RASSEGNA STAMPA di lunedì 24 settembre 2018

SOMMARIO

“Gli italiani sono più soli – osservava sabato Marco Impagliazzo, sulla prima pagina di Avvenire -. Il Rapporto Istat di quest’anno, come quello di Eurostat lo scorso anno, sulle reti e relazioni sociali nel Paese, mettono a fuoco anche questa realtà: la solitudine crescente degli italiani. Il 13% dei nostri concittadini non ha una persona cui chiedere aiuto: è il dato più alto a livello europeo. Per l’Istat tre milioni di abitanti della Penisola dichiarano di non poter contare su alcuna rete di sostegno (parenti, amici, vicini, realtà associative; mentre aumentano le famiglie composte da una sola persona (il 21,5% nel 1998, ben il 31,6% nel 2016). La pubblicazione, lo scorso 6 settembre, del report – ancora Istat – sulla popolazione residente per stato civile ci aiuta a guardare al fenomeno di cui sopra co me a qualcosa di strutturale. Non siamo in presenza, infatti, di un dato legato al progressivo invecchiamento della popolazione, per cui è normale ci siano più vedovi/e. Quando si legge che «nella classe di età 15-64 anni i coniugati e i celibi quasi si eq uivalgono (ammontano ciascuno ad oltre 9 milioni, rispettivamente il 49% e il 47,7% del totale della popolazione di quella fascia di età)», ovvero che «la diminuzione e la posticipazione della nuzialità in atto nel Paese hanno prodotto un crollo particolarmente evidente della condizione di 'coniugato' tra i giovani adulti», ci si rende conto di vivere in una società il cui tessuto connettivo è più poroso e friabile, costituito da milioni di persone sole, con pochissimi legami stabili e difficoltà a fare rete. I commenti relativi al report si sono focalizzati sul mutare dei comportamenti familiari, sulle prime unioni civili, sul boom dei divorziati (più che triplicatisi nel giro di un quarto di secolo). Ma il nodo della questione non è di costume: è culturale e antropologico. La gente è più sola. Assistiamo all’avanzare di un nuovo tipo di umanità, sempre meno sociale e sempre più solitaria nell’avventura della vita. Con tutte le implicazioni politiche, economiche e sociali, che questa vera e propria rivoluzione porta con sé sul medio e lungo periodo. Siamo di fronte al laboratorio di una nuova società, quella del secolo che avanza, di una globalizzazione che fa perno sul vivere in città, ma distanti gli uni dagli altri. Si va disegnando un mondo in cui convivenza e isolamento coesistono, così come massificazione e solitudine si danno man forte. Oggi si tratta di garantire una tenuta sociale non più cementata da nuclei familiari o da reti di appartenenza ed è quindi, sempre più necessario, tessere legami di condivisione e di speranza tra soggetti più distanti e diversi che in passato. La vita diventa inesorabilmente individuale sui grandi scenari del mondo globalizzato. Le forme comunitarie, familiari, solidali, scivolano al secondo posto rispetto a una vita solitaria. Le fisionomie di socialità 'virtuale' affiancano o sostituiscono quelle più tradizionali. Soprattutto per i giovani e i giovani adulti. Vivere individualmente è tanta parte dello spirito del nostro tempo. E così, oggi, l’uomo e la donna sono più soli. Senza contare che la solitudine è un peso ulteriore per chi è malato, fragile, povero. Soffre di più nella solitudine chi si colloca agli estremi temporali della vita, il bambino e l’adolescente, ma soprattutto l’anziano. Possiamo fare a meno dell’aiuto dell’altro? Questa è la grande domanda di fronte alla stagione che viene. Più grande anche delle questioni e delle paure che ci agitano nel quotidiano e che spesso sono frutto di propagande maliziose e di percezioni sbagliate. Il vero, grande, problema – umano, spiruituale e politico – è che le nostre città sono popolate da molte, troppe solitudini; che la nostra società è malata di solitudine. Eppure, amma-larsi non conviene. L’antica saggezza delle pagine della Bibbia – tra cui l’affermazione di Dio nella Genesi: «Non è buono che l’uomo sia solo» – ci chiama a ripensare tante scelte che quotidianamente ci allontanano, rendendo più dura l’esistenza di ognuno. In questo senso la vita cristiana, che è la relazione con 'l’altro', come ci ricorda sempre papa Francesco, può essere una risorsa per tutti. È nostro compito testimoniarlo facendo presente che la debolezza è una condizione esistenziale e, in qualche modo, universale. Che si può esorcizzare nel brivido dell’autoreferenzialità o della virtualità, come a vviene su larga scala. Ma dato che appartiene alla condizione umana e non si potrà mai cancellare, conviene affrontarla il più possibile insieme e non da soli. È uno dei motivi per cui è davvero urgente – come sottolinea il cardinal Bassetti – «rammendare» il tessuto della società italiana e rigenerare quelle reti sociali e umane che si sono tanto sfilacciate” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Dalla Caritas a Gambarare una folla accoglie Pistolato di Luisa Giantin Duomo gremito per l’arrivo del nuovo parroco, accompagnato dal Patriarca. Moraglia: “Continua a essere un prete generoso, ma risparmiati un po’ di più”

Pag IX Nuovo altare per la chiesa di Cittanova di D. Deb.

LA NUOVA Pag 14 “Sarò un prete missionario”, don Pistolato a Gambarare di Alessandro Abbadir

LA NUOVA di domenica 23 settembre 2018 Pag 30 Gambarare, oggi l’arrivo di Moraglia. Il Patriarca accoglie don Dino Pistolato di Alessandro Abbadir

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 22 settembre 2018 Pag VIII Oggi e domani la Festa del Creato Da Mestre ad Altino

3 – VITA DELLA CHIESA

CORRIERE DELLA SERA Pag 13 Il Papa prega per gli ebrei uccisi a Vilnius: “Mai più” di Gian Guido Vecchi

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 23 settembre 2018 Una data nella storia di g.m.v.

AVVENIRE di domenica 23 settembre 2018 Pagg 5 - 7 Santa Sede-Cina, storica intesa sui vescovi di Stefania Falasca , Gerolamo Fazzini, Agostino Giovagnoli, Elisa Giunipero e Stefano Vecchia L’accordo, “provvisorio”, riguarda le n omine dei presuli del Paese asiatico. Un impegno che ha unito gli ultimi tre Papi . Va evitato ogni trionfalismo, ma ora è più legittimo sperare. Ecco perché Pechino ha firmato malgrado la stretta sulle religioni. L’avamposto dei saveriani

CORRIERE DELLA SERA di domenica 23 settembre 2018 Pag 10 Una firma per i vescovi, storico accordo tra Vaticano e Cina di Gian Guido Vecchi Il patto atteso da vent’anni: al Papa il potere di nomina. Pechino si riserva il diritto di “controllo” dei nomi

IL GAZZETTINO di domenica 23 settembre 2018 Pag 11 Nomina dei vescovi, storico accordo tra Vaticano e Cina di Franca Giansoldati Primo passo di riavvicinamento pastorale, non politico: relazioni d iplomatiche ancora interrotte

LA NUOVA di domenica 23 settembre 2018 Pag 8 Bergoglio butta giù un muro, è quello tra Vaticano e Cina di Mariaelena Finessi e Orazio La Rocca Storico accordo dopo una lunga trattativa. Dal Vangelo le risposte del pontefice ai detrattori

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 22 settembre 2018 Scelti dal basso Messa a Santa Marta

AVVENIRE di sabato 22 settembre 2018 Pag 2 E’ compiuta passo dopo passo e nel segno del Concilio la “rifondazione” del Sinodo di Salvatore Mazza

Pag 20 Ma lo spazio sacro nasce per gli uomini di Alessandro Beltrami Il Cortile dei Gentili ha affrontato ieri il tema del legame tra fede e architettura

CORRIERE DELLA SERA di sabato 22 settembre 2018 Pag 19 Compensi in nero per il corso, ci sono altri due conti segreti di Fiorenza Sarzanini Il caso dei cantori della Sistina. Palombella verso la sospensione

Pag 30 L’accordo Vaticano – Cina. Un successo di Francesco di Andrea Riccardi

IL GAZZETTINO di sabato 22 settembre 2018 Pag 18 “Architetti in dialogo con Dio” di Raffaella Vittadello

LA NUOVA di sabato 22 settembre 2018 Pag 45 L’architetto e il “materiale di Dio”, riflessioni su Vatican Chapels di Marta Artico

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA di sabato 22 settembre 2018 Pag 9 Negozi chiusi la domenica, il 56% degli italiani dice no di Nando Pagnoncelli Prima bocciatura di una proposta M5S-Lega. Elettorato di Salvini spaccato

AVVENIRE di sabato 22 settembre 2018 Pag 1 Emergenza solitudini di Marco Impagliazzo La “malattia” meno capita e più grave

Pag 3 Buone notizie dal (cambiato) mondo del lavoro di Francesco Delzio

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Parla l’ex terrorista: “Rinato con la fede” di Giuseppe Babbo

IL GAZZETTINO di domenica 23 settembre 2018 Pag V In seicento per l’addio a Cristiano Lucchini ,il ragazzo della parrocchia di Michele Fullin e Tullio Cardona Il parroco: “Sensibile e gentile, era il primo a porre domande”

Pag XI “Aiutateci a salvare la chiesetta di villa Tivan” di F. Spo.

Pag XII I tessuti Rubelli in mostra per aiutare il “Don Vecchi 7” di A.Spe.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 23 settembre 2018 Pag 13 “Nanni, vorrei essere in paradiso” di Giacomo Costa Cento palloncini e un grande orso bianco per l’addio al tredicenne ucciso da un muletto. La disperazione della mamma. Don Paolo: penso al tuo fischio domenica, se avessi saputo

LA NUOVA di domenica 23 settembre 2018 Pag 18 Palloncini bianco azzurri e le note di “Dove sei” per l’addio a Cristiano di Nadia De Lazzari

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 22 settembre 2018 Pag VIII San Michele, corsa per sistemare il cimitero di Tullio Cardona Alcuni reci nti sono ancora preclusi ai parenti dei defunti a quaranta giorni dalla ricorrenza. Chiesa con cedimenti e senza luci. Mons. Fornezza: “Rischio chiusura”

LA NUOVA di sabato 22 settembre 2018 Pag 24 Parroco in difesa dei concittadini: “Troppe multe in via Istria” di Alessandro Abbadir Decine di sanzioni alla Gazzera anche per automobili parcheggiate in sosta vieta ta. Residenti arrabbiati, il prete sollecita una riflessione

8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO di sabato 22 settembre 2018 Pag 6 “I leghisti non sono cristiani”. Viaggio nel paese trevigiano “scomunicato” da don Paolo di Emilio Randon

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’Europa terreno di contesa di Angelo Panebianco I rischi per la Ue

Pag 10 La psicologia del Paese in un vuoto settembre di “sconcerto” di Giuseppe De Rita

Pag 34 Pd, il partito “doppio” che non riesce a discutere di Paolo Franchi

IL GAZZETTINO Pag 1 La rischiosa deriva del socialismo inglese di Marco Gervasoni

LA NUOVA Pag 1 Tra commedia e risse continue il Pd si schianta di Francesco Jori

CORRIERE DELLA SERA di domenica 23 settembre 2018 Pag 1 L’opposizione spiazzata di Francesco Verderami

AVVENIRE di domenica 23 settembre 2018 Pag 1 Un figlio e molto altro di Maurizio Patriciello Flavia, l’aborto rifiutato, il piccolo G.

Pag 2 Pierluigi, ostaggio della missione di Mauro Armanino Un fratello e un padre in mano ai rapitori di speranza nel Niger

Pag 11 Un ruolo eccessivo e intoccabile che desta sospetti. Cambiare non è abolire il primato della politica di Marco Iasevoli

IL GAZZETTINO di domenica 23 settembre 2018 Pag 1 Guerra dei dazi tra Usa e Cina. Il ruolo e i rischi per l’Europa di

Pag 4 Il Casaleggio boy non eletto da nessuno che detta legge nelle stanze del governo di Mario AJello

LA NUOVA di domenica 23 settembre 2018 Pag 5 Cercansi “tecnici cattivi” per far digerire i conti all’Italia di Roberta Carlini

Pag 6 Sovranismo e nazionalismo, definizioni da aggiornare di Fabio Bordignon

CORRIERE DELLA SERA di sabato 22 settembre 2018 Pag 1 La svolta necessaria sulla Libia di Franco Venturini Un patto con Parigi

Pag 1 L’incontro con il Pd della sinistra M5S: segnale alla Lega di Francesco Verderami

AVVENIRE di sabato 22 settembre 2018 Pag 3 Un lancio in bottiglia che riattivi l’impegno di Giorgio Campanini Per una nuova presenza dei cattolici in politica

IL FOGLIO di sabato 22 settembre 2018 Pag 1 Cattolici liberali, battete un colpo

IL GAZZETTINO di sabato 22 settembre 2018 Pag 1 La resa dei conti con il “sondaggio” delle europee di Bruno Vespa

Pag 1 Il lato oscuro della proposta sul reddito di Luca Ricolfi

LA NUOVA di sabato 22 settembre 2018 Pag 5 Così Matteo deve scegliere tra Di Maio e Berlusconi di Bruno Manfellotto

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Dalla Caritas a Gambarare una folla accoglie Pistolato di Luisa Giantin Duomo gremito per l’arrivo del nuovo parroco, accompagnato dal Patriarca. Moraglia: “Continua a essere un prete generoso, ma risparmiati un po’ di più”

Un duomo di San Giovanni Battista gremito ha accolto ieri pomeriggio l'ingresso ufficiale di don Dino Pistolato nella parrocchia di Gambarare, accompagnato dal Patriarca Francesco Moraglia. «Arriva un parroco buono e generoso. un pastore appassionato e fedele ad ogni progetto». Con queste parole il Patriarca ha presentato alla nuova comunità parrocchiale radunata nel duomo di Gambarare don Dino Pistolato, 61 anni, tra i più stretti collaboratori di Moraglia ma, per la prima volta nella sua vita, incaricato di guidare una comunità parrocchiale. IL NUOVO PASTORE - Don Pistolato è cresciuto a Zelarino ed è entrato in seminario a 19 anni, appena diplomato ragioniere. Nella sua lunga carriera è stato direttore della Caritas diocesana per ben 22 anni ricoprendo negli ultimi anni il ruolo di vicario episcopale per i Servizi generali e gli affari economici, quello di moderatore di Curia e di direttore degli uffici diocesani per la salute e per le migrazioni. «In questi anni ho avuto la possibilità di fare tante esperienze e di avere una visione ampia ha ricordato don Dino. E' proprio questa visione che voglio portare qui a Gambarare, per una chiesa missionaria, aperta e appassionata». Presenti alla cerimonia di investitura del nuovo parroco il sindaco di Mira Marco Dori, i parroci del territorio, tra i quali don Cristiano Bobbo parroco delle parrocchie di Oriago e Ca' Sabbioni, che ha dato lettura della formale nomina a parroco di don Dino da parte del Patriarca, don Carlo Gusso per Borbiago e Marano e Gino Cicutto e don Mauro Margagliotti per le parrocchie di Mira, oltre a molti altri prelati del patriarcato veneziano. IL RUOLO DI DON CASARIN - Tra i tanti fedeli presenti in chiesa, nonostante il caldo, c'erano le suore dell'istituto delle Ancelle di Gesù Bambino, da sempre collaboratrici della parrocchia di Gambarare e della scuola materna, i Cavalieri di San Marco e i volontari dell'Unitalsi. Al fianco di don Dino, ma nelle retrovie, quasi a sottolineare il suo nuovo ruolo, don Luigi Casarin, 76 anni, parroco uscente di Gambarare dopo 20 anni di servizio che manterrà la sua residenza nella frazione mirese al servizio della parrocchia e soprattutto della comunità. In chiusura il patriarca Moraglia nell'augurare buon cammino a don Dino si è rivolto al nuovo parroco con espressioni paterne. «Continua ad essere il prete generoso che io conosco - ha sottolineato il Patriarca - ma risparmiati un po' di più. Un buon prete non è colui che dice sempre si ma che sa anche pronunciare dei no per il bene della comunità parrocchiale. E mi raccomando ha concluso Moraglia istituisci al più presto il consiglio pastorale». La celebrazione si è conclusa con un caloroso applauso di benvenuto che l'intera comunità parrocchiale di Gambarare ha voluto riservare alla sua nuova guida.

Pag IX Nuovo altare per la chiesa di Cittanova di D. Deb.

La chiesa “Santa Maria del Carmelo” di Cittanova era gremita sabato pomeriggio per la solenne cerimonia di dedicazione. La suggestiva funzione è durata due ore e mezza, officiata dal patriarca di Venezia Francesco Moraglia, assieme al nuovo parroco don Davide Carraro, don Angelo Munaretto di Eraclea, don Massimiliano Callegari di Pontecrepaldo e Valcasoni, don Alessio Sottana vicario della piazze Milano e Trieste di Jesolo. Per l’occasione, grazie ad una raccolta di fondi promossa dalla comunità della frazione, la chiesa è stata dotata di un nuovo altare e un ambone entrambi in marmo. E in una nicchia nell’altare sono state collocate in una cassetta due piccole reliquie di Santa Caterina d’Alessandria vergine e martire e San Bernardo abate. Altri nuovi arredi consistono in dodici croci in ottone e altrettanti portacandele, benedetti dal patriarca nel corso della funzione. Dopo questo rito sono suonate le campane in segno di festa. La funzione è stata accompagnata dai canti del coro vicariale di Eraclea, diretto da Paola Stefanon, composto da una trentina di persone, mentre i fedeli hanno presentato all’altare alcuni prodotti agricoli locali. La chiesa era stata eretta 91 anni fa e la parrocchia era stata istituita nel 1954, anche se non si trovava più la documentazione relativa alla dedicazione, per cui il vecchio parroco don Alberto Da Ponte, morto nel 2013, aveva avviato la procedura per la speciale liturgia, compiuta sabato scorso e ricordata da un’apposita lastra all’interno della chiesa. Alla cerimonia erano presenti i sindaci di Eraclea Mirco Mestre e di San Donà Andrea Cereser che hanno rivolto un saluto di accoglienza alle autorità religiose. Cereser ha ricordato come sia stretto il legame con la comunità, «tanto che il nome di San Donà è dedicato ad un santo, lo stemma nel gonfalone del Comune riporta un angelo e nello sfondo compaiono una chiesa ed una casa, simboli che indicano la doppia appartenenza di molte persone. Cittanova, in particolare, è la frazione più piccola del territorio ma anche la più nobile, è qui che venne eletto il primo doge veneziano Paoluccio Anafesto».

LA NUOVA Pag 14 “Sarò un prete missionario”, don Pistolato a Gambarare di Alessandro Abbadir

Mira. «Sarò un prete missionario, porterò la visione del mondo, del superamento dei confini all'interno della parrocchia di Gambarare. In questo primo anni mi occuperò dei problemi della famiglia». A dirlo è stato monsignor Dino Pistolato di fronte a oltre un migliaio di persone, ieri pomeriggio nel momento del suo insediamento, a cui ha presenziato il patriarca Francesco Moraglia. Don Dino Pistolato ha parlato durante il suo discorso alla comunità, delle esperienze fatte in tante parti del mondo e anche come responsabile della Caritas veneziana e in difesa degli ultimi. Il patriarca Francesco Moraglia ha esortato monsignor Pistolato a non sacrificarsi in modo esagerato. «La parola che attende la parrocchia è quella di un prete. So il grandissimo impegno che metterà in questo compito don Dino, e proprio per questo lo invito a non sacrificarsi troppo, in modo esagerato». Il Patriarca ha sottolineato come don Dino porterà la sua preziosa esperienza a servizio della comunità. Moraglia ha citato il grande esempio di sacrificio e fede di San Giovanni Battista a cui la chiesa di Gambarare è dedicata. Sia don Dino che il Patriarca hanno ringraziato il parroco uscente monsignor Luigi Casarin che resterà parroco emerito. Ad accogliere l'arrivo del nuovo parroco in chiesa c'era anche il sindaco di Mira Marco Dori.

LA NUOVA di domenica 23 settembre 2018 Pag 30 Gambarare, oggi l’arrivo di Moraglia. Il Patriarca accoglie don Dino Pistolato di Alessandro Abbadir

Gamabarare. Tutto pronto a Gambarare di Mira oggi alle 16 per l'arrivo del Patriarca Francesco Moraglia. L'occasione è l'insediamento a parroco della chiesa di San Giovanni Battista di monsignor Dino Pistolato. Un momento che segnerà anche il cambio nella vita della parrocchia fin qui guidata da monsignor Luigi Casarin e che da oggi inizierà un nuovo percorso con don Dino Pistolato, conosciuto per il suo impegno anche come presidente della Caritas. Un saluto ai due parroci arriva dal sindaco di Mira Marco Dori. «Prima di tutto», spiega Dori, «un ringraziamento sentito a don Luigi che ha guidato la comunità per tanti anni, con grande spirito di servizio e vicinanza alle persone. Siamo contenti che resti ad aiutare come parroco emerito. Diamo un caloroso benvenuto poi a don Dino, certi che saprà calarsi nel suo nuovo incarico, da neofita entusiasta come si è lui stesso definito, portando nella comunità di Gambarare le sensibilità e l'esperienza maturata in tanti anni di incarichi diocesani, gli ultimi ai vertici della curia. Come Comune confermiamo la nostra disponibilità a collaborare per quanto sarà necessario nell'esercizio del suo ministero tra la gente». La messa di insediamento vedrà il patriarca accompagnare all'altare Don Dino che poi celebrerà la messa. Dopo il rito di insediamento verso le 18.15 ci sarà un rinfresco conviviale offerto a tutti i cittadini e fedeli dalla parrocchia.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 22 settembre 2018 Pag VIII Oggi e domani la Festa del Creato Da Mestre ad Altino

Mestre. Si apre oggi a Mestre la Festa del Creato che avrà il suo clou domani a Quarto d'Altino. Un nuovo cammino sulla Terra di tutti. Rinascere dall'acqua e dalla terra sarà il filo conduttore della 15. edizione della manifestazione. «Questa Festa del Creato - anticipa don Gianni Fazzini, responsabile del Servizio pastorale degli Stili di Vita - si caratterizzerà per la singolare esperienza che vogliamo vivere insieme. Domenica ad Altino il contatto con la laguna sarà accompagnato dalle riflessioni della teologa Cristina Simonelli, e dal suono della viola di una grande artista, Giorgia Bignami. Tutto punterà a risvegliare il nostro animo e la nostra fede». Il tema dell'acqua, con la necessità di tutelarne la qualità e la disponibilità per tutti, è stato al centro del messaggio di Papa Francesco. Il prorogo ci sarà oggi alle 18 per la preghiera e il canto del Vespro ortodosso nella Chiesa ortodossa (nel sito dell'ex ospedale Umberto I). Domani alle 11 nella chiesa parrocchiale di Sant'Eliodoro si terrà la S. Messa presieduta dal patriarca Francesco Moraglia e, a seguire, il pranzo condiviso nel chiostro di Altino.

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3 – VITA DELLA CHIESA

CORRIERE DELLA SERA Pag 13 Il Papa prega per gli ebrei uccisi a Vilnius: “Mai più” di Gian Guido Vecchi

Vilnius. Al numero 18 di via Rudninku c’è un caffè, tra due finestre una lapide scolorita con incisa la pianta di un vecchio quartiere e una ventina di sassolini posati sul bordo. Chi non la cerca passa oltre, come davanti alla piccola stele ai margini del giardino di fronte, le sole tracce a segnalare che qui c’era il Grande Ghetto - quarantamila persone - liquidato dai nazisti il 23 settembre 1943. Prima di scendere nei sotterranei della prigione del Kgb, le stesse celle già usate dalla Gestapo, Francesco si ferma e depone un mazzo di rose gialle, resta due minuti a pregare in silenzio. L’Europa deve stare attenta ai ritorno dell’antisemitismo, il Papa lo ha detto poco prima: «Facciamo memoria di quei tempi, e chiediamo al Signore che ci faccia dono del discernimento per scoprire in tempo qualsiasi nuovo germe di quell’atteggiamento pernicioso, di qualsiasi aria che atrofizza il cuore delle generazioni che non l’hanno sperimentato e che potrebbero correre dietro quei canti di sirena». Vilnius era la «Gerusalemme del Nord», si parlava yiddish, il 96 per cento dei 200 mila ebrei lituani fu sterminato. La presidente degli ebrei italiani Noemi Di Segni e rappresentati dell’ebraismo locale avevano scritto al Papa per chiedere un «gesto di attenzione». E Bergoglio ha scandito quelle parole davanti a centomila persone, nell’Angelus dopo la prima messa nei Paesi balcanici, a Kaunas. Dalla periferia del Vecchio Continente, Francesco esorta l’Europa a fare memoria del passato per non ripetere le tragedie. L’invasione nazista, l’oppressione sovietica, il «delirio di onnipotenza». Già sabato esortava a «ospitare le differenze» contro il virus totalitario che vuole «annullare il diverso». Nel palazzo del Kgb, il Papa entra nelle celle 9 e 11, accende un cero e prega per le vittime, compresi quattro vescovi, guarda commosso la sala delle esecuzioni. I ghetti, la Siberia. «Che il tuo grido, Signore, ci liberi dalla malattia spirituale da cui, come popolo, siamo sempre tentati: dimenticarci dei nostri padri, di quanto è stato vissuto e patito».

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 23 settembre 2018 Una data nella storia di g.m.v.

È certo destinata a entrare nella storia la data del 22 settembre: per la firma, a Pechino, di un accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi tra Cina e Santa Sede preparato da decenni di lunghe e pazienti trattative, mentre il Papa inizia la sua visita nei paesi baltici. Bergoglio è infatti arrivato in Lituania proprio nelle stesse ore in cui, a migliaia di chilometri di distanza, i suoi rappresentanti hanno raggiunto una tappa certo non conclusiva ma che già ora appare di grande importanza per la vita dei cattolici nel grande paese asiatico. L’intesa era annunciata e, anche se prevedibilmente non cesseranno interpretazioni contrastanti e opposizioni, la notizia è molto positiva e subito ha fatto il giro del mondo. Il Pontefice riconosce inoltre la piena comunione agli ultimi vescovi cinesi ordinati senza il mandato pontificio, con l’intento evidente di assicurare uno svolgimento normale della vita quotidiana di molte comunità cattoliche. Come conferma il provvedimento simultaneo che costituisce a nord della capitale una nuova diocesi, la prima dopo oltre settant’anni. Si tratta dunque di una tappa davvero importante nella storia del cristianesimo in Cina, dove le prime tracce del Vangelo sono antichissime, attestate da una stele eretta nel 781 a Xi’an, nel cuore dell’enorme paese. Sul grande monumento, alto quasi tre metri e scoperto agli inizi del Seicento, si legge infatti il racconto in caratteri cinesi e siriaci dell’arrivo, già nel 635, sulla cosiddetta via della seta, di missionari cristiani giunti probabilmente dalla Persia. E i loro nomi sono incisi sulla roccia calcarea, insieme all’annuncio della “religione della luce”, con una sintesi delle vicende di questa minuscola comunità corredata da altre decine di nomi, e con un’esposizione della dottrina cristiana poi affidata a centinaia di libri tradotti e diffusi nei secoli seguenti. La storia di questa straordinaria tradizione si prolunga poi, oscillando tra fioriture inattese e persecuzioni, sino a incrociarsi con le missioni, soprattutto francescane, inviate da pontefici e da sovrani cristiani europei, a partire dalla seconda metà del Duecento, per circa un secolo. Agli inizi dell’età moderna è il nuovo ordine dei gesuiti, punta di diamante della Riforma cattolica, a divenire protagonista delle missioni in Cina, da Francesco Saverio a Matteo Ricci, per ricordare soltanto i nomi più noti di una serie che ha pochi paragoni nella storia della diffusione del Vangelo. Intromissioni politiche, irrigidimenti dottrinali, invidie e contrasti tra ordini religiosi complicano però notevolmente l’opera dei missionari. Questa viene ostacolata dalla disastrosa controversia sui riti cinesi trascinatasi fin verso la metà del Settecento, un secolo più tardi dai condizionamenti imposti dalle potenze coloniali, e infine da ripetute persecuzioni, anche nel corso del Novecento. Solo nel 1926 vengono ordinati dallo stesso Pio XI a Roma i primi vescovi cinesi, mentre vent’anni più tardi è il suo successore a stabilire la gerarchia cattolica nel paese. Questi «due fatti della storia religiosa della Cina», definiti «simbolici e decisivi», vengono ricordati il 6 gennaio 1967 nell’omelia per l’Epifania, appassionato elogio del paese, da Paolo VI, che poco più di un anno prima nel discorso alle Nazioni Unite aveva chiesto l’ammissione della Cina comunista nell’organizzazione. Ed è proprio Montini ad arrivare «per la prima volta nella storia», durante le ore trascorse a Hong Kong (allora sotto il controllo britannico), in territorio cinese. «Per dire una sola parola: amore» esclama il Papa. E aggiunge, vedendo lontano: «La Chiesa non può tacere questa buona parola; amore, che resterà».

