 la colonna è collocata esattamente al centro della composizione, luogo in cui sta per compiersi il rito. Anche nel dipinto dell’Annunciazione di Filippo Lippi, eseguito all’incirca nel 1440, la colonna occupa un ruolo preminente, scandisce lo spazio e rimarca il significato dell’evento; Ibidem.; Un esempio successivo del significato specifico, che permane nel corso dei secoli, attribuito alla colonna, viene fornito anche da P. P. Rubens nell’Adorazione dei Magi del 1609, eseguita subito dopo il suo viaggio in Italia. Nel dipinto, la grossa colonna scanalata viene posta dal pittore esattamente sopra la figura della Vergine, manifestazione visibile, “epifanica”, del Verbo incarnato. 278 Landolfo di Sassonia nel capitolo XII dedicato alla Presentazione del Signore al Tempio specifica chiaramente che il luogo in cui avvenne la Circoncisione fu la città di Betlemme. Dice infatti: “(Et portarono il bambino) prima circonciso, di Bethleem (in Gierusalem) accioche secondo la legge (offerissero) o presentassero (al Signore) nel Tempio (& per dar la hostia) o fare il sacrificio (un paio di tortore, o due colombini) per lui”. Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo nostro redentore scritta da Landolfo di Sassonia dell’ordine certosino. Et di nuovo tradotta da M. Francesco Sansouino. Nella quale con pia et santa dottrina si espongono con facilità gli Evangelij che corrono in tutto l’anno secondo le sentenze de Santi et più approuati Dottori. Et con più diuote meditazioni et Orationi conformi all’Euangelio. Opera non meno necessaria a Predicatori et Parrocchiani, i quali nelle feste principali dichiarano l’Euangelio à popoli loro, che ad ogni altro Christiano che desideri uiuer secondo la santa fede Cattolica. Con le tavole de Vangeli correnti per tutto l’anno et delle cose notabili, et de capi principali poste à loro luoghi, in Venetia: appresso Iacopo Sansouino il Giouane, 1570, c. 31.; Ancora, Jack M. Greenstein cita, tra le opere elencate a proposito del tema della Circoncisione, una raffigurazione del rituale che sta avvenendo “davanti o all’interno della grotta della Natività”. Lo storico si riferisce ad una illustrazione armena tratta da un Vangelo che risale alla fine del XIII secolo. Jack M. Greenstein, Mantegna and painting as historical narrative, Chicago-London, 1992, Chapter 6, pg. 152. 84

Signore. Quando il bambino ricevette la “peritomè”279, offrirono un paio di tortore o due piccini di colombe280.

Ma torniamo alle fonti “ufficiali”. Luca, nel suo Vangelo, dedica poche righe al rito giudaico della Milah (Lc. 2, 21-22), mentre si sofferma maggiormente sull’episodio della Presentazione al Tempio (Lc. 2, 22-38) 281 . Un passo segue l’altro, entrambi vengono descritti come due episodi strettamente legati e per questo molto spesso confusi e miscelati insieme, anzi, rari sono i casi in cui i fatti vengono distinti cronologicamente. La Circoncisione del Ridolfi subì la stessa sorte; venne confusa dal biografo Ridolfi in primis e da Bartolomeo Dal Pozzo poi, con una Purificazione della Vergine; soltanto in seguito lo storico si accorse dell’errore e precisò anche la posizione della pala affermando che era collocata “al primo (altare) laterale destro fuori dalla balaustra”282. Lo stesso Giuseppe Trecca, nella compilazione del catalogo della Pinacoteca Comunale di Verona avvenuta nel 1912, così descrisse il dipinto del Ridolfi:

Il Sacerdote, con mitra assistito da due ceroferari ha già circonciso il Bimbo, e lenisce il taglio; la Vergine inginocchiata mira la cerimonia a mani giunte. Un assistente legge le preci; S. Giuseppe con uno, che vorrebbe essere il padrino, sta nel fondo. Dall’altro lato, una vecchia seduta (scambiata forse con Anna profetessa della presentazione) ha preparato la fascia per la ferita; accanto a lei, spettatori: sotto, due bimbi giocano con le colombe portate dai santi sposi. È un miscuglio di cerimonie del battesimo cattolico e della circoncisione ebraica; una confusione di questa con la presentazione al tempio. Era nella chiesa di s. Tomio283.

Escludendo dalla nostra trattazione l’evidente errore iconografico, risulta necessario soffermarsi sulla consueta e ormai assodata confusione dei temi. Ne consegue infatti che spesso i pittori, nel dipingere questo specifico episodio, più che tener fede ai passi

279 Il termine περιτομή venne utilizzazo a partire dal II secolo a. C. e stava ad indicare unicamente il rito della Circoncisione. Il termine ’απερίτμητος indicava l’ “incirconciso”, il “non mutilato”. 280 Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di L. Moraldi, Vol. I, Asti, 1994, pg. 365. 281 “But read as an account of a series of more or less chronologically distinct events, Luke’s Gospel provides very little information about what was “done and seen” at the Circumcision”. Jack M. Greenstein, Mantegna and painting as historical narrative, Chicago-London, 1992, Chapter 6, pg. 143. 282 C. Ridolfi, Le meraviglie dell’arte ovvero le Vite degli illustri pittori veneti e dello Stato, Venezia, 1648.; B. Dal Pozzo, Le vite de’ Pittori, degli Scultori et Architetti Veronesi, Verona, 1718.; Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994. 283 G. Trecca, Catalogo della Pinacoteca Comunale di Verona, Bergamo, 1912, pg. 72. 85 evangelici furono vincolati dall’importanza che man mano questo rito venne ad assumere284. Non deve dunque stupire il fatto che venga di frequente, e nei diversi secoli, collocato all’interno di un luogo sacro, spesso riccamente decorato, proprio per conferirgli maggiore rilievo. Nel suo affresco il Boccaccino aveva il chiaro intento di porre in evidenza il Tempio e la figura di Cristo bambino, proprio perché il Tempio di Gerusalemme rappresentava il corpo di Cristo, inteso come Ecclesia; come il Tempio venne distrutto e poi di nuovo ricostruito dalle fondamenta, così Cristo, dopo aver subìto la Passione, risorse dalla morte. Questa corrispondenza tra Corpo e Tempio viene ripresa anche da Giovanni nel suo Vangelo e, in seguito, anche Sant’Agostino si soffermerà sul tema dell’edificazione del Tempio di Salomone.

Gli ribatterono i Giudei dicendogli: “Che segno ci mostri per poter far questo?” Rispose Gesù dicendo loro: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò sorgere”. Allora i Giudei replicano: “Quarantasei anni ci son voluti a costruire questo tempio e tu in tre giorni lo faresti sorgere dalle fondamenta? Ma egli intendeva parlare del tempio del suo corpo285.

L’affresco del Boccaccino è stato un pretesto per introdurre e approfondire un argomento, quello dell’iconologia del Tempio di Salomone, che interessa da vicino anche la Circoncisione dipinta dal Ridolfi. Ho sottolineato spesso la presenza in questo quadro delle due colonne perché, pur passando facilmente in secondo piano rispetto al resto dei soggetti rappresentati, sono le uniche strutture architettoniche che conferiscono alla tela una dimensione spaziale alla scena, anche se minima. La colonna è sempre stata un elemento architettonico essenziale, poiché essa rappresentava l’asse lungo il quale veniva articolato l’intero edificio e, allo stesso tempo, il perno che ne garantiva la stabilità; due colonne poste l’una accanto all’altra

284 “[…] il formarsi di una tradizione iconografica relativa all’episodio della Circoncisione dipese dunque, più che dallo stringatissimo passo evangelico, dal peso che questo episodio assunse nell’ermeneutica cristiana e dalla conseguente importanza conferita dal calendario alla relativa festività, collocata al primo di gennaio”.; R. Venturelli, “Il nome del Tempio. La Circoncisione del Boccaccino e la controversia cristiano – giudaica sull’Incarnazione”, in Venezia Cinquecento, studi di Storia dell’arte e della cultura, XII, 2002, n. 23, Appendice, pg. 183.; Jack M. Greenstein, in Mantegna and painting as historical narrative, costruisce tutto il suo discorso intorno ad un unico dipinto, la Circoncisione del Mantegna, proprio perché è uno di quei temi biblici che non ha dei riferimenti puntuali e ben descritti da poter essere riportati fedelmente in un dipinto. Infatti così scrive: “And further, that the artistic problems inherent in producing a painting whose structure of significance matched that of Albertian – that is, late medieval – historia led Mantegna to an understanding of the Circumcision of Christ which had (and ideed could have had) no precise parallel in theological literature”. Jack M. Greenstein, Mantegna and painting as historical narrative, Chicago-London, 1992, pg. 7. 285 Il Tempio – Corpo di Cristo diventa carne che riveste il Verbo.; Gv. 2, 18-21.; Cfr. Dn. 9, 24-27. 86 erano in grado di aprire un varco, di stabilire dei limiti, dei confini oltre i quali si attraversava la soglia di un altro mondo286. La colonna poteva unire la Terra al Cielo dando luogo al “matrimonio” mistico tra due sfere287 infinitamente distanti288. Innumerevoli sono state le interpretazioni formulate a riguardo, e tutte, in modi differenti, hanno messo in luce il profondo significato spirituale insito nella simbologia delle colonne del Tempio gerosolimitano. All’interno della Bibbia vennero distinte due serie di colonne: quelle del grande vano ipostilo del Palazzo, che servivano da passaggio per le entrate regali descritte all’interno del I Libro dei Re289e quelle costruite in bronzo e metallo sacro, segno dell’alleanza indissolubile del cielo e della terra, garanzia dell’eterna stabilità di quel patto.

Salomone rizzò le colonne nel portico del Tempio; una a man destra, e le pose nome Iachin; e l’altra a man sinistra, e le pose nome Boaz. E mise il lavoro fatto in forma di giglio in cima delle colonne. E così fu compiuto il lavoro delle colonne290.

Il nome dato alla colonna di destra evocava in ebraico l’idea di solidità e stabilità, Iachin, letteralmente “Egli ha stabilito”, mentre la colonna di sinistra suggeriva l’idea della forza, Boaz, cioè “Vi è forza in lui”. Le due colonne unite insieme stavano a significare che “Dio stabilì nella forza, saldamente, il tempio e la religione di cui egli è il centro”291 e, allo stesso tempo, rappresentavano i due pilastri esterni dell’Albero delle Sephiroth (figg. 40-41), poiché questo era appunto suddiviso in tre colonne292: quella

286 “Les colonnes indiquent des limites et généralement encadrent des portes. Elles marquent le passage d’un monde à un autre […]”. J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dictionnaire des symbols. Mythes, reves, coutumes, gestes, forms, figures, couleurs, nombres, France, 1969, pg. 221. 287 “A ce propos, G.G. Scholem évoque l’image du hieros gamos du ciel avec la terre et le symbolisme gothique de la colonne […]”. Ibidem. 288 A riguardo vorrei riportare un’ulteriore esempio, pertinente alla simbologia delle colonne, tratto dagli “avvertimenti” che l’Aldrovandi rivolse al Paleotti riguardo alcuni capitoli della sua opera dedicata al Discorso intorno alle imagini sacre e profane. Così dice: “Scrivono alcuni istorici che Seth, figliuolo di Adamo, scrisse la scienza dell’astrologia in due colonne: una delle quali, essendo presago che il mondo avea a perire, era construtta di mattoni, acciocché dal fuoco non fosse danneggiata; l’altra fece di pietra soda, acciò dall’acqua non fosse rovinata. E tutto questo fece a fine che in tutti i modi la scienza de l’astrologia restasse perpetua”. Le colonne vengono descritte come pilastri imperituri, resistenti agli agenti atmosferici, solide e, in riferimento alle parole dell’Aldrovandi, portatrici di un sapere. U. Aldrovandi, “Avvertimenti al Card. Paleotti” in Trattati d’arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, Bari, 1961, pg. 511. 289 Libro dei Re, 7, 2-6. 290 I Libro dei Re, 7, 21-23.; per una descrizione completa della costruzione del Tempio si consultino i passi 6, 7, 8 nel I libro dei Re. 291 J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dictionnaire des symbols. Mythes, reves, coutumes, gestes, forms, figures, couleurs, nombres, France, 1969, pgg. 221-224. 292 In ebraico gimel kavim, significa “tre linee”. 87 centrale, Kheter, che stava a simboleggiare la colonna della Coscienza, quella di destra, detta Khokhmah, rappresentava il pilastro della Misericordia, e infine quella di sinistra, Binah, colonna del Rigore. Quest’ultima indicava, Boaz, la colonna degli aspetti femminili, della forma, della passività e veniva rappresentata di colore nero; Jachin, la colonna di destra, era invece il fondamento della forza, delle componenti maschili, della condizione attiva ed era di colore bianco; la più importante, quella centrale, Kheter, era il principio dell’equilibrio, della coscienza, il pilastro “della Conciliazione” o Bilancia, che univa il maschio alla femmina, l’attivo al passivo, la forza alla forma293. La colonna centrale aveva dunque al suo interno le quattro Sephirot corrispondenti a Kheter (Corona), Tiphereth (Bellezza), Yesod (Fondamento) e Malchut (Regno): nello Zohar o Libro dello Splendore, era scritto infatti che “nell’epoca messianica la Colonna centrale” avrebbe assicurato “il nutrimento per ciascuno”294. Così parlò Salomone durante la consacrazione del Tempio:

[…] acciocchè gli occhi tuoi sieno aperti, notte e giorno, verso questa Casa; verso il luogo del quale tu hai detto: Il mio Nome sarà quivi; per ascoltar l’orazione che il tuo servitore farà, volgendosi verso questo luogo. Esaudisci adunque la supplicazione del tuo servitore, e del tuo popolo Israele, quando ti faranno orazione, volgendosi verso questo luogo295.

Questo sacro luogo, identificato nelle due colonne salomoniche, divenne non solo simbolo della nuova Chiesa, ma portò numerosi studiosi, soprattutto negli anni a cavallo tra Cinque e Seicento296, ad intraprendere uno studio approfondito e sistematico della struttura dell’intero Tempio gerosolimitano, rivolgendo particolare attenzione alle colonne bronzee del vestibolo e alla straordinaria importanza data all’interpretazione della loro forma e configurazione intrinseca.

293 “D’autres auteurs, comme Oswald Wirth, ont aperçu dans les noms de ces colonnes des significations sexuelles, celle de droite exprimant le principe actif ou la masculinité, celle de gauche, le principe passif ou la féminité; de là, un symbole de fécondité, tout au moins spiritelle, les deuz colonnes marquant l’entrée et la sorti edu sanctuaire, qui est réceptacle, centre et véhicule des forces divines”. Ivi, pg. 223. 294 Le Zohar, Trad. di Ch. Mopsik, op. cit. in C. Hirsch, L’Albero, Trad. di C. Fiorillo, Roma, 1988, pg. 40. 295 I Libro dei Re, 8, 29-30. 296 “[…] ciò che è importante sottolineare è l’influenza che l’Idea del Tempio di Salomone ha avuto nella definizione e codificazione dei testi controriformistici per lo sviluppo dell’arte post-tridentina; l’obbiettivo è difendere l’arte sacra dal paganesimo e dal protestantesimo, canonizzando una iconografia cattolica, rigorosamente fondata sulle Sacre Scritture, sulla letteratura patristica e la dottrina medievale”. S. Tuzi, Le Colonne e il Tempio di Salomone. La storia, la leggenda, la fortuna, Roma, 2002, pg. 103. 88

III.2 UN’AMBIZIOSA TRATTATISTICA: ESEGESI DI UN MODELLO DIVINO

Di un modello divino si tratta, ispirato e descritto da Dio attraverso la voce di un profeta, Ezechiele. La complessità del suo racconto, nonostante le chiarezza e precisione dei passi in cui viene descritto il futuro regno messianico, ha fatto sì che in passato ci si interrogasse frequentemente su quale fosse il Tempio da prendere a modello; se quello immaginato da Ezechiele o quello effettivo costruito da Salomone. Il primo a porsi questo dubbio fu San Gerolamo, il quale pose la questione soltanto su un piano allegorico, arrivando infine alla conclusione che il Tempio descritto dal profeta non corrispondesse affatto con quello eretto dal Re Salomone. Dopo il Commentarium di San Gerolamo, innumerevoli furono gli studiosi che, a partire dal XII secolo, si soffermarono sul tema, sino alla stesura di un trattato che reca la data del 1694. Ma le teorie continuarono a susseguirsi anche nei secoli successivi fino alla metà del XIX secolo, quando Luigi Canina riprendendo le ipotesi apportate da Claude Perrault297, aprì la strada ad un nuovo criterio di indagine riguardo lo studio delle storiche colonne salomoniche, uno studio scientifico e archeologico, non più esegetico come lo era stato per secoli. È proprio su quest’ultima analisi, quella esegetica, che ritengo sia necessario rivolgere un’attenzione particolare. Due furono gli autori, entrambi gesuiti spagnoli, che studiarono e ampliarono la tematica del Tempio profetizzato da Ezechiele, elaborandone un trattato di tre volumi che venne pubblicato per la prima volta nel 1596 e in seguito nel 1606 a Roma. Lo scritto intitolato Hieronimi Pradi et Joannis Baptistae Villalpandi e Societate Jesus in Ezechielem Explanationes et Apparatus Urbis ac Templi Hierosolymitani298 si proponeva di attestare e dimostrare che l’edificio descritto dal profeta fosse esattamente uguale a quello di Salomone “in quanto Dio, supremo architetto, si era servito di quest’ultimo per costruirlo e di Ezechiele per farlo conoscere”299. Il Tempio, nei disegni del gesuita Villalpando, era rappresentato come una struttura che ricalcava perfettamente le divine proporzioni, persino nella descrizione degli arredi liturgici, ed era chiaro l’obiettivo dei due autori di voler fare confluire i caratteri della

297 Secondo Claude Perrault l’architettura del Tempio di Salomone poteva essere paragonata a quella egiziana, ritenuta probabile matrice nella costruzione dell’edificio. Ivi, pg. 148. 298 Questo scritto ebbe un’immensa diffusione in quegli anni, sia perché venne considerato come una sorta di “commentario teologico”, sia perché rappresentava uno degli studi più approfonditi e a tutto tondo dello storico Tempio di Salomone. Ivi, pg. 130. 299 Ivi, pg.131. 89 cultura classica con i principi vitruviani particolarmente familiari sia al Villalpando che a Jeronimo Prado, entrambi provenienti dalla stessa formazione.

Uno dei temi più importanti, diretta conseguenza dei principi controriformistici, riguarda la visione dell’architettura classica; il trattato vuole costituire un’armonizzazione tra Umanesimo e Controriforma selezionando i caratteri ritenuti dagli autori essenziali della cultura classica per fonderli in modo originale con la tradizione biblica e cristiana300.

Secondo i due studiosi, la profezia di Ezechiele definiva chiaramente lo stile delle colonne del Tempio come una struttura “mista”, cioè formata da un fusto corinzio e da una trabeazione dorica, con un capitello composto di foglie di palma301 e frutti, al posto dell’acanto. Dunque da una commistione di stili, da un ordine “misto”, composto dalle descrizioni tratte dalla Bibbia e dagli elementi dell’architettura classica, nasce la colonna corinzia, posta all’interno del Tempio come unico e possibile esempio di stile, poiché il solo in grado di rappresentare la Nuova Chiesa.

Questo ordine ha la sua matrice nelle colonne di bronzo del vestibolo che “son norma de las demás” ed è la base di un sistema proporzionale che si estende all’intera fabbrica302.

Lo stesso Filippo II decise di utilizzare due diversi ordini all’interno del palazzo dell’Escorial; uno dorico e l’altro corinzio, affinchè rappresentassero rispettivamente il Vecchio Testamento e la nascita della Nuova Chiesa di Cristo. La scelta dell’ordine corinzio era derivata inoltre dal fatto che l’ampiezza delle colonne descritta nei testi sacri con una circonferenza di dodici cubiti, era stata ridotta, nell’interpretazione data da Villalpando, all’esatta metà poiché secondo lo studioso, la traduzione esatta del termine “utramque” sarebbe stata “entrambe” e non “ciascuna”,

300 Ivi, pg. 132. 301 L’Albero della Vita “in Early Christian art it was depicted as a palm tree, this symbolism being based upon Ezekiel, 41: 17-18 where it was said that palm trees decorated the temple of the Lord. The Tree of Life was also called 'palm tree' and 'Tree of the Cross' by Petrus Abelardus, in a poem entitled 'In Inventione Sanctae Crucis'”. M. Levi D’Ancona, The Garden of the Renaissance. Botanical symbolism in italian painting, Firenze, 1977, pg. 384. 302 Ivi, pg. 136. 90 come invece era stata interpretata erroneamente da alcuni303. Questa sua certezza fece sì che le colonne avessero un diametro decisamente inferiore a quello conosciuto e ormai assodato delle Sacre Sacritture, ma riguardo l’esile fusto scanalato non tardarono a scagliarsi numerose critiche, poiché la tesi del Villalpando non aveva alcun fondamento storico, dato che il Re Salomone visse molti secoli prima dell’avvento della Grecia classica. Ma il gesuita non si lasciò intimorire dalle voci contrarie, anzi avvalorò la sua tesi sostenendo che “Dio avesse ab initio utilizzato per il Tempio lo stile classico il solo che permettesse di raggiungere la perfezione e più tardi per qualche misterioso e provvidenziale motivo i greci ne erano venuti a conoscenza e lo avevano ripreso”304. C’era chi invece, al contrario di Villalpando e del collega Jeronimo Prado, riteneva che all’origine di tutti gli stili ci fosse proprio la salomonica colonna tortile. Pablo de Céspedes, tra il 1604 e il 1605, scrisse il Discurso sobre el templo de Salomon, nel quale sosteneva che l’origine dell’antica colonna derivasse dall’architettura della città orientale di Babilonia; ipotesi sostenuta grazie agli scritti di Strabone, Pausania e da alcuni passi della Bibbia, che conferirono una spiegazione convincente dell’insito naturalismo305 della colonna tortile. Al Discurso di Pablo de Céspedes si susseguirono gli scritti di Juan de Pineda del 1613, di Martín Esteban del 1617, di Jacob Judá León del 1642306, scritti nei quali ognuno di loro non fece che apportare modifiche o aggiunte al modello del gesuita Villalpando, che continuò con la sua opera a solleticare le menti degli studiosi perfino nel tardo Seicento, con i trattati di Roland Fréart de Chambray e dei teorici protestanti Nicolaus Goldmann e Leonard Christoph Sturm, pubblicati rispettivamente nel 1650 e nel 1694. Dando uno sguardo d’insieme alle date fin’ora menzionate, risulterà chiaro quanto studiate e discusse fossero le antiche colonne salomoniche, soprattutto nella “cattolicissima Spagna” a cavallo tra i due secoli, e quanto allo stesso modo, fossero

303 Così recita il passo riferito al vestibolo del Tempio: “Mi condusse poi nel vestibolo del santuario e ne misurò i pilastri: erano larghi cinque cubiti da ogni lato e la larghezza della porta era di quattordici cubiti, e i fianchi della porta tre cubiti da una parte e tre dall’altra. Il vestibolo era lungo venti cubiti e largo dodici. Si saliva al vestibolo per dieci gradini: e presso i pilastri stavano due colonne, una a destra e l’altra a sinistra. Poi m’introdusse nel santuario e ne misurò i pilastri: erano larghi sei cubiti da una parte e sei dall’altra […]”. Ezechiele, 40 – 41. 304 Ivi, pg. 141. 305 Pablo de Céspedes “sostiene che la sua genesi deve essere ricercata nelle forme vegetali dando così una spiegazione logica al naturalismo di questa forma e del suo strano atettonismo”. Ivi, pg. 143. 306 Nel 1624, Francesco Bacone ne La Nuova Atlantide, dedicò un passo della sua opera alla descrizione della “Casa di Salomone”, luogo in cui si ricercava la “conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose allo scopo di allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo”. F. Bacone, La Nuova Atlantide e altri scritti, op. cit. pgg. 36-46, in A. De Bernardi, S. Guarracino, Laboratorio storico dal Medioevo all’età Moderna, Vol. I, Milano, 1987, pg. 896. 91 divenute un modello importante e imprescindibile anche per gli artisti dell’epoca. Anch’essi si cimentavano nella raffigurazione di quelle strutture mitiche che probabilmente, più che essere fedeli immagini dei trattati, erano una vera e propria miscela di elementi ricavati dalla tradizione, dall’architettura, dal gusto del pittore e dalle sue “licenze artistiche”.

[…] spesso le visioni dell’edificio sono frammenterie, più tese a evocare che a descrivere e quindi l’identificazione del Tempio e di scene che si svolgono al suo interno, può avvenire non necessariamente con spazi, strutture o viste generali, ma attraverso alcune icone che lo rappresentano: elementi architettonici, oggetti che, isolati o combinati insieme, ci consentono di identificare il luogo o l’evento, poco importa se questi sono dedotti da dati storici o dalla tradizione o da entrambe le cose sovrapposte a costituire una nuova immagine307.

Il riconoscimento del luogo nel quale veniva rappresentato un determinato episodio biblico è di fondamentale importanza, soprattutto perché permette di chiarire in primo luogo molte altre scelte eseguite dal pittore. In questo caso, l’iconografia delle colonne tortili, rappresentava non solo lo spazio nel quale avveniva l’evento sacro, ma simboleggiava anche il carattere divino dell’architettura stessa. Lo stesso altare sacrificale, posto nel mezzo delle due colonne, figurava come lo stesso dove Abramo intese sacrificare suo figlio Isacco, nel luogo, il monte Moriah, che gli era stato indicato da Dio e dove Salomone costruì il primo Tempio di Gerusalemme308. Bernardino Luini, nei primi anni del Cinquecento, dipinse una Circoncisione dove compare, scolpito in bella vista nel bassorilievo dell’altare sul quale sta per svolgersi il rituale, l’episodio biblico del Sacrificio d’Isacco (fig. 42). Già Mantegna, nella sua Circoncisione (fig. 43), l’aveva rappresentato nella lunetta posta a sinistra della colonna centrale, mentre in quella accanto, Mosè viene raffigurato con le tavole della Legge in mano e un gruppo di fedeli adoranti (figg. 44-45) ; entrambi i passi biblici sembrano convergere al centro, uniti dal pilastro marmoreo che cade esattamente nel mezzo del trio composto da Mohel, Maria e il Bambino. L’episodio del Sacrificio ritorna anche in Tiziano, nella Deposizione (fig. 46) eseguita nel 1559, dove il Cristo inerme, sorretto da Nicodemo e Maria, sta per essere deposto nel sepolcro “sacrificale”, poiché due sono i

307 Ivi, pg. 153. 308 II Libro delle Cronache, 3, 1; Gen. 22, 2; Gen. 22, 14; Deut. 12, 5-6. 92 sacrifici: quello di Isacco, immolato dal padre e poi salvato da Dio, e quello di Cristo che ha già versato il sangue della salvezza. Rubens, agli albori del Seicento, rappresentò un Cristo deposto, anche in questo caso, su una sorta di sarcofago-altare nel quale si distingue chiaramente, scolpita su un lato del bassorilievo, un’ara con acceso il fuoco dell’olocausto e un angelo appoggiato ad esso che sembra si stia proteggendo dalla fiamma che gli arde accanto309 (fig. 47); nel lato adiacente la scena rappresentata, anche se visibile solo parzialmente, sembra alludere proprio a quella del Sacrificio di Isacco 310 . Sono esempi che non fanno altro che rimarcare la simbologia dell’immolazione, del sangue che sta per essere versato e quello già versato e redento. Fu quindi sul suolo del sacrificio che la Casa di Dio venne edificata e dove ebbe luogo il sacrificio di Cristo bambino, come specifica San Tommaso nel I Libro della Somma Teologica, nella Questio 102 311 . Ma il rito della Milah, oltre ad essere un atto di immolazione e il sigillo di un patto tra l’uomo e Dio, possiedeva anche un profondo significato mistico. Tra il VI e il VII secolo, venne divulgato un testo intitolato Il libro della formazione, il Sefer yesirah, nel quale la pratica della Circoncisione veniva descritta come il punto centrale di snodo tra le Sephirot, cioè le dieci forze divine, e il corpo poiché esattamente nel centro del suo asse veniva eseguito il rito giudaico.

Il patto dell’Unico è fissato nel centro nella circoncisione del membro, nella lingua e nella bocca, a significare che in quei tre luoghi fu compiuta una perfetta unificazione. Nel membro circonciso, che ha la forma di una yod, essa allude all’unificazione della sefirah della sapienza (hokmah); nella lingua, che è in guisa di waw, indica la linea centrale, nel grande Nome; nella bocca poi, che è il foro donde esce il discorso e ha la forma occultata di una he, significa l’unificazione della sefirah dell’intelligenza (binah)312.

309 Questo dipinto, eseguito da Rubens tra il 1601 e il 1602, probabilmente svolse la funzione di pala d’altare poiché “l’effetto di “sottinsù” impone una visione a distanza e dal basso, tipica delle opere da chiesa”; il fulcro sul quale doveva posarsi lo sguardo del fedele era il corpo di Cristo, le sue ferite ancora sanguinanti. Pietro Paolo Rubens. (1577-1640), catalogo a cura di D. Bodart, Padova, 1990, pg. 42. 310 “The sarcophagus on which Christ’s body rest is a well-established Renaissance devise […]. On its left face Rubens shows a putto mourning at an Antique altar set before a temple, while on the front face a winged figure (an angel?), holding a torch, brings a ram to a sacrificial fire; another putto exits towards the right-hand side of the sarcophagus. This scene may represent Abraham’s near sacrifice of his son Isaac, or some other biblical prefiguration of Christ’s death and Resurrection”. Esso presents Rubens and the Italian Renaissance, Exhibition curated by D. Jaffé, Canberra, 1992, pg. 84. 311 Mi riferisco in particolare all’articolo 4. 312 G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Torino, 1999, pgg. 244-245. 93

La Circoncisione di “pelle”, secondo quanto scritto da Mosé Nachmanide nel Commento al Sefer yesirah, corrispondeva alla sfera più alta delle sefirot, la Sapienza (Hokmah); mentre la circoncisione della bocca e della lingua indicava rispettivamente l’Intelligenza (Binah) e la Bellezza (Tif’eret). Ma il simbolismo delle dieci «essenze», non si esaurisce soltanto nella corrispondenza dei loro nomi a delle componenti specifiche, come ad esempio Hokmâ alla Saggezza, ma creano, attraverso una dotta suddivisione, dei veri e propri mondi 313 che, partendo dall’alto verso il basso, si identificano con una specifica parte del corpo dell’uomo:

Nella testa, che è Emanazione, la Corona, la Saggezza e l’Intelligenza sono rispettivamente rappresentate dal cervello nascosto […]; nel tronco, che è Creazione, la Misericordia, il Rigore e la Bellezza sono, del pari, rispettivamente raffigurati dal braccio destro, dal braccio sinistro e dal cuore; nel ventre, che è Formazione, la Vittoria, lo Splendore e il Fondamento sono a loro volta rispettivamente raffigurati dalla coscia destra, dalla coscia sinistra e dal perineo, base o fondamento del corpo, e notiamo che queste tre ultime Sephiroth rivestono spesso un carattere sessuale frequentemente sottolineato nei testi tradizionali;”314.

