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Terra e parole

Donne / scrittura / paesaggi a cura di Roberta Falcone e Serena Guarracino MNEMOSINE

OLTRE IL CANONE OLTRE LE DISCIPLINE

Collana diretta da Laura Fortini e Giuliana Misserville

Nella mitologia greca Mnemosine è figlia di Gea, la madre Terra, il principio femminile che dona vita al mondo, ed è a sua volta madre delle Muse, che amano le feste e la gioia del canto. Sia che si voglia risalire alle fonti del mito e alla sua potente energia che dà nomi a ciò che esiste, sia che si segua il tramutarsi della divinità nell'arte della memoria e della costruzione culturale, si tratta di una parola duttile: Mnemosyne, la dea greca, si è trasformata in Mnemosine nel corso dei secoli.

La collana a lei intitolata intende mettere in luce il doppio accento, i diversi posizionamenti della critica letteraria femminista prodotta dalla Società Italiana delle Letterate (www.societadelleletterate.it), dedicati a riattraversare e ridefinire la tradizione culturale che abbiamo alle spalle. Per andare oltre il canone, oltre le discipline, verso altre forme della conoscenza, altri mondi possibili.

Comitato scientifico: Paola Bono, Nadia Setti, Rita Svandrlik Progetto grafico: Giovanna Massini

MNEMOSINE 1 Mnemosine è una collana con revisione paritaria Mnemosine is a Peer-Reviewed Series Titolo originale: Terra e parole. Donne / scrittura / paesaggi Prima edizione: ©2016 Società Italiana delle Letterate Edizione digitale: ©2016 Ebook @ women ISBN: 978-88-98880-40-9 Atti del IX convegno nazionale SIL “Terra e parole. Donne riscrivono paesaggi violati” (L’Aquila, 8-10 novembre 2013)

Ebook @ Women [email protected]

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Parole sottolineate: capitolo corrispondente (nell’introduzione) o biografia dell’autrice (altrove nel volume)

Parole[P]: sezione “Percorsi per mappe immaginarie” (Link cliccabili sono nella versione ePub)

Parole[L]: sezione “Suggerimenti di lettura” (Link cliccabili sono nella versione ePub)

Indirizzi internet (ad es. http://www.leggendaria.it/negozio/leggendaria-n-102-carta/): siti internet esterni al libro Indice

Terra e parole. Donne / scrittura / paesaggi

Premessa ______1 Silvia Neonato

Introduzione. Per una letteratura sostenibile ______3 Serena Guarracino

PAROLE PER LA TERRA

Mappe strappate. Un invito a decolonizzare le rappresentazioni ______10 Lina Calandra

Mappe sognate ______14 Roberta Falcone

Incuria, violazione, messa in sicurezza: lessico patriarcale nel governo del territorio ______21 Annalisa Marinelli

La città negata ______24 Laura Tarantino

Il Green cinema, gli uomini, le donne, i bambini ______28 Lorella Reale

DocuDonne. Territorio, donne e cinema del reale ______34 Nicoletta Vallorani

I sommersi e i salvati di Anne Michaels ______40 Roberta Mazzanti

Bodies, Memories, Languages to Reconstruct. A Letter for L’Aquila ______43 Anne Michaels

Corpi, memorie, linguaggi per la ricostruzione. Lettera per L’Aquila ______46 Anne Michaels (traduzione di Paola Bono)

Paesaggi violati: ri-costruzione di vita e immaginario. I gruppi di lettura su Anne Michaels a L’Aquila _ _ _ 49 Nadia Tarantini per l’Associazione Donne TerreMutate

ROVINE E SPAESAMENTI

Rovine mute e pietre loquaci. Ricostruire senza nascondere il tempo e la distruzione ______58 Paola Di Cori

Cos’hai perso ______66 Marinella Manicardi

Lo sguardo garbatamente feroce di Natalia Ginzburg ______69 Sara Faccini

Le mamme di Fukushima ______74 Giuliana Carli Fughe ed esili: Poisson d’or di J.M.G. Le Clézio ______79 Giovanna Parisse

“Mondi di cui non si sa neanche il paesaggio”. Luisa Ricaldone in dialogo con Laura Pariani ______84 Luisa Ricaldone e Laura Pariani

Raccontare, spaesare, tramandare la Palestina: oralità e genealogia femminile ______90 Marta Cariello

Avere due patrie e non averne nessuna: le valigie delle donne ______96 Laura Fortini intervista Suban Igiaba Ali Omar Scego

… so di non essere dotata per un altro (mondo) ______100 Paola Meneganti

ARCHITETTE DEL DESIDERIO

Guasto celeste ______106 Monica Farnetti

Uno scheletro in crinolina si affacciò tra le rovine ______109 Gisella Modica

La luce delle cose. Breve indagine sulla poesia di Antonella Anedda ______116 Gabriella Musetti

Dal dissesto alla genealogia. Conversazione con Ida Travi ______119 Alessandra Pigliaru

Caryl Churchill: uno sguardo profetico ______123 Paola Bono

Arcadia ______128 Alina Narciso

Tre scosse ______133 Nadia Setti

Sulle tracce della città con Laudomia Bonanni ______138 Maria Vittoria Tessitore

TRACCE PER ALTRI ITINERARI

Percorsi per mappe immaginarie ______151 a cura di Serena Guarracino

Suggerimenti di lettura ______158 a cura di Serena Guarracino

Le immagini ______163

Note ______176

Le autrici ______220 Premessa

Silvia Neonato *

Noi, le libere donne del comitato di Cornigliano, ci battiamo per demolire uno dei monoliti della classe operaia: l’industria pesante, rumorosa e fetente, il mostro sputa fuoco, l’incudine e il martello all’ennesima potenza.

Era il 1988 e a Cornigliano, quartiere industriale di Genova, il Comitato lanciava la sua sfida. Quelle donne, che nel corso degli anni sarebbero diventate sempre più agguerrite, volevano vivere e lavorare senza i fumi velenosi dell’Italsider. Taranto è lì a ricordarci che tuttora ‘il mostro sputa fuoco’ viene difeso perché dà lavoro a migliaia di famiglie. Figuriamoci allora, quando Leila Maiocco e le altre assediarono le acciaierie genovesi per dire l’inaudito: ci si ammala di tumore polmonare per via delle polveri che troviamo sui davanzali e sul bucato, la salute della collettività viene prima del lavoro, facciamo chiudere quei dannati altiforni.

La scommessa era bonificare sia la fabbrica sia il quartiere e lottare tutti insieme: operai, femministe, sindacato e partiti. Le libere donne di Cornigliano sono state le prime, in Italia, a vincere questa battaglia e Leila Maiocco lo racconta magistralmente, insieme a Roberto Orlando, in Passioni d’acciaio 1 [L]: nel 2002 le cockerie si spengono, i Riva, gli stessi proprietari dell’Ilva di Taranto, a Genova rinunciano alla lavorazione a caldo nelle loro acciaierie.

La guerra delle donne ai veleni è lotta politica ma anche testimonianza, narrazione, poesia, romanzo, teatro, cinema. Succede di nuovo a Casale Monferrato che si solleva contro la Eternit, la fabbrica che tra il 1906 e il 1986 ha prodotto un composto mortale di cemento e amianto. È Silvana Mossano a dare voce alle donne della sua città in Malapolvere 2 [L]. Ed è Laura Curino a raccogliere il titolo e le storie di Silvana per portarle sul palcoscenico, partecipe e tagliente. Una lezione di teatro civile e politico.

Leggendaria[L] nel novembre 2013 ha preparato un inserto in vista del convegno dell’Aquila della Società Italiana delle Letterate3. Confortata dall’aiuto della direttrice Anna Maria Crispino, ho curato lo speciale mettendo insieme gli scritti di studiose e giornaliste (Serena Guarracino, Maria Rosaria La Morgia, Roberta Mazzanti, Gisella Modica, Nadia Tarantini, Maria Vittoria Vittori) per dare un primo anticipo delle parole e dei pensieri delle scrittrici e pensatrici che hanno provato a curare la terra, l’aria, i fiumi, l’esilio, la smemoratezza. Dopo le guerre. Dopo le catastrofi. Dopo le speculazioni.

Autrici che hanno urlato di rabbia oppure avvolto di parole pietose i paesaggi violati, come si fa con un corpo violato per strapparlo al buio. Clara Cot è l’artista a cui, per il nostro convegno, abbiamo rubato l’immagine della donna che applica cerotti (o bende?) sulla crepa/ferita di un muro 4. Per combinazione o forse no, le prime protagoniste italiane di questa battaglia sono state due partigiane: Tina Merlin, che scrisse moltissimo, inascoltata, contro la diga del Vajont prima del macello del 1963 e Laura Conti, che circa un decennio dopo, con il proprio lavoro di medico e con i molti e appassionati scritti, guerreggiò contro la nube tossica del reattore dell’Icmesa a Seveso.

Tra le invitate al nostro convegno, storiche, scrittrici, registe e letterate naturalmente. Come la canadese Anne Michaels – nello speciale di Leggendaria si trova molto sui suoi romanzi – perché ha scritto della devastazione di Varsavia e del massacro degli ebrei. E poi della grande opera realizzata in Egitto per creare il lago Nasser: i templi di Assuan prima spostati dalla loro sede e poi ricostruiti, perdono l’anima ma restano per i posteri. Gli umani e i loro animali vengono invece deportati altrove, le loro case sepolte dall’acqua come le piante. A cosa è servito allora ricostruire i templi, chiede una personaggia di Michaels?

1 Sappiamo da Italo Calvino che si può romanzare addirittura la speculazione edilizia, come egli fece scrivendo della cementificazione di Sanremo nel 1963, nel tempo del boom economico 5. In Rovina[L] Simona Vinci redige a sua volta un atto d’accusa alla devastazione edilizia compiuta dall’ecomafia narrando di un residence in costruzione sulla strada Reggio-Parma6. Terra agricola illegalmente resa edificabile, cemento carico di scorie velenose riciclate, enti pubblici corrotti e abitanti del residence travolti a uno a uno in questa storia violenta come un film dell’orrore.

La nostra scommessa per l’Aquila era proprio questa: cosa accade se la scrittura si allunga verso la catastrofe? E la parola può curare e cambiare le cose? A leggere gli articoli dello speciale di Leggendaria, ad ascoltare le protagoniste del convegno, si direbbe di sì. Le voci, il ricordo, la memoria[P] ricostruiscono paesaggi interiori, strappano le macerie al loro silenzio, ridanno vita e forma al vivente.

Aggiungo: chi salverà il piccolo, mite delfino d’acqua dolce dall’inquinamento del delta del Gange? Piya, la biologa marina che Amitav Ghosh fa navigare intrepida nella pagine di Il paese delle maree7 [L]. Chi potrà far risorgere Pristina, “la città che vomita se stessa” dopo la mattanza dei maschi e lo stupro delle donne? Le tre incancellabili kosovare di Piccola guerra perfetta[L] dell’albanese Elvira Dones che ci portano a Pristina sotto le bombe della Nato8.

“Dietro i sereni vasetti di fiori, dietro le teiere, i tappeti, c’è l’altro volto vero della casa, il volto atroce della casa crollata. Non guariremo più di questa guerra”, dice nel 1946, disperata, Natalia Ginzburg nel racconto Il figlio dell’uomo9 [L]. Eppure continuerà a scrivere fino alla fine, mai arresa alle violazioni e alle ingiustizie.

Dopo il terremoto dell’Emilia Marinella Manicardi – che è stata all’Aquila con noi e che ha scritto insieme con altri Alzando da terra il sole[L] - nel suo racconto ci conduce nella zona rossa di Mirandola. Dietro la facciata di case, palazzi e chiese non c’è assolutamente più nulla. A quel punto, credo per salvarsi, Marinella non può che continuare a scrivere. E appunta: “È crollato il tempo. Me la sono inventata io la mia infanzia felice a Mirandola?”10.

2 Introduzione

Per una letteratura sostenibile *

Serena Guarracino

“Noi” siamo in questo insieme. Rosi Braidotti

Questo refrain ricorre tra le pagine di Trasposizioni[L], reclamando l’esigenza di un soggetto sociale etico e non normativo che si prenda cura di questo, dell’elaborazione di “norme e […] valori di una politica ecofilosofica della sostenibilità”1. Questo “noi”, virgolettato perché transeunte e anti-universalistico, può anche definire, in maniera transitoria ma estremamente fertile, le 'donne' del sottotitolo di questo volume, risultato del IX convegno nazionale della Società Italiana delle Letterate; un’occasione in cui autrici, studiose, pensatrici, artiste, e attiviste, la maggior parte delle quali figura in queste pagine, si sono riunite all’Aquila nel novembre 2013 per parlare della scrittura delle donne – intesa nella molteplicità di forme che si incontreranno nelle prossime pagine – e di come essa abita e racconta i molteplici paesaggi del mondo.2

L’Aquila fu molto presente nelle discussioni di allora e lo sarà nelle pagine che seguono, perché non c’è altro luogo, almeno in Italia, dove è ancora impossibile elaborare il lutto di una città che non potrà più essere come prima, e insieme con la capacità inaudita di contaminare la ferita e il futuro, il trauma e la ricostruzione, come ha dichiarato la rettrice dell’ateneo aquilano Paola Inverardi in apertura di convegno:

abbiamo la consapevolezza che in situazioni così difficili non se ne esce se si rimane isolati ma solo aprendosi e avendo il coraggio di introdurre contaminazioni nella ricostruzione e nella ridefinizione del proprio futuro. Contaminazioni di genere, contaminazioni geografiche, contaminazioni di sapere, contaminazioni di futuro. 3

Tuttavia, L’Aquila è solo uno dei luoghi in cui la paura della catastrofe configura quella che ancora Braidotti chiama l’“economia politica delle affezioni”:4 uno stato emotivo che crea forme di incertezza patologica (individuale e collettiva) basata su un costante stato d’emergenza – e quindi, come nota Giorgio Agamben traducendo il benjaminiano Ausnahmezustand, anche su un costante stato d’eccezione, in cui diritti acquisiti e considerati inalienabili possono essere sospesi in caso di pericolo imminente5. Tuttavia sono proprio le pratiche politiche nate intorno al terremoto aquilano e ad altri stati d’eccezione, come la crisi della ‘monnezza’ a Napoli o i movimenti NoTav, ad elaborare una capacità di resistenza e anche di resilienza 6 rispetto alle diverse forme di controllo del territorio e delle comunità che caratterizzano lo stato di emergenza permanente del neocapitalismo contemporaneo; pratiche che si innestano in un movimento planetario di ripensamento del rapporto tra comunità umane e pianeta a cui hanno dato corpo e voce diverse teoriche che si riconoscono nella corrente dell’ecofemminismo. Questo movimento si oppone alla gestione proprietaria della vita da parte delle istituzioni globali per immaginare un’utopia reale e non violenta ossia, come scrive Vandana Shiva[L], “un futuro che si basa sul principio di inclusione, anziché di esclusione; sulla non violenza e sulla difesa del pianeta come bene comune, anziché come territorio da recintare; su una libera condivisione delle risorse terrene,

3 anziché sulla loro privatizzazione e monopolizzazione”7.

L’obiettivo principale dell’ecofemminismo è elaborare e mettere in atto politiche di sostenibilità dando valore ai saperi delle donne, ribaltando così in senso positivo la millenaria associazione tra donna e natura messa in opera dal patriarcato. Per Gayatri Spivak[L], “il pianeta rientra nelle specie di alterità che appartengono a un altro sistema; eppure lo abitiamo, a prestito”8; ed è su questa comune alterità che si fonda il legame profondo tra donna e terra. Non quindi su una supposta affinità naturale, ma sulla condizione comune di subalternità al soggetto egemonico maschile e occidentale. Come scrive Bruna Bianchi[L]:

La formulazione di un quadro teorico che prende in considerazione l’oppressione delle donne nel contesto di una molteplicità di oppressioni è, dunque, il punto di forza del pensiero ecofemminista; dotato di una coerente teoria dell’oppressione, è in grado di costruire una coerente teoria della liberazione9.

La teoria della liberazione formulata dall’ecofemminismo ha in seguito ispirato ulteriori tracciati del pensiero femminista contemporaneo: così Braidotti, partendo dalla rinuncia all’umanesimo antropocentrico necessaria alla decostruzione delle categorie dell’oppressione, fa un appello per il “divenire animale” dell’essere umano – un divenire animale che è anche “divenire mondo” (e ‘fare mondo’) in senso profondamente femminista, perché “il mio genere sessuale, storicamente parlando, non ce l’ha praticamente mai fatta a rientrare a pieno nell’umanità” 10. Solo attraverso il pensiero e la scrittura femminista è quindi possibile ricollocare la soggettività agente non come soggetto di un ordine globale, bensì come parte integrante di un pianeta senza gerarchie tra le sue forme di vita, come ha di recente argomentato anche Paul B. Preciado[L] nel suo “Manifesto animalista”: “il femminismo non è umanista. Il femminismo è animalista”11.

In questa riconfigurazione dell’immaginario la letteratura riveste un ruolo determinante: la proposta di Spivak in Morte di una disciplina di pensare alla terra in termini di planetarietà invece che di globalizzazione parte da un ripensamento della letteratura come “figurazione”, in cui ogni testo letterario “può sostenere la trasformazione di monumenti identitari in documenti per una ricostellazione” 12; ossia può decostruire la centralità dell’essere umano per riscrivere il nostro posto nel mondo. Si potrebbe aprire qui (ma non è il fine di questa breve introduzione) la quinta dell’ecocritica letteraria, che dagli anni ’90 ha proposto un “approccio agli studi letterari centrato sulla terra” 13; bisogna però sottolineare come questa proposta critica, che solo molto recentemente ha avuto un’eco in Italia[L] , 14 individua con chiarezza il ruolo della parola creativa nell’elaborare politiche di sostenibilità. Non si tratta quindi solo di mettere a tema le modalità in cui la letteratura e le arti danno forma alla percezione collettiva di paesaggi più o meno ‘naturali’, ma anche – come accade nei contributi raccolti in questo volume – di individuare e mettere in relazione narrazioni alternative del ruolo delle comunità umane nell’ecosistema planetario.

Una delle domande principali che Roberta Falcone e io ci siamo poste lavorando a questo volume, una di quelle più spesso emerse nei giorni del convegno, è in che modo la po-etica delle donne riesce a fare mondo nei momenti di crisi, quando la precarietà dell’esistenza umana sul pianeta viene esposta da una catastrofe, naturale o meno che sia. Nei paesaggi che emergono dalle prossime pagine, come nota anche Monica Farnetti nel suo intervento, la distinzione tra disastro naturale e violenza umana si dissolve nel comune senso di totale vulnerabilità; come emerge da entrambi i romanzi di Anne Michaels, che ricorreranno spesso nelle scritture che seguono. L’esercito nazista cala su Biskupin seppellendola “nella sabbia” come un flagello biblico senza volto in In fuga, 15 e l’intero romanzo, come scrive Oriana Palusci, è “costituito da pezzi di corpi che fanno fatica a ricomporsi sui terreni violati dalla seconda guerra mondiale e dai suoi orrori” 16. In La cripta d’inverno, d’altro canto, lo stesso esercito si ritrae da Varsavia come un’onda anomala, lasciando dietro di sé detriti e “migliaia di noi, Robinson Kruzoes [sic], a vivere tra le macerie”, come racconta il sopravvissuto Lucjan17.

Il terremoto, lo tsunami, così come la guerra e la deportazione, riportano l’essere umano alla condizione dell’infante, “l’inerme assolutamente esposto che attende la cura e non ha alcun modo per difendersi dalla ferita. La sua relazione all’altro è una totale consegna della sua singolarità corporea in un contesto che non prevede reciprocità”18. Questo ‘altro’, nota Adriana Cavarero[L], non può essere che la madre, figura archetipica del femminile che distrugge nel semplice gesto di sottrarre la cura; tuttavia non si tratta di reinvestire di senso il femminile materno e destinare le donne – di qualunque biologia, cultura e latitudine – a riparare i danni che secoli di colonizzazione umana hanno causato al pianeta, bensì di “indicare una via d’uscita dal pantano metafisico della femminilità classica e della maternità decretata dal patriarcato, e trasporla” 19. Trasporla, tramandarla, tradurla in una nuova soggettività narrante in cui anche le rovine possono diventare fonte di storie che curano, come scrive Antonella Tarpino[L]:

Dalle rovine le storie escono, invece, quasi naturalmente illese. Liberano un tempo nuovo, sostenibile. Sono le

4 storie che vibrano ancora nell’aria a fare di un abitato un luogo. Uno spazio che è reso tale dal carico di memorie, sentimenti, drammi che gravano intorno alle sue pietre 20.

Così la scrittura delle donne rimappa i paesaggi del trauma declinandoli nell’utopia reale. Accade nella Boemia straziata dal nazismo di Ingeborg Bachmann, una Boemia che si posa, finalmente ‘quieta’, sul fondo del Mediterraneo: “A fondo – cioè al mare, là ritrovo la Boemia./ A fondo, in rovina, mi sveglio quieta” 21. Ma lo stesso fondale marino che Bachmann ci restituisce sull’onda dell’utopia, altre narrazioni (quelle delle scrittrici palestinesi raccontate da Marta Cariello come dei migranti di Lampedusa di cui discorrono Laura Fortini e Igiaba Scego) ce lo raccontano come un paesaggio violato dalla fortezza Europa che sottraendo la cura ne fa ‘mare solido’ e tomba liquida; ma anche un paesaggio riscritto costantemente dalle storie delle e dei migranti che ogni giorno lo attraversano rendendolo lo scenario della propria speranza.

Questo fertile rapporto tra creatività e critica dà vita all’intreccio di saperi che ritroverete nelle prossime pagine. Gli strumenti della narrazione sono al centro dei contributi della prima sezione, Parole per la terra, a partire dalla sovrapposizione tra racconto visuale e letterario che emerge dai contributi di Lina Calandra e Roberta Falcone. Il dialogo tra queste due studiose, una geografa e una letterata, è l’esempio dello scambio tra saperi e discipline che ha dato forma a questo lavoro: il loro sforzo (congiunto in sede di convegno, anche se qui presentato in scritture separate) è quello di strappare le mappe – quelle della geografia ufficiale ma anche quelle dei cartografi-esploratori dell’‘800, che nel rendere il mondo in forma grafica lo assoggettavano allo stesso tempo al dominio coloniale europeo – in modo da fare emergere nuove mappature attraverso un cambiamento del punto di vista. Un cambiamento che implica anche la messa in questione del linguaggio utilizzato per raccontare il territorio, come appare evidente dalla discussione sull’etimologia della parola ‘sicurezza’ da parte di Annalisa Marinelli, che esplicita l’uso coercitivo e anti-collettivo che di questa parola hanno fatto le politiche nazionali. Se il governo del territorio fa uso di un vocabolario patriarcale, che disincarna il concetto di libertà associandolo ad un soggetto assoluto, e che associa la relazione alla vulnerabilità, allora anche la narrazione del territorio che emerge da queste politiche non potrà che essere patriarcale.

Allo stesso modo Laura Tarantino ribatte punto per punto alle narrazioni istituzionali del post-terremoto, argomentando il perché alla distruzione non deve necessariamente – come se fosse conseguenza della calamità naturale – seguire la disgregazione delle comunità coinvolte, e come la ricostruzione della città non passi necessariamente o esclusivamente nella ricostruzione degli edifici.

C'è bisogno di un esercizio “ad aggiustare lo sguardo, le parole, i paesaggi e la mente”, come auspica Nadia Setti nel suo contributo più avanti nel volume. E non è un caso che sia l’Africa – continente ‘Altro’ per eccellenza dell’Europa – a sollecitare questa differenza di sguardo: che si tratti delle tracce percorse in fuoristrada nel Burkina Faso di Setti; delle diverse mappature delle popolazioni che vivono nel Niger meridionale (per niente funzionali all’esplorazione/appropriazione del territorio da parte degli studiosi europei) raccontate da Calandra; dell’Africa al centro di Roma raccontata da Scego; o ancora delle scritture attraverso cui ci accompagna Falcone, in cui spiccano nomi come J.M. Coetzee, Antije Krog e Zoë Wicomb, che mostrano l’intreccio ineludibile tra il racconto del paesaggio postcoloniale e l’impegno politico in molta letteratura contemporanea.

Altra narrazione sono le arti visive, a cui sono dedicati i contributi di Lorella Reale e Nicoletta Vallorani. Sia Reale attraverso le narrazioni utopiche e distopiche del cinema mainstream (utopie e distopie che si ritroveranno più avanti nei contributi di Paola Bono e Alessandra Pigliaru), che Vallorani attraverso la cifra apparentemente antitetica del ‘cinema del reale’, proseguono lo spostamento dello sguardo con un’attenzione necessaria al senso etico della pratica della visione. Questa non si rivela solo strumento di addomesticamento delle coscienze, bensì educatrice ad altri sguardi: non a caso Reale si sofferma sul cinema d’animazione, dedicato a bambini e ragazzi (anche se fruito spesso anche dagli adulti) e quindi sempre prodotto con l’intento più o meno malcelato di educare oltre che di intrattenere. E infatti alcuni dei film menzionati da Reale fanno parte di quello che Jack Halberstam ha definito con un neologismo “Pixarvolt”, film di animazione “anti-umanisti, anti-normativi, multigenere, e ricchi delle più svariate forme di socialità”22. L’animazione recente sembra raccogliere quindi l’invito di Braidotti al ‘divenire animale’ dell’umano, esplorandone la radicalità con storie che celebrano la ribellione allo status quo e la ricerca di forme di socialità sostenibili.

Il film documentario (o ‘cinema del reale’ secondo la definizione preferita da Vallorani) sposta invece l’attenzione sulla ricerca di nuovi linguaggi che siano in grado di narrare le complessità della relazione tra l’ambiente e il soggetto narrante – specie se femminile. Attraverso l’esperienza maturata in sette anni di Docucity (festival di cinema documentario di cui è l’ideatrice insieme a Marco Carraro, Chiara Martucci e Gianmarco Torri) Vallorani mostra come questo genere ‘marginale’ si presti a narrare storie di paesaggi violati – come quello al centro di In Utero Srebrenica di

5 Giuseppe Carrieri – ma anche storie di resistenza quotidiana come quelle raccontate da Irene Dioniso in La fabbrica è piena o da Valeria Pedicini in My Malboro City; ma soprattutto il cinema del reale è in grado di offrire uno sguardo espressamente non onnicomprensivo, autorevole ma imperfetto portatore di storie.

Portatrice di storie per eccellenza in questa collettanea è la già menzionata Anne Michaels, storie che si intrecciano nel trittico di contributi a lei esplicitamente dedicati ma che si ritroveranno poi disseminate in diverse altre scritture incluse in questa raccolta, come quelli di Paola Meneganti e Gisella Modica: ma una storia diventa la sua partecipazione mancata al convegno, nella lettera che l’autrice scrisse per l’occasione e che pubblichiamo nell’originale inglese e nella traduzione italiana di Paola Bono. Roberta Mazzanti introduce al lavoro di Michaels intrecciando lo studio critico all’intimo lavoro editoriale che tuttora la affianca alla scrittrice canadese, offrendoci così un punto di vista privilegiato per attraversare i due romanzi, In fuga e La cripta d’inverno, che riemergeranno spesso in questa collettanea; mentre Nadia Tarantini racconta l’esperienza dei gruppi di lettura organizzati dall’Associazione Donne TerreMutate. Le partecipanti ai gruppi di lettura, aquilane e non, hanno utilizzato i testi di Michaels come interlocutori per lunghi e tortuosi percorsi attraverso le esperienze vissute a seguito del terremoto, mettendo in pratica l’appello al ‘fare memoria’ di Monica Farnetti: il risultato è un palinsesto di storie che si riecheggiano anche se collocate diversamente nello spazio e nel tempo – ricorre spesso, qui come altrove, il riferimento allo sradicamento delle popolazioni locali durante la costruzione della diga di Assuan raccontato in La cripta d’inverno – in un testo a più voci che elabora strategie di resistenza alle narrazioni egemoniche del post-terremoto.

La seconda sezione è invece dedicata a Rovine e spaesamenti, e prosegue l’opera di ribaltamento dei segni della catastrofe con le ‘rovine loquaci’ di Paola Di Cori, che ci accompagna in un percorso articolato che va da W.G. Sebald a Gordon Matta-Clark passando per il restauro della casa di Daniel Mariani e Diana Teruggi in Argentina, in cui sono stati preservati i danni provocati dall’attacco militare che nel 1976 portò alla cattura e poi alla morte dei due militanti. Interventi che mostrano il trauma invece di rimuoverlo, non per calcificare la perdita ma per riconoscerla come parte del presente e del futuro: così Marinella Manicardi racconta ‘cos’ha perso’ nel terremoto che ha colpito l’Emilia nel 2012, mettendo in poesia la complessa relazione tra oggetti e memoria.

La sezione prosegue con l’analisi di Natalia Ginzburg da parte di Sara Faccini , che mette in relazione la scrittura femminile, così come emerge da saggi dell’autrice e dei suoi contemporanei, e il racconto ginzburghiano del paesaggio di Pizzoli, in Abruzzo, dove insieme a suo marito visse al confino durante la guerra; una scrittura accurata e affettuosa, quella di Faccini, che racconta lo spaesamento della scrittrice trasferitasi in un piccolo paese di montagna, ma anche quello di una soggettività femminile in difficoltà nel confrontarsi con il linguaggio letterario ancora considerato provincia esclusiva degli uomini. Uno spaesamento ben diverso è invece quello raccontato da Giuliana Carli, che rievoca la sua esperienza di sostegno alle madri e ai bambini giapponesi arrivati in Italia dopo il disastro di Fukushima; un’esperienza drammatica narrata con toni sobri, in cui la relazione tra donne si contrappone ai tentativi del governo giapponese di ‘gestire’ l’emergenza attraverso la messa in minorità dei soggetti vittima a diverso titolo della tragedia.

La migrazione temporanea delle donne giapponesi in terra italiana preannuncia gli spaesamenti al centro degli ultimi tre contributi di questa sezione. Il primo ci racconta del romanzo Le due vite di Laila di Jean-Marie Gustave Le Clézio: Giovanna Parisse ci introduce alla vicenda di Laila, personaggia “votata all’erranza” che dal nativo Marocco inizia un viaggio che la porta in Francia e poi altrove – un viaggio in cui anche il ritorno conclusivo nella madre patria è solo un nuovo punto di partenza per altre errabonde traiettorie. Il secondo vede un dialogo tra Luisa Ricaldone e Laura Pariani, che traccia le rotte della migrazione italiana in Sudamerica ma anche lo spaesamento dei personaggi di Pariani nel paesaggio che abitano, sia esso la metropoli di Milano è una selva oscura o quello 'marginale' dell’Alto Piemonte in La valle delle donne lupo. Centrale emerge, in questo continuo spaesamento, la ricerca linguistica sempre in bilico tra l’italiano ‘standard’ e un caleidoscopio di varianti; una molteplicità di lingue che reinscrive l’oralità nella scrittura così come accade nelle poete-performer raccontate da Marta Cariello, che attraverso i loro versi – intrecciati con quelli sempre cari di Adrienne Rich – mostra come la scrittura possa dare corpo e voce a una nazione inesistente. Suad Amiry e Suheir Hammad sono rawiah, narratrici, dalla radice r-w-y che vuol dire (anche) ‘abbeverarsi’: e alla fonte della loro poesia un’intera generazione della diaspora palestinese si disseta, facendo memoria e mondo del paesaggio straziato dal conflitto israelo-palestinese.

Un conflitto che non vive di guerra aperta bensì di violenza quotidiana, come quello che ha caratterizzato negli ultimi anni la Somalia della quale racconta Igiaba Scego nella sua conversazione con Laura Fortini; ma la scrittrice non si limita alla terra natale dei suoi genitori, bensì abbraccia in un unico sguardo Africa ed Europa, reinscrivendo il Mediterraneo non come confine, bensì come paesaggio comune necessario ad un futuro di convivenza. Futuro necessario perché nessuna di noi è “dotata per un altro [mondo]”, come nota Paola Meneganti nel suo contributo, citando Clarice Lispector. Ed è attraverso Lispector, Virginia Woolf, e Anne Michaels che Meneganti fa l’inventario

6 degli strumenti di cui la scrittura delle donne ci dota, trovando nella “funzione guerriera” di Angela Putino non la soluzione, ma la risposta delle donne allo spaesamento, sia esso geografico, politico o affettivo, sempre però vissuto come potenzialità di fare mondo.

Il desiderio di una politica sostenibile di convivenza anima gli interventi della terza sezione, Architette del desiderio, il cui titolo cita esplicitamente la raccolta a cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo e Ida Faré 23. Il contributo di apertura di Monica Farnetti rintraccia in diverse opere, e in particolar modo in Guasto di Christa Wolf e in Corpo celeste di Anna Maria Ortese, le potenzialità del fare memoria del trauma “per trasformare l’accaduto in libertà”, come scrive María Zambrano. Farnetti articola qui una proposta “cosmopolitica”: il cosmo-mondo è spazio pubblico e arena del pensiero – così come concettualizzato da generazioni di pensiero femminista, che dell’occupazione dello spazio pubblico da parte delle donne hanno fatto un obiettivo primario di lotta; ma la distinzione tra soggetto e oggetto, tra corpo e mondo, non è più applicabile perché entrambi fanno parte di un “organismo vivo, corpo celeste che raduna su di sé innumerevoli presenze, luogo di incontro di forze, creature e misteri che sollecita a tenere in massimo conto la scienza delle relazioni e le pratiche della convivenza”.

La letteratura come pratica di relazione emerge dalla letteratura appassionata di Antonella Anedda da parte di Gabriella Musetti: la scelta della poeta di ‘parlare a’ opere e autori, invece che ‘di’ o ‘per’ essi, è qui proposta come metodo di conoscenza del mondo, un’utopia relazionale che diventa concreta nell’isola – come appunto è isola l’u- topia, il non-luogo che ospita la civiltà ideale di Tommaso Moro – in cui si situa la voce narrante de La luce delle cose. E utopie e distopie popolano questa sezione: l’utopia reale – anche se breve – della comune nata durante le operazioni di sostegno alle popolazioni colpite dal terremoto del Belice, di cui racconta Carola Susani nel contributo di Gisella Modica; la poetica fantascientifica di Ida Travi, in conversazione con Alessandra Pigliaru, che racconta di una giovane generazione sopravvissuta e pronta a ricostruire, a fare mondo stavolta alle proprie condizioni; la distopia graffiante di Caryl Churchill, che nei tre drammi analizzati da Paola Bono (Lontano lontano, Not not enough oxygen, e The Skriker) tratteggia mondi degradati, distrutti dalla crisi ambientale che rende l’ossigeno un bene di lusso o da una guerra totale in cui sono coinvolti tutti gli esseri più o meno viventi, dai cervi alla digitale purpurea; e infine il racconto di rivolta di Alina Narciso, dove l’utopia pastorale è stravolta da un Grande Fratello in sedicesimo, verso il quale l’unica risposta è la ribellione e la lotta armata. Perché architettare il desiderio, per le scritture delle donne, spesso vuol dire immaginare nuovi mondi, come hanno raccontato Ursula Le Guin, Octavia Butler o più di recente Donna Haraway con il suo Chtulhucene, nuova epoca che prende il nome dalla divinità ctonia ideata da H.P. Lovecraft per annunciare la fine della centralità dell’umanesimo e soprattutto del capitale come sistema-mondo 24.

La necessità di immaginare altri mondi – nella fantascienza così come in altre forme di narrazione emerse in questi contributi – nasce dalla difficoltà di fare mondo mediante il linguaggio che si assorbe dai media e dal discorso pubblico. Ad essa i saperi del femminismo possono però rispondere con quel già menzionato aggiustamento dello sguardo che Nadia Setti qui elabora attraverso tre ‘scosse’, tre paesaggi che scuotono la sicurezza del soggetto europeo e bianco rispetto ad un paesaggio che non si fa contenere. Paesaggi che trovano un’eco potente in quello aquilano – conclusione inevitabile per questa collettanea che a L’Aquila è nata e che lì ha visto buona parte della propria gestazione; e nell'appendice dal titolo Sulle tracce della città, il luogo che ha dato vita a queste scritture ritorna non come oggetto di studio, bensì come laboratorio di narrazioni resistenti. È proprio tra quelle case puntellate – e non tra quelle spaesate dei vari programmi abitativi post-terremoto – che ci accompagna l'ultimo contributo di questo volume, una vivida passeggiata tra le scritture dell’autrice aquilana Laudomia Bonanni raccontata da Maria Vittoria Tessitore, che dopo aver coordinato insieme a Anna Maria Giancarli, Gianfranco Giustizieri e Valentina Valleriani il percorso che ha concluso il convegno, ci accompagna qui nei meandri di una scrittura impervia e sorprendente, in cui i luoghi abruzzesi offrono una posizionalità unica e radicale per raccontare l’Italia della Resistenza e del dopoguerra. Tessitore racconta qui i paesaggi di Bonanni, quelli dell’Aquila de L’imputata ma anche quelli delle montagne e degli eremi petrosi che accolgono la confessione della Donna partigiana protagonista de La rappresaglia; ma come in molte altre scritture esplorate in questo volume, anche qui la parola dal margine diventa politica, attraversando gli anni cruciali di un impegno femminista esplicitato nel dibattito nazionale, e di cui la critica ha mancato per ora di rendere conto. La scrittura di Bonanni si intreccia alle altre in una mappa impossibile e necessaria per compiere quel “salto creativo che produce un prolifico spazio intermedio” tra le diverse storie e scritture che attraversano queste pagine 25. Un salto creativo in grado di pensare parole e memorie nuove per contrastare quella condizione individuata da Nicoletta Bardi, anima tra le altre cose dei Bibliobus aquilani e della Bibliocasa di Piazza d’Arti, che durante il convegno ha trovato parole incisive per definire la condizione delle e degli abitanti delle zone terremotate: “noi siamo colonizzati nella testa”. Parole che echeggiano per affinità elettiva quelle dello scrittore keniota Ngũgĩ wa Thiong’o[L], che nel lontano 1986 sollecitava scrittori (e scrittrici) a ‘decolonizzare la mente’, a limitare l’influenza dell’inglese nella scrittura per affrancarsi dalla visione coloniale di cui questa lingua si fa inevitabilmente portatrice26. L’impegno delle autrici che hanno contribuito a questo volume, insieme a tutte le altre che hanno partecipato al convegno che ne è stata la prima occasione, è stato infatti quello di lavorare insieme per decolonizzare saperi e

7 linguaggi. “Non si tratta semplicemente di tessere insieme fili diversi, variazioni sul tema (testuale o musicale) ma di far risuonare la positività della differenza come tema specifico a sé”27, scrive Braidotti, ed è questo senso della differenza del pensiero come valore irrinunciabile (che poi è la lunga lezione del femminismo) che ha guidato gli scambi avvenuti in quei giorni così come sono testimoniati in queste pagine. Ciò che emerge non è quindi una mappatura completa ed esaustiva, bensì Tracce per altri itinerari, come legge il titolo della seconda appendice: mappe distrutte per sognarne di nuove, grazie alle parole offerte dalla letteratura in tutte le sue emanazioni. A queste nuove narrazioni sono dedicati i percorsi del contributo Percorsi per mappe immaginarie, dove si è tentato di tracciare una mappa concettuale che accolga sotto alcune parole chiave una selezione (parziale e non esaustiva) delle suggestioni che emergono dai diversi saggi. I link segnalati dalla lettera [P] che troverete all’interno del volume vi porteranno a questa sezione, alla citazione corrispondente: potrete scegliere di tornare al saggio che stavate leggendo oppure di esplorare il cluster corrispondente attraverso le parole di altre autrici, ed eventualmente farvi condurre ai saggi da cui proviene un altro passo, proseguendo così la lettura in un altro punto del volume. Allo stesso modo, il contributo Suggerimenti di lettura raccoglie le suggestioni letterarie che emergono in momenti diversi del volume: ogni titolo porterà ad uno dei punti del volume in cui quel testo è presente, permettendo ulteriori percorsi che attraversano i diversi contributi. Vogliamo così mettere in relazione non sequenziale le parole o le opere trattate dalle diverse autrici, e proporre invece dei percorsi alternativi che portino da un testo all’altro in maniera frammentaria e non lineare – favorita dalla forma del libro elettronico – a testimoniare la ricchezza emotiva e di pensiero dei contributi qui raccolti, e la loro volontà di ridefinire il modo in cui si parla di ‘catastrofi’, ‘perdita’ o ‘libertà’. Con l’intento di trovare parole nuove in quelle che già conosciamo per raccontare la terra.

8 PAROLE PER LA TERRA

9 Mappe strappate

Un invito a decolonizzare le rappresentazioni

Lina M. Calandra

Quando pronunciamo o ascoltiamo la parola ‘mondo’, è naturale, per noi che viviamo in ‘una certa parte’ e che studiamo ‘una certa geografia’, visualizzare nella mente il planisfero. Del resto, la rappresentazione cartografica, capace, con la sua visione dall’alto, di raccogliere in un solo sguardo la Terra tutta intera, con i suoi vuoti e i suoi pieni, con i suoi chiari e i suoi scuri, con i suoi oceani e le sue terre emerse, esprime e traduce il bisogno insopprimibile delle società umane di governare cognitivamente e simbolicamente la realtà.

Un bisogno di controllo, poi, che inevitabilmente si traduce in una visione ideologica della realtà funzionale ad altre forme di governo, per esempio quella pratico-materiale per lo sfruttamento delle risorse e/o quella organizzativa che, in genere, nella politica trova una delle sue espressioni più alte ma, non di rado, anche più crude e ciniche quando il controllo del territorio porta con sé violenza, guerra, conquista. E allora la rappresentazione del Mondo diviene strumento del e per il potere, per l’oppressione, per la negazione dell’altro. La carta geografica finisce per essere la proiezione figurativa di una sola idea di Mondo e di un solo modo di vedere il Mondo; una proiezione effettuata da un unico punto di vista, strumento di colonizzazione.

L’intento di queste poche pagine non è tanto quello di dimostrare e argomentare tali affermazioni, né tanto meno di ripercorrere momenti della storia della cartografia: autori ben più autorevoli e competenti lo hanno già fatto 1. L’intento è piuttosto di provare a fornire qualche elemento per la de-colonizzazione delle nostre rappresentazioni. Di queste poche pagine va colto l’invito a ‘strappare’ le nostre mappe, non per rimanere disorientati e senza più punti di riferimento, ma anzi per avere la possibilità di aprire le nostre menti, andare oltre gli stereotipi, affinare lo sguardo, dare profondità al rapporto con la Terra/terra2. Insomma, per avere la possibilità di disporre di altri riferimenti per sognare e desiderare nuove mappe.

Il Mondo che crediamo di conoscere

Il Mondo come siamo abituati a vederlo è quello rappresentato dal ‘classico’ planisfero costruito con proiezione cilindrica centrografica quadrata o, più spesso, modificata di Mercatore3, e con più o meno al centro del foglio l’Europa: tutti noi siamo cresciuti convinti che il Mondo sia così come ce lo mostra tale raffigurazione anche perché essa è tra le più utilizzate, per esempio, dai comuni manuali di geografia adottati nelle scuole 4. Ma un bambino scolarizzato, per esempio, in Canada avrà in mente, quanto meno, un mondo diversamente ‘centrato’: il centro del Mondo/planisfero sarà per lui il Continente nord-americano; allo stesso modo, per un bambino giapponese la centralità del Mondo farà perno sull’Oceano Pacifico (Fig. 1).

Fig. 1 (pag. 164): Il planisfero e il centro del Mondo (su proiezione di Mercatore) © Lina M. Calandra

Eppure queste rappresentazioni, comunque risultino centrate, non ci restituiscono il Mondo ‘così com'è’ perché esse sono il frutto di ‘scelte’ geometriche e matematiche operate dai cartografi, in maniera sostanzialmente arbitraria, per risolvere i numerosi e vari problemi che la trasposizione della superficie sferica irregolare della Terra su un foglio piano pone. In funzione del tratto di superficie terrestre che più interessa rappresentare, non solo un planisfero può assumere

10 centralità diverse a seconda del meridiano scelto dal cartografo per ‘tagliare’ la Terra e appiattirla sul foglio di carta; ma esso può anche cambiare assialità e rimanere comunque ‘corretto’ dal punto di vista tecnico. Accanto a planisferi con assialità equatoriale, come quelli di figura 1 per i quali la superficie di proiezione, ossia il cilindro, risulta parallelo all’Equatore, possiamo avere, per esempio, planisferi con assialità polare come quelli riportati in figura 2.

Fig. 2 (pag. 164): Il Polo Nord al centro del Mondo © Lina M. Calandra

Le scelte che un cartografo può operare rappresentano ormai un sistema di regole rigidamente codificate e universalmente accettate, ma ciò non toglie che l’applicazione di tali regole produce sempre e comunque una deformazione della Terra, più o meno grande, più o meno controllata, ma sempre una deformazione. Di fatto è impossibile, quando si opera una proiezione della Terra sul foglio piano rimanere fedeli alla realtà: è impossibile riprodurre allo stesso tempo su carta la perfetta corrispondenza di distanze, forme e superfici reali. Non esistono proiezioni giuste o sbagliate, vere o false: esistono piuttosto proiezioni più o meno adatte ai vari scopi che una rappresentazione si prefigge.

In funzione degli obbiettivi della raffigurazione, il cartografo decide con quale caratteristica del reale sia più opportuno mantenere la corrispondenza. La proiezione conforme messa a punto da Mercatore nella seconda metà del XVI, per esempio, era in funzione delle esigenze del commercio mondiale Est-Ovest e rispondeva al bisogno di disporre di strumenti più precisi per navigare da un punto all’altro della Terra: mantenendo una corrispondenza con gli angoli e con le direzioni reali (e quindi con le forme), la sua proiezione consentiva ai navigatori di “seguire una ‘via di mezzo’ fra la navigazione imprecisa per linea retta e quella improponibile in pratica per cerchi massimi” 5. In altri casi, invece, può risultare più opportuno mantenere la corrispondenza con le distanze o con le superfici reali. Il planisfero in fig. 3 - pag. 165 (la mappa di Peters), per esempio, ci appare ‘deforme’ o, quantomeno, ‘strano’ eppure non c’è nulla di sbagliato. Si tratta del planisfero costruito con la proiezione messa a punto da James Gall nel 1855 ma diventata ‘famosa’ un secolo dopo con l’elaborazione nel 1967 di Arno Peters. Questa rappresentazione ha la caratteristica di mostrarci il Mondo ‘così com’è’ rispetto alle superfici reali con il risultato che esso appare dilatato in senso Nord-Sud e contratto in senso Est-Ovest perché Peters elabora la sua carta con in testa le ‘preoccupazioni’ economiche e politiche della seconda metà del XX secolo, articolate appunto lungo l’asse Nord-Sud: “Per Peters la precisione della navigazione non era più l’obiettivo di una produzione globale; vivendo in un’epoca che chiamava ‘periodo post-coloniale’, definita da guerre globali, nazionalismo e decolonizzazione, per lo studio della geografia e la pratica cartografica erano diventati centrali i problemi della distribuzione delle terre, del controllo della popolazione e della disuguaglianza economica”6. Allo stesso modo, poi, non c’è nulla di tecnicamente errato neppure nel planisfero di figura 4: qui, la scelta di non adottare la convenzione per cui il Nord è sempre nella parte alta del foglio ci fa apparire il Mondo ‘a testa in giù’, sovvertendo l’idea che esista il ‘Sud’ del Mondo.

Fig. 4 (pag. 165): Uno Mondo/planisfero ‘strano’: il mondo alla rovescia

Ecco, il punto è questo: si tratta di ‘scelte’ ma non solo sul tipo di proiezione o di orientamento; si tratta di scelte anche sulla visione che vogliamo avere del Mondo e dell’idea che abbiamo di noi rispetto a tutti gli altri; dell’idea che ci siamo costruiti, o che ci hanno costruito, di noi e degli altri. Perché la visione che abbiamo del Mondo è il frutto di proiezioni figurative di cui non siamo neppure consapevoli: vediamo in un certo modo perché, a nostra insaputa, un qualche ‘cartografo’ ha scelto per noi una proiezione precludendoci la possibilità di vedere la Terra da altri punti di vista e secondo altre prospettive. Così, quello che crediamo di conoscere è in realtà il frutto di una nostra ignoranza che il linguaggio cartografico (e ‘scientifico’) spesso contribuisce a far passare come conoscenza oggettiva. Insomma, non stiamo parlando solo di cartografia e di mappe, ma anche e più in generale degli strumenti cognitivi di cui ci serviamo per leggere e capire la realtà. E di tali strumenti, così come per le mappe, è importante conoscere i ‘trucchi’ per non rimanere intrappolati in un solo modo di vedere le cose.

Cambiare il punto di vista per affinare lo sguardo e dare profondità al rapporto con la terra

Per provare a riaprire la possibilità di vedere il Mondo attraverso una molteplicità di punti di vista, il Continente Africano, nella sua enormità fisico-spaziale e nella sua complessità sociale, culturale e territoriale, rappresenta – come del resto tante altre terre – un’ottima palestra per imparare a cambiare punto di vista e ad andare oltre gli stereotipi, primi fra tutti quelli basati sulla distinzione tra naturale e antropico 7. Prendiamo la savana; un qualunque manuale di geografia, per esempio per la scuola secondaria di 1° grado, la descriverebbe più o meno in questi termini:

La savana è un territorio pianeggiante coperto da un tappeto di erbe alte, spesso punteggiato di alberi o macchie di arbusti. Le erbe sono in prevalenza graminacee perenni, dalle foglie rigide, alte circa 1 metro e riunite a

11 ciuffi. Gli alberi sono in genere acacie a ombrello o isolati baobab (in Africa). La savana cambia aspetto nelle opposte stagioni: - nella stagione umida le erbe sono nel massimo rigoglio e formano un tappeto verde che riempie tutto il territorio; - nella stagione secca il manto erboso ingiallisce e tutto il paesaggio assume un colore bruno; i pochi alberi perdono le foglie e i rami restano scheletrici8.

Ecco, quella del baobab isolato costituisce sicuramente una delle immagini più comuni della savana africana. Del resto, non c’è catalogo turistico, documentario televisivo, ecc. sulla savana che non mostri, ad emblema della natura africana stessa (spesso connotata come ‘primitiva e selvaggia’), l’immagine di un suggestivo e maestoso baobab (Adansonia digitata). E però, il baobab, osservato da lontano, ‘da fuori’, per esempio da noi che non viviamo nella savana, appare un elemento naturale; visto da vicino, invece, da ‘dentro’, ossia da chi nella savana conduce quotidianamente la sua esistenza, esso rappresenta sempre (o comunque il più delle volte) il segno tangibile e inequivocabile dell’operato dell’uomo sulla terra/Terra. La presenza di un baobab, infatti, come ogni abitante della savana sa bene, è il risultato di un intervento umano perché essendo la propagazione spontanea dei semi della pianta alquanto improbabile, date le caratteristiche morfologiche dei semi stessi, la diffusione del baobab è strettamente e in buona parte dovuta all’uomo. In particolare, essa si lega all’atto territoriale di fondazione di nuovi insediamenti (villaggi, accampamenti permanenti, luoghi sacri, ecc.), sicuramente per ragioni pratiche (frutti e foglie costituiscono fonti di cibo) ma anche e soprattutto simboliche9.

E per restare sempre nella savana, soffermiamoci sulla componente climatica. Come il testo riportato precedentemente ci informa, il clima della savana si caratterizza per l’alternarsi di due stagioni. Ora, immaginiamo di aver bisogno o curiosità di conoscere, più precisamente, il clima del Niger. Una qualunque enciclopedia geografica preciserebbe che la stagione secca, caratterizzata da temperature medie di 25 °C, va da fine ottobre ad aprile e che la stagione piovosa, con temperature medie di 29 °C, va da maggio a ottobre. Sempre l’enciclopedia, poi, puntualizzerebbe che però le precipitazioni non interessano tutto il Niger. In effetti, l’influenza delle masse d’aria umida oceaniche ed equatoriali provenienti dal golfo di Guinea riescono a penetrare nel Paese in maniera significativa solo limitatamente alle regioni più meridionali, facendo ricadere, quindi, quelle settentrionali sotto un regime desertico. In breve, la rappresentazione che la scienza geografica fa del clima della savana nigerina può essere sintetizzata come nel grafico di fig. 5 - pag. 166 (Le stagioni in Niger). Ora, però, osservato da ‘dentro’, con gli occhi delle diverse popolazioni che vivono nel Niger meridionale, il clima di quel pezzo di Mondo non si articolerebbe solo in due stagioni, bensì: in tre per l’agricoltore-pastore fulmangani; in quattro per l’agricoltore dendi; in cinque per il pastore transumante peul 10.

E allora: quante stagioni ci sono in Niger? Quale di queste interpretazioni della natura, ed in particolare del clima, è ‘vera’ e ci dice ‘veramente’ come stanno le cose? Tutte e nessuna, ma un dato è certo: la rappresentazione peul in cinque stagioni è sicuramente la più complessa e sofisticata. Essa, infatti, mette a sistema il dato relativo alle precipitazioni distinguendo tra prime piogge (seeto) e piogge propriamente dette (dungu); il dato sulle temperature individuando una stagione fredda (dabuney) e una calda (cendwe); e il dato relativo alla vegetazione. Yaawol è il nome peul dell’Acanthospermum hispidum, pianta annuale che cresce soprattutto su suoli argillo-sabbiosi: cominciando a seccare a partire dalla fine della stagione delle piogge, il yaawol indica al pastore transumante che è arrivato il momento di tornare a casa per trascorrere i duri mesi di cendwe 11. Partito all’inizio delle piogge, in corrispondenza della semina del miglio, per raggiungere i ricchi pascoli del Nord distanti più di 200 km, durante il yaawol il pastore intraprende la strada del ritorno per giungere a casa quando il miglio sarà maturo. La raccolta del miglio è fondamentale per il pastore peul perché essa dà il via al pascolo comune sui campi che, appena mietuti, risultano ricchi di stoppie per gli animali. Lungo il viaggio di ritorno, poi, i pastori effettuano una valutazione complessiva sullo stato di salute delle varie aree di pascolo e di sosta: in prospettiva della successiva transumanza (a partire dal seeto che verrà), il yaawol è il momento per verificare dove la vegetazione è crescita bene, dove non è cresciuta bene e dove non è cresciuta affatto.

Ma come per le mappe, non sempre è sufficiente cambiare il punto di vista; spesso è necessario modificare pure le direttrici dello sguardo. La sola direttrice alto-basso, Nord-Sud, non basta perché a certe latitudini la terra/Terra intreccia con le creature che la abitano (animali e piante) e con le parole di chi la denomina (popoli e culture), nessi che si colgono solo osservando da destra a sinistra, da Est a Ovest.

Sempre nella savana africana, per esempio, è diffusa una pianta il cui nome scientifico è Crossopteryx febrifuga: oltre ad essere utilizzata nella medicina tradizionale, questa pianta funziona da ‘bussola’ perché spesso il suo tronco si presenta, sempre e soltanto sul lato esposto ad Ovest, scavato e vuoto per effetto dell’azione delle termiti che lo colonizzano. E a proposito di popoli e culture, per esempio, è significativo che i Malinké dell’Africa occidentale abbiano parole per distinguere l’Est (telebò) dall’Ovest (telebé) ma non per distinguere il Nord dal Sud (entrambi designati con la parola telekankan). A voler rappresentare la mappa di un villaggio malinké, come quello di Sansanko (Guinea)12 riportato in fig. 6 - pag.167 (Il mondo malinké nel villaggio di Sansanko, Guinea), allora, risulta

12 decisamente più corretto orientare la mappa con l’Est in alto, piuttosto che con il Nord come da convenzione ‘universalmente’ accettata. È con l’Est in alto che la visione malinké dell’abitare la Terra prende forma anche figurativamente sulla rappresentazione. In effetti, per i Malinké, così come per la generalità delle culture e delle società pre-coloniali di tutta l’Africa subsahariana, è a partire dal mythos e attraverso la techne che prende concretamente forma – nella storia e nella geografia – l’esistenza umana sulla Terra 13. È allora ‘rigirando’ la pianta di Sansanko, per tenere l’Est in alto del foglio, che diventa visibile la trama di fondo sulla quale il Malinké fonda il luogo e dà vita al villaggio. Come mostra la mappa, a Sansanko si accede da Ovest attraversando il fiume Biri e il primo elemento che si incontra, a sancire l’ingresso stesso nel Mondo (il villaggio), è il mbembadeo.

Traducibile in senso letterale con ‘pietra sacra’, il mbembadeo , in realtà, rappresenta il patto di fondazione del villaggio: su di esso i primi abitanti, appartenenti al lignaggio degli Oularé, hanno inciso sulla nuda terra la scelta di continuare lì, e non in un altro posto, l’opera di creazione avviata in altri luoghi dagli antenati e, prima ancora, dagli dei. Mbembadeo e il suo guardiano rappresentano la garanzia che Sansanko è il presente che tiene insieme passato e futuro. È solo in virtù di tale patto che il villaggio prende forma e si struttura intorno ad alcuni elementi fondamentali: la piazza centrale con l’arbre à palabre; i raggruppamenti di abitazioni delle varie famiglie estese attorno alla piazza; e la foresta che circonda l’intero villaggio. Lungi dall’essere un elemento ‘naturale’, la foresta rappresenta piuttosto un elemento socio-territoriale fondamentale per l’identità e l’organizzazione del villaggio. La foresta è riserva di legna, piante medicinali, liane, ecc.; fornisce protezione dagli animali selvaggi e dal fuoco; e offre riparo nelle giornate più calde della stagione secca. Ma soprattutto nella foresta hanno luogo l’iniziazione dei ragazzi e delle ragazze (koyfwa); la preghiera a Dio (salidia); il culto ai geni del luogo (solidia); la circoncisione (fafa). Di fatto, la foresta è la sede del potere politico “dove alcuni hanno il diritto di entrare in ragione della loro competenza e influenza, e quindi in ragione del loro potere; e dove altri non sono riconosciuti come individui titolari di diritti ma solo di doveri e divieti” 14. La gerarchia sociale basata sulle classi d’età si stabilisce in foresta e più si è a conoscenza dei suoi segreti (ciò che accade, per esempio, nella solidia o nella koyfwa), più si ha peso decisionale nel consiglio dei notabili.

Insomma, come le mappe, anche i concetti che utilizziamo disegnano visioni del Mondo, della Terra, della natura, dei popoli che possono rivelarsi chiuse, cieche, violente. L’uso di termini ‘scientifici’ apparentemente neutri ed oggettivi può nascondere l’incapacità di vedere la ricchezza e la complessità dei significati che la terra assume a seconda di chi la guarda[P], di come e perché la si guarda. Ecco, l’invito di queste poche pagine è questo: non confondiamo quella che è solo una mappa ideologica funzionale al discorso politico-economico di ‘una certa parte’ del Mondo, con la verità. Proviamo, invece, a tenere aperta la verità ad altre visioni e a quella fetta enorme di saperi, linguaggi, conoscenze, pratiche, competenze che la Terra accoglie e sostiene.

13 Mappe sognate *

Roberta Falcone

Siamo viaggiatrici, esploratrici del non conosciuto del non-registrato; non abbiamo mappe[L] 1

Non chiediamo più il diritto di parlare: lo abbiamo fatto; gli spazi sono stati cambiati. Viviamo nella matrice del nostro suono, le nostre parole risuonano, e con il nostro eco disegniamo una nuova geografia; riconosciamo questo nuovo paesaggio come nostro luogo di nascita dove abbiamo inventato nomi per noi stesse. Qui il linguaggio non contraddice quello che conosciamo e per quello che sentiamo siamo spinte sempre più a parlare2.

La mappa è una metafora non solo del territorio che rappresenta, ma anche della cultura che la crea. La connessione tra il ‘potere delle mappe’ e il ‘potere di controllare’ si rivela nella loro stessa creazione. John Brian Harley, cartografo e geografo, sostiene che essa rappresenta il nesso tra conoscenza e potere, poiché è più di un artefatto che rappresenta il mondo: è un agente dei vari governi, strumento di propaganda e, più tardi, di colonizzazione 3. Basti osservare le prime mappe del Cinquecento per capirne la valenza simbolica, oltre che descrittiva. Mercatore, uno dei più celebri disegnatori di mappe, ne è l’esempio. In Nova totius Terrarum Orbis geographica (fig. 1 - pag. 168) la rappresentazione mimetica della realtà viene negata dalla cornice che contiene la mappa. Essa infatti organizza, come in un gioco di specchi, diversi sistemi semiotici e livelli semantici che interagiscono nell’apparente rappresentazione omogenea e piatta del mondo. Il risultato è l’evocazione di un simulacro di una totalità inaccessibile attraverso l’organizzazione dei simboli. Anche se il cartografo annuncia la sua opera con le parole “questo lavoro (come in uno specchio) vi farà vedere l’intero mondo”4, la cornice introduce una decorazione allegorica che fornisce una narrativa illuminante al ritratto della terra. Il titolo, le allegorie degli elementi, la sfera celeste, gli strumenti di misurazione, il sole, la luna accompagnano i ritratti che ne demarcano gli angoli e chiudono la mappa. Nella cornice superiore troviamo Cesare, icona dell’impero tant’è che non ha un’identità nazionale come gli altri personaggi e veste solo una corona d’alloro mentre veste abiti rinascimentali Tolomeo, situato nella cornice superiore e considerato il ‘principe’ dei geografi e colui che influenzerà tutte le mappe fino ad epoche abbastanza recenti. Nella cornice inferiore sono invece rappresentati i due cartografi più eminenti del periodo, e cioè Mercatore stesso e Hondius. Al centro, sempre in basso si può ammirare l’Europa, seduta su un mappamondo e riverita da una allegoria dei continenti, rappresentati da donne diversamente s/ vestite. La mappa finale fornisce al ‘mondo’ categorie storiche, cosmografiche e antropologiche, demolendo quindi l’apparente rappresentazione piatta e omogenea del globo, come del resto lo stesso Mercatore dichiara sempre nella Prefazione: “Questo lavoro è composto dalla Geografia (che è la descrizione delle terre sconosciute e delle sue parti) e dalla Storia (Oculus Mundi), l’occhio del mondo”5. La personificazione dello spazio geografico in termini di prospettiva eurocentrica è inseparabile dalla definizione di storia in quanto funzione visiva (occhio del mondo).

La stessa valenza simbolica viene riprodotta nelle mappe inglesi che illustrano la potenza raggiunta da questa nazione nell’800, quando l’impero era al suo apogeo e il rapporto con il mondo ‘altro’ ormai codificato. La mappa di Walter Craine (Fig. 2 - pag. 169) ne è un esempio: nella parte superiore si leggono le parole “libertà, fratellanza e federazione”, suggerendo un rapporto paritetico delle nazioni ritratte. Tuttavia, di nuovo la cornice fornisce letture storiche. Nella parte inferiore si può vedere l’immagine dell’Inghilterra (Vittoria?) seduta sul mondo con in mano il

14 tridente (padrona dei mari), attorniata e guardata con venerazione dalle abitanti delle colonie in una prossemica che ne denuncia la subalternità. Le direttrici segnate sulla cartina si diramano tutte dall’Inghilterra per rimarcare una dipendenza culturale dei popoli ‘altri’ a cui è stata portata la ‘civiltà’. Il rapporto ideologico con le terre ‘altre’ era talmente diffuso che veniva riprodotto anche in un gioco da tavolo (Fig. 3 - pag. 170), usufruibile anche dai bambini che così introiettavano il concetto di possesso/superiorità. Londra è il centro che irradia, ma anche il punto finale da raggiungere, meta ideale di ogni abitante delle colonie. La mappa diventa dunque la metafora non solo del territorio rappresentato, ma anche della cultura che l’ha prodotta. Tutti i luoghi possono essere cartografati in rapporto alla loro relazione con l’Europa. Le mappe non solo descrivono le colonie, le disciplinano attraverso la griglia discorsiva del potere/conoscenza europeo. Il termine ‘territorio’ rende il potere implicito in tali mappe perché il territorio è un’immagine della terra reclamata e conquistata.

La geografia ha, dunque, sempre aspirato a essere esaustiva, presupponendo un mondo completamente conosciuto e capito. I geografi si sono sempre considerati come ‘esploratori distaccati’ che producono una ‘visione trascendente’ di una verità neutrale che non tiene conto del contesto in cui è prodotta. Michael Curry l’ha recentemente descritto come “l’impulso architettonico” e cioè il desiderio di creare un sistema ordinato e gerarchico” 6. Come dice Haraway, questa visione ha la pretesa di provenire “da nessun luogo”7. Ancora recentemente il presidente dell’Institute of British Geographers ha detto: “il mondo ci appartiene” 8. La conoscenza ambisce dunque ad essere esaustiva e presuppone che il mondo possa essere completamente conosciuto, capito e rappresentato. I padri fondatori della geografia volevano rendere il mondo aperto alla ‘ragione’ e così cercavano un certo tipo di conoscenza che si potesse applicare dovunque. Le teorie meccaniche del mondo sviluppatesi nel XVI secolo rappresentano la Natura come passiva e femminile: essa era vista come una serie di meccanismi che potessero essere controllati e sfruttati e questo sfruttamento era legittimato attraverso le immagini di conquista, violazione e penetrazione, mascherata sotto la pretesa scientifica di conoscenza della Natura. Carl Sauer, uno dei padri fondatori della geografia negli USA, ha basato i suoi studi sulla relazione tra le culture e quello che chiama “il paesaggio materno e naturale” 9. Ecco una descrizione recente di Venezia da parte del geografo Cosgrove:

La linea organica e curva della città è circondata e penetrata dalle maree, le strade e i canali formano un labirinto scuro e misterioso al quale abbiamo accesso dalla entrata simbolica, altamente decorata e frizzante del bacino di S. Marco, il Canal Grande sinuoso e la Piazzetta che portano alla recinto, simile a un grembo, della Piazza10.

I cartografi/esploratori non facevano, dunque, una connessione tra il mondo visto e contemplato e la posizione di colui che guardava. Credevano inoltre che lo spazio potesse essere sempre naturale e non problematico. Questo spazio trasparente, in quanto espressione del desiderio maschile di una visione totale e conoscibile, nega la possibilità di spazi altri conosciuti da altri soggetti.

Trinh Minh-ha descrive la pretesa di conoscere un luogo come “conoscenza territorializzata” che

assicura al parlante una posizione di dominio: sono nel mezzo di un mondo conosciuto, posseduto, demarcato – mi approprio, posseggo e demarco il territorio man mano che avanzo – mentre ‘l’Altro’ rimane nella sfera dell’acquisizione. La verità è lo strumento di un impossessamento che io esercito sulle aree sconosciute man mano che le incamero nel conosciuto11.

La presunta superiorità è stabilita dalla maggiore conoscenza e da una ‘civiltà’ superiore rispetto all’‘Altro’, come già sosteneva Mercatore:

Qui in Europa abbiamo il diritto delle Leggi, la dignità della Religione Cristiana, la forza delle Armi […] Inoltre l’Europa maneggia tutte le Arti e le Scienze con una tale destrezza, che per l’invenzione di molte cose può essere chiamata Madre […] ha […] tutto il sapere, mentre le altre nazioni sono tutte Barbare12.

Illuminante è la descrizione che l’autore sudafricano J.M. Coetzee[L] fa del processo di impossessamento, sottolineando la valenza dell’occhio che guarda alle nuove terre:

Nella regione selvaggia perdo il senso dei confine. È una conseguenza dello spazio e della solitudine. Lo spazio opera così: i cinque sensi escono dal corpo che abitano, ma approdano in un vuoto. L’orecchio non può udire, il naso non può odorare, la lingua non può sentire il gusto, la pelle non può essere sensibile […] Solo gli occhi hanno potere. Gli occhi sono liberi, raggiungono ogni punto dell’orizzonte. Niente viene nascosto all’occhio. Mentre tutti gli altri sensi sono storditi e muti, gli occhi si flettono e si estendono. Divento un occhio sferico che si muove intorno, assorbendo ogni cosa […]. Sono tutto quello che vedo, Non c’è pietra, né cespuglio, né la frugale e sventurata formica che non sia inclusa in questa sfera viaggiante. Sono un sacco trasparente con un

15 cuore nero pieno di immagini e un fucile […]. Sono un cacciatore, un addomesticatore del selvaggio, un eroe della numerazione. […] Un mondo senza di me è inimmaginabile. Sono un esploratore. La mia essenza è di aprire ciò che è chiuso, di portare la luce a ciò che è buio13.

L’impulso che muove alla scoperta è il possesso della terra che, inoltre, garantisce e consolida l’identità del soggetto. Dominare un paesaggio minaccioso dà l’illusone di una identità unificata. L’assunto che il maschile (uomo, impero, civilizzazione) ha un diritto divino di sottomettere e coltivare il femminile (donna, terra, natura) è un principio strutturante del discorso occidentale. Questa visione permette di nominare, codificare e classificare in maniera da portare ordine nello spazio.

Lo strumento privilegiato è dunque l’occhio, portatore di verità. Anche per il naturalista Michel Adanson la vista è il senso principale, tanto che nei suoi resoconti la parola più ricorrente è “osservare” e il mondo naturale, senza l’occhio riordinatore, è “un miscuglio confuso di esseri che il caso sembra aver accostato”14.

Il tema del controllo territoriale non ricorre solo nelle colonie, ma pervade tutta la cultura inglese sin dal Seicento, quando la parola ‘paesaggio’ (landscape) comincia ad essere usata. Il termine ‘paesaggio’ è centrale negli studi geografici poiché si riferisce a una delle discipline di interesse duraturo: non solo la relazione tra lo spazio naturale e la società umana (Cultura-Natura) e cioè le relazioni dinamiche tra una cultura o una società e quello che le circonda, ma anche la maniera specifica in cui si guarda, “uno sguardo che aiuta a dare senso alla relazione particolare tra la società e la terra, una “ideologia visiva”, come la chiama Gillian Rose:15 “Che sia dipinto o scritto, coltivato o creato, il significato di ‘paesaggio’ si fonda sui codici culturali della società per cui è stato creato” 16. Come affermano Daniels e Cosgrove, “il paesaggio è una immagine culturale, una maniera pittorica di rappresentare, strutturare e simbolizzare ciò che ci circonda”17. La descrizione neoclassica offre all’occhio il senso privilegiato, una superficie levigata e tersa attraverso cui scorrono colori, ombre, tenui profili; lo spettatore, d’altro canto, deve osservarla e ammirarla come se fosse un quadro, da un punto di vista particolare, da una corretta distanza e con una conoscenza dell’estetica pittorica 18. Il dipinto di Thomas Gainsborough, Mr. and Mrs. Andrews (Fig. 4 - pag. 171), è un esempio di questa visione del mondo. Secondo Gillian Rose, l’immagine sembra dare un’idea di relax e una condivisione della proprietà, comune nella ritrattistica del ‘700 inglese, tuttavia l’unità è solo apparente: i due protagonisti hanno un diverso rapporto con la terra che li circonda. Mr. Andrews è in piedi, fucile in mano pronto a lasciare la sua postazione e andare a caccia. Il cane da caccia è ai suoi piedi. Mrs. Andrews siede passivamente, incollata alla sedia e dà la stessa impressione dell’albero che ha alle spalle. Solo lui dunque possiede la terra. Il suo movimento libero contrasta con la staticità della moglie. L’ombra dell’albero sopra di lei si riferisce all’albero della famiglia (genealogico) che ci si aspetta lei produca e nutra. Lei è dunque parte del paesaggio, fermo e splendido, produttiva, decorativa come la terra19. Suggestiva è la parodia di questo dipinto pubblicata sul The Economist del 7 settembre 2005 (Fig. 5 - pag. 171), in cui i due protagonisti sono ovviamente l’allora Primo Ministro Blair e la moglie. L’uomo è sempre al centro, ma governa un paesaggio che non ha più le simmetrie del passato (se non quella delle ciminiere) ed è pieno di miasmi. Il liberalismo ha trasformato il territorio in una palude che divorerà con i suoi veleni la cultura che l’ha prodotto. La donna del ritratto del ‘700 sembra immobile e passiva nei confronti di un suo posizionamento, l’altra moderna sembra felice e soddisfatta (come il marito) del paesaggio che la circonda e ha ironicamente in mano un mazzo di fiori, ricordo lontano di altre vedute.

La geografia e il ‘dipingere’ il mondo è stato dunque un discorso dominato dagli uomini, “masculinist”, come definisce questo punto di vista Gillian Rose, un termine che definisce “un lavoro che, mentre ha la pretesa di essere esaustivo, dimentica l’esistenza delle donne e si occupa essenzialmente della posizione degli uomini” 20, posizione che, negando il corpo maschile e la sua soggettività, gli permette di avere la pretesa di poter ‘vedere’ tutto. Ma la protagonista di In the Heart of the Country[L] si chiede: “Ma quanto è reale il nostro possesso? […] la terra non sa nulla di recinti, le pietre saranno ancora qui quando io sarò ridotta in polvere, persino il cibo che mangio mi passa attraverso”21.

Il punto di vista dell’altro, e di conseguenza delle donne non viene quindi preso in considerazione e i loro racconti considerati alla stregua di divertissement da raccontare nelle coffee house. La Royal Geographical Society per molto tempo non le ha accolte nemmeno come uditrici, né come socie fino al 1913. Ma la loro geografia ha continuato ad essere marginalizzata fino al 1984, quando è stato pubblicato il primo testo sulla geografia e il genere sessuale, poiché le donne non potevano produrre resoconti di viaggi che potessero essere considerati ‘geografia’.

Oggi i concetti di paesaggio e di mappa sono stati largamente messi in discussione e definiti come una forma di rappresentazione[P] e non un oggetto empirico. Non sono più i paradigmi visuali dell’ansia ontologica nata dai tentativi frustrati di definire una cultura nazionale, ma un luogo di dissimilarità produttiva dove le connessioni della cartografia suggeriscono una trasformazione percettuale e sempre attiva.

16 A ciò ha contribuito anche la “geografia al femminile” che rivede le categorie ed enfatizza la dimensione di classe e di genere nel guardare al paesaggio e quanto la visione ‘maschile’ sia stata il risultato delle posizione di potere socio- economico22. E diventa aperta all’esperienza corporea, quotidiana dello spazio e del luogo, la “sfida nella carne”, come la definisce Trinh T. Minh-ha 23. Come diceva Mary Wollstonecraft, “un uomo quando intraprende un viaggio, ha, in genere il fine ben chiaro; una donna pensa di più ad accadimenti accidentali, le cose strane che possono accadere” 24. Il territorio diventa così personale e relazionale, partendo dal corpo con il quale lo si sperimenta, vive e interpreta — corpo che negozia i confini in molti modi, confini che vengono costruiti attraverso i contatti personali, i network sociali, la conoscenza del territorio e la sua identificazione. E poiché il corpo ha molte identità, la negoziazione dei confini e dei territori è multipla. Lo spazio così creato è una zona di interscambio, dipendenza, e complessità. In molti casi questi spazi sono aperti e non codificati, flessibili e dinamici nei confronti della definizione, estensione, inclusione ed esclusione. Sono costruzioni complesse e dinamiche, sperimentate in continuazione, costruite e ricostruite da attori differenti e corpi differenti 25. Rich ha coniato il termine politics of location, “un processo simultaneo, non sincronico, caratterizzato da molti posizionamenti”26, spazio frammentato, multidimensionale, contraddittorio e provvisorio. La poetessa irlandese Nuala Ní Dhomhnaill afferma che la maniera di conoscere la terra è “emozionale e immaginativa senza nessun senso (o bisogno) di possesso” 27. La diversa percezione del territorio si avverte già nelle prime cronache delle esplorazioni. A questo proposito vale la pena di citare due viaggiatori inglesi della fine del ‘700 che guardano e narrano del Sudafrica. Mi riferisco a Lady Anne Barnard e Sir John Barrow che scrivono rispettivamente The Cape Journals of Lady Anne Barnard (1797-98) 28 e An Account of Travels into the Interior of Southern Africa in the years 1972 and 1798 (1802) 29. Barrow vuole che il suo resoconto appaia scientifico: non fa commenti, parla nel dettaglio delle dimensioni territoriali e del loro possibile sfruttamento/miglioramento. L’occhio diventa l’elemento unico ed essenziale di questa catalogazione. Nel suo testo non hanno spazio le relazioni umane, l’unicità dell’individuo viene sostituita da un ‘loro’ collettivo, mentre i villaggi sono meno importanti dei fiumi e dei ruscelli. “Il resoconto delle esperienze europee deve evitare, o almeno minimizzare, descrizioni autobiografiche […] e sostituirle con quelle su cui l’Orientalismo in generale e più tardi gli Orientalismi in particolare possano creare e basare le osservazioni scientifiche e le descrizioni”, osserva Said30. Lady Anne, pur mantenendo un ruolo ambivalente (donna e membro della società inglese in quanto moglie di un ufficiale), non nasconde le proprie emozioni, attenua le generalizzazioni con racconti di incontri particolari, è interessata alle abitudini degli abitanti e cerca anche di stabilire un contatto con gli indigeni. L’autrice mantiene quello che ho definito ‘l’occhio colonizzatore’ quando guarda il paesaggio, influenzata dalla preoccupazione della classificazione che avrebbe dato valore al suo scritto, tuttavia mette in scena anche gli altri sensi, come l’udito, l’olfatto, il tatto.

Mi piace citare alcuni esempi contemporanei (non esaustivi) di revisione dei codici ‘maschili’ che mostrano i diversi approcci sia ideologici che di strumenti utilizzati (film, romanzi, poesie, dipinti) che le autrici hanno cercato di mettere in atto per presentare altre prospettive (o prospettive multiple) ed altri punti di vista per descrivere il rapporto con la terra e le sue rappresentazioni. L’intento non è ovviamente quello di produrre canoni alternativi o i “mustreads”, come Susan Hanson e Janice Monks definiscono i testi che si pongono (o sono considerati) come nuove autorità 31. Forse le citazioni sono lunghe, ma voglio far sentire le voci, alcune volte dolorose, delle autrici senza la mediazione di un narratore esterno che le legga e le trasmetta secondo un suo punto di vista, come nei secoli è accaduto ai gruppi ‘minoritari’.

La pittrice irlandese Kathy Prendergast nel 1983 ha prodotto una serie di quadri intitolati Body Map Series. I dipinti, nello stile delle mappe e dei diagrammi vittoriani, narrano il processo di esplorazione, descrizione, alterazione e controllo del paesaggio. In Enclosed World in Open Spaces, un corpo femminile tagliato evoca le convenzioni cartografiche delle linee, punti del compasso e navi sul mare che circondano la terra/corpo. Le prospettive multiple sono evocate in un altro dipinto, Land (1991), una tenda sulla quale sono dipinti i colori, le linee e le convenzioni della cartografia32. Ma la presentazione tridimensionale conferisce volume e altezza e oscura la mappa a due dimensioni e piatta. La terra diventa il paesaggio che la mappa cerca di rappresentare. Il gioco tra rappresentazione e l’oggetto mina l’idea di una semplice equazione tra realtà e rappresentazione, sovvertendone l’autorità (Catherine Nash, “Remapping the Body/Land: New Cartographie of Identity, Gender, and Landscape in Ireland”, in Writing Women and Space. Colonial and Postcolonial Geographies, a cura di A. Blunt e G. Rose; New York e Londra, The Guildford Press, 1994, pp. 229-235 e 241-2). La relazione tra l’oggetto ‘naturale’ e l’‘imitato’ viene messa in mostra e non è né una rappresentazione ‘oggettiva’ né una ricostruzione ‘soggettiva’ del mondo ‘reale’; al contrario, diventa “un gioco tra simulacri alternativi che problematizzano la facile distinzione tra oggetto e soggetto” 33. La mappa diventa una metafora spaziale che libera dalla loro fissità i concetti di identità e paesaggio.

La nozione di spazio, luogo, location, cartografia e paesaggio implica dunque geometrie eterogenee che sono vissute, sperimentate e sentite, articolando discorsi su potere e identità. Le spazialità create, complesse e contraddittorie, sono una geometria concettuale precaria non euclidea.

17 Maggie O’Kane, giornalista del Guardian, descrivendo la guerra in Bosnia, introduce la categoria di un “anti- geopoplitical eye”, una maniera disturbante di vedere che distrugge l’impalcatura dell’occhio geopolitico egemonico. La Bosnia è un luogo vicino, ma costruito come distante, almeno moralmente, dai discorsi di politica estera dell’Occidente. È il luogo del genocidio nel continente europeo, descritto dalla NATO e dall’ONU come un potenziale “Vietnam europeo”, un vortice, una palude, un pantano. È un luogo di eccesso e di pericolo, dove parole come Logos e il simbolico sono minacciate. I Balcani vengono descritti come un’Europa Terzo Mondo, terra di violenza, la causa e l’inizio della prima Guerra Mondiale, luogo di odi etnici antichi, terra di imbrogli e menzogne che fagociterà l’Occidente se non si prenderanno misure adatte. Nell’occhio geopolitico del potere la Bosnia è un luogo di antagonismi etnici immutabili, una penisola barbara nel Continente civile e illuminato. Nei reportage le categorie sono nette, serbi vs croati vs mussulmani, non compare nessun linguaggio per l’ibridismo. Al contrario Maggie O’Kane elabora categorie provvisorie di un occhio anti-geopolitico, come dicevo, attraverso l’occhio femminile che si contrappone a quello maschile, distante e netto nella categorizzazione. Lo stile dei suoi articoli è diretto, personale, morale e irato. Ella dà voce al dolore, alla sofferenza, al sangue (specialmente delle donne e dei bambini) dai luoghi più martoriati, partecipando al dolore, raccontando storie di individui comuni, i particolari dei feriti o dei morti nelle scene di distruzione e le conseguenze umane del conflitto. Personalizzando gli uomini e le donne che incontra, nominandoli e descrivendoli, non permette al lettore di distanziarsi attraverso un discorso politico e un tono apparentemente neutro 34. Inoltre, dando voce a tutti i protagonisti, fornisce diverse prospettive dell’accaduto e non un monologo che ha la pretesa di essere esaustivo. La poetessa premio Nobel Herta Muller così descrive la funzione del dettaglio:

Il dettaglio è il contrario di quello che propagano e praticano le grandi ideologie. Le ideologie sono fatte da pezzi già pronti, prefabbricati, montati sempre alla stessa maniera e seguendo gli stessi schemi e non tollerano sorprese o deviazioni dalla norma. Ecco perché il dettaglio è il nemico dell’ideologia 35.

Minnie Bruce Plat invece descrive il suo processo per rinnegare l’“occhio egemonico” che il padre le ha trasmesso. Il suo non è un percorso facile, poiché è costretta a rivedere i punti di riferimento che hanno contribuito a creare il suo io e che l’hanno, come lei dice, “protetta”:

Cosa vedevo da lassù: nelle strade intorno alla piazza, la chiesa metodista, il palazzo con il Board of Education, il Welfare Department, la chiesa battista, la stazione di servizio […] poi allineati la banca, l’ufficio postale, l’ufficio del dott. Nicholson, una porta per i bianchi e una per i neri. Mi ero formata in relazione a questi edifici e alle persone che li abitavano, all’idea di chi vi dovesse lavorare, di chi dovesse avere i fucili e le chiavi della prigione, di che dovesse essere nella prigione; ero formata da quello che non vedevo o non notavo, in quelle strade […]. Riconosco i confini rigidi posti alla mia esperienza, come sono stata ‘protetta’. In questa città nella quale non sono più la cultura e la razza maggioritaria mi dico ogni giorno: in questo mondo non sei la razza o la cultura maggioritaria e non lo sei mai stata, qualunque sia stata l’idea con la quale sei stata educata. Sei pronta ad essere in questo mondo? Imparo a guardare il mondo in un’altra maniera, più accurata, più complessa, più multilivellare, multidimensionale, più vera, a vedere un mondo di cerchi sovrapposti, come il movimento in una vasca dopo che il pesce vi è balzato dentro, invece della piazza con me al centro […]. Sto imparando che quello che penso sia una visione accurata del mondo è spesso una bugia. Guadagno la verità quando espando l’occhio contratto, un occhio che mi ha fatto vedere solo quello che mi hanno insegnato 36.

Come dice John Shotter, “[n]on cerchiamo di scoprire cosa è qualcosa, ma strade diverse nelle quali possiamo correlarci a ciò che ci circonda – come essere differenti in noi stessi, come vivere in mondi differenti”37.

Non sempre è possibile raggiungere il congiungimento con la terra, come accade alla poetessa sudafricana Antjie Krog[L] che, nonostante definisca la sua nazione “amatissima terra del mio cuore”, sente il peso degli antenati che cerca di rifiutare distanziando la propria appartenenza etnica: per gli afrikaner prova “[r]ipugnanza. Voglio distanziarmi. Non sono niente per me. Non sono una di loro” 38. Tuttavia non riesce in questa impresa poiché la loro cultura è la sua, tanto da capire la loro gestualità, i segni non verbali 39. Nella poesia Land questa sofferenza ritorna senza permetterle di avere un congiungimento con la terra:

Per ordine dei miei antenati sei stata occupata/ se io avessi lingua potrei scrivere per te fosse la terra la mia terra/ me, però, non mi hai mai voluto/ per quanto mi stendessi/ fra fruscianti foglie di eucalipto/ […] me, non mi hai mai voluto/ me, non mi hai mai tollerato/ più e più volte mi hai respinto/ mi hai scacciato/ terra, lentamente sono diventata senza nome nella bocca/ ora sei contesa/ negoziata, divisa, recintata, venduta, derubata, ipotecata/ voglio andare sotto terra con te, terra/ terra che non mi ha voluto/ terra che non mi è mai appartenuta/ terra che amo più vanamente di prima40.

È la stessa sofferenza dell’origine che si ritrova in Herta Muller, quando afferma: “[l]a biografia di mio padre fa parte della mia vita, indipendentemente dalla mia volontà. Non posso oscurarla, far finta che non esista […]. Ma io faccio parte di una genealogia di carnefici e non mi è dato chiamarmi fuori, e non importa cosa faccia, come agisca e come la

18 pensi”41. Alla fine tuttavia Krog defamiliarizza il paesaggio attraverso la descrizione della sofferenza, della pena, dell’appartenenza e si muove dallo spazio dell’interiorità per reclamare un’altra pelle tentando di rendere i confini più permeabili e più aperti alla negoziazione:

A causa tua questa terra non è più tra di noi ma dentro/ respira calma/ dopo essere stata ferita/ nella sua stupenda gola/ dentro la mia testa/ canta, incendia/ la mia lingua, la parte più interna del mio orecchio, la cavità del cuore/ rabbrividisce […]/ in scatti intimi e delicati e in suoni gutturali/ la retina della mia anima impara a espandersi/ ogni giorno poiché da centinaia di storie/ ero bruciata per avere/ una nuova pelle./ Sono cambiata[P] per sempre. Voglio dire/ perdonami/ perdonami/ perdonami/ tu a cui ho fatto del male/ ti prego portami/ con te42.

Altre donne invece vedono le frontiere come il luogo dove costruire giardini, o meglio orti che non parlano solo del piacere estetico, ma nutrono e, nello stesso tempo, annullano la frontiera stessa. “Per sopravvivere alla Frontiera,/ devi vivere sin fronteras/ essere un incrocio”, dice Gloria Anzaldua 43. Sono luoghi dove l’armonia tra terra/suolo, tempo, piante e persone è possibile, un luogo dove le relazioni tra le persone riflettono la tenerezza della cura della terra, come accade alla protagonista del romanzo A Question of Power[L] di Bessie Head, che, alla fine, dopo un percorso doloroso, mentale e fisico, anche in strutture psichiatriche, può dire, poggiando le mani per terra, “Now I belong”44 (ora appartengo). Anche in David’s Story della scrittrice sudafricana Zoë Wicomb[L] ritroviamo un corpo femminile in armonia con la terra/suolo. Dulcie (un membro dell’African National Congress di cui non si conosce la sorte), un corpo torturato, bello, grottesco, pieno di cicatrici e di buchi, è distesa nel giardino della narratrice, coperta di insetti che esplorano i suoi orifizi e le sue ferite, mentre lei non cerca di liberarsene. Al contrario, sembra felice per il fatto che le creature la coprano. Si stira e sbadiglia al sole45.

La body painter Natalie Fletcher disegna nei corpi il paesaggio o il paesaggio si fonde con il corpo, corpo considerato nella sua essenza primaria, superando la divisione maschile/femminile, animato/inanimato46. L’artista e fotografo svizzero Filippo Ioco, anche lui autore di body painting, ha disegnato le donne con i colori della terra per mimetizzarla con essa47.

Ancora, la protagonista del film Brick Lane https://youtu.be/VRF6nf7XoUs?t=6m9s (riduzione cinematografica dall’omonimo romanzo[L] di Monica Ali, con la regia di Sarah Gavrons) sceglie di vivere a Londra e, alla fine della sua odissea, si stende sul quel suolo che l’aveva vista straniera tant’è che di Londra conosce solo il suo quartiere e non ne sa la lingua. Al contrario, la madre muore di una morte sacrificale annegandosi nel fiume che pure sembrava appartenerle, segnalando un rifiuto totale di quel paesaggio così tanto sognato come luogo utopico e mitico dalla figlia.

Il poeta sudafricano Jeremy Cronin[L] sostiene che bisogna imparare a parlare con le voci della terra:

Imparare ad analizzare le parole nei suoi fiumi,/ Catturarle nel grugnito inarticolato,/ Balbettio, richiamo, grido, mormorio, nodo della lingua/ Un senso di durezza di queste pietre/ Che tagliano tutte le parole./ Tracciare con la lingua i sentieri delle carovane/ Dicendo il suffisso del loro dolore in -kuil 48, -pan, -fontein 49,/ In nomi acquosi che confermano/ L’aridità dei loro percorsi./ […] Scrivere una poesia con parole come:/ […]/ Stompie50, stickfast51, golovan 52,/ Songololo 53, solo uno scoppio, solo/ per capire le più piccole cadenze,/ per dire senza ingoiarle/ le sillabe nate nelle baracche di latta, o prendere/ il treno delle 5,15 ikwata bust fife 54/ per Chwannisberg55, per raggiungere/ I canti sommessi delle squadre dei minatori/ Splendore minerario della risolutezza ferma del nostro popolo56.

Egli elenca, nelle poesie del carcere, varie località sudafricane e le molte lingue dei diversi gruppi etnici:

Quanto mi rassicurava, riuscire ad ottenere un qualche senso dello spazio grazie alle pure e semplici risorse della bocca, della mandibola, delle gengive, del fiato, della parola! Ciascun nome era un piccolo tempio. Pur se confinato lì, riuscivo a ricostruire la geografia dentro il teatrino della mia bocca57.

Dire il mio corpo riduce, dunque, la tentazione di asserzioni grandiose. Relph afferma che questa sensazione dell’appartenenza, del sentirsi ‘dentro’ dà vita a quello che egli ritiene il senso del luogo autentico che è “un’esperienza autentica e genuina dell’intero complesso dell’identità dei luoghi – non mediato, né distorto da mode arbitrarie e intellettuali su come questa esperienza dovrebbe essere, né segue convenzioni stereotipate 58. Yi-Fu Tuan scrive un libro intero sul legame ai luoghi e lo definisce “topophilia” e lo descrive come piacere, gioia e diletto:

il piacere sensuale del contatto fisico; l’attaccamento per un luogo perché è familiare perché è ‘casa’ e incarna il passato perché provoca l’orgoglio del possesso o della creazione; gioia nelle cose per la salute e la vitalità degli animali59.

19 Le relazioni sociali che si sviluppano dalla cura dei giardini, dai rapporti sociali e dal lavoro domestico dà alle donne una posizione specifica dalla quale guardare la terra. È dunque una rete di interazioni che sostituisce la vista individualizzata e dominante di un singolo punto di vista dell’osservatore onnisciente del paesaggio. Lo spazio diventa così il luogo delle relazioni, una plurilocality, multidimensionale che Haraway descrive come “la geometria della differenza e della contraddizione”60.

Lo spazio che le donne immaginano e descrivono non è in opposizione a quello maschile nella mappa duo- dimensionale (centro/periferia) che prevede un discorso di esclusione. Al contrario è una posizione che occupa entrambi gli spazi simultaneamente. Snitow parla di una posizione né solida né finale. Le donne viaggiano avanti e indietro61. De Lauretis sostiene che il soggetto femminile, poiché si è costituito attraverso e resistendo ai discorsi del maschile, risiede in due luoghi simultaneamente:

È un movimento tra il rappresentato e quello che la rappresentazione tralascia o meglio rende non rappresentabile. È un movimento tra lo spazio discorsivo (rappresentato) delle posizioni rese note dai discorsi egemonici e lo spazio fuori, l’altrove di quei discorsi. Questi due spazi non sono in opposizione né sono legati lungo una catena di significato ma coesistono simultaneamente e sono in contraddizione. Il movimento tra di loro non è quello della dialettica, della integrazione, della différance, ma è la tensione di contraddizione, molteplicità e eteronomia62.

La mappa che le donne disegnano riconfigura l’ontologia in termini di piani, interstizi, flusso, legami, un’immagine geografica, né immobile, né fissa, né naturalistica, ma un paesaggio fluido, continuamente ridefinito che tutti gli individui, senza esclusione, riconoscano come propria. È, nelle parole di Deleuze e Guattari,

… aperta e collegabile in tutte le sue dimensioni; si può separare, rovesciare e modificare costantemente. Si può lacerare, capovolgere, adattare a ogni supporto, può essere modificata da un individuo, un gruppo o una formazione sociale. Può essere dipinta su una parete, pensata come un’opera d’arte, costruita come azione politica o come una mediazione63.

