Edited by Dino S. Cervigni and Anne Tordi As of the 2008 Issue, Book Reviews Are Published Exclusively Online
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ITALIAN BOOKSHELF Edited by Dino S. Cervigni and Anne Tordi As of the 2008 issue, book reviews are published exclusively online. Please visit the journal’s website for the complete text: www.ibiblio.org/annali GENERAL & MISCELLANEOUS STUDIES Giuliana Adamo. L’inizio e la fine. I confini del romanzo nel canone occidentale. Ravenna: Longo, 2013. Pp. 384. Il libro di Giuliana Adamo è ambizioso e, nella sua formulazione programmatica, predisposto a squadernare la tradizione narrativa occidentale di due millenni attraverso due luoghi, inizio e fine, cruciali sotto diversi punti di vista. Il tema del volume è, infatti, “l’ostinata resistenza dei modelli di inizio e fine del racconto dall’antichità fino ad oggi” (11), tema e insieme ipotesi di lavoro che portano con sé corollari altrettanto fondamentali, di cui l’autrice cerca di dare conto a partire dall’Introduzione. In prima battuta, la questione sul genere che, avendo in dote una cospicua bibliografia, viene riassunta e incentrata sui cardinali romanzo, romance, novel. La prospettiva, qui come del resto in tutto il libro, è prepotentemente diacronica, quasi teleologica, e come velocemente si avvicina al Novecento, altrettanto velocemente deve lasciare al bordo della strada l’arsenale critico che ognuno potrà trovare nelle generose e utilissime note. L’impresa di Adamo comporta, d’altronde, un vaglio di testi notevole: dalla Poetica aristotelica alle scuole critiche del Novecento, passando per i principali capisaldi della trattazione su retorica, poetica e generi letterari degli ultimi due millenni, c’è qualcosa di vertiginosamente (e pericolosamente) enciclopedico in L’inizio e la fine. La studiosa ha scelto per la sua analisi “classici con cui tutti gli scrittori successivi si sono confrontati direttamente o indirettamente, in modo aperto o dissimulato, con continuità e/o scarti, rifiuti, rotture” (15). Opere-modello, dunque, per lettori, critica e scrittori; e se si volesse trovare l’escluso d’eccezione non si farebbe fatica, ma non si raggiungerebbe, di fatto, un punto critico più avanzato. Lo schema interpretativo generale adottato dall’autrice si basa su cinque livelli — retorico, linguistico, semantico, stilistico e narratologico — che riguardano sia gli inizi che le fini. Il volume è organizzato con l’ordine che una così vasta materia richiede, cronologicamente e con delle sezioni dalla struttura ricorsiva, in modo da fare orientare il lettore e disciplinare i contenuti. La Parte prima contiene un iniziale, denso quadro teorico della codificazione antica su incipit ed explicit di un testo, e affronta poi i poemi omerici e l’Eneide. Adamo non tralascia quindi il passaggio dall’epica al “romanzo” ellenistico e latino (Caritone e Longo Sofista da una parte, Petronio e Apuleio dall’altra). Così si viene traghettati nel Medio Evo romanzo, del quale vengono ricostruiti gli schemi retorici di cui ci informano i trattati di Ars dictaminis e Ars 530 Annali d’italianistica. Volume 32 (2014). Italian Bookshelf praedicandi e le Poetrie. Il contraltare italiano alla tradizione francese è qui la Commedia dantesca, il cui incipit in medias res si iscrive, per Adamo, in una tradizione millenaria, destinata a durare fino ad oggi, e il cui tipo di fine si ritroverebbe in molte altre conclusioni di romanzi successivi. Al Cinquecento cavalleresco, picaresco e rabelaisiano è dedicato il terzo capitolo: con l’affermarsi della codificazione dei generi letterari, gli incipit diventano sempre di più “protocolli di lettura” (177), come giustamente rileva Adamo. La seconda parte del volume si apre con una rassegna di tre secoli di romanzo occidentale, dal Chisciotte ai Malavoglia, dodici romanzi per cento pagine molto fitte che vedono nascere, fiorire e avviarsi a un punto di non ritorno il romanzo moderno. Importante è l’emergere dello statuto del narratore, sempre sulla soglia iniziale dell’opera, a presidiarla e ad affidarle nuovamente un “manifesto del testo a venire” (271). Adamo qui sottolinea come i limina testuali rimangono riconoscibili oltre le differenze, come elementi ineliminabili del patto di lettura. Queste conclusioni varrebbero anche per il corpus di romanzi novecenteschi che, pur nella loro a volte radicale diversità, mantengono la forza dell’iniziatività e della terminatività (349). Le analisi condotte e conducibili ancora su incipit e explicit del testo sono ricche, ramificate, stratificate, e ogni diverso approccio critico apporta qualcosa di più alla comprensione delle soglie (Genette). Ogni livello di lettura ha poi a che fare con la vertigine della produzione romanzesca degli ultimi secoli: che non è fatta solo di canone, ma anzi soprattutto di scarti. Questi sarebbe interessante