Da altri studi esegetici, questa corrispondenza del rito con l’albero delle sefirot acquisiva un significato strettamente collegato al segno dello yesod, il “fondamento”: la Milah sarebbe stata in questo caso la trasposizione nel mondo terreno delle sfere celesti, un segno capace di scacciare le “scorze” del male (qelippot) e di unire i due elementi, maschile e femminile315. Nella citazione precedente ho volutamente tralasciato l’ultimo mondo, perché strettamente collegato alla simbologia di questi due elementi. È quello legato all’Azione, e alla parte più bassa del corpo, i piedi, simbolo di mobilità, ma allo stesso tempo corrispondenti alla parte più bassa dell’Albero, e quindi alle radici, simbolo riconosciuto di stabilità e immobilità; è da qui che nasce l’immagine

313 Quattro sono i mondi creati dalle Sephiroth: “Emanazione”, “Creazione”, “Formazione” e “Azione”. 314 C. Hirsch, L’Albero, Trad. di C. Fiorillo, Roma, 1988, pg. 73. 315 “La distruzione della natura umana a opera di Satana con il peccato originale ha fatto sì che gli uomini precipitassero sulla terra, ragion per cui la Restituzione non può avvenire che attraverso il movimento opposto, ovvero l’ascensione, movimento che dovrà compiersi tanto per la parte maschile quanto per quella femminile”. Si confrontino a questo proposito gli articoli di V. Sapienza “Vecchi documenti e nuove letture. Ragionando sulla cronologia delle Storie di Maria nella sala terrena della Scuola Grande di San Rocco”, in Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XVI, n. 32, 2006, pgg. 171-194.; V. Sapienza, “Miti, metafore e profezie. Le Storie di Maria di Jacopo Tintoretto nella sala terrena della Scuola Grande di San Rocco” in Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XVII, n. 33, 2007, pgg. 49-139. Il passo appena citato è a pg. 106. 94 dell’Albero rovesciato, con la chioma rivolta verso la terra e le radici che affondano e ramificano nel cielo316. Ma la Circoncisione, come segno di purificazione dal peccato originale e quindi di un ritorno a una purezza prima perduta, si accosta perfettamente alla simbologia del “bellico”, segno di interezza e innocenza come lo era il segno lasciato dalla Milah “con la quale dobbiamo riseccare dal cuore ogni libidine, e ogni lascivia”317. La castità era dunque quella virtù che Pietro Valeriano attribuiva all’ombelico318 e molti pittori devono aver usufruito di questa sua interpretazione mettendolo esattamente al centro delle loro composizioni: uno fra tanti, Claudio Ridolfi. Nell’Adorazione dei pastori, opera eseguita dal pittore durante il suo soggiorno a Verona, l’ombelico del Bambino è il punto in cui si intersecano tutte le diagonali del dipinto, il punto focale degli sguardi degli astanti, dove anche il bue, alle spalle di Maria sembra sporgersi per osservare il Cristo bambino, mentre l’asino sullo sfondo viene trascinato da un pastore all’interno della capanna, tradizionalmente indifferente all’evento della nascita (fig. 48). In questa Adorazione, espliciti sono i riferimenti al maestro marchigiano, sia nella figura del pastore colto di spalle raffigurato in primo piano319, che riporta alla mente il giovane soldato del Martirio di San Sergio320 e il pastore della Circoncisione del Barocci, sia nella rappresentazione del piccolo agnello posto al di sotto della mangiatoia in perfetta corrispondenza con la figura del Bambino. Ritorna quindi il consueto parallelismo tra Gesù e l’animale sacrificale, poiché è l’Agnus Dei, Qui tollit peccatum mundi321, analogia che era già stata espressa in maniera

316 C. Hirsch, L’Albero, Trad. di C. Fiorillo, Roma, 1988, pgg. 75-85. 317 P. Valeriano, Ieroglifici, overo Commentarii delle occulte significazioni degli Egitij, e altre Nationi, XXXIV, pgg. 511- 513.; J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, 2 voll., Milano, 1986, II, pgg.156-157. Per una visione più ampia sull’argomento si consulti Dictionnaire des symboles. Mythes, reves, costume, gestes, formes, figures, couleurs, nombres, di J. Chevalier e A. Gheerbrant, France, 1969, pgg. 561-563. 318 Anche Giovanni Bonifacio, nella prima parte dell’ Arte de’ Cenni, dedica un breve capitolo all’ombilico sostenendo che, essendo esattamente nel mezzo del corpo, starebbe a simboleggiare il centro di una determinata cosa. A questo proposito pone l’esempio di ciò che disse l’Ariosto riguardo la “centralità” della città di Parigi: “siede Parigi in una grande pianura, ne l’ombilico à Francia, anzi nel core”.; in G. Bonifacio, L’Arte de’ Cenni con la quale formandosi favella visibile, si tratta della muta eloquenza che non è altro che un fecondo silentio, divisa in II parti, Vicenza, appresso Francesco Grossi, 1616, Cap. XXXV, pg. 370. Pur riportando un esempio non molto calzante come quello di una città posta al centro di una nazione, ciò che è importante notare, a mio avviso, è lo stretto rapporto che si crea tra il simbolo dell’ombelico e la centralità che ne deriva; facendo un salto nel mondo delle immagini, un piccolo punto nel centro del corpo diventa un punto focale che cattura l’attenzione dell’osservatore. 319 Pastore visto di spalle che ritroviamo anche, in una posizione simile, nell’Adorazione dei pastori del Veronese eseguita nel 1583 ca., posta all’interno della chiesa di San Giuseppe di Castello a Venezia. 320 Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 112. 321 Giovanni, 1, 29. 95 esemplare nella Circoncisione del Barocci del 1590322 (figg. 49-50) e da Lorenzo Lotto nell’Adorazione dei pastori di Brescia (solo per citare due esempi), nella quale il Bambino accarezza teneramente la testa dell’agnello323 (fig. 51). Centrale è di nuovo l’ombelico di Gesù nell’Adorazione del Bambino (fig. 52) di Lorenzo Lotto del 1523, della National Gallery di Washington, nella Madonna col Bambino, san Pietro martire e san Giovannino (fig. 53), eseguita nel 1503, in cui la mano di Maria tocca chiaramente l’ombelico del figlio, nella Madonna Giovannelli (fig. 54) di Giovanni Bellini dipinta nel 1500, in cui è il Bambino stesso ad indicarlo, o ancora, nella Zingarella (figg. 55-56) di Tiziano nella quale le mani di Maria e del Bambino tengono sollevato il velo per mostrare ciò che deve essere guardato. Infiniti potrebbero essere i riferimenti pittorici in cui questo particolare anatomico viene posto in evidenza; lo stesso Jacopo Tintoretto, ne La Presentazione di Gesù al Tempio e Purificazione di Maria (fig. 57) realizzata per la chiesa dei Carmini a Venezia324, pose anche in questo caso l’ombelico come fulcro degli sguardi degli astanti o, ancor più evidente risulta nella Presentazione di Gesù al Tempio del Museo di Castelvecchio, eseguita tra il 1540 e il 1541, nella quale Gesù Bambino è sull’altare, sospeso tra le braccia della madre e quelle di Simeone, quasi compostamente seduto, con l’ombelico bene in vista325 (fig. 58).

A questo punto, credo sia necessario soffermarsi su un oggetto in particolare presente all’interno del dipinto del Ridolfi. Mi riferisco allo scrigno che reca in mano l’assistente alle spalle del Gran Sacerdote; non si tratta infatti della solita ampia cesta

322 Il dipinto in questione non risultò avere una particolare fortuna critica proprio perché l’opera ebbe, in primis, scarsa visibilità; Il Marinelli riferisce che fino al 1804 l’opera rimase nella chiesa di San Cristoforo, a Verona, per poi essere inclusa, nel 1811, all’interno della Galleria Comunale e rimanere nei depositi del museo fino a che non venne organizzata, nel 1974, la mostra veronese che la riportò alla luce attraverso un restauro. Cinque anni dopo il dipinto viene esposto nel Museo Cavalcasselle, all’interno della chiesa di San Francesco, dove tutt’ora è conservato. Ivi, pg. 112. 323 Si confronti il saggio di M. Di Monte, A. Cosma, S. Pedone, C. Santangelo, “Due Adorazioni dei pastori di Jacopo Bassano a confronto”, in Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XVII, n. 34, 2007, in particolare pgg. 153-162.; si confronti D. Arasse, “Note sur le Sainte Anne…”, in Symboles de la Renaissance, textes de F. Hartt, M. Muraro, A. Warburg, Vol. II, Paris, 1982, pgg. 73-87. 324 Si confronti l’articolo di F. Cocchiara, “La Presentazione di Gesù al Tempio e Purificazione di Maria di Jacopo Tintoretto ai Carmini. Lettura per frammenti di una pala e di un contesto”, in Venezia Cinquecento, studi di Storia dell’arte e della cultura, XVI, n. 31, 2006. 325 Fu Licisco Magagnato a proporre la data sopra citata a proposito di questa opera del Tintoretto. È palese che la pala abbia dei forti rimandi con il dipinto dei Carmini di poco successivo (1541-1542), soprattutto nella resa della figura di Simeone, e del manto in particolare. Il dipinto, proveniente dalla galleria A. Monga, è oggi conservato al museo di Castelvecchio. R. Pallucchini, Tintoretto. Le opere sacre e profane, Milano, 1994, Tomo I, pgg. 133-134. 96 contenente le bende per la medicazione, ma di una scatola preziosa, dorata, con i bordi finemente decorati, più atta a custodire, e non a contenere, qualcosa di inestimabile valore. Una reliquia rara, una parte del corpo di Cristo che, soprattutto nel Medioevo, nonostante la maggior parte dei teologi, e in special modo Jacopo da Varagine, avesse affermato che Cristo sarebbe resuscitato completo di tutte le sue parti poiché soltanto con un corpo perfetto, che non deficiasse di nulla, sarebbe potuto tornare tra i vivi326, i credenti iniziarono a venerare quella santa reliquia che la Vergine avrebbe lasciato in custodia a San Giovanni o che, secondo altre fonti, sarebbe stata invece conservata dalla vecchia Salomé in una fiala di nardo profumato327. Col passare dei secoli il culto della Sacra Reliquia non sembrò scemare, anzi, numerose furono le chiese che ne rivendicarono il possesso, riconoscendone i poteri miracolosi. Calvino, nel Trattato delle Reliquie, edito nel 1543, elencò a questo proposito, tre diverse collocazioni: si credeva che il Santissimo Prepuzio si trovasse all’interno della croce d’oro gemmata donata al Papa da Carlo Magno e che fosse conservata nella cappella Sancta Sanctorum di San Giovanni in Laterano328.

De la carne de la circoncisione di Cristo dicesi che l’Angelo la portòe a Carlo Magno, ed elli sì la legò onorevolmente ad Acquisgrana ne la chiesa di santa Maria. E dicesi che Carlo l’ha traslata poscia [a Carosio] e ora, si dice, ch’è a Roma ne la chiesa che si chiama Santa Santorum. […] Ma se questo è vero, certo molto è grande meraviglia; chè, con ciò sia cosa che quella carne sia de la verità de l’umana natura, crediamo che risuscitando Cristo quello membro, cioè quella carne circoncisa e tagliata, tornò al suo luogo glorificato329.

326 “Più problematiche per i teologi erano le reliquie corporee di Cristo e della Vergine Maria che erano già ascesi al cielo. Se ogni parte del corpo era destinata a risorgere nel Giorno del Giudizio, allora sicuramente coloro che erano già saliti in cielo, come Cristo e Maria, dovevano ormai avere il loro corpo completo. Dunque non potevano esserci reliquie del sangue di Cristo o del latte della Madonna. Questo era quanto aveva sostenuto Guiberto di Nogent di fronte a un dente di Gesù. Eppure lo stesso Vaticano proclamava di avere reliquie di Cristo, incluso uno dei tanti esemplari del Santo Prepuzio. Questa piccola, ma presumibilmente incorrotta, reliquia poneva profonde e irrisolte sfide teologiche”. C. Freeman, Sacre reliquie. Dalle origini del Cristianesimo alla Controriforma, Torino, 2012, Cap. XV, pg. 169. 327 L. Réau, “La Circoncisione et la Présentation au Temple”, in Iconographie de l’Art Chrétien, Paris, France, 1957, Chapitre II, pgg. 257-258. 328 Stando alle informazioni dateci da Jacopo da Varagine nella sua Leggenda Aurea e da Brigida di Svezia nel libro VII delle Rivelazioni, in questa stessa chiesa doveva conservarsi anche un piccolo frammento del cordone ombelicale di Gesù. 329 J. da Varagine, Leggenda Aurea, volgarizzamento toscano del Trecento a cura di A. Levasti, Firenze, 1924, Cap. XIII, pgg. 172-173. 97

Sempre a Roma, in Santa Maria Maggiore, doveva trovarsi un’altra reliquia, ovviamente sempre della stessa specie, anch’essa oggetto di culto; poi seguirono tutte quelle conservate in regioni sperdute della Francia, nell’abbazia di Charroux, di Cluny, di Conques, nella Cattedrale di Puy, e ancora, a Hildesheim, a Metz, nella regione dell’Alsazia e ad Anversa. Secondo lo studioso Louis Réau, tra le tante presunte reliquie corporali elencate fino ad ora, quelle a cui dette maggior credito furono quelle conservate nell’abbazia di Charroux e di Coulombs, poiché entrambe sembravano avere un solido supporto storico, l’uno di origine regale, l’altro esclusivamente popolare. Il Santissimo Prepuzio conservato a Charroux era stato donato a Carlo Magno come dono di fidanzamento all’imperatrice Irene e, dopo la costruzione dell’abbazia di Poitiers avvenuta nel 788, l’imperatore decise di offrire un pezzo di quell’agognata reliquia alla chiesa che venne denominata chair rouge, cioè “carne rossa”, dalla quale ne derivò il nome stesso, Charroux. La storia sorta attorno al Prepuzio di Coulombs godette invece di una particolare popolarità soprattutto nel XV secolo; si credeva infatti che avesse il potere di rendere prolifiche donne prima ritenute sterili e di far sì che partorissero senza complicazioni. Fu per questo motivo che Enrico V, re d’Inghilterra, nel 1422 decise di prendere in prestito la Sacra Reliquia per agevolare il parto della sua regina330. Ora, tra tutte le possibili o probabili collocazioni della Santa Reliquia, che fosse conservata a Roma, a Chartres, a Charroux o in altre innumerevoli regioni dell’Europa, il fatto interessante da notare è che, nonostante la popolarità indiscussa del culto del Santissimo Prepuzio trasmessa attraverso i secoli331, non furono poi così numerose le rappresentazioni in cui comparve il prezioso cofanetto. Master Bertram, nel 1410, dipinse un pannello rappresentante la Circoncisione di Cristo (fig. 59) in cui è lo stesso Simeone a reggere in mano lo scrigno aperto e a porlo ben in vista332. Qualche decennio successivo, nel 1466, un altro pittore tedesco, Friedrich Herlin, dipinse per l’altare maggiore della chiesa di San Giacomo a Rothenburg, una Circoncisione (fig. 60) in cui compare, posta in primo piano sull’altare, una piccola

330 L. Réau, “La Circoncisione et la Présentation au Temple” in Iconographie de l’Art Chrétien, Paris, France, 1957, Chapitre II, pgg. 257-258. 331 Ironico è il riferimento che Voltaire fa a proposito del culto della Santa Reliquia all’interno del brevissimo capitolo dedicato alla tematica della superstizione. Così scrive: “[…] e non è forse evidente che sarebbe semmai cosa ancor più ragionevole adorare il santo ombelico, il santo prepuzio, il latte e la veste della Madonna, che detestare e perseguitare il proprio fratello?”. Voltaire, “Se è utile mantenere il popolo nella superstizione” in Sulla Tolleranza, prefazione di S. Romano, Milano, 2010, pg. 90. 332 Il pannello si trovava a sinistra della pala d’altare di Buxtehude, oggi alla Kunsthalle di Amburgo. 98 scatola cilindrica, aperta, pronta ad accogliere la Sacra Reliquia; il vecchio Mohel, intento nell’esecuzione del rituale, ha inforcato un bel paio di occhiali, poiché necessita di “vedere più chiaro”333. I due dipinti che ho appena descritto, sono due immagini in cui il pregiato scrigno compare ben in vista, o sull’altare al fianco del Bambino, oppure in mano ad uno dei personaggi presenti. Forse, la piccola scatola cilindrica dipinta da Herlin è quella che Giovan Battista Trotti, detto il Malosso, pose in mano al personaggio alle spalle di Mohel nella sua Circoncisione (fig. 61). Guglielmo da Chieri, all’incirca verso la metà del Quattrocento, eseguì un Compianto sul Cristo morto (fig. 62), con i consueti personaggi di norma raffigurati accanto alla figura del Cristo crocefisso; ai piedi della croce, vicino alla Maddalena in primo piano, il pittore incluse un bel contenitore dorato di forma cilindrica. Monsignor Thiepolo Primicerio, nel Trattato delle Santissime Reliquie, pubblicato a Venezia nel 1617, racconta:

Scriuono gli Auttori della vita di Maria Maddalena, et particolarmente Pietro Ciaues Francese, et Fra Siluestro Prierio Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, che nella città di Marsilia si trouasse à tempi loro, come tuttavia si attroua in un vasetto, di quella terra mescolata col sangue di Christo, che essa Beata paccatrice raccolse à piedi della Croce, quiui da lei portata, et stata molt’anni nascosta, et poi palesata per diuina riuelatione […]334.

Il solenne miracolo della riapparizione del vasetto avvenne nel 1279, quando lo spirito della Maddalena apparve a Carlo, Re di Sicilia e conte di Provenza, dopo la sconfitta subita dal Re di Aragona. Trovandosi in prigione e avendo ormai perso ogni speranza, pregò la Maddalena affinchè lo liberasse e subito dopo essergli apparsa, il Re in un baleno si ritrovò da Barcellona, città in cui era stato imprigionato, nella sua terra. Questi subito volle ricompensarla e la Maddalena gli chiese di recarsi nel luogo in cui era

333 “[…] le vieux mohel, opérant l’Enfant nu sur l’autel avec son couteau bien affilé, chausse parfois, pour voir plus clair, de grosses besicles à monture de corne”. L. Réau, “La Circoncision et la Présentation au Temple”, in Iconographie de l’art Chrétien, Vol. II, Paris, 1957, Cap. II, pg. 259. 334 Trattato delle Santissime Reliquie, ultimamente ritrovate nel Santuario della Chiesa di San Marco, Di Monsig. Illustr. Et Reuerendiss. Gio. Thiepolo Primicerio della medesima Chiesa, In Venetia, Appresso Antonio Pinelli. MDCXVII, c. 9.; “Fortuitamente, all’inizio del secolo, nel santuario di San Marco fu trovato un grosso deposito di «nuove» reliquie, tra le quali campioni del sangue di Cristo e frammenti della Vera Croce, e venne organizzata una grande processione per esibirle”. C. Freeman, Sacre reliquie. Dalle origini del Cristianesimo alla Controriforma, Torino, 2012, Cap. XXV, pg. 301. 99 sepolto il suo corpo affinchè venisse trasportato, insieme ad “un’ampolla di vetro”, all’interno della chiesa e lì custoditi dall’ordine dei Domenicani335. Alle rocambolesche vicende del Re segue poi, nello scritto del Primicerio, la storia del “preziosissimo Sangue” raccolto e portato da Longino nella città di Mantova e di quello conservato “nella Ducal Chiesa di San Marco”, al quale l’autore dedicò l’intera sua opera poiché in quell’anno, nel 1617, la reliquia presente all’interno della Basilica venne esposta “alla vista, et alla diuotione di ogni uno”336. Ma molto altro viene detto nelle carte del Trattato, poiché sfogliando minuziosamente le pagine a seguire, l’autore descrive con estrema precisione le fattezze di questa piccola ampolla contenente il “preziosissimo Sangue” di Gesù, e dice:

In un vasetto di christallo di forma circolare di altezza quanto sarebbe il police di una mano […]. Il coperto di esso vasetto è parimente di forma rotonda, mà quanto alla materia è di purissimo oro, coperto con ricco smalto. Hora questo vasetto di christallo contenente in se cosi ricco et infinito thesoro è stato fin’hora conservato in un altro vasetto di purissimo oro, di forma parimente rotonda, et con il suo coperchio à quello unito pur di finissimo oro […]337.

È il vasetto che Fredrich Herlin ha dipinto sull’altare, accanto al Bambino; non per raccogliere il sangue del costato, ma quello del primo sacrificio in assoluto. Lo stesso vasetto, come già accennato, compare ai piedi della Maddalena nel Compianto del Cristo morto di Guglielmo da Chieri; appare raffigurato in mano ad una donna che ne mostra evidentemente il contenuto alla compagna che le è accanto, entrambe poste alle spalle della Sacra Famiglia nell’Adorazione dei Magi (fig. 63) di Gentile da Fabriano. E ancora, nel Cristo in pietà (fig. 64) di Roberto di Oderisio, datato 1354, nel quale il contenitore dorato è posto in primo piano tra il martello, i chiodi, la veste, i dadi e tutti gli altri strumenti del martirio. Agli albori del Seicento, un’altra Maddalena compare ai piedi di Cristo appena deposto dalla croce, con accanto e bene in vista, una preziosa ampolla dorata, aperta e pronta a raccogliere il sangue della croce338 (fig. 65).

335 Ivi, cc. 15-17. 336 Ivi, c. 1. 337 Ivi, cc. 33-35. Per una lettura completa del passo, si confrontino i documenti 16, 17, 18 in Appendice documentaria, pgg. 172-174. 338 Il dipinto in questione venne eseguito dal pittore umbro Ippolito Borghese, tra il 1590 e il 1603; oggi la tela è conservata nella Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. Cfr. O. Ferrari, “Borghese Ippolito”, in 100

Alcuni pittori decisero dunque di includere nelle loro opere il ricercato vasetto contenente la santissima reliquia, ma molti altri non gli diedero affatto importanza, non preoccupandosi di raffigurarlo neppure nei dettagli. Evidentemente ciascun artista aveva le sue priorità, oppure in determinati secoli il culto delle reliquie risultava più diffuso che in altri. Verso la metà del Quattrocento, un francescano di nome Johannes Bremer, scrisse una sorta di “gerarchia” delle reliquie, nella quale i resti sacri “del corpo di Cristo lasciati sulla terra prima della Resurrezione”339, e quindi il Santissimo Prepuzio e il sangue della croce, andavano ad occupare il livello intermedio della sua piramide di importanza, a metà tra gli strumenti della crocefissione e l’ostia consacrata.

Ora, le immagini fino ad ora tirate in causa, hanno datazioni che si aggirano tra la metà del Trecento e il Quattrocento, escludendo ovviamente il dipinto del Malosso e del Borghese. Nei secoli successivi molto scarse, se non assenti, sono le possibilità di trovare nei dipinti questo piccolo oggetto dorato. Ma forse, come Lorenzo Lotto quasi un secolo prima, aveva raffigurato nella Natività (fig. 66) di Siena una porzione del cordone ombelicale sul corpo del Bambino esattamente l’anno successivo (1528) in cui la reliquia venne rubata durante il Sacco di Roma, così molto probabilmente Ridolfi ha voluto rendere omaggio al Preziosissimo Sangue di Cristo, raffigurando lo scrigno alle spalle del Gran Sacerdote, lo stesso Sangue ritrovato all’interno della Basilica di San Marco nell’anno esatto in cui stava elaborando la sua Circoncisione (1617). Così scrisse Daniel Arasse nel suo libro dedicato a Le Détail nella pittura, riguardo il dipinto del Lotto:

Ce détail constitue même un unicum iconographiche dont l’incongruité a suscité le silence des historiens. Il ne s’agit pourtant pas d’une invention excentrique du peintre; on peut y reconnaître, au contraire, la rencontre de l’actualité religieuse la plus fraîche et d’une dévotion ancienne au saint Cordon (ombilical) de Jésus. […] Seule l’actualité religieuse de l’Italie explique ce pendant sa présence dans l’image […]. L’objet a donc une importance dévote considérable au moment où Lotto le peint […]340.

Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 12, Catanzaro, 2000.; B. Orsini, Guida al forestiere per l'augusta città di Perugia, Perugia, 1784, pg. 125.; B. De Dominici, Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani, III, Napoli, 1745, pg. 88. 339 C. Freeman, Sacre reliquie. Dalle origini del Cristianesimo alla Controriforma, Torino, 2012, Cap. XIX, pgg. 217- 229. 340 D. Arasse, Le Détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture, Paris, 1996, pgg. 90-92. 101

È così improbabile che il Ridolfi abbia voluto introdurre nel suo dipinto lo scrigno che andrà a contenere il Santissimo Prepuzio e quindi il “sangue lavativo” della prima ferita inferta, proprio nel momento in cui, in quello stesso anno a Venezia folle di pellegrini si stavano recando nella città per celebrare e venerare il “Preziosissimo Sangue” che Cristo versò sulla croce? A me non sembra un’ipotesi così infondata; che poi la reliquia venga custodita all’interno di un’ampolla di cristallo ricoperta d’oro, o in un fantomatico cofanetto, quello che è interessante notare è che questo oggetto, seppur raro e da ricercare a volte con attenzione nei dipinti, un pittore “apparentemente senza sorprese”341 come il Ridolfi ha voluto rappresentarlo all’interno della sua opera; dorato, di dimensioni non proprio ridotte e non particolarmente nascosto allo sguardo.

Questa Circoncisione venne commissionata al Ridolfi come pala d’altare e la realizzazione di un’opera di questo genere è sempre stata un arduo compito per il pittore. L’immagine, in primo luogo, doveva raccontare in maniera chiara l’episodio biblico, provocare devozione e commozione nell’osservatore e, soprattutto, doveva far sì che l’immagine restasse vivida nella mente dei fedeli342. La pala d’altare quindi, a differenza di altre tipologie di rappresentazione, doveva essere “singolare e imponente, è la sua presenza durante l’atto sacramentale”, quindi l’immagine necessitava di essere “chiara, toccante, indimenticabile, sacramentale e nobilitante del soggetto”343. La pittura, insieme alla presenza del predicatore che attraverso le parole ne chiariva e integrava il significato, diveniva una fonte di meditazione e di profondo raccoglimento alla quale il fedele faceva sempre riferimento e ne assimilava il significato grazie alla

341 Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 76. 342 “[…] nella pittura chiesastica inoltre è da sottolineare un recupero nel senso sacrale e pietistico, che si contrappone alle eleganze profane del manierismo, accentuando tuttavia una resa devozionale facile e di immediata presa sui fedeli”. F.Flores D’Arcais, “La pittura nelle chiese e nei monasteri di Verona”, in Chiese e Monasteri a Verona, a cura di G. Borelli, Verona, 1980, pg. 505. 343 M. Baxandall, Forme dell’Intenzione, sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Intr. di E. Castelnuovo, Torino, 2000, pg. 156.; Cfr. P. Humfrey, “La pala d’altare veneta nell’età delle riforme”, in La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, a cura di M. Lucco, III, Milano, 1999, pgg. 1119-1180.; Stefania Tuzzi nel paragrafo riguardante I dettami tridentini e la loro influenza sulla pratica artistica si sofferma in particolare sul ruolo, sempre più rilevante, che le immagini sul finire del Cinquecento stanno assumendo. Così scrive: “Le istruzioni imponevano agli artisti criteri fondamentali: la chiarezza, la semplicità e l’intelligibilità, il realismo interpretativo e lo stimolo emotivo alla pietà. Il concetto di realismo costituisce una reazione all’idealizzazione rinascimentale; gli artisti si devono ora ispirare alla verosimiglianza con la realtà”. S. Tuzi, Le Colonne e il Tempio di Salomone. La storia, la leggenda, la fortuna, Roma, 2002, pg. 102. 102 perfetta commistione di parole e forme344. Molte chiese custodivano gelosamente al loro interno delle reliquie sacre e il loro culto e protezione era stato vivamente sostenuto dalla Visita Apostolica del 1581, affidata proprio ai veronesi, Campeggi e Valier. Spesso quei sacri oggetti di culto divenivano, uniti alle immagini, dei veri e propri strumenti in grado di “sostenere e incentivare la devozione” 345 dei fedeli che si trovavano a contemplare un coacervo di sacralità.

Per definizione posta sopra l’altare, a stretto contatto visivo, fisico e spirituale con il luogo della celebrazione liturgica, la pala risentì degli effetti di molti dei più vivaci dibattiti religiosi del periodo, che investirono vari dogmi della dottrina cattolica: la natura del sacrificio eucaristico; la sfera dell’autorità ecclesiastica; l’efficacia delle “opere buone”, tra cui le messe in suffragio e le donazioni, nell’economia della salvazione umana; la venerazione della Madonna e dei santi e la natura del loro potere di intercessione; la legittimità dell’uso di immagini sacre durante riti e preghiere346.

L’istruzione del fedele avveniva quindi attraverso l’episodio narrato dal pittore il quale doveva essere in grado di rendere la sua opera un “libro aperto alla capacità d’ogniuno, per essere composte di un linguaggio comune a tutte le sorti di persone, uomini, donne, piccioli, grandi, dotti ignoranti, […]. Si aggiunge che, con brevità grandissima, anzi in un momento, o più tosto in uno sguardo, fanno capaci subito le persone”347. L’anno di esecuzione di questa pala cade nel 1617348; la formazione del Ridolfi in quegli anni aveva ormai acquisito molto della pittura urbinate trasmessagli dal vecchio

344 “L’immagine pittorica, nella complessa struttura di produzione di senso che spartisce con la parola, viene assunta non tanto e non solo per quello che è quanto piuttosto per quello che fa e che fa fare. Memorabile e toccante, come stabiliscono i testi canonici […], dovendo essere persuasiva, essa agisce entro la dimensione emotiva, toccando in profondità l’animo dei fedeli, attraverso la soddisfazione di esigenze che il predicatore non è in grado di raggiungere con la parola, o riesce solo a sfiorare […].; Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XIII, n. 26, 2003, pgg. 199-210. 345 Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, XV, n. 30, 2005, pg. 168.; “Il culto delle reliquie dei santi in funzione antiprotestante era infatti uno dei cavalli di battaglia della Chiesa post-tridentina e l’attenzione nei loro confronti emerge dalle visite pastorali e dalle numerose iniziative delle singole parrocchie veneziane in favore di una loro adeguata collocazione e visibilità. Leggendo i testi conciliari è inoltre interessante notare come le indicazioni sul ruolo delle preghiere, delle reliquie e delle immagini siano tutte riunite all’interno del medesimo decreto che riguarda il culto dei santi”. Ibidem, pg. 168. 346 P. Humfrey, “La pala d’altare veneta nell’età delle riforme”, in Pittura nel Veneto. Il Cinquecento, a cura di M. Lucco, III, Milano, 1999, pg. 1119. 347 G. Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna, 1582, Cap. XXIII, pg. 221. 348 L’anno precedente Ridolfi si trova a Padova dove esegue il dipinto raffigurante San Benedetto che consegna la regola ai principi della terra per la chiesa di S. Giustina a Padova.; M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 37. 103 maestro349, scomparso soltanto da pochi anni, quindi è naturale che la pala di San Tomìo abbia caratteristiche più affini alla maniera baroccesca piuttosto che veneta, o veronesiana anche se non mancano alcuni accenti legati a quest’ultima350. Come nel gruppo delle due bambine poste in primo piano, dove risulta evidente il riferimento al Caliari351 nell’idea compositiva, ma non nella forma. Così scrive il Magagnato a proposito dello stile che il Ridolfi assunse in quegli anni:

Il Ridolfi si distingue infatti nettamente dagli altri veronesi allievi di Felice Brusasorci, di dieci o quindici anni però più giovani di lui, perché resta per tutta la vita fedele al filone manieristico e non per supino ossequio al maestro, com’è il caso del suo coetaneo Sante Creara, ma per le dominanti della sua cultura e del suo temperamento che lo portano ad anticipare nella composizione come nel cromatismo, analogamente a quanto accade a Francesco Maffei, certi modi tipici del Settecento veneto352.

È indubbio che quell’ “eleganza raffinata” 353 propria dello stile del Ridolfi non è possibile accostarla alla pittura dei suoi coevi veronesi e, in special modo, a quella del Bassetti, carica di elementi romani e portavoce di un “secentismo austero”354.

349 «A partire dal 1615 il Ridolfi accentua il suo baroccismo in una versione personale che lascerà traccia nell’ambiente marchigiano […]».; Maestri della pittura veronese, a cura di P. Brugnoli, introduzione di L. Puppi, Verona, 1974, pg. 278.; Sergio Marinelli, nella scheda dedicata al dipinto nel Catalogo del 1994, sottolinea invece una “apparente influenza stilistica di Palma” che riporta alla mente alcune opere antecedenti del Ridolfi.; Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 76. 350 È necessario tener presente che in quello stesso anno, nel 1617, Claudio Ridolfi aveva realizzato per la chiesa della confraternita dei SS. Siro e Libera, l’Annunciazione e il Padre Eterno in gloria, opere nelle quali “l’artista dimostra di avere ormai superato gli schemi tardomanieristici, e soprattutto di avvalersi di un colore nuovo, a gamme chiare e brillanti, steso sulle superfici con pennellate trasparenti, con una sensibilità già prebarocca: sono opere certamente di facile linguaggio e di immediata presa sui fedeli”. F. Flores D’Arcais, “La pittura nelle chiese e nei monasteri di Verona”, in Chiese e Monasteri a Verona, a cura di G. Borelli, Verona, 1980, pg. 506. 351 «Il gruppo delle bambine con le colombe, ostentato per la piacevolezza in primo piano, sembra una originale ricreazione ridolfiana di analoghi episodi pittorici di Veronese», Ibidem.; Si confrontino le opere del Veronese: La famiglia Cuccina del 1571-1572, La cena in Emmaus eseguita nel 1556-1558. 352 Cinquant’anni di pittura veronese, 1580-1630, Catalogo della mostra, a cura di L. Magagnato, Vicenza, 1974, pg. 182. 353 “Accanto alla singolare freschezza delle citazioni veronesiane, riedite tuttavia con un’eleganza sofisticata già presettecentesca, l’opera colpisce per la presenza simbolica degli oggetti, delle colonne tortili simmetriche, ricordo del tempio, alla preziosa anfora d’oro centrale, emblemi evidenti della più antica cultura, aniconica, sottintesa alla vivace e moderna composizione”. La Pittura nel Veneto. Il Seicento, a cura di M. Lucco, Tomo I, Martellago (VE), 2000, pg. 331. 354 L. Magagnato, Claudio Ridolfi, in Maestri della pittura veronese, a cura di P. Brugnoli, introduzione di L. Puppi, Verona, 1974, pg. 282. 104

Niente di austero è rintracciabile nella pittura di Claudio; Dalla Rosa, nel suo scritto edito nel maggio del 1806 a Verona disse che “di poco”, le sue pitture, “cedono nelle tinte a’ sommi coloritori della sua scuola stessa; ma che son condotte con un disegno, con una sobrietà e con una finitezza da poter loro talvolta destar invidia”355. Del dipinto in questione non credo si possa affermare che ci sia alcun accento settecentesco (se non nel gruppo ritagliato delle bambine in primo piano), soprattutto nell’utilizzo dei colori356: le tonalità predominanti sono il giallo ocra del manto di Mohel, il rosso aranciato delle tuniche, l’oro del piviale di Simeone. Landolfo di Sassonia aveva fatto dei colori una sorta di mappa concettuale che fosse in grado di evocare le diverse virtù: il rosso, avrebbe dovuto sostituire la vampa del fuoco del sacrificio e il sangue che Gesù avrebbe versato per la salvezza degli uomini; “il bianco di castità”, sarebbe stato ricordato dal panno candido posto sotto al corpo del Bambino; del “giallo della spirituale giocondità” è intriso il manto di Mohel; “azurro di desiderio celeste”, è l’abito di Maria; “d’oro di carità”, la preziosa veste di Simeone; e infine “negro d’umiltà”, lo sfondo alle spalle degli astanti. Un “tempio mentale […] ornato, & dipinto di varij colori di virtù”, nel quale Gesù Bambino è invitato ad entrare.