20 Incuria, violazione, messa in sicurezza:

lessico patriarcale nel governo del territorio

Annalisa Marinelli

Trovandomi in un contesto di letterate, mi piace l’idea di portare una riflessione su alcune parole che si usano nel governo del territorio; in particolare su quelle che ricorrono nelle politiche relative ai paesaggi violati. Occorre però una breve premessa. Intanto va chiarito che, come per ogni altra disciplina, anche per quella della pianificazione e del governo del territorio è possibile operare una lettura secondo la chiave dell’appartenenza di genere. Il modo con il quale gli esseri umani si sono rapportati con il territorio, infatti, riproduce nelle forme, nell’organizzazione degli spazi, così come nelle norme e nei tempi che li governano, l’organizzazione sociale dei poteri che si sono stratificati nella storia e dunque l’ordine simbolico dominante, quello maschile.

Dell’ordine simbolico maschile mi interessa qui mettere in evidenza in particolare una caratteristica che, come suggerisce Stefano Ciccone, è probabilmente la sua radice ancestrale. Sto parlando della fuga dal corpo percepito come terreno del primato femminile:

Di fronte a due corpi dispari nel generare la risposta maschile non ha cercato nel proprio corpo le potenziali risorse per dare senso al proprio stare al mondo, ma ha costruito ruoli, poteri e narrazioni che quasi surrogassero questa disparità e affermassero una centralità maschile. Penso alla necessità di costruire un controllo sul corpo della donna, di fondare la paternità sulla potestà di fornire cittadinanza alla prole, di svalutare la corporeità (percepita come terreno del primato femminile), riducendola a strumento di un soggetto disincarnato che si affranca dai suoi vincoli1.

Quali conseguenze ha comportato la forma che, a partire dall’affrancamento dal corpo, l’ordine simbolico maschile si è dato e ha dato al governo del mondo? Intanto una sovrapposizione simbolica tra le idee di corpo femminile (e femminilità) e natura (e territorio). Entrambe sono accomunate dallo stesso stigma: il possesso di un potere rispetto al quale il corpo maschile si è percepito come marginale. Un potere che andava pertanto rovesciato attraverso gli strumenti della svalutazione, del controllo, della tutela, dell’oggettivazione e strumentalizzazione al fine dello sfruttamento. Questo ha condotto il corpo [P] delle donne e la terra a un destino molto simile. È stato riservato loro lo stesso trattamento caratterizzato culturalmente da alcune rimozioni collettive.

Quella che in assoluto ha fatto la differenza più forte rispetto al tema che vogliamo affrontare oggi, è la rimozione del senso del limite e del concetto di vulnerabilità. L’attore protagonista dell’ordine simbolico maschile è un soggetto disincarnato che si dota di protesi per superare i vincoli e i limiti imposti dalla vulnerabilità del vivente.

Questa rimozione fondativa ha prodotto a cascata altre distorsioni che, di fatto, hanno costituito le forme del governo delle cose del mondo secondo l’ordine maschile. La cura, ad esempio, in quanto lavoro sulla vulnerabilità del vivente (corpi, natura, relazioni) è stata screditata, confinata nell’ambito dell’istintività, esclusa dal logos e dalla dimensione politica. Si è costruita una retorica sulla cura che ne nega le competenze e la descrive come un mondo dominato da istinto ed emotività e disattrezzato delle qualità supposte superiori come la razionalità, il controllo, l’autodeterminazione; caratteristiche necessarie invece al governo della res publica.

La cura è stata da sempre lavoro per gli esclusi dalla polis, per coloro privi di pieno diritto di cittadinanza, come gli schiavi e le donne:

21 La relazione tra i sessi basata su questo atto di potere originario ha segnato il corpo delle donne e ha ridotto la loro cittadinanza, autonomia e autorevolezza, ponendo l’uomo al vertice di un sistema simbolico basato sulle qualità della razionalità, dell’autocontrollo e dell’uso del corpo come strumento di dominio 2.

Il palazzo del governo così concepito affonda dunque i suoi pilastri sulla rimozione del limite, della vulnerabilità, dei corpi incarnati, della natura e della cura necessaria ad accompagnarli.

Al di sopra di questo piano nascosto (impolitico, privato, personale) si erge la città degli uomini governata da soggettività disincarnate mosse da un ideale di libertà intesa come affrancamento dai vincoli e dalle necessità dettate in special modo dal corpo e dalle relazioni di dipendenza da esso prodotte. In essa si gioca da sempre, con ogni possibilità fornita dalla tecnica, la implacabile tensione verso il superamento dei limiti dettati dalla condizione di vulnerabilità del vivente nell’illusione di poter disporre illimitatamente della natura – e dei corpi – come strumento per raggiungere quell’ideale distorto di libertà.

Nelle viscere del sottosuolo la cura, sempre più oppressa e sfruttata, lavora per continuare a garantire solidità alle fondamenta e fornire energia alla costruzione soprastante. Il governo del territorio tiene a bada l’inevitabile paura di ciò che alberga nel sottosuolo, con la politica della sicurezza che gestisce il rischio attraverso il controllo e la tutela (imbrigliamento, segregazione).

A questo punto è interessante richiamare lo studio che il semiologo Paolo Fabbri compie sul significato della parola “sicurezza”. “Si-curezza” deriva da sine cura, cioè senza preoccupazioni: senza problemi, è quello stato (che si vuole raggiungere) in cui si è certi: “Chi è sicuro è colui che rinuncia alla cura” 3. Quindi nell’etimo la parola sicurezza [P] coincide con incuria, noncuranza. Fabbri osserva che, similmente a una certa idea di libertà (intesa come affrancamento dai vincoli e dalle necessità), il concetto di sicurezza è stato da sempre interpretato come una salvezza dalle perturbazioni esterne a difesa della propria integrità; una tensione all’assenza di sollecitazioni, all’astenia e anche a una certa depressione, insomma all’incuriosità, lontano dalle cure.

Sollecito nuovamente l’attenzione sul simbolismo delle politiche securitarie e, ancora una volta, sulla sovrapposizione dei concetti di territorio e corpo femminile. L’assimilazione della donna a territorio di conquista, luogo al quale si affida – per custodirveli – l’onore, l’integrità ma soprattutto la fragile discendenza del seme maschile, rende ossessivamente prioritaria la necessità della difesa intesa come chiusura e protezione da ‘contaminazioni’ esterne, declinando a questo il significato di sicurezza. Seppure in forme meno esasperate tipiche ad esempio delle dottrine di estrema destra, tale sovrapposizione simbolica è talmente diffusa e interiorizzata (tanto dagli uomini quanto dalle donne) da aver sancito il successo del tema della sicurezza nelle politiche nazionali degli ultimi anni. La questione della sicurezza (e in particolare il sottoinsieme della sicurezza delle donne nello spazio urbano) ha polarizzato i dibattiti politici del nostro Paese per diversi decenni a cavallo del secolo trovando ampia trattazione nelle politiche urbane con una partecipazione molto attiva anche delle donne (seppure con posizioni articolate). Il suo successo è irrazionale se confrontato ai dati statistici che illustrano a chiare lettere come i reali ambiti di rischio per l’incolumità femminile non siano le strade urbane, bensì i luoghi delle relazioni private; ciò si può spiegare solo risalendo alla radice simbolica che lega insieme il corpo femminile al territorio, distorcendo il significato di sicurezza.

Se proseguiamo ancora nell’analisi semantica e nel confronto dei concetti di sicurezza e cura, scopriamo che sicurezza significa incapacità di entrare in relazione. Da un percorso diverso anche Stefano Ciccone arriva a contrapporre sicurezza e capacità di relazione. Lo fa affrontando il tema della violenza di genere e la contraddizione tra l’oggettiva incidenza dei reati in città e la sua percezione distorta. Ciccone afferma che quest’ultima è

influenzata dalla condizione soggettiva caratterizzata dalla solitudine, dall’estraneità ai luoghi della città, dalla povertà di strumenti per comprendere le parole, i gesti e la stessa postura degli altri. L’emergenza sicurezza parla dunque innanzitutto del venir meno di reti sociali, di linguaggi condivisi, di esperienze collettive di lettura e trasformazione delle tensioni sociali, dell’assenza di strumenti per governare fenomeni complessi come quelli relativi al mutamento sociale e urbanistico delle nostre città4.

Per disinnescare la retorica della sicurezza, dice Ciccone,

è necessario coglierne i nessi con le relazioni tra i sessi e svelare come i meccanismi con cui l’insicurezza si genera e viene elaborata si intreccino con le forme di costruzione dell’identità maschile. In questo scenario cresce infatti l’identificazione con un universo chiuso ed escludente, basato sulla negazione dell’alterità e sulla percezione dell’altro al tempo stesso come minaccioso e come inferiore: un universo nemico della libertà delle donne e partecipe delle pulsioni che generano la violenza maschile5.

22 Su questo aspetto Fabbri suggerisce un nuovo percorso per la formazione dell’identità, “un processo aperto di soggettività alla condizione però, che questa sia curiosa”, cioè s’impegni nella cura e propone un’idea di integrità non chiusa ma aperta cioè che “mira ad una certa indeterminazione piuttosto che a una certa determinazione” 6. Un’identità costruita quindi nella relazione, nella curiosità, nella cura che, non dimentichiamolo, significa anche affanno e preoccupazione. Perché l’apertura, la curiosità che sperimenta (e l’es-perienza è nell’etimo equivalente al pericolo) comportano sempre un rischio.

Mettendo insieme gli elementi raccolti fin qui, la riflessione giunge quasi naturalmente a svelare un apparentamento tra i concetti di incuria, sicurezza e libertà. Una radice semantica comune che ci fornisce una chiave importante. Il significato etimologico di queste parole ci fa intuire cioè da quale distorsione prenda origine l’inefficacia di molte politiche cosiddette di ‘messa in sicurezza’ del territorio.

La ‘messa in sicurezza del territorio’ non può essere lo strumento di contrasto all’incuria e alla violazione per il semplice motivo che i tre concetti appartengono alla stessa matrice: l’assenza di cura e di relazione, la rimozione del senso del limite e della consapevolezza della vulnerabilità. La coscienza della vulnerabilità, una volta restituita alla politica, fornisce gli strumenti per agire con cura e senso del limite anche nei confronti del territorio e dell'ambiente. Le risorse naturali che fin qui sono state saccheggiate perché ritenute pressoché inesauribili e dunque invulnerabili, beneficerebbero di un approccio legato invece a un'idea di vulnerabilità, con azioni impostate sulla misura, sull'empatia, sulla consapevolezza delle interconnessioni complesse di cause ed effetti.

In un territorio fragile, fortemente antropizzato e urbanizzato, come quello italiano e particolarmente spettacolarizzato nello show-business globale del mercato turistico, è di vitale importanza reintrodurre la categoria della vulnerabilità e della cura. Occorre capire che il gesto piccolo, di basso impatto, locale, riproducibile, legato ai cicli del vivente, concorre a mantenere in equilibrio (garantendone la sopravvivenza) il sistema più grande, complesso, globale e pertanto vanno sostenute le economie che lavorano in questa direzione.

Va compreso che il lavoro di cura locale sul territorio è la precondizione per la sopravvivenza dell'intero sistema economico, sociale e politico costruito dalla civiltà umana. Così come il quotidiano lavoro di cura sugli individui (quello non retribuito e invisibile ai parametri economici) mette in condizione di effettuare il lavoro retribuito (quello che concorre al PIL) e possiede un valore altissimo e ineliminabile di precondizione al sistema economico.

Ma per la sua sopravvivenza ed efficacia, il lavoro di cura ha bisogno di risorse in termini di soldi e tempo. Occorre cioè reinserire tra i parametri correnti, il valore che la gratuità del gesto di cura possiede all'interno della struttura economica della società, gratuità che è stata sciaguratamente scambiata per assenza di valore. Occorre pertanto sostenere l’esistenza della cura come costo necessario alla sopravvivenza dell'intero sistema produttivo e non solo nella sua soglia minima della ‘riproduzione’ della vita e della sua qualità.

Adottare il punto di vista della cura nel governo del territorio non è dunque solo acquisire uno sguardo ‘materno’ attento alla vulnerabilità del vivente (che forse sarebbe già una conquista straordinaria), ma modificare proprio i paradigmi che formano gli strumenti di governo del territorio. La cura costituisce una forma di governo alternativa al governo patriarcale e competente nelle relazioni con i corpi viventi, siano essi esseri umani o elementi del paesaggio naturale.

Capacità di ascolto, buon senso in affiancamento alla norma, capacità di costruire e valorizzare le relazioni, saper lavorare con le risorse presenti nel territorio, con dinamiche aperte, partecipative ed auto-esperte, stimolare e sostenere lo sviluppo di autonomie virtuose, di saperi locali ecc., sono questi gli strumenti di un governo della cura. Aver rimosso la cura dalla politica e dall’economia significa aver giocato fin ora con un mazzo di carte truccate. Un gioco che non possiamo più permetterci.

23 La città negata

Laura Tarantino

Introduzione

Alle volte mi pare che la tua voce giunga da lontano mentre sono prigioniero d’un presente vistoso ed invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro cielo e non si può immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città vivevano, e per cui forse, dopo morte, rivivranno1.

Quasi una mirabile preconizzazione questa battuta del dialogo tra il Gran Kan e Marco Polo ne Le città invisibili di Calvino[L], capace di riassumere in poche righe le difficoltà dell’Aquila post-sisma: 2 la lontananza di una vita altra, l’invivibilità di un presente fatto di macerie, polvere e precarietà, la vistosità dei nuovi (non) luoghi del panorama mutato – le grandi rotatorie, i centri commerciali, le grande arterie stradali, le ‘piastre’ del progetto C.A.S.E.3 – la convivenza logorata dalla mancanza di spazi relazionali, l’incertezza per le dinamiche sociali della stra-ordinarietà, l’immaterialità del senso della città, il timore che – dopo la sua morte – questo senso non possa essere recuperato o che un nuovo senso non possa essere conferito.

Possedeva un atlante, il Gran Kan, – ci racconta ancora Calvino – dove le città venivano disegnate “palazzo per palazzo e strada per strada, con le mura, i fiumi, i ponti, i porti” 4, ma le ragioni per cui le città vivono sono in realtà immateriali ed invisibili, e le città “sono luoghi di scambio […] sono scambi di parole, di desideri, di ricordi” 5, e Marco Polo ha bisogno – tra le altre cose – non solo di scorci che si aprono all’improvviso ma anche del “dialogo di due passanti che si incontrano nel viavai” e di “segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie”, per mettere insieme pezzo a pezzo la città perfetta6, ricordando che “dal numero delle città immaginabili occorre escludere quelle i cui elementi si sommano senza un filo che li , senza una regola interna, una prospettiva, un discorso”7. E così le ragioni dell’Aquila, ‘prima’, le si potevano trovare anche nella sua capacità di essere ‘luogo e momento del raduno’, di offrire il tessuto che consentiva ai passanti incontri, occasioni, relazioni, conversazioni, secondo il binomio lefebvriano[L] di centralità-simultaneità: “la città costruisce, sprigiona, libera l’essenza dei rapporti sociali: l’esistenza reciproca e la manifestazione delle differenze”8.

Ora è scomparso il tessuto e si sono moltiplicati i luoghi da visitare e da interconnettere: centri e gallerie commerciali, i diciannove nuovi quartieri del progetto C.A.S.E., i siti dei M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori) e la dispersione sul territorio di tutto ciò che era concentrato all’interno delle mura di cinta. Di tragitti in realtà adesso ce ne sono a non finire, ma da percorrere da soli in macchina, non-luoghi senza un carattere distintivo, senza coerenza, senza occasioni di incontro.

Non-luoghi, non-vita, non-città. Espressioni che frequentemente vengono associate all’Aquila del dopo terremoto 9, facendo riferimento ai non-luoghi della surmodernità che Marc Augé definisce in contrapposizione ai luoghi antropologici, e incapaci – come invece questi ultimi – di essere identitari, relazionali e storici10. Se da un lato la visione di Augé può rappresentare alcuni aspetti della condizione dell’Aquila, a cui è stata sottratta in questi anni la possibilità di re-integrare i luoghi storici nella sua vita, letteralmente marginalizzandoli alla stregua di ‘curiosità’ da visitare (il cosiddetto ‘turismo delle macerie’) ma allo stesso tempo marginalizzando ampie quote della popolazione delocalizzate in modo coatto nei nuovi quartieri lontani ed isolati, dall’altro l’uso dei sostantivi – non-luoghi, non-vita, non-città – quasi come proprietà ormai connaturate del territorio e delle sue dinamiche sociali lascia in secondo piano il processo che ha portato a questo, le responsabilità e soprattutto i cittadini e i loro diritti: L’Aquila è più che una ‘non

24 città’, L’Aquila è una ‘città negata’.

Il diritto lefebvriano alla città, inteso come “diritto (universale) a prendere parte alla vita urbana nella propria pienezza, a far pienamente parte di un processo collettivo di civilizzazione” 11, è un percorso che “non deve rimanere confinato nella sfera sociale ma avere un suo corrispettivo nella trasformazione dello spazio fisico della città”12. Se fondamentale nella ordinarietà, diventa allora cruciale nella stra-ordinarietà del dopo catastrofe e nel processo di recupero della normalità, laddove diritto alla città significa anche “la costituzione o la ricostruzione di un’unità spazio- temporale, di una riconduzione ad unità invece di una frammentazione” 13. È importante allora analizzare da un lato quali sono le necessità di una comunità colpita da un disastro e quali dovrebbero essere le dinamiche del percorso di guarigione, e dall’altro le risposte che sono state fornite dalla gestione del dopo terremoto aquilano a queste problematiche della straordinarietà, così come a questioni che appartengono anche all’ordinario, nella sfera pubblica e in quella privata, quali il diritto agli spazi comuni e il diritto all’abitare, il diritto alla partecipazione dei destini dell’urbano e il diritto alla collettività, in mancanza dei quali la città è negata, a se stessa e ai suoi cittadini.

Distruzione o disgregazione?

Se, come osserva Galimberti[L], forse l’uomo non ha mai avuto a che fare con le cose ma con le idee che confezionano le cose14, se, conseguentemente, la descrizione che diamo del mondo deve essere coerente con i comportamenti attesi riguardo le cose, è allora non solo legittimo ma anche opportuno fermarsi a riflettere sulla rappresentazione che viene data del terremoto, sulle parole che vengono utilizzate: distruzione, (ri)costruzione, che monopolizzano il discorso del dopo catastrofe.

Nell’immaginario collettivo il terremoto è in effetti una questione di danni materiali: case che crollano, case danneggiate, case da (ri)costruire. Basta effettuare una ricerca sulle immagini sul web, con la parola chiave ‘terremoto’, per verificare come le vittime siano pressocché assenti in una narrazione visiva interamente costituita da crolli e macerie. Anche l’attenzione dei soccorritori è catturata dai bisogni materiali, mentre i danni immateriali, meno evidenti, meno rappresentati, e spesso più gravi di quelli materiali, rimangono inosservati e inascoltati per lungo tempo. Ma la guarigione della comunità ferita non può essere raggiunta guardando solo alla distruzione degli edifici e alla loro ricostruzione materiale. Per confrontarsi con la complessità della catastrofe occorre cercare le relazioni tra aspetti apparentemente diversi e agire su di esse in modo sinergico durante l’intero processo di ritorno alla normalità[P].

È infatti importante sottolineare come lo stress psicologico sia spesso maggiormente derivante dalle difficoltà e le avversità da affrontare durante il recupero e la ricostruzione che dalle caratteristiche di impatto dell’evento di per sé 15: “Il rapporto con le organizzazioni di soccorso (in particolare le organizzazioni governative), la perdita del lavoro, quella dello stato sociale, o un mutato mix socioculturale della comunità sono tutte esperienze che possono accadere in seguito ad un disastro e possono essere effettivamente più significative, nel tempo, che l’esposizione al disastro stesso” 16. È la gestione complessiva successiva al disastro che determina la salute della comunità.

Le problematiche legate all’impatto sociale e psicologico delle catastrofi[P] naturali, sull’individuo e sulla comunità colpita, sono peraltro estesamente dibattute in letteratura, con consenso sul fatto che il rilassamento, e nei casi peggiori la completa rottura, dei legami sociali sui quali si fonda la comunità è uno degli effetti più rilevanti dell’evento catastrofico: non solo distruzione degli edifici, quindi, ma anche disgregazione della comunità. Deriva, tra le altre cose, da quello che Fenoglio chiama ‘lutto culturale’, determinato dalla perdita del mondo dei significati e dei luoghi sociali che costituivano gli usi, le ritualità e la geografia della comunità17. E deriva dalla ‘cosmicità dell’evento’, come suggerisce Weick rilevando che il disastro costringe le vittime a credere che il loro universo non sia più un sistema ordinato e razionale; a rendere l’evento così devastante è il fatto che il senso di quello che sta accadendo e gli strumenti necessari a ricostruire il senso collassano contemporaneamente18. Per provare a comprendere la sensazione di smarrimento che può derivare dalla perdita improvvisa del nostro mondo abituale possiamo ricorrere alle parole di Galimberti che osserva come “isolato dal mondo, il corpo diventa oggetto, il significato intellettuale del gesto che gli si prescrive stenta a tradursi in significato motorio, non perché la prescrizione rimane incompresa, ma perché manca un mondo dove poterla esprimere con senso19” . Senza riferimento al mondo, “il corpo ricade nella condizione di cosa, essendo cosa ciò che non si conosce, ciò che riposa nella più assoluta ignoranza di sé”20.

Di ricostruzione quindi si deve parlare, una ricostruzione deve quindi essere attivata e sostenuta, ma una ricostruzione con sfaccettature diverse e non esclusivamente materiale. Lo rileva ancora Weick, che ricorda come le persone colpite dalla catastrofe hanno la necessità di attivare un processo di ‘ricostruzione del senso’, per ridefinire i due mondi che secondo Solè regolano decisioni, comportamenti ed interazioni, ‘il mondo del possibile’ e ‘il mondo

25 dell’impossibile’, normalmente inconsciamente usati per rappresentare ed interpretare la realtà21, ma distrutti – o meglio, ribaltati – da un evento che rende impossibili cose ed azioni che si davano per scontate (entrare nella propria casa, chiamare dalla finestra il vicino di casa, percorrere le strade familiari…) rendendo allo stesso tempo possibile l’inconcepibile (perdere la propria città) portando nella quotidianità il rapporto con la distruzione e le macerie.

Definendo un ‘prima’ e un ‘dopo’, il terremoto segna una discontinuità non sanabile nella vita della comunità, imponendo cambiamenti permanenti a livello individuale e collettivo, su cose, persone e territorio, un mondo interamente mutato: “Ciò che è accaduto resta incorporato nella vita della comunità e prende vita una nuova realtà” 22. La ricostruzione[P] (materiale ed immateriale) non potrà in alcun modo ripristinare il pre-esistente e l’interazione sociale deve diventare strumento fondamentale perché la comunità possa (ri)costruire questa nuova realtà condivisa. La ricostruzione del senso è quindi un processo sociale che ha luogo nella straordinarietà, nel vuoto, quello fisico lasciato dalla distruzione e quello organizzativo e procedurale lasciato temporaneamente dalle istituzioni e dalle organizzazioni codificate, anch’esse colpite dalla catastrofe (emblematica in questo è la foto simbolo del terremoto dell’Aquila, col crollo del Palazzo del Governo). Si parla allora di ‘organizzazioni effimere’23, o di ‘comunità transitorie’24, che si formano all’interno di un processo naturale e spontaneo e che costituiscono segnali positivi di ripresa dalla catastrofe: attraverso l’auto-organizzazione emergono nuove strutture, procedure, gerarchie e conoscenze che concorrono a conferire nuova forma al sistema 25. Lasciare che il processo possa dispiegarsi può consentire alla comunità di riscrivere insieme le regole del gioco della convivenza anche attraverso il confronto con un elemento altro, i soccorritori, definendo così appartenenza ed estraneità, guardando all’evento disastroso come ad una rottura della consuetudine, e usando la presenza estranea per valorizzare il locale in un contesto globale26.

In questa prospettiva, appare chiaro come vitale per il processo di ricostruzione del senso sia l’adozione di strategie e strumenti per sostenere e favorire l’interazione tra gli individui della comunità, nonché di spazi in cui il processo possa dispiegarsi: “la mancanza di comunicazione […] potrebbe accrescere la vulnerabilità del gruppo fino alla distruzione”27. Un processo che trova nella spontaneità una condizione sfuggente ma fondamentale: pur in presenza di inevitabili influenze esogene, non può essere imposto o normato da regole esterne.28

E all’Aquila?

Ricostruzione della ‘città’ o (ri)costruzione di edifici?

All’Aquila, un paio di giorni dopo il terremoto un’ordinanza del sindaco dichiara inagibile l’intero patrimonio edilizio della città e dichiara ‘zona rossa’ il centro storico, così come i centri storici dei paesi del territorio comunale. Una decisione volta a garantire la sicurezza[P] dei cittadini, dettata dalla necessità di procedere a controlli estesi su tutte le abitazioni del territorio. Una scelta ragionevole nell’immediato, ma con conseguenze pesanti sulla collettività nel lungo periodo: a seguito dell’ordinanza vengono poste delle transenne, e istituiti check-point militarizzati, tra i cittadini e le loro case, tra i cittadini e le loro vite; a seguito dell’ordinanza per migliaia e migliaia di persone accedere alla propria vita diventa improvvisamente ‘reato penale’. Il possibile diventa impossibile, l’inconcepibile diventa realtà. Inizia la storia di città negata.

La forma più evidente e più visibile della negazione della città è chiaramente la chiusura del centro storico, con la negazione dello spazio e del tempo. Lo spazio è negato ai cittadini, impossibilitati ad accedere alla proprietà privata così come al bene collettivo degli spazi condivisi, un bene comune capace di farsi situazione, luogo relazionale, di essere teatro di accadimenti, eventi, relazioni sociali. Il tempo[P] è negato alla città, che non ha più diritto ad un tempo presente: una città che può vivere al passato, nel racconto di quello che era, ed eventualmente nel futuro, come attesa e distanza da quello che potrebbe essere. Parlo di un tempo che non appartiene alle cose, ma al nostro rapporto con esse, in assenza del quale la città storica restituisce ogni giorno, ogni istante, lo stesso racconto: alla stregua di una fotografia, o di un calco, ci narra di ciò che è stato (emblematica la locandina del cinema Massimo, che dal 6 aprile 2009 continua a mostrarci sempre lo stesso film), se, con Galimberti, “Pres-ente significa presso l’ente, presso le cose, per cui il presente non è un istante, ma una prossimità, una vicinanza, è quel nulla che si frappone tra il mio corpo e le cose, per cui le cose mi sono prossime e immediatamente utilizzabili, a differenza di quelle passate che possono solo essere ricordate, e quelle future che, finchè non si presentano, restano solo promesse” 29. La città avrebbe dovuto sopravvivere ai suoi cittadini, le città lo fanno, le città in qualche modo ‘sono il tempo’, passato, presente e futuro. Ci si aspetta che il tempo continui a scorrere, ma chi entra nel centro storico dell'Aquila ancora oggi trova un eterno 6 aprile 2009.

Ma anche altri, non meno importanti, sono i segni della negazione della città. Sociologi e urbanisti parlano del rapporto simbiotico tra città e cittadini, con i cittadini che modellano la città e a loro volta ne sono modellati. È la

26 visione del sociologo urbano Robert Park, che considera la città “il più riuscito tentativo da parte dell’uomo di plasmare il mondo in cui vive in funzione delle sue più intime aspirazioni” 30 ma costruendo il mondo in cui poi è condannato a vivere, l’uomo ricostruisce, indirettamente e inconsapevolmente, se stesso. Visione ripresa poi da Harvey: “Il diritto alla città non si esaurisce nella libertà individuale di accedere alle risorse urbane, ma è il diritto di cambiare noi stessi cambiando la città. È un diritto collettivo, più che individuale, perché una trasformazione dei processi di urbanizzazione richiede inevitabilmente l’esercizio di un potere comune” 31. La questione di quale città vogliamo non può essere quindi separata da altre questioni: che tipo di persone vogliamo essere, che rapporti sociali cerchiamo, che relazione vogliamo intrecciare con la natura, che stile di vita vogliamo. Il diritto alla città è anche il diritto di cambiare[P] e reinventare la città.

Ci aiuta nella comprensione anche la contrapposizione lefebvriana tra città-opera e città-prodotto 32: la prima legata alla capacità creativa della collettività, frutto di un processo che coinvolge nel tempo, se pur in modo diverso, i differenti strati della popolazione, espressione di appartenenza e di incontro ma anche di contraddizioni, di diversità sociali e di scontro, condizioni necessarie allo spazio urbano; la seconda, invece, risultato dalla serializzazione, e per questo ri-producibile, frutto di un processo di fabbricazione che non prevede relazione tra collettività e generazione dello spazio urbano, con progressiva perdita di connessione sentimentale, ed espulsione fisica nelle periferie.

La città allora è negata nel momento in cui la città storica, città-opera, espressione di un lento e lungo processo collettivo che aveva portato ad una realtà condivisa, viene sostituita dalla costellazione delle cosiddette new town, più di venti ‘insediamenti’ fra progetto C.A.S.E. e M.A.P., posizionati lungo un percorso di circa 100 km, lontani dalla città storica e lontani gli uni dagli altri, impossibilitati a farsi situazione per la mancanza di servizi e spazi condivisi, non più opera ma prodotto serializzato, pre-confezionato e pre-arredato, materializzazione di un rapporto eterodiretto e unidirezionale dal potere verso i cittadini, a cui è stato negato il diritto a determinare le trasformazioni della città e con queste le trasformazioni di sé.

La città è negata quando alla domanda dell’abitare viene data una risposta edile, un prodotto serializzato, anonimo e anonimizzante, contrario al concetto stesso dell’abitare, laddove abitare è la sottrazione delle cose all’anonimato, è la relazione con uno spazio che racconta il nostro vissuto, abitare “è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, […] è trasfigurare le cose, è caricarle di sensi, che trascendono la loro pura oggettività, è sottrarle all'anonimia, per resituirle ai nostri gesti ‘abituali’, che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le ‘sue cose’, presso di sé” 33. La città è allora negata quando nelle abitazioni del progetto C.A.S.E. viene preclusa la possibilità di portare i propri arredi e le proprie cose, costringendo migliaia e migliaia di persone a tenere la propria vita impacchettata, inscatolata, ammucchiata, abbandonata in garage, magazzini, container, per un numero indefinito di anni34.

La città è negata quando i processi imposti nel dopo-sisma ignorano quelle che dovrebbero essere le dinamiche sociali di recupero di una comunità dopo una catastrofe, che ha assoluta necessità di coesione, interazione e autodeterminazione nel processo di ricostruzione del senso, che pure avrebbero trovato piena espressione nella partecipazione alla ri-generazione dello spazio urbano che, nell’ottica della città-opera e del diritto alla città, nasce da un’azione collettiva, spontanea ed auto-organizzata.

La città è negata perché i cittadini dell’Aquila queste cose non le hanno dovute studiare su manuali di sociologia, ma le hanno imparate sulla loro pelle, come diritti che sono stati loro negati.

27 Il Green cinema, gli uomini, le donne, i bambini

Lorella Reale

Se l’ape scomparisse dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita. Albert Einstein

Io sono me più il mio ambiente e se non preservo quest’ultimo non preservo me stesso. José Ortega Y Gasset

Il pezzo di torta che le donne hanno appena cominciato ad assaggiare grazie al femminismo è marcio e cancerogeno. Ynestra King

Vado al cinema da ventotto anni. Adoro il momento in cui cala il buio in sala, l’odore del mais e dell’olio che emanano i secchielli dei pop corn e la sensazione di assistere con altri – sconosciuti, dalle potenziali reazioni imprevedibili – alla stessa storia. Dalla prima volta che, bambina, ho messo piede in una sala per vedere una nuova edizione di Alice nel paese delle meraviglie ad oggi, sono cambiate certamente molte cose. Il grande passaggio dall’analogico al digitale ha modificato profondamente il nostro modo di usufruire dell’opera filmica che adesso, molto spesso, è già disponibile dopo qualche ora sui nostri smartphone o negli ipad; inoltre, s’è fatta strada soprattutto in questi ultimi decenni una particolare forma di consapevolezza politico-ecologica (anche grazie al cinema), tale per cui può accadere che si sia restii ad acquistare dei pop corn in sala almeno che non si sappia da dove vengono e come sono prodotti, se con l’uso di pesticidi o meno, se con lavoratori privi di diritti o garantiti. E che, ancora, tra i titoli di coda alla fine di uno spettacolo, si vada alla ricerca della sigla Ema (Environmental Media Association), per assicurarsi che location, servizio di catering durante le riprese e atteggiamenti degli stessi attori siano stati orientati al rispetto dell’ambiente, dei consumi di acqua ed energia, che sia stata quindi una produzione ‘a basso impatto ambientale’ con la garanzia della nota associazione attiva ad Hollywood dal 1989 1.

Altro fatto notevole è che la crisi economica globale e le nuove tecnologie hanno dato manforte, nel settore delle settima arte, a un problema per certi versi squisitamente teorico ma con ricadute simboliche chiare, ossia quello che l’abile sceneggiatore e insegnante Robert McKee ha definito “il declino della storia”. Si tratta di quella decadenza di qualità che possiamo cogliere ogni volta che usciamo insoddisfatti da un cinema, che interrompiamo annoiate un film tv o, anche, lasciamo a metà un romanzo. E in questa epoca è, secondo, McKee, il risultato di uno scollamento:

Lo sceneggiatore plasma una storia sulla percezione di ciò per cui vale la pena di vivere e di morire, di cosa è sciocco perseguire, di qual è il significato della giustizia, e della verità – cioè i valori essenziali. Nei decenni scorsi sceneggiatori e società erano più o meno d’accordo su questi temi, ma la nostra epoca è diventata sempre più un'epoca di cinismo morale ed etico, di relativismo e soggettivismo: di una grande confusione di valori. […] È necessario quindi scavare prima in profondità nella vita per scoprire nuovi insight, nuove elaborazioni di

28 valore e significato, e poi creare un veicolo per la storia che esprima, ad un mondo sempre più agnostico, la nostra interpretazione2.

Ma individuare “nuove elaborazioni di valore e significato” è un compito che nell’era culturale dell’apatia morale “costitutiva del liberalismo neo-conservatore del nostro tempo”, così come l’ha definita la filosofa Rosi Braidotti, appare a volte molto arduo in tutti i campi 3. Tuttavia, il fatto che nonostante le rivoluzioni e i cambiamenti intercorsi, l’affluenza nelle sale cinematografiche sia di poco diminuita e che alcuni film registrino dei grandi successi di botteghino lascia almeno intendere, come dichiara lo stesso McKee, l’incontrovertibilità di un dato: la fame insaziabile degli esseri umani di storie. Numerose sono, infatti, le volte che spalanchiamo gli occhi in una sala, ridiamo, ci commuoviamo e pensiamo, ed è principalmente per questa ragione che, credo, si possa ancora continuare a riconoscere a molti film la valenza di percorsi esplorativi di conoscenza, ossia quella capacità di essere, per dirla con le parole di Natalie Zemon Davis, veri e propri “esperimenti di pensiero” capaci di “proporre riflessioni convincenti su eventi, relazioni e processi storici” 4. E, forse, anche qualcosa in più. In una sala cinematografica la narrazione rappresenta un evento “di cui […] i partecipanti fanno esperienza insieme”, come ha sottolineato Luisa Muraro, nel senso forte del “dargli forma, come un recipiente all’acqua che raccoglie” 5. Il nostro stesso modo di accogliere una storia può dirci qualcosa su noi stessi e le nostre relazioni sociali. È ancora possibile, allora, a mio avviso, riconoscere al cinema quello stesso significato politico su cui già Walter Beniamin aveva riflettuto, nel 1936, interrogandosi sull’impatto del cinema sonoro in rapporto all’esperienza della società di massa e all’approfondimento che questo strumento avrebbe richiesto alle nostre capacità percettive, col mostrarci “uno spazio” che, al posto di essere elaborato dalla coscienza, pretendeva di essere “elaborato inconsciamente” 6. È per questo che rimango abbarbicata a una vecchia opinione, espressa alcuni anni fa molto bene dal giurista Giovanni Rizzoni, secondo il quale il cinema, mutatis mutandis, assolve oggi il compito che era stato un tempo delle tragedie greche:

La tragedia era il mezzo con cui gli antichi greci rimettevano continuamente in scena la perdurante incidenza sul cosmo della polis di questioni terribili e insolute come quelle della violenza, della verità, dei valori morali. […] Oggi è il cinema a rispondere in gran parte al nostro bisogno di rielaborare sul piano dell’immaginario collettivo le istanze fondamentali che stanno alla base della convivenza civile7.

Sebbene resti da chiedersi quanto certi film riescano a influenzare i nostri comportamenti, che il cinema rappresenti uno strumento potente della produzione culturale fu l’assunto decisivo col quale si mosse, fin dalla sua nascita, la teoria femminista del cinema definendolo “una pratica culturale che rappresenta miti sulle donne e la femminilità, quanto sugli uomini e la maschilità”8. Ora è da tutte queste considerazioni, e dal semplice punto di vista di spettatrice informata più che di filmmaker e appassionata studiosa di testi filmici e teorie sul cinema che, in modo simile alla giornata del convegno “Terra e parole” dedicata ai filmati sul tema, vorrei proporre in questo contesto alcune riflessioni ripercorrendo brevemente la storia del green movie, un vasto contenitore in cui oggi confluiscono prodotti differenti e che è fucina di numerosi film di successo che spaziano dai documentari naturalistici ai disaster movie, fino ad interrogare le storie sull’ambiente che stiamo raccontando ai bambini nei film d’animazione9.

Il green movie: dalla sindrome di Nerone alla sindrome di Enea

Il green movie nasce ufficialmente nel 1990. Si tratta dell’anno in cui la rivista specializzata Hollywood Reporter annuncia per l’appunto la nascita di un nuovo genere, prendendo atto del fatto che in molte opere filmiche “la natura e l’ambiente non sono […] più soltanto lo sfondo in cui ambientare drammi umani” ma il vero soggetto della narrazione10. La quantità di opere filmiche è infatti divenuta enorme, ci sono documentari, film di fiction, film fuori formato, e tutti questi prodotti si legano a volte ad altri generi, ad esempio, al legal thriller o altre volte invece alla fantascienza; ma c’è qualcosa di particolare che è cambiato rispetto agli anni precedenti. Se prima il cinema aveva descritto, intuito e previsto, con classici che vanno dai film degli albori della storia del cinema, come Nanuk l’eschimese (1922) e L’uomo di Aran (1934) di Robert J. Flaherty o come i poetici Pioggia (1929) e Io e il vento (1988) di Joris Ivens o ancora, Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann – ossia con lavori dove si mostravano la natura e la nostra capacità di adattamento — e se, nei film degli anni Sessanta e Settanta, era emersa gradualmente una reale presa di coscienza dei problemi ambientali in quanto conseguenza delle nostre azioni (si pensi all’emblematico Gli Uccelli di Alfred Hitchcock del 1963 o al più tardo 2022: I sopravvissuti del 1973 e ancora a Sindrome cinese, il film di James Bridge del 1979 sullo scoppio di una centrale nucleare), è soltanto nei film degli anni Novanta che accade qualcosa per certi versi di straordinario. Siamo, per la prima volta, davanti a storie evidentemente politiche, in quanto ambientaliste, ma la novità consiste nel fatto che la catastrofe non è più imminente. Ogni film sembra, infatti, voler consegnare il messaggio che il dado è tratto, il danno è stato perpetrato e non si torna più indietro, non resta allora che pagarne le conseguenze, non resta che il dolore o il biasimo che può essere racchiuso anche semplicemente nell’immagine iconoclasta di una gatto che si prende cura di un gabbiano, la cui madre è morta tra i veleni dei mari inquinati. Film di successo di questo periodo sono, tra i numerosi altri, appunto il film d’animazione pluripremiato,

29 sulla biodiversità e l’inquinamento, La gabbianella e il gatto (1998); il noto Balla coi Lupi (1990) o A Civil Action (1998), la storia per molti aspetti realmente accaduta di un avvocato (interpretato da John Travolta) che attacca delle industrie colpevoli di aver provocato la morte di alcuni bambini contaminando l’acqua corrente. Ed è così che, nel 1996, Gianni Canova poteva dichiarare lapidario:

Il catastrofico è morto, non perché fosse cessata la paura della catastrofe, ma perché il corpo sociale avvertiva oscuramente che la catastrofe era già avvenuta senza che nessuno (o quasi) se ne fosse accorto. Tutto è già avvenuto, tutto si è consumato. La catastrofe è divenuta una categoria a priori 11.

È dunque in questo modo e con questa lucidità che nel cinema si aprono le porte ai film degli anni 2000, a opere come 28 giorni dopo (2003) di Danny Boyle o il disturbante The Road (2009) di John Hillcoat. Nel primo, siamo in una Londra spopolata, devastata e silenziosa; vaghiamo tra carcasse d’auto, insegne di marche, negozi vuoti e autobus rovesciati insieme a Jim, un ragazzo svegliatosi dal coma in un letto di ospedale, ignaro del fatto che quattro settimane prima un’epidemia scatenata dalle scimmie di un laboratorio, liberate da un gruppo di animalisti, ha ucciso rapidamente gli abitanti e svuotato la città. Il film uscì nei giorni dell’allarme per la Sars, il corona virus e la polmonite atipica. E, durante la storia, accade quello che i numerosi reality televisivi ci hanno abituato a vedere: si ricrea una situazione da stato di natura, probabilmente quella con le caratteristiche che riteniamo ormai filosoficamente più plausibili e cioè quella hobbesiana di una guerra civile di tutti contro tutti, finché alcuni non pensano di fare gruppo, di rinunciare a parte del loro potere di uccidere, alleandosi con la speranza di ricostruire qualcosa. E una situazione simile fa da sfondo anche a The Road ma in un modo più inquietante. Difatti, il film di Hillcoat, tratto dall’omonimo libro di fantascienza di Cormac McCarthy, sembra voler mostrare quello che accadrà, secondo le previsioni degli scienziati e climatologi di più paesi, fra meno di quarant’anni anche a noi, se non ci decideremo a cambiare i nostri stili di vita; se non ridurremo drasticamente l’emissione di gas serra; se non impareremo a produrre e alimentarci diversamente da come facciamo adesso e dunque, non ostacoleremo il già chiaro innalzamento delle temperature e la successiva glaciazione alla quale pochi di noi sopravvivranno. Ma tornando alla fiction, The Road si apre con l’immagine solare di una campagna, come ancora può capitarci di vedere oggi ma che nel film si rivela soltanto il sogno di un uomo che dorme coperto di stracci e giornali accanto a un bambino di circa dieci anni: questa è infatti la storia di un uomo e un bambino che cercano di raggiungere semplicemente l’oceano, in quanto lì, forse, il clima sarà più mite. Dai ricordi dell’uomo apprendiamo che la mamma del bambino ha ceduto alla disperazione, ha accettato di lasciare al padre il loro unico figlio mentre lei ha preferito uccidersi, incapace di vivere in un mondo senza speranza, dove la luce è livida, non ci sono più animali, dove si trovano soltanto rari cibi in scatola o bevande in lattina, dove i sopravvissuti si stanno violentando e mangiando tra di loro e dove, soprattutto, tutto è successo all’improvviso. “Il paesaggio”, scrive ancora Canova sul nuovo green cinema, “è cambiato, la natura è muta e silenziosa, quasi attonita sugli schermi”12.

Nella sala di Roma dove ho visto il film, avvertendo un profondo malessere, ho assistito alla scena ripetuta di spettatori che abbandonavano la sala molto prima di arrivare alla conclusione. Sono dunque questi i film sull’ambiente di oggi, per i quali Canova si chiede sommessamente se rispetto al passato recente – quello dei disaster movie, come 2012 (2009) o The Day After Tomorrow (2004) di Roland Emmerich – tra di noi spettatori non si sia passati dalla “‘sindrome di Nerone’, (il piacere di assistere a spettacoli di distruzione urbana stando comodamente seduti nelle proprie poltrone) alla ‘sindrome di Enea’, cioè il piacere ansioso di vedere il sopravvissuto ad una catastrofe che si ritrasforma in fondatore di città” 13. Piacere quanto mai illusorio in quanto sappiamo bene che senza il mondo vegetale sarebbe impossibile sopravvivere.

Ma nelle opere filmiche di questo millennio è anche possibile ritrovare quello che potrebbe apparire un paradosso: se da una parte è infatti imperante il pessimismo realistico sul futuro del nostro pianeta, dall’altra potrebbe apparire strano constatare come sia tornata alla ribalta nella vastità dell’offerta una tematica degli albori, ossia la rappresentazione della natura nella sua vastità e bellezza. Dei veri capolavori di questi anni sono stati: Microcosmos (1996), Il popolo migratore (2001) o Profondo blu (2003); e il successo degli incassi di questi documentari naturalistici potrebbe, appunto, fare ben sperare in un serpeggiante interessamento per la terra, la flora e la fauna del nostro pianeta. Ma appare difficile non condividere il parere invece nettamente contrario di Goffredo Fofi per il quale è vero semmai che la natura, comunque ormai inscindibile dal significato di ecologia, oggetto di questi lavori, abbia successo al cinema semplicemente perché lontana e sconosciuta ai più e perché si è ormai perduta la capacità di capirla e amarla prendendosene cura14. E del resto, potrebbe essere esemplare in questo senso una vicenda di alcuni anni fa: non pochi rammenteranno l’allarmante moria delle api nel nostro paese, che si scoprì dovuta all’uso di sostanze neonicotinoidi, presenti negli agrofarmaci usati nei campi di mais, che drogavano le api di passaggio facendole smarrire e provocandone quindi la morte. In quell’occasione, al seguito di una troupe della trasmissione Report della Rai, potei parlare in Piemonte con degli apicoltori sconcertati, i quali dovettero ricordare al mondo intero che senza le api e il loro lavoro di impollinazione né fiori né frutti, quindi anche animali vegetariani e animali che di questi ultimi si nutrono sarebbero scomparsi. Insomma rammentarono la lezione di biologia che riceviamo tutti quanti, per la prima volta, alle

30 scuole elementari. Ma siamo davvero tanto lontani dai meccanismi del mondo che abitiamo e di cui siamo parte? È ancora tanto radicata quell’antica separazione netta tra esseri umani e natura che Fofi vede ben rappresentata ne Il fantasma della libertà (1974) di Luis Bunuel nell’immagine di uno struzzo che assiste impassibile allo scontro tra borghesi e poliziotti, in uno dei più bei finali della storia del cinema?

Quando i bambini vanno al cinema

Quando si parla di cinema di animazione, sia che si abbiano in mente opere del passato sia i titoli più recenti, è difficile immaginare un intrattenimento che non abbracci con chiarezza i concetti di correttezza politica. È dunque semplice anche trovare numerosi lavori dove l’ambiente è un tema o sotteso oppure centrale, soprattutto nella produzione degli ultimi anni. Esempi noti sono A Bug’s Life – Megaminimondo (1998), Galline in fuga (2000), L’Era Glaciale (2006), fino al più esplicito Piovono Polpette (2009) o ai capolavori indiscussi di Hayao Miyazaki, il quale, da Principessa Mononoke (1997) a Ponyo sulla scogliera (2008), ha affrontato in maniera autoriale i temi della difesa dell’ambiente e del rapporto tra generazioni, con il chiaro intento di spingerci, tramite suggestioni visive e una narrazione simbolica a cercare di comprendere e sentire più profondamente il mondo.

Nel 2008, a dimostrazione di come la raffinatezza della riflessione e l’originalità dei contenuti del cinema di animazione abbiano raggiunto altissimi livelli uscì, ad esempio, Wall-E di Andrew Stanton, un’opera acclamata pressoché unanimemente dalla critica di tutti i paesi in cui è stata proiettata. Di nuovo, si è trattato di una storia che colpiva e spaventava per la sua incisività. Wall-E è, difatti, un piccolo robot addetto al compattamento dei rifiuti che, insieme ad una cavalletta, è rimasto l’unico abitante del pianeta Terra ormai ridotto a una gigantesca discarica. Intanto l’umanità obesa, ottusa e perennemente seduta su poltrone mobili, vive all’interno di astronavi crociera controllate da una Company, finché in seguito al ritrovamento di una piantina tra l’immondizia – che dimostrerebbe l’abbassamento dei livelli di anidride carbonica nell’aria – non gli viene ordinato di provare a ripopolare la Terra. Tuttavia gli uomini non sanno più come fare, potranno tutt’al più ricorrere a dei manuali pronti all’uso. C’è da chiedersi, davanti a simili narrazioni tragicomiche, se la speranza riposta in questi film sia di influenzare i nostri figli o i nostri nipoti allo stesso modo in cui lo fece su numerose generazioni – a detta della critica – la storia del film Bambi di David Hand del 1942 che, con rara violenza emotiva, mostrò in un cartoon addirittura la morte della madre del tenero cerbiatto protagonista a causa di un incendio nei boschi. Nonostante la semplificazione operata da Hand di una natura zuccherosa e idilliaca, come ricorda la studiosa della Scuola nazionale di cinema Chiara Magri, questo film d’animazione si fondò infatti con una forza inusitata per l’epoca, “su un concetto chiaro e semplice: è l’uomo la minaccia assoluta che incombe sull’idillio pastorale della foresta” e con questo, continua Magri, fu evidente “l’intenzione di indurre atteggiamenti consapevoli e comportamenti corretti in funzione del cosiddetto sviluppo sostenibile”, tanto da far parlare di un vero e proprio ‘effetto Bambi’15.

Ma, appunto, in un momento in cui le azioni pratiche dei governi sono insufficienti o carenti di interventi rivolti alla salvaguardia della Terra, è il momento di interrogarci se sia giusto o, anche semplicemente, ‘soltanto’ sensato augurarci di trasmettere alle future generazioni lezioni e comportamenti che li spronino a prendersene cura. Come scrive il geografo Cristiano Giorda, riflettendo di formazione, paesaggio e nuove tecnologie, anche nei programmi della televisione pubblica per i bambini, emerge il fatto che “di tutte le utopie, quella più nota riguarda l’idea che le nuove generazioni debbano accollarsi il compito di rimediare ai disastri e alle diseguaglianze create dalla condotta egoista e non sostenibile delle generazioni precedenti”16. Si pensi che con l’avvento del satellite e del digitale terrestre, la televisione pubblica italiana, la RAI ha difatti potuto dedicare un intero canale alla programmazione per i bambini in età prescolare (0-6 anni), cioè Rai Yo-Yo. Questo ha voluto dire che dalle sei del mattino alla notte, si mandano in onda a ciclo continuo dei cartoon comprensibili a una fascia d’età molto piccola, molti dei quali danno rilievo a tematiche ambientali. Sebbene le serie siano spesso datate – alcuni esempi sono i Barbapapà, la serie ideata negli anni Settanta dall’architetto Annette Tison e dal professore di matematica Talus Taylor o i Teletubbies, serie realizzata dalla BBC alla fine anni Novanta – si può certo affermare che tutte le storie narrate siano ricche di messaggi ancora validi. Sul capolavoro francese dei Barbapapà, infatti, sempre Giorda scrive:

I Barbapapà, allontanandosi dalla società umana contemporanea, cercano di vivere in armonia e simbiosi con la natura, benigna e portatrice di benessere. Il loro atteggiamento verso le forme viventi è sempre improntato all’etica della cura, collegabile all’idea di una pedagogia più orizzontale e inclusiva. Le risorse materiali, nel loro mondo fantastico, sono usate con creatività per fini di autorealizzazione. I Barbapapà sanno riciclare, vivono in modo tradizionale, ad esempio coltivando un orto e rivalutando i vecchi mestieri artigianali […] e non agiscono mai secondo le regole della società dei consumi 17.

Ma anche questa situazione mi sembra possa confermare il fatto che a fronte di una consapevolezza ambientale molto lucida e approfondita – che la narrazione per immagini nelle sue diverse sfaccettature ha molte volte riflesso e tentato di

31 spronare – appaia sempre più chiara la terribile povertà di cambiamenti intervenuti nella realtà. Se il green cinema testimonia con forza e intelligenza, il peggioramento della situazione del nostro pianeta, queste storie, visioni e immagini chiare di grave devastazione sembrano avere influenzato di poco i nostri comportamenti. Ma siamo forse diventati realmente l’umanità pingue e inetta di Wall-E? Sebbene sia difficile non ritenere a volte retorico questo interrogativo, ammetto che come documentarista mi chiedo se non avrebbe avuto forse più effetto raccontare al cinema e in televisione delle storie di interventi positivi sul territorio, quelle vicende piccole ma importanti che di solito televisione e cinema non finanziano pensando che faccia ascolto solo il sensazionalismo delle catastrofi. Sarebbe importante far conoscere le tante esperienze di presidio, custodia e ricostruzione del proprio territorio che in Italia, volendone ricordare solo alcune, sono state e sono le nuove forme di partecipazione alla costruzione della propria città create dalle donne dopo il terremoto a L’Aquila; il ritorno al lavoro della terra dei cosiddetti new rural (intellettuali o comunque uomini e donne provenienti da altri ambiti di sapere e azione) o ancora, la formazione dei gruppi d’acquisto solidali a sostegno di chi produce nel rispetto dell’ambiente. Ma altresì, ritengo che sia fondamentale che in tutti gli ambiti di pensiero e di azione, in quanto uomini e donne capaci di interrogarsi, in maniera quanto mai approfondita, sui propri livelli di sostenibilità, non si prescinda più dal fatto che la Terra non è un elemento tra gli altri, un oggetto di studio tra gli altri, un problema tra gli altri. Come scrive la filosofa Rosi Braidotti, si può difatti anche operare semplicemente come tarli “dall’interno del sistema”, con il presupposto, però, che non si prescinda più dal fatto che la Terra non è un elemento tra gli altri “bensì quello che li tiene tutti insieme” 18. In uno squarcio epocale in cui, per di più, alcuni soggetti storicamente esclusi dalla fruizione di determinate risorse, come le donne, hanno conquistato nuovi spazi e libertà[P], avendo operato anche sul piano di un poderoso lavoro simbolico, “certamente la stessa teoria e pratica femminista devono tenerne conto”, come ricorda Ynestra King nel seguito dell’epigrafe riportata in calce a questo testo19. Secondo la filosofa politica Federica Giardini, nel suo commento al testo di Braidotti, è più che mai chiaro adesso che “la nostra collocazione […] è insieme planetaria e contestuale, in una rete di interdipendenze” 20. È solo partendo da questo assunto che la narrazione e il potere trasformativo che le si associava già nel V secolo con le tragedie potranno, allora, continuare, anche dopo che le storie si concludono, nelle nostre menti e azioni, con la richiesta di una postura aperta alla complessità di questo terzo millennio.

32 DocuDonne

Territorio, donne e cinema del reale

Nicoletta Vallorani

Anteprime

Munira è una madre, una delle tante che hanno perso figli e/o mariti senza poterne neanche seppellire i corpi. Dopo le guerre balcaniche – o, per meglio dire, a partire dal momento in cui esse sono state archiviate come storia e non più tempo presente – molte donne di Srebrenica cercano, insieme a Munira, frammenti di scheletro, ossa sepolte in campi di patate, tracce dimenticate dai carnefici in modo che ciò che resta di chi si è amato definisca l’idea di una morte, la fine dell’incertezza, e l’inizio di una elaborazione del lutto.

Mi piace cominciare da qui, anche se In utero Srebrenica, il documentario dal quale ho imparato queste storie, nasce da uno sguardo maschile, quello di Giuseppe Carrieri 1. Il giovane regista, che con questa opera prima ha vinto la VII edizione del festival internazionale di cinema documentario Docucity. Documentare la città mette in atto una operazione delicata e coraggiosa: Carrieri segue un percorso di ricostruzione e conservazione della memoria molto particolare, fatto di intersezioni tra il personale (del lutto, della lacerazione, della violazione e della ricerca) e il collettivo (di una guerra che si è presto trasformata in genocidio di un popolo intero) 2. Piccole storie e storia ufficiale – per applicare due definizioni introdotte da Francois Lyotard3 – si intrecciano in una struttura di affetti e di eventi strettamente interrelati, ricostruendo una vicenda dimenticata, per quanto dolorosa e reale. Il territorio da perlustrare, per le donne protagoniste del film, è familiare e reso straniero dall’irruzione violenta di un conflitto incomprensibile, e si dipana in uno spazio intensamente fisico e topografico: quello di un campo di patate o di un bosco che nella guerra si son fatti luoghi pericolosi e ricettacoli, appunto, di ossa.

Il carattere di una guerra il cui senso ancora sfugge si fa esperienza concreta nello sguardo limpido e inflessibile con il quale queste vittime incolpevoli raccontano il loro passato recente, trasmettendo, nella tragedia, una forza particolare e cristallina, l’energia rabbiosa delle donne cui è stata sottratta la tessitura del loro territorio primario – la famiglia – e che tuttavia trovano impossibile arrendersi. Di questo resoconto fatto di sguardi, parole dure, rughe sulla superficie della storia ufficiale mi interessa, in questa sede, il tratto culturale, ovvero il modo in cui il documentario di Carrieri permette a chi lo guarda di ascoltare la voce, la testimonianza, la resistenza e la resa impossibile di una città, Srebrenica, che è spazio urbano e sociale violato nella sua struttura primaria, quella della collettività che lo abita.

Dunque, vorrei parlare di documentario scegliendo un approccio analitico preciso e raccogliendo la sfida implicita in ogni testo visuale di tipo documentario, ivi compresa la fotografia: quella di raccontare con una cifra poetica una storia che di lirico non ha nulla, in uno sforzo creativo che, a ben guardare, appartiene alle origini stesse del documentario e della sua tendenza a considerare ineludibile la “presenza umana” nell’architettura della città 4. E vorrei aggiungere a questa scelta interpretativa anche la volontà di provare a capire come si coniuga il femminile con quel tipo di testo complicato, marginale, geniale e difficile che è il cinema documentario, oppure, per meglio dire e per usare una definizione nella quale mi riconosco di più, il cinema del reale. Quello che apparirà evidente, o almeno così speriamo, da questa analisi, è un dato tematico importante, o per meglio dire la ricorrenza di due atteggiamenti importanti, tra di

33 loro insolitamente connessi: una nostalgia lieve e spesso ironica, intinta nella consapevolezza (etimologica) di un ritorno impossibile; l’ostinata volontà di resistenza, che si manifesta nella difesa di uno spazio – abitativo e ideologico – che si ritiene essenziale al vivere.

Metodologicamente, occorre precisare che l’analisi che segue è affrontata con lo sguardo non della studiosa di cinema ma della culturalista, ovvero del genere di ricercatore che si occupa di forme della cultura non come entità discrete e isolate, ma come parte di un sistema di produzione dei significati che trova nella comunità e nei “significati condivisi” di williamsiana memoria la sua rete primaria5. Scegliere questo orientamento analitico significa in tutta evidenza prediligere un approccio che – come ribadiscono Terranova-Cecchini e Inghilleri – possa rispecchiare il carattere eterogeneo dell’universo culturale cui apparteniamo, aiutandoci ad evitare pericolose quanto controproducenti semplificazioni6. La strada maestra degli studi culturalisti di origine anglosassone viene applicata partendo dalle declinazioni che di essa si trovano, a partire dagli anni Novanta del ‘900, in una serie di studiosi che ampliano e articolano la riflessione sul concetto stesso di cultura 7 e approfondiscono il senso e la pertinenza delle parole chiave parole chiave williamsiane 8, per poi riflettere sulla necessaria calibrazione prospettica del metodo. Lo specifico cinematografico, in altri termini, verrà considerato dando spazio e rilevanza alle caratteristiche peculiari del testo documentario come strumento di rappresentazione dello spazio che abitiamo, e al modo in cui questa rappresentazione ci aiuta a elaborare percorsi di comprensione, rimodellamenti, riadattamenti per un vivere più adeguato. È utile tenere a mente, generalizzandola, una considerazione che Marco Bertozzi applica al documentario italiano quando, nel quadro complessivo del cinema come strumento espressivo, ne rivendica le caratteristiche di oggetto complesso, poiché “chi crede di ben vedere chiede al documentario di garantire la verità. Una richiesta di certificazione che lascia interdetti e che ha l’elementare controcampo nell’esercizio opposto: trovare falsità – narrative o iconografiche – per affermare che il cinema non è fonte ‘affidabile’”9.

Infine, in questo percorso analitico, ci interessa molto la dimensione ‘politica’, nel senso etimologico del termine, che ben delinea De Cordova in riferimento appunto agli Studi Culturali, ricostruendone la genealogia attraverso i percorsi di ricerca delle università anglosassoni e angloamericane, Fanon, gli studi postcoloniali e gli studi subalterni. È in questo contesto che

la dimensione del ‘politico’ che compenetra ogni teoria viene svelata senza mezzi termini: è con questa nuova postura che si attraversa l’esperienza coloniale, interrogandosi su categorie quali identità, nazione, Stato. Categorie iscritte nell’occidente europeo del periodo coloniale, che vengono utilizzate come campo di battaglia del movimento postcoloniale 10.

Non va dimenticato, naturalmente, “il pensiero radicale di pensatori francesi che permettono di disarticolare dall’interno e dall’esterno il binomio razionale/reale. […] L’intrusione della french theory nell’arena postcoloniale ha provocato accesi dibattiti tra chi si schierava a favore o contro, fino alla definizione del ‘trinomio’, descritto da Robert Young, Said, Spivak e Bhabha, con la loro radicale riconcettualizzazione della relazione nazione/cultura/etnicità, come la holy trinity del post-colonial” 11. Crediamo che questa ricca e multiforme impostazione critica si adatti con inattesa naturalezza agli sviluppi recenti del cinema del reale. E dunque ci pare sensato sperimentare questa strumentazione critica sui testi che qui di seguito identifichiamo.

Atti di nascita e confini: cinema del reale e sguardo

Ciò che chiamiamo ‘documentario’ è semplicemente quel cinema che si confronta per così dire frontalmente con le realtà che sono le nostre, individuali e sociali, private e pubbliche, prendendosi il rischio di questo impegno nel mondo, essendo al tempo stesso meno protetto e meno protettivo rispetto ai film di finzione, che operano, per parte loro, a maggiore distanza12.

Con questa citazione, Raffaele De Berti apre il suo breve, prezioso saggio “Una terra di confine”, scegliendo di affidare alle parole di Jean-Louis Comolli l’identificazione di una problema importante per chiunque si occupi di cinema documentario. Un dato che si perde spesso di vista in questo ambito di ricerca concerne il concetto di rappresentazione. Sappiamo che ogni discorso sul reale è sempre una rappresentazione soggettiva di esso: quella che mettiamo in atto, per quanto mimetica sia l’arte che pratichiamo, è sempre una procedura interpretativa, filtrata attraverso uno specifico sguardo, che non può che essere parziale. Concettualmente, quindi, questa considerazione resta vera anche per arti percepite come più ‘mimetiche’ perché rese possibili – si dice – dalla mediazione di una tecnologia senza la quale esse non esisterebbero neanche. Seppure esposto qui in una versione gravemente semplificata, è questo il dibattito critico che, per esempio, ha riguardato per molti anni la fotografia, soprattutto nel momento immediatamente successivo alla sua nascita, nel suo rapporto con la pittura: il ritratto fotografico pareva escludere persino la possibilità di una componente creativa, a dispetto della evidente sperimentazione immaginativa che caratterizza ad esempio le foto

34 di Julia Margaret Cameron (1815-1879)13 o la finzione che è il centro della famosissima combinazione di cinque negativi diversi attraverso la quale Henry Peach Robinson simula la morte di una giovane donna in “Fading Away” (1858).

Una sorte analoga tende a riprodursi nel caso del testo documentario: territorio di confine tra resoconto e narrazione, esso patisce un malinteso mimetico, che spesso ne condiziona la valutazione in termini di percentuale di realismo. L’interazione ineludibile tra realtà e rappresentazione e l’impatto variabile del processo interpretativo vanno coniugate con la decisa, sebbene problematica, tendenza di questo tipo di testo alla referenzialità. Quest’ultima è una naturale conseguenza del radicarsi del documentario (come già era accaduto per la fotografia) in una supposta tendenza mimetica, spesso disattesa anche nei modelli tradizionali di Grierson, Jennings, Wisemann e altri grandi padri del documentario contemporaneo, che già mostrano una forte tendenza al testo ibridato e creolizzato 14.

Il fatto che il documentario sia “un film sulla vita reale”15 designa esattamente l’ambito che ci interessa: non lo specifico tecnico (o non principalmente quello), ma lo sguardo sul reale, e il modo in cui esso si declina – nella definizione/conservazione/rappresentazione del territorio – a partire dalle coordinate di genere 16. A prescindere dalla riflessione sulla rilevanza del genere nell’arte, che meriterebbe comunque un suo spazio problematizzato, quel che mi interessa qui è la rilevanza di un dato fisico ineludibile. In ogni creazione, di qualunque tipo essa sia, vi è sempre un corpo dell’artista, che ha anch’esso una sua realtà ineludibile, in parte come costrutto sociale e culturale (e dunque soggetto alle stereotipizzazioni che lo contraddistinguono nelle società patriarcali occidentali) e in parte come realtà materiale incontrovertibile, con uno specifico anatomico e un legame strutturato con i rituali della vita e della morte 17. In questo senso, è inevitabile che possano esservi specificità di genere nella ‘scrittura’ del documentario, caratteristiche tanto più evidenti quanto più esigua e spesso poco rilevata è la presenza di donne nella storia del documentario filmico.

Questa storia comincia appunto con un uomo – Robert Flaherty (1884-1951) – che per la prima volta rappresenta, con l’intenzione di preservarlo, un territorio inconsueto e remoto. Del grande nord, in Nanook from the North (1922), ci viene raccontata la cultura non in maniera obiettiva (questo non rientra per nulla negli scopi di Flaherty), ma a seguito di una esperienza concreta e molto personale: la percezione soggettiva di un americano che per alcuni anni decide di vivere con gli Inuit, per poi riepilogarne il sistema di vita per immagini. Di nuovo semplificando un poco, da questa considerazione appare evidente come ciò che rileva Francesco Casetti, riferendolo al cinema in generale, sia tanto più vero in questo caso: il testo visuale – cinema di invenzione o del reale che sia – implica la capacità di coltivare uno sguardo personale18 e si definisce sempre bei termini di un’esperienza 19, come tale parziale e soggettiva, che interseca almeno due sguardi: quello dell’autore e quello dello spettatore.

E’ evidente che, come scrive Aufderheide, “la realtà non è il mondo fuori, ma quello che sappiamo, comprendiamo, condividiamo del mondo fuori” 20. In questo processo di conoscenza, comprensione e condivisione del reale, il documentario è uno strumento di modellazione dei fatti – una “comunicazione che dà forma alla realtà” 21 – esattamente perché reclama la sua fedeltà a essi. E tuttavia, questi fatti passano attraverso uno sguardo, che deve ricavare un senso dai frammenti di mondo gradualmente acquisiti.

Sappiamo, come spiega Stuart Hall, che “il concetto di cultura dipende dal modo in cui chi ne è partecipe interpreta con senso quel che gli accade intorno e ne trae un significato grossolanamente condivisibile” 22. Come molti altri testi, anche il documentario è una pratica discorsiva e ne condivide le regole23. In particolare, esso implica, foucaultianamente, l’esercizio di un potere (che regola il processo di comunicazione), e si relaziona al modo in cui questo potere è amministrato – in riferimento ai generi come in rapporto alle altre categorie sociali di riferimento – nella comunità di appartenenza.

Questo impianto teorico, altrove facilmente identificabile, e persino banale, fatica ad applicarsi alla testualità del documentario soprattutto in ragione del suo connotarsi come ‘arte giovane’. L’area semantica coperta dal termine ha faticato a stabilizzarsi, e ancora oggi l’applicabilità dell’etichetta a testi filmici molto eterogenei tende a destare perplessità consistenti 24. Per questo motivo (nella nostra analisi come nelle pratiche del festival cui essa si riferisce) scegliamo di utilizzare la denominazione di ‘cinema del reale’, che consente di mettere in rilievo quel che più ci interessa, calibrandolo in questa specifica contingenza sulla scelta di uno sguardo femminile. Cerchiamo di capire cioè in che misura e in che modo le donne stanno maneggiando questo strumento di espressione visuale per proporre la loro specifica visione del territorio. Proviamo a identificare i meccanismi specifici di rappresentazione, ricostruzione e riabitazione, e le loro specificità. E tentiamo di circoscrivere quale memoria le donne intendono conservare e perché.

Se è vero, come scrive Aufderheide 25, che i documentaristi si considerano narratori di storie (storytellers) piuttosto

35 che giornalisti, vediamo quali storie le donne sono interessate a raccontare.

Altre voci, altri sguardi

Metropoli leggendaria prima ancora che nucleo urbano reale, Londra è una delle città al mondo più spesso rappresentate dalle arti visive. Nel tempo, questa attitudine della metropoli inglese a farsi oggetto di sguardo ha prodotto una stratificazione di immaginari appassionante, ma anche molto difficile da dipanare. In questa impresa, si sono provati molti artisti contemporanei, e il nome forse più noto è quello di Iain Sinclair. Psicogeografo, bibliofilo, poeta e scrittore, Sinclair sta ancora costruendo la sua personale London Epic, e uno snodo importante in questo progetto artistico – almeno dal punto di vista delle arti visive – è stato rappresentato da un documentario del 2001, London Orbital[L]. Girato con Chris Petit, proiettato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 2002 e diventato poi un libro con lo stesso titolo, anche se con complici diversi 26, questo testo osserva la metropoli ‘da fuori’, percorrendone il confine esterno, del tutto temporaneo, che segue il percorso della M25. Film e libro nascono da una lunga ‘passeggiata’ – a piedi, in macchina e con mezzi improvvisati – lungo questa linea simbolica: un viaggio che ha la peculiarità – molto psicogeografica – di essere una esperienza condivisa e portata a termine in gruppo. Tra gli artisti che si alternano accanto a Sinclair, vi è una pluralità di talenti, tutti particolari e tutti uomini. Le donne compaiono poco, nel viaggio, e forse l’unica sul cui sguardo ci si sofferma – Effie Paleologu, un’artista di origini greche – non è presente e viene raccontata attraverso le sue sperimentazioni nella rappresentazione di Londra. Se da una parte è del tutto evidente che l’esclusione di uno sguardo femminile non sia stata una decisione preliminare ma una casualità, è anche vero che questa esclusione involontaria qualche informazione sul ruolo femminile nelle arti visive in generale e nel documentario in particolare la offre. Sinclair cita donne, in più occasioni, e anche con decise dimostrazioni di stima, nel corso della sua London Epic 27. E tuttavia di testi davvero collaborativi non ce ne sono 28. Negli anni, la consuetudine sinclairiana a lavorare per immagini, con o senza l’aiuto di altri artisti, si consolida e dà luogo anche a opere di particolare originalità, innescando collaborazioni che restano – quella con Chris Petit, per esempio29 – o che si interrompono bruscamente – quella con Marc Atkins30. E tuttavia, gli sguardi femminili sul territorio londinese, nella sua produzione, sono davvero pochissimi.

Per questo ci interessa quello che accade circa dieci anni dopo London Orbital e che in effetti con lo sguardo di una donna ha a che fare. Emily Richardson costruisce il suo Memo Mori (2009) 31 affiancandolo alla lettura del sinclairiano e molto combattivo Hackney, That Red Rose Empire (2009). Di questo volume, Richardson tiene segmenti di letture, recitate da Sinclair stesso. L’ispirazione non è diretta, ma la contaminazione ineludibile. Partendo dalla mobilitazione condivisa contro gli sventramenti e la ridefinizioni degli spazi di Stratford in funzione dei Giochi Olimpici del 2012, Richardson riflette sul modo in cui viene riscritta, in pochissimo tempo, la topografia di East London. Lo fa attraverso la semplice rappresentazione di alcuni spazi, montando sequenze girate nel corso di tre anni (dal 2006 al 2009) e cucendole secondo un tenue filo tematico: ogni sezione dei 23 minuti di film è un’operazione di memoria dedicata a qualcosa che sta per essere cancellato dal paesaggio o che già non esiste più, assorbito dalla furia di demolizioni, riformulazioni, ricollocamenti che sempre caratterizzano i “grand projects”.

Il mondo naturale, rappresentato soprattutto nelle sue interazioni con l’espansione urbana, guadagna il privilegio di introdurre il film, attraverso un panorama d’acqua che verrà ben presto riscritto. L’attenzione poetica con la quale vengono rappresentati gli orti di Manor Garden ricompare in altri documentari di donne, certamente molto diversi e tuttavia anch’essi molto attenti alla conservazione della natura in un contesto urbanizzato.

C’è per esempio un bel film recente, coloratissimo e solare, di Mariella Bussolati – Trasformazioni urbane/Orto diffuso (2012)32 – che documenta la diffusione dei giardini comunitari europei mostrandone l’utilità anche come strumenti di ‘cucitura’ della comunità, che ad essi lavora su base spontanea, sviluppando una forma di produzione agricola accanto a un’inedita rinascita della socializzazione urbana. Tra le città perlustrate vi è anche Londra, accanto a Roma, Milano, Bruxelles, Parigi e Barcellona, ma è una Londra diversa, dove la natura appare non come memoria di uno spazio che ora non c’è più, bensì come speranza di una città futura più attenta alle forme e ai tempi dello sviluppo naturale.

Differente è il caso di Memo Mori, e tuttavia analogo è lo sguardo: attento e disincantato, abbastanza ‘laterale’ da lasciar libero lo spettatore di formulare la sua propria ipotesi interpretativa. In Richardson in particolare, la cifra stilistica è la medesima che troviamo in altre opere vicine, tutte pezzi di uno stesso puzzle 33: un riserbo profondo, una discrezione assoluta, la volontà di lasciare che a parlare siano le cose e i paesaggi: il canale attraversato in barca, gli orti di Manor Garden, gli angoli di Hackney Wick che ormai esistono solo nel film. La morte di una comunità si misura nell’intersecarsi di due viaggi molto diversi: il tour in autobus dei lavori in corso del villaggio olimpico e il funerale degli Hell’s Angels, percorsi di confine entrambi, uno affacciato sul passato e l’altro stolidamente proteso verso un

36 futuro che non verrà.

La stessa qualità di sguardo su Londra si ritrova, praticamente negli stessi anni, in un altro film femminile e londinese, anch’esso legato a un progetto visuale più ampio 34. Eva Weber sceglie un punto di vista del tutto particolare per rappresentare la foga di distruzione e ricostruzione che pare caratterizzare Londra più di altre metropoli contemporanee. Nei ventisette minuti di The Solitary Life of Crane (2008) 35, guardiamo lo skyline di Londra dall’altro, avvolti nella solitudine silenziosa della cabina di guida di una gru. Stilisticamente, Weber si colloca con risolutezza nella tipologia antica di documentario che va sotto il nome di sinfonia urbana e che trova il suo modello primario in uno dei primi film documentari della città, Berlin: die Sinfonie der Grosstadt (W. Ruttman, 1927). Ne conserva anche la misura cronologica: grosso modo una giornata di lavoro (come una notte era stata la misura del vecchio e famosissimo Night Mail, di Watt e Wright, 1936). Attraverso le parole di uomini semplici, abituati a un lavoro solitario e ora condotti a condividere i loro pensieri, Weber realizza un testo di raro lirismo, la cui chiave è lo straniamento prodotto dallo sguardo di qualcuno che, pur appartenendo in modo attivo alla comunità, la osserva dall’alto e da fuori, senza realmente sentirsene parte, se non in modo astratto e teorico.

Anche qui, Weber non si intromette. Lascia parlare i conducenti delle gru. La natura della sua posizione – e una possibile chiave interpretativa - arriva attraverso il codice sofisticato del montaggio, e nel taglio di uno sguardo femminile che si colloca, con una naturalezza sorprendente, ai margini, non per condanna ma per scelta, sapendo che da quel punto di osservazione privilegiato si vede di più e meglio. E si può, se si vuole, cambiare[P] il mondo, conservando la consapevolezza – tutta culturalista – che “noi partecipiamo al processo che stiamo studiando” 36.

Resistenze e altre storie

Via Carlo Feltrinelli attraversa trasversalmente la periferia sudest di Milano. Giusto di fianco alla tangenziale, nella zona della stazione ferroviaria di Rogoredo, il comune aveva autorizzato, negli anni ’80, la costruzione di una costellazione di condomini popolari interamente bianchi, perché bianco è il colore dei pannelli di amianto di cui esse sono interamente rivestite. L’amianto, lo si sa, è cancerogeno. E tuttavia la battaglia per bonificare le White – il nome poetico e un po’ rap attribuito al complesso condominiale – è durata 25 anni. Con piglio da storyteller e identificando un paio di profili di straordinaria bellezza, ce la racconta Simona Risi, nel suo documentario del 2010 37, scegliendo il punto di vista della comunità e schierandosi, senza dubbi, dalla parte di chi si è ammalato e morto di amianto, nel disinteresse pressoché totale delle istituzioni. Le White è un pezzo della battaglia che gli abitanti del quartiere hanno condotto, e di questa battaglia è un pezzo importante, orientato non solo alla rappresentazione di un territorio, ma anche alla sua ricostruzione e riabitazione, nei limiti di quanto possibile.

Naturalmente più complesso, e più decisamente connotato in termini di resistenza, è un altro spazio urbano spesso oggetto di rappresentazione documentaria: lo spazio industriale nella fase della sua smobilitazione. Combattivo e cinema di resistenza, lo sguardo che si applica alla descrizione di questo spazio assume, in alcuni testi di donne, un distacco ironico insolito, che non sempre compare nello stesso tipo di narrazione quando gestita dalla mano di un uomo. La “tragicommedia in otto atti” attraverso la quale Irene Dionisio racconta la mobilitazione degli operai della Fiat Grandi Motori di Torino nell’ottobre del 2010 ne è un bell’esempio. Dioniso sceglie una cifra beckettiana, trasformando gli ultimi, disperati ‘abitanti’ dello spazio industriale in eroi teatrali in cerca di un loro senso su un palcoscenico ormai deserto. I cinquantacinque minuti di La fabbrica è piena (2011)38 consumano un complicato rituale del lutto, la preparazione della piccola comunità alla cancellazione dello spazio che essa ha abitato e che verrà presto demolito.

Già disabitato è invece lo spazio descritto da Lee Anne Schmitt in California Company Towns (2008)39. Viaggio spettrale in una California inedita, il documentario attraversa le città fantasma costruite intorno alle industrie del boom economico, all’inizio del XX secolo, e poi progressivamente abbandonate, man mano che le industrie medesime venivano chiuse. Schmitt esplora con attenzione il legame tra sviluppo economico e composizione demografica, e lo fa con uno sguardo lieve e poetico, perlustrando la terra desolata con l’affetto nostalgico di chi continua ad amare il suo paese pur nella consapevolezza della grande mistificazione che è, ed è stato, il sogno americano.

Un sogno diverso, anche se con finale vagamente analogo, è quello rappresentato dalla storia delle industrie Falck, di Sesto San Giovanni (Falck. Romanzo di uomini e di fabbrica, 2010)40. Anche in questo caso, è una regista donna, Monica Repetto, a decidere come raccontare la storia di questo complesso industriale nel cui sviluppo si riconoscono le tracce di tanti fatti importanti a livello nazionale e internazionale. Simbolo tra i primi dell’industrializzazione italiana, il complesso Falck attraversa la guerra, la Resistenza, la ricostruzione economica e politica, gli anni di piombo del terrorismo e la progressiva, inesorabile chiusura dell’esperienza industriale su larga scala, determinata dalla crisi

37 petrolifera e dalla trasformazione dell’economia. Anche in questo caso, con un piglio simile a quello di Irene Dionisio, Repetto sceglie di raccontare la Falck attraverso le vicende della famiglia che l’ha creata, radunando piccole storie, anche intime e famigliari, intorno al filo rosso di uno sviluppo economico che ha un coté umano e sociale molto importante. Ed è a questo coté che la regista pare interessata, soprattutto per il modo in cui si sofferma ad ascoltare la nostalgia che traspare dalle parole dei membri della famiglia Falck, dei dipendenti di allora e di chi, come l’ex-sindaco Giorgio Oldrini, sa intrecciare – per cultura politica e per esperienza – le vicende del complesso industriale con quelle della città. L’aria che si respira è quella di un tempo finito, che tuttavia è stato molto amato, e tutto sommato – agli occhi degli intervistati, almeno – migliore.

La nostalgia, dunque, appare in questi documentari nella sua connotazione più intima e profonda, come dolore di un ritorno che non potrà mai essere attuato, perché implicherebbe un viaggio nel tempo[P] , piuttosto che nello spazio. È una nostalgia smagata e quasi cinica, che si nutre di affetti che si sanno perduti e che tuttavia non rinuncia a lodare l’importanza della resistenza anche nelle situazioni in cui essa pare una guerra perduta.

Così, raccontando Brindisi, i quartieri poveri, il porto e il contrabbando, Valentina Pedicini sceglie uno sguardo autobiografico, quasi intimo, e inevitabilmente nostalgico, per raccontare alla fine la piccola guerra ‘educativa’ combattuta appunto da una donna, una maestra, che da anni continua a pensare che alle maglie del crimine si possa sfuggire attraverso una migliore cultura della giustizia civile41. My Marlboro City (2010), film vincitore della II edizione di Docucity (2011) e poi selezionato in vari altri festival 42, dipana una tessitura di territori e affetti, seguendo autobiograficamente il percorso a ritroso della regista stessa: “Un tempo – dice significativamente la voce narrante all’inizio del film – c’era una città. La vita qui la comandava il mare”. La nostalgia di Pedicini è etimologica, e il suo percorso da manuale, all’indietro, verso una patria immaginaria che non è mai cambiata. Migrante italiana trasferita a nord, la giovane regista torna nella sua città natale, seguendo una linea costiera che chi viene da quel sud conosce bene. Vi ritrova un tempo fermo, che ha conservato le medesime contraddizioni e lo stesso ineludibile intreccio tra povertà e piccola criminalità. Ma vi trova, appunto, anche la medesima ostinata resistenza di alcune donne che continuano con i loro mezzi a tentare appunto di cambiare il mondo.

Di nuovo, quindi, un percorso di opposizione che si connota soprattutto nell’impossibilità di cedere a chi si presenta come il più forte. Nel cinema del reale contemporaneo, molti documentari di donne hanno questa connotazione specifica. E particolarmente riuscito, da questo punto di vista, e insolito come tono narrativo, è Gut Renovation, un corposo documentario (82’) di Su Friedkin, uscito nelle sale nel 201243.

Anche qui, come nel caso di Emily Richardson, la regista segue la riscrittura di uno spazio nel corso di un arco di tempo abbastanza lungo. Nel resoconto della trasformazione degli spazi urbani, entrambe le registe paiono ritenere la variabile tempo come un dato di fondamentale importanza, e questa convinzione ha una solida base antropologica. Secondo Francesco Remotti, è il tempo che consente di declinare la dimensione culturale, sempre imprescindibile nell’analisi della struttura di una comunità, ma anche sempre legata a una dimensione di precarietà. La cultura è impermanente: non ha un radicamento biologico ed è suscettibile di “mutamenti e trasformazioni rapidissimi, che consentono l’invenzione di moduli di adattamento efficaci e revocabili” 44. Lo spazio che ospita i cambiamenti culturali di una comunità deve essere ugualmente flessibile: così, nella sua ricostruzione dei cambiamenti che interessano una specifica zona di New York, Friedkin usa come segno di interpunzione nel suo racconto proprio una mappa che cambia, acquisendo colori, numeri, definizioni diverse. La storia è quella del quartiere di Williamsburg, a Brooklyn. L’intera area diventa a un certo punto l’obiettivo di una gentrificazione ‘top down’ che si scontra in modo persino brutale con le esigenze e la volontà degli abitanti del quartiere. La regista stessa vive a Williamsburg da ormai vent’anni quando il piano urbanistico di ristrutturazione viene approvato, e lei stessa partecipa alla mobilitazione contro la costruzione di condomini di lusso al posto di ex-siti industriali trasformati in laboratori artigianali e artistici e riabitati da famiglie e piccole comuni artigianali.

Il nodo concettuale centrale e la struttura narrativa non sono dissimili da quelle che abbiamo incontrato in Memo Mori, però Gut Renovation racconta l’impossibilità di arrendersi di una comunità urbana. Il documentario ha un ritmo sincopato e veloce, scandito da una miriade di piccole storie di resistenza quotidiana, e da quel genere di solidarietà tra naufraghi che meglio funziona da collante di una comunità.

Conclusione, o ‘women’s guts’

Gut Renovation, il titolo del film di Friedkin, è espressione usata per indicare un rinnovamento radicale. ‘Gut’, in inglese, vuol dire ‘viscere’, ma anche ‘coraggio’. I due etimi sono uniti da un senso comune di profondità, da un condiviso, profondo sentire. La cifra femminile, nella scelta e nella rappresentazione dei territori che alle donne

38 interessano, sembra definirsi proprio attraverso questa predilezione per uno sguardo intimo e insistente, capace di andare al fondo delle cose mantenendo una levità di rappresentazione, la fattualità che caratterizza il resoconto di una esperienza normale[P], che in qualche momento, per una contingenza specifica della storia ufficiale, diventa straordinaria.

Così, nel suo secondo documentario, Pedicini ci racconta appunto il lavoro di una donna nella miniera di Nuraxi Figus, per render conto della mobilitazione presto dimenticata dei minatori sardi attraverso le parole dell’unica “minatora” che, in Italia, ha scelto di fare questo mestiere. Visivamente patinato in un modo che a tratti appare spiazzante, Dal profondo (2013) 45 è un atto d’amore anche molto poetico nei confronti dei centocinquanta operai che cercando invano di scongiurare la chiusura dell’ultima miniera. È anche una bella sfida cinematografica, date le condizioni in cui è stato girato – interamente a cinquecento metri sotto il livello del mare – ma soprattutto esso si presenta come un’altra piccola storia di straordinaria importanza.

Questo ci riconduce all’inizio del nostro viaggio, al medesimo ventre e alla stessa profondità. “Le culture”, scrive Francesco Remotti, “subiscono la forza del potere, di qualunque natura esso sia. Per la loro intrinseca precarietà, le culture sono fragili e vulnerabili, anche se in diversi contesti se ne può constatare la resistenza e la tenacia”46. Per raccontare questa fragilità, costantemente minacciata, appunto, dalla forza del potere, occorrono strumenti duttili e la capacità di usarli in modo inconsueto. Dal ventre della terra, una donna, Patrizia, ci racconta guardando dritto in camera – esattamente come le donne di In utero Srebrenica, dalle quali era partito il nostro viaggio – la storia di una ricerca costante di equità sociale, che si compie anche qui attraverso un lavoro di scavo e di ricerca. Memoria e resistenza[P] si saldano, di nuovo, nello sguardo di una donna sullo spazio, riscrivendolo in un panorama coeso.

39 I sommersi e i salvati di Anne Michaels

Roberta Mazzanti

Acqua, pietra, persone: le acque deviate del Nilo e del San Lorenzo, le pietre dei templi egizi e delle case canadesi, gli ebrei del ghetto di Varsavia, i Nubiani deportati in luoghi aridi e desolati a migliaia di chilometri dalle loro oasi fertili scomparse nel bacino artificiale del lago Nasser. Esseri umani strappati ai propri luoghi e ai propri cari, ferite profonde e perdite devastanti, che la scrittrice canadese cura con le parole, con la memoria. Roberta Mazzanti

Queste righe su Anne Michaels, che progettavo per spiegare i motivi di una mia scelta editoriale – quella di pubblicare per Giunti nel 1998 il suo primo romanzo, intitolato In fuga, che Roberto Serrai aveva tradotto con fedeltà ed eleganza dall’originale Fugitive Pieces del 1996, seguito nel 2001 da un’antologia italiana di poesie raccolte da Francesca Romana Paci in Quel che la luce insegna e poi dal secondo romanzo La cripta d’inverno[L], nuovamente tradotto da Serrai e pubblicato da Giunti nel 2009 – hanno invece preso la forma di una dichiarazione d’amore e gratitudine. Sentimenti che accompagnano a volte il lavoro editoriale, perché la scoperta di una brava scrittrice o scrittore e l’intenzione di pubblicarla somigliano a un vero innamoramento. Va poi aggiunto che gli editori, e gli editor, sono gente un po’ promiscua, portata alla convivenza plurima con molte passioni letterarie nel proprio ‘catalogo sentimentale’. Verso la narrativa di Anne Michaels il mio amore è stato fulmineo, duraturo e segnato da una continua, sempre rinnovata sorpresa.

I suoi romanzi e le sue poesie sono per me come un breviario laico: ammirevoli sul piano estetico, sono al tempo stesso uno stimolo etico di fronte ai nodi politici ed esistenziali dei nostri tempi; mi commuovono per il modo in cui manifestano il potere della parola di trasformare, ferire o consolare, avvelenare o guarire. Un potere venato di amarezza, come accade nella grande letteratura civile che nasce dalla rappresentazione solidale del dolore, del guasto, del danno inflitto a cose e persone, alle quali cerca di proporre soluzioni, rigenerazione, trasformazione.

Nel romanzo In fuga[L], Michaels ha descritto i “nuovi tristi poteri” 1 che il greco Athos insegna a Jakob, il ragazzino da lui strappato ai nazisti in Polonia, al quale offre per anni cibo, amore e linguaggi creativi che lo aiutino a superare il trauma2. Anche in La cripta d’inverno esibisce una narrazione altrettanto polifonica e itinerante: spaziando dall’Egitto dei templi di Abu Simbel al Canada nel bacino del San Lorenzo, al ghetto di Varsavia prima istituito e poi raso al suolo dal nazismo, Michaels racconta di identità precarie, di migliaia di persone sopravvissute a guerre, esilio, distruzione della terra madre e lacerazione dei legami più cari.

E le interrogazioni di fondo, che attraversano ripetutamente le molte vicende narrate, sono queste: dove si crea, dove si radica la nostra appartenenza[P] ai luoghi in cui viviamo? E quando siamo spossessati della nostra relazione con un luogo, che cosa ci resta?

Se “in questo secolo di profughi, sarà proprio il nostro spostamento a legarci”3, significa che restano i legami

40 affettivi, in altri termini restano i corpi, la memoria, il linguaggio. E resiste la consapevolezza che la memoria non è soltanto uno spazio privato, perché esiste una ‘memoria pubblica’, una memoria dei luoghi e dei tempi storici condivisi, che tocca a noi strutturare e difendere. Ma che cosa significa ‘ricostruire[P]’, quando siamo ben consapevoli che il passato non ritorna, che i morti non rimangono accanto a noi se non come fantasmi, a volte inquietanti e a volte consolanti?

Per queste domande, e per le risposte che i suoi personaggi cercano nelle città distrutte, nei templi profanati, nei fiumi deviati dal loro letto millenario, nella terra che coltivano, nelle opere d’arte e ingegneria e poesia che tracciano, ho pensato subito a La cripta d’inverno quando il terremoto ha devastato L’Aquila; l’edizione italiana era uscita proprio nell’aprile 2009, ma conoscevo già quasi a memoria il romanzo nella versione inglese e nelle bozze italiane, lette e rilette. Dalla prima volta in cui l’ho avuto tra le mani, questo libro è stato uno strumento preciso e delicato per interrogarmi sul trauma della perdita e sui modi individuali e collettivi per andare oltre, senza tradire la verità di quello che si lascia indietro, senza trascurare il rimpianto. Che “non è la fine della storia, è il centro della storia” 4: in altre parole, il rimpianto può essere una generative thing, un nucleo di vitalità e di creatività da cui ripartire per oltrepassare il blocco interiore, per mettere mano allo scavo, per far scorrere di nuovo la linfa vitale della Terra, di una città, di un essere vivente.

Fra le rovine di Varsavia demolita dalla guerra, e in seguito nella città ricostruita – nella Città Vecchia dove i superstiti avevano scelto di ricreare la copia esatta di tutto ciò che era stato abbattuto, sopra un suolo che nascondeva i corpi e le anime perduti – “le persone avevano un disperato bisogno di speranza”5.

Ripenso a queste parole quando vedo Aleppo in macerie, o quando il mare ‘nostro’ inghiotte centinaia, ormai migliaia di profughi in fuga. Quando è tempo di piangere e ricordare i morti e trovare i modi per averli accanto senza che la loro presenza vuota ci spacchi il cuore e ci invada la mente; leggete le pagine di In fuga, dove Athos coinvolge Jakob in un omaggio collettivo: “‘per i tuoi genitori, per gli ebrei di Creta, per tutti quelli che non hanno nessuno che ricordi il suono dei loro nomi’. Gettammo fiori di camomilla e papaveri nel mare blu cobalto. Athos versò acqua fresca sulle onde, affinché ‘i morti potessero bere’”6.

Mantenere il legame con i luoghi e le persone perdute per sempre, sperimentare una nostalgia che sia come “un luogo aperto”. Il piccolo ebreo Jakob resta per tutta la vita un sopravvissuto ma riesce, nello scambio lento e tenace tra la propria lingua e quella di Athos, nella messa in comune dei ricordi e dei luoghi amati, a concedersi una “seconda storia”7: diventando poeta, lascia che la nostalgia sia una fonte creativa, non una prigione.

La nostalgia[P], che Anne Michaels chiama longing, è mancanza che si fa desiderio, tensione verso l’Altro, sia persona, animale, o pietra: il mondo è un sistema complesso di inter-relazioni, di correnti affettive, di materialità che tramite corrispondenze e attriti sono in continua metamorfosi. Metamorfosi del linguaggio e della materia, comprensione attraverso i corpi per la rigenerazione dei sentimenti.