interrogare, quantomeno per avere la controprova dei risultati raggiunti in studi come quelli di Adamo. I “capolavori”, veri e propri apax, sono stati codificati come tali perché gli si tributa (anche) una certa dose di rivoluzione rispetto agli schemi; allora chi rimane fuori potrebbe essere depositario di uno schema molto più comune e diffuso, paradossalmente anche più rilevante. Se da una parte i modelli influenzano gli altri, dall’altra la loro stra-ordinarietà esonda dai pattern stessi. Questo non è l’unico dei nodi che emergono dalla lettura del volume. Sarebbe interessante, ad esempio, ma nella quasi totalità dei casi impossibile, conoscere le fasi di stesura di inizi e fini rispetto al resto del testo, per comprendere il loro ruolo anche rispetto a questo e al suo sviluppo nel tempo (il prodotto finito, con inizio-centro-fine, inscena una finzione anche rispetto all’atto di scrittura, che non è mai invece così sequenziale). Considerata la mole di materiale interessante da analizzare, forse sarebbe stato più fruttuoso considerare una singola tradizione all’interno di quella occidentale, per almeno due motivi: poter individuare con maggior chiarezza una dipendenza delle modalità di inizio e fine rispetto a uno schema o uso o influenza; poter esercitare i numerosi strumenti critici in maniera più elastica, stratificando l’analisi su un corpus più gestibile. C’è il rischio, forse, di perdere di vista il forte vincolo imposto sia dalle tradizioni “nazionali” sia — ancora più intensamente — dai singoli generi letterari. 531 Annali d’italianistica. Volume 32 (2014). Italian Bookshelf L’analisi arriva al Calvino di Se una notte e — se vogliamo pure ammetterne la significatività per questo volume e la distanza storiografica necessaria — pure bisogna riconoscere che forse qualcosa oltre il 1979 è già entrato nel nostro canone, e sarebbe interessante indagare oltre, più vicino a noi, magari anche nella letteratura di genere. Ma il volume di Giuliana Adamo coordina una tale messe di informazioni che sarebbe ingeneroso vederne solo i margini di perfettibilità; mentre esso offre, invece, spunti per ulteriori analisi, forse più circoscritte, più concentrate, ma di cui rimane eventualmente non solo un ottimo punto di partenza ma addirittura un necessario punto di riferimento. Stefano Nicosia, Università di Palermo Marco Arnaudo Dante barocco. L’influenza della Divina commedia su letteratura e cultura del Seicento italiano. Ravenna: Longo Editore 2013. Pp. 275. L’adozione della prospettiva diacronica nello studio delle opere letterarie rivela notevole interesse specie se scardina idee stabilizzate nel tempo come quella del Seicento, definito secolo senza Dante per il controverso rapporto tra gli autori del periodo ed i loro antecedenti. Infatti, nonostante molti scrittori nel Seicento si ispirassero ai capolavori del passato, non esitavano a tacciare di rozzezza nel gusto e nell’espressione gli autori dei primi secoli della letteratura italiana. Tuttavia lo stile della Commedia e quello degli autori secenteschi erano comparabili nella capacità di destare meraviglia nel lettore, nella copiosità metaforica, tematica e lessicale, nell’evidenza delle immagini, nella libertà espressiva, nell’uso di un linguaggio mimetico della natura multiforme del reale. Inoltre la Commedia dispiega una molteplicità di oggetti, creature, passioni, storie, luoghi entro una struttura gerarchica in cui ogni cosa instaura un vincolo necessario con il tutto. Quella rigorosa organizzazione interna osteggiava il relativismo che l’incontenibile varietà del reale secentesco racchiudeva. Piuttosto, le critiche mosse a Dante tra Cinque e Seicento riguardavano il piano morale. La Monarchia, per le posizioni politiche espresse, era stata messa all’Indice sin dalla prima edizione del 1564; la Commedia era sconveniente per la cultura cattolica ufficiale: i pontefici sono puniti nell’Inferno, Dante viaggia nell’oltretomba con corpo mortale, elementi della cultura pagana coesistono con luoghi e figure della teologia cristiana. Pertanto fattori quali la rarità di edizioni e studi critici su Dante, intesi come sintomo di avversione letteraria, possono essere dovuti, sostiene Arnaudo, al clima di diffidenza verso la Divina commedia che la Controriforma andava suscitando. Dunque, per risolvere la questione relativa alla controversa presenza di Dante nel Seicento, l’autore cerca testimonianze del vivo culto della Commedia nella fattura delle opere e nel tessuto dei rimandi intertestuali ad esse soggiacente (59). Così citazioni e reminiscenze dantesche affiorano in Galileo e 532 Annali d’italianistica. Volume 32 (2014). Italian Bookshelf Francesco Redi. Galileo ravvisava in Dante non solo schegge intertestuali che arricchivano il proprio discorso e la godibilità della forma ma un precursore ideale della sua missione di asservire la propria opera