Ed è lì, nello stesso “tempio mentale”, che al fedele veniva suggerito di entrare; le colonne salomoniche, con la loro simbologia insita e magnificenza storica, non facevano altro che “suggerire” il luogo, perchè il rituale ebraico dipinto dal Ridolfi non si sta svolgendo al suo interno, ma all’esterno, davanti all’ingresso del Tempio. Mohel indossa i calzari e di conseguenza non poggia fisicamente i piedi in un luogo sacro. Ma allo stesso tempo tutti gli elementi presenti rinviano al Sacro. Se immaginiamo di

355 S. Dalla Rosa, Scuola Veronese di Pittura, ovvero raccolta delle migliori produzioni da tutti li più eccellenti professori veronesi fatte ad olio, o a fresco così in pubblico come a privati disegnate, ed incise da Gaetano Zancon e corredate delle notizie, osservazioni, e memorie de’ rispettivi loro autori estese da Saverio Della Rosa Professor di Pittura, Accademico Clementino, Direttore della pubblica Accademia di pittura, e scoltura in Verona, Vol. I, 1806, a cura di G. Marini, G. Peretti, I. Turri, Verona, 2011, pg. 61.; Nel 1834, l’abate Lanzi ne La Storia Pittorica della Italia riportò fedelmente il testo sopra citato da Saverio Dalla Rosa come fece in seguito il Pallucchini nel paragrafo dedicato a “Claudio Ridolfi” nel libro sulla Pittura veneziana del Seicento, Milano, 1981, Vol. I, pg. 112. 356 Uno dei dipinti che credo rispecchi al meglio quel settecentismo di cui parlava il Magagnato è l’opera che Ridolfi eseguì nel 1627 per l’altare dell’Angelo Custode nella chiesa di San Luca a Verona. Il soggetto rappresentato è appunto La Gloria dell’Angelo Custode che così viene descritto dal Dalla Rosa: “Vedesi il bellissimo alato giovine composto nell’atteggiamento, ed in aria leggiadramente sospeso sceso dal cielo, arrestare il volo e posare lieve il piede sul mondo raffigurato nel terracqueo globo sottoposto; celestiale figura mossa con grazia, veramente angelica nella fisionomia, elegante nelle forme, ed ornata di vesti nobilmente, si direbbe che da soave zeffiro sono queste increspate e sostenute. Le pieghe ben disposte, le loro tinte rosa e violetto ben unite e cangianti tocche con quel suo felice pennello, a meraviglia ne esprimono la convenevole leggerezza. Li contorni stessi non saprei se si potessero per un angelo inventare più nobili ed ornati”. Ivi, pgg. 216-218. 105 togliere le figure marginali (quelle funzionali alla messa in evidenza dei pilastri), il levita che legge, quello che reca lo scrigno, le bambine con le colombe, insomma tutto ciò che è contorno, ma necessario, che cosa resta? Le colonne, l’altare sacrificale e il Bambino. Tutto è ben posizionato in primo piano, vicino a colui che guarda e ciò vede, non è da ricercare seguendo gli sguardi degli astanti o cercando chissà quale oggetto esplicativo, è palesemente davanti a lui, si offre ai suoi occhi con vivida semplicità. L’architettura equilibrata, chiara, estremamente efficace messa in scena dal Ridolfi ricalca, pur attraverso espedienti diversi, la scritta (posta in bella vista accanto alla colonna) ideata dal Boccaccino per la sua Circoncisione. Anche in quel caso, è l’Idea del Tempio che viene rimarcata dal pittore, poiché è evidente che la struttura non è affatto quella dell’edificio gerosolimitano. Dunque, non la presenza vera e tangibile del Tempio, ma la sua evocazione, poiché è ciò che simboleggia, a cui rimanda, che il pittore intendeva rappresentare e il Bambino posto nel mezzo, giustifica e rafforza il significato delle due colonne.

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III.3 LA PARTE PER IL TUTTO

Il tema della Circoncisione357 non fu affatto inusuale nell’arte358; la prima immagine che si ebbe di questo episodio venne raffigurata nella miniatura dell’Antifonario di San Pietro di Salisburgo nel XII secolo. All’interno di un retablo smaltato del 1181, opera di Nicolas de Verdun, conservato nell’abbazia di Klosterneuburg, presso Vienna, si trovava una Circoncisione di Cristo nella quale era già presente una prima distinzione tra il rituale eseguito sub gratia, cioè quello di Cristo, ante legem, quello d’Isacco e sub lege, quello di Sansone. Agli inizi del Quattrocento il tema restò vivo nell’iconografia cristiana e, ancor più nei primi anni del Rinascimento, soprattutto veneziano 359 . Lungo tutto il Cinquecento questo episodio rivestì una notevole importanza che anzi, raggiunse la sua acmé, proprio sul finire del XVI secolo e gli inizi del XVII. Soltanto a partire dall’Ottocento, questa tematica scomparve completamente poiché la sua rappresentazione cominciò ad essere considerata indecente, quasi “intollerabile”360. Ma il secolo che a noi interessa fu un secolo che, in questo specifico episodio biblico, non vedeva proprio nulla di cui scandalizzarsi: i gesti compiuti dal Cristo Bambino erano e sono simboli iconografici: l’esibizione, la protezione, la presentazione dei genitali non mostravano alcun carattere erotico o osceno, ma ne sottolineavano al contrario la sua umanità. Nel Rinascimento nessun credente dubitava più della divinità di Cristo, così l’attenzione veniva focalizzata sulla sua natura terrena, sessuale, mortale, mettendone in evidenza le nudità.

357 Le prime tracce di questo rito si trovano in Es. 4, 24 ss. e Gs. 5, 2 ss. Ha origine nella terra di Israele e inizialmente viene praticato come cerimoniale di riscatto, legato alla celebrazione delle nozze o come rituale di passaggio. Questa pratica veniva svolta anche in altre regioni come la Malesia e la Polinesia, ma inizia ad acquisire importanza ed obbligatorietà quando si lega alla religione giudaica e Abramo viene circonciso come simbolo dell’Alleanza che lo lega a Dio (Gn. 17, 1 ss.).; Anche Louis Réau, nell’ Iconographie de l’art Chrétien, si è soffermato sulle origini del rito giudaico affermando che: “L’ablation du prépuce, […] n’est pas, comme on le croit généralement, une pratique exclusivement juive ni même d’origine juive. C’est une coutume que les Hébreux empruntèrent aux Égyptiens”. L. Réau, “La Circoncision et la Présentation au Temple” in Iconographie de l’art Chrétien, Vol. II, Paris, 1957, Cap. II, pg. 256. 358 Jack M. Greenstein precisa invece nello scritto Mantegna and painting as historical narrative, che la tematica della Circoncisione non fu un tema così popolare durante il Medioevo e il Rinascimento, “except for a brief period at the end of the fifteenth century”. Jack M. Greenstein, Mantegna and painting as historical narrative, Chicago-London, 1992, Chapter 6, pg. 146. 359 “Aux approches de la Renaissance, ce sujet devient assez frequent dans la peinture vénitienne du Quattrocento: il a été traité per Giovanni Bellini, Mantegna, Vincenzo Catena”. L. Réau, “La Circoncision et la Présentation au Temple” in Iconographie de l’art Chrétien, Vol. II, Paris, 1957, Cap. II, pg. 259.; E. De Halleux, Iconographie de la Renaissance Italienne, Paris, 2004, pgg. 70-71. 360 Così venne definita da Goethe nel suo scritto Viaggio in Italia. 107

Un Bambin Gesù dell’immaginazione rinascimentale differisce infatti dai precedenti Cristi Infanti bizantini e medievali non soltanto per il grado di naturalismo, ma anche per la diversa enfasi teologica. Nell’immaginazione paleocristiana, la pretesa dell’assoluta divinità del Cristo e della sua parità con il Padre onnipotente dovette venire di continuo riaffermata nei confronti della miscredenza, dapprima contro la riluttanza giudaica e lo scetticismo pagano, poi contro l’eresia ariana ed, infine, contro l’Islam […] Ma per un artista occidentale cresciuto nell’ortodossia cattolica, lo scopo non era tanto quello di proclamare la divinità dell’infante, quanto di dichiarare la umanazione di Dio. E tale dichiarazione diviene il tema costante di ogni Natività, Adorazione, Sacra Famiglia, o Madonna col Bambino del Rinascimento361.

Nel Poscritto all’opera di L. Steinberg, O’Malley si sofferma su un punto nodale, quello dell’Incarnazione, che credo riguardi da vicino il dipinto in questione. L’Incarnazione veniva identificata col mistero della Redenzione poiché nel momento in cui l’angelo annunciava a Maria la nascita del Cristo, il divino entrava a far parte dell’umano, incarnandosi nel seno della Vergine e diventando uomo. Nel libro del profeta Isaia sono continui i riferimenti al tema dell’Incarnazione; come nel seguente passo, dove risulta esplicita la simbologia del Verbo Incarnato. Così scrive:

Un virgulto sorgerà dal tronco di Jesse e un pollone verrà su dalle sue radici. Sopra di lui si poserà lo spirito del Signore; spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di forza, spirito di conoscenza e di timor di Dio, e nel timore del Signore avrà le sue delizie362.

Il virgulto che spunterà dall’Albero di Jesse363 è Maria e “il pollone che verrà su dalle sue radici” è Gesù, il frutto incarnato364.

361 L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’età moderna, Milano, 1986, pg. 9. 362 Isaia, 11, 1-3. 363 Si confronti il capitolo III dell’ Iconographie de l’art Chrétien di Louis Réau in cui l’autore descrive dettagliatamente l’origine dell’Albero di Jesse e la sua iconografia. L. Réau, Iconographie de l’art Chrétien, Vol. II, Paris, 1957, Chapitre III, pgg. 129-151. 364 L’Albero di Jesse può identificarsi con l’Albero della Croce. Così scrisse M. Levi D’Ancona in proposito: “[…] the presence of the crucifige Christ on the tree of Jesse was based upon a passage from a fourtheenth- century French poem, the Pélerinage de l’âme by Guillaume de Deguileville. In this poem it was said that the dead Tree of Life could become green again only if the crucified Christ would be grafted upon it, and revive it with his blood. This idea had previously been espressed by S. Ambrose: 'Death by the Tree, life by the Cross'”. M. Levi D’Ancona, The Garden of the Renaissance. Botanical symbolism in italian painting, Firenze, 1977, pg. 386. 108

Tommaso d’Aquino si era soffermato sul dogma dell’Incarnazione, in particolare ne aveva trattato lungamente in alcuni capitoli della Somma contro i Gentili365 e della Somma Teologica366, ritenendo che Cristo, dopo aver assunto natura umana l’avesse nobilitata e resa quindi degna della grazia divina. Nel capitolo XXVII della Somma contro i Gentili, l’Incarnazione di Cristo 367 viene descritta da San Tommaso come l’evento “più mirabile” che Dio avesse compiuto, “poiché non si può pensare nessun’opera divina più mirabile di questa, che il vero Dio, il figlio di Dio, diventasse vero uomo”368. La Somma Teologica approfondisce il tema e apre la discussione con la Questio I la quale recita: “Utrum, si homo non peccasset, nihilominus Deus incarnatus fuisset”369. Quindi se l’uomo non avesse peccato, il figlio di Dio non si sarebbe fatto uomo e non avrebbe avuto luogo l’Incarnazione. È su questo primo “problema” che San Tommaso si imbatte e su cui impernia il discorso sulla “convenienza” o meno dell’Incarnazione. Pur ammettendo che due nature diverse non si accordano bene insieme come “humano capiti cervix iungeretur equina”370, che “Dio e carne distano all’infinito” poiché “Dio è semplicissimo, la carne invece composta, specie quella umana”, allo stesso modo “è convenientissimo che le cose visibili mostrino le cose invisibili”. A questo punto il teologo cita un intero passo di Damasceno il quale dice che l’Incarnazione “rivela insieme la bontà, la sapienza, la giustizia, la potenza di Dio: la bontà, perché non sdegnò la debolezza della sua creatura, la giustizia, perché fece sconfiggere il demonio dallo stesso che ne era stato vinto e non a forza strappò l’uomo dalla morte; la sapienza,

365 Il primo libro di quest’opera venne composto nel 1259 mentre i restanti tre tomi furono terminati tra 1261 e il 1264. La Summa contra Gentiles fu un’opera che venne elogiata e reputata “geniale” persino dai contemporanei di San Tommaso, un testo paragonabile soltanto all’altra opera magistrale del teologo, la Somma Teologica. 366 Il mistero dell’Incarnazione è stato ritenuto da sempre un tema particolarmente complesso tanto da figurare “al centro dei misteri della fede cristiana”; San Tommaso, nella sua opera, gli dedicherà ben 26 Questiones. 367 Guillaume Postel riprese questa tematica e lo fece partendo dagli scritti del teologo Aquinate. Per un maggiore approfondimento si confronti il saggio di Peter Redpath, “The analogy of religious expression in Aquinas and Postel”, in Postello, Venezia e il suo mondo, a cura di M. Leathers Kuntz, Città di Castello (PG), 1988, pgg. 281-290. 368 I vari capitoli dedicati al tema dell’Incarnazione (XXVII, XXXIX, XLI, XLII, XLIII, XLIV) sono tutti concentrati nel quarto libro definito dallo stesso autore un testo che contiene al suo interno una “serie di verità che sorpassano la ragione”, verità che non necessitano alcuna dimostrazione.; T. d’Aquino, Somma contro i Gentili, a cura di Tito S. Centi, Torino, 1978, Cap. XXVII, pgg. 1077-1078. 369 S. Thomae Aquinatis, Summa Theologiae, cura et studio Sac. Petri Caramello cum textu ex recensione leonina, Tertia Pars et Supplementum, Casali, 1956, Questio I, Articulus 3, pg. 5. 370 Il verso è ripreso da Orazio, è l’incipit dell’Ars Poetica. 109 perché trovò il saldo più generoso per il debito più insolvibile; l’infinita potenza, perché non c’è nulla di più grande di un Dio fatto uomo”371. Il mistero dell’Incarnazione non avvenne perché necessario, ma per un eccesso di amore da parte di Dio; San Tommaso questo ha riferito, poiché ritenne che Cristo si sarebbe incarnato anche se non ci fosse stato il peccato originale. Da questa affermazione scaturirà poi la diatriba tra il pensiero tomista e gli Scotisti, i quali ritenevano che l’Incarnazione fosse un mistero da intendere come “perfettivo”, cioè atto a redimere esclusivamente dal peccato originale. Lo stretto legame che intercorreva tra Circoncisione e Incarnazione non era l’unica relazione manifesta tra i due eventi; secondo San Tommaso il rito della Milah, essendo eseguito nell’ottavo giorno dalla nascita, prefigurava il giorno della Resurrezione poiché Cristo risorse dai morti proprio l’ottavo giorno, quello che seguiva il sabato372. Un sunto di tutte le informazioni discusse sino ad ora, ha portato quindi a ritenere che il mistero dell’Incarnazione, oltre ad essere un concetto ricorrente nel Medioevo e frequente oggetto di studio dei padri della chiesa, aveva acquisito notevole importanza soprattutto nel XV e XVI secolo quando si era risvegliato l’interesse per gli studia humanitatis, cioè studi che riguardavano in primo luogo la dignità dell’uomo373. Tre furono i momenti in cui si manifestò l’Incarnazione: il concepimento nell’utero di Maria, la conseguente nascita del Cristo e infine il rito della circoncisione eseguito dopo

371 S. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, traduzione e commento a cura dei domenicani italiani, testo latino dell’edizione leonina, XXIII, l’Incarnazione: a) il modo (III, pgg. 1-13), pg. 36. 372 Sette sono le età del mondo alle quali dovrebbe seguire l’ottava, l’ultima età nella quale si avrà la “Resurrezione Universale”. Negli studi patristici grande era la rilevanza attribuita alla numerologia: il numero sette aveva in sé pienezza e completezza poiché la terra venne creata in sette giorni e sette erano le ere che dovevano susseguirsi. Se il numero sette acquisì notevole importanza negli studi intrapresi dai grandi padri, l’otto completava la perfezione del numero che lo precedeva poiché simboleggiava “rinnovamento”, “rigenerazione”, Resurrezione.; L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’età moderna, Milano, 1986, pgg. 52-53. 373 Un passo esemplare che credo testimoni la grande importanza assegnata alla cultura e alla dignità dell’uomo nell’età del Rinascimento è tratto dal De hominis dignitate di Pico della Mirandola. Così scrive: «non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto»., G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, a cura di E. Garin, Valecchi, Firenze, 1942, pgg. 105-109. 110 otto giorni dalla nascita. In queste tre fasi della vita di Cristo era la sua carnalità374 che veniva presentata all’osservatore attraverso l’ostentatio genitalium375, la quale veniva poi replicata con la visita dei Magi, spesso raffigurati mentre erano intenti a scostare il panno che copriva il Bambino per vedere se fosse davvero uomo, gesto che verrà ripreso dal Ghirlandaio nell’Adorazione dei Magi (fig. 67) del 1487, da Bruegel, nell’Adorazione dei Magi (fig. 68) del 1564, dal Veronese, nella Sacra Famiglia con i santi Barbara e Giovannino (fig. 69) eseguita nel 1560, in cui è il Bambino stesso a toccare i suoi genitali mentre Giuseppe si sporge e guarda attento 376 , gesto del “toccamento” che ricorre anche nella pala di Andrea del Sarto raffigurante La Madonna e il Bambino con i Santi Caterina, Elisabetta e Giovanni il Battista (fig. 70) eseguita nel 1515377. L’ostentatio genitalium poteva essere rappresentata anche attraverso il “nascondimento” o lo “svelamento” del sesso del Bambino, gesti che in entrambi i casi non facevano altro che focalizzare l’attenzione dell’osservatore sulla carnalità umana di Gesù; come nella Madonna con Bambino e Santi (fig. 71) di Luca Antonio Busati, nel quale Maria sta sciogliendo un leggerissimo velo avvolto intorno al corpo del Figlio, nella Madonna e Bambino con due donatori (fig. 72) del Lotto, nel quale la Vergine copre premurosamente il Bambino intento a benedire le figure dei due committenti, nella

374 La carnalità del Bambino viene rimarcata dalla sua nudità. Giobbe pose questa caratteristica ricorrente del Cristo bambino come simbolo vero e proprio dell’Incarnazione: “Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò” (1, 21). 375 Interessante è lo studio che Leo Steinberg opera all’inizio dell’opera sopracitata a proposito della xilografia di Hans Baldulg Grien rappresentante la Sacra Famiglia. Poste davanti ad un muro diroccato dal quale fa capolino il volto malinconico di San Giuseppe sono Maria, il Bambino ed Anna. La mamma di Maria pone attenzione al sesso del Bambino mettendone così in evidenza la carnalità tipicamente umana, mentre Gesù è intento ad accarezzare il mento della madre e a scostarle una ciocca di cappelli, poiché è attraverso l’orecchio, con l’annuncio dell’angelo, che il Verbo si è incarnato. La posa della mano del Bambino sotto il mento di Maria deriva da una simbologia molto antica; nasce in Egitto, si diffonde in Grecia e arriva all’interno dell’iconografia medievale come simbolo di colei che è stata scelta dallo “Sposo celeste”; L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’epoca moderna, Milano, 1986, pp. 6-9.; Si veda in proposito S.Agostino, Opere Esegetiche, Sermone IX,2 – X,3. 376 Così scrive Leo Steinberg a proposito di questo dipinto: “Supponiamo che il soggetto in questione fosse semplicemente «il Verbo fatto carne», il fatto cioè che il Primo Principio, l’Onnipotente, diviene, stando a tutte le apparenze, un comune figlio d’uomo. «Comune», sembra dire il Veronese, per tutti tranne che per coloro i quali scorgono l’inapparente divinità del Bambino proprio nel suo acconsentire a essere umano. E non è appunto questo che il dipinto mostra? Il pittore ha inscenato una rappresentazione del meravigliosamente banale, una sacra conversazione casalinga, in cui il Bambino, comportandosi come tutti i suoi coetanei, induce i personaggi che lo circondano a vibranti reazioni di pensosa malinconia, irrefrenabile curiosità, devozione, sorpresa”. Ivi, pgg. 76-79. 377 Questo dipinto è conservato al museo dell’Hermitage di Sanpietroburgo. L’altra opera eseguita da Andrea del Sarto, esattamente identica a quella sopracitata, ma priva della figura di Santa Caterina, venne acquistata dalla National Gallery di Londra nel 1831. 111

Madonna della cesta (fig. 73), eseguita dal Correggio tra il 1522 e il 1523, dove Maria, sostenendo il Bambino scompostamente seduto sulle sue ginocchia, gli allarga le braccia come segno premonitore della futura passione, gesto rimarcato concretamente da Giuseppe sullo sfondo, intento a fabbricare le assi della croce. E ancora nella Madonna con Bambino di Rubens (fig. 74), dove Maria sorregge premurosa un piccolo drappo trasparente, mentre osserva con sguardo curioso il volto rapito del Bambino378. Claudio Ridolfi, nell’Adorazione dei Magi (fig. 75) eseguita nel 1642 per la cattedrale di S. Angelo in Vado379, decise di porre l’attenzione del più vecchio dei Magi sul piede del Cristo bambino. Il Re è colto nell’atto di baciarlo, “prostrato a terra, mentre un giovanissimo cortigiano, […], gli regge un pomposo mantello bianco” 380 . Il gesto antichissimo di adoratio, in auge soprattutto nell’età medievale, viene riproposto dal pittore come simbolo di profonda devozione, di vicinanza, di sottomissione di un Re inginocchiato davanti al suo Signore 381 . Lo stesso Rubens, in una delle sue tante Adorazioni382, rappresentò il più vecchio dei Re accovacciato davanti al Bimbo in un atteggiamento teneramente umile. Gesù gli porge il suo piccolo piede, mentre sostenuto da Maria e dolcemente aggrappato con una mano al capo dell’anziano sovrano, si affida alle carezze del Re383 (fig. 76).

378 “Sia nei dipinti religiosi che in quelli storici o mitologici, l’artista esprime innanzitutto i sentimenti più semplici: la tenerezza della maternità e dell’infanzia nelle Vergini con il bambino; il dolore nelle Passioni ed in alcune composizioni mitologiche”. Rubens. 1577-1640, catalogo a cura di D. Bodart, Padova, 1990, pg. 17. 379 L’opera probabilmente venne commissionata dal vescovo Honorato degli Honorati, in carica dal 1636 al 1683, poiché la cattedrale di S. Angelo in Vado venne ripristinata interamente nel 1643. 380 M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pgg. 178-179. 381 Il tema della raffigurazione dei Magi in adorazione “ai piedi” di Gesù bambino, viene ripreso anche all’interno delle Meditationes vitae Christi, “a devotional text of Franciscan origin compiled in central and widely diffused throughout Europe during the later middle ages. In describing the visit of the Magi to the Christ-Child, the text notes that, «[…] wih reverence and devotion they kissed is feet»”. J. Cannon, “Kissing the Virgin’s foot: Adoratio before the Madonna and Child enacted, depicted, imagined”, in Studies in Iconography, Vol. 31, 2010 (published by Princeton University), pg. 23. Anche nella Lunetta rappresentante la Madonna con Bambino, incoronata dagli angeli oggi conservata nei Musei e Gallerie Pontificie di Roma, Ridolfi dipinse Maria con il velo sostenuto dagli angeli posti al suo fianco, mentre con la mano sorregge e avanza lievemente il piede del Bambino benedicente. Numerosi furono in proposito i riferimenti iconografici: Coppo di Marcovaldo, Madonna del bordone, 1261, Siena, S. Maria dei Servi; Cimabue (attrib.), Madonna con Bambino in trono con San Francesco e Angeli, 1280, Assisi, S. Francesco; Nicola Pisano, Madonna con Bambino e Adorazione dei Magi, 1266-1268, Siena, Cattedrale; Duccio di Buoninsegna, Adorazione dei Magi, 1308- 1311 ca., Siena, Museo dell’Opera della Metropolitana; Simone Martini, Maestà, 1315-1321 ca., Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Consiglio; etc. 382 Mi riferisco all’Adorazione dei Magi eseguita da Rubens nel 1618 e oggi conservata al Musée des Beaux-Arts di Lione. 383 “You too, who lingered so long, kneel and adore your Lord God, and then his mother, and reverently greet the saintly old Joseph. Kiss the beautiful little feet of the infant Jesus, who lies in the manger and beg his mother to offer to let you hold him a while. Pick him up and hold him in your arms. Gaze on his face with devotion and reverently kiss him and delight in him”. San Bonaventura, Meditationes vitae Christi, op. cit. in 112

A più di un secolo di distanza Giandomenico Cignaroli, nell’Adorazione dei Magi (fig. 77) eseguita per la parrocchiale di Bonate di Sopra a Bergamo, dipinse il più vecchio dei tre con le mani giunte, accasciato a terra, col volto ai piedi della Vergine, o più correttamente “al piede” della Vergine, il quale spunta prontamente da sotto la veste. La carnalità, la nudità e la gestualità di Gesù divengono dunque il fulcro della rappresentazione. Spesso nelle varie raffigurazioni del rito della Circoncisione, il Cristo Bambino appare sempre accondiscendente, non si ritrae dalle mani del Gran Sacerdote, anzi si offre all’immolazione. Il suo diviene un atto volontario384. Ma, come scrisse l’evangelista Paolo, oltre che nella carne l’uomo ha bisogno di essere circonciso anche nel cuore, poiché “la vera circoncisione è quella del cuore, secondo lo spirito e non secondo la lettera”385. Nel Nuovo Testamento, e in particolare negli scritti di San Paolo, la Circoncisione verrà intesa in questi termini, cioè come una vera e propria dedizione al Padre, non più soltanto un segno visibile e riconoscibile nella carne386. Il messaggio centrale dell’apostolo Paolo era infatti quello della liberazione dalla Legge mosaica in luogo di una dedizione profonda, umile e sentita nei confronti di Dio387; primo fra tutti a darne l’esempio fu suo Figlio il quale “sussistendo nella natura di Dio, non considerò questa sua eguaglianza con Dio come una rapina, ma annientò se stesso, assumendo la

J. Cannon, “Kissing the Virgin’s foot: Adoratio before the Madonna and Child enacted, depicted, imagined”, in Studies in Iconography, Vol. 31, 2010 (published by Princeton University), pg. 23. 384 “Tandis qu’Isaac at Samson se débattent dans les bras de leurs parents, l’Enfant Jésus se soumet avec une sagesse précoce au rite mosaïque qu’il n’a pas voulu abolir”. L. Réau, “La Circoncision et la Présentation au Temple” in Iconographie de l’art Chrétien, Vol. II, Paris, 1957, Cap. II, pg. 259.; É bene integrare questa rappresentazione del Gesù bambino acquiescente e calmo con quella in cui protende le braccia verso la madre alla ricerca di conforto: in questo caso “l’attitude de l’Enfant divin s’humanise”. Ibidem, pg. 259.; Si confronti, ad esempio, la Circoncisione del Mantegna in cui il Bambino guarda implorante la madre stringendo un lembo della sua veste. 385 Rom. 2,29; Cfr. Lv. 26, 41; Ger. 4, 4; Ez. 44, 9; Dt. 10, 16. 386 “Debbiamo dunque esser circoncisi nel cuore da pensieri nociui & immondi, da giudicii falsi temerarii, dalle intentioni & dalle uolontà inique, accioche al cospetto di Dio ci uergognamo di dire & fare quello di che noi ci uergogneremo di fare & di dire alla presenza de gli huomini, perche i fatti e detti nostri sono cogitationi presso a Dio”. Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo nostro redentore scritta da Landolfo di Sassonia dell’ordine certosino. Et di nuovo tradotta da M. Francesco Sansouino. Nella quale con pia et santa dottrina si espongono con facilità gli Evangelij che corrono in tutto l’anno secondo le sentenze de Santi et più approuati Dottori. Et con più diuote meditazioni et Orationi conformi all’Euangelio. Opera non meno necessaria a Predicatori et Parrocchiani, i quali nelle feste principali dichiarano l’Euangelio à popoli loro, che ad ogni altro Christiano che desideri uiuer secondo la santa fede Cattolica. Con le tavole de Vangeli correnti per tutto l’anno et delle cose notabili, et de capi principali poste à loro luoghi, in Venetia: appresso Iacopo Sansouino il Giouane, 1570, Cap. X, c. 26. 387 L’apostolo invitava i suoi discepoli a guardarsi “dai falsi circoncisi” poiché “i veri circoncisi siamo noi, che prestiamo culto secondo lo Spirito e, glorificandoci in Cristo Gesù, non riponiamo la nostra fiducia nella carne”. Filippesi, 3, 2-3. 113 natura di schiavo, facendosi simile all’uomo, riscontrato quanto all’esterno quale uomo”388. San Paolo soffermandosi spesso nelle sue Lettere sul tema della Circoncisione eguaglia questo rito assunto dall’Antica Legge al nuovo rito del Battesimo ritenendo che questi si differenziano soltanto nella “forma esteriore, ma concordano quanto a effetto”, in quanto entrambi sono sphragis, cioè “segno”, di un patto con Dio389.

[…] poiché è in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi siete compiuti in lui che è capo di ogni principio e potenza, nel quale anche foste circoncisi di una circoncisione non fatta da mano, mediante lo strappo del corpo carnale, ma della circoncisione di Cristo, essendo sepolti con lui nel battesimo, nel quale anche foste risuscitati mediante la fede nell’opera potente di Dio che ha risuscitato lui dai morti: anche voi, che eravate morti nelle colpe e nell’incirconcisione della vostra carne, voi egli ha fatto rivivere con lui […]390.

L’ecclesia ex circumcisione, letteralmente era la chiesa che proveniva dai circoncisi, la chiesa degli Ebrei e San Pietro è universalmente riconosciuto come l’apostolo dei Giudei, colui che portava il Vangelo tra gli ebrei. Mentre il rappresentante dell’ecclesia ex gentibus, cioè la chiesa dei Gentili, era San Paolo, colui che convertì i pagani al nuovo credo cristiano. La Circoncisione era dunque sia un chiaro simbolo di appartenenza alla comunità ebraica, ma rappresentava anche un vero e proprio anticipo della Passione, del sangue di Cristo versato per l’umanità. Jacopo da Varagine sottolineava in special modo “quattro cose” che rendevano il giorno della Circoncisione un momento importante:

La prima è l’ottava del Natale, la seconda lo ‘mponimento del novello e salutevole nome, la terza è lo spandimento del sangue, la quarta è il segnale de la circuncisione391.

E se il Cristo è circonciso (come un pegno pagato a nome dei cristiani) ecco che questi non lo debbono più fare. Come il battesimo non era necessario per il Cristo, ma è

388 Lettere ai Fil. 2, 6-7. 389 L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’epoca moderna, Milano, 1986, pg. 50. 390 Col. 2, 9-13. 391 Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, volgarizzamento toscano a cura di Arrigo Levasti, Firenze, 1924. 114 diventato il segno del prendere su di sé la nostra umanità ed il nostro peccato, lo stesso viene affermato della circoncisione392.

Disse ancora Iddio ad Abramo: “Osserverai il mio patto, tu e i tuoi discendenti nel corso delle loro generazioni. Il patto che io faccio tra me e voi, cioè i tuoi discendenti dopo di te, e che voi dovrete osservare, è questo: ogni maschio fra voi sia circonciso. Voi reciderete la carne del vostro prepuzio, e questo sarà il segno del patto fra me e voi; e nel corso delle vostre generazioni voi circonciderete ogni maschio all’età di otto giorni, sia quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualsiasi forestiero, e che non sia della tua progenie. E sia circonciso pure quello nato in casa tua , come quello che tu abbia comprato con denaro; e il mio nella vostra carne sarà patto perpetuo. Il maschio incirconciso, che non avrà reciso la carne del suo prepuzio, sia reciso dal suo popolo: egli ha violato il mio patto393.

La Mišnah394 aveva affermato che “grande è la circoncisione poiché, se essa non ci fosse, il Santo, sia Egli benedetto, non avrebbe creato il mondo”395; inoltre la scelta di Abramo di farsi circoncidere fu decisiva nello svolgersi degli eventi poiché se non avesse accettato, e quindi non si fosse sottomesso alla Legge, l’intera terra ne avrebbe risentito:

392 Alcuni passi riferiti alla Circoncisione: Gen. 17,9; 21,1; 34,22; Es. 4,25; 12,44; Lev. 12,3; Deut. 10,16; 30,6; Gios. 5, 2.7; Ger. 4,4; 9,25; Ez. 44, 9. 393 Gen. 17,9.; In questo stesso passo della Genesi Dio dice al patriarca Abramo: «Non ti chiamerai più Abram ma il tuo nome sarà Abramo». In ebraico Abram era scritto ‘brm mentre Abramo ‘brhm: l’aggiunta della lettera he all’interno del suo nome era stata voluta da Dio nel momento in cui il patriarca venne circonciso, come segno di un’unione, di una completezza con il divino. La he era un simbolo di accettazione del comando di Dio e, sul finire del Duecento, venne considerato un segno della sefirah.; Cfr. G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Torino, 1999, pg. 245.; Landolfo di Sassonia, nello scritto dedicato alla Vita di Giesu Christo si sofferma sul tema “dell’accrescimento del nome” dicendo: “Perche col segno di quella meritò che gli fosse accresciuto e mutato il nome, che essendo prima chiamato Abrā, cioè padre eccelso, fu poi per lo merito della fede chiamato Abraā cioè, padre di molte genti. Et non pur meritò l’augumeto & la mutatio del nome, ma anco la moglie, la quale prima detta Sarai, cioè principessa mia, & della sua casa solamente fu poi detta Sara, cioè principessa di tutte le donne che rettamente credono”. Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo nostro redentore scritta da Landolfo di Sassonia dell’ordine certosino. Et di nuovo tradotta da M. Francesco Sansouino. Nella quale con pia et santa dottrina si espongono con facilità gli Evangelij che corrono in tutto l’anno secondo le sentenze de Santi et più approuati Dottori. Et con più diuote meditazioni et Orationi conformi all’ Euangelio. Opera non meno necessaria a Predicatori et Parrocchiani, i quali nelle feste principali dichiarano l’Euangelio à popoli loro, che ad ogni altro Christiano che desideri uiuer secondo la santa fede Cattolica. Con le tavole de Vangeli correnti per tutto l’anno et delle cose notabili, et de capi principali poste à loro luoghi, in Venetia: appresso Iacopo Sansouino il Giouane, 1570, Cap. X, c. 25. 394 La Mišnah è la legge orale e il suo studio, quindi l’insieme del sapere rabbinico, quello dei grandi maestri. 395 G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Torino, 1999, pg. 242. 115

Se la circoncisione è così preziosa – avrebbe infatti domandato il patriarca – perché non fu data al primo uomo? Il Santo, sia Egli benedetto, gli rispose: Basti che siamo soli io e te al mondo e, se tu non l’accetti, mi basterà che il mondo sia esistito finora396.