Per questo, i suoi personaggi ‘capiscono’ con il corpo, e alcuni di loro sanno come restituire sensibilità ai corpi dolenti, come nutrirli di cibo, tatto, bellezza, di memorie perdute. Questi agenti di guarigione sono sia donne che uomini, e la capacità di nutrimento e accudimento, l’ancoraggio vitale a una funzione materna, appartengono ad Athos come a Lucjan, un artista polacco che in La cripta d’inverno riesce a curare la protagonista Jean dal dolore per la perdita di una figlia morta durante la gravidanza. Michaels definisce ‘tenerezza’ quella forma di amore che accoglie il dolore altrui dentro di sé ma poi riesce a separare l’uno dall’altro, il vivo dal morto, ciò che è perso da ciò che può crescere: è un percorso sensuale e spirituale, per rientrare in rapporto con il mondo attraverso gli affetti.

Non per caso Athos, che è materno e paterno, che è scienziato e poeta al tempo stesso, cura Jakob anche in veste di ‘mappatore’ del mondo e dei sentimenti. Gli passa altre lingue e sapori, gli racconta di esplorazioni e scoperte scientifiche, lo spinge verso la scrittura creativa, per aiutarlo a confrontarsi con i fantasmi senza più esserne posseduto.

Il riscatto, in questi romanzi tanto gravidi di catastrofi e lutti quanto traboccanti di energia amorosa e di presenze salvifiche, avviene grazie a una fiducia testarda nell’agire umano ‘ben orientato’, nella craftsmanship che unisca etica ed estetica (un bel giardino, una buona casa, una poesia ben scritta, un paesaggio curato e difeso, perfino un bel cimitero). In questo costruire e ricostruire non c’è frode, perché sono gesti e costrutti di condivisione, realizzano un’opera collettiva, in cui l’umano sta in empatia con l’ambiente, con le cose. Alla craftsmanship si oppone una ingegneria che violenta il mondo e i suoi spazi, che li dissacra nei suoi deliri di onnipotenza, e cancella l’umanità perfino quando crede di salvarla.

41 Non è questione banale di naturale contro artificiale: in una delle scene più delicate, più intense del romanzo, quando i due giovani sposi separati dal lutto finalmente si riavvicinano, lei racconta a lui della tomba di un bimbo accanto a quella della loro figlioletta: “Qualcuno ci aveva piantato un magnifico giardino di fiori di plastica. […] ogni ruga di plastica su quelle foglie e su quei petali era piena d’amore. […] era vero come qualunque altra cosa. Un bambino avrebbe pensato che era bello”8.

E fra le metafore del potere di rigenerazione che nonostante tutto abita il mondo, la scrittrice sceglie una parola- essenza misteriosa: “quell’odore assolutamente speciale, proprio quando la pioggia comincia a cadere – due scienziati l’hanno analizzato. L’hanno chiamato ‘petrichor’, dalle parole greche per ‘pietra’ e per il ‘sangue’ che scorre nelle vene degli dei. […] È il profumo di un olio prodotto da piante parzialmente decomposte […]. Le prime gocce di pioggia si infiltrano nella pietra o nel selciato che così rilascia quest’olio, e noi lo percepiamo con l’olfatto mentre viene lavato via. Possiamo annusarlo solamente mentre viene lavato via…” 9.

Acqua e pietra sono i due elementi costanti di tutta la narrazione: le acque deviate del Nilo e del San Lorenzo, la pietra dei templi egizi e delle case canadesi, dei palazzi polacchi, le pietre-dighe che ostruiscono il flusso dei fiumi, le lapidi trascinate via dalle inondazioni dei laghi artificiali, le pietraie dove sono deportati i Nubiani a migliaia di chilometri dalle loro oasi fertili scomparse nel bacino artificiale del lago Nasser. Ferite lunghe e profonde nella terra, incurabili come le distruzioni delle città e dei villaggi. Ma qualcosa di vitale, seppure evanescente come un profumo, si manifesta sempre: “Non per cancellare, ma per lavare via”10.

42 Bodies, Memories, Languages to Reconstruct

A Letter for L’Aquila *

Anne Michaels

Dear Friends,

I am very sorry not to be there with you all. Nothing would have prevented me from coming to be with you today, but I, and my whole family, are ill, and the doctor said I must not fly. I feel very fortunate that we can at least be together in this ‘modern’ way. And perhaps we can find some meaning – something strangely appropriate – in being together in a way that transcends place and distance.

The Winter Vault[L] tells many stories of loss – devastating loss. Loss, and our inner reconstruction after trauma, has always been the territory of my books.

Where does loss lead us?

In my work I am always asking whether faith – faith in the general sense of the word - is possible after the worst thing. And if it is possible, what would this faith look like, what would it feel like, what would it be?

Solace – if it is true solace – is never simple. And to balance both grief and the need to move forward – that is also never simple.

It has taken me a long time to learn – and it is one of the messages repeated in The Winter Vault – that loss, grief, regret are not the end of the story; they are the middle of the story.

I know that sometimes reading The Winter Vault is difficult – there are intense details and descriptions. But this was done for a very specific purpose. When we are dispossessed, what is left? What is left is: our bodies, our memory, and language. Sometimes language is all that is left – the witnessing of events. There is a famous story of the poet Anna Akhmatova who lived in Stalin’s Soviet Union; her son was arrested and she stood outside the prison where her son was a prisoner, with all the other women waiting by the gates for news of their husbands and sons. A woman recognized Akhmatova and asked her: “Can you describe this?” And Akhmatova said “Yes. I can.” It is a very specific question: “Can you describe this?” I think this is very important. What is lost must be spoken aloud. Through our voices, through our stories, through art, through our actions, through love. For that is something else that interests me in everything I write: what love makes us capable of, and incapable of.

We must make love necessary. What do I mean by this? What does love have to do with devastation, with catastrophic change, with a permanent exile from one’s home and from one’s sense of safety and shelter? What does love have to do with loss, with everything that seems to be the very opposite of love? Only what is separate can be joined:

To taste the salt of the stars in the sea. To love another

43 more than oneself. To know this is to know everything. Not the mystical but the mysterious. Not how we fall in love, but how we fail in love. Only what is separate can be joined. Do you see how the dusk and rain are one? Do our bodies come to nothing? Ask aloud what comes of us. My love, do you understand me? Ask aloud what comes of us.

In The Winter Vault, when Jean and Avery are lying down together for the first time, Jean asks Avery: “Describe a landscape you love”.

And that description, that place, will then also be carried in Jean’s heart too. His words, that place, are now part of her memory, her body. Only what is separate can be joined.

That is what a community is, that is what history is. Nostalgia looks back, but history looks forward.

Today I ask aloud, with all my heart: describe the place you love.

Every way that life fails us, fells us, every way that we are felled, brought down to the very essence of ourselves, is the most intimate knowledge. Dispossession explodes everything. And in that explosion, seeds are planted far from where we started. What grief teaches us is unlike any other kind of knowledge, for it is knowledge that has been tested to the limit. And because of this, it is knowledge that can be trusted.

When the poet Ahkmatova was asked: “Can you describe this?”, another question is implied: “Can you love?” Here, in this time and in this place? For in order to describe the full force of the injustice of the situation, the rage and utter helplessness, she must also describe her fierce love for her son, and the love of all those women standing at the gates, for their sons, and fathers and husbands, and brothers.

Everything we feel the most deeply is cleaved to its opposite. Everything we have lost is also ours, in a way that is absolutely intimate and cannot be taken from us twice, because it is now fused, cleaved to, that most trustworthy knowledge: grief.

In The Winter Vault, Avery and Jean separate, are torn from each other, because Avery, who understands so much, cannot, for some time, understand one thing. And Jean too, needs to understand one thing: in the end, together, each brings to the other, the half they did not know. Avery, because it is his nature, wants to fix things, he wants to make it all better, he wants not to feel helpless. But Jean feels that if she stops grieving, the moment she stops giving herself completely to that grief, she will be abandoning her child. For a long time, her grief is the only way she can hold her child. She must not, cannot, give it up, not one molecule of it, because she feels it would be an abandonment. And this is the transformation that must occur, that does occur, at the end of the book: Avery must learn that love must contain grief – it must, we are mortal, there is no other way. And Jean must learn that grief must contain love, must leave room for love. How unbearably hard this lesson is. How unbearable that grief and gratitude must be so inextricable. Only what is separate can be joined.

I want to thank Roberta Mazzanti for inviting me to be with you today – Roberta who has such a loving wisdom. And thank you to Maria Vittoria Tessitore and Serena Guarracino, and Roberta Falcone. And thank you all, for allowing me to speak to you today and to hold your story close to my heart.

I would like to close by reading a very short passage from The Winter Vault.

At the cemetery, said Jean, nearby to Elisabeth's grave was the grave of another child. There someone had left a magnificent garden of plastic flowers. Ferns grew lush out of a thick square of florists foam, and in the foliage stood two painted china dogs. Each plastic flower had been carefully chosen; roses, hyacinths, tulips, lily of the valley. There was love in each moulded crevice of leaves and petals.

44 I remember when I was young looking at plastic flowers in a shop. I heard someone say, They're not real and I couldn't understand what they meant - I was holding one in my hand, of course they were real.

The child’s garden rested on its thick green foam above the cold spring ground. It was as real as anything. A child would have thought that garden beautiful.

Everything that has been made from love is alive 1.

45 Corpi, memorie, linguaggi per la ricostruzione

Lettera per L’Aquila *

Anne Michaels Traduzione di Paola Bono

Care amiche,

mi dispiace molto di non essere con tutte voi oggi. Nulla avrebbe potuto impedirmelo, se non che mi sono ammalata con tutta la mia famiglia, e il medico mi ha vietato di volare. Mi sembra comunque una fortuna poter essere con voi in questo modo ‘moderno’. E forse possiamo trovare qualche significato – qualcosa di stranamente appropriato – nel fatto di stare insieme in un modo che trascende il luogo e la distanza.

La cripta d'inverno[L] racconta molte storie di perdita – di perdita devastante. La perdita e la ricostruzione interiore dopo il trauma, è sempre stato questo il territorio dei miei libri.

Dove ci porta la perdita?

Nel mio lavoro mi chiedo sempre se la fede – la fede in un senso ampio del termine – sia possibile dopo che il peggio è avvenuto. E se è possibile cosa sembrerebbe questa fede, che sensazione darebbe, cosa sarebbe?

Il risanamento, se è un vero risanamento, non è mai facile. E tenere in equilibrio il dolore e la necessità di andare avanti, anche questo non è mai facile.

Mi ci è voluto molto tempo a imparare – ed è uno dei messaggi che si ripetono nella Cripta d’inverno – che la perdita, il dolore, il rimpianto non sono la fine della storia; stanno a metà della storia.

So che a volte leggere La cripta d'inverno è difficile – ci sono descrizioni e dettagli intensi. Ma l’ho fatto con uno scopo molto preciso. Quando siamo spossessati, cosa resta? Quel che resta sono i nostri corpi, la nostra memoria[P] , e il linguaggio. A volte il linguaggio è tutto quel che resta – dare testimonianza degli eventi. C'è una storia molto famosa che riguarda la poeta Anna Akhmatova, che ha vissuto nell'Unione Sovietica stalinista: suo figlio era stato arrestato e lei stava là, in piedi davanti alla prigione dove suo figlio era detenuto, con tutte le altre donne che aspettavano vicino ai cancelli per avere notizie dei mariti e dei figli. Una donna riconobbe Akhmatova e le chiese: “Puoi descrivere questo?” E Akhmatova rispose: “Sì, posso farlo”. È una domanda molto precisa: “Puoi descrivere questo?” Penso che sia molto importante. Ciò che è perduto deve essere nominato a voce alta. Con le nostre voci, con le nostre storie, con l’arte, con l’amore. Perché questa è un’altra cosa che mi interessa in tutto quello che scrivo: quello che l’amore ci rende capaci o incapaci di fare.

Dobbiamo rendere necessario l’amore. Cosa intendo dire? Cosa ha a che fare l’amore con la devastazione, con i cambiamenti catastrofici, con un continuo esilio dalla propria casa e dal proprio sentimento di sicurezza[P] e di rifugio? Cosa ha a che fare l’amore con la perdita, con tutto quel che sembra esserne l’opposto assoluto? Solo quel che è separato può essere unito:

46 Assaporare il sale delle stelle nel mare. Amare un altro più di se stessi. Sapere questo è sapere tutto. Non quel che è mistico ma quel che è misterioso. Non come ci prende l'amore, ma come tradiamo l'amore. Solo quello che è separato può essere unito. Vedi come il crepuscolo e la pioggia sono una cosa sola? Finiscono in nulla i nostri corpi? Chiedi a voce alta che ne sarà di noi. Amore mio, capisci? Chiedi a voce alta che ne sarà di noi.

Nella Cripta d’inverno, quando Jean e Avery fanno l'amore per la prima volta, Jean chiede ad Avery: “Descrivi un paesaggio che ami”. E quella descrizione, quel luogo, resterà per sempre anche nel cuore di Jean. Le parole di Avery, quel luogo, fanno parte ora della memoria e del corpo di Jean. Solo quel che è separato può essere unito.

Questo è una comunità, è questo la storia: la nostalgia[P] guarda indietro, ma la storia guarda avanti.

E oggi io chiedo a voce alta e con tutto il cuore: descrivete un posto che amate.

Ogni volta che la vita ci tradisce e ci ferisce, ogni volta che siamo feriti e ridotti all’essenza assoluta di noi stessi, quella è la conoscenza più intima. La spossessione fa esplodere tutto. E in quella esplosione i semi ricadono lontano da dove siamo partiti. Quello che il dolore[P] ci insegna è diverso da qualunque altro tipo di sapere, perché è un sapere che è stato messo alla prova fino al limite più estremo. E per questo motivo è un sapere di cui possiamo fidarci.

Quando alla poeta Akhmatova hanno chiesto “Puoi descrivere questo?”, implicita c’era un’altra domanda: “Puoi amare?” Puoi farlo qui, ora, in questo luogo? Perché per descrivere appieno la forza dell’ingiustizia della situazione, la rabbia e il senso di totale impotenza, doveva anche descrivere il suo amore feroce per il figlio, e l’amore di tutte quelle donne lì, in piedi, ai cancelli, per i loro figli e padri e mariti e fratelli.

Tutto quel che sentiamo più profondamente si apre al suo opposto; tutto quel che abbiamo perso è anche nostro, in un modo che è assolutamente intimo e non può esserci tolto due volte, perché si è fuso, si è aperto a quel sapere di cui ci si può fidare fino in fondo: il dolore.

Nella Cripta d’inverno Avery e Jean si separano, sono strappati l'uno all'altra perché Avery, che capisce tante cose, non può, per un po’ almeno, capire una cosa. E anche Jean deve arrivare a capire una cosa: alla fine ognuno porta all’altro la metà che non sapeva. Avery, perché così è fatto lui, vuole sistemare varie cose, vuole migliorare tutto, non vuole sentirsi impotente. Ma Jean sente che se smettesse di piangere, nel momento in cui smettesse di darsi completamente a quel dolore, avrà abbandonato il suo bambino. Per molto tempo il suo dolore è il solo modo in cui può tenere a sé il suo bambino. Non deve, non può lasciarlo andare, neanche una molecola, perché sente che sarebbe un abbandono. E questa è la trasformazione che deve avvenire e che avviene alla fine del libro: Avery deve imparare che l’amore deve contenere il dolore – deve, perché siamo mortali, non c’è altro modo. E Jean deve imparare che il dolore deve contenere l’amore, deve lasciare spazio all’amore. Come è insopportabilmente dura questa lezione. Come è insopportabile che il dolore e la gratitudine debbano essere così inestricabili. Solo quel che è separato può essere unito.

Voglio ringraziare Roberta Mazzanti per avermi invitata ad essere con voi oggi – Roberta che ha una tale amorevole saggezza. E grazie anche a Maria Vittoria Tessitore, Serena Guarracino e Roberta Falcone. E grazie a tutte voi per avermi permesso di parlare con voi oggi e di tenermi nel cuore la vostra storia.

Per finire, vorrei leggere un breve brano da La cripta d'inverno.

“Al cimitero”, disse Jean, “vicino alla tomba di Elisabeth c’era quella di un altro bambino. Qualcuno ci aveva piantato un magnifico giardino di fiori di plastica. Le felci crescevano rigogliose da un grosso cubo di schiuma da fioraio, e tra le foglie c’erano due cagnolini di ceramica dipinta. Ognuno di quei fiori di plastica era stato scelto con cura; rose, giacinti, tulipani, mughetti. Ogni ruga di plastica su quelle foglie e su quei petali era piena

47 d’amore.

“Ricordo che da piccola stavo guardando i fiori di plastica in un negozio. Sentii qualcuno che diceva: ‘Non sono veri’, e io non riuscivo a capire che cosa significasse; certo che erano veri, ne tenevo uno in mano.

“Il giardino di quel bambino cresceva dalla sua spessa schiuma verde, sopra il terreno freddo, a primavera. Era vero come qualunque altra cosa. Un bambino avrebbe pensato che era bello.

“Tutto ciò che viene fatto con amore è vivo”1.

48 Paesaggi violati: ri-costruzione di vita e immaginario

I gruppi di lettura su Anne Michaels a L’Aquila

Nadia Tarantini per l’Associazione Donne TerreMutate *

Qualche studente che si ferma chiede alla compagna: “Ma tu, la conosci questa biblioteca delle donne?”. Nei corridoi del dipartimento di Scienze Umane, nel palazzo in cui a novembre del 2013 sono risuonate tante parole di donne, invitate dalla SIL, giacciono nei loro scaffali a vetro, giunti da molti traslochi, i libri della Biblioteca delle Donne Melusine (fondatrice di TerreMutate). Un sottile velo di polvere, fisico e simbolico, avvolge la materia prima di qualsiasi biblioteca. Le librerie sono a un piano alto, e si cerca di renderle disponibili alla consultazione; molte e qualcuno li hanno già richiesti, incuriositi. Perché, anche quando i bisogni primari sono insoddisfatti, come a L’Aquila le case, i luoghi d’incontro, strade percorribili nel centro storico, il bisogno di cultura e di tenere in mano un libro, di farne esperienza sensoriale, non cede.

Quei libri sono uno dei tanti simboli della brusca fermata della città, dal 6 aprile del 2009: in quasi trent’anni di attività delle Melusine, con tanta pazienza sono stati messi insieme e curati, accuditi, per essere spartiti, con altre donne, dalle donne che li hanno raccolti. Come se un velo di polvere, appunto, si fosse posato quella notte su ogni cosa, togliendo la vista a chi ce l’ha e dandola ai ciechi, perché solo con un esercizio di memoria a-sensoriale – e immaginando con la propria mente il futuro – si può resistere a un oggi così poco attraente. Ma quello che si prepara resta ancora ignoto alle e agli abitanti de L’Aquila, perché il tarlo delle decisioni non condivise si è insediato durante la gestione Berlusconi-Bertolaso; e mai è stato estirpato.

“La città, come una grande Casa di accoglienza”, propone Antonietta come chiave per scrivere del convegno SIL, mentre ci facciamo scorrere davanti agli occhi le immagini del novembre 2013, cui TerreMutate ha dato carne e sangue, di pensiero e di proposta, sin dai primi giorni della progettazione del convegno. Durante l’assemblea della SIL del marzo 2013, alla Casa Internazionale, dicemmo: sappiate/sappiamo che L’Aquila non può essere solo una location per il convegno. Ma ne dovrà essere una costola. Il tema, il titolo del convegno sono infatti vita quotidiana per L’Aquila: Terra e parole. Donne riscrivono paesaggi violati. Come la Casa delle Donne che TerreMutate ha chiesto per più di quattro anni, per ritessere la socialità delle donne aquilane, per offrire un luogo anche alle “terreMutate” di ogni luogo d’Italia1.

Sin dalle prime ore dopo la grande scossa alle 3:32 del 6 aprile, sono state soprattutto e prima di tutto molte donne aquilane a divulgare con la scrittura, inizialmente dai blog, sia l’entità del danno che la possibilità di nutrire e curare le ferite attraverso la parola. E con parole forti, dall’ottobre del 2010, le TerreMutate hanno chiamato a L’Aquila donne da tutt’Italia per riscrivere insieme una narrazione che non fosse viziata dalle “menzogne del potere”, come sottolinea Orietta nella stessa riunione, in cui stiamo raccogliendo ciò che il convegno ha fatto risuonare dentro di noi e che sottolineammo già nel primo incontro nazionale 2.

I luoghi in cui le TerreMutate hanno invitato le donne a discutere, negli incontri del maggio 2011 e poi del maggio 2013, li hanno voluti chiamare Stanze, a sottolineare la richiesta della Casa delle Donne a L’Aquila, in centro storico, per ritessere una convivenza che non potrà fare a meno di nuove parole: quelle per la memoria e quelle per nuovi progetti di città. Stanze immaginate dal pensiero e dal vissuto delle donne: Cucina, Giardino, Sala da pranzo, Studio- Biblioteca3. Altre parole, nel maggio del 2013, per stamparci negli occhi la situazione che le aquilane stanno ancora vivendo: “Tra stanze senza pareti/ cantieri aperti/ chiudono vicoli/ senza lampioni/ Dalle macerie assediata/ ferita ti

49 lasci accarezzare/ Con voce di donna/ racconti la tua pena/ con forza di donna/ insegui il tuo futuro”4.

I gruppi di lettura

“Mi dibatto furiosamente immobile”, conclude Lina un suo breve intervento, sempre nella stessa riunione in cui cerchiamo di mettere a punto il nostro contributo per il libro della SIL. Dal novembre 2013, le cose a L’Aquila non sono affatto migliorate; e se adesso la polvere la sollevano anche le gru che stanno ristrutturando porzioni del centro storico, il problema resta: dove sono le cittadine e i cittadini che potranno ridare vita alla città? Qual è il loro spirito, la loro memoria, il loro modo di vivere il presente e di progettare il futuro?

Due libri ci hanno aiutate a preparare il convegno della SIL, dentro e fuori di noi TerreMutate (e con le donne della Biblioteca e della Bibliocasa, che hanno fatto le letture insieme a noi). E ci aiuteranno adesso a ripercorrere il movimento immaginario e concreto suscitato dalla lettura. Grazie a quei due libri, la nostra partecipazione al convegno è diventato un momento alto di esperienza e di elaborazione del vissuto. Ci muoviamo qui con le parole-chiave che In fuga[L] e La cripta d’inverno[L] di Anne Michaels hanno fatto risuonare in noi, e che – sia pure in breve – sono state riportate al convegno5.

L’esperienza dei gruppi di lettura, in preparazione del convegno, è durata sei mesi. È cominciata il 26 aprile ed è terminata il 28 ottobre del 2013. Prima con La cripta d’inverno, poi con In fuga. Roberta Mazzanti ci ha procurato la grandissima parte dei due libri e ci ha guidate, aprendo e chiudendo il lavoro con la sua presenza (al secondo incontro ha partecipato anche Giuliana Misserville). Ecco le domande iniziali di Roberta su La cripta d’inverno, riprese da dichiarazioni di Anne Michaels, ispirate dalla lettura: che cosa resta quando tutto quanto ti è stato portato via? a che cosa apparteniamo come esseri viventi, in che modo apparteniamo a un luogo? da cosa partiamo per ricostruire? cosa ci manca? E un auspicio: “A partire da esperienze drammatiche, di spossessamento, il libro [La cripta d’inverno] lascia sempre elementi di speranza molto grandi... generative thing... si può imparare dal dolore come dal piacere... è una lettura molto profonda e molto significativa [...]”. In chiusura dei gruppi le domande di Roberta tracciano invece un percorso: “Come facciamo con il linguaggio e la memoria a ritrovare dei legami? Cosa ci è sacro nei luoghi? Nello spirito del luogo rimangono anche le cose non più visibili? (come gli ottantasei strati di pittura ritrovati nelle case abbandonate dai nubiani in La cripta)”6.

Paesaggio e paesaggi: narr-azioni

“Cos’è un uomo senza un paesaggio?”, si chiede Athos, il protagonista di In fuga: “soltanto il tempo che passa a guardarsi allo specchio”. Ho riproposto nei gruppi di lettura alcune riflessioni del mio articolo “Paesaggi violati (e) tessiture dell’immaginario”, pur’esso nutrito dell’esperienza con TerreMutate, sviluppo di un intervento all’Università di Verona, il primo dicembre del 2011, per l’iniziativa “Scritture della partecipazione e della convivialità. Ritessere la vita e la convivenza: cogliere le occasioni, curare le condizioni”, a cura di Anna Maria Piussi e Giannina Longobardi 7. Ne cito due brani, utili ad introdurre l’argomento, poi sviluppato nei gruppi.

Il tuo paesaggio, quello in cui si è formato il tuo immaginario, quando ne riesci a ritrovare la traccia, ha trattenuto le tue emozioni e le tue memorie, in un movimento fluido, connesso col presente in una trasformazione continua. Perciò è bello e doloroso, a distanza di tempo, tornare negli stessi posti: essi, come in uno specchio felicemente deformante, ci rimandano il nostro cambiamento, le nuove figurazioni del paesaggio interiore, ma non solo. Svelano le illusioni di cui ci siamo nutrite, ci spingono a un esame di coscienza.

Ma cosa succede se il paesaggio cambia violentemente, traumaticamente e non è più riconoscibile?

Laddove il paesaggio esteriore è distrutto, completamente annullato o sovra-posto da strutture che ne impediscono il riconoscimento, il tuo paesaggio interiore ne può risentire fino all'annichilimento. E nel tentativo di salvare l’immaginario e la memoria, abbiamo due scelte davanti a noi. Congelare il ricordo, proiettare la memoria fuori di noi, rimuovendo un presente troppo doloroso. […] Oppure costruire un altare di ricordi, un tempio inviolabile che congelerà il nostro futuro nel perenne rimpianto del passato.

Una bella sintesi di codesto conflitto c’è nell’appello 2013 delle donne TerreMutate: la memoria dei luoghi e delle cose belle combatte contro la sopravvivenza: per sopravvivere, a volte bisogna dimenticare 8.

Nei gruppi discutiamo di come nei romanzi di Anne Michaels emerga che si può lavorare sul trauma per trarre dallo sconvolgimento del paesaggio esteriore elementi di guarigione per la propria interiorità. Un’elaborazione del lutto che,

50 in modo letterale, ne La cripta d’inverno passa attraverso il congelamento delle emozioni e poi il loro risveglio. Jean, la protagonista de La cripta, ha perso sua madre in inverno, quando in Canada non si possono seppellire i morti, perché la terra è troppo dura. Così vengono riposti, fino al disgelo, nelle cripte create apposta per la brutta stagione. Ma anche nel primo romanzo di Michaels, In fuga, in altro modo si narra di codesta necessaria rimozione, o, per meglio dire: come si possa posticipare il momento in cui la perdita si rivelerà e potrà essere superata. Jakob, il bambino del fango salvato da Athos che lo porta via da una palude di torba, si potrà riappropriare, nella bellezza del lungo soggiorno in Grecia, di tutte le sensazioni e percezioni che aveva perduto, tentando di tenere a bada il dolore. Loretta: “Io ho 50 scatoloni chiusi che vivono con me, forse è questa la mia cripta d’inverno […] forse non ho ancora superato la fase del lutto”. E aggiunge: “È bene che non recuperiamo tutto quello che c’era, perché non sarebbe la stessa cosa. […] Questo pensiero era una speranza per resistere, oggi dico: sarebbe un grande danno se tutto dovesse ritornare ad essere come prima, perché comunque non sarebbe più lo stesso.”

La cripta aiuta a visualizzare la trasformazione senza rimedio della vallata del Nilo e del bacino del San Lorenzo; e la ricostruzione ‘alla lettera’ del ghetto di Varsavia distrutto durante la seconda guerra mondiale, con le interferenze dei nuovi occupanti sovietici.

C’è tradimento in ogni ricostruzione.

La vita scorticata della memoria

E fu Hassan Dafalla che rimase in silenzio alla vista delle nuove case, vuoti blocchi di calcestruzzo messi in fila sul terreno come casse da imballaggio, senza alcun collegamento con il suolo. Fu lui che sentì il duro colpo della sconfitta, una cosa da togliere il fiato. E capì che la vita può essere scorticata di qualsiasi significato, scorticata della memoria9.

Hassan Dafalla, l’egiziano che organizza – mal volentieri – la deportazione dai villaggi della Nubia per far posto alla diga di Assuan, guarda i nuovi insediamenti destinati a quella popolazione. Un aggregato senza alcuna bellezza, e ce n’era tanta negli antichi villaggi! Palme di ogni genere ai margini del fiume Nilo, da cui i nubiani traevano meravigliosi, differenti datteri, che garantivano la loro sopravvivenza; case che portavano impressa la vita e le esperienze di decine di generazioni, come un archeologo polacco scoprirà sei pagine dopo, togliendo l’intonaco per copiare le pitture che vi si trovano (e contando ben ottantasei strati, come ricordava Roberta Mazzanti all’inizio del lavoro dei gruppi). Il brano di Hassan Dafalla ha colpito Anna Maria, che vi trova una precisa corrispondenza con una situazione aquilana: “La descrizione dei nuovi villaggi costruiti per le popolazioni della Nubia non può non far pensare alle nostre new town”.

“L’ombra del passato è formata da tutto quello che non è mai successo. Invisibile, squaglia il presente, come la pioggia col calcare. Una biografia del desiderio e della nostalgia”, racconta Michaels. Ma l’ombra del passato non contiene solo ciò che non è mai successo, accoglie in sé anche tutto ciò che non potrà più succedere. E molte cose invisibili, molte biografie del desiderio e della nostalgia ha disvelato La cripta d’inverno al gruppo di lettura delle donne aquilane. Non tutte, non sempre sono entrate in sintonia con la scrittrice canadese. E non tutte le esperienze – narrate nel libro, vissute a L’Aquila – corrispondono, riflette Nicoletta: “I protagonisti del romanzo hanno avuto la possibilità di immaginare quello che poteva succedere. A parte il caso di Varsavia, La cripta parla di trasformazioni graduali e volute: rispetto alla catastrofe naturale è molto diverso, ti puoi preparare (anche se non so quanto si siano potuti preparare i Nubiani). Il terremoto arriva di colpo, noi abbiamo dovuto prendere atto della situazione di punto in bianco, e, un secondo dopo, reagire. Per quel che riguarda il dopo, nessuno dei protagonisti del libro vive o continua a vivere nel luogo che ha subito la trasformazione, la memoria del luogo distrutto è la memoria del luogo distrutto, non, come noi, ricoperta da una seconda vita”.

Luciana racconta di aver organizzato a luglio 2013, nel suo paese d’origine, Tollo, una lettura pubblica de La cripta, pensando di suscitare risonanze con quel che era successo là nel 1944, quando un terribile bombardamento degli Alleati distrusse il novantotto per cento delle case. Invece, nessuna reazione, nessun collegamento è emerso dalla discussione. E così se l’è spiegato dopo: “Il paese in cui sono nati e cresciuti i nostri genitori non è lo stesso paese in cui siamo nate e cresciute noi generazioni successive, sebbene si chiami con lo stesso nome, solo l’asse stradale è rimasto identico: tutto il resto è cambiato e ricostruito ex novo. Nessuna memoria, mobili, suppellettili, persino le foto di famiglia sono state perdute. Più difficile ricostruire come e perché di questa grande rimozione, quel paese che non c’è più non ci è stato nemmeno raccontato”. E così accade nel romanzo Istanbul[L] di Orhan Pamuk, citato da Luciana 10. L’uomo e il bambino che ne sono protagonisti vivono una grande tristezza. “La tristezza”, racconta ancora Luciana, “non è solo la patina di grigiore, miseria, decadenza subìta dalla città in seguito alla caduta dell’impero Ottomano, ma è nella perdita di un’identità orientale e l’acquisizione di una posticcia e occidentalizzante. La tristezza è nell’assenza di immagini e narrazioni di sé tramandate di generazione in generazione. Immagini e racconti che il giovane Pamuk, come gli autori

51 turchi che lui ama e che lo hanno preceduto, ravvisano e scoprono attraverso lo sguardo dei viaggiatori occidentali dell’Ottocento che scrivono, dipingono e fotografano Istanbul.”

Anche Valentina ricorda quel libro. E ricorda che lo stava leggendo nei giorni che hanno preceduto il terremoto a L’Aquila. Accompagnata da Anne Michaels, ha rivissuto un episodio di cui era stata protagonista, anni prima, nel Sud Est dell’Anatolia. Quando aveva compiuto un’azione politica per scongiurare la costruzione di una diga che avrebbe completamente sommerso il paese di Hasankeyf, un paese millenario in cui era passato già Marco Polo. “Dovevamo andare a testimoniare, perché nel progetto restava solo la torre della Moschea più antica, che era altissima, sopra ci nidificavano i fenicotteri. Fu salvato da un movimento internazionale di antropologi, archeologi, intellettuali, il progetto però c’è ancora, il paese c’è ancora ma è ancora in pericolo”11.

E nel confrontare gli appunti di quell’esperienza con le pagine de La cripta, la lettura di Valentina ha subito una profonda trasformazione: “Ho letto la prima parte del libro, quella sulla Nubia, ricordando questa mia esperienza, mi sono andata a riprendere i miei appunti, le mie foto e facevo un paragone continuo con Hasankeyf e il libro mi è diventato amico: quando ho trovato questa identificazione, il libro è diventato mio amico. L’ho trovato un libro difficile, nella narrazione, non mi scorreva, per me è stato un approccio un po’ ostico, non è morbida nella scrittura. Nella sua scrittura non ho trovato una fluidità, una morbidità. Ma la storia, mi ha tanto presa, anche perché lavoravo continuamente con il libro e rileggendo i miei appunti di Hasankeyf”.

Cosa si perde, cosa resta. Il cambiamento delle percezioni

Torniamo alla domanda iniziale di Roberta nel gruppo di lettura: cosa resta quando tutto ti è stato portato via? Anne Michaels, nei romanzi, dà una risposta precisa: resta il corpo, resta la memoria, resta la scrittura. E la puntigliosa ricostruzione dei luoghi che hai amato, senza perderne un particolare (molto significative, ne La cripta, sono le pagine sulla deviazione del San Lorenzo).

“Esistiamo solo noi”, conferma Loretta, “esiste solo il nostro corpo con quello che ricorda e il suo modo di relazionarsi con l’esterno… ma qualcosa è cambiato in questa relazione! Cambia la capacità di tolleranza (diminuisce), cambia la capacità di essere solidale (aumenta)”. Per molte lettrici la relazione, nel libro, è il dato che fonda una continuità fra il passato che viene sommerso dalla catastrofe e il futuro da immaginare. “Bellissime le pagine in cui narra la relazione fra Jean e Marina, relazione fra due donne di paesi diversi, di generazioni diverse, esperienze di vita diverse, l’una molto rispettosa dell’altra e delle scelte dell’altra”, commenta Valentina. Roberta mette a confronto questa relazione con quella fra Jean e il polacco Lucian, al quale lei si lega durante la separazione da Avery, una separazione prodotta da un trauma che riguarda il suo corpo: “La relazione col polacco è molto diversa dalla relazione con Avery, è uno dei momenti in cui Anne Michaels ti fa vedere tanti aspetti di una relazione, di un personaggio. Per me il polacco le restituisce il corpo, come Marina, nel farle lavorare l’orto, le restituisce la terra. Il polacco Lucian ha una tristezza terribile, è anche una storia disperata, è stato un bambino delle macerie, ha cercato di fare l’artista, è un situazionista, corporeamente vitale ma di una tristezza incolmabile. Ma se non ci fosse stato lui con la sua sensualità e il suo calore, lei non avrebbe ritrovato il corpo”.

La relazione tra Jean e Marina ha colpito anche Giuliana: “Rispetto alla mancanza di progettualità c’era il personaggio portatore della speranza del futuro: è la madre di Avery, ha un rapporto con la giovane donna, Marina e Jean scavano insieme la terra. La terra è ciò su cui poggiamo i piedi, è la base da cui partire”. E ancora, Pina: “La figura della madre di lui è come una secchiata di colore in una narrazione in bianco e nero, mi è piaciuta, una figura piena di vita, quella che dà una prospettiva. È lei che dona la terra, a Jean, non al figlio, una consegna tra generazioni di donne. È la stessa cosa che m’ispira la nostra condizione, è vero che i nostri casermoni sono disperanti ma anche quelle case assumeranno col tempo la loro vita. Le persone cambiano come il paesaggio, io non mi fermerei alla memoria”.

Nella relazione con la città perduta – ragioniamo leggendo Michaels – le donne aquilane avvertono profondi cambiamenti delle percezioni e del ‘sentimento del luogo’. Dice Maria Linda: “La città che attraversavi senza rendertene conto, dandola per scontata, con il terremoto si è fatta carne[P] , carne tua, carne esposta. Il dentro, l’intimo si è fa pubblico, si espone dolorosamente”. Legge La cripta:

Dalla strada videro che tutte le case erano state saccheggiate, scavate dall’interno, e anche i muri erano in parte distrutti. […] Il dentro e il fuori si univano, una mistura polposa e fibrosa – come semi tolti a cucchiaiate da una zucca – di legno e di intonaco […] Tappeti e carta da parati dai disegni familiari erano allo scoperto, sotto gli occhi di tutti […] impregnati di un’intimità che si poteva toccare […]12.

52 Il brano le ricorda il diario del terremoto di un suo ex alunno che della mattina del 6 aprile raccontava soprattutto lo stupore di vedere aggirarsi tra le macerie un uomo in pigiama: “E, nello stesso tempo, mi è arrivato, fortissimo, ci è arrivato, fortissimo, che il luogo che abiti non è un luogo fisico, statico, ma un essere vivente, un organismo vivo”. Lucia condivide un’altra esperienza: “Prima mi piaceva, viaggiando in treno, sbirciare gli interni delle case altrui, oggi non posso più farlo, mi addolora”. Le ricorda troppo le case sventrate all’Aquila, quell’esibizione di un’intimità perduta13.

“Oggi”, continua Lucia, “credo che è venuta a mancare per sempre la sicurezza. Non avrò più quel senso solido di tranquillità, la possibilità di dare per scontate cose semplici. Emozioni che non si ripeteranno.” Molte concordano sulla sicurezza, come di un sentimento non più riproducibile dopo il terremoto, almeno non ancora. Come Nicoletta: “Abbiamo perso la sicurezza e non ce l’avremo mai più”. Più possibilista è Filomena, che va alla radice della parola: “Sicurezza[P], da sine cura: la nostra esperienza è stata passare da un mondo sicuro in uno insicuro, per tornare (tendere) ad una nuova sicurezza: così come il neonato, dalla sicurezza del ventre, nascendo si affaccia al terrore della vita, per poi trovare nel seno, nell’abbraccio, una nuova sicurezza, un nuovo equilibrio. Noi facciamo un investimento sulla sicurezza e quando, per qualche ragione, diventiamo insicure, cerchiamo altre sicurezze, è una spinta vitale”.

In che modo apparteniamo ad un luogo

La relazione con i luoghi, infine: è un elemento importante, nel rispecchiarsi delle aquilane nella scrittura di Michaels. Ed emerge un doppio problema che riguarda la città: su L’Aquila, dalle prime ore dopo il terremoto, si è divulgata una falsa narrazione su quel che era successo; una falsa narrazione che, perdurando, può produrre falsa memoria. Nicoletta cita una pagina del La cripta che l’ha molto colpita: “sul piroscafo ogni paio di occhi cercò di trattenere l’immagine del villaggio che si allontanava; di certo, pensò Hassan Dafalla, pochi luoghi su questa terra sono stati guardati da così tante persone insieme, con un tale sentimento condiviso.” Come accade nella regione della diga di Assuan, con tutto il mondo che ha guardato lo spostamento dei templi, le difficoltà e i cambiamenti del progetti. Come accade a L’Aquila, sin da quel 6 aprile 2009, con la falsa narrazione che ha influenzato e corrotto “il come sei guardato[P]… il sentimento condiviso nel guardarsi e nel guardare” (Nicoletta).

Mentre, per le abitanti e gli abitanti, tutto si muoveva dentro e fuori di loro, sui giornali e in tv la città era congelata in un’interpretazione di comodo, utile al potere che ne stava manipolando in modo gravissimo il post-terremoto. È il tema, per non dire il tarlo, di Orietta: “È la menzogna del potere”, ripete “forse dovremmo smettere di usare la parola progresso, altrimenti l’idea è che quel che viene dopo è meglio, quindi opere grandi perché i regimi hanno bisogno della grande opera (come Nasser con la diga di Assuan). Ma ai ragazzi si sta sottraendo la fiaba, la memoria”. “Mi interessa molto la figura di Avery” dice Maria Linda, “questo homo faber consapevole di quanto la sua azione possa essere positiva, costruttiva; ma anche delle potenzialità distruttive di quell’azione.” Nicoletta: “Non sappiamo più controllare i cambiamenti[P] che produciamo, è una piaga moderna, non siamo in grado di gestirli, perché la situazione è troppo complessa e sono troppo potenti le capacità di trasformazione. È difficile dopo ricrearsi un’armonia, un paesaggio interiore”.

Filomena sembra sondare a fondo dentro se stessa, alla ricerca delle parole: “Quando c’era, la città era il contenitore delle nostre vite. Quando è perduta, la città ti si incolla addosso, è la cosa morta che ti rende morta. Questo è in genere il senso del lutto: noi ci identifichiamo, noi diventiamo il morto. Pensi che la perdita[P] uccida pure te… è quello che ci fa provare dolore quando rivediamo la città, la rivediamo com’è e risentiamo il dolore della perdita. Tu ti identifichi in tutto quello che hai perduto. Ci vuole un’operazione di distacco, in modo che la città ridiventi la città, e il tuo io ridiventi il tuo io, che possa progettare. Ma non è più quella di prima, bisogna che sia una cosa nuova rispetto alla quale ristabilire il sentimento di appartenenza, rimettendo la distinzione fra te e la città. C’è poi il discorso della memoria, che lavoro debba svolgere la memoria”. Anna: “Il terremoto… è stata la prima volta nella mia vita che ho sentito di appartenere[P] a una comunità. Ho un gran rispetto per questo corpo morente che è la nostra città… ci vado per non lasciarlo in abbandono, bisogna incoraggiarla questa città morente, tenerle compagnia” 14.

Ne La cripta, in tre casi, si parla di traumi vissuti da persone e da territori, si parla un'esperienza di sradicamento e di un tentativo di ricollocarsi in altri luoghi. Qualcuna all’Aquila ha avuto delle difficoltà nella lettura, ha apprezzato la poesia e anche la meticolosità, lo studio dei particolari, ma a volte queste parti molto descrittive hanno allontanato qualche lettrice da un’empatia più profonda con il testo: come se la cifra stilistica fosse sopraffatta dallo scrupolo documentario; come se non fosse del tutto apprezzata la scelta di circoscrivere le emozioni nel passaggio dal trauma al lutto, dal lutto alla separazione dall’evento luttuoso, attraverso dati, informazioni, riflessioni. Come se Michaels non parlasse abbastanza empaticamente del dolore, ma puntasse ad attraversarlo con una sorta di distacco documentario. Quanto/come la cura dei particolari può aiutare l’elaborazione spirituale di un momento tragico?

53 Nei romanzi di Michaels vi sono perdite terribili che tuttavia vengono recuperate, pensiamo al bambino di In fuga, pensiamo a Lucian che, pure in quella tristezza terribile, trova la strada dell’arte, e tutte le parole che si scambiano per attraversare il dolore: qual è la cosa principale che non dobbiamo perdere, per far sì che, anche nelle più grandi perdite, non sia tutto perduto?

“Secondo me”, dice Lina “è ancora troppo presto per noi per la memoria, per l’elaborazione del lutto, perché io sto ancora reagendo, sono ancora presa dall’adrenalina di quella notte, non ho tempo per pensarci.” Loretta commenta le parole di Filomena sull’appartenenza alla città: “Filomena ha detto una cosa che mi ha molto colpito… identificati con la città che moriva… mentre l’ascoltavo, ho avuto la sensazione di una grande perdita collettiva, una perdita collettiva forte che ti ha lasciata senza riferimenti, ti sei sentito solo, non hai più riferimenti. Forse mi è successo e non me ne sono accorta, perché in quel momento mi sono sentita VIVA, ero sopravvissuta al terremoto”.

Normalità critica

“Penso che siamo come i merli, volati in cerca di cibo, che al ritorno non trovano più il nido. Siamo animali che si adattano, anche al peggio. Per un certo tempo siamo rimasti chiusi nel dolore, intoccabilità del dolore, siamo rimasti chiusi nella solitudine. Dopo quattro anni chi sta fuori comincia a farsi una ragione di dove sta. È che vai a ritessere relazioni, relazioni che risorgono e nuove relazioni.” Torna sulle relazioni la riflessione di Orietta e nella discussione che si apre nel gruppo di lettura emerge una definizione: “normalità[P] critica”. Uscire dall’eterna nostalgia, dal rimpianto di ciò che non potrà più essere, come nella scena ricordata con dolore da Lucian

Li vedevi sempre [...] in piedi lungo la strada, immobili, con in mano un oggetto all’improvviso inutile – il cappotto di lui, il libro di lei – a fissare il luogo dove la persona amata era appena scomparsa. Per tutti quegli anni siamo rimasti in strada con le braccia piene di cose inutili mentre la macchina ripartiva, mentre la fila di persone riprendeva a camminare, mentre il treno partiva, mentre la porta si chiudeva15.

Nicoletta: “Guarda io sono contenta, mi son stufata sia di L’Aquila com’era sia di come sarà. Non voglio pensarla più come una sfiga, è un cambiamento. La nostra vita è un continuo oscillare tra preservarci e osare. Quello che è successo ci ha costrette a osare. Mi viene in mente Pasolini, che non si è mai preservato (magari anche troppo poco, è morto male). Preservarsi un po’ meno, vivere un po’ di più. E questa è una cosa che mi piace, vivere senza certezza. Ora mi sento più in equilibrio di prima, ora fondo la mia vita su me stessa e non sulle cose. Il calice me lo sono bevuto fino in fondo, adesso ho finito di piangere, ho pianto a lungo questa città, ora basta!” Legge alcune righe da In fuga, quando Athos disegnando dà un insegnamento a Jakob: “Lezioni importanti: guarda attentamente; prendi nota di ciò che vedi. Trova la maniera di rendere la bellezza necessaria; trova la maniera di rendere bella la necessità”. Conclude: “Siamo nella necessità, rendiamola bella!” 16. Legge un altro brano da In fuga: “L’amore – dice Athos a Jakob – ti fa vedere un posto in modo diverso, così come si maneggia in modo diverso un oggetto che appartiene a una persona amata. Se si conosce bene un paesaggio, si guarderanno tutti gli altri paesaggi in modo diverso. E se si impara ad amare un posto, a volte si può anche imparare ad amarne un altro.”

Interviene Giuliana: “Mi sembra che Nicoletta risponda agli interrogativi di Filomena. Avevo annotato: Filomena sottolineava che la città sarà una cosa nuova, Nicoletta se ne riappropria. Sempre Filomena aveva sottolineato il rapporto fra distruzione/ricostruzione come presa di distanza, spazio temporale, distacco. Dopo il trauma ci si riappropria della vita con una consapevolezza nuova. Il lavoro della scrittura rende possibile una presa di distanza dal lutto. Secondo me il lavoro della scrittura è questo: render vivo quello che è morto.” Anna Maria, che pure è una fine letterata, ci riporta al qui ed ora: “Questa è la fisiologia della vita che è un continuo stabilire equilibri che continuamente saltano e ci sarà da ricostruire”.

“Mi è piaciuto tantissimo nel libro”, dice Maria Linda, “qualcosa che ho provato: oltre al terremoto collettivo, io ho avuto un terremoto personale, ho ‘perso’ i figli, a uno a uno se ne sono andati, la mia ricostruzione è faticosa, ci sono tante frasi di questo libro che mi hanno colpito e nelle quali mi sono ritrovata. Mi ritrovo molto nel cambiamento, nell’accettare questi cambiamenti come vitali. È vero che c’è la memoria, la nostalgia, il tema della sicurezza, però… il cambiamento è importante.”

Si intreccia una specie di brainstorming su memoria e cambiamento, su nostalgia e futuro. Orietta: “Quella madre è morta, ora sei chiamata a essere altro. Memoria[P] , eccesso d’amore, ripensi solo alle cose belle. Oppure le rivedi a distanza le cose, e ti accorgi che forse le guardavi con occhio innamorato, ora le vedi meglio, questo ti aiuta a non rimpiangere”. Nicoletta: “Ho letto un articolo sulla nostalgia, che è qualcosa che aiuta a costruirsi memorie, emozioni, la nostalgia è un sentimento bello, vuol dire che hai vissuto cose belle e struggenti da ricordare”. Filomena: “Se la

54 nostalgia[P] è così impostata, ti riporta solo a cose belle che hai vissuto, e tu riprovi solo emozioni positive: è importante poterti permettere di rivivere momenti belli. Ancora più importante è costruire ora cose, situazioni, che in futuro ti permettano di provare nostalgia”.

La forza che non sapevamo di avere

Intenta e con la voce tesa, a tratti emozionata, Simona parla all’apertura del convegno SIL. Parte dalla sensazione forte, immediata, che con il terremoto una vita fosse terminata e che ne cominciasse una seconda. Una cesura – racconta – che è presente in ogni atto e momento della vita, da allora. Mentre parla, ricordo una staffetta di TerreMutate, appena due mesi dopo il terremoto emiliano, andammo a Mirandola. In cerchio, con le donne di là, ancora sotto choc, fino a tarda notte a parlare. Ma da subito, al primo momento dell’incontro, Simona che quasi brutalmente dice: “sbagliate a pensare di ricostruire la normalità, come state dicendo, quella vita non ci sarà più, ce ne sarà un’altra”. In tutti i quasi trenta incontri che TerreMutate ha avuto da un capo all’altro dell’Italia, le parole di Simona e delle altre sono state riconosciute come capaci di dare forza: laddove, in partenza, l’obiettivo degli incontri era di sostenere le donne de L’Aquila17.

È Anna, nel gruppo di lettura, a ricordare un suo viaggio a Senigallia insieme a Loretta: lei era angosciata per le condizioni di salute della sorella, era convinta che non sarebbe riuscita neppure a parlare. E rimase stupita, alla fine della giornata, dalle parole delle donne che le avevano invitate: la ringraziavano per tutta la forza che aveva loro comunicato! I momenti di prezioso riconoscimento che a L’Aquila vengono raccontati da Simona all’apertura del convegno, li ritroveremo con tante donne SIL, nei tre giorni del novembre del 2013. Amplificando le parole di Monica Farnetti, il suo Guasto celeste, che risuoneranno a lungo dopo quei giorni: le sue emozioni, il suo rigore, così intimi alle esperienze delle aquilane. Mentre Simona parla, non sapevamo ancora che “la forza che non sapevamo di avere” sarebbe ancora una volta apparsa alla donne convenute all’Università da tutt’Italia, tanto che molte silline ci hanno detto e ripetuto – anche in staffette successive al convegno – che la discussione su donne e scrittura, su parole e immaginario, aveva preso a L’Aquila una particolare intensità rispetto ad altre occasioni, per una sorta di vibrazione interna al luogo, alle stratificazioni e al senso che aveva lo stare assieme, in quel contesto e con ciò che le donne TerreMutate stanno cercando di fare/dire negli ultimi anni18.

Sarà stata quella situazione di cui parla ancora Simona all’apertura, “inesorabile, non voluta, non desiderata”, quello spartiacque con cui fare i conti, quello “spaesamento”, quella “resistenza e poi insistenza” a voler vivere in pienezza nonostante tutto, a restituire forza anziché debolezza, coraggio e sostegno a chi pensava di doverci soccorrere? Simona racconta del movimento che abbiamo creato, verso azioni che permettessero di ri-costruire, prima di tutto dentro di sé, una seconda vita; e anche dello “sbandamento” che sente di provare, in una fase ormai avanzata della resistenza a quattro anni e mezzo (mentre scrivo, sono diventati cinque e mezzo!) dal terremoto. Sbandata, come dice il vocabolario, significa “disunita, disgregata”: è la condizione della città, è quel che risuona dentro, conseguenza di rabbia e dolore non completamente elaborati, e quindi sempre vivi19.

Simona Giannangeli ha parlato anche di un particolare vuoto che si è aperto dopo la scossa del 6 aprile 2009. “Abbiamo perso in quel momento un luogo privilegiato, il luogo della lettura ci è stato sottratto insieme a tutti gli altri luoghi, per molto tempo non abbiamo potuto leggere, non abbiamo ritrovato il luogo chiamato lettura. Ma sapevamo che sarebbe arrivato il tempo della lettura e che attraverso le parole avremmo potuto dipanare i fili di quel tempo che ci era stato sottratto.” La cripta d’inverno, per molte aquilane, è stato la lettura del libro giusto per la situazione giusta. La lettura collettiva come un brainstorming, un ping pong fra dentro e fuori; fra la vita e la letteratura (mai ringrazieremo abbastanza Roberta Mazzanti per la meravigliosa intuizione di aver connesso Michaels a L’Aquila, La cripta d’inverno al terremoto del 6 aprile del 2009 e a ciò che ne è seguito).

Come dicono nei gruppi di lettura Anna Maria e Giuliana, ne La cripta e dentro In fuga, sono la terra e l’acqua gli elementi in gioco, sia nella distruzione e nel lutto che nella possibilità di superare il trauma e ricostituirsi un’altra vita. Risonanze forti con un luogo che ne è pieno, dalle montagne alle valli, ai fiumi che sotterraneamente percorrono tutto il territorio aquilano. Come mostra l’origine del toponimo, legata alle acque (da Acuum). Terra e acqua che nel post- terremoto i profittatori hanno cercato e cercano di ingabbiare, rapinare, sottrarre al bene comune. E che le TerreMutate, concretamente e simbolicamente, hanno messo all’attenzione sin dal maggio del 2011, per ricordare a se stesse e alle donne venute da tutt’Italia quelle radici, quegli elementi che fondano la vita, la cui dimenticanza lascia senza parole, deturpando l’esistenza e l’immaginario20.

Sitografia

55 http://www.laquiladonne.com/sil-2013/ (22 marzo 2015)

http://www.societadelleletterate.it/2014/01/terra-e-parole-i-video/( 22 marzo 2015)

http://www.societadelleletterate.it/2014/01/letture-e-materiali/ (22 marzo 2015)

http://www.udiravenna.it/main/index.php?id_pag=33&id_inf_news=67 (22 marzo 2015)

https://www.facebook.com/TerreMutate/?fref=ts (22 marzo 2015)

Video

L’Aquila prigioniera: https://www.youtube.com/watch?v=87OAfgpoOi4

L'Aquila – Le strade sono nostre: streetwiew zona rossa: https://www.youtube.com/watch?v=_c_HO_siSV0

L'Aquila Aprile 2011 – giro in zona rossa (da Piazza Duomo a Piazza S. Pietro): https://www.youtube.com/watch?v=n_kFVawqxVI

L'Aquila è una stella danzante: https://www.youtube.com/watch?v=nMXzP117Rng

Francesco Paolucci: https://www.youtube.com/channel/UCP2aTwGywviixAm2UHXGx7g

Siamo tutte Terre Mutate – L'Aquila: https://www.youtube.com/watch?v=eHup0OILIZM

Donne Terremutate. Un rito per rifondare una città: https://www.youtube.com/watch?v=OEGN4Db-XW0

Donne Terremutate. Fiori per non dimenticare: https://www.youtube.com/watch?v=RrkxE7MkXbU

Donne Terremutate. Installazione Second Body: https://www.youtube.com/watch?v=A67rSrpd-3U

Donne Terremutate Spezzoni stanze: https://www.youtube.com/watch?v=6A6_51jziFU

Staffetta a Ravenna: http://www.deltanews.net/ravenna-tre-giorni-con-le-donne-terre-mutate-de- laquila-4714358.html

Staffetta a Macerata: https://www.youtube.com/watch?v=g0QSv9LZSoc

Staffetta a Bologna: http://www.deltanews.net/bologna-incontro-con-le-donne-aquilane-di-terremutate-4718401.html

56 ROVINE E SPAESAMENTI

57 Rovine mute e pietre loquaci.

Ricostruire senza nascondere il tempo e la distruzione *

Paola Di Cori

Que reste-t-il des nos amours? Que reste-t-il de ces beaux jours? Une photo, vielle photo de ma jeunesse.... Charles Trenet (1942)

Ha dipinto l’interno di una chiesa, la navata sinistra intatta, la destra sventrata, volte, colonne, statue, tabernacoli rovinano a terra in un giallo polverìo, in un balenare di folgore, come per lo scoppio d’una bombarda. A guardar bene, si vedono nella navata sinistra due piccoli personaggi che con punteruoli e scalpelli si accaniscono su una statua abbattuta.

Fausta Garavini[L] **

Mostrare le rovine

Con questo intervento vorrei sollevare qualche problema relativo alle narrazioni del femminismo, alle diverse maniere e alle multiformi varianti con cui lo raccontiamo e ne diamo rappresentazione; e al bisogno incessante che ciascuna femminista sente di continuare a fornire ulteriori correzioni, aggiunte, aggiustamenti della versione precedente; e ciò vale sia per quelle ‘di antico pelo’, come chi scrive, sia per chi è di carnagione fresca e luminosa. Ne esistono svariati esempi, infatti 1. Questa variopinta, ricca, più o meno condivisa o condivisibile proliferazione di storie esistenti ha molto a che fare con alcuni temi chiave dei tempi inquieti che attraversiamo: quello dei resti, delle temporalità diverse che si incrociano e sovrappongono; di ciò che è distrutto, che non può tornare in vita, è svanito o svanisce sotto i nostri occhi; di testimonianze contrastanti, delle censure e fallacie che inevitabilmente ricoprono ogni storia. Il tema delle rovine, su cui mi sono soffermata anche in altre occasioni, continua a sembrarmi adeguato per cominciare a districare la matassa di cosa fare con quanto rimane, e di come ricostruire senza nascondere ciò che è andato distrutto2.

Con la parola ‘rovine’ non voglio alludere a cose non più esistenti, scomparse, che il mutevole racconto delle origini e dell’apogeo vorrebbe tentare di far nascere di nuovo, bensì nel senso di ‘resto’, di un riferirsi a ciò che è rimasto e delle sue implicite potenzialità attive. Cosa ne facciamo? Come (ri)utilizzarlo?

Il tema delle rovine, si sa, è un luogo comune della cultura umana – da Gilgamesh e Omero, a Gibbon e ai romantici fino a Benjamin, e giù lungo il secolo da poco finito. D’altra parte, l’idea di riprenderlo per parlare di femminismo è stata quasi inevitabile, nel momento in cui non soltanto letteralmente stanno andando in rovina tradizioni, istituzioni, esperienze che nel bene o nel male hanno ‘tenuto’ fino alla mia generazione; ma anche – ahinoi, come non pensarci qui a L’Aquila? – perché stiamo vivendo anni terribili in cui la concretezza delle macerie, dei bombardamenti, degli sfollati,

58 dei terremoti, di edifici crollati, è di nuovo un’angoscia quotidiana, e irrompe ogni giorno dai notiziari. Lo scenario apocalittico che ormai contempliamo giorno dopo giorno – attentati, morti, rapimenti e uccisioni in massa di civili inermi, scosse sismiche – è quello che spiega anche il ritorno alla lettura di classici antichi considerati ‘minori’, come il poemetto “Il ritorno” di Rutilio Namaziano[L] (V secolo), ristampato da poco, un lamento sulle macerie in cui è ridotta Roma dopo la fine dell’impero e le incursioni ‘barbariche’:

Non si possono più riconoscere i monumenti del passato: mura imponenti il tempo vorace ha consunto. Restano solo tracce di pareti interrotte, tetti sepolti giacciono sotto ruderi vasti. Non indigniamoci che i corpi mortali si dissolvano; valgano gli esempi: anche le città muoiono3.

Più vicini a noi, due autori hanno ripreso il tema delle rovine come straordinario mezzo materiale e strumento visivo per leggere il presente. Il primo è W.G. Sebald, lo scrittore tedesco morto nel 2001 a 58 anni per un incidente stradale. Autore di testi intrisi di pathos, in essi la scrittura sembra letteralmente intessuta delle macerie e detriti di cui gronda la storia europea del secolo scorso, sottolineate dall’inserimento nei testi, di fotografie, molte delle quali mostrano oggetti usurati dal tempo, edifici disabitati o non più esistenti, gruppi familiari ritratti molti decenni prima, strade deserte. La sua Storia naturale della distruzione[L], frutto di alcune conferenze tenute a Zurigo nel 1997 sul tema della distruzione delle città tedesche durante la seconda Guerra mondiale, è un libro costruito letteralmente sulle spoglie della Germania nazista. Leggere Sebald è un’esperienza emozionante sempre; ma in questo libro, proprio perché si configura come non-romanzesco, c’è anche un senso di urgenza che non è dato di trovare nei suoi libri più noti – Austerlitz (2001) e Gli emigrati (1992).

Con queste pagine scritte per un pubblico svizzero, a pochi anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino, Sebald rivolge un drammatico appello a lavorare per fare una storia della distruzione. In ciò consiste, per lo scrittore, il lavoro della memoria: nella elaborazione di una storia della distruzione; ciò che i tedeschi non hanno voluto fare. Anzi, hanno voluto gettarsi alle spalle la distruzione completa delle proprie città, e dimenticare il trauma spaventoso degli anni in cui Amburgo, Dresda, Berlino venivano rase al suolo dagli alleati; per loro, “la distruzione totale non si presenta quindi come il terrificante esito di un processo di pervertimento collettivo, ma – per così dire – come il primo stadio di una ricostruzione pienamente riuscita”4. Le bombe colpivano soprattutto le città e i loro abitanti, non gli stabilimenti industriali, non gli snodi ferroviari. Di queste rovine, nessuno degli storici tedeschi, e pochissimi tra gli scrittori, hanno voluto dar conto. Uno dei pochi è stato Alexander Kluge, dal quale Sebald riprende l’idea che “la giusta comprensione delle catastrofi[P] da noi di continuo inscenate rappresenti il presupposto fondamentale per l’organizzazione sociale della felicità”5.

Lo scopo di tale immersione dolorosa tra mucchi di pietre, calcinacci, e corpi smembrati, è quella espressa più volte nel testo: rifiutarsi di fare i conti con questa esperienza significa, per Sebald, non voler capire niente neanche del presente. Le rovine, il passato dove la distruzione ha operato violentemente, consentono in qualche modo di essere coscienti di dove si sta. Affrontarle, descriverle, individuarne le cause, è una maniera per orientarsi consapevolmente nella vita e immettere nella comprensibilità storica una tensione etica che altrimenti sarebbe del tutto assente.

Anche per Susan Buck-Morss, autrice anni fa di uno splendido studio su Walter Benjamin e di altri libri sulla fine dell’utopia in Occidente, l’argomento è della massima rilevanza. In alcune interviste, questa studiosa ha richiamato l’attenzione sull’importanza di usare le immagini ‘benjaminianamente’, come uno strumento che può consentire di mostrare un concetto teorico condensato in una immagine visuale. Inclusa in una raccolta di articoli sul rapporto tra dibattito teorico nella sinistra e islamismo dopo l’11 settembre, raccolti sotto il titolo di Thinking Past Terror, è inclusa una lunga intervista a Buck-Morss, preceduta da alcune fotografie, assai note in Germania, raffiguranti gruppi di donne a Berlino nel 1945 intente a ripulire le pietre ad una ad una prendendole dai cumuli di rovine6. Sono le cosiddette Trümmerfrauen, le donne delle macerie, ‘rubble women’ per gli americani. Tra il 1945 e il 1946, gli alleati ordinarono che tutte le donne tedesche, dell’est e dell’ovest, tra i 15 e i 50 anni, prendessero parte a questo lavoro di ripulitura delle pietre, dei mattoni, dei legni ammucchiati ovunque, affinché potessero essere riutilizzate 7. A me sembra, osserva Buck- Morss di stare facendo come loro, di ripulire tradizioni, concetti, ideologie, uno ad uno, in un contesto storico – gli ultimi anni e la crisi politica ed economica a livello globale – in cui sono venute a crollare una serie di certezze che ancora rimanevano in vigore nel decennio dopo la caduta del Muro di Berlino (che ha portato con sé altre macerie), tra cui quelle relative al benessere economico e alla democrazia nelle versioni imposte dagli Stati Uniti al resto del mondo8.

59 I resti mostrano che qualcosa di fondamentale, radicato in profondità, è andato per aria, e ora bisogna ripensare ai principi che lo sostenevano, ridotti in frantumi, come circondati da una cortina di vapore che consente appena di immaginarne la forma originaria. Proprio da questa acquisita consapevolezza occorre trarre elementi per indagare sulla natura volatile, la maggiore o minore friabilità delle istituzioni sociali, delle comunicazioni, delle relazioni tra corpi e spazio; e aggiungerei, inoltre, che volatilità e friabilità insieme si uniscono per dar vita alla configurazione assai minacciosa che sta assumendo la politica. Da questo punto di vista, occorre considerare che le pietre, come ricordava Freud in una pagina famosa, non vanno considerate nella veste a loro concessa dal restauro, quando dopo essere state ripulite vengono disposte in bell’ordine; esse acquistano una loquacità inaudita quando, con le opportune cautele, si riesce a farle parlare9. Ma come stimolare la loro capacità sonora?

Le pietre parlano

Alcuni esempi tratti dall’architettura mi sembrano casi appropriati e stimolanti di una simile vocazione: i lavori di restauro, pochi anni fa, di due edifici in Argentina; le opere di un artista attivo negli anni ’70; e per finire, l’istallazione di una scultrice colombiana.

Qualche anno fa mi è capitato sotto gli occhi l’articolo pubblicato su un quotidiano argentino in cui si commentava il restauro da poco completato di una casa di militanti di un raggruppamento guerrigliero negli anni Settanta. In questa casa nella città di La Plata abitava la coppia di Daniel Mariani e Diana Teruggi; entrambi gestivano una piccola tipografia che stampava un giornale che rievocava nel titolo Eva Peròn, considerata da molti gruppi guerriglieri una eroina: Evita montonera. Con grande dispiego di mezzi l’esercito della dittatura militare aveva fatto irruzione nella casa il 24 novembre del 1976; in pochi istanti i militari avevano massacrato cinque persone, e sequestrato una neonata di tre mesi che al giorno d’oggi risulta ancora desaparecida. La casa restaurata è stata trasformata in monumento in ricordo della violenza di una dittatura militare che ha governato dal ’76 all’83 in Argentina, e destinata a “Sitio de la Memoria de la dictadura militar”.

La foto del giornale mostrava come emblema dell’idea di fondo del lavoro di restauro, una parete con un enorme buco al centro, segno di distruzione e decadimento in rovina dell’edificio; la ricostruzione aveva voluto rispettare la memoria di quell’evento terribile. Gli architetti hanno deciso di preservare e riscattare la dimensione domestica dell’edificio, per far risaltare la violenza omicida che aveva distrutto persone, oggetti, parti della casa. Sono intervenuti soprattutto per eliminare i danni fatti dalle infiltrazioni d’acqua, per rafforzare il soffitto che era in parte crollato, lasciando in evidenza i fori dei proiettili sulle pareti; hanno quindi introdotto dei ponteggi in ferro per poter passare da un ambiente all’altro.

Pochi giorni dopo, lo stesso giornale commentava il restauro di un edificio dell’800 nella provincia di Entre Rìos (al nord dell’Argentina): il Palacio San Carlos, una villa costruita nel 1886 da un francese, proprietà della famiglia Fuchs Valon con un grande parco reso famoso perché nel 1929 Saint-Exupery, in uno dei suoi voli, per un guasto al motore era stato costretto ad atterrare nei giardini della proprietà, e poi era rimasto qualche giorno ospite della famiglia, diventando amico delle giovani Fuchs Valon. In seguito, aveva poi raccontato l’avventura in uno dei suoi racconti – “Oasi”. Per commemorare l’episodio, lì vicino è stata innalzata una statua dedicata al piccolo principe, e si organizzano giri turistici e spettacoli teatrali per ricordare lo scrittore-aviatore.

Il lavoro recente degli architetti è commentato dal giornale con queste parole: “Restaurare senza ricostruire”. Le prime righe dell’articolo, nel quale si intervistavano gli architetti che avevano lavorato al restauro, riassumevano il senso di questa operazione nel modo seguente: “Il Palazzo San Carlos è stato restaurato senza ricostruire quanto era andato perduto, come un modo per rispettare l’immagine dell’edificio che era già stato incorporato alla memoria collettiva”.

I due articoli mi hanno colpito per quella che a me sembra una evidente analogia con quanto penso si possa fare nei confronti della storia del femminismo (e non solo; anche con molte altre storie), e pongono alcune questioni su cui vale la pena di riflettere.

Un primo problema è quello di come ricostruire. Si tratta di una secolare questione che aveva tanto tormentato le generazioni sul finire dell’800 – da Nietzsche in poi. Benjamin l’aveva riproposta emblematicamente nelle “Tesi sulla filosofia della storia”, e nel suo noto saggio[L] su di lui, Hannah Arendt aveva poeticamente paragonato Benjamin – e il lavoro di chi si pone il problema di come ricostruire – a quello che fa il pescatore di perle, che si tuffa per riscattare dal fondo perle e coralli, convinto che “il processo di decadimento è contemporaneamente un processo di

60 cristallizzazione”10. Questo passo assai famoso e fin troppo noto di Arendt, mi sembra sia stato poco utilizzato come strategia narrativa. È invece assai adatto per indicare quello che alcune di noi vorrebbero e potrebbero fare: ricostruire senza cancellare o annullare le tracce della distruzione e del decadimento. Anzi, tenendone conto. Come fanno alcuni architetti, artisti, cineasti, scrittori; ma pochissimi storici e storiche nel loro affanno per mettere ordine nelle macerie dei dati.

Questo problema si era posto in maniera visibile nel passaggio tra i secoli XVIII e XIX, con la rivoluzione industriale e le rivoluzioni politiche. Due orientamenti opposti si erano presentati. A metà dell’800, per rimanere nel campo dell’architettura, Viollet-le-duc (1814-1879) ricostruiva castelli medievali in Provenza; un secolo prima di lui, Piranesi (1720-1778), invece, disegnava le rovine romane – ciò che era rimasto dell’antichità. Si dedicava inoltre a mettere in primo piano le parti rovinate dei monumenti antichi, disegnati sempre in assenza di figure umane, che non comunicano l’idea della fine di un impero antico, non sono resti inerti e ormai insignificanti. Testimoniano piuttosto sulle immense potenzialità di un rudere, su quello che possono dirci le rovine proprio quando sono esaltati come effetti di un cambiamento, trascorrere del tempo, distruzione. Per questo ci piacciono; mentre ci piacciono assai meno gli edifici di Viollet-le-duc.

Piranesi lo sentiamo molto vicino; non così Viollet-le-duc 11. L’uno esalta le tracce che il tempo ha lasciato; l’altro si sforza di ricostruire un calco del passato, di riprodurre il tempo antico, come se questa fosse un’operazione possibile. Entrambe le operazioni sono infatti ricostruzioni di fantasia; anche quelle di Piranesi, naturalmente. Queste ultime incontrano il nostro gusto molto più di quelle di Viollet-le-duc perché ci sembrano dare una illusione più forte del passato e del tempo che scorre.

Il nostro caso è meno drammatico della caduta dell’impero romano, o della violenza dei militari argentini, anche se per le sorti del femminismo porre la questione appare un compito di importanza vitale. La scelta di Piranesi ci sembra molto interessante; e così anche il restauro con lo squarcio nel muro della casa argentina. Entrambe queste operazioni, in modi diversi, mettono in evidenza i mutamenti che intervengono nel tempo: le crepe, le scomparse, i restauri, i silenzi, gli enormi squarci operati nei corpi e negli edifici, i vuoti e i buchi. Queste ricostruzioni costituiscono modalità efficaci per riattivare la memoria, e non solo per analizzare documenti e raccogliere testimonianze, o per riprodurre.

Non ha senso ricostruire illudendosi che la ricostruzione accurata di un edificio o di un evento ‘così com’era’ – e questo funziona ancor di meno nel caso di una esperienza – significhi una resurrezione. Molti storici importanti sono convinti che di questo si tratta; che compito dello storico sia ‘far parlare’ il passato.

Io non lo credo.

Penso, infatti, che il passato non parli affatto – alle giovani e ai giovani di oggi non dice quasi nulla. Né la storia è un lavoro da ventriloqui; ma un insieme complesso, e non privo di contraddizioni, dove si incrociano e sovrappongono attività di ricerca e di ricomposizione accanto a quelle riguardanti una indispensabile funzione rappresentativa, di messa in mostra e di resa visibile di ciò che si è trovato e ricostruito. Questo non ha a che vedere solo con la raccolta e analisi di documenti, ma con quello che poi ne facciamo: come li utilizziamo. Quali sono le operazioni specifiche – di scrittura, di teoria – che mettiamo in atto rispetto al passato.

Ciò che conta è avere la consapevolezza che non abbiamo il potere di far resuscitare eventi passati. Non c’è ripetizione possibile. Inoltre, ogni ricostruzione[P] è il risultato di scelte, qualche volta involontarie, ma molto più spesso volontarie. Ogni narrazione del passato è frutto di una selezione consapevole di episodi, protagonisti, dati e cifre, da mettere in primo piano. Non esiste mai, in nessun momento, riproduzione esatta di un tempo trascorso. Tutto quel che è cronaca, narrazione, ricordo, ricerca e tentativo di ricostruzione (e i risultati connessi) – che riguardino la storia o siano di altro tipo – non riproduce mai come per magia una realtà materiale, qualcosa di concreto che finalmente ci viene restituito identico a com’era stato.

Tali obiettivi sono essenziali per il femminismo che non è per sua natura un insieme di attività fisiche e mentali esterne e separate dalla sfera pubblica e politica; ma al contrario, ne costituisce una componente intrinseca.

Architettura e anarchia

Vorrei ora tornare agli anni ’70 proponendo alcuni lavori di un artista attivo tra America del nord e del sud ed Europa negli anni ’70: Gordon Matta-Clark, il cui nome è legato al gruppo raccolto sotto il nome di “Anarchitettura” – parola

61 che unisce ‘anarchia’ e ‘architettura’, ma anche parola che vuole sottolineare una negazione dell’architettura tradizionale, quella comunemente intesa. Del gruppo facevano parte Laurie Anderson e Trisha Brown, per nominare due delle artiste più famose del collettivo12.

L’obiettivo politico era quello di criticare le speculazioni immobiliari sugli edifici caduti in disuso; quelli che Matta- Clark predilige. Famosi sono gli interventi da lui effettuati su edifici delle periferie caduti in disuso, o nelle zone centrali di alcune città destinati a essere demoliti per fare posto ad altre costruzioni13.

L’architetto anarchico divide gli edifici delle periferie a metà, per poi risistemarli tagliati e riproporli in questa nuova versione. Ricicla materiali di scarto e costruisce muri di spazzatura. Interviene in alcuni edifici – per esempio nel luogo dove c’erano i vecchi mercati de Les Halles a Parigi, nei due edifici del XVII secolo del Marais prima che ci costruissero il Centre Pompidou, e pratica degli enormi buchi che lasciano entrare la luce. Ripropone porte vecchie, paratie, e le espone senza migliorarle. Il risultato è quello di ottenere un valore aggiunto a questi edifici destinati alla demolizione: creare nuovi rapporti tra le persone che un tempo, prima che lui li modificasse, affrettavano il passo quando si trovavano a camminare accanto a questi edifici. Dopo il suo intervento, i passanti li guardano in un modo completamente diverso, come se fossero attuali, rinnovati e non dismessi come vecchi abiti. Matta-Clark mette in mostra ciò che c’era dentro e lo ripropone all’esterno; un po’ come faceva Piranesi. In un modo che ricorda molto da vicino quanto ha fatto il femminismo, che ha rovesciato il modo di guardare a uomini, donne, famiglie, istituzioni, tradizioni. Il femminismo ha rivelato fenditure e legami inscindibili nelle relazioni umane; le ha letteralmente sbriciolate, scomposte e ricomposte, decostruite e ricostruite in maniera diversa; le ha portate alla ribalta pubblica e politica. Qualche decennio più tardi pensiamo a questi rovesciamenti come a esperienze che hanno lasciato dei vuoti immensi e incolmabili.

Vorrei accennare a un’altra immagine più recente, quella dell’artista colombiana Doris Salcedo, intitolata Shibboleth. Si tratta di una installazione fatta nella sala delle turbine della Tate Modern di Londra tra la fine del 2007 e il 2008: un’ampia fenditura attraversa il pavimento e spacca la terra. È uno squarcio profondo lungo 167 metri, che attraversa l’immenso spazio d’ingresso per accogliere i visitatori; è descritto dall’artista come la ferita aperta tra nord e sud, una lacerazione lasciata dal razzismo, dal colonialismo, dalle politiche neo-liberali. Si tratta anche della ripresa – nel titolo – di un termine biblico, usato da Paul Celan in una poesia commentata da Derrida nel saggio dallo stesso titolo. Questa parola che allontana e avvicina a un tempo, che separa e identifica, che denuncia e trae in salvo. Shibboleth non può avere un significato unico, come la fenditura di Salcedo; la quale è composta di due bordi che si aprono e si richiudono, si allargano e si restringono, ferite aperte e superfici chiuse: così sono i luoghi di oggi, che si possono attraversare o venirne respinti; che uniscono e separano, come le frontiere tra gli stati. Così hanno fatto i visitatori, soprattutto i bambini che saltavano continuamente da una parte all’altra della fenditura; qualcuno è anche caduto dentro.

Queste e altri esempi provenienti dalle arti indicano un cammino che si inoltra tra i detriti degli anni ’70 e le catastrofi dell’ultimo decennio, per ricostruire senza cancellare le fratture passate e recenti, ripulendo qualche mattone, restaurando un muro, introducendo delle parti nuove laddove quelle precedenti non esistono più. Paradossalmente, riusciamo a vedere con maggiore chiarezza la realtà delle nostre esistenze, la quotidianità sempre più difficile, proprio quando sembra saltata per aria o nascosta sotto le macerie.

Tra storia e fantasia

Vorrei riprendere alcuni spunti accennati in precedenza in quest’ultimo paragrafo, per sottolineare l’importanza che a mio avviso rivestono i temi di cui sopra, relativi al confronto con la tradizione dal punto di vista delle costruzioni narrative del femminismo che si sono prodotte nei diversi decenni che ormai ci separano dagli anni '60 e '70. Un elemento da evidenziare riguarda la relazione che si stabilisce tra le rovine e la nostalgia, come ha suggerito in un saggio su Piranesi Andreas Huyssen, che ne commentava lo straordinario fascino. Nelle incisioni piranesiane, scrive Huyssen, emerge una stupefacente capacità di prefigurare una modernità dalla quale sono assenti le idee di progresso, geometrie regolari e percorsi lineari, evidenti nelle Carceri d’invenzione e nei disegni sulle antichità romane. Piranesi ritrae scale sovrapposte, passaggi contorti, travi spezzate, ruderi. In un saggio famoso del 1962, Marguerite Yourcenar aveva sottolineato che queste opere rappresentano “la negazione del tempo, lo sfalsamento dello spazio, la levitazione suggerita, l’ebbrezza dell’impossibile raggiunto o superato” 14. Scrivendo intorno a come in occidente sia presente una vera e propria ossessione per le rovine, Huyssen osserva come il fatto che “nel corpo della rovina il passato sia allo stesso tempo presente nei suoi resti e ormai non più accessibile, fa sì che la rovina provochi una nostalgia particolarmente forte”. Questa attrazione è “parte di una riflessione più ampia relativa a temi che risuonano con grande potenza evocativa negli ultimi decenni relativi a memoria e trauma, genocidio e guerra. 15”

62 Per questi e altri motivi riguardanti più da vicino l’esperienza storica del femminismo, ho spesso cercato di mettere in luce l’importanza di lavorare sui resti, vale a dire: di rielaborare e riutilizzare ciò che rimane di quella esperienza, conservandone le parti migliori mentre si cerca di riparare a quelle danneggiate o troppo invecchiate; come una modalità di rimanere produttive e che continua dopo che il femminismo è passato16.

Di che si tratta, nel concreto? Di insistere su quello che a me sembra uno dei compiti più grandiosi che le tante tappe della battaglia per i diritti e il voto prima, e il femminismo poi, hanno avviato: individuare gli infiniti elementi di svariata origine e natura (biologica, sociale, storica, culturale) che concorrono a disegnare il mosaico della femminilità come un insieme di differenze specifiche – alcune centrali, altre periferiche – le quali, seppure con difficoltà, convivono e coesistono sotto l’ampio mantello di una differenza principale. Qualche decennio di pratiche politiche e di teorie femministe ha infatti prodotto una completa scomposizione e attraversamento critico dei significati che si attribuivano a parole come ‘donna’, ‘materno’, ‘sessualità’,’ identità’, ecc. Nel corso degli anni ’70 sono stati scardinati stereotipi tradizionali e raffigurazioni antiquate, e nei decenni successivi alcune di noi hanno continuato a lavorare su ciò che rimaneva, sui resti.

Intendiamoci, il residuo non è uno scarto, né un detrito; i residui non sono cumuli di rovine di cui occorre disfarsi; ma un lascito potenzialmente durevole nel tempo. È una eredità preziosa per chi la vuole raccogliere; un impegno di responsabilità a ragionare su ciò che rimane rifiutandone la cancellazione. Anche i ragionieri distinguono tra residui passivi e attivi; e sono questi ultimi quelli che formano la riserva da reinvestire.

Il risultato di questo lavoro sui resti, che con alti e bassi alcune e alcuni di noi cerchiamo di svolgere da qualche decennio a questa parte, non è stato quello di trovare nuove definizioni identitarie, anche se qualcuna ha pensato che si trattasse di questo; bensì di mettere in discussione l’idea stessa di identità, di sessualità, di maternità, di femminile e di maschile in quanto entità ben definite e definibili, fissate nei loro significati una volta per sempre. Insistere sulle differenze ha significato porre in questione l’identità, non fantasticare su una sua presunta e certa localizzazione; metterla al centro di una interrogazione permanente che attraversa le esperienze della storia e della vita quotidiana.

Ed è da qui, credo, che si originano i tanti immensi dilemmi riguardanti la rappresentazione, il compito e la funzione di rappresentare. Quello che ho chiamato il mosaico della femminilità non è riducibile a un profilo preciso, a ruoli unici, a caratteristiche permanenti e immutabili. Molto più degli uomini, lo sappiamo bene, noi siamo continuamente costrette a giocare su più tavoli, a mascherarci, a rappresentarci e rappresentare ogni volta in forma mutata aspetti (esperienze, stereotipi, miti, normative) che fino a poco prima sembravano immutabili.

Lavorare sui resti vuol dire fare attenzione a dettagli a prima vista impercettibili, a ciò che sta ai margini; ad attraversare piuttosto che a rivendicare l’esistenza di aree protette, alle trasformazioni di ciò che sembrava immutabile e invece muta continuamente sotto i nostri occhi; una fatica estenuante, ma vitale e inevitabile per chi insiste a scommettere sui paradossi della politica, della storia, delle pratiche sociali e culturali. Questa attività ‘sui resti’ vale per le differenze tra le donne e tra donne e uomini; vale anche per come lavorare intorno ai temi della memoria. E che altro è l’attività del ricordare se non una incessante rielaborazione, selezione, valorizzazione, di ciò che riteniamo importante da conservare? Cosa sono le tracce, se non dei residui che vogliamo recuperare? E come?

Sono problemi posti fin dagli anni ’60 e ’70, quando Foucault introdusse nel dibattito teorico il concetto di ‘archivio’, inteso come una indagine e una interrogazione aperta sulle genealogie del presente; e successivamente Derrida li sviluppò nel suo Mal d’archive (1995). In questo testo, il filosofo algerino ricorda che la parola ‘archivio’ rinvia allo stesso tempo al ‘cominciamento’ e anche al ‘comando’, sia a un elemento di carattere storico che a un principio di natura nomologica; egli osserva inoltre che “oggi niente è meno certo, niente meno chiaro della parola ‘archivio’”, “niente è più torbido e conturbante”; e aggiunge: “l’archivio riserva sempre un problema di traduzione” 17.

L’archivio non è un luogo depositario di verità inconfutabili; né dobbiamo impegnarci in una ricerca ingenua di prove chiare e definitive, nell’ansia di legittimazione e nella pretesa di raggiungere una improbabile coerenza. Sebbene l’atto di archiviare esprima un desiderio di chiusura e sistemazione, esso è sempre accompagnato da un altrettanto forte impulso all’interrogazione; non quindi un mero contenitore e ricettacolo di tracce, ma un punto di incrocio, occasione per rimetterne continuamente in discussione i contenuti. Ecco quindi che ogni momento dell’archiviazione, ciascuna aggiunta o riapertura, modifica il significato stesso dell’archivio, proponendo non tanto la statica condizione di un insieme di memorie passate da riordinare, bensì un’idea di movimento, di futuro, problemi su cui indagare ulteriormente18.

63 ‘Lavorare sui resti’ significa essere consapevoli che nelle parole che indicano rifiuti, residui, rovine, si vogliono indicare insieme le cose che rimangono e quelle che vengono scartate. Vale a dire che si indica da un lato un sovraccarico, un eccesso, un di più; e dall’altro lato quel che non si assimila né si integra ed è ricacciato fuori. Resti e rovine, nei loro vari significati e sfumature, sono divenuti la materia essenziale di cui si alimentano molte riflessioni politiche sulla società presente. Esse non vanno tuttavia intese come fine della politica o della storia, bensì come potenziali frammenti da utilizzare, poiché costituiscono, come scriveva Michel de Certeau all’indomani del maggio ’68, la testimonianza di un impensato che si è prodotto anche se ormai sembra scomparso: mentre segnalano una distanza dagli eventi passati di cui tenere conto, al tempo stesso indicano una possibile apertura verso uno spazio di resistenza entro cui agire19.

Rileggendo la famosa tesi di Benjamin sull’Angelus novus di Klee, Franco Rella ha osservato: “dato che l’angelo volge la schiena al futuro e guarda le macerie, ed è preso da un vento, che spira dal paradiso e lo spinge appunto verso il futuro, vediamo chiaramente che questo vento viene dal paradiso stesso: che il paradiso, se c’è, è tra le macerie, nelle rovine. Se dunque c’è una possibilità di salvezza, se c’è una possibilità di verità, questa sta in mezzo alle rovine. È qui che dobbiamo guardare20”.

Si tratta di spunti e tematiche importanti se vogliamo ragionare sui modi con cui si racconta e si fa la storia del femminismo nel nostro paese; la quale – a differenza di quanto da tempo leggiamo proveniente dall’ambito anglofono e francese, ma non solo – è stata caratterizzata da una scarsa analisi sulle caratteristiche di tali narrazioni, e da una insufficiente riflessione sulle conseguenze che tale mancanza ha significato rispetto al problema della trasmissione dell’esperienza femminista21. Come risultato, in Italia si contano solo un certo numero di ricostruzioni fatte da donne che appartengono alla generazione di femministe degli anni ’70, mentre poche, anche se cominciano a esserci, sono quelle dovute a donne appartenenti a generazioni successive22.

Volendo suggerire alcune figure prevalenti di queste elaborazioni, direi che negli anni ’70 ogni ricostruzione o anche narrazione relativa alla esperienza delle donne e al femminismo era caratterizzata da due principali formidabili fantasie onnipotenti, ciascuna delle quali ha alimentato la crescita ed espansione dell’altra.

1. Una per tutte; ovvero: un contenitore unico che raduna l’intero femminile. Questa modalità riflette il desiderio di rappresentare in un insieme onnicomprensivo tutto ciò che faceva parte della pratica politica e dei referenti culturali intorno a cos’era il femminismo e a come aveva fatto irruzione nella società e nella politica italiana degli anni ’70. Un buon esempio sono le raccolte – preziose e indispensabili – di Rosalba Spagnoletti, di Giuseppina Ciuffreda e Biancamaria Frabotta dei primi anni ’70; un altro esempio è L’almanacco che le edizioni delle donne pubblicarono nel 1978. L’obiettivo era quello di comprendere e rinchiudere in un disegno unitario i principali gruppi e iniziative delle donne; insieme a tutto ciò che facevano e avevano fatto.

2. Tutte per una; vale a dire: dentro ciascuna singola espressione dell’esperienza femminile sono rappresentate anche tutte le altre. Ogni testo – volantino, articolo, saggio, libro – si poneva come modello, espressione, emanazione di fantasia totalizzante; in quanto tale, l’insieme di tutte valeva per ciascuna in quanto includeva l’intero femminile. Così sono considerati buona parte dei documenti cosiddetti ‘fondanti’, quelli riuniti nelle suddette raccolte di Spagnoletti e Frabotta-Ciuffreda. La ragione per cui tali testi sono considerati dotati di spirito ‘di fondazione’ è data dal fatto che essi concentrano su di sé entrambe le modalità descritte, ed è proprio una siffatta duplice potenzialità di funzioni a renderli in qualche maniera inimitabili, incomparabili, insostituibili.

Queste antologie di documenti, nella loro immediatezza e prorompente natura sonora costituiscono un prodotto tipico di una stagione di intensa oralità, ricca soprattutto di formidabili pamphlet, simili a scritture ‘urlate’, che ricordano i testi del situazionismo degli anni ’50-’60, e anche quelli successivi provenienti dai gruppi nati dopo il ‘68. Per il femminismo rimangono esemplari i libretti verdi di Rivolta femminile nei primi anni ’70, i quali sono preziosi perché oltre a concentrare entrambi gli aspetti sopra menzionati, vi aggiungono stile e retorica tipiche del manifesto programmatico, cariche di grande tensione politica e teorica 23. Così anche i cinque numeri di Sottosopra che comparvero tra il 1973 e il 197824. Entrambe queste fantasie – la totalità che accoglie ciascuna singolarità, e la singolarità che riflette tutto l’insieme – continuano a operare potentemente anche nelle rappresentazioni successive agli anni ’70. Si può dire, senza timore di smentita, che tutto ciò che si scrive e si rappresenta relativamente al femminismo gioca in qualche maniera con questa duplice idea, che di volta in volta può rivelare aspetti di forte ambivalenza, oppure privilegiare una delle due sottintendendo sempre anche l’altra. In realtà, l’una si riferisce soprattutto alle esperienze delle donne, l’altra a cosa sia la femminilità. La prima porta a una strategia di uguaglianza dei diritti, la seconda a quella sulla differenza.

64 Cosa significa questo in termini concreti, relativamente ai modi diversi di fare storia del femminismo, di narrarlo? Che nelle storie delle donne generali, anche se suddivise al loro interno in aree e capitoli diversi, si cerca di dar conto di tutto – ad esempio, i volumi curati da Duby e Perrot sulla Storia delle donne, o anche il volume più recente di Perry Wilson sulle italiane nel ‘900 25. Sono storie ‘tutte per una’, nelle quali si corre di continuo il rischio di un eccesso di amalgama; è il luogo dove le molteplicità e varietà delle esperienze sono sopraffatte dall’intento di generalizzare, di trovare un unico ombrello sotto il quale tutte quante possono trovar riparo. Mentre alcuni testi fortemente individualizzati che esprimono la fantasia dell’‘una per tutte’, si auto-promuovono in quanto tentativo di ridefinire l’insieme della ‘femminilità’ (penso a quelli provenienti dall’ambito teorico, psicoanalitico e filosofico – da Irigaray a Muraro, da Putino a Butler). Proprio nel punto in cui entrambe convergono si colloca il lascito durevole del femminismo e il nucleo prezioso dell’eredità da trasmettere. Quello di riuscire a ripercorrere entrambe le vie è un compito impossibile, ma anche una tentazione ineludibile; dopo tutto, si è trattato di una esperienza nata intorno a un’idea di sconfinamento, di tensione a oltrepassare limiti e divieti, di esaltare la dismisura. A seconda delle circostanze, per chi continua a richiamarsi al patrimonio femminista, il messaggio si può tradurre nell’indicazione a procedere o in un verso o nell’altro.

Un libro recente di Joan Scott che raccoglie saggi scritti di recente – The Fantasy of Feminist History – mi sembra interessante per le questioni fin qui suggerite, dette tante volte anche dalle femministe italiane della mia generazione 26. Scott suggerisce quanto sia importante l’utilizzazione della fantasia e della passione come elementi fondamentali nella messa a punto teorica e nelle pratiche politiche delle donne. Secondo Scott, il femminismo è cresciuto intorno a due modelli femminili di grande potenza e suggestione: la donna oratore (la militante, la protagonista in politica) e la donna-madre. Mentre la prima ha una presa immediata nel desiderio di protagonismo politico e sociale, la seconda si richiama a un ideale di fusionalità che sta alla base del desiderio di solidarietà e sorellanza così importanti per la tradizione femminista attraverso i secoli e nel presente.

L’introduzione dell’idea di fantasia e di desiderio nel lavoro intellettuale (oltre che in quello politico), al di là dei richiami a teorie psicoanalitiche varie, è molto utile in un momento in cui entrambi i modelli suggeriti da Scott sono anche al centro di numerose interpretazioni contrastanti di qua e di là dell’Atlantico.

Personalmente mi sembra affascinante l’idea di mettere la fantasia al servizio delle pratiche. In particolare in Italia, dove per molte ragioni di cui si può discutere, accanto alla fantasia della foemina oratrix si erge – forse ancora più forte – quello della foemina docta o foemina sophista (spesso le due figure appaiono sovrapposte e confuse): colei che sa; spesso coincidente con la filosofa, qualche volta con la psicoanalista.