AVVENIRE di domenica 23 settembre 2018 Pagg 5 - 7 Santa Sede-Cina, storica intesa sui vescovi di Stefania Falasca, Gerolamo Fazzini, Agostino Giovagnoli, Elisa Giunipero e Stefano Vecchia L’accordo, “provvisorio”, riguarda le nomine dei presuli del Paese asiatico. Un impegno che ha unito gli ultimi tre Papi. Va evitato ogni trionfalismo, ma ora è più legittimo sperare. Ecco perché Pechino ha firmato malgrado la stretta sulle religioni. L’avamposto dei saveriani

Si firma la storia: pace è fatta tra Cina e Vaticano. Mentre il Papa era in volo verso le Repubbliche baltiche, sotto i cieli di Pechino l’annunciato accordo è stato siglato. Lo ha reso noto ufficialmente ieri il comunicato diffuso in contemporanea dalla Sala Stampa vaticana e dal governo cinese. Nel corso della riunione del 22 settembre tra i capi delle delegazioni vaticana e cinese a Pechino è stato «firmato un accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi». «Questione di grande rilievo per la vita della Chiesa », sottolinea il comunicato, che «crea le condizioni per una più ampia collaborazione a livello bilaterale» e può favorire «un fecondo e lungimirante percorso di dialogo istituzionale», contribuendo «positivamente alla vita della Chiesa cattolica in Cina, al bene del popolo cinese e alla pace nel mondo». Si tratta di un accordo storico che non riguarda dunque le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese ma l’annosa questione delle modalità di selezione e nomine vescovili. Una questione essenziale e cruciale per la vita della Chiesa in Cina perché rende possibile per tutti i vescovi cinesi di essere in comunione con il Papa e per milioni di fedeli cattolici di far parte di un’unica comunità. Con questo atto, infatti, le parti hanno concordato un metodo condiviso: la Santa Sede accetta che il processo di designazione dei candidati all’episcopato avvenga dal basso, dai rappresentanti della diocesi anche con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica, mentre il governo cinese da parte sua accetta che la decisione finale, con l’ultima parola sulla nomina, spetti al Pontefice e che la lettera di nomina dei vescovi sia rilasciata dal successore di Pietro. Come comunicato nella nota informativa diffusa dalla Sala Stampa vaticana, «al fine di sostenere l’annuncio del Vangelo in Cina», papa Francesco ha deciso «di riammettere nella piena comunione ecclesiale anche i rimanenti vescovi “ufficiali” ordinati senza mandato pontificio». L’accordo definisce quindi anche i termini della legittimazione canonica degli otto vescovi (di cui uno ora defunto) che erano stati ordinati senza l’approvazione del Papa, compresi quelli per i quali era stata dichiarata la pena della scomunica, e da adesso, i tutti vescovi cinesi saranno ordinati in piena e pubblica comunione gerarchica con il Papa. Così «per la prima volta nella storia oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma», ha affermato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin nella dichiarazione rilasciata in riferimento alla firma e agli obiettivi pastorali dell’accordo. Di fatto, con quest’intesa, è la prima volta che la Repubblica popolare cinese riconosce il ruolo del Pontefice come guida spirituale e gerarchica della Chiesa. Seppure il testo dell’accordo non venga pubblicato e sia definito «provvisorio » – in quanto strumento aperto a graduali e ulteriori messe a punto – certamente la sottoscrizione di questa firma d’intesa appiana non solo una vexata questio, archivia un passato di divisioni e di grandi sofferenze sperimentate nel corso di alterne vicende dei cristiani in Cina e getta le basi al tracciato di una pagina nuova della storia della Chiesa nella Repubblica popolare cinese. Recentemente la possibilità imminente dell’accordo «su un piano religioso» – che avrebbe lasciato fuori il livello politico dell’allacciamento di relazioni diplomatiche tra Pechino e il Vaticano – era stata profilata dal Global Times, la testata online in lingua inglese considerata organo semi-ufficiale del Partito comunista cinese. Gli obiettivi che avevano mosso la Santa Sede nel trattare le delicate vicende del cattolicesimo in Cina non hanno del resto risposto a logiche mondane ma pastorali: aiutare a migliorare la condizione dei cattolici cinesi nel contesto politico e sociale in cui si trovano per vivere ed esprimere pubblicamente il legame di comunione con la Chiesa di Roma. Un’intensificazione di comunicazioni bilaterali, senza mediazioni, è accreditata al 2017. Lo strumento operativo che ha incarnato la nuova fase dialogante dei rapporti tra Pechino e Santa Sede è stata la commissione bilaterale di lavoro ricostituitasi dopo l’inizio del pontificato di papa Francesco e della presidenza di Xi Jinping. Dal giugno 2014 le delegazioni incaricate di studiare soluzioni ai problemi, che hanno reso anomala la condizione del cattolicesimo cinese, si sono riunite decine di volte, con sessioni ospitate di volta in volta a Roma o a Pechino. In quel tavolo di lavoro riservato si era negoziato un accordo condiviso sulle modalità di selezione e nomina dei vescovi e anche sulla legittimazione e futura destinazione di otto vescovi cattolici illegittimi, ordinati su pressione degli organismi cinesi e senza consenso papale. Il criterio seguito dal Papa e dai suoi collaboratori nei rapporti con le autorità cinesi – come ha ribadito anche ieri Parolin – è stato prettamente ecclesiale puntando a eliminare per sempre la possibilità di ordinazioni episcopali celebrate in Cina senza il consenso del Papa e della Sede Apostolica. Ma le novità sui rapporti Cina-Vaticano, emerse sotto il pontificato di Francesco, non sono state un cambio di direzione rispetto alla linea seguita dagli ultimi Papi riguardo alla questione cinese. Papa Francesco ha più volte riaffermato l’intenzione di muoversi lungo la linea indicata dalla Lettera ratzingeriana del 2007 e per questo ha fatto riannodare i fili del dialogo diretto con Pechino, che si erano bruscamente interrotti tra il 2009 e il 2010. Sulla cruciale questione delle nomine vescovili, per dare soluzione alla condizione dei cattolici in Cina, il riferimento imprescindibile è stata infatti proprio la famosa Lettera ai cattolici cinesi del 2007 in cui Benedetto XVI auspicava «un accordo con il Governo per risolvere alcune questioni riguardanti sia la scelta dei candidati all’episcopato sia la pubblicazione della nomina dei vescovi sia il riconoscimento - agli effetti civili in quanto necessari - del nuovo vescovo da parte delle autorità civili» ribadendo che la soluzione dei problemi esistenti non poteva essere «perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili». La Lettera di Benedetto XVI, firmata il giorno di Pentecoste e resa nota il 30 giugno 2007, ha rappresentato perciò la pietra miliare, il documento chia- ve carico di buoni auspici per i cattolici nella Cina moderna. Francesco nella conferenza stampa durante il volo di ritorno da Seul, il 18 agosto 2014, aveva ribadito l’attualità di quel documento che è rimasto «fondamentale e attuale per il problema cinese». «Noi rispettiamo il popolo cinese; soltanto, la Chiesa chiede libertà per la sua missione, per il suo lavoro; nessun’altra condizione… non bisogna dimenticare quel documento fondamentale per il problema cinese che è stata la Lettera inviata ai cinesi da papa Benedetto XVI. Quella oggi è attuale». E sottolineava: «Rileggerla fa bene... sempre la Santa Sede è aperta ai contatti: sempre, perché ha una vera stima per il popolo cinese». L’atto compiuto oggi dal Vaticano è perciò l’espressione di una prospettiva già delineata da papa Benedetto nei confronti della vita della Chiesa in Cina. Come ha ribadito più volte anche lo stesso cardinale segretario di Stato, Parolin: «Su questo punto vorrei rifarmi ancora alle parole di Benedetto XVI nella sua lettera ai cattolici cinesi. Egli insegna che la missione propria della Chiesa non è quella di cambiare le strutture o l’amministrazione dello Stato… La Chiesa in Cina non vuole sostituirsi allo Stato, ma desidera offrire un contributo sereno e positivo per il bene di tutti. Pertanto, il messaggio della Santa Sede è un messaggio di buona volontà, con l’augurio di proseguire nel dialogo intrapreso per contribuire alla vita della Chiesa cattolica in Cina, al bene del popolo cinese e alla pace nel mondo». Il segretario di Stato aveva anche chiaramente detto che l’auspicio della Santa Sede era «di vedere, in un futuro non lontano, le comunità in Cina riconciliarsi, accogliersi, donare e ricevere misericordia per un comune annuncio del Vangelo, che sia veramente credibile ». E questa è – ribadiva ancora – la riconciliazione «che sta davvero a cuore anche a papa Francesco: che si superino le tensioni e le divisioni del passato ben sapendo che quella Chiesa conosce figure di eroici testimoni del Vangelo, un fiume di santità spesso nascosta o sconosciuta ai più». Un «cammino di riconciliazione» che, come annota con fiducia oggi Parolin, potrà da adesso essere «un esempio eloquente per il mondo intero».

«Papa Francesco, come già i suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, conosce bene il bagaglio di sofferenze, di incomprensioni, spesso di silenzioso martirio che la comunità cattolica in Cina porta sulle proprie spalle. Ma conosce pure quanto è vivo l’anelito alla piena comunione con il successore di Pietro». In questo passaggio di una conferenza tenuta dal cardinale Pietro Parolin, tenuta a Pordenone il 27 agosto 2016, troviamo un’efficace sintesi dell’impegno tenace degli ultimi Papi sul complesso dossier-Cina che, in forme diverse, è sempre stato una delle principali preoccupazioni della Santa Sede negli scorsi decenni. Eletto nel 1978 (proprio mentre Deng Xiaoping stava inaugurando la “politica dell’apertura”) il Papa polacco, fin dal 19 agosto 1979, promette: «La nostra preghiera s’indirizzerà costante- mente a Dio per il grande popolo cinese». Trentacinque anni dopo, il 13 marzo 2013, Francesco, appena eletto Papa, si rivolge al cardinale John Tong, vescovo di Hong Kong dicendogli: «La Cina è nel mio cuore». In mezzo – tra il Pontefice polacco che ha contribuito ad abbattere il comunismo e il Papa “venuto dalla fine del mondo” – ecco Benedetto XVI, il quale istituì un’apposita commissione di vescovi per studiare il dossier-Cina. Si deve proprio a papa Ratzinger, nel 2007, la coraggiosa “Lettera ai cattolici cinesi”, un articolato documento che in questi anni è stato la bussola di riferimento per la vita della Chiesa in Cina. Al Papa emerito va riconosciuto un altro grande merito: istituendo la Giornata mondiale di preghiera per la Chiesa in Cina (che si celebra ogni anno il 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice), ha portato la preoccupazione dei Papi per la Chiesa cinese all’attenzione della cattolicità intera, invitando in maniera forte a un’autentica e convinta solidarietà spirituale con una Chiesa da decenni nella prova: un appello che, purtroppo, a giudizio di chi scrive, non è stato sin qui adeguatamente raccolto. Se c’è un comune denominatore tra gli Papi, è anzitutto l’immensa stima per il popolo cinese, la sua storia e la sua cultura. «Siamo vicini alla Cina. È un popolo grande al quale voglio bene», dirà papa Francesco nell’intervista al Corriere della sera, dopo un anno esatto di pontificato. Parole che riecheggiano quelle pronunciate da Giovanni Paolo II il 18 febbraio 1981 quando, durante l’incontro con le comunità cattoliche cinesi in Asia, disse: «Il vostro Paese è grande specialmente a motivo della sua storia, per la ricchezza della sua cultura, e per i valori morali che il suo popolo ha coltivato attraverso i secoli». A Giovanni Paolo II, però, toccò digerire un boccone amaro: nel 2000, durante il Giubileo, la canonizzazione dei 120 martiri, fissata per il 1 ottobre, festa di santa Teresa di Lisiex patrona delle missioni, venne considerata un gesto ostile (il 1 ottobre ricorre anche la data ufficiale dell’inizio della Repubblica popolare cinese), al quale seguì una serie di ordinazioni episcopali illecite. L’anno dopo, Wojtyla rispose alle umiliazioni con una coraggiosa richiesta di perdono in un indimenticabile messaggio ai partecipanti al convegno su Matteo Ricci del 24 ottobre 2001. Proprio la figura di Ricci, molto stimato in Cina (anche in ambienti non cattolici), proposta come modello dell’evangelizzazione è un altro elemento comune sui quali i tre Papi citati hanno molto insistito. Con l’obiettivo di far comprendere alle autorità cinesi che non v’è contraddizione tra l’appartenenza alla Chiesa e l’atteggiamento di servizio al bene comune. A padre Ricci Benedetto XVI ha dedicato due mirabili testi. In uno di essi, nel maggio 2009, in occasione delle celebrazioni per il IV centenario della morte del grande gesuita, definì «profetico» l’apostolato di Ricci, volto a «ricercare la possibile armonia fra la nobile e millenaria civiltà cinese e la novità cristiana ». Un apprezzamento che papa Francesco ha ripreso e rilanciato, in numerose occasioni, a partire dalla prima intervista a La Civiltà Cattolica del settembre 2013.

La firma di un accordo tra Santa Sede e governo cinese è ora ufficiale. Si fa ancor fatica a crederci. Troppi motivi sembravano renderlo impossibile: una lunga storia di incomprensioni e accuse reciproche; le sofferenze dei cattolici cinesi in passato e le loro difficoltà attuali; la dura opposizione di grandi potenze e di governi tenaci; le critiche all’interno di tutte e due i campi… Tutto ciò ha impedito per moltissimi anni qualunque intesa: già Paolo VI sperava di stabilire contatti e già nel 1980 ci sono stati i primi rapporti diretti. E sebbene un accordo sia stato perseguito anche da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, è stato Francesco a compiere il passo conclusivo. Ma ora, finalmente, le due parti hanno annunciato ufficialmente di aver raggiunto un’intesa. Si tratta, insieme, di un piccolo passo e di un evento storico. L’accordo, ad experimentum, avrà una durata limitata e potrà subire adattamenti e la sobrietà del comunicato vaticano suona come un invito alla misura e alla prudenza. Chi ha condotto questa lunga trattativa, insomma, non mostra alcun trionfalismo. Ma per i cattolici, cinesi e di tutto il mondo, è una gran buona notizia. Non conosciamo i termini dell’accordo: le due parti hanno stabilito di tenerli riservati. Ma la storia degli ultimi settant’anni parla chiaramente. Il tema delle nomine dei vescovi rimanda infatti al trauma delle prime ordinazioni “illegittime” - e cioè senza il mandato apostolico - di vescovi cattolici in Cina nel 1958. Si aprì una ferita profonda. Nella Chiesa cattolica non ci possono essere vescovi ordinati contro la volontà del papa e il codice di diritto canonico prevede per loro la scomunica. Quando il loro numero cresce ed emerge una chiara volontà di divisione da Roma, inoltre, si parla di scisma. È il caso recente dei lefebvriani o, per richiamare la grande storia, della Chiesa ortodossa o di quelle della Riforma. Ma Roma non è mai arrivata a dichiarare scismatica la Chiesa in Cina. Sono prevalse la convinzione di trovarsi davanti a situazioni storiche eccezionali, la consapevolezza del ruolo svolto da fattori ideologici e politici piuttosto che religiosi ed ecclesiali, la conoscenza delle persone… La ferita è rimasta, anzi si è rinnovata ad ogni nuova ordinazione episcopale illegittima, da ultimo nel 2012. Ma il tempo ha dato ragione a chi si è ispirato a sapienza pastorale e a carità ecclesiale: appena hanno potuto, dopo la fine della rivoluzione culturale, ad uno ad uno i vescovi illegittimi hanno chiesto il perdono del Papa e il ritorno alla comunione cattolica. Tutti, compresi gli ultimi sette che il Papa ha riaccolto in questi giorni nella comunione nella Chiesa universale. E ora, stabilendo modalità condivise per ordinare nuovi vescovi cattolici in Cina, l’accordo mette fine alle ordinazioni illegittime. Per sempre, se sarà rispettato. Ecco perché è davvero una buona notizia. Tutto bene dunque? Certamente no. Sappiamo con certezza che con questo accordo la Santa Sede ha tenuto fermi i principi dottrinali indicati, nella Lettera ai cattolici cinesi del 2007, da Benedetto XVI, rispetto al quale Francesco si è mosso in piena continuità. Non sappiamo ancora, invece, se il metodo adottato funzionerà e se reggerà ad attacchi e difficoltà. Restano inoltre aperte molti altre questioni, anzitutto quella dei vescovi “clandestini”. Seguono le questioni dell’Associazione patriottica, dei confini delle diocesi della Conferenza episcopale. E poi ci sono i tanti problemi quotidiani che i cattolici cinesi si trovano ogni giorno ad affrontare. Già da domani, insomma, bisognerà rimettersi al lavoro e non mancheranno incomprensioni e difficoltà. Ma oggi è diventato possibile sperare, come conclude il comunicato vaticano, che «tale intesa favorisca un fecondo e lungimirante percorso di dialogo istituzionale e contribuisca positivamente alla vita della Chiesa cattolica in Cina, al bene del popolo cinese e alla pace nel mondo».

Nelle discussioni che hanno preceduto questo accordo si è creata una falsa contrapposizione tra chi difenderebbe in modo intransigente la libertà religiosa e chi sarebbe disposto a un compromesso che “svenderebbe” la Chiesa cattolica in Cina. In realtà, l’auspicio che in Cina si realizzi una piena libertà religiosa è condiviso da tutti, in primo luogo da papa Francesco e dal cardinale Parolin. Il vero problema è come promuoverla concretamente. Per gli intransigenti, va fatta una lotta dura e senza cedimenti. Mentre l’art. 36 della Costituzione cinese riconosce ufficialmente la libertà di credo religioso, tale libertà appare in concreto sottoposta a molte limitazioni. Le autorità cinesi, dunque, la proclamerebbero a parole ma la impedirebbero nei fatti e la Cina sarebbe ancora oggi essenzialmente un Paese comunista che vuole eliminare la religione. La denuncia e la contrapposizione sarebbero perciò gli unici atteggiamenti adeguati. Se portata fino alle estreme conseguenze, però, questa posizione trascura la realtà della Chiesa in Cina oggi. Secondo gli intransigenti, in questo Paese non ci sarebbe una vera vita di Chiesa: i “patriottici” possono solo dire e fare quello che impone loro il governo, i “clandestini” non possono né dire né fare niente perché lo impone loro il governo. Tuttavia, gli uni e gli altri vanno a messa, insegnano il catechismo, formano sacerdoti, creano comunità religiose, svolgono opere di carità ecc. Vivono cioè anch’essi ciò che è essenziale per i cattolici in tutto il mondo. Ciò mostra che, a settant’anni dalla rivoluzione del 1949, le religioni non sono scomparse dalla Repubblica popolare cinese. Le condizioni dei credenti, inoltre, sono gradualmente migliorate. In questa luce, la libertà religiosa non appare tanto come qualcosa che c’è o non c’è, ma piuttosto come una condizione che può essere presente in molti gradi diversi. Per promuoverla non basta affermarla astrattamente: bisogna anche ampliarla concretamente. Se funzionerà, l’accordo aumenterà certamente il “grado” di libertà religiosa dei cattolici. Non solo: metterà indirettamente in moto dinamiche di cui beneficeranno protestanti, buddisti, musulmani ecc. Insomma, non ci sarà una piena libertà religiosa in Cina, ma di certo ce ne sarà più di prima.

La notizia della “pace” tra Repubblica popolare cinese e la Santa Sede sulla nomina dei vescovi arriva proprio mentre molti rilevano una stretta sulle religioni in Cina. Giungono infatti molte notizie sull’applicazione di nuovi regolamenti che impongono ai luoghi religiosi e alle comunità che li frequentano una serie di rigorose disposizioni. Sembra - almeno all’apparenza - una vistosa contraddizione. In Cina, da almeno due anni, la nuova parola d’ordine della politica religiosa è “sinizzazione”. Dalla Conferenza nazionale sul lavoro religioso dell’aprile 2016, Xi Jinping sta dettando questa linea, con una forte richiesta alle religioni di adattarsi alla situazione politica guidata dal Partito comunista, di rispettare le leggi, di inserirsi nella società socialista, di partecipare alla realizzazione del “sogno cinese”. Circa un mese fa, inoltre, è entrato in vigore un nuovo regolamento interno al Partito comunista cinese che irrigidisce notevolmente il divieto per i suoi membri di professare una fede religiosa, abbandonando una precedente tolleranza. Come in altri campi, insomma, anche in questo, la Cina di Xi Jinping sta sviluppando una sistematica opera di riorganizzazione interna. Molti credenti ne fanno esperienza anzitutto attraverso i nuovi divieti e le nuove proibizioni che li colpiscono direttamente. Ma se ci si limita ai singoli effetti “in periferia' non si comprende il disegno perseguito “al centro”. E se nell’immediato riorganizzare e disciplinare significa anzitutto proibire, nel lungo periodo potrebbe voler dire anche contrastare arbitrii e corruzione. Parallelamente a questo rafforzamento della leadership comunista su tutto il paese, il governo di Pechino firma oggi un accordo con la Santa Sede che, secondo alcuni, implicherebbe addirittura una limitazione della sua sovranità. Ma dove un occidentale vedrebbe una contraddizione, i cinesi vedono invece complementarietà. Il pensiero orientale, rifuggendo dall’astrattezza dei principi, persegue quello che noi chiamiamo pragmatismo ma che in realtà è qualcosa di più profondo. La dirigenza politica cinese, infatti, non considera questa firma in contrasto con la “sinizzazione politica” delle religioni perché, in entrambi i casi, l’obiettivo è anzitutto quello della stabilità sociale, in Cina valore irrinunciabile. Si vuole evitare che siano nominati nuovi vescovi clandestini, con tutte le conseguenze del caso: divisioni interne alla società cinese e potenziali opposizioni al regime da parte dei “clandestini”. Con l’accordo, si supereranno anche le tensioni legate alle ordinazioni di vescovi illegittimi, cioè quelli riconosciuti solo da Pechino, perché anche queste creano dissenso nelle comunità cattoliche. Mentre affrontano, inoltre, il crescente problema della presenza in Cina di nuove Chiese cristiane e di nuove religioni, più sfuggenti al controllo governativo, le autorità considerano particolarmente opportuna la “pacificazione” delle comunità cattoliche sparse in tutto il Paese.

La ricerca di maggiore stabilità interna è strettamente legata ad una più forte proiezione internazionale. Sono questi i due pilastri principali del «pensiero di Xi Jinping del socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era», presentato nel 2017 al XIX Congresso del PCC. Il presidente cinese parla infatti di una nuova fase nella storia della Repubblica popolare cinese, dopo quella iniziale di Mao Zedong e quella delle riforme economiche di Deng Xiaoping. E ha stupito il mondo presentandosi a Davos come il campione della globalizzazione, mentre tanti Paesi occidentali stanno scivolando nel protezionismo e nell’autoreferenzialità. Anche l’apertura verso la Santa Sede – un soggetto internazionale per tanti aspetti lontanissimo all’universo dei leader comunisti cinesi – conferma il perseguimento di una politica estera di grande respiro. Papa Francesco ha avuto la capacità di capirlo, esortando un anno fa l’Occidente ad abbandonare una mentalità da guerra fredda e accogliere il desiderio cinese di assumersi maggiori responsabilità internazionali. Non è stato ascoltato e nei paesi occidentali continua a prevalere la rappresentazione di una Cina ambigua e concentrata solo sui propri interessi: così ad esempio viene spesso interpretato il gigantesco progetto di integrazione economica “Belt and Road Initiative” (o “Nuova via della seta”). L’apertura di papa Francesco, però, ha accresciuto la curiosità dei dirigenti di questo grande paese con un miliardo e trecento milioni di abitanti per questa grande comunità religiosa con un miliardo e duecento milioni di fedeli. E ora l’accordo tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese si inserisce in un vuoto lasciato da altri.

C’è anche un “ponte” che ha fondamenta italiane tra la Cina continentale e Taiwan e che dal 1990 non solo ha rilanciato l’antica esperienza missionaria dei saveriani nella regione, ma che – ponendosi al servizio del dialogo e della cultura – ha dato un contributo a rapporti positivi a livello ecclesiale tra le due sponde dello stretto di Formosa. All’interno di un contesto locale che non ha chiuso le porte ma che anzi da anni rende possibile la preparazione di gruppi consistenti di sacerdoti provenienti dalla Repubblica popolare cinese sulla base di accordi intergovernativi.

Presenti nell’ex Impero celeste dal 1899, costretti tra il 1951 e il 1954 a abbandonare la Cina dopo la presa di potere dei comunisti guidati da Mao Zedong, i saveriani si sono diretti, tra l’altro, in Paesi limitrofi: Giappone e Filippine da subito e, dopo anni necessari per individuare senso e i modi di una presenza, a Taiwan. In un clima diventato più favorevole, non solo per avviare (riavviare in realtà, dopo un’esperienza di breve durata dal 1968) la missione taiwanese, ma anzitutto per usufruire del clima più disteso che sembrava potere anticipare un ritorno nella “nuova” Cina. Con un percorso inverso alla diaspora missionaria di pochi decenni prima, insomma, Taiwan sembrava diventare una base da cui proiettarsi verso il continente.

I sette missionari arrivati il 7 settembre 1990 avrebbero dovuto imparare dal passato, proporsi con un atteggiamento di servizio, usufruire di una maggiore preparazione culturale e pratica. Nei fatti la missione si è evoluta su linee parzialmente diverse e l’impegno per la Cina è stato anzitutto indirizzato a incentivare una cooperazione tra comunità cattoliche che - forse sorprendentemente – non hanno mai smesso di collaborare. Oggi, ricorda il missionario saveriano padre Luigino Marchioron, «le attività della nostra comunità comprendono la catechesi, una responsabilità parrocchiale formalizzata nel 1994 con un accordo con la diocesi di Taipei, ma anche il dialogo ecumenico che pure in questo caso coinvolge i saveriani su richiesta dalla Chiesa locale». Una cooperazione bene accolta ma anche necessaria, in una realtà dove il personale religioso internazionale integra il ridotto clero locale nell’assistere 300mila cattolici su 24 milioni di abitanti complessivi. Infine, ma non ultimo, l’impegno saveriano risente dell’interazione tra la Chiesa locale e quella continentale. «Recentemente questa presenza è diventata più concreta, dato che al Teologato arrivano studenti dalla Cina popolare (abitualmente per un triennio), che vengono così a contatto con l’esperienza teologica e pastorale della Chiesa taiwanese, favorendo una condivisione. Gli studenti ospiti, infatti, anche se in misura limitata, possono cooperare con le diocesi locali». E aggiunge: «Noi saveriani siamo coinvolti in questo servizio che è duplice: impegno nella Chiesa locale, ma anche, per quanto possibile, nelle attività che favoriscono la Chiesa nella Cina continentale. Per questo vogliamo renderci strumenti concreti che aiutino a superare alcuni ostacoli politici e culturali. Come Teologato – prosegue il missionario – non forniamo solo servizi ma incentiviamo questo scambio, la cooperazione che connetta maggiormente due realtà che sono sempre state più vicine di quanto si pensi. Nei fatti, la Chiesa locale taiwanese non si è mai considerata separata da quella della madrepatria cinese, sia per la comune origine, sia per un’evoluzione che non ha mai perso di vista lo spirito di collegialità».

CORRIERE DELLA SERA di domenica 23 settembre 2018 Pag 10 Una firma per i vescovi, storico accordo tra Vaticano e Cina di Gian Guido Vecchi Il patto atteso da vent’anni: al Papa il potere di nomina. Pechino si riserva il diritto di “controllo” dei nomi

Vilnius. L’annuncio dell’accordo fra Cina e Vaticano sulla nomina dei vescovi arriva quando il Papa è già arrivato in Lituania, un viaggio nei Paesi baltici alla periferia dell’Europa con lo sguardo rivolto a Mosca. Il rapporto tra realtà millenarie ha i suoi tempi. Sono passati più di quattro secoli da quando padre Matteo Ricci, nel 1584, conquistò la fiducia del «Regno di Mezzo» disegnando un mappamondo che aveva al centro la Cina e non l’Europa. Francesco aveva citato a modello la finezza del confratello che permise all’«amato popolo cinese» di vedere «il luogo dove viveva il Papa». E ora, per una simmetria della storia, il passo diplomatico forse più importante da allora viene compiuto dal primo pontefice gesuita. Bergoglio ha seguito le trattative passo dopo passo, anni di incontri tra delegazioni a Pechino e Roma: l’ultimo si è concluso ieri mattina nella capitale cinese con le firme dei due viceministri degli Esteri, monsignor Antoine Camilleri e Wang Chao. L’accordo atteso da due decenni è definito «provvisorio», nel senso che le parti si riservano «valutazioni periodiche» ed eventuali correzioni. Il testo è segreto, ma il senso è chiaro. L’essenziale, per la Santa Sede, era arrivare ad un’unica Chiesa cattolica in Cina, a dispetto delle resistenze interne ed esterne. Lo stesso Papa invita a «superare le incomprensioni del passato anche recente tra fratelli» e il Segretario di Stato, Pietro Parolin, riassume: «Per la prima volta dopo tanti decenni, oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il Vescovo di Roma». Il problema da risolvere non era tanto la questione dei sette vescovi «patriottici» scomunicati dal Papa perché scelti dal regime. Avevano già chiesto perdono e ieri il Vaticano ha comunicato ufficialmente che «il Santo Padre ha deciso di riammetterli nella piena comunione»: è stata tolta la scomunica anche a un ottavo vescovo, il francescano Antonio Tu Shihua, che è scomparso il 4 gennaio 2017 ma «prima di morire aveva espresso il desiderio di essere riconciliato». Anche i confini tra chiesa «ufficiale» e chiesa «clandestina» sono sfumati da anni nella realtà quotidiana dei fedeli. La cosa più difficile, piuttosto, era trovare un compromesso sulla scelta dei pastori: da una parte la Cina riconosce di fatto il Papa come capo della Chiesa cattolica, con relativo potere di nominare i vescovi e avere l’ultima parola; dall’altra Pechino mantiene una facoltà di controllo sui nomi. Già nel 2010 il Global Times, legato al Partito comunista, prefigurava un meccanismo intorno al quale si è lavorato: selezione dei candidati nelle diocesi, via libera del governo di Pechino e valutazione finale con diritto di veto del Papa; se i nomi non andassero bene, ricomincerebbero le consultazioni. L’intesa è «pastorale e religiosa». Il Papa ha istituito una nuova diocesi cinese, Chengde, suffraganea di Pechino, la prima da 70 anni. Non si trattava ancora di ricomporre le relazioni diplomatiche formali, interrotte nel 1951. Però la Santa Sede spiega che l’accordo «crea le condizioni per una più ampia collaborazione a livello bilaterale» e parla di un «auspicio condiviso» perché «favorisca un fecondo e lungimirante percorso di dialogo istituzionale». La firma di ieri, fa notare il cardinale Parolin, è di «grande importanza» anche per «il consolidamento di un orizzonte internazionale di pace» mentre «stiamo sperimentando tante tensioni a livello mondiale». Da Vilnius il Papa ha esortato l’Europa ad «ospitare le differenze» annientate nel Novecento dai totalitarismi nazista e sovietico, mettendo in guardia da chi oggi cerca di imporre un «modello unico» che vuole «annullare il diverso». L’unica strada resta il dialogo, il compromesso con Pechino è tutto in una frase di Parolin: «C’è bisogno di avere pastori buoni, che siano riconosciuti dal Successore di Pietro e dalle legittime autorità civili del loro Paese».