III.4 TRE RACCONTI SOVRAPPOSTI (O FORSE QUATTRO)

Il rito della Circoncisione 397 è strettamente legato, come già accennato precedentemente, agli episodi della Presentazione al Tempio e della Purificazione della Vergine. Infatti così è scritto:

Trascorsi gli otto giorni per la circoncisione398 del bambino, gli fu messo il nome di Gesù, come era stato chiamato dall’Angelo prima che fosse concepito nel seno materno. Poi, compiuto il tempo della loro purificazione, secondo la Legge di Mosè, lo portarono a Gerusalemme per offrirlo al Signore, secondo quanto è scritto nella legge del Signore: «Ogni primogenito maschio sarà consacrato al Signore», e per offrire in sacrificio due tortore o due piccoli colombi, com’è prescritto nella legge del Signore. Or, ecco, c’era in Gerusalemme un israelita chiamato Simeone. Quest’uomo giusto e pio, aspettava la redenzione d’Israele e lo Spirito Santo era su di lui. Anzi dallo Spirito Santo gli era stato rivelato che non sarebbe morto prima di aver veduto il Messia del Signore. Andò dunque al Tempio, mosso dallo Spirito; e mentre i genitori portavano il bambino Gesù per fare a suo riguardo quanto ordinava la legge, egli lo prese tra le braccia e benedì Dio dicendo: «Ora, o Signore, lascia che il tuo servo se ne vada in pace, secondo la tua parola,

396 Genesi rabbah XLVI. 3., Ivi, pg. 242. 397 Il filosofo ebreo Mosè Maimonide (1135-1204) considerò la circoncisione, e in particolare gli otto giorni che dovevano trascorrere dalla nascita, dal punto di vista fisiologico sostenendo che “Ogni animale, al momento della nascita, è debolissimo e molle, come se fosse ancora nel grembo della madre; solo alla fine del settimo giorno può annoverarsi tra gli esseri che sono a contatto con l’aria”. Anche Plutarco, nelle Quaestiones Romanae (288 c), si era soffermato su questo tema per quanto riguardava l’imposizione del nome. Così scrive: “Quanto ai giorni, essi prendono quello che segue il settimo, poiché il settimo è pericoloso per i neonati in vario modo e per quanto riguarda il cordone ombelicale, che si stacca per lo più al settimo giorno: fino a che non si è staccato, il piccolo è più simile a una pianta che a un animale”.; in G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Torino, 1999, pg. 244. 398 Il giorno della Circoncisione, secondo il calendario liturgico, cadeva il primo Gennaio ed era strettamente legato al vangelo di Luca nel quale l’apostolo racconta che venne dato al Signore il nome di Gesù che deriva dall’ebraico «Giosuè», cioè «Il Signore è Salvezza». 116

perché i miei occhi hanno mirato la tua Salvezza, che tu hai preparato al cospetto di tutti i popoli, Luce che illumina le genti, e Gloria del tuo popolo, Israele!» Il padre suo e la madre erano meravigliati di quanto si diceva di lui. E Simeone li benedisse, poi disse a Maria, sua madre: «Ecco, egli è posto per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione; e a te pure una spada trapasserà l’anima. Così si sveleranno i pensieri di molti cuori»399.

Il racconto della presentazione di Gesù al Tempio si trova soltanto nel Vangelo di Luca e spesso viene associato all’episodio della Purificazione della Vergine, che avveniva tramite il sacrificio di un agnello e di una tortora o colombo400 (oppure due tortore e due colombi se non era in grado di offrire un agnello) e alla festa della Candelora, nella quale vengono benedetti dei ceri da portare in processione.

Il Signore parlò a Mosè e gli disse: «Ordina ai figli d’Israele: Quando una donna sarà rimasta in cinta e avrà dato alla luce un maschio, sarà impura per sette giorni, tanti quanti per il tempo della sua impurità mestruale. L’ottavo giorno si circoncida la carne del bel bambino, e la mamma resterà ancora altri trentatré giorni ritirata a purificarsi del suo sangue: non tocchi alcun oggetto sacro, né vada al santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Se invece dà alla luce una bambina, sarà impura per due settimane, come nei sette giorni della sua mestruazione, e resterà per altri sessantasei giorni ritirata a purificarsi del suo sangue. Compiuti i giorni della sua purificazione, sia per un figlio che per una figlia, porti al sacerdote, all’ingresso del Tabernacolo di convegno, un agnello di un anno per l’olocausto, e un colombo, o una tortora, per il sacrificio in espiazione del peccato. Egli li offrirà davanti al Signore e farà l’espiazione per lei, ed ella sarà purificata del suo flusso di sangue. Questa è la legge per la donna che dà alla luce un bambino, o una bambina. Se ella non ha mezzi per procurarsi un agnello da offrire, prenda due tortore o due colombi: uno per l’olocausto, l’altro per il

399 Luca 2, 21-35. 400 “La purification est liée à l’eau, au feu, au sang, tandis que l’impur vient de la terre. Elle symbolise la pureté des origines restituée, le sentiment des souillures issues des fautes et des contacts terrestres, ainsi qu’une aspiration à une vie en quelque sorte céleste et le retour aux sources de la vie”. J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles. Mythes, reves, costume, gestes, formes, figures, couleurs, nombres, France, 1969, pg. 630. 117

sacrificio in espiazione del peccato. Il sacerdote farà l’espiazione del peccato per lei, ed ella sarà purificata»401.

Maria, nel giorno della Presentazione di suo figlio offrirà una coppia di tortore, l’offerta dei poveri, invece dell’agnello che era l’omaggio dei ricchi. Questa scelta è stata spiegata dai teologi, e in special modo da Jacopo da Varagine, come conseguenza del fatto che l’oro donato dai Magi nel giorno dell’Epifania era stato distribuito fra i poveri 402 ed era quindi naturale che la Sacra famiglia potesse offrire soltanto due semplici tortore in segno di “umilitade e povertade”. La prima notizia di una festa della presentazione al tempio celebrata a Gerusalemme si trova nella Peregrinatio Etheriae, resoconto del viaggio di una pellegrina del IV secolo, che parla di una festa dell’incontro o Hypapanto, titolo con cui venne recepita in Occidente nel VII secolo. Di origine occidentale è invece la liturgia della luce, che si apre con la benedizione delle candele che, secondo quanto afferma anche Jacopo da Varagine nella Legenda aurea, avrebbe avuto origine dalla cristianizzazione dei riti di luce pagani legati a Roma, alle feste dei Lupercali o di Proserpina, che ponevano fine al ciclo invernale403. A queste indicazioni si sovrappongono quelle dateci dallo storico Louis Réau che sostenne infatti che l’origine della Processione dei Ceri “era un antichissimo rito lustrale pagano, una sorta di Katharsis che veniva celebrata attraverso l’accensione dei ceri, e che avrebbe dovuto scacciare gli spiriti delle tenebre. Fu così che i Greci commemorarono la caduta di Proserpina dopo il suo rapimento per mano di Plutone e che i Romani celebrarono la festa degli Ambarvalia”404. Nell’iconografia orientale la scena si svolgeva all’interno del santuario dove Simeone andava incontro a Maria, abbracciava il bambino e profetizzava su entrambi. Altre due persone partecipavano all’incontro, formando una piccola processione: Anna e Giuseppe. Nell’icona della presentazione sono stati anche rilevati alcuni interessanti

401 Lv. 12,1-8. 402 “Offersero eziando per lui un paio di tortore, ovvero due pippioni. Questa era l’offerta de’ poveri, ma l’agnello era l’offerta de’ ricchi. […] Ma non avea ricevuto la beata Vergine un poco di prima molti pesi d’oro da i Magi? Pare dunque che bene potea comperare un agnello. […] ma la Beata Vergine, come piace ad alcuno, non si ritenne quello oro, ma diello incontinente a’ poveri”. J. Da Varagine, Leggenda Aurea, volgarizzamento toscano del Trecento a cura di A. Levasti, Firenze, 1924, Cap. XXXVII, pg. 319.; “Les théologiens, qui ont réponse à tout, répliquent que cet or avait aussitôt distribué en aumônes”. L. Réau, “La Circoncision et la Présentation au Temple”, in Iconographie de l’art Chrétien, Vol. II, Paris, 1957, Cap. II, pg. 262. 403 Jacopo da Varagine, nel XXXVII capitolo della Legenda aurea, specifica che il giorno della Purificazione della Vergine era anche detto Ipopanti o santa Maria candelaia. 404 L. Réau, “La Circoncision et la Présentation au Temple”, in Iconographie de l’art Chrétien, Vol. II, Paris, 1957, Cap. II, pg. 262. 118 parallelismi tra la figura di Simeone che accolse Gesù e Isaia che ricevette sulle labbra il carbone ardente:

Io esclamai: «Ahimè! Sono perduto, perché sono un uomo di labbra impure, e vivo in mezzo ad un popolo dalle labbra impure, e i miei occhi hanno visto il Re, il Signore degli eserciti». E volò verso di me uno dei Serafini che aveva in mano un carbone ardente, tolto dall’altare con le molle. Egli mi toccò con esso la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra: la tua colpa è tolta, il peccato è perdonato»405.

Simeone, allo stesso modo, vide con i suoi occhi la Salvezza, l’accolse fra le braccia e ne fu illuminato; è la scena del Nunc dimittis, nella quale gli artisti decisero di rendere il vecchio sacerdote, con gli occhi rivolti al cielo, la bocca semiaperta, intento a recitare la preghiera di ringraziamento rivolta a Dio per quel dono di luce che avrebbe stretto tra le braccia prima di morire. Aert de Gelder dipinse, all’incirca nel 1700, un Cantico di Simeone (fig. 78) estremamente lirico: il volto del Sacerdote, insieme a quello del Bambino e di Maria, è illuminato da un bagliore tenue, quasi tangibile, che proviene dall’alto infondendo pace e intimità alla scena rappresentata; le tre figure principali sono in primo piano, soltanto Giuseppe è sullo sfondo, appoggiato al suo consueto bastone, con gli occhi abbassati, quasi socchiusi, non rischiarato dalla lieve pioggia di luce. Giuseppe, come nell’icona della Natività, ha spesso rappresentato l’umanità incredula davanti al mistero; Simeone ed Anna richiamano le figure di Adamo ed Eva nell’immagine della discesa agli inferi; la tenda rappresenta il velo del tempio e i lembi del manto del Signore che lo riempiono secondo la visione di Isaia406. Le porte del santuario sono chiuse e Simeone scende i gradini del ciborio, dove si conservano i pani dell’alleanza. La scena si svolge all’interno del recinto sacro, anche se le figure sono simbolicamente rappresentate all’esterno. Da questa rappresentazione è derivata poi la rara icona del vecchio Simeone, immagine del popolo che incontra la salvezza in Cristo, che è rappresentato con il bambino tra le braccia, a mezzo busto o a figura intera e l’iscrizione sull’icona dice: “Colui che porta Dio”.

405 Isaia, 6, 5-7. 406 “L’anno della morte del re Ozia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto ed elevato; le estremità delle sue vesti riempivano il Tempio. Dei Serafini stavano davanti a lui; ciascuno aveva sei ali: con due si coprivano la faccia, con due i piedi e con due volavano”. Isaia, 6, 1-3. 119

La luce è un elemento di primaria importanza sia nell’iconografia mariana sia per quanto riguarda la figura del Cristo. Le virtù di Maria erano simboleggiate dalle sette candele accese poste sul candelabro d’oro all’interno del Tempio di Gerusalemme; Maria, durante il giorno della sua Purificazione, offriva al Signore un lume che rappresentava la rivelazione di suo figlio alle genti.

Christo figliuolo di Maria è la candela accesa per tre cose, che si trouano in lei, cioè stoppino, fuoco, & cera, & in Christo sono tre cose cioè la carne, anima, & deità uera. Questa candela fu offerta al Signore, per la generazione humana, per la quale si illuminò la notte delle tenebre nostre407.

È il cero che il levita, nella Circoncisione del Ridolfi, reca in mano insieme alla bacinella che contiene il primo sangue versato da Cristo, il quale sembra suggerire con la mano al Sommo Sacerdote le tre parti di cui egli è formato (fig. 79).

Et si come nella deità è una essentia & tre persone, & cosi per lo contrario in Christo è una persona & tre essentie, cioè la deità, l’anima & la carne. Et questo è eterno, nuouo, & antico. Perche la deità è eterna, l’anima è nuoua perche fu creata nell’assuntione, e la carne antica, perche uenne da Adamo. Et Christo secondo la natura della deità è generato, secondo l’anima creato, & secondo la carne fatto408.

Nell’iconografia della Presentazione di Gesù al Tempio e Purificazione di Maria come nel rito della Circoncisione, la luce, e in particolare la presenza delle candele, ricorre frequentemente e ad essa è strettamente legata la figura del vecchio Simeone che, accogliendo tra le braccia il Bambino, viene pervaso da un’intensa luce. Eppure qualche lieve distinzione tra i due episodi è ravvisabile. Gli elementi, o per meglio dire, i partecipanti alla Presentazione sono di norma Maria, Giuseppe, il Bambino, Simeone e Anna, e spesso Gesù viene rappresentato nel momento in cui la madre lo porge al

407 Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo nostro redentore scritta da Landolfo di Sassonia dell’ordine certosino. Et di nuovo tradotta da M. Francesco Sansouino. Nella quale con pia et santa dottrina si espongono con facilità gli Evangelij che corrono in tutto l’anno secondo le sentenze de Santi et più approuati Dottori. Et con più diuote meditazioni et Orationi conformi all’Euangelio. Opera non meno necessaria a Predicatori et Parrocchiani, i quali nelle feste principali dichiarano l’Euangelio à popoli loro, che ad ogni altro Christiano che desideri uiuer secondo la santa fede Cattolica. Con le tavole de Vangeli correnti per tutto l’anno et delle cose notabili, et de capi principali poste à loro luoghi, in Venetia: appresso Iacopo Sansouino il Giouane, 1570, Cap. XII, c. 31, v. 408 Ivi, c. 12, r. 120 vecchio sacerdote e questi lo accoglie teneramente; è un momento di passaggio, dalle mani di Maria verso il paziente Simeone. Nel mosaico rappresentante la Presentazione al Tempio (fig. 80) della Basilica di San Marco, la scena tiene a mente i personaggi canonici del tema biblico: Simeone tiene tra le braccia il bambino e sembra che stia per riconsegnarlo alla madre che intanto si avvicina, mentre Giuseppe osserva il figlio con sguardo amorevole; le due colombe sono poste in una cesta in bella vista sull’altare. Gentile da Fabriano aggiunse nella sua Presentazione (fig. 81) eseguita nel 1423 i due mendicanti, come farà Tintoretto nel dipinto eseguito tra il 1550 e il 1555, ponendone in evidenza uno in primo piano, sulle scale, con una cesta semichiusa che lascia intravedere le due colombe all’interno (fig. 82). Quentin Varin, tra il 1618 e il 1620, dipinse una Presentazione al Tempio (fig. 83) nella quale risulta ben visibile sullo sfondo, grazie a piccoli e studiati colpi di biacca, l’Arca dell’Alleanza, segno che l’episodio si sta svolgendo alle porte del Sancta Sanctorum. Il Sacerdote sta per prendere Cristo in braccio, mentre rivolge già lo sguardo in alto nell’atto di pronunciare il Nunc dimittis; un giovane alle sue spalle sta accendendo una candela, in primo piano una bambina, resa con un antipatico cipiglio, regge in una cesta le colombe da offrire in sacrificio. In questo caso si tratta indubbiamente di una Presentazione, che avviene all’interno del Tempio, senza alcuna allusione al rito che l’ha preceduta. Simon Vouet eseguì una splendida Presentazione (fig. 84), tra il 1640 e il 1641, dove lo spazio, scandito dalle imponenti colonne sullo sfondo, riesce a infondere una profonda solennità alla scena creando “la sensazione di uno spazio organico in cui il movimento, invece di limitarsi semplicemente a legare l’azione degli attori all’interno di uno spazio vuoto, si unisce ai colori, alle luci e ai volumi”409. La luce, irradiante e calda, sembra essere portata dagli angeli che recano il cartiglio del Nunc dimittis. Lo stesso Palma il Giovane, nel 1610, dipinse per la chiesa dei SS. Nazaro e Celso a Verona410, una Presentazione della Vergine al Tempio insieme ad una Circoncisione (figg. 85-86) da porre accanto alla Nascita del Signore e alla perduta Adorazione dei Magi. Così Carlo Ridolfi descrisse le tele non proprio apprezzate dai cittadini veronesi:

409 J. Thuillier, op. cit. nel saggio di R. Temperini, “Tra barocco e classicismo”, in La pittura in Europa. La pittura francese, a cura di P. Rosenberg, Tomo I, Milano, 1999, pg. 261. 410 Il Biancolini riporta: “[…] Nelle pareti si vede la Nascita del Signore, l’adorazione dei Magi, la Circoncisione del medesimo e la Presentazione al Tempio: opere di Giacomo Palma il Giovane”. G. Biancolini, Notizie storiche delle Chiese di Verona, Libro II, Verona, 1749, pgg. 285-286. 121

A’Padri di San Nazzaro di Verona hà pur dipinto il Palma con la miglior sua maniera nella cappella della Madonna il Christo adorato da’ Pastori, visitato da Magi, circonciso, e presentato al Tempio dalla Vergine, con le quali opere, tutto che bene si diportasse non colpì nel genio de’ Veronesi non avvezzi alle maniere di Venetia, e perché essendo tocche con gagliardi colpi, stimando il Palma, che andassero più distanti dall’occhio, non parvero finite à voglia loro411.

Verso la metà del Settecento, Giambettino Cignaroli realizzò una Purificazione (fig. 87) per l’oratorio dei Disciplini di Porta Ripalta nella città di Crema. A differenza delle altre Presentazioni/Purificazioni di cui si è trattato, qualcosa qui viene accentuato e rimarcato, o forse semplicemente lo ricorda. Simeone è inginocchiato davanti al Bambino e fissa lo sguardo lì dove anche i Re Magi si erano soffermati a guardare attentamente. Maria sta per porgere Gesù nelle braccia del vecchio Sacerdote, mentre il Bimbo si lascia guardare con fare mansueto come in qualsiasi Adorazione.

Il dipinto del Cignaroli costituisce una solenne esaltazione di tale momento, che si riassume nelle figure centrali della Vergine e del sacerdote, poste al centro della composizione, in atto di composta adorazione del Bambino, mentre attorno gli astanti, fra cui S. Giuseppe a destra, si muovono in sordina, in un’atmosfera di contemplazione devota e compunta, ravvivata dalla fresca presenza di un fanciullo, che, nell’angolo inferiore, a destra, reca le candele e le colombe412.

Paolo Veronese, nella Presentazione di Gesù al Tempio (fig. 88) eseguita per la chiesa di S. Sebastiano a Venezia, dipinse il vecchio Simeone con lo sguardo attento e rivolto verso il sesso del Bambino413, anzi è Maria stessa che porgendogli Gesù dal basso verso l’alto, gli facilita la vista. Sulla destra, un sacerdote barbuto regge in mano, bene in vista sull’altare, un coltello appuntito. Allude forse alla Circoncisione?

411 C. Ridolfi, op. cit., in S. Mason Rinaldi, Palma il Giovane: l’opera completa, Venezia-Milano, 1984, pgg. 148-149. 412 L. Carubelli, “Presenze veronesi a Crema: Giambettino e Giandomenico Cignaroli”, in Verona Illustrata, Rivista del Museo di Castelvecchio, 1989, n. 2, pgg. 72-73. 413 Nel 1610, Palma il Giovane dipinse per la chiesa di Sant’Alessandro a Viadanica (Bergamo), una Presentazione di Gesù al Tempio nella quale i gesti e le movenze del gruppo principale composto da Maria col Bambino e il vecchio Simeone, riporta alla mente quello ideato dal Veronese per la sua Presentazione in San Sebastiano. 122

Pur tenendo bene in conto le fonti citate e la cospicua tradizione iconografica, spesso i pittori tendono a fondere insieme i due episodi, o semplicemente aggiungono particolari o gesti che ne confondono la storia, o forse l’arricchiscono. Resta il fatto che l’episodio della Circoncisione di Gesù, secondo le fonti, ebbe luogo quando ancora Maria era ritenuta impura per poter entrare nel Tempio, doveva infatti attendere altri trentadue giorni per potervi accedere. Come narra Jacopo da Varagine, Maria decise di osservare il rito della Purificazione poiché voleva dare un esempio di umiltà, come ha fatto suo figlio con l’accettazione della Circoncisione e, in secondo luogo, “per adempire alla Legge”, poiché il Signore non era giunto per “romperla”, ma per osservarla interamente, altrimenti gli ebrei avrebbero potuto non accettare la nuova dottrina cristiana; Gesù sarebbe stato “disguale” se non si fosse sottoposto al rito mosaico. Né Cristo né Maria avrebbero dovuto sottomettersi, poiché entrambi puri; Maria aveva dato alla luce il figlio non per mezzo del seme, ma tramite lo Spirito Santo quindi non necessitava di alcuna purificazione. Cristo, allo stesso modo, osservò il rito della Circoncisione come segno di umiltà e uguaglianza, e con il suo gesto pose fine alla vecchia Legge e diede inizio alla Nuova: il Battesimo prese il posto della Circoncisione. Allo stesso modo, i pregiati oggetti liturgici posti davanti all’altare del sacrificio, alludono al nuovo rito, quello che dal quel giorno avrà inizio (figg. 89-90).

123

III.5 RAFFRONTI TRA MAESTRI

“Ogni giudizio artistico risulta da un confronto, che per lo più si compie nell’inconscio. Si esalta l’impressione per effetto di contrasto”414. Così scrisse Max J. Friedländer rivolgendosi ai “giovani studiosi d’arte”, invitandoli a volgere lo sguardo non soltanto al dipinto oggetto dei loro studi, ma anche ad altre opere, quelle dei maestri coevi e non, che oltre ad arricchire la loro memoria visiva avrebbe ampliato la capacità di cogliere e osservare nelle immagini “distinzioni sottili”. Paragonando la Circoncisione del Ridolfi con dipinti raffiguranti lo stesso rito, o perlomeno, episodi ad esso strettamente affini come quelli sopra citati, è possibile articolare dei confronti che permettano di porre in evidenza differenze, analogie e particolari ricorrenti. Federico Barocci terminò la sua Circoncisione (fig. 91) nel 1590. L’opera di certo dovette divenire familiare al giovane Ridolfi che proprio in quello stesso anno conobbe e seguì il pittore a Urbino. Nel dipinto, l’unico punto fisso in mezzo al vortice dei colori e delle figure è lo sguardo del Bambino415. I suoi occhi neri e sorridenti sembrano guardare con un’espressione consapevole e disincantata l’osservatore; è l’unica figura, insieme all’agnello in primo piano, ad avere lo sguardo rivolto verso l’esterno, entrambi consapevoli di essere future vittime sacrificali. Barocci decise di costruire la scena all’interno di uno spazio aperto, con un ampio squarcio sullo sfondo che lasciasse intravedere il paesaggio cittadino 416 ; la Circoncisione non è avvenuta su di un altare, ma probabilmente su un semplice tavolo in legno; Mohel, posto in ombra sullo sfondo, ha già eseguito il rito e sta riponendo il coltello nel fodero mentre il Bambino, sorretto dal Gran Sacerdote, viene medicato da un assistente con cura quasi paterna. Intanto un giovane recante una candela, alla destra di Simeone, indica ai due pastori il sangue di Cristo contenuto nella bacinella; Maria e

414 Max J. Friedländer, Il conoscitore d’arte, Zurigo, 1955, pg. 110. 415 “The Child is the focal point of the story and composition, placed somewhat to the left of the central axis of the canvas; He appeals to the observer and so does the lamb, this having a symbolic significance of course”. H. Olsen, Federico Barocci, Copenhagen, 1962, pgg. 79-80. 416 Il fatto di ambientare gli episodi religiosi in paesaggi riconoscibili dall’osservatore è stato sottolineato da M. Baxandall in Forme dell’Intenzione, sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Intr. di E. Castelnuovo, Torino, 2000, pg. 180. L’autore riporta, a proposito, un passo tratto da un libro di preghiere di fine Quattrocento intitolato Zardin de Oration, pubblicato a Venezia nel 1494. Così scrive: “La quale historia [la Passione di Cristo] aciò che tu meglio la possi imprimere nella mente, e più facilmente ogni acto de essa ti si reducha alla memoria ti serà utile e bisogno che ti fermi ne la mente lochi e persone. Come una citade, laquale sia la citade de Hierusalem, pigliando una citade laquale ti sia bene praticha”. 124

Giuseppe osservano oranti la scena, mentre i due angeli in alto sembrano scostare una tenda (forse quella del Tabernacolo d’ingresso descritta nelle Sacre Scritture), per lasciare entrare il bagliore dal cielo all’interno del modesto ambiente. Niente sembra riportare alla mente il maestoso Tempio, ma anzi, tutto sembra suggerire il luogo della nascita di Cristo; un ambiente semplice, senza pavimentazione, aperto verso l’esterno, con il bue e l’asino che si lasciano intravedere tra un lembo scostato della tenda e l’ombrosa figura di Mohel. Il rituale potrebbe esser stato compiuto sul tavolo dove è seduto il Sommo Sacerdote o semplicemente sulle sue ginocchia; nessun altare sacrificale, è l’agnello in primo piano che rimarca il sacrificio che si è appena compiuto e preannuncia quelli a venire417. Barocci ha voluto tener fede alla tradizione418, ha lasciato che il rito avvenisse nel luogo della nascita, alla presenza di due mansueti e adoranti pastori che sembrano riallacciare con la loro presenza l’episodio precedente della Nascita con quello successivo della Circoncisione che è appena avvenuta; nessun Tempio abbellito, soltanto un’ambientazione di “ricercata familiarità”419. Lo stesso cardinale Federico Borromeo, nel 1621, avrebbe insistito nel suo scritto dedicato alla pittura sacra sul fatto che l’episodio della Circoncisione non avrebbe dovuto situarsi all’interno di una chiesa o nel Tempio, ma nella grotta della Natività420. Il dipinto venne terminato nel 1590, ma il tempo di lavorazione che il Barocci impiegò per realizzarlo necessitò di alcuni anni.

“The Circumcision” must also have been in the process of execution in the late 1580’s as the painting is dated 1590 but even if it is related in various ways to the works of that dacade it decidedly marks the beginning of a new phase in Barocci’s development421.

417 “In front of the shepherd in the left foreground lies a sheep, giving ambiguous connotations of the sacrifice of Christ and the theme of Ecce homo, or to Old Testament rituals that are to be replaced by the teachings of the New Testament”. P. Gillgren, Siting Federico Barocci and the Renaissance Aesthetic, Great Britain, 2011, pgg. 142-144. 418 “A few more followed those early apocryphal narrative traditions which respected the close temporal (and thematic) connection between Circumcision and birth, by setting the scene in the cave or manger of the Nativity”. Jack M. Greenstein, Mantegna and painting as historical narrative, Chicago-London, 1992, pg. 179. 419 A. Emiliani, Federico Barocci, Ancona, 2008, Vol. II, pg. 252. 420 “Since it was only in art and travel literature that the Circumcision of Christ was connected with the Temple, the site was not subject for further theological argument until post-Tridentin theologians took upon themselves the task of instructing painters on the correct depiction of sacred events. The first of these theologians who addressed the site of the Circumcision was Cardinal Federico Borromeo”. Jack M. Greenstein, Mantegna and painting as historical narrative, Chicago-London, 1992, pg. 184. 421 A. Olsen, Federico Barocci, Copenhagen, 1962, pgg.79-80. 125

L’Olsen attribuisce quindi alla Circoncisione un punto di snodo all’interno della carriera artistica del Barocci, l’inizio di una serie di dipinti di carattere strettamente religioso e definisce questa nuova fase del suo fare the Great Proto-Baroque Works. La vera e propria commissione venne richiesta dalla Confraternita del Nome di Gesù di Pesaro nel 1581; il lungo lavoro di preparazione è testimoniato dai numerosi bozzetti preparatori che spesso comprendevano soltanto alcune parti del dipinto definitivo (come ad esempio la zona centrale del quadro (figg. 92-93), quella raffigurante il dottore (figg. 94-95) e il Gran Sacerdote. Si hanno notizie del dipinto fino al 1797 quando, con le soppressioni napoleoniche e il trattato di Tolentino venne definitivamente trasferito a Parigi. L’opera, deposta in un primo tempo nella chiesa di Nôtre-Dame, venne poi, nel 1862, concessa al museo del Louvre422. Tra il 1604 e il 1605, Rubens eseguì una Circoncisione (fig. 96) per l’altare maggiore della Chiesa del Gesù di Genova423, una delle più importanti commissioni ricevute dal pittore durante il suo soggiorno in Italia. Questo dipinto, più che ispirarsi alla maniera baroccesca tanto cara al pittore, che proprio in quegli anni andava studiando assiduamente riproponendo le grandi opere del maestro urbinate, attraverso fedelissimi schizzi acquerellati 424 , molto riprese invece dall’opera del Correggio, soprattutto nella raffigurazione degli angeli posti al di sopra dell’evento sacro, o nel personaggio che regge il libro illuminato dai raggi provenienti dall’alto, che sembra figurare come un modello “esemplato sugli apostoli che assistono alla Assunzione della Vergine nel duomo di Parma”425. Il gesto di Maria è chiaramente disegnato sul modello della Pudicizia Vaticana; mentre la figura di Mohel colta di spalle riporta alla mente la Maddalena raffigurata nel Giorno; l’aura di luce proveniente dal Bambino è la stessa dell’Adorazione dei pastori (La Notte) conservata nella Pinacoteca Comunale di Fermo 426 . Il dipinto di Rubens si potrebbe definire un vero e proprio crogiolo di citazioni. Ma ben orchestrate e fuse insieme. Le figure partecipanti al rito, a differenza del metodo compositivo adottato dal Barocci, vengono qui spinte in primo piano, il

422 A. Emiliani, Federico Barocci, Ancona, 2008, Vol. II, pgg. 250-263. 423 Questa pala venne commissionata dal banchiere Nicolò Pallavicino, ma secondo il Negroni, sembra che venne richiesta al pittore dal fondatore della chiesa, P. Marcello. Nella chiesa del Gesù di Roma lo stesso tema della Circoncisione venne affidato al pittore Girolamo Muziano nel 1587. 424 Mi riferisco in particolare allo splendido disegno raffigurante Il martirio di S. Vitale (figg. 97-98), eseguito da Rubens nel 1605. Il segno grafico preciso e calligrafico in alcuni punti, lascia spazio ad ampie macchie acquerellate di rossi e di bruni. 425 M. Jaffé, Rubens, traduzione di G. Mulazzani, Milano, 1989, pg. 76. 426 “La luce incandescente, il volo degli angeli in alto, l’atteggiamento del rabbino, e specialmente la figura del serafino adolescente sono altrettante testimonianze dell’ammirazione di Rubens per Correggio, la cui pittura aveva studiato a Mantova e anche a Parma, Modena e Reggio”. Ivi, pg. 157. 126 luogo non ha alcuna caratterizzazione spaziale, eccetto il varco sullo sfondo che dona al dipinto uno sbocco di profondità; in alto un vortice di nubi e angeli apre un grande occhio luminoso che irradia prepotentemente i volti degli astanti. Orazio Gentileschi, tra il 1605 e il 1607427, dipinse per la Chiesa del Gesù di Ancona una Circoncisione (fig. 99 ) che, insieme al dipinto raffigurante la Maddalena, eseguito per la chiesa eponima di Fabriano, segna l’inizio di un fruttuoso e ricco rapporto con le Marche, e soprattutto con la città di Fabriano che erediterà molti dei suoi lavori prima della partenza del pittore per Genova, avvenuta nel 1621. Gentileschi strutturò la sua composizione esattamente nello stesso modo in cui Ridolfi, una decina di anni dopo, deciderà di riproporre (naturalmente apportando evidenti e sostanziali modifiche) la struttura compositiva del pittore pisano: la figura di Mohel viene posta aldilà del tavolo sul quale si sta effettuando il rito, Maria è in piedi a mani giunte in primo piano, Giuseppe si sostiene stringendo con entrambe le mani il suo bastone, le due coppie di figure sullo sfondo sono rappresentate esattamente in corrispondenza delle due colonne poste alle loro spalle. Nell’opera del Gentileschi risulta evidente un accentuato manierismo, le figure sembrano ritagliate nello spazio, la struttura nel complesso appare particolarmente artificiosa, “la disposizione delle figure risponde a una simmetria quasi pedantesca”428. Nessuna di queste caratteristiche è ravvisabile nel dipinto del Ridolfi; pur riprendendo in parte la stessa struttura compositiva, ogni componente del quadro appare naturale e i contorni lievemente sfumati delle figure non possono far altro che riportare alla mente quelle del Barocci (fig. 100). La figura di Dio e degli angeli musicanti429 posti nel registro superiore del dipinto del Gentileschi, sono state escluse dalla composizione del Ridolfi, che non ha registri poiché il rito occupa l’intera tela, senza alcuna discesa angelica. Il tavolo coperto da un pesante drappo verdastro sul quale sono appoggiate le bende per la medicazione, viene sostituito da un massiccio altare in pietra che lascia “intravedere in rilievo putti di vaga

427 Di pochi anni posteriore, 1608-1610, è l’affresco raffigurante la Circoncisione eseguito dal Gentileschi per il battistero di Santa Maria Maggiore a Roma. 428 Orazio e Artemisia Gentileschi, a cura di K. Christiansen e J. W. Mann, Ginevra-Milano, 2001, pgg. 64-67. 429 Credo sia pertinente ricordare a questo punto l’insolita Circoncisione di Philippe Quantin, dipinta nel 1635, nella quale tre cantori accompagnano con le loro voci il rituale che si sta compiendo, non per confondere col canto le lacrime versate dal Bambino, né per distrarlo dal dolore, ma per far intendere che il suo primo sacrificio ha esattamente la stessa virtù sacramentale della Messa (fig. 101); è l’unico esempio di una Circoncisione che si svolge “in musica”. L. Réau, “La Circoncision et la Présentation au Temple” in Iconographie de l’art Chrétien, Vol. II, Paris, 1957, Cap. II, pg. 260. 127 derivazione michelangiolesca” 430 . Il Bambino, adagiato su un cuscino, rivolge lo sguardo all’indietro, verso la madre che glielo restituisce teneramente, mentre Ridolfi pone Gesù sull’altare, accolto tra le braccia del vecchio Sacerdote e si lascia contemplare con fare consapevole. Alle spalle di Maria una donna discute con il personaggio che gli è di fianco, nel dipinto del Ridolfi fa invece capolino il viso di una donna con il capo coperto da un velo, come se volesse alludere all’immagine della Sinagoga, alla chiesa degli ebrei, che in quel preciso giorno, con il rito della Circoncisione, viene adombrata dalla nuova Chiesa, quella fondata in Cristo. Velata e arretrata, rispetto alla figura di Maria, è la donna che la personifica. È innegabile che il Ridolfi abbia visto l’opera del Gentileschi431, a sua volta ripresa anche da Giovanni Francesco Guerrieri per la realizzazione della Circoncisione (fig. 102) di Sassoferrato432, e ne abbia tratto ispirazione. Ma è altrettanto innegabile la differenza abissale che intercorre tra i due dipinti. L’impressione che si ha osservando la Circoncisione del 1607 è di confusione, di agitazione, le figure si muovono in maniera macchinosa e articolata, affatto naturale. Nella Circoncisione del Ridolfi ogni gesto è controllato e lento, l’ambiente è raccolto e si percepisce che qualcosa di sacro sta accadendo, il levita sta bisbigliando le preghiere dal suo libro, il mormorio degli astanti sullo sfondo è quasi impercettibile per chi è davanti e guarda attento (figg. 103-104).