Cos’è che sa? Qualcosa che tutti vorrebbero sapere – uomini e donne. Qualcosa di molto prezioso per ciascuna donna (e forse ancor di più per ciascun uomo), e che tanto tormentava Freud e Lacan: sa (diciamo piuttosto che presuppone di sapere) cos’è la femminilità. Insomma, mastica teoria; e si sa che in Italia, più che altrove, la filosofia è potente: come arma di potere viene utilizzata nella sfera pubblica soprattutto dagli uomini (l’homo sophistes gode di grande influenza nel Belpaese; sindaco, parlamentare, organizzatore di eventi multimediali, comunicatore televisivo, giornalista acculturato, e molto altro); ma anche le donne non si tirano indietro.

Si è molto parlato negli ultimi anni, in occasione degli appuntamenti di Paestum dal 2012 in poi, di una ripresa della radicalità che aveva caratterizzato il femminismo delle origini. In questo senso confesso di sentirmi molto postmoderna (termine pericoloso da adoperare ma talvolta assai utile) nel senso di non credere nella efficacia di interpretazioni generali e generalizzanti. In una società frammentata, con tutte le principali istituzioni a gambe all’aria e in dissolvenza, è difficile pensare a idee o parole d’ordine unificanti come avevamo potuto proporre quarant’anni fa. O meglio, noi alcune di quelle idee – differenze, solidarietà, giustizia – le abbiamo assimilate e anche trasmesse; ma ormai il campo semantico che le aveva caratterizzate è cambiato[P] molto. Altri significati, altre parole, sono sopraggiunte a modificare la composizione del vocabolario in uso, come hanno mostrato molto bene una raccolta del 2012 intitolata Femministe a parole, e l’anno successivo il Manifesto per un nuovo femminismo 27. Entrambi questi libri cercano di mettere in luce l’insieme di nuove esigenze politiche e teoriche che sono intervenute negli ultimi decenni a modificare il linguaggio, concentrandosi proprio intorno a parole che negli anni ’70 non sarebbero state portatrici di specifiche assonanze e riferimenti particolari – da ‘incertezza’ a ‘inquietudine’, da ‘maternità surrogata’, ‘queer’, ‘velate e svelate’, a ‘femminismo postcoloniale’ e ‘generazioni migranti’. Ancor più originale è il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile[L] che la scomparsa di Alice Ceresa prima di completarlo ha lasciato inedito. Nella sua postfazione, Jacqueline Risset lo definiva, con acuta precisione, “opera di furore e di ironia”28. Alla voce Biologia. Differenze biologiche, Ceresa annota beffardamente: “Codesta curiosa condizione, che riunisce da un lato tutte le femmine e dall’altro tutti i maschi in due potenti schiere genitali, è appunto nota come differenza biologica, e ci affligge oggigiorno soprattutto in campi e ambienti assai lontani da ogni biologica scientificità” 29.

65 Cos’hai perso? [P]

Marinella Manicardi

chili di peso i miei disegni quadro da salotto foto d’infanzia libri prestati quadernone di Filosofia Simposio di Platone il vocabolario dei fiori libro delle barzellette libro di E.A. Poe una libreria intera collezione fumetti di Kriminal la voglia di solitudine progetti a lungo termine il mio futuro certezza del “nido” chiesa-sogno-matrimonio attaccamento cose materiali stabilità la mia serenità tranquillità di sera fiducia me stessa sonni tranquilli parte dei ricordi le mie certezze controllo degli eventi dare per scontato tranquillità-tempo-fragilità l’entusiasmo il nostro paesaggio la mia attività la mia stanza pranzi dalla nonna esame di inglese viaggio a Parigi tanti bicchieri collezione tazzine da tè la mia tazza

66 vasi egizi vasetto del miele bottiglie di vino bottiglia vetro decorato paralume di vetro decorato vaso di rose segugio italiano chiamato “Pelè” un gatto rosso pappagallo anello pupazzo portafortuna bambola di porcellana candela regalo della nonna braccialetto regalato dalla mamma jeans Cheap Monday una maglia blu vestito estivo negozio di abbigliamento metà casa muri di casa le mie pareti arancione casa materna d’infanzia il mio garage l’officina di papà la mia chiesetta la vecchia scuola il chiostro della scuola collezione boccette profumi boccetta di profumo Dior elastico per capelli musicassette dei Who salvadanaio Snoopy il film Blow up coperte d’infanzia flauto scuola media vecchia televisione il mio cellulare tende a fiori macchina del caffè la catenina della nonna ciondolo della collana porta-foto del nonno portachiavi di casa collezione di quadrifogli lo specchio grande la bicicletta narghilè pavone vetro Murano sveglia rossa soldi mio nonno fucile soft-air piantina di cactus il mio armadio tessera studente

67 pallina di New York

chiavi del teatro comunale

Questo cartello è appeso alle transenne che isolano alcuni palazzi del centro storico di Mirandola a due anni dal terremoto. Nonostante il gran lavoro, nonostante la velocità, la volontà di chiudere crepe riaprire finestre aggiustare tetti e cancelli, nonostante tutto ci sono ancora zone del centro transennate scrostate imbrigliate da cavi d’acciaio e tubi che brillano sotto il sole dell’estate padana e tu pensi ma cosa c’entra questo brillio in un paesaggio terroso come questo? E cosa c’entra il terremoto in una zona non sismica? Così dicevamo e invece la terra si è alzata e abbassata come la coda di un drago che fino a quel momento era rimasto tranquillo lì sotto a portarsi sulla schiena case coloniche, condomìni, capannoni, scuole elementari, pioppi e castelli, filari di viti e ospedali, campi da calcio + tribune d’onore, si capisce… poi di colpo ha inarcato la schiena ha sbattuto la coda come per dire Ma cosa c’entra tutto questo presepe sulla mia schiena terrosa, io voglio essere libero di inarcarmi e scuotermi quanto voglio, senza preoccuparmi di città, destini futuri, progetti di vita, di vita? quale vita? ma di chi?

Certo, dal punto di vista del terremoto ondulatoriosussultorio queste tazzine, cornici di foto, cellulari, paralumi di vetro e vasi di rose devono sembrare cose ridicole e inutili, come se l’oceano dovesse preoccuparsi di non ribaltare un materassino sulla riva di Rimini, o l’uragano trattenesse di colpo il respiro davanti a un racconto di Edgard Allan Poe.

Ecco questo è il punto. Questo è il tragico. Il punto in cui lo scontro tragico esplode con una violenza che nessuno si aspettava.

Io accumulo oggetti, affetti, casa, negozio, gatto e librerie e siccome chiamo tutto questo la mia vita, penso che tutto questo, tutti questi oggetti, ma anche lo spazio in cui li metto, l’ordine in cui li penso, questo lo metto qui quello sta bene là, sia eterno e mi sopravviva la mia collezione di tazzine tutte in fila ti ricorderà di me quando io non ci sarò più.

Ma se il terremoto che nessuno ha previsto rompe e sparpaglia e distrugge la memoria in oggetto, degli oggetti che io lascerò per gli altri, io non avrò futuro, tu non potrai ricordarmi.

Mi fosse almeno rimasto quel vaso decorato avrei potuto lasciartelo in ricordo di me di quella volta che

68 Lo sguardo garbatamente feroce di Natalia Ginzburg

Sara Faccini

Nei romanzi di Natalia Ginzburg lo sguardo che osserva e la voce che narra gli eventi sono spesso quelli di una ragazza: una donna che scruta con occhi lucidi e apparentemente svagati ciò che la circonda. Quello sguardo già drammaticamente maturo che, con semplicità, spesso demistifica convenzioni sociali o ipocrite formalità, è molto simile e avvicinabile allo sguardo disilluso con cui la scrittrice interpreta e giudica la realtà. Una disillusione che, come cercherò di evidenziare in questo intervento, può essere ricondotta a una pessimistica consapevolezza che la scrittrice ha maturato e ha visto accentuarsi con l’esperienza della guerra e del fascismo.

Nel 1946 una Natalia da poco uscita dalla guerra e divisa tra la forza e il dolore, scrive nel saggio Figlio dell’uomo[L]:

C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case e adesso non si sente più sicura nella sua casa com’era quieta e sicura una volta. [...] Non guariremo più di questa guerra. È inutile. Non saremo più gente serena, gente che pensa e studia e compone la sua vita in pace. Vedete cosa è stato fatto delle nostre case. Vedete cosa è stato fatto di noi. Non saremo mai più gente tranquilla. […] Noi non possiamo mentire nei libri e non possiamo mentire in nessuna delle cose che facciamo. E forse è questo l’unico bene che ci è venuto dalla guerra. Non mentire e non tollerare che ci mentano gli altri. […] Noi siamo vicini alle cose nella loro sostanza. […] Siamo spinti a cercare una serenità che non nasce dai tappeti e dai vasetti di fiori. Non c’è pace per il figlio dell’uomo1.

Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica più. Chi ha visto le case crollare sa chiaramente che effimeri beni siano i vasetti di fiori e i tappeti. La guerra, i tre anni di esilio trascorsi a Pizzoli col marito Leone e la sua morte hanno segnato una frattura: se prima poteva accadere, ora è diventato impossibile mentire e tollerare che gli altri ci mentano. Queste esperienze hanno accentuato un proposito, vissuto come imperativo morale, già profondamente presente nella scrittrice: l’andare alla sostanza delle cose e il puntare alla verità della realtà sono principi rintracciabili sin dalle sue prime esperienze narrative e riflessioni poetiche.

Scriveva Ginzburg già nel 1935:

Dire la verità. L’artista che scrive deve sempre sentirsi capace di questo. […] L’artista non scrive una frase perché è bella, ma perché è vera. […] Dire la verità. Solo così nasce l’opera d’arte2.

Consapevole dell’opacità del reale e della difficoltà di decifrarla, Natalia Ginzburg mirerà alla sostanza delle cose raccontando storie che ne illuminino alcuni aspetti.

La necessità di un’aderenza alla realtà, realizzata attraverso uno stile asciutto e strutture linguistiche sobrie, sarà sempre fortemente presente nelle riflessioni della scrittrice, che non smetterà mai di interrogarsi sulle ‘parole’: parole che, come scrive nel saggio “Silenzio”, si rivelano sempre più spesso senza valore, incapaci di “stabilire rapporti, [...] acquatiche, fredde, infeconde. Non ci servono a scrivere dei libri, non a tener legata a noi una persona cara, non a salvare un amico”3.

Nel tentativo d’essere fedeli alla realtà e al modo con cui vogliamo descriverla e narrarla, è necessario raccontare solo ciò che si conosce o, meglio, partire da alcuni suoi frammenti per poi estendere lo sguardo e svelarne la complessità. È in questo orizzonte che si inserisce il suo punto di vista in quanto donna.

69 In una conversazione radiofonica con Walter Mauro, sentiremo Ginzburg affermare: “[…] Le donne io sapevo come erano e gli uomini no. Ero una donna, io pensavo che uno scrittore deve scrivere quello che sa proprio bene” 4.

Tale manifesta centralità della sua ineludibile condizione di donna, Natalia Ginzburg la esplicita gradualmente, man mano che si interroga e riflettere circa cosa significhi scrivere. Gli inizi artistici della scrittrice sono infatti caratterizzati da un orrore per l’autobiografia e dal terrore di apparire “attaccaticcia e sentimentale” 5, inclinazioni che alla giovane Natalia apparivano tipicamente femminili: “e io desideravo scrivere come un uomo” 6, scrive nel 1964 ripercorrendo il suo mestiere e, inevitabilmente, la sua vita. L’affermazione è molto forte: il desiderio di scrivere come un uomo era mosso, secondo il mio punto di vista, dal desiderio di non far trasparire nulla di sé e della propria vita, un proposito che mirava al raggiungimento di uno stile distaccato e non a negare la propria condizione di donna. Poco dopo, infatti, la scrittrice che mira alla realtà si accorge che il suo essere donna la porta a indagare e descrivere la condizione che lei conosce profondamente e a non voler più scrivere come un uomo: “avevo avuto i bambini, e mi pareva di sapere tante cose riguardo al sugo di pomodoro e anche se non le mettevo nel racconto pure serviva al mio mestiere che io le sapessi: in un modo misterioso e remoto anche questo serviva al mio mestiere” 7. E superato il desiderio di “scrivere come un uomo” e manifestata l’ineludibilità del suo essere donna, ne La condizione femminile del 1974 Ginzburg sembra proporre di voler superare la categoria di ‘genere’, scrivendo:

Nei nostri momenti migliori, il nostro pensiero non è né di donna, né di uomo. È tuttavia ugualmente vero che su tutto quello che noi pensiamo o facciamo, esiste l’impronta della nostra fisionomia singola, e se siamo donne, i segni femminili del nostro temperamento si stampano sulle nostre azioni e parole. Ma il nostro fine ultimo è quello di raggiungere un dominio dove uomini e donne indifferentemente possano riconoscersi in noi e la nostra fisionomia personale sia dimenticata8.

Un punto di vista che, come evidenzia Laura Fortini in un studio dedicato alle scritture di Alba de Céspedes, Natalia Ginzburg e Anna Maria Ortese, è “posizionamento certo e consapevole assunzione dell’infrazione da parte di Natalia Ginzburg, e tenere […] ferma la rottura dei codici e degli strumenti viziosi del pensiero maschile, perseguita con determinazione […]”9: niente di più lontano da quell’inconsapevolezza che non raramente le è stata attribuita. Un aspetto che viene analizzato e sottolineato anche da Giulio Iacoli laddove, riferendosi alla prefazione al meridiano delle Opere curata da Cesare Garboli, la definisce “davvero ‘troppo ravvicinata’” e “oggi inservibile in non pochi suoi punti, irritante per il protratto, opinabile impressionismo” 10. E anche nella postfazione di Mai devi domandarmi 11 a cura di Domenico Scarpa, seppur siano presenti interessanti chiavi di lettura con cui ripercorrere la poetica e l’opera ginzburghiana, incappiamo nell’aggettivo “dimessa”12, in riferimento alla voce delle prime righe de La vecchiaia o, ancora, alludendo all’appassionata e attenta recensione che fa Ginzburg a Cent’anni di solitudine, leggiamo “[...] non c’è consapevolezza filosofica e nemmeno, al limite, culturale. C’è invece un profondo fastidio percettivo per le abitudini date e mummificate: una ribellione del gusto contro le cose prive di gusto”13. Attribuendo alla scrittrice aggettivi quali “dimessa” e “casuale” o ipotizzando una debole consapevolezza filosofica, anche Scarpa sembra non riuscire ad affrancarsi dai giudizi bifidi che hanno spesso accompagnato la produzione ginzburghiana e tutt’ora ancora la accompagnano.

A mio avviso, percorrendo, studiando e analizzando gli scritti – racconti, romanzi, saggi, articoli, recensioni che siano – di Natalia Ginzburg, non affiora la sensazione di trovarsi di fronte a una scrittura casuale, dimessa e a una scrittrice inconsapevole o guidata, per usare le parole di Garboli, da un punto vista “oscuro, viscerale, primitivo, uterino”14; al contrario, in Ginzburg non sembra esservi parola, frase, o giudizio prive e privo di consapevolezza: il filo rosso che mi sembra unire tutti i suoi scritti è proprio il loro posizionamento certo, un riflettere e uno scrivere che lei matura ed elabora abitando il mondo delle ‘grandi virtù’. Mi domando se talvolta, noi lettrici e lettori non fatichiamo a comprendere la grandezza della scrittrice spinte e spinti dal tentativo di decifrarla attraverso categorie improprie o codici che forse appartengono e afferiscono al piano delle piccole virtù, nelle quali “la ragione parla, sentenzia, disserta, brillante avvocato dell’incolumità personale” 15. Penso che una lucidità d’analisi e una capacità di nominazione – dare un nome alle cose e ai sentimenti e far sì che chi legge si riconosca in essi – quali sono propri di Natalia Ginzburg, non siano né possano essere frutto di una casualità mossa da una qualche misteriosa “forza genitale” 16 o di una, benché fortuita, inconsapevolezza.

Scriveva il suo amico e collega Italo Calvino nel 1961, in occasione della pubblicazione del romanzo Le voci della sera:

Il segreto della semplicità di Natalia è qui: questa voce che dice ‘io’ ha sempre di fronte personaggi che stima superiori a lei, situazioni che sembrano troppo complesse per le sue forze, e i mezzi linguistici e concettuali che usa per rappresentarli sono sempre un po’ al di sotto delle esigenze. Ed è da questa sproporzione che nasce la tensione poetica. La poesia è sempre stato questo: far passare il mare in un imbuto; fissarsi uno strettissimo

70 numero di mezzi espressivi e cercare di esprimere con quello qualcosa di estremamente complesso. Adesso la letteratura tende a dimenticare l’imbuto: si crede che si possa scrivere tutto, si crede che il mare possa essere espresso e comunicato in quanto mare, e non si comunica né mare né niente, solo parole 17.

Le “solo parole” di Calvino ci riportano alle ginzbughiane “parole acquatiche, fredde, infeconde”, inutili in quanto incapaci di descrivere il mondo e “tenere legata a noi una persona cara”. Prima ancora che la realizzazione di uno stile la semplicità ginzburghiana è una scelta di metodo: occorre selezionare, eliminare il superfluo (i vasi di fiori, i bei tappeti, così come le parole vaghe), rifiutare l’infinito mare dell’oggettività indifferenziata affinché si riesca a illuminare ciò che realmente e solamente conta: la verità.

La questione del punto di vista la troviamo evidenziata anche da Marina Zancan nell’introduzione al saggio Il doppio itinerario della scrittura in cui analizza e discute quei paradigmi storiografici letterari attraverso i quali sono stati tradizionalmente trasmessi e interpretati i contenuti culturali. Scrive Zancan:

Porre come questione preliminare alla ricerca quella della necessità di esplicitare qual è l’ottica da cui ci disponiamo nell’osservazione dei fatti della nostra storia equivale in sé a riconoscere la possibilità di assumere punti di vista diversi: quello dominante, interno al potere codificato; o un punto di vista ad esso alternativo, o conflittuale, o dissonante rispetto all’armoniosa coerenza della sua enunciazione. Il punto di vista dominante, capace di flettersi e di articolarsi nella sua unitarietà astratta fino ad assumere l’altro da sé, è per noi ineludibile, sia perché in parte ci appartiene, sia in quanto tendenzialmente ha normato le forme della nostra presenza nella storia del pensiero e in quella della cultura letteraria. Noi dall’interno possiamo interrogarlo, decostruirlo, per capire e descrivere le modalità e le finalità dell’omologazione dell’altro18.

Ed è sempre Zancan che, nell’analizzare la seconda generazione di scrittrici del Novecento, scrive:

Le storie – di crisi, di formazione e di esperienza – sono dunque storie che dall’interno (dei personaggi, delle case, dei collegi, dei cortili) guardano all’esterno, si affacciano alla storia, e la rileggono, la ridicono. È uno sguardo che si rivela spesso curioso, incontaminato, vigoroso, in grado – a differenza in questo della letteratura della crisi a firma maschile – di passare con leggerezza tra le rovine del vecchio mondo, di raccontare in positivo la caduta delle certezze e dei valori, di descriverla con pienezza dall’interno della propria esistenza, ma guardando altrove, come in attesa di altro19.

La parole di Zancan ricordano il modo di procedere – decostruendo e ricostruendo – di Ginzburg e delle sue personagge e quel “passare con leggerezza tra le rovine del vecchio mondo” rievoca la definizione di “garbata ferocia” che usò Calvino nel riferirsi allo stile della sua amica e collega scrittrice.

Garbatamente determinata e incurante delle perplessità che potrebbero suscitare le sue scelte stilistiche o il punto di vista da cui decide di osservare gli arabeschi tracciati dal vero, Ginzburg riesce a trasformare la propria storia personale nella storia di ciascuna e ciascuno di noi, realizzando, a mio avviso, una coraggiosa equivalenza tra la dimensione estetica e quella etica: la scrittrice narra i drammi silenziosi e gli eroismi nascosti delle sue personagge e personaggi dentro le vicende della Storia, guardando e raccontando il destino di ciascuno in relazione al destino degli altri esseri umani nella convinzione che “vi è una certa monotona uniformità nei destini degli uomini” 20.

Leggiamo della monotona uniformità dei destini umani e “[delle] nostre esistenze che si svolgono secondo leggi antiche e immutabili, secondo una loro cadenza uniforme e antica” 21 in Inverno in Abruzzo[L], toccante ricordo del confino che la scrittrice trascorse in Abruzzo, a Pizzoli, insieme al marito Leone.

Scrive Ginzburg:

Quando venni [a Pizzoli], nei primi tempi i volti mi parevano uguali, tutte le donne si rassomigliavano, ricche e povere, giovani e vecchie. […] Ma poi a poco a poco cominciai a distinguere Vincenzina da Secondina, Annunziata da Addolorata, e cominciai a entrare in ogni casa e a scaldarmi a quei fuochi diversi. Quando la prima neve cominciava a cadere, una lenta tristezza s’impadroniva di noi. Era un esilio il nostro: la nostra città era lontana e lontani erano i libri, gli amici, le vicende varie e mutevoli di una vera esistenza. [...] C’è una certa monotona uniformità nei destini degli uomini. Le nostre esistenze si svolgono secondo leggi antiche ed immutabili, secondo una loro cadenza uniforme e antica. I sogni non si avverano mai e non appena li vediamo spezzati, comprendiamo a un tratto che le gioie maggiori della nostra vita sono fuori della realtà. Non appena li vediamo spezzati, ci distruggiamo di nostalgia per il tempo che fervevano in noi 22.

Convinta che il mestiere di scrittore è un mestiere tiranno, un mestiere che rifiuta di farsi adoperare come strumento

71 di consolazione, Ginzburg non scrive per superare un dolore, bensì racconta la propria dura esperienza personale consapevole di narrare un destino che è in fondo di molti.

Ed è nel 1945, un anno dopo Inverno in Abruzzo, che la scrittrice ricorderà l’esperienza bellica partendo dalle cose più umili per poi passare, attraverso riflessioni più ampie, a interrogare la condizione umana.

Leggiamo un brano tratto dal saggio Le scarpe rotte[L]:

Io ho le scarpe rotte e l’amica con la quale vivo in questo momento ha le scarpe rotte anche lei. […] E per questo stiamo bene insieme. Io appartengo a una famiglia dove tutti hanno scarpe solide e sane. […] Quando torno fra loro, levano alte grida di sdegno e di dolore alla vista delle mie scarpe. Ma io so che anche con le scarpe rotte si può vivere. […] Con la mia amica discorriamo a lungo di come sarà il mondo allora, quando io sarò una vecchia scrittrice famosa e lei girerà per il mondo con uno zaino in spalla, come un vecchio generale cinese, e i miei figli andranno per la loro strada, con le scarpe sane e solide ai piedi e il passo fermo di chi non rinunzia, o con le scarpe rotte e il passo largo e indolente di chi sa quello che è necessario. […] La mia amica qualche volta dice che è stufa di lavorare, e vorrebbe buttar via la vita ai cani. […] Dice che lo farà quando sarò partita. Perché la nostra vita comune durerà poco, presto io partirò e tornerò da mia madre e dai miei figli, in una casa dove non sarà più permesso di portare le scarpe rotte23.

Alternando i ricordi[P] di un ‘prima’ alle prospettive del ‘dopo’, la scrittrice ci rivela l’insegnamento più importante tratto dall’esperienza della guerra: “io so che anche con le scarpe rotte si può vivere”. Attraverso l’immagine di un paio di scarpe rotte, “correlativo oggettivo del legame con l’io autoriale” 24, Ginzburg rievoca il periodo trascorso a Roma sotto l’occupazione nazista: un’esistenza logora e precaria ma, al contempo, decisa nel voler proseguire la sua ricerca e il suo percorso esistenziale.

Tutta la produzione ginzburghiana è caratterizzata da un alternarsi costante e puntuale dal particolare al generale, e dal concreto all’astratto; a tal proposito, penso possa essere interessante ricordare un’esperienza che la scrittrice fece insieme all’amica Clorinda Gallo. Nel 1978 Ginzburg e Gallo iniziarono a lavorare insieme a un’antologia per le scuole medie: La Vita. L’antologia era suddivisa in voci, organizzata secondo quelle categorie esistenziali che rappresentano i momenti essenziali della vita umana: Nascere, Infanzia, Malattia, Amore, Dolore, Famiglia, ecc. La decisone di studiare e spiegare la Letteratura a partire dalle funzioni elementari, concrete dell’esistenza umana non riscosse successo e l’antologia, dopo la prima edizione, non fu più ristampata. Quando la casa editrice propose di ripubblicare l’antologia conservandone le note e l’introduzione ma sostituendo le voci concrete con dei termini astratti25, le due autrici rifiutarono di apporre le modifiche anche se questo comportava la non ripubblicazione dell’antologia. Ho voluto ricordare l’esperienza dell’antologia La Vita poiché penso che la decisione di studiare la Letteratura organizzando autrici e autori e la loro produzione letteraria sulla base di termini indicanti quelle azioni e quelle categorie che meglio rappresentano la vita umana, ci riconduca al bisogno di concretezza che caratterizza l’intera produzione ginzburghiana. Spesso, seguendo le vicende dei suoi personaggi e personagge così come la scrittrice nelle sue riflessioni, sembra di avvertire, all’interno della quieta narrazione, un alto senso di necessità: la necessità di partecipare alla tragedia collettiva. Leggendo dell’esilio a Pizzoli, dell’esperienza bellica o dell’immediato duro dopoguerra attraverso l’immagine di una paio di scarpe rotte o il ricordo di Vincenzina e Annunziatina, sono portata a pensare che Natalia Ginzburg, col suo narrare apparentemente leggero e consapevolmente posizionato e con le sue parole che non vogliono e non possono mentire, stia compiendo un atto politico, nel modo in cui l’arte può esserlo: denunciando i persecutori, la violenza, l’arrogante superficialità che domina il mondo affinché questi vengano smascherati e giudicati. Contrapponendo le grandi virtù – le uniche che ci permettono di scoprire la nostra vocazione per poi “conoscerla, amarla e servirla con passione”26 – alle piccole[L], così vili e paurose di vivere, ricercando caparbiamente parole “capaci di stabilire rapporti”, mirando a un pensiero in cui tutte e tutti possano riconoscersi e ricordandoci che “ogni azione umana è sempre male o bene, verità o menzogna, carità o peccato” 27, è qui che Ginzburg fa dell’arte un atto politico, nella misura in cui si rifiuta di usare “parole acquatiche” che mentono e mistificano le meschinità e le violenze che dovrebbero invece raccontare, continuando con caparbia determinazione a interrogare la condizione umana.

Scrive Fortini nel citato studio dedicato a de Céspedes, Ginzburg e Ortese:

Le loro scritture poetico-politiche hanno le caratteristiche di una messa in gioco a partire da sé, che evita volutamente qualsiasi astrattezza che non sia quella etica, ma si tratta di un’etica sempre declinata sul piano di un ‘intimo globale’ […]. Scritture poetico-politiche perché in esse le ragioni della letteratura, ovvero l’amore per il come dire, il modo del dire, si incontrano con le ragioni della politica, intesa come osservazione del mondo e appassionamento a esso […]28.

72 Natalia Ginzburg, riflettendo sul mestiere di scrittore, afferma: “lo scrittore si è chiesto se scrivere era per lui un dovere o un piacere. Stupido. Non era l’uno né l’altro. Nei momenti migliori era ed è per lui come abitare la terra” 29.

Dal mio punto di vista rileggere Natalia Ginzburg ci può aiutare ad abitare meglio la terra: in una realtà come quella contemporanea sempre più inabitabile, sostenuta e alimentata da finzioni e parole vuote e spesso interpretata attraverso categorie mistificatorie che, lungi dal mostrarcela più nitida, la rendono ancora più opaca, la lezione della scrittrice risulta molto attuale e preziosa.

Possiamo ricorrere alle parole che Ginzburg scrive alludendo a Cent’anni di solitudine, riferendole, però, alla scrittrice stessa e ai suoi scritti: “i romanzi veri hanno il prodigio di restituirci l’amore alla vita e la sensazione concreta di quello che dalla vita vogliamo. I romanzi veri hanno il potere di spazzare via da noi la viltà, il torpore e la sottomissione alle idee collettive, ai contagi e agli incubi che respiriamo nell’aria. I romanzi veri hanno il potere di portarci di colpo nel cuore del vero”30.

Anche qui sta la lezione di Natalia Ginzburg: un importante aiuto nel tentativo odierno d’orientarci nel mare dell’oggettività indifferenziata per differenziarla. Con la speranza di riuscire a riconoscere e a perseguire non solo le piccole ma soprattutto le grandi virtù.

73 Le mamme di Fukushima

Giuliana Carli

L’11 marzo 2011 la terra trema in Giappone scuotendo da nord a sud le isole dell’arcipelago, ma l’epicentro è nel nord est, nella zona del Tohoku si registra una scossa di magnitudo 9. Segue allerta tsunami, che arriva puntuale, poi salta la centrale nucleare n. 1 di Fukushima, 11 reattori vengono colpiti dal sisma.

Due mesi dopo le vittime accertate sono 15.057, i dispersi 9.1211. Di malati per le radiazioni ancora non si parla.

A Fukushima i sopravvissuti al terremoto sono stati decimati dallo tsunami, e i superstiti cercano ora di sopravvivere alle radiazioni. Il coincidere di tanta violenza della natura con quella armata dall’uomo, che vogliamo ancora immaginare non intenzionale, non ha precedenti.

Non c’è un lutto[P] più doloroso di un altro, ma quando una serie luttuosa di eventi si sussegue, togliendo il respiro e lasciando a chi resta un senso di impotenza soverchiante, per voler vivere-nonostante-tutto si può ripartire solo dalla fiducia nel divenire.

Il 22 ottobre 2013 la terra ha tremato ancora, violentemente; l’allarme tsunami codice giallo ha annientato in pochi minuti due lunghi anni di tentativi fatti, con bambini e adulti, per allontanare gli incubi della morte, della sete, dell’abbandono.

Qualsiasi forza residua animi i superstiti di quell’esperienza, da sola non basta a ricostruirsi e ricostruire[P] : ha un disperato bisogno di sostegno, di ascolto e solidarietà, di lavoro e comprensione degli eventi; servirebbero competenze mediche, scientifiche, e di estetica, intesa come disciplina da contrapporre nella teoria e nella pratica all’angoscia dei lutti.

Di tutto questo, possiamo offrire un nulla rispetto ai bisogni, tuttavia ogni tentativo onesto di vicinanza viene accolto con commovente riconoscenza da chi teme di restare isolato nella tragedia, sia essa personale o di un'intera comunità. In questa direzione va l’unico sforzo possibile a tanta materiale distanza: prestare una voce perché arrivi la loro.

Il Giappone, estremo oriente geografico, evoca spesso la necessità di una specifica culturale; qui appare superflua, per la specificità di alcuni eventi vissuti al femminile in una dimensione immediatamente condivisibile.

L’incontro con le donne di Fukushima non è stato casuale. Passata la prima ondata di dolore e attivismo a distanza, sfociata in una miriade di iniziative per l’invio di aiuti materiali, chi da sempre aveva contatti con quella terra lontana ha mantenuto un rapporto costante, ognuno il proprio, con l’evolversi dei fatti. Per caso, poi, per ovviare ad un prevedibile ostacolo di comunicazione, si è resa necessaria la presenza a Roma di volontari che conoscessero il giapponese.

Volontarie, io ed altre, lo siamo diventate, con rapido coinvolgimento. Chiunque lo avrebbe fatto quando un sabato di giugno del 2011 arrivarono a Roma due mamme con una bimba di quattro anni e un maschietto della stessa età.

74 Dopo di loro, una trentina di mamme con i loro bambini si sarebbero alternate sino a fine settembre. Tutte avevano aderito al programma di solidarietà organizzato da ENIT (Ente Nazionale Italiano per il Turismo, con sede anche a Tokyo) e dall’associazione Italian Friends for Japan. Ottima cosa aver tempestivamente stanziato i fondi, sarebbe stata necessaria anche una maggiore cura del viaggio e del soggiorno di queste donne, ma forse i tempi stretti non hanno consentito di preventivare le difficoltà ovvie che si sono presentate non appena sbarcate a Fiumicino. Così è stata data a noi la fortuna di incontrarle.

Nessuna di loro parlava italiano, né era mai stata in Italia. Atterrate in un paese sconosciuto, frastornate dalla loro stessa risolutezza che le aveva spinte fin qui con bagagli piccoli e solo una vaga idea di quel che avrebbero trovato, a dar loro il coraggio di affrontare l’incognito, mediando con la preoccupazione e la nostalgia per gli altri cari lasciati nella terra ferita e quasi certamente contaminata – allora molte verità non erano ancora note – è stata senza dubbio la certezza di poter dare ai bambini momenti di serenità e speranza.

A partire dalla gratitudine mostrataci per poter parlare nella loro lingua ed esprimere i bisogni essenziali, per finire con il sorriso che finalmente in alcuni momenti si stampava improvviso sui loro volti – e che con repentino cambio diventava a volte pianto, a volte muta preoccupazione – abbiamo condiviso il possibile, qui, lontano dalla terra che trasudava morte e malattia.

Chiameremo le bambine Momo e i bambini Taro, e tutte le mamme che abbiamo incontrato solo okaasan (mamma). In effetti, avevano tutte un tratto materno in comune: la preoccupazione latente e ben celata che i piccoli potessero essere stati contaminati.

Nel rispetto del pudore e del ritegno che ognuna di loro mostrava nel parlare della tragedia, non riferiremo tutto quanto a fatica ci hanno detto, o è stato possibile comprendere dalle loro parole, mentre possiamo cercare di trasmettere le sensazioni intense e le cognizioni inaspettate che l’incontro con loro ci ha lasciato.

Dopo l’11 marzo 2011 abbiamo tutti cercato di capire, scientificamente e umanamente, quanto fosse accaduto. Grazie al web e ai media, dopo qualche giorno sembrava tutto chiaro; dopo alcune settimane lo era tanto da far spavento. Qualcosa di quel che non potevamo immaginare ce lo hanno svelato a poco a poco i loro gesti, le loro reazioni.

Che il suolo fosse contaminato dalle radiazioni provocate dallo scoppio dei reattori nucleari, lo sapevamo. Quel che pur sapendo sfuggiva, è che ai bambini in particolare era stato necessario imporre alcuni divieti: vietato stare all’aria aperta, vietato camminare a piedi scalzi, vietato giocare con la terra, vietato mangiare molte pietanze. Così quando Momo e Taro si sono tolti i sandali rimanendo a piedi nudi sulla sabbia di Ostia, le loro grida di gioia e stupore hanno rivelato quel che telecronache e instant book non potevano raccontare: ad esempio il piacere semplice e negato – forse lì per sempre, viene da pensare ora – di toccare la sabbia e camminare sulla riva del mare. Tenevo per mano Momo sulla battigia, la sua mamma accanto a noi, quando con sguardo e udito all’erta ha detto “Qui non arriva lo tsunami, vero mamma?”.

Sappiamo ora che molte delle mamme e dei piccoli – nel frattempo e fino ad oggi le percentuale delle persone contaminate è aumentata costantemente – che abbiamo incontrato sono risultati positivi al cesio, livelli che richiederanno un monitoraggio a vita e che hanno già prodotto disturbi irreversibili.

Tornata in Giappone, la mamma di Momo nell’ottobre del 2011 scriveva:

Abbiamo traslocato di nuovo, è stata una gran fatica ma mi sembra un sogno ora potermi collegare a internet.

Le analisi delle urine di Momo evidenziavano qualcosa di alterato e abbiamo dovuto ripeterle in un’altra struttura, lei e tutti noi di famiglia. Risultato: mio suocero, Momo ed io siamo risultati positivi al cesio e allo stronzio. Fortunatamente, se di fortuna si tratta, i livelli di Momo sono i più bassi. Pare che chiunque si trovasse nel raggio di qualche centinaio di metri dalla centrale abbia inalato quantità pericolose di sostanze tossiche. A noi è stato detto di fare tutto il possibile per espellerle, terapie a mo’ di esperimento, e tra un mese ripeteremo le analisi. Pensando a quanto avviene nel nostro corpo e a quanto ci dicono di fare, a dove mi trovo, sento il gelo dentro.

Ne ho parlato con mio marito, ed è deciso che rimarremo qui, a Soma.

E nello stesso periodo la mamma di Taro:

75 Taro ha fatto il test all body ed è risultato positivo al cesio. Su 50 bambini della nostra città, solo lui. Perché proprio lui? Io e mio marito siamo sconcertati. Ho chiesto alle istituzioni di fare qualcosa, non solo le analisi a scadenza, mentre il tempo passa e peggiora le cose. Il rifugio dove siamo stati da fine agosto a fine ottobre chiuderà, e noi continuiamo la vita da nomadi. Non è facile trovare un equilibrio. Aspettiamo che ci facciano sapere dove vivere per i prossimi mesi.

Le mamme arrivate da Fukushima avevano aderito volontariamente all’iniziativa, ma anche questo aveva richiesto una forza interiore, che non c’era e andava ricostruita. Ci hanno raccontato di come sia stato difficile all’inizio persino decidere di raccogliere informazioni; il passo successivo sarebbe stato ottenere un documento d’identità, tenendo costantemente a bada un senso di colpa, forte tanto quanto il desiderio di portare, anche per poco, i loro bambini altrove. Un assessore della zona evacuata ci ha detto delle mille difficoltà oggettive a divulgare notizie su questo ed altri programmi simili; per chi avesse deciso, si trattava poi di raggiungere in qualche modo la stazione o un aeroporto per arrivare a Tokyo, preparare bagagli che non si poteva tirar fuori dai cassetti, avere anche una minima disponibilità economica per le spese vive, ma soprattutto rinunciare a dare una mano a chi stava cercando di ricostruire da zero case, lavoro, futuro, e avere in animo di affrontare il biasimo quasi certo di chi restava.

All’arrivo non avevano che piccole borse da viaggio, in alcuni casi con dentro un solo cambio: quanto erano riuscite a mettere insieme. Nel mese, poco più o poco meno, trascorso insieme abbiamo lentamente ma profondamente, per quanto il dolore sordo consentiva, familiarizzato. Le formalità sembravano dimenticate, i bambini giocavano, le mamme erano qui, serene nei momenti rari in cui ci è riuscito di farle sentire ‘a casa’. Ma loro e noi sapevamo che al ritorno una casa non c’era.

A due anni di distanza, questa volta senza la mamma, la bimba che gridava di stupore sulla spiaggia è tornata in Italia, ospite di una famiglia. Il volto gioioso e attento incorniciato dai lunghi capelli neri era scomparso. È vero, i bambini cambiano in fretta, ma quasi non era riconoscibile con il taglio corto e gli spessi occhiali da vista neri. Soprattutto la sua espressione era mutata. Le altre bambine, al vedere la foto che la ritraeva spensierata due anni prima, le si sono fatte intorno gridandole “non sembri tu, torna a sorridere come nella foto”.

Momo forse non immagina ancora quanto la mamma sia preoccupata per il suo futuro di adolescente che s’innamorerà, o potrebbe decidere di sposarsi. Se il matrimonio fosse di quelli “combinati”, frutto di un’incontro consenziente ma organizzato da un intermediario di professione, uno di quelli in cui prima di decidere si prendono e si richiedono informazioni dettagliate sui futuri coniugi, chi accetterebbe di avere come madre dei propri figli una donna contaminata dalle radiazioni? Il matrimonio combinato (o-miai kekkon) è in Giappone un istituto mai tramontato e la preoccupazione della mamma di Momo sarà quella di tutte le altre madri con una figlia nelle stesse condizioni, esattamente come fu per la madri di Hiroshima dopo l’atomica. Pensarlo fa spavento.

Momo nel frattempo aveva avuto una sorellina, ma la mamma, scoprendosi incinta, era disperata: come affrontare una gravidanza quasi certamente a rischio, e se andasse tutto bene, quale futuro dare a una creatura che dovrà da subito essere difesa e tenuta la riparo dal rischio conclamato delle radiazioni?

Io… mi sento confusa. Il dono di una gravidanza, adesso... Al mattino ho la nausea. Mi tormentavo al pensiero che Momo sarebbe rimasta figlia unica, ma, ora, sono davvero felice di essere incinta? Come faccio? So che a Minamisoma sono disponibili 100 rilevatori da polso delle radiazioni per le donne in gravidanza, il monitoraggio prevede che ogni mese ci diano il risultato. Ci sto provando, ma ogni mese recarsi fino ad Haramachi è uno strazio.

Momo ora sta bene e si diverte, stanno preparando il saggio di danza, ma fino all’altro giorno aveva 40 di febbre. È passata.

Trascorsa metà anno dalla tragedia, con l’autunno incipiente e le mezze verità della Tepco e delle istituzioni, la gente del luogo, esasperata e confusa, ha organizzato una grande assemblea pubblica, durante la quale una donna, Ruiko Mutou, si è rivolta ai presenti con un appassionato discorso:

L’incidente di Fukushima resta a gravare sulle spalle dei bambini, dei giovani. La nostra generazione è responsabile di questa verità, e sento dal profondo di volermi, dovermi, scusare con loro. Vi chiediamo scusa, dal profondo del cuore.

Fukushima è un posto meraviglioso. Ad est il lungomare che guarda l’azzurro intenso dell’Oceano Pacifico. Pesche, mele, pere sono il tesoro dei campi prospicienti. Tra il Lago Inawashiro e il monte Bandai si trova la piana di Aizu inondata di spighe di riso dorate, alle cui spalle si susseguono fitte le cime dei monti. È la nostra

76 Fukushima dalle montagne azzurro cupo da cui scorre acqua limpida.

Al confine con la centrale esplosa, in questo paesaggio, invisibili ad occhio nudo, piovono le radiazioni e noi siamo contaminati. Nel caos ci è accaduto di tutto. Siamo stati abbindolati dalla campagna immediata di tranquillizzazione messa in atto, mentre l’ansia cresceva; siamo stati lacerati, divisi a forza e poi riavvicinati dalle circostanze. Quanta sofferenza ci ha travolto, nel calpestare il suolo, nel lavoro, in famiglia, a scuola, ovunque?

Ogni giorno siamo stati incalzati da domande senza risposta e decisioni che non sapevamo prendere. Mangiamo, non mangiamo? Stendiamo fuori il bucato o non lo stendiamo? Facciamo indossare ai bambini la maschera antigas, o no? Torniamo a coltivare i campi o lasciamo stare? Parliamo di un certo argomento, o ci teniamo il peso in silenzio? Abbiamo dovuto di volta in volta fare i conti con ognuno di questi dubbi.

Ora, a distanza di tempo, sono passati giorni e mesi, sei mesi, e ci appare chiaro che:

- la verità ci è stata nascosta

- lo stato non ci protegge

- l’incidente nucleare non è finito lì

- la popolazione di Fukushima è materiale d’esperimento sugli effetti del nucleare

- resta un’enorme quantità di scorie nucleari

- non è bastato il nostro sacrificio, qualcuno ha ancora l’ardire di continuare a sostenere il nucleare

- ci hanno abbandonato

Siamo qui per dire: Non ci prenderete in giro! Non ci ruberete la vita!

Con dolore e orgoglio ci rialziamo. Difendiamo i nostri figli, madri, padri, nonni. La nostra generazione è ancora in tempo a non farsi sottrarre la vita.

Proteggiamo tutti lavoratori cavie esposti a una quantità pericolosa di radiazioni per riparare i guasti della centrale. I contadini disperati di fronte alla terra contaminata.

Leviamoci contro la nuova discriminazione in atto verso i contaminati e gli svantaggiati. Proteggiamo ognuno di noi.

Le responsabilità del Paese e della TEPCO restano blindate. Ora dicono che la centrale non serve più. Noi, adesso, siamo i demoni del nord est, che bruciano di rabbia in silenzio.

Noi abitanti della prefettura di Fukushima, sia quelli che se ne allontaneranno, sia quelli che resteranno, condivideremo angoscia, responsabilità e speranza, continueremo a vivere sorreggendoci a vicenda.

Aiutateci. Non lasciate che Fukushima venga dimenticata…

Ognuno di noi ha il coraggio per cambiare. Riprendiamoci le sicurezze che ci sono state tolte

Come fare a ricostruire un mondo nuovo in cui esistono centrali e contatori geiger? Nessuno di noi può dare una risposta certa. Qualcosa di possibile però c’è: non seguire ciecamente le decisioni di qualcuno che ha deciso per noi, al contrario ognuno di noi può pensare e decidere con la propria testa, aprire bene gli occhi, prendere una posizione su quello che può, con profonda e sincera determinazione. Sono convinta che ognuno di noi ha questa forza.

Allo stato attuale, dopo la verità centellinata ed orribile sul pericolo di radioattività, i bambini rimasti nella prefettura di Fukushima non sono molti, circa duecento. Si occupa di loro come può una volontaria che chiameremo Yoko. Yoko è una donna eccezionale. Si trovava per caso a Fukushima quando c’è stato lo tsunami, era tornata a casa in vacanza per stare con la famiglia. Da quel momento in poi non si è più mossa. Yoko è una donna addestrata al salvataggio di vite umane perché volontaria dell’esercito di autodifesa giapponese. Ha tratto in salvo sé stessa, la famiglia e tutti quelli che ha potuto, tranne un bambino di tre anni: lo conosceva e ha stretto forte la sua mano mentre l’onda lo trascinava, ripetendosi non devo lasciarlo, ma l’onda se l’è portato via. Riesce a parlarne e piangiamo insieme.

Yoko improvvisamente ingrassa di molti chili e perde i capelli, suda senza motivo. Nessuno le diceva cosa avesse;

77 non era possibile per mille lungaggini burocratiche fare le analisi, urgenti, nelle strutture sanitarie di zona. Si è convinta che l’unica sia andare all’ospedale di Hiroshima, dove le hanno diagnosticano una grave disfunzione tirodea. Yoko non si era mai allontanata da quella terra, ma le scorie radioattive non hanno avuto pietà del suo prodigarsi incessante. È l’unica ad occuparsi di counseling, ad ascoltare il dolore e il disagio di tanti. Riferisce che il solo lenitivo per molti consiste negli psicofarmaci. Se ne abusa, comprensibilmente e preoccupantemente. A nominarle l’OMS di Ginevra a cui chiedere aiuto per un intervento sistematico, s’innervosisce: a Fukushima i protocolli non aiutano. Servono piuttosto strutture che diano esiti certi sulle analisi del sangue e delle urine: i più fortunati, a proprie spese vanno a farli lontano da ospedali che non rilasciano cartelle cliniche. Yoko racconta di tante persone, tanti ‘casi’: ha potuto solo abbracciare una ragazza che ha contratto l’AIDS dopo lo tsunami. Padre alcolizzato, madre con disagio mentale acuito dal sisma, la ragazza minorenne se ne va a Sendai, la città, per sfuggire a tutto. Va a letto con chi capita pur di mettere insieme qualcosa per vivere, finché dopo un rapporto non protetto va in bagno e vede sullo specchio la scritta – ad insaputa di lei tristemente nota – “benvenuti nel mondo dell’AIDS”. Yoko la ascolta, disperata. Da qui cerchiamo via internet un ospedale che possa fornire cure a una minorenne sieropositiva. Le cure sono assicurate per un anno. Poi chissà.

A chi è rimasto, o è stato esortato a tornare a Fukushima – perché non c’è pericolo, dicono – viene offerta un’occasione di guadagno, che significa sostentare la famiglia. Ma le famiglie, già decimate dai lutti, conoscono ora spaccature insanabili e ricatti insopportabili: troppo comodo che le donne stiano al riparo mentre il capofamiglia è lì da solo a sgobbare: “torna/vieni o sarà il divorzio”. Questa ingiunzione spesso non arriva dai coniugi, ma da suocere e suoceri che in età avanzata non contemplano la possibilità di ricominciare, e a vivere da soli, ormai, non ce la fanno.

Ho chiesto a Yoko se avesse un desiderio grande: la risposta è stata “tranquillità”. Riuscire a cancellare l’angoscia del domani, non in senso lato, ma proprio poter aprire gli occhi e pensare “oggi sarà una giornata tranquilla”.

Inevitabilmente, tutti si chiedono: perché noi? Perché Fukushima? Alcune risposte ormai hanno preso forma, altre non l’avranno mai. Le donne e tutti i sopravissuti di Hiroshima e Nagasaki continuano a portare la loro testimonianza in giro per il mondo. Vogliamo che anche le donne di Fukushima sopravvivano, e vogliamo aiutarle a parlare.

Finiva qui, stringato e con tanti omissis, la mia/la loro voce all’Aquila nel 2013. Con rabbia e dolore sordo, devo aggiungere quanto è accaduto a Yoko, dopo. Ha contratto un cancro all’intestino, sottoporsi all’intervento è stata un’umiliante, incomprensibile odissea. Yoko a un certo punto ha avuto il sospetto che stessero ‘studiando’ il suo caso, così come molti altri. L’ospedale di zona che le aveva diagnosticato il tumore ha temporeggiato inspiegabilmente, adducendo sulle prime la mancanza di sacche di sangue compatibile per poter procedere. In un mese la metastasi è aumentata a dismisura. Operata infine altrove, con probabilità di sopravvivenza minime, a 38 anni ha lottato e vinto la prima battaglia con la morte. Tornata a casa su una sedia a rotelle e dilaniata dai dolori, ha come unico obiettivo ricreare un centro d’ascolto, perché durante la sua assenza i tentativi di suicidio sono stati numerosi.

78 Fughe ed esili: Poisson d’or di J.M.G. Le Clézio

Giovanna Parisse

Premio Nobel per la letteratura 2008, Jean-Marie Gustave Le Clézio è stato definito con un bel neologismo da Isabelle Roussel-Gillet scrittore ‘métisserand’, parola che contiene per intero in francese ‘métis’ e ‘tisserand’ (tessitore), a significare la profonda interculturalità di questo autore. Per lui, “scrivere o leggere è […] un po’ la stessa cosa: un passaggio attraverso l’altro, e attraverso la voce di quest’altro” 1. L’altro è molto spesso una donna e le figure femminili sono numerose nella sua opera con una “predilezione per le adolescenti e le donne mediatrici fra due culture”. Come dice, infatti, “l’Appel à écriture” per il n. 6 dei Cahiers J.M.G. Le Clézio, Voix de femmes,

non contento d’essere testimone della condizione delle donne in diverse società, il romanziere fa un’intrusione nei territori dell’intimità femminile: relazione con il corpo, sessualità, gravidanza, parto, solidarietà e amicizia fra donne. […] Nell’era in cui le donne hanno conquistato la libertà di dirsi e di scriversi, ecco un nuovo paradosso […]: quello dello scrittore, erede volente o nolente di secoli di “dominazione maschile”, che si avventura in un campo che gli sarebbe a priori estraneo2.

Dall’ascolto e dal vissuto delle voci femminili, Le Clézio ci restituisce personaggi di donna indimenticabili, testimoni della capacità dello scrittore di assumere la formula rimbaudiana ‘Je est un autre’ anche nel senso di genere e Laila, protagonosta di Poisson d’or[L], il romanzo di cui ci occupiamo in questa lettura, ne è sicuramente una riuscita.

Nel contesto del tema delle donne che riscrivono paesaggi violati ho voluto condividere, dunque, una lettura di Poisson d’or, pubblicato nel 1997 da Jean-Marie Gustave Le Clézio3.

Poisson d’or si può ascrivere genericamente fra i romanzi sull’immigrazione, ma è molto di più. Per il titolo, l’autore muove da un proverbio nahuatl che mette in epigrafe: “Quem vel ximimati in ti teucucuitla michin”, che dà, in italiano, “O pesce, piccolo pesce d’oro, stai attento! In questo mondo c’è una grande quantità di reti e lacci tesi per te”. Nella quarta di copertina, l’autore ci presenta così questa sua opera:

Il racconto che leggerete segue le avventure di un pesciolino d’oro del Nordafrica, la giovane Laila, rapita, picchiata e resa quasi sorda all’età di sei anni e venduta a Lalla Asma […]. Alla morte della vecchia signora, otto anni dopo […] Laila deve affrontare la vita, con buonumore e determinazione, per riuscire ad andare fino in capo al mondo.

La voce narrante, il je, l’io, è proprio quella della giovane Laila, è quel racconto in prima persona che si chiama récit in francese, una voce di donna in primo piano, come spesso, si è già accennato, nei testi di Le Clézio 4, un autore che ama le donne e riesce ad entrare con delicatezza nell’animo femminile, condividendone coraggio, paure, passioni. Poisson d’or è, dunque, oltre che un romanzo sull’immigrazione, un romanzo sull’adolescenza e la prima giovinezza, un roman d’apprentissage, insomma, per questa ragazzina che non conosce e/o non ricorda neanche il nome ricevuto alla nascita:

Quando avevo sei o sette anni, sono stata rapita. Non lo ricordo davvero, dato che ero troppo giovane, e tutto ciò che ho vissuto in seguito ha cancellato questo ricordo. Si tratta piuttosto di un sogno, un incubo lontano e terribile, che certe notti ritorna, e mi turba perfino durante il giorno. C’è quella strada bianca di sole, polverosa e vuota, il cielo azzurro, il grido lacerante di un uccello nero, e improvvisamente quelle mani d’uomo che mi gettano in fondo a un grande sacco, e sto soffocando. Sono stata comprata da Lalla Asma.

Ecco perché non conosco il mio vero nome, quello che mia madre mi ha dato quando sono venuta al mondo

79 […]. Tutto ciò che so, è quello che mi ha detto Lalla Asma: che sono arrivata da lei una notte, e per questo mi ha chiamato Laila, Notte. Vengo dal Sud, da molto lontano, forse da un paese che non esiste più. Per me, prima non c’è stato nulla, soltanto quella strada polverosa, l’uccello nero, e il sacco5.

A dispetto del nome ricevuto da Lalla Asma, Laila, Notte, la ragazzina ha paura del buio e della notte: “talvolta mi svegliavo, sentendo la paura entrarmi dentro come un serpente freddo. Non osavo più respirare”. Allora si rifugia nel lettone della sua maîtresse, incollata alla sua schiena robusta, per non sentire più la paura. “Sono sicura che Lalla Asma si svegliava, ma non mi ha scacciato nemmeno una volta, e per questo era davvero mia nonna”, dice Laila con la logica stringente dei bambini6.

Attraverso le vicende di Laila, Poisson d’or si rivela anche un caleidoscopio di luoghi, di interni ed esterni, tanti paesaggi, tante città che si sommano in una geografia disordinata, quasi sconnessa, in questa giovane vita. All’inizio, per la ragazzina traumatizzata, la grande casa del Mellah, il quartiere ebraico in una città del Nord del Marocco, è il luogo in cui trova rifugio e calore e resta per lei così il solo luogo praticabile e sicuro negli otto anni che vi trascorre con Lalla Asma, nonna-maestra e padrona.

Ma, quando si spegne la vecchia signora, Laila diventa un essere in fuga, costretta a riscriversi continuamente un luogo, un ambiente che reinventi i suoi punti di riferimento, persone su cui riporre fiducia, e poi ripartire fino ad arrivare, come abbiamo letto, “fino in capo al mondo”.

Laila, insomma, rinnova sempre il coraggio di riscrivere un paesaggio violato, che è anche, e forse soprattutto, quello del suo corpo, del suo essere violentato e svilito nella più tenera età e poi cercato lubricamente di continuo da uomini, e non solo, che vogliono possederla. Questo romanzo è, dunque, anche molto violento e, dice Gérard de Cortanze, “la violenza è presente in tutta l’opera di J.M.G. Le Clézio. Violenza sul corpo, innanzitutto, fatta di stupri, di sudore, di colpi.” Ne L’Extase matérielle, Le Clézio aveva d’altronde detto: “La vita non è delicata. Brucia come un ascesso, tossisce, raspa e sputa”. E, ricorda ancora de Cortanze, “il sudore è il doppio liquido della violenza, ne è come una sorta di sintomo”7. E il nostro ‘pesciolino d’oro’, Laila, imparerà presto a riconoscerlo, questo sintomo, per sfuggire a quest’altra rete che tenta di imprigionarlo come il sacco del primo rapimento.

Alla morte di Lalla Asma, Laila fugge dalla casa del Mellah, timorosa di incontrare la nuora della vecchia signora, Zohra, di cui aveva avuto modo di sperimentare la durezza, e che avrebbe potuto accusarla di aver lasciato morire la sua maîtresse: “sono riuscita a sgattaiolare dalla grande porta azzurra rimasta socchiusa. Poi ho cominciato a correre per le strade […]. Avevo una grande paura che mi riacciuffassero e mi mettessero in prigione per aver lasciato morire Lalla Asma. In questo modo ho lasciato per non tornarci più la casa del Mellah” 8. La ragazzina esce così dalla grande casa protetta dove aveva vissuto il periodo della sua prima coscienza, senza niente, senza un soldo, col suo vecchio vestitino e a piedi scalzi, senza neanche i suoi orecchini d’oro con le falci di luna Hilal che Lalla Asma aveva promesso di lasciarle alla sua morte e che rappresentano per Laila l’unico indizio, fino a quel momento, per una sua presunta identità.

Laila, la fuggitiva, raggiunge un altro luogo singolare, dopo il quartiere ebreo, il fondouk. Lo ritrova quasi suo malgrado, nel disperato tentativo di sfuggire a Zohra: “Senza che ne fossi pienamente consapevole, i mie passi si sono diretti verso la strada in cui avevo cercato un dottore per Lalla Asma” 9. E il fondouk è molto diverso da tutto quello che la ragazzina aveva vissuto fino a quel momento: “Una casa aperta ai quattro venti, situata in una strada frequentata e ingombra di camionette, di macchine, di motociclette”, con il mercato a due passi dove si trova di tutto, dalla carne alle pantofole, alle verdure, ai secchi di plastica, ai tappeti. Entrando nel fondouk, dice Laila, “sono entrata nella vita della signora Jamila praticante di aborti, e delle sue sei principesse”. Si inserisce facilmente nel nuovo ambiente, tanto da dire, senza esagerare, che quello al fondouk è stato per lei il periodo più felice della sua esistenza fino a quel momento: “Non soffrivo di nessuna restrizione, di nessuna preoccupazione, e trovavo nella signora Jamila e nelle principesse tutto il consenso e l’affetto che fino a quel momento mi erano mancati” 10. Si sente amata, da quelle donne che ingenuamente vede come principesse e prova l’ebbrezza della libertà: troppo a lungo ha vissuto chiusa nel Mellah, si comporta finalmente da vera ragazzina, diventando la mascotte del fondouk. Quello che continua a temere più di tutto è la solitudine e il suo rapimento ritorna come un leit-motif nei suoi sogni. Scivola così nel letto di una delle “princesses”, Houriya, come prima faceva con Lalla Asma, stringendosi forte a lei. Proprio Houriya le parla per prima delle sue possibili origini. Quando Laila le racconta la storia degli orecchini con le falci di luna, Houriya le dice infatti di sapere dove fossero le persone della sua tribù al di là delle montagne, sulla riva di un grande fiume secco. Laila comincia a sognare e a sperare di andarci, laggiù, e di trovare in fondo alla strada bianca la madre che la aspetta.

Nel fondouk, Laila prende “l’habitude de la liberté” e sente come una costrizione il fatto che Mme Jamila la iscriva

80 alla scuola di Mlle Rose, una scuola che vive come una casa di correzione, confessa di non aver imparato quasi niente lì, salvo ad apprezzare sempre più la sua libertà: “mi sono ripromessa allora, qualunque cosa fosse avvenuta, di non lasciarmene mai privare”11. Ma un giorno Laila viene presa all’ingresso del fondouk da due uomini in completo grigio, che la gettano in una camionetta blu con le sbarre ai finestrini e sembra che tutto ricominci: “mi sentivo nuovamente paralizzata dalla paura […] ero di nuovo dentro il grande sacco nero che mi inghiottiva” 12. Il grande sacco nero è un triste refrain nella vita di Laila che a questo punto si ritrova a vivere con Zohra, la nuora di Lalla Asma e Abel, suo marito, che, anche lui, aveva una volta approfittato della bambina quando Lalla Asma era ancora in vita. I due all’inizio si mostrano gentili con lei, ma ben presto prende il sopravvento “le naturel” malvagio di Zohra che la riempie di botte, la riduce alla fame, la tortura, la copre di ingiurie. Degli amici francesi della coppia intuiscono dal suo sguardo la disperazione della ragazza e chiedono a Zohra di mandargliela a fare qualche servizio e, dopo esitazioni e pretesti, la donna è costretta ad accettare. Laila, molto contenta di questo ‘svago’, subisce però un’altra delusione: quando Monsieur Delahaye vuole farle delle foto, lei si accorge del pericolo, riconosce il ‘sintomo’ della possibile violenza. Infatti “sudava, aveva lo sguardo lucido, scrutatore, il bianco dei suoi occhi era un poco arrossato” e chiude la porta dello studio a chiave. Questa volta Laila riesce a salvarsi, a scappare prima di subire la violenza ed è costretta a ritornare a casa di Zohra per non andare mai più dai Delahaye. È questo un momento cruciale nella vita di Laila, un momento di passaggio: “Credo che sia stato da quel giorno che ho deciso di partire, di andarmene il più lontano possibile, in capo al mondo, e di non ritornare mai più. È stato pure a quell’epoca che Zohra ha deciso di fidanzarmi” 13. Questo fidanzamento annunciato si rivela utile alla ragazza. Zohra è più gentile con lei e non la riempie più di botte, le dà abbastanza da mangiare e, addirittura, un giorno le rende solennemente la scatolina conservata da Lalla Asma con i suoi orecchini d’oro. In casa comincia a venire il giovane cui Zohra vuol darla in sposa e Laila finge di stare al gioco. Non fa i bagagli per non farsi scoprire, ma nasconde i suoi pochi risparmi, e anche quello che aveva rubato, nella stanza in cui dorme. Poi mette in atto il suo piano. Un giorno, appena vede rientrare Zohra, getta nel cortile della biancheria pulita. Dice a Zohra che va a raccoglierla, sa che a quell’ora la donna è stanca e ha sonno. Infatti, dopo una piccola esitazione, Zohra dà a Laila la chiave di casa, è troppo stanca, le raccomanda di richiudere bene la porta e di rilavare tutto. Laila chiude in casa Zohra, allontana con un calcio il cagnolino della sua padrona che riceveva più attenzioni e più cibo di lei, getta la chiave nella spazzatura e va via, di nuovo libera, per le strade vuote, nel sole, senza fretta.

Decisa a tornare nel fondouk per salutare Mme Jamila e le sue principesse, subisce un nuovo trauma: trova tutto distrutto e, soprattutto, non trova più le sue protettrici. Viene a sapere da un mercante che si ricorda di lei che Mme Jamila è stata arrestata e che tutte le principesse sono andate via, Tagadirt è andata però a vivere all’altro lato del fiume, in un ‘douar’ chiamato Tabriket e Houriya vive con lei. Laila decide di andarci e il douar Tabriket diventa così un altro luogo/simbolo della sua erranza. La ragazza, timorosa di non essere gradita, non deve, invece, neanche bussare alla porta di casa: Houriya è subito fuori ad abbracciarla e a ripetere il suo nome con le lacrime agli occhi. Anche Tagadirt l’abbraccia e la bacia e Laila è felice: “Mi sembrava di ritrovare una persona amata, una famiglia dopo anni e anni di assenza”14. La vita non è facile in questa nuova tappa, nel douar Tabriket mancano cose essenziali, l’acqua, l’elettricità, e la casa di Tagadirt non è neanche fra le più povere, ma lei è malata, non lavora più, è Houriya a lavorare ed è a lei che Laila chiede di trovarle un lavoro, ma Houriya e Tagadirt sono comunque d’accordo che la loro giovane amica debba andare a scuola, che abbia diritto ad un futuro diverso dal loro e per la ragazza questo significa sentirsi di nuovo amata.

Il douar Tabriket funziona simbolicamente come luogo di passaggio, una sorta di trampolino da cui Laila prenderà il volo per una destinazione veramente nuova, la Francia, Parigi. Sorprendentemente è Houriya che la porta a questa decisione, lei, che aspetta un bimbo, vuol trovare, infatti, una nuova vita e Laila decide di seguirla. Sono tanti i sensi di colpa della ragazza nel lasciare Tagadirt ammalata, ma lei sente un imperioso “appel du large”, un richiamo forte del mare, promessa di una nuova libera esistenza. Ed è così che vediamo le due giovani all’alba sulla banchina del porto di una brutta città moderna, pronte a salire sul battello, lasciandosi tutto alle spalle:

Era così. Partivamo, ce ne andavamo, non sapendo dove, non sapendo quando saremmo ritornate. Tutto quello che avevamo conosciuto se ne andava, scompariva, pensavo alla casa del Mellah, così piccola nel mucchio di case sulla riva del fiume, ormai tanto lontana, su cui stava spuntando il giorno e al villaggio le Tabriket, con le donne che facevano la coda davanti al rubinetto di acqua fredda. Forse saremmo morte, laggiù, dall’altra parte del mare, e qui nessuno ne avrebbe mai saputo nulla15.

A partire da questo momento si fa più evidente la struttura della protagonista di Poisson d’or che, come molti personaggi di Le Clézio, è votata all’erranza. Come è stato già evidenziato da diversi studiosi, Le Clézio scrive la marginalità e tutti questi esseri, nomadi, vagabondi, stranieri, costruiscono la loro esistenza sul movimento che è segno della loro libertà.

La prima destinazione provvisoriamente finale di Laila con la sua amica, è dunque Parigi e “Paris, au début, c’était magnifique”. Ebbra di vita, Laila percorre le strade senza fermarsi, vuol conoscere tutto di questa città “immensa,

81 inesauribile”16. E non guarda solo il ‘décor’, guarda i volti, vuol cogliere tutto, non perdersi i particolari, il bagliore di uno sguardo, un’espressione. È importante, per Le Clézio, lo sguardo, crea un contatto, “croiser un regard”, incrociare uno sguardo, è non allontanarsi dall’altro. Ma Laila è anche in questo caso vittima della sua curiosità/disponibilità e si accorge che il suo guardare può essere frainteso e che uomini che lei aveva guardato l’avevano poi seguita considerandola “una prostituta, una piccola emigrata di periferia che andasse a cercare l’oro per le vie del centro” 17. È ormai attenta e riesce a sfuggire quasi sempre a queste reti, ma deve difendersi anche dalle donne.

A Parigi conosce comunque il mondo, migranti di ogni lingua e di ogni colore con tante storie da raccontare, tanta musica da suonare, tanta ricchezza umana da donare. Laila fa dunque anche incontri meravigliosi, come quello con El Hadj, nonno del suo amico Hakim. Questo nonno malato, ma saggio, parla tanto con Laila di tutto, la apprezza e la tratta come se fosse realmente la sua nipote morta, Marima. Morendo, questo nonno lascia alla sua giovane amica/nipote il passaporto che aveva ottenuto per Marima e che aveva conservato per lei. Laila capisce la grandezza di questo dono e sente gli occhi riempirsi di lacrime, come non le era più capitato dalla morte di Lalla Asma: “Mai nessuno mi aveva fatto un regalo simile, un nome e un’identità […]. El Hadj non si era sbagliato neppure una volta. Non mi chiamava Marima, perché aveva perso la testa, ma perché era tutto quello che aveva e voleva regalarmi, un nome, un passaporto, la libertà di andare”18.

La libertà di andare che El Hadj le dona, servirà davvero a Laila per andare in capo al mondo, complice la sua passione per la musica, la naturale propensione a sentirla dentro di sé e a saperla ridonare agli altri. In principio è la voce di Sara a colpirla, ascoltata a Nizza e diventata poi sua amica, una voce che “scivolava su di me come una carezza”19. E Laila arriva fin negli Stati Uniti, dapprima ospite di Sara e del suo compagno, e la musica diventa per lei, quasi per caso, anche fonte di guadagno. Ma ancora una volta, ecco che tutto crolla, a due passi dal suo possibile riscatto, Laila conosce la deriva, fin quasi alla distruzione, fin quasi alla morte. E poi, finalmente, con l’aiuto di un’infermiera che lei chiama dentro di sé Nada, “une Indienne Juanera” che la protegge e infine la salva, alla quale lei dona in ricordo il vecchio libro di Frantz Fanon, il suo bene più prezioso.

Tutta l’erranza di Laila è anche, seppure inconsapevole all’inizio, una ‘quête’, una ricerca. Che la porta, una volta riemersa alla vita, ad essere di ritorno in Francia, a Nizza, con un nuovo nome, un nuovo volto, ospite di quel Festival in cui per la prima volta aveva ascoltato e conosciuto Sara. Questa volta, Nizza è davvero solo uno scalo: la giovane donna annulla tutti i suoi impegni e parte per il Marocco, per attraversare la montagna, arrivare a quella strada bianca di polvere.

L’incontro con le sue origini ha, per Laila, le sembianze di una vecchia donna vestita di nero seduta su un ‘tabouret’ “in fondo alla strada, davanti all’ultima casa, dove comincia il deserto”. Laila ne è attratta e racconta: “Mi guarda arrivare senza abbassare gli occhi con lo sguardo tagliente come una pietra. Sembra vecchia e dura come l’ammonite di Jean. È una vera Hilal, appartenente al popolo della falce di luna”. Perciò si siede accanto, a quella donna così piccola e magra da sembrare una bambina: “La strada è vuota, scorticata dal sole del deserto. […] La vecchia non mi parla. Non si è mossa quando mi sono seduta. Mi ha soltanto guardata; nel suo viso di cuoio nero, gli occhi sono brillanti e lisci, giovanissimi”20.

Laila è sicura di essere finalmente alla fine del suo viaggio: “È qui. In nessun altro luogo. La strada bianca come il sale, i muri immobili, il verso del corvo. Qui sono stata rapita, quindici anni fa, un’eternità fa, da qualcuno del clan Khriouiga, un nemico del mio clan, gli Hilal, per una storia d’acqua, di pozzi, per una vendetta”. È felice e tranquilla, sa finalmente da dove è arrivata: “Quando tocchi il mare, tocchi l’altra riva. Qui, posando la mano[P] sulla polvere del deserto, tocco la terra dove sono nata, tocco la mano di mia madre” 21. Parlando del pluralismo culturale di Le Clézio e riferendosi a quest’ultimo episodio di Poisson d’or, Isabelle Roussel-Gillet sottolinea che, in questo romanzo, quando Laila tocca la sua terra d’origine, “nessun discorso identitario celebra le radici in quanto tali; al contrario, toccare la propria terra significa toccare una ‘mémoire des lieux’, toccare la propria madre, entrare in relazione con une parte di lei, la sua parte altra”, ricordando anche che i libri di Le Clézio sono “dei percorsi di riconoscimento, secondo un’espressione di Paul Ricœur”22.

Il finale del romanzo testimonia in effetti la risoluzione del percorso di Laila che finalmente si riconosce e allo stesso tempo lascia intuire una ripartenza, come l’alba di una nuova vita: “Adesso sono libera, tutto può cominciare” 23. Nella dinamica del periodo di scrittura in cui si inserisce Poisson d’or, successivo al primo periodo di violenta denuncia, e definito quello degli anni ‘di incontro’, il racconto non ci lascia con un vero e proprio happy end, ma il verbo “commencer” fa comunque presagire un inizio carico di energia, speranza, serenità.

82 Attraverso l’eroina di Poisson d’or, Le Clézio ribadisce la sua convinzione della capacità di tessere legami e di creare e ricreare delle donne. È stato proprio lui ad asserire: “Le chance dell’umanità sono interamente nelle mani delle donne, nel rifiuto della violenza e del loro ruolo sempre più preponderante nel mondo”24.

83 “Mondi di cui non si sa neanche il paesaggio”.

Luisa Ricaldone in dialogo con Laura Pariani

Luoghi, paesaggi

“Io devo vedere i miei personaggi in uno spazio e in un tempo precisi […]. Ho un debito verso i luoghi che mi hanno permesso di far esistere i miei personaggi, di vederli muoversi e agire”1: così, nel suo libro d’esordio Di corno o d’oro[L], Laura Pariani. La quale, per costruire storie, ha bisogno di ‘sentire’ i luoghi, di averli percorsi, di esserci vissuta: l’Argentina, la Patagonia e l’intero Sud America, ma anche i luoghi più prossimi alla sua attuale quotidianità, Milano e l’Alto Piemonte (la scrittrice vive a Orta San Giulio) costituiscono la geografia della sua narrativa. Chi lascia l’Europa per la Fin del Mundo trova un luogo privo di “ogni riferimento al noto” ed è dominato dall’impressione di “essere in un altro spazio, tutto così calmo da mettere i brividi”, uno spazio oltre il quale “non si poteva andare”, perché “il continente finiva lì”2. E l’occhio non può non posarsi sul degrado urbano:

ecco la città: un ammasso di case basse di lamiera bianca e azzurra, i cipressi neri tagliati in forme inquietanti, la colonia di cormorani sul molo, le strade in discesa dirette verso il trantran del porto, i silos decrepiti, le grandi strutture fatiscenti che un tempo erano servite a sbarcare e imbarcare bestie; faceva un’impressione triste, quasi di morte, quell’ammasso di macchinari arrugginiti, inutili. Sulla spiaggia sporca il radiatore abbandonato di una Buick. Sensazione da fine del mondo, da fallimento commerciale3.

Un paesaggio che non somiglia a nessun luogo, visto da una corriera surreale, da una soglia declinata fra vita e morte, è l’ambiente nel quale si svolge la storia d’amore di Saint-Exupéry per Consuelo Suncin raccontata in Tango per una rosa: che sia in quel punto al confine di due territori che comincia la scrittura? Forse sì, se è vero che “dal silenzio nascono le storie”4.

Spaesati sono gli italiani quando abbandonano i luoghi d’origine per emigrare in Argentina (tema ricorrente nei suoi romanzi, fino al recente Il piatto dell’angelo[L]: “gli emigrati finivano per ritrovarsi in luoghi senz’anima, perché senza storia”5,); ma spaesati, in questo caso rispetto alla norma, sono anche il barbone Dante, che si muove in una Milano “selva oscura”[L] 6; e Fenisia, la straordinaria protagonista di La valle delle donne lupo[L], una delle ‘balenghe’ che vive nel paese disabitato e silenzioso come “una piccola Pompei di montagna” 7. Le diverse, le eccentriche, le ‘stríe’ sono dentro al paesaggio (in questo caso nord piemontese), lo colorano intimamente, e “risorgono dal loro prato in forma di fantasmi nebbiosi” 8. E ancora la brughiera lombarda di La Signora dei porci, infeconda e carica di dolore; i paesaggi di nebbia e di acqua: Cusio, il lago d’Orta che, agli occhi di coloro che hanno conosciuto l’anziano pescatore Serafino, appare “ormai esaurito, malato. Sporco per sempre”9.

Il tema del brutto / vecchio / scartato / dimenticato, “smuove qualcosa” dentro a Laura Pariani e la “incita alla scrittura”, come dice lei stessa in una delle mail che ci siamo scambiate nelle fasi preparatorie al convegno. Nell’intreccio autobiografico fra le vicende dello scrittore polacco Witold Gombrowicz, esule volontario in Sudamerica e quelle di Pariani stessa, arrivata quindicenne in Argentina, dove visse per alcuni anni, si attraversa una realtà degradata10: bar malfamati, balere, sottoscale, ambienti cupi e sordidi. Ad aumentare il senso dell’estraneamento sono la ricerca e l’invenzione delle parole per tradurre il romanzo Ferdyduke da una lingua che solo l’autore conosce al castigliano che conoscono gli amici. La vocazione di perdente del protagonista matura nella tristezza di luoghi ostili,

84 dai quali trae forza e vita il linguaggio della narrazione.

I paesaggi riflettono ma anche generano le emozioni dei personaggi, determinano i loro stati d’animo, ne sollecitano e orientano le azioni: “laddove il paesaggio esteriore è distrutto, completamente annullato o sovra-posto da strutture che ne impediscono il riconoscimento, il tuo paesaggio interiore ne può risentire fino all’annichilimento” 11. Nella “favola sul male”12 – come è stato definito Dio non ama i bambini[L] – uno dei libri più avvincenti e terribili di Laura Pariani, il degrado dei luoghi (la Buenos Aires degli emigrati italiani e crogiolo di varie altre etnie) è tutt’uno con la follia e con il crimine. La Canzone dei bambini che hanno paura del Babau, che fa da incipit, recita:

Apparteniamo alla strada, ai terreni incolti / che circondano i mattatoi. / Andiamo da una pozzanghera all’altra, nei solchi / tracciati per il gioco “della campana” […] Cercando tesori di meraviglie inaspettate tra l’immondizia / e l’erbaccia che cresce nei fossatelli ai lati delle vie, / poi la getta nella fossa su altri corpicini. “Va’ là che sei in bella compagnia!”13

Le storie di infanzie violente e di morti si consumano tra fango, sterpaglia, macerie, detriti, immondizia:

Più in là comincia il matadero: putrefazione, scarti fetenti che marciscono al sole, odore di sterco, di piscio, di marcio. Brulicare di topi grassi, nugoli di mosche, uccellacci rognosi. Come in un inferno soffocante. Lontani, nei recinti, si vedono i vaccari al lavoro per incanalare le mandrie verso il macello14.

E Ognissanti Goletti, il giovane disadattato e assassino, sosta “lungo le vie del quartiere per raccattare dei pezzi di legno nel canale di lavatura dei macelli” 15. In una morsa stretta fra degrado, miseria, follia e crimine, fra la devastazione delle favelas, l’oppressione sociale e la violenza carnale si sviluppa questo romanzo corale (tanto più sconvolgente in quanto basato su fatti di cronaca), nel quale anche il dentro delle mura domestiche, lontano dall’essere luogo di intimità e rassicurazione, è omologo al fuori di cui è il proseguimento: “la stanza sa di chiuso, nonostante la porta sia aperta; ci stagna un tanfo rancido di aglio, più l’odore rugginoso dell’emorragia. Si avvicina al giaciglio dove la donna sta distesa, rintronata dalla febbre di un aborto” 16. Corpi[P] disfatti, privati della loro individualità, territori violati. Dio non ama i bambini è la rappresentazione di quello che Adriana Cavarero[L] definisce con un neologismo orrorismo, ovvero la violenza sull’inerme: “il crimine – scrive – si rivela più profondo e va alle radici stesse di una condizione umana che viene offesa a livello ontologico”17. Nei personaggi narrati da Pariani di umano non c’è più nulla, ché è fra loro, fra gli inermi, che si nasconde l’‘inerme’ che li fa a brandelli, perché distrutti e degradati non sono solo i luoghi ma anche la psiche gli affetti le relazioni.

Lo squallore, la inospitalità dei luoghi, il vuoto, questa è la geografia con cui devono fare i conti le emigrate e gli emigrati, “la disperazione di affrontare un mondo di cui non si sa niente, neanche il paesaggio e la lingua”, lo spaesamento incrudelito dal senso di colpa di Catte, una delle tante donne che hanno lasciato l’Italia per il Sud America, che soffre per avere abbandonato la terra d’origine; e per cosa poi? per “mettere le radici nel fango di questa città” (il riferimento è, ancora una volta, alla Patagonia) 18. Il “non potere parlare a nessuno di come il paesaggio fosse mutato, ché dove prima c’era il suo mondo rimaneva solo un abisso di silenzio, una traccia di sangue, due righe sul giornale”19, aggrava il peso delle giornate, ché il paesaggio è esso stesso creatura, e su di esso si incide, “come una grande ferita sanguinante, la strada di terra rossa [che] taglia la foresta”20. La creatura umana è estranea a quell’ambiente, ha nostalgia della terra che ha abbandonato e prova “dolore di non vedere mai un monte, neanche un puggètt di quelli piccoli”, ché “in Mèrica […] da ogni parte che ti giravi c’era solo palta e sabbia”21.

Le donne

“Le donne mostrano il lato sporco della vita […], l’offesa delle gerarchie sociali, le ferite della famiglia, la fatica delle nascite e delle morti, […] la materialità sofferente e nascosta – vergognosa, appunto – del corpo” 22. Le parole che Lidia De Federicis scrisse più di vent’anni fa recensendo la raccolta di racconti Di corno o d’oro, valgono per numerosi romanzi di Pariani, da La Signora dei porci 23, dove nella brughiera cinquecentesca l’uomo è l’inquisitore e le donne sono le condannate, al recente La valle delle donne lupo.

La vulnerabilità degli uomini è altra cosa. L’indimenticabile personaggio maschile inventato da Laura Pariani, pur essendo un barbone, dunque più di altri esposto alle intemperie della vita, con alle spalle un’esistenza travagliata, ebbene, il clochard Dante sembra sapere prescindere dalle ovvie sofferenze imposte dalla sua condizione. Refrattario ad adeguarsi alla normalità, ribelle per natura, detesta i soprusi e le ingiustizie; nel tempo ha affinato le doti di acuto osservatore della realtà in cui è calato, la Milano appunto, che è “selva oscura”, della quale racconta trasformazioni, avvicendamenti politici, mutamenti. Il libro si raccomanda, oltre che per la felice riuscita dell’impasto linguistico

85 (apparentato con Porta, e Manzoni più che con Gadda), per il rapporto tra arcaicità e modernità continuamente messo a fuoco dal basso, dall’ottica eccentrica di un uomo vecchio, tutt’altro che incolto, dignitosissimo, che ha passato e passa le sue giornate per strada. Per età e scelta di vita Dante ha assistito ai tanti cambiamenti avvenuti nella grande città del nord Italia, che dagli anni sessanta in poi ha radicalmente e più volte riscritto il proprio profilo: una modernizzazione che può essere maceria (“vecchiume di case cadenti, mezzo diroccate; muri sbrecciati, finestre tappate con assi […] rimasuglio della Milano della guerra”24); e maceria che talvolta conserva, per un uomo di strada, qualche “angolo furtivo [il vicoletto deserto che porta alla chiesa degli Armeni], quasi fratello, almeno fin quando la crudeltà della storia non ripasserà di qui a terminare a colpi di piccone quanto aveva iniziato con le bombe… ”25.

Il romanzo che segue di un anno, La valle delle donne lupo, offre anch’esso prospettive dal margine e dal basso, dal punto di vista ritenuto socialmente deviante, di una donna, questa volta. Si tratta di una narrazione debitrice nella struttura e nei temi all’antropologia, nella quale prevale l’interesse per l’universo femminile, ancestrale, dominato dagli uomini e dalle loro rigide e crudeli leggi. Anche qui a patire il dolore sono soprattutto le donne. Nel luogo descritto, l’Alto Piemonte, incuneato nella Svizzera, dove si parla un dialetto più lombardo che piemontese, vige un ordine fondato sulla violenza nei confronti delle differenze tradotte in inferiorità. Ed è proprio a queste emarginate, perseguitate da indiscusse strutture patriarcali, che Pariani, nelle vesti di ricercatrice che raccoglie interviste, rivolge l’attenzione. Memoria vivente di quei luoghi, Fenisia, classe 1928, si concede al registratore della sciura Laura, e racconta della sua famiglia, da sempre “sotterramorti”, e di sé, per un anno mondina, per quattro internata in collegio per avere difeso la cugina Grisa dalla violenza del padre (per lei si apriranno le porte del manicomio), “sanatrice” perché conosce i segreti delle erbe, erede della cura del cimitero, accanto al quale vive, in una casa con affaccio sulle tombe. A Loredana Lipperini questo mondo ricorda quello descritto in un vecchio libro di Armanda Guiducci, dall’eloquente titolo La donna non è gente 26. Ma i racconti[P] che provengono dall’“angolo oscuro di una femminilità esclusa”, nel caso delle donne lupo, comunicano oltre che una sofferenza immensa, una forza straordinaria, la capacità di resistere in un luogo dove l’estrema povertà determina l’asprezza dei rapporti umani e dove l’asprezza dei luoghi genera calamità, dentro e fuori gli esseri umani.

“Perché i padri picchiano le figlie e si giustificano che è per il loro bene, per punire il loro ‘brutto vizio’, e che da grandi le figlie intenderanno? Ma intendere cosa?... Perché le botte e le cinghiate? E alla fin fine cos’era sto brutto vizio?” […] “Era semplicemente che, quand’una nasce, la famiglia è pronta con uno stampino, come quello delle torte. Ma evidentemente qualche bambina ha una forma che non si adatta allo stampo. Per questo la pestano così tanto: perché non si rassegna, non si arrende.” […] Era la legge della montagna. Ché la montagna è spietata. Del resto, l’ha già detto e ripetuto, basta guardarsi intorno: la riàle travolge, la valanga porta via chi si trova sul suo passaggio. La montagna non conosce compassione o bontà 27.

Nella Nota dell’autrice che chiude il romanzo/inchiesta, Laura Pariani scrive della scoperta, fra gli anni Settanta e Ottanta, dell’interesse per il folclore, e anche annovera, fra gli stimoli a scrivere questo libro, quella “sindrome antiquaria che coglie spesso i giovani quando si trovano di fronte a una cultura destinata a sparire”, la passione per gli “ultimi” e per le “frontiere”. E aggiunge: “ché la montagna, più che un luogo geografico, è un’esperienza: quella di un mondo potente nella sua resistenza a certe pazze vertigini della modernità, ma assolutamente marginale”28.

Paesaggi linguistici

Per raccontare persone e paesaggi degradati / dimenticati / estranei alla quotidianità ho sempre cercato la lingua adatta; e le parole del passato o i cortocircuiti tra una lingua e l’altra sono sempre stati per me i più giusti per esprimere le emozioni che quei luoghi e quelle figure mi suscitavano. Da qui viene la mia passione per il dialetto […], che per me è lingua più profonda dell'italiano perché è lingua materna, e soprattutto lingua tragica perché dimenticata e destinata a sparire. […] la lingua non può essere assolutamente staccata dal tema: ne fa parte, non è forma ma sostanza della pagina.

Così Laura Pariani in una e-mail inviatami a corollario delle pagine che seguono: il paesaggio geografico è inscindibile dal paesaggio linguistico, la geografia dei luoghi si può dire solo attraverso una geografia linguistica che la rappresenti in modo adeguato e ne restituisca il senso. Nel recente romanzo, scritto a quattro mani, ambientato a Orta, Nicola Fantini e Laura Pariani ricorrono spesso al detto e al proverbio, con cui, “stanchi di recenti romanzi che hanno utilizzato questo singolare paese e l’ambiente lacustre come pretesto e sfondo superficiale di vicende che potrebbero svolgersi altrove”, riescono a “dare una rappresentazione più fedele e profonda di questo luogo”29. E pensiamo al paesaggio della mente evocato in Milano è una selva oscura: un paesaggio urbano che si identifica con una lingua al tramonto, dove stretta è la relazione tra l'arcaicità del paesaggio metropolitano e l'arcaicità del linguaggio usato dal protagonista.

86 Luisa Ricaldone

Fig. 1 (pag. 172): Laura Pariani, “Sedia 003”, acrilico e penna (2013) © Laura Pariani

Fig. 2 (pag. 173): Laura Pariani, “Uffa”, disegno a pastello (1983) © Laura Pariani

Recentemente a Orta San Giulio, dove abito, ho esposto una serie di disegni e acquarelli in una mostra. La prima sezione, che raccoglieva i miei lavori degli anni Settanta e Ottanta, l’ho intitolata “Vertigine o contemplazione di quel che finisce” e aveva come epigrafe questo brano tratto da Il pettine[L]:

Chissà perché la bambina è così affascinata dalle cianfrusaglie. È strano: gli oggetti interi e nuovi non richiamano la sua attenzione, ma il rotto, il consumato, il fuori uso – una copertina di carta logora, una scarpa scompagnata, una tazzina senza piattino – la fa sognare con un odore di mondi perduti… Ore e ore a corteggiare la vecchiaia degli oggetti.

Dove e quando le sia nata dentro questa passione per ciò che gli altri disprezzano e scartano, non sa. Forse dipende dagli occhi esigenti e azzurri di sua madre che la squadra insoddisfatta, come un pittore che si allontani e si avvicini al quadro posto sul cavalletto per scoprirne i difetti: come sei magra, pelle e ossa, hai il collo troppo lungo, le spalle troppo larghe, tirati su dritta con la schiena, diventerai gobba, io alla tua età ero un fiore!

Forse è da qui che è venuto alla bambina l’amore per le cose piccole e brutte, il suo sforzo per vedere al di là della bruttezza. Anche quando osserva le persone è come se cercasse il loro veloce deperire, consumarsi, passare a morte…30

Il mio interesse per personaggi e ambienti marginali viene infatti da molto lontano: segna le mie scelte di vita e la mia produzione artistica sia narrativa che pittorica. E di conseguenza mi ha condizionato anche nelle scelte linguistiche.

Parto dalla mia pubblicazione più lontana, Di corno o d’oro. Per scrivere questo libro ho passato anni negli archivi comunali della mia zona d’origine, raccogliendo notizie sul movimento contadino nelle campagne dell’Alto Milanese dopo l’Unità d’Italia. Ho lavorato sui ‘residui’ dei documenti: dettagli, piccolezze – stranezze di cui è rimasta traccia tra i faldoni – che non finirebbero mai in un volume della Storia ufficiale, neppure in una noterella a piè di pagina.

Nella bandella di Di corno o d’oro ho perciò subito cercato di mettere in chiaro il mio rapporto con il territorio e la lingua:

Le date, per me, sono essenziali per costruire i miei personaggi, che non vivono dovunque e sempre. Come lettore, io trovo vuoto e piatto un certo modo di raccontare, i cui personaggi potrebbero esistere da qualsiasi parte, a New York come a Milano, in una condizione più teorica che reale. Per me – per me scrittore, intendo – non è così. Io devo vedere i miei personaggi in uno spazio e in un tempo precisi, altrimenti non riesco a trovare il loro spessore e la loro voce – e con il termine ‘voce’ non voglio dire solo le loro parole e il loro fraseggiare, ma anche la loro coscienza e il suono dei loro pensieri, che vive ed è immerso in un periodo determinato, diverso e quasi sempre lontanissimo dal mio 31.

Perciò la scelta del dialetto in Di corno o d’oro mi è sembrata necessaria, visto che i personaggi pensano e parlano in dialetto, sentendo nel contempo l’italiano come lingua estranea. Ritenevo che il dialetto mi potesse servire per dare verità ai protagonisti.

A partire da questo momento ho sempre ritenuto importante conoscere la lingua dei miei personaggi, tanto più che la lunga esperienza di vita all’estero mi ha sempre reso consapevole che la mancata conoscenza di una lingua, quando si è in un ambiente straniero, non mi permette di percepire con esattezza i meccanismi del vivere. In un territorio straniero la mia guida è sempre stata l’orecchio; sono entrata nei segreti dei paesi stranieri attraverso i suoni: quando il parlare comincia a diventarmi orecchiabile, inizio a sentirmi a mio agio e, pure se non capisco ancora bene la lingua del posto, mi guardo intorno con altri occhi.

Quello che mi succede nella vita reale vale per me anche nella narrativa: mi sembra di non riuscire a raccontare niente di interessante su un personaggio se non lo inserisco in un contesto sociale credibile e significativo; e il modo migliore di farlo è usare il suo linguaggio. Quando in Di corno o d’oro il Carlén, colono ottocentesco, dice che la vita “l’è on pendìzi”32 vi si può leggere il senso di quella società e della sua storia: un’espressione italiana sarebbe non soltanto meno forte ma anche meno centrata, meno esatta.

87 In Di corno o d’oro inoltre per la prima volta mi sono resa conto delle potenzialità drammatiche del dialetto. Per esempio, nel racconto “La morale della stalla”33, ho contrapposto volutamente il freddo italiano burocratico delle cartelle mediche alla forza carnosa delle espressioni dialettali della contadina malata di pellagra: ne è venuto fuori qualcosa che ancora adesso, a rileggerlo, mi pare dolorosamente esplosivo.

L’uso del dialetto è continuato ne Il pettine e La perfezione degli elastici (e del cinema)34. Ma mentre in molti racconti de Il pettine – dato l’ambiente contadino di fine Ottocento o inizio Novecento – il dialetto poteva trovare la stessa giustificazione che mi ero data in Di corno o d’oro, per un lettore medio l’operazione risultava assolutamente insolita ne La perfezione degli elastici, dove personaggi e ambienti erano tratti soprattutto dal cinema nordamericano (Oliver Hardy, Buster Keaton, Lon Chaney…). Però la domanda che allora mi rivolsero lettori e critici – “Perché è presente così tanto dialetto nei tuoi libri?” – mi sorprese. Utilizzare una mescolanza delle mie lingue – italiano e dialetto – per me era stato naturale, spontaneo, quasi non pensato... Naturalmente la domanda mi costrinse a riflettere. Non che fossi inconsapevole di aver usato molto dialetto nei miei testi, ma faccio questo lavoro da abbastanza tempo per sapere che noi autori di romanzi non sappiamo sempre spiegare per filo e per segno le nostre scelte (tematiche e linguistiche). Infatti, benché la scrittura di un romanzo sia, come ogni scrittura, un atto della ragione, certe caratteristiche personali – perfino certe ossessioni – scivolano verso il testo (o cadono dentro il testo) con un peso che non è quello della logica, ma quello della necessità: io sento o so che devono stare lì, però non decifro con assoluta precisione i motivi per cui qualcosa sta in un certo punto del testo e non in un altro posto o in nessuno. O meglio: mi possono venire in mente giustificazioni a posteriori, però raramente nel momento stesso della scrittura. Se mi fermassi a pensare al perché di ogni riga, resterei paralizzata. Insomma, che ci crediate o no, a me capita proprio così: quando sono immersa nella scrittura non mi rendo conto completamente del mio lavoro; poi passa il tempo, vado a rileggermi, e imparo a guardare il mio testo come farebbe un estraneo, un qualsiasi lettore.

Così anch’io alla fine mi sono chiesta: “Perché così tanto dialetto?”.