IL GAZZETTINO di domenica 23 settembre 2018 Pag 11 Nomina dei vescovi, storico accordo tra Vaticano e Cina di Franca Giansoldati Primo passo di riavvicinamento pastorale, non politico: relazioni diplomatiche ancora interrotte

Vilnius. Dalla periferia del Nord Europa, in un territorio altamente militarizzato e segnato da un sotterraneo braccio di ferro con Putin che risveglia fantasmi mai fugati nel popolo lituano, Papa Bergoglio ha continuato a controllare a distanza gli ultimi passaggi dello storico accordo che stava per essere firmato a Pechino dai suoi emissari. Il Vaticano e la Cina, dopo decenni di travagliati approcci diplomatici, sono arrivati a un'intesa sulla nomina dei vescovi. La via dell'appeacement ha aperto una piccola fessura nella Grande Muraglia. Il cardinale Pietro Parolin, da Vilnius, ha voluto rafforzare la collaborazione lanciando messaggi rassicuranti al Politburo del Partito Comunista, pur avvertendo che il traguardo raggiunto non avrebbe alcun valore politico, ma è solo di natura pastorale. Di fatto, però, quel messaggio va a sanare la ferita aperta tra la Chiesa riconosciuta dal partito e la Chiesa sotterranea fedele a Roma. Parolin ha tranquillizzato a distanza l'interlocutore cinese, rassicurandolo sul fatto che il Papa non si intrometterà negli affari interni, e non andrà a scontrarsi con gli indirizzi di governo delle autorità civili. Una garanzia necessaria, dato che i vertici della Repubblica popolare si sono sempre dimostrati piuttosto diffidenti nei confronti del Vaticano, e infastiditi dalla capacità penetrativa della religione cattolica. MATTEO RICCI - Sono trascorsi oltre quattro secoli da quando Matteo Ricci conquistava la stima dei cinesi disegnando un mappamondo che, nel 1584, metteva al centro la Cina e non l'Europa. E proprio quel mappamondo aiutò i cinesi a intravedere terre lontane e ignote, compreso il regno nel quale viveva il Papa. I rapporti diplomatici con il Vaticano si spezzarono drammaticamente nel 1951, due anni dopo la rivoluzione di Mao. L'ultimo diplomatico, Antonio Riberi, dovette riparare prima ad Hong Kong e più tardi a Taiwan. Naturalmente l'accordo annunciato dalle due delegazioni, quella cinese e quella vaticana, nonostante preveda la regolarizzazione delle nomine episcopali illecite (ne rimanevano ancora otto da sanare) non stabilirà affatto il ripristino delle relazioni diplomatiche. Per quelle c'è tempo. Prima di tutto il Papa dovrà superare i maldipancia interni alla Chiesa. Non tutti, infatti, sono a favore. I vescovi di Taiwan, per esempio, temono che la Santa Sede possa sacrificare le relazioni con l'isola (cosa che però non dovrebbe accadere ). Contrari all'accordo sono anche i cattolici di Hong Kong, che si sono espressi tramite il cardinale Zen. A suo parere, Papa Bergoglio avrebbe svenduto la Chiesa ai cinesi e avrebbe aperto la porta ad ulteriori pericoli, perché il controllo del partito comunista preluderebbe una stretta ulteriore alle già poche libertà religiose. A supportare le posizioni di Zen c'è pure una ampia fetta di cattolici americani ultraconservatori che hanno sempre sostenuto economicamente la Chiesa clandestina cinese, e ora nutrono gli stessi timori. Di fatto la breccia nella Grande Muraglia produrrà visibili risultati solo nel medio periodo, e non ora. Papa Francesco, ricevute tutte le informazioni dai suoi collaboratori, una volta arrivato nella capitale lituana, si è calato totalmente nell'atmosfera di festa e ha affidato ai cattolici un messaggio applicabile in altre parti d'Europa. Si tratta di un messaggio di denuncia contro il razzismo, un brutto virus che si sta diffondendo velocemente. Era percepibile l'allarme suscitato in lui da chi semina divisioni strumentalizzando insicurezza e conflitti e da chi sostiene che l'unico modo per garantire la sicurezza e la sussistenza di una cultura consista nel cercare di eliminare, cancellare o espellere tutte le altre voci. UNA STORIA SOFFERTA - Il viaggio nei Paesi Baltici prima tappa in programma la Lituania, seguita da Estonia e Lettonia nei giorni successivi - si intreccia alla memoria collettiva e alla storia dei cento anni dell'indipendenza delle tre repubbliche del Nord. Una storia sofferta e coraggiosa. Prima i nazisti e lo sterminio degli ebrei, poi i russi, fino al 1993. Papa Wojtyla quell'anno volle festeggiare la libertà riconquistata visitando Vilnius dopo la ritirata dei soldati russi. Ora Papa Bergoglio punta sui giovani. A loro spetterà tutelare l'eredità ricevuta

LA NUOVA di domenica 23 settembre 2018 Pag 8 Bergoglio butta giù un muro, è quello tra Vaticano e Cina di Mariaelena Finessi e Orazio La Rocca Storico accordo dopo una lunga trattativa. Dal Vangelo le risposte del pontefice ai detrattori

Roma. Mentre il Papa atterrava a Vilnius, prima tappa del viaggio apostolico nei Paesi Baltici, il Vaticano e il governo di Pechino diffondevano ieri, in contemporanea, un comunicato stampa per annunciare una firma storica: quella di un «accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi». «Frutto di un graduale e reciproco avvicinamento», spiega la nota congiunta, l'accordo «viene stipulato dopo un lungo percorso di ponderata trattativa». Questo (e nulla di più) è quanto offre il comunicato sull'intesa che è stata sottoscritta, per la santa Sede, dal sottosegretario per i rapporti con gli Stati monsignor Antoine Camilleri e, per la Cina, dal viceministro degli esteri Wang Chao. Sarebbe invece interessante conoscerne il contenuto, che resta però un segreto. Uniche cose che si sanno è che esso «prevede valutazioni periodiche circa la sua attuazione», che «tratta della nomina dei Vescovi» e che «crea le condizioni per una più ampia collaborazione a livello bilaterale».Tutto ha inizio con l'avvento della Repubblica Popolare e più concretamente con la nascita nel 1957 dell'Associazione patriottica cattolica, espressione del controllo governativo sui cattolici. Fino a ieri i vescovi venivano nominati dalle autorità civili, dunque fuori da ogni prescrizione del diritto canonico. Da oggi sarà ancora così, con l'unica previsione di un diritto di veto che il Papa potrà esercitare qualora i candidati non siano di suo gradimento. È il prezzo che la Chiesa paga per la sua presenza in Cina, e che può leggersi anche nello scioglimento, ieri stesso, della scomunica comminata a sette vescovi illeciti, insediati cioè dal regime e mai riconosciuti dalla Santa Sede. Anzi, Francesco ha fatto di più (sebbene, la sua, non appaia proprio una "libera" scelta): ha esonerato dalla scomunica anche un ottavo vescovo «deceduto il 4 gennaio 2017, che prima di morire aveva espresso il desiderio di essere riconciliato con la sede apostolica». Ci sarebbero due obiezioni da avanzare: la prima è che tra questi presuli, a cui il Papa ha spalancato le braccia, ve ne sono tre pubblicamente scomunicati e un paio che hanno anche figli ed amanti. La seconda è che la conferenza episcopale cinese, a cui spetterebbe l'indicazione dei candidati, è attualmente costituita soltanto dei vescovi ufficialmente riconosciuti da Pechino, da cui sono quindi esclusi i vescovi "clandestini" (circa una trentina) che invece sono riconosciuti soltanto dalla Chiesa. Tante concessioni che oltrepassano la dottrina e la legge, difficili da spiegare a un normale fedele, ma che per Bergoglio hanno una ragione: che cioè «si possa avviare un nuovo percorso, che consenta di superare le ferite del passato realizzando la piena comunione di tutti i cattolici cinesi». E «nel desiderio di promuovere la cura pastorale» dei fedeli, il Papa ha anche deciso di costituire la nuova diocesi di Chengde, suffraganea di Pechino, con sede episcopale nella chiesa cattedrale di Gesù Buon Pastore, affidandola a monsignor Guo Jincai. Ci si chiede, ed è lecito, se in questo baratto tra Santa Sede e Pechino troveranno mai giustizia i tantissimi vescovi di nomina pontificia (un'ottantina quelli di cui si conoscono le biografie), perseguitati, imprigionati ed uccisi per mano governativa. «L'obiettivo dell'accordo - così il direttore della Sala stampa vaticana, Greg Burke - non è politico ma pastorale».

Papa Francesco "risponde" - ma a modo suo - al suo accusatore, l'arcivescovo Carlo Maria Viganò, che gli ha chiesto di dimettersi per omesso controllo della pedofilia nel clero. E lo fa attingendo a piene mani alla lezione del Vangelo, là dove "Gesù di fronte ai suoi accusatori si chiude nel silenzio, prega il Padre, osserva umiltà e vicinanza alla gente comune". Risposta, dunque, tutta evangelica, con la quale Bergoglio spera di arginare l'onda d'urto dei suoi nemici, specialmente quelli interni alla Chiesa, come i Viganò, ma anche i cardinali dei Dubia (Dubbi) contrari alle sue riforme sulla pastorale della famiglia. E l'americano Raymond Leo Burke, con l'aiuto del discusso Steve Bannon, punta a formare schiere di giovani cattolici ultraconservatori nel nuovo centro studi che nascerà nella storica abbazia di Trisulti (Frosinone) a cura dell'Istituto Dignitas Humanae, con l'appoggio di magnati cattolici americani ostili al papa. Vera e propria dichiarazione di guerra, alla quale Francesco risponde, in una recente omelia a Santa Marta, indicando l'esempio di Cristo davanti ai suoi accusatori. Quando le cose andavano male, come sul Calvario, "Gesù stava zitto e pregava... non sgridava" spiega il pontefice. I dottori della Legge (i principali accusatori di Gesù, del tutto simili agli attuali accusatori di Bergoglio), invece, "insegnavano dalla cattedra e si allontanavano dalla gente". Quasi impossibile non vedere in queste parole una chiara risposta di Francesco a chi oggi, anche nella Chiesa, cerca di crocifiggerlo. Ma col Vangelo in mano.

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 22 settembre 2018 Scelti dal basso Messa a Santa Marta

Con la sua misericordia Gesù sceglie gli apostoli anche «dal peggio», tra i peccatori e i corrotti. Ma sta a loro conservare «la memoria di questa misericordia», ricordando «da dove si è stati scelti», senza montarsi la testa o pensare a far carriera come funzionari, sistematori di piani pastorali e affaristi. È la testimonianza concreta della conversione di Matteo che Papa Francesco ha riproposto celebrando la messa a Santa Marta venerdì 21 settembre, nel giorno della festa dell’apostolo ed evangelista. «Nell’orazione colletta abbiamo pregato il Signore e abbiamo detto che nel suo disegno di misericordia ha scelto Matteo, il pubblicano, per costituirlo apostolo» ha subito ricordato il Pontefice, che ha indicato come chiave di lettura «tre parole: disegno di misericordia, scelto-scegliere, costituire». «Mentre andava via - ha spiegato Francesco riferendosi proprio al passo evangelico di Matteo (9, 9-13) - Gesù vide un uomo chiamato Matteo seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Era un pubblicano, cioè un corrotto, perché per i soldi tradiva la patria. Un traditore del suo popolo: il peggio». In realtà, ha fatto presente il Papa, qualcuno potrebbe obiettare che «Gesù non ha buon senso per scegliere la gente»: «perché ha scelto fra tanti altri» questa persona «dal peggio, proprio dal niente, dal posto più disprezzato»? Del resto, ha spiegato il Pontefice, nello stesso modo il Signore «ha scelto la samaritana per andare ad annunciare che lui era il messia: una donna scartata dal popolo perché non era proprio una santa; e ha scelto tanti altri peccatori e li ha costituiti apostoli». E poi, ha aggiunto, «nella vita della Chiesa, tanti cristiani, tanti santi che sono stati scelti dal più basso». Francesco ha ricordato che «questa coscienza che noi cristiani dovremmo avere - da dove sono stato scelto, da dove sono stata scelta per essere cristiano - deve permanere per tutta la vita, rimanere lì e avere la memoria dei nostri peccati, la memoria che il Signore ha avuto misericordia dei miei peccati e mi ha scelto per essere cristiano, per essere apostolo». Dunque «il Signore sceglie». L’orazione colletta è chiara: «Signore, che hai scelto il pubblicano Matteo e lo hai costituito apostolo»: cioè, ha insistito, «dal peggio al posto più alto». In risposta a questa chiamata, ha fatto notare il Papa, «cosa ha fatto Matteo? Si vestì di lusso? Incominciò a dire “io sono il principe degli apostoli, con voi”, con gli apostoli? Qui comando io? No! Ha lavorato tutta la vita per il Vangelo, con quanta pazienza ha scritto il Vangelo in aramaico». Matteo, ha spiegato il Pontefice, «ha sempre avuto in mente da dove era stato scelto: dal più basso». Il fatto è, ha rilanciato il Papa, che «quando l’apostolo dimentica le sue origini e incomincia a fare carriera, si allontana dal Signore e diventa un funzionario; che fa tanto bene, forse, ma non è apostolo». E così «sarà incapace di trasmettere Gesù; sarà un sistematore di piani pastorali, di tante cose; ma alla fine, un affarista, un affarista del regno di Dio, perché ha dimenticato da dove era stato scelto». Per questo, ha affermato Francesco, è importante avere «la memoria, sempre, delle nostre origini, del posto nel quale il Signore mi ha guardato; quel fascino dello sguardo del Signore che mi ha chiamato a essere cristiano, a essere apostolo. Questa memoria deve accompagnare la vita dell’apostolo e di ogni cristiano». «Noi infatti siamo abituati sempre a guardare i peccati altrui: guarda questo, guarda quello, guarda quell’altro», ha proseguito il Papa. Invece «Gesù ci ha detto: “per favore, non guardare la pagliuzza negli occhi altrui; guarda cosa hai tu nel tuo cuore”». Ma, ha insistito il Pontefice, «è più divertente sparlare degli altri: è una cosa bellissima, sembra». Tanto che «sparlare degli altri» appare un po’ «come le caramelle al miele, che sono buonissime: tu prendi una, è buona; prendi due, è buona; tre... prendi mezzo chilo e ti fa male lo stomaco e stai male». Invece, ha suggerito Francesco, «parla male di te stesso, accusa te stesso, ricordando i tuoi peccati, ricordando da dove il Signore ti ha scelto. Sei stato scelto, sei stata scelta. Ti ha preso per mano e ti ha portato qui. Quando il Signore ti ha scelto non ha fatto le cosa a metà: ti sceglie per qualcosa di grande, sempre». «Essere cristiano - ha affermato - è una cosa grande, bella. Siamo noi ad allontanarci e a voler rimanere a metà cammino, perché quello è molto difficile; e a negoziare con il Signore» dicendo: «Signore, no, soltanto fino a qui». Ma «il Signore è paziente, il Signore sa tollerare le cose: è paziente, ci aspetta. Ma a noi manca generosità: a lui no. Lui sempre ti prende dal più basso al più alto. Così ha fatto con Matteo e ha fatto con tutti noi e continuerà a fare». In riferimento all’apostolo, il Pontefice ha spiegato come lui abbia «sentito qualcosa di forte, tanto forte, al punto di lasciare sul tavolo l’amore della sua vita: i soldi». Matteo «lasciò la corruzione del suo cuore, per seguire Gesù. Lo sguardo di Gesù, forte: “Seguimi!”. E lui lasciò», nonostante fosse «così attaccato» ai soldi. «E sicuramente - non c’era telefono, a quel tempo - avrà inviato qualcuno a dire ai suoi amici, a quelli della cricca, del gruppo dei pubblicani: “venite a pranzo con me, perché farò festa per il maestro”». Dunque, come racconta il brano del Vangelo, «erano a tavola tutti, questi: il peggio del peggio della società di quel tempo. E Gesù con loro. Gesù non è andato a pranzo con i giusti, con quelli che si sentivano giusti, con i dottori della legge, in quel momento. Una volta, due volte è andato anche con quest’ultimi, ma in quel momento è andato con loro, con quel sindacato di pubblicani». Ed ecco che, ha proseguito Francesco, «i dottori della legge si sono scandalizzati. Chiamarono i discepoli e dissero: “come mai il tuo maestro fa questo, con questa gente? Diventa impuro!”: mangiare con un impuro ti contagia, non sei più puro». Udito questo, è Gesù stesso che «dice questa terza parola: “Andate a imparare cosa vuol dire: ‘misericordia io voglio e non sacrifici’”». Perché «la misericordia di Dio cerca tutti, perdona tutti. Soltanto, ti chiede di dire: “Sì, aiutami”. Soltanto quello». «Quando gli apostoli andavano tra i peccatori, pensiamo a Paolo, nella comunità di Corinto, alcuni si scandalizzavano» ha spiegato il Papa. Essi dicevano: «Ma perché va da quella gente che è gente pagana, è gente peccatrice, perché ci va?». La risposta di Gesù è chiara: «Perché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: “Misericordia voglio e non sacrifici”». «Matteo scelto! Sceglie sempre Gesù» ha rilanciato il Pontefice. Il Signore sceglie «tramite persone, tramite situazioni o direttamente». Matteo è «costituito apostolo: chi costituisce nella Chiesa e dà la missione è Gesù. L’apostolo Matteo e tanti altri ricordavano le loro origini: peccatori, corrotti. E questo perché? Per la misericordia. Per il disegno di misericordia». Francesco ha riconosciuto che «capire la misericordia del Signore è un mistero; ma il mistero più grande, più bello, è il cuore di Dio. Se tu vuoi arrivare proprio al cuore di Dio, prendi la strada della misericordia e lasciati trattare con misericordia». È esattamente la storia di «Matteo, scelto dal banco del cambiavalute dove si pagavano le tasse. Scelto dal basso. Costituito nel posto più alto. Perché? Per misericordia». In questa prospettiva, ha concluso il Papa, «impariamo noi cosa vuol dire “misericordia voglio, e non sacrifici”».

AVVENIRE di sabato 22 settembre 2018 Pag 2 E’ compiuta passo dopo passo e nel segno del Concilio la “rifondazione” del Sinodo di Salvatore Mazza

Non c’è alcun dubbio che, come sottolineato il giorno della presentazione dal cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei Vescovi, la Costituzione apostolica Episcopalis communio di papa Francesco segna «una vera e propria “rifondazione” dell’organismo sinodale». Non, insomma, una semplice “correzione di rotta” a poco più di cinquant’anni dalla sua istituzione, ma piuttosto una profonda ridefinizione del senso e del carattere per sempre più esaltare la caratteristica fondativa della Chiesa, che è la missionarietà. Per il porporato, infatti, «il fattore di maggiore novità della nuova Costituzione apostolica... è l’inquadramento stabile del Sinodo entro la cornice di una Chiesa costitutivamente sinodale», in quanto il documento «non si limita a richiamare la dottrina sulla collegialità episcopale, ma va oltre illustrando il ministero dei Vescovi come servizio al Popolo di Dio nella pluralità di ministeri e carismi». Il che implicherà, tra l’altro, oltre al maggior “peso” – anche magisteriale – assegnato all’assemblea, una più sistematica consultazione e un più stretto coinvolgimento del popolo di Dio in ogni fase sinodale, dalla preparazione in avanti. Detto questo, tuttavia, non si può non rilevare che la Costituzione apostolica di papa Francesco rappresenta in qualche modo il punto di arrivo di un dinamismo che ha caratterizzato negli ultimi decenni il cammino dei Sinodi. Se infatti, confrontando il testo del documento varato l’altro giorno con quello istitutivo del 1965 firmato da Paolo VI, la distanza tra i due può a prima vista apparire abissale, questa impressione si attenua se, appunto, si ricorda come a poco a poco, un passo dopo l’altro (a volte piccoli, a volte un po’ più grandi) il Sinodo si sia andato trasformando nel corso degli anni. Con le prime “aperture” volute da Giovanni Paolo II, che hanno visto per esempio progressivamente aumentare sia il numero dei laici presenti alle diverse assemblee sinodali e il loro ruolo all’interno di esse, sia le rappresentanze ecumeniche, sia le presenze femminili, tanto laiche che religiose. O anche, per fare solo un altro esempio, con la decisione di Benedetto XVI di disporre la pubblicazione integrale delle proposte finali di ogni Sinodo (che prima invece erano consegnate “sotto segreto” al Papa perché le potesse utilizzare a sua discrezione nella esortazione apostolica conclusiva dei lavori assembleari), che mentre toglieva terreno di coltura a ogni tipo di speculazione fondata su indiscrezioni – vere o presunte che fossero – circa quelle stesse proposte, attribuiva una dignità propria e compiuta al lavoro svolto dai Padri sinodali, esaltando in questo modo il valore della collegialità che il Concilio, attraverso l’istituzione del Sinodo, aveva voluto porre in primo piano. Passi, si diceva, che poco a poco hanno contribuito a far evolvere, assemblea dopo assemblea, l’impostazione originaria che, inevitabilmente, non poteva non rispecchiare la struttura piramidale di una Chiesa che per mille anni aveva consolidato il clericalismo a scapito del concetto stesso di «popolo di Dio». Ora, con la nuova Costituzione Apostolica di papa Francesco questo cammino di rinnovamento può dirsi concluso. Ed è per questo alla fine che il segretario generale del Sinodo ha parlato di «“rifondazione” dell’organismo sinodale, non una distruzione del passato, assolutamente». Sempre, e solamente, nel segno del Concilio.

Pag 20 Ma lo spazio sacro nasce per gli uomini di Alessandro Beltrami Il Cortile dei Gentili ha affrontato ieri il tema del legame tra fede e architettura

Per Goethe l’architettura era “musica congelata”, una questione di proporzioni distribuite secondo una relazione di spazio e tempo. Per il cardinale Gianfranco Ravasi a unire architettura e musica sono le «geometrie dello Spirito». È questo il titolo dell’evento organizzato ieri a Venezia dal Cortile dei Gentili nell’ambito della Biennale Architettura. Tra gli scopi anche quello di festeggiare la prima partecipazione della Santa Sede alla manifestazione con il padiglione “Vatican Chapels”, tra i più visitati dell’intera mostra. Un incontro articolato in due parti, prima con un dialogo all’Arsenale (moderato da Concita De Gregorio) sul ruolo dell’architettura nella città di oggi sotto il profilo spirituale, tra Stefano Boeri, Mario Botta e l’austriaco Matthias Sauerbruch, e quindi un concerto nella basilica di San Giorgio Maggiore con Fabrizio von Arx e il suo Stradivari “Madrileno”, ribattezzato «violino della pace». Questo per Ravasi «vuole essere un nuovo incontro fecondo tra architettura e fede ma anche porre le basi per un dialogo più ampio tra le arti, culture e discipline. In un’epoca di profonde crisi ideologiche e culturali, le 'geometrie dello Spirito' devono farsi oggi atti sociali, incontro e riscoperta di una comune identità tra le diverse civiltà». Eppure, come ha suggerito ieri il presidente del Pontificio consiglio della Cultura, l’incontro è difficile se lo spazio non lo consente o lo impedisce: «In antico tra il cortile degli israeliti e il cortile dei gentili c’era un muro, per impedire che i secondi entrassero nello spazio sacro dei secondi. Paolo spiega ai cristiani di Efeso che Gesù è venuto ad abbattere quel muro per fare un popolo unico». Ravasi cerca la radice biblica dell’architettura: «Nei Proverbi la sapienza di Dio è definita con la parola amon, termine che vuol dire 'architetto' ma anche 'fanciulla che danza': ossia l’aspetto tecnico e quello estetico della creazione. Per Eliade quando l’umanità ha iniziato a percepire lo spazio ha cercato un centro: e lo ha posto nel tempio. Costruire una chiesa significa allora dare un senso al quadrato del mondo, all’orizzonte della creazione. Nella Bibbia l’architetto della tenda nel deserto è detto 'ispirato da Dio', e che costruisce una 'tenda dell’incontro': la geometria sacra è il luogo dell’incontro orizzontale dei fedeli tra loro in uno spazio mistico in cui la luce parla e i simboli trascendenti. Ed è poi il luogo dell’incontro verticale con Dio. Queste due coordinate sono necessarie per impedire che un tempio sia semplicemente una sala per congressi e un luogo anonimo, e per fare invece che sia un luogo dove si incontrano tempo e eterno, assoluto e relativo». Architettura e sacro sono inscindibili. Come suggerisce Mario Botta, «nella mia esperienza ho trovato un grande interesse nelle chiese perché vi ho trovato le ragioni più profonde del mio mestiere: gravità, luce, limite. L’architettura stessa porta den- tro di sé l’idea del sacro, perché il primo atto di fare architettura è tracciare un perimetro, separare uno spazio dal macrocosmo ». Per Botta, che il prossimo 17 novembre riceverà il premio Ratzinger (un suggerimento arrivato – ha rivelato il cardinale Ravasi – direttamente da Benedetto XVI), «le vere ragioni che spingono un architetto davanti al foglio bianco sono differenti perché motivate da domande differenti. C’è sempre una domanda che sorregge lo spazio. Ma questo spazio deve riassumere al di là della domanda, della funzione o della tecnica, altre ragioni più profonde». Un edificio non insiste solo sul territorio fisico: «C’è anche il territorio della memoria. Quando costruiamo una chiesa non facciamo una semplice aula di incontro ma vi riversiamo un portato di storia, di cultura, di visione del mondo, di spiritualità di cui volenti o nolenti siamo gli eredi. Come esiste una modernità dell’antico, così – e qui risiede la forza del fatto architettonico – esiste una antichità del nuovo. Con il nostro segno diamo una icona che possiede in sé tutto il grande passato». È una storia secolare che ha anche una grande tradizione recente. Che, ammette Stefano Boeri, l’architetto del Bosco verticale, è spesso «dimenticata dagli stessi architetti. Il rapporto tra architettura e spazio spirituale in Italia si svolge attraverso una storia di grandi opere, quelle di Ponti, Michelucci, le idee del cardinale Lercaro... Sono chiese che costruiscono città, paesaggio, ambiente. C’è poi l’opera di Montini, che a Milano chiama giovanissimi architetti, destinati a divenire notissimi, a cui chiede non di costruire grandi chiese ma parrocchie nelle periferie. Queste ancora oggi, insieme alle scuole, sono le grandi infrastrutture sociali della città. È la chiesa che si fa città, senza segnalarsi nella discontinuità simbolica ma facendosi carico di bisogni, sofferenze, aspettative». È una linea che continua ancora oggi, e non solo in Italia. Matthias Sauerbruch ha portato la sua esperienza della Immanuel-kirche, una chiesa parrocchiale luterana in un sobborgo di Colonia. «Nasce dalla fusione di due parrocchie. La nuova chiesa è circondata da un anello di alberi, preesistente. Casa parrocchiale, campanile e cimitero si inseriscono nell’intorno, come un campus». È una chiesa nata soprattutto dalla spinta della popolazione e in particolare da un gruppo che comprende anche non credenti. «Questi ultimi spingevano per la costruzione della chiesa perché vi vedevano un luogo di aggregazione per una comunità composta sempre più di individui. La pratica religiosa in Germania è in costante calo, i giovani cercano strade spirituali senza seguire una religione formalizzata. Sono elementi che abbiamo preso in considerazione, cercando una riformulazione dell’identità di una chiesa nel quartiere. Ne è uscito uno spazio semplice, come una tenda. È una struttura che si presta a rispondere a tutti i bisogni di una comunità, spirituali e materiali. Ma soprattutto abbiamo cercato che lo spazio garantisse la concentrazione e il raccoglimento, un momento diverso rispetto all’esterno. La forma della croce davvero è una metafora dell’architettura sacra: cercare quel punto esatto di equilibrio in cui si fissano dimensione verticale e orizzontale». Il centro, la periferia. Il tema della chiesa interroga la città oggi più ancora di quella antica. «Paul Virilio – commenta Botta – diceva che la velocità è un fattore dell’oblio. Più si trasforma più dimentichiamo. Dentro questa complessità la consapevolezza che rallentare può diventare utile». E prosegue: «Noi siamo scontenti delle nostre città. La nostra generazione consegna a quelle future degli agglomerati che hanno perso due della qualità essenziali della città: un centro e un limite». Un processo in cui non è indifferente il ruolo dell’ideologia, dice Boeri: «L’ideologia fa male alla città. L’architettura degli anni 70 e l’edilizia popolare europea hanno una storia che si radica nei decenni precedenti in opere magari esteticamente sublimi ma che hanno incorporato l’utopia autoritaria di una città nella città. È una natura antiurbana, l’abbiamo capito tardi. Erano edifici ad alta densità con una fortissima omologazione interna, senza la ricchezza della diversità. Questo fatto però non ci deve far trascurare che nell’utopia c’è una positività e cerca di trascendere alla semplice domanda funzionale».