430 S. Marinelli, op.cit., in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 76. 431 Secondo la Mochi Onori, il pittore non risulta essere influenzato “dal contatto con le opere romane, come pure dalla presenza nelle Marche di personalità quali Guerrieri, Gentileschi, Cantarini”. L. Mochi Onori, “Claudio Ridolfi”, in Le Arti nelle Marche al Tempo di Sisto V, a cura di P. Dal Poggetto, Cinisello Balsamo (Milano), 1992, pg. 432. 432 La Circoncisione venne commissionata al Guerrieri nel 1614 dalla confraternita del SS. Sacramento nella chiesa di S. Francesco di Sassoferrato. La pala avrebbe dovuto essere in loco esattamente un anno dopo, ma risultò terminata soltanto nel 1618. Si confronti R. Cannatà, “Guerrieri Giovanni Francesco”, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 60, 2003.; Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pgg. 18-19. 128

III.6 BREVI CITAZIONI E RAFFINATI DETTAGLI

La piccola cittadina di Angiari nasconde in sé, e precisamente nella sua chiesa principale, la pala di un pittore sconosciuto ai più e molto spesso scambiato con un altro artista dal cognome simile, Giovan Battista Rossi, detto il Gobbino. L’ignoto Frencesco Ferrari de Rubeis (o Rossi), dipinse, pochi anni prima che scoppiasse la peste del 1630, una Circoncisione che ricorda molto la pala ridolfiana433; anch’essa doveva essere posta sull’altare del Santissimo Nome di Gesù e il dato ci è noto grazie alla Visita Apostolica del 1611, mentre in quelle successive del 1662 e del 1696, viene esplicitamente ordinato di “deleantur picturae prophanae in calce iconae altaris Nominis Christi”, di togliere le “effiges prophanae in calce”434. Il dipinto reca infatti, al di sotto dell’altare sul quale si sta svolgendo il rito, due ritratti di uomini oltre alla presenza di due santi, Antonio e Bartolomeo. Ciò che interessa in questo caso, non è la storia della pala, ma quello che il pittore decise di cogliere dall’ancona del Ridolfi per poi riproporlo tale e quale nel suo dipinto, e cioè la figura del Sacerdote al centro e il Bambino “sdraiato sulla benda che si accartoccia sul bordo del tavolo”435. Louis Dorigny, sul finere del Seicento, dipinse per chiesa di San Nicolò a Verona, la tela rappresentante Giuseppe che spiega i sogni (fig. 105). Il passo biblico, tratto dall’Antico Testamento, doveva adornare una sorta di “fregio”436 composto da diciotto tele poste ad altezza elevata sulle pareti della chiesa. Dorigny decise di orchestrare la composizione, data la forte visione dal “sotto in su”, con sole tre figure poste in primo piano e una luce abbagliante proveniente da sinistra che illuminasse il giovane volto di Giuseppe.

La luce che staglia la fisionomia della realistica testa abbandonata all’ascolto, fasciata dal bianco turbante, si insinua tra i personaggi e si concentra accecante sulla candida pelle del giovane «dall’elegantissimo profilo», avvolto nelle chiare

433 La pala “mostra scarsi agganci con la coeva cultura veronese, a parte i riferimenti a Claudio Ridolfi e, in certe teste e nei ritratti, a Pietro Bernardi: in attesa che emergano nuove opere del riscoperto pittore si possono però ipotizzare anche contatti esterni, forse mediati dalla vicina Mantova dalla quale, del resto, l’artista proveniva”. E. M. Guzzo, “«Qualche cosa di rimarco»:appunti sul patrimonio d’arte”, in Angiari. Il territorio, la storia, il patrimonio artistico, Angiari, 1998, pg. 249. 434 Ivi, pg. 248. 435 Ivi, pg. 255, nota 16. 436 Louis Dorigny. 1654-1742. Un pittore della corte francese a Verona, a cura di G. Marini, P. Marini, Verona, 2003, pg. 171. 129

vesti giallo dorato con sfumature tendenti all’ocra e impreziosite da applicazioni azzurre437.

La figura di Giuseppe colpisce per la sua luminosità e bellezza, insieme all’esplicita gestualità delle sue mani atte a profetizzare l’imminente perdono. Gestualità speculare a quella di Mohel nella Circoncisione (figg. 106-107) del Ridolfi, dove la mano “artigliata e parlante del vecchio”438 sembra quasi sfiorare la tela439. Nel 1615, Claudio inviò a Verona la pala che avrebbe adornato l’altare della sua famiglia nella chiesa di San Pietro Incarnario440. Il dipinto, raffigurante la Madonna con Bambino e i Santi Carlo, Pietro e Francesco (fig. 108), adotta il consueto schema compositivo su due piani, in basso i santi e al centro, nel registro superiore, Maria e il Bambino con gli angeli musicanti. Si suppone che la pala sia stata inviata dalle Marche, esattamente due anni prima che il pittore si stabilisse a Verona; questo dato viene inoltre confermato dal fatto che la tela utilizzata come supporto avesse una trama di tipica “fabbricazione centro-italiana”441. Ma un ulteriore dato possiamo riscontrare in questo dipinto osservando il volto di San Carlo. Le labbra socchiuse, il naso adunco e gibboso, gli occhi incavati; è il profilo di Mohel, che risulta decisamente invecchiato dopo aver calzato il bianco copricapo, e che diventerà anche il modello per tanti altri volti di San Carlo, come ad esempio quello dipinto dal Ridolfi per la chiesa eponima442. Nel 1806, l’incisore Gaetano Zancon tradusse la pala dell’altare della famiglia Ridolfi in acquaforte (fig. 109), così come aveva fatto per la Gloria dell’Angelo Custode (figg. 110-111) nella chiesa di San Luca443, sempre del Ridolfi, e per il dipinto di Santo

437 Ibidem. 438 “La mano artigliata e parlante del vecchio davanti all’altare sarà una citazione ripresa da Louis Dorigny nel suo Giuseppe che spiega i sogni, dipinto in San Nicolò a Verona intorno al 1690”. S. Marinelli, op. cit., in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 76. 439 “A Verona la pittura di Ridolfi fu imitata e divulgata in forme assai corsive da Giovan Battista Amigazzi, ma restò sempre un esempio da guardare, fondendosi con la nuova ondata di moda correggesca a fine secolo. Essa costituì il principale riferimento per Santo Prunato e per il suo allievo Giambettino Cignaroli, finendo con l’esser preferita sostanzialmente anche a quella di Paolo Veronese nell’accademia settecentesca, e solo con Saverio Dalla Rosa sembra tornare a prevalere il primato di Turchi nella tradizione”. La Pittura nel Veneto. Il Seicento, a cura di M. Lucco, Tomo I, Martellago (VE), 2000, pg. 333. 440 Oggi il dipinto è consevato nel Museo Canonicale di Verona. 441 E. M. Guzzo, op. cit., in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 74. 442 Mi riferisco alla pala raffigurante la Madonna con Bambino e i Santi Anna e Carlo custodita nella Chiesa di San Carlo a Verona. 443 Cfr. Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pgg. 74-75. 130

Prunati che in quell’anno si trovava ancora nella chiesa di San Tomio, ma che avrebbe lasciato di lì a poco per far posto, insieme alle altre pale, al nuovo e increscioso teatro Morando.

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SOTTO LA PELLE DEL QUADRO

In una opera simile vorrei la scrittura appunto come il parlare, cioè ch’avesse piuttosto del proprio, che del metaforico o del pellegrino; e del corrente, più che dell’affettato.

Annibal Caro a Giorgio Vasari 11 dicembre 1547

La teoria applicata dallo storico dell’arte ad una qualsiasi opera, movimento culturale, ambiente religioso o qualsiasi altro processo accaduto in un luogo e in un tempo distante da lui, è quella che il teorico della ricezione Hans Robert Jauss 444 definì Hermeneutik der Fremde, cioè “ermeneutica dell’estraneità”, poiché si trattava dell’interpretazione 445 di un qualcosa di storicamente e culturalmente “estraneo” al luogo e al tempo dello storico odierno 446 . Non vorrei inoltrarmi in discussioni filosofiche troppo ardue e finire poi col perdermi, ma è inevitabile soffermarsi su una definizione che comprende in sé tutta la fatica dello storico e dello storico dell’arte. L’interpretazione di un qualcosa di cui non si è più partecipi e del quale, con fatica, si riesce ad acquisire soltanto una vaga idea di ciò che è stato, fa sì che ciascun campo di indagine diventi in qualche modo fruttifero per la propria ricerca. Osservare questo dipinto e tracciarne una storia, non ha costituito affatto la formulazione definitiva di un significato recondito, né la volontà di collegare ad ogni costo singoli eventi che si accavallavano nel tempo. Tutto si è configurato come una naturale concatenazione di pensieri, una sorta di andirivieni tra immagini viste e frasi lette che hanno restituito, seppur in maniera incompleta, un quadro generale (spesso particolare) ricco e complesso.

444 Accademico tedesco nato a Göppingen nel 1921 e morto nel marzo del 1997. 445 Come scrisse Salomon Resnik, “l’amateur – o l’intenditore – ha bisogno di tempo e di spazio, di un intervallo tra sé e l’opera, per tentare una lettura più approfondita, una ermeneutica, del messaggio. Tale lettura potrà dare origine nel critico d’arte o nell’amateur, alle sue riflessioni e ipotesi”. S. Resnik, “Conoscenza e creatività”, in Tiziano e il manierismo europeo, a cura di R. Pallucchini, Città di Castello, 1978, pg. 418. 446 “Ma avvertire l’estraneità, o postulare storicistiacamente che la frattura dell’alterità debba essersi comunque prodotta, non rende più semplice il compito di determinare in cosa consista e dove passi questa diversità. Anzi è proprio in forza, e non a dispetto di questo assunto, che diviene costitutivamente problematico l’accesso al mondo d’esperienza di un pubblico di cui non facciamo più parte e resta psicologicamente illusoria ogni speranza di immedesimazione nel vissuto di uno spettatore originario, ogni tentativo di superare la distanza in una sorta di Mitempfindung”. M. Di Monte, “Immagini, devozione e pubblico. Sul problema dell’interpretazione della pittura religiosa del Cinquecento”, in Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura, VIII, n. 16, 1998, pg. 12. 132

Saverio Dalla Rosa, nel suo libro dei conti, annotò tra le innumerevoli copie di dipinti eseguite durante la sua “iniziazione” pittorica, quella derivante da una sola opera di Claudio447, la Circoncisione appunto. Sfogliando le prime pagine dell’Esatta nota, il dipinto appariva tra i primi della lista, cioè tra quelli eseguiti nel 1764, agli esordi della sua carriera 448 . Seguiva, annotando nella stessa pagina “2 teste della tavola della Circoncisione di Ridolfi, in grande”449, non specificando, anche in questo caso, per chi fossero state eseguite. Forse li dipinse per sé, poiché ne ammirava la pittura “per le belle arie di teste, per la grandiosità e facilità delli suoi panneggiamenti, e per l’amenità del suo stile, oltre il pregio essenzialissimo del colorito posseduto da tutti in grado così vario e vago, più o meno, ma sempre bello ed imitabile”450. Luigi Lanzi disse degli allievi del Barocci che “dello stile di lui pochi ritrassero lo spirito e i più si fermarono sul corpo e nella corteccia che è il colorito”451. Credo che Claudio Ridolfi possa far parte di quei “pochi”, poiché pur non essendo stato uno dei “grandi”, lavorò accanto a loro e riuscì a distinguersi maturando un gusto tutto suo. La pala di S.Tomio è stata sempre definita un’opera particolare all’interno della carriera artistica di Claudio, un unicum rispetto alle prolifiche e standardizzate “Madonne con Bambino e santi”; si è pensato persino che durante la sua composizione avesse avuto dei suggerimenti e precisi ragguagli da qualche rabbino 452 , tanto era specifica e ricercata la resa dei dettagli. Ma è davvero questo a renderla “unica”? Io non credo si tratti di un’opera singolare e irripetibile; credo piuttosto che la sua bellezza risieda proprio nella coesistenza della sua specificità e semplicità.

447 “Il libro dei conti riporta l’esecuzione di un certo numero di copie. Quelle registrate negli anni iniziali, soprattutto nel 1764, sono da riferire ad un normale apprendistato pittorico, fondato sulle glorie della pittura veronese – Claudio Ridolfi in primis e Alessandro Turchi -, su Correggio e Cignani e sulle opere di Giambettino Cignaroli”. P. Marini, “Con fatica uguale al premio. Saverio Dalla Rosa tra rivoluzione e restaurazione”, in Esatta nota distinta di tutti li quadri da me Saverio Dalla Rosa dipinti, col preciso prezzo, che ne ho fatto, e memoria delle persone, o luoghi, per dove li ho eseguiti di Saverio Dalla Rosa, con un saggio di P. Marini, Verona, 2011, pg. 12. 448 “La Circoncisione di Nostro Signore del Ridolfi in San Tomio”, Ivi, pg. 55. 449 Ibidem. 450 S. Dalla Rosa, Scuola Veronese di Pittura, ovvero raccolta delle migliori produzioni da tutti li più eccellenti professori veronesi fatte ad olio, o a fresco così in pubblico come a privati disegnate, ed incise da Gaetano Zancon e corredate delle notizie, osservazioni, e memorie de’ rispettivi loro autori estese da Saverio Della Rosa Professor di Pittura, Accademico Clementino, Direttore della pubblica Accademia di pittura, e scoltura in Verona, Vol. I, 1806, a cura di G. Marini, G. Peretti, I. Turri, Verona, 2011, pg. 59. 451 L. Lanzi, La Storia Pittorica della Italia, op. cit., II, III, in M. Baldelli, Claudio Ridolfi Veronese pittore nelle Marche, Intr. di I. Faldi, Urbania, 1977, pg. 31. 452 S. Marinelli, op. cit., in Claudio Ridolfi: un pittore veneto nelle Marche del ‘600, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Catalogo della mostra tenuta a Corinaldo, Arcevia, Mondolfo, Ostra e Pergola, 1994, pg. 76. 133

È un linguaggio chiaro quello del pittore, lineare, che non nasconde nulla, ma lascia intendere. Ed è questo a rendere il dipinto infinitamente e potenzialmente ricco, sotto quell’epidermide di semplicità familiare che gli è propria.

Con lo sguardo consapevole e come disincantato, il suo Autoritratto (fig. 112) mostra l’immagine di un uomo sicuro, che guarda dritto negli occhi il suo spettatore, il viso rubicondo lascia trasparire la sua indole modesta e bonaria, ma allo stesso tempo racchiude in sé un’insita determinazione, che affiora, quasi impercettibile, velata di malinconia.

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APPENDICE DOCUMENTARIA

APPENDICE DOCUMENTARIA

Documento n. 1: Vita di Claudio Ridolfi veronese, estratto da C. Ridolfi, Le meraviglie dell’arte ovvero vite dei pittori veneti e dello stato, Padova, 2002, volume II, pg. 549. Due sono gli abusi principali che non lieve danno apportano alla pittura: l’uno è la poca cognizione di coloro che fanno dipingere, errando per lo più nella elezione del pittore; l’altro è l’abbondanza degli inetti e vili pittori, i quali, indotti bene spesso dal disagio, s’inducono a dipingere ad ogni prezzo. Dal primo nasce che gli studiosi, i quali lungamente hanno affaticato, e sono pervenuti a segno di qualche perfezione, non avendo le occasioni dovute, male possono esercitare i loro talenti; il secondo cagiona che si veggano i luoghi pubblici e privati ripieni di mostruose pitture. L’essere Claudio nato di padre nobile veronese, ed accomodato di fortune, fece ch’egli potè applicarsi allo studio, e senza dipendere dall’altrui arbitrio esercitare degnamente l’arte sua. Questi dunque fece i primi suoi studi in Venezia sotto la norma di Paolo Veronese suo compatriotta, onde apprese i tratti della maniera di lui. Si trattenne egli ancor giovinetto in quella città, operandovi varie cose; e fece ai Padri dei Frari un quadro con sant’Antonio, che avendo convertito Buono Bello di Armino eresiarca, lo battezza; ora riposto nel capo del loro refettorio. Ritornato a Verona, gli fu allogata dalla medesima Città una delle tavole della Madonna di Campagna, nella quale dipinse essa Vergine in atto di salire al cielo a godere la gloria, seguendo lo stile del maestro; ma essendo male riconosciuto dai suoi cittadini, e sdegnatosene molto, stette alcuni anni senza voler dipingere, dandosi bel tempo ed ai piaceri della caccia, della quale, ancorchè vecchio, molto si dilettava. Infastidito poi di starsene a Verona, volle vedere Roma, ove lasciò pure alcune parti della sua mano; ed indi passato ad Urbino, si trattenne per qualche tempo in casa di Federico Baroccio valoroso pittore, dal cui fare tuttochè apprendesse qualche delicatezza ed alcune buone arie di volti, non fu molto lodato il cambio ch’egli fece della maniera di Paolo con quella del Baroccio. 136

Indi presa in moglie nobile donna d’Urbino, trasferì l’abitazione a Corinaldo, terra della Marca d’Ancona, lungi alcune miglia, invaghito della bellezza di quel paese ripieno di colli e di piacevoli pianure, il quale rese vie più lieto ed adorno il nostro Claudio con le seguenti pitture, ch’egli vi dipinse in varii tempi. In san Pietro, per l’altare del signor Agostino Brunori, operò la tavola coi santi Biagio e Luca, ed il ritratto del medesimo Brunori; e per la Compagnia del Corpo di nostro Signore colorì due gonfaloni, in uno dei quali è la Cena di Cristo, e nel rovescio la Manna, tipo del Sacramento dell’altare; nell’altro il Salvatore, che dal costato stilla sangue in un calice da una parte, nell’altra la Vergine che sale al cielo. Nella chiesa del Gonfalone ritrasse san Lodovico re di Francia, che viene ammirato per la sua bellezza; ed in san Francesco dipinse la tela della Concezione, ed una pure con l’Assunzione della medesima Vergine al Paradiso per l’altare dei signori Tazii Simonetti. Al capitano Mario Orlandi operò san Tommaso con altri santi per il di lui altare nella chiesa del Suffragio; e nello Spirito Santo fece la venuta dello stesso sopra gli Apostoli. Ma una delle opere più stimate ch’egli fece in quella terra, fu la figura della Vergine Annunciata, posta sovra ai portici del palazzo del Comune, tenuta in sommo pregio da quei popoli, la quale, come diletta con la vaghezza, così trae gli animi alla devozione. In Sinigaglia havvi ancora dipinto il Crocefisso, con la Maddalena ai piè del tronco. A Montesecco, terra dell’Urbinate, fece la tavola di sant’Ubaldo; ed altre se ne veggono di lui in Urbino, Jesi, Fabriano, ed in altri luoghi della Marca. Ma Claudio, desideroso di rivedere i parenti, fece in questo tempo passaggio a Verona, ove con migliore fortuna del passato dipinse le opere che registreremo. Nell’oratorio di san Carlo effigiò il santo Cardinale prostrato ai piedi di nostra Signora, al cui lato se ne sta un Angelo che suona il violino. In santa Eufemia fece quella coi santi Paolo, Antonio e Carlo; e nella sommità sta la Vergine Santissima cinta dagli Angeli, che formar soleva con molta grazia e delicatezza. In san Polo, chiesa vicina al campo Marzio, se ne vede un’altra della Maddalena in contemplazione, coi santi Giovanni e Nicolò vescovo miranti la Vergine Santissima, riputata diligente fatica; ed in san Pietro detto Incarnale vi è un’altra immagine di nostra Donna, coi santi Pietro, Carlo e Francesco, collocata nell’altare di proprietà della famiglia Ridolfi. Viene anche molto lodata la figura di Maria Vergine in piedi con il Bambino al seno, ed Angioletti lontani, posta nella sagrestia dei Canonici nel Duomo. È similmente opera

137 sua, nella chiesa delle monache di san Cristoforo, il presepe di Cristo; ed in santa Anastasia, nella cappella del Rosario, il medesimo Salvatore flagellato alla colonna, con sopra Angeli piangenti. In san Luca è una vaghissima figura dell’Angelo Custode. In san Zeno in Monte sono anche due quadri laterali nella cappella maggiore: in uno appare l’Annunziata; nell’altro, Cristo disputante fra i Dottori; ed in un canto spuntano Giuseppe e Maria, che, veduto lo smarrito Figliuolo, guata sorridendo lo Sposo suo. E nella colomba figurò di nuovo la stessa Regina dei cieli salutata dall’angelo Gabriele; ed altre cose ancora si mirano in quella città e nelle case dei particolari. Ed in quella dei signori Commerlati è una Madonna con san Giuseppe e san Bartolomeo; ed il signor Federico Ridolfi ha una tavola con la medesima Vergine, alcune sante a’ piedi, e due ritratti dei fanciulli della famiglia Pellegrini. Claudio, nello stesso tempo che si trattenne in Verona, operò anche ai Padri di santa Giustina di Padova un gran quadro per la cappella di San Benedetto, ove il glorioso Abate conferisce la Regola dell’Ordine suo ai Principi, ai Monaci ed ai Cavalieri, che gli stanno intorno vestiti con manti e giubbe all’antica, in belle guise; e vi appajono in un canto alcune monache, Regine, ed altre figure, con delicatissimi sembianti e sontuose spoglie; ed in una Gloria volano Angioletti che portano mitre papali ed episcopali, cappelli cardinalizi, e vi si mirano alcuni belli prospetti d’architetture: la quale fatica piacque molto per la invenzione, per la vaghezza dei panni, e per lo studio in ogni parte dall’autore usatovi. Fece ancora in questo tempo una tavola a Terrazzo, villaggio del Veronese, con la Vergine del Rosario, san Domenico, e santa Caterina da Siena; ed altra a Monteforte con più santi; ed una ai Padri Cappuccini di Vicenza, con varii beati; e di nuovo per la chiesa di san Tommaso di Verona dipinse la Purificazione della Vergine, tocca con assai graziosa maniera. Ma stimolato Claudio dalle continue preghiere della moglie, tornò a Corinaldo, ove si trattenne sino alla fine della vita; e ciò gli fu di grave pregiudizio al nome, ridottosi a condurre gli anni suoi migliori fra le strettezze d’una piccola terra. Mandò anche a Venezia al signor Marino Guiscardi il sacrificio di Abramo; nella cui casa vedesi pure di Paolo Veronese una Susanna nel giardino, quanto il naturale. E negli ultimi anni suoi dipinse ancora per il signor Marcantonio Viaro una tela con alcune Virtù, le quali egli pose studiatamente nel soffitto di una stanza.

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Fu Claudio grande osservator del costume nel rappresentare le figure sue, parte lodatissima e principale nel pittore; poiché non basta il buon disegno ed il bel colorito per renderle pienamente perfette, ma conviene che facciano gli effetti proprii del personaggio che si rappresenta, onde l’ammiratore senta rapirsi dalla divozione e dall’affetto: termine però da pochi osservato ed inteso, dipingendosi per lo più senza sapere quello importino o vogliano inferire le figure che si compongono. Finalmente questo egregio pittore, dopo avere goduta una lunga e comoda vita, bene veduto ed onorato da quei popoli lasciò la spoglia mortale in Corinaldo, d’anni 84 incirca, il 1644, restando di lui numerosa e virtuosa prole; dove senza noja di competitori felicemente dipinse: il che non si incontra nelle popolose città, ove abbondano gli artisti, ed ognuno pretende la maggioranza sopra il compagno; dove l’inetto prevale al più degno; e la fortuna fa sempre giuoco a coloro che sono di più leggero intendimento.

Documento n. 2: Claudio Ridolfi, estratto da D. Zannandreis, Le Vite dei Pittori, Scultori e Architetti veronesi, pubblicate e corredate di prefazione e di due indici da G. Biadego, Verona, 1891, pgg. 228-233. Nacque in Verona intorno all’anno 1560, e fu figlio naturale di Fabricio Ridolfi nobile Veronese, il quale, come dice il Dal Pozzo, venuto a morte nel 1594, non altro lasciò a Claudio già adulto, perché di circa 34 anni, che un tenue legato di 50 ducati veneti con poche masserizie. Mostrando fino da giovanetto grande disposizione per la pittura, ne apprese in patria li primi elementi da pittore a noi ignoto, essendo evidente e chiaro che non mai Dario Pozzo poté essergli stato maestro, come erroneamente dice il citato scrittore, perché nato nel 1592, cioè 32 anni dopo di Claudio. Dopo que’ primi insegnamenti stette egli parecchi anni senza più esercitarsi; ma stretto da indigenza ripigliò la pittura, e recatosi a Venezia nella scuola di Paolo Caliari, sotto la direzione di lui s’avanzò mirabilmente nell’arte. […] indi passato in Urbino vi si trattenne alcuni anni, domiciliato nella casa di Federico Barocci valoroso pittore, la cui maniera piacendogli, si formò poi uno stile suo proprio cotanto vago e dilettevole. Fra quanti parlano di Claudio, ci sembra di preferire il Cignaroli, siccome quello che in poche parole seppe più d’ogni altro additarcene il preciso carattere (Serie de’ pitt. Veron.).

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“Dipinse, egli dice, con una maniera sì ghiotta e graziosa, che in estremo diletta e piace. L’arie de’ volti espresse leggiadramente con tale venusta semplicità, condita da un non so che di sorriso, che più non si sa desiderare. Certe ammaccature tanto nelle membra quanto nelle pieghe furono in lui mirabili, e nel far queste ultime fu singolarissimo, panneggiando con un modo facile e ricco insieme, che adorna ma non ingombra le membra. Gran massa di lumi dilatati con fino giudizio su le parti principali seppe usare con uno stile nobilissimo. Il colorito semplice e puro apparisce. Condotte poi sono le opere sue con un brio di pennello sì lindo e guizzante che porge a chi quelle mira un sommo diletto. Alquante preziose di lui tavole abbiamo, e in queste ampio spazio s’apre agli studiosi per apprendere sì pellegrina maniera, che assai tiene della Baroccesca…Perciò…(soggiunge in altro luogo) puossi vantar Verona d’aver in certo modo il suo Guido; chè tale alla bellezza della maniera, all’arie del volto ed alle ben intese pieghe è il nostro Ridolfi”[…]. Che il desiderio di rivedere i parenti lo abbia spinto a condursi alla patria, lo afferma anche il citato scrittore, soggiungendo che quivi dipinse con miglior fortuna di prima, per essere evidentemente piaciuta la sua nuova maniera. […] Dipinse Claudio parimenti per l’altare della casa Ridolfi nella Chiesa di S. Pietro Incarnario la tavola con M. V. ed il Bambino ed Angeli in alto, e sotto li SS. Pietro, Carlo e Francesco d’Assisi, opera assai pregiata; […] Il Presepe di Cristo in S. Cristoforo, l’Annunziata alla Colomba, la Circoncisione del Signore in San Tomio, quella sopranominata in S. Francesco di Paola, una grande mezzaluna con altra sua Annunziata col Padre Eterno nel mezzo ch’era ne’ Cappuccini, e la stessa divisa in due palette eguali, già esistente ne’ Riformati, si conservano presentemente nella comunal galleria; […] Nota poi il Dal Pozzo le seguenti opere di Claudio esistenti a suoi giorni in alcune gallerie in questa città. In casa Sagramoso a S. Fermo un ritratto in piedi con collare di dante e stivali. In casa Gherardini a S. Pietro in Monastero una testa di uomo e l’altra di donna, ch’erano i ritratti di lui e di sua moglie; dal quale si è tratto il ritratto che di Claudio esiste in questa Accademia di pittura. In casa Moscardi una Madonna col Bambino. In casa Giusti a SS. Apostoli un ovato con Pallade che ferisce le radici di un ulivo, col teschio di Medusa a parte, e la B. V. col Bambino e gli SS. Pietro e Paolo. In casa Portalupi a S. Sebastiano, M. V. col Bambino, S. Giovanni e S. Giuseppe al naturale; oltre Cristo al Giordano battezzato da San Gio. Batta sul paragone. In casa Dal Pozzo

140 la B. V. col Divino Infante ed altri quattro Santi, S. Giuseppe e S. Caterina da Siena, ed un ritratto sul paragone. Ed in casa Guadagni, Giuditta col teschio di Oloferne.

Documento n. 3: Estratto della vita di Federico Barocci da Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni di Giovan Pietro Bellori, a cura di Evelina Borea, Intr. di Giovanni Previtali, Torino, 1976, pgg. 200-207. Fu il Barocci sopragiunto dalla morte in tempo che faceva il cartone d’un Ecce Homo, e terminava li piedi di Cristo, che si può credere lo raccogliesse per la gran bontà sua […]. Passò la vita sua ben commoda di beni di fortuna, e lasciò molta copia di denari; perché l’opere gli erano pagate senza replica, quello ch’egli voleva. Non però si guidò mai con l’avarizia, ma solo faceva stima della sua reputazione, dipingeva nobilmente per l’onore, non mancando a studio o fatica […]. Circa li costumi non averesti ripreso in lui cosa minima alcuna; era principalmente caritativo verso i poveri, benefico con tutti, affabile ed umile nel conversare. Et ancora in ciò fece apparire l’abito della sua virtù; poiché essendo trasportato e quasi violentato dall’ira, temperava subito nel primo moto l’animo suo iracondo, e si rimetteva, facendo nel torbido trasparire la piacevolezza e la mansuetudine. Non ebbe mai pensieri vani, non disegnò, non dipinse mai cose meno che oneste; anzi con l’animo suo buono e religioso si rivolse sempre a dipingere sacre imagini e soggetti santi. E perché egli dormiva pochissimo, la sera in casa sua nella stagione del verno si faceva adunanza de’ principali e virtuosi della città, dove si vegliava sino alle otto ore della notte; quel poco che dormiva sempre era travagliato, ed in quello spazio che trovava riposo, si faceva leggere istorie e componimenti poetici, delli quali sentiva piacere e sollevamento. Fu grandissima la stima che di lui fece il suo principe il duca Francesco Maria, che gli assegnò nella sua corte un appartamento in vita; egli vi dimorò alcun tempo, ma dopo accommodatosi a suo gusto una casa, si ritirò ad abitarvi e rese grazie al duca. Non veniva mai questo buon signore in Urbino, che personalmente non andasse a visitarlo, godendo di vederlo dipingere e parlar seco, ed esibendogli ogni suo favore: cosa ch’egli non soleva usare con alcuno […].

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Li modi tenuti da Federico Barocci nel suo dipingere, non ostante il mal suo, furono di molto esercizio ed applicazione; egli operando ricorreva sempre al naturale, né permetteva un minimo segno senza vederlo; del che rende argomento la gran copia de’ disegni, che lasciò nel suo studio. Sempre ch’egli si trovava in piazza o per istrada e respirava dal male, andava osservando le fattezze e l’effigie delle persone, e se vi ritrovava qualche parte raguardevole, procurava di accomodarsene in casa, facendone scelta e servendosene all’occasione; e se avesse veduto una bella alzata di occhi, un bel profilo di naso, overo una bella bocca, ne formava le sue bellissime arie di teste […]. Quanto il colorito, dopo il cartone grande, ne faceva un altro picciolo, in cui compartiva le qualità de’ colori con le loro proporzioni; e cercava di trovarle tra colore e colore; acciocché tutti li colori insieme avessero tra di loro concordia ed unione, senza offendersi l’un l’altro; e diceva che sì come la melodia delle voci diletta l’udito, così ancora la vista si ricrea dalla consonanza de’ colori accompagnata dall’armonia de’ lineamenti. Chiamava però la pittura musica, ed interrogato una volta dal duca Guidobaldo che cosa e’ facesse: «Sto accordando, rispose, questa musica», accennando il quadro che dipingeva […].