Mi sono data allora questa spiegazione: che il dialetto è la mia lingua materna, fondante, profonda, quella dei primi affetti; che il dialetto è la prima lingua che mi ha cantato nell’orecchio. Sono nata infatti in un ambiente completamente dialettofono, per cui ho succhiato col latte i suoni e le forme del dialetto, che poi la scuola ha tentato di cancellare. Ho dunque vissuto un’infanzia bilingue, come tutti i bambini della mia generazione, e ho affrontato drammaticamente la guerra tra la lingua ‘materna’, che canta, e la lingua ‘paterna’, che detta le regole. Ma il suono della lingua materna è troppo forte e preciso per potere impunemente essere messo da parte e, nel momento in cui mi sono ritrovata a scrivere – a cercare parole che avessero sapore di carnesangue – l’ho ritrovato nell’orecchio come la parte migliore della mia forza creativa.

Dalla riflessione sull’importanza che stava acquistando il dialetto nella mia opera narrativa è nato il romanzo La Signora dei porci, dove ho utilizzato una lingua inventata, mescolando il mio dialetto materno (variante contadina del bustocco) all’italiano letterario del Cinquecento, al gergo dei pittori della scuola lombarda e perfino al latino tribunalizio degli Inquisitori. Un impasto che suonasse il più lontano possibile dall’attualità mi è sembrato il linguaggio adatto per raccontare quel mondo contadino magico di cui non esiste più traccia, perché violentemente cancellato dalla Controriforma.

Probabilmente La Signora dei porci è stato il libro che mi ha dato la coscienza di quanto per me il dialetto fosse lingua ‘tragica’ per eccellenza. Tragica perché lingua che sta morendo; tragica perché lingua ormai quasi oscura e misteriosa (nel senso proprio dell’antico ‘mistero’, cioè della parola ‘sigillata’, segreta, intraducibile). E in un mondo come il nostro, in cui da ogni parte si sbandiera l’apertura a ogni sorta di ambiguità – come se ogni cosa si potesse dire in più modi e ogni traduzione fosse possibile – mi sembrava importante, per arrivare nel cuore della tragedia de La Signora dei porci – e per ritrovare il mistero nel suo senso originario – proporre una lingua inventata e segreta.

Un’operazione quindi assolutamente contraria alla maniera in cui attualmente viene utilizzato il dialetto: per far ridere o per dare una coloritura folkloristica.

Un passo ulteriore è stato rappresentato da Il paese delle vocali 35, dove ho approfondito la mia ricerca sui suoni della lingua. Mi sono detta che, se il dialetto per me era lingua di pari dignità con le altre, dovevo chiedere al dialetto quello che uno scrittore chiede a qualsiasi lingua: non solo l’espressività o la carnosità dei termini, ma anche la sonorità. Ho sempre creduto infatti in una letteratura ‘acustica’, fatta per essere letta a alta voce. In questo libro ho quindi lavorato sulle pagine come se si trattasse di una partitura musicale, cercando volutamente suoni scuri che non esistono nella lingua italiana, ma che sono invece la caratteristica del dialetto del mio paese.

88 In Quando Dio ballava il tango[L] e Dio non ama i bambini[L] ho cercato di mostrare al lettore quello che spesso ho sentito sulla mia pelle incontrando comunità italiane all’estero: che per un emigrante tutto è perduto[P] salvo le parole del proprio dialetto materno. Per chi ha perso il proprio paese è la lingua che diventa la patria. Nel paese-lingua si cancellano le frontiere dello spazio e del tempo.

In Milano è una selva oscura, mi sono cimentata per la prima volta con un dialetto diverso dal mio: il milanese. La mia lingua materna è infatti una parlata contadina, assolutamente non colta: ‘foresta’, anzi ‘ariosa’ come direbbe il protagonista del romanzo, solo molto lontanamente imparentata al milanese. Per entrare nella testa del personaggio Dante A. Lingera – milanese DOC e, soprattutto, fiero della sua identità linguistica – ho dovuto quindi studiare il milanese, sia sul vocabolario di Cletto Arrighi 36 sia sui testi della classicità meneghina. È stata, come sempre quando studio una lingua nuova, un’esperienza affascinante, ricca di scoperte felici.

A questo punto l’approfondire lo studio di Carlo Porta mi ha dato una delle chiavi della costruzione del romanzo, sia attraverso i canti danteschi da lui tradotti sia attraverso il breve testo de El lava piatt del Meneghin ch’è mort37.

La storia di Dante A. Lingera (barbone ma ex libraio antiquario) è perciò scritta in un italiano che scivola a ogni riga dentro il dialetto pastoso e irriverente della grande tradizione lombarda: Maggi, Porta, Dossi, Tessa, Gadda, Testori, Loi, Santucci, Fo... (ma anche Gaber, Jannacci, i Gufi, i Legnanesi...). Senza naturalmente dimenticare il grande Manzoni, a cui mi accomuna sicuramente l’inquietudine del pensiero, l’ansia per la giustizia e un’amara ironia.

L’essermi scelta questi autori come tradizione di riferimento mi crea naturalmente dei vincoli da rispettare. Faccio un esempio: ho conosciuto scrittori che dicono di ammirare questo o quell’altro classico, però non riflettono mai nella loro opera tale ‘ammirazione’; secondo me, invece, ammirare suppone certi obblighi: per considerare dei classici come propri maestri bisogna meritarseli, scrivendo qualcosa che possa renderci degni di entrare nella loro cerchia.

Ne La valle delle donne lupo[L] di nuovo ho incontrato il problema di un personaggio che pensa e parla in un dialetto che non solo non è il mio, ma che è anche particolarmente eccentrico rispetto alle altre parlate italiane. Si tratta dell’idioma di una zona dell’Alto Piemonte, incuneata nella Svizzera (Vallese a ovest, Ticino a est): di piemontese questa lingua non ha nulla, ma in compenso è una grande mescolanza di termini ticinesi, walser e lombardi. Ho preferito perciò rinunciare al dialetto e ho scelto di utilizzare un italiano fortemente regionale, con inserimento di pochi termini valligiani (per esempio: slòfen, dormire; fiòla, ragazza; bocia, ragazzo...), per evidenziare che il personaggio della ricercatrice interpreta / traduce / tradisce la sua intervistata.

Con questa mia ricerca dei margini della realtà e della lingua rischio di avere meno lettori? Me ne rendo conto. Ma il mio obbligo di persona che narra è impegnarmi seriamente perché una storia e un personaggio funzionino. Se poi a certi lettori la mia ricerca non piace, è un rischio che devo correre.

Laura Pariani

89 Raccontare, spaesare, tramandare la Palestina:

oralità e genealogia femminile

Marta Cariello

La parola che straripa

La Palestina è oggi, purtroppo, paradigma della dislocazione, dell’esilio, dello ‘spaesamento’, nel senso esatto del prefisso privativo ‘s-’, che precisa, appunto, “privazione, allontanamento” 1. La Palestina è, effettivamente, la nazione ‘privata della nazione’, ‘allontanata’ da se stessa. Come scrive lo studioso Rashid Khalidi,

L’esperienza palestinese quintessenziale, che illustra alcune delle questioni più basilari sollevate dall’identità palestinese, si svolge alla frontiera, in un aeroporto, a un checkpoint: in sostanza, in una qualsiasi di quelle barriere moderne dove le identità sono messe sotto controllo e verificate. Ciò che accade ai palestinesi in questi luoghi ricorda loro sempre quanto hanno in comune come popolo 2.

Il paradosso è che lo stesso fatto di ‘essere del confine’, ‘sempre fuori luogo’, come recita non a caso il titolo dell’autobiografia[L] di Edward W. Said3, significa allo stesso tempo essere senza dimora fissa eppure imprigionati, poiché è molto difficile districarsi dalla paradossale condizione della terra negata: l’identità legata a quella terra ti abita sempre nella sua negazione, nella sua sottrazione. La scrittrice e architetta Suad Amiry nel 2014 presentò a Napoli il suo ultimo romanzo, Golda ha dormito qui (2013) e, nel descrivere la sua identità di donna palestinese, raccontò che se è vero che la Palestina è occupata, è anche vero che la Palestina ‘la occupa’, occupa la sua esistenza tutti i giorni; non le è mai possibile ‘dimenticarsi’ di essere palestinese. Il trauma[P] dello sradicamento abita dentro ogni gesto degli abitanti della terra negata4.

Come per ogni trauma, individuale o collettivo, raccontare è fondamentale. Nello specifico caso della dislocazione palestinese, il racconto orale assume una particolare rilevanza. Da un lato, infatti, per la tradizione araba in senso ampio, il narratore – rawi in arabo – era anticamente il poeta e raccontastorie che, in epoca pre-islamica, memorizzava e recitava la poesia (che era vietato scrivere). La parola rawi, in arabo, deriva dalla stessa radice verbale di “abbeverarsi, dare da bere” [r-w-y] e anche dello “scorrere dell’acqua” e quindi “trasmettere, tramandare[P]” 5. Dare da bere le storie, quindi, ma anche abbeverarsi di conoscenza, informazioni, e, ancora, far scorrere ovvero trasmettere. L’acqua, tuttavia, per sua natura straripa, o meglio, scorre in modo incontrollabile. E questa sembra già un’indicazione di quello che può accadere quando le storie delle donne di cui si parlerà in questo saggio iniziano a scorrere.

Succedeva, infatti, che la trasmissione delle storie o delle poesie da parte del rawi fosse per così dire “imperfetta” (è il termine usato nel caso specifico nella Encyclopedia Britannica per definire la mutevolezza della poesia orale pre- islamica)6. Con la trasmissione orale, i testi cambiavano con ogni performance, erano soggetti a mutazioni, omissioni, aggiunte non autorizzate, trasposizioni, fusioni. Quindi, la narrazione orale straripa, muta, spesso in modo incontrollato e inaspettato. Si tratta, in breve, dello ‘spaesamento’ del testo orale, della sua mutevolezza performativa, con cui evidentemente le culture basate sulla scrittura (dei testi sacri prima di tutto) non riescono, da sempre, a fare i conti. Non sapendo infatti come relazionarsi alla cosiddetta ‘letteratura orale’, si è esplorato ben poco finora, negli studi letterari e anche in ambito post-coloniale, l’ipotesi che la definizione stessa di ‘letteratura orale’ sia un gesto di appropriazione coloniale/imperialistica per catalogare il fenomeno all’interno delle categorie occidentali7.

90 L’altro aspetto interessante del racconto orale femminile riguarda, anche in questo caso, la parola scritta e i legami di questa con la cultura patriarcale, in termini di ‘autorità’ della scrittura rispetto all’oralità, e quindi di posizione dominante del logos maschile/paterno nelle società patriarcali8.

Ancora, in merito particolarmente alla terra palestinese, un altro elemento è fondamentale in relazione alla dimensione orale del racconto: l’elemento simbolico e materiale della distruzione e appropriazione di tantissima parte del patrimonio culturale palestinese da parte dello Stato d’Israele, di intere biblioteche e collezioni private di libri, o di archivi cinematografici andati perduti nelle diverse fasi della guerra e dell’occupazione. Per menzionare uno degli esempi più eclatanti in tal senso, nel 1948 fu perpetrata una vera e propria ‘rapina’ della parola scritta da parte dell’esercito israeliano, come racconta un documentario del regista israelo-olandese Benny Brunner, The Great Book Robbery (2010)9. I circa settantamila libri sottratti da collezioni private furono catalogati come prelevati dalle case di ‘absentee’ (assenti), il termine con cui erano definiti i palestinesi le cui case erano state occupate dagli israeliani.

Oggi si sta facendo molto per raccogliere le testimonianze di chi ancora è vivo e ha vissuto gli eventi del 1948 e poi del 1967, e tali testimonianze sono per lo più orali, provengono prevalentemente da persone anziane, assumono il carattere prezioso e volatile del racconto non scritto, sempre, in qualche modo, performativo. Tale è l’intensità con cui si sta tentando di recuperare la memoria palestinese che lo studioso Beshara Doumani, citando Derrida, parla di una vera e propria “febbre d’archivio” della Palestina:

La febbre d’archivio si sta diffondendo tra i palestinesi ovunque. A Ramallah o a Londra, a Haifa o a San Francisco, a Beirut o a Ryad, qualcuno o qualche gruppo sta intervistando persone anziane e compilando alberi genealogici, cercando fotografie e lettere, raccogliendo tessuti e canzoni tradizionali, visitando e recuperando cimiteri, scannerizzando e restaurando manoscritti, mettendo insieme informazioni su vecchie case e villaggi distrutti, e questa è solo la punta dell’iceberg, le cui reali dimensioni possiamo a mala pena immaginare 10.

Questa urgenza sempre crescente di preservare la memoria e la narrazione della Palestina è evidente, ancora, nel numero di siti internet che raccolgono testimonianze, memorie, racconti personali e familiari, fotografie, mappe geografiche, nonché rielaborazioni memoriali delle seconde e terze generazioni della diaspora palestinese nel mondo11.

I motivi di questa febbre d’archivio sono da rintracciarsi in diversi fattori: certamente le nuove tecnologie rendono più facile e alla portata di tutti la raccolta e la condivisione di materiale di diversa natura. Inoltre, vi è un dato meramente cronologico: molte delle persone che avevano vissuto in prima persona gli eventi-chiave della vicenda palestinese (in particolare la nakba12) vanno scomparendo e appare pertanto particolarmente urgente oggi raccogliere le testimonianze dirette di coloro i quali sono ancora vivi. E ancora, fatto non trascurabile, una nazione che è, appunto, prigioniera nella sua identità di non-nazione, ha bisogno di raccontarsi per ‘costruirsi’ 13. La battaglia per la terra, di fatto, non si svolge solo sul piano materiale (e purtroppo le bombe su Gaza dell’estate 2014 sono solo l’esempio cronologicamente più vicino del lato tragicamente ‘materiale’ della questione), ma anche sul piano delle narrazioni: lo Stato d’Israele produce una narrazione completamente opposta a quella palestinese e su di essa fonda ampia parte del suo consenso morale internazionale.

Guardando nello specifico alla narrazione – orale – delle donne, se è vero che la figura del rawi cui si accennava più su è una figura maschile, è anche vero che il racconto orale femminile non può non rimandare a un’altra figura divenuta archetipo della donna affabulatrice: Shahrazade. Si tratta certamente di una personaggia che porta con sé un complesso carico di ambivalenza. Tuttavia, che Shahrazade sia una donna che usa l’arte del racconto (anche qui orale) e l’intelligenza affabulatoria per salvarsi la vita, o che sia una donna che cede alla fine alla volontà dell’uomo (sposando Shahryar); o, ancora, che sia simbolo della soggettività agente (e narrante) delle donne, oppure figura stereotipata a cui si riducono inesorabilmente le identità femminili della cultura arabo-islamica, ella resta innegabilmente una donna che racconta per sopravvivere14. In questo senso, non solo richiama la necessità del racconto di fronte agli eventi traumatici, alle tragedie, alla minaccia della morte, ma rivive anche in un’altra personaggia, questa volta inequivocabilmente forte di fronte alla violenza maschile. Nel racconto di Assia Djebar intitolato “La donna fatta a pezzi”[L] e incluso nella raccolta Nel cuore della notte algerina (1998), la protagonista, Atika, appare essere una vera e propria traduzione di Shahrazade nel presente. Atika è la memoria della Shahrazade odierna: è una maestra di scuola nell’Algeria degli anni più bui dopo l’entusiasmo post-indipendenza, ed è una donna che continua a parlare anche dopo essere stata decapitata dai fondamentalisti islamici:

Atika, testa mozzata, nuova narratrice. Atika parla con la sua voce ferma. Intorno alla sua testa, sul legno della cattedra, si spande una pozza di sangue. Atika continua il racconto. Atika, donna fatta a pezzi. [...]

A poco a poco, nel silenzio che si spande attorno alla voce, i ragazzi, uno dopo l’altro, si sono rialzati, si sono

91 rimessi a sedere, immobili. Atika continua15.

La parola di Shahrazade ferma e fa arretrare la sua morte dinanzi alla continuità narrativa. Come scrive Lidia Curti, “assumendo il ruolo attivo di narratrice, [Shahrazade] ha fornito il mezzo per continuare a vivere” 16: la sua voce. E questa è la prima, fondamentale genealogia nel racconto orale femminile: la sopravvivenza dentro le parole, dentro il racconto. Racconto, che, come già detto, scorre nell’oralità indomabile, mutante, ‘imperfetta’, quindi anche spaesante.

La voce femminile indisciplinata: la Palestina fuori dalla Palestina

Di Palestina scrivono, in questi ultimi anni, molte donne, sia residenti nei territori palestinesi sia appartenenti alla diaspora e quindi dislocate in diversi luoghi, più o meno lontani dalla terra d’origine. Alcune appartengono alle seconde o terze generazioni di palestinesi della diaspora, molte scrivono in arabo, molte in altre lingue. Esiste, di fatto, una crescente comunità transnazionale di scrittrici, che fa tra l’altro ampio uso dei nuovi media per consolidarsi, e che costruisce in modo molto netto e allo stesso tempo multiplo la propria identità palestinese17. Tuttavia, come già sottolineato, oltre alla narrazione letteraria, attualmente si raccolgono e si registrano molte narrazioni orali. Lo studio di tali narrazioni porta con sé una contraddizione che è bene registrare da subito nell’intraprendere un’analisi di un testo, appunto, ‘orale’. Si utilizzano qui gli apici proprio perché il testo orale, per poter essere studiato (o anche solo riascoltato) ha bisogno di essere fissato e perde quindi, in qualche modo, il suo carattere costitutivo: diventa un testo scritto, registrato, fermato. In questo senso, la natura performativa dell’oralità si modifica nei passaggi successivi, che comportano l’intervento dell’ascoltatore, dell’archivista, dello studioso, che inevitabilmente trasforma il testo-evento orale e, con il suo stesso intervento, produce un nuovo testo.

Questo processo è molto evidente nel caso del documentario di Dahna Abourahme, intitolato The Kingdom of Women. Ein El Hilweh (2010), che racconta, o meglio raccoglie i racconti delle donne del campo profughi palestinese di Ein El Hilweh in Libano agli inizi degli anni ’8018. Nel 1982, quando Israele attaccò il Sud del Libano, dove si trovava la maggior parte dei palestinesi fuggiti o espulsi dai territori occupati, la regione vide una strenua resistenza da parte palestinese, che però perse l’appoggio dello Stato libanese quando i falangisti presero il potere in Libano e l’esercito israeliano invase, saccheggiò e distrusse le città e i campi profughi del Sud. Quasi tutti gli uomini e una parte delle donne di Ein El Hilweh furono arrestati. Le donne rimaste nel campo, quindi, dovettero affrontare la devastazione della guerra e la ricostruzione da sole. Il documentario di Dahna Abourahme raccoglie il racconto della resistenza, della solidarietà e della riconfigurazione culturale e materiale che le donne di Ein El Hilweh misero in atto, nella ricostruzione del campo, delle case e delle relazioni umane, sociali e politiche. Ein El Hilweh diventò così “il regno delle donne”, come recita il titolo del documentario.

The Kingdom of Women è costruito attraverso interviste e racconti alternati a spezzoni di animazione che, come racconta la regista in un’intervista del 2010, apportano una dimensione ‘supereroica’ che parla direttamente alla e della lotta palestinese, e allo stesso tempo dialoga con il linguaggio ‘fattualistico’ e ‘veristico’ del documentario, con alcuni oggetti reali che le donne protagoniste mostrano alla disegnatrice Lena Mehrej, fornendo così un controcampo immaginario al realismo delle interviste19.

Uno spezzone in particolare del film restituisce con pregnanza la sovrapposizione di filtri narrativi in cui il racconto orale delle donne è ri-direzionato e diventa il punto nodale da cui si diramano altre narrazioni: quella della disegnatrice, quella della regista, quella collettiva, sempre sottostante ogni racconto della lotta palestinese. Si tratta della scena in cui le donne intervistate raccontano la ricostruzione delle case nel campo, dopo che l’ONU aveva cercato di imporre loro le tende al posto delle abitazioni vere e proprie che l’esercito israeliano aveva raso al suolo20.

La scena porta in primo piano due aspetti dell’oralità. Da un lato, il racconto stesso, registrato, di queste donne: un racconto orale, quindi frammentato, non necessariamente ‘organizzato’ o ‘ragionato’; dall’altro, il filtro del documentario stesso, e l’utilizzo che in esso si fa delle voci di queste donne. Esse, infatti, continuano a parlare anche ‘oltre’ le immagini, sovrapponendosi all’animazione. Le voci diventano dunque fondamentali, raccontano il passato e resistono come la voce di Atika, in cui la storia (Atika sta raccontando ai suoi alunni le storie de Le mille e una notte quando è decapitata), la narrazione e quindi la memoria si sovrappongono al presente delle animazioni, della lotta politica, dell’intervento artistico, del testo documentaristico o letterario.

Il passato, con il suo portato di tragedia, di disastro, è così reso presente nel racconto orale e nell’intervento artistico del documentario di Abourahme. Non solo Abourahme porta nel ‘suo’ presente le voci di queste donne, ma si cala ella stessa nel disastro, nel ‘relitto’ della storia per trovare la narrazione spaesata e spaesante delle protagoniste. La regista si

92 cala nel disastro usando in una grammatica femminile del margine ‘spaesato’. Vi si ‘cala dentro’, come Adrienne Rich si ‘cala dentro al relitto’ nella sua poesia, che dà il titolo alla raccolta pubblicata nel 1973, “Diving into the Wreck”[L], immaginandosi esploratrice subacquea del relitto delle mitologie del passato:

Sono venuta a esplorare il relitto. Le parole sono propositi. Le parole sono mappe. Sono venuta a vedere il danno che è stato fatto e i tesori che sono rimasti. Carezzo il raggio della mia lampada lentamente lungo il fianco di qualcosa di più duraturo dei pesci o delle alghe

la cosa per cui venni: il relitto e non la storia del relitto la cosa stessa e non il mito il volto annegato che sempre guarda verso il sole la prova del danno erosa dal sale e dai flutti a questa bellezza consunta le costole del disastro che curvano la loro asserzione fra i cauti fantasmi21.

Le mitologie (“la storia del relitto”) lasciano il posto, negli abissi immaginari di Rich, alla realtà dell’essere (“il relitto”): l’essere che contiene in sé maschile e femminile, fuori dalle narrazioni egemoniche di genere. La molteplicità compare poco dopo e si fa relitto nudo del corpo ambivalente:

Giriamo in silenzio attorno al relitto ci tuffiamo nella stiva. Io sono lei: io sono lui 22.

E ancora, i miti dell’inizio ricompaiono alla fine della poesia, nel libro in cui la pluralità non è scritta. Il libro è la storia del relitto, ma la poeta ha immerso la propria molteplicità negli abissi, forse nella metafora di una lotta solitaria eppure plurale:

Siamo, sono, sei per viltà o per coraggio quell’uno che torna sempre a questa scena portando un coltello, una macchina fotografica un libro dei miti nel quale i nostri nomi non compaiono 23.

Rich, evidentemente, non racconta qui oralmente la sua storia, e tuttavia sembra contribuire al discorso sullo spaesamento del disastro[P] e della narrazione orale femminile perché in “Diving into the Wreck” mette in evidenza, in un certo senso, l’evento del disastro; il suo accadimento quasi come occasione per gettare via le mitologie del patriarcato, dei ruoli di genere, per tuffarsi e riscrivere i propri nomi su altri libri. C’è quasi una performatività di quel relitto/disastro, attorno a cui la danza acquatica della poeta smantella le narrazioni egemoniche, che non può non richiamare la performatività del racconto orale, straripante, non sempre strategico e militante come quello di Rich, anzi spesso inconsapevole nella sua spontaneità (come per le donne di The Kingdom of Women), ma sempre spaesante e quindi dotato di soggettività agente, agente sul racconto, disordinato e disorientante nella ri-costruzione degli eventi e delle relazioni. Come scrive Deborah Pope a proposito della poesia di Rich,

Il relitto rappresenta il gigante malconcio delle definizioni sessuali del passato, che Rich, in quanto esploratrice

93 subacquea, deve esaminare per cercare tracce di ciò che può essere salvato. Solo chi è riuscito a sopravvivere al disastro – donne isolate da qualsiasi partecipazione significativa nelle forze che hanno portato al disastro – possono scrivere il suo epitaffio e i propri nomi in nuovi libri24.

Rich canta le donne che non partecipano “alle forze che portano al disastro”, che possono contribuire con ‘altre’ narrazioni, anche al di fuori delle categorie egemoniche di genere (“Io sono lei: io sono lui”). Tuttavia, pur affermando qui l’ambiguità di genere come militanza politica, resta il fatto che Rich è una donna che racconta il disastro in modo indisciplinato. Voce femminile spaesata e spaesante. Si torna, qui, alla ‘s-’ privativa: fuori dalla terra e dalla propria casa, ma anche fuori dagli argini della cultura patriarcale.

Fuori da questi argini è, anche, la poeta palestinese-americana Suheir Hammad, spaesata (nata in un campo profughi e trasferitasi negli USA da piccola) e spaesante con la sua poetica urbana e carnale, palestinese e newyorkese, black e araba. Hammad è autrice di diverse raccolte di poesie ed è quella che in inglese si chiama spoken word poet, cioè interpreta le sue poesie dinanzi al pubblico, come una moderna rawiah25, nella moltiplicazione, tra l’altro, della produzione di senso attraverso la diffusione delle sue interpretazioni sui nuovi media. Hammad dunque utilizza la dimensione orale, in un’ulteriore interpretazione artistica dell’oralità, non lontana in realtà dai racconti delle donne di Ein El Hilweh. In una genealogia che la lega alle donne sradicate dalla Palestina, Hammad, cresciuta a Brooklyn, fonde le sue radici profondamente e dichiaratamente urbane, quindi legate all’hip hop, al rap, alla cultura black, ‘recitando’ la ‘sua’ Palestina, che a volte è quella che il padre le racconta, a volte è una terra che diventa simbolo, che la poeta riconosce nel terreno delle piante coltivate nel suo appartamento di Brooklyn, come nella poesia “argela remembrance”[L]26:

siamo un popolo cha dà ai suoi figli i nomi del profeta alle sue figlie i nomi delle levatrici mangiamo con le mani rivolte verso l’alto piantiamo piante nei vasi di plastica in appartamenti soffocanti in stile brooklyn in memoria del terreno un tempo disteso sotto le nostre unghie27.

Altre volte, invece, la Palestina è per Hammad una terra del presente, martoriata e ‘spaesata’, e sono spaesate pertanto anche le sue parole. In questo, la poesia più del racconto lineare del romanzo restituisce lo ‘straripamento’ e l’‘imperfezione’ dell’oralità. La sua poesia intitolata “gaza” percorre una grammatica spaesata e interrotta, una grammatica del dolore familiare e collettivo, del disastro che si fa racconto straripante e che termina, non a caso, trafiggente e universale, dentro al corpo delle donne:

gaza un grande miracolo è successo qui un festival di luci una colata di piombo sui bambini un esercito che banchetta nell’epifania

non so nulla sotto il sole sopra il muro che nessuno menziona alcuni devono morire avvolti in una coperta di petrolio floreale nessuna copertura

sono venuta all’armageddon di tutti i giorni una scala incustodita sei candele bruciano una casa un cavallo legato al fumo alcuni devono morire per inviare un segnale

linea piatta urla in diretta scorre fiume un ricordo più lungo della durata della vita i vivi vogliono morire nel loro paese

nessuna porta aperta nessun mare aperto niente aperto

94 mani piene di cuore cinque figlie avvolte in bianco ogni giorno jihad ogni giorno fede sulla paura ogni giorno uno specchio di fuoco i vivi vogliono morire con le loro famiglie la bambina perde gli arti suo fratello raccoglie braccia alcuni devono morire perché non sono morti bambini sul pavimento dell’ospedale la madre accanto a loro il padre sotto shock questa è la mia famiglia li ho delusi questa è la mia famiglia non ho sollevato le loro teste le ho seppellite la mia famiglia cosa farò ora la mia famiglia è pane un pesce un popolo tagliato a pezzi c’è una sete che deruba la vita c’è una fame un inverno dentro l’inverno alcuni devono morire per portare salvezza io sono venuta per porre fine al tempo costantemente presente la donna ha perso i genitori i suoi bambini e grida mia sorella ho perso mia sorella voglio morire gli occhi di mia sorella erano miele la sua voce la mia non posso affrontare questo solo dio solo dio mia sorella medici uccisi scuole colpite convogli bombardati i feriti stanno morendo i morti sono sepolti in tre ore la gente prega insieme e maledice la gente piange ad alta voce e in silenzio sempre troppo alta la voce mai abbastanza alcuni devono morire perché sono la vicinanza alcuni devono morire perché era scritto no, l’esercito non si scusa non si è mai scusato l’autorità rincorre le carte assemblea occupazione si insedia più profonda un grande miracolo qui i vivi stanno morendo e i morenti vivono un festival di luci una striscia di terra una vampata una colata di piombo sui bambini le loro teste cadono dalle spalle sulla strada i loro busti girano tra le mani un esercito che banchetta nell’epifania spingendo il futuro nella storia spingendo le torce dentro le donne28

95 Avere due patrie e non averne nessuna: le valigie delle donne

Laura Fortini intervista Suban Igiaba Ali Omar Scego

Laura: Al convegno che la Società Italiana delle Letterate ha voluto dedicare alle donne e ai territori violati nel 2013 non poteva mancare la voce di una scrittrice come Igiaba Scego, che nelle sue opere ha scelto di narrare la migrazione come una esperienza di attraversamento di territori violati, a partire dal colonialismo e in particolar modo quello italiano, che risulta ancora oggi una ferita mai rimarginata. Ti andrebbe di ripercorrere insieme le tappe che ritieni fondamentali della colonizzazione italiana della Somalia, fino ad arrivare a Lampedusa ai giorni nostri? Esse compaiono in varia declinazione nelle tue narrazioni, ad esempio nella descrizione del funerale dei morti somali al largo delle coste di Lampedusa1, che si è svolto nel 2003 sulla piazza del Campidoglio con la partecipazione dell'intera comunità somala della diaspora romana.

Igiaba: Riassumere le tappe di una lunga relazione non è mai del tutto possibile. Questa relazione è alla base della mia scrittura odierna e ho provato ad avvicinarmi ad alcuni aspetti che mi sembravano importanti, urgenti per me. Più che la migrazione in sé direi che questi attraversamenti siano stati dettati da una ricerca di un'identità che non riuscivo del tutto a capire o forse addirittura ad accettare. Ero confusa da giovanissima. Molto confusa. Sentivo di appartenere[P] solo a me stessa, ma poi intorno non trovavo appigli geografici a cui aggrapparmi. Non ero somala per i somali, non ero italiana per gli italiani. Mi sentivo solo romana perché la città era l’unica cosa che davvero mi contenesse. Poi ho capito che il vero contenitore della mia identità stava dentro la Storia. Non quella che studiavo a scuola quando ero piccola, ma quella che ho scoperto (a partire dagli studi universitari) da adulta. Era lì che era nascosta la mia identità. Dovevo studiare la storia, capovolgerla, leggerla al contrario, andare in profondità, scavare, far uscire fuori il non detto. Ed ecco che il colonialismo è diventato per me una categoria fondante della mia scrittura. Attraverso il colonialismo storico ho capito il mio presente da figlia di migrante in Italia. Purtroppo gli stereotipi attivati durante il colonialismo storico in Italia verso chi era considerato diverso non sono stati mai di fatto smantellati, questi stereotipi colpivano anche me a decenni di distanza. Quindi per me era importante capire come il mio paese di origine e il mio paese di nascita si sono relazionati. La Somalia è stata colonia italiana fino al 1941, poi dopo un periodo di interregno (a guida inglese) è passata sotto amministrazione fiduciaria italiana. Un paradosso a ben pensarci, ovvero le Nazioni Unite avevano decretato che la Somalia non era pronta per l'indipendenza e andava un po’ ‘formata’. Serviva quindi un paese formatore. La scelta è caduta sull'Italia, che in quel momento non era nemmeno un paese membro delle Nazioni Unite. Il paradosso era nel fatto che il formatore era lo stesso paese che aveva colonizzato la Somalia anni prima. Nessuno di fatto può insegnare la democrazia ad un altro paese, ma a maggior ragione quello che ti aveva colonizzato per anni. Era tutto sbagliato! La Somalia ha cominciato il suo cammino di indipendenza già zoppa. Comunque fino alla guerra civile l'Italia era dappertutto in Somalia. Cambiavano gli ordinamenti politici, ma l'Italia rimaneva un punto fisso nella storia somala. Soprattutto per quanto riguarda la vita culturale. Tutti parlavano italiano, i documenti erano scritti in italiano, molti frequentavano scuole italiane. Anche la musica pop era italiana. Io lo dico sempre, ad ogni presentazione, che mia sorella che oggi vive in Canada mi chiede se Gianni Morandi ha fatto un nuovo disco. Lei da adolescente ascoltava Gianni Morandi. Ora questa relazione culturale si è spezzata. L'Italia ha di fatto abbandonato la Somalia con la guerra civile. Anche se alcuni italiani hanno continuato a fare affari sporchi nel paese. La povera Ilaria Alpi è morta perché aveva scoperto un traffico di rifiuti che aveva di fatto trasformato la Somalia da paradiso a discarica. Oggi i giovani somali parlano turco, inglese, arabo. Nessuno parla più italiano. Ma l'Italia oggi è tornata con un nuovo significato nell'immaginario dei somali. L'Italia è la porta dell'Europa, la terra promessa, quella che traghetterà tutti verso i sussidi del Nord Europa. È una visione distorta di Europa, nella testa si ha l'opulenza degli anni '80 del secolo scorso, ma la realtà di questi anni Duemila è fatta di stenti e impoverimento. L'Europa non è più Europa e in questo quadro l’Italia è una porta che si affaccia ad un continente stanco, depresso, egoista, solo. Un’Europa povera e un’Italia ancora più povera. Ma non è una povertà di denaro, è una povertà di spirito. Il diritto al viaggio per i giovani del Sud del mondo è negato, le porte sprangate, il viaggio è a senso unico. È solo un viaggio che

96 può portarti in avanti, non è un viaggio circolare. Un africano, un’africana non possono andare e tornare, sono costretti dalle circostanze solo ad andare avanti. Chiaramente tutto questo e soprattutto le figure del colonizzato e del rifugiato si mescolano nelle mie scritture. Sia nel passato sia nel nuovo romanzo, Adua, uscito agli inizi di settembre 2015 2. Però ecco ora che ho attraversato questa storia posso finalmente abbandonare l’urgenza per arrivare ad una riflessione. E sì, dopo dieci anni di attività, a declinare gli stessi conflitti in tematiche differenti. I miei interessi futuri sono legati alla fotografia, alla storia dell’arte e allo sport. Credo che l’urgenza autobiografica (non solo della mia biografia personale, ma anche della biografia dei miei due paesi) possa oggi finalmente lasciare il posto alla riflessione.

Laura: Hai scritto affrontando volta per volta aspetti diversi delle ferite imposte dal colonialismo e dalla sopraffazione delle potenze occidentali e del mercato su terre che hanno subito oltraggi di varia natura e a più riprese nel tempo. La Somalia nei tuoi testi è divenuta immagine simbolica dell’Africa tutta e della nostalgia per la terra materna, a partire dalla tua opera di esordio, La nomade che amava Alfred Hitchcock3[L], del 2003: libro bilingue rivolto alla scuola, di cui ho amato molto la presenza del testo a fronte in somalo, che rappresenta, quasi corpo in figura, la materialità delle lingue l’una accanto all’altra. Significativa la scelta della tua voce narrante, una donna che ha nome Kadija, presentata nella tua introduzione come una non qualsiasi eroina: perché si tratta di tua madre 4, che racconta la propria infanzia in Somalia, dove è nata nel 1938, o forse nel 1940, difficile dirlo con esattezza, come per altro per molti abitanti dell’Italia che a volte sfuggivano all’anagrafe. Tu scrivi di “una nostalgia struggente verso quella terra, oggi così travagliata” 5, nostalgia di tua madre ma anche tua, che sei nata a Roma nel 1974. Che cosa ti ha permesso di mettere in luce la voce di tua madre, di cui restituisci così bene il nomadismo, sia nell’infanzia che poi in età adulta, posta accanto alla tua, che te ne fai interprete amorosa? Una vera “fortuna provvidenziale” 6 per entrambe, così viene spiegato il significato del nome Igiaba in somalo...

Igiaba: Era il mio primo libro serio. Per me quasi un terreno di prova. Non sapevo ancora che sarei durata dieci anni e che quello di scrivere sarebbe diventato un mestiere, una vocazione. Mi rendo conto leggendo quel libro bilingue che era nato da esigenze autobiografiche forti. Poi sì, non avevo in me la consapevolezza della scrittura. Era più una testimonianza di cui io ero la mediatrice. Oggi se lo rileggo non ci vedo la mia mamma, ma il mio tentativo (forse un po’ goffo e un po’ tenero) di dare corpo alla migrazione dei miei genitori. Devo dire che da allora però ne ho fatta di strada. Dico mentale. Una strada che mi ha portato a mettermi sempre più in gioco. Ad approfondire questa strano fenomeno di avere due patrie e non averne nessuna. La Somalia non esiste più dal 1991, ora c’è un’altra Somalia al suo posto, città parzialmente anche ricostruite, ma io con quei luoghi non ho più un legame reale. La Somalia che ho conosciuto io è quella dei miei genitori, quella in cui sono stata da piccola. Ora abito il paese della mia immaginazione[P]. E naturalmente abito Roma. Per me Roma è anche un luogo dell’immaginazione. È una città dalla storia stratificata e in ogni strato può scoprire legami, relazioni. Roma a volte è anche Africa. Il mio nome è Africa, ma è anche grazie alla storpiatura romana che lo dimezza – “Igià”, “Igi” – anche Italia. Il suo significato per me è solo questo. Un nome che si porta dentro due esistenze.

Laura: Nel racconto “Salsicce”[L] 7, del 2003 (ma pubblicato in volume nel 2005), l’io narrante, “una musulmana sunnita”8, racconta l’impulso irrefrenabile che l’ha condotta a un gesto del tutto inusuale per lei, comprare una quantità notevole di salsicce che diventano oggetto simbolico di che cosa significhi per lei sentirsi somala e sentirsi italiana. Fulminante l’elencazione dell’io narrante:

Vediamo un po’. Mi sento somala quando: 1) bevo il tè con il cardamomo, i chiodi di garofano, la cannella; 2) recito le 5 preghiere quotidiane verso la Mecca; 3) mi metto il dirah 9; 4) profumo la casa con l ‘incenso o l ‘unsi10; 5) vado ai matrimoni in cui gli uomini si siedono da una parte ad annoiarsi e le donne dall’altra a ballare, divertirsi, mangiare... insomma a godersi la vita; 6) mangio la banana insieme al riso, nello stesso piatto intendo; 7) cuciniamo tutta quella carne con il riso o l’angeelo 11; 8) ci vengono a trovare i parenti dal Canada, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dall’Olanda, dalla Svezia, dalla Germania, dagli Emirati Arabi e da una lunga lista di stati che per motivi di spazio non posso citare in questa sede, tutti parenti sradicati come noi dalla madrepatria; 9) parlo in somalo e mi inserisco con toni acutissimi in una conversazione concitata; 10) guardo il mio naso allo specchio e lo trovo perfetto; 11) soffro per amore; 12) piango la mia terra straziata dalla guerra civile; 13) faccio altre 100 cose e chi se le ricorda tutte!

Mi sento italiana quando: 1) faccio una colazione dolce; 2) vado a visitare mostre, musei, monumenti e monumenti; 3) parlo di sesso, uomini e depressioni con le amiche; 4) vedo i film di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Totò, Anna Magnani, Giancarlo Giannini, Ugo Tognazzi, Roberto Benigni, Massimo Troisi; 5) mangio un gelato da 1,80 euro con stracciatella, pistacchio e cocco senza panna; 6) mi ricordo a memoria tutte le parole del 5 maggio di Alessandro Manzoni; 7) sento per radio o tv la voce di Gianni Morandi; 8) mi commuovo quando guardo negli occhi l’uomo che amo, lo sento parlare nel suo allegro accento meridionale e so che non ci sarà un futuro per noi; 9) inveisco come una iena per i motivi più disparati contro primo ministro, sindaco, assessore, presidente di turno; 10) gesticolo; 11) piango

97 per i partigiani, troppo spesso dimenticati; 12) canto Un anno d’amore di Mina sotto la doccia; 13) faccio altre 100 cose, e chi se le ricorda tutte!12

E conclude: “Un bel problema l’identità, e se l’abolissimo?” 13 Evidente che molti sono gli elementi in gioco nella tua scrittura, a partire dalla stessa questione identitaria rispetto ad appartenenze vere o presunte, che nelle voci delle donne, però, protagoniste di tutte le tue narrazioni, trovano un timbro particolare, capace di raccontare le violazioni dei corpi, degli affetti, la ferita della nostalgia e l’esperienza di vite altre e diverse in modo tale da trovare riparo e riparazione alla violazioni di terre che sono anche quelle dell’anima, come nel bel racconto “Dismatria”[L]14, pubblicato nel 2005 insieme a “Salsicce”. In esso le valigie delle donne, esposte proprio come corpi vivi della memoria della terra che si è state costrette ad abbandonare, a sorpresa contengono anche oggetti della terra che si è costrette ad abitare in quanto esuli. La condizione di chi è esule è quella di essere “dei dismatriati, qualcuno – forse per sempre – aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, alla Somalia” 15; per scoprire, però, in conclusione del racconto, che molte sono le possibili matrie da abitare, ognuna con un proprio posto nelle valigie delle donne. Se per un verso il pensiero va al romanzo di Luigi Meneghello Il dispatrio (1993), in cui però forte è l’accento sulla condizione dell’esilio anche volontario rispetto a una terra che non si percepisce più come ‘patria’, d’altra parte sembra che tu ritenga che le valigie delle donne possano rappresentare atto simbolico di risarcimento, ritessitura dei fili spezzati con le terre madri, che siano esse quelle d’origine o quelle che si abitano, volta per volta anche diverse.

Igiaba: è strano per me rispondere a questa domanda. “Salsicce” ha più di dieci anni. Quelle erano le mie questioni dieci anni fa. Ero confusa, sola, davanti a qualcosa che non capivo. Quel racconto nasce da un’urgenza autobiografica, ma non è autobiografico. Non ho mangiato mai salsicce e non mi sono mai trovata nella situazione della protagonista. Da studiosa di letteratura spagnola ho tratto ispirazione dai racconti del Cinquecento/Seicento spagnolo. Infatti in Spagna nel 1492 e nel 1509 avvengono due fatti terribili. Nel 1492 vengono espulsi gli ebrei e nel 1509 i moriscos ovvero gli abitanti di origine musulmana. La Spagna si dichiara bianca e cristiana. Chi non lo era, era fuori dalla Nazione. Molti musulmani per rimanere in Spagna si convertivano al cristianesimo e c ‘erano molti racconti che mostravano musulmani intenti a mangiare vistosamente carne di maiale. L ‘atto impuro era la tassa da pagare per perdere la propria identità e acquistare il diritto di poter far parte della Nazione. Io ho usato la stessa matrice di quei racconti spagnoli. Le salsicce sono la metafora di un’imposizione odiosa. Per me nei racconti era importante far vedere in quella mia prima fase di scrittura i temi che avevo nel cuore. Ma volevo creare parole, metafore, visioni di quello che sentivo anche interiormente. Per me era importante costruire una storia attorno ad un concetto. I temi come le identità e l’esilio sono rimaste nella mia scrittura anche adesso. Ma declinate diversamente. Era come se avessi avuto bisogno di crearmi un alfabeto narrativo per poter proseguire la ricerca.

Laura: nel successivo romanzo Rhoda[L]16, femminili sono le voci narranti che cercano di tessere la trama stretta del rapporto con la terra materna ferita, violata dalla guerra civile somala, di cui si narrano le prime avvisaglie e l’imminente caduta del dittatore Siad Barre, avvenuta nel 1991: se Rhoda è la donna bellissima e regale ma piegata dall’esilio che sceglie di tornare a Mogadiscio per morirvi di AIDS – e la sua tomba e il suo cadavere verranno profanati - le altre personagge 17, sua zia Barni e l’amica Faduma Aden, come sotto altri aspetti la sorella Aisha, sono impegnate anche allo stremo nel lavoro di risarcimento simbolico e materiale delle ferite subite da tutte loro e dall’intera comunità somala, dai loro familiari rimasti in Somalia cui inviano denaro per vivere, fino ad arrivare a intitolare a Rhoda il negozio etnico che riusciranno a rendere realtà in un quartiere della periferia romana. Ritieni che questo sia stato e sia tuttora il ruolo delle tue personagge? Perché si tratta di un tratto distintivo che le rende davvero preziose...

Igiaba: Io adoro le mie personagge. Anche se sono totalmente sgangherate. Sì, è un tratto distintivo della mia scrittura. Anche nel prossimo romanzo ho descritto una donna che attraversa la sua sconfitta a testa alta. Credo che ci sia una continuità tra Rhoda e la mia prossima personaggia. Ma sento che sto per chiudere una fase che è cominciata con Rhoda. Avevo bisogno di parlare molto di Somalia. Ho deciso (ed un po’ ho già cominciato con Roma Negata) che prossimamente mi dedicherò a Roma. Ma ecco, le personagge rimarranno.

Laura: è stato notato come nella tua scrittura vi sia una presenza del corpo violato femminile 18 e anche maschile quasi impudicamente esposto in modo tale da forzare chi legge a prendere posizione di fronte a una materia talmente incandescente da diventare strabordante, eccessiva, vulcanica si vorrebbe dire, nella narrazione. È il caso di Oltre Babilonia[L]19, dalle molteplici voci narranti e polifonico al punto che è quasi difficile definirne il genere letterario e non reca neanche la definizione ‘romanzo’ in copertina: tali e tanti sono i luoghi, le vicende della contemporaneità che vi si intrecciano, dalla Somalia sotto il dominio italiano all’Argentina del colpo di stato e della dittatura e del conseguente forzato esilio per sfuggire alla tortura e alla morte, cosa impossibile per molti, moltissimi, troppi, in Somalia come in Argentina e in tantissimi altri luoghi del mondo. Mi ha colpito come Oltre Babilonia si apra e si

98 chiuda sull’immagine, potente, delle mestruazioni di una delle protagoniste descritte all’inizio della narrazione pallide e incolori quanto la percezione di sé di chi parla, nelle ultime pagine invece colorate in modo netto e deciso al punto di fornire inchiostro per scrivere quanto si è raccontato fino a quel momento. La nominazione delle mestruazioni è definita dalla voce narrante “un atto di sovversione pura”20, che colloca la tua scrittura in un rapporto di continuità con le scrittrici, anche italiane, che hanno nominato e rappresentato in modo sovversivo il corpo femminile nelle loro opere, a partire da Sibilla Aleramo, Grazia Deledda, Ada Negri e molte altre ancora 21. Nel tuo caso è motivo per un excursus tra le varie forme di nominazione delle mestruazioni nelle varie lingue madri (dal romano al somalo, dall’uso statunitense a quello messicano, per arrivare fino al finlandese), con un’apertura alle differenze, non solo linguistiche ovviamente, che ritorna con continuità nella tua scrittura. Le mestruazioni come emblema di costellazioni tutte da riscrivere per parte delle donne? Di possibilità generative di altri mondi molto migliori di quello in cui ci troviamo a vivere?

Igiaba: Certo, sì. Ma le mestruazioni, o meglio il fatto del colore che sfugge che mi interessava di più – a causa della violenza subita la negropolitana non vede le sue mestruazioni rosse. Per lei il suo corpo è quasi privo di vita. Non produce il colore rosso, quello del sangue, e tutto diventa opaco. Questo era il mio modo di spiegare cosa attraversa il corpo di una donna quando la violenza l’attraversa. In una società morbosamente attaccata all’evento (soprattutto dopo un atto violento, c’è quasi un feticismo da turista che vuole quasi toccare gli oggetti della triste vicenda o quanto meno ne vuole sentire parlare molto in TV) a me interessava fare un’indagine inversa ovvero il corpo che tattiche porta sul campo dopo un atto così tremendo nei suoi confronti. Come fa a riprendersi? Il corpo si salva? Muore? Cosa fa? Quali sono le sue tattiche? Come sopravvive? Come vive? Come si barcamena in un mondo apertamente ostile? Si può guarire da un dolore così grande? Allora o scrivevo un trattato sulla violenza o creavo un’immagine. Ed ecco che l’assenza del colore e la ricerca del colore perduto per me sono la risposta a queste domande. Intorno a quello si snoda una narrazione. Io parto sempre da una o più immagini per scrivere. Naturalmente i temi dei corpi[P] violati mi interessano. Perché il mio paese di origine è un corpo violato. È stato colonizzato, maltrattato, sono stati sversati rifiuti tossici nel suo mare meraviglioso, la gioventù viene traviata, si vendono armi che rendono ricchi i trafficanti. Per forza poi una persona si occupa di violazioni. È quasi un leitmotiv della storia dei somali. Pure l’Italia anche se in maniera diversa è stata violata.

Laura: Per sopravvivere allo sbiadire dei ricordi di una terra che esiste solo nei territori della memoria, la famiglia di esuli somali riunita da varie parti dell’Europa intorno a un tavolo a Manchester disegna la mappa di una città di carta: è l’immagine bellissima del primo capitolo del libro del 2010, La mia casa è dove sono[L] 22 in cui ha inizio una ricerca dei propri luoghi, dei percorsi che fanno sì che ogni soggettività si rappresenti come un crocevia umano: “un ponte, un’equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai. Alla fine sono solo la mia storia” 23, scrivi. E in quella storia vi è quella bellissima immagine dell’elefantino di piazza Santa Maria sopra Minerva a Roma 24, che ha lo stesso sguardo della madre della voce narrante e che non ho potuto mai più guardare, dopo la lettura del tuo libro, senza pensare allo sguardo di chi è esule. L’elefantino ritorna, in apertura e non a caso, nel tuo nuovo romanzo, Adua, in cui interloquisci con lui; e lo ricordi anche nel libro precedente, Roma negata[L] 25, in cui ripercorri passo passo i luoghi della memoria coloniale italiana, dove racconti un altro naufragio, quello di trecentosessantanove eritrei inghiottiti dal Mar Mediterraneo il 3 ottobre 201326. Il Mediterraneo di Frontex è infatti molto lontano dal teatro-mondo descritto da Ferdinand Braudel ormai molti anni fa, luminosa e dinamica via di scambio tra culture diverse e differenti...

Igiaba: Io non guido la macchina da tempo. Vorrei riprendere. Ma ho guidato il motorino fino all’anno scorso. Ora giro in bus e a piedi. Camminare per me è un modo per stare al mondo. Attraverso i miei piedi mi rilasso e conosco la mia città, le altre città, me stessa. Ecco perché le mappe, le strade, i monumenti, le targhe e tutti i segni distinguibili dentro una città sono per me importanti. Le città sono protagoniste dei miei libri. I luoghi non sono mai luoghi casuali, ma fanno parte di una sorta di geografia emotiva. Per me i luoghi raccontano[P] le storie nascoste delle nazioni (come nel caso di Roma Negata e il colonialismo italiano) o delle persone (che ricostruiscono Mogadiscio attraverso i loro ricordi). I luoghi sono autostrade della memoria, da percorrere a piedi nudi, con un po’ di incoscienza.

99 … so di non essere dotata per un altro (mondo)

Paola Meneganti

Nello spaesamento ci sono punti fermi. Forse è un ossimoro, forse non lo è. Tento di ripercorrere alcune tracce di lettura e di riflessione svolte in questi anni nella comune passione politica e di ricerca con le compagne dell’Associazione Evelina De Magistris.

[…] cerco, cerco. Tento di capire. Tento di dare a qualcuno ciò che ho vissuto e non so neppure a chi, ma non voglio tenere per me ciò che ho vissuto. Non so che cosa farmene, ho paura di quella disorganizzazione profonda. Non mi fido di ciò che mi è accaduto. Mi è accaduta una cosa che io, per il fatto di non sapere come viverla, ho forse vissuto come se fosse stata un’altra? Tutto questo lo vorrei chiamare disorganizzazione e avrei la sicurezza necessaria per avventurarmi, perché dopo saprei dove ritornare: alla precedente organizzazione. Preferisco chiamare tutto questo disorganizzazione poiché non voglio convalidarmi in ciò che ho vissuto – nella convalida di me stessa io perderei il mondo così come l’avevo e so di non essere dotata per un altro 1.

È il brano iniziale di uno dei più bei libri di sempre, La passione secondo G.H.[L] di Clarice Lispector. “Non mi fido di ciò che è accaduto”, dice Lispector. Non mi fido di ciò che convinzione comune è che sia accaduto. “So di avere visto – perché non capisco. So di avere visto – perché a nulla serve ciò che ho visto” 2.

Si viene al mondo inserite in un ordito di linee e volumi e in una trama di chiaroscuri. Riconoscibili dallo sguardo, è la parola che li mette in tessuto. Col corpo e col linguaggio capiamo laddove siamo. Un ordito violato nelle linee di paesaggio e una trama di linguaggio violata da parole insensate e menzognere non permettono più di riconoscere dove siamo. Come scrive Rosi Braidotti[L] , quando di soggetti in carne ed ossa si parla, la teoria non può che procedere su un piano di “nuovo materialismo” 3. È la materialità della materia vivente. Abbiamo bisogno di una lingua, abbiamo bisogno di corpi desideranti per leggere una realtà opacizzata, frastornante, perturbante. “Il desiderio è produttivo, perché fluisce, è in continuo movimento. È una produttività che comunque implica anche rapporti di potere, transizioni attraverso registri contraddittori, spostamenti di accento”4.

Quando lo spaesamento è perdita di mondo (penso alle macerie di una città come L’Aquila), quando il paesaggio è distrutto o sovrapposto da strutture che ne impediscono il riconoscimento, scrive Nadia Tarantini, il tuo paesaggio interiore ne può risentire fino all'annichilimento5.

Ancora Lispector: non ero prigioniera, ero localizzata. E “mi localizzavo rimpicciolendo” 6.

Qui abbiamo una traccia: de-localizzarsi, per non rimpicciolire.

De-localizzarsi, per esempio, rispetto al discorso pubblico corrente, che è molto spesso in “armistizio con la propria menzogna”[L]7. Riconoscere, con Foucault[L], che il reale è polemico, il reale è un campo di lotte. È la funzione guerriera di Angela Putino[L]8. Agire funzione guerriera in queste lotte, anche se, ancora con Foucault, noi siamo spaesati e spaesate a causa di un movimento coatto, una coazione che subiamo da molti lati, che ci induce alla paura e alla fuga in un comune senso di vulnerabilità 9. Invece: non fuggire, non adeguarsi. Cercare la verità per noi, per me corpo parlante.

100 Adeguarsi al discorso pubblico corrente significa cercare nicchie protette, costruire case a schiera, dire le parole che corrono di più.

Oppure, ci possiamo congelare (è un'immagine potente di Nadia Tarantini) in un futuro che sarà perenne rimpianto del passato. O “andare troppo lontano per poter fare ritorno”, e costruirsi un “cuore sempre più duro”10. O fare esperienza di un muro senza porte11.

Oppure, possiamo rimettere in continua questione l’abitare i territori del presente (che siano concreti o simbolici). Operare traduzioni, spostamenti, adattamenti. Lo spaesamento, allora, si traduce nel mettersi in un’altra posizione, in un’altra prospettiva. Spostarsi. “Mettere in atto una strategia che sappia giocarsi positivamente tra il fuori e il dentro, tra la realtà esterna e la sfera intimistica, trovando, in questo andirivieni, una linea che tocca diversamente l’esperienza”12.

Le vecchie strade – ogni portone e lampione e terrazza – erano familiari, eppure non del tutto; in qualche modo erano quasi più reali di quanto ricordassimo. Poi c’erano cose che non ricordavamo affatto, e allora sentimmo che una porzione dei nostri cervelli era stata messa fuori combattimento. Ognuno di noi si aggirava per quelle strade allo stesso modo, vagamente impaurito, come se il padre o la madre morti, la moglie o la sorella potessero saltar fuori all’improvviso da dietro una porta. E nel cuore di tutto ciò, un orgoglio cittadino, una gioia, e una tacita umiliazione, per quel nostro bisogno così evidente, e così inconsolabile 13.

Non sentirsi più a casa: come chi pensi il delta del Nilo dopo la violenza della costruzione della diga di Assuan. “Ogni fiume ha una propria ricetta per l’acqua, una propria intimità chimica”14.

Ho trovato la dolente consapevolezza di un decentramento, di un porsi a lato, in una poesia di Edna St. Vincent Millay, anche questa citata in La cripta d’inverno[L] di Anne Michaels:

Oh mondo, non posso tenerti abbastanza vicino … Da tempo ho conosciuto la sua gloria, Ma non ho mai conosciuto questo: Una passione così forte Che mi strazia le membra oh Dio, temo, Quest’anno hai fatto il mondo troppo bello; L’anima mia mi ha quasi lasciato …15

Molto spesso, la violenza sulla terra si lega alla violenza sulle donne e sugli uomini, è la necessaria pre-fazione e pre- azione alla violenza sugli umani. Un’anziana signora del movimento NoTav, pochissimi anni fa, ha spiazzato la violenza dello schieramento di polizia semplicemente tagliando, con un paio di cesoie, la rete di recinzione di un cantiere. Un atto di disubbidienza, un piccolo taglio contrapposto allo sventramento della terra: la signora ha così reagito a chi voleva rubarle la casa, l’aria, il paesaggio, la luce dei suoi luoghi.

Ho pensato che il neoliberismo agisca le sue carte di destabilizzazione e di oppressione anche attraverso la produzione di spaesamento, di estraneità al contesto, di messa in discussione e distruzione di orizzonti considerati ormai conquista corrente. Penso all’abbattimento – come per gli animali al macello – dei diritti del lavoro, la distruzione simbolica e fattuale più ‘efficace’, forse, degli ultimi anni; penso a L’Aquila, al puntellamento falso e fonte di guadagni, allo sfollamento imposto agli abitanti del dopo sisma, i soli che, attraverso i loro corpi, avrebbero potuto testimoniare e rendere insopportabili i ritardi, le ruberie, la corruzione (mi ha detto un compagno de L’Aquila: “avremmo dovuto opporci, ma come potevamo? Eravamo annichiliti dal dolore, tramortiti; e nessuno, in quei momenti terribili, ci ha aiutato a riflettere, a resistere”). Le donne de L’Aquila, le donne TerreMutate ci hanno reso chiaro che la casa, il luogo in cui si vive, è esso stesso materia vivente, pulsante di relazioni, dimensione capace di far nascere creatività, incontro, costruzione. L’Aquila come metafora di un Italia che distrugge ma non rigenera, che offende ma non ripara, un’Italia affarista, incolta, criminale e criminogena, che distrugge memoria[P] e radicamento, concentrata nei vantaggi possibili nel tempo presente. “[…] Perché se è vero che L’Aquila vive un concentrato di disastri italiani, allora anche le donne (e gli uomini) che non vivono a L’Aquila devono sentire la perdita di questa città come una voragine, interna quanto esterna a sé. E perciò il problema di un mutare (non solo pelle, qualcosa di più profondo), di un essere donne mutate, un’altra volta ancora, possiamo condividerlo” 16.

La terra mutata, la terra violata in cui anche i morti non hanno pace. “Quando fu costruito il canale anche i morti furono sfrattati, riesumati e trasferiti in cimiteri a nord del fiume”17. Occorre costruire una diga gigantesca ad Abu Simbel, in Egitto: i templi e le statue verranno sezionati e spostati, e non saranno più gli stessi. Accadrà anche ai villaggi, alle oasi lungo il Nilo, alle persone: non saranno più le stesse.

101 E fu Hassan Dafalla che rimase in silenzio alla vista delle nuove case, vuoti blocchi di calcestruzzo messi in fila sul terreno come casse da imballaggio, senza alcun collegamento con il suolo. Fu lui che sentì il duro colpo della sconfitta, una cosa da togliere il fiato; e capì che la vita può essere scorticata di qualsiasi significato, scorticata della memoria18.

Sono le case del progetto “New Halfa”, con “stanze troppo piccole per le famiglie che dovevano viverci; così, i villaggi furono divisi”19. È fin troppo facile l’accostamento alle case berlusconiane della “New Town” di L’Aquila, sulle cui pareti non era possibile attaccare un quadro, una foto, un brano di memoria, e che, pochissimi anni dopo, hanno cominciato a creparsi, a disfarsi. Come le menzogne.

Il ‘nuovo’, si dice, si edifica sulle macerie del ‘vecchio’: “Mi domando cosa significhi ‘salvare’ qualcosa”, disse Lucjan, “quando siamo noi, prima, a far sì che abbia bisogno di essere salvata. Prima distruggiamo e poi tentiamo di salvare. E dopo, per di più, ci mettiamo a moraleggiare sul salvataggio” 20.

Una autrice dello spaesamento è Anna Maria Ortese, e lo è nella sua scrittura, poiché, come scrive lei stessa, “nella scrittura” occorre cercare “la chiave di lettura di un testo e la traccia di una sua eventuale verità” 21. Ortese, dopo molti anni dalla sua prima pubblicazione, scrive una prefazione a Il mare non bagna Napoli[L], in cui la città, nella sua crudezza fin troppo reale, diventa scenario della ‘nevrosi’ dell’autrice: in ogni punto della pagina si sente “un che di ‘troppo’”; senso di spaesamento e di precarietà. È il silenzio immoto davanti al dolore del mondo, come di chi contempli “un secondo mondo o seconda realtà, una immensa appropriazione dell'inespresso, del vivente in eterno[L]”22.

Una nevrosi ‘metafisica’: “Da molto, moltissimo tempo, io detestavo con tutte le mie forze, senza quasi saperlo, la cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante”23. Ortese rintraccia nella guerra (“terrore ovunque e fuga per quattro anni”) la fonte della sua “irritazione contro il reale; e lo spaesamento di cui soffrivo era ormai così vero, e anche poco dicibile – perché senza riscontro nella esperienza comune – da aver bisogno di una straordinaria occasione per manifestarsi. Questa occasione fu il mio incontro con la Napoli uscita dalla guerra”24. La “lacera condizione universale” che Napoli rifletteva viene “chiamata in causa” dall’autrice, che condivide con la città il “nero seme del vivere”25.

Perché Napoli

era città sterminata, godeva anche di infinite risorse nella sua grazia naturale, nel suo vivere pieno di radici. Io, invece, mancavo di radici o stavo per perdere le ultime, e attribuii alla bellissima città questo spaesamento che era soprattutto mio. Questo orrore – che le attribuii – fu la mia debolezza. […] né io sapevo, e potevo dirlo – che il Mare era solo uno schermo, non proprio inventato, su cui si proiettava il doloroso spaesamento, il ‘male oscuro di vivere’, come poi venne chiamato, della persona che aveva scritto il libro 26.

Nel racconto “Un paio di occhiali”, dopo aver inforcato le lenti degli occhiali nuovi, Eugenia vede, per la prima volta, con nitidi contorni e luccicanti colori il mondo in cui era vissuta, fin allora, e viene “rapita da tutto quello splendore”27. Un velo viene squarciato, la meraviglia è totale. Ma, presto, il meraviglioso si trasformerà in uno stupore atroce e privo di illusioni. Il sole che illumina il suo viso di “piccola vecchia”, un viso destinato a piangere, prepara la scena della visione dolorosa.

Improvvisamente i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò. Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri coi lumi brillanti a cerchio intorno alla dolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali 28.

Riesce a calmarla donna Rosa, la madre, con un sorriso “finissimo, tra compassionevole e meravigliato” 29, così come donna Mariuccia sentenzia che Eugenia è meravigliata, e anche il suo volto è “torvo di compassione” 30, mentre rientra “nel basso che le pareva più scuro del solito” 31. È il tema della “frana interna, un angoscia e un dissolversi di tutta la materia”32. Come se l’infinita cecità del mondo si coniugasse con la visionarietà dell’autrice, per cui il reale si fa dimensione sfuggente, multiversa, multisenso. “Insomma, io non amavo il reale, esso era per me sebbene non ne fossi molto consapevole, come non lo sono forse nemmeno ora, era quasi intollerabile. Da dove questa intollerabilità

102 provenisse, non sono ancora adesso in grado di dire, o dovrei interrogare la metafisica” 33. Per cui il suo libro su Napoli “fu visione dell’intollerabile, non fu una vera misura delle cose (di misure, ero e sono incapace)”34.

In Carla Lonzi, la domanda radicale sul “niente misconosciuto in cui mi ero rifugiata prima” 35 risale “ad un bisogno di conoscenza di me e degli altri di cui mi prendo tutta la responsabilità” 36. Si tratta di “provare la mia esistenza a me stessa”37; e, per far questo, “ho abbandonato ogni possibilismo: mi sono spalancata l’imprevisto accettandomi come ero”38. L’inversione della realtà, libera e liberata, l’interrogazione su di sé, senza garanzie, autentica, presuppongono il vuoto, unica dimensione possibile in cui far scaturire l’Io della donna, un “Io come vuoto culturale che costituisce il presupposto per una riscoperta del nostro corpo[P], cioè di una nostra cultura”39. Occorre uscire dalle forme del riconoscimento maschile: si lascia un mondo, si va alla ricerca di un mondo. Fare vuoto, spaesarsi, cominciare: “Anche le sante mi sono apparse spesso caratterizzate da quel vuoto culturale che ha permesso loro di vivere la propria identità al limite della follia”40.

Anne Michaels sottolinea con maestria i temi della perdita e del ritrovarsi. “‘In un edificio non cerco né originalità né autorità’, disse Avery. ‘Cerco... il ripristino. Quando ritrovi te stesso da qualche parte...’, e tacque per un istante. ‘Credo di voler dire esattamente questo – trovare me stesso, in un luogo’. ‘Vorremmo che i nostri edifici invecchiassero insieme a noi’, disse Daub”41. E ancora, la distruzione, la riedificazione:

C’erano poi i luoghi che avevano cambiato tutto tranne i nomi. Dopo la loro cancellazione, quando le città furono ricostruite, Varsavia diventò Varsavia, Dresda diventò Dresda, Berlino Berlino. Si poteva sostenere, ovviamente, che quelle città non erano completamente morte, semmai cresciute di nuovo dai loro resti. Una città però non ha bisogno di bruciare o annegare; può morire proprio sotto i tuoi occhi, in modo invisibile [...] L’Europa fu strappata e ricucita42.

Il radicamento erratico e “meravigliato”, come direbbe Ortese, l’essere eccentrici, la non appartenenza, scelte come dimensione di vita, o imposte con la brutale violenza di un esercito nemico, fanno crescere una consapevolezza: “Una rivelazione ingenua, infantile: possiamo morire senza lasciare traccia”43. Lucjan si distrae per un attimo fatale: “Distolsi lo sguardo dalla finestra per un istante – non più di qualche secondo – o forse stavo solo sognando a occhi aperti – e quando mi voltai di nuovo, mia madre era andata, semplicemente andata, e basta. Non la vidi mai più” 44.

Il femminismo ha frantumato molta tradizione e ha imposto una ridefinizione della politica.

L’atto rivoluzionario del femminismo, evento lungo che ha spezzato la continuità della tradizione, imponendo insieme una ridefinizione della politica, è consistito nella sospensione del valore corrente delle relazioni tra uomini e donne, in una ‘separazione’. Non mera teoria o interpretazione del mondo, la differenza sessuale pensata per parte di donne è politica perché è agita, prende corpo in un insieme di pratiche. Il pensiero che da lì nasce è pensiero materiale, generato dall’esperienza, dalle condizioni e dalle posizioni che una donna assume effettivamente nella vita. La politica dunque non si definisce all’incrocio dei diritti, del potere, delle istituzioni ma, in modo al contempo più elementare e ontologico, dalla materialità di corpi sessuati implicati in un’impresa di cambiamento radicale. In questo passaggio di posizioni, in questo movimento dall’oppressione all’espressione, si crea l’altrove della separazione in cui una donna, in relazione con un’altra, trova le parole per dirsi45.

Spaesarsi, quindi, come gesto attivo, come spostamento e possibilità di un altro radicamento. Poiché “il bisogno di avere radici[L] è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima umana. Difficile definirlo. L’essere umano ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva e naturale all’esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti dell’avvenire”46.

Ancora con Foucault, il pensiero che vale la pena praticare non è quello che “cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quello che consente di smarrire le proprie certezze”. La curiosità che lo anima “non si immobilizza davanti al reale”, ma cerca di “disfarsi di ciò che è familiare”, si esercita “a guardare le cose diversamente”. Il pensiero allora ha a che fare con lo spaesamento, con la capacità di dislocare, di esporre il familiare all’inusitato, di inquietare. Per Foucault, “il sapere non è fatto per consolare: esso disillude, rende inquieti, incide, ferisce”47.

Con emozione ho letto il ricordo che Silvia Neonato ha fatto delle libere donne di Cornigliano48. Leila Maiocco venne a Livorno, sarà stato il 1992, e raccontò il loro gesto di rivolta, che nasceva dal non ri-conoscere più il luogo in cui vivevano come luogo di cura, di tessitura di relazioni, di salute e di benessere. Cornigliano, Taranto, la Val di Susa, la Terra dei fuochi, L’Aquila: luoghi violati e, anche quando potrebbe sembrarlo, mai solo dalla natura.

103 Infine, si può rivendicare lo spaesamento rispetto a un Paese che non si riconosce più; rispetto al Paese che viene scritto con la ‘P’ maiuscola. Il Paese dei ministri e delle ministre che si dicono ‘esseri umani’, il Paese in cui il mare Mediterraneo diventa un cimitero di senza nome e senza Paese. Loro sì, spaesati e spaesate. Che si incamminano e si imbarcano alla ricerca pervicace di un orizzonte diverso, che consenta loro di vivere. Sentirmi spaesata rispetto a questo Paese non è un male, anzi. Siamo a L’Aquila, siamo in Italia: ci sono macerie reali e simboliche. Spaesarcene significa seguire l’Angelus Novus di Benjamin e di Klee: non perderle di vista, non dimenticare la loro esistenza o fingerne la non-esistenza, ma spostarsi in avanti, con le vesti colme di vento. Perché, e chiudo con Lispector, “[…] so di non essere dotata per un altro [mondo]”.

Ci abituiamo al Buio – Quando la Luce è messa via – Come quando la Vicina regge il Lume Per testimoniare il suo Arrivederci –

Un Momento – facciamo un passo incerto Per la novità della notte – Poi – adattiamo la Vista al Buio – E affrontiamo la Via – eretti –

E così è per più grandi – Oscurità – Quelle Notti della Mente – In cui nessuna Luna svela un segno – O Stella – appare – dentro –

I più Coraggiosi - brancolano un po’ – E talvolta picchiano contro un Albero In piena Fronte – Ma fa che imparino a vedere –

Che sia l’Oscurità a cambiare – O qualcosa nella vista Che si adatta alla Mezzanotte – E la Vita s'incammina quasi diritta.49

104 ARCHITETTE DEL DESIDERIO

105 Guasto celeste *

Monica Farnetti

Ogni volta che una scrittrice o uno scrittore sceglie di procedere al “racconto di catastrofi, spaesamenti e traumi” 1 si risolve a un passaggio difficilissimo e insieme a un gesto altrettanto difficile quanto vitale e salvifico: quello, intendo, del riattraversamento di un vissuto a dir poco inaccostabile, opaco e insieme incandescente, sul quale la memoria si è oscurata e di cui con tutte le proprie forze non si vorrebbe sapere; ma che viene tuttavia ripercorso affinché non vada smarrito in quell’area oscura, che ognuno/a si porta dentro, dove vanno a finire tutte le cose sottoposte a un divieto di contatto e di nominazione. Se così non fosse, infatti, se quel passato maledetto non venisse riattraversato, diventerebbe via via più indicibile, resterebbe per sempre intoccabile, e si sottrarrebbe irreparabilmente al compito della vita umana che è quello, secondo le parole di María Zambrano[L], di “estrarre dalle cose passate il loro senso, per trasformare l’accaduto in libertà[P]”2. Impariamo da lei, dall'inenarrabile racconto dei suoi quarantacinque anni di esilio, di spaesamento e di perdita di tutti i suoi paesaggi, la necessità di dare forma e ordine al proprio vissuto, quale che sia, incaricando la memoria di un progetto restauratore a tutto campo alla ricerca del senso di quel vissuto stesso e della vita intera: mobilitando a tal fine tutto l’accaduto perché il processo del fare memoria, pur nella sua terribilità, possa produrre la grazia di un bagliore, che ci illumini su quanto è avvenuto e ci consenta di far davvero passare il passato, lasciandoci liberi in sua compagnia. Permettendoci, con uno sforzo di intelligenza e di passione nei confronti del vissuto, di avere con esso una relazione autentica, di qualità ovvero senz’altro amorosa, stando almeno a Marguerite Yourcenar[L] laddove sostiene che non può stare positivamente nel presente chi non sappia struggersi d’amore per il passato: “Quando si parla dell'amore per il passato, […] si tratta dell'amore per la vita […]. Quando si ama la vita, si ama il passato, perché esso è il presente qual è sopravvissuto nella memoria”3.

Parto dunque dall’accettazione della necessità difficile, paradossale e d’acchito inconcepibile, del fare memoria del trauma, affinché non si produca la conseguenza irreparabile della perdita di presente e della perdita di libertà. E nell’avvicinarmi all’esperienza di quella particolare specie di traumi sui quali in questa sede stiamo riflettendo, quelli cioè che ci legano alla terra, prodotti da catastrofi o capovolgimenti dell’ordine naturale – quel tipo di eventi che, nelle parole di Christa Wolf[L], “senza bisogno di nessuna guerra” ci fanno “salt[are] in aria nel pieno della pace”4 – nell’avvicinarmi dunque a questo tipo di trauma presumo un’altra posizione e metto in gioco un’altra indispensabile premessa: relativa a una coscienza congiunta del mondo e di sé, a un sapersi integrati nella rete o grande archivio o immensa cooperazione di esistenze in cui l’universo consiste, a una sensibilità per il mondo che ospita le nostre singole vite, accompagnate e intrecciate a infinite altre, umane e non, nella consapevolezza “che tutto è collegato e che la vita è relazione”[L]5.

In questo senso il compito, già sommamente arduo, del fare memoria diviene se mai possibile ancora più impegnativo e responsabile. Da esperienza singola si fa infatti conclamatamente relazionale, da intima globale, da etica politica o meglio ancora cosmopolitica, e da cittadini/e del mondo passa a interpellarci come cittadini/e della terra. Giacché colui/colei che fa memoria la fa anche per altri e per altro, per tutto l’altro da sé in cui consiste la sfera del vivente, di cui comprende l’evidenza e condivide la sorte. Si amplia così, nella dimensione del disastro[P] , l’idea di destino, che da individuale diviene corale e coniugativa di umani, animali e piante, terre e acque, aria e luce. Bene lo certifica in tutta la sua prima parte Guasto[L] di Christa Wolf, sorta di riscrittura novecentesca di quella pagina terribile dello Zibaldone di Leopardi, datata all’aprile del 1826, in cui tutte le creature di un giardino – piante, erbe, fiori, insetti, donzellette – sono radunate sotto l’insegna del “Tutto è male”, e la minaccia a cui la loro vita è sottoposta si dà come il collante del loro stesso fare comunità. Cito sparsamente da Guasto:

106 Esplode il verde […], i comunicati sconsiglia[no] di mangiare i frutti degli alberi in fiore […]. La trota capricciosa. Pesce che assorbe i residui radioattivi. […] Le galline […]. Le anguille […]. In che modo i nuclìdi […] si depositano nei chicchi di grano. L’immenso campo di grano dietro la nostra casa […]. Nel tratto sotto il melo spunta il crescione […]. Le piante di malva addossate al muro hanno avuto una rapida crescita, […] due dalie hanno […] forato la crosta della terra. Brave. Non può essere colpa vostra. Voi fate la vostra parte [...]. Ho sentito dalla radio che oggi, se è proprio assolutamente necessario lavorare in giardino, è bene infilare i guanti […]. Ho preferito rivolgermi alle ortiche – però con i guanti di gomma rosa alle mani 6.

La posizione che è così difficile raggiungere in tempi propizi alla vita, quella di una coscienza allargata di sé nella rete delle relazioni viventi in cui siamo calate/i, nell’emergenza della vita stessa provocata da un trauma ambientale sembra diventare d’improvviso accessibile, come sotto una coatta e drammatica spinta all’empatia. Ed è allora che divengono addirittura perspicue e irrinunciabili le parole difficili, scritte a lettere di fuoco, di una maestra di cosmopolitica quale riconosco essere la Ortese, che pensa e pratica fino all'ultimo dei suoi giorni, come ben documenta quella sorta di testamento spirituale che è Corpo celeste, i saldi principi di una democrazia della terra:

La libertà è un respiro. Ma tutto il mondo respira, non solo l’uomo […]. Le stagioni, il giorno, la notte sono respiro. Le maree sono un respiro […]. Questo respiro universale, è il rollio inavvertibile e misterioso della vita […]. [Ma] questa libertà non appartiene che a pochi, quest’aria non è di tutti! Sempre più buia la terra, più povera la luce […]. Si chieda, a chi si arroga tanto diritto, di chi – secondo lui – la Terra, di chi quei gioielli incomparabili che sono il mare, la luna, il verde dei monti, la gioia delle nubi, del vento; si chieda di chi il respiro universale, e a chi la libertà! [...] La Terra è il mio amore. Amo e venero la Terra; e i suoi figli più modesti e discreti mi sollevano nel cuore onde di emozione […]. È sovrumana, la Terra […]. È l’uomo che va ridimensionato, non la Terra7.

Su questa scala di pensiero perde in parte di consistenza la distinzione da cui inizialmente intendevo partire fra ‘guasto’ di natura terrestre ovvero umana, dalle cause riconducibili alla colpevole e sciagurata irresponsabilità delle persone, e guasto ‘celeste’, dalle cause imperscrutabili e sovrastanti un’umanità inerme, terrorizzata e impotente. La distinzione rimane, ovviamente, e genera risposte e azioni diverse. Ma, oltre che messa in crisi dalla difficoltà di classificare le cause di un fenomeno, stante l’impraticabilità del confine fra calamità naturale e crisi ecologica provocata dall’uomo, la distinzione viene senz’altro assorbita nella prospettiva, testimoniata dalla più parte delle vite femminili che ho presenti, che ho chiamato cosmopolitica. Giacché la responsabilità femminile si esplicita, quando viene assunta, nei confronti della vita tutta, e ogni guasto che intacca la vita è contemplato fino alle sue estreme conseguenze, ben oltre il confine fra naturale e artificiale, e senza separazione fra cielo e terra 8. Infine, la distinzione fra guasto terrestre e celeste si ricompone soprattutto se consideriamo che ne è di noi, esseri pensanti, di fronte alla sciagura, giacché ogni guasto ci lascia ugualmente soli, come già fu per Leopardi ai piedi del Vesuvio in fiamme, in compagnia delle nostre magnifiche sorti e progressive e delle nostre vertiginose domande: che cosa resta delle nostre parole e della nostra letteratura al cospetto di eventi che minacciano, e incrinano dalle fondamenta, unitamente il nostro mondo e il nostro essere.

Sono domande che ci riguardano e ci interpellano da vicino: come letterate, ovvero come donne che hanno aderito al principio, ribadito da Virginia Woolf da un capo all’altro della sua opera, secondo il quale occorre esprimere in parole quanto si vive per renderlo pensabile e per ciò stesso più vivibile, dando alla vita che ci è data, traumi compresi, la forma di una vita che diventa propria9; e come donne che hanno fatto della parola la loro ‘azione positiva’ per eccellenza, a fronte dei tanti guasti di cui siamo testimoni e ci facciamo carico con apprensione e con amore. Le scrittrici che amiamo questo ci insegnano e per questo, anche, ci sono indispensabili. Perché i loro libri immancabilmente si prendono cura del mondo, riscrivendone i paesaggi diversamente violati e profanati, nella consapevolezza della sua fragilità e della sua costitutiva, ma talora più impellente, esposizione al rischio della perdita[P]. Luogo delle libere azioni e delle vive parole degli uomini e delle donne, che nelle loro relazioni e solo in esse onorano la propria condizione e danno, come insegna Hannah Arendt[L] , “splendore” alla vita 10, il mondo è da queste nostre autrici sentito senz’altro come spazio pubblico – luogo del legame sociale, della storia, della vita associata – ma nondimeno come organismo vivo, corpo celeste che raduna su di sé innumerevoli presenze, luogo di incontro di forze, creature e misteri che sollecita a tenere in massimo conto la scienza delle relazioni e le pratiche della convivenza.

Una consapevolezza di sé non disgiunta dalla consapevolezza del mondo, sentito a un tempo come spazio terrestre e come corpo celeste: questo le donne sanno e da sempre, questo le loro pratiche testimoniano ab antiquo, questo il loro pensiero si impegna a raccogliere e a valorizzare, senza smettere di affinare il dono della parola alla quale è affidato il compito di trasformare il disordine del quotidiano in un miracolo di relazioni sensate.

La parola dunque, e ciò che ne resta e ne è a fronte di un guasto profondo della vita. Due tendenze o inclinazioni di

107 base si fronteggiano, per quel che ho potuto vedere. La prima, che si insinua in quasi tutto il testo di Christa Wolf e ne minaccia l’esistenza, è la spinta a tacere e a soggiacere – all’impotenza, all’orrore, al disgusto delle parole stesse che il panico genera – che relega la persona nella dimensione di un afasico compianto: la stessa cui Cristina Campo[L], meditando non a caso su Simone Weil e la sua nozione di “sventura”, diede il nome bellissimo e terribile di “cantico dei senza-lingua”11. Cito dalla Wolf:

Come avrei potuto prevedere che prima le parole, poi le mie parole mi avrebbero disgustato, […] la fulminea velocità con cui questo mutamento improvviso può finire nel disgusto di sé […]. Nelle ore più nere e più vere […], non si può più parlare per lo spavento, o per l’orrore, non si può più parlare in assoluto […]. Si tratta del crollo totale e di nessuna promessa […] e contro tutto questo non conosco altro mezzo che il tacere 12.

La seconda inclinazione, quella che trasuda invece dal piccolo libro della Ortese, è la spinta a “gettare strutture di luce” sulla terra violata, a prendere parola per sottrarla al suo destino di moritura, a lenire le sue ferite con parole d’amore. Cinque, a colpo d’occhio, le pratiche che l’autrice attua e a cui sollecita: affermare il diritto di non obbedire a leggi ingiuste che offendono la vita; incitare alla riconquista delle risorse naturali e dei beni comuni, primo fra tutti la terra; denunciare lo scandalo di un pianeta in ostaggio del consumo illimitato e spietato anziché al centro di una cultura della conservazione e della compassione; condannare una “intelligenza” indifferente alla vita, “immensa e maligna, che sa di beffa e di fine” nonché “madre di domande che lasciano intatto l’infinito” 13; commiserare un’umanità a cui è stata “rapita la lingua, la memoria, la passione degli altri”, avviata lungo un “percorso fangoso e derelitto” in “una grande penuria di gioia” 14. E sebbene anche Christa Wolf alla fine riaccolga con misericordia il proprio compito di scrittrice – “ho pensato, no: si deve provare ancora gratitudine per il linguaggio” 15 –, trovi amorosamente una lingua per il suo cantico e si risolva a fare memoria e a fare racconto di quell’inenarrabile 26 aprile 1986; sebbene anche da quel disastro le parole escano vive, siano pure soltanto quelle di chi, come Anna Frank nel suo diario, “cant[a] nella notte, per tenersi compagnia e impedire al cuore di indurirsi”16; sebbene il “cantico” della Wolf mi appaia splendido e struggente, limpido fino all’impossibile nel testimoniare il fatto che in tutte le nostre tragedie “la natura resta al suo posto, a dispensare la pace dell’eternità alle emozioni umane” 17, è però con le parole della Ortese che desidero concludere, non fosse altro che per il fatto che è da lei, e proprio dalle sue parole per la terra, che si evince a mio avviso la qualità che la politica deve avere per una donna:

Ecco, ho finito. Ho finito anche di essere uno scrittore – se mai lo sono stata –, ma sono lieta di averlo tentato. Sono lieta di aver speso la mia vita per questo. Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com’è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra [...]. A dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. […] So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata […]. Ecco, come sono venuta vado via; e vi ringrazio di avermi ascoltata; mi scuso se ho detto troppo o confusamente; e se ho detto poco, e se ho potuto dispiacervi. Come dicono i bambini: non l’ho fatto apposta. Vi auguro un buon giorno di pace e di comprensione. La vita è più grande di tutto, ed è in ogni luogo, e da tutte le parti – proprio da tutte le parti – chiede amicizia e aiuto. Non chiede che questo. E il valore di ogni buona risposta è immenso, se anche non dimostrabile. Amate e difendete il libero respiro di ogni paese, e di ogni vita vivente. Questo invito, alla fine, calma e consola la mia stessa tristezza, e il senso di essere stata uno scrittore inutile. Ma non lo sono stata del tutto se, oltre il mio respiro, ho appreso a desiderare il libero respiro di ogni creatura e di ogni paese. È tutto, il respiro. È Dio stesso; ed è la cultura quando non fine a se stessa; quando, d’un tratto – voi non lo sapevate che era anche questo –, solleva e trasporta i popoli, come fa a volte, con le confuse onde del mare, un gran vento celeste 18.

Una donna come lei, ma anche come noi, che sappia accettare la terribile evidenza della realtà e nondimeno nutrire una fiducia incondizionata nella sua esistenza; che abbia la passione di pensare il presente, la capacità di struggersi d’amore per il passato e il desiderio di inaugurare il futuro; che voglia condividere con altre, altri e altro la propria adesione profonda e difficile, tutt’altro che priva di costi, alla condizione umana integrata nella grande comunità della terra.

108 Uno scheletro in crinolina si affacciò tra le rovine

Gisella Modica

Cicatrici

La locandina del IX convegno nazionale della Società Italiana delle Letterate Terra e parole. Donne riscrivono paesaggi violati riproduce la figura stilizzata di una giovane donna che rattoppa amorevolmente, con strisce di scotch nero come fossero cerotti, le crepe di una casa diroccata1.

Una delle tante andate in rovina nella Valle del Belìce, in Sicilia, a seguito del terremoto che nel gennaio del 1968 vide coinvolti quattordici paesi tra i quali Gibellina, Montevago, Poggioreale, Salaparuta che furono rasi al suolo completamente. Quattrocento morti, seicento feriti e centomila senza tetto fu il tragico epilogo.

La donna raffigurata è Clara Cot. Una delle artiste coinvolte nella piattaforma di ricerca Topografia del trauma – Valle del Belìce – Sicilia a cura di Laura Cantarella e Lucia Giuliano, avviata nel 2008 a Gibellina, e proseguita nei due anni successivi con l’obiettivo di costruire “un atlante delle geografie informali della Valle del Belìce”2.

La performance di Clara Cot ha per titolo “Cicatrici”:

Durante il lavoro di campo – scrive Cot – ho cercato crepe, fessure, in alcuni dei paesi danneggiati dal terremoto del 1968 che devastò la Valle del Belice: Salemi, Gibellina Vecchia, Salaparuta, Partanna, Montevago, Santa Margherita Belice, Poggioreale vecchio […]. La crepa è una ferita aperta che è lì, visibile e presente. Non è stata restaurata né curata. Il mio lavoro prevede un doppio processo: primo, incontrare le crepe che possono trasformarsi in immagini […]; secondo, realizzare una cucitura simbolica con l’intento di segnalare le ferite e lasciare tracce. Per conferire valore al punto zero del terremoto, sezione temporale che unisce passato e presente, non ho scelto solo edifici antichi o rovine, ma anche edifici costruiti posteriormente al terremoto, le cui crepe alludono a una ricostruzione fallita […]. Il lavoro è quindi una performance pensata come un processo di segnalazione in situ delle ferite che hanno bisogno di essere curate3.

Crepa come coscienza della vulnerabilità dello spazio abitato, del paesaggio, dunque, che va curata al pari di una ferita inferta su un corpo umano.

La correlazione tra (cicatrici sul) corpo umano e (sul) paesaggio, in una visione del territorio come interconnessione tra animato e inanimato è un tema caro ad Anne Michaels, ospite d’onore del convegno.

Parlando di Varsavia che “anche se non c’erano più edifici rimasti e le macerie arrivavano oltre l’orizzonte [...] non smise mai di essere una città”, Michaels scrive: “Le città, come le persone, nascono con un’anima, uno spirito del luogo che continua a ripresentarsi, e riemerge anche dopo la devastazione”4.

Le città, in quanto organismi viventi resistono, sopravvivono, non muoiono anche a seguito di ferite causate dagli umani.

In La cripta d’inverno[L], splendido romanzo ampiamente citato nei numerosi interventi delle relatrici, la correlazione s’incarna nella cicatrice sulla “bella cupola del ventre di Jean [...] che stava diventando bianca e

109 scomparendo nella sua carne – sottile come la linea tracciata per tagliare il torace della statua di Ramses” 5, nel Tempio Maggiore, ad Abu Simbel, rimossa e fatta a pezzi per essere ricucita altrove, esattamente identica a prima. Una replica menzognera. Come menzognere sono le città ricostruite dopo una catastrofe, identiche a prima.

Entrambe le cicatrici – sulla carne di Jean e sul torace della statua di Ramses – col tempo diventeranno invisibili come “prova inconfutabile che gli eventi del suo corpo, e di tutta la Nubia, non erano mai accaduti. Che lo scopo del Tempio, adesso, era dimenticare”6.

La correlazione declinata in forma diversa, ovvero in nesso tra precarietà della vita e fragilità della terra è stato il filo rosso della mia conversazione, svoltasi nella cornice suggestiva del Palazzetto dei Nobili, con Carola Susani, dal titolo “Uno scheletro in crinolina si affacciò tra le rovine”. Titolo che prende spunto dal primo capitolo di L’infanzia è un terremoto[L] dove Susani, parlando della fascinazione dell’infanzia per le rovine, racconta di scheletri addobbati con crinoline e cappelli a larghe tese.

Il capitolo è denominato “Una porta”.

“La cicatrice è una porta persino per chi non ce l’ha, la cicatrice” ha esordito l’autrice. Ascoltiamola:

Per me è stata una porta formidabile. La mia coscienza del mondo posso datarla nell’ottobre del '69, un anno dopo il terremoto, quando a soli quattro anni, dalla Marostica [in Veneto] infiocchettata, metto piede insieme ai miei genitori, entrambi architetti volontari della ricostruzione in questo mondo altro, radicale e feudale, della Sicilia occidentale [Valle del Belìce] che stava per lasciare le pratiche del mondo contadino, e dove la percezione della terra era fortissima. Mi sono ritrovata così catapultata nel teatro delle rovine, tra case sventrate, la polvere, gli ulivi, le bande di ragazzini e le sassaiole. Non ho dunque vissuto direttamente il trauma, ma ho conosciuto chi il trauma aveva vissuto. C’era una frattura tra me e loro, ma non troppo grande.

E più avanti, aggiunge: “La mia esperienza di rovina è stata una esperienza estremamente felice, di libertà [P] sconfinata”.

Che la cicatrice possa rivelarsi “una porta” è un’opportunità, o forse una necessità presa in esame da Luciana Floris nel saggio “Abitare la soglia”. Intesa, quest’ultima, “non solo confine, linea di demarcazione tra spazi diversi, ma anche luogo a sé dove si genera il mutamento e sorgono nuovi significati”. Soglia/Cicatrice dunque come esperienza di perdita necessaria, di marginalità, di “condizione di non integrazione permanente […] mancanza di riparo [che] aprono ad una nuova dimensione conoscitiva”7.

Cicatrice / soglia / margine. Porta immaginaria che mi rimanda alla Porta del Belìce, la Stella in acciaio di Consagra, alta 26 metri, che si erge sullo stradone di accesso alla città d’arte di Gibellina. E alle sue donne, che durante un laboratorio teatrale condotto da Annamaria Caprarotta al fine di “restituire una lettura degli spazi e delle zone di silenzio nella nuova Gibellina e articolare il muto racconto del trauma individuando spazi di relazione possibili, linee di fuga attraverso cui la soggettività si reinventa nel nuovo contesto” 8, hanno scelto come spazio del racconto le soglie tra gli ingressi delle case e le strade carrabili. Passaggio/zona intermedia tra privato e pubblico, tra dentro e fuori: punto di sutura della ferita.

La correlazione tra corpi (privi di cicatrici) e paesaggio ricorre ancora in Simona Vinci, autrice di Rovina [L]un intenso racconto su cui tornerò, che in una intervista afferma: “Corpi[P] e paesaggio sono la stessa cosa. Noi siamo il paesaggio che abitiamo [...]. Come noi lo modelliamo, così lui modella noi, soffriamo delle stesse malattie, delle stesse nevrosi [...]. La mancanza di bellezza, ma soprattutto di possibilità di paesaggio urbano, incide sui nostri corpi”. All’acuta osservazione dell’intervistatrice “che alla devastazione dell’ambiente, alla fine della bellezza paesaggistica, corrisponde l’ossessione per la bellezza corporea [...], soprattutto il corpo femminile, necessariamente perfetto, privo di [...] ogni cicatrice”, Vinci risponde: “parlare del corpo è parlare di tutto il resto: penso alle sperimentazioni farmaceutiche, alla compravendita di parti del corpo, alla pornografia, alla medicalizzazione, all’effetto delle armi chimico-batteriologiche”9.

Il luogo d’origine

Della sua esperienza “estremamente felice” di rovina Susani scrive nel già citato L’infanzia è un terremoto. Un reportage autobiografico, un diario di bordo del suo ritorno da adulta e madre di una bambina al luogo d’infanzia,

110 Partanna. Qui viveva accampata nella mitica baracca Martin Luter King, sede del Centro Studi e Iniziative Valle del Belìce creato da Lorenzo Barbera, sociologo e grande comunicatore – nonché leader politico di una organizzazione della sinistra extraparlamentare a cui appartenevo – a seguito della scissione dal gruppo di Danilo Dolci10.