CORRIERE DELLA SERA di sabato 22 settembre 2018 Pag 19 Compensi in nero per il corso, ci sono altri due conti segreti di Fiorenza Sarzanini Il caso dei cantori della Sistina. Palombella verso la sospensione

Sono almeno due i conti segreti che custodiscono i soldi incassati in «nero» dal coro della cappella Sistina. Risultano aperti nel 2013 presso banca Finnat e dal Vaticano è partita una richiesta di rogatoria all’Italia per ottenere copia dell’intera movimentazione. Ma anche per conoscere nel dettaglio l’attività di due associazioni gestite dal direttore amministrativo Michelangelo Nardella con sua moglie Simona Rossi e il maestro Massimo Palombella. L’inchiesta sulle donazioni per i concerti organizzati fuori dalla Santa Sede arriva dunque a un passaggio decisivo. E all’interno delle Mura si rincorrono le voci sulla sospensione di Palombella, dopo che negli ultimi giorni ci sarebbero state numerose «pressioni» per farlo dimettere. Nei giorni scorsi è stato sentito il prelato della Prefettura monsignor Stefano Sanchirico e la prossima settimana potrebbe essere convocato monsignor Georg Gänswein, il prefetto della casa pontificia che per primo aveva segnalato anomalie sulla gestione economica del coro. Ma anche dalla segreteria di Stato dovranno chiarire come mai abbiano autorizzato decine e decine di eventi esterni senza poi verificare dove finissero i compensi. Non a caso sono già state acquisite le lettere firmate dal cardinale Angelo Becciu quando era sostituto e aveva il compito di esaminare le richieste per il via libera. Trasferte negli Stati Uniti, esibizioni in circoli privati, partecipazioni a manifestazioni e concerti: soltanto negli ultimi due anni il coro ha partecipato a 26 eventi «esterni», che si sommano a quelli organizzati nella Sistina. Secondo le verifiche svolte dal Promotore soltanto una minima parte degli introiti sarebbe stata depositata sul conto ufficiale e quindi messa a disposizione della Prefettura. Il resto - si parla di centinaia di migliaia di euro accumulati negli ultimi cinque anni - è stato invece occultato sui conti Finnat di Palombella e Nardella che per questo sono accusati di truffa, peculato e riciclaggio. Proprio da Finnat sono usciti i cinque assegni circolari girati alla Prefettura. Uno, consegnato per far svolgere alcuni lavori di ristrutturazione della sala dei paramenti, era da 30mila euro. E tanto basta per comprendere quanto alte fossero le somme percepite dal maestro per le esibizioni. L’attenzione del Promotore è puntata anche su due associazioni - «Orares» e «Union 4 Action» gestite da Nardella e da sua moglie - che potrebbero aver avuto un ruolo nell’organizzazione degli eventi. Un elenco di impegni talmente lungo che in una lettera del novembre scorso monsignor Becciu chiese a Palombella di «non esagerare con l’organizzazione e l’accettazione di tournee all’estero». Ma è stato proprio questo ad alimentare dubbi sulla efficacia dei controlli e i genitori di molti pueri avevano già segnalato l’eccessivo carico per i bambini che dovevano invece frequentare la scuola. In questo senso va anche la dichiarazione dell’avvocato di Nardella, Laura Sgrò: «Non esistono conti gestiti in nero dal dottor Nardella, il quale ha sempre operato di concerto con il maestro Palombella, ma si tratta di conti noti ai superiori. I flussi finanziari di questi conti sono stati utilizzati esclusivamente per le attività della Cappella musicale Pontificia, mai per spese personali dal mio assistito. Inoltre tutti i concerti del coro sono stati preventivamente autorizzati dalla Segreteria di Stato. Sarebbe stato, peraltro, impossibile spostare settanta persone in assoluto silenzio».

Pag 30 L’accordo Vaticano – Cina. Un successo di Francesco di Andrea Riccardi

La firma dell’accordo fra Santa Sede e Repubblica popolare cinese è ormai certo. Mons. Antoine Camilleri, sottosegretario vaticano per i rapporti con gli Stati, sottoscrive in questi giorni il primo testo in comune tra due «potenze» così asimmetriche, la Cina e la Santa Sede, le quali non hanno mai avuto rapporti ufficiali dal 1949, quando Mao Zedong proclamò la Repubblica Popolare. Nel 1951, l’internunzio vaticano a Pechino, Riberi, che non aveva avuto alcuna relazione con le nuove autorità comuniste, dovette lasciare il Paese e si recò a Hong Kong. Cominciò un lungo inverno tra Pechino e il Vaticano, considerato dai cinesi, nel clima della Guerra Fredda, una forza straniera, occidentale e imperialista. Conseguente a questa visione, fu la creazione dell’Associazione patriottica cattolica cinese nel 1958 per organizzare i cattolici nel nuovo quadro politico. Così, sessant’anni fa, cominciarono le ordinazioni di vescovi non nominati né riconosciuti dal Vaticano, in genere preti che credevano di dover assumere quella posizione per salvare il salvabile. Nasceva quella che sarebbe stata definita la «Chiesa patriottica», che conservava edifici e luoghi di culto, aperti ai fedeli. D’altra parte si è parlato di una «Chiesa clandestina», con vescovi riconosciuti da Roma, che credevano di dover resistere al controllo governativo. Tra i due mondi, i patriottici e i clandestini, non è avvenuta una biforcazione netta, ma ci sono stati contatti e sovrapposizioni: pur nel quadro di un’unica Chiesa in Cina, il cattolicesimo risulta diviso. Il primo risultato dell’accordo tra Cina e Vaticano è unificare l’episcopato in unione con il Papa: si crea così una guida unitaria per una Chiesa, sfidata dalla secolarizzazione che tocca in specie i cattolici più giovani, dall’inurbamento, dalle Chiese neoprotestanti, molto attive e organizzate spesso in comunità domestiche. È un grande successo, perché non c’è al mondo una Chiesa così divisa come quella cinese e una divisione tra cattolici non è mai durata così a lungo. L’unificazione è la premessa per un nuovo slancio del cattolicesimo in Cina. Un altro significativo risultato è che il governo cinese prende sul serio la Santa Sede come interlocutore, anche per risolvere una questione religiosa tra cinesi. In fondo, la Cina, all’apogeo della sua forza politica e economica, assorbita da tante problematiche geopolitiche, avrebbe potuto considerare la diplomazia del Papa come «quantité négligeable». Così non è stato ed oggi il rappresentante del Papa entra a Pechino per la porta principale. Non più negoziati segreti, ma un accordo ufficiale che riconosce dignità alla Santa Sede e al cattolicesimo cinese. È un successo di papa Francesco e del suo segretario di Stato, Parolin, da tempo impegnato nelle questioni cinesi. Non sono mancate critiche ai negoziati e all’accordo. L’accusa principale è che si consegna il cattolicesimo al potere politico e, con un accordo parziale, si svende una Chiesa che ha avuto tanti martiri. È la consapevolezza delle sofferenze, assieme alla necessità di affrontare nuove sfide, che ha spinto il Vaticano su questa via, conscio della delicatezza della situazione e del sacrificio di tanti cattolici nel passato. Entrare in un’altra stagione forse non sarà facile per tutti i cattolici. Ma la Chiesa vuole trovare nuovi spazi, in una società divenuta molto più plurale e cangiante che in passato. La politica dell’accordo è quella dei «piccoli passi». Significativamente il testo firmato non sarà reso pubblico. L’accordo individua un meccanismo, considerato provvisorio e da rodare, per la nomina dei vescovi. È un fatto decisivo per la Chiesa, su cui si è trovato un compromesso: comunità cattoliche cinesi, governo e Santa Sede avranno, tutte e tre, un ruolo nel processo di scelta. Il Papa conserva la possibilità di rifiutare la nomina. Sono meccanismi utilizzati in passato. I governi spagnoli e portoghesi, con il «patronato regio», sceglievano i vescovi dei loro domini, che poi il Papa istituiva. Nella Cina del passato, molti affari religiosi erano gestiti dalla Francia. Anche la Spagna di Franco e alcuni Paesi latinoamericani sceglievano i vescovi. L’accordo non conclude un processo, ma apre una strada, che esigerà un costante rapporto negoziale tra Vaticano e Cina. A questo fine, una rappresentanza vaticana stabile a Pechino aiuterebbe i contatti e l’individuazione di candidati all’episcopato adatti, pastorali e accettati dalla Cina e dai cattolici cinesi. Resta il fatto storico che l’accordo di Pechino, nonostante le discussioni che susciterà, fa cadere uno degli ultimi muri della Guerra Fredda.

IL GAZZETTINO di sabato 22 settembre 2018 Pag 18 “Architetti in dialogo con Dio” di Raffaella Vittadello

«L'architetto è in qualche modo immagine di Dio: pur essendo creatura e utilizzando materiali già esistenti li ricompone per dare nuova vita alle sue costruzioni, dà loro un'anima. Anche la Sapienza nella Bibbia viene paragonata a un architetto. E la parola architetto potrebbe anche significare fanciulla che balla, testimonianza della bellezza a cui tende, verso l'infinito». Così il cardinale Gianfranco Ravasi ha introdotto l'appuntamento all'Arsenale Geometrie dello Spirito, Un viaggio tra architettura, cultura e musica promosso dal Cortile dei Gentili, il dipartimento del Pontificio Consiglio della Cultura nato per favorire l'incontro e il dialogo tra credenti e non credenti. «La corte dei Gentili vuole essere proprio quel luogo di incontro ideale tra culture: a Gerusalemme esisteva lo spazio sacro separato dalla cortile dei pagani. San Paolo ricorda che Cristo è venuto ad abbattere il muro di separazione per fare dei due un unico popolo - ha proseguito - Così il nostro obiettivo è trovare gli elementi di congiunzione tra le diverse culture: dovunque il tempio viene ispirato da Dio, è la tenda dell'incontro. Non solo dell'incontro orizzontale tra gli uomini, ma un incontro verticale, che trascende la dimensione umana». Un tentativo compiuto anche dal padiglione della Santa Sede, alla prima partecipazione alla Biennale di Architettura, con il progetto Vatican chapels e le sue 10 cappelle nel bosco a San Giorgio Maggiore, momento di cui la natura aiuta al raccoglimento. IL PREMIATO - E a proposito della costruzione di edifici sacri, Ravasi ha svelato che è stato proprio papa Francesco in persona a caldeggiare, giovedì, il nome dell'architetto svizzero Mario Botta per il Premio Ratzinger, assegnato a un teologo (la tedesca Marianne Schlosser, per la prima volta riconoscimento a una donna) e a un artista cristianamente ispirato. Mario Botta era uno dei partecipanti al dialogo moderato dalla conduttrice tv Concita De Gregorio, al quale hanno partecipato gli architetti Stefano Boeri e Matthias Sauerbruch, che si sono confrontati sul rapporto tra architettura e spiritualità. Botta ha ripercorso la propria carriera, sottolineando come l'architetto non sceglie il cosa fare, ma gli viene commissionato, e quindi deve interpretare lo spazio e i desideri del committenti. E nella sua carriera ha iniziato a costruire chiese. «Mi sono chiesto cosa volesse dire costruire una chiesa - ha esordito, mentre scorrevano le immagini delle sue realizzazioni più celebri - e lì è iniziato un percorso di riflessione spirituale. Ho trovato le ragioni del mio mestiere, il perchè del costruire prima del come». E di chiese Botta ne ha costruite dappertutto, in montagna e sulla riva del mare, in pianura e nelle città. «Questo spazio di preghiera non può prescindere dalla memoria del passato, in quel luogo ci dev'essere concentrata tutta la storia della chiesa, la testimonianza del passato deve riflettersi nel luogo di incontro di una comunità». IL LAICO - Anche Stefano Boeri, noto per la costruzione del Bosco Verticale di Milano, i due grattacieli le cui facciate accolgono piante di diversissime specie, ha ricordato laicamente come una città deve crescere e non necessariamente espandersi, ma sempre intorno a un senso. E ha ricordato il progetto di papa Paolo IV di affidare a un pool di giovanissimi architetti tra i 20 e i 30 anni la realizzazione di chiese in parrocchie di periferia, ancora oggi presidi di socialità, esempio di una chiesa che si fa città e che si fa carico come può dei bisogni della popolazione che ci vive. Come si propone di fare la Casa del Futuro ad Amatrice, la cittadina laziale rasa al suolo dal sisma del 2016, progettata dal suo studio, che prevede la rifunzionalizzazione del complesso Don Minozzi pensato come luogo di rinascita e innovazione, che darà spazio a una serie di attività dedicate in prevalenza al mondo giovanile, tra formazione e ricerca. L'URBANISTA - A Matthias Sauerbruch urbanista e docente tedesco, il compito di descrivere il nuovo volto di alcune città, che non si sviluppano più intorno alla piazza principale del paese dove si trovano la chiesa, il campanile e il municipio, caratteristica delle principali città europee, ma che hanno altre esigenze. Ed ecco nascere degli edifici di culto di dimensioni diverse rispetto alle cattedrali rappresentate oggi dai centri sportivi, dai centri commerciali e di altro genere. Ed ecco in contraddizione il ritorno a Venezia, «dove - ha ricordato Mario Botta - incontro me stesso. Non perchè l'ho costruita, ma perchè nei centri storici riconosciamo il nostro passato e quindi ci interroghiamo su noi stessi».

LA NUOVA di sabato 22 settembre 2018 Pag 45 L’architetto e il “materiale di Dio”, riflessioni su Vatican Chapels di Marta Artico

Venezia Interpretare lo spirito del proprio tempo aggiornando nella contemporaneità il territorio della memoria, componendo materiali in forma sempre diversa e mantenendo viva la tensione tra assoluto e relativo. È un compito in continuo aggiornamento quello indagato ieri alle Tese dell'Arsenale di Venezia in un dibattito con tre voci della scena architettonica internazionale: Stefano Boeri, Mario Botta (fresco del premio Ratzinger) e Matthias Sauerbruch, in dialogo con il Cardinale Gianfranco Ravasi. L'incontro era inserito nel programma di Vatican Chapels e dedicato al rapporto tra architettura e spiritualità - organizzato dalla Biennale in occasione della prima partecipazione della Santa Sede.«L'architetto consacra lo spazio» ha esordito Ravasi, «continua la creazione perché usa il materiale che Dio ha creato e lo compone in maniera differente, ma l'architettura deve anche interpretare lo spazio, dargli un senso: costruire una chiesa è dare un significato all'orizzonte della creazione. La geometria sacra è il luogo dell'incontro orizzontale, tra i fedeli, e verticale, l'incontro con Dio, l'elemento fondamentale per impedire che lo spazio sacro sia solo una sala civica o un luogo anonimo». Tra assoluto e relativo. Una continua tensione tra assoluto e relativo. Ingrediente imprescindibile del rapporto tra architettura e spiritualità, l'elemento della memoria, introdotto da Botta: «C'è sempre una domanda che sorregge lo spazio, che deve riassumere al di là della funzione della tecnica, l'interpretazione dello spirito del tempo aggiornando l'antichità del nuovo, non possiamo ridisegnare una chiesa senza la memoria». «Ho iniziato a costruire chiese a metà degli anni Ottanta» ha proseguito «e ho trovato, nel tema ecclesiale, la ragion d'essere del fatto architettonico». L'architetto del bosco verticale, Boeri, ha spaziato nel rapporto tra la natura, il creato che ci circonda, e il trascendente. Dal legame con la storia all'elemento più sociologico affrontato da Sauerbruch: in un tempo secolarizzato, in cui le città si compongono di religioni e credo diversi, le chiese si rimpiccioliscono, le parrocchie si fondono e servono nuovi spazi identitari. Ecco allora la realizzazione, a Colonia, di una moderna chiesa- campus-parrocchia-centro sociale che ricalca la sfida di sempre: creare uno spazio dedicato all'introspezione in cui la velocità del mondo rimanga fuori dalla porta. Può un edificio accendere la spiritualità? la domanda della giornalista Concita De Gregorio che ha moderato il dibattito a Botta. «No, non può». L'architetto è un influencer, «non determina i comportamenti semmai li facilita, l'architettura non condiziona l'uomo, che è libero di scegliere indipendentemente dalla forma dello spazi». –

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA di sabato 22 settembre 2018 Pag 9 Negozi chiusi la domenica, il 56% degli italiani dice no di Nando Pagnoncelli Prima bocciatura di una proposta M5S-Lega. Elettorato di Salvini spaccato

La proposta avanzata dal governo di reintrodurre l’obbligo di chiusura degli esercizi commerciali la domenica e nei giorni festivi, prevedendo un numero massimo di giornate annue di apertura festiva, con l’eccezione delle località turistiche, ha avuto un’ampia risonanza, come spesso accade quando si parla di provvedimenti che hanno a che fare con gli stili di vita e le attività quotidiane dei cittadini. Oltre il 60% ha seguito con attenzione la notizia e i commenti che l’hanno accompagnata e a costoro si aggiunge il 31% che ne ha solo sentito parlare. La maggioranza degli italiani (56%) si dichiara poco (26%) o per nulla (30%) d’accordo con questa proposta di legge, mentre solo il 16% la condivide appieno e il 23% si dice abbastanza d’accordo. Si tratta di un fatto inedito per questo governo. Le opinioni sembrano più influenzate dalle abitudini che dalle appartenenze. Chi nelle ultime quattro settimane la domenica si è recato più di una volta a fare la spesa per il 97% dissente e anche tra i più saltuari il 70% è contrario. Quanto ai diversi elettori, gli unici a favore del provvedimento sono i pentastellati (60%), mentre i leghisti sono divisi (50% contrari, 47% favorevoli), nonostante la proposta di legge porti la firma dell’esponente del partito di Salvini, Barbara Saltamartini. Escludendo la Lega, tra gli elettori di centrodestra prevale nettamente il disaccordo (79%), come pure tra quelli di centrosinistra (80%). Fin dall’approvazione del decreto Monti nel dicembre 2011 la questione dei negozi aperti nei giorni festivi è stata accompagnata da molte polemiche sia nel mondo sindacale, sia in quello religioso. In realtà il sondaggio odierno evidenzia che tra i fedeli che partecipano alla messa domenicale con frequenza settimanale o più di rado, la maggioranza assoluta si dichiara contraria alla chiusura festiva degli esercizi commerciali e si mostra piuttosto indifferente rispetto ad alcune dichiarazioni e prese di posizione in ambito ecclesiale. I pareri a favore o contro l’apertura sono molto variegati: tra coloro che condividono la chiusura il 46% (corrispondente al 18% degli italiani) ritiene che si debba garantire ai lavoratori la certezza del riposo festivo e la possibilità di trascorrere la domenica in famiglia; il 28% (cioè l’11% degli italiani) è favorevole alla chiusura per motivi etici, per evitare cioè che i giorni di festa si possano trasformare in occasioni consumistiche; infine il 23% (9% degli italiani) è del parere che si debbano proteggere i piccoli commercianti e le botteghe storiche che non sono in grado di garantire l’apertura nei giorni festivi. Tra i favorevoli all’apertura domenicale il 49% (corrispondente al 27% degli italiani) mette al primo posto la crescita occupazionale che viene favorita dall’estensione dei giorni di apertura, il 27% (15% sul totale) è convinto che in una società moderna si debba garantire la massima libertà d’impresa; l’11% teme che la chiusura possa determinare una contrazione dei consumi e il rallentamento della ripresa e il 9% considera l’apertura festiva una comodità a cui non si vuole rinunciare. L’azione del governo in questi primi mesi appare incentrata in larga misura su una sorta di ritorno al passato, sulla cancellazione o la modifica di provvedimenti adottati dai governi precedenti, nella consapevolezza che il sentimento prevalente tra i cittadini, a causa della diffusa inquietudine per il futuro, sia rappresentato dalla nostalgia. Ma in questo caso la proposta di legge potrebbe rivelarsi un azzardo, anche se non è affatto detto che la prevalente contrarietà rispetto alla chiusura dei negozi si possa tradurre nell’immediato in un calo di consenso per il governo. Infatti le priorità degli italiani sono altre: occupazione, migranti, riforma della legge Fornero, flat tax, reddito di cittadinanza, solo per citare le principali. Se la maggioranza riuscirà a ottenere risultati positivi su questi temi è probabile che possa attenuare il malumore dei cittadini per la chiusura festiva dei negozi. Di certo qualora cambiasse il clima politico, non diversamente da quanto avvenuto con la maggior parte dei governi recenti, i cittadini saranno pronti a rinfacciare alla maggioranza i provvedimenti sgraditi: il nostro non è solo il Paese che va in soccorso al vincitore, ma è anche quello che bastona il cane che affoga.

AVVENIRE di sabato 22 settembre 2018 Pag 1 Emergenza solitudini di Marco Impagliazzo La “malattia” meno capita e più grave

Gli italiani sono più soli. Il Rapporto Istat di quest’anno, come quello di Eurostat lo scorso anno, sulle reti e relazioni sociali nel Paese, mettono a fuoco anche questa realtà: la solitudine crescente degli italiani. Il 13% dei nostri concittadini non ha una persona cui chiedere aiuto: è il dato più alto a livello europeo. Per l’Istat tre milioni di abitanti della Penisola dichiarano di non poter contare su alcuna rete di sostegno (parenti, amici, vicini, realtà associative; mentre aumentano le famiglie composte da una sola persona (il 21,5% nel 1998, ben il 31,6% nel 2016). La pubblicazione, lo scorso 6 settembre, del report – ancora Istat – sulla popolazione residente per stato civile ci aiuta a guardare al fenomeno di cui sopra come a qualcosa di strutturale. Non siamo in presenza, infatti, di un dato legato al progressivo invecchiamento della popolazione, per cui è normale ci siano più vedovi/e. Quando si legge che «nella classe di età 15-64 anni i coniugati e i celibi quasi si equivalgono (ammontano ciascuno ad oltre 9 milioni, rispettivamente il 49% e il 47,7% del totale della popolazione di quella fascia di età)», ovvero che «la diminuzione e la posticipazione della nuzialità in atto nel Paese hanno prodotto un crollo particolarmente evidente della condizione di 'coniugato' tra i giovani adulti», ci si rende conto di vivere in una società il cui tessuto connettivo è più poroso e friabile, costituito da milioni di persone sole, con pochissimi legami stabili e difficoltà a fare rete. I commenti relativi al report si sono focalizzati sul mutare dei comportamenti familiari, sulle prime unioni civili, sul boom dei divorziati (più che triplicatisi nel giro di un quarto di secolo). Ma il nodo della questione non è di costume: è culturale e antropologico. La gente è più sola. Assistiamo all’avanzare di un nuovo tipo di umanità, sempre meno sociale e sempre più solitaria nell’avventura della vita. Con tutte le implicazioni politiche, economiche e sociali, che questa vera e propria rivoluzione porta con sé sul medio e lungo periodo. Siamo di fronte al laboratorio di una nuova società, quella del secolo che avanza, di una globalizzazione che fa perno sul vivere in città, ma distanti gli uni dagli altri. Si va disegnando un mondo in cui convivenza e isolamento coesistono, così come massificazione e solitudine si danno man forte. Oggi si tratta di garantire una tenuta sociale non più cementata da nuclei familiari o da reti di appartenenza ed è quindi, sempre più necessario, tessere legami di condivisione e di speranza tra soggetti più distanti e diversi che in passato. La vita diventa inesorabilmente individuale sui grandi scenari del mondo globalizzato. Le forme comunitarie, familiari, solidali, scivolano al secondo posto rispetto a una vita solitaria. Le fisionomie di socialità 'virtuale' affiancano o sostituiscono quelle più tradizionali. Soprattutto per i giovani e i giovani adulti. Vivere individualmente è tanta parte dello spirito del nostro tempo. E così, oggi, l’uomo e la donna sono più soli. Senza contare che la solitudine è un peso ulteriore per chi è malato, fragile, povero. Soffre di più nella solitudine chi si colloca agli estremi temporali della vita, il bambino e l’adolescente, ma soprattutto l’anziano. Possiamo fare a meno dell’aiuto dell’altro? Questa è la grande domanda di fronte alla stagione che viene. Più grande anche delle questioni e delle paure che ci agitano nel quotidiano e che spesso sono frutto di propagande maliziose e di percezioni sbagliate. Il vero, grande, problema – umano, spirituale e politico – è che le nostre città sono popolate da molte, troppe solitudini; che la nostra società è malata di solitudine. Eppure, amma-larsi non conviene. L’antica saggezza delle pagine della Bibbia – tra cui l’affermazione di Dio nella Genesi: «Non è buono che l’uomo sia solo» – ci chiama a ripensare tante scelte che quotidianamente ci allontanano, rendendo più dura l’esistenza di ognuno. In questo senso la vita cristiana, che è la relazione con 'l’altro', come ci ricorda sempre papa Francesco, può essere una risorsa per tutti. È nostro compito testimoniarlo facendo presente che la debolezza è una condizione esistenziale e, in qualche modo, universale. Che si può esorcizzare nel brivido dell’autoreferenzialità o della virtualità, come avviene su larga scala. Ma dato che appartiene alla condizione umana e non si potrà mai cancellare, conviene affrontarla il più possibile insieme e non da soli. È uno dei motivi per cui è davvero urgente – come sottolinea il cardinal Bassetti – «rammendare» il tessuto della società italiana e rigenerare quelle reti sociali e umane che si sono tanto sfilacciate.

Pag 3 Buone notizie dal (cambiato) mondo del lavoro di Francesco Delzio

Il sistema Italia continua a creare nuovi posti di lavoro, nonostante il progressivo affievolirsi della (già non brillante) corsa del nostro Prodotto Interno Lordo. È quanto emerso nei giorni scorsi dalla Nota trimestrale congiunta pubblicata da Istat, Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Inps, Inail e Anpal. Si tratta di una buona notizia, che grazie al meccanismo della 'nota congiunta' di tutti gli istituti competenti in materia ha validità assoluta: qualcuno ricorderà le feroci polemiche causate soltanto qualche anno fa dai dati sull’occupazione (spesso) discordanti diffusi da Istat e Inps. È l’ennesima prova del fatto che il sistema imprenditoriale italiano ha recuperato competitività e qualità della produzione, dopo aver sofferto più di altri la Grande Crisi degli anni Duemila. Pur continuando a soffrire di una grande 'ferita' territoriale: se nel Centro-Nord la ripresa è iniziata prima e ha portato al recupero dell’occupazione perduta già nel secondo trimestre 2016, nel Mezzogiorno il 'saldo' rispetto al periodo pre-crisi è ancor oggi ampiamente negativo. Nel secondo trimestre 2018 si è registrata nel nostro Paese una significativa crescita dell’occupazione, soprattutto nei settori dei servizi e dell’industria. Il tasso di occupazione è tornato finalmente ai valori pre-crisi: la crescita dei posti di lavoro ha riguardato sia le posizioni a tempo indeterminato sia quelle a tempo determinato. L’occupazione è aumentata dello 0,9% rispetto al primo trimestre del 2018 e dell’1,7% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. A questo dato sono associate altre due buone notizie, che incidono sui fenomeni che sono considerati a livello internazionale le principali 'piaghe' del mercato del lavoro italiano. La prima: questo miglioramento dell’occupazione è accompagnato da una riduzione tendenziale consistente degli inattivi. La seconda: la riduzione più significativa del tasso di disoccupazione si registra tra i giovani, rispetto alle altre classi di età. Per evitare trionfalismi, è bene sapere però che negli ultimi dieci anni il mondo del lavoro è profondamente cambiato: gli occupati part-time sono aumentati di quasi un milione, a fronte di una diminuzione di poco inferiore di quelli a tempo pieno. Di conseguenza è molto diversa, oggi rispetto a dieci anni fa, la figura-tipo di chi trova un’occupazione. È un lavoratore a tempo, molto più flessibile, che lavora più negli alberghi e nella ristorazione, nei servizi alle imprese, nella sanità e nei servizi alle famiglie che nell’industria in senso stretto, nelle costruzioni e nella Pubblica Amministrazione. Ed è un cittadino consapevole, come tutti noi, che sarà molto difficile che il mercato del lavoro torni indietro.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Parla l’ex terrorista: “Rinato con la fede” di Giuseppe Babbo

«Se penso al 1980 provo un senso di raccapriccio, era una situazione terribile, eravamo in una vera e propria guerra». Le parole non sono pronunciate a caso e sono quelle di Maurice Bignami, ex capo di Prima Linea, formazione armata nata a Firenze nel 76 e sciolta nell'83. Ex terrorista, Bignami è stato arrestato nel 1981 e condannato a trent'anni. Grazie all'esperienza del carcere e ad alcuni incontri con dei religiosi si è convertito al Cristianesimo. Per questo ieri mattina è stata tra i relatori dell'ultimo incontro di EracleaViva, l'appuntamento culturale organizzato dall'associazione Fra Terra e cielo. Una presenza che ha aperto all'interno dell'associazione un profondo dibattito: «Abbiamo invitato Maurice perché si è convertito in seguito a degli incontri spiega il presidente dell'associazione, Andrea Babbo . Ha saputo rimettersi in gioco senza rinnegare il passato. Al nostro interno ci siamo interrogati sull'opportunità della sua presenza, alla fine abbiamo ritenuto la sua testimonianza un esempio di fede». Ed è per questo che ieri mattina il pubblico al centro ambientale non è mancato. «La nostra è stata una storia di un gruppo politico extraparlamentare ha detto Bignami - . E' un pezzo di storia di questo paese. Oggi è difficile riguardare al passato, ognuno di noi che aveva una certa responsabilità era diventato schiavo di quello che si è dimostrato un percorso drammatico, perché alla fine le cose non sono andate come volevamo. Il carcere si è trasformato un momento di riflessione e coraggio per rimettersi in discussione». Nessuno rischio per quanto riguarda un ritorno al passato. «Quelle vicende rappresentano una vicenda chiusa aggiunge l'ex capo di Prima Linea la memoria però è rimasta e l'Italia ha mezzi e risorse per affrontare il terrorismo. Non dimentichiamo che questo paese è stato l'unico che ha avuto una guerriglia degli anni 60 e' 70 e che ha saputo instaurare un dialogo tra il ceto politico istituzionale e quello incarcerato, trovando una soluzione politica a tutta la vicenda. A livello storico il problema è stato risolto, i drammi provocati da tutta questa situazione rimangono». E in questo contesto possono avvenire gli incontri con i famigliari delle vittime. «E' capitato, soprattutto se richiesti - conclude Bignami - . Semmai non abbiamo mai usato la formula delle trattative private per comprare il dolore altrui. La nostra è stata un'esperienza politica e per quanto estrema e non ci è mai sembrato opportuno risolvere le questioni in questo modo. Le contestazioni nei miei confronti non sono mancate, ritengo però che se uno ha avuto il coraggio di fare certe cose deve avere anche il coraggio di parlarne 40 anni dopo».