Documento n. 4: La Relatio del 1607, De Statu Ecclesiae Veronensis relatio Alberti Valerii Episcopi eiusdem ecclesiae. Studi e documenti di storia e liturgia, XVI, Alberto Valier, Visite Pastorali del vescovo e dei vicari a chiese della città e diocesi di Verona, anni 1605 – 1627, Trascrizione dei Registri XVII – XVIII – XIX delle Visite Pastorali, a cura dell’Archivio Storico della Curia Diocesana di Verona, Verona, 1999, Vol. XVI, pgg. 297-301. Verona civitas non tam amplitudine, antiquitate, situs pulchritudine et fluminis eam intersecantis amoenitate, quam ingeniorum praestantia et christiana pietate, usque a beati Petri temporibus suscepta, insignis, posita est in ea Venetiarum parte quae Galliam Cisalpinam attingit, sub serenissimae Venetae reipublicae gubernatione. Habet amplam dioecesim, cuius longitudo ad septuaginta millia passuum, latitudo vero ad quadraginta protenditur. Finitimi sunt, qua longa est a septentrione, Tridentini; a meridie Mantuani, Ferrarienses et Rhodigini Adriensis dioeceseos; ubi vero lata ab

142 oriente, Vicentini et ab occidente Brixiani ultra Benacum. Metropolitanus est patriarcha Aquileiensis. Huius dioeceseos nonnulla oppida, sive vici, sunt in ditione serenissimis ducis Mantuae et dominorum Madruciorum. In civitate censentur ad septuaginta hominum millia, sub parochiis quadraginta sex, in diocesi autem sub parochiis ducentis viginti octo, ad centum quinquaginta millia, quorum duodecim millia ex Cimbrorum reliquiis, quadameorum semigermanica lingua semper usi, in montibus septentrionem versus degunt. Episcopus habet in loco Bodoloni et Montisfortis omnimodam iurisdictionem. Sunt in ecclesia cathedrali, quae structura et ornamentis magnifica est, tres dignitates, nimirum archipresbyter, praepositus, archidiacunus, decem et octo canonici, thesaurarius, quatuor mansionarii, sexaginta capellani, viginti quatuor acolyti, septem clerici inservientes missis, quatuor ostiarii et fabrica, quae per hominem ab episcopo delectum administratur et necessaria ad cultum Dei et ornamentum ecclesiae suppeditat. Capitulum canonico rum alias praetendebat esse exemptum a iurisdictione episcopi; nunc vero per nova concordata redactum est ad formam sacri Concilii Tridentini et, cum sit magis honestum quam opulentum, sunt in eo viri nobiles civitatis et doctores non pauci habetque iurisdictionem in aliquibus mixtam cum episcopo et in aliquibus separatam. Canonici agnoscunt superiorem patriarcham Aquileiensem. Aedes episcopales perinde ac canonicales adiacent ecclesiae cathedrali. Habet civitas monasteria virorum decem et septem, ordinis sancti Dominici, Minorum de observantia et Conventualium, sancti Augustini, Servorum, sancti Benedicti – scilicet Cassinensium et Olivetanorum – Carmelitanorum, Canonicorum et Lateranensium et Regularium, Cruciferorum, sancti Hieronymi, Iesuitarum et Capucinorum ac sancti Francisci de Paula; nec non decem et octo monasteria monialium ordinis sancti Francisci, sancti Benedicti, sancti Augustini, sancti Dominici, ex quibus duo reguntur a regularibus – monasterium scilicet Sanctae Catharinae de Senis a fratribus Sanctae Anastasiae, ordinis sancti Dominici et monasterium Sanctae Clarae a fratribus Sancti Bernardini, ordinis Minorum de observantia – tertium, vero, Sancti Michaelis, a capitulo Canonicorum ecclesiae cathedralis; reliqua omnia sunt sub regimine episcopi. Ecclesiae fratrum sunt, ut plurimum, magnifice extructae et cathedralis amplitudini et pulchritudini respondet. In aedibus ecclesiae Sancti Sebastiani (quae, cum olim parochialis esset, postea non paucis ab hinc annis animarum cura vicinis parochiis pontificia auctoritate divisa atque distribuita fuit) sunt patres Iesuitae, qui eamdem ecclesiam, magnificentius tamen, tenent extructam; et tum concionum et sacramentorum usu, tum etiam scholarum et

143 congregationum frequentia, maximos in civitate prifectus faciunt. In aedibus praepositurae ecclesiae Sanctae Mariae a Glara degunt clerici regulares, Theatini nuncupati, qui ecclesiam dictae praepositurae cum magno Dei cultus augmento optime tenent. Dioecesis habet decem monasteria virorum et unum tantum mulierum, in oppido Leniaci. Quoad moniales, unicuique monasterio suus praefinitus est numerus et clausura ubique servatur arctissime, iam ab annis ultra quadraginta. Neque in civitate, neque in dioecesi ulla est ecclesia collegiata. Sunt quidem in civitate tres abbatiae: Sancti Zenonis, Sanctorum Firmi et Rustici ac Sanctissimae Trinitatis. Prima commendata est abbati Cornelio, qui est episcopus patavinus; secunda illustrissimo cardinali Manticae; tertia abbati Georgio, qui est episcopus brixiensis. Glarae vero prepositura commendata est illustrissimo cardinali Aldobrandino. Abbatia Sancti Zenonis exercet iurisdictionem separatam ab Ordinario et in ea, praeter abbatem secularem, sunt prior et monachi Teutonici ordinis sancti Benedicti, proprios redditus habentes. Abbatia Sanctorum Firmi et Rustici habet vicarium perpetuum, sub ordinatione tamen episcopi. Abbatia vero Sanctissimae Trinitatis ecclesia est item cum cura, quae tamen per capellanum ammovibilem exercetur. Est etiam ecclesia Sancti Vitalis, cuius est commissarius eques hierosolymitanus, habens curam animarum annexam, quae, ut supra, per capellanum ammovibilem exercetur. In cathedrali est canonicus poenitentiarius nec non alius canonicus cum teologali praebenda, qui per totum annum sanctam theologiam exponit. Est etiam secerdos magister caeremoniarum. Duo sunt in civitate seminaria: unum vocatum schola Acolythorum, qui communibus praeceptoribus utuntur et cathedrali ecclesiae inserviunt et quasdam distributiones quotidianas percipiunt, ceterum in domibus paternis vivunt; alterum institutum iuxta decretum sacri Concilii Tridentini. Perpetuo in ecclesia cathedrali diebus festis verbum Dei praedicatur, quod etiam fit in aliis ecclesiis insignibus, praesertim tempore adventus et quadragesimae et in festis solemnioribus. Mittuntur autem tempore quadragesimae ad castra, vico set pagos frequentiores dioeceseos concionatores regulares circa sexaginta. In civitate est quaedam pervetus sacerdotum et parochorum congregatio, quae, a prioribus usque temporibus, Sancta Congregatio Cleri Intrinseci Veronae nuncupatur, multis tum summorum pontificum tum etiam imperatorum privilegiis decorata, cuius congregationis sacerdotes confratres cum suo archipresbytero et primoceriis singulis sextis feriis hebdomadae primae cuiuscumque mensis in unam dictorum sacerdotum ecclesiam, cum maxima etiam laicorum utriusque sexus frequentia, in girum vel circolum - ut dicitur – conveniunt ibique plures pro

144 defunti missas privata set unam solemnem cum cantu celebrant et concionem ad populum habent et supplicationes pro eisdem fidelibus defuntis, maxima cum religione et pietate, faciunt. Conveniunt sacerdotes in civitate et dioecesi, statis diebus, ad discutiendos casus conscientiae et se mutuo instruendos; quod fit in civitate quidem bis singulis hebdomadibus, in dioecesi vero semel saltem singulis mensibus, iuxta constitutionem et ordinata in libello pro visitatoribus foraneis confecto. Civitas et dioecesis nuperrime tota visitata fuit adsuntque visitatores particulares et generales. Synodus dioecesana quotannis celebratur in hebdomada post octavam resurrectionis Domini nostri, quo potissimum tempore singuli parochi referunt de universo statu suarum ecclesiarum imprimisque de executione visitationum et de iis qui, suae salutis obliti, tempore paschatis ad sacramenta non accesserint, ut contra eos per canonicum huic rei praefectum, tamquam vicarium episcopi, agi possit. Bulla in Coena Domini publicatur. Notariis cancellariae episcopatus praescriptae sunt mercedes omnium scripturarum, et mulctae – ut plurimum – non nisi locis piis attribuuntur. In omnibus fere ecclesiis parochialibus, tam urbanis quam dioecesanis, sunt societates sanctissimi corporis Christi et praeterea in multis societates beatae Mariae aut Rosarij, quae omnes bonis utuntur institutis. Idem dici potest de scholis quas Disciplinas vocant. Floret mirum in modum virginum foeminei sexus congregatio, quae quidem virgines Deo se sanctissimaeque Dei genetrici Mariae sub invocazione et protectione sanctae Ursulae undecimque millium virginum, extra religionis claustra et absque solemni voto, dicarunt. Hae partim in propriis domibus, partim in communibus illis ad hoc comparatis, vitam caelibem ducunt ac suae ipsarum et ceterarum civitatis puellarum et foeminarum saluti et religioso profectui in piis operibus christianaeque doctrinae rudimentis inserviunt. Harum curam gerunt in spiritualibus quidem duo ex clero Veronae spectatae vitae sacerdotes; in temporalibus autem duo et nobiles et pii viri protectors et duodecim vel circiter matronae gubernatrices, omnes tum vitae integritate et pietate insignes tum nobilitate et divitiarum copia praestantes omnesque ab episcopo vel praeferuntur vel saltem approbantur et confirmantur. Haec congregatio, ab annis quinque et viginti instituta, usque adeo et numero et pietate increvit ut omnium pene sit [admistrationi] opulentioresque foeminae nonnulla annuorum censuum legata, in pauperum praesertim virginum eiusdem congragationis auxilium, reliquerint atque in dies relinquant. Magno in honore est congregatio quae in urbe est Orationis, tempore pestilentiae instituta: habet enim magnum coetum virorum

145 nobilium et aliarum piarum personarum quae singulis mensibus suscipiunt sanctissimam eucharistiam et frequentant omnibus diebus festis ecclesiam, in qua eo mense, longo funalium et aliorum luminum ordine, fiunt supplicationes cum sanctissimo Sacramento, ante quod etiam genibus flexis diu propositis articoli oratur. Sunt in civitate sexaginta, quas scholas vocant, in quibus summo studio et pietate pueri et puellae seorsum doctrinae christianae rudimentis imbuuntur;quo necessario munere docendi funguntur etiam parochi et pii homines in omnibus parochialibus dioeceseos. Accedunt in urbe multi adolescentes diebus festis ad quinque oratoria, horas beatae Mariae recitaturi,quo peracto Iesuitae et alii pii sacerdotes evangelium aut quid simile explicant. His oratoriis atque etiam christianae doctrinae sexus utriusque scholis praesunt Iesuitae simul cum uno ex clero veronensi spectatae vitae sacerdote, episcopi vice gerente. In parochiali ecclesia Sancti Ioannis, aedibus episcopalibus contigua, ter in hebdomada habentur pii sermones ad populum, qui ibi frequens solet convenire, ut fit in oratorio romano Sanctae Mariae Vallicellae. In quadam aula episcopatus, gymnasium nuncupata, quotidie aliquid explicantur ex philosophia et ex casibus conscientiae. Praeter scholas Iesuitarum, ad quas confluunt pueri et adolescentes discendi studiosi, multi sunt etiam in urbe nomine non minus probi quam eruditi qui ludos aperiunt et litteras humaniores magno cum fructu iuventutis profitentur. Viget etiam, seu potius floret, satis antiqua Academia Philarmonicorum, in qua a nobilibus iuvenibus animi causa, sine modestia aut dignitatis iactura, musice[s] tum vocis tum manus exercetur et saepe a doctis viris pulchra et utilia de loco superiori tractantur argumenta. Non caret civitas xenodochiis seu hospitalibus, quae optime gubernantur, sed tria sunt magis insignia: unum Sanctae Mariae Misericordiae, in quo aluntur pupilli parenti bus orbati et nutriuntur nomine morbo incurabili laborantes; alterum sub titulo Pietatis, quod patet infanti bus expositis et ho minibus febricitantibus aut vulneratis; in tertio, sub titulo Sancti Jacobi, recipiuntur leprosi. In hospitalibus urbis et etiam in aliquibus, quae sunt in dioecesi, exercetur hospitalitas miserabilium personarum et iter agentium. Est in urbe, et etiam in aliquibus locis dioceseos, societas perutilis operariorum charitatis qui, hinc inde collectis eleemosinis, vicatim adeunt domus pauperum et eorum necessitatibus consulunt. Haec societas singulis mensibus convocatur in cathedrali, praesentibus et eleemosinam facientibus episcopo et urbis rectoribus atque aliis nobilibus et piis viris. Mons quoque Pietatis opulentus magno subsidio est nedum plebi, sed civibus qui, hebraeorum usuras vitantes, oppignerata aliqua suppellectilis parte, inde pecuniam accipiunt. Et pauperum perfugium est in

146 annona charitate horreum quoddam, vocatum il fonteghetto, in quo aere publico, ab apiscopo et piis personis collocato, ex frumentis tempore messis coemptis, semper multae asservantur farinae, quae pauperibus tantum viliori praetio, cum cibo indigent, in [diis] distribuuntur. In civitate consultum est etiam, ab hinc non multis annis, pueris et puellis derelictis, iis nimirum qui in viis panem emendicantes vagabantur, siquidem illis seorsum comparatae sunt aedes et inita ratio necessaria subministrandi. Abbatia Sanctissimae Trinitatis habet aedes adiacentes, in quibus degunt mulieres convertitae nuncupatae quae, huius saeculi vantati pertesae, se Deo perpetuo mancipantes, vitam fere monasticam ducunt. Et in parte separata harum medium sub matrona rum cura educantur et custodiuntur puellae nobiles matribus carentes, quae tamen sumptus sibi necessarios praestant. Et quia in civitate tam frequenti facile est invenire mulieres quae, vel inopia, vel parentum incuria, vel malorum hominum illecebris, ad pudicitiam prostituendam adducantur, extructae sunt aedes ad ecclesiam Sancti Francisci (quae singulis hebdomadibus in episcopatu convocatur) collocantur puellae peccandi periculo expositae et mulieres - seorsum – tamen in peccatum prolapsae, quae honestiorem vitam meditantur, ibique ex eleemosinis hae - seorsum ab illis – religiose viventes servari solent; quoad illis ut honeste et cum timore Dei nubant consultum fuerit. Hebraei etiam, qui numero quingenti vel circiter non sine magno totius civitatis dedecore et piarum animarum scandalo sparsim et palantes insignioribus tamen loci set plateis habitare et eorum mercaturas exercere solebant, novissime ab illustrissimo domino cardinale Veronaeque episcopo septum ordinatum magno[s]que ipsius civitatis et eorumdem hebraeorum sumptu constructum fuit, quod vulgo ghettum appellari consuevit, ubi omnes a christicolarum commercio penitus separati et clausi, vitam ducunt, cum veronensis populi maxima utilitate et ornamento. Denique anno MDCII, post adventum Veronam eiusdem illustrissimi domini cardinalis, conclusum fuit opus mendicantium nomine in maxima quantitate per plateas, vicos et ecclesias eiusdem civitatis, non sine scandalo et cum magno christifidelium incommodo quotidie vagabantur, hinc inde collecti fuerunt et in ampla domo clausi, ubi non solum civium et aliarum personarum piarum eleemosinis aluntur, sed etiam per varias artes vitam ducunt, pie et catholice vivendo ad laudem Domini nostri Iesu Christi. Hic erat huius ecclesiae et dioecesis status quo tempore illustrissimus dominus cardinalis episcopus patruus meus, recolendae memoriae, de mense maii praeteriti in Urbe decessit; cui cum a Gregorio XIII, felicis recordationis, datus essem coadiutur cum futura successione, eo in munere annis quindecim sum versatus. Statim vero ut in

147 episcopatu successi, ob interdictum ecclesiasticum a sanctissimo domino nostro in tota ditione veneta emanatum, ipse in primis ac una mecum veronenses sacerdotes ac universus clerus, religione et debita abedientia erga sanctam apostolicam sedem flagrans, in magnum rerum discrimem adducti sumus, quoniam omnes fere, quantum fieri potest, parere nituntur interdico, quod magna ex parte sequuntur, etsi, ut notissimum est, ob illatam vim et metum magno inde moerore afflicti re [ipsa] praestat prorsus non sine magno vitae periculo nequeant quod unusquisque ut suo satisfaciat muneri effici cuperet. Interim civitas et populus veronensis, qui singulari Dei beneficio semper catholicus extitit, in vera religione retinentur et summopere cavetur ne aliqua labes in re fidei inreparabili pietatis opera ut ante vigent. piae matris ecclesiae sanctae preces exaudire dignetur. Et cum reverendi patres Iesuitae, Theatini ac Capucini discesserint ac postea nonnulli monasticorum superiores, quidam parochi aliisque presbiteri tam civitatis quam dioecesis clam aufugerint, ea propter gymnasium, quod in aedibus episcopalibus aperiri solebat, in aedes seminarii clericorum ad maiorem praeceptorum et discipulorum commoditatem translatum est. Et cum absint reverendi patres Iesuitate, alii electi sunt praeceptores, viri litterati, qui omnia eorum studia ad clericorum seminarii utilitatem conferunt ac nulla in re illis desunt. In reliquo, nil est immutatum. Oramus omnes Deum optimum et cetera.

Documento n. 5: 1599 – 1738: Stampa Delli Signori Gio. Battista Campetti, e Bortolamio Sguaizzer per la loro Dita Campetti, e Sguaizzer contro il Rever. Don Andrea Gambaroni Paroco della Vener. Chiesa di S. Tomio di Verona, e L. C. AL TAGLIO. Mazzo n° 9, cc. 1-3. ASVr, Chiesa di S. Tomio – Compagnia del SS. Sacramento, Liber tercius locatiorum ecclesia sancti Thome, Verona, 1411 – 1456. Exemplum ex Actis Cons. Magifice Ciuitatis Veronae. Die Dominica de mane 17 Januarij 1599 in Consilio XII. & lecta, capta de Ballottis 50 prò contra Vetustioribus Legibus Excell. Senatus nouissimisque latis 5 Decembris 1579, & 12. Ianuarij 1584. sancitum fuit, ut omnes Hebrei in hac Ciuitate habitants in unica mansione unirentur, ut ibidem circumseperentur segregati à Christifidelibus, idemque

148 iamdudum haec Catholica Ciuitas summo perè exoptauit, admonita presertim, quam sepissimè pijs suasionibus Litteris, ignitisque Concionibus Illustriss. & Reuerendiss. D. D. Augustini Valerij S. R. E. Cardinalis Episcopi, & Patris Nostri. Quamobrem hujus Consilij partibus decretum est, ut inueniatur locus idoneus ad Ghettum edificandum, in quo Haebrei ipsi sua exercitia procul à Fidelibus tractent porecte sunt etiam superinde Supplicationes nostrae Sereniss. Reipublice, & emanate sunt Littere Sereniss. Dominij date ad Illustriss. Rectores Nostros, sed hucusque obstitit perfectioni tum Sancti Operis locorum idoneorum penuria ingensque impensa in ipsius Ghetti contructione erroganda. Verum enim veram nuper sedulaque lustrate tota Urbe per praesentes Pressides Nostros ad hoc Munus ellectos compertum est. Vicum illum cui nomen sotto i Letti fore habiliorem, & capaciorem Ghetti aedificandi tum Vicinitate Palatiorum Fori, & Plathearum cum ejusdem situs oportunitare, & latitudine exiguaque impensa in id facienda, ad quam errogandam Haebrei ipsi suo ere ultrò consentiunt. Accedet etiam ad faciliorem Voti executionem, vetus consuetudo Locandarum omnium fere Domorum jacentium in Vico ipso cum ex viginti tribus due, vel ad summum tres Domus à Patronis habitentur, caetereque omnes locari assueuerint. Per comode etiam potest eo duci pars acquis Fontis Auesae, cujus laticibus abluantur extrinsecae sordes Haebreorum, postremo vero locus ipse erit facilimus Clausurae. Itaque ad propositionem Magnifici Comitis Iulij Cesaris Nogarole Prouisoris Communis. Vadit Pars posita per D. D. Prouisores, & Consilium XII., ut pro executione Legum Excellentiss. Senatus Decretorumque hujus Consilij quibuscumque in contrarium, non obstantibus sine mora assignentur Uniuersitati Haebreorum uicus soprascriptus, sotto i Letti, pro ipsorum omnium abitatione ibique antedictorum trium electorum praessidentia tuto claudatur, & circumsepiatur Ghetus deducatur, que fons acquae impensis praedicte Uniuersitatis, que etiam pro reconitione usus fontis annuatim soluere teneatur Magnifice Ciuitati Ducatos viginti quinque corrente. Captum sit etiam ne quis Ciuis, vel aliquis Secularis, aut Ecclesiastibus in futurum locare audeat alicui Haebreo Domus, seu Appotechas extra Clausuram Ghetti sub irremissibili pena confiscationis rei locandae, & quamuis verisimile sit ne quis Patronus Domorum recuset Locationem facere majori praetio, quam hactenus perceperit, & quam comuniter à fidelibus Inquilinis habere posset, sicuti sigillatim pro fictu cujuslibet Domus declarabitur, prudentia, & conscientia eorundem Praessidum cum praesertim agatur Causa fidei in Ciuitate in primis Catholica; attamen ut certius, & fine controuersia preficiatur Ghetus mittantur statim citato per Tabellarium detinere

149 hujusce partis exemplum Sp. Nuntio nostro ut suplex petat à S. Ser., quod Excel Senatus auctoritate ipsa parsconfirmetur, quod ut facilius consequi possimus enixe current D. D. Rectores scribantur S. Ser. Litterae fauorabiles pro Approbatione obtinenda. M. Antonius Corfinus Canc. Quare auctoritate supradicti Cons. mandamus Vobis, ut suprascriptam partem obseruetis in omnibus inuiolabiliter obseruari, ac Rappresentanti restitui faciatis. Dat. in N. Ducali Palatio die 13. Februarij, Indictione 12. 1598. Bartolamio Comino Segr.

Documento n. 6: 1599 – 1738: Stampa Delli Signori Gio. Battista Campetti, e Bortolamio Sguaizzer per la loro Dita Campetti, e Sguaizzer contro il Rever. Don Andrea Gambaroni Paroco della Vener. Chiesa di S. Tomio di Verona, e L. C. AL TAGLIO. Mazzo n° 9, c. 3 Capitolo nell’errezion del ghetto, 1599 ASVr, Chiesa di S. Tomio – Compagnia del SS. Sacramento, Liber tercius locatiorum ecclesia sancti Thome, Verona, 1411 – 1456. Settimo. Che quando essi Ebrei desiderassero di condor ad’affitto altre case contigue à quelle, che questa prima volta loro saranno assignate per causa di allargar le loro abitazioni; Sia loro concesso di poterla fare, concorrendoli la Volontà libera de Patroni, & il Consenso de Sign. Pressidenti, mentre però le Case, che si pigliassero siano comprese, e si possino comprendere nella Clausura, & separazione delle Case de Christiani. Captum de omnibus.

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Documento n. 7: 1599 – 1738: Stampa Delli Signori Gio. Battista Campetti, e Bortolamio Sguaizzer per la loro Dita Campetti, e Sguaizzer contro il Rever. Don Andrea Gambaroni Paroco della Vener. Chiesa di S. Tomio di Verona, e L. C. AL TAGLIO. Mazzo n° 9, cc. 17 r. – 18 v. ASVr, Chiesa di S. Tomio - Compagnia del SS. Sacramento, Liber tercius locatiorum ecclesia sancti Thome, Verona, 1411 – 1456, materiale non inventariato. Exemplum ab Actis Consiliorum Magnifice Ciuitatis Verone. Die Martis 3. Mensis Aprilis 1725: in Cancellaria Communis. Pro Joseph, & Fratribus Greghi Ebrei. D’ordine degl’Jllustriss. Sign. Pressidenti del Ghetto infrascritto fù registrato in atti di questa Cancelleria la licenza infrascritta. Noi Pressidenti del Ghetto infrascritti. Udite le Istanze di Jseppo, e Fratelli Greghi Ebrei, quali desiderano unire alla Clausura del Ghetto una Casa era di ragione del Signor Gio: Battista Pauari, & Teresa Pauari sua Sorella in Contrà di S. Tomio confinante da tutte le parti la Clausura in esso Ghetto in ordine al Capitolo settimo della Parte del Magnifico Conseglio di XII., e L. 13. Luglio 1599 annuendo alle loro instanze, concediamo licenza ad’essi Fratelli Greghi di poter unire alla Clausura stessa la suddetta Casa, con questo però, che debbano separare la comunicazione del piano basso, con l’ordine superiore della medesima all’effetto di douer sempre seruire la Bottegha ad uso de Christiani, e poter l’ordine superiore seruire all’abitato di detti Ebrei, douendo perciò essere la presente registrata nella Cancellaria di Commun. (Gerolemo Liona Proueditor, e Pressidente: (Alessandro San Sebastiani Pressidente. Nicolaus de Zenis Coad. Canc.

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Documento n. 8: 1599 – 1738: Stampa Delli Signori Gio. Battista Campetti, e Bortolamio Sguaizzer per la loro Dita Campetti, e Sguaizzer contro il Rever. Don Andrea Gambaroni Paroco della Vener. Chiesa di S. Tomio di Verona, e L. C. AL TAGLIO. Mazzo n° 9, cc. 46 – 47 r., 48 v. ASVr, Chiesa di S. Tomio – Compagnia del SS. Sacramento, Liber tercius locatiorum ecclesia sancti Thome, Verona, 1411 – 1456, materiale non inventariato. Illustriss, & Eccell. Sign. Podestà: Grauissimo Conseglio. Dalla Venerata Attenzione del Magnifico Conseglio di XII., e L. con la Parte 1599. 17. Genaro, approuata dal Prencipe Serenissimo nelle Ducali 13. Febraro susseguente essendo stati ridotti gl’Ebrei à contenerli perpetuamente, entro il recinto destinatoli, senza che mai fuori da esso potessero estenderli à pretesto di loro habitazioni, cercarono essi posteriormente d’ampliare lo stesso recinto, con diuerse Case, che veniuano habitate da Christiani le quali per esser Confinanti à detto recinto, furono facilmente incorporate coll’apertura delle Muraglie, dalle quali veniua impedita la Communicazione colle prime Case, che al numero di sole vinti trè furono loro destinate con l’esclusione attuale dell’Abitanti Christiani, che fu fatta in forza della suddetta Legge. Non acquietandosi li medemi Ebrei all’incorporazioni praticate in passato, si sono presentemente inuogliati di maggiormante estenderli col procurare la occupazione di altre quattro Case Confinanti alla Piazza grande, che tutti s’attrouano fuori dell’antico recinto, e dallo stesso separate per mezzo della Stradella Pubblica volgarmente nominata l’Entrol del Portello. Quando riuscisse all’Ebrei la desiderata ampli azione, della quale potranno deriuarne col tempo nuoui pretesti di ulteriore estensione venirebbe à restar sensibilmente pregiudicata la Contrada di S: Tomio per il discapito di tante Famiglie Christiane, in maniera che nella medema Contrada sarebbe molto maggiore il numero delle Famiglie di Ebrei di quelle di Christiani, e per tal motiuo comparirebbe ancora maggiormente pregiudicata la Giurisdizione Parochiale. L’attenzione sublime del Magn. Cons. di XII., e L. come che è sempre stata ordinata à fare, che gl’Ebrei perpetuamente debbano contenersi nell’antico recinto, che li fù destinato sino l’Anno 1599, così non hà mancato di esibire col specioso Decreto 26. Decembre 1736. Confirmato in Ducali 10. Genaro susseguente le proue della sua comendabile applicazione per troncare all’Ebrei l’uso dell’istanze, tendenti

152 all’ampliazione del Ghetto, coll’Acquisto di nuoue Case, dal quale sperano la Contra di S. Tomio, e suo Rev. Paroco vedere escluso l’attentato delli medemi d’ampliare il loro Ghetto coll’Acquisto delle quattro Case sopranominate, à cui pretendono di dare fomento col pretesto del Decreto con Capitoli 10. Dec: 1736. Fatto dall’Illustr. Sign. Pressidenti sopra il Ghetto, esibito, e registrato li 12 detto nell’Atti del Conseglio, non però mai capitato sotto l’occhio del Magn. Conseglio de XII., e L. per la sua approvazione espressamente dichiarita necessaria nel Capitolo quarto dello stesso Decreto forse sul riguardo del Costituto presentato nella Pub. Canc. li 30. Sett. precedente , col qual veniua impedito il passaggio à qualsiuoglia deliberazione in proposito delle suddette Case senza il preuio ascolto delle ragioni di Noi Suplicanti […]

Documento n. 9: G. B. Biancolini, Notizie storiche delle Chiese di Verona, Verona, 1749, Vol. I, pgg. 382-383. Notizie della chiesa di S. Tommaso Appostolo, detta volgarmente in Verona S. Tomio. Di questa Chiesa poco ci cade in acconcio di favellare, di essa soltanto dicendosi per tradizione che nel tempo del Gentilesmo quivi alcune Vergini Vestali dimorassero. Nel Documento inserito nel Primo Volume della Seconda Parte della Cronaca del Zagata alla pag. 350 chiamasi questa Chiesa S. Tommaso delle Fanciulle; ed il Canobio afferma che quivi viveano tantissime Monache, siccome ancora nell’altra di S. Pietro in Monastero. La commune opinione però si è, che, perché fu Tempio sacrato alle false Deità, e che, come abbiam detto, era abitato dalle Vergini dedicate alla Dea Vesta, di qui fosse anche da’ Cristiani col nome di S. Tommaso delle Vergini o Fanciulle appellato. Nel mese di Luglio dello scorso anno 1748, nello scavamento fatto per la rinnovazione di questa Chiesa, si sono scoperti alcuni piedistalli di colonne, cinque piedi sotterra, e la parete del muro dipinta; onde si conosce che il pavimento della medesima era una volta assai più basso, e differentemente la Chiesa fabbricata. Nell’Architrave della porta laterale a mano destra di questa Chiesa vedesi scolpita una mano in atto di benedire, come nella qui esposta figura si dimostra. A questa foggia; come altrove dicemmo, soleano gli Antichi rappresentare Iddio; volendo

153 significar colla mano un solo Dio Fattore o Creator d’ogni cosa: e le tre dita le tre Divine Persone: L’azione di benedire è propriamente d’Iddio Creatore, stando registrato nella Genesi, che avendo creato Dio le cose dell’Universo, come buone le benedì. Osservo che questa mano solea essere collocata in un circolo, forse per rappresentarci la figura sferica dell’Universo creato prima, e poi benedetto da Dio; e quindi è molto probabile che avesse origine il costume ne’ Superiori Ecclesiastici benedire il popolo Fedele colle tre dita, per mostrare far ciò eglino quai Ministri, e ad imitazione, del Creatore. Sopra la porta della Chiesa de’ Santi Nazaro e Celso sta effigiata una mano, non così ma distesa, il che è opinione d’alcuni essere un segno indicante la Consecrazione della medesima Chiesa. Sopra l’arco del Portico della nostra Cattedrale sta effigiato l’Eterno Padre in atto di benedire; ma la semplice mano che fu scolpita dinnanzi alla Porta della Chiesa di S. Zenone, e sopra l’Architrave di questa di S. Tommaso, indicano certamente essere ambedue Chiese, al pari di quella, antichissime. PITTURE Ora scenderemo a brevemente descriver le pitture che in questa Chiesa veggonsi collocate: Nella maggior Cappella dunque vedesi il Salvatore che all’Appostolo S. Tommaso fa porre il dito nella piaga del di lui Costato: opera di Marcantonio Bassetti. A mano destra vedesi Maria Vergine, la Carità e S. Giovanni: opera di Carlo Bonomo da Ferrara. Nel seguente Altare vedesi la Circoncisione di Gesù Bambino dipinta da Claudio Ridolfi. Vedesi nell’ultimo da questa parte la Cena del Signore con gli Appostoli: opera eccellente di Santo Prunati. Nell’opposta parte vedesi la pala con S. Martino a Cavallo: opera di Andrea Voltolini. Nel vicino altare altra pala che rappresenta il Salvator del mondo Battezzato da S. Giovanni il Battista: opera del suddetto Voltolini. A sinistra della Cappella maggiore vedesi altra pala in cui sta dipinto S. Pietro: opera di Marcantonio Bassetti.

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Documento n. 10: Notizie riguardanti Saverio Dalla Rosa: D. Zannandreis, Le Vite dei Pittori, Scultori e Architetti veronesi, pubblicate e corredate di prefazione e di due indici da G. Biadego, Verona, 1891, pgg. 490-492. Da un Giacinto nobile Romano, che con la moglie venne nel secolo XVII a rifugiarsi in questa città, ove morì e fu seppellito in S. Silvestro, propagossi la famiglia de’ Dalla Rosa in Verona. Da questa discese Nicola che fu padre del nostro Saverio, natogli da Felice Cignaroli sua moglie l’anno 1743. Dopo corsi di studi di umanità e di rettorica, mostrando il giovane Dalla Rosa somma inclinazione pel disegno, e per la pittura, fu da Giambettino Cignaroli suo zio materno accolto nella sua scuola; […] Non molte opere lasciò il Dalla Rosa in pubblico in questa sua patria, perché occupato assiduamente ad esaurire le commissioni che gli venivano conferite non solo per le città Italiane ed ancor dell’Europa, ma infin dell’America, ove mandò sue pitture a fregiare que’ templi. […] e così pure in S. Tommaso Apostolo un quadro negli intercolunni col detto S. Apostolo che predice l’andata all’Indie di S. Francesco Saverio. […] poiché tanto egli si adoperò acciò altrove asportati non fossero tanti pregevoli monumenti dell’arte, che a suo particolar merito attribuire si deve la loro conservazione, a maggior ornamento di questa Comunale Pinacoteca; lo che peraltro fu a lui, più che ad altri, men difficile di ottenere, stante l’onorevole incarico impostogli fin dall’anno 1803, del catastico delle opere di belle arti esistenti nelle chiese e ne’ pubblici luoghi di questa città; incarico, che in quanto lo riguardava, reso lo aveva in autorità superiore ad ogni altro.

Documento n. 10: Estratto riguardante le pitture e sculture conservate nella chiesa di San Tommaso Apostolo descritte da Saverio Dalla Rosa nel 1803-1804. S. Marinelli, P. Rigoli, Catastico delle pitture e scolture esistenti nelle chiese e luoghi pubblici situati in Verona di Saverio Dalla Rosa, Verona, 1996, pgg. 142-144. S. Tommaso Apostolo Parrocchia Chiesa fabbricata sopra un ben ripartito disegno d’ordine Ionico del nostro Adriano Cristofali. Ultimamente fù fatta qualche mutazione per allargare il Coro, ed il Presbiterio sul dissegno, e direzione di Luigi Trezza.