Nella nostra conversazione durante il convegno aquilano, raccontando della sua esperienza nella baraccopoli “ricchissima, di condivisione e rilettura del mondo”, Susani ha affermato:

Circolava una grande energia, c’era un forte senso di comunità e c’era spazio insieme per il conflitto […]. Durante l’infanzia i terremoti raccontano qualcosa di vertiginoso sulla vita, sulla sua precarietà, sulla sua capacità di sorprendere. Tutto nel momento del trauma viene rivelato, perché al momento del trauma c’è come uno scoperchiamento. Quando l’esperienza [della Comune], nel ‘72, si concluse, la comunità si è disgregata e io sono tornata coi miei genitori a vivere a Palermo nella famiglia mononucleare. Questo è stato il trauma più forte della mia vita dal quale non mi sono ancora ripresa.

La mitica baracca, dove si sperimentava una forma di Comune avanguardistica per i tempi che correvano e per il luogo, era sopranominata dai bambini di Partanna “San Martino ‘U Pisciu”. Un luogo fatto di lamiera, faesite e di relazioni locali e internazionali11.

“Una casa di vetro, dove tutti erano talmente trasparenti da rendere inconcepibili le domande” 12. Dove gli sformati di riso uscivano dal forno “a forma di falce e martello” 13 e i bambini conducevano una vita selvatica e campestre, fuori dal controllo degli adulti fautori di una educazione libera dalla rigidità dei ruoli sessuali. Luogo che Susani, nel suo viaggio di ritorno, non ritroverà più perché la baracca “era diventata una normale viuzza di campagna, con la vigna, le recinzioni, qualche vecchio muro a secco, i cani”14.

Luogo che, rivissuto con gli occhi di adulta, apparirà fragile e provvisorio come sono tutti i luoghi d’infanzia. Luoghi della perdita degli affetti e dei giochi, che evocano nostalgia.

Ma si può davvero tornare nel luogo d’origine?

Questa attrazione del luogo d’origine ricorre con insistenza nel testo di Anne Michaels, dove però la nostalgia, il desiderio struggente che ha origine dalla mancanza, dalla assenza o dalla impossibilità di un luogo dove tornare, cede il posto ad un sentimento – longing – che trasforma la nostalgia in risorsa.

Piuttosto che chiudere in un ritorno ‘finito’, longing si configura come “un desiderio interrotto di ritorno”. Lo scrive Monica Farnetti parlando del dispatrio di autrici come Brand, Zambrano, Ortese, Duras dai rispettivi luoghi d’origine.

“Non c’è nostalgia dunque. C’è il luogo d’origine [...] e fa il suo lavoro, che è quello di attrarre continuamente a sé [...] Questa attrazione è ciò che fa scrivere, pensare, ricordare; è ciò che viene scritto in un movimento incessante [...]. E l’attrazione per il luogo d’origine, anziché indurre a un ritorno ne produce infiniti e sostituisce al cerchio che si chiude un disegno, e un moto, aperto e a spirale” incoraggiando “a mettere a frutto le risorse della lontananza” 15.

Il movimento è costituito dalla scrittura. Ma anche dalla memoria che fa da ponte.

“Ma quale tipo di memoria sarà capace di produrre parola e scrittura?” si domanda Luciana Floris, nel saggio citato, parlando dell’esperienza dell’esilio di Dionne Brand e Simone Weil. “Non tanto la memoria attiva, volontaria, impegnata nello sforzo cosciente di ricordare le cose, tesa a [...] restituire intatta un’esperienza; quanto invece la memoria involontaria, inconscia, tesa a ricreare eventi e luoghi, capace di inventare [...] persino di contraffare. Sulla pagina diventerà vero ciò che non è mai accaduto”16.

Sarà questa memoria capace d’inventare che permetterà di non fare “crack!” tra le macerie. Come capita agli amici di Lucien in La cripta d’Inverno “che guardando dai lati della stanza assistevano al proprio dolore che si riversava là dentro. Crack!, il terreno del palcoscenico si spalancava e tutti cadevano giù insieme, tra le macerie della memoria”17.

Scrittura e memoria, dunque.

Trovare le parole per dire del proprio stato d’animo cercando i nessi tra sé, il luogo presente e il passato è uno dei

111 modi, forse il più efficace, che agisce da riparazione al trauma [P] dell’abbandono, salva dall’oblio i luoghi in rovina, e ricostruisce il legame col futuro.

La scrittura di Susani in L’infanzia è un terremoto si svolge infatti in un andirivieni tra presente e passato; tra sé e le rovine; tra storia locale e ricordi personali. Utilizzando come fonti la memoria orale di chi ha vissuto i fatti, e i documenti scritti. Un tentativo riuscito di rivivere e comprendere con lo sguardo critico di adulta un mondo vissuto con la leggerezza di bambina, cercando il nesso.

Il nesso in questione sembra situarsi tra il trauma per l’abbandono dell’infanzia e quello per la rovina dell’utopia: la fabula del comunismo di cui tanto si dibatteva nella baracca Martin Luter King. Fabula trasformatasi negli anni a venire in ideologia astratta che ha finito per generare il mostro: la ricostruzione da parte dell’ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale) di Gibellina Nuova, dislocata a venti chilometri dall’antico sito distrutto. Una città espropriata della sua storia, delle sue tradizioni antiche e molto radicate; espropriata del suo rapporto molto stretto e vitale con la terra, la sua coltivazione e i cicli naturali. Il risultato furono palazzi anonimi, tutti uguali, con gli stradoni di marmo e le immense piazze vuote dov’è facile perdersi. Progetto di città ideale senza centro né periferia, annota l’autrice, nato come annullamento democratico delle gerarchie ma in quanto astratto e scollegato dal contesto “dove tutto somiglia a tutto” 18, si è rivelato un nuovo modo per disorientare ed esercitare potere. Perché “l’indistinto mette ansietà […] ti viene un nodo alla gola. Una paura. Niente è trasparente, non sei in grado di leggere. Sei preda. E per cominciare non ti orienti, non trovi la strada”19.

La ricerca del nesso e della necessità del “narrare le rovine prima che diventino macerie [...] memoria activa di un passato che la storia ha ferito”, insieme al tema della nostalgia come “melanconia activa dove la contemplazione [delle rovine] non coincide necessariamente con la visione macabra della fine ma con un ritrovato spirito speculativo, riflessivo” sono presenti anche in Spaesati[L] , di Antonella Tarpino “racconto di un’Italia ai margini ma non spenta” come recita la quarta di copertina20.

Le rovine sono buone per “connettere”, “collegare l’antico al nuovo [...] per fare dialogare i due mondi, traghettando la memoria del passato scolpita nella materia più resistente [...]: la pietra” scrive Tarpino, riferendosi all’intervento operato sulle baite di Paraloup, comunità del cuneese21.

Tra le “figure della memoria delle rovine ritagliate [...] dal denso repertorio di immagini sedimentate nei secoli” 22 Tarpino elenca quella di “quiete/conflitto” accanto a quella di “alto e basso”.

“È un conflitto che sta, nell’edificio in rovina, fra il suo tendere verso l’alto [...] e lo sprofondare verso il basso (la terra, la natura). Così da disegnare una figura – non chiusa [...]. Di qui quel sentimento ambivalente che proviamo alla vista delle rovine. Quiete e inquietudine insieme”23.

È lo stesso sentimento ambivalente che prova Susani davanti alle rovine di Montevago che “si parano davanti piatte, orizzontali, tranne i lampioni e la chiesa […]. Non c’è nessuno. Nessun rumore. Soltanto i nostri passi [...] Resto fredda, senza inquietudine, anche se di sicuro qualche corpo è rimasto sotto le macerie”24.

L’immaginazione tra le rovine

Per ricostruire la complessità di un evento che ci ha sconvolto, per fare emergere i ricordi dall’evanescenza, scrive Susani nel suo libro-reportage, non abbiamo altro che il nostro sguardo[P] . “Forse l’unico modo per capirci qualcosa è raccogliere gli sguardi, metterli l’uno accanto all’altro e poi provare, per quel che dura, a tenerli insieme”25.

L’angolazione personale, con tutto il suo portato di esperienza, da un lato; il patrimonio delle storie accumulate sul posto, dall’altro, rappresentano l’unico modo per non rischiare il soverchiare espropriante del sapere scientifico. Su questo tema tornerò più avanti.

“Uno sguardo che parta dalla necessità del presente, in grado di imporre una forma anche ad una maceria muta”, dichiara Susani durante la conversazione. Azzerando così la distinzione fra rovina e maceria di Marc Augè, e ripresa da Tarpino, secondo la quale la maceria è “traccia inerte del passato, sequenza muta di un tempo che non parla più: pura sottrazione si potrebbe dire”; “la rovina è invece [...] il suo contrario: irriducibile alla storia [...] essa dà tuttavia ancora segni di vita”26.

112 La maceria, ha affermato Susani, è “una forma fragile, che non dura, e perciò struggente, ma al contempo potente. Un trionfo sulla morte di un momento”. E ha riportato in proposito l’esperienza degli Stalker, il gruppo di architetti che per i loro interventi artistici partono dai Territori Attuali, scarti di paesaggio abbandonati o mutanti.

Dell’importanza dello sguardo capace di vedere non quello che c’è, ma che potrebbe esserci, parla anche Tarpino. Le rovine in quanto sospese in un fine piuttosto che finite, “figura-non chiusa”, “spazio arrestato, incompiuto” sono spazio per l’immaginazione27. Mondi trascorsi, eppure capaci ancora di accendere emozioni, rievocare vite, invitano al lavoro della memoria. Ma al contempo “ci riconducono ad un senso di responsabilità. Chiamano in campo chi le osserva [...] a una ‘promessa’ [di] riparazione [...] È la loro sopravvivenza, in rapporto al complesso ora sommerso [...] a reclamare una qualche indefinita restituzione, quanto meno del loro senso originario”28.

Senso di responsabilità, bisogno di restituzione è il sentimento che anima anche Simona Vinci, percorrendo con la macchina fotografica il tratto di strada tra Parma e Reggio.

Scrive in Rovina[L] : “Ho visto tanti cantieri abbandonati: quante storie dietro quegli, spazi laconici […] devastati, immobili, pencolanti, abbozzati […]. Perché se ne restano lì così, in quella indeterminazione, per mesi, per anni, fino a trasformarsi in una ovvietà del paesaggio che pian piano la natura ricopre e mangia”29. È così che comincia ad immaginarvi una storia. Storie di donne e di uomini comuni, un insegnante, un’impiegata, un’infermiera, un geometra, le cui vite sono precipitate in rovina.

Così come la immagina, una storia, Tania, in Eravamo bambini abbastanza[L] 30 quando vede il Raptor, un essere simile ad un piccolo dinosauro del Cretaceo che “correva a passetti veloci, zoppicando”31 “appostato in mezzo alle rovine, dov’era nata qualche pianta di ortiche azzurra, [...] storto come se fosse anche lui solo un pianta, che la guardava e le sembrava che chiedesse aiuto” 32. Tania non resiste, e lo segue per iniziare una nuova vita, un nuovo giro di giostra.

Il potere dell’immaginazione, soprattutto infantile, è un tema ricorrente nei testi di Susani.

Per vedere quello che non c’è bisogna attingere all’esperienza dell’infanzia, quando non si placa la sete di conoscenza, e porsi domande con lo stupore infantile che qualcosa di inaudito e imprevisto possa succedere, ha affermato la scrittrice durante l’intervista al Palazzetto dei Nobili. Viste con gli occhi dell’infanzia, infatti, le rovine del Belìce le appaiono come un immenso parco giochi. “Da piccoli proviamo per la morte, per la distruzione e per il tempo una curiosità sfrenata. Nelle città morte ci sguazziamo, la decomposizione non ci fa paura [...]. A Partanna, a cinque anni, io e Luca disegnavamo scheletri: scheletri addobbati, con crinoline e cappelli a larghe tese. Era un trionfo della morte [...]. L’infanzia non disdegna la commozione, le tenerezze, l’amore. Però nell’infanzia c’è questa fascinazione per le rovine”33.

Il trauma come opportunità

Il trauma, sia che lasci cicatrici sulla pelle che sulla crosta terrestre, fa tabula rasa, generando caos. “Il terremoto sconvolge non solo le viscere della terra ma la stessa unità dell’io”, scrive Tarpino 34. Scardina la capacità di previsione dello sguardo, obbligando a ripensare il presente e il futuro. Può rivelarsi quindi un’opportunità. L’inizio di una nuova esperienza di vita.

Lo fu senz’altro, il trauma del rapimento, un’opportunità di crescita per i protagonisti di Eravamo bambini abbastanza. Un viaggio picaresco, una favola nera che ha per protagonisti otto bambini tra i dieci e i dodici anni rapiti in diversi luoghi d’Europa. Liberi, forti e coraggiosi, attraversano un’Italia devastata da fabbriche inquinanti e dalla speculazione edilizia; si vestono con vestiti e scarpe rubate dai cassonetti della Caritas “che non avevano l’odore di sudore morto come quelli di seconda mano” 35, rubano i candelabri nelle case di chi li ospita, e dormono nei cimiteri. La sera intorno al fuoco ascoltano Alex che legge dal Libro delle fini e degli inizi come “dalle catastrofi nascono nuovi paesaggi, nuovi habitat, specie mai viste. E noi sgraniamo gli occhi. Come se i terremoti, le glaciazioni, le tempeste fossero venute apposta per la gioia dei nostri occhi” 36. Malgrado l’esperienza lascerà cicatrici sulla loro pelle nessuno pensa di scappare seppure le occasioni sono tante, perché, dice Manuel, voce narrante “ci voleva un amore più forte per portarmi via”37. Quando l’avventura finisce e torna a casa, Manuel si sveglia di notte e pensa che “la vita vera era quella nostra con il Raptor, e che questa – la scuola, i genitori, i regali, la piscina – è come un giro di giostra, un esercizio finto che non allena a niente”38.

113 Lo è stato, il terremoto, un’opportunità di crescita anche per i bambini di Montevago.

Scrive Susani in L’infanzia è un terremoto:

Giuseppe mi racconta che a tredici anni lui e i suoi amici, tutti maschi, venivano qui [tra le rovine di Montevago dove incartapecoriti giacciono ancora giornali e scarpe di quarant’anni fa] per fare le prove di coraggio. Chiamati dal sentimento della propria storia, del tempo, della memoria, della morte. Chiamati dalla contemplazione: trionfo della morte, trionfo del tempo, trionfo dell’ailanto, trionfo della finzione, trionfo della munnizza, trionfo dei corvi39.

La stessa chiamata che sentiva l’autrice da piccola quando insieme ai compagni di gioco “penetravano nei perimetri delle case. Scoprivano i cunicoli. Ci entravano dentro cercando oggetti”40. Come tombaroli.

“I ragazzini di Montevago alle rovine ci vengono ancora”, scrive Susani. Diventano adulti perché costruiscono la propria identità “conversando con la storia e con le forze. Sono così i ragazzini di Montevago. Sapienti […]. I ragazzi di Montevago guardano con pietà quelli di Gibellina [...]. Come fanno a Gibellina, si domanda Giuseppe, a diventare adulti?”41 A Gibellina c’è il Cretto di Burri e “Giuseppe odia il Cretto. Non lo odia solo Giuseppe. Tutti i suoi amici odiano il Cretto. Dicono: questa colata bianca di cemento, che è? Ha tolto il vecchio paese. Ora che c’è sopra questa cosa, non ci si può tornare” 42. Montevago invece è riuscita a ricrescere su se stessa, a riavere i suoi ricordi, i suoi bar. Quei bar che con il loro odore di ricotta bruciata avranno sulla scrittrice l’effetto di una vertigine. “Divento euforica. È l’odore dei bar del Belìce che mi ricordo. E’ l’odore del Bar. L’UrBar della mia coscienza. Odore di stanzoni enormi e banconi minuscoli. Odore di lusso e povertà. Odore di: questo è tutto quel che abbiamo, altro non c’è” 43.

Di certo il terremoto rappresentò un’opportunità per il Belìce intero in quanto fece da spartiacque tra la civiltà contadina e il mondo postindustriale del consumo. “Il terremoto è mito, il mondo di prima è preistoria” scrive Susani in proposito44. La trasformazione le salta agli occhi sfogliando molti anni dopo i giornali dell’epoca: “Le immagini mi hanno sopraffatto [...]. Si sentiva l’insistenza dello sguardo dei fotografi, volevano figure antiche, come se si fosse aperta la terra per mostrare l’ultima volta il mondo contadino, qualcosa di fermo, atavico, potente” 45. “Come se prima, malgrado tutto [...] ci fosse ancora un mondo contadino e poi di colpo il terremoto avesse trasportato la Valle del Belìce nel mondo postindustriale del consumo. La trasformazione era già in corso, il terremoto l’ha accelerata e simbolicamente sancita”46.

Fu un’opportunità soprattutto per le donne.

In un documento video dal titolo Cuciture, Memoria delle donne nella valle del Belice realizzato da Ferdinanda Vigliani e Alfredo Ronchetta all’interno della citata piattaforma Topografia del trauma, gli anni della ricostruzione, dal ’68 al ’75, vengono ricordati come un periodo di grande risveglio sociale e culturale, di partecipazione e impegno civile. La scossa del terremoto, dice Paola Grimaldi, una delle intervistate, aveva raggiunto anche certi pregiudizi, abbattuto ingiuste discriminazioni. Si acquisì la consapevolezza democratica che “siamo tutti uguali nella disgrazia”. “Avevamo perso la riservatezza, eravamo tutte uguali, con i grembiuli sopra i vestiti”, dice Enza Barcellona.

A guadagnarci furono in particolare le ragazze.

“La tradizionale segregazione delle ragazze siciliane in famiglia era diventata difficile da praticare vivendo in baracca”. L’intensa socialità che si era sviluppata non le escludeva, anzi, prendevano parola su tutto. “Io stessa mi sono candidata e sono stata eletta con l’80% dei voti”, continua Barcellona. “Vedere una donna fare un comizio fu importante per le altre donne, un ulteriore motivo di liberazione. Avevamo più tempo per noi perché nelle baracche si lavorava di meno che a casa. Ma si è emancipato anche il rapporto tra genitori e i figli, che sono diventati autonomi”.

Furono le donne, racconta Laura Cantarella, a recarsi a Roma per pretendere dal Parlamento una legge per la ricostruzione; a rifiutare che fosse un’unica impresa a costruire le case di Gibellina Nuova, e chiedere il finanziamento per farle autonomamente. Le donne sentivano in modo particolare questa lotta perché nella dote le case erano intestate alle figlie.

Ninetta Lombardino parla della vita nelle baracche non solo come momento di grandi relazioni sociali ma anche di spensieratezza e di allegria. Adesso, sottolinea, le strade che corrono tra gli edifici di Gibellina sono così larghe che è diventato impossibile parlare da una finestra all’altra.

114 Nel Belìce fu dunque grazie alla partecipazione dal basso al processo di ricostruzione che si guarì dal trauma e dal senso di spaesamento che in genere accompagna la gestione non negoziabile dell’emergenza da parte del potere specialistico. Potere che provoca quella che Sirolli definisce “sindrome da istituzionalizzazione” conducendo la comunità verso un processo di “infantilizzazione” e “passivizzazione”47.

Della grande valenza politica di quella partecipazione popolare, Lorenzo Barbera, riportato da Susani, dirà: “si trattava di vedere non solo che case, ma che vita, che società, che mondo ricostruire”. C’era insomma “una visione del mondo”48.

Le architette del desiderio

Al potere degli specialisti un gruppo di donne – artiste, antropologhe, filosofe, urbaniste e poete – convenute a Milano nel 2008 sul tema Microarchitetture del quotidiano: sapere femminile e cura della città[L] , contrappongono le pratiche di “un sapere femminile addestrato all’intelligenza domestica e all’arte della cura capace di uscire dalle case e porsi come competenza sul mondo [...]. Una capacità che nasce dalla competenza femminile nella gestione di realtà complesse e intimamente intrecciate [...] Una cura della città a partire dai corpi che la abitano e dalle relazioni che la attraversano”49. È nelle pratiche della vita quotidiana, nella visione integra dello spazio/tempo che sta dentro i corpi viventi, prendendo come unità di misura i corpi dei più piccoli, scrivono le curatrici, che si mette alla prova la città.

Nadia Nappo, donna in nero di Napoli e autrice di uno dei saggi contenuti nel testo, raccontando della nascita del Comitato “Donne 29 agosto” di Acerra che con bambini e carrozzine al seguito si opposero alla costruzione dell’inceneritore nel loro territorio, riflette come le devastazioni ambientali possono rappresentare occasione di nuova conoscenza per diventare competenti, nel senso di imparare a competere con il potere degli specialisti:

Muovendomi tra i resti, le immondizie della città, avverto un resto che fa da impaccio da ostacolo e questo mi porta ad interrogarmi su cosa sta succedendo [...]. Non si può credere che qualcuno (forte e potente) ci salvi, è necessario per ognuno/a sapere dov’è il proprio bene [...]. Per amore bisognerebbe scavare tra le macerie per trovare materia (e vita) da riciclare50.

Riflessione che riprende e approfondisce su Il paese delle donne: “Quello che è considerato simile ad un rifiuto (periferie, campagne abbandonate, terre intossicate e militarizzate) visto come resto può aprire ad una differente significanza […]. Proprio il pensiero femminile che si interroga da tempo […] sull’essere escluse nel mondo, e pertanto sull’immondo, sui rifiuti, i resti […] può disegnare uno spazio che tenga presente il quotidiano, il domestico” 51.

La soggettività, dunque, derivante dal “desiderio di significanza” e il lavoro di cura indicato come “l’ultimo e il primo elemento di civiltà che resta quando è tutto in rovina […] insieme a tutte le relazioni che vi fanno riferimento” sono gli unici processi per “restituire bellezza ai brandelli di casa che restano”. Come hanno fatto le donne algerine quando passavano i guerriglieri, che “addobba[va]no con panni colorati le finestre, orna[va]no i propri capelli e quelli delle figlie rimaste, spazza[va]no via i calcinacci”52.

Come fanno tuttora le mamme di Taranto, le mamme No Mouos di Niscemi, le Mamme Vulcaniche in Campania, le Donne NO dal Molin, le donne di Terre Mutate.

115 La luce delle cose

Breve indagine sulla poesia di Antonella Anedda

Gabriella Musetti

C’è una sorta di spaesamento nel prendere in mano un libro scomparso dalla circolazione pubblica, quasi una circospezione più attenta, un atto temerario che infrange il silenzio. E l’oblio a cui il volume è destinato. Un libro ritirato dalla circolazione e pochissimo citato negli studi sulla poesia dell’autrice. Un destino di rimozione già inscritto nella vita propria.

Eppure La luce delle cose[L], libro di attraversamenti di scritture, di quadri, di paesaggi, rivela come non altri la poesia di Antonella Anedda, il suo mondo di relazioni intime ed esterne. È un ricco colloquio, fitto e amorevole, con le opere di autori e autrici (Cvetaeva, Ortese, Dickinson, S. Agostino, Cristina Campo, Leopardi, Celan, Caproni, Jaccottet, Rembrandt, Vermeer, Carpaccio, Cézanne, e molti altri), con cui Anedda si confronta nel tempo, spingendo l’interrogazione fino ai limiti più estremi.

La luce delle cose, la ricerca di un punto speciale di osservazione che illumini gli oggetti, la realtà, le sfumature che si intravedono, le nostre percezioni colpite, attraversate, i turbamenti che muovono la ricezione, lasciano un'impronta nell’intimo, suscitano domande, a volte inquietudini. E la luce si lega da subito alla voce, “voce che sale e si ferma perché intuisce la distanza di ciò che è verticale, di quello spazio – un grande, un piccolo abisso – che ci separa dalle cose”1.

Tuttavia è la scrittura a cui viene consegnata questa epifanìa notturna, fogli scritti di giorno in giorno, al calare della luce, nei momenti d’ombra della notte che dilatano gli spazi e allenano gli occhi a osservazioni nuove, non tanto perché vengano conservati, ma condivisi. C’è la scelta di una indagine da tenere nelle tracce sotterranee dell’ombra, perché favorevoli alla riflessione, all’approfondimento, e c’è il desiderio di condivisione come limite spaziale e temporale oltre il quale affacciarsi.

E qui il rapporto voce-scrittura si fa subito dinamico, attorcigliato: se l’autrice parla a voce alta con disagio di un libro o di un quadro è perché la voce – da sola – non colma la distanza tra il corpo e l’oggetto, c’è un margine di silenzio e solitudine da rispettare, fuori dalla invadenza dell’io che spesso travalica. È come cercare una lingua capace di ascolto, ma con “il proprio orecchio e la propria imperiosa voce, deposti di lato: accantonati” 2. La scrittura consente questo scambio di parole depositate sulla carta, luogo di silenzi e limiti spaziali circoscritti, come un’isola.

Il variare della luce rende percettibili le sonorità difficili da esprimere, la luce terrena che frammenta e ricompone è capace di separare gli aspetti singoli, uno ad uno, scandagliarli nei passaggi di intensità, nelle gradazioni di colori, poi di ricomporre gli elementi sparsi in un insieme visibile, dicibile. La scelta dell’autrice è quella di parlare dalla separazione e dal silenzio di una piccola isola, che è spazio delimitato, chiuso dal mare circostante, ai libri e ai quadri come portatori di altri spazi, di altri tempi. Parlare a, come luoghi privilegiati di ‘dedica e dono’, non parlare intorno a qualcosa, o su qualcosa.

Parlare attraverso la scrittura a degli spazi consistenti che ancora ci interrogano, ancora sono davanti a noi con tutta la forza della loro esistenza, qui, a conservare e far vivere appieno il mondo di cui sono fatti, ben oltre il nome volatile del proprio autore, il momento fuggevole della composizione. Le opere che restano di fronte a noi come “schegge nate

116 dalla materia, eppure dalla materia benedette e portate nel tempo. Non è l’astratto tempo della meditazione, ma il tempo concreto e bruciato agli orli delle cose”3.

Sono molti i temi trattati nel libro, ognuno attraverso le pagine di qualche autore o autrice, oppure con la mediazione di un quadro, di un paesaggio, di una forma particolare di luce che cade sulle cose, le mostra in una maniera inusitata; io scelgo una direttrice di pensiero e di discorso: i corpi, gli spazi, i paesaggi, le attese, la notte, la luce, la scrittura.

L’autrice parte da un assunto: il corpo[P] indietreggia davanti all’immagine dello spazio, del foglio scritto. Gli spazi continuano anche senza di noi, è vita che si addensa in qualcosa di concreto al variare della luce, la luce della notte breve terrena che coglie una madre e una figlia di pochi anni, in una casa su una piccola isola di un’isola del Mediterraneo, di fronte al porto in cui entrano i traghetti per allontanarsi, poi, verso altri porti lontani e invisibili. I corpi si divaricano nel seguire le tracce delle navi in partenza, è quasi un non esserci o un esserci appena.

Nella notte ci si vede sparire insieme alle cose. Sopravvivono i pochi palazzi ancora illuminati e svegli e la solitudine dell’ultimo autobus che risale l’isola tra i castagni, i pini, i cinghiali. E ogni pensiero verso chi è assente sembra correre più in fretta solo perché la distanza non si vede, perché il buio la inghiotte e come accade in treno non si fa in tempo perché si è completamente dentro il tempo, strappati dalle vite intraviste e insieme nel cuore di quelle vite, profondi come il fischio e il ferro nella terra. [...] Così concepisco la scrittura: scrivere per sparire, perché la vita si squaderni davanti a me, senza di me, il volto finalmente più sfocato del bianco dei fogli o dell’azzurro dello schermo, il volto privato del riflesso. Un mondo dove dimenticarsi: non uno specchio, ma una pietra4.

È una tregua, una sottrazione temporanea nella sofferenza dell’esserci il tema forte di questa direttrice di osservazione. Non consolatorio. Infatti la bellezza può convivere con la violenza, starle a lato, perché non basta a salvarci: “Esiste un nodo tra luogo e dolore, tra spazio e diverso disporsi della luce” 5. Qui la lezione di Ortese si rende tangibile e attuale: “Il mare non bagna Napoli[L] perché non bagna tutte le sue creature, perché esistono luoghi in cui la miseria non ha neppure una forma e in cui parole come luce, acqua, mare, sembrano, anzi sono, irreali”6.

Allora la responsabilità dello sguardo è piena e individuale: “Non abituarsi coincide con un tentativo di realtà, con il vedere la realtà anche del proprio male, della propria prepotenza e impotenza. Non abituarsi è non sentirsi innocenti” 7. Altrimenti rimane solo uno sguardo letterario inteso come descrittivo di una situazione di degrado rappresentata in una indifferenza di fondo, una ipocrisia che copre e mistifica ogni forma di responsabilità.

Poter fissare la propria inutilità, come scriveva Teresa d’Avila al suo confessore, o trovare una lingua di pudore, di non invadenza, che dica senza sovrapporsi all’altro/all’altra; quella lingua capace di esprimere il dissidio tra verità e vita, che solo l’amore tra creature e cose può comporre, come suggerisce María Zambrano[L] , parlando della concretezza della visione8. Una voce che conosce la perdita e la separazione. E la rinuncia a noi stessi, come suggerisce Michel Foucault[L]9. Prosegue Anedda:

Forse scrivere è l’esercizio di rinuncia che consente ai nostri brandelli di realtà di affiorare, forse la realtà di noi stessi appare quando rinunciamo a tutto tranne al bagliore incerto che lascia intravedere il fuoco che trascorre dalla nostra origine alla nostra morte. Ma io – nella mia casa, nella mia notte protetta – non ho che questo linguaggio, così impreciso, così privo di memoria. [...] Mi chiedo cosa diventi la parola in tempi bui, quale sia il suo tempo, quale tempo le conceda di esistere senza costringerla alla storia10.

Già Celan[L] aveva ammonito: “Diffida del bello. Cerca il vero” 11, scrive l’autrice, riferendosi alla nota domanda di Adorno, se fosse ancora possibile una poesia dopo Auschwitz. E oggi, con le atrocità disseminate in molti luoghi del pianeta, a cui assistiamo continuamente dal salotto di casa, inermi e disorientati, a volte addirittura assuefatti a tanto orrore, la domanda non ha perso la sua efficacia. Anche perché, come ricorda Anedda: “L’arte non salva. Gli assassini scrivono poesie, possono amare la bellezza, possono amare l’armonia”12. Allora una scrittura solo bella, armoniosa nella forma, non serve più, non convince, occorre una scrittura che faccia spazio, che non nasconda la sua ombra, che non ceda all’allusività quando apre una scappatoia di irresponsabilità. Occorre inchiodarsi alle parole-pietre che indicano nei corpi i luoghi senza riparo. L’anima è capace di fuggire, ritrarsi, il corpo esiste, si mostra com’è, nella sua inermità.

L’autrice intreccia brani di libri, visioni di quadri, frammenti, a ricordi personali, a immagini della mente in passaggi continui che accerchiano un pensiero, lo scavano, pongono domande radicali: la ricerca di una minima spiegazione di qualche vuoto improvviso dell’anima. La fiducia che mostra nell’intrattenere questi numerosi colloqui con le opere, scritte o pittoriche di tante autrici e autori conosciuti, amati, diviene un tessuto privilegiato di relazioni fondate su

117 affinità elettive, laddove la parola tenta la strada impervia e malsicura dell’accesso agli spazi più bui e tormentosi dell’animo umano. Ma è sempre il corpo che rivela, testimonia, si mostra per quello che è, sulle corde tenaci dell’esistenza.

Non c’è una soluzione sicura, rimangono domande che indirizzano lo sguardo sempre di più verso le percezioni minime che coinvolgono il senso delle cose concrete, anche quando non sono visibili, l’essere nel mondo con i nostri corpi, con le sensazioni da ascoltare e riconoscere, con i passaggi sulle fragilità, gli spaventi imprevisti, gli spazi che diventano suoni, i paesaggi che penetrano l’interno.

A sette anni invece di crescere, invece di diventare alta, volevo scendere – a ritroso lungo il mio corpo, di giorno in giorno sempre più in basso, fino alla terra, fino a capovolgermi e divaricarmi: non più corpo, ma radici. La materia, quel corpo che crescendo si appesantiva, non poteva che trovare l’estremo del suo peso, pesare, sprofondare nella terra delle vacanze in campagna, forare la sabbia del mare. Era necessario essere pesanti e tuttavia affilati per cadere e aprire varchi e dormire in una profondità infinita cullati dalla caduta, essere lama e fardello13.

Immaginazioni infantili che danno conto di una intuizione, che diverrà una scelta: pesare ed essere affilati indica una nudità che muove verso l’essenziale, la solitudine, l’aderenza alla terra per richiamo, il non riposo. E la disponibilità totale all’ascolto. Anche della propria voce, ma in solitudine.

C’è un capitolo, verso la fine del libro, intitolato “Nudità”, dove l’intreccio del corpo assume valenze maggiormente determinate. Il tema di fondo è ancora la scrittura, la necessità della scrittura che non è un semplice atto di volontà, ma appartiene alla concretezza del dato di realtà, come il vento di Genova che spingeva la madre dell’autrice, su per i caruggi, fino alla stanza in cui probabilmente venne concepita. Quello stesso vento che ancora sollecita tenacemente i corpi nell’immergerli nel flusso disordinato delle cose, finché diventa sottile, si placa quasi, nella nudità di ciò che è, esiste, e nell’attesa del tempo che viene. Per questo – dice – “non resta che incamminarsi verso un desiderio sconosciuto, cercare un linguaggio e un nuovo alfabeto. Una strada oltre l’infittirsi delle immagini, oltre il loro deserto. Una strada oltre la malinconia: il varco scavato dalla vita reale nella vita dell’ossessione”14.

Una strada in cui il corpo diviene protagonista di battaglie inenarrabili, nella dimensione del vuoto da non colmare o del pieno da respingere: non mangiare nulla, o mangiare molto e poi molto per vomitare tutto. Come la protagonista del libro di Clarice Lispector, La passione secondo G.H.[L] , che si trova a inghiottire per errore una blatta: il ripugnante senso di collusione tra interno ed esterno 15. Oppure come Pontormo, che annota rigorosamente nel suo Libro mio il vuoto dei suoi giorni e l’alternanza del suo cibo, i numerosi digiuni a cui si sottopone, per una necessità di dare ordine, per la furia di deformare, entrandoci dentro fino al limite estremo, l’imitazione dei classici16.

Il cibo ha a che fare con la morte, chi mangia mette in moto il corpo, crea movimento, presta attenzione, si nutre, vive. Tiene lontana l’immagine della morte.

E la poesia? È nulla se non c’è l’ascolto. Seguendo Marina Cvetaeva[L] l’autrice viene a interrogarsi su questo tema impervio. Già Dante, collocando i poeti nel Purgatorio, aveva indicato che la poesia opera nell’incertezza, nel viaggio d’amore, in quel paesaggio indefinito che sembra aprire sempre nuovi confini. Ora l’autrice, confessando un disagio estremo nella pubblica lettura di poesia – una esibizione ancora più penosa per una donna, qualsiasi sia la sua età e bellezza – riporta la voce alta alla dimensione di ascolto in solitudine, come: “incontro nel buio della gola quando tutto è ancora inespresso, un incontro che contempla un rischio: capire che quanto abbiamo scritto è lontano da ciò che siamo”17.

Per sentire risuonare l’immagine interiore – come dice Mandel’štam[L] – perché l’udito del poeta possa palparla 18. O per cercare, come suggerisce Marina Cvetaeva, una poesia non innamorata di sé stessa, ma dell’ascolto19.

Una lettura a voce alta senza vanità e senza distrazioni. Per concentrarsi sulla propria voce, conoscendo i rischi che comporta e conoscendo il timore che sostiene. Ma anche una lezione ardua di rigore morale, di correttezza intellettuale. La voce che ascolta si fa parola espressa e suono intimo. Una sorta di esame serrato della propria ricerca, della rispondenza con il sé messo a nudo, nella piena umiltà del ritrovarsi ciò che si è. Una prova a cui sottoporsi per andare verso sé stessi, per intuire l’amore al fondo.

118 Dal dissesto alla genealogia. Conversazione con Ida Travi

Alessandra Pigliaru

La recente trilogia poetica di Ida Travi 1 riferisce di una configurazione del mondo e della soggettività che segue un pensiero di nascita, con la sapienza di chi si muove con signoria fra i precipizi della Storia, fra quei vuoti cioè che non prevedono mutilazioni ma ascolto che si trasfigura in tutti i nomi del mondo 2.

Nel progetto di Ida Travi che corrisponde a Tà[L] , Il mio nome è Inna[L] e Katrin[L], nasce anzitutto un orizzonte dell’abitare e dello stare insieme inedito in poesia e che racconta molte cose dell’oggi e della capacità delle donne di riscrivere paesaggi andati in pezzi. Lo sfondo in cui si muovono i tre libri è appunto l’esito di una catastrofe, accaduta immaginiamo tempo fa e che nel suo prodursi ha lasciato le tracce di un mondo che c’era e che non esiste più. In quel tempo di mezzo non si attende solo ciò che tarda ad arrivare ma la voce di chi non ha ancora – o non ha più – difese. Zona liminale, l’intermittenza di questa nuova nascita ha i tratti aurorali di una riconosciuta e indicibile materialità dei corpi. È nella scrittura che la matassa si dipana e il luogo diventa quello della testimonianza oculare – come pupilla che intrattiene il ritmo del tempo.

Nell’albeggiare del venire al mondo, la nuova comunità di parlanti fa ingresso in Tà. Poesie dello spiraglio e della neve che si apre all’insegna del post. In questo ‘dopo’ che avanza – e che è adesso – Travi ci presenta appunto un luogo popolato da chi è sopravvissuta/o a qualche disastro. C’è un prima e un dopo, nel senso che già nell’onomatopea Tà si annida la cesura vivente di Inna, Katrin, Olin, Zet, Nikka, Sasa – i personaggi e le personagge che nasceranno o perdureranno anche nei libri successivi. Ciò che li accomuna è, in prima battuta, aver avuto una dismissione del proprio ruolo, sono dunque ex-lavoratori, ex-studenti o meglio sono stati qualcuno che ora non sono più e di cui tra l’altro hanno già elaborato la nostalgia. Vivono insieme cercando le risorse di un nuovo senso della quotidianità, del fare comunità, di sentirsi aderenti con il tempo e in relazione con chi sta accanto.

I luoghi sono quelli del distacco ma anche di un rinnovato ritorno, come una soglia che non resta più in penombra ma si fa porta a cui bussare rumorosamente per dire ‘Siamo qui e pretendiamo una possibilità di felicità’. Questa comunità presentata da Ida Travi in Tà mostra ulteriori trasformazioni di se stessa anche in Il mio nome è Inna e in Katrin. Le creature che sono sopravvissute alla catastrofe[P] hanno avuto il coraggio di metabolizzare ciò che è accaduto e non se ne crucciano più; vanno avanti apprendendo che il mondo non è più lo stesso, che vorticare sulla stessa angoscia non ha alcun senso, infine che forse si può ancora nominare il quotidiano. Non più farne una strategia ma ridisegnarne la materialità.

Alessandra: Da Tà in avanti, la tua è una poesia per personaggi e personagge, nel senso che la narrazione segue figure che hanno un nome, una profondità e che stabiliscono legami, esprimono e sollecitano una profondità del tempo senza tuttavia rimanerne imbrigliati. Le figure che ti vengono incontro però non sono eroine, neppure quando hanno un riferimento preciso al tragico. Sembrano più delle sante del quotidiano. L’eroina è inutile quasi quanto l’eroe, diventa una costruzione inconciliabile al nesso tragedia-storia che per te è invece cruciale, “il loro vincolo appare ineluttabile” 3. In che modo queste creature arrivate chissà da dove sono arrivate all’esistere e come credi che possano fare sponda con il nostro presente?

Ida: Gli esseri umani che si incontrano nella mia poesia per me esistono, come se non consistessero solo di parole.

119 Post-studenti. Ex-lavoratori. Non rimandano ad altro, bastano a se stessi, come se fossero indifferenti alla letteratura, alla poesia, come se stessero in un libro, sì, ma solo perché lì sono finiti per via d’una catastrofe, intesa come capovolgimento. Capovolgimento passato, imminente, forse in sospeso, capovolgimento lento quanto i secoli che hanno costruito la nostra storia. E questo capovolgimento continuo, questa catastrofe, coinvolge anche i nostri simili più sottili per esistenza: cioè gli esseri qui immaginati in poesia. La loro esistenza in poesia non li esime dall’occupare un posto nel mondo… anche lo spazio dell’immaginazione[P] è uno spazio del mondo. Si tratta di mondi e esseri più leggeri di quelli materiali, visibili solo con gli occhi della mente, ma pur sempre esseri e mondi. E i sopravvissuti all’eterna catastrofe del mondo sono anche i lavoranti alla sua eterna ricostruzione: è il tempo, è la storia. In ogni libro c’è storia e c’è lo scostamento dalla storia. E forse in questo scostamento passa il tempo. In ogni libro c’è una perdita di realtà, c’è un sogno, un incubo… E in questo senso in ogni libro c’è una specie di notte, c’è un buio terribile, eppure è in quel buio che poi, in realtà, ci ritroviamo ad accendere una lampada, una luce.

Alessandra: La tua poetica è stata definita una “mitologia contemporanea”4. Forse è il caso di precisare ulteriormente questa espressione molto calzante che tuttavia potrebbe rischiare di accostarti a un ritorno al mito classico come paradigma?

Ida: La definizione ‘poetica mitologia contemporanea’ secondo me è giusta ma non come riferimento diretto alla mitologia in genere o a quella greca in particolare: qui non si narrano la vita e le avventure di dèi e dee, eroi ed eroine e altre creature mitologiche. Qui succede il contrario: qui si narrano esseri umani, solo esseri umani, poveri di tutto e parlanti una lingua ridotta all’osso. Una lingua misera, come scavata ogni giorno con un cucchiaio. Tornando a un neologismo di Lacan penso a un Tolki come a un parlètre, poeticamente inteso come essere marchiato dal linguaggio. Parlètre è un neologismo di Lacan che fonde indissolubilmente l’essere al linguaggio. Questi Tolki evocano in me l’idea d’una comunità, o quel che resta d’un popolo. I Tolki si disinteressano agli dei, alla guerra, si disinteressano alla lotta, si disinteressano alla vita anche… ma vivono in una tal compressione d’esistenza che assurgono allo status di mito in se stessi: post-studenti, ex-lavoratori, come evocati in se stessi, come ricordi o proiezioni dal futuro… ma raccontabili. Raccontabili poeticamente da me, per esempio. Non rimandano a persone esistenti o esistite, neppure lontanamente, non rimandano alle figure a cui il mito ci ha abituato a pensare, non rimandano ad amici, parenti, o a altre figure letterarie. No, sono loro e basta. Poveri miti, certo, e poveri in se stessi, la loro è una dimensione perduta, o una dimensione a venire. Sono poveri d’una povertà ancora custodita nell’umano, come all’inizio, o come quando chissà: primordiali o postqualcosa, appunto… ma raccontabili. Raccontabili per la prima volta come se fosse un’infinità di volte. Certo il rimando a una mitologia non è rintracciabile nelle imprese – qui non ci sono imprese – ma sicuramente è rintracciabile nel permanere della voce: la struttura orale segna molto il mio fare poesia, come se il libro venisse dopo. Come se il libro venisse sempre dopo. Sì, prima del libro ci siamo noi, prima ci sono loro, i Tolki! Prima c’è la nostra invenzione o la nostra testimonianza. Dopotutto è stato così, in realtà, per narrazione e poesia nei secoli. Prima c’è stato il mito e la sua trasmissione orale, poi c’è stata la Tragedia, i grandi lirici greci, il grande teatro sulla collina dell’Acropoli.

Alessandra: Mi vengono in mente Diotima[L] 5 e Alcesti[L]6 e il tuo riferirti al senso della classicità e della tragedia greca come intrecciata al mito e al suo senso esatto di reinvenzione, di riscrittura che accoglie l’apertura di narrazioni che possono toccarsi. Non si tratta di fare ritorno a un luogo fortemente connotato come la Grecia classica per sostituirlo alla disintegrazione del presente, si tratta piuttosto di reinventare figure in carne e ossa che incidano e svettino sulla contemporaneità raccontando se stesse come mai prima d’ora. La tua Diotima, per esempio, percorre solo alcuni dei sentieri platonici, il resto manifesta un punto inedito di sapere di sé che neppure Socrate poteva immaginare. La tua attenzione alla classicità è legata alla ferita del drama? E il fatto di rivivere quella reinvenzione che da Diotima passa per Alcesti per poi arrivare fino a Inna, Katrin si avvicina alla significazione di una genealogia del quotidiano (inteso come materiale e simbolico) che riceve e risignifica la vulnerabilità?

Ida: C’è stato un preciso momento nella storia della mia scrittura in cui ho sentito il bisogno di raccontare qualcosa poeticamente, utilizzando la struttura classica della tragedia, ridotta e scarnificata, certo, ma non stravolta: prologo e ingresso del coro, tre o più atti, relativi canti del coro da fermo (stasimi) e esodo. Volevo provare a scrivere una tragedia, e così è nato lo scritto per il teatro Diotima e la suonatrice di flauto. L’atto tragico comprende questi cinque momenti ma anche una specie di sesto atto, in cui continuando la narrazione si torna in scena, come quando a fine spettacolo gli attori tornano in scena per il saluto al pubblico e, ancora coi vestiti di scena, non sono più personaggi ma se stessi. In pratica l’atto tragico si apre con la scena del celebre Simposio di Platone, a casa di Agatone, nel V° secolo a. C. quando la giovane suonatrice di flauto chiamata per allietare la serata viene invitata ad andarsene perché gli uomini lì radunati possano liberamente ragionare sull’Amore. Da questo momento in poi l’atto diventa opera d’invenzione: fuori dalla casa della filosofia la giovane suonatrice di flauto incontra Diotima, l’altra grande assente – fisicamente – dal Simposio, se pur molto evocata nei discorsi. Sono loro le protagoniste dell’atto, fuori dai discorsi. E ciascuna, sul sentiero degli ulivi che scende verso casa, parla per sé, non per bocca di Socrate. Ma è una tragedia, là, in

120 quel punto, non finisce bene, ci vorranno i secoli per rimettere le cose a posto, tra donne e uomini e tra donne e filosofia… qualche secolo ancora?… Sulla scia di tutto ciò la raccolta di poesia edita in quegli anni, La corsa dei fuochi[L], si apre, per un attimo, sulla visione della sentinella accucciata sugli spalti della reggia degli Atridi 7. E nella raccolta successiva Neo/Alcesti, appunto, Alcesti non è già più Alcesti, ma una giovane donna senza tempo, fragile sì, ma non del tutto, tutta tesa a risorgere da una condizione di morte.

Alessandra: Quella parte del pensiero di Diotima che Socrate ignora è la presenza della donna in carne e ossa, cioè il pensiero appassionato come “Pietà vivente” che si prende cura stemperando la violenza del logos 8. Questa posizione della Pietà è molto più di una prossemica fine a se stessa. È posizione interiore che specifichi in altri testi ma che intravvedo allargata soprattutto nel tuo Poetica del basso continuo quando scrivi:

Se un gesto di carità si fa meccanico, se dura troppo a lungo, se l’immagine del forte che sorregge il debole si irrigidisce, il debole è spacciato e pietà e crudeltà diventano i raggi della stessa terribile ruota: se disgiunta da amore, la pratica della cura diventa un potere come un altro. Arma a favore del curante. Certo l’immagine di un debole che sostiene un forte sfida la ragione: come può un malfermo sorreggere chi sta in piedi benissimo da solo? Eppure nella sfera d’amore a noi umani è data in sorte e l’una e l’altra posa. Chi fu sorretto, sorreggerà. Chi aiuta chi? L’immagine della Pietà include anche il nostro ritratto, in quale posa non sappiamo, a meno che qualcuno, qualcosa, non ci trasformi in statua9.

Vuoi commentare questo legame e questo passaggio?

Ida: L’immagine della Pietà allora per me era un’immagine di cura e si legava al materno. Torna anche in una poesia di La corsa dei fuochi: “La Pietà spalanca le braccia/ figli e fratelli se ne vanno via”… La poesia è poi diventata un canto incluso nel CD allegato al libro. In questi dieci anni ho riflettuto molto sul tema della cura, tema difficile e molto molto strumentalizzato: in realtà anche un sentimento di pietà troppo a lungo irrigidita in una posa asimmetrica, può imprigionare l’altro, sì, anche l’eccesso di cura può trasformare due esseri in una sola statua.

Alessandra: In molti punti dei tuoi testi vi è il riferimento alla preghiera, o meglio a una forma di spiritualità che permea il cosmo e il mondo e che è del tutto pagana; si mostra perlopiù in relazione alle creature e ai viventi. È qualcosa che ha a che vedere anche qui con un pensiero di nascita. È la nascita di qualcosa, della parola, della concretezza della lingua materna e del suo legame – che rintracci per prima e così bene – con la poesia epica 10, è il segno di una soggettività sempre in relazione. Più di recente scrivi:

È una distesa di rovine: dalle rovine esala una preghiera. Non si tratta d’una preghiera tramandata: sembra piuttosto un modo di stare chini a testa alta. Si tratta di una posizione dello spirito per cui più la testa si abbassa, più s’innalza nel cielo, fuori. Come se terra e preghiera fossero una cosa sola, come se ciò che chiamiamo realtà fosse una forma d’anima11.

Pensi sia questo legame tra terra e preghiera che possa riscrivere ciò che è finito in pezzi? Pensi inoltre che questa forma di preghiera abbia a che fare con l’orazione intesa come unione di oralità e relazione12?

Ida: Quando dico stare chini a testa alta, dico qualcosa che salda contemporaneamente la nostra interiorità con il punto della terra in cui siamo e con il cielo. Sulla terra crescono case e fili d’erba, il cielo è lo stesso. Poi ognuno intende questo cielo come vuole. Abbiamo la parola, in questo, che ci è d’aiuto. Ma terra e preghiera, e cielo, si saldano anche senza parole. Un brusio insensato può mettere in moto la stessa colossale potenza.

Alessandra: Mi interessa il tema del piccolo. Dell’elemento piccolo che per te non è mai segno di debolezza o di un’ignoranza che va silenziata ma di una relazione che deve mettersi in ascolto anche del piccolo. Del resto è vero che “Siamo nati da piccoli e subito immersi in un rapporto asimmetrico, sbilanciato”13. Lo noti dunque nella relazione materna e “nella lotta amorosa e senza armi”14. In questo tuo ultimo libro parli anche di “viandanti piccolissimi e ostinati”15. Chi sono e più in generale che posta in gioco nasconde questo ‘piccolo’?

Ida: Intendo per piccoli quelli che stanno in basso. Quelli che crescono anche verso il basso. Quelli che stanno radicati nella loro condizione umana e non usano le parole come trampoli. C’è molta letteratura coi trampoli e a me questo tipo di letteratura, questa poesia non interessa. Il riferimento al basso continuo sta in questa linea in basso che sostiene le altezze. Resta il fatto che tra gli umani nonostante tutto c’è un’eterna tendenza, una continua chiamata a raccolta in un abbraccio. Si spera non sia un abbraccio di lotta, si spera non sia un abbraccio mortale. L’abbraccio più grande è all’inizio quello materno poi diventa altro. Secondo me il linguaggio si forma in quel primo abbraccio, ma si

121 rende presto evidente: quell’abbraccio non è un bene per sempre, può capovolgersi, appunto, non vale in assoluto. Esistere nell’abbraccio, come abbraccianti e come abbracciati, pronunciare la prima parola sapendo bene che la parola non ci salverà da quella lenta, lunga catastrofe che è il nostro vivere. Catastrofe per cui un bene non è un bene per sempre, e neppure un male sarà per sempre, è chiaro, bisogna sempre rivoltarsi: finché viviamo non c’è postura che regga in assoluto. Ragion per cui, a ruota, saremo infelici e poi ancora felici, e poi ancora infelici, e poi ancora felici…

122 Caryl Churchill: uno sguardo profetico

Paola Bono

Una giovane donna ha lasciato senza permesso il suo posto al fronte; non intende disertare, tornerà presto al suo dovere – ma prima vuole passare almeno un giorno con il marito. È crollata nel sonno dopo essere arrivata esausta alla fattoria della zia, dove lui si trova in licenza, e al risveglio racconta la pericolosa marcia che ha dovuto affrontare per raggiungerlo:

Non erano tanto gli uccelli che mi spaventavano, quanto il tempo, il tempo qui è dalla parte dei giapponesi. Ci sono stati temporali dappertutto nelle montagne, sono dovuta passare attraverso città dove non ero mai stata prima. I ratti sanguinano dalla bocca e dalle orecchie, il che è bene, e così pure le ragazze a lato della strada. È stata dura lì, perché è stato reclutato di tutto, c’erano pile di corpi e se ti fermavi a investigare c’era chi era stato ucciso dal caffè e chi dagli spilli, erano stati uccisi dall’eroina, dal petrolio, da motoseghe, dalla lacca per capelli, dalla varechina, dai fiori di digitale purpurea, c’era puzza di fumo dove bruciavamo l’erba che non voleva obbedire. I boliviani stanno lavorando con la forza di gravità, viene tenuto segreto per non creare allarme. Ma noi stiamo facendo passi avanti con il rumore e ci sono migliaia di morti per la luce in Madagascar. Chi mobiliterà l’oscurità e il silenzio1?

È il finale di Lontano lontano[L] (2000) di Caryl Churchill, agghiacciante distopia in tre atti che si chiude su un mondo devastato da una guerra davvero globale. Subito prima che entrasse in scena Joan, il dialogo tra la zia Harper e il marito Todd ci ha presentato un surreale elenco dei combattenti: gatti e francesi, marocchini e formiche, venezuelani e zanzare, cuochi e bambini sotto i cinque anni, nuotatori russi e macellai thailandesi…

È una guerra che coinvolge tutto e tutti, umani, animali, fenomeni naturali – dove “è stato reclutato di tutto”, e si brucia l’erba che non vuole obbedire. Estremizzazione delle modalità di dominio e distruzione che la specie umana ha esercitato sul mondo, nonché di processi sociopolitici effettivamente in atto – “a posteriori acclamato dalla critica come una delle opere drammatiche che meglio hanno saputo dar forma al conflitto globale del dopo 11 settembre” 2 – Lontano lontano è una favola nera che si colloca coerentemente nel ricco percorso di scrittura drammaturgica di Caryl Churchill, esempio di un vigile sguardo sul mondo e di un teatro che ha sempre mirato a essere “non normale, non rassicurante” 3. Iniziato negli anni Sessanta, e segnato da una tensione civile e politica che illumina a volte quasi profeticamente le questioni più dure del presente, quel percorso include decine di testi per la radio, la televisione, il palcoscenico; un corpus caratterizzato dalla varietà formale e da una continua sperimentazione, e insieme dal riproporsi con nuove variazioni di temi per lei centrali.

A differenza che in altri testi – in particolare, seppure non solo, quelli scritti negli ultimi decenni – in Lontano lontano non vi è aperto scardinamento strutturale o linguistico del testo, anche se le tre parti di cui è composto, come dice la stessa Churchill, “possono sembrare sconnesse”, legate solo da un irrealizzabile “desiderio [dei personaggi] di stare dalla parte giusta”4; e legate, sul piano del racconto, dall’esile filo delle vicende di uno dei tre personaggi. Joan vi è infatti sempre presente, e i tre atti corrispondono a tre momenti della sua vita: dapprima è bambina, con la zia Harper nella casa di campagna di questa; poi la vediamo giovane donna agli inizi della vita lavorativa, impiegata con il collega Todd in una inquietante fabbrica di cappelli; la ritroviamo infine adulta, ormai sposata con Todd da diversi anni, di nuovo nella fattoria della prima parte, di nuovo con Harper e Todd.

Come in altri testi, in questo caso facendo riferimento a tutta la produzione di Churchill, anche in Lontano lontano viene smentito il supposto ruolo positivo della famiglia, che ben lungi dall’essere rifugio e protezione si presenta invece come luogo della menzogna e dell’educazione all’insensibilità. Nel primo atto, nell’ambientazione falsamente idillica

123 della fattoria di Harper, quando la piccola Joan – appena venuta in visita dalla città – le dice di aver visto lo zio tenere prigioniere e picchiare a sangue molte persone, anche dei bambini, la zia dapprima nega recisamente suggerendo che deve essersi immaginata tutto. Poi prova a farle credere che si è sbagliata: le grida che ha sentito erano il verso di una civetta, i rumori erano quelli di una festa, il sangue che ha calpestato era quello di un cane investito per errore. Infine, di fronte all’incalzare di domande che confutano le sue spiegazioni, ammette le violenze ma le giustifica in nome di un bene superiore – finché la bambina si lascia convincere e cade nell’inganno più grande, giungendo a farsi complice di quelle atrocità. “Adesso fai parte di un grande movimento per rendere le cose migliori. Puoi andarne fiera”, le dice la zia, bugiarda fino in fondo. “Puoi guardare le stelle e pensare eccoci qua nel nostro angolino di mondo, e io sono dalla parte di quelli che stanno mettendo a posto le cose, e la tua anima si espanderà fino al cielo”5.

Il secondo atto vede proseguire e accentuarsi questo processo di accettazione della barbarie: Joan è cresciuta e ha cominciato da poco a lavorare in una fabbrica di cappelli dove incontra Todd, collega più esperto che quasi le fa da mentore. Li vediamo discutere su forme e accostamenti di colori mentre con passione creano cappelli stravaganti, riccamente decorati, enormi – destinati a essere indossati in una sfilata settimanale di figure mute e cenciose, prigionieri in catene che così incongruamente adornati marciano a fatica verso il patibolo. I cappelli verranno bruciati con i loro cadaveri – tranne uno, il più bello, che avrà l’onore di essere conservato in un museo. Indifferente alla sorte dei condannati, Joan lamenta invece la perdita di quelle piccole opere d’arte, mentre Todd – anch’egli insensibile al supplizio cui regolarmente assiste – la vede come una metafora affascinante, e gode della qualità effimera della bellezza. Sebbene pronti a prendere posizione per ottenere un contratto di lavoro più equo e anche per combattere la corruzione dell’industria dei cappelli, l’una e l’altro sembrano accettare senza problemi la brutalità di un sistema che fa della morte uno spettacolo (quelle sinistre processioni vengono anche trasmesse in televisione).

La cecità alla violenza e al dolore raggiunge il culmine nel terzo atto, nel modo ottuso in cui i personaggi parlano del loro coinvolgimento in una tranquilla follia guerresca che ha contagiato tutto: è soprattutto qui che Lontano lontano, di nuovo come altri testi di Churchill, gioca sulla coesistenza tra riconoscibile e assurdo, in questo caso per far riflettere sulla possibile assuefazione a un livello così alto e onnicomprensivo di conflittualità, dove non ci sono più limiti alla violenza contro le persone e contro la natura – tutta da sottomettere e da “arruolare”: i fiori di digitale purpurea e la luce, il silenzio e il rumore, la forza di gravità e il tempo. In un crescendo che dalla famiglia all’ambiente di lavoro al mondo intero vede espandersi menzogna, alienazione e ferocia, quel che infine più angoscia non è solo o tanto la pervasività della guerra in atto, quanto il suo livello di normalizzazione[P], la mancanza di qualsiasi “segno di resistenza o memoria di una alternativa etica” 6, l’adesione irriflessa dei personaggi a questo ecocidio senza regole e senza salvezza7.

Giustamente Una Chauduri osserva che lo scenario di devastazione – materiale e morale – di questo ultimo atto ricorda, quasi ne fosse la resa in forma teatrale, il monito della “originale e preveggente meditazione sulla nostra situazione globalizzata” proposta da Michel Serres ne Il contratto naturale[L] , in cui il filosofo francese sostiene che “la rottura del contratto sociale nel genocida secolo scorso ci ha lasciato ad affrontare un ordine di violenza diverso da quanto si sia mai visto prima, quello del mondo naturale che abbiamo così a lungo violato” 8. Un invito ad abbandonare una visione tutta antropocentrica per “considerare il punto di vista del mondo nella sua totalità” 9, riconoscendosi parte di una pluralità che abita una terra dove però la vita è una, e occorre nel rapporto con la natura smettere di essere parassiti dannosi e diventare collaborativi simbionti. Ma in Lontano lontano la cancellazione del confine tra umano e animale si verifica in modo negativo, come negativo per troppo tempo è stato il nostro atteggiamento verso le altre specie, e più in generale verso la natura. Tutto può essere ed è asservito alla logica del dominio, e assistiamo nel dialogo tra Harper e Todd, e poi nel monologo di Joan, a una bizzarra “umanizzazione” di germani reali, cervi, elefanti e coccodrilli e di converso alla disumanizzazione di uomini donne e bambini: non ci sono distinzioni quando si tratti di uccidere e morire.

Alla zia che teme di essere coinvolta nella punizione se la momentanea defezione di Joan venisse scoperta, la giovane risponde, rassicurandola, che sebbene sia stata vista mentre a passo deciso si dirigeva alla fattoria, “nessuno sapeva perché, potevo benissimo essere in missione, tutti sono in movimento e nessuno sa perché, e difatti ho ucciso due gatti e un bambino sotto i cinque anni perciò non era molto diverso da una missione” 10. Rivendicando la propria affidabilità come combattente, Todd afferma: “Ho sparato su bestiame e bambini in Etiopia. Ho gassato truppe miste di spagnoli, programmatori di computer e cani. Ho fatto a pezzi degli storni con le mie mani”; né si è mai rifiutato di eseguire compiti di routine, per quanto poco gratificanti fossero: “so benissimo che non si tratta sempre di cose esaltanti. […] Ho lavorato nei mattatoi a tramortire maiali e musicisti e alla fine della giornata ti fa male la schiena e tutto quel che riesci a vedere quando chiudi gli occhi è gente appesa per i piedi”11.

Gli schieramenti in lotta sono fluidi e incerti (“non sapevo con chi stava il fiume”12, ricorda Joan sempre nel

124 monologo finale), e possono verificarsi improvvisi voltafaccia (“gli elefanti sono passati dalla parte degli olandesi” 13, si rammarica Harper) che modificano giudizi basati su puri criteri di utilità, seppure si cerchi di ammantarli di alti valori morali. Meccanismo facilmente riconoscibile, se pensiamo ad esempio al “cambiamento di atteggiamenti dell’Occidente verso l’Iraq e l’Iran in occasione della guerra del Kuwait” o al post-11 settembre, con il riavvicinamento degli USA al Pakistan, in funzione della sua importanza strategica nella cosiddetta lotta al terrorismo 14. Qui ritroviamo tale meccanismo nella discussione tra Harper e Todd sulla moralità dei cervi, condannati per la loro violenta invadenza mentre sono alleati del nemico (“fanno irruzione nei parchi […] e seminano terrore nei centri commerciali […] con i loro malefici zoccoletti lustri lustri”); ma non appena cambiano campo, ecco emergere “nei loro teneri occhi nocciola” una bontà prima decisamente negata e ora definita naturale15.

Questo scenario di guerra al tempo stesso paradossale e familiare (quante guerre recenti sono avvenute lontano lontano...) è una visione del presente travestito da futuro – una proiezione di ciò che già viviamo quasi senza accorgercene; e una poetica chiamata a un cambiamento di rotta, come già lo era Not Not Not Not Not Enough Oxygen[L], un radiodramma di oltre quarant’anni fa 16, chiara testimonianza dell’interesse di antica data di Churchill per le tematiche ambientali. Intrecciandosi sempre alla riflessione sui danni di una economia basata sullo sfruttamento e sulla massimizzazione del profitto 17, questa attenzione sarà in seguito ripetutamente presente nel suo lavoro – come in “un dialogo ricorrente e intenso”18 che rivisita con variazioni tale complessa questione.

Come Lontano lontano, anche Not Not è una distopia ambientata in anni (allora) a venire: nel 2010, ormai il nostro passato, che fortunatamente non è stato segnato da un’incuria così distruttiva. O almeno non dappertutto allo stesso modo, sebbene essa continui con ottuso e cieco egoismo; basti pensare alle prese di posizione critiche del Partito Repubblicano statunitense di fronte all’accordo sulla riduzione delle emissioni di gas serra (in verità comunque insufficiente), raggiunto dal governo con la Cina nel novembre 2014. Si può senza problemi spostare in avanti la data e ricollocarne l’azione nel futuro, perché di certo questo radiodramma non ha perso di attualità col passare degli anni. Anzi, appare ancora valida adesso l’impressione che ne ebbe la stessa Churchill nel 1990, quando il testo venne pubblicato nel volume Shorts; vale a dire che rileggendolo a tanta distanza dalla composizione Not Not si dimostra “chiaramente più rilevante oggi di quanto lo fosse allora” 19.

Il mondo che emerge dai dialoghi tra i personaggi è “un incubo che non se ne andrà” 20. Una forsennata espansione edilizia ha invaso come un cancro tutta l’Inghilterra, trasformando Londra in ‘le Londre’ – e di nuovo pensando alle riflessioni di Michel Serres, come non vedere qui anticipata la sua visione della catastrofe che ci attende se nel rapporto con la natura non impariamo la misura e il ritegno di una “ragione ragionevole”?

Noi pianifichiamo il mondo per noi soli, animali ormai esclusivamente politici, inesorabili vincitori della lotta per la sopravvivenza, chiusi per sempre nella città costruita illimitatamente, coestensiva al pianeta: chi può oramai uscire dalla cittadella d’affari chiamata Giappone o dalla serra detta Olanda? […] In mezzo alle pietre e al vetro, gli uomini non avranno più che vetro e pietre sotto di loro, per costruire, e, di fronte a loro, per vivere, in un mondo alla fine vetrificato, sottomessi alla loro sola legge21.

Le didascalie descrivono accuratamente sia l’aspetto dei personaggi che la stanza in cui si svolge il dramma, tanto da far pensare che esso sia stato concepito con un occhio anche a una possibile rappresentazione in teatro – come in effetti è avvenuto nel 2002 al Royal Court Upstairs a Londra, in una messa in scena resa memorabile dal coup-de-théâtre di una porta aperta d’improvviso a far entrare i rumori e gli acri odori del traffico, rendendo l’inquinamento della città reale parte integrante dell’esperienza dello spettacolo, della faticosa ricerca di fiato che fin dalla battuta d’apertura, da cui viene il titolo della pièce, caratterizza le torturate e ansimanti battute di Vivian.

Non abbastanza ossigeno in queste case, perciò mal di testa sempre. Parlato a portiere, portiere dice parla amministratore, amministratore dice autorità locali autorità locali non ci danno non ci danno denaro. Detto ho detto a che non serve darci più rapido – tutti cadaveri in più rapido ascensore se non non non non non abbastanza ossigeno22.

Nello sviluppo urbano senza misura delle ‘Londre’, la megalopoli ormai quasi co-estensiva a tutto il territorio è completamente priva di verde, e sono ovviamente scomparse le casette singole o a schiera; per cui, a esclusione di pochi privilegiati, tutti abitano in identici, piccoli, soffocanti monolocali di massicci palazzi. Letteralmente soffocanti, perché all’aperto l’inquinamento ha raggiunto livelli tali da rendere l’aria quasi irrespirabile, e non molto migliore è la situazione dentro casa, tanto da ricorrere a costose bombolette di ossigeno, al tempo stesso effettivo aiuto alla respirazione e ambìto status symbol in quanto segno di disponibilità economica. E Vivian – giovane amante del sessantenne Mick, che nel suo ingombro miniappartamento aspetta insieme a lei la visita del figlio Claude – ne ha comprata una e ora la spruzza in giro cercando sollievo.

125 Starsene asserragliati in questi spazi ristretti, con le finestre ben chiuse, è comunque l’unica possibilità – fuori infuriano le malattie, la fame, la violenza e la disperazione, e oltre alle finestre bisogna chiudere anche gli occhi e ignorare le sofferenze della terra. Come già da tempo e troppo spesso si fa, per tenersi stretti i propri privilegi, ma un po’ anche per mantenere la propria sanità mentale; perché il risentito rimprovero di Mick a Claude non è distopia futura ma, appunto, storia vissuta, parte del nostro passato oltre che di questo ancor più cupo presente:

Pensi che allora nessuno morisse di fame? Negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta? Pensi che non ci fossero guerre quando io ero giovane? Non sei il primo che deve vedere degli orrori. Imparammo a guardarli senza sentire nulla. Potevamo vedere fotografie di bambini che morivano di fame e continuare a mangiare la cena mentre le guardavamo. È quel che serve per sopravvivere23.

Claude, diciannove anni, è una celebrità del mondo dello spettacolo, con un largo seguito di adolescenti adoranti che gli hanno dato fama e ricchezza; Mick non lo vede da cinque anni, e – fiero del suo successo – fantastica di ragazzine che ne baciano l’immagine sullo schermo televisivo, nonché più concretamente di un sostanzioso dono in denaro. A provocare la sua reazione è anche la delusione di fronte alla notizia che Claude ha dato tutti i suoi averi agli affamati, e come la madre vuole sottrarsi a una vita regolata da una totalizzante mercificazione, dove è stata cancellata anche solo l’idea che vi siano ‘beni comuni’ da mantenere liberamente fruibili, e tutto ha un prezzo: l’ossigeno, l’acqua, i permessi per avere figli24, la possibilità di godere di un po’ di verde.

Vittoria estrema, o piuttosto estrema sconfitta di una logica capitalista e consumista che ha come inevitabile conseguenza la distruzione dell’ambiente e un tragico degradarsi della qualità della vita; “la ricerca del profitto porta a un miope sfruttamento del mondo visto solo come risorsa, e la risposta capitalista all’inquinamento è sfruttare la scarsità di risorse che ne deriva” 25. Così mentre animali e alberi sono ormai quasi un ricordo, e per camminare in un simulacro di natura bisogna andare in uno dei (pochi e lontani) parchi recintati e protetti, è difficile e comunque assai costoso comprarsi piante da appartamento che aiutino a migliorare l’aria: “le piante le piante ci vorrebbero soldi. La terra le piante la terra dovrebbe tutto venire dal parco e i parchi i parchi chi controlla i parchi chi controlla non permetterebbe. Perché quasi nessun parco quasi nessun parco rimasto” 26. Ma se invece si è ricchi abbastanza, si può comprare un villino in una di queste zone protette – e sebbene ciò comporti infine la distruzione anche di quelle aree, era questo il sogno di Mick, reso impossibile dal gesto ribelle del figlio.

La decisione di Claude di rischiare la morte piuttosto che continuare una vita dominata dal denaro è un atto estremo, che – come suggerisce Elaine Aston27 – non basta a salvare il futuro ma incrina la totalitaria uniformità di una rassegnata obbedienza. La madre aveva fatto lo stesso perché non voleva più ottundersi alle barbarie del mondo e cenare tranquillamente guardando bambini morenti; pazza secondo la visione di Mick (“tua madre non ne era capace così le è partita la testa e se n’è andata a morire in una giungla masticando foglie o sciocchezze del genere” 28), aveva abbandonato l’ingannevole sicurezza del monolocale e del legame con il marito. Vivian invece non si pone domande e accetta di isolarsi nella relazione con Mick, accontentandosi di una meschina e illusoria felicità: un po’ di ossigeno in bombolette, musica e giochi di pazienza, magari una gita al parco; e come Mick non capisce la scelta di Claude. Anzi, ne ha paura, e la definisce subito in termini di fanatismo e violenza: chi non accetta lo status quo e vuole cambiare un mondo in cui infuriano le guerre e milioni muoiono di fame non può che essere un terrorista, pronto a “esplodere far esplodere palazzi sparare bruciarsi spararsi”29.

Il ragazzo cerca inutilmente di rassicurarla, e infine se ne va senza lasciarsi convincere dalle argomentazioni del padre, di certo molto sensate all’interno del sistema in vigore – che però è folle – e il dramma si chiude sulla ritrovata ‘normalità’ di Vivian e Mick, mentre accendono il televisore che forse darà notizia della morte di Claude; come i personaggi di Lontano lontano, anche loro si sono anestetizzati al dolore, e la morte di uno o di molti è ormai materiale da mass media, notizia o spettacolo, fa poca differenza. In entrambi i testi, scritti a grande distanza l’uno dall’altro e per molti aspetti diversi, è inevitabile cogliere riferimenti purtroppo assai realistici alla crescente virtualizzazione dei conflitti che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni, dove la sovrabbondanza di informazione e di rappresentazione mediatica svuota tutto di significato – oltre che al costante sfruttamento dell’ambiente, e più in generale alle nefaste conseguenze della logica di potere capitalista.

Il legame con la realtà di un mondo deteriorato, e l’atteggiamento critico nei suoi confronti, si possono cogliere anche in The Skriker[L] (1994), dramma fantastico sospeso tra l’Inghilterra urbana contemporanea e un magico paese sotterraneo abitato da figure del sapere folclorico, gnomi, elfi, folletti dispettosi o benefici, spiriti della natura che per secoli hanno personificato un cauto e complesso rapporto, a volte amoroso e a volte impaurito, con il mondo non umano. Ne è protagonista una sorta di fata irosa e malevola, “dalle mutevoli forme, messaggera di morte, antica e ferita”30, di cui Churchill ha anche detto che “inquinata e misconosciuta, sale nel mondo per avere amore, attenzione e

126 vendetta”31: vendetta per un patto spezzato, per un trattamento sconsiderato e arrogante che scalzando ogni prudenza ha preteso il dominio. Assumendo di volta in volta aspetti diversi, Skriker cerca di portare con sé sottoterra due adolescenti sbandate – Josie, che ha ucciso il suo bambino appena nato e si trova per questo in un istituto psichiatrico, e Lily, che è ora incinta; e le sue seduzioni, piene di portenti, hanno con entrambe, sia pur diversamente, successo.

In verità è impossibile raccontare la trama frammentaria e per così dire a maglie larghe di questo testo, peraltro linguisticamente assai complesso: testo che prevede tre ruoli recitati, e poi ampie sezioni di danza e canto, affidandosi dunque a regia e coreografia per dare forma alle suggestioni delle didascalie, soprattutto per quanto riguarda le parti ambientate nel mondo sotterraneo degli spiriti, concepite come un libretto per la musica di Judith Weir. Come per altri lavori di Churchill, che ama sperimentare con il linguaggio e i linguaggi della scena, The Skriker – alla cui scrittura l’autrice ha lavorato molto lungamente 32 – è un testo ibrido e aperto, che chiede a chi si impegni nella sua realizzazione scenica una collaborazione libera e fortemente creativa; così come chiede la collaborazione del pubblico per scioglierne il senso quasi arcano, districandosi nella compresenza di momenti realistici e strane presenze, nell’alternarsi di scene e personaggi del nostro mondo e di quello degli spiriti. E districandosi nell’intreccio di micro-citazioni che spesso caratterizza il linguaggio di Skriker 33, ad esempio nel lungo monologo che apre il testo dopo un montaggio video di notizie recenti. Rete di libere associazioni che però riesce anche a instradare l’azione fornendo, sia pure in modo criptico, alcune informazioni, il monologo è intessuto di riferimenti culturali, dalle favole come quella de La Bella e la Bestia a Moby Dick, dal libro della Genesi a Via col Vento, dall’Apocalisse ai Canti dell’innocenza di William Blake.

Rinunciando dunque a render conto della ricchezza generativa di questo testo, scarno e insieme pieno di suggestioni che solo nella messa in scena possono trovare compimento, e restando invece al tema dell’intera raccolta e di questo intervento – sui paesaggi violati e sullo sguardo profetico di Churchill – concludo con una citazione di un significativo sfogo di Skriker. In questa scena nelle vesti di un giovane uomo, si rivolge a Lily ricordando nostalgicamente il passato e malignamente prefigurando il futuro:

Hai notato quanti fenomeni naturali di recente? Terremoti. Vulcani. Siccità. Fenomeni naturali apocalittici. Aumento delle malattie. Un tempo si poteva sempre pensare, quale che fosse il tuo problema personale, però c’è sempre la natura. La primavera tornerà anche se io non ci sarò. Nessuno mi ama ma almeno è un bel giorno di sole. Fin da quando è esistita, questo è stato di conforto alla gente. Ma adesso non è più possibile. Spiacente. Nessuno mi ama e il sole mi ucciderà. La primavera tornerà e non crescerà niente. C’è chi si preoccupa per questo. Ma a me, mi fa sentire importante. Io ci sarò ancora quando il mondo così come lo conosciamo finirà. Sarò testimone di una catastrofe[P] senza precedenti. Mi piace un bel tamponamento multiplo sull’autostrada. Mi piace il tipo di guerra che c’è stato di recente. Mi piacciono gli snuff movies. Ma questa sarà proprio la più grande di tutte34.

Una catastrofe senza precedenti, una guerra che sarà “la più grande di tutte”: assoluta e senza scampo, dove la natura asservita, “inquinata e misconosciuta”, si prende la sua vendetta e mentre muore uccide – la guerra di Lontano lontano?

127 Arcadia

Alina Narciso

Aveva appena iniziato il turno, all’alba. Aveva l’abitudine, appena preso posto, di scrutare palmo a palmo tutta la vallata dell’invaso attraverso il mirino del suo telescopio. Conosceva, fin nei recessi più nascosti, le ondeggianti piantagioni di graminacee che alla fine di luglio vestivano a festa quel tratto dell’Appennino, che, a tratti, scopriva strati di roccia bianca come abbaglianti rivelazioni di verità. A quell’ora del mattino il cielo, del tutto privo di nuvole, s’illuminava di un celeste carico che annunciava l’afa della mattinata piena. Tutta quella luce lo rassicurava.

Ogni cosa era sotto controllo, convinto com’era che nulla potesse sfuggire alla sua minuziosa perlustrazione. Ore e ore di solitaria attenzione lo avevano reso sicuro, quasi quel panorama fosse diventato ormai la sua vera natura. Nulla poteva muoversi senza che lui non sentisse la perturbazione dell’immobilità nelle sue stesse viscere. Una lepre, che veloce saltava lo steccato, un cane imprudente, che annusava troppo da vicino i fili elettrificati che sottili delineavano il confine, una pecora, che stupita restava impigliata a pochi metri dall’acqua: niente sfuggiva al suo mirino e subito si trasformava in una tensione nel suo dito indice, fino ad allora mollemente appoggiato sul grilletto.

Quella giornata si preannunciava uguale alle altre. Quante ne erano passate da quando aveva accettato quell’incarico? Aveva perso il conto, impossibile distinguerle. Aveva iniziato quel lavoro senza rendersi conto di cosa volesse dire rinchiudersi in una delle quattro torri che controllavano l’invaso. Tutti i contatti con il territorio vietati, gli unici scambi umani permessi: quelli con gli altri tre controllori. Dopo i primi tempi passati a raccontarsi le vite, nulla più c’era da dirsi, se non le mutazioni dell’invaso e i colori delle stagioni che trasformavano quelli dell’acqua. Null’altro. Ma questa era la prima estate che passava lì. – La stagione più pericolosa – gli avevano detto. La stagione della mancanza d’acqua.

Lui non sa bene cosa aspettarsi e per questo non stacca l’occhio dal suo mirino. Sono mesi che non piove. Tutt’intorno i prati da verdi digradano verso il giallo di una sterpaglia secca che ormai avanza senza sosta. Il bestiame, ormai abbandonato a se stesso, si aggira famelico in cerca di foraggio. Gli allevatori, vinti, lo hanno liberato nella speranza che l’istinto animale riesca a fare meglio dell’insipienza dell’uomo. I pastori, seduti, guardano le pecore pascolare senza pascolo. Tutti, uomini e bestiame, hanno gli occhi puntati su quella immensa distesa d’acqua, la cui vista aumenta la sete e che alla lunga si trasforma in miraggio. Il sole che la riscalda implacabile fa sollevare vapori nei quali tutti, uomini e bestie, vedono solo le forme della loro sete. Forme cangianti li richiamano e, di tanto in tanto, un uomo, una donna, una lepre, una cinghiala seguita dai suoi cuccioli, si slanciano per morire elettrificati sui fili spinati che segnano il confine. O impallinati dall’implacabile mira dei controllori.

– Non possiamo più aspettare!

Minco aveva aperto così l’assemblea.

Di notte, alla cava, erano arrivati tutti, allevatori e agricoltori della zona. Tutti intabarrati e vestiti di nero per attraversare la notte senza esser visti. Le assemblee erano vietate.

Le donne erano le più arrabbiate:

128 – Non abbiamo acqua per cucinare e pulire, non abbiamo acqua per accudire gli animali, non abbiamo acqua per lavarci! – Con quei 40 litri che ci danno al giorno non ci facciamo un cazzo, sono mesi che non piove e le riserve sono finite.

Ma nessuno urlava. Per non farsi sentire, le bestemmie venivano sussurrate come sibili modulati dalla rabbia.

Maria, timidamente, aveva preso la parola, lei che a malapena ricordava quando l’invaso si era lentamente riempito. Un anno dopo l’altro, gli abitanti della valle avevano assistito, stupefatti, alla trasformazione della loro terra in lago. Lei ricordava solo un vecchia torre che, come in un universo fatato, usciva dall’acqua e la leggenda, che la nonna le aveva raccontato, di una principessa imprigionata per un amore sbagliato, che ogni notte faceva sentire il suo pianto. Ma ora il pianto che sente è solo quello di sua madre, di tutte le donne della valle che nella notte silenziosa celebrano il lutto[P] della mancanza d’acqua.

Insieme all’Esperto, era venuto il Pugliese, così lo avevano battezzato, da quando aveva cominciato a visitare, nottetempo, tutte le case della valle, spiegando pazientemente a tutti come stavano le cose. Un accordo tra le due Regioni aveva concesso ad un Consorzio di grandi imprese la gestione dell’acqua in cambio di pochi spiccioli – per alcune strutture, cinema, multisala, supermercati… che avrebbero dato lavoro ai giovani! – così avevano detto. E, man mano che tutti i fiumi della zona venivano incanalati per sversare nell’invaso, fiumi di denaro entravano nelle tasche dei notabili finché non era rimasta nemmeno una goccia d'acqua non regolamentata dagli “Accordi di Acqua Libera”. Così si chiamava il Consorzio, proprietario ormai di tutte “le risorse idriche”.

Il Pugliese, nel corso di quel lungo inverno, aveva visitato tutti, risposto pazientemente a tutte le domande, dormito su una stuoia gettata davanti al camino di tutte le case della zona, per poi, la mattina, uscire insieme agli altri confondendosi con loro.

Aveva nevicato molto quell’anno e tutti erano contenti pensando che, d’estate, non ci sarebbero stati problemi, ma lui aveva spiegato che non era così. La neve sarebbe penetrata nelle falde profonde, avrebbe ingrossato i fiumi e sarebbe finita nell’invaso: a loro non sarebbe toccata nemmeno una goccia, al di fuori dei litri che Acqua Libera destinava ad ogni famiglia. – Meglio sarebbero state un poco di piogge continue, per lo meno le pozzanghere avrebbero permesso di dissetare le bestie! –

Bisognava organizzarsi per tempo, arrivare all’estate preparati. Bisognava, di notte, quando l’attenzione dei controllori scemava, uscire fuori a rubare la neve, nasconderla in vecchi otri e conservarla per l’estate. Maria, che a mala pena ricordava i tempi in cui, d’estate, al fiume si andava a fare il bagno, aveva cominciato ad accompagnarlo per rendergli più facile l’ingresso in quelle case di gente diffidente.

– Marciamo in città, occupiamo la sede della Provincia! – E che ci fai, quelli se ne fottono! Ti lascerebbero lì, a marcire per giorni, con i segretari a far finta di ascoltarti e loro al mare … – … a godersi l’estate! – No, no! Occupiamo la sede di “Acqua Libera”. – E chi cazzo lo sa dove sta! Perché tu lo sai?! – Facciamo saltare le Torri di controllo! – No, troppo pericoloso, ci vedrebbero! – Facciamo saltare le Torri, poi entriamo e prendiamo il controllo. Abbiamo armi, fucili da caccia e coltelli…

Il senso d’impotenza cresceva.

– Carichiamo gli animali con cariche di dinamite e li mandiamo a saltare in aria sotto le Torri e che si fottano tutti!

L’attenzione di tutti si concentrava sulle Torri, l’odio che emanava da quegli sguardi invisibili se lo sentivano sulla pelle.

– Non serve! – Le torri sono collegate ad un sistema di controllo, immediatamente arriverebbe l’esercito.

Era la voce dell’Esperto, non se ne conosceva il nome, non si era presentato, aveva ascoltato silenzioso e immobile

129 tutti gli interventi e alla fine aveva sibilato:

– Per ora bisogna solo aprire un varco, rubare l’acqua che ci serve per sopravvivere. Per ora non abbiamo nessuna speranza di vincerla, almeno fino a quando non sappiamo cosa vogliono fare gli abitanti della valle dall’altra parte del confine. Chi se la sente?

E il Pugliese si era offerto per la missione. Alcuni anni prima era stato all’azienda che produceva i contatori magnetici installati sulle condotte e gli apparati per bloccarne il funzionamento. Li aveva con sé, se li era portati. Bastava collocarne uno sul misuratore di portata e sarebbe stato possibile deviare una certa quantità d’acqua e raccoglierla, con l’aiuto di tutti, senza che le Torri se ne accorgessero. Poi, l’inverno successivo, avrebbero avuto il tempo per pensare a qualcosa di più definitivo.

Sulla sua proposta era calato il silenzio, dal fondo della sala solo la voce dell’Esperto aveva sibilato:

– Quanti litri al secondo si possono sottrarre? E per quanti giorni?

Il Pugliese cortese gli aveva risposto:

– La prossima ispezione non dovrebbe avvenire prima della fine del mese. Forse potremmo riuscire a sottrarne la quantità sufficiente a salvarci per un’altra estate.

E L’Esperto aveva chiuso l’assemblea:

– Bisogna agire di giorno, di notte non abbiamo speranza. La temperatura dell’acqua nella conduttura esalterebbe la sagoma nel mirino ad infrarossi.

Ed era arrivato il momento. Ora il Pugliese poteva contare solo sulla stanchezza e sul tedio di fine turno, ma soprattutto contava sulla fortuna. Avevano passato la notte a studiare il piano. La posizione da lui scelta per il sabotaggio gli avrebbe dovuto consentire di tenere sotto controllo tre dei cinque partitori collocati su quella parte di condotta.

Il Controllore sente, nelle sue viscere, che qualcosa si sta muovendo. Comincia, con il suo mirino, a perlustrare la vallata palmo a palmo, ma non c’è nulla di strano, solo un gregge di pecore condotto da una giovane ragazza.

Travestito da pastore, il Pugliese segue il gregge di Maria che, come se avesse scorto un pascolo di erba verde, spinge sapientemente le sue pecore verso il punto che hanno deciso di attaccare.

– Quel pastore che segue il gregge… c’è qualcosa di strano nei suoi movimenti, qualcosa di diverso…

Durante la notte hanno studiato le mappe della vegetazione e hanno spostato un albero. Un salice. Lo hanno messo alla minima distanza dall’unico punto dove è possibile manomettere la condotta.

– Ma forse mi sto sbagliando è solo un pastore più sveglio… certo l’ora non è proprio quella giusta per andare a spasso con le pecore… con questo sole…

Arrivano, con le pecore, sul punto stabilito. Il Pugliese si guarda intorno, il sole picchia come mai, il silenzio è totale. Ma in direzione delle Torri, no, decide di non guardare.

– Se la fortuna mi assiste, ce la posso fare! Maria farà di tutto per distogliere l’attenzione del controllore. – Ma che cazzo fa, quella matta con le pecore? Si sta avvicinando troppo all’invaso! Allarme a tutte le Torri, c’è una matta che si dirige spedita verso un varco di entrata dell’invaso!

Il Pugliese, nascosto dietro l’albero, resta in attesa di sentire le sirene di allarme suonare.

– Ma il pastore di prima dove cazzo sta?

Nascosto dietro il salice, sente le sirene, sa cosa deve fare: con l’albero legato al suo corpo, si avvicina alla condotta mentre le Jeep dei controllori corrono a circondare Maria. Sente i fucili spianarsi.

130 Ma il Controllore non si è mosso dalla sua postazione, il suo mirino inquadra Maria, che, con le mani alzate, piange chiedendo di portare le sue pecore a bere.

– Sempre la solita scena, ma non si stancano mai! Ma l’altro dov’è?

Il Pugliese comincia lentamente ad armeggiare, con il volantino della valvola, senza pensare a nulla. Le derivazioni, che partono dal gruppo di manovra, si dirigono verso sud-est, oltre il confine… Forse non riuscirà mai più a tornare a casa, ad oltrepassare di nuovo i confini, ma di questo, adesso, non gli importa nulla. Le sue mani sono strette sull’organo di regolazione della saracinesca, pochi secondi e la derivazione dovrebbe aprirsi.

– I pugliesi si accorgeranno di un flusso minore, ma staranno zitti… – Che cazzo ci fa quell’albero lì! Come mai non l’abbiamo tagliato? In questa cazzo di valle gli alberi spuntano come funghi!

Il Controllore decide di andare a guardare da un'altra postazione. Ed eccolo lì, il cranio dell’uomo occupa il centro del mirino del suo telescopio…

– Ma che cazzo sta facendo? Quel pezzo di merda di un cafone, pensa di farmi fesso!

Al Pugliese manca solo una manciata di secondi per deviare l’acqua verso i pascoli della zona e allagare tutta la vallata!

– E fine della storia! – Cazzo, sta aprendo la manopola della derivazione, ma io lo tengo ben chiaro al centro del mirino, devo solo decidermi, premere il grilletto e pam! Il suo cranio per l’aria, pezzetti di cervello di cafone sparsi dappertutto!

Una leggera contrazione del muscolo e l’indice preme il grilletto.

Il Pugliese sente l’aria vibrare prima di sentire il colpo.

– Sarebbe bastata solo un poco di fortuna…

Maria sente il colpo e capisce che non c’è più nulla da fare, urla alle sue pecore che bisogna andare via, ma dalla sua gola esce un suono vibrante, di quelli che si sentono a distanza. Glielo aveva insegnato la nonna in caso si fosse trovata in pericolo. Il suono perfora i timpani dei controllori che restano interdetti, senza capire. Lo fa di nuovo e di nuovo, con tutto il fiato che ha in corpo. Tutti gli altri che stavano appostati, aspettando il momento in cui l’acqua liberata li avrebbe raggiunti, escono allo scoperto. Quel suono antico gli ha tolto la paura, qualcosa nelle loro viscere si è ribellato. Prendono tutto quel che si trovano a portata di mano e, armati di mazze e fucili, si avvicinano ai Controllori.

Una folla minacciosa, alla quale ad ogni momento, accorsi dalle case, si aggiungono altri, accerchia i Controllori che, impietriti, non sanno che fare. Li legano e li gettano nel lago.

Qualcuno dice – Manca uno! Tutti guardano verso la Torre.

Il Controllore è lì, con il fucile spianato, nel suo mirino tutte quelle facce scavate dal sole, si riflettono, immobili. Occhi duri come pietre lo fissano. Abbassa il fucile in segno di resa. Gli uomini corrono a prendere gli animali, le donne, recipienti ed otri, Maria prende un fucile, corre sulla Torre e lo appoggia, come fosse una carezza, sulla testa del Controllore.

Rimangono così per ore, fin quando l’ultima pecora non ha bevuto tutta l’acqua che desiderava, fino a scoppiare.

Finché tutti gli otri non vengono riempiti.

Finché le danze e i canti si acquietano e la gran festa dell’acqua finisce.

È ormai il tramonto quando la sete di tutti si è finalmente placata.

131 Maria dà un ultimo sguardo per essere sicura che tutti siano rientrati e poi spara. Il Controllore, senza un parola, cade riverso a terra.

Maria, senza guardarlo, getta i due fucili, il suo e quello del controllore, nel lago, raccoglie il suo gregge e lentamente si avvia verso casa.

Solo un brivido lungo la schiena le fa presagire un rinnovato sguardo dalla Torre, ma non si volta.

132 Tre scosse

Nadia Setti

Prima scossa: L’Aquila 2013

Avevo già scritto alcune pagine di appunti per il mio breve intervento nella sezione “Parole in libertà”, quando, lasciati i bagagli all’albergo, sono uscita per recarmi all’università, dove si svolgeva il convegno. Seguendo le indicazioni che mi erano state date, ho imboccato la strada principale del centro storico dell'Aquila, il Corso Vittorio Emanuele. Mi è bastato uno sguardo alle facciate ancora sorrette dalle impalcature, alle finestre buie, agli edifici squarciati, per sentire gli effetti postumi del terremoto. Percorrendo il corso ero sotto choc. E lo sarei stata i giorni seguenti. Nessun terremoto, soltanto l’effetto del post-terremoto. L’impatto di un paesaggio urbano sconvolto. La scossa si è fissata come un’immagine istantanea immobilizzando abitazioni ferite a morte con i loro abitanti, fotografia di una distruzione muta. Un sentimento di desolazione, di abbandono, di solitudine mi invade, certo trovando in me, come in tanti altri, il passaggio verso paesaggi intimi disastrati e sconsolati, che talvolta ritornano, risuscitati da sogni e incubi. Il corso non era in realtà deserto ma il vuoto si riversava dalle porte e finestre sprangate da assi o murate, più forte di qualsiasi anima viva. Improvvisamente ho capito che tutto quello che finora avevo pensato sarebbe stato rivisto e ripensato a partire dall’emozione provata in quella strada che si spandeva in me in modo irreversibile. La visione del paesaggio terremotato persisteva anche se le ferite sembravano qui e là rimarginate. Tuttavia lo stato di disabitazione sembrava prolungarsi come uno stato permanente, indeterminato. Il vuoto interiore dei palazzi era diventato il solo segno architettonico del centro storico: scale, camere, cucine, cantine, sbarrate dalle impalcature di legno e metallo, come fasciature di un corpo[P] malmenato, ferito, rotto, moribondo o cadaverico. Convalescenza o morte ritardata non solo della città come struttura architettonica ma della cittadinanza, degli abitanti assenti, scomparsi, spostati. Il vuoto dello spostamento di migliaia di persone, di cittadini diventava palpabile nel silenzio delle strade.