IL GAZZETTINO di domenica 23 settembre 2018 Pag V In seicento per l’addio a Cristiano Lucchini ,il ragazzo della parrocchia di Michele Fullin e Tullio Cardona Il parroco: “Sensibile e gentile, era il primo a porre domande”

Venezia. Occorre andare tanto indietro negli anni per assistere a a Venezia ad una cerimonia funebre così toccante, sentita e commovente. La partecipazione delle circa 600 persone che a San Nicolò dei Mendicoli hanno voluto salutare per l'ultima volta Cristiano Lucchini è stata intensa, assoluta. Di fronte a quel feretro bianco e migliaia di fiori, le lacrime sono state trattenute a stento e il pianto collettivo si è sfogato solo sul sagrato con la liberazione di centinaia di palloncini bianchi e azzurri al termine della canzone Dove sei di Federica Carta. CHIESA STRAPIENA - Nella piccola chiesa tutti, dai familiari ai compagni di classe, agli amici, ai parrocchiani erano venuti per piangere il giovanissimo Cristiano nella speranza che, come ha scritto un'anonima lettera all'ingresso, adesso si trovi in un posto migliore. Tra questi c'era il sindaco Luigi Brugnaro e anche lui non ha trattenuto una lacrima, assieme al capo di gabinetto Morris Ceron e all'assessore Paola Mar. Durante la commemorazione è uscito un altro ritratto di Cristiano, grazie a ciò che ha detto nell'omelia il parroco don Paolo Bellio, e anche dalle parole della nonna. Ciò che è emerso, al netto del tragico gioco che domenica scorsa si è portato via Cristiano, è stato il percorso interiore da lui portato avanti negli ultimi anni, che lo aveva portato ad avvicinarsi alla parrocchia, a fare il pellegrinaggio ad Assisi e, da ultimo, a chiedere il battesimo. C'era chi non è riuscito ad entrare per la folla e chi è andato in campo perché non ce la faceva più a sopportare il dolore. GLI AMICI - E, con i compagni di classe e gli amici, vecchi e nuovi, sono arrivati i ricordi: i dispetti, gli scherzi, le battute, tutti i suoi tentativi di strappare un sorriso. «Inutile parlare di mosse spericolate - ha ricordato il docente di religione Andrea Bettin prima di portare i compagni di scuola a prendere tutti assieme un gelato - molti di noi a quell'età hanno fatto ben di peggio. Cristiano era un ragazzo vivace, ma speciale, uno che non è stato sempre fortunato nella vita, ma che ne ricercava sempre l'aspetto positivo e poi aveva un sorriso contagioso». I RINGRAZIAMENTI - Proprio il professor Bettin è una delle persone che la mamma di Cristiano, Roberta Bozzao, ha voluto ringraziare apertamente per la vicinanza: «I docenti Andrea Bettin e Daria Canilli, gli psicologi Franca Giomo e Massimo Ronchese, lo psichiatra Franco Marini, i responsabili del cimitero di Mestre Paolo Fontana e Lorella, il sindaco Luigi Brugnaro per la presenza e la discrezione, le Onoranze funebri Venezia per la vicinanza e l'organizzazione e il pubblico ministero Andrea Petroni». È stato il saluto a un bambino, come la madre ha voluto sottolineare mettendo sul feretro un grande orsacchiotto di peluche, anch'esso di colore bianco. Intanto, l'inchiesta prosegue e nei prossimi giorni il Pm nominerà un consulente per ricostruire la situazione che ha portato al ribaltamento del muletto nell'area di cantiere della ditta Boscolo Bielo, l'accessibilità della zona, il tipo di guardiania e sicurezza e la custodia delle chiavi del mezzo da lavoro. La famiglia della madre si è affidata all'avvocato Augusto Palese, la famiglia del padre all'avvocato Chiara Fenzo.

Venezia. Il suono di un fischietto che ancora ronza nelle orecchie di don Paolo Bellio: saluto e monito. «Domenica pomeriggio - ha raccontato il celebrante don Paolo, parroco di San Raffaele Arcangelo e San Nicolò dei Mendicoli - verso le 17.45 sono arrivato in macchina a Santa Marta e, dall'altra parte, ho sentito un fischio prolungato, come emesso da un fischietto da arbitro. Ho guardato da dove provenisse e ho visto Cristiano che dava fiato al fischietto. Mai avrei pensato che da lì a poco sarebbe accaduta la tragedia. Quel fischio è ancora nelle mie orecchie». Come un saluto ma anche un monito. «Spesso - ha proseguito - i giovani fischiano, vogliono comunicare e si fanno sentire in mille modi; siamo noi a non sapere decifrare la loro richiesta di attenzione ed a volte i parenti non bastano: ci vuole una sinergia fra comunità, educatori ed istituzioni per intendere la loro voce ed aiutarli, facendoli crescere come devono e meritano». CURIOSO E VIVACE - «Cristiano era sempre il primo a fare domande. Un ragazzino che con la curiosità esprimeva tutta la sua intelligenza, oltre alla voglia di vivere e di sapere». «Per questo ora c'è un angelo in più - commentava sommessamente una parrocchiana ad una sua amica - i bambini appena nati non sanno quello che accade a loro, ma lui, a 13 anni, era diventato consapevole ed aveva chiesto alla parrocchia e a Dio di essere battezzato». «Non si creda all'immagine di un ragazzo scapestrato e spericolato - ha chiuso l'omelia don Paolo - era invece pieno di gioia, dall'animo sensibile e dal tratto gentile, come i suoi occhi ed i suoi comportamenti sapevano esprimere». I COMPAGNI - I compagni della Terza D della scuola media Vettor Pisani, riescono a stento a concludere ciascuno il proprio pensiero fra le lacrime; frasi sentite, seppur di circostanza, e reali nella loro nuda verità: «Non ti dimenticheremo mai, eri un ragazzo buono e generoso». «Se si potesse tornare indietro a domenica - ha detto un ragazzo, applauditissimo al termine del suo intervento - direi a Cristiano di andare a fare un giro in barca. Ma non si può. Così, tutte le volte che mi verrà in mente di fare una stupidaggine, perché ci ci stiamo annoiando, dirò no, mi ricorderò di tutto questo e andrò a fare un giro in barca». Ma c'è chi proprio non riesce a concludere, fra i singulti. Allora il suo saluto, pur di terminarlo e dedicarlo al suo vicino di banco, è diventato un grido, disperato. È l'urlo che poco prima don Paolo auspicava, parlando delle grida dei puri e dei giovani, che sanno bucare il cielo e raggiungere Dio. Infine Chiara, zia di Cristiano, ha parlato in nome di nonna Lella, ricordando l'evoluzione dei giochi e della personalità di un ragazzo in piena crescita. Prima di concludere la mesta cerimonia, don Paolo ha invitato la comunità a stringersi attorno alla famiglia di Cristiano anche nei giorni a venire.

Pag XI “Aiutateci a salvare la chiesetta di villa Tivan” di F. Spo.

Mestre. A scatenare la polemica sulla pagina Facebook di Mestre MIA è stata qualche giorno fa la foto della chiesetta del parco di villa Tivan ricoperta di erba e piante fino al tetto. Anche questo è pericolante a causa delle tegole in stato di deperimento come la facciata di pietra bianca, ormai consunta. La domanda che si pongono i cittadini è quando e chi interverrà per ripristinare l'edificio del 700, dopo che la villa storica sul Terraglio era già stata restaurata. Questo non è l'unico tassello mancante, come sostiene l'associazione Parco Villa Tivan, nel percorso di riqualificazione avviato cinque anni fa. L'associazione nata il 1. aprile del 2016, oggi conta cinquanta associati soprattutto residenti, e cerca nuovi volontari. «Cinque anni fa l'area verde di villa Tivan era frequentata da tossicodipendenti e barboni. Avevo chiamato più volte la polizia e i carabinieri. Poi qualcuno ha divelto la recinzione a protezione degli alberi secolari, portando via le panchine», racconta Maurizio Povolato, presidente dell'associazione. Lui stesso si è occupato di contattare Veritas per rimediare alla crescita dell'erba, e regolarmente una volta al mese una ditta viene a tagliarla. Oltre allo stato di degrado della chiesetta di proprietà del Demanio, Povolato ha segnalato al Comune anche la presenza di tavoli rotti, e ha proposto di spostare l'ingresso al parco, che ora avviene sul ciglio di via Terraglio nel parcheggio scambiatore accanto. «Siamo anche in attesa della delibera per l'erogazione dell'acqua all'interno del parco, anche se la mia paura è che ripristinando le tre fontanelle, queste potrebbero essere attrazione per delinquenti e barboni. Sarebbe preferibile un attacco unico», spiega Povolato. L'associazione negli anni ha organizzato molti eventi, tra cui diversi mercatini, e in collaborazione con Ciotole piene e pance felici dal 2017 le feste dedicate ai cani. Il connubio tra le due associazioni ha un importante scopo benefico, perché i fondi raccolti dagli eventi sono devoluti a persone e animali in difficoltà. Grandi quantità di indumenti, cibo e medicinali sono stati portati dai membri delle associazioni in dono ai terremotati dell'Abruzzo, del Molise, in Campania, negli ospedali pediatrici e in case-famiglie.

Pag XII I tessuti Rubelli in mostra per aiutare il “Don Vecchi 7” di A.Spe.

Mstre. Apre al Don Vecchi di Carpenedo la mostra con i tessuti pregiati donati dalla ditta Rubelli alla Fondazione Carpinetum allo scopo di raccogliere fondi per la costruzione del settimo centro per anziani, da qualche settimana avviata al Villaggio solidale degli Arzeroni dove già si trovano il quinto e il sesto della serie. Ancora in agosto don Armando Trevisiol aveva annunciato di aver ricevuto un carico consistente (due furgoni) di materiale dalla nota azienda veneziana e di volerli mettere in vendita per contribuire ai 3 milioni 900 mila euro necessari per portare in porto la nuova opera che dovrebbe essere inaugurata entro un anno. Ora è il momento dell'esposizione, allestita nella sala Carpineta, che sarà aperta il primo ottobre alle 16 alla presenza del presidente della Carpinetum don Gianni Antoniazzi e dell'avvocato Alessandro Favaretto Rubelli e sarà visitabile ogni pomeriggio dalle 15 alle 18, con possibilità di acquistare qualcosa a fronte di un contributo. «Un signore si era offerto di comprare l'intero stock, ma la Fondazione ha preferito mettere a disposizione di tutti tale merce, stabilendo un'offerta minima - spiega don Armando - I titolari della ditta, Lisa Paola e Giuseppe Rubelli, erano molto amici di monsignor Valentino Vecchi e venuti a conoscenza del nuovo cantiere, hanno voluto contribuire al finanziamento». L'obiettivo del sacerdote «è di raccogliere almeno qualche decina di migliaia di euro» che andrà a sommarsi alla cifra di partenza già disponibile e pari alla metà dell'investimento, messa da parte grazie ad alcune eredità e a tantissime offerte. Il Don Vecchi 7 consterà di 57 miniappartamenti composti da soggiorno con angolo cottura, camera da letto, bagno, terrazzino e piccolo ripostiglio, già forniti di cucina e armadio guardaroba. Altri 20, invece, chiamati di Formula Uno, serviranno ad ospitare per qualche giorno chi si trova in città per motivi di lavoro o di salute (ad esempio i parenti dei degenti al vicino ospedale dell'Angelo). Andranno a sommarsi ai 438 alloggi dei sei centri attualmente gestiti dalla Fondazione - i due di Carpenedo, quello di Marghera, quello di Campalto e i due degli Arzeroni - e in cui vive mezzo migliaio di persone autosufficienti. «La lista d'attesa è lunga, per cui ne serve in più», sottolinea don Armando che per i suoi 90 anni, che compirà a marzo prossimo, spera di inaugurare l'ultimo Don Vecchi della serie, a 25 anni di distanza dal primo taglio del nastro.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 23 settembre 2018 Pag 13 “Nanni, vorrei essere in paradiso” di Giacomo Costa Cento palloncini e un grande orso bianco per l’addio al tredicenne ucciso da un muletto. La disperazione della mamma. Don Paolo: penso al tuo fischio domenica, se avessi saputo

Venezia. «Se si potesse comprare un biglietto per il paradiso lo prenderei subito, solo per rivedere un’altra volta quel tuo sorriso capace di cambiare in un istante la mia giornata. Mi manchi, mi manchi già tantissimo, Cristiano». La voce rotta dal pianto, i singhiozzi che dal microfono del pulpito riempivano la navata, contagiosi come il dolore. Ieri mattina, nella piccola chiesa di San Nicolò dei Mendicoli, centinaia di persone, gli occhi lucidi, i visi sofferenti, per l’ultimo saluto a Cristiano Lucchini, il ragazzino di 13 anni che domenica scorsa è rimasto ucciso sotto un muletto elevatore, all’interno del cantiere edile in cui si era intrufolato assieme ad un amico. «Nanni», come lo chiama la mamma Roberta, non era uno scavezzacollo, anzi: «Non cadiamo nell’errore di leggere tutta la vita di Cristiano attraverso le circostanze della sua scomparsa – ha sottolineato don Paolo Bellio durante l’omelia - non era un ragazzo spericolato, era solo un 13enne, vivace come è giusto che siano i giovani della sua età. Ma la sua vera caratteristica era la gentilezza, il suo continuo scommettere sulla bontà degli altri. Domenica ti ho incrociato in Marittima: mi hai chiamato con un colpo di fischietto, era una novità. Oggi continuo a sentire quel fischio, mi tormenta: se avessi saputo dove stavi andando avrei fatto di tutto per farti tornare indietro». Don Paolo conosceva bene Cristiano, quel ragazzino che aveva deciso di farsi battezzare dopo essersi avvicinato alla parrocchia, dopo la gita ad Assisi, dopo le esperienze con gli amici del patronato. La sua scelta già aveva scaldato il cuore della nonna Lella, che per anni ha cresciuto Cristiano: «Il giorno in cui me l’hai detto è stato uno dei più felici della mia vita – ha raccontato la nonna nella lettera, letta sull’altare dalla zia di Cristiano –. D’altronde eri tu che mi davi la forza di andare avanti, ogni giorno. Eri un bambino affettuoso e “coccolone”, i tuoi baci e i tuoi abbracci erano per tutti e mancheranno a tante persone». A cominciare dalle stesse colleghe della nonna, che ieri hanno voluto ricordare quel ragazzino dagli occhi vivaci che spesso faceva loro compagnia durante le giornate di lavoro: «Quando Lella ti portava con sé, i tuoi scherzi e le tue risate illuminavano tutto l’ufficio. Eri un bambino davvero speciale». Quando la bara smaltata di bianco è uscita dalla chiesa è stata accompagnata dal volo di cento palloncini, scappati verso l’alto, quasi a seguire lo sguardo di Cristiano nella foto scelta dalla famiglia, un’immagine che lo ritraeva durante una scalata, teso verso il prossimo passo, verso la prossima avventura. Per l’ultimo saluto, amici e parenti hanno affollato le rive e il ponte del rio delle Terese, in silenzio mentre la barca sfilava verso il cimitero, accompagnata da palloncini e un enorme orso bianco di peluche. Prima, però, è toccato ai compagni di classe ricordare Cristiano: «Sapevi sempre farci ridere, come quando ti nascondevi durante l’appello in aula, solo per saltare fuori all’ultimo momento lasciando di sasso il professore». Anche loro hanno condiviso l’amarezza di non aver saputo evitare la tragedia: «Se avessi saputo dove stavano andando Cristiano e Andrea domenica avrei detto loro di farsi un giro in laguna, invece – ha sussurrato un amico dal pulpito – D’ora in avanti, ogni volta che per noia o per stupidità mi verrà l’impulso di compiere qualche sciocchezza ripenserò a te, Cristiano, mi fermerò e piuttosto salirò in barca».

LA NUOVA di domenica 23 settembre 2018 Pag 18 Palloncini bianco azzurri e le note di “Dove sei” per l’addio a Cristiano di Nadia De Lazzari

Palloncini bianchi e azzurri hanno riempito il cielo davanti alla chiesa di San Nicolò dei Mendicoli gremita dentro e fuori di oltre 600 persone e in sottofondo le note della canzone "Dove sei" di Giorgia. Santa Marta e Sant'Elena ieri si sono ritrovate là. Per un attimo gli sguardi di tutti fissi sulla piccola bara bianca hanno alzato gli occhi e salutato Cristiano Lucchini, 13 anni, morto domenica, schiacciato da un muletto azionato per gioco. Ieri era il giorno del funerale e dell'abbraccio di un'intera città, uno strazio. Negli ultimi banchi confuso tra la folla c'era anche il sindaco Luigi Brugnaro. Ora rimangono le lacrime e i ricordi. Quelli dei compagni di classe della 3D della scuola media Pisani del Lido arrivati assieme ad altri da Pellestrina. In chiesa, i cuccioli d'uomo, hanno occupato tutta l'abside sinistra e si sono stretti composti e commossi l'uno all'altro. Alcuni hanno trovato il coraggio di leggere. «Caro Cristiano non riusciamo a crederci. Ci sembra impossibile che tu non entri in classe, magari in ritardo, e vada al tuo posto» . «Ti ricordiamo come un ragazzo sensibile. Quando con la scuola siamo andati in settimana bianca, quando eri più triste per la lontananza, ti chiudevi nell'armadio» . «Ti ricordiamo come un compagno divertente. Ti divertivi a farci il solletico cercando di trovare il nostro punto debole anche se la maggior parte delle volte non ci riuscivi mandando all'aria il tuo attacco a sorpresa». «Non ti dimenticheremo. Ci volevi sempre far ridere come quando ci hai chiesto di dire alla prof che eri assente mentre ti sei nascosto sotto il banco fino a quando non sei uscito con un "Buongiorno prof" e noi abbiamo riso tantissimo. Ci mancherai». Cristiano mancherà ai genitori, ai nonni Lella e Nando. «Quanti bei momenti, i soldatini, i Lego, i pirati, chissà perché vincevi sempre tu. Eri un continuo dare e non ti importava ricevere. Ci parleremo con il cuore». Il parroco Paolo Bellio che ha presenziato il rito funebre concelebrato con don Valter Perini, don Antonio Biancotto, don Andrea Longhini, un salesiano di Castello e un cappuccino del Redentore ha descritto l'adolescente Cristiano: «Era buono, educato, solare, allegro, generoso, curioso, vivace e aveva un tratto gentile. L'ultimo ricordo risale alla domenica della tragedia. L'ho visto a Santa Marta alle 17.45 (poco dopo è deceduto), mi ha salutato utilizzando un fischietto. Ora il suo fischio continua a ronzarmi dentro e non mi dà pace. Gli adolescenti continuano a fischiare perciò mi rivolgo agli insegnanti, ai genitori, alle parrocchie, alle istituzioni: lavoriamo insieme e di più per decifrare i fischi e dare ragioni di vita ai nostri ragazzi». E don Biancotto rivolgendosi ai parenti ha concluso: «Da parte nostra un grande abbraccio; siamo qui anche domani».

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 22 settembre 2018 Pag VIII San Michele, corsa per sistemare il cimitero di Tullio Cardona Alcuni recinti sono ancora preclusi ai parenti dei defunti a quaranta giorni dalla ricorrenza. Chiesa con cedimenti e senza luci. Mons. Fornezza: “Rischio chiusura”

Venezia. Un fiore, ormai secco, è tristemente infilato nel talloncino in metallo della grata che circonda l'ossario numero 21. È il pensiero per un defunto il cui loculo è impossibile da raggiungere, dal momento che il recinto, al cimitero di San Michele, è precluso con transenne da più di due anni per motivi di sicurezza. Come il numero 21, altri recinti appaiono inesorabilmente interdetti ed i parenti non sanno come posare un fiore o pulire la lapide dei loro cari. Ma il Comune ha intrapreso la strada degli interventi e ha avviato comunque un piano di restauro a lotti. LA SITUAZIONE - Manca quasi un mese al giorno dedicato ai defunti e la situazione dei recinti negati alla visita non sembra di dì facile o rapida risoluzione. «Vorrei sapere quando posso salire fino al loculo dove riposano le ossa di mia mamma - chiede Luciano Secchi - ormai sono due anni che non riesco a cambiare il piccolo contenitore per i fiori e depositarle una rosa. Ogni tanto in cimitero incontro qualcun altro appoggiato alle grate in metallo e ci facciamo la stessa domanda: quando inizieranno i lavori di restauro e l'ossario sarà nuovamente visitabile». CORSA CONTRO IL TEMPO - «Abbiamo ereditato a San Michele una situazione pesante - spiega Francesca Zaccariotto, assessore ai Lavori pubblici - almeno 10 recinti con assenza di manutenzione sia ordinaria che straordinaria. Nel recinto 21, con 2200 loculi, si erano verificati crolli ed è necessario sostituire le lastre lapidee con altrettante di calcestruzzo armato. Il progetto definitivo era del novembre 2017, ma ulteriori verifiche ed analisi approfondite nella fase esecutiva su tutta l'area, hanno reso necessaria la sostituzione delle lastre. Il rimpiazzo necessita per prassi dell'approvazione della Soprintendenza, autorizzazione arrivata in questi giorni. Fra l'approvazione del progetto esecutivo ed il bando di gara affidato a Veritas, prevediamo la fine dei lavori e la consegna del manufatto entro l'estate 2019». «Non siamo rimasti con le mani in mano - continua Francesca Zaccariotto - e l'amministrazione comunale pone attenzione pressoché quotidiana al cimitero. Abbiamo già riaperto il recinto 8 e il venti giugno è stato liberato dalle transenne anche il recinto 16, che conta più di mille loculi. Prima della ricorrenza dei defunti, contiamo di rendere fruibile anche il recinto 3. Il recinto 7 (1150 loculi) è già stato finanziato con un milione e 350mila euro - conclude l'assessore - Abbiamo applicato la legge dei grandi numeri, dedicandoci ai recinti che conservano più nicchie e loculi. La loro situazione era assolutamente pericolosa, con distacchi della pietra e cadute a terra di pesanti porzioni di lastre lapidee. Su settemilatrecento loculi ne mancano ancora mille da mettere a posto, fra nicchie ed ossari. Il piano definitivo esiste e viene perseguito, compatibilmente alle risorse di bilancio, ai tempi burocratici e alle autorizzazioni da richiedere alle altre istituzioni. Sempre prima dell'inizio di novembre riusciremo ad avviare i lavori di restauro nella chiesa, in conformità a quanto ci è stato segnalato dal parroco, mons. Ettore Fornezza».

Venezia. L'usura non ha colpito solo il cimitero, ma anche il suo tempio, dove piccoli cedimenti d'intonaco si verificano di continui. E manca la manutenzione. «Nella chiesa quattrocentesca del cimitero cadono continuamente calcinacci dai muri - denuncia preoccupato mons. Ettore Fornezza, rettore della chiesa di San Michele in isola e conservatore della basilica di Torcello - devo spazzarli via tutti i giorni dal pavimento. Qui e là ho transennato, ma l'interno del tempio resta pericoloso: due statue stanno perdendo i loro pezzi marmorei e ho installato dei faretti spot, volanti, altrimenti l'altare resta al buio, perché le altre fonti luminose sono saltate». RISCHIO CHIUSURA - «Siamo in una situazione di emergenza - ammette Fornezza - alla quale non riesco più a porre rimedio. Ogni tanto capita un geometra del Comune ma poi non so che fine facciano le sue relazioni, visto che nulla si muove e le cose intanto peggiorano, malgrado anche le mie continue segnalazioni. Se transenno tutto per giusta precauzione, risulta infine inutile entrare in chiesa e se i Lavori pubblici non intervengono sarò costretto a chiudere il tempio ben prima del giorno di novembre dedicato ai defunti». IL TURISMO - «Peccato - conclude il prelato - perché la chiesa, oltre alle celebrazioni delle esequie, è luogo di culto molto visitato dai turisti, che ne fanno meta sia di devozione che di sopralluogo artistico, dal momento che viene considerata la prima chiesa rinascimentale di Venezia». Opera dell'architetto Mauro Codussi, la chiesa venne realizzata tra il 1468 e il 1479 nell'isola di San Michele, anticamente chiamata Cavana de Muran, considerata la vicinanza con l'isola del vetro. Dai primi anni dell'Ottocento l'isola di San Michele ospita per tutta la sua superficie il camposanto. L'assessore ai Lavori pubblici, Francesca Zaccariotto, assicura che il restauro si farà, ma ormai è una lotta contro il tempo e il degrado.

LA NUOVA di sabato 22 settembre 2018 Pag 24 Parroco in difesa dei concittadini: “Troppe multe in via Istria” di Alessandro Abbadir Decine di sanzioni alla Gazzera anche per automobili parcheggiate in sosta vietata. Residenti arrabbiati, il prete sollecita una riflessione

Tensione continua in via Istria alla Gazzera, una strada che si trova a ridosso della chiesa di Santa Maria Ausiliatrice. Da giorni i residenti subiscono decine di multe della polizia municipale. Le ultime, date giovedì alle 3, hanno fatto infuriare gli abitanti che per protesta hanno attaccato ai pali della luce volantini con la scritta "Dove deve parcheggiare chi risiede in via Istria"? I residenti sono pronti fare anche proteste più pesanti se continueranno ad arrivare multe. Intanto ci sarà un sopralluogo dei tecnici comunali per trovare una soluzione non provvisoria. In questa zona, ci sono 95 famiglie e i parcheggi regolari sono 35, di cui 3 disabili. Tutte le famiglie hanno in media due auto chi tre, per cui anche possedendo un garage si resta scoperti. «Gli agenti» dicono i residenti «hanno detto che sono dovuti intervenire perché qualcuno continua a chiamarli per segnalare le auto in divieto di sosta. Dove dobbiamo parcheggiare? A chilometri di distanza dalle case?».Don Ottavio Trevisanato, parroco alla chiesa della Gazzera, si schiera in difesa dei residenti. «Capisco che le regole vanno rispettate» premette «Certo però, di fronte ad un problema del genere sarebbe opportuno che il Comune trovasse una soluzione ampliando se possibile gli spazi a parcheggio. C'è un'area dell'ex acquedotto in zona, ora dismessa che potrebbe essere utilizzata». I residenti chiedono poi l'utilizzo a parcheggio anche di due aree comunali che si trovano in una laterale di via Istria. Nei giorni scorsi, ricorda il parroco, i vigili hanno dato la multa anche agli invitati a un battesimo, rovinando la festa a tutti. L'assessore alla Sicurezza Giorgio D'Este è pronto ad incontrare i residenti per una soluzione condivisa. «Ho dato incarico» spiega «di fare sopralluoghi anche in questi giorni e nel week end ai tecnici per evitare il protrarsi di questa situazione spiacevole. Poi incontrerò i residenti. C'è da chiedersi come mai siano stati previsti così pochi parcheggi quando furono costruite le palazzine una quindicina di anni fa».