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In Chiesa nel Coro Il quadro col Salvatore risorto, che all’incredulo S. Tommaso accenna di porre il dito nella piaga del suo Costato, opera assai stimata di Marc-Antonio Bassetti.

Altari Laterali A destra in alto la Statua della Vergine col Bambino del Finali. Di sotto. La Circoncisione del Sig.r. Nostro Gesù Cristo, opera rara di Claudio Ridolfi. L’ultima Cena del Salvatore con gli Appostoli di Santo Prunati. A sinistra. La Vergine, S. Antonio di Padova, e S. Martino di Dom:co Zanconti sostituita a quella, che eravi assai meno spregevole di Andrea Voltolini. Poi la tavola col Salvatore, e S. Gio: Evangelista in alto, e sotto li S:ti Bernardo Carlo, e Francesco dell’Orbetto. Questo altare, e l’altro dirimpetto sono assai belli, ed eguali in dissegno, e proporzione; ma questo è di una esecuzione così pregiata, che non v’è proporzione col compagno. Sono ambi d’ordine Corintio. Le due Statue della Fede, e della Carità poste nelle nicchie laterali alla Capella Maggiore. Sono delli Frattelli Gaetano, e Leonardo Cignaroli. Le due Statue della Speranza, e Carità laterali all’altare di S. Martino del Finali. Li due Angeli laterali all’altare del Sacramento del Peracca. Li cinque quadri a chiaro-scuro con argomenti relativi al Sacramento dell’Eucaristia rappresentati con piccole figure lumeggiate d’oro del Pietro Perotti. Sopra di quelli vi sono sei quadri grandi con azioni del Santo Titolare, e cominciando dalla parte dell’Evangelio Il primo, col Santo, che guarda nel sepolcro della Vergine per baciarvi il Sacro Corpo del Faccioli. Il secondo col Santo, che battezza li tré Ré Maggi di Pietro Perotti. Il terzo col Santo intento a far fabbricare un Tempio al vero Dio di Antonio Pachera. Il quarto col Santo, che predice l’andata all’Indie di S. Saverio di Saverio Dalla Rosa. Il quinto col Santo, che confessa avanti il Tiranno la Fede di Cristo del Pasquini. Il Sesto, col Santo, che viene martirizzato in un Tempio Pagano del Perotti Sud:to.

Sull’Organo Gli Angeli in atto di suonare, e cantare avanti il Sacramento di Prospero Schiavi.

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Nella Sagrestia La tavola con la Vergine, e Bambino in alto con S. Pietro Appostolo etcet: opera fatta nel 1628 dal Sud.to Bassetti. Dirimpetto l’altra con la SS.ma Triade, che incorona la Vergine, e sotto S. Gio: Batta: e Santa Francesca Romana etcet: opera bella fatta nel 1628 da Carlo Bonomo da Ferrara. Due quadri bislunghi con due Profetti del Sud.to Bassetti. L’Annunciazione della Vergine dall’Angelo Gabriele in due quadretti eguali sopra le porte del Vecchio Carpioni. S. Giorgio, e S. Paulo, due quadri figure in piedi maniera antica, e buona ma Incerta.

Nel Soffitto a fresco S. Tommaso, che pone il ditto nel Costato del Salvatore di Marco Marcola.

Esternamente sopra la Porta minore della Chiesa Lo stesso argomento con gli Appostoli a fresco di Giorgio Telliè sostituito a quello, che eravi di Domenico Brusasorzi, e che in occasione della fabbrica non hanno saputo salvare. La Lunetta nel Coro col Padre Eterno, ed Angeli di Pio Piatti.

Documento n. 11: Trascrizione integrale della Visita Pastorale del 23 febbraio 1553 nella chiesa di San Tommaso Apostolo. G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso Apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pgg. 145-149. In Christi nomine Die Jovis 23 februaruj 1553 praesentibus quibus supra Prefatus (sic) R.ˢ D. Episcopus Veronensis [Aloysius Lipomanus] visitavit ecclesiam parochialem S. Thomae orando ante sanctissimum sacramentum orando etiam solenniter pro defunti et circuendo cimiterium bipartitum pro dimidia a de tris et pro alia dimidia a sinistris ecclesiae benedicendo populum et deinceps visitando Sanctiss Sacramentum

157 eucaristiae et alia sacramenta Et denique officio confirmationis incubuit Et Interea Rˢ D. Vicarius processit ad infrascripta videlicet. Ven. D. Leonardus Verlatus rector ecclesiae praedictae fuit cum Juramento interrogatus et respondit Quod ecclesia est parochialis curata cuius fructus sunt circa ducati sexaginta. In ecclesia sunt altaria septem omnia consacrata praeter altare societatis corporis Christi quod habet altare portatile Quorum tria sunt dotata vide licet Altare S. Mariae a misericordia cuius dotis fructus sunt libre 200. in anno et bacete 4 olei et usus domus cum onere coadiuvandi in cura et celebrandi ad dictum altare diebus dominicis lunae mercurj et sabbati et rector est de praesenti D. Iacobus Antonellus, qui non habitat in domo et non coadiuvat in cura iuxta obligationem suam et Iuramentum praestitum tempore obtenti beneficij Et est de iure patronatus rectoris ecclesiae parochianorum et nobilium de Juliarijs et instiuttio spectat ordinario ut patet instrumento manu D. Zuinj de Burgo cancellarij episcopatus die 27 Iunij 1467 (S. Maria della Scala 188). Altare S. Bernardi dotatum cuius fructus sunt ducati octo vel circa in anno cum onere celebrandi singula hebdomada in die martis. Cuius rector est D. Antonius Catus Veronensis ex collazione ordinaria. Et prout relatum fuit deficit in solvendo mercedem substitutj. Altare S. Mammae dotatum cuius fructus sunt sex ducati in anno cum onere unius missae in hebdomada in die Jovis de iure patronatus artis formaierorum Rector ipsius altaris est don Simon Brognolus – Reliqua altaria non sunt dotata – In ecclesia sunt societates altera corporis Christi et Altera nominis Jesu quae bene fubernantur – Intra limites ecclesiae Non extant aliquae aliae ecclesiae nec hospitalia ne calia loca pia – Numerus animarum a comunione est circa sexcentum quinquaginta vel circa et non potest haberi eorum numerus quia frequenter variantur – Inconfessus est unus tantum vetulus et sine scandalo qui promisit confiteri hoc pascate. Franciscus q. Floriani rasonerius Verecundus de valorijs deputatus contratae S. Thomae fuerunt cum Juramento Interrogati de moribus et vita sui rectoris et de eius diligentia sufficientia in rebus officio suo pertinentibus qui optime rettulerunt – Conquesti sunt de substituto. D. Jacobi Antonellj de quo non contentantur Rˢ D. Episcopus mandavit dicto. D. Iacobo ut provideat de magis idoneo et sufficienti – De inconfessis eretici concubinarijs aut alias male viventibus et scandalosis dixerunt nihil aliud scire nisi quod Bernardinus culcitrarius et Hieronymus coracinarius et Thomasius biretarius conversantur simul cum alijs ad invicem circa deum cum scandalo sed quid tractent

158 simul nescitur Interrogati, a quibus posset haberi veritas de praedictis responderunt nescire. Ordinata in ecclesia – Ad altare misericordiae fiant per rectorem illius tobalea, cortina ad pallam, planeta alba cum stola et manipulo – Angeli lignei ornentur saltem aliqua pictura – Ad altare S. Bernardi per rectorem illius fiant tobaleae etcetera necessaria. indiget etiam palla, et Palio. Fiant inventaria ecclesiae, et capellarum per D. Leonardum rectorem ecclesiae et postea registranda – Mandavit etiam eidem D. curato ut non exhibeat sacramentum Bernardino culcitrario nisi habita fide legitima de vera confessione sua. – Fiat cotta pro puero – De quibus omnibus et generalibus commisit mandsatum intimandum Rectori in forma ut nunc. Inventario di Robbe della chiesa di S. Thome che si ritrovava nell’andar al possesso di don Lonardo Verlato rettore nel 1526 – P calice uno dargento con patena similmente dargento – Camisi con soi amitti doi. – Cordoni di filo uno novo et uno vecchio – Item uno cordone di seta cremesina a bottoni d’oro vecchio – Stolle con soi manipuli quattro vecchie – Pianete una veluto cremisino con croce damasco – Una damasco bianca – Una a divisa di veluto cremisino et fiore. – Una a fiore Turchina tutte vecchie – Una dolmisino. Una giala. Una a fiorata con croce doro vecchie et strazzate. Una valessio bianco – Uno Palio all’altare grande di veluto et fiore a divisa come e la soprascritta pianeda – Uno campanello. Uno Calcirelletto dotton – Missali dui uno a mano l’altro a stampo grande – Uno drapo di seta vergato d’oro. Drappi da lettorile dui vecchij – Uno drapo longo de pezzi da sugar le mani – Uno libreto da cantar messa da morto. Certe steche vecchie de Torze – Corporal de pignolato da morto vecchio strazzato – Doi cussini corame vecchij – Turribulo d’otton. Una navesella de fino facta piombo – Uno tabernaculo da tenir il Santissimo sacramento d’otton – All’altar grande Due Angeli dorati. Croce d’otton Una de legno Du’ candeleri di ferro. borse da corporali sacri quattro vecchissime. Tovaglie della chiesa circa dodici vecchie. In casa della chiesa – Una cassa longa di pezzo. Due banche. – Uno scrigno da scritti – Centenaroli due di pietra, et uno di legno vecchio . due letterole vecchie – Cose aggiunte per el soprascritto don Lonardo fino al tempo della visita di mons R 1553. – Due Casse overo stecche da Torze depinte. Due banchette accosto laltar – Quattro candeleri d’otton grandi per l’altare. Uno corporal da morto – Uno camiso con le granate di panno d’oro – Una navicella d’otton Uno cadiletto. Una stola di veluto cremisino con manipulo. Una pianeta di valessio bianca perché e tutta in negro la

159 soprascritta bianca. Una pianeta di damasco zinzolin con croce beretina fatta a spina pesce con la stola et manipulo Uno graduale per cantar messa le feste. Uno manuale per cantar vespro Uno sacerdotale. Una pianeta di veluto bianca vecchia. Uno messale dalla * con coperta broiesca. Item stole e manipuli Una pianeta feriale di sarza broiesca. Camisi quattro alla romana schietti con soi amitti. Cordoni tri seda et altri de revo al bisogno Uno drapo da lettorile. Uno libro rosso da batezar Una bacina otton Uno palio de tela negro da morti Unaltro di seta bianco de incarnato. Unaltro palio di valessio bianco con croce negra tutti per laltar grande. Tovaglie a sufficientia per rimetter et coperte Adi 10 marzo 1541 fece la visita mons R et dato l’inventario – Aggionto uno calice grande col pie di rame et patena dargento – Una pianeta negra di seta imbottida non nova et uno palio della medesima materia et stola et manipulo. Inventario delle robbe dellaltar di S. Mamaso comprate per larte di formaieri – P uno calice con patena dargento. Le soe tovaglie. Una croce di legno adorata. li candeleri di ferro. Un missale scritto a mano in carta bona, in tutto questo tempo non hanno fatto paramento da messa, pero li altrevolte fatti devono esser consumati. Le soprascritte robbe sono al presente in custodia del rettor della chiesa. – Laltar di S. Bernardo e rimaso (sic) spogliato del tutto per avaritia di lor rettori, et ordino (sic) mons R Gianmatheo allultima sua visita li fusse provisto da esso capellano del 1541, adi soprascritto d’ogni cosa necessaria – Laltar che e dallaltro canto non è dotato et al presente vi e una compagnia picciola del nome di Jesu; la quale compagnia hora ha le infrascritte cose, videlicet Quattro candeleri dotto net doi di ferro – Tovaglie doi col segno di IHS. Uno confalone. Uno crocifisso di legno. Dopieri con le steche. – Inventario delle robbe della compagnia del corpo di Christo P Una pianeta di Damasco Bianca con croce rossa fatta da M B.thoeo ferraro a uso pero del rettore della chiesa pero egli la tiene in sacristia appresso a se – Item uno confalone. Candeleri quattro dotton. Doi di ferro. Tovaglie tre. Uno corporal da morti di pignolato novo Una lanterna. Li campanelli per comunicar. Uno palio di seda avergato per laltare. Un baldachino di damasco lionato. Steche otto di dopieri. – item almeno Torze dodeci sempre per accompagnar il santissimo sacramento, al che e obligata per una transattion di mano di m. Hieronymo Piacentino adi 23 giugno 1539, et essi massari tengono le loro cose. – D. Iacomo Antonelli tien lui l’inventario del suo altare perché l’ha da sua posta. Inventario delle robbe della capella della m.ª posta nella chiesa di S. Thome dato per D. Iac. - P Uno calice dargento con una patena Item dui corporatj Item due altri

160 corporali che sono in le mane del R D. Lonardo Item una pianeta di stamegna rossa con stola et manipolo Dui Camisi con li soi amitti. Dui cordoni. Uno missale. Due Tovaglie da altar con la sua coperta – Robbe di casa – Uno letto vecchio picolo straciato Uno stramazolo de sacco – Una cultra vecchia – Una lettera [lettiera] vecchia – Una lettera vecchissima – Un bancho – Una buratadora vecchia et rotta – Una banca longa vecchia – Una banca corta vecchia – Una cadena da foco – Uno calcidrello rotto – Una tavoletta vecchia.

Documento n. 12: Trascrizione integrale della Visita Pastorale del 7 Agosto 1640 nella chiesa di San Tommaso Apostolo. Studi e documenti di storia e liturgia, XII, Marco Giustiniani, Visitationes Pastorales ecclesiarum civitatis et dioecesis veronensium ab anno 1632 usque ad annum 1650, Trascrizione del Registro XX delle Visite Pastorali a cura dell’Archivio Storico della Curia Diocesana di Verona, Verona, 1998, Vol. XII, pgg. 237-238.; |f.417v| SANCTI THOMAE Die martis 7 augusti 1640 Illustrissimus et reverendissimus dominus episcopus antescriptus accessit ad visitandam ecclesiam parochialem sancti Thomae, cuius modernus rector est admodum reverendus dominus Marcus Antonius Zanibonus, ubi honorifice exceptus baldachino, ecclesiam ingressus et factis de more praecibus pro defunctis et impartita populo benedictione cum indulgentiis, visitavit: sanctissimum sacramentum, decenti tabernaculo magno aurato custoditum; fontem baptismalem, lapide divisum; olea sancta, in fenestella ad laevam altaris maioris. Altare maius, cum portatili. Altare sanctae Mariae a misericordia, de iure patronatus rectoris parochialis, seu dominorum de Iuliariis singulis votis, qui titulus modo vacat et fuit praesentatus dominus Carolus Zanibullus, praesbyter brixiensis estque gravatus gravi onere daciarum et decimarum decursarum; illius autem modernus oeconomus est reverendus rector ecclesiae, sed reverendus Anderlinus (rasura) praecessor administravit; adest huic onus missarum diebus dominicis et duabus in singulis hebdomadis, quibus non satisfit ex integro propter tenuitatem proventuum et gravitatem onerum. Altare circumcisionis Domini nostri, dominorum haeredum de Paduanis, qui provident et faciunt celebrari una vice in

161 qualibet hebdomada; in hoc adest societas circumcisionis sed non constat de legitima illius institutione. Alter nuncupatum corporis Christi, in quo adest societas eiusdem, quae providet ex legatis de necessariis; adest onus celebrandi diebus festis et duabus vicibus in hebdomada. Altare sancti Martini, artis pezzarolum. Altare sancti Bernardi, cui adest titulus sub invocatione sancti Bernardi, cum onere semel in hebdomada die feriali celebrandi; vacat ab anno 1630; reverendus rector est oeconomus, qui etiam satisfacit oneri; habet redditus minalium 17 frumenti et circiter librarum decem septem |f.418r| monetae veronensis, quarum maior pars est inexigibilis; gravatum vero est decimarum et daciarum onere decursarum ad libras 200; adest amplius legatum annuale, cum onere missae quotidianae, illorum de Fidentiis et onus solvendi elemosinam pro dictis missispertinet ad dominos Leonardum Mezzarium ey Johannem Baptistam Bernardi; illi vero de Fidentiis manutenent. Altare sancti Petri, quod fuit erectum seu instauratum per dominum Petrum Bergatum, qui adhuc vivit, qui se obligavit ad manutenendum suis expensis et celebrari faciendum omnibus dominicis diebus, cum expressa condicione quod si ipsum penituerit continuare in officiatura dicti altaris, sublata suppelectili altare nudum maneat ecclesiae, prout etiam fecit. Sacrestiam. Et pro omnibus et singulis supradictis, mandavit et ordinavit ut infra videlicet. Ante altare maius ponatur crucifixus ad fornicem; pro fonte, aptetur ciborium et fiant vasa argentea ad formam expensis viciniae; pro altare sanctae Mariae a misericordia: provideatur de tobaleis pro mensa et pro icona et de portatili consacrato ad formam; pro altare circumcisionis, petatur nova erectio dictae societatis cum novis indulgentiis; pro altare et societate corporis Christi, massarius exhibeat politiam reddituum et onerum et quotannisb in posterum de novo creetur et reddat rationem suae administrationis; pro altare sancti Martini: intimetur administratoribus artis pezzarolum quod, in termino alias praescripto iuxta conventionem et eorum obligationem, debeatt construxisse altare, alias illustrissimus |f.418v| providebit prout sibi videbitur convenire cultui divino – reverendus rector exhibeat exemplum praescriptae obligationis; pro altare sancti Bernardi, provideatur de telis cerata et stragula; pro sacristia, fiat planeta rubea decens.

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Documento n. 13: Trascrizione complete della Visita Apostolica del 3 Novembre 1657 nella Chiesa di San Tommaso Apostolo. G. Crosatti, La chiesa di S. Tomaso Apostolo (S. Tomio) in Verona, Verona, 1942, pgg. 151-154. Die Dominica 3 Novembris 1657, Illustrissimus et Reverendissimus D. D. Episcopus Veronae, et Comes [Sebastianus Pisani] etc. finem primae suae visitationis Ecclesiarum Veronae sectans, ad Parochialem Ecclesiam S. Thomae Veronae accessit, et cum pervenisset ad limites ipsius, summo honore, et reverentia, Populique letitia fuit benigue exceptus sub baldachino, et osculata Cruce à R. D. Carolo Zanibello Presbytero Brixiensi Rectore porecta (sic) Ecclesiam ipsam ingreditur, et facta humili orationi Populo benedixit, et indulgentiam plenariam apostolica auctoritate adstantibus concessit, missam celebravit, et utriusque sexus christifidelibus circiter. 60. Santissimum eucaristiae sacramentum administravit, et preces pro defunti absolvit. – Visitavit Santissimum eucaristiae sacramentum in pixide, et tabernaculo decenti bus servatum. – Fontem baptismalem in loco ostio clauso dextera manu habito respectu ad ingressum per valvas maiores in Ecclesiam existente. Olea sacra omnia cum suis urseulis, et cotulis in fenestella à Cornu Epistolae maioris Altars decenter habita. Altare maius cum portatili decenter ornatum Cui Rector providet de necessarijs. Altare s. Petri pariter cum portatili existens seu restauratum per q. D. Bugatum, pro cuius disposizione remansit in libera Rectoris potestate, eo quia cessarunt haeredes in adimplendis oneri bus, et propterea Rector ei providet. Altare S. Mariae à Misericordia ad quod celebratur cum portatili, est titularis de iuris patronatus ut fertur Rectoris seu DD. De Iuliarijs singulis votis, onus habet celebrandi singulis diebus Dominicis, et duobus in hebdomada vacat ob tenuitatem introytuum et onerum gravitatem. Economus, est R. D. Ioseph Hierus Archipresbyter S. Pauli Veronae sed oneri integre non satisfit. Altare S. Bernardi. Lapidibus solidissimis et illustratis eleganti ordinum structuris, cum Pala seu icona praestantis Pictoris, et alijs necessarijs, decenter ornatum per illos de Fidentis (sic) cum onere missae quotidiane, ex testamento q. D. Florini Fidenti (sic) Heredes onus adimplent, et Rectori exhibent duc, sexdecim ad hoc ut subministret sacerdoti celebranti, pramenta et alia promissae celebrazione tantum nam de reliquis

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Fidentes (sic) provident. – Adest titulus S. Bernardi cum onere missae ferialis in singulam hebdomadam. Rector est. R. D. Bernardinus Buitin. Altare Circumcisioni Domini cum portatili ad incontrum suprascripti et equalis ferme structurae per q. D. Iacobum de Paduanis. Cuius haeredes provident, et quotidie in eo celebrare faciunt. – Adest societas eiusdem, sed caret legitima institutione. Habet quaedam pauca legata cum onere celebrandi singula quaque tertia Dominica cuiuslibet mensis. Altare S. Martini Artis Pezzarolorum nuper lapidi bus honorifice instauratum, et in eo celebrare facit cum portatili ex devotione semel in hebdomada. Altare Corporis Christi et Capella, cum portatili. Cui adest societas eiusdem, quae non nulla pia sed nimis onerosa legata habet, et in eo celebrare facit omnibus festis diebus, et semel in hebdomada, et providet de necessarijs, et de ceris pro deferendo Santissimo ad infirmos, et processionibus, illiusque massarij regimen habent cum societatis Circumcisionis Domini. Visitavit sacristiam, calices, patenas, sacras vestes, missalia, libros mortuorum, matrimonio rum et baptizatorum. totamque Ecclesiam et locum ubi mortui sepeliuntur. – Res doctrinae Christianae bene se habere invenit. Sub ipsa Cura sunt animae a Comunione 460, et in totum 600 vel circa. – Nulli sunt inconfessi. – Interrogati D D. Io baptista Masengus, Iacobus supiotus, et Ioannes Rossi de Rectore responderunt se nil aliud scire nisi quod aliquando a Cura et Civitate abest. – Pontificalibus indutus mares, et faeminas sacro perunxit Chrismate Centumdecemseptem. Ordinata – Pro tabernaculo, ei provideatur, de conopeis omnium colorum pro tempore mutandis. Illiusque clavis inauretur. – Sacrarium reducatur in loco fontis baptismalis. – Ad fornix (sic) maioris Altaris ponatur epystilium superliminare ferreum in cuius medio praefigatur crux cum crucifixo ellevato (sic). Obturentur rimae circundantes portatilia Altarium ad arcendas sordes, et pulveres. eisque provideatur de telis Cerata et stragula. Altaribus excepto maiori, et Corporis Christi fiat baldachinum sive integumentum, quod tam longe lateque pateat, ut Altare, et sacerdos celebrans contegantur. – Pro sacristia nil fieri iussit, quoniam competenter proviamo invenit. – Rectori tamen mandavit quod in describendis, mortuis, matrimonijs, et baptizatis utatur forma Ritualis Romani, et ad ipsius praescriptum conficiat librum de statu animarum. et quod amplius non audeat abesse absque expressa eius licentia in scriptis obtinenda sub poenis arbitrio suo infligendis. Die 13 novembris 1657 exhibita fuit copia ordinato rum R. Rectori.

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Documento n. 14: Registro degli affittuali della Chiesa di San Tomìo a Verona: ASVr, San Tomìo, Chiese Parrocchiali, Affittuali, registro, carta non numerata. Memoria di Locacione per la Venerabile Chiesa di San Tomio cauata dal libro 4 delle Locacioni. L’anno 1542 fu fatta locacione in lista di Francesco a Bernardi Prardi da Mara con l’obligarlo à pagar atto […] Vener. Chiesa l’annuo affitto di lire 8: rotti 10 moneta Veronese. Nel libro 9 di detta Chiesa pag. 27 per: si vede esser Fran. […] Givardi da Marano à Lonaro Cortellani, ha pagato il detto affitto per l’anno 1558. Nel libro X de liuelli di suddetta chiesa appare essere successo a suddetto affitto , et hauer pagato il Goloneo […] Messer: Filippo Fidenti oste, e si vedono li pagamenti del medesimo principiati l’anno 1546. Nel libro XI pag.25 di detta Chiesa appare hauer pagato detto: affitto Messer Zuane Fidenti dove […] si vede la locacione come sopra e dove è notificato il fondo è presso in detta locacione et ha continuato à pagare persino L’anno 1617. Nel libro XII pag. 46 si vede obligato il detto Zuanne Fidenti a pagar alla Chiesa lire 46 [...] 10 appare l’obbligo del fitto ante di lire 8:10 annessa la locacione e li pagamenti si vede che ha pagato per […] 1676. Nel libro XIII delli liuelli come sopra pag. 40: Fidenti hano continuato li pagamenti et hanno saldato per tutto l’anno 1666. Di più appresso li conti esistenti di mano del Monsignor Arcip. Di San Tomio appare hauer essi Messer Fidenti saldato per tutto l’anno 1692.

Documento n. 15: Liber tercius locatiorum ecclesia sancti Thome, Verona, 1411 – 1456. In Processi: 1)1542-1828: Chiesa di S. Tomìo e R. do Breonio et Fidenti ASVr, San Tomìo, Chiese Parrocchiali, cc. 7-10. Rev.mo Sign.Viaro Il genio litigioso del Rever.do Gio. Battista Breonio non hauerei creduto tale, quanto la fama lo pubblicava, se hora non me ne fosse toccato far l’esperienza con il litiggio presente mossomi dal medesimo contro ogni raggione, et giustizia.

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Sino l’anno 1620, i 3 […] dove istituì il q. Sign. Giouani Fidenti una manzionaria all’Altare di S. Bernardo posto nella mia Chiesa Parochiale di S. Tomio, avviò li fosse celebrata una Messa quotidiana, e, come nel suo testamento del dì, come sopra, lasciando alli suoi eredi il iuspatronato per l’elezione del Cappellano. Per tutto il tempo fin ‘hora corso li Mansionarii si sono sentiti nell’affizione delli apparamenti della Chiesa, hauendo sempre li Fidenti pagato ognuna contribuzione alli Arcipreti che, può semprare con stati alla detta Chiesa, quale ultimamente fu tassata dal M. Rev. Sig. Domenico Uguzzioni delegato del Sig. Vicario Pretorio in lire quindeci cera bianca, et detti otto dal grosso ogni anno, come da una terminazione, 27 Marzo 1665, come in proc. pag.19. Nell’anno 1686 il dì 25 Giugno? fui detto Capellano Del detto Altare dalli Signori Piero Antonio, et Fiorino fratelli Fidenti, eredi del testatore il suddetto Rev. Breonio il quale ha continuato la celebrazione della Messa valendosi pure ancor esso, come li altri Capellani suoi Antecessori delli apparamenti della Chiesa medesima corrispondendo il solito li suddetti Fidenti. Quando mosso, non so se la pietà, ò Santa Ambizione rivolse il Rev. Breonio volersi prouedere di apparamenti di una maggior sotisfazione, non perche tale fosse il bisogno, ma per satisfare più tosto al suo talento. Ciò fattomi riceverò il comando per riponere li medesimi, esibendomi anco qualche contributione per tale incommodo, alla quale richiesta per non parer discortese rissolsi accondiscendere, onde con la scrittura del dì 3 settembre 1690, come in processo p. 22, mi contententai concedere per tal effetto al medesimo parte delli calti d’un banco, che è nella Sacrestia ad uso de Capellani di detta mia Chiesa obligandolo a pagarmi ogni anno troni otto, e mezo, senza però pregiuditio delle raggioni della Sacrestia. In esecuzione di che li diedi il libero uso di tre delli calti del banco spesso non solo capaci à contenere li apparamenti da lui fatti, ma anco di più; che furono da lui accettati, et armati con serature. Continuò quietamente in quest’uso per lo spatio di mesi cinque in circa. Quando alargando le fimbrie con libertà ardita ne occupò altri due delli calti del banco stesso senza mia alcuna partecipatione, facendomi ponere le sue serature. Non potei di meno di non coregere tal novita con levare le serature alli altri calti di novo appropriatisi, perche privava di troppo per il commodo delli altri Capellani, et della Chiesa tutta, et perche l’accordato non si estendeva, se non alli tre calti prima assegnatili. Da ciò ha però motivo il Breonio di infuriare, et fare ricorsi alla giustitia, figurandosi col braccio di quella di sostenere le capriciose sue pretensioni, che à quatro capi si riducono; il

166 primo de quali à circa l’usurpatione delli due calti de quali si è impossessato senza mio ordine; il secondo circa la pretencione che hà, che io, et la mia chiesa sia prima dell’affitto che pagano li signori Fidenti colla Sacrestia; nel terzo prevede di celebrare la Messa all’Altare di S. Bernardo, tanto in giorno feriale quanto festiuo à suo capricio senza dependere, o dall’ordine dell’Arciprete, o dal commodo del popolo e della contrà di S. Tomio, e nel quarto si dichiara voler godere tale officiatura, senza alcuna obbligatione di servitio alla Chiesa nelle maggiori solennità. E quanto al primo mi pare una grande arditezza, il voler nella Chiesa altri impossessarsi de banchi, senza dimandare all’Arciprete, quale solo deve essere riconosciuto per il Patrone, e l’impossessarsi in tal maniera, coll’escludere totalmente dall’uso di tali banchi il suddetto Arciprete ponendovi a tal effetto le sue serature. Dirà che tal autorità li fui data in vigore della scrittura 3 settembre, come in processo pag. 22, ma si ingana perche il possesso, che li concedeva tale scrittura la prese immediatamente, et è stato in quei limiti per il corso di cinque mesi, senza pretendere altro, che quello, che li assegnò l’arciprete essendo quelli calti assegnatili loro sufficientissimo per capire tutti li apparamenti sufficienti per la celebratione della Messa,e tanto solo esso può prendere in vigore di tale scrittura, et se vuole altri calti per ponervi fiore, vasi, et altro per adornamento dell’Altare, deve far nove istanze, non essendo l’Arciprete per l’adempimento di tale scrittura obbligato à darli altro, che commodo per ponervi li apparamenti et altre cose necessarie per la celebrazione della Messa, non già per l’adornamento dell’Altare, et se pretendeva d’avvantaggio doveva intendersi col medesimo, et non con propria auttorità fare il Patrone in casa d’altri; tanto più che nacque decreto dell’Illustrissimo et Reverendissimo Signor Vicario, sotto il dì 27 Genaro 1691, come in processo pag. 26, che obligò il detto Arciprete à non dare altro al Breonio, che il commodo del banco già assegnatoli. Et se poi per un’ Altare solo si impedisce la maggior parte della Sacrestia, ove dovranno ponersi tutte le suppellettili della Chiesa? Non so poi per qual motivo il Rev. Breonio si induceva à dire, che li Signori Fidenti non sonno più obbligati contribuire alla Sacrestia, (rasura) iusta la determinazione pre[…]ta 27 Marzo 1665 come in proc. p. 19, che è apunto la sua pretensione, che forma il 2º capo, mentre che lui non hà attione alcuna con li Signori Fidenti in tal affare, potendosi esso valere delli apparamenti della Sacrestia, come hanno fatto tutti li suoi Antecessori, et se li hà fatti esso li hà fatti à suo capricio, et per sotisfare al suo genio, mentre che vi era tal bisogno; non essendo di dovere che la Chiesa sia priva d’un affitto che ha sempre scosso, per il capricio d’un Capellano,

167 che hà voluto paramenti di sua sotisfatione, quali si portarebbe via, quanto li fosse levava tale mansionaria, essendo amovibile, et la scrittura fatta trà l’Arciprete et lui primieramente non hà alcun vigore non essendo pubblicata alla presenza di testimoni, nemeno sottoscritta dall’Arciprete et quando pretendesse, che tale scrittura habbi vigore, perché habbi l’Arciprete in qualche tempo dissimulata l’essecutione, vi sono però termini esprimenti (rasura) senza pregiudizio della Sacrestia; et poi la detta Scrittura non fa menzione alcuna delli Fidenti, ne del detto affitto, né della determinazione Uguzzioni; ma bensi dice chiaramente, senza pregiuditio delle raggioni, che chi si sia potesse havere sopra la Sacrestia. Et per sin hora li fidenti non hanno fatto alcuna instanza alla giustitia per essere esenti dà tale affitto, essendo sempre la Sacrestia aperta, et li paramenti disposti per li suoi capellani; et benché esso Breoni habbi procura per agitare li interessi fidenti, come in processo p. 75 essi però non sono in rubrica nella presente causa, quale pende solamente trà l’Arciprete di S. Tomio, et il Breonio, onde deve diffendere solo se stesso et non li Fidenti, quali non hanno punto che fare in tale causa. E in quanto al 3º capo è per così dire quasi insolente la pretencione che hà il detto Breonio di celebrare la Messa à che hora li pare, et piace nella Chiesa di S. Tomio, poiche ciò è contro le costituzioni de Santi Canoni, quali come rifferisce il Barbora de offitio, et potestate Parochi cap. 9. 3. 3º hanno determinato, che Parochi in propria aula habeat tanta autoritate, quanta episcopus in sua Diocesi. Anco l’Illustrissimi Vescovi predefonti di questa Città hanno preveduto tale arditezza de Capellani delle Chiese parochiali, perciò nelle Constitutioni Gibertine, approvate, et confirmate in tutti li sinodi generali fatti in questa Città dal 1589 sino al tempo presente hanno ordinato, che dove sonno due ò più Messe siano in tal modo distinte, che tutto il popolo possa venire ad udire la Santa Messa, come più chiaramente spiegano le dette Gibertine nel cap. 72, titolo 2 detto il tenor del quale è come segue: ea ante semper consideratio habeatur, ut […] missa, una ita ut intervallo ab alia dicatur, ut universus populus verisimiliter Missa andire possit, habita scilicet ragione eorum, qui domi relinquuntur, ut commode possint primis domus revertentibus et ipsi ad Missa venire; e tal distincione di Messe da chi dovrà essere mai fatta, se non dal Paroco, quale nella propria chiesa, come dicono i Sacri Canoni deve stimarsi come Vescovo? È poi rara, et capriciosa la pretentione, che egli hà in ordine à questo 3º capo, come si vede dalle sue scritture presentate nella Cancelleria episcopale, l’una sotto il dì 7 Febraro, et l’altra sotto il dì 16 Marzo, come in processo pag. 29 r., et pag. 36 r. et