“Niente sarà più come prima” è dolorosamente vero. La cicatrice resterà cicatrice: marca e non solo traccia. Per ogni evento traumatico c’è un prima e un dopo, ma il prima sfuma sempre più in fondo alla memoria (salvo a riportarne le prove in primo piano). Il calendario ne è segnato. Per gli abitanti dell’Aquila o di Port au Prince (Haïti) le date del dies irae del ventunesimo secolo, il giorno della distruzione apocalittica non sono forse solo l’11 settembre 2001 ma il 6 aprile 2009 o il 12 e il 20 gennaio 2010.

Passante, camminavo per le vie un tempo rumorose o tranquille, indaffarate, dove scorrevano vite che, come me in quel momento, non potevano immaginare l’arresto, il taglio del prima/dopo, la perdita, l’evacuazione, l’espulsione inattesa dalla propria casa e dalla propria vita. La scossa ora è questa evacuazione attonita, il non percepire quei rumori di fondo che risuonano in permanenza nelle nostre orecchie cittadine; il ronzio talvolta fastidioso ma rassicurante del vivere insieme. Il nostro prossimo. La scossa continua anche se affievolita ad agitare il sonno e la veglia dei viventi come se al di là dell’attesa e del ripetersi delle scosse, per giorni e mesi, la scossa si fosse ormai trasformata in tremito interiore, uno strano e inquietante compagno di vita. Segno della memoria che come un meccanismo autonomo abita i corpi e le menti mantenendo fili invisibili con i luoghi deserti. Al punto di coincidere con il silenzio inumano delle strade. Il silenzio vibra a vuoto, dell’assenza di rumori che appartengono anche alle città più desolate del mondo.

Per fortuna a poco a poco la città rinasce, mi dicevo, ci sono bar aperti, qualche negozio, attività culturali nelle parti autorizzate. Ci sono soprattutto molti cani che sono diventati le guide dei turisti dell’Aquila.

La città rinasce soprattutto dal desiderio di non abbandonarla: tale è quello delle donne dell’associazione TerreMutate che non si rassegnano. Sotto gli occhi di tutti le crepe, i muri in rovina, delle abitazioni lentamente, troppo lentamente,

133 riaprono porte e finestre: abitate.

All’Aquila ho vissuto alcuni giorni nella città antica traumatizzata, ma non ho visitato le tendopoli o baraccopoli più o meno stanziali sorte alla periferia che avrebbero dovuto essere temporanee, ma di fatto sono diventate abitazioni permanenti (purtroppo come tanti villaggi dei terremotati in Italia). Perciò la domanda assillante che mi pongo è questa: quali sono le condizioni dell’abitabilità, a partire da quale momento nasce l’inabitabile, quali emozioni e traumi nascono dal sentimento dell’impossibile ritorno nelle case, nei luoghi affettivi dell’abitato?

Per chi vive in grandi città, in metropoli, vengono rapidamente in mente le immagini delle tendopoli urbane dei senza tetto (sans abri) e senza documenti (sans papiers): nessun terremoto ha distrutto le case delle migliaia di persone che vivono nella strada, o forse un altro terremoto, la povertà, la mancanza di lavoro, di famiglia, di mezzi di sussistenza.

Questa città disastrata sembra non avere niente in comune con i villaggi e le campagne aride del Burkina Faso. Forse. Ma questi paesaggi si ravvicinano e si sovrappogono nella mia memoria, invitandomi a cercare il passaggio, il tramite, l’interstizio tra luoghi in vari modi disastrati, al limite dell’abitabile. Luoghi dello spaesamento e dell’inabitazione, ma per chi? Le immagini di questo polittico rinviano a situazioni talvolta contrarie: la terra in Burkina Faso è al limite dell’abitabilità, e pertanto abitata, e soprattutto percorsa da vie, sentieri, piste. Nel deserto c’è acqua: basta scavare i pozzi per raggiungerla. Ci sono donne che rendono ospitale l’inospitale, abitabile l’inabitabile. Almeno per chi fila a bordo di fuoristrada sopraelevati e veloci.

Seconda scossa: Burkina Faso 2012

Andando nel Burkina Faso nel 2012 1 sapevo che avrei dovuto fare i conti con l’Africa, cioè con un immaginario e una costruzione narrativa, discorsiva e ideologica che secoli di colonizzazioni hanno istituito in Europa, in Occidente e nel mondo. Impossibile sottrarsi, salvo ad esercitarsi in permanenza ad aggiustare lo sguardo[P], le parole, i paesaggi e la mente. Per riuscire ad aderire al presente e a stare nella realtà mano a mano che questa si presenta. Non è un esercizio facile. Come non violare ancora paesaggi già violati, in cui tante sono le cicatrici, i segni lasciati dalle occupazioni, le politiche, le economie e le guerre coloniali?

Ma come ha detto Amma Anane Ayeti, bisogna sempre cominciare da sé, yourself, per riuscire a indovinare un pezzettino della storia di vita dell’altra o altro2.

Qual è il mio presente, il mio paesaggio quotidiano da anni? Più volte alla settimana mi reco in treno all’università, il mio luogo di lavoro (anche se non il solo). Sfilano attraverso il finestrino i villaggi della campagna urbanizzata della région parisienne, poi della banlieue. Centri piccoli e medi, più o meno agiati, residenziali, popolari. Poi il tunnel parigino della metro. Stazioni affollate, treni affollati, gente di tutti i tipi e generi che sale e scende. Talvolta cambio percorso. Passo dalla Gare Saint-Denis: sul piazzale della stazione venditori ambulanti di mais arrostito, o castagne o frittelle. L’Africa e l’Asia multicolore (maggioranza nera e Africa del nord, Algeria, Tunisia, Marocco). Una certa aria di spaesamento ma non più di tanto perché tale è il paesaggio delle metropoli del ventunesimo secolo.

Quando nel 2012 comincio il mio primo viaggio in Africa subsahariana a bordo di un fuoristrada, devo chiaramente mettere da parte i paesaggi quotidiani francesi (o in genere europei) suburbani e urbani. Salire su un fuoristrada significa avere uno sguardo sopraelevato, a un metro e mezzo dal suolo della pista o delle strade polverose che percorriamo andando da Ouagadoudou a Dano (provincia di Ioba) con varie tappe in cittadine e villaggi più o meno estesi. Paesaggio invariabile della brousse, della savana (alberi, soprattutto baobab, cespugli, erba alta, boscaglia). Ma il mio sguardo è attirato da coloro che camminano sul margine della strada. Oppure dai ciclisti o motociclisti sulla strada o meglio sulla pista. Molte sono le donne che trasportano fascine, bacinelle piene di frutta o verdura, bambini stretti con sciarpe colorate contro la schiena. E gravate di tutti questi pesi avanzano, lentamente ma continuamente, spesso con il sorriso sulle labbra. Moltissime sono le fotografie che i miei compagni di viaggio hanno preso e mi hanno trasmesso. Anche loro sono impressionati da queste viaggiatrici e questi viaggiatori che non hanno come noi i mezzi veloci del fuoristrada. Altri dai visi di donne e bambini (alcuni hanno fatto decine di ritratti), scolaresche, artigiani, mercati.

I finestrini del fuoristrada sono lo schermo attraverso il quale osservo questo paese, quest’Africa dai molti paesi, lingue, volti, nomi. La pista mi sembra interminabile, deserta e percorsa da gente e bestiame da soma o domestico. La pista è una strada o non lo è? La pista nasce da chi la percorre: ogni giorno, per anni, da donne, uomini, bambini, animali, mezzi a due, tre, quattro ruote; la pista non è una strada asfaltata destinata a macchine veloci e efficienti, come nelle pubblicità. Però sulla pista corrono i fuori strada (sic!) cioè le automobili che possono passare sulle buche,

134 attraversare pozze e torrenti, risalire argini. Non ha niente in comune con il paesaggio simbolo della modernità ultrameccanizzata delle autostrade a corsie multiple proibite ai mezzi lenti (biciclette e motocicli). L’impero romano non è arrivato fino alle pianure del Burkina Faso. Eppure chiunque si muova in questi spazi altrimenti infiniti sa come e dove dirigersi, quale cammino prendere. Noi invece abbiamo bisogno della guida.

Sento un certo disagio, che assumo, per il mio stato sopraelevato di passeggera bianca europea sul fuoristrada di Idrissa, la nostra esperta guida (fuoristrada e lavoro grazie ai quali mantiene la sua famiglia). Anche se rifiuto la denominazione sono in missione e quindi ‘missionaria’, ma che cosa cerco? Pur appartenendo a un mondo ‘umano’ di memorie, storia, passato, lingue, sapere, sono in cerca di ‘umanità’. Ma sono in una botte (il fuoristrada) con un lumicino che è la mia domanda, sulla quale cerco di non sbagliarmi (quanto alla strada Idrissa veglia per noi). L’ultimo lumicino prima dell’estinzione totale nelle nostre notti metropolitane.

La mia botte è quest’automobile efficiente e collettiva: siamo almeno sei adulti e tre ragazzi. Un autista bravissimo e simpatico che ci porta perfino nel suo villaggio, quello in cui è sepolto suo padre. Solo lui può sapere quale è la pista che conduce al villaggio (poche sono le indicazioni stradali). Appena scesi frotte di bambini vengono verso di noi, donne, persone anziane, sorrisi che illuminano i visi e attirano i nostri sorrisi (forse è una delle mie ragioni ‘umanitarie’: ritrovare come sorridere nell’incontro puramente umano, tra sconosciuti). Loro sanno come cercare in fondo alla botte oscura chi siamo.

E dire che arriviamo ospiti inattesi, non abbiamo portato niente per loro salvo noi stessi, stranieri e straniere, passiamo attraverso le loro case cioè esattamente quattro mura, con una porta e una o due finestre, un tetto che protegge dal sole e dalla pioggia. La casa elementare, senza nessuna comodità moderna. Cortiletto in cui la cucina è una braciere sul suolo, raso terra. Effettivamente siamo scesi dal fuoristrada, la sopralevazione è sparita. Troviamo i gesti di benvenuto, la festa semplice. In mezzo alla piazza il baobab, l’arbre à palabres, la divinità tranquilla della comunità.

Aspetto il momento di avere i piedi a terra, proprio su questo suolo polveroso. Come saprei orientarmi? Innanzitutto non sarei sola: la gente in cammino spunta dappertutto, dalle case sparse tra gli arbusti, dietro i cespugli. Da sole, da soli o in gruppo. Potrei andare con loro, penso, mescolarmi a quelle donne che ritornano dal mercato o dal pozzo con i loro formidabili pesi sulla testa che portano come fossero fuscelli. Esercizio di abilità imparato fin da bambine. Cosa potrei scambiare con loro, attraverso le nostre lingue straniere? Quale esperienza di vita? Scambiare forse con loro un senso della vita. La loro vita con la mia, estremamente diversa. O piuttosto quello che ne indovino. A forza di cercare, trovo i segni di una memoria che appartiene alla mie antenate: quella delle donne da cui discendo, mia madre, le mie nonne, le mie bisnonne; quelle che lavoravano nei campi quasi un secolo fa, le bambine che andavano a scuola a piedi, quando le strade erano piste, gelate d’inverno, polverose già in primavera e d’estate. Anch’io sono stata la bambina che andava a scuola a piedi per le strade della grande città, attraverso il mercato.

Anche le sconosciute con le loro bacinelle, bambini allacciati sul dorso, fasci di stecchi, vanno e vengono dal mercato. Vorrei scendere dal nostro veicolo tempo veloce per mettermi al loro passo-tempo. Ma non ho la stoffa di Claudia, l’antropologa che voleva portarmi al mercato di Haïti, tra i ruderi dei quartieri vicino al mare distrutti dal terribile terremoto del 2010. Non ci siamo andate sole e a piedi come Claudia avrebbe voluto. Ma su un pulmino che è passato sotto i muri pericolanti dove la gente comprava e vendeva. Paesaggio cittadino sconvolto e sconvolgente. Abitazioni vuote e semiabitate malgrado i crolli. Piante rigogliose dappertutto. La vita è sempre a cielo aperto, senza riparo. Senza sotterranee in cui scendere per attraversare la metropoli o trovare un rifugio, senza case in cui dimorare la notte o il giorno.

Tuttavia a Dano, per l’8 marzo, anch’io faccio parte dei motorizzati e delle motorizzate, grazie a Marie e al suo scooter: andiamo insieme al Municipio (quell'anno è la sindaca che ci riceve) e poi da una vicina, che vende bacinelle piene di sacchetti di acqua. Breve sosta, poche parole. Estrema miseria.

Nei villaggi del Burkina Faso, nei quartieri miseri di Kinshasa, la vita è nella strada e sui piazzali che sono poco più di terreni polverosi: le strade sono un mercato in cui si vende e si compra di tutto, mercato vivente, continuo, improvvisato, della miseria e della precarietà. Il mercato come escrescenza del quartiere in rovine, affollatissimo, dal pulmino si indovinano i tuguri, le grotte abitate dove c’erano appartamenti e case.

Chissà se la prossima volta, con Claudia o senza, riuscirò a incrociare le parole con la venditrice di frutta e altro sul bordo della strada. Certo per questo bisogna fare soprattutto due cose: scendere o rallentare, cioè accettare di fermarsi e accompagnare. Ci ho provato varie volte a Dano. Inserendomi nella fila che camminava sui bordi della strada, ho

135 incontrato scolare e studentesse che mi salutavano con naturalezza e curiosità.

Che cosa produce spaesamento? Vivere a contatto permanente con la nuda terra, o in abitazioni improvvisate dai tetti pericolanti? Tutt'altra prospettiva che il nomadismo identitario. Tutto questo per gli abitanti stabili è quasi impensabile. Se non invisibile. Ma è possibile che sia io a non saper leggere la carta, a non riconoscere le zone e i segni di appartenenza[P]: se mi colpiscono le strade e gli abitati è perché sono riconoscibili, rintracciabili, dalla mia grammatica e sintassi geografica. Cerco le traduzioni, mi oriento grazie alle guide incarnate. L’assenza di costruzione non è il vuoto, non è la distruzione. Non è la natura né il selvaggio. Lo spaesamento ha bisogno di un'altra definizione: entrare in un altro mondo che però è il mondo comune a migliaia di persone, animali, piante.

C’è chi è spaesato e chi per il quale lo spaese è il suo paese.

Fig. 1 (pag. 174): Burkina Faso, 2012 © Odile Rouquier

Fig. 2 (pag. 175): Betlemme, 2014 © Nadia Setti

Fig. 3 (pag. 175): Tijuana, Frontera, Border, 2015 © Cristina Castellano

Terza scossa, Palestina, gennaio 2014

Ho incominciato evocando le mie impressioni e emozioni alla vista dei palazzi e delle case diroccate dell’antica Aquila, che sopravvive in bilico, non si sa se siano i muri ad essere sorretti o le ferite profonde ancora a cielo aperto. Un’altra visione mi ha profondamente sconvolto nel corso del mio primo viaggio in Palestina e Israele 3, non i muri, bensì il Muro, The Fence (la Barriera), 730 km di muro che separa, attraversa, spezza, divide Israele dai Territori Occupati sotto autorità Palestinese.

Credo che abbiamo tutti nella nostra memoria immagini di muri e mura: muri che circondano proprietà, giardini, parchi, città, che ricordano epoche lontane (le mura romane, le mura dei castelli), mura delle prigioni (la Santé, a Parigi). Molte donne sanno perfettamente cosa significhi passare la vita tra quattro mura, simbolo di una domesticità che rasenta la prigionia e la schiavitù.

Ma questo Muro spezza il paesaggio, si innesta brutalmente in mezzo alle strade cittadine, sorge in mezzo alle colline desertiche. Per costruirlo migliaia di oliveti e altre coltivazioni (palestinesi) sono stati sradicati (si stimano a 1.187.762 gli alberi distrutti 4). Per proteggere, cioè permettere la vita di migliaia di israeliani (soprattutto quelli delle colonie che continuano a proliferare malgrado le numerose dichiarazioni di illegalità della Corte internazionale di giustizia). Muro invalicabile salvo ai check point. Di fatto il muro protegge le colonie e assicura l’espansione e l’annessione dei territori della Cisgiordania, annessione e sfruttamento delle risorse idriche, economiche, umane, di cui la popolazione palestinese è sistematicamente e progressivamente privata. La diaspora palestinese comincia dalle case e dal suolo della Palestina: contadini che non hanno più accesso ai pozzi, ai propri allevamenti di pecore e capre, alle terre coltivate. Famiglie che vivono separate (non tutti hanno lo stesso permesso per andare da una zona all’altra), persone che devono in permanenza mostrare il loro permesso per andare sul luogo di lavoro. Non si tratta più di inabitabilità, di luoghi di difficile abitazione, ma di invivibilità e disumanizzazione programmata. Questa è la parola che mi veniva in continuazione in mente, quando sorgeva al bordo dell’autostrada (modernissima ed efficiente) o sulla linea di una collina, The Fence: questo paese è invivibile.

Il muro dovrebbe essere una frontiera tra due stati equamente riconosciuti, ma non lo è. Dovrebbe rispettare la linea verde (fissata dall’armistizio del 1949), ma molto spesso non la rispetta, i confini di Israele non essendo definiti.

Certo The Fence non è il solo muro costruito nel ventunesimo secolo dai cosidetti Walled States (Stati Muro o murati) come li definisce Wendy Brown nel suo libro Walled States, Waning Sovereignty 5: la sua tesi principale è che proprio le politiche di costruzione dei muri provano l’impossibilità di affermare la sovranità dello stato. I poteri effettivi della mondializzazione, fondati sul flusso transnazionale di capitali, e il loro corrispettivo non meno importante, mercati delle droga, delle armi, tratta di esseri umani, in particolare donne, non sono minimamente bloccati dai muri. E quindi l’utilità e l’efficacia dei muri è fortemente messa in dubbio. I muri di difesa non possono che produrre identità di chiusura, contenimento e esclusione, insomma ben lungi dalle ‘protezione’ e dalla sicurezza annunciate:

Destinato ufficialmente a proteggere società presumibilmente libere, aperte, legittime e laiche da violazioni di

136 confine, sfruttamento o attacco, i muri sono costruiti sulla base di leggi temporanee e producono poco a poco un ethos collettivo e una soggettività difensiva, campanilista, nazionalista e militarizzata. Generano un’identità collettiva sempre più chiusa e controllata invece della società aperta che dovrebbero difendere. In tal modo i nuovi muri non solo non riescono a risuscitare la sovranità in declino degli stati-nazione ai quali fanno riferimento ma innescano nuove forme di xenofobia e di campanilismo nell'era post-nazionale 6.

Non è la durezza del muro, costruito con materiali che dovrebbero durare almeno trentacinque anni (molto meno solido della Grande Muraglia cinese di cui le parti più antiche datano del V secolo a.C.) non è quello il muro più temibile, è il muro che cresce dentro le menti e i corpi da una parte e dall'altra. Ma sarebbe possibile convivere con il muro, farlo vivere, trasformarlo in schermo animato, al posto di un’altra convivenza libera, pacifica e giusta? Camminando lungo il muro a Betlemme, leggevamo le centinaia di manifesti affissi in cui erano riportati messaggi, lettere, testi, poesie stampati su grandi manifesti e affissi ogni tre metri. I numerosi murales tra cui alcuni di artisti ormai famosi (vedi la cartoline con le colombe di Banksy) testimoniano di una utilizzazione del muro come esposizione della protesta attraverso una straordinaria espressione in parole e immagini. Certo siamo al di qua del muro, come sarà dall'altra parte? Coloro che abitano dall’altra parte leggono, vedono, ascoltano queste parole e queste grida disegnate? O le ignorano?

Come osserva molto giustamente Wendy Brown i muri e le barriere sono del tutto inefficaci rispetto alle reti planetarie del web; sappiamo a che punto i/le bloggers dei paesi arabi durante le ‘primavere arabe’ abbiano avuto un’importanza capitale nell'organizzazione e la mediatizzazione dei movimenti e delle manifestazioni.

Tuttavia anche se i numerosi siti permettono un’espressione relativamente libera, resta il fatto che per chi vive e lavora dall’altra parte del muro e che deve attraversarlo per esercitare il proprio diritto al lavoro, alla sussistenza e alla sopravvivenza, il muro è un ostacolo maggiore all’esercizio di tale diritto garantito da tutte le istanze internazionali. Nondimeno dove ci sono muri, ci sono nello stesso tempo innumerevoli forme di resistenza. Tra i palestinesi che continuano a vivere sulla loro terra la resistenza è una forma di vita, non solo di sopravvivenza. C’è la cooperativa di donne del piccolo villaggio di At-Tuwani, che fabbrica oggetti d’artigianato (vestiti ricamati, sciarpe, borse, coperte). C’è la formidabile Huda al Imam, direttrice del Centre for Jerusalem Studies della Al Quds University, protagonista di uno dei capitoli del libro di Suad Amiry Golda ha dormito qui[L] 7 che racconta la particolare lotta condotta da Huda che consiste nell’andare regolarmente a bussare alla porta di quella che prima della guerra del 1947, la Nakba, come la chiamano i Palestinesi, era la sua casa natale, ora occupata da una famiglia israeliana, dopo espropriazione illegale. C’è l'instancabile Nurid Peled Elhanan, israeliana, autrice di Palestine in Israeli Books: Ideology and Propaganda in Education8, in cui analizza e smonta il modo in cui è raccontata la storia nei libri scolastici israeliani. È a Gerusalemme che è nato il gruppo delle donne in nero israeliane e palestinesi nel 2005 (al tempo della prima Infada). La lista sarebbe molto lunga. Quasi quanto i settecentotrenta km di barriera.

Il mio sguardo può cambiare, è cambiato da ciò che lo attraversa, cioè le piste con i suoi camminatori e camminatrici, animali a quattro e due zampe, le strade dalle case vuote, come occhi assenti, le case degli assenti, altrove per sempre o per ancora molto tempo, gli sguardi lungo le strade di Dano, di Haïti, di Kinshasa. Di Betlemme, di Hebron, di Gerusalemme.

Le parole cercano di accostare, di attraversare, di ricucire anche se le lingue differiscono. Le piste del mondo attraversano le terre del Burkina Faso e passano per il Corso Vittorio Emanuele la fontana luminosa dell’Aquila, la colomba ferita che vola ancora al di sopra dei muri.

137 Sulle tracce della città con Laudomia Bonanni

Maria Vittoria Tessitore

So much of the city is our bodies. Places in us old light still slants through to. Places that no longer exist but are full of feeling, like phantom limbs.

Even the city carries ruins in its heart. Longs to be touched in places only it remembers.

***

In grande parte la città è il nostro corpo. Luoghi di noi Che una vecchia luce continua a traversare di soppiatto. Luoghi non più esistenti ma colmi di sensazioni come arti fantasma.

La città stessa porta rovine nel suo cuore. E anela di essere toccata in luoghi ch’essa sola ricorda.

Anne Michaels, “Phantom Limbs” (1997) *

Per metterci in relazione con la città e il suo corpo sofferente, per affrontare con i nostri corpi le rovine di cui si carica il suo cuore, come ci suggeriscono i versi di Anne Michaels, abbiamo scelto di incontrare un corpo letterario che è in tante sue espressioni integralmente coesistente a quella città e quindi alla sua storia. Seguendo la pratica ormai consolidata delle passeggiate letterarie SIL 1, abbiamo percorso le strade dell’Aquila conoscendo e riconoscendo Laudomia Bonanni2.

Con la guida di Anna Maria Giancarli e di Gianfranco Giustizieri, tra i più strenui conoscitori di Laudomia, con la voce di Barbara Bologna, e l’irrinunciabile coordinamento di Valentina Valleriani, abbiamo percorso tappe significative del percorso intellettuale di Laudomia. La casa in cui abitava, la scuola, i simbolici gigli 3, il tragitto delle sue passeggiate quotidiane all’Aquila, parti della città presentate da chi quei luoghi e quella storia vive nel quotidiano, da chi partecipa al grande corpo ferito della città. Queste persone che ho menzionato e altre hanno partecipato alla passeggiata letteraria con Laudomia Bonanni e ci hanno accompagnato generosamente a toccare luoghi della città “ch’essa solo ricorda”4.

138 Laudomia stessa, quando ormai da tre anni aveva lasciato la città per stabilirsi a Roma nel poco caratterizzato quartiere della Balduina, contribuì a un volume sull’Abruzzo a firma di noti autori abruzzesi e non dell’epoca con un testo dal titolo “L’Aquila rivisitata” (1972), in cui riscopre con sguardo mutato la sua città notando particolari che le sembra di vedere allora per la prima volta. Rassegnata a constatare la brutale manomissione del cemento armato, aggiunge: “Beninteso che lo sfondo di ogni strada, col cielo alto e nel cielo le montagne, mai potrà venire manomesso”5.

In un futuro lontano sarebbe stata contenta di ritrovare la Casa delle Donne dell’Aquila così fortemente voluta e infine ottenuta (prima in una sede provvisoria, e poi in un edificio in ricostruzione al Parco di Collemaggio) dalle donne TerreMutate: “Io ero femminista a dodici anni, perché ne ho viste tante di donne nei paesi vittime dell’ingiustizia […] vite mancate di donne che hanno tutto il diritto di ribellarsi”, dichiara in un’intervista su Amica del 19796.

Dunque una femminista autoctona, potremmo dire, impegnata nella sua eudaimonia, quella “felicità” 7 obiettivo del vivere che, come sottolinea Nussbaum, si fonda sull’attività che realizza il proprio talento. E il suo talento Bonanni già da bambina lo costruisce tra la solitaria riflessione e le letture – dichiara ripetutamente di essere stata una lettrice onnivora, leggeva tutto quanto le capitasse tra le mani, a casa, o nelle case di amici – e l’osservazione partecipata delle vite degli altri, soprattutto delle donne. “A diciotto anni avevo già un quadro completo della letteratura di tutto il mondo e non mi importava di nient’altro” 8. Non rivela esplicitamente quali fossero queste letture anche se, dando per scontata l’attenzione al conterraneo D’Annunzio e ricordando che i suoi diciotto anni corrispondono al 1925, possiamo farci un’idea della sua formazione letteraria. Non risponderà volentieri anche più tardi (1955): quando le si chiedono le sue preferenze tra i narratori contemporanei resta sul generico ("più d’uno, e almeno due scrittrici"), e azzarda a malapena due nomi – Faulkner 9 tra gli stranieri, e tra gli italiani più giovani Giose Rimanelli di Tiro al piccione. Due soli nomi ma assai significativi10.

Del resto nel 1955 era già direttamente nel mezzo del mondo letterario contemporaneo, aveva ormai conosciuto le figure più in vista soprattutto attraverso il salotto Bellonci cui partecipava sommessamente, continuando a “starsene appartata, anzi isolata” all’Aquila, impegnata in “una vita di duro lavoro”11. Il suo ingresso nel mondo letterario ufficiale si data al 1948, quando vinse inaspettatamente il premio dedicato agli esordienti bandito dagli Amici della Domenica – il salotto Bellonci appunto – già impegnati dal 1947 all’assegnazione del premio Strega. L’evento, che non si ebbe mai a ripetere per l’eccessivo impegno che comportava il grande numero dei concorrenti, è raccontato con dovizia di documentazione da Fausta Samaritani nella introduzione all’Epistolario (2006) e ancora da Gianfranco Giustizieri nel suo più recente volume del 201412. La busta chiusa contenente il nome di Laudomia Bonanni, ignoto alla illustre giuria (composta da nove illustri scrittori e una sola scrittrice, Alba de Céspedes) che accompagnava il manoscritto contenente due racconti lunghi, “Il fosso” e “Il mostro”, si identificava con il motto “Vivere è necessario”. E anche questo significa.

La frequentazione del salotto Bellonci ha comunque permesso alla solitaria Bonanni di conoscere di persona alcune grandi scrittrici come Alba de Céspedes, Anna Banti, Elsa Morante, Paola Masino, ma solo tre sono destinatarie della corrispondenza rinvenuta con sapienza archivistica da Fausta Samaritani nel primo volume dell’Epistolario 13: si tratta di Gianna Manzini, Sibilla Aleramo e con maggiore frequenza Maria Bellonci. Le lettere (in tutto sette) indirizzate a Sibilla Aleramo, tutte del 1948, ci danno anche un lume certo sulla lettura di Laudomia Bonanni. “E ora dovrei dirti quanto sia stata felice di poter avvicinare quella mitica Sibilla ch’era da tanto nella mia fantasia” (6 giugno) e “Mi pare anzi di averti sempre conosciuta e sempre amata. È così, del resto, dal giorno, ed è ben lontano, in cui lessi il tuo primo libro”. È palese nel suo percorso letterario la maturazione dei grandi temi del femminismo che Aleramo, e non solo lei, aveva offerto all’attenzione della coscienza civile delle lettrici e dei lettori. Decisa nei suoi apprezzamenti, è sempre molto riservata nella sua partecipazione pubblica, che pure c’è stata.

Quando negli anni cinquanta molti e molte intellettuali si impegnano con il partito comunista Laudomia Bonanni resta nelle retrovie. Ma non manca di intervenire sulle tematiche a lei care dell’emancipazione quando sollecitata da Carla Pertini sul settimanale Noi Donne commenta la proposta di quel settimanale di convocare un congresso sulla stampa femminile, anticipandone con forza il tema:

Il tema che riguarda l’esigenza di una stampa femminile che difenda i diritti della donna e la sua dignità acquista oggi un particolare valore. Non potrebbe infatti parlarsi di una stampa femminile già esistente. Quella che attualmente circola – il gran numero di settimanali di cui tanti a fumetti – sembra ispirarsi per lo più a uno stato di minorità della donna. Sfrutta una debolezza, diciamo sentimentale, e si regge su un equivoco14.

Il primo congresso della stampa femminile italiana si tenne effettivamente a Roma il 25 e 26 ottobre di quell’anno,

139 1952. Ne scaturì un bando per un premio letterario di un milione di lire da assegnare a un’opera inedita narrativa o saggistica “che esalti le qualità migliori della donna italiana nella famiglia e nella vita sociale”. Così recita l’art. 1 del bando stesso che all’art. 7 elenca anche i nomi dei componenti e delle componenti della giuria – nove nomi di intellettuali illustri tra cui Laudomia Bonanni15, a dimostrazione di un ruolo anche pubblico assegnato a Bonanni nell’ambiente degli intellettuali vicini al partito comunista. Ma di questo impegno di giurata non c’è traccia nelle lettere o nelle interviste della scrittrice finora pubblicate, e a dire il vero la notizia della assegnazione del premio (a Silvia Magi Bonfanti per il romanzo Speranza) uscita sull’Unità del 9 aprile 1954 cita una giuria leggermente cambiata, da cui sono spariti i nomi di Luigi Russo e Laudomia Bonanni, mentre compare il nome di Vasco Pratolini 16. Può essere qualsiasi motivo, un dissidio, una rinuncia volontaria, non sappiamo.

Sappiamo, invece, che Laudomia Bonanni ha da sempre praticato la sfera pubblica con un impegno tutto personale anche negli anni del fascismo, con l’insegnamento nelle scuole elementari di stato e con la partecipazione al Tribunale dei Minori, e soprattutto con la scrittura che pratica da sempre: “Fin dove arriva la mia memoria ho sempre scritto” 17. Né si è mai tirata indietro nel sostenere le sue ragioni sia con le autorità scolastiche e con quelle giuridiche legate al Tribunale dei Minori, sia con gli editori e con i direttori dei periodici cui affidava la pubblicazione dei suoi scritti. Straordinaria è la lettera del 28 settembre 1945 che Bonanni invia alla Commissione Centrale per l’Epurazione in cui confuta nella sostanza le accuse che avevano portato la commissione provinciale a infliggerle la punizione di dieci giorni di sospensione18. Deludente è stato per Bonanni proprio l’ambiente letterario mondano in cui era sì stata catapultata dall’evento del premio (“un paio d’anni fa di colpo […] mi sono trovata nel folto della mischia”, 19) e che risultò tanto più deludente perché coscientemente cercato. Ha impiegato venti anni a fare il grande passo di trasferirsi a Roma.

Perché la nostra femminista a dodici anni non ha mai smesso in una lunga vita di misurarsi con la propria persona, di fare del vivere un lavoro. Che ha comunque voluto da sempre narrare con le parole, parole lette, scritte e offerte alla lettura di altri e altre. Tentare di scandire la sua ricca produzione letteraria, ora purtroppo difficile da reperire, in una progressione cronologica legata alla sua biografia è un’impresa quasi impossibile, per il grande lavorio che c’è dietro a ciascuna delle opere pubblicate. Molti suoi libri hanno visto una gestazione anche molto lontana nel tempo rispetto alla pubblicazione: prime versioni successivamente elaborate per la stesura finale, e molto spesso racconti ed elzeviri che anticipano porzioni dei libri, talvolta anche letteralmente. Altrettanto i due romanzi inediti La corrente (terminato nel 1939) e Prima del diluvio (con la data di chiusura 6 gennaio 1945) custoditi nell’archivio della Associazione Laudomia Bonanni20 aprono alle elaborazioni successive. Con molta attenzione Giustizieri ha spesso rintracciato temi e stilemi della produzione più matura negli elzeviri, e nei racconti usciti nella stampa periodica da cui si traggono spunti illuminanti per una lettura sempre più ricca della scrittrice. È una produzione fittissima 21 che in una lettera a Maria Luisa Spaziani dell’11 gennaio 1952 Bonanni chiama il suo “lavoro spicciolo” diverso dal più impegnativo lavoro “lento e meditato” che dedicava alla stesura del romanzo22.

La vicenda più significativa a questo proposito è la storia autoriale e anche editoriale del romanzo La rappresaglia, finalmente pubblicato dalla casa editrice Textus nel settembre del 2003, a poco più di un anno dalla morte della scrittrice avvenuta a Roma il 21 febbraio 2002. L’edizione che Carlo de Matteis ha curato con molta sapienza si basa come testo base su un dattiloscritto dell’autrice messo a confronto con una versione manoscritta piena di cancellature e ripensamenti. Sulla base di questo confronto il curatore riporta in una Nota al testo, a termine del volume, lezioni precedenti e cancellature che danno evidenza di un lavoro molto accurato anche di scelta delle parole. Una caratteristica di tutta l’opera bonanniana, infatti, è proprio un uso spericolato del lessico che in qualche misura ricorda la fantasiosa lingua di Gadda. Con questa appendice critica elaborata da De Matteis, e arricchita dalla riproduzione fotostatica di due pagine manoscritte della scrittrice, ci introduciamo di soppiatto nel laboratorio di Laudomia Bonanni, possiamo in una certa misura, toccarlo con mano, o vederlo con i nostri occhi23.

Ma questa uscita postuma del romanzo – che ha fortunatamente dato inizio con la casa editrice Textus alle riedizioni dei quattro racconti di Il fosso (2004, per la cura di Carlo De Matteis) e di L’imputata (2007, a cura di Liliana Biondi) – nasce anche dalla drastica cesura di Bonanni dalla partecipazione attiva alla letteratura, seguita al rifiuto della Bompiani di pubblicare il suo lavoro. La rappresaglia, appunto, un libro del cui valore “nessuno oserà discutere”, come scrive l’autrice all’amica Bellonci che pure si era prodigata a suo favore per sollecitarne la pubblicazione24.

E non è tutta qui la tormentata vicenda editoriale di quest’opera, perché alcuni concreti indizi fanno ritenere che La rappresaglia[L] sia in realtà una riproposizione del romanzo Stridor di denti annunciato in una nota sull’autrice uscita su Noi donne a gennaio del 1949, e al centro di una tenace richiesta di pubblicazione a Mondadori, cui Bonanni manda il dattiloscritto il 18 dicembre di quello stesso anno per ottenere un rifiuto deciso (se pur cortese) con una lettera di Alberto Mondadori del 9 febbraio 195025. Per una sovrapposizione anche lessicale tra i due testi ritroviamo in La

140 rappresaglia l’espressione biblica “E sarà pianto e stridor di denti” (VI, 6, p. 73) in un sommesso commento alle visioni di guerra infinita della Donna partigiana prigioniera, destinata a essere uccisa dopo aver partorito. E di nuovo nelle parole della Donna la notte precedente la sua morte “Stridor di denti anche in cielo” (IX, 1, p. 114). Dal 1948 al 1985 dunque, quasi quarant’anni di attenzione alle contraddizioni quotidiane vissute dalla popolazione abruzzese delle montagne di Caramanico, occupata dai tedeschi, dopo l’armistizio. Molte le rielaborazioni, gli echi, le proposte. Insopportabile per Bonanni il rifiuto di un testo che segna la summa del suo personale attivismo femminista che vuole essere pubblico solo con la scrittura26.

“La natura è muta. Gli dà parola il nostro sommovimento, gioia o dolore. Non ci siamo che noi, soli. Lo scriverò. Ma no come potrei. E non riesco più a esprimere… A un tratto sfugge il senso, tutto quello che era sembrato lampante e inoppugnabile… La morte” (VIII, 6, p. 108). Parole che segnano il congedo dal mondo della personaggia, simbolicamente portata in scena come la Donna (raramente indicata come la Rossa – “avevamo una rossa. E noi eravamo i “neri”; I, 1, p. 12), prigioniera di un manipolo di uomini e di ragazzi fatalmente destinati, loro e lei, a trattare la morte e l’uccisione come un evento prossimo e ineludibile. Sono tutti in fuga, rifugiati in un eremo delle montagne, l’eremo di Acquafredda27, e sono raggiunti da un giovane prete, un seminarista passato da lì per controllare la possibilità che quell’eremo “potesse dare asilo al nuovo eremita, un pio vecchio della Civita” (III, 2, p. 21). E proprio a questa altra figura anomala in quel teatro tutto maschile 28 la donna prigioniera racconterà la sua vita, la sua storia e le sue convinzioni di partigiana armata, per poi affidargli la neonata con la quale egli si avvia per le montagne, dopo l’esecuzione. A lui affiderà anche il suo quaderno che dovrà consegnare a un indirizzo che poi dovrà dimenticare:

Bisogna che si sappia, che le mie carte arrivino a destinazione, c’è qualche cosa dentro… Ho avuto delle idee, mucchi di idee. E le ultime ore di un condannato a morte… ma non ho più la forza, [… ] Avrei saputo scrivere… Ma anche così sarà un documento. […] Qualcuno toglierà gli errori, devono essercene a bizzeffe, che importa. […] Consegnate e basta.” (VIII, 2, p. 95)

A nessun’altra personaggia delle molte che incontriamo nel catalogo bonanniano vengono affidate tante lunghe battute e lunghi monologhi quasi beckettiani. Si presenta come un monumento, enorme, incombente. Nelle sue parole ritroviamo in chiave forte, spesso irridente e provocatoria, tutte le suggestioni che abbiamo incontrato nelle precedenti narrazioni bonanniane. In una tale donna senza nome, che produce idee “perché ha scalpellato la mente” (VII, 4, p. 66) e che sente il bisogno di scrivere per lasciare un documento si identifica empaticamente Laudomia. “Io avrei voluto che i miei romanzi fossero ancora più documento. Ma mi viene da scrivere come narratrice[P] ”, dice in un’intervista del 197429. Io che leggo non posso fare a meno di sovrapporre le due figure femminili.

Ma c’è dell’altro. Infatti, la scrittrice/narratrice proprio dal 1974, quando riprende a scrivere dopo dieci anni di silenzio, affida la narrazione a un io narrante – palesemente autobiografico nella raccolta Vietato ai minori (1974) ed esplicitamente femminile in Il bambino di pietra (1979) e Le droghe (1982). Anche alcuni racconti di Città del tabacco (1977, ma già presenti in pubblicazioni periodiche in date precedenti) sono narrati in prima persona. Analogamente nel testo di La rappresaglia pronto per la pubblicazione nel 1985 la narrazione è affidata a un io narrante maschile che insieme agli altri sale anche lui “quel maledetto giorno” all’eremo di Acquafredda. “Non era una spedizione e non ancora una fuga. Ancora poteva risolversi in un allontanamento temporaneo, finché si calmassero le acque e finisse tutto, anche le guerre finiscono. (Lo credevo allora)” (I, 1, p. 3). È un ex maestro elementare con un passato di scrittore già al momento degli eventi, che così si presenta: “Io rappresentavo metà del comando, ma era Vanzi a dare gli ordini. Era lui il politico. Di me, nonostante il grado militaresco, non facevano gran conto: l’istruttore dei bambini, […] tutt’altro che marziale” (I, 7, p. 8). Presente, osservatore, testimone, la Rossa spesso sottolinea la sua presenza costante, e qualche volta lo interpella. Anche di lui, come della imponente protagonista, non sappiamo il nome. Mentre del prete, o seminarista, o giovane, così come del bambino si conosce il nome, anche se nel corso del racconto esso non viene mai usato, sottolineando così il loro differente ruolo dal resto del gruppo i cui componenti, tutti ben caratterizzati, vengono chiamati con il loro nome.

Nell’ultimo capitolo, il X, il narratore tornato al paese, e sentendosi ormai vecchio e un “innocuo stravagante” (4, p. 132) fedele alla sua funzione di cronista, racconterà la fine di ciascuno di loro. Di quegli uomini ai quali non sa perché si fosse unito. Giacché “[m]i erano estranei e io a loro. Non condividevo le idee, solo una tessera di partito imposta.” (1, p. 126). Richiama una scena precedente (V, 5, pp. 53-57) quando nella cella della Donna, che aveva acconsentito a parlare con il prete purché alla presenza del narratore “per escludere l’idea della confessione”, lei parla del quaderno – “Io…io scrivo. (Guardò me.)” – e della sua sensazione di sentirsi “un occhio in un bastone”, capace di vedere ma incastonato nell’impotenza dell’ignoranza. Ma, dice, se siete come quelli là in cucina che vorrebbero la mia delazione e “[s]e è questa la confessione che volete, potete anche andarvene. Certo non sono dalla parte di costoro e nemmeno dalla vostra. Già ma voi con chi state?”. La domanda non ha risposta. Né il prete, né il narratore sono in grado di dichiarare in da che parte stanno.

141 La narrazione degli eventi è quindi soggettiva e affidata alla memoria del personaggio scrittore e alle molte carte che riempie di appunti. Il presente, che come tempo verbale si alterna al passato anche nel racconto degli eventi in successione, e la soggettività del narratore sono temporalmente scisse. Poiché fin dalle prime sezioni del capitolo I appare chiaro che solo dopo quaranta anni egli cercherà di “ricomporre il tutto”. “Perché serbare per quarant’anni? Storico, si fa per dire, biografo, o semplicemente cronista. […] E via via sarà come togliermi pietre di dosso” (I, 2, p. 4). Più oltre commenta: “Pure oggi, dopo quarant’anni e più, dovunque lo [il prete] riconoscerei, se fosse ancora in vita e se non è stato un fantasma” (III, 1, p. 20). E verso la fine della storia, in calce a una scena che presenta l’inquietudine del ragazzino, incapace di accettare le perplessità degli adulti sull’uccisione della Rossa che egli crede responsabile della morte del padre, leggiamo: “Oggi, a distanza di quarant’anni, copiando i vecchi fogli e ricostruendo, capisco di essere sempre rimasto spettatore nei confronti degli uomini, mentre col ragazzo era una identificazione. Come se fossi lui, il mio io infantile. O è stata un’esercitazione letteraria?” (VIII, 1, p. 93).

È palese l’identificazione della scrittrice con questo narratore. Lui si toglie le pietre di dosso, e giunto all’ultima pagina si trova davanti “[u]n pacco di carta. Un volume di fogli. Un libro. Avrei scritto un libro?” (p. 141). Eh già… come diceva Bonanni: “Il libro è come un sasso che si butta per colpire” 30. All’immagine della pietra, del peso che cade, la scrittrice aggiunge l’intenzionalità. L’intervallo di tempo tra il 1949 quando presenta a Mondadori il manoscritto di Stridor di denti e il 1985 quando manda La rappresaglia a Bompiani si riempie di senso. Il grande e costante lavorio della scrittrice trova qui la sua rappresentazione. Tanto più se si legge l’ultimo capitolo (X, pp. 125- 139) e l’epilogo successivo (pp. 141-43) là dove il narratore è protagonista assoluto. Ha terminato la trascrizione delle vecchie carte, “una riesumazione dei fantasmi” (X, 1, p. 125) che lo lasciano in preda a un “incubo di coscienza” (p. 126) che forse potrà esorcizzare solo riprendendo a scrivere. Racconta così il suo ritorno al paese. “Alla spicciolata si tornò al paese, ciascuno alla propria casa, sotto l’usbergo delle donne” (p. 127). Racconta il primo giorno della Liberazione quando gli abitanti del paese, dopo una notte passata nel timore, anzi nella sicurezza che i tedeschi in ritirata avrebbero fatto saltare il vicino ponte, sono improvvisamene sorpresi già all’alba dall’annuncio di un messaggero urlante – i tedeschi erano scomparsi, gli alleati in arrivo. Al suono della campane la piazza si riempie di gente in festa, improvvisamente sconvolta dall’apparizione degli ebrei, da tempo tenuti nascosti dalla moglie del più vecchio del gruppo dell’eremo, che si aggiravano sospettosi con le pistole in pugno, preoccupati di non vedere le truppe americane che si aspettavano di vedere. Vengono calmati dal capo partigiano e quindi portati via con molta cortesia dagli americani finalmente arrivati il giorno seguente. “Tanta gente scomparsa. I bombardamenti e le deportazioni. Paesi bruciati, popolazioni decimate. E dopo si voleva dimenticare. Ma non si può dimenticare” (X, 2, p. 129). L’atmosfera di vita nella guerra, una vita in cui ci si affanna a riconoscere che “vivere è necessario” con le famiglie, o piuttosto i pezzi di famiglie rimasti nel paese, le vecchie, ma anche le giovani spaesate, e gli uomini – aggressivi o nascosti tedeschi consapevoli di andare verso una guerra ormai persa, i militari prigionieri e non più belligeranti, ma nascosti ai tedeschi, così come gli ebrei, e via via fascisti e partigiani – è il crogiuolo problematico che abita e tormenta la coscienza del narratore, e parimenti quella della scrittrice. Bonanni aveva certamente letto e meditato la narrazione che di quei dieci mesi (settembre 1943 – giugno 1944) a Caramanico aveva scritto il cognato Corrado Colacito 31 già nel 1944, tanto da riprendere nel racconto “Seme” 32 episodi e anche nomi presenti in quel libro. E a proposito del clima di sconvolgimento ideologico che segna quegli anni non sorprende l’attenzione della scrittrice al libro di Giose Rimanelli – “la storia di un giovane della mia età che vede la Resistenza dalla parte sbagliata”33.

Il racconto “Seme”, anch’esso ambientato nelle montagne abruzzesi nel 1943-44, contenuto nella raccolta Il fosso[L] del 1949, introduce un’immagine – il seme, appunto – che sarà spesso ripresa nel corso di La rappresaglia. Nel racconto è il seme spazzato dal vento e poi fiorito in un cespo di violaccioche spuntate dalla pietra, ma anche quello che in tempo di pace i matrimoni permettono di arrivare a destinazione (p. 83). Nella scena che è il paese di Caramanico (qui indicato con la sola iniziale C) popolato da tedeschi dell’occupazione ma anche da prigionieri scappati dal vicino campo di concentramento e tenuti nascosti dalle famiglie del paese, il punto di vista preminente è quello delle vecchie che si voltano anche solo a sentir parlare di Felicina, “la puttanella” perché “[n]on si può gettare troppo seme in un solco, si sa […] non si interessavano alle gesta delle femmine isterilite da troppo seme mascolino, era quella una vicenda vuota – pura ombra”. E quando vanno in gruppo a seppellire un australiano ucciso dai tedeschi decifrano insieme “sul braccio del morto, sotto un cuore trafitto, il dolce nome di Sarah Ilove” e bisbigliano sommesse lamentazioni per la bella Sarah Ilove, vedendo “in lui buon seme perduto. Ah! Signore, fa’ che ne scampi al diluvio seme umano” (p. 85).

Il seme umano ricorre di frequente nei dialoghi de La rappresaglia, fin dalle prime battute tra gli uomini sopraffatti dalla gravidanza della prigioniera, e con sdegno irridente nelle battute della donna. “‘Porcodio’ strillò il piccolo Divinangelo guardando gli altri ‘è pregna questa troia.’ La donna […] subito ritorse: ‘Beh? Il tuo seme non gonfierebbe una gatta’” (I, 4, p. 6). Si sentono costretti a uccidere quella donna che aveva catturato uno di loro in un giro di perlustrazione lo stesso giorno in cui avevano raggiunto l’eremo. È stata trovata con le fascine imbottite di armi. “Ci siamo legati una macina al collo, con questa donna. Portava in giro il seme della morte. Lasciarla a seminare morte per

142 la contrada?” (III, 5, p. 27).

“Su, bucatemi subito. Qui dovete sparare, farne un crivello di questo ventre di puttana con tutto quello che c’è dentro. Seme d’uomo, ah ah. Voglio strapparmelo con le unghie questo frutto della vostra razza schifosa d’ipocriti maschi.” “Donna spettacolosa”, è la chiosa del narratore: “La furia femminile scatenata paralizza sempre l’uomo dentro le viscere” (V, 1, p. 45). Il protagonismo del corpo nella personaggia condannata a morire, ma già destinata a uccidere, invade tutta la storia. Così si rivolge al prete il giorno prima dell’esecuzione:

Questo corpo voglio salvare, questo corpaccio fetente che mi serviva tanto bene, che potevo trasportare su per le montagne, sottoporre a qualsiasi strapazzo, riempire di cibo, far fremere nell’amore, spremerne altre vite, rendere agevole e potente in amore di tutta l’umanità. [… ] La rivoluzione è femmina, partorisce da sola, come me. Ah ah, io sono la rivoluzione. (VIII, 6, p. 109)

Sconvolge gli uomini del gruppo la determinatezza con cui la donna rinchiusa nella sua cella partorisce da sola e in silenzio la sua bambina. “Ha fatto tutto da sola. Che gran femmina” (VII, 6, p. 89). La complementarietà tra vita e morte è testimoniata dal corpo stesso della Donna, consapevole che deve lasciare il mondo che doveva essere il suo: “Proprio adesso che stare al mondo mi piaceva. […] Ero uscita dal fosso e so che tutti possono uscirne e volevo aiutare tutti a uscirne” (VIII, 6, p. 107). Anche qui, nell’esplicito flusso di coscienza della Donna, ha spazio il riferimento alla complementarietà di vita e morte nella natura. “Quello che è morto marcisce in terra e rifà umore”, argomentava il prete auspicando un nuovo inizio per il mondo infetto dalla guerra. “Certe risposte la entusiasmavano. Si proponeva di scriverle. Marcire per rinascere. Occorre buttar giù la foglia morta, che si strugga per riuscire in germoglio” (VI, 3, p. 65). Il lungo monologo che coincide con il secondo quadro dell’ottavo capitolo/atto inizia con la frase: “Questa bambina vivrà. […] Io credo che vincerò se potrete andarvene con la bambina. Insomma se sarò morta” (VIII, 2, p. 95).

Altrettanto presente è la morte – il seme della natura, il seme umano e il seme della morte – nell’“incubo di coscienza” del maestro narratore:

Alla vecchiaia manca la confluenza armonica delle attività vitali. La nostra struttura animale, così perfettamente congegnata intorno al seme della morte. Ed è là che confluisce. Spenta la memoria fisiologica di certe sensazioni. Com’era l’amore, il sesso. Invano cerco di ricordare quel sentirsi gonfio di seme come una spiga. (X, 3, p. 130)

L’impatto testimoniale della personaggia monumentale risuona empaticamente nelle parole del narratore, nel corso di tutto il romanzo. Punteggiato dai motivi dirompenti della rivoluzione femminile e femminista che Bonanni offre nel suo lavoro conclusivo ma che sono rintracciabili in tutta la sua avventura di scrittrice aquilana. Ma la coerenza irruente del suo percorso di donna scrittrice impegnata nella sua eudaimonia, nell’incessante raffinamento delle sue competenze (le capabilities nel linguaggio di Nussbaum) senza perdere le scosse di esperienza che osserva in sé e nelle altre, e negli altri, non trova una collocazione adeguata nel sistema della storia letteraria così come ancora viene disegnata e anche insegnata. Bene ha fatto l’Associazione Laudomia Bonanni e per essa Gianfranco Giustizieri a pubblicare le recensioni e gli articoli che testimoniano la ricezione delle sue opere nel suo recente lavoro edito da Carabba nel 2014. La lettura di quei testi segnala in modo molto pregnante l’evoluzione del gusto nella cultura letteraria del Novecento.

Non ho qui lo spazio per articolare una lettura estensiva del catalogo di Laudomia Bonanni. Che, come ho già notato ab initio, non è facilmente rapportabile all’esperienza di vita se non per la successione delle pubblicazioni. Provo a tracciare quelle che mi sembrano pietre miliari che scandiscono la biografia di Bonanni; situazioni e/o eventi ampiamente ripercorsi nella memoria descritta nei tantissimi elzeviri, così come nelle lettere e nelle interviste. Tuttavia i miei riferimenti possono essere solo casuali, proprio per la grande mole di materiale, ancora non disponibile in modo sistematico.

Non ho trovato nessun riferimento al nome altisonante che la madre, Amelia Perilli, aveva voluto attribuirle. Laudomia de’ Lapi è la figlia ‘vincente’ di Niccolò, protagonista dell’omonimo romanzo di Massimo d’Azeglio (Niccolò de’ Lapi ovvero I Palleschi e i Piagnoni, 1841), romanzo storico protorisorgimentale ambientato nella Firenze all’epoca di Carlo V, che certo doveva soddisfare l’empito patriottico dell’integerrima maestra elementare poi diventata fervente fascista. “Uno di quei romanzacci che vennero fuori a imitazione del Manzoni” è il giudizio sommario della scrittrice34.

Laudomia è la primogenita e nasce nel 1907. Avrà due fratelli e una sorella. La famiglia, con il padre musicista, e per un periodo di tempo commerciante di carbone (l’approvvigionamento del carbone è un rito molto presente nella quotidianità narrata in L’imputata), e la madre, particolarmente presa dai figli maschi 35, è vissuta dalla scrittrice come

143 un peso cui talvolta accenna nella corrispondenza. Solo nel 1964 riuscirà a trasferirsi in una casa tutta per sé, sempre all’Aquila.

Una tappa essenziale della sua infanzia è il terremoto abruzzese del 1915 che costringe la famiglia Bonanni Caione (è questo il nome intero della famiglia, che Laudomia ha semplificato) a vivere per un certo periodo in una baracca in periferia. Era anche il primo anno della guerra mondiale. Di questo evento lascia memoria in un elzeviro del 12-13 giugno 196336.

Dal 1925 al 1966 è maestra nelle scuole elementari, dapprima in paesi impervi di montagna – Corvara, San Tommaso di Caramanico, Abbateggio, quindi, dopo un anno di aspettativa nel 1929-30, passa a insegnare in frazioni periferiche del comune dell’Aquila dal 1930 al 1940, e infine, dopo un comando di tre anni per funzioni organizzative e ispettive, dal 1943 nella scuola elementare “Edmondo De Amicis” al centro dell’Aquila fino al 1956. Negli ultimi dieci anni di servizio lavora per sette anni presso il Patronato Scolastico dell’Aquila per poi tornare a insegnare alla De Amicis, ma con frequenti intervalli legati a crisi di depressione che si facevano sempre più severe. “[L]’insegnamento mi è fonte di competenza in un campo di solito ignoto ai letterati”, scriverà in una lettera del 1949, e aggiunge: “sono contenta di essere anche maestra” 37. L’esperienza dei suoi primi anni di giovane maestra è contenuta nelle Noterelle di cronaca scolastica pubblicato nel 1932 38, ma molto interessanti sono sicuramente i resoconti contenuti nei registri scolastici di cui possiamo leggere alcuni stralci nei lavori di Giustizieri. Mentre ferma è la sua adesione formale alle direttive educative del Partito Nazionale Fascista, cui si era doverosamente iscritta già nel 1927 (come non ricordare la “tessera di partito imposta” del maestro narratore di La rappresaglia?) e con cui collaborerà in intense attività organizzative sempre in ambito di intervento sociale negli anni tra il ’38 e il ’43, altrettanto coinvolta e coinvolgente è la sua ricerca del rapporto diretto con gli allievi e le allieve, non disgiunta da un atteggiamento critico e di denuncia.

Ma l’esperienza che più ha segnato la sensibilità di Bonanni aprendola a una visione di mondo alienato, e ignorato dai più, è la partecipazione alle attività legate al Tribunale dei Minori dell’Aquila; prima, dal 1939, come collaboratrice nominata dal Ministero di Grazia e Giustizia in rappresentanza dei Fasci Femminili 39, e in seguito attiva nel Centro di Tutela Minorile e dal 1946 al 1964 come giudice laica in tribunale. Non sembra che di questa sua attività ci sia traccia nelle lettere, se non l’annotazione nella lettera del 1949 citata sopra in cui riferisce del suo lavoro nei riformatori e nei centri di educazione per minorenni nonché degli articoli che sta scrivendo sul tema come parte integrante del suo servizio di maestra, mentre numerosi elzeviri toccano il tema. In parte modificati, questi testi già pubblicati nella stampa periodica in un ampio spazio di tempo (dal 1940 al 1966) sono stati poi raccolti in Vietato ai minori. Un romanzo (Milano, Bompiani, 1974). Ma l’incisività di questa esperienza e quindi della tematica – il cosiddetto comportamento deviato dei bambini e dei ragazzi, l’impatto dell’istituzione giudiziaria, insomma dei delitti e delle pene – lascia il segno anche in altri suoi lavori, in alcune scene di La rappresaglia, e soprattutto in L’imputata[L] (1960)40, il grande e popolatissimo romanzo del casamento aquilano, pubblicato da Bompiani dopo un lungo travaglio che la stessa Bonanni descrive in corso d’opera 41, in cui l’inchiesta mai conclusa per un infanticidio costituisce il movente iniziale, quasi una cornice, alla travolgente narrazione di vita e di morte che segue, e che si conclude con il processo a un ragazzo quindicenne, Gianni, che ha ucciso l’amante della madre, un processo descritto e commentato con l’attenzione e la partecipazione critica che si leggono in Vietato ai Minori.

Il formato di Vietato ai Minori[L], pur essendo basato per lo più su lavori precedenti 42 (e per ciò più che un romanzo potrebbe considerarsi una raccolta di episodi), cattura l’attenzione di chi legge proprio per il ricorrere di episodi criminali, e di fredde sentenze spesso scontate e sempre inerti, che vengono tuttavia disegnate singolarmente dal punto di vista e di ascolto dell’io narrante:

Provo l’imbarazzo di essere donna, sono costretta a convenirne. Come tale forse mi guardano […]: un’estranea, oltre che femmina – incerti se sia davvero concesso di parlare liberamente o non nasconda un tranello. […] Mi tengo ritta al muro controllandomi con una certa tensione, tale è il potere di ambiguità dissimulazione diffidenza negli occhi di ragazzi reclusi43.

La presenza di sei capitoletti tutti denominati “Taccuino delle udienze”, sorta di verbali stringati che si intercalano senza nessun criterio apparente tra i vari racconti, dovrebbero sottolineare il carattere documentario che Bonanni voleva dare ai suoi lavori; ma la narrativa, come lei stessa ammette, prende il sopravvento e con essa anche l’autonarrativa che già in questo libro erompe alla prima persona, facendo di lei stessa una personaggia fondamentale della narrazione. Da professionista della scrittura, che elabora e attualizza i ricordi, Bonanni conclude questa intensa narrazione con un testo evidentemente scritto al momento della compilazione del libro. Come il Narratore di La rappresaglia, questa narratrice si congeda dal lettore con un testo di ripensamento e di interrogazione sull’esperienza, che in questo caso era terminata dieci anni prima. Si intitola “Il Decennio” e questo è il paragrafo iniziale:

144 Ci torno. Esserci tornata con la memoria avrà avuto la sua influenza. Dopo dieci anni. Sembra un secolo. Del resto sono arrivati i decenni che contano per secoli. (Abbiamo allunato.) Semplicemente un breve ritorno alla vecchia provincia. Non per nostalgia. Il taglio era stato netto e senza remore. Abbandonati i bambini (la scuola) abbandonati i ragazzi (esonero dal tribunale). Questi distacchi, sì, come tagliare un cordone, interrompere certi contatti con la vita. Che nella grande città comunque si perdono. Un ritorno estivo, di villeggiatura, all’aria montana. Nativa. Per quel che vale l’aria nativa. Dicono molto, non so. Forse un’aria di montagna qualsiasi avrebbe la stessa efficacia. Se l’avrà. Pare che si possa soffrire di qualcosa come un rigetto da trapianto. Trapianto riuscito?44

Una scrittura affannata, fatta di frasi brevi, con qualche inserto descrittivo, in bilico tra lo sguardo dell’immediatamente presente e il lavorio della memoria. Con il ritorno reticente ai luoghi, la familiarità appannata si disvela, malgrado le “situazioni secolari rimosse” (i grandi istituti di Roma “spettacolo architettonico al turista – in attesa di restauro”), il “bubbone dell’assistenza” che continuerà a suppurare perché non si è messo mano al bisturi. Incontri e riflessioni. La dimensione delirante della nuova criminalità minorile. Le proposte innovatrici dei giovani magistrati inascoltate. L’educatore del carcere che espone con enfasi le teorie che si studiano nelle scuole per assistenti sociali, e che ricorrono sulle bocche di tutti. Ma sui reati prevalenti che sono sempre sesso e denaro – il ladruncolo è diventato scippatore motorizzato, la violenza carnale è stupro collettivo, e poi ci sono i reati nuovi, politica e droga – si limita alle statistiche, senza toccare la realtà interna all’istituzione. Infine va lei incontro ai ragazzi che sono in cortile per la ricreazione. Anche l’aspetto fisico è diverso: quello che è davvero cambiato sono i ragazzi. “Qui dentro, in definitiva e per assurdo, forse i migliori, quelli ancora vivi, che non si lasciano solamente esistere. Qualche cosa si è smosso. Ed è terribile pensare che il rifiuto ma soprattutto la violenza facciano cambiare qualche cosa. La violenza. Come le doglie che via via sforzano e la risolutiva che spinge col sangue alla nascita” 45.

Dunque, insieme alla sorte della nascita in quella famiglia (“la solita prigionia famigliare” 46) e in quella città, alla professione di maestra, alla partecipazione al Tribunale dei Minori, resta da menzionare la “breccia” 47 che l’ha fatta entrare direttamente nel mondo letterario delle grandi firme e della grande editoria. Di questo evento, del salotto Bellonci, dello Strega, e via via degli altri premi ottenuti Bonanni non lascia traccia nelle sue opere letterarie. Esprime per sempre gratitudine soprattutto a Maria Bellonci con cui stabilisce un rapporto di amicizia importante, e non si sottrae ai rituali pubblici essenziali per ottenere la ricezione che aveva sempre desiderato. Coerentemente con il suo disegno trasloca a Roma, nel ’69. “Un’altra fuga. Tardiva… anche troppo” (1969) e “Non so se sono soddisfatta di questo trapianto, ma so di sicuro che Roma mi piace” (1970) 48, e “Io ho vissuto in provincia fino a pochi anni fa e ne ho ricavato tutto il bagaglio di esperienza che la provincia poteva darmi; allora sono venuta a Roma, dove tra l’altro, vivo molto più isolata che in provincia” (1974) 49. Effettivamente il premio del 1948 che prevedeva la pubblicazione del testo presentato nella Medusa Mondadori50 è stato vissuto dalla scrittrice come un punto di svolta fondamentale:

avevo bisogno di sentirmi così impegnata, dopo tanti anni di solitudine. Sì che io sono stata sempre molto esigente con me stessa, ma viene il tempo che occorre altro, e per me era proprio venuto […]. Io m’impunto molto sulle date. Avevo detto: Al mio quarantesimo anno devo riuscire, altrimenti la smetto 51.

Dal giugno di quell’anno inizia anche la sua collaborazione alla terza pagina del Giornale d’Italia che durerà fino al 1976. Le molte recensioni al volume finalmente uscito ad agosto del 1949 e premiato pochi mesi dopo con il “Bagutta – Opera prima”, salutano l’esordio di “una nuova scrittrice” che “meritava davvero di essere tolta dall’ombra”. E nella Letteratura Italiana Marzorati (1976) Olga Lombardi introduce il suo saggio complessivo su Laudomia Bonanni, definendo clamoroso il suo esordio appunto con Il fosso, e sorvolando sulla sua produzione precedente che costituisce la preistoria della scrittrice. La successione dei volumi usciti dopo Il fosso è facile da elencare in ordine di pubblicazione: Palma e sorelle (1954; racconti), L’imputata (1960), L’adultera (1964), Vietato ai minori (1974), Città del tabacco (1977; racconti), Il bambino di pietra (1979), Le droghe (1982).

Il mio ‘esordio’ di lettrice, e il trampolino da cui mi sono tuffata incontro al continente Bonanni, è stato con L’imputata, romanzo tutto aquilano, che prende corpo e ascolto da quel faccia a faccia di via Garibaldi: con la casa già restaurata della scrittrice e di fronte il casamento ancora sofferente, “colmo di sensazioni” (come suggeriscono i versi di Anne Michaels citati in epigrafe) e quindi delle voci e delle storie che tutte riecheggiano. Potrebbe definirsi un romanzo corale, senza un protagonista, eppure brulicante di voci e di corpi in movimento singolarmente caratterizzati, in relazione tra loro e con la città sconvolta dalle tracce pesanti della guerra. Come un affollato quadro di Brueghel, che è sì unitario allo sguardo d’insieme ma che cattura immancabilmente anche lo sguardo ravvicinato sulle singole figure.

L’imputata è stata dunque la sfida del romanzo da presentare all’editoria blasonata (Bompiani) e al grande pubblico. Per Bonanni un lavoro di almeno quattro anni, come dice nell’intervista citata. E anche questo, come il successivo L’adultera uscito quattro anni dopo sempre da Bompiani, ha il suo ur-text disseminato in una serie di racconti usciti

145 come elzeviri sul Giornale d’Italia tre il 1948 e il 195952.

Ma quale è stata la preistoria della Bonanni scrittrice? Giacché sappiamo che scriveva da sempre, e che prima dell’“inizio del suo viaggio” 53 aveva già scritto e completato anche due romanzi rimasti inediti. Complementari al suo ruolo di maestra sono i racconti che scrive per la lettura degli allievi delle elementari, nessuno dei quali, tuttavia, sono riuscita a reperire: due raccolte di novelle pubblicate dalla IRES di Palermo, entrambe uscite nel 1928, due brevi racconti usciti nella pagina dedicata ai ragazzi del settimanale della Federazione Fascista Aquilana Il Popolo d’Abruzzo (22 maggio e 3 luglio 1932) e Damina Celina e altri racconti (Firenze, Bemporad, 1935). Ma la sua volontà precoce di scrittura si data al 1923 quando andava ancora a scuola, e vinse il concorso bandito da I diritti della scuola con “Damina Celina”. Nello stesso fatidico 1948 esce Le due penne del pappagallino Verzè (Torino, Paravia) come libro di lettura per la II elementare.

Legato alla sua professionalità di maestra è anche il saggio che nella primavera del 1927 esce su La nuova scuola italiana, la rivista per gli insegnanti fondata da Ernesto Codignola. Laudomia non ha ancora vent’anni: il saggio si intitola “Una educatrice” 54 ed è un ritratto della famosa Madame de Maintenon, nata Francesca d’Aubigné, giovane moglie e presto vedova del poeta Paul Scarron, che da istitutrice dei figli che M.me de Montespan aveva avuto da Luigi XIV, diventa infine la moglie morganatica del re. Insiste la giovane maestra sulla castità della donna, che “prodigiosamente sorvolante su tutte le battaglie di quella vita di donna sola” la cui “femminilità […] umiliata e delusa […] è l’abito dell’educatrice”. Sublimando la sua femminilità umiliata e delusa, alla morte del re M.me de Maintenon è ancora educatrice delle fanciulle giovani e povere nel convento che lei stessa fonda a Saint-Cyr (sì, proprio l’attuale sede dell’Accademia militare francese). Decisamente un testo anomalo nella bibliografia bonanniana. Pur rientrando nella sua programmatica e realizzata attenzione costante al mondo delle donne (“Come scrittrice, mi sono sempre mossa nel mondo delle donne, dal primo libro all’ultimo” 55) la figura della nobile e casta educatrice, donna di corte e badessa, non nasce, come tutte le sue personagge e anche i suoi personaggi, dall’osservazione diretta.

“[M]i sono sempre servita della vita degli altri per scrivere. Ancora oggi vado in autobus e ogni persona che osservo mi racconta una storia”, dice Laudomia Bonanni in un’intervista del periodo romano56. Conviene ricordare che un elzeviro uscito nella terza pagina del Giornale d’Italia (24-25 aprile 1961) si intitola proprio “Il personaggio”. La scrittrice rivela come chiunque dei suoi interlocutori, o anche le persone che sono intorno a loro nella sala da pranzo dell’albergo di montagna, anche ad esempio il cameriere e la cameriera che li stanno servendo a tavola, possono essere il nucleo centrale di una narrazione, cosa che provoca grande soddisfazione nei partecipanti alla conversazione. “Ma com’è facile, in definitiva metter su un romanzo”, è la frase conclusiva di quell’elzeviro. L’anno successivo questo lieve prontuario della sua professione di scrittrice, leggermente rimaneggiato, uscirà su una rivista più specificamente letteraria con il titolo impegnativo “Scrivere un romanzo” 57.

I tre libri pubblicati prima del 1940 – Storie tragiche della montagna (1927), Noterelle di cronaca scolastica (1932) e Men (1939)58, pur essendo drasticamente diversi tra loro per finalità di scrittura già presentano alcuni dei temi e dei motivi che accompagneranno il tragitto creativo e di autoriflessione di Bonanni. Quando dirà all’intervistatore che c’è “un collegamento preciso” tra il suo lavoro precedente e il libro uscito dopo una pausa di dieci anni (Vietato ai minori, 1974), “nei personaggi, negli ambienti, nella tematica in generale”, Bonanni si riferisce in quella circostanza ai libri usciti dopo la consacrazione salottiera. E tuttavia, quei tre libri della preistoria ci mostrano segnali fondativi di collegamento. Le cinque storie della montagna pubblicate per intervento anche finanziario della madre cui è doverosamente dedicato (“Mia madre credeva in ciò che scrivevo più di me stessa” 59) sono probabilmente una scelta tra le molte storie che andava scrivendo, e conservava in un cassetto. Diverse tra loro ma tutte legate a una morte. Nella loro sequenza che sembra studiata, come sembrano studiate le sequenze delle successive raccolte, i primi tre racconti vedono la donna come proiezione di figure maschili solitarie – un servo del castello, un inquieto cercatore d’oro finito in un eremo del monte Morrone, un giovane pastore delle montagna – mentre negli ultimi due le donne sono decisamente protagoniste: in “Le erbe della Maiella”, (pp. 49-59) una donna definita indemoniata e (o perché) incinta in segretezza, “una maternità nascosta”, soffre pene atroci in compagnia della madre “che con lo stesso strazio l’aveva creata, che con maggiore strazio, giorno per giorno, ora per ora l’aveva nutrita col pane del suo lavoro di donna trattata da bestia da soma” (p. 51). La giovane muore dopo aver bevuto la pozione somministrata da una fattucchiera truffaldina. Muore anche la madre che bramosa di vendetta si era arrampicata per la montagna fino alla grotta della strega ormai disabitata: ritrovata lì dopo un mese, attaccata a una roccia, come un “rudere umano”. Nel racconto anche l’evocazione del suicidio di una serva del prete giovine cacciato a sassate dal paese.

Nell’ultima storia tragica, ironicamente intitolata “L’ulivo della pace” (pp. 63-76) una scena diversa più popolata da uomini e donne intenti alla raccolta delle olive fa da sfondo a un triangolo di sguardi e brevi battute tra Donata, giovane figlia del padrone, Antoniuccio, il suo promesso sposo, e Costantino, un giovane servo pastore. A fine giornata si

146 spostano tutti nel frantoio e qui il pastore spinge il suo rivale nella vasca dove viene travolto dalle macine, tra l’orrore di tutti. Si fa avanti “la bella Donata” che bacia la bocca del giovinetto, stringendogli la testa tra le mani. “Il gesto era materno, ma la furia vorace della bella bocca tradiva i bollori della carne nella giovinetta indifferente e calma” (p. 73). Queste precoci ‘prove d’autore’, eccessivamente compiaciute nei dettagli 60 pur nella forma breve del racconto-scena sono già le prime pietre dell’esigenza più volte ribadita da Bonanni di concentrare il suo sguardo sulle personagge, qui ancora esercitato nel quadro ristretto della montagna abruzzese, ma successivamente aperto a scenari diversi e controversi. Già nel racconto “Il mostro”, pubblicato nel 1949 e secondo racconto della raccolta Il fosso, l’ambiente è una casa borghese di città, dove il punto di vista di una zia pedagogista si confronta con la maturazione sessuale del nipote adolescente, tra l’inerte compiacenza della madre e la patetica proposta alternativa del padre.

Le riflessioni tutte soggettive delle Noterelle (1932) nascono dalla continua osservazione della maestra Bonanni, soprattutto preoccupata delle differenze che il sesso imprimerà su quegli alunni ancora bambini, e in particolare del condizionamento delle bambine di fronte al risveglio di “istinti fatali dell’amore e della famiglia, ormai orientati” 61. Sulla stessa linea un densissimo pezzo, ora in Vietato ai minori (1974), che riporta stralci delle conversazioni tra le bambine su episodi di molestia sessuale, con una naturalezza quasi insostenibile per la maestra Bonanni, si conclude con la decisione di cominciare da subito educazione sessuale a scuola62.

Perfino la storia dell’orfana Men (in amarico “una piccola cosa”) che leggiamo nel romanzo coloniale per ragazzi del 1939, ma già tratteggiata in un racconto del novembre 1936, quindi celebrativo della recente e vittoriosa guerra di Etiopia, sottolinea l’autonomia e l’irruenza della piccola protagonista, l’indifferenza e l’incuria della parente Miriam, e l’affettuosa attenzione di Fil, la donna considerata da tutti una strega, che la tiene con sé e la educa con affetto materno. Il gioco dei rispecchiamenti ci porta alla non-madre, perché matrigna, narrante soggettiva dell’ultimo romanzo Le droghe (1982)63.

Volevo ritrovare la traccia originaria del cammino intellettuale di Laudomia Bonanni, e l’ho trovata. Il carattere bozzettistico di stampo dannunziano riconoscibile in questa produzione non esaurisce la carica sovversiva della sensibilità della scrittrice solitaria, qui maestra seriamente incardinata nelle funzioni richieste da un regime totalizzante Dio, patria e famiglia, poi lavoratrice instancabile della parola scritta. “Il mio impegno, se così posso chiamarlo, consiste nel mettere al mondo i miei libri [che] se hanno forza e valori intrinseci […] opereranno da soli” 64. Non si arrende Laudomia ai caveat lanciati da La civiltà cattolica (1 aprile 1950): “ci auguriamo di vederla lontana da certe indagini psicoanalitiche. Rispetti la Bonanni le sue native qualità di donna e lasci ai pornografi il gusto di affacciarsi sui segreti dell’istinto”65.

“Per le donne è sempre esistita l’esigenza di analizzarsi […]. Persino le donne analfabete sono capaci di farlo, perché arriva il momento in cui si accorgono della loro vita deludente” 66. Lei stessa dichiara di non aver fatto una psicoanalisi integrale, bensì di aver passato dieci anni di una nevrosi acutissima, con uso massiccio di psicofarmaci. Da questa nevrosi è uscita lavorando con se stessa e con il sostegno di Nicola Perrotti, uno dei fondatori della Società Psicanalitica Italiana, noto anche per essere stato l’analista di Giuseppe Berto 67. Nel 1964 esce L’adultera, nel 1974 esce Vietato ai Minori. Questo intervallo di tempo, segnato anche dall’affrancamento dalla casa paterna, impegna Bonanni in un’intensa e prolungata autonalisi, mai disgiunta dall’incessante osservazione del mondo in cambiamento, in particolare del mondo delle donne. Quando nel 1969 fu noto attraverso un’inchiesta dello Spiegel che il vescovo ausiliario a Monaco di Baviera era il comandante tedesco responsabile della strage di Filetto (7 giugno 1944), Bonanni scrive per il Giornale d’Italia un lungo elzeviro su “Le donne di Filetto” 68. Anche in questo testo alterna la scena del presente – l’impatto della sua visita a Filetto a venticinque anni dalla strage – con quella della memoria testimoniata dalle donne, che non vogliono vendetta, ma solo che tolgano a “quello” (che non nominano) l’abito del pastore con cui si è coperto. Le donne di Filetto, come le tante donne che ha visto nei paesi, sono vittime dell’ingiustizia; un’ingiustizia che si manifesta in molte forme di pregiudizio, discriminazione, violenza, puntualmente rappresentate da Bonanni in tutta la sua produzione letteraria definibile perciò scabrosa, forse provocatoria, certo femminista.

Dopo questo decennio di riflessione silenziosa69 (“Sono arrivati i decenni che contano per secoli” dice nel capitolo di congedo di Vietato ai minori che ho citato sopra) scatta una sequenza di testi in cui l’esigenza soggettiva di rappresentazione e di comunicazione dalla parte delle donne si fa sempre più impellente.

È più incline anche a rispondere alle interviste. Aveva deciso di non scrivere più, perché le sembrava di avere già detto tutto quello che sentiva “vivo e necessario”, e che le storie contenute nei libri di narrativa che uscivano a valanga stonassero con l’insieme del mondo di oggi. Poi ci ripensa. E lo dichiara nella lunga intervista del 1974 già in parte citata70. Vietato ai minori che segna il suo ritorno alla scrittura ha suscitato un fortissimo interesse, convegni e

147 recensioni. “È passato, secondo me, il momento dell’invenzione, ora tutti dobbiamo dare un apporto concreto alla società” (27 giugno 1975)71. E “ho imparato a diventare più attenta al mondo che mi circonda. Ho scoperto che il mondo mi interessa straordinariamente e sento di dovermene occupare” (agosto 1981) 72. E sulle donne:

Oggi la donna si è molto evoluta, e nonostante si dica che il divorzio, per esempio, nuoccia alle donne, io credo invece che sia una conquista anche, e soprattutto per loro (24 giugno 1974)73.

Sono stata assiduamente e fermamente dalla parte delle donne […]. La crescita interiore postulata dal femminismo si è risolta in parziali conquiste. Ma, in una, completa: nel persuadere il mondo maschile a certe riflessioni. […] Bisogna finalmente intendersi sulla parola femminilità. Respingere comunque la parola: basta donna, nel suo significato pieno. […] Le suffragette inglesi che si buttavano sotto gli zoccoli dei cavalli […] affrontarono il ridicolo e lo scandalo non meno delle manifestanti dell’ultimo decennio. E ottennero il voto. Gli eccessi e perfino la violenza sono a volte necessari per vincere le ingiustizie radicate (25 gennaio 1979)74.

Nel marzo 1979 esce Il bambino di pietra, e tre anni più tardi Le droghe (marzo 1982). Sono gli ultimi due romanzi (se si esclude La rappresaglia, pronto nell’85, ma che ha la genesi complessa che ho cercato di descrivere sopra) che Bonanni scrive senza antecedenti versioni, o frammenti preparatori noti. Narrati entrambi alla prima persona non sono riconosciuti dalla scrittrice come autobiografici, ma certamente lo sono come autobiografia del pensiero e della scrittura. Entrambe queste narrazioni seguono il percorso di maturazione delle personagge narranti, in relazione controversa e sofferta con altri membri della famiglia, e in dialogo di autocoscienza con se stesse.

Il bambino di pietra[L] – che ha come sottotitolo nel frontespizio “Una nevrosi femminile” 75 – inizia con una frase colloquiale: “E va bene provo a scriverlo”. La scrittura è il proposito iniziale, la scena del presente con cui la personaggia narrante si offre alla nostra lettura. È la scrittura di se stessa, che l’analista a cui si rivolge per aiuto le suggerisce di fare, anche perché lui è in procinto di partire. A intervalli nel corso della narrazione il rovello della scrittura si riaffaccia alla coscienza della protagonista, incerta sulla sua presunta destinazione terapeutica.

Cassandra, personaggia narrante, si presenta come una donna emancipata, anche spregiudicata, ma teme le indagini dell’analista sull’attività sessuale – “Altro retaggio delle famiglie in cui non era (non è?) contemplata la sessualità femminile” (p. 11). Ma la consultazione clinica diventa più un incontro di vecchia conoscenza, giacché il medico a cui si è rivolta è il figlio del vecchio medico che frequentava la casa di campagna della famiglia, scena di buona parte dei suoi ricordi.

Scrive ogni giorno. Si snodano le scene dell’infanzia con le due sorelle più grandi destinate al matrimonio, un fratello da lei molto amato, poi morto di cancro, due più giovani, poco interessanti. Una madre autoritaria, un padre ignaro, due zie nubili in casa con loro. Da bambina a sentir nominare le ovaie, pensa allo sforzo per mettere il germe, compassionando suo padre “atticciato e con la pancia, soggetto a simili sforzi per farci nascere” (p. 18). Intuisce già da bambina che sua madre non la voleva, era stato il padre a volerla.

Il repertorio delle sfide che si aprono alle donne è squadernato in una molteplicità di situazioni che la protagonista riferisce e indaga, passando dal tempo[P] della memoria a quello del presente, sempre mettendo se stessa in gioco. I desideri, le contraddizioni, la costruzione della consapevolezza del sé: “Per inerzia mi sono lasciata sposare“ (p. 77). Avverte la propria mancanza di un libero istinto. Il bambino di pietra del titolo è la scultura funeraria che lo scultore diventato suo amico aveva fatto per la tomba di un suo figlio morto; ma è anche la notizia di un feto che si pietrifica dentro l’alveo materno, il litopedio – che ritrova in vecchi ritagli di giornale rimasti tra le pagine di un libro, l’Edipo, lasciato in una valigia che non apre da trent’anni. Non ricorda il motivo per cui allora li avesse messi da parte. Rimozione? Reperti per l’analista: “È stato come incontrarsi faccia a faccia all’improvviso in uno specchio sempre allarmante” (p. 139).

Non intendo raccontare la sequenza degli eventi, delle suggestioni e dei pensieri che assumono coerenza nella coscienza della personaggia narrante, offrendola alla lettura. Attraverso l’espediente della scrittura terapeutica di una nevrotica passa il confronto critico – e ribelle nella prospettiva bonanniana – con grandi temi come la famiglia e la maternità, l’adulterio, l’aborto, il rapporto sessuale, l’omosessualità, la morte, il suicidio, l’eutanasia, la violenza, e anche con significativi dettagli. Mi colpisce ad esempio un’icona ricorrente: il bacio. Scorrono lungo la narrazione scene di baci: nel racconto di una zia nubile, con il conseguente schiaffo alla sorella grande Ester che aveva osservato: “E non ti si bagnarono le mutande?” (p. 25); il suo bacio al ragazzo malato vicino di casa morto: “Me ne innamorai allora perché era morto…” (p. 60); il bacio dell’uomo di trentasei anni quando lei ne aveva sedici con cui si intratteneva durante un soggiorno a Parma a casa dello zio: “Avevo tenuto la bocca chiusa. Perché stringi le labbra? Chissà perché, per ignoranza, mai ho ricevuto i suggerimenti dell’istinto. […] Ero sopraffatta dal mio corpo” (p. 70); il bacio della

148 buona notte che la sorella dà al figlio già grande: “E se il mito di Edipo andasse rovesciato? Se fosse la madre a desiderare nell’inconscio a giacere con il figlio?” (p. 129); il bacio tra la nipote ribelle e un ragazzo visti da lei nell’androne: “Senza smettere di manovrare la bocca ha girato gli occhi guardandomi con una sorta di ostentazione provocatoria. Sono passata avanti imperterrita, ma ero una zia imbarazzatissima e una donna molto confusa” (p. 137).

La nipote (Amina, come la zia del bacio fuggitivo), cacciata dalla madre, andrà a vivere dalla zia. Al ragazzo del bacio aveva chiesto complicità, per provocare i suoi genitori: “Sono così pieni di pregiudizi che ti fanno dare da matti. […] E stanno sempre a proibire. Ma tu, dice, non ti formalizzi e non ti scandalizzi mai” (p. 164). E del resto Amina per convincere la madre della sua differenza da lei, era pronta a farsi mettere incinta. Cassandra è contenta di tornare a Roma con la nipote, prova solidarietà femminile, “[n]on escludo che ci sia del morboso, quel tanto d’insopprimibile nella mia natura” (p. 166). Con lo stesso distacco affettuoso non risponde al marito che asserisce compiaciuto “abbiamo una figlia”. E chiosa: “Guai a credere di possederli, che si siano procreati o no. Nessuno ha figli” (p. 169).

Alla rabbia della sorella esasperata con la figlia che vuole fare come la zia Cassandra quando la accusa (“Tu, tu, non ti sei fatto nemmeno un figlio”) la narrante dice a se stessa: “Non mi sono fatto un figlio. Forse ho scritto un libro?” (p. 162). Riecheggia la domanda del narratore di La rappresaglia e la già citata dichiarazione di Bonanni del 1961: “il mio impegno consiste nel mettere al mondo i miei libri. […] Essi opereranno da soli” 76.

Nel successivo Le droghe, del 1982, la narrazione soggettiva articolata in quattro parti disuguali (“Infanzia della bambina”, “Infanzia del bambino”, “Le fughe”, “La droga”) dove la bambina è lei stessa, orfana di madre dalla nascita, il bambino è il figlio dei vicini di casa, diventato orfano della madre a due anni, e figlio dell’uomo che la narratrice sposa quando il bambino ha quattro anni. La scoperta del mondo del bambino e della bambina avviene per lo più nello stesso compiacente ambiente marino dove passano i mesi d’estate. Il confronto della donna narrante con il mondo in cui cerca di affermare la propria autonomia passa attraverso l’attenzione costante al figlio non figlio, e al suo desiderio di autonoma fuga che gradatamente lo porta al vortice della droga. “Non sarà che abbia io stessa propensione alla droga? Che l’abbiamo ormai un po’ tutti? Che siamo tutti spaventati e propensi alle fughe?” (p. 170). Nelle ultime pagine del testo si prepara ad accogliere la richiesta del ragazzo che gli chiede in una telefonata dal carcere di portarlo “non a casa, non a Roma. Ce ne andiamo al mare?”, chiudendo il circolo per “ricominciare da capo.” (p. 175)

La scrittrice aveva detto all’uscita de Il bambino di pietra:

il tempo che viviamo mi interessa moltissimo, credo che certi estremismi siano necessari, che persino la violenza sia necessaria, per un periodo […]. Non sono molto femminista, ma anche il femminismo serve. Quello che io oggi trovo è che semmai non c’è abbastanza progresso. […] Oggi c’è un eccessivo compiacimento nello scoprire, per esempio nel parlare di rapporti diversi da quelli soliti. Ebbene, non sono diversi da quelli fra marito e moglie, che nessuno sente il bisogno di descrivere minuziosamente. Sono cose normali, Ma se tali sono, perché farne dei casi?77

E anche:

La donna è la più forte ma, come gli ebrei, non si è ribellata mai abbastanza78.

Laudomia Bonanni muore nel 2002. Ha attraversato, dunque tutto il secolo del femminismo, lasciando una traccia importante alle “donne di domani”, perché la loro crescita ribelle “aiuti finalmente il mondo a farsi”. Come si può trascurare la sua testimonianza coraggiosa e quella delle sue tante personagge? “È un fatto che la rivoluzione è femmina” (IV, 4, p. 37).

149 TRACCE PER ALTRI ITINERARI

150 Percorsi per mappe immaginarie

a cura di Serena Guarracino

Muoversi all’interno di un volume intricato come questo può rivelarsi un’esperienza di lettura coinvolgente, ma anche dispersiva: molti sono i temi affrontati dalle autrici, con stili e sguardi che celebrano le differenze nelle scritture delle donne sul rapporto con la terra e i paesaggi che ognuna di noi abita. Alcuni – pochi – dei temi più presenti emergono dai titoli delle sezioni e dei singoli scritti, ma molti sono gli echi e i rimandi che ogni testo rivela rispetto agli altri.

Questa sezione suggerisce percorsi alternativi, identificando dei cluster di parole chiave e indicando alcuni passaggi dai diversi contributi che suggeriscono, più che delle definizioni vere e proprie, delle tracce di senso. L’intenzione non è quella di compilare un elenco completo delle ricorrenze dei diversi lemmi (che potete invece esplorare utilizzando la funzione ‘cerca’ del vostro lettore), e neppure di dare una rappresentazione esaustiva del significato che un dato concetto riveste per una o più autrici all’interno del volume.

Lo scopo, piuttosto, è quello di far emergere riflessioni che attraversano il volume sottotraccia; di mostrare come emergano esigenze comuni – come quella di mettere in discussione il ‘punto di vista’ come mezzo di interpretazione del mondo – e associazioni tra concetti non necessariamente vicini come ‘ricostruzione’ e ‘resistenza’. Per questo motivo si sono evitati i temi già definiti dalle sezioni, come le parole, le rovine o il desiderio; così come tematiche più generali come il paesaggio o il pensiero femminista, qui declinato in diverse forme; si sono anche selezionate citazioni che avessero senso anche estrapolate dal loro contesto, così da poter anche offrire una lettura lineare di questa sezione. Oppure ci si può far guidare da queste suggestioni per passare da un contributo all’altro, ed esplorare le scritture raccolte in questo volume lungo sentieri meno battuti.