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8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO di sabato 22 settembre 2018 Pag 6 “I leghisti non sono cristiani”. Viaggio nel paese trevigiano “scomunicato” da don Paolo di Emilio Randon

Santa Lucia di Piave (treviso) Don Paolo, 46 anni, è un prete rock, guida la moto e gira in Bmw (modello 2005). Prete senza perpetua (ha la segretaria), è dotato di e-mail e pagina Facebook (frase preferita: «Tutte quelle di O.J. Simpson»), rasato fino a ieri oggi porta la barba (corta e ben curata), abitualmente veste in clergiman e in testa, quando può, si cala un zuccotto. È un prete moderno ma con la stoffa dura del saio. Insomma può sorprendere. La barba intanto: se le donne cambiano pettinatura quando cambiano uomo, cosa cova un prete che se la fa crescere? Già fatto, tutto avvenuto scritto e stampato sul bollettino parrocchiale «Insieme» dalle cui pagine don Paolo Cester, parroco di Santa Lucia di Piave, ha «scomunicato» gli elettori di Salvini. Tecnicamente toccherebbe al Papa, ma quanto a desideri ogni sacerdote può portarsi avanti con il lavoro. E lui lo ha fatto. «Non sono cristiani questi sedicenti cattolici che riempiono le statistiche (si riferisce a un sondaggio del quotidiano Libero che stima nell’85% i cattolici a favore del ministro degli Interni, ndr .), mandano i figli al catechismo e chiedono – tutti – funerali cristiani ma non entrano in chiesa e scoprono dopo anni – a volte tanti anni – che il loro parroco è cambiato. Costoro non sono cattolici, dire sono cattolico ma non sono disposto ad accogliere i disperati è una contraddizione assoluta. Equivale a dire: sono cristiano ma non credo nella resurrezione, è come dire: sono interista ma spero che vinca la Juve». Il giorno dopo il paese è andato in coma vigile, tramortito e senza parole: con il sole a picco di questo strano settembre vi potevano girare «Mezzogiorno di fuoco» o «Il buono, il brutto e il cattivo», con don Paolo nella parte del buono e il sindaco Riccardo Szumski a fare gli altri due. Non che Santa Lucia di Piave (9.400 abitanti, un decimo fatto da extracomunitari, benessere diffuso, povertà scarsa) sia diversa da qualsiasi altro insediamento della Pedemontana; qui le etnie politiche si spartiscono il territorio come altrove, gialli, rossi e verdi convivono nelle stesse proporzioni, quest’ultima sempre più ingombrante è vero ma non è una esclusività di Santa Lucia. La novità è che a Santa Lucia di Piave l’indicibile è stato detto – sine Ecclesia nulla salus e voi salviniani siete fuori - qui la brace che covava sotto la cenere ha preso fuoco e il conflitto tra chiesa e Lega è esploso come non si è visto da nessuna altra parte. Già sindaco e prete si guardavano in cagnesco dai due lati della piazza sulla quale entrambi hanno negozio, l’uno la canonica e l’altro lo studio medico (il sindaco fa anche il medico), in mezzo, un po’ scostata, c’è la statua in bronzo del Beato Fra’ Claudio che assiste impassibile. Finora era andata così: il medico riceveva i pazienti e, già che c’era, si prendeva cura anche della loro coscienza politica (i mutuati sono circa 1500 mutuati, le preferenze 2495), il secondo aveva in carico le anime. Con qualche sovrapposizione e alterne fortune – in fondo il popolo è lo stesso - ma nella reciproca sopportazione. Tutto ciò fino all’anatema di don Paolo, dopo di che le cose si sono parecchio complicate. «Sembra di essere a Brescello con don Camillo e sor Peppone a parti invertite – dice il sindaco nel suo ufficio comunale, in bermuda, un tipo tosto anche lui – io che faccio il conservatore, lui a fare il progressista, ma così non dovrebbe essere, entrambi abbiamo il compito di convincere le persone nel dialogo, non litigando». Riccardo Szmuski è un venetista oltranzista, neanche Zaia è riuscito a fermarne la rielezione («battezza», o meglio registra i neonati donando loro una bandiera con il leone di San Marco e un certificato trilingue di pura veneticità, la prima in dialetto), e nemmeno il prete è farina per ostie, oltranzista anche lui, a modo suo, lui sta con papa Francesco e, in fondo non ha fatto altro che portare a conseguenza ciò che il Santo padre ripete da sempre: che cioè non si può negare l’accoglienza a chi la chiede, è un obbligo cristiano, non si respinge il migrante, è un figlio di Dio. «Chi non lo fa non è cristiano» ha concluso don Paolo, come gli «interisti che tifano Juve» e tutti gli altri, conniventi, ignavi o complici che, pur senza darsi personalmente da fare per cacciare i migranti, stanno a guardare e votano Salvini. «Se ha detto questo, io che non sono mai andata in chiesa, ci vado di corsa per la prima volta e con entusiasmo» sbotta un’insegnante in pausa di mezzogiorno, ceto colto e riflessivo, col tempo pieno e poca voglia di parlare. «Consideri che sono di Conegliano - si scusa – quindi non c’entro». Non c’entra, però viene fuori che è una parente del sindaco. La famiglia è grande, il paese è piccolo e l’argomento è delicato. Magari c’entra il signore del tavolo accanto, ma è il bibliotecario e pur sempre un dipendente comunale. «Tra sindaco e il prete correva una vecchia ruggine da quando Szumski ha preteso l’Imu su certe pertinenze dell’ex parrocchia di Sarano dove don Paolo ospita una decina di extracomunitari. A quanto ne so non se ne è fatto niente. Ma per quanto riguarda l’argomento sui cristiani finti e i cristiani, no, in biblioteca non se ne parla». Paese piccolo, fronte mobile e cangiante, anzi nemmeno si sa dove sia il fronte tanto gli avversari sono mescolati, arruolati come sono su entrambi gli schieramenti. E non si presti troppa attenzione alla valanga di insulti che don Paolo si è preso sul web, la frattura attraversa le coscienze di ognuno e interroga tutti qui a Santa Lucia, chi più chi meno, coloro che bazzicano il lato della piazza dove c’è l’ambulatorio di questo strano sindaco-medico dai riti un po’ pagani e chi frequenta l’altro e va a messa, in fondo si tratta della stessa gente. «Ma poi, che c’è di strano in quel che dice don Paolo? - chiede Riccardo Sossai che di Szumski fu avversario nelle elezioni del 2017 - strano sarebbe che sostenesse il contrario, nel qual caso dovrebbe spretarsi». Don Paolo in questi giorni è irrintracciabile. Problemi personali. Per questo gli auguriamo di rimettersi presto.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’Europa terreno di contesa di Angelo Panebianco I rischi per la Ue

Si ricorre con più frequenza alle analogie storiche quando i tempi si sono fatti confusi, quando svaniscono i punti di riferimento tradizionali, quelli che in precedenza usavamo per interpretare il mondo. Si ricercano, nella storia passata, momenti e situazioni paragonabili, per quanto è possibile, alle circostanze presenti. Nella speranza di trovare una bussola che aiuti noi a orientarci. Poniamo che Steve Bannon, ex sodale di Donald Trump e teorico del nazional-populismo, e il suo progetto (quella che sembra a molti di noi una distopia, un’utopia negativa) di una Europa riconsegnata alla competizione fra Stati di nuovo pienamente sovrani, vincano. Poniamo che nelle prossime elezioni per il Parlamento europeo salti il banco, che ci sia il preannunciato boom elettorale dei nazional-populisti. Poniamo che cresca il condizionamento esercitato sui governi tedeschi da Alternativa per la Germania, movimento anti stranieri (e anti Europa), oggi terzo partito al Bundestag, che in Francia il declino del consenso popolare per Macron renda di nuovo credibile la sfida lepenista, che in Italia i nazional-populisti oggi al governo mettano radici, che movimenti simili continuino a rafforzarsi ovunque. L’Unione Europea, lungi dal superare l’attuale crisi, avrebbe poche possibilità di riprendersi. Immaginiamo, infine, che i legami inter-atlantici (anche causa la riconferma di Trump, fra due anni, per un secondo mandato presidenziale) continuino a logorarsi. Se quanto detto sopra si realizzasse, a quale costellazione storica del passato dovremmo riferirci per tentare di comprendere la nuova situazione europea? Possiamo azzardare che in tal caso l’Europa si troverebbe in una condizione paragonabile a quella dell’Italia nella prima metà del Cinquecento: nell’arco di tempo che va dal 1494, anno della calata in Italia del re di Francia Carlo VIII, al 1559, anno del trattato di pace di Cateau-Cambrésis. Per tutto quel periodo, con brevi tregue, Francia e Spagna (Francia e Impero asburgico sotto Carlo V dal 1519 al 1556) si disputarono il controllo dell’Italia. La contesa finì nel 1559 con il trionfo della Spagna che si assicurò, dal Regno di Napoli a Milano, l’egemonia su gran parte della Penisola. L’Italia dopo il 1494 era diventata terreno di contesa fra le potenze europee perché aveva due caratteristiche (che si ritrovano anche nell’Europa di oggi): era ricca di risorse e di prestigio ed era politicamente frammentata, divisa fra Stati rivali, incapaci di fare fronte unico contro gli appetiti di quelle potenze. In un’opera classica dedicata alla «Storia delle repubbliche italiane» del 1832, lo storico ed economista Sismondi scrive: «Alla fine del secolo XV i signori delle nazioni francese, tedesca e spagnola furono tentati dall’opulenza meravigliosa dell’Italia, dove il saccheggio di una sola città prometteva loro a volte più ricchezze di quante ne potessero strappare a milioni di sudditi. Con i più vani pretesti essi invasero l’Italia che, per quaranta anni di guerra, fu di volta in volta devastata da tutti i popoli che poterono penetrarvi. Le esazioni di questi nuovi barbari fecero infine scomparire l’opulenza che li aveva tentati». Consideriamo ora il caso di una possibile Europa «disfatta»: fine dell’egemonia statunitense, fine dell’integrazione europea, ritorno pieno a un’Europa di Stati nazionali non più vincolati – come fino ad oggi è stato – da quella egemonia e da quella integrazione. Immaginiamo la situazione più rosea, uno scenario in cui siano assenti, a differenza di quanto accadde nell’Italia del Cinquecento, conflitti armati (anche se sappiamo che lungo la frontiera fra i Paesi della Nato e le zone di influenza russa potrebbero prima o poi scoppiare gravi incidenti). L’Europa diventerebbe comunque terreno di contesa fra grandi potenze. La prima ad avvantaggiarsi dal declino dell’egemonia statunitense e dal contestuale arresto del processo di integrazione europea sarebbe ovviamente la Russia (che, insieme a certi suoi amici europei, sta già lavorando attivamente per quel risultato). Punterebbe a sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di lord protettore dell’Europa. «Poco male» dicono coloro che non capiscono quali effetti avrebbe sulle società di cui fanno parte, e sulle loro stesse vite, il passaggio dall’egemonia di una potenza democratica e liberale a quella di uno Stato illiberale. Figuratevi un po’: gli esperti di Russia pensano che Putin sia il meglio che ci sia oggi su piazza da quelle parti. I suoi successori, per propensioni autoritarie e vocazione imperialista, saranno, verosimilmente, peggiori. Ma la Russia non avrebbe campo libero. Incontrerebbe ostacoli nell’azione delle altre grandi potenze. Anche se politicamente ridimensionati, non più in grado di esercitare un’incontrastata egemonia, gli Stati Uniti, di sicuro, non abbandonerebbero del tutto il campo: cercherebbero comunque di contrastare la pressione russa sull’Europa. C’è poi la Cina con le sue ambizioni imperiali, la nuova Via della Seta e tutto il resto, con i suoi investimenti massicci, oltre che in Asia e in Africa, anche nel Mediterraneo e in Europa. La ricca e divisa Europa diventerebbe la posta di una competizione (si spera, per lo meno, pacifica) fra le grandi potenze di oggi. In un’Europa divisa si riaccenderebbero molte rivalità, fino ad ora (dopo il 1945) solo sopite: forse il braccio di ferro fra Italia e Francia sulla Libia preannuncia una nuova fase di tensioni fra europei per le questioni più disparate. A sua volta, la ripresa delle tensioni faciliterebbe, soprattutto nei Paesi europei meno coesi e con le istituzioni più deboli, la formazione di fazioni – partiti o correnti di partito – legate a filo doppio all’una o all’altra delle grandi potenze rivali. Per non parlare del fatto che in una Europa divisa, e terra di immigrazione dal Medio Oriente, aumenterebbero ancor di più la presenza e la capacità di influenza di alcune potenze (autoritarie) mediorientali. Le élite europeiste o cosmopolite che pensavano che in Europa lo Stato nazionale fosse ormai «superato» hanno commesso gravi errori. Hanno facilitato la reazione detta sovranista. Della perdurante vitalità degli Stati nazionali l’Europa deve tenere conto. Ma gli europei che subiscono il fascino del richiamo nazional-populista dovrebbero considerare quale prezzo pagheremmo tutti se quel progetto si realizzasse.

Pag 10 La psicologia del Paese in un vuoto settembre di “sconcerto” di Giuseppe De Rita

A settembre da molti anni la classe dirigente italiana cerca di capire qual è lo stato d’animo collettivo in cui si avvia l’anno di lavoro. Nessuno sa con certezza cosa avverrà nei mesi da ottobre a giugno, ma a tutti sembra giusto prendere atto dell’andamento della psicologia collettiva del Paese. In alcuni anni ci si è sentiti perduti di fronte a un pessimistico «siamo sull’orlo del baratro»; in altri ci si è adagiati in una magari apparente continuità di quel che avviene ed avverrà; in altri ancora ci si è sentiti coinvolti dall’ardore attivistico dei soggetti a più alta vitalità (ricordo gli anni della rampante vitalità delle piccole imprese e degli emergenti localismi industriali). E sempre in questa autunnale presa d’atto della cifra del prossimo futuro, imprese e famiglie hanno trovano spunti ed elementi per le loro strategie d’azione. Quest’anno le cose vanno diversamente: si può dire che nel convulso rincorrersi di posizioni e sentimenti diversi, si nota un settembre vuoto di interpretazione delle prospettive a medio termine, forse addirittura un settembre «di sconcerto», dove alla perplessità per l’attuale modo di governare si accompagna la sensazione di un insieme di suoni disarmonici e dissonanti. Gli attuali orientamenti dell’opinione pubblica sono sempre più articolati ed ineguali, con una accentuata diversificazione delle chiamate in causa delle scelte politiche. In questo insieme di orientamenti e di scelte, certo sussiste ancora quell’orientamento al rancore che ha segnato da un paio d’anni la psicologia collettiva del Paese, ma esso sta dimostrando la sua debolezza come strumento del governare e in fondo anche il lento declino di quel che si usa chiamare «forza propulsiva». Restano comunque in campo molti rancori nei sospettosi e vendicativi verso i diversi mondi dell’establishment e delle élite sociali e culturali. Cresce molto la tentazione di rendere vertenziali i rapporti con i poteri sovranazionali, specie quelli comunitari, magari cedendo alla antica propensione a combinare molti nemici e molto onore. Si tende spesso a confondere sotto il vessillo del primato della politica anche la terzietà dei poteri istituzionali e della loro funzione. E il tutto avviene in un molesto rimbombo di parole. Un linguaggio orchestrale non si afferma, vince solo chi si fa un concerto tutto suo, con le sue impressive cabalette ed i suoi acuti squillanti. Con un innegabile aumento dello sconcerto degli spettatori. Spettatori che certo, da italiani storici amanti della lirica, sono spesso in trepida attesa della cabaletta e dell’acuto, ma avrebbero anche bisogno di una pur rozza interpretazione di quel che sta avvenendo e di quel che di conseguenza si vuole fare. Una volta a settembre gli antichi protagonisti della politica se ne uscivano con un documento (chiamato «preambolo», «nota aggiuntiva», ecc.) che cercava di dare il quadro generale dei fenomeni sul tappeto. Ma il mondo cambia e forse un documento siffatto sarebbe inaccettabile nel giocoso rincorrersi di impegnative dichiarazioni che alimenta oggi la cronaca politica. Ma non sarebbe inutile.

Pag 34 Pd, il partito “doppio” che non riesce a discutere di Paolo Franchi

Antonio Polito (Corriere, 19 settembre) ha sollevato sulle sorti del Pd questioni importanti, che meritano di essere approfondite e discusse. E ha messo a fuoco un punto politico che i protagonisti, impegnati in un tragicomico balletto di proposte di autoscioglimento avanzate e ritirate, nonché di cene convocate e sconvocate, non hanno il coraggio di enunciare. C’è, nonostante tutto, un futuro per il Pd? Per tentare una risposta, occorre anzitutto prendere atto che l’ipotesi stessa su cui il Pd nacque, dieci e passa anni fa, è andata in fumo da un pezzo. Forse questo partito è nato troppo tardi, affrettando un fallimento (quello del governo dell’Unione e della maggioranza «da Mastella a Bertinotti», capeggiati da Romano Prodi) e non offrendo una speranza di vittoria, nonostante il tentativo di di fondarlo su una visione del mondo. Forse non è mai nato davvero come casa comune del centrosinistra, ma solo come frutto di una fusione a freddo tra i post comunisti dei Ds e i post democristiani (non solo di sinistra) della Margherita, destinata a produrre, parola di Massimo D’Alema, un «amalgama mal riuscito». Sicuramente, e su questo Polito ha del tutto ragione, è nato per così dire a tempo scaduto, tardo blairista e tardo clintoniano nell’immediata vigilia di una crisi finanziaria, economica e sociale destinata a togliere spazio, identità e voti a riformismi e a riformisti, o se si preferisce a neoliberalismi e a neoliberali, che ragionavano in termini di società affluente. In ogni caso, ha smesso di smuovere passioni, entusiasmi e consensi un minuto dopo le elezioni del 2008, perse, sì, ma con un 37 e mezzo per cento, più di 14 milioni di voti, che oggi sembra appartenere, e in effetti appartiene, a un altro tempo e a un altro mondo. I tentativi di rianimarlo e di restituirgli un senso e una prospettiva, la «ditta» di Pierluigi Bersani come il partito personale di , sono falliti, il secondo più fragorosamente del primo. Così che il Pd si ritrova davanti, ma stavolta ridotto a un passo dalla marginalità politica, a qualcosa di non troppo dissimile dai contrasti che a inizio secolo ne rallentarono la nascita, e poi ne resero claudicante l’incedere. Caso più unico che raro nella storia dei partiti politici, non si è mai impegnato, dopo una sconfitta storica, in qualcosa di simile a un’analisi del voto, per mettere a fuoco dove, come e perché aveva perso. Al di là delle impuntature di Renzi e dei litigi nel (si fa per dire) gruppo dirigente, anche qui una ragione deve esserci. Perché è proprio sull’analisi del voto del 4 marzo, prima ancora che sul che fare in vista delle elezioni europee, che le posizioni si divaricano, o meglio, si divaricherebbero, se potessero esprimersi compiutamente. Per dirla bruscamente. Il problema è cercare di recuperare almeno una parte di quei milioni di elettori che hanno voltato le spalle al Pd e a una sinistra nella quale non si riconoscono più, considerandola ormai non solo lontana, ma anche ostile? In questo caso, il campo di gioco, attualmente ai limiti dell’impraticabilità, è quello di una sinistra da ricostruire, da ridefinire, da cambiare: campagna lunga, e dall’esito incerto. Oppure si tratta di lasciarsi rapidamente alle spalle quel poco che resta di una vecchia storia per andare ben oltre la stessa figura politica del Pd renziano, perché in Italia e in Europa il cuore della lotta politica batte ormai altrove? E allora gli interlocutori (e soprattutto gli elettori) possibili stanno da un’altra parte, una volta si sarebbe detto al centro, tra i cosiddetti moderati, oggi diremmo tra quanti possono essere mobilitati per contrastare populismo e nazional- sovranismo: campagna lunga ed esito incerto anche qui. A chi propende per la prima ipotesi, spetterebbe l’onere di dimostrare come si fa a battere il populismo sul suo terreno senza assumerne le sembianze e diventarne la ruota di scorta. A chi coltiva la seconda, più vicina all’impianto originario del partito, toccherebbe spiegare come potrebbe mai fare il Pd a recuperare, procedendo per questa via, oltre a un eventuale plauso dell’Economist, anche i voti (di popolo, di giovani, di ceti medi) che ha perduto. Certo: la scelta dell’una o dell’altra prospettiva potrebbe comportare anche una separazione, quanto consensuale è tutto da stabilire. Già si è scritto: siamo di nuovo ai Ds e alla Margherita? Può darsi che aleggi nell’aria anche un certo qual odore di naftalina. Ma, se non su questo, su cosa mai dovrebbe discutere, dilaniarsi, e all’occorrenza spaccarsi in un congresso di cui non è dato ancora sapere nemmeno la data e che, peraltro, non esiste nemmeno nello statuto del partito? Ha detto al Fatto , il giovane economista che ha fondato la rete «Sinistra anno zero» e gira l’Italia per riscoprire, e ove possibile rianimare, la sinistra medesima: «Bisogna capire se basta un partito o se si deve prendere atto che non si può tenere insieme chi vuol fare Corbyn e chi Macron». Fare Corbyn? Fare Macron? Torna alla mente un’antica leggenda del Corriere, quella dell’editorialista che chiedeva al direttore se avrebbe preferito un fondo alla Montanelli o un fondo alla Scalfari, e si sentiva rispondere: fai te stesso, se ci riesci. Ma il problema è che, per fare se stessi, occorre prima di tutto esserci. Il Pd non c’è, da molto prima del 4 marzo 2018. Per questo prova a esorcizzare la questione, o almeno a tenerla lontana, sullo sfondo, nella speranza (vana) che perda consistenza.

IL GAZZETTINO Pag 1 La rischiosa deriva del socialismo inglese di Marco Gervasoni

Oh Jeremy Corbyn cantano i militanti del Labour party, che ha aperto ieri il suo congresso a Liverpool, tributando un culto del capo ormai diffuso anche a sinistra. La posta in gioco è importante: decidere che fare sulla Brexit, cambiare il gruppo dirigente (emarginando ciò che resta del vecchio blairismo) e, magari, prepararsi alle elezioni che Theresa May, dopo essere stata politicamente malmenata a Salisburgo dalla Ue, è tentata di anticipare a novembre. Ma le eventuali elezioni ravvicinate potrebbero dire la verità sul Labour di Corbyn: contrariamente a quanto credono i suoi estimatori, è secondo noi un fenomeno sopravvalutato, una tigre di carta, per usare un linguaggio maoista tornato di moda nel Labour. Di fronte a un governo come quello di May che, come si dice oltre Manica, è in «office but non in power», cioè non decide nulla perché diviso su tutto, normalmente il Labour dovrebbe dettare l'agenda politica e svettare nei sondaggi. Al contrario, è da mesi in affanno e comunque dietro ai conservatori, mentre sull'agenda politica i laburisti non incidono perché impegnati a scannarsi tra loro. È vero che i Tories sono talmente frantumati da essere sull'orlo di una scissione - c'è chi si muove a raccogliere fondi per creare un nuovo partito Tory decisamente pro Brexit. Ma anche i laburisti si sfidano all'arma bianca tra loro. Una parte sostiene il «secondo referendum», l'incredibile (e, secondo noi, politicamente sbagliata) idea di ripetere il referendum sperando che questa volta il Remain vinca, mentre un'altra parte vorrebbe restare nell'ambiguità. La divisione riflette anche la composizione sociologica di questo nuovo vecchio Labour, sempre meno votato dagli operai (che sono tendenzialmente pro Brexit) e in cui una classe media urbana, radicalizzata all'estrema sinistra, è favorevole invece a «stare in Europa». Questa classe media sposa entusiasticamente il multiculturalismo, professa un antirazzismo di maniera, teorizza una società «meticcia» in cui l'uomo bianco inglese sconti le sue colpe, è infine molto tenera, per usare un eufemismo, nei confronti dell'islamismo. Proprio questa nuova militanza ha trasformato il Labour in un partito violentemente anti sionista, anti Israele e in alcuni casi, persino antisemita: un antisemitismo e un antisionismo diffusi nelle comunità islamiche che vedono sempre più nel Labour il loro referente. Questa pericolosa tendenza dei partiti socialisti a trasformarsi in sindacati politici delle enclave immigrate è purtroppo diffusa in altri membri del Pse: il belga, l'olandese, ma anche lo svedese e in certi tratti persino il tedesco. Si tratta dello snaturamento dell'identità socialista tradizionale, favorevole all'integrazione, per una nuova proposta multiculturalista: del resto a votare questi partiti sono in alcuni casi più gli immigrati che i cosiddetti nativi. Se fossimo militanti socialisti o del Pd faremmo perciò molta attenzione ad affidare il nostro futuro al modello Corbyn. Che affascina una socialdemocrazia europea moribonda proponendole un'uscita a sinistra per invertire il declino, attraverso un (apparente) ritorno alle origini. La strada di Corbyn è infatti opposta al «progressismo» di Macron, che è un fenomeno di «destra» sul piano economico ma di «sinistra» sul piano dei valori: come quella di Macron, anche quella del Labour è però una via senza uscita, che non aiuterà i socialisti a guarire la loro malattia. Una crisi strategica e di identità che essi condividono con gli altri partiti mainstream: se il Pse piange, il Ppe certo non ride, spaccato tra la tentazione del dialogo con i sovranisti, a cui si rivolgono ormai molti loro elettori, e una tendenza che invece vorrebbe rigenerare il conservatorismo in un lavacro «antipopulista». Ma le difficoltà del Labour dimostrano che il «populismo di sinistra», di cui Corbyn è un rappresentante, non possiede la stessa potenza espansiva del sovranismo nazionalista. Gli unici partiti che, al momento, sembrano dotati di idee chiare sembrano infatti proprio i sovranisti: perché, più delle vecchie organizzazioni mainstream, nate durante la guerra fredda, sono creature nuove che hanno intercettato, per quanto in maniera selvaggia e approssimativa, le coordinate dei tempi nuovi.

LA NUOVA Pag 1 Tra commedia e risse continue il Pd si schianta di Francesco Jori

L'ammaina-sinistra: da falce & martello a forchetta & coltello. La commedia delle cene delle beffe andata in scena in casa Pd, mette a nudo lo stato catatonico di un partito che nei suoi dieci anni di vita è riuscito nella singolare impresa di dimezzare i consensi. Senza peraltro dare segno di smettere: tra risse interne e inconsistenza esterna, i Democratici rischiano di scivolare in una marginalità a tempo indeterminato. Di tutto si discute e su tutto si litiga: su cambiare nome alla ditta o chiuderla; su chi far sedere a tavola e su chi estromettere; su tenere il congresso domani, dopodomani o forse mai. Con una sola, granitica certezza: chiunque riuscirà a mettersi alla guida del partito, gli altri gli taglieranno le gomme. Com'è successo fin qui ad ogni segretario, da Veltroni a Renzi. Tutto concentrato e autocentrato sulle cose di bottega, il Pd ma pure la sinistra in genere trascurano di mettere mano alla vera priorità: capire le ragioni profonde dell'emorragia di consensi, anziché cavarsela scaricandone le colpe su un singolo leader o su una classe dirigente. Analisi che sarebbe invece fondamentale, specie perché nel caotico quadro politico italiano si stanno innescando processi tutt'altro che effimeri, e destinati a rivoluzionare un quadro rimasto sostanzialmente ingessato nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, al di là del vorticoso cambio di simboli e sigle di partiti. Troppo comodo e riduttivo cavarsela assegnando etichette di populismo a prescindere: in realtà, se nel voto delle politiche di quest'anno si è registrato un trasferimento di consensi dalla sinistra ai grillini (fatta la tara dell'astensionismo massiccio), oggi si va profilando un flusso per ora modesto ma indicativo da questi ultimi alla Lega. Con conseguenze di lungo periodo non marginali. La principale delinea uno scenario in cui emerge un nuovo protagonista: un centrodestra che poco o nulla ha a che spartire con quello classico, connotato com'è a trazione leghista, ma a sua volta con una Lega radicalmente altra rispetto a quella del passato; e con il lento ma inesorabile evaporare del fattore Berlusconi. In sostanza, è come se si stesse verificando un travaso di consensi dalla sinistra al neo-leghismo canalizzato attraverso i grillini; con un'inedita competizione a due verde-rossa che d'altra parte è già in atto da tempo nelle urne. Nelle quattro regioni rosse (Emilia, Toscana, Marche, Umbria), nei cinquant'anni tra il 1968 e il 2018, il centrosinistra ha perso trenta punti, passando dal 59 al 30 per cento. Per contro, a livello nazionale la Lega salviniana oggi è valutata sopra il 30, consentendo al centrodestra di sfiorare ormai il 50. Pensare che la risposta a queste dinamiche sia fare opposizione spiando il biglietto aereo di Di Maio per capire in che classe ha volato per andare in Cina, comporta un unico devastante esito. Andare a schiantarsi.