168 seguenti, cioè, che nella celebrazione della Messa deue essere preferito alli altri Capellani, che celebrano nella Chiesa di San Tomio, come che l’officiatura Fidenti è la prima instituita in detta Chiesa, et che l’Arciprete non li può prescriver l’hora, in vigore del testamento Fidenti, come in processo pag. 6. Per approvacione di che si raccorda alla Giustitia dell’Illustrissimo Signor Vicario, come dalla scrittura presentata dall’arciprete sotto il dì 12 Febraro dell’anno presente come in proc. pag. 32 appare essere quatro le Messe, che si celebrano nella Chiesa di S. Tomio, oltre quella dell’Arciprete. una all’Altare detto S. M. della Misericordia, il Rettore del quale è perpetuo, con bolle à cui è annesso l’obligo della cura d’anime, et tal officiatura hebbe principio fino dall’anno 1769, due altri sacerdoti celebrano il divin Sacrificio ad instanza della Compagnia del Santissimo eretto nella detta Chiesa, quale è compagnia della Contrà, et la 4ª è quella che celebra il Rev. Breonio, queste Messe, per ogni raggione, et per ogni convenienza deuono essere distribuite à commodo del popolo, et detta Contrà, che con ogni pietà viene ad udirle, et ogni raggion vale, che le tre suddette siano preposte à quella del Breonio, in hore distinte, et separate per il commodo della Contrada stessa, con libertà sempre all’Arciprete di celebrare ad arbitrio. Il Rettore di S. M. della Misericordia deve essere anteposto al Breonio, primieramente perché è di maggior condittione, et dignità, essendo Rettore perpetuo eletto con bolle cauate dalla Cancellaria Episcopale, et il Breonio è semplice Capellano ammovibile à capricio di persone particolari, et poi perche l’officiatura della Misericordia hebbe principio fino dall’anno 1769, come si può vedere dalle scritture, et processi essistenti nela Casa Parochiale di S. Tomio, quali non sonno presentati in giuditio perche sonno molto ben noti all’Aversario, come qui à basso vedrossi, et l’officiatura, che hà il Breonio fu instituita solo dall’anno 1620, nel qual anno seguì il testamento Fidenti, perciò esso Breonio doppo haver conosciuto, che anco l’Arciprete hà cognitione dell’institutioni di tali officiature si ridice di quanto haveva falsamente asserito per ingannar la giustitia come in processo p. 31, cioè che l’officiatura Fidenti è la prima instituita in detta Chiesa; poiche nella Scrittura presentata sotto il di 16 Marzo, come sopra, dichiarasi di non pretendere precedenza alcuna dal Rettore di S. M. della Misericordia. Deuono parimente li altri due Capellani essere anteposti al Breonio, perche sonno eletti dalla Contrada di S. Tomio, dalla quale (rasura) solo essi deuono dependere, mà ancora l’istesso Arciprete et se questi fossero posposti ad altri Capellani potrebbe nascere qualche torbido, essendo di dovere, che la Contrada sia à tutti anteposta. Mentreche essa hà fabricato la Chiesa, et tuttora la

169 mantiene, col racconciare spesso il tetto, et provederli di suppeletili, et ancora co’l tenerla officiata mantenendo à sue spese due Capellani, et se li fosse fatto questo torto di postporli ad altri, hauerebbe raggione di licenciarli, et privarebbe la Chiesa d’un gran commodo; et se per altre raggioni non dovesse essere postposto il Breonio alli altri Capellani, deve essere postposto solamente per essere stato lui l’ultimo, che è venuto ad officiare in detta Chiesa di S. Tomio. Ne vale la raggione da lui addotta, che il Testatore, che hà instituito l’officiatura di S. Bernardo, hà ordinato nel suo testamento, et inteso, che non sia acquistata raggione alcuna alla detta Chiesa, ne al Rev. Curato di quella, come in processo p. 6. poiche non tocca à lui l’interpretare il testamento, et se dovesse interpretarsi devesi interpretar, sano modo, non havendo il Testatore alcuna auttorità di pregiudicare al ius parochiale, et se contro di quello determinasse il testamento in quella parte sarebbe nullo; mà il Testatore non pregiudica punto, poiche parlo bensi del ius patronato, di elegere, et cassare il Capellano, et della celebratione della messa, mà non però parla circa l’hora del celebrarla, ne che il suo Capellano sia alli altri anteposto, onde le parole come stanno deuono intendersi, et iucta leges. In quanto poi al 4º capo delle sue pretentioni non sò che dire se non raccordare alla giustizia dell’Illustrissimo Sign. Vicario ad havere […] et considerare in Cap. 73 delle Constituzioni Gibertine al titolo 2º nel quale vien ordinato che tutti li Capellani della Confraternità, et oratori assistano continuamente in veste hornata, et decente, et in habito ecclesiastico, cioè con cotta, à tutte le foncioni, che sogliono farsi nelle Chiese parochiali alle quali essi sonno soggetti. se dunque evvi un commando così vigoroso à quelli Capellani che sonno nelli oratorii, et confraternita, quali in un certo modo sonno extra aula parochiale, quanto maggiormente saranno obligati à ciò li Capellani delli Altari della propria chiesa parochiale. Mà lasciata da parte l’obbligatione che il Breonio hà per giustitia di servire à qualche chiesa come si vede dalle constitutioni sinodali ultimamente fatte dall’Illustrissimo Vescovo Seb. Pis. F. m. nel principio […] 2º che incomincia precipimus; consideriamola un poco solo per convenienza impercioche pare forse cosa ragionevole, che un sacerdote, che riconosce tutto quello, che hà dalla Chiesa di S. Tomio si lasci solo vedere nella medesima, nel tempo, che uole celebrare la Santa Messa, et detta quella, con tanta freta che riuscisse quasi scandalosa partirsi senza lasciarsi mai più vedere? à che fine pensa egli che siano instituite le officiature in alcune Chiese particolari? forse per dare il solo commodo alli Sacerdoti? questo è il meno; le officiature sonno state instituite principalmente per

170 l’aumento delle preci, et de sacrifici nelle Chiese determinate, et non per impinguare li sacerdoti, quali poi si servono del patrimonio di C. (?) per intraprendere cause non sue, et per macchiare l’habito sacerdotale, co’l farsi vedere tutto il giorno sui palazzi della raggione, et su le pubbliche piazze continuissimamente in habito corto, et più da secolare che ecclesiastico. se tutti i Capellani della Chiese parochiali fossero dell’opinione del Rev. Aversario, come sarebbero nelle chiese solennizate le feste, et celebrate le foncioni divine? Si dice dunque, che.

Documento nº 16: Trattato delle Santissime Reliquie, ultimamente ritrovate nel Santuario della Chiesa di San Marco, Di Monsig. Illustr. Et Reuerendiss. Gio. Thiepolo Primicerio della medesima Chiesa, In Venetia, Appresso Antonio Pinelli. MDCXVII, c. 1. Le due tanto pretiose Reliquie, SANGUE di Christo, et LATTE di Maria Vergine già molti secoli possedute dalla famosa, et sempre Christiana, et del tutto Catholica Città di Venetia che per compiacere alle pietose, et sollecite instanze de’ Fedeli che tutto il dì lo ricercano, si deono alla fine publicamente isporre alla vista, et alla diuotione di ogni uno, come hanno mosso più genti con le fatiche d’un santo peregrinaggio à trasferirsi in questa Città solo per vederle, et venerarle; così hanno in me desto il pensiero di scriuerne alcuna cosa al meglio che io potrò […]. Di tali doni parleremo noi dunque, et come possi verificarsi che l’una, et l’altra di così gran reliquie nel mondo, et particolarmente alcuna parte di esse qui in Venetia si attroui.

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Documento nº 17: Trattato delle Santissime Reliquie, ultimamente ritrovate nel Santuario della Chiesa di San Marco, Di Monsig. Illustr. Et Reuerendiss. Gio. Thiepolo Primicerio della medesima Chiesa, In Venetia, Appresso Antonio Pinelli. MDCXVII, cc. 33- 35. In un vasetto di christallo di forma circolare di altezza quanto sarebbe il police di una mano per longhezza vedesi esso sangue, et acqua di Giesu Christo stillato sopra alcuni fili di banbagio, congelato però, et di modo mescolato con l’acqua esso sangue, che ben pare esser vero, […] che se bene nella superficie di detta ampolla il solo sangue apparisce, però al di sotto cioè nel fondo di quella chiaramente si vede un tale mescolamento di acqua con sangue cosi manifestamente, che niente più resta di dubitarne à chi con occhio lo mira. Il coperto di esso vasetto è parimente di forma rotonda, mà quanto alla materia è di purissimo oro, coperto con ricco smalto, et nella parte di quello estrinseca se ne stà nel mezo scolpito in un grande, et pretioso diaspro con gran maestria un Crocifisso di picciol rilievo, ne’ quattro angoli del quale leggonsi le quattro seguenti parole Greche, che interpretate dicono, Ις Χς ὁ βασιλὺς τῆς δόξης. Iesus Christus Rex Gloriae. D’intorno poi al cerchio di esso coperchio trouanosi formate col smalto incauato nell’oro queste altre Greche parole, ἔχεις με χν, αἷμα σαρκὸς μου Φέρον: Habes me Christum gestans sanguinem carnis meae. Hora questo vasetto di christallo contenente in se cosi ricco et infinito thesoro è stato fin’hora conservato in un altro vasetto di purissimo oro, di forma parimente rotonda, et con il suo coperchio à quello unito pur di finissimo oro, che per hauer contenuto per tanti secoli in se esso vaso christallino con il già detto sangue et acqua ritiene tuttavia nel proprio fondo un color robo, et viuo del vero sangue di Christo, come anco ritiene tuttauia un simil colore di robo sangue di lui il coperchio interiore del vasetto di christallo, del quale poco prima si è ragionato. All’interno di questo vaso d’oro vi sono scolpiti nell’orlo di sopra, et di sotto due versi Grechi che qui si metteranno come che stanno, con la lor tradottione: αἵματος ζωηφόρου τερπνὸν δοχεῖον. ἐξακηράτου λόγου πλευρᾶς ῥυέντος. Viuifici sanguinis hilare receptaculum

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Ex immacolati Verbi latere effluxi.

Documento nº 18: Della Triplicata Traslazione del corpo della Gloriosa Vergine, & Martire S. Lucia. Di D. Giorgio Polacco Confessore delle Monache dell’istessa Santa. Doue si vanno sciogliendo ancora molte Quistioni Delle Sante Reliquie, Et in speziale del Sangue Prezioso del Signore, portato à Venezia insieme co’l Corpo d’essa S. Lucia; Et ritrouato quest’anno presente nel Santuario della Chiesa di S. Marco. In Venezia, Appresso Barezzo Barezzi, MDCXVII, cc. 17, 19-20. L’Unione fatta dal Verbo co’l Sangue del Signore fù prossima, & intrinseca, questa è opinione concorde quasi di tutti i Dottori, & in particolare del Lirano; il quale sopra quelle parole di San Paulo, si enim sanguis hircorum, etc. così và dicendo; il Sangue di Cristo dall’unione, c’hà al supposito diuino, maggior virtù contiene nel mondar l’anima, che il sangue degli animali; il che de qui si proua, perché il Sangue di Cristo dalla sua unione al supposito diuino contrasse come una certa infinità di virtù. Clemente VI attesta chiaramente, che il Sangue tutto della natura umana del Signore è intimamente al Verbo congiunto, con quelle parole, In ara Crucis innocens immolatus, non guttam sanguinis modicam, quae tamen propter unionem ad Verbum pro Redemptione totius humani generis sufficiebat; sed velut quoddam profluuium noscitur effudisse. (c. 18) Da questa autorità di Clemente si comprende, ch’ogni minima particella del sangue di Cristo è stata prezio abbondante, & sufficiente della nostra redenzione per quella dignità, che il sangue del Signore ebbe per l’intima, & ipostatica unione co’l figliuol di Dio […]

(c. 19) Per confermazion di questa verità, che vi sia restato in terra del vero sangue di Cristo; oltre l’attestazione di Niceforo Calisto, di Simeone Metafraste, e del Cardinal Baronio, citati da Monsignor Tiepolo nel Trattato già detto, ne abbiamo anco una rivelazione di santa Brigitta, nella quale la Madre del Signore così via dicendo; Cum tempus uocationis meae instaret de hoc mundo, ego ipsam (hoc est praeputij membranam) commendaui S. Ioanni custodi meo, cum sanguine illo benedicto, (c. 20) qui remansit in uulneribus eius, quando deposuimus de Cruce. Post S. Ioanne, et successoribus eius sublatis de mundo, crescente malitia, et perfidia, fideles, qui tunc

173 erant, absconderunt illa in loco mundissimo sub terra, et diu fuerunt incognita; donec Angelus Dei amicis reuelauit. O Roma, o Roma, si scires, gauderes utique, immo si scines flere, fleres incessanter; quia habes thesaurum mihi carissimum et non honoras illum.

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FONTI ARCHIVISTICHE

ASVr: Archivio di Stato di Verona A. E. P.: Antichi Estimi Provvisori ACV: Archivio Capitolare di Verona ASCVVr: Archivio Storico della Curia Vescovile di Verona

ABBREVIAZIONI

CBV: Civica Biblioteca di Verona BCV: Biblioteca Capitolare di Verona

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DATI BIBLIOGRAFICI (secondo l’ordine cronologico di pubblicazione)

F. Sansovino, Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia, cioe usanze antiche. Pitture e pittori. Scultore e scultori. Fabriche e palazzi. Huomini uirtosi. I principi di Venetia. E tutti i patriarchi., Di m. A. Guisconi – In Venetia, 1556.

Trattato del reverendo m. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, de la emulazione che il Demonio ha fatta a Dio,…diviso in tre libri, Venetia: appresso Francesco de’ Franceschi, 1563.

G. A. Gilio, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie con molte annotazioni fatte sopra il giudizio di Michelagnolo et altre figure, tanto de la nova, quanto de la vecchia capella del Papa. Con la dichiarazione come vogliono essere dipinte le sacre immagini, Camerino: per Antonio Gioioso, 1564.

G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, 1568.

Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo nostro redentore scritta da Landolfo di Sassonia dell’ordine certosino. Et di nuovo tradotta da M. Francesco Sansouino. Nella quale con pia et santa dottrina si espongono con facilità gli Evangelij che corrono in tutto l’anno secondo le sentenze de Santi et più approuati Dottori. Et con più diuote meditazioni et Orationi conformi all’Euangelio. Opera non meno necessaria a Predicatori et Parrocchiani, i quali nelle feste principali dichiarano l’Euangelio à popoli loro, che ad ogni altro Christiano che desideri uiuer secondo la santa fede Cattolica. Con le tavole de Vangeli correnti per tutto l’anno et delle cose notabili, et de capi principali poste à loro luoghi, in Venetia: appresso Iacopo Sansouino il Giouane, 1570.

G. Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna, 1582.

Azpilcueta Navarro Martin, Manuale de’ confessori et penitenti, Venezia, 1592.

Considerazioni sopra le censure della santità di Papa Paolo V contra la serenissima republica di Venezia. Del P. M. Paolo da Venezia dell’ordine de Serui – In Venetia: appresso Roberto Meietti, 1606.

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G. Bonifacio, L’arte de’ Cenni con la quale formandosi favella visibile, si tratta della muta eloquenza che non è altro che un fecondo silenzio, divisa in due parti, Vicenza, appresso Francesco Grossi, 1616.

Trattato delle Santissime Reliquie, ultimamente ritrovate nel Santuario della Chiesa di San Marco, Di Monsig. Illustr. Et Reuerendiss. Gio. Thiepolo Primicerio della medesima Chiesa, In Venetia, Appresso Antonio Pinelli. MDCXVII.

Della Triplicata Traslazione del corpo della Gloriosa Vergine, & Martire S. Lucia. Di D. Giorgio Polacco Confessore delle Monache dell’istessa Santa. Doue si vanno sciogliendo ancora molte Quistioni Delle Sante Reliquie, Et in speziale del Sangue Prezioso del Signore, portato à Venezia insieme co’l Corpo d’essa S. Lucia; Et ritrouato quest’anno presente nel Santuario della Chiesa di S. Marco. In Venezia, Appresso Barezzo Barezzi, MDCXVII.

A. Grandi, Capitoli delle bellezze di Verona, Verona, 1617.

C. Ridolfi, Le meraviglie dell’arte ovvero le Vite degli illustri pittori veneti e dello Stato, Venezia, 1648.

M. Boschini, Le ricche Minere della pittura veneziana, Venezia, Francesco Nicolini, 1674.

F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1681.

B. Baldi, Encomio della Patria di Monsignor Bernardino Baldi da Urbino abate di Guastalla al Serenissimo Principe Francesco Maria II. Feltrio Della Rovere Duca VI d’Urbino, Urbino, 1706.

B. Dal Pozzo, Le vite de’ Pittori, degli Scultori et Architetti Veronesi, Verona, 1718.

G. B. Lanceni, Ricreazione pittorica o sia Notizia universale delle pitture nelle chiese e luoghi pubblici della città e diocese di Verona. Opera esibita al genio de’ dilettanti

178 dall’Incognito Conoscitore, parte prima [- seconda] con gl’indici necessarj – in Verona: per Pierantonio Berno, 1720.

B. De Dominici, Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani, III, Napoli, 1745.

G. B. Biancolini, Cronica della Città di Verona descritta da Pier Zagata,, ampliata e supplita da Giambattista Biancolini, annessovi un Trattato della Moneta Antica Veronese Ec. Insieme con altre utili cose tratte dagli Statuti della Città medesima al nobile signor Dionisio Nichesola patrizio veronese, Voll. 3, Verona, 1745 – 1749.

G. B. Biancolini, Notizie storiche delle Chiese di Verona, Verona, 1749.

G. B. Biancolini, Dei vescovi e governatori di Verona, dissertazioni due di Giambattista Biancolini all’Illustrissimo signor Ottolino Ottolini gentiluomo veronese, Verona, 1757.

B. Orsini, Guida al forestiere per l'augusta città di Perugia, Perugia, 1784.

M. G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII, Milano, 1822.

L. Lanzi, Storia pittorica della Italia, Firenze, 1834.

A. Ricci, Memorie storiche delle arti e degli artisti della Marca di Ancona, Macerata, 1834.

Orazione in morte di Mons. Giuseppe Grasser vescovo di Verona recitata da D. Cesare Bresciani per ordine dell’amplissimo Capitolo degl’Ill. rr. Monsignori canonici della cattedrale li XXV Novemcre MDCCCXXXIX giorno della sua tumulazione, Verona, 1840.

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P. Paruta, Opere politiche, a cura di C. Monzani, Vol. II, Firenze, 1852.

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A. Cartolari, Famiglie già iscritte al Nobile Consiglio di Verona con alcune notizie intorno parecchie case di lei a cui s’aggiungono il nome la dichiarazione ed un elenco di varie delle passate sue magistrature ed altre memorie risguardanti la stessa città, Parte I-II, Verona, 1854.

G. Cappelletti, Le Chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, Vol. X, Venezia, 1854.

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F. Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, Firenze, 1859.

D. Zannandreis, Le Vite dei Pittori, Scultori e Architetti veronesi, pubblicate e corredate di prefazione e di due indici da G. Biadego, Verona, 1891.

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Fig. 1 - Claudio Ridolfi, Circoncisione, Verona, Museo di Castelvecchio, (1617)

194

Fig. 2 - Casino di Ca’ Condi, Urbino.

Fig. 3 - Veduta di Palazzo Ducale dalla casa di Federico Barocci, Urbino

195

Fig. 4 - Claudio Ridolfi, Istituzione dell’Eucarestia, Treviso, Museo Diocesano, (1590)

196

Fig. 5 - Claudio Ridolfi, Noli me tangere, Arcevia, Palazzo Anselmi, (1594-1610)

197

Fig. 6 - Luca Ciamberlano, Noli me tangere, Bologna, Pinacoteca Nazionale, (1609)

198

Fig. 7 - Federico Barocci, Cristo appare alla Maddalena, Monaco, Alte Pinakotek, (1590)

199

Fig. 8 - Federico Barocci, Cristo appare alla Maddalena, Firenze, Galleria degli Uffizi, (1591-1592 ca.)

200

Fig. 9 - Claudio Ridolfi, Martirio di San Sergio, Urbino, chiesa di San Sergio, (1610)

201

Fig. 10 - Paolo Veronese, Il martirio di San Giorgio, Verona, chiesa di San Giorgio in Braida, (1566)

202

Fig. 11 - Federico Barocci, Madonna del Popolo, Firenze, Galleria degli Uffizi, (1579)

203

Fig. 12 - Claudio Ridolfi, Presentazione della Vergine al Tempio, Urbino, chiesa di S. Spirito, (1621-1625)

204

Fig. 13 - Claudio Ridolfi, Presentazione della Vergine al Tempio, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, (1622-1625)

205

Fig. 14 - Federico Barocci, Presentazione della Vergine al Tempio, Roma, chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella), Cappella Cesi, (1593-1603)

206

Fig. 15 - Claudio Ridolfi, Crocefisso spirante, Corinaldo, chiesa di S. Francesco, (1611- 1616)

207

Fig. 16 - Federico Barocci, Crocefisso Spirante, Madrid, Museo del Prado, (1604)

208

Fig. 17 - Michelangelo Buonarroti, Cristo in Croce, Londra, British Museum, (1530)

209

Fig. 18 - Tiziano Vecellio, Crocefissione, Ancona, chiesa di San Domenico, (1558)

210

Fig. 19 - Federico Barocci, La Crocefissione e i dolenti, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche (1566-1567)

211

Fig. 20 - Federico Barocci, La Crocefissione con i dolenti e San Sebastiano, Genova, Cattedrale, (1596)

212

Fig. 21 - Claudio Ridolfi, Maria Maddalena ai piedi della Croce, Corinaldo, chiesa di Santa Maria del Piano, (1638)

213

Fig. 22 - Jacopo Palma il Giovane, Crocifisso con la Maddalena, Venezia, Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro, (1580-1581 ca.)

214

Fig. 23 - Jacopo Palma il Giovane, Crocifissione e santi, Potenza Picena, chiesa degli Zoccolanti, (1599)

215

Fig. 24 - Paolo Veronese, Cristo nell’orto sorretto da un angelo, Milano, Pinacoteca di Brera, (1583-1584)

216

Fig. 25 - Paolo Veronese, Miracolo e conversione di San Pantalon, Venezia, chiesa di San Pantalon, (1587)

217

Fig. 26 - Jerónimo Nadal, Circuncisio Christi, immagine tratta dalle Evangelicae Historiae Imagines, (1593)

218

Fig. 27 - Jerónimo Nadal, Purificatio, immagine tratta dalle Evangelicae Historiae Imagines, tav. 8, (1593)

Fig. 28 - Jerónimo Nadal, Post Dominicam Passionis, immagine tratta dalle Evangelicae Historiae Imagines, tav. 59, (1593)

219

Fig. 30 - Facciata principale della Chiesa di San Tomio, Verona, vicolo Samaritana

220

Fig. 31 - Chiesa di San Tomio, Verona, vicolo Samaritana, facciata principale, particolare

Fig. 32 - Chiesa di San Tomio, Verona, vicolo Samaritana, facciata principale, particolare dell’iscrizione

221

Fig. 33 - Pianta della chiesa di San Tomio dopo la ristrutturazione del 1842

222

Fig. 34 - Marcantonio Bassetti, L’Incredulità di San Tommaso, Verona, Museo di Castelvecchio, (1628)

223

Fig. 35 - Marcantonio Bassetti, L’Incredulità di San Tommaso, Verona, Museo di Castelvecchio, (1628), particolare

224

Fig. 36 - Santo Prunati, Cena del Signore, Verona, Museo di Castelvecchio, (1686 ca.)

225

Fig. 37 - Gaetano Zancon, Cena del Signore, incisione tratta dal dipinto di Santo Prunati, (1806)

226

Fig. 38 - Pianta delle vie principali vicine alla contrada di S. Tomio

227

Fig. 39 - Boccaccio Boccaccino, Circoncisione di Cristo, Cremona, Duomo, (1516- 1517)

228

Fig. 40 - Schema dell’albero cabalistico delle dieci Sephiroth

Fig. 41 - R. Josephi Gecatilia, De Porta Lucis, Augsburg, (1516)

229

Fig. 42 - Bernardino Luini, Circoncisione, York, York City Art Gallery, (1500-1515)

230

Fig. 43 - Andrea Mantegna, La Circoncisione, Firenze, Galleria degli Uffizi, (1473)

231

Figg. 44-45 - Andrea Mantegna, La Circoncisione, Firenze, Galleria degli Uffizi, (1473), particolari

232

Fig. 46 - Tiziano Vecellio, Deposizione nel sepolcro, Madrid, Museo del Prado, (1559)

233

Fig. 47 - Peter Paul Rubens, Deposizione di Cristo, Roma, Galleria Borghese, (1601-1602)

234

Fig. 48 - Claudio Ridolfi, Adorazione dei Magi, Verona, chiesa di San Francesco, (1619 ca.)

235

Fig. 49 - Claudio Ridolfi, Adorazione dei Magi, Verona, chiesa di San Francesco, (1619 ca.), particolare

Fig. 50 - Federico Barocci, La Circoncisione di Cristo, Parigi, Museo del Louvre, (1590), particolare

236

Fig. 51 - Lorenzo Lotto, Adorazione dei pastori, Brescia, Musei Civici, Pinacoteca Tosio-Martinengo, (1527-1528)

237

Fig. 52 - Lorenzo Lotto, Adorazione del Bambino, Washington, National Gallery of Art, (1523)

238

Fig. 53 - Lorenzo Lotto, Madonna col Bambino, san Pietro martire e san Giovannino, Napoli, Gallerie nazionali di Capodimonte, (1503)

239

Fig. 54 - Giovanni Bellini, Madonna col Bambino, il Battista e una santa (Madonna Giovannelli), Venezia, Gallerie dell’Accademia, (1500 ca.)

240

Fig. 55 - Tiziano Vecellio, Madonna col Bambino (la “zingarella”), Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, (1512 ca.)

241

Fig. 56 - Rocco Marconi, Madonna col Bambino, Atlanta, Art Association and High Museum of Art, (1510 ca.)

242

Fig. 57 - Jacopo Tintoretto, Presentazione di Gesù al Tempio e Purificazione di Maria, Venezia, Santa Maria dei Carmini, (1541-1542)

243

Fig. 58 - Jacopo Tintoretto, Presentazione di Gesù al Tempio, Verona, Museo di Castelvecchio, (1540-1541)

244

Fig. 59 - Master Bertram, La Circoncisione di Cristo, Amburgo, Kunsthalle di Amburgo, (1410)

245

Fig. 60 - Friedrich Herlin, La Circoncisione, Rothenburg on the Tauber, St. Jakob Church, (1466)

246

Fig. 61 - Giovan Battista Trotti detto il Malosso, La Circoncisione, chiesa di St. Nicolas des Champs, (1600 ca.)

247

Fig. 62 - Guglielmo da Chieri, Compianto sul Cristo morto, Torino, Galleria Sabauda, (1450 ca.)

248

Fig. 63 - Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, Firenze, Galleria degli Uffizi, (1423)

249

Fig. 64 - Roberto di Oderisio, Cristo in Pietà, Cambridge, Fogg Art Museum, (1354)

250

Fig. 65 - Ippolito Borghese, Deposizione, Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, (1590-1603)

251

Fig. 66 - Lorenzo Lotto, La Natività, Siena, Pinacoteca Nazionale, (1527-1528)

252

Fig. 67 - Domenico Ghirlandaio, Adorazione dei Magi, Firenze, Galleria degli Uffizi, (1487)

253

Fig. 68 - Pieter Bruegel, Adorazione dei Magi, Londra, National Gallery, (1564)

254

Fig. 69 - Paolo Veronese, Sacra Famiglia con i Santi Barbara e Giovannino, Firenze, Galleria degli Uffizi, (1560 ca.)

255

Fig. 70 - Andrea del Sarto, Madonna con Bambino e i Santi Caterina, Elisabetta e Giovanni il Battista (Madonna Tallard), San Pietroburgo, Museo dell’Hermitage, (1515 ca.)

256

Fig. 71 - Luca Antonio Busati, Madonna col Bambino su un parapetto con i santi Girolamo e Pietro, Houston (Texas), Sarah Campbell Blaffer Foundation, (1510 ca.)

257

Fig. 72 - Lorenzo Lotto, Madonna e Bambino con due donatori, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, (1526-1530 ca.)

258

Fig. 73 - Correggio, Madonna della cesta, Londra, National Gallery, (1522-1523)

259

Fig. 74 - Peter Paul Rubens, Madonna con Bambino (“Madonna Cumberland”), Parigi, Collezione Privata, (1617 ca.)

260

Fig. 75 - Claudio Ridolfi, Adorazione dei Magi, S. Angelo in Vado, Cattedrale, (1642)

261

Fig. 76 - Peter Paul Rubens, Adorazione dei Magi, Lyon, Musée des Beaux-Arts, (1618 ca.)

262

Fig. 77 - Giandomenico Cignaroli, Adorazione dei Magi, Bonate di Sopra (Bergamo), chiesa parrocchiale, (1755-1756)

263

Fig. 78 - Aert de Gelder, Il cantico di Simeone, Mauritshuis, L'Aja, (1700 ca.)

264

Fig. 79 - Claudio Ridolfi, Circoncisione, Verona, Museo di Castelvecchio, (1617), particolare

265

Fig. 80 - Giannantonio Marini, Presentazione di Gesù al Tempio, Venezia, Basilica di San Marco, (1588-1589)

Fig. 81 - Gentile da Fabriano, Presentazione di Gesù al Tempio, Parigi, Museo del Louvre, (1423)

266

Fig. 82 - Jacopo Tintoretto, Presentazione di Gesù al Tempio, Venezia, Gallerie dell’Accademia, (1550-1555)

267

Fig. 83 - Quentin Varin, Purificazione della Vergine, Beauvais, Musée Départemental de l'Oise, (1618-1620)

268

Fig. 84 - Simon Vouet, Presentazione di Gesù al Tempio, Parigi, Museo del Louvre, (1640-1641)

269

Fig. 85 - Jacopo Palma il Giovane, La Circoncisione, Verona, chiesa dei SS. Nazaro e Celso, (1610 ca.)

Fig. 86 - Jacopo Palma il Giovane, Presentazione di Gesù al Tempio, Verona, chiesa dei SS. Nazaro e Celso, (1610 ca.)

270

Fig. 87 - Giambettino Cignaroli, Purificazione, Crema, chiesa parrocchiale di Ombriano, (1745)

271

Fig. 88 - Paolo Veronese, Presentazione di Gesù al Tempio, Venezia, chiesa di San Sebastiano, (1560)

272

Fig. 89 - Claudio Ridolfi, Circoncisione, Verona, Museo di Castelvecchio, (1617), particolare

Fig. 90 - Federico Barocci, Circoncisione di Cristo, Parigi, Museo del Louvre, (1590), particolare

273

Fig. 91 - Federico Barocci, Circoncisione di Cristo, Parigi, Museo del Louvre, (1590)

274

Fig. 92 - Federico Barocci, schizzo per la composizione della parte centrale, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, particolare.

Fig. 93 - Federico Barocci, bozzetto per la Circoncisione di Cristo, Londra, Collezione privata, particolare.

275

Figg. 94-95 - Federico Barocci, studi di nudo e drappeggio, Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett

276

Federico Barocci, studio per la testa del pastore, Stoccolma, Nationalmuseum

Federico Barocci, Circoncisione di Cristo, (1590), particolare

277

Fig. 96 - Peter Paul Rubens, bozzetto per la Circoncisione, Vienna, Gemäldegalerie, (1604-1605)

278

Fig. 97 - Federico Barocci, Martirio di San Vitale, Milano, Pinacoteca di Brera, (1583)

279

Fig. 98- Peter Paul Rubens, Martirio di San Vitale (copia da Federico Barocci), Wilton House, Conte di Pembroke, (1605 ca.)

280

Fig. 99 - Orazio Gentileschi, La Circoncisione, Ancona, chiesa del Gesù, (1605-1607)

281

Fig. 100 - Claudio Ridolfi, Circoncisione, Verona, Museo di Castelvecchio, (1617)

282

Fig. 101 - Philippe Quantin, Circoncisione, Dijon, Musée des Beaux-Arts, (1635)

283

Fig. 102 - Giovanni Francesco Guerrieri, Circoncisione di Gesù, Sassoferrato, chiesa di S. Francesco, (1615-1618)

284

Fig. 103 - Orazio Gentileschi, Circoncisione, Ancona, chiesa del Gesù, (1605-1607), particolare

Fig. 104 - Claudio Ridolfi, Circoncisione, Verona, Museo di Castelvecchio, (1617), particolare

285

Fig. 105 - Louis Dorigny, Giuseppe spiega i sogni, Verona, chiesa di San Nicolò, (1690)

286

Fig. 106 - Claudio Ridolfi, Circoncisione, Verona, Museo di Castelvecchio, (1617), particolare

Fig. 107 - Louis Dorigny, Giuseppe spiega i sogni, Verona, chiesa di San Nicolò, (1690), particolare

287

Fig. 108 - Claudio Ridolfi, Madonna con Bambino e i Santi Carlo, Pietro e Francesco, Verona, Museo Canonicale, (1615)

288

Fig. 109 - Gaetano Zancon, Madonna con Bambino e i Santi Carlo, Pietro e Francesco, (1806)

289

Fig. 110 - Claudio Ridolfi, Gloria dell’Angelo Custode, Verona, chiesa di San Luca, (1627)

290

Fig. 111 - Gaetano Zancon, Gloria dell’Angelo Custode, (1806)

291

Fig. 112 - Claudio Ridolfi, Autoritratto, Firenze, Galleria degli Uffizi, (1621 ca.)

292