CORRIERE DELLA SERA di domenica 23 settembre 2018 Pag 1 L’opposizione spiazzata di Francesco Verderami

Nel ’94 i partiti della Prima Repubblica ritennero la vittoria elettorale di Berlusconi una parentesi che si sarebbe presto chiusa. Invece fu il preludio a un cambio di sistema. Allo stesso modo oggi le forze che sono state protagoniste della Seconda Repubblica scommettono su una breve durata del governo nato dal «contratto» tra M5S e Lega, come a voler respingere la tesi di un nuovo regime-change. Eppure la situazione sembra riprodurre lo scenario di ventotto anni fa, con l’aggiunta di altri due fattori: il primo è che stavolta - rispetto al ’94 - entrambi i blocchi politici sono stati travolti dal voto; il secondo è la postura assunta dalle forze sconfitte. Tanto in Forza Italia quanto nel Pd è in atto un dibattito su come rapportarsi con i vincitori. È vero che Berlusconi ha un legame storico con il Carroccio, ma è altrettanto vero che rincorrere Salvini per stringere accordi alle Regionali, mentre il leader della Lega governa con Di Maio a livello nazionale, offre un’immagine di subalternità e prelude al passaggio di consegne in una coalizione che cambierebbe così la sua natura: non più a trazione popolare ma a trazione populista. Sul fronte opposto i Democratici, quando andranno a congresso, dovranno sciogliere il nodo che già li divide e preannuncia di spaccarli: si può governare insieme ai grillini o il Pd deve restare alternativo al Movimento? Il timore, a destra come a sinistra, è di dover scegliere se accucciarsi in ruoli ancillari o trasformarsi in partiti di testimonianza. Anche perché Cinquestelle e Lega oggi paiono controllare il sistema da una posizione centrale rispetto al Pd e Forza Italia, che per tradizione e provenienza sono impossibilitati a coalizzarsi. Su questo Di Maio e Salvini fanno affidamento per suggellare la nuova stagione politica. E il loro esecutivo ha ormai riflessi internazionali. In vista del voto per l’Europarlamento, dove viene pronosticata una forte avanzata del fronte sovranista, gli argini che i partiti tradizionali stanno tentando di costruire si mostrano come altrettanti indizi a sostegno della tesi del regime-change. Come valutare altrimenti la posizione assunta dal tedesco Weber, candidato di punta del Ppe alla presidenza della Commissione, che si è detto favorevole al dialogo con i populisti per il futuro «governo» di Bruxelles? E sull’altro versante, quale appeal può avere sull’elettorato di sinistra l’idea - sponsorizzata dal Pd - di costruire un eterogeneo cartello tra Pse, Macron e Tsipras? Sembra una riedizione dell’alleanza tra Prodi, D’Alema e Bertinotti, nata per arginare il berlusconismo e che fu foriera di continue crisi interne. Insomma, l’impressione è che al momento tutto sia mosso da una logica emergenziale, quasi di sopravvivenza. La crisi del sistema ha lasciato le forze che lo hanno guidato prive di idee e di leader. E il dileggio o l’offesa come forma di reazione aggiungono un ulteriore indizio alla tesi della nuova fase: il «merde alors», pronunciato dal ministro lussemburghese Asselborn contro Salvini, evoca il gesto del socialista belga Di Rupo che nel ’94 rifiutò di stringere la mano a Tatarella, vicepremier del governo Berlusconi. E più i tentativi di risposta si mostrano affannosi, più viene messo in risalto per contrasto il disegno dei partiti antagonisti, che hanno costruito nel tempo il loro progetto: i grillini infatti partirono più di dieci anni fa alla conquista di Roma con il primo «vaffa-day»; e sono serviti cinque anni a Salvini per risollevare la Lega e trasformarla in un movimento a dimensione nazionale. La loro prova di governo aiuterà a capire se un vero processo è in atto o se si tratta solo di una bolla. Finora nell’esercizio del potere sono risaltati soprattutto visioni e interessi confliggenti che minacciano costantemente di sfociare in una crisi. Ma oggi l’eventuale fallimento di questa esperienza non garantirebbe ai partiti avversari una rivincita. Per sopravvivere ai banchi dell’opposizione può bastare far l’elenco delle contraddizioni (sull’uscita dall’euro), delle retromarce (sulla chiusura dell’Ilva) o delle incertezze (sui vaccini), che l’alleanza giallo-verde ha già inanellato. Per costruire un’alternativa serve invece disegnare un nuovo orizzonte, progettare un rilancio sostenibile dell’economia reale che aiuti finalmente i cittadini ad innaffiare i loro giardini arsi. E serve il tempo necessario a far emergere nuovi leader, credibili quanto capaci di misurarsi anche in un nuovo sistema.

AVVENIRE di domenica 23 settembre 2018 Pag 1 Un figlio e molto altro di Maurizio Patriciello Flavia, l’aborto rifiutato, il piccolo G.

Era ancora minorenne, Flavia, quando rimase incinta. Rimase turbata e piena di paure. Come dirlo ai genitori? La situazione economica familiare era a dir poco disperata. Stefano, il fidanzato, appena qualche anno in più, non ne voleva sapere di quel figlio che veniva a turbare i suoi progetti. Unica soluzione, l’aborto. Flavia si ritrovò contro il padre e la mamma. Sola, confusa, depressa, tentava di far sentire la sua volontà. Inutilmente. Troppo debole, troppo fioca per essere ascoltata. Fu fatto tutto nel giro di pochi giorni, con uno zelo degno di miglior causa. Documenti, appuntamenti, permessi. Tutto era pronto quella mattina. 'L’intruso' sarebbe andato via. Si ritornava a vivere. Flavia piangeva, si disperava, cercava di suscitare la pietà dei suoi. Niente da fare. In fondo era così giovane, avrebbe dimenticato in fretta quell’incidente di percorso, pensavano. Il suo fidanzato le aveva promesso di ritornare con lei se si fosse liberata dall’ingombro. Una cosa di routine, in fondo, come estirpare un’antipatica verruca. La banalità del male. E Flavia si arrese. O, almeno, così apparve a chi le voleva bene. Sfinita, stanca di soffrire e di lottare, fu accompagnata in ospedale. Continuava a invocare aiuto. Pregava. Piangeva. Pensava: i problemi erano tanti, davvero, ma non era quella la soluzione. In clinica Flavia incontrò Daniele, un nostro volontario, amante della vita e dell’Autore della vita. Un uomo buono, paziente, che ha imparato a conoscere il cuore umano, le sue paure, le angosce, le speranze. Ma, soprattutto, che sa bene che la maggior parte degli aborti dei poveri potrebbe essere evitata se questa nostra ipocrita società venisse incontro ai loro bisogni. Daniele intuisce. Cerca di avvicinare Flavia. Non è facile. Grazie all’aiuto di Daniele e delle parrocchie cui fa riferimento sono nati negli ultimi anni almeno un centinaio di bambini destinati all’aborto. Cose che difficilmente si dicono, si scrivono, si raccontano. Quante vale la vita di un essere umano? Quanto dovremmo essere disposti a rischiare, a pagare, per strapparla alla fogna e farle contemplare l’azzurro del cielo? Daniele, naturalmente, non sa che Flavia, per poche settimane, è ancora minorenne. L’avvicina con garbo, le parla, le offre un opuscoletto. «Parla, Signore, che il tuo servo ascolta». La potenza della preghiera. Quando Daniele, Gianna, Stefania, Briana, Maria vanno in 'missione', tanti credenti, a casa, pregano. Non tutti sono contenti di quella presenza, ma la loro bontà, il rispetto che hanno per tutti, gli aiuti concreti che offrono finiscono con l’intenerire anche i più duri. Flavia entra in clinica. Tutto è pronto. Viene stesa sul lettino. Ancora un poco e tutto sarà finito. Quel che succede nel cuore di questa ragazza coraggiosa e bella non lo sapremo mai. Chiama a raccolta tutte le sue povere forze, scende, scappa via. Non vuole rinunciare a quel figlio. Già lo ama. Daniele le ha dato il coraggio di fare la sua scelta, e contro il parere di tutti torna a casa. I giorni che la separano dalla maggiore età passano in fretta. La famiglia pian piano accetta. Un’altra vittoria della vita sulla morte. Un altro essere umano strappato alla morte all’ultimo momento. Noi eravamo felici. Scrissi di lei, raccontai la sua storia. 'Avvenire' la pubblicò come editoriale. Un signore che non conosco promise e inviò un aiuto con il quale abbiamo assistito Flavia per tutto il tempo della gravidanza. Pochi mesi fa è nato G., un bambino stupendo. Un capolavoro che solo Dio sa creare. Un essere destinato a dare vita ad altre vite. Un uomo per il quale Gesù Cristo è morto. Pochi giorni fa Flavia lo ha portato in chiesa, me lo ha deposto tra le braccia. L’ho guardato con commozione, stupito da tanta bellezza. Che opera d’arte. Flavia non era sola, con lei, a fare da custode al bambino, c’era Stefano, il suo giovane papà. Grondava di orgoglio e di gioia. «Vuoi darlo a me?», gli chiedo scherzando. Mi sorride. Capisce. «No, padre, guai a chi lo tocca...». A casa anche i nonni sono euforici per l’arrivo del piccolo. Mi ritorna in mente Chesterton, uno scrittore che non smetto mai di leggere: «L’ avventura suprema è il nascere. È allora che cadiamo improvvisamente in una splendida e sorprendente trappola. È allora che vediamo davvero qualcosa che non abbiamo mai sognato prima... La vita è sempre un romanzo. La nostra esistenza può smettere di essere un canto, può smettere persino di essere uno splendido lamento, ma è pur sempre una storia. Nell’incandescente alfabeto di ogni tramonto si legge 'segue nel prossimo numero'». Grazie, Flavia.

Pag 2 Pierluigi, ostaggio della missione di Mauro Armanino Un fratello e un padre in mano ai rapitori di speranza nel Niger

Era tornato da una settimana dall’Italia. Pierluigi Maccalli era da tempo “ostaggio” del popolo gourmanché di questa porzione del Niger. Il villaggio dove operava dal 2007, Bomoanga, non è menzionato dalla cartine geografiche della regione. “Case sparse”, così possono essere definite quelle che con i loro pochi cortili si accostano alla Missione dove Pierluigi, padre e fratello, abitava fino alle 22, ora locale, di lunedì 17 settembre. Ostaggio della missione che ha vissuto prima in Costa d’Avorio, poi in Italia per la “ri- animazione” missionaria e poi nel Niger. Fino a oggi. I contadini, invisibili ai più, di origine frontaliera, in parte aperti all’annuncio evangelico, sono i fattori che lo hanno legato a questa terra di sabbia. Ce lo ha detto fin dal principio: in questa terra di missione bisogna “durare”, se si vogliono cogliere frutti un giorno. Il primo frutto è lui. Colto nella sua camera, aperta 24 ore al giorno, per accogliere visite, ammalati e bisognosi di aiuto. Non era strano che anche quella notte qualcuno bussasse alla sua porta e che lui aprisse senza alcuna remora malgrado le tensioni esistenti nella zona. Si sapeva che gruppi armati si erano installati e molestavano la gente del posto, impreparata alle vicende legate al terrorismo. Fatalismo, distrazione, abitudine alla sofferenza e altri fattori hanno reso i contadini diffidenti e ancora più chiusi. C’erano già, da qualche tempo, gruppi di autodifesa, nati per contrastare la criminalità locale, ma nessuno immaginava che una cosa lontana come il jihadismo potesse infiltrarsi tra loro. Pierluigi era appena tornato dall’Italia e sapeva solo vagamente quanto di nuovo stava accadendo nella zona. Si sentiva, come sempre, a casa sua. Se sarà confermato che siamo davanti a un sequestro, si tratterebbe dell’ottavo ostaggio che il Sahel custodisce tra le sue sabbie mobili. L’ultimo in ordine di tempo era stato un operatore umanitario tedesco, rapito lo scorso aprile al confine col Mali, nella stessa grande zona dove operano i gruppi armati. Ma Pierluigi si sentiva già in ostaggio, della sua gente. Dei bambini ammalati che conduceva quindicinalmente in città e di tutti quelli con problemi di cibo. Ha organizzato “ponti” internazionali per far curare e operare quanti non potevano farlo sul posto. Ma era anche ostaggio dei giovani, degli adulti, delle famiglie, che da tempo aveva cominciato a riunire e accompagnare. Poi aveva costruito la “basilica”, come la chiamava lui. Era la chiesa dei poveri, veri re della sua vita. Per questo chiamava quella povera chiesa d’Africa la “basilica” dei poveri. C’è dunque continuità tra le due situazioni. Lui era ostaggio da tempo, e adesso questo lo possono capire di più proprio tutti. Perché, in fondo, la missione non è altro che diventare ostaggi dei poveri e del Vangelo. Proprio come ha fatto Dio che aveva preso a ostaggio Pierluigi. La speranza si può forse rapire, portare altrove, imprigionare o persino abbandonare. Ma non più, e mai meno, di tre giorni.

Pag 11 Un ruolo eccessivo e intoccabile che desta sospetti. Cambiare non è abolire il primato della politica di Marco Iasevoli

In tempo di manovra economica, mai sono mancate le accuse al 'Tesoro cattivo' che taglia con le forbici la lista della spesa fatta dai politici che 'vogliono aiutare il popolo'. È un cliché multipartisan. Così come è un cliché l’utilizzo di avvisi a mezzo stampa per lanciare messaggi ai vertici di altre istituzioni, agli alleati di governo, a ministri recalcitranti, alle correnti interne o alle opposizioni. E, parlando con schiettezza, nemmeno il ricorso a parolacce, offese e insulti, per quanto esecrabile, rappresenta il 'fatto nuovo' del caso innescatosi con l’audiomessaggio del portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino. Così come non ci sono misteri circa il ruolo di 'freno' svolto da funzionari di lunghissimo corso che conoscono i Palazzi meglio dei governanti. Il 'fatto nuovo', semmai, è lo svelamento di qualcosa che è già noto da tempo ma che ieri è emerso con prepotenza e senza veli: il ruolo assolutamente centrale, dirimente e irrinunciabile - più importante del ruolo degli stessi interpreti politici e istituzionali? - degli 'uomini comunicazione' dentro il governo gialloverde e in particolare dentro la componente M5s. Nessuno era così ingenuo da considerare Casalino un portavoce 'ordinario' o un grigio interprete e traduttore degli atti del premier e del governo, ma la vicenda dell’audio contro i tecnici del Mef ripropone nuovamente, sotto diverse forme, il tema del cortocircuito (e del conflitto d’interesse) tra potere politico e controllo dell’informazione. Il portavoce, uomo di assoluta fiducia di un’azienda privata di comunicazione digitale, la Casaleggio & associati, detta la linea politica in prima persona. A meno che il premier Conte, che ieri ha difeso Casalino 'da giurista' senza però «entrare nel merito», non riveli di aver dettato lui stesso parole così pesanti contro la catena di comando 'tecnica' del ministero dell’Economia. Né il premier né il capo politico M5s si sono intestati apertamente la minaccia della «megavendetta» con i «coltelli» contro i tecnocrati che vorrebbero «bloccare il cambiamento». Hanno ribadito la battaglia ai «mandarini», ma l’audio di Casalino è stato derubricato a «sfogo privato». Ciò nonostante, nonostante cioè non la critica legittima e ragionata, ma l’attacco furioso alla credibilità della struttura che fa funzionare il ministero tenuto a vendere il debito pubblico sui mercati interni e internazionali (per fortuna tutto si è svolto a listini chiusi), non hanno chiesto un passo indietro del portavoce, e ciò basta a dimostrarne l’intangibilità dentro il mondo 5s e dentro l’esecutivo pentaleghista. Può anche avere seri motivi, Casalino, per sospettare eventuali 'macchinazioni giornalistiche' che abbiano portato la sua 'audiovelina' dallo smartphone di due giornalisti di una testata on line alle pagine di diversi giornali nazionali. Un sospetto che può legittimamente avanzare. Ma, almeno per il caso sollevatosi ieri, sono più le risposte che il portavoce e il governo devono dare rispetto a quelle che hanno il diritto di chiedere. In particolare, rispondere al sospetto che l’attacco stizzito ai «tecnici», portato attraverso la macchina della comunicazione e non attraverso gli atti politici, sia il sintomo di una doppia debolezza.

IL GAZZETTINO di domenica 23 settembre 2018 Pag 1 Guerra dei dazi tra Usa e Cina. Il ruolo e i rischi per l’Europa di Romano Prodi

Per qualche mese ho sperato che la guerra commerciale iniziata dal presidente Trump fosse un episodio di breve durata. I vantaggi del commercio internazionale e il suo contributo alla crescita mondiale sono infatti troppo evidenti per essere messi a rischio da tensioni particolari, anche se generate da un malessere sempre più diffuso. Le tensioni sono invece aumentate nel tempo e, da un campo relativamente ristretto come l'acciaio e l'alluminio, si sono progressivamente estese. Proprio in questi giorni il presidente americano ha imposto una tariffa del 10% su 200 miliardi di importazioni dalla Cina, minacciando di portarle al 25% se vi fosse una reazione da parte cinese che, ovviamente, non potrà mancare. Tutto questo ha già causato un raffreddamento nella crescita dell'economia mondiale, raffreddamento che, se la battaglia continuerà, non potrà che aumentare nei prossimi mesi. Proprio sull'evidenza di quest'effetto dannoso si basava la mia speranza che le controversie sollevate fossero soprattutto uno strumento per aprire nuove trattative. Trattative necessarie perché i difetti e il non rispetto delle regole del commercio internazionale sono troppo evidenti per non esigere un profondo ripensamento. Ritenevo inoltre che gli interessi incrociati delle imprese multinazionali che investono, producono e vendono in tutte le parti del mondo, costituissero un freno al dilagare delle lotte commerciali che pesantemente ostacolano le loro strategie e i loro profitti. Le cose stanno invece diversamente: la guerra commerciale si intensifica e diventa parte determinante della sfida fra Stati Uniti e Cina per la futura supremazia mondiale. Una sfida che è diventata palese da quando la Cina ha lanciato il famoso programma made in China 2025, con il quale il paese asiatico si propone di assumere la leadership mondiale nei settori ad altissima tecnologia come l'automazione industriale, l'intelligenza artificiale e i prodotti di punta dei principali settori innovativi nei quali, fino ad ora, il primato americano ed europeo era indiscusso. In parole più semplici: la lotta commerciale si sta trasformando in una guerra per la primazia futura, una guerra che Trump vuole vincere prima che sia troppo tardi. Il presidente americano è certamente ostacolato in questo suo disegno dai rappresentanti delle stesse imprese americane che hanno interessi globali e da coloro che importano dalla Cina prodotti a basso prezzo (e che ritengono quindi che le tariffe doganali siano un'imposta sulle famiglie), ma è confortato da un diffuso sostegno popolare, che vede nella Cina la più grande minaccia all'occupazione e ai livelli salariali americani. Il problema vero è che la globalizzazione sta andando avanti senza il necessario dialogo sulle differenze fra i sistemi economici che sono fra di loro in concorrenza. Tra Stati Uniti e Cina vi è un abisso non solo nelle condizioni e nella differenza dei costi del lavoro (nonostante la sua diminuzione nel tempo) ma soprattutto riguardo al sostegno dello Stato alle imprese e al non rispetto dei brevetti e della proprietà intellettuale. Dobbiamo tuttavia riconoscere che questi sono stati comportamenti comuni a tutti i nuovi protagonisti della vita economica, a cominciare dagli Stati Uniti nella loro lotta contro l'industria britannica o, all'alba del loro sviluppo, dalle imprese italiane nei confronti dei più collaudati concorrenti europei. Il caso cinese ha tuttavia una sua particolarità per i turbamenti portati dalla grandezza e dalla durata di questo processo che, soprattutto nel caso delle condizioni di lavoro e della proprietà intellettuale, hanno profondamente condizionato il funzionamento della concorrenza. Si tratta di una diversità di strategia e di politiche che dura da tempo ma che era stata messa in secondo piano rispetto agli interessi comuni generati dalla crescita dei mercati e delle produzioni. Interessi comuni che sono ora sacrificati dalla lotta per la supremazia mondiale. Per questo motivo le tensioni stanno crescendo nonostante i pericoli che questa politica comporta. Difficile dire fino a che punto arriveranno, anche se certamente nessun negoziato è possibile nel clima elettorale nel quale gli Stati Uniti si trovano e in un momento in cui, da parte cinese, si ritiene necessaria una più vigorosa politica pubblica volta ad arginare i danni che le accresciute barriere doganali stanno provocando ad un paese che vede nelle esportazioni un pilastro fondamentale del proprio sviluppo. Sperando che si arrivi al momento della moderazione e del dialogo restano due interrogativi. Il primo riguarda il ruolo marginale dell'Europa in questa sfida mondiale mentre, essendo ancora la più grande potenza industriale e il più grande esportatore mondiale, dovremmo e potremmo svolgere quantomeno un ruolo di mediazione, convocando almeno una conferenza riguardo alla necessità di aggiornare alla nuova realtà le regole del commercio internazionale nell'ambito del Wto. Anche perché noi europei saremo direttamente danneggiati dalla maggiore concorrenza cinese dovuta alla chiusura del mercato americano. In secondo luogo mi chiedo come mai il presidente americano abbia interesse ad entrare in conflitto, in questa così importante materia, non solo con la Cina ma anche con il Canada, il Messico e, soprattutto, con i tradizionali alleati europei. I problemi creati dalla globalizzazione non possono infatti essere affrontati, e tantomeno risolti, da un paese che agisce in solitario.

Pag 4 Il Casaleggio boy non eletto da nessuno che detta legge nelle stanze del governo di Mario AJello

Lo stipendio di Rocco Casalino è quello che è. Nulla da eccepire: se non sulla lagna grillina del pauperismo che si sta rivelando, oltre che culturalmente sbagliata, politicamente boomerang. L'audio sboccato e minaccioso, pieno di volgarità come è d'uso nel Codice Rocco, poteva avere invece un duplice destino. Restare riservato in nome del rispetto della privacy (anche se non si tratta di materiale trafugato o piratato ma di un messaggio direttamente diramato dal titolare e volutamente pieno di cose false e non degne di un rappresentante istituzionale) oppure essere reso pubblico, come s'è fatto, e farlo diventare un documento su un pessimo stile. Quello del portavoce Casalino, che è ben più di un portavoce, e la sua voce fa spesso tacere o indirizza e comanda quella di chi formalmente gli è superiore. COMMISSARIO - Rocco è il non eletto che conta più degli eletti, lavora per Conte ma lo sovrasta, dovrebbe essere un sottoposto di Di Maio ma ne tiene l'agenda e un po' le redini, forma con Casaleggio (prima padre e poi figlio) e con Grillo una sorta di trimurti inscindibile e rappresenta, sempre da non eletto, la filiale romana presso Palazzo Chigi di un'azienda milanese, la Casaleggio Associati. Che è formalmente estranea alla politica ma ha in Casalino, e in subordine nel collega Pietro Dettori, una sorta di commissario politico nel cuore del potere politico. Il Codice Rocco, così come risulta dal Whatsapp, è un misto di ingenuità (poteva pure immaginare che l'eccesso di virulenza avrebbe ingolosito un giornalista a spiattellarla in pubblico) e di brutalità (finisce «ai coltelli») e uno sfoggio di arroganza e di spirito di vendetta preventiva contro funzionari dello Stato, alti rappresentanti della burocrazia ministeriale ritenuti colpevoli di non essere allineati con chi comanda. Non si è mai vista una figura di governo parlare così di chi manda avanti la macchina delle istituzioni. Ma Rocco pensa di potersi permettere le pose da Grande Fratello (da quello televisivo proviene) perché «Rocco, Rocco, Roccoooo», «Ti ha parlato Rocco?», «Devo chiedere a Rocco», «Ma davvero stai antipatico a Rocco?»: lo strapotere di Casalino - bastava vederlo, tanto omaggiato, all'ultima festa del 2 giugno al Quirinale - s'incarna nella deferenza che gli portano non solo i giornalisti ma anche i parlamentari M5S. Non solo i peones la cui esistenza in vita, cioè la visibilità, dipende dal fatto se piacciono a Casalino oppure no («Quello parla troppo siciliano, in tivvù non ce lo mando», «Quello è troppo brutto, non merita il video»), ma anche i leader. Casalino è quello che muove Conte, o lo strattona, come accadde al G7 in Canada quando prendendolo per il braccio lo portò via bruscamente, per non farlo parlare con i giornalisti e il premier parve proprio imbarazzato. Lo stesso premier che soffre l'invadenza di Rocco e tempo fa è girata la voce che non lo volesse più nelle trasferte internazionali. Blindatissimo dall'alto (tutti con Rocco anche in questa occasione, perfino Fico con cui la leggenda vuole che proprio non si pigliano) e marcatore stretto di chi sta in alto. Questo è Rocco. E quello che, cosa ineditissima e alla faccia di tutti gli spin doctor della storia della Repubblica, come fosse un capo politico e non un comunicatore è stato seduto da pari a pari, tra capi di partito e futuri ministri, nel tavolo della formulazione del Contratto di governo. Così nella veste di semi-leader, in quella di sentinella della parola pentastellata ha inventato il sistema del contraddittorio tivvù: ossia, concede un ospite grillino nei talk show soltanto se può parlare soltanto lui. E non pochi titolari dei salotti mediatici soggiacciono a questa regola perché a Rocco, che scruta controlla, benedice, condanna, non si può dire di no. L'importanza di chiamarsi Rocco secondo lui poggia su un dato, come ha scritto in replica a chi gli contesta di guadagnare troppo: «Sono laureato in ingegneria, sono giornalista professionista e parlo 4 lingue». In italiano, egli usa molto spesso (anche per chiamare i giornalisti) il vezzeggiativo «amore». Parola che nel messaggio anti-Mef non compare. Forse perché vi prevale l'odio, sentimento inammissibile per chi, per meriti propri o per demeriti altrui, si trova al momento nelle stanze più importanti del governo.

LA NUOVA di domenica 23 settembre 2018 Pag 5 Cercansi “tecnici cattivi” per far digerire i conti all’Italia di Roberta Carlini

Si apre domani la settimana decisiva per la definizione della prima manovra economica del governo Salvini-Di Maio. E si apre sotto i peggiori auspici. Non tanto perché è platealmente confermata la presenza, nella maggioranza, delle due opposte visioni di Lega e M5S. Quanto perché a questa contrapposizione se ne è aggiunta un'altra: quella tra politici e tecnici, con questi ultimi designati a ricoprire il ruolo del "cattivo" della storia, da sacrificare per raggiungere il lieto fine. La scelta sulla manovra economica è infatti sommamente politica, e lo è stata anche quando la politica di bilancio è stata affidata a "tecnici": da Ciampi, che pilotò l'ingresso dell'Italia nell'euro, a Monti, che gestì la fase dell'austerità post-crisi, a Padoan, equilibrista sul "sentiero stretto" tra risanamento e crescita. Erano scelte, non tecniche ma politiche. Stavolta la scelta l'ha compiuta l'elettorato italiano, bocciando tutte le gestioni precedenti e affidandosi al completamente nuovo, anche se dai confini imprecisati. I nuovi governanti devono ora mettere in atto il loro programma, o meglio la somma dei loro due programmi che è molto costosa. Devono trovare le risorse. Arrivati finalmente al dunque, Lega e M5S hanno ritrovato l'unità sulla richiesta ai "tecnici" di trovare le risorse in un modo molto semplice: facendo più debiti. Ma questa scelta non è tecnica, è politica. Ai tecnici sta il dovere di indicare le conseguenze di ogni scelta e far rispettare le regole di bilancio: ad esempio, non si può indicare come strutturale un'entrata una tantum, dunque non si può mettere il condono a copertura di un taglio fiscale o una spesa permanenti. Non solo: hanno il dovere di correggere le previsioni se il Pil cresce meno del previsto o le spese per interessi salgono. Più che con i tecnici, Salvini & Di Maio dovrebbero prendersela con la matematica, che non fa tornare i conti delle loro proposte. Eccoli, i conti: il deficit, in assenza di interventi ma con aumento dell'Iva incorporato, sarebbe attorno allo 0,8% del Pil. Raddoppiarlo, arrivando all'1,6%, basterebbe a malapena a scongiurare gli aumenti Iva e l'effetto dell'aumento dei tassi e della minore crescita. Per questo adesso vogliono arrivare al 2,6%, sfiorare il 3% dei tetti europei. Impossibile? No. Possibilissimo, ma pericoloso. Come ha detto il governatore della Banca d'Italia, non tutti i deficit vengono per nuocere: possono avere effetti positivi se vanno in spesa per investimenti e maggiore crescita futura. Ma fare debiti per ridurre le tasse ai più ricchi o per pagare spese di assistenza non è certo un investimento: a meno che con questa parola non si intenda l'investimento politico di Lega e M5S per le prossime elezioni regionali ed europee. Ma non è ancora chiaro in che condizioni il Paese arriverà a quel voto; i segnali di questi primi mesi, con l'aumento del premio che lo Stato italiano deve pagare a chi gli presta soldi, sono molto preoccupanti.

Pag 6 Sovranismo e nazionalismo, definizioni da aggiornare di Fabio Bordignon

Sovranismo: termine nuovo per un concetto vecchio? In molti ne sono convinti, e pensano che potremmo (meglio) descrivere l'attuale paesaggio politico globale tornando alla consolidata categoria del nazionalismo. Obiezione in parte fondata, ma che rischia di non cogliere le novità intervenute, negli ultimi decenni, nei rapporti tra dimensione nazionale e sovranazionale, ma anche nei sobbollimenti che si registrano dentro i sistemi politici nazionali. C'è sicuramente qualcosa di "già visto", nel revival dei confini: che si tratti del rafforzamento delle spinte autarchiche, in termini di protezione delle economie nazionali, o di chiusura rispetto alla pressione migratoria. Chiusura e protezione sono, non a caso, i criteri che ispirano l'azione di molti partiti e leader in ascesa, in diversi paesi. Fabio Turato ne fa un'accurata analisi in un volume, dal titolo Capipopolo, appena pubblicato da Castelvecchi. C'è allo stesso tempo qualcosa di nuovo, nei contenuti evocati dal "nuovo" termine: sovranismo. Qualcosa che ha poco (o meno) a che fare con l'esaltazione dell'identità nazionale - che spesso, peraltro, convive e si scontra con solide identità sub-nazionali. Qualcosa che riguarda - sì - le migrazioni, ma non solo in riferimento al movimento dei popoli. Riguarda anche - forse ancor prima - la migrazione del potere: al di fuori dei confini nazionali. Riguarda non tanto (o non solo) il rapporto tra gli stati nazionali, ma anche il rapporto tra questi ultimi e i poteri, le organizzazioni, le istituzioni sovranazionali. Ha a che fare, quindi, con la crescente incapacità degli stati (e quindi dei popoli) nazionali di "decidere" per se stessi. L'Europa, con le tensioni che investono il suo processo di integrazione, rappresenta un contesto "critico" rispetto a fenomeni che, tuttavia, si manifestano anche in paesi, come gli Stati Uniti, la cui capacità di condizionamento esterno rimane molto elevata. Torniamo così al punto di partenza: si tratta davvero di fenomeni nuovi? In parte no, se guardati in un'ottica storica. Tuttavia, l'intensificarsi dei processi di globalizzazione li ha amplificati e ridefiniti. Li ha esasperati: portando la crisi dello Stato (nazionale) a intrecciarsi con la crisi delle democrazie (nazionali). E quando il tema della sovranità nazionale incontra il tema della sovranità popolare, il sovranismo intreccia il perimetro concettuale di un'altra categoria controversa: quella di populismo. E perde, al contempo, la sua connotazione necessariamente "di destra". Perché esistono sovranismi (e populismi) di destra e di sinistra. Sovranismi (e populismi) che, spesso, si mescolano all'interno dello stesso progetto politico. O conducono ad alleanze che appariranno "strane" - persino contronatura - solo fino a quando non avremo completato l'aggiornamento del nostro vocabolario.

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CORRIERE DELLA SERA di sabato 22 settembre 2018 Pag 1 La svolta necessaria sulla Libia di Franco Venturini Un patto con Parigi

Il pericolo, mentre l’Italia organizza per novembre la “sua” maxiconferenza sulla Libia, è che la consolidata inimicizia politica tra il vicepremier Salvini e il presidente Macron si estenda irresistibilmente a Tripoli e dintorni. Se ciò accadesse, non si tratterebbe soltanto di un riflesso della campagna per le elezioni europee di maggio, che vede Salvini tra i condottieri nazional-sovranisti e Macron aspirante leader dei loro più fermi oppositori. Si tratterebbe, piuttosto, di una manifestazione di irresponsabilità, di un tradimento degli interessi nazionali e del probabile abbandono della Libia ad un cupo destino di guerra civile. Con la conseguenza tra l’altro di nutrire ulteriormente i flussi migratori, proprio mentre su questo tema va crescendo l’isolamento europeo del governo gialloverde. Come far prevalere, allora, le ragioni del buonsenso e del pragmatismo, come far ragionare insieme Roma e Parigi, come partire da lì per disegnare una strategia vincente che in Libia nessuno sembra ancora avere? Il problema è che un programma tanto saggio e tanto rispondente agli interessi di entrambi esige che il primo passo, per i francesi come per noi italiani, sia quello di riconoscere i molti errori compiuti in Libia. Tanto da Roma quanto da Parigi. In passato e ancora oggi. Cominciamo dalla Francia, dalla guerra per abbattere Gheddafi nel 2011 che fu Nicolas Sarkozy a volere salvo poi disinteressarsi di una Libia ingovernabile a guerra finita. Quell’impresa, cui anche l’Italia malvolentieri partecipò, servì sì ad eliminare un dittatore, ma fece anche emergere quanto egli fosse stato abile nel creare uno stabile equilibrio interno fatto di privilegi e di castighi, di carote e di bastoni: esattamente quel che manca oggi in Libia. Il presidente Macron ha condannato le scelte di Sarkozy, ma il 2011 non può non pesare sul piatto francese degli errori storici. Anche perché di sbagli ce ne sono stati e ce ne sono altri, che ci riguardano. È noto che la Francia ha in Libia interessi soprattutto energetici in competizione con i nostri, ed è perfettamente lecito che Parigi coltivi questi interessi, scelga i suoi alleati locali, abbia insomma quella strategia nazionale (in mancanza di una strategia europea) che a noi è talvolta mancata. Ma era davvero necessario convocare a Parigi una maxi-conferenza libica mentre l’Italia era ancora (per tre giorni) senza governo? E oggi, non è irragionevole l’insistenza di Macron sull’intesa allora raggiunta di tenere elezioni generali in Libia il 10 dicembre, mentre a Tripoli vige una fragile tregua dopo aspri combattimenti, mentre sono saltate le scadenze istituzionali previste dall’accordo (ultima quella del 16 settembre), mentre a favore delle elezioni si pronuncia soltanto il generale Haftar e l’Onu non parla di date ma chiede «condizioni di sicurezza, legislative e politiche», condizioni che non ci sono? E l’Italia, è messa forse meglio della Francia? No davvero, e a dimostrarlo basterebbe il fatto che una politica sbagliata di appiattimento sulle strategie dell’Onu ci ha portati, oggi, a sostenere con marcata partigianeria quel Fayez al-Sarraj che è sì riconosciuto dalla comunità internazionale, ma è anche la parte più debole e più disarmata in un Paese dove si spara molto e si parla poco. Certo, Sarraj ha il merito di stare a Tripoli, capitale della regione dove sono concentrati i nostri interessi energetici e non soltanto quelli. Ma quanto è accaduto di recente, quando la Settima brigata e altre milizie hanno sferrato una offensiva contro le formazioni filo-Sarraj accusandole di non dividere equamente il bottino derivante dalla loro protezione, dovrebbe raccontarci la Libia meglio di ogni altro episodio. Ed è preoccupante che in Italia, in un clima strumentale oppure di perfetta incompetenza, siano subito partite accuse alla Francia di aver ordito lei un complotto contro Sarraj. L’Italia, proprio perché ha deciso di prendere l’iniziativa, dovrebbe tenere conto di tre punti importanti. Primo, in Libia resta improbabile una vittoria militare se la milizia di Misurata (sin qui a noi vicina, e questo è stato un successo) non cambierà campo o si spaccherà. Secondo, non si può contare troppo sull’interesse alla pace dei libici. Oggi essi hanno piuttosto interesse alla difesa della frammentazione, alle lotte intestine ben remunerate, ai traffici di varia natura migranti compresi. La pace deve diventare un pacchetto attraente, e conveniente. Terzo, alte cariche statunitensi dovrebbero essere presenti alla «nostra» maxi-conferenza, ma la «cabina di regia» promessa da Trump a Conte è una illusione dialettica già sperimentata con Obama (ricordate il «ruolo dirigente»?). Gli Usa continueranno a intervenire, ma soltanto contro il tentativo di ricreare cellule dell’Isis. E noi alle belle formule dovremmo essere in grado di dare un seguito concreto. Alla luce di un realismo sin qui troppo trascurato, la miriade di inviti partita da Roma per l’evento di novembre rischia di rivelarsi fatica sprecata. Proprio come accadde a Parigi in maggio. Le «parti» libiche, soprattutto quando sono numerose, non si impegnano più di tanto e appena tornate in patria riprendono le vecchie abitudini in assenza di prospettive sicure. Sono proprio queste prospettive sicure che vanno create, con un metodo diverso e progressivo: prima un chiarimento strategico tra Italia e Francia, che non può più aspettare anche perché nessuno dei due è in grado di far prevalere i propri interessi senza la collaborazione dell’altro. Poi il coinvolgimento permanente di potenze garanti come Usa e Russia, e dei «finanziatori esterni» della Cirenaica e della Tripolitania: l’Egitto e gli Emirati con Haftar, la Turchia e il Qatar con Serraj. Infine una proposta articolata (e ricca) da presentare ai libici, ai soliti due ma forse anche ad Ahmed Maitig, vicepresidente del Consiglio presidenziale ed esponente moderato di Misurata. L’adozione di questo metodo politico non garantirebbe il successo. Ma ci permetterebbe di dire che in Libia ci abbiamo provato, davvero e non soltanto con assemblee di grande effetto ma poco promettenti.

Pag 1 L’incontro con il Pd della sinistra M5S: segnale alla Lega di Francesco Verderami

Il nome di Berlusconi produce ai grillini della prima ora lo stesso effetto che provoca il martelletto del medico sul ginocchio del paziente. Così quando l’altro ieri Salvini è andato a incontrare il Cavaliere, l’ala movimentista di M5S ha visto materializzarsi un inaccettabile «triangolo» tra l’alleato di governo - che già sopporta a fatica - e il nemico giurato. E ha reagito d’istinto, con un gesto clamoroso che sapeva di rappresaglia. Nelle stesse ore in cui il centrodestra si riuniva a palazzo Grazioli, una delegazione dei Cinque Stelle ha incontrato alcuni dirigenti del Pd. L’appuntamento doveva restare riservato, ma fino a un certo punto. Nel senso che l’«ala sinistra dei grillini» - come i leghisti definiscono i seguaci di Fico - aveva interesse a far sapere cosa stava succedendo, per mandare un segnale all’«ala governista» del Movimento e per conoscenza ai vertici del Carroccio. Missione compiuta: le voci del rendez vous sono infatti giunte anche all’orecchio di alcuni ministri della Lega, che hanno interpretato l’accaduto come l’ennesima prova delle difficoltà in cui versa Di Maio. Perché era chiaro chi fosse il destinatario della rappresaglia. Ed è chiaro anche il motivo per cui il capo politico di M5S è costretto in questi giorni ad alzare i toni sulla legge di Stabilità contro il ministro dell’Economia, arrivando a minacciarlo con un preavviso di sfratto da Via XX Settembre, mettendo persino in conto il «ritorno a casa», cioè la crisi di governo e il ricorso al voto anticipato. Ma l’arma delle urne è caricata a salve, almeno così sostengono i dirigenti del Carroccio nelle discussioni con Salvini, perché sarebbe proprio Di Maio a rimetterci più di ogni altro: esauriti i due mandati, resterebbe alla guida dei Cinque Stelle ma non potrebbe più ricandidarsi in Parlamento né assumere nuovi incarichi di governo. A meno di non chiedere una deroga al codice interno del Movimento su una regola che è vissuta dai grillini come un tratto di diversità rispetto ai partiti. In realtà, Di Maio sta affrontando la battaglia sulla manovra come un ciclista che deve prepararsi alla volata, quelle elezioni europee che saranno un passaggio fondamentale tanto per M5S quanto per la Lega, siccome influenzeranno le successive strategie politiche. Perciò Giorgetti in questi giorni ha smesso i panni del pessimista, oltre ad aver preso a parlare in pubblico come mai accaduto in precedenza: per spargere ottimismo sulla manovra, ieri si è diviso tra il Meeting anglo-italiano a Pontignano e la festa di Atreju a Roma. Il sottosegretario alla Presidenza vede il bicchiere mezzo pieno, racconta che «rispetto a tre mesi fa le distanze tra M5S e Lega si sono accorciate», anche se negli alleati persiste un sovrappiù di «posizioni ideologiche». A parte il reddito di cittadinanza, il vero nodo sono gli investimenti nelle opere pubbliche: «È su questo tema che davvero si capirà quanto potrà durare il nostro esperimento di governo». Lo sguardo però resta sempre rivolto alle Europee, al punto che lo stato maggiore dei Cinque Stelle sta ragionando sulla modifica della legge elettorale per Strasburgo: l’idea è di abolire le preferenze, ed è un progetto di cui è giunta notizia anche a Forza Italia. L’interpretazione più capziosa degli avversari di Di Maio è che «con le liste bloccate mirerebbe a controllare la scelta degli eletti nel Movimento», ma sotto il profilo politico non c’è dubbio che un simile sistema dovrebbe favorire la concentrazione del consenso, riducendo la dispersione dei voti nelle liste minori e avvantaggiando quindi i grandi partiti. Nella Lega c’è chi è già pronto a sostenere la riforma, con la convinzione che sia una modifica di «buon senso, in linea con molti altri modelli di voto europei». Ed è evidente che anche Salvini si sta preparando alla volata per Strasburgo, in vista di un rush finale che pronostica un testa a testa con Di Maio. Ecco su cosa sono concentrati i vertici del Carroccio, che considerano ogni altra iniziativa funzionale solo a questo obiettivo. Il vertice con Berlusconi, per esempio, è tutto condensato in un breve siparietto avvenuto ieri tra un parlamentare forzista e «l’alleato» leghista Giorgetti. Il primo: «Allora Giancarlo, è risorto il centrodestra...». Il secondo: «Eeeeehhhh...».

AVVENIRE di sabato 22 settembre 2018 Pag 3 Un lancio in bottiglia che riattivi l’impegno di Giorgio Campanini Per una nuova presenza dei cattolici in politica

Il dibattito nato dal basso e accompagnato da 'Avvenire' in ordine alla necessaria apertura di una «nuova stagione» della presenza dei cattolici nella politica italiana ha consentito di acquisire una serie di proposte e di indicazioni circa il futuro. Perché non si rimanga allo stato di semplici 'auspici' – non seguiti da alcuna realizzazione pratica – sembra venuto il tempo di passare all’azione. E al riguardo sia consentito allo scrivente avanzare alcune proposte circa il possibile futuro ruolo dei cattolici. Dando per acquisito che non si dovrà fondare un nuovo partito (anche se chi si pone in questa prospettiva potrà comunque e ovviamente intraprendere libere iniziative), la via privilegiata da percorrere sembra essere quella di una Fondazione (che potrebbe essere intitolata a papa Francesco) agente sul piano nazionale ed avente un triplice obiettivo: mantenere viva, e valorizzare, la memoria storica dell’impegno dei cattolici in Italia dalla Rerurm novarum ai nostri giorni; elaborare – a partire dalla Dottrina sociale della Chiesa ma con specifica attenzione al contesto italiano – le linee generali di un progetto di società libera e fraterna, autenticamente democratica, ispirata ai valori evangelici ma aperta a tutti gli uomini «di buona volontà», e non dunque strettamente «confessionale»; avviare e continuare nel tempo un valido ed efficace sistema formativo all’impegno sociale, rivolto soprattutto ai giovani, così da essere una sorta di «bacino» di una futura classe dirigente di ispirazione cristiana: della quale il Paese, anche se non sempre consapevolmente, mostra di avere grande bisogno. Una seria rivista e una collana di volumi dovrebbero ritmare il cammino della Fondazione. Proprio per essere autenticamente libera, tale Fondazione dovrebbe essere autofinanziata, con diretto impegno dei 'soci fondatori' (incaricati di redigere un modello di statuto) e successiva adesione tanto di gruppi già organizzati quanto di realtà di nuova fondazione (nonché, evidentemente, di singole persone). Si dovrebbe dunque partire dal lancio di una proposta da parte di un piccolo gruppo di persone autorevoli e qualificate, cui dovrebbe far seguito un primo incontro allargato, a partire dal quale la nuova Fondazione dovrebbe prestarsi con un «Manifesto programmatico», con il quale verrebbe lanciata nel Paese una vasta campagna di adesioni. Aderirebbero, in numero adeguato, qualificati gruppi di cattolici e singole persone, a una consimile iniziativa? Se non pecchiamo di eccessivo ottimismo, riteniamo che forte e diffusa sia la preoccupazione, e talora il senso di smarrimento, per quanto sta accadendo e dunque potenzialmente assai vasta l’area delle possibili adesioni. Occorrerà dunque che si formi un gruppo di qualificate persone che assuma su di sé l’onere e la responsabilità del 'lancio' di una simile iniziativa: e ciò senza coinvolgere la Conferenza episcopale né le gerarchie ecclesiastiche, in nome di quella «legittima autonomia» dei laici cattolici nitidamente affermata dal Concilio Vaticano II. Non mancheranno certamente coloro che interpreteranno il varo di un’iniziativa di questo tenore come un tentativo della Chiesa e dell’episcopato di 'rimettere le mani' sulla politica, ma il timore di eventuali letture strumentali non dovrebbe scoraggiare i promotori dell’iniziativa. Ecco dunque il piccolo e modesto «lancio in bottiglia», nel vasto mare della politica italiana, di un progetto che – se studiato bene e realizzato meglio – potrebbe rappresentare una svolta per il nostro Paese. Sarebbe l’avvio di una ripresa di iniziativa che non pregiudica in alcun modo il futuro: come usava dire Napoleone, l’intendance suivra, e cioè una volta aperta la strada da coraggiosi 'pionieri', molti altri ne potranno seguire le orme. È questa la speranza con la quale viene rivolto anche questo 'appello' a quanti hanno a cuore il futuro di un Paese che ha ancora e sempre bisogno di cattolici responsabili e impegnati.

IL FOGLIO di sabato 22 settembre 2018 Pag 1 Cattolici liberali, battete un colpo

Testo non disponibile

IL GAZZETTINO di sabato 22 settembre 2018 Pag 1 La resa dei conti con il “sondaggio” delle europee di Bruno Vespa

A Di Maio piace ritrarre Berlusconi come la moglie che accetta il tradimento del marito. Temiamo che in cuor suo la pensi all'opposto: se non farà errori clamorosi, il centrodestra potrà conquistare la maggioranza delle sette regioni in cui oggi è all'opposizione, che si aggiungeranno alle sei in cui già governa. L'influenza di Salvini sul territorio si allargherà ponendo le premesse sondaggi alla mano per una vittoria alle elezioni politiche, quando dovessero celebrarsi. Berlusconi non è la moglie tradita. È la moglie che ritrova il marito al quale essa stessa (non dimentichiamolo mai) aveva dato il permesso di fare una scappatella. Fu una scelta rivelatasi giusta perché consente a chi ha vinto le elezioni di assumersi ogni responsabilità di governo mostrando il duro confronto con la realtà al pubblico spesso illuso che le difficoltà economiche dell'Italia siano superabili con un tratto di penna. C'era davvero chi poteva credere che Flat Tax e Reddito di cittadinanza sarebbero stati immediatamente operativi? Sarebbe già un miracolo se si riuscisse a portare il pensionamento a 62 anni con 38 di contributi, la tassazione al 15 per cento per chi ha ricavi o compensi fino a 65mila euro e la pensione di cittadinanza a 780 euro mensili. Si tratta di trovare molti miliardi, con il rischio che cessino di versare i contributi i lavoratori autonomi che difficilmente avrebbero con le loro forze una pensione del genere. Tutti e tre questi provvedimenti erano nel programma elettorale di centrodestra: perciò Forza Italia e Fratelli d'Italia avranno difficoltà a non votarli. Come dovrebbero votare a favore dei decreti sulla sicurezza e l'immigrazione se essi non dovessero incontrare difficoltà impreviste al Quirinale. Berlusconi ritrova visibilità e ruolo che s'erano appannate dopo il 4 marzo. E potrà rappresentare in maniera solida per ora a livello territoriale quei milioni di moderati che sono contenti di allearsi con un ariete come Salvini, ma non ne condividono i toni troppo forti. La resa dei conti storica ci sarà alle elezioni europee del maggio 2019. Il sistema proporzionale garantisce un grande sondaggio sul campo. Lì si vedrà se davvero la Lega nazionale vale più del Movimento 5 Stelle e l'alleanza con Berlusconi faciliterà l'accordo tra Popolari e Populisti che hanno l'obiettivo di eliminare per la prima volta i socialisti dalla stanza dei bottoni di Bruxelles. Lì comincerà tutt'altra partita e non sarà facile per gli anti populisti costituire un FLE, un Fronte di Liberazione Europea con una salvifica alleanza che spazi da Macron a Tsipras. Perché Macron è in caduta libera e la Le Pen non diventerà forse mai presidente ma sul proporzionale potrà fare brutti scherzi a tutti.

Pag 1 Il lato oscuro della proposta sul reddito di Luca Ricolfi

Intanto cominciamo a chiamare le cose con il loro nome: quello su cui si polemizza in questi giorni non è il reddito di cittadinanza, che non esiste in nessuna parte del mondo (quello dell'Alaska è un modesto bonus di meno di 200 dollari al mese), e in Svizzera è stato rifiutato dalla maggioranza dei cittadini in un recente referendum. Quello di cui si parla è semplicemente il reddito minimo, una misura universale di sostegno del reddito che esiste da anni in tutti i paesi dell'Unione europea (tranne che in Grecia), e in Italia è stata progressivamente, e molto limitatamente, introdotta dagli ultimi governo di centro- sinistra. In linea generale il reddito minimo è un sussidio che viene erogato a chi non raggiunge una certa soglia minima di reddito, ed è legato al rispetto di alcune condizioni, tipo frequentare corsi di formazione, cercare attivamente un lavoro, essere disponibile ad accettare (ragionevoli) offerte di lavoro. La filosofia è sostanzialmente la medesima di quello che i Cinque Stelle si ostinano a chiamare reddito di cittadinanza, sicuramente un'espressione più glamour che minimo vitale, o sussidio ai poveri, o social card. Ma quando si può dire che una misura di reddito minimo funziona bene? Le condizioni base sono tre. La prima è che la misura sia destinata ai poveri veri e propri, che sono solo i poveri assoluti, ossia chi fa parte di famiglie che non sono in grado di acquistare il cosiddetto paniere di sussistenza, ossia l'insieme minimo di beni e servizi che assicurano un'esistenza dignitosa. Se anziché essere agganciato alla povertà assoluta il reddito minimo venisse agganciato a quella relativa (guadagnare meno di metà della famiglia media) si assisterebbe al paradosso per cui il sostegno potrebbe aumentare anche quando non si è più poveri (solo perché l'economia cresce), o diminuire quando l'economia va male (perché l'asticella della povertà relativa si abbassa). La seconda condizione è che la definizione di povertà assoluta adottata tenga conto del livello dei prezzi, che in un paese come l'Italia è molto differenziato, non solo fra Nord e Sud ma anche fra piccoli e grandi centri. Un punto questo su cui hanno più volte attirato l'attenzione l'Istituto Bruno Leoni, con la proposta di un minimo vitale agganciato al livello dei prezzi, e le associazioni del Terzo settore, con varie proposte e piani di lotta alla povertà. La terza condizione è che il reddito minimo non disincentivi troppo la ricerca di un lavoro, e soprattutto non favorisca eccessivamente comportamenti opportunistici, come accade quando si rinuncia a un lavoro per non perdere un sussidio, o si lavora in nero per conservarlo. Questa è chiaramente la condizione più difficile da rispettare, perché, contrariamente a quanto talora si sente affermare, la capacità dei centri per l'impiego di trovare un lavoro ai percettori del sussidio non dipende tanto dalla efficienza e dalle risorse dei centri stessi, quanto dalla crescita dell'economia: se, come oggi in Italia, il Pil ristagna e ci sono quasi 3 milioni di disoccupati, è inevitabile che la maggior parte dei percettori del sussidio non riceva alcuna offerta di lavoro. Vediamo ora le due principali proposte in campo, quella vigente del Pd (il Rei) e quella imminente dei Cinque Stelle. Il Rei, o reddito di inclusione, tendenzialmente rispetta la prima condizione (si rivolge ai poveri assoluti), ma non la seconda (non è agganciato al livello dei prezzi). Quanto alla terza (non disincentivare la ricerca di un lavoro), la rispetta solo perché il sostegno è molto modesto e probabilmente soggetto a troppe condizioni. Il reddito minimo in versione Cinque Stelle, invece, non rispetta nessuna delle tre condizioni che abbiamo esposto. In primo luogo, perché si propone di sostenere chi è in posizione di povertà relativa, anziché i veri poveri, ossia chi è in condizione di povertà assoluta. In secondo luogo perché non tiene conto del livello dei prezzi, e quindi taglierà fuori buona parte dei poveri del centro-nord e dei grandi centri urbani. In terzo luogo perché non prevede alcun meccanismo per evitare che chi percepisce il sussidio, ben sapendo che i centri per l'impiego non saranno in grado di trovargli un lavoro, si adagi nella condizione di sussidiato, tanto più che il sussidio colma interamente la differenza fra il reddito percepito e la soglia di povertà relativa, posta vicina a 10 mila euro l'anno per un singolo, e oltre 20 mila per molte tipologie familiari. Ma non è tutto. Nel reddito di cittadinanza in formato Cinque Stelle ci sono altre due insidie, di cui una è stata notata pochi giorni fa da Salvini, l'altra potrebbe essere notata da una sinistra fedele all'ideale dell'eguaglianza. L'insidia-Salvini è che, se non si delimitano accuratamente i requisiti per godere del reddito minimo, circa un terzo delle risorse non andrebbero agli italiani, bensì agli immigrati, che pur essendo l'8% della popolazione, sono il 30-35 % dei poveri. Può essere giustissimo sostenerli (non siamo per l'integrazione?), ma in quel caso non sarebbe semplicissimo spiegarlo a coloro cui si è raccontato che spendiamo troppi soldi per l'accoglienza. L'insidia egualitaria, di cui stranamente né il Pd né Leu si sono ancora accorti, è che se i Cinque Stelle riuscissero a varare il reddito minimo secondo le linee del loro disegno di legge, l'effetto sarebbe una crescita clamorosa delle diseguaglianze negli strati medio-bassi della popolazione. Tutto infatti lascia prevedere che, nel giro di pochi anni, a una minoranza di poveri che lavorano duramente e galleggiano intorno alla soglia di sussistenza, si affiancherebbe un esercito di poveri che percepiscono un reddito decoroso ma, non per colpa loro bensì a causa di un mercato del lavoro asfittico, possono permettersi di non lavorare. Ma forse non dobbiamo stupirci troppo. Dopotutto siamo già abituati a una sinistra che fa la destra, non sarà così difficile abituarci a una destra che fa la sinistra. Sì, perché le ragioni dell'equità, in questo caso, non le difende la presunta sinistra dei Cinque Stelle, ma la presunta destra della Lega, l'unica forza che sembra aver intuito il lato oscuro del cosiddetto reddito di cittadinanza.

LA NUOVA di sabato 22 settembre 2018 Pag 5 Così Matteo deve scegliere tra Di Maio e Berlusconi di Bruno Manfellotto

Alla fine, a chi vorrà più bene Matteo Salvini, a Luigi Di Maio o a Silvio Berlusconi? Al giovane socio di Contratto e di governo, o all'anziano leader della storica alleanza di centrodestra? In questo momento a tutti e due, pare. Ma se il perché di questa spregiudicata bigamìa politica - variazione della mitica teoria dei due forni (copyright Giulio Andreotti): qui non si sceglie ora l'uno ora l'altro, ma si convive gioiosamente con entrambi - è abbastanza chiaro, la strategia a lungo termine del leader della Lega presenta ancora aspetti oscuri. Come s'è visto, dunque, mentre giura amore eterno al governo Lega-5Stelle, Salvini trascorre quattro ore al vertice di una rigenerata alleanza di centrodestra con B. a capotavola rassicurandolo sui destini di Mediaset e spartendosi nomine (Marcello Foa alla Rai) e Regioni in vista delle elezioni di primavera. Ma chi intesse alleanze, appunto, si prepara al voto: solo alle amministrative e alle regionali? Non sarà che è vicina anche la crisi di governo, perché se non si raggiungono gli obiettivi del Contratto - come ha detto Di Maio - «meglio andare a casa»? E qui la faccenda si fa più complicata. Salvini sa, e i sondaggi lo confortano, che se si rompesse il patto di governo approfittando dei mille dissensi sulla legge finanziaria e gli italiani venissero chiamati alle urne, i risultati lo premierebbero: oggi è lui il leader emergente, c'è poco da fare. Ma sa altrettanto bene che correre al voto anticipato con un governo caduto su deficit, debito, pensioni e un ministro dell'Economia costretto a gettare la spugna per qualche decimale equivarrebbe a far esplodere lo spread e ad allontanare sempre più l'Italia dall'Europa. Dove già adesso si spinge per ridimensionare il peso di Roma sulla scena internazionale. B. invece insiste per uno show-down rapido che sancisca il fallimento dell'alleanza gialloverde. Non vuole che passi troppo tempo, e non solo per l'anagrafe, ma perché teme che l'abbraccio Lega-5S diventi tanto forte da stritolare gli altri attori sul palcoscenico. A cominciare da Forza Italia. Non sembra questa la stessa strategia di Salvini. Piuttosto la sua intenzione, confermata dal vertice di governo di ieri sulla manovra, è di andare avanti, ottenere almeno l'avvio delle misure promesse, diluirne negli anni la definitiva attuazione, quasi stendere un Contratto nuovo che preveda scadenze diverse. Nel frattempo, come sta già facendo, occupare i posti chiave della macchina dello Stato e portare ai prossimi appuntamenti delle amministrative e delle europee una Lega più forte e consolidata. Per poi diventare lui il leader indiscusso di una destra di nuovo unita e pronta a riconquistare il potere. Senza Di Maio. Questi, probabilmente, i suoi piani. Poi di mezzo, come si sa, ci sono quei dannati numeretti del bilancio e dell'economia. Per i quali entro la prossima settimana bisognerà «trovare la quadra». Come diceva il vecchio Bossi.

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