Sguardo – punto di vista – rappresentazione

[*] L’uso di termini ‘scientifici’ apparentemente neutri ed oggettivi può nascondere l’incapacità di vedere la ricchezza e la complessità dei significati che la terra assume a seconda di chi la guarda, di come e perché la si guarda. (Lina Calandra)

[*] Come accade a L’Aquila, sin da quel 6 aprile 2009, con la falsa narrazione che ha influenzato e corrotto “il come sei guardato… il sentimento condiviso nel guardarsi e nel guardare”. (TerreMutate)

[*] Oggi i concetti di paesaggio e di mappa sono stati largamente messi in discussione e definiti come una forma di rappresentazione e non un oggetto empirico. Non sono più i paradigmi visuali dell’ansia ontologica nata dai tentativi frustrati di definire una cultura nazionale, ma un luogo di dissimilarità produttiva dove le connessioni della cartografia suggeriscono una trasformazione percettuale e sempre attiva. (Roberta Falcone)

[*] Per ricostruire la complessità di un evento che ci ha sconvolto, per fare emergere i ricordi dall’evanescenza, scrive Susani nel suo libro-reportage, non abbiamo altro che il nostro sguardo. “Forse l’unico modo per capirci qualcosa è raccogliere gli sguardi, metterli l’uno accanto all’altro e poi provare, per quel che dura, a tenerli insieme”. (Gisella Modica)

[*] Andando nel Burkina Faso nel 2012 sapevo che avrei dovuto fare i conti con l’Africa, cioè con un immaginario e

151 una costruzione narrativa, discorsiva e ideologica che secoli di colonizzazioni hanno istituito in Europa, in Occidente e nel mondo. Impossibile sottrarsi, salvo ad esercitarsi in permanenza ad aggiustare lo sguardo, le parole, i paesaggi e la mente. Per riuscire ad aderire al presente e a stare nella realtà mano a mano che questa si presenta. Non è un esercizio facile. (Nadia Setti)

Catastrofe – Disastro

[*] Hai notato quanti fenomeni naturali di recente? Terremoti. Vulcani. Siccità. Fenomeni naturali apocalittici. Aumento delle malattie. Un tempo si poteva sempre pensare, quale che fosse il tuo problema personale, però c’è sempre la natura. […] Ma adesso non è più possibile. Spiacente. Nessuno mi ama e il sole mi ucciderà. La primavera tornerà e non crescerà niente. C’è chi si preoccupa per questo. Ma a me, mi fa sentire importante. Io ci sarò ancora quando il mondo così come lo conosciamo finirà. Sarò testimone di una catastrofe senza precedenti. (Skriker, personaggia di Caryl Churchill, cit. da Paola Bono)

[*] Le problematiche legate all’impatto sociale e psicologico delle catastrofi naturali, sull’individuo e sulla comunità colpita, sono peraltro estesamente dibattute in letteratura, con consenso sul fatto che il rilassamento, e nei casi peggiori la completa rottura, dei legami sociali sui quali si fonda la comunità è uno degli effetti più rilevanti dell’evento catastrofico: non solo distruzione degli edifici, quindi, ma anche disgregazione della comunità. Deriva, tra le altre cose, da quello che Fenoglio chiama ‘lutto culturale’, determinato dalla perdita del mondo dei significati e dei luoghi sociali che costituivano gli usi, le ritualità e la geografia della comunità. (Laura Tarantino)

[*] Giacché colui/colei che fa memoria la fa anche per altri e per altro, per tutto l’altro da sé in cui consiste la sfera del vivente, di cui comprende l’evidenza e condivide la sorte. Si amplia così, nella dimensione del disastro, l’idea di destino, che da individuale diviene corale e coniugativa di umani, animali e piante, terre e acque, aria e luce. (Monica Farnetti)

[*] [Adrienne] Rich […] mette in evidenza, in un certo senso, l’evento del disastro; il suo accadimento quasi come occasione per gettare via le mitologie del patriarcato, dei ruoli di genere, per tuffarsi e riscrivere i propri nomi su altri libri. (Marta Cariello)

[*] La giusta comprensione delle catastrofi da noi di continuo inscenate rappresent[a] il presupposto fondamentale per l’organizzazione sociale della felicità. (W.S. Sebald, cit. da Paola Di Cori)

[*] I luoghi sono quelli del distacco ma anche di un rinnovato ritorno, come una soglia che non resta più in penombra ma si fa porta a cui bussare rumorosamente per dire ‘Siamo qui e pretendiamo una possibilità di felicità’ […]. Le creature che sono sopravvissute alla catastrofe hanno avuto il coraggio di metabolizzare ciò che è accaduto e non se ne crucciano più; vanno avanti apprendendo che il mondo non è più lo stesso, che vorticare sulla stessa angoscia non ha alcun senso, infine che forse si può ancora nominare il quotidiano. (Alessandra Pigliaru)

Cambiamento – Cambiare – Libertà

[*] Non sappiamo più controllare i cambiamenti che produciamo, è una piaga moderna, non siamo in grado di gestirli, perché la situazione è troppo complessa e sono troppo potenti le capacità di trasformazione. È difficile dopo ricrearsi un’armonia, un paesaggio interiore. (TerreMutate)

[*] In una società frammentata, con tutte le principali istituzioni a gambe all’aria e in dissolvenza, è difficile pensare a idee o parole d’ordine unificanti come avevamo potuto proporre quarant’anni fa. O meglio, noi alcune di quelle idee – differenze, solidarietà, giustizia – le abbiamo assimilate e anche trasmesse; ma ormai il campo semantico che le aveva caratterizzate è cambiato molto. (Paola Di Cori)

[*] La questione di quale città vogliamo non può essere quindi separata da altre questioni: che tipo di persone vogliamo essere, che rapporti sociali cerchiamo, che relazione vogliamo intrecciare con la natura, che stile di vita vogliamo. Il diritto alla città è anche il diritto di cambiare e reinventare la città. (Laura Tarantino)

[*] Alcuni soggetti storicamente esclusi dalla fruizione di determinate risorse, come le donne, hanno conquistato nuovi spazi e libertà, avendo operato anche sul piano di un poderoso lavoro simbolico. (Lorella Reale)

152 [*] Sono cambiata per sempre. Voglio dire/ perdonami/ perdonami/ perdonami/ tu a cui ho fatto del male/ ti prego portami/ con te. (Antjie Krog, cit. da Roberta Falcone)

[*] Se […] quel passato maledetto non venisse riattraversato, diventerebbe via via più indicibile, resterebbe per sempre intoccabile, e si sottrarrebbe irreparabilmente al compito della vita umana che è quello, secondo le parole di María Zambrano, di “estrarre dalle cose passate il loro senso, per trasformare l’accaduto in libertà”. Impariamo da lei […] mobilitando a tal fine tutto l’accaduto perché il processo del fare memoria, pur nella sua terribilità, possa produrre la grazia di un bagliore, che ci illumini su quanto è avvenuto e ci consenta di far davvero passare il passato, lasciandoci liberi in sua compagnia. (Monica Farnetti)

[*] La mia esperienza di rovina è stata una esperienza estremamente felice, di libertà sconfinata. (Carola Susani, cit. da Gisella Modica)

[*] E si può, se si vuole, cambiare il mondo, conservando la consapevolezza [...] che “noi partecipiamo al processo che stiamo studiando”. (Nicoletta Vallorani)

Sicurezza

[*] Cosa intendo dire? Cosa ha a che fare l’amore con la devastazione, con i cambiamenti catastrofici, con un continuo esilio dalla propria casa e dal proprio sentimento di sicurezza e di rifugio? Cosa ha a che fare l’amore con la perdita, con tutto quel che sembra esserne l’opposto assoluto? (Anne Michaels)

[*] All’Aquila, un paio di giorni dopo il terremoto un’ordinanza del sindaco dichiara inagibile l’intero patrimonio edilizio della città e dichiara ‘zona rossa’ il centro storico, così come i centri storici dei paesi del territorio comunale. Una decisione volta a garantire la sicurezza dei cittadini […] ragionevole nell’immediato, ma con conseguenze pesanti sulla collettività nel lungo periodo: a seguito dell’ordinanza vengono poste delle transenne, e istituiti check-point militarizzati, tra i cittadini e le loro case, tra i cittadini e le loro vite […]. Inizia la storia di città negata. (Laura Tarantino)

[*] “Si-curezza” deriva da sine cura, cioè senza preoccupazioni: senza problemi, è quello stato (che si vuole raggiungere) in cui si è certi: “Chi è sicuro è colui che rinuncia alla cura”. Quindi nell’etimo la parola sicurezza coincide con incuria, noncuranza. (Annalisa Marinelli)

[*] Sicurezza, da sine cura: la nostra esperienza è stata passare da un mondo sicuro in uno insicuro, per tornare (tendere) ad una nuova sicurezza […]. Noi facciamo un investimento sulla sicurezza e quando, per qualche ragione, diventiamo insicure, cerchiamo altre sicurezze, è una spinta vitale. (TerreMutate)

Normalità – Normalizzazione

[*] Ma la guarigione della comunità ferita non può essere raggiunta guardando solo alla distruzione degli edifici e alla loro ricostruzione materiale. Per confrontarsi con la complessità della catastrofe occorre cercare le relazioni tra aspetti apparentemente diversi e agire su di esse in modo sinergico durante l’intero processo di ritorno alla normalità. (Laura Tarantino)

[*] In un crescendo che dalla famiglia all’ambiente di lavoro al mondo intero vede espandersi menzogna, alienazione e ferocia, quel che infine più angoscia non è solo o tanto la pervasività della guerra in atto, quanto il suo livello di normalizzazione, la mancanza di qualsiasi “segno di resistenza o memoria di una alternativa etica”, l’adesione irriflessa dei personaggi a questo ecocidio senza regole e senza salvezza. (Paola Bono)

[*] Nella discussione che si apre nel gruppo di lettura emerge una definizione: “normalità critica”. Uscire dall’eterna nostalgia, dal rimpianto di ciò che non potrà più essere. (TerreMutate)

[*] La cifra femminile, nella scelta e nella rappresentazione dei territori che alle donne interessano, sembra definirsi proprio attraverso questa predilezione per uno sguardo intimo e insistente, capace di andare al fondo delle cose mantenendo una levità di rappresentazione, la fattualità che caratterizza il resoconto di una esperienza normale, che in qualche momento, per una contingenza specifica della storia ufficiale, diventa straordinaria. (Nicoletta Vallorani)

153 Appartenenza – Appartenere

[*] Dove si crea, dove si radica la nostra appartenenza ai luoghi in cui viviamo? E quando siamo spossessati della nostra relazione con un luogo, che cosa ci resta? (Roberta Mazzanti)

[*] Il terremoto… è stata la prima volta nella mia vita che ho sentito di appartenere a una comunità. Ho un gran rispetto per questo corpo morente che è la nostra città… ci vado per non lasciarlo in abbandono, bisogna incoraggiarla questa città morente, tenerle compagnia. (TerreMutate)

[*] Ero confusa da giovanissima. Molto confusa. Sentivo di appartenere solo a me stessa, ma poi intorno non trovavo appigli geografici a cui aggrapparmi. Non ero somala per i somali, non ero italiana per gli italiani. Mi sentivo solo romana perché la città era l'unica cosa che davvero mi contenesse. Poi ho capito che il vero contenitore della mia identità stava dentro la Storia. (Igiaba Scego)

[*] Che cosa produce spaesamento? Vivere a contatto permanente con la nuda terra, o in abitazioni improvvisate dai tetti pericolanti? […] Ma è possibile che sia io a non saper leggere la carta, a non riconoscere le zone e i segni di appartenenza: se mi colpiscono le strade e gli abitati è perché sono riconoscibili, rintracciabili, dalla mia grammatica e sintassi geografica. […] L’assenza di costruzione non è il vuoto, non è la distruzione. Non è la natura né il selvaggio. Lo spaesamento ha bisogno di un’altra definizione: entrare in un altro mondo che però è il mondo comune a migliaia di persone, animali, piante. C’è chi è spaesato e chi per il quale lo spaese è il suo paese. (Nadia Setti)

Corpo – carne

[*] Entrambe [corpo femminile (e femminilità) e natura (e territorio)] sono accomunate dallo stesso stigma: il possesso di un potere rispetto al quale il corpo maschile si è percepito come marginale. Un potere che andava pertanto rovesciato attraverso gli strumenti della svalutazione, del controllo, della tutela, dell’oggettivazione e strumentalizzazione al fine dello sfruttamento. Questo ha condotto il corpo delle donne e la terra a un destino molto simile. È stato riservato loro lo stesso trattamento caratterizzato culturalmente da alcune rimozioni collettive. (Annalisa Marinelli)

[*] Naturalmente i temi dei corpi violati mi interessano. Perché il mio paese di origine è un corpo violato. È stato colonizzato, maltrattato, sono stati sversati rifiuti tossici nel suo mare meraviglioso, la gioventù viene traviata, si vendono armi che rendono ricchi i trafficanti. Per forza poi una persona si occupa di violazioni. È quasi un leitmotiv della storia dei somali. Pure l’Italia anche se in maniera diversa è stata violata. (Igiaba Scego)

[*] Quando tocchi il mare, tocchi l’altra riva. Qui, posando la mano sulla polvere del deserto, tocco la terra dove sono nata, tocco la mano di mia madre. (Jean-Marie Gustave Le Clézio, cit. da Giovanna Parisse)

[*] Corpi e paesaggio sono la stessa cosa. Noi siamo il paesaggio che abitiamo […]. Come noi lo modelliamo, così lui modella noi, soffriamo delle stesse malattie, delle stesse nevrosi […]. La mancanza di bellezza, ma soprattutto di possibilità di paesaggio urbano, incide sui nostri corpi. (Simona Vinci, cit. da Gisella Modica)

[*] La città che attraversavi senza rendertene conto, dandola per scontata, con il terremoto si è fatta carne, carne tua, carne esposta. Il dentro, l’intimo si è fa pubblico, si espone dolorosamente. (TerreMutate)

[*] Il vuoto interiore dei palazzi era diventato il solo segno architettonico del centro storico: scale, camere, cucine, cantine, sbarrate dalle impalcature di legno e metallo, come fasciature di un corpo malmenato, ferito, rotto, moribondo o cadaverico. Convalescenza o morte ritardata non solo della città come struttura architettonica ma della cittadinanza, degli abitanti assenti, scomparsi, spostati. (Nadia Setti)

[*] Corpi disfatti, privati della loro individualità, territori violati. […] Nei personaggi narrati da Pariani di umano non c’è più nulla, ché è fra loro, fra gli inermi, che si nasconde l’‘inerme’ che li fa a brandelli, perché distrutti e degradati non sono solo i luoghi ma anche la psiche gli affetti le relazioni. (Luisa Ricaldone)

[*] Il corpo indietreggia davanti all’immagine dello spazio, del foglio scritto. Gli spazi continuano anche senza di noi, è vita che si addensa in qualcosa di concreto al variare della luce, la luce della notte breve terrena che coglie una

154 madre e una figlia di pochi anni, in una casa su una piccola isola di un’isola del Mediterraneo, di fronte al porto in cui entrano i traghetti per allontanarsi, poi, verso altri porti lontani e invisibili. I corpi si divaricano nel seguire le tracce delle navi in partenza, è quasi un non esserci o un esserci appena. (Gabriella Musetti)

[*] L’inversione della realtà, libera e liberata, l’interrogazione su di sé, senza garanzie, autentica, presuppongono il vuoto, unica dimensione possibile in cui far scaturire l’Io della donna, un “Io come vuoto culturale che costituisce il presupposto per una riscoperta del nostro corpo, cioè di una nostra cultura”. (Paola Meneganti)

Dolore – Perdita – Lutto – Trauma

[*] Quello che il dolore ci insegna è diverso da qualunque altro tipo di sapere, perché è un sapere che è stato messo alla prova fino al limite più estremo. E per questo motivo è un sapere di cui possiamo fidarci. (Anne Michaels)

[*] Questo è in genere il senso del lutto: noi ci identifichiamo, noi diventiamo il morto. Pensi che la perdita uccida pure te… è quello che ci fa provare dolore quando rivediamo la città, la rivediamo com’è e risentiamo il dolore della perdita. Tu ti identifichi in tutto quello che hai perduto. Ci vuole un’operazione di distacco, in modo che la città ridiventi la città, e il tuo io ridiventi il tuo io, che possa progettare. (TerreMutate)

[*] Cos’hai perso? chili di peso / i miei disegni / quadro da salotto / foto d’infanzia / libri prestati / quadernone di Filosofia / Simposio di Platone (Marinella Manicardi)

[*] Non c’è un lutto più doloroso di un altro, ma quando una serie luttuosa di eventi si sussegue, togliendo il respiro e lasciando a chi resta un senso di impotenza soverchiante, per voler vivere-nonostante-tutto si può ripartire solo dalla fiducia nel divenire. (Giuliana Carli)

[*] Lei ricordava solo un vecchia torre che, come in un universo fatato, usciva dall’acqua e la leggenda, che la nonna le aveva raccontato, di una principessa imprigionata per un amore sbagliato, che ogni notte faceva sentire il suo pianto. Ma ora il pianto che sente è solo quello di sua madre, di tutte le donne della valle che nella notte silenziosa celebrano il lutto della mancanza d’acqua. (Alina Narciso)

[*] La scrittrice e architetta Suad Amiry [...] nel descrivere la sua identità di donna palestinese, raccontò che se è vero che la Palestina è occupata, è anche vero che la Palestina ‘la occupa’, occupa la sua esistenza tutti i giorni; non le è mai possibile ‘dimenticarsi’ di essere palestinese. Il trauma dello sradicamento abita dentro ogni gesto degli abitanti della terra negata. (Marta Cariello)

[*] Trovare le parole per dire del proprio stato d’animo cercando i nessi tra sé, il luogo presente e il passato è uno dei modi, forse il più efficace, che agisce da riparazione al trauma dell’abbandono, salva dall’oblio i luoghi in rovina, e ricostruisce il legame col futuro. (Gisella Modica)

[*] Per un emigrante tutto è perduto salvo le parole del proprio dialetto materno. Per chi ha perso il proprio paese è la lingua che diventa la patria. Nel paese-lingua si cancellano le frontiere dello spazio e del tempo. (Laura Pariani)

[*] Le scrittrici che amiamo questo ci insegnano e per questo, anche, ci sono indispensabili. Perché i loro libri immancabilmente si prendono cura del mondo, riscrivendone i paesaggi diversamente violati e profanati, nella consapevolezza della sua fragilità e della sua costitutiva, ma talora più impellente, esposizione al rischio della perdita. (Monica Farnetti)

Nostalgia – Tempo

[*] Questo è una comunità, è questo la storia: la nostalgia guarda indietro, ma la storia guarda avanti. (Anne Michaels)

[*] Il repertorio delle sfide che si aprono alle donne è squadernato in una molteplicità di situazioni che la protagonista [de Il bambino di pietra] riferisce e indaga, passando dal tempo della memoria a quello del presente, sempre mettendo se stessa in gioco. I desideri, le contraddizioni, la costruzione della consapevolezza del sé […]. (Maria Vittoria

155 Tessitore)

[*] La nostalgia, dunque, appare in questi documentari nella sua connotazione più intima e profonda, come dolore di un ritorno che non potrà mai essere attuato, perché implicherebbe un viaggio nel tempo, piuttosto che nello spazio. È una nostalgia smagata e quasi cinica, che si nutre di affetti che si sanno perduti e che tuttavia non rinuncia a lodare l’importanza della resistenza anche nelle situazioni in cui essa pare una guerra perduta. (Nicoletta Vallorani)

[*] Il tempo è negato alla città, che non ha più diritto ad un tempo presente: una città che può vivere al passato, nel racconto di quello che era, ed eventualmente nel futuro, come attesa e distanza da quello che potrebbe essere. […] La città avrebbe dovuto sopravvivere ai suoi cittadini, le città lo fanno, le città in qualche modo ‘sono il tempo’, passato, presente e futuro. Ci si aspetta che il tempo continui a scorrere, ma chi entra nel centro storico dell'Aquila ancora oggi trova un eterno 6 aprile 2009. (Laura Tarantino)

[*] Mantenere il legame con i luoghi e le persone perdute per sempre, sperimentare una nostalgia che sia come “un luogo aperto”. [...] La nostalgia, che Anne Michaels chiama longing, è mancanza che si fa desiderio, tensione verso l’Altro, sia persona, animale, o pietra: il mondo è un sistema complesso di inter-relazioni, di correnti affettive, di materialità che tramite corrispondenze e attriti sono in continua metamorfosi. (Roberta Mazzanti)

[*] Se la nostalgia è così impostata, ti riporta solo a cose belle che hai vissuto, e tu riprovi solo emozioni positive: è importante poterti permettere di rivivere momenti belli. Ancora più importante è costruire ora cose, situazioni, che in futuro ti permettano di provare nostalgia. (TerreMutate)

Racconto – Raccontare – Tramandare

[*] Ma i racconti che provengono dall’“angolo oscuro di una femminilità esclusa”, nel caso delle donne lupo, comunicano oltre che una sofferenza immensa, una forza straordinaria, la capacità di resistere in un luogo dove l’estrema povertà determina l’asprezza dei rapporti umani e dove l’asprezza dei luoghi genera calamità, dentro e fuori gli esseri umani. (Luisa Ricaldone)

[*] La parola rawi, in arabo, deriva dalla stessa radice verbale di “abbeverarsi, dare da bere” [r-w-y] e anche dello “scorrere dell’acqua” e quindi “trasmettere, tramandare”. Dare da bere le storie, quindi, ma anche abbeverarsi di conoscenza, informazioni, e, ancora, far scorrere ovvero trasmettere. L’acqua, tuttavia, per sua natura straripa, o meglio, scorre in modo incontrollabile. E questa sembra già un’indicazione di quello che può accadere quando le storie delle donne di cui si parlerà in questo saggio iniziano a scorrere. (Marta Cariello)

[*] In una tale donna senza nome, che produce idee “perché ha scalpellato la mente” e che sente il bisogno di scrivere per lasciare un documento si identifica empaticamente Laudomia [Bonanni]. “Io avrei voluto che i miei romanzi fossero ancora più documento. Ma mi viene da scrivere come narratrice”, dice in un’intervista del 1974. Io che leggo non posso fare a meno di sovrapporre le due figure femminili. (Maria Vittoria Tessitore)

[*] I luoghi non sono mai luoghi casuali, ma fanno parte di una sorta di geografia emotiva. Per me i luoghi raccontano le storie nascoste delle nazioni (come nel caso di Roma Negata e il colonialismo italiano) o delle persone (che ricostruiscono Mogadiscio attraverso i loro ricordi). I luoghi sono autostrade della memoria, da percorrere a piedi nudi, con un po’ di incoscienza. (Igiaba Scego)

Memoria – Ricordo – Immaginazione

[*] L’Aquila come metafora di un Italia che distrugge ma non rigenera, che offende ma non ripara, un’Italia affarista, incolta, criminale e criminogena, che distrugge memoria e radicamento, concentrata nei vantaggi possibili nel tempo presente. (Paola Meneganti)

[*] Memoria, eccesso d’amore, ripensi solo alle cose belle. Oppure le rivedi a distanza le cose, e ti accorgi che forse le guardavi con occhio innamorato, ora le vedi meglio, questo ti aiuta a non rimpiangere. (TerreMutate)

[*] Quando siamo spossessati, cosa resta? Quel che resta sono i nostri corpi, la nostra memoria, e il linguaggio. (Anne Michaels)

156 [*] Le voci, il ricordo, la memoria ricostruiscono paesaggi interiori, strappano le macerie al loro silenzio, ridanno vita e forma al vivente. (Silvia Neonato)

[*] La Somalia non esiste più dal 1991, ora c’è un’altra Somalia al suo posto, città parzialmente anche ricostruite, ma io con quei luoghi non ho più un legame reale. La Somalia che ho conosciuto io è quella dei miei genitori, quella in cui sono stata da piccola. Ora abito il paese della mia immaginazione. (Igiaba Scego)

[*] Gli esseri umani che si incontrano nella mia poesia […] bastano a se stessi, come se fossero indifferenti alla letteratura, alla poesia, come se stessero in un libro, sì, ma solo perché lì sono finiti per via d’una catastrofe, intesa come capovolgimento. Capovolgimento passato, imminente, forse in sospeso, capovolgimento lento quanto i secoli che hanno costruito la nostra storia. E questo capovolgimento continuo, questa catastrofe, coinvolge anche i nostri simili più sottili per esistenza: cioè gli esseri qui immaginati in poesia. La loro esistenza in poesia non li esime dall’occupare un posto nel mondo… anche lo spazio dell’immaginazione è uno spazio del mondo. (Ida Travi)

[*] Alternando i ricordi di un ‘prima’ alle prospettive del ‘dopo’, la scrittrice [Natalia Ginzburg] ci rivela l’insegnamento più importante tratto dall’esperienza della guerra: “io so che anche con le scarpe rotte si può vivere”. (Sara Faccini)

Ricostruzione – Resistenza

[*] Ma che cosa significa ‘ricostruire’, quando siamo ben consapevoli che il passato non ritorna, che i morti non rimangono accanto a noi se non come fantasmi, a volte inquietanti e a volte consolanti? (Roberta Mazzanti)

[*] Non c’è ripetizione possibile. Inoltre, ogni ricostruzione è il risultato di scelte, qualche volta involontarie, ma molto più spesso volontarie. Ogni narrazione del passato è frutto di una selezione consapevole di episodi, protagonisti, dati e cifre, da mettere in primo piano. Non esiste mai, in nessun momento, riproduzione esatta di un tempo trascorso. (Paola Di Cori)

[*] Qualsiasi forza residua animi i superstiti di quell’esperienza, da sola non basta a ricostruirsi e ricostruire: ha un disperato bisogno di sostegno, di ascolto e solidarietà, di lavoro e comprensione degli eventi; servirebbero competenze mediche, scientifiche, e di estetica, intesa come disciplina da contrapporre nella teoria e nella pratica all’angoscia dei lutti. (Giuliana Carli)

[*] La ricostruzione (materiale ed immateriale) non potrà in alcun modo ripristinare il pre-esistente e l’interazione sociale deve diventare strumento fondamentale perché la comunità possa (ri)costruire questa nuova realtà condivisa. La ricostruzione del senso è quindi un processo sociale che ha luogo nella straordinarietà, nel vuoto, quello fisico lasciato dalla distruzione e quello organizzativo e procedurale lasciato temporaneamente dalle istituzioni e dalle organizzazioni codificate, anch’esse colpite dalla catastrofe (emblematica in questo è la foto simbolo del terremoto dell’Aquila, col crollo del Palazzo del Governo). (Laura Tarantino)

[*] Memoria e resistenza si saldano […] nello sguardo di una donna sullo spazio, riscrivendolo in un panorama coeso. (Nicoletta Vallorani)

157 Suggerimenti di lettura

a cura di Serena Guarracino

In questa sezione troverete l’elenco dei testi discussi all’interno del volume. Non si tratta di una bibliografia completa, bensì di una visione d’insieme delle letture che hanno ispirato le nostre autrici, per permettervi di tracciarne la presenza all’interno dei vari contributi. Cliccando sulle ancore corrispondenti potrete farvi trasportare nel punto del volume in cui ogni opera è raccontata o discussa. (Link cliccabili solo nella versione ePub)

Ali, Monica, Brick Lane, trad. P. Lerria, Milano, Il Saggiatore, 2008

Amiry, Suad, Golda ha dormito qui, a cura di Maria Nadotti, Milano, Feltrinelli, 2013

Anedda, Antonella, La luce delle cose. Immagini e parole nella notte, Milano, Feltrinelli, 2000

Arendt, Hannah, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, trad. A. Carosso, Milano, Mondadori, 1993

Arendt, Hannah, Vita activa, trad. A. Dal Lago, Milano, Bompiani, 2009

Bianchi, Rino, Igiaba Scego, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, presentazione di Nadia Terranova, postfazione di Andrea Branchi, Roma, Ediesse, 2014

Bonanni, Laudomia, Il fosso, Milano, Arnoldo Mondadori, 1949

Bonanni, Laudomia, L’imputata, Milano, Bompiani, 1964

Bonanni, Laudomia, Vietato ai minori, Milano, Bompiani, 1974

Bonanni, Laudomia, Il bambino di pietra, Milano, Bompiani, 1979

Bonanni, Laudomia, La rappresaglia, a cura di Carlo De Matteis, L’Aquila, Textus, 2003

Bottero, Bianca, Anna Di Salvo, Ida Faré (a cura di), Architetture del desiderio, Napoli, Liguori, 2011

Braidotti, Rosi, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, a cura di A. M. Crispino, trad. T. D’agostini, Roma, Donzelli, 1995

Braidotti, Rosi, Trasposizioni. Sull’etica nomade, a cura di A. M. Crispino, trad. T. D’agostini, Roma, Luca Sossella Editore, 2008

Calvino, Italo, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993

158 Campo, Cristina, Lettere a Mita, a cura di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 1999

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162 Le immagini

163 Mappe strappate: un invito a decolonizzare le rappresentazioni (pag. 10)

Il planisfero e il centro del Mondo (su proiezione di Mercatore) © Lina M. Calandra Da Mappe strappate - pag. 10

Il Polo Nord al centro del Mondo © Lina M. Calandra Da Mappe strappate - pag. 10

164 Un Mondo/planisfero ‘strano’: la mappa di Peters. Fonte: https://www.exposingtruth.com/misled-erroneous-map-world-500-years/peters-projection-map/ Da Mappe strappate - pag. 11

Un Mondo/planisfero ‘strano’: il mondo alla rovescia. Fonte: http://earthinvision.com/blog/2013/09/upside-map/#.V0yzx9fGJS8 Da Mappe strappate - pag. 11

165 Le stagioni in Niger © Lina M. Calandra Da Mappe strappate - pag. 11

166 Il mondo malinké nel villaggio di Sansanko (Guinea). Rielaborazione del “Plan de Sansanko” in Calandra, Gallese, Géographie humaine et analyse des processus territoriaux, p. 81 © Lina M. Calandra Da Mappe strappate - pag. 12

167 Mappe sognate (pag. 14)

Henricus Hondius, Nova totius Terrarum Orbis geographica ac Hydrographyca Tabula, 1630-31.

Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File%3ANova_totius_Terrarum_Orbis_geographica_ac_hydrographica_tabula_(Hendrik_Hondius)_balanced.jpg

Da Mappe sognate (pag. 14)

168 Walter Crane, The British Empire, The Graphic, 1886.

Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File%3ABritish_empire_1886.jpg

Da Mappe sognate (pag. 14)

169 John Betts, A Tour through the British Colonies and foreign Possession, 1850.

Fonte: https://boardgamegeek.com/image/2554257/tour-through-british-colonies-and-foreign-possessi

Da Mappe sognate (pag. 15)

170 Thomas Gainsborough, Mr. and Mrs. Andrews (1750 circa), olio su tela, National Gallery (Londra).

Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File%3AThomas_Gainsborough_-_Mr_and_Mrs_Andrews.jpg

Da Mappe sognate (pag. 16)

Caricatura dell’allora Primo Ministro britannico Tony Blair e della moglie Cherie, The Economist (7 settembre 2005).

Fonte: http://www.uni-bielefeld.de/lili/personen/fleischmann/401_ept_preparations.htm

Da Mappe sognate (pag. 16)

171 “Mondi di cui non si sa neanche il paesaggio”. Luisa Ricaldone in dialogo con Laura Pariani (pag. 84)

Laura Pariani, “Sedia 003”, acrilico e penna (2013) © Laura Pariani Da “Mondi di cui non si sa neanche il paesaggio”. Luisa Ricaldone in dialogo con Laura Pariani (pag. 87)

172 Laura Pariani, “Uffa”, disegno a pastello (1983) © Laura Pariani Da “Mondi di cui non si sa neanche il paesaggio”. Luisa Ricaldone in dialogo con Laura Pariani (pag. 87)

173 Tre scosse (pag. 133)

Burkina Faso, 2012 © Odile Rouquier Da Tre scosse (pag. 136)

174 Betlemme, 2014 © Nadia Setti Da Tre scosse (pag. 136)

Tijuana, Frontiera, 2015 © Cristina Castellano Da Tre scosse (pag. 133)

175 Note

176 Note

Premessa

[*] Presidente SIL dal 2011 al 2013.

[1] Leila Maiocco e Roberto Orlando, Passioni d’acciaio, Genova, De Ferrari, 2002.

[2] Silvana Mossano, Malapolvere, Casale Monferrato, Sonda, 2010.

[3] Vedi Silvia Neonato (a cura di), Paesaggi Violati. Leggendaria 102 (2013), http://www.leggendaria.it/negozio/leggendaria-n-102-carta/ (22 marzo 2016).

[4] Vedi http://www.societadelleletterate.it/wp-content/uploads/2013/09/pieghevole_def1.pdf (22 marzo 2016).

[5] Italo Calvino, La speculazione edilizia, Torino, Einaudi, 1963.

[6] Simona Vinci, Rovina, Milano, Ambiente Edizione, 2007.

[7] Amitav Ghosh, Il paese delle maree, Milano, Neri Pozza, 2005.

[8] Elvira Dones, Piccola guerra perfetta, Torino, Einaudi, 2010.

[9] Natalia Ginzburg, “Il figlio dell’uomo”, in Opere, Milano, Mondadori, 2001, p. 562.

[10] Beppe Cottafavi (a cura di), Alzando da terra il sole, Milano, Mondadori, 2012, p. 273.

177 Note

Introduzione. Per una letteratura sostenibile

[*] Grazie a tutte le colleghe e amiche che hanno collaborato alla realizzazione di questo lavoro, e in particolar modo: a Roberta Falcone, che è stata pronta a farsi coinvolgere prima nel convegno e poi nel voume con generosità e attenzione; a Giuliana Misserville e Laura Fortini che hanno pensato e reso possibile il progetto editoriale in cui questo lavoro si colloca, insieme alle meravigliose donne di Orlando e in particolare a Marzia Vaccari, Federica Fabbiani ed Emanuela Cameli; e di nuovo a Laura per il continuo sostegno nel lavoro editoriale, per il quale si è spesa generosamente in tutte le fasi del suo lungo percorso.

[1] Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, Roma, Luca Sossella Editore, 2008, p. 47.

[2] Il convegno, dal titolo “Terra e parole. Donne riscrivono paesaggi violati”, si è tenuto nei giorni 8-10 novembre 2013, ed è stato ideato e organizzato dalla SIL in collaborazione con l’Associazione Donne TerreMutate e con il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila: Roberta Falcone, Laura Fortini, Serena Guarracino, Roberta Mazzanti, Giuliana Misserville, Gisella Modica, Silvia Neonato, Lorella Reale, e Maria Vittoria Tessitore costituivano il comitato scientifico del convegno.

[3] Paola Inverardi, “Contaminazioni di futuro”, Altre modernità 11 (2014), p. 234.

[4] Braidotti, Trasposizioni, p. 45.

[5] Giorgio Agamben, Lo stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

[6] Floriana Coppola ha fatto uso di questo termine in relazione alla gestione del trauma nei territori devastati dalla criminalità organizzata al convegno “I sud, le mafie: le donne si raccontano”, un evento organizzato a Roma dalla SIL insieme alla Casa internazionale delle donne e all’associazione Libera nel 2013, che in qualche modo ha preparato il terreno per molte delle riflessioni poi elaborate durante questo convegno; vedi http://www.societadelleletterate.it/2013/03/i-sud-le-mafie-le-donne-si-raccontano/ (22 marzo 2016).

[7] Vandana Shiva, Il bene comune della terra, traduzione di Roberto Scafi, Milano, Feltrinelli, edizione Kindle 2015 [2011].

[8] Gayatri C. Spivak, Morte di una disciplina, Roma, Meltemi, 2003, p. 91.

[9] Bruna Bianchi, “Introduzione. Ecofemminismo: i pensieri, i dibattiti, le prospettive”, DEP Deportate esuli profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminista 20 (2012) p. XIV. Si rimanda a questo volume, interamente dedicato all’ecofemminismo, per una trattazione comprensiva; vedi http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=137950 (22 marzo 2016).

[10] Braidotti, Trasposizioni, p. 151.

[11] Paul B. Preciado, “Manifesto animalista”, Internazionale (1 ottobre 2014), http://www.internazionale.it/opinione/beatriz- preciado/2014/10/01/manifesto-animalista (22 marzo 2016).

[12] Spivak, Morte di una disciplina, p. 109.

[13] Cheryll Glotfelty, “Introduction. Literary Studies in an Age of Environmental Crisis”, in C. Glotfelty, H. Fromm (a cura di), The Ecocriticism Reader: Landmarks in Literary Ecology, Athens and London, University of Georgia Press, 1996, p. xviii.

[14] Da segnalare la collettanea a cura di Caterina Salabé, Ecocritica. La letteratura e la crisi del pianeta, Roma, Donzelli, 2014.

[15] Anne Michaels, In fuga, trad. Roberto Serrai, Firenze, Giunti, 1998, p. 2.

[16] Oriana Palusci, “Anne Michaels e le ferite del linguaggio”, Altre modernità 5 (2014), p. 191.

[17] Anne Michaels, La cripta d’inverno, trad. Roberto Serrai, Firenze, Giunti, 2009, p. 212.

[18] Adriana Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza dell’inerme, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 31.

[19] Braidotti, Trasposizioni, p. 130.

[20] Antonella Tarpino, Spaesati, Torino, Einaudi, 2012, edizione Kindle.

[21] Ingeborg Bachmann, “La Boemia è sul mare”, in Ingeborg Bachmann, Verrà un giorno. Conversazioni romane, a cura di Judith Kasper, Genova e Milano, Marietti, 1820, 2009, p. 106. A Ingeborg Bachmann è stata dedicata una giornata di studi e passeggiata letteraria dalla SIL nel 2009; vedi http://www.societadelleletterate.it/2013/09/verra-un-giorno-ingeborg-bachmann-allora-e-oggi/ (22 marzo 2016).

[22] Judith ‘Jack’ Halberstam, The Queer Art of Failure, Durham, Duke University Press, 2011, p. 181; traduzione mia. Vedi anche Tréza Rosado, “The Apocalypse is Queer: Subject formation, kinship, and the affective in WALL-E”, Versus Literary Journal (28 aprile 2014).

178 [23] Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Faré (a cura di), Architetture del desiderio, Napoli, Liguori, 2011.

[24] Vedi Donna Haraway, "Anthropocene, Capitalocene, Chthulucene: Staying with the Trouble", lezione tenuta alla University of Santa Cruz il 9 maggio 2014: https://vimeo.com/97663518 (22 marzo 2016).

[25] Braidotti, Trasposizioni, p. 17.

[26] Il testo è stato pubblicato in traduzione italiana solo quest’anno: Ngũgĩ wa Thiong’o, Decolonizzare la mente, trad. Maria Teresa Carbone, Milano, Jaca Book, 2015.

[27] Braidotti, Trasposizioni, p. 15.

179 Note

Mappe strappate. Un invito a decolonizzare le rappresentazioni

[1] La bibliografia in materia è molto vasta; si rimanda solo ad alcuni autori per tutti: Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Torino, Einaudi, 2009; J. Brian Harley, The New Nature of Cartography, Baltimore, The John Hopkins University Press, 2001; Christian Jacob, L’empire des cartes: approche théorique de la cartographie à travers l’histoire, Paris, Albin Michel, 1992; John Pickel, A History of Spaces. Cartographic reason, mapping and geo-coded world, London-New York, Routledge, 2004.

[2] Come è noto, ‘geografia’ sta per descrizione della Terra. Nell’evoluzione del pensiero geografico, però, la parola Terra non assume un significato univoco. L’utilizzo di ‘Terra’ (con la maiuscola) e di ‘terra’ (con la minuscola) in questa sede intende evocare, appunto, la problematicità della definizione di tale parola. La Terra come corpo celeste inserito nel più complesso e vasto contesto dell’Universo, rimanda alla Cosmografia, alla Cosmologia, alla Geografia astronomica; la Geografia fisica, dal canto suo, tradizionalmente concentra la sua attenzione sulla Terra come pianeta in sé che con le sue dinamiche fisico-naturali (geomorfologia, climatologia, idrologia ecc.) fornisce la ‘base materiale del mondo’. La Terra così si connota come ‘terra’, e acquista centralità la superficie terrestre sulla quale gli esseri umani si distribuiscono, si organizzano, operano. Fanno la loro comparsa le società, le culture, le comunità, le pratiche, gli attori e l’interesse si focalizza sulla ‘terra’ in quanto ‘casa dell’Uomo’ e, quindi, sul rapporto che i suoi abitanti intrattengono con essa.

[3] La proiezione di Mercatore, messa a punto dal cartografo Gerhard Kremer (noto, appunto, con il nome di Mercatore), viene utilizzata per la prima volta nel 1569 nella Nova et aucta orbis terrae descripto ad usum navigantium, un planisfero in diciotto fogli destinata soprattutto alla navigazione e rispondendo, così, ad una esigenza del tempo: poter rappresentare con segmenti rettilinei sulla mappa le linee con angolo di rotta costante (lossodromiche).

[4] Enrico Squarcina, Un mondo di carta e di carte. Analisi critica dei libri di testo di geografia per la scuola elementare, Milano, Guerrini, 2007, spec. pp. 99-107.

[5] Jerry Brotton, La storia del mondo in dodici mappe, Milano, La Feltrinelli, 2014, p. 277.

[6] Ibid., p. 413.

[7] Lina M. Calandra, “Natura e ambiente nell’apprendimento scolastico. Per riconoscere l’altro e l’altrove nei libri di testo”, in E. Squarcina (a cura di), Didattica critica della geografia, Milano, Unicopli, 2009.

[8] Gianpietro Paci, Guardare il mondo, vol. III, Bologna, Zanichelli, 2004, pp. 22 e 26.

[9] Sulla funzione pratica e simbolica dell’albero in Africa subsahariana si rimanda a Cahiers ORSTOM - Série Sciences Humaines 17.3-4: L’arbre en Afrique tropicale: la fonction et le signe (1980).

[10] Dati di terreno pubblicati nel rapporto di ricerca di Laye Camara, Savoirs, besoins et institutions territoriales dans les périphéries du Parc W: typologies d’acteurs et configurations conflictuelles à partir de six villages cibles, Rapport Ecopas, Ouagadougou, 2002. Riguardo alle stagioni peul, Angelo B. Maaliki, in un rapporto di ricerca del 1981 nel quadro di un progetto di cooperazione Niger-Usa, riferisce di otto stagioni: vedi Angelo B. Maaliki, Ngaynaaka: l'élevage selon les Wodaabe du Niger, Rapport préliminaire, Projet Gestion des Paturages Tahoua, 1981.

[11] Per una illustrazione sintetica ma completa della transumanza peul in Niger, si rimanda a Jean Boutrais, “Crises écologiques et mobilités pastorales au Sahel: les Peuls du Dallol Bosso (Niger)”, Sécheresse 18.1 (2007), pp. 5-12.

[12] Il villaggio di Sansanko (417 ab. nel 1996) è stato oggetto, insieme ad altri, di una ricerca sul campo i cui risultati sono contenuti in Lina M. Calandra, Eugenia Gallese, Géographie humaine et analyse des processus territoriaux dans le Parc National du Haut Niger, Rapport de recherche, Programme Régional d’Aménagement des Bassins Versant - Projet Haut Niger, Commission des Communautés Européennes Fonds Européen de Développement, 1996.

[13] Angelo Turco, “Mythos and Techne: An essay on the intercultural function of territory in sub-Saharan geography”, GeoJournal 60.4 (2004), pp. 329-337.

[14] Calandra, Gallese, Géographie humaine et analyse des processus territoriaux, p. 23 (traduzione mia).

180 Note

Mappe sognate

[*] Laddove si faccia riferimento ad un’edizione inglese, la traduzione delle citazioni in questo articolo è da considerarsi dell’autrice [N.d.C.].

[1] H.D. (Hilda Doolittle), Trilogy: The Walls Do not Fall, 1994-46, New York, New Directions, 1973, p. 59.

[2] Susan Griffin, Woman and Nature: The Roaring Inside Her, New York, Harper Colophon, 1978, p. 195.

[3] J.B. Harley, “Maps, Knowledge, and Power”, in The Iconography of Landscape: Essays on the Symbolic Representation, Design and Use of the Past Environments, a cura di D. Cosgrove e S. Daniels, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 277-312.

[4] Mercatore, “Preface”, in Atlas sive cosmographicae meditationes de fabrica mundi et fabricati figura (1636), mail.nysoclib.org/Mercator_Atlas/MCRATS.PDF (22 marzo 2016).

[5] Ibid.

[6] M. R. Curry, “The Architectonic Impulse and the Reconceptualization of the Concrete in Contemporary Geography”, in Writing Worlds: Discourse, Text and Metaphor in the Representation of Landscape, a cura di T. J. Barnes e J. S. Duncan, London, Routledge, 1992, p. 97.

[7] Donna Haraway, “Situated Knowledge: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, Feminist Studies 14.3 (1988), p. 578.

[8] Citato in Gillian Rose, Feminism & Geography. The Limits of Geographical Knowledge, Cambridge, Polity Press, 1993, p. 7.

[9] Carl O. Sauer, cit. in ibid, p. 69.

[10] Denis E. Cosgrove, “The Myth and Stones of Venice: an Historical Geography of a Symbolic Landscape”, Journal of Historical Geography 8 (1982), p. 163.

[11] Trinh T. Minh-ha, “Cotton and Iron”, in When the Moon Waxes Red. Representation, Gender, and Cultural Politics, London and New York, Routledge, 1991, p. 12.

[12] Mercatore, “Preface”.

[13] J. M. Coetzee, The Narrative of Jacobus Coetzee, in Dusklands, London, Vintage, [1982] 1998, pp. 78-9 e 106-7.

[14] Michel Adanson, Cours d’histoire naturelle (1722), cit. in Michel Foucault, The Order of Things, New York, Pantheon, 1970, p. 165. Per un’ampia discussione sull’opera di Adanson cfr. J. Mouniama, “Adanson, un naturalista in Senegal”, in Declinazioni d’Africa, a cura di A.Turco, Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 1997, pp. 197-217.

[15] Gillian Rose, “Looking at Landscape: The Uneasy Pleasures of Power”, in Feminism & Geography. The Limits of Geographical Knowledge, p. 87.

[16] Ibid., p. 89.

[17] Denis Cosgrove, Stephen Daniels, “Introduction: the Iconography of Landscape”, in The Iconography of Landscape: Essays on the Symbolic Representation, Design and Use of Past Environments, a cura di D. Cosgrove, S. Daniels, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, p. 1.

[18] Carole Fabricant, “L’ideologia del disegno paesaggistico augusteo”, in Il neoclassicismo, a cura di V. Papetti, Bologna, il Mulino, 1989, p. 279.

[19] Rose, “Looking at Landscape”, p. 92.

[20] Ibid., p. 99.

[21] J. M. Coetzee, In the Hearth of the Country, London, Penguin Books, 1982, p. 114.

[22] Kate Soper, “Privileged Gaze and Ordinary Affections: Reflection on the Politics of Landscape and the Scope of Nature Aesthetic”, in Deterritorializations. Revisioning Landscapes and Politics, a cura di M. Dorrian e G. Rose, London and New York, Black Dog Publishing, 2003, p. 341.

[23] Trinh T. Minh-ha, “No Master Territories”, in The Post-colonial Studies Reader, a cura di B. Ashcroft et al., London, Routledge, 1995, p. 215.

181 [24] Mary Wollstonecraft, The Vindications: The Rights of Men and the Rights of Women (1792), Peterborough, Ontario, Broadview Press, 2001, p. 175.

[25] Lynn A. Staeheli, ​Eleonore Kofman, “Mapping Gender, Making Politics: Towards Feminist Political Geography”, in Mapping Women, Making Politics. Feminist Perspective on Political Geography, a cura di L. A. Staeheli et al., London, Routledge, 2004, p. 150.

[26] Chandra Talpade Mohanthy, “Feminist Encounters: Locating the Politics of Experience”, Copyright 1 (1987), p. 41.

[27] Nuala Ní Dhomhnaill, “Dinnsheanchas: The Naming of High or Holy Place”, in The Geography of Identity, a cura di P. Yaaeger, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1996, p. 431.

[28] Cfr. Lady Anne Barnard, The Cape Journals of Lady Anne Barnard 1797-98, a cura di A. M. L. Robinson et al., Cape Town, Van Der Riebeeck Society, 1994.

[29] Cfr. John Barrow, An Account of Travels into the Interior of Southern Africa in the Years of 1797 and 1798, London, Great Britain Elibron Classical Replica Edition, 2005.

[30] Edward Said, Orientalism, London Routledge & Kegan Paul, 1978, p. 157.

[31] Susan Hanson, Janice Monk, “On Not Excluding”, in Feminist in Geography. Rethinking Space, Place and Knowledges, a cura di P. Moss e K. Falconer Al-Hindi, Lanham, Rowman & Littlefield Publications, 2008, ebook, posizione 280.

[32] Kathy Prendergast, Land (1990), www.kerlingallery.com/artists/kathy-prendergast/selected-works/artist_works/28 (22 marzo 2016).

[33] Graham Huggan, “Decolonizing the Map: Post-Colonialism, Post-Structuralism and the Cartographic Connection”, Ariel: A Review of International English Literature 4 (1989), p. 121.

[34] Un esempio del suo raccontare: “Ricordo l’ultima volta che sono stata lì ero in un ospedale e c’era una ragazza di 14 anni su un letto in corridoio. Era una delle 20 vittime ferite nell’attacco della notte prima. I dottori sono bruschi, molto occupati e sotto una pressione terribile. Uno di loro arriva e tira su la maglietta alla ragazza [...] ha perso il seno. È una delle poche volte che ho veramente pianto […] Ho visto questa donna con una bella pelle e bei capelli e un giovane seno saltato in aria […] Quando cerco di scrivere questo accadimento cerco di dire alle persone – pensa a tua figlia, pensa a tua sorella, immagina ciò” (Maggie O’Kane 1993, cit. in G. Toal, “An Anti-Political Eye: Maggie O’ Kane in Bosnia, 1992-93”, in Gender, Place & Culture: A Journal of Feminist Geography 3.2 (1996), www.d.umn.edu/~lknopp/geog4393- 90/An%20Anti-Geopolitical%20Eye%20%28O%27Tuathail%201996%29.html (22 marzo 2016).

[35] Wlodek Goldkorn, “Herta passione e Nobel”, La Repubblica (11 aprile 2015), d.repubblica.it/attualita/2015/04/11/news/herta_muller_nobel_letteratura_intervista_storia-2558262/ (22 marzo 2016).

[36] Minnie Bruce Pratt, “Who Am I If I’m Not My Father’s Daughter?”, in Identity Politics in the Women’s Movement, a cura di Barbara Ryan, New York, NYU Press, p. 68.

[37] John Shotter, cit. in Nigel Thrift, “Steps to an Ecology of Place”, in Human Geography Today, a cura di D. Massey, J. Allen, J. P. Sarre, Cambridge, Polity Press, 1999, p. 304.

[38] Antjie Krog, The Country of My Skull, London, Vintage, 1982, p. 135.

[39] “Li conosco come conosco i miei fratelli, i miei cugini, i compagni di scuola. Tra noi ogni distanza è cancellata. Forse non c’è mai stata una distanza se non quella che ho costruito in me stessa con enorme fatica negli anni […] Dall’accento indovino dove comprano i vestiti, dove vanno in vacanza, che macchina hanno, quale musica ascoltano. Quello che ho in comune con loro è la cultura.” Ibid., p. 144.

[40] Antjie Krog, “Land”, in The Lava of this Land. South Africa Poetry 1960-1996, a cura di D. Hirson, Evaston (Ill.), Northwestern University Press, 1997, p. 219 (trad. di I. Vivan, “La terra, ‘l’altro’ e l’etnicita”, in Culture dell’alterità. Il territorio africano e le sue rappresentazioni, a cura di E. Castri e Angelo Turco, Abbiategrasso, Unicopli, 1998, pp. 420-1).

[41] Goldkorn, “Herta passione e Nobel”.

[42] Krog, Country of My Skull, p. 423.

[43] Gloria Anzaldua, Borderlands/La Frontera: The New Mestiza, San Francisco, Spinsters/Aunt Lute, 1987, p. 195.

[44] Bessie Head, A Question of Power, London, Heinemann African Series, 1986.

[45] Zoë Wicomb, David’s Story, New York, The Feminist Press, 2002.

[46] “Il nudo è un paesaggio: il bodypainting di Natalie Fletcher”, La Repubblica (14 marzo 2015), www.repubblica.it/esteri/2015/03/14/foto/il_nudo_e_un_paesaggio_il_bodypainting_di_natalie_fletcher-109527958/1/#1 (22 marzo 2016).

[47] “Le modelle nascoste nel paesaggio: il bodypainting mimetico di Filippo Ioco”, Vanilla Magazine (31 agosto 2015), www.vanillamagazine.it/le-modelle-nascoste-nel-paesaggio-il-bodypainting-mimetico-di-filippo-ioco/ (22 marzo 2016).

[48] Kuil è l’afrikaans per stagno o cavità; cfr. Hirson (a cura di), The Lava of this Land, p. 316.

[49] Fontana (Ibid., p. 315).

[50] Cicca di sigaretta o ceppo della vite o ancora moccolo di una candela, figurativamente una persona piccola o senza valore; cfr. Brian Macaskill, “Inside out: Jeremy Cronin’s Lyrical Politics”, in Writing South Africa. Literature, apartheid, and democracy, 1970-1995, a cura di D. Attridge, R. Jolly, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, p. 199.

[51] Immobile.

[52] Carrello per le miniere; cfr. Hirson (a cura di), The Lava of this Land, p. 315.

[53] In zulu, millepiedi (Ibid., p. 318).

182 [54] Le cinque e quindici (Ibid., p. 315).

[55] Johannesburg (Ibid., p. 312).

[56] Jeremy Cronin, “To Learn How to Speak…”, in ibid. p. 163.

[57] Jeremy Cronin, “Geografia della bocca”, in Dentro, a cura di A. Pajalich, Venezia, Supernova, 1991, pp. 86-7 (trad. di A. Pajalich).

[58] Edward Relph, Place and Placelessness, London, Pion, 1976, p. 14.

[59] Yi-Fu Tuan, Topophilia: A Study of Environment Perception, Attitudes and Values, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1974, p. 247.

[60] Haraway, Simians, p. 170.

[61] Ann Snitow, “A Gender Diary”, in Conflicts in Feminism, a cura di H. Hirsch, E. Fox Keller, New York, Routledge, 1990, p. 34.

[62] Teresa de Lauretis, Technologies of Gender: Essays, Film and Fiction, London, Macmillan, 1987, p. 26.

[63] Gilles Deleuze and Felix Guattari, A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1987, p. 12.

183 Note

Incuria, violazione, messa in sicurezza: lessico patriarcale nel governo del territorio

[1] Stefano Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Torino, Rosenberg & Sellier, 2009, pp. 59-60.

[2] Ibid., p .61.

[3] Paolo Fabbri, “Abbozzi per una finzione della cura”, in P. Donghi, L. Preta (a cura di), In principio era la cura, Bari, Laterza, 1995, p. 34.

[4] Ciccone, Essere maschi, p. 24.

[5] Ibid.

[6] Fabbri, “Abbozzi per una finzione della cura”, p. 37-38. Fabbri si sofferma ad analizzare la radice cura anche nella parola curiosità, sentimento che riabilita proprio grazie al suo legame con la cura.

184 Note

La città negata

[1] Italo Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, pp. 137-38.

[2] Alle 3:32 del 6 aprile 2009 un terremoto di magnitudo momento 6,3 colpisce L’Aquila e il territorio circostante. Ventotto secondi di scosse provocheranno 308 morti, più di 1.500 feriti, danni devastanti a città e paesi, nei centri storici come nelle più moderne aree residenziali, ad edifici residenziali, chiese, uffici. L’intera città viene evacuata; più di 70.000 persone (contando solo la città dell’Aquila) vengono sfollate in hotel, tendopoli, caserme, alloggi temporanei.

[3] Progetto C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili): 185 edifici su 19 aree (Arischia, Assergi 2, Bazzano, Camarda, Cese di Preturo, Collebrincioni, Coppito 2, Coppito 3, Gignano, Paganica 2, Paganica sud, Pagliare, Roio 2, Roio Poggio, Sant'Antonio, Sant’Elia 1, Sant'Elia 2, Sassa, Tempera), per un totale di circa 4.500 appartamenti che ospitano circa 15.000 persone con casa distrutta o inagibile, realizzati tra l’estate del 2009 e marzo 2010 (art. 2 del decreto n. 39 del 28 aprile, convertito in legge il 24 giugno 2009) www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_dossier.wp?contentId=DOS274 (22 marzo 2016).

[4] Calvino, Le città invisibili, p. 137.

[5] Ibid., p. X.

[6] Ibid., p. 163.

[7] Ibid., p. 44.

[8] Henri Lefebvre, La rivoluzione urbana, Roma, Armando Editore, 1973, pp. 133-134.

[9] Ad esempio: Barbara Spinelli, “L’Aquila, la città che non c’è più invasa da New Town fantasma”, La Repubblica, 6 giugno 2012. www.repubblica.it/cronaca/2012/06/06/news/l_aquila_macerie-36626978/ (22 marzo 2016).

[10] Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 2009.

[11] Francesco Chiodelli, “La cittadinanza secondo Henri Lefebvre: urbana, a matrice spaziale”, p. 6. www.academia.edu/1324719/La_cittadinanza_secondo_Henri_Lefebvre_urbana_attiva_a_matrice_spaziale (22 marzo 2016).

[12] Ibid., p. 7

[13] Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, Milano, Moizzi Editore, 1976, p. 30.

[14] Umberto Galimberti, Psiche e Techne, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 627.

[15] David Hutton, “Psychosocial aspects of disaster recovery: Integrating communities into disaster planning and policy making”, Montreal, Quebec (Canada), Institute for Catastrophic Loss Reduction, 2001. www.iclr.org/images/Psychosocial_aspects_of_disaster_recovery.pdf (22 marzo 2016).

[16] Brian W. Flynn, “Disaster mental health: The U.S. experience and beyond”, in J. Leaning, S. Briggs, L. Chen (a cura di), Humanitarian crises: The medical and public health response, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1999, p. 111.

[17] Maria Teresa Fenoglio, “La comunità nei disastri: una prospettiva psicosociale”, Rivista di Psicologia dell'Emergenza e dell'Assistenza Umanitaria 1.0 (2006), pp. 6-23.

[18] Karl E. Weick, “The collapse of sensemaking in organizations. The Mann Gulch disaster”, Administrative Science Quarterly 38.4 (1993), pp. 628-652.

[19] Umberto Galimberti, Il corpo, Milano, Saggi Universale Economica Feltrinelli, 2005, p. 126; corsivo nel testo.

[20] Ibid., p. 127.

[21] Andreu Solé, Createurs de mondes. Nos possibles, nos impossibles. Does God play dice? The mathematics of chaos, Monaco, Editions du Rocher/Penguin Books, 1989.

[22] J. Van de Eynde, A. Veno, “Coping with Disastrous Events: An Empowering Model of Community Healing”, in R. Gist e B. Lubin (a cura di) Response to Disaster, Ann Arbor, MI, Bruner/Mazel, 1999; cit. in Fenoglio, La comunità nei disastri, p. 8.

[23] Giovan Francesco Lanzara, “Ephemeral organizations in extreme environments: emergency, strategy, extinction”, Journal of Management Studies 20.1 (1983), pp. 71-95.

185 [24] Fenoglio, “La comunità nei disastri”, p. 17.

[25] Timothy L. Sellnow, Matthew W. Seeger, Robert R. Ulmer, “Chaos theory, informational needs, and natural disasters”, Journal of Applied Communication Research 30.4 (2002), pp. 269-292.

[26] Renzo Carli, “Premessa”, in F. Di Maria (a cura di), Psicologia della convivenza. Soggettività e socialità, Milano, Franco Angeli, 2000.

[27] Weick, “The collapse of sensemaking in organizations”, p. 644.

[28] Louise K. Comfort, “Self-organization in complex systems”, Journal of Public Administration Research and Theory 4.3 (1994), pp. 393- 410.

[29] Galimberti, Il corpo, p. 152; corsivo nel testo.

[30] David Harvey, “Diritto alla città”, New Left Review 53 (2008), disponibile in italiano: newleftreview.org/article/download_pdf?language=it&id=2740 (22 marzo 2016) o, in originale: newleftreview.org/II/53/david-harvey-the-right-to-the-city (22 marzo 2016).

[31] Ibid.

[32] Chiodelli, “La cittadinanza secondo Henri Lefebvre”, pp. 3-4.

[33] Galimberti, Il corpo, p. 124.

[34] Per avere un’idea della lunghezza e della ‘velocità’ del processo si possono confrontare i dati ufficiali dell’aprile 2013 e dell’aprile 2014 sulla popolazione evacuata (rispettivamente a 4 e a 5 anni dall’evento). Nell’aprile 2013 circa 15.000 persone erano alloggiate nelle abitazioni del progetto C.A.S.E. o nei M.A.P., circa 6.500 erano in ‘autonoma sistemazione’ e circa 250 erano ancora ospitati in caserme e hotel. Nell’aprile 2014 gli stessi dati erano: circa 14.000, circa 4.500 e circa 250, rispettivamente.

186 Note

Il Green cinema, gli uomini, le donne, i bambini

[1] Elena dell’Agnese, “Cinema e ambiente: Ecocriticismo e geografia (eco)critica”, in E. dell’Agnese, A. Rondinone (a cura di), Cinema, ambiente e territorio, Milano, Unicopli, 2011, p. 27.

[2] Robert McKee, Story, Roma, International Forum, 2000, p. 32.

[3] Rosi Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, Roma, Luca Sossella Editore, 2008, p. 46.

[4] Natalie Zamon Davies, La storia al cinema. La schiavitù sullo schermo da Kubrick a Spielberg, Roma, Viella, 2007, pp. 12 e 18.

[5] Luisa Muraro, “In realtà”, in A. Buttarelli, F. Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008, p. 24.

[6] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000, p. 26.

[7] Giovanni Rizzoni, La democrazia al cinema. I dilemmi del costituzionalismo in cinque film, Roma, Meltemi, 2007, p. 7.

[8] Anneke Smelik, “Feminist Film Theory”, in P. Cook, M. Bernik (a cura di), The Cinema Book, London, British Film Institute, 1999, p. 353; traduzione mia. Per una definizione completa di Feminist Film Theory è oggi possibile consultare la voce curata da Maria Nadotti per l’Enciclopedia del cinema di Treccani. www.treccani.it/enciclopedia/feminist-film-theory_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/ (22 marzo 2016).

[9] Per una trattazione generale ma interessante sulle numerose teorie sul cinema o ‘del film’, nate pressoché con il cinema stesso si può vedere: Thomas Elsaesser e Malte Hegener, Teoria del film. Un’introduzione, Milano, ISBN, 2009.

[10] Gaetano Capizzi, “Green cinema”, in G. Capizzi (a cura di), Cinema e ambiente, Veneto, Arpav, 2011, p. 10 (corsivo mio).

[11] Gianni Canova, “Il cinema della post-catastrofe”, in G. Capizzi, A. Fornuto, C. Gubetti (a cura di), 10 d. c. (dopo Cernobyl) – Cinema e nucleare, Torino, Lindau, 1996, p. 12.

[12] Ibid.

[13] Gianni Canova, “L’eterno ritorno del disastro. Cinema e catastrofe dopo l’11 settembre 2001”, in Capizzi (a cura di), Cinema e ambiente, pp. 63-64.

[14] Goffredo Fofi, “Cinema ed ecologia”, in Capizzi (a cura di), Cinema e ambiente, pp. 51-61.

[15] Chiara Magri, “Osservazioni sul tema dell’ambiente e sul sentimento della natura nel cinema d’animazione”, in Capizzi (a cura di), Cinema e ambiente, pp. 77-78.

[16] Cristiano Giorda, “Tra immaginario infantile e rappresentazioni adulte della natura. La programmazione di Ray YoYo per i bambini in età prescolare”, in dell’Agnese, Rondinone (a cura di), Cinema, ambiente e territorio, p. 103.

[17] Ibid., p. 96.

[18] Braidotti, Trasposizioni, p. 116.

[19] Ynestra King, “Healing the Wounds: Feinism, Ecology, and Nature/Culture Dualism”, in A. Jaggar, S. Bordo (a cura di), Gender/Body/Knowledge: Feminist Reconstructions of Being and Knowing, New Brunswick, Rutgers University Press, 1989, p. 115.

[20] Federica Giardini, “L’etica e (è) la politica”, Leggendaria. Libri, letture, linguaggi 69 (2008), pp. 52-53.

187 Note

DocuDonne. Territorio, donne e cinema del reale

[1] Vedi www.docucity.unimi.it/film/in-utero-srebrenica/ (22 marzo 2016). Tutti i link relativi ai film citati rimandano al sito del progetto Docucity. Documentare la città (www.docucity.unimi.it). Esso contiene indicazioni precise sulle iniziative connesse alle sette edizioni del festival internazionale di cinema documentario organizzato dall’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il CTU-UNIMI, a partire dal 2006, oltre al catalogo completo dei film disponibili nel nostro archivio. Il progetto è stato ideato e organizzato da Marco Carraro, Chiara Martucci, Gianmarco Torri e Nicoletta Vallorani. Il festival costituisce un’esperienza unica nel panorama accademico contemporaneo.

[2] Il premio al film, peraltro, è stato assegnato da una giuria formata soprattutto da donne. In ordine alfabetico, i componenti del gruppo sono: Luca Bigazzi (direttore della fotografia e collaboratore del premio Oscar Paolo Sorrentino), Gianni Biondillo (scrittore e architetto), Valentina Pedicini (regista, già vincitrice dell’edizione 2011 di Docucity con My Marlboro City), Anastasia Plazzotta (responsabile Homecinema per Feltrinelli Editore) e Barbara Sorrentini (giornalista e direttrice artistica del 1° Festival dei beni confiscati alle mafie a Milano).

[3] Cfr J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981 [1979], p. 38 e ss.

[4] Cfr. John Corner, The Art of Record. A Critical Introduction to Documentary, Manchester & New York, Manchester UP, 1996, p. 13.

[5] Sullo specifico cinematografico, si vedano utilmente: P. Aufderheide, Documentary Film: A Very Short Introduction, Oxford, Oxford University Press, 2007; E. Barnouw, Documentary. A History of Non Fiction Film, Oxford, Oxford University Press, 1993; J. Breschand, Il documentario. L’altra faccia del cinema, Torino, Lindau, 2005; M. Bertozzi, Storia del documentario italiano: Immagini e culture dell'altro cinema, Venezia, Marsilio, 2008; Raffaele De Berti, “Una terra di confine”, in C. Lucarelli, G. Crivaro, M. Pisano (a cura di), Quasi Roma, Firenze, editpress, 2013; e C. Formenti, Il Mockumentary. La fiction si maschera da documentario, Milano, Mimesis, 2014.

[6] Rosalba Terranova-Cecchini e Paolo Inghilleri, “Tracce di culture”, Passaggi. Rivista italiana di scienze transculturali, 10 maggio 2005, p. 14.

[7] Lawrence Grossberg, Saggi sui Cultural studies. Media, rock, giovani, Napoli, Liguori, 2002.

[8] Lawrence Grossberg, Tony Bennett, Morris Meaghan, Nuove parole chiave. Dizionario di cultura e società, Milano, Il Saggiatore, 2008.

[9] Bertozzi, Storia del documentario italiano, p. 16.

[10] Federica De Cordova, “Through the borders. Mariella Pandolfi conversa con Paolo Inghilleri”, Passaggi. Rivista italiana di scienze transculturali, 10 maggio 2005, pp. 46-47.

[11] Ibid.

[12] Jean-Louis Comolli, cit. in De Berti, “Una terra di confine”, p. 51.

[13] Le riflessioni di Cameron stessa su questo aspetto interpretativo della fotografia sono molto interessanti, nel modo in cui esse vengono riportate nei suoi Annals of My Glass House, un testo scritto nel 1874 e pubblicato una prima volta nel luglio del 1927 sul Photographic Journal per essere poi di recente ristampato in coincidenza con una bella mostra delle foto di Cameron e con testi di Violet Hamilton, nel 1996 (Annals of my Glass House. Photographs by Julia Margaret Cameron, Seattle & London, Ruth Chandler Williamson Gallery-Scripps College, 1996).

[14] Barnouw, Documentary, p. 95.

[15] Aufderheide, Documentary Film, p. 2. Tutte le traduzioni dall’inglese sono mie.

[16] Conteggiando anche le regie in collaborazione, in un archivio di circa 150 documentari, Docucity conta poco più di 30 nomi di donne nella direzione dei film.

[17] Peter Brooks, Body Work. Objects of Desire in Modern Narrative, London/Cambridge, Harvard UP, 1993, p. 13.

[18] Francesco Casetti, L’occhio del Nocevento. Cinema, esperienza, modernità, Milano: Bompiani, 2005.

[19] Francesco Casetti, “The Relocation of Cinema”, Necsus 2 (2012), www.necsus-ejms.org/the-relocation-of-cinema/ (22 marzo 2016).

[20] Aufderheide, Documentary Film, p. 5.

[21] Ibid.

[22] Stuart Hall (a cura di), Representation: Cultural Representations & Signifying Practices, London, Sage, 1997, p. 2.

[23] Corner, The Art of Record, p. 25.

188 [24] Breschand, Il documentario.

[25] Aufderheide, p. 5 e ss.

[26] I compagni di viaggio di Iain Sinclair sono, oltre a Chris Petit, Lawrence Renchi Bicknell, Kevin Jackson, Marc Atkins, Bill Drummond (e il suo amico Gimpo), Keith Griffiths.

[27] Iain Sinclair menziona, oltre a Paleologu e in più occasioni, l’artista Rachel Whiteread, e dedica un cammeo importante a Kathy Acker nel volume realizzato con Marc Atkins, Liquid City.

[28] In apparenza, Rodinsky’s Room (1999) fa eccezione, essendo stato scritto con Rachel Lichtenstein. In realtà i due hanno lavorato separatamente, combinando poi le parti nel volume dopo averle, di fatto, ultimate individualmente.

[29] Petit e Sinclair hanno realizzato insieme, tra le altre cose, una trilogia introvabile – The Cardinal & the Corpse, The Falconer e Asylum – trasmessa su Channel 4 nel 1992 e concepita come un omaggio al cinema sperimentale. Ne parla compiutamente Stewart Home, altro talento eclettico e stravagante, qui: www.stewarthomesociety.org/luv/sinclair.htm (22 marzo 2016).

[30] La collaborazione è iniziata e finita con Liquid City, un volume fotografico pubblicato da Reaktion Book nel 1999.

[31] Il film è stato mostrato nel corso della rassegna dell’edizione 2013 del Festival, i sottotitoli in italiano sono stati realizzati da Ofelia D’Oronzo, dello staff di Docucity; vedi www.docucity.unimi.it/film/memo-mori/ (22 marzo 2016).

[32] Il film ha partecipato all’edizione 2014 del festival Docucity. Documentare la città; vedi www.docucity.unimi.it/film/trasformazioni-urbane- orto-diffuso/ (22 marzo 2016).

[33] Il link al progetto complessivo di Richardson, al quale Memo Mori appartiene, è emilyrichardson.org.uk/ (22 marzo 2016).

[34] Vedi https://vimeo.com/16870364 (22 marzo 2016).

[35] Il film è stato presentato alla ressegna dell’edizione 2013 del festival Docucity. Documentare la città: vedi www.docucity.unimi.it/film/the- solitary-life-of-cranes/ (22 marzo 2016).

[36] Si tratta di una frase di Nirmal Puwar, pronunciata nel corso della tavola rotonda conclusiva del convegno Cultural Studies Now. An International Conference (University of East London, 19-22 luglio 2007).

[37] Il film è stato finalista nell’edizione 2011 del festival Docucity. Documentare la città, ottenendo una menzione speciale della Giuria Ufficiale nel 2011; vedi www.docucity.unimi.it/film/le-white/ (22 marzo 2016).

[38] Il film è stato finalista nell’edizione 2014 del festival Docucity. Documentare la città: vedi www.docucity.unimi.it/film/la-fabbrica-e-piena- tragicomedia-in-otto-atti/ (22 marzo 2016).

[39] Il film è stato inserito nella Sezione Internazionale dell’edizione 2014 del festival Docucity. Documentare la città; vedi www.docucity.unimi.it/evento/le-metamorfosi-della-produzione-e-i-suoi-luoghi-california-company-town/ (22 marzo 2016).

[40] Il film è stato proiettato durante la rassegna dell’edizione 2011 del festival Docucity. Documentare la città; vedi: www.docucity.unimi.it/film/falck-romanzo-di-uomini-e-di-fabbrica/ (22 marzo 2016).

[41] Il personaggio in questione è la madre della regista, sebbene a questo dato non venga conferito rilievo nella testimonianza.

[42] Il DVD del film è stato pubblicato nel volume-catalogo del Festival: Barbara Garlaschelli, Nostalgie urbane, Firenze, Editpress, 2012. Dopo la vittoria al festival, My Marlboro City ha ottenuto altri riconoscimenti e in particolare una menzione speciale al Bellaria Film Festival, nello stesso anno.

[43] Il film è stato inserito nella sezione internazionale dell’edizione 2014 del festival Docucity. Documentare la città. Il sottotitolaggio, realizzato dallo staff di Docucity, è stato curato da Daniele Croci; vedi www.docucity.unimi.it/film/3111/ (22 marzo 2016).

[44] Francesco Remotti, “Riflessioni sulla densità culturale”, Passaggi. Rivista italiana di scienze transculturali (10 maggio 2005), p. 19.

[45] Il film è stato proiettato nel corso dell’edizione 2014 del festival Docucity. Documentare la città. Sezione speciale 2014; vedi www.docucity.unimi.it/film/dal-profondo/ (22 marzo 2016).

[46] Remotti, “Riflessioni sulla densità culturale”, p. 32.

189 Note

I sommersi e i salvati di Anne Michaels

[1] Anne Michaels, In fuga, trad. Roberto Serrai, Firenze, Giunti, 1998, p. 27.

[2] Sui temi che innervano la scrittura di Anne Michaels – dai percorsi di superamento dei traumi inflitti dalla Storia alla rielaborazione della nostalgia in relazioni affettive e creazioni poetiche che riattivino il desiderio vitale e rendano la memoria condivisibile – Emanuela Piga ha di recente scritto con appassionata competenza il saggio “Biografie del desiderio e cartografie della memoria: Fugitive Pieces di Anne Michaels”, Studi culturali 11.2 (agosto 2014), pp. 219-35.

[3] Anne Michaels, La cripta d’inverno, trad. Roberto Serrai, Firenze, Giunti, 2009, p. 310.

[4] Ibid., p. 333.

[5] Ibid., p. 233.

[6] Michaels, In fuga, p. 73.

[7] Ibid., p. 26.

[8] Michaels, La cripta d’inverno, pp. 332-33.

[9] Ibid., p. 91-92.

[10] Ibid., p. 333.

190 Note

Bodies, Memories, Languages to Reconstruct. A Letter for L’Aquila

[*] Anne Michaels read this message on November 9, 2013, at the Terra e parole conference via video call. [Editor’s Note]

[1] Anne Michaels, The Winter Vault, London, Vintage, [2009] 2010, pp. 335-336.

191 Note

Corpi, memorie, linguaggi per la ricostruzione. Lettera per L’Aquila

[*] Anne Michaels ha letto questo messaggio in videoconferenza il giorno 9 novembre 2013 durante il convegno Terra e parole. [N.d.C.]

[1] Anne Michaels, La cripta d’inverno, Firenze, Giunti, 2009, pp. 332-3.

192 Note

Paesaggi violati: ri-costruzione di vita e immaginario. I gruppi di lettura su Anne Michaels a L’Aquila

[*] Ho scritto questa parte del libro a nome e per conto dell’Associazione Donne TerreMutate, alla cui costituzione ho collaborato e del cui direttivo faccio parte. Ci tengo a sottolineare che il testo è debitore alle donne dell’Associazione di ogni parola scritta e del taglio scelto per il racconto. A loro, e alle altre donne che hanno ispirato le mie riflessioni e la mia scrittura, va il riconoscimento di quanto esso potrà comunicare. Omissioni e interpretazioni azzardate sono invece tutte mie. Ringrazio, per il contributo dato al mio lavoro, con idee, parole o incoraggiamenti, suggerimenti: Nicoletta Bardi, Antonietta Centofanti, Filomena Cioppi, Anna Maria Crispino, Lucia D’Aguanno, Loretta Del Papa, Luciana Di Mauro, Lina Faccia, Anna Maria Galeota, Simona Giannangeli, Pina Leone, Roberta Mazzanti, Giuliana Misserville, Maria Linda Odorisio, Orietta Paciucci, Anna Tellini, Valentina Valleriani. E un pensiero grato a Donatella Tellini.

[1] Per i documenti sulla casa vedi http://www.laquiladonne.com/casa-delle-donne (22 marzo 2016). Il testo è stato elaborato alla fine del 2013. Nel frattempo, il Comune ha assegnato nel giugno del 2015 una sede provvisoria all’Associazione Donne TerreMutate, inaugurata l’8 novembre del 2015, dove una grande stanza accoglie i libri della Biblioteca. È in progettazione la sede definitiva nell’ex Orfanotrofio a Collemaggio, da ristrutturare con i 3 milioni dell’ex “fondo Carfagna”. Gli aggiornamenti su www.laquiladonne.com (22 marzo 2016).

[2] L’appello del maggio 2011 è disponibile qui: www.laquiladonne.com/archivio/appelli (22 marzo 2016).

[3] Le notizie dalle stanze: www.laquiladonne.com/maggio-2011; www.laquiladonne.com/maggio-2013. Fotogallery: www.laquiladonne.com/archivio/gallery (22 marzo 2016).

[4] Nadia Butorovic Cervoni: www.laquiladonne.com/maggio-2013/ (22 marzo 2016); il video diffuso al convegno: www.youtube.com/watch? v=4m83fbCk2lA (22 marzo 2016).

[5] La sintesi del lavoro dei gruppi di lettura, con Nadia Tarantini e Roberta Mazzanti: www.societadelleletterate.it/2014/01/terra-e-parole-i- video/ (22 marzo 2016).

[6] La documentazione dei gruppi di lettura: www.laquiladonne.com/convegno-sil-2013/gruppi-di-lettura/; e dei materiali di preparazione: www.laquiladonne.com/convegno-sil-2013/materiali-di-preparazione/ (22 marzo 2016).

[7] Nadia Tarantini, “Paesaggi violati (e) tessiture dell’immaginario” Leggendaria 100 (2013), www.societadelleletterate.it/wp- content/uploads/2013/09/Legg.100-TEMA-Narrazioni.-Passaggi-violati.pdf (22 marzo 2016). Notizie sull’iniziativa veronese: www.graphein.it/files/Scuola%20diffusa.pdf (22 marzo 2016).

[8] www.laquiladonne.com/archivio/appelli (22 marzo 2016).

[9] Anne Michaels, La cripta d’inverno, Firenze, Giunti, 2009, p. 113.

[10] Orhan Pamuk, Istanbul, Torino, Einaudi, 2006.

[11] Vedi: www.recommon.org/turchia-stop-alla-diga-di-ilisu/ (22 marzo 2016).

[12] Michaels, La cripta d’inverno, p. 52.

[13] L’Aquila ad aprile 2011: www.youtube.com/watch?v=n_kFVawqxVI (22 marzo 2016).

[14] Vedi www.youtube.com/watch?v=_c_HO_siSV0 (22 marzo 2016) e www.youtube.com/watch?v=87OAfgpoOi4 (22 marzo 2016).

[15] Michaels, La cripta d’inverno, p. 299.

[16] Vedi anche, di nuovo, l’appello 2013 di TerreMutate, con l’appello alla bellezza: www.laquiladonne.com/archivio/appelli (22 marzo 2016).

[17] Per le staffette: www.laquiladonne.com/staffette/ (22 marzo 2016).

[18] Per questo aspetto vedi anche due articoli sul sito della SIL: www.societadelleletterate.it/2013/09/dopo-laquila-2/ (22 marzo 2016); www.societadelleletterate.it/2013/12/letture-aquilane-fra-anne-michaels-e-il-post-terremoto/ (22 marzo 2016).

[19] L’intervento completo di Simona: www.societadelleletterate.it/2014/01/terra-e-parole-i-video/ (22 marzo 2016).

[20] Per le due cerimonie del maggio 2011 con la terra e con l’acqua: www.youtube.com/watch?v=RrkxE7MkXbU (22 marzo 2016); www.youtube.com/watch?v=OEGN4Db-XW0 (22 marzo 2016).

193 Note

Rovine mute e pietre loquaci. Ricostruire senza nascondere il tempo e la distruzione

[*] Ringrazio Serena Guarracino per le osservazioni fatte a questo testo.

[**] Fausta Garavini, Le vite di Monsù Desiderio, Milano, Bompiani, 2014, p. 275.

[1] Anni fa mi sono posta il problema di come si raccontano le origini del femminismo degli anni ’70 in Italia. Cfr. Paola Di Cori, “Culture del femminismo. Il caso della storia delle donne”, in Storia dell'Italia repubblicana, vol.III, tomo II, Torino, Einaudi, 1997, pp. 803-861, in particolare pp. 809-811.

[2] Rinvio a Paola Di Cori, “Rappresentare: un lavoro sui resti”, in F. Balsamo, M. T. Silvestrini, F. Turco (a cura di), A sessant’anni dal voto, Torino, SEB 27, 2007, pp. 47-54; vedi anche Davide Borrelli e Paola Di Cori (a cura di), Rovine future. Contributi per ripensare il presente, Milano, Lampi di stampa, 2010.

[3] Cfr. Claudio Rutilio Namaziano, Il ritorno, Torino, Aragno, 2011, p. 32.

[4] W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Milano, Adelphi, 2004, p. 20. Su questo testo di Sebald, cfr. Richard Crownshaw, “German Suffering or ‘Narrative Fetishism’? W.G.Sebald’s ‘Air War and Literature: Zürich Lectures’”, in L. Patt, C. Dillbohner (a cura di), Searching for Sebald. Photography after W.G. Sebald, Los Angeles, The Institute of Cultural Inquiry, 2007, pp. 558-583. Per l’Italia, vedi anche i due importanti studi di Antonella Tarpino, Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Torino, Einaudi, 2008, e Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Torino, Einaudi, 2012. Sulle rovine in genere, il suo fascino e il fenomeno del feticismo delle rovine, cfr. Christopher Woodward, In Ruins, London, Vintage, 2002; Julia Hell e Andreas Schonle (a cura di), Ruins of Modernity, Durham (N.C.), Duke University Press, 2010; Brian Dillon, Ruins, London, Whitechapel Art Gallery, 2011; Brian Dillon, Ruin Lust, London, Tate Gallery Publishing, 2014.

[5] Sebald, Storia naturale della distruzione, p. 69.

[6] L’intervista è stata pubblicata in Journal of Visual Culture 3 (2002), pp. 325-340, e poi ristampata in forma diversa in Buck-Morss, Thinking Past Terror. Islamism and Critical Theory on the Left, London, Verso, 2003, pp. 113-134. Vedi anche Susan Buck-Morss, The Dialectics of Seeing: Walter Benjamin and the Arcades Project, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1989, e Dreamworld and Catastrophe. The Passing of Mass Utopia in East and West, Cambridge (Mass.), MIT Press, 2002. Vedi anche le considerazioni svolte in Emily Jacir & Susan Buck-Morss, Documenta 13, Kassel 2012.

[7] Ho ripreso lo spunto di queste fotografie nel mio libro Asincronie del femminismo, Pisa, ETS, 2012.

[8] Buck-Morss, Thinking Past Terror, p. 127.

[9] Cfr. Sigmund Freud, “Sull’etiologia dell’isteria [1896]”, in Opere, vol. II, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 334. Cfr. anche Paola Di Cori, “Archeologie della sessualità. Freud, le donne di marmo della psicanalisi e quelle di carta delle moderniste”, in Borrelli, Di Cori (a cura di), Rovine future, pp. 313-370.

[10] Si tratta del brano conclusivo del saggio Il pescatore di perle, ora in Hannah Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, Milano, Mondadori, 1993, pp. 69-92. “Come un pescatore di perle che si cala sul fondo del mare, non per disseppellirlo e riportarlo alla luce ma per liberare quel che in esso c’è di ricco e inconsueto, le perle e il corallo degli abissi, e ricondurlo in superficie, questo pensiero scava nei recessi del passato, ma non allo scopo di resuscitarlo a ciò che era e di contribuire al rinnovamento di epoche estinte. Ciò che guida questo pensiero è la convinzione che benchè i viventi siano soggetti alla rovina del tempo, il processo di decadimento è contemporaneamente un processo di cristallizzazione, che sul fondo degli abissi, ove affonda e si dissolve ciò che un tempo era vivo, certe cose subiscono un ‘sortilegio del mare’ e sopravvivono in nuove forme cristallizzate immuni agli elementi, come se aspettassero solo il pescatore di perle che un giorno scenderà da loro per ricondurle al mondo dei vivi – quali ‘frammenti di pensiero’, cose ‘ricche e strane’, e forse, addirittura eterni Urphädnomene’ (Ibid., pp. 91-92). Una precedente edizione italiana era stata inclusa in Hannah Arendt, “Walter Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle”, in Il futuro alle spalle, a cura di Lea Ritter Santini, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 105-170. Dedicato soprattutto ad analizzare le Tesi sulla filosofia della storia, si veda anche l’importante saggio di Bruno Moroncini, “Le rovine di Benjamin”, Kainos 4-5 (2004), dedicato al tema dei “Rifiuti”.

[11] All’inizio del 2015 è stata inaugurata alla Cité de l’architecture & du patrimoine di Parigi la mostra Viollet-le-Duc. Les visions d’un architecte, a cura di Laurence de Finance e Jean-Michel Leniaud. Sulla mostra, vedi l’articolo di Cesare De Seta, “Eugène Viollet-le-Duc. L’uomo che ricostruì il suo Medioevo nell’età moderna”, Repubblica, 8 febbraio 2015.

[12] Cfr. Lydia Yee et al., Laurie Anderson, Trisha Brown, Gordon Matta-Clark: Pioneers of the Downtown Scene, New York 1970s, London, Barbican Centre, 2011. Gordon Matta-Clark, nato a New York nel 1943, era figlio del surrealista cileno Roberto Matta e dell’artista Anne Clark; dopo una intensa attività a metà degli anni ‘70, è morto a 35 anni nel 1978. Ha studiato architettura nella seconda metà degli anni ’60 alla università di Cornell, e qui ha incontrato Robert Smithson, uno degli iniziatori della ‘land art’, anche lui morto assai giovane nel 1973.

[13] Su Matta-Clark esiste una ricca bibliografia. Per un primo orientamento cfr. Pamela M.Lee, Object to Be Destroyed: the Work of Gordon Matta-Clark, Cambridge (Mass.), MIT Press, 2001; vedi anche Thomas Crow et al., Gordon Matta-Clark, London, Phaidon Press, 2006; Stephen Walker, Gordon Matta-Clark: Art, Architecture and the Attack on Modernism, London, Tauris, 2009; Peter Muir, Gordon Matta-

194 Clark’s Conical Intersect. Sculpture, Space, and the Cultural Value of Urban Imagery, Fornham, Ashgate, 2014.

[14] Marguerite Yourcenar, “La mente nera di Piranesi”, in Con beneficio d’inventario, Milano, Bompiani, 1985, p. 115.

[15] Cfr. Andreas Huyssen, “Nostalgia for Ruins”, Grey Room 23 (2006), p. 7; vedi anche Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto: avanguardia e architettura da Piranesi agli anni ’70, Torino, Einaudi, 1980.

[16] Rinvio a Paola Di Cori, “Rappresentare: un lavoro sui resti”, in Balsamo, Silvestrini, Turco (a cura di), A sessant’anni dal voto, pp. 47-54; e Di Cori, Asincronie del femminismo, pp. 16 e segg.

[17] Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Napoli, Filema, 1996, p. 117.

[18] Sui problemi dell’archivio rinvio a Paola Di Cori, “Non solo polvere. Soggettività e archivi”, in P. Novaria, C. Ronco (a cura di), Archivi delle donne in Piemonte. Guida alle fonti, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2014, pp. 55-78.

[19] Michel de Certeau, La presa della parola e altri scritti politici, Roma, Meltemi, 2007 [1968], pp. 27 e segg.

[20] Franco Rella, Micrologie, Roma, Fazi, 2007, p. 33.

[21] Cfr. Clare Hemmings, Why Stories Matter? The Political Grammar of Feminist Theory, Durham, Duke University Press, 2011; Vinciane Despret, Isabelle Stengers, Les faiseuses d’histoires. Que font les femmes à la pensée?, Paris, la Découverte, 2011.

[22] Cfr. Biancamaria Frabotta e Giuseppina Ciuffreda (a cura di), Femminismo e lotta di classe in Italia (1970-1973), Roma, Savelli, 1975; Rosalba Spagnoletti (a cura di), I movimenti femministi in Italia, Roma, Samonà e Savelli, 1978; Rosalba Spagnoletti, Marina Virdis (a cura di), L’almanacco. Luoghi, nomi, incontri, fatti, lavori in corso del movimento femminista italiano dal 1972, Roma, edizioni delle donne, 1978.

[23] Vedi in particolare quelli firmati da Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1974.

[24] Tutta la raccolta è ora pubblicata on-line da Ebook @ Women (ebook.women.it), la libreria/casa editrice digitale dell'Associazione Orlando di Bologna.

[25] I 5 volumi della Storia delle donne, a cura di Georges Duby e Michelle Perrot, sono stati pubblicati dall’editore Laterza tra il 1991 e il 1993; Perry Willson, Italiane. Biografie del Novecento, Roma, Laterza, 2011.

[26] Joan Wallach Scott, The Fantasy of Feminist History, Durham, Duke University Press, 2011.

[27] Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat, Vincenza Perilli (a cura di), Femministe a parole, Roma, Ediesse, 2012; Manifesto per un nuovo femminismo, a cura di Maria Grazia Turri, Milano, Mimesis, 2013; Barbara Bonomi Romagnoli, Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio, Roma, Editori Internazionali Riuniti, 2014. Qualche anno prima era uscito, a cura della Regione Piemonte, un Glossario. Lessico della differenza, a cura di Aida Ribero, Torino, 2007. Vedi anche Fiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie, Roma, Carocci, 2012.

[28] Alice Ceresa, Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, a cura di Tatiana Crivelli, postfazione di Jacqueline Risset, Roma, nottetempo, 2007, p. 113.

[29] Ibid., p. 30.

195 Note

Lo sguardo garbatamente feroce di Natalia Ginzburg

[1] Natalia Ginzburg, “Figlio dell’uomo”, in Opere, Milano, Mondadori, 2001, p. 853.

[2] Natalia Ginzburg, “Dire la verità”, mezzosecolo n. 2, Milano, Franco Angeli, 1997.

[3] Natalia Ginzburg, “Silenzio”, in Opere, p. 856.

[4] “Walter Mauro parla con Natalia Ginzburg”, in M. A. Grignani (a cura di), Natalia Ginzburg. La narratrice e i suoi testi, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1986, pp. 57-79.

[5] Natalia Ginzburg, “Nota”, in Opere, p. 1121.

[6] Ibid.

[7] Natalia Ginzburg, “Il mio mestiere”, in Opere, p. 850.

[8] Natalia Ginzburg, “La condizione femminile”, in Opere, p. 653.

[9] Laura Fortini, “‘Possiamo dire di avere speso molto di noi’: Alba de Céspedes, Natalia Ginzburg e Anna Maria Ortese tra letteratura, giornalismo e impegno politico”, in A. Chemello, V. Zaccaro (a cura di), Scrittrici/Giornaliste – Giornaliste/Scrittrici, Modugno (BA), Università degli studi di Bari, 2011, pp. 100-16.

[10] Giulio Iacoli, “‘…Un effetto come di prigione’. Le case vulnerabili di Natalia Ginzburg”, in C. Cretella, S. Lorenzetti (a cura di), Architetture interiori. Immagini domestiche nella letteratura femminile del Novecento italiano, Firenze, Franco Cesati Editore, 2008.

[11] Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Torino, Einaudi, 2014.

[12] Ibid., p. 217.

[13] Ibid., p. 232.

[14] Cesare Garboli, “Prefazione”, in Ginzburg, Opere, p. xxv.

[15] Natalia Ginzburg, “Le piccole virtù”, in Opere, p. 883.

[16] Garboli, “Prefazione”, p. xxxv.

[17] Italo Calvino, “Natalia Ginzburg o le possibilità di un romanzo borghese”, in Saggi 1945-1985, Milano, Mondadori, 1995, p. 1087.

[18] Marina Zancan, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Torino, Biblioteca Einuadi, 1998, p. XV.

[19] Ibid., p. 102

[20] Natalia Ginzburg, “Inverno in Abruzzo”, in Opere, p. 792.

[21] Ibid.

[22] Ibid., p. 787-792.

[23] Natalia Ginzburg, “Le scarpe rotte”, in Opere, p. 793-795.

[24] Maria Rizzarelli, Gli arabeschi della memoria. Grandi virtù e piccole querelles nei saggi di Natalia Ginzburg, Catania, C.U.E.C.M., 2004, p. 148.

[25] Ad esempio sostituendo “guerra” con “epica” o “amore” con “sentimenti”. Cfr. Natalia Ginzburg, È difficile parlare di sé. Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi, a cura di Cesare Garboli e Lisa Ginzburg, Torino, Einaudi, 1999, p. 177.

[26] Ginzburg, “Le piccole virtù”, p. 896.

[27] Natalia Ginzburg, “I rapporti umani”, in Opere, p. 882.

[28] Fortini, “‘Possiamo dire di aver speso molto di noi’”, p. 110.

196 [29] Natalia Ginzburg, “Ritratto di scrittore”, in Opere, p. 196.

[30] Natalia Ginzburg, “Cent’anni di solitudine”, in Opere, p. 53.

197 Note

Le mamme di Fukushima

[1] Per ripercorrere le fasi tragiche e concitate post sisma e per comprendere come sia stato trattato l’evento ai vertici governativi e gestionali della TEPCO (responsabile legale delle centrali nucleari) si rimanda al testo che chi scrive ha avuto modo di apprezzare più di ogni altro: Pio D’emilia, Tsunami nucleare – I trenta giorni che sconvolsero il Giappone, Roma, Manifestolibri, 2011.

198 Note

Fughe ed esili: Poisson d’or di J.M.G. Le Clézio

[1] Isabelle Roussel-Gillet, “Le Clézio, l’écrivain métisserand pour une nécessaire interculturalité”, Itinérarios 31 (2010), p. 33.

[2] Cfr. “Appel à écriture”, Cahiers J.M.G. Le Clézio 5, www.associationleclezio.com/activites/cahiers6.html (22 marzo 2016).

[3] La traduzione italiana di Poisson d’or è: J.M.G. Le Clézio, Le due vite di Laila, traduzione di Massimo Castiglione, Milano, Il Saggiatore, 2010. Le citazioni dal testo in italiano si riferiscono, salvo diversa indicazione, a questa traduzione. Le altre citazioni sono tradotte da me.

[4] Cfr. “Appel à l’écriture”: “le figure femminili sono numerose e diverse nell’opera di Le Clézio, con una predilezione, comunque, per le adolescenti e le donne mediatrici tra due culture”.

[5] Le Clézio, Le due vite di Laila, p. 7.

[6] Ibid.

[7] Gérard de Cortanze, J.M.G. Le Clézio, Paris, Gallimard/Folio, 2002, pp. 147-148 e p. 149.

[8] Le Clézio, Le due vite di Laila, p. 19.

[9] Ibid., p. 21.

[10] Ibid., p. 24 e 25.

[11] Ibid., p. 36.

[12] Ibid.

[13] Ibid., p. 42-43.

[14] Ibid., p. 49.

[15] Ibid., p. 62.

[16] Cfr. Ibid., p. 69 e p. 71.

[17] Ibid., p. 71.

[18] Ibid., p. 133-134.

[19] Ibid., p. 148

[20] Ibid., p. 186.

[21] Ibid.

[22] Roussel-Gillet, “Le Clézio, l’écrivain métisserand pour une nécessaire interculturalité”, pp. 39-40.

[23] Le Clézio, Le due vite di Laila, p. 186.

[24] Cfr. J.M.G. Le Clézio, Cahiers J.M.G. Le Clézio n. 6.

199 Note

“Mondi di cui non si sa neanche il paesaggio”. Luisa Ricaldone in dialogo con Laura Pariani

[1] Laura Pariani, Di corno o d’oro, Palermo, Sellerio, 1993, quarta di copertina.

[2] Ibid., p. 16.

[3] Ibid., p. 28.

[4] Ibid., p. 26.

[5] Laura Pariani, Il piatto dell’angelo, Firenze, Giunti, 2013, p. 38.

[6] Laura Pariani, Milano è una selva oscura, Torino, Einaudi, 2010.

[7] Laura Pariani, La valle delle donne lupo, Torino, Einaudi, 2011, p. 118.

[8] Ibid., p. 124.

[9] Laura Pariani, I pesci nel letto, Padova, Alet, 2006, p. 26.

[10] Laura Pariani, La straduzione, Milano, Rizzoli, 2004.

[11] Nadia Tarantini, “Paesaggi violati (e) tessiture dell’immaginario”, Leggendaria 100 (maggio 2013), p. 27.

[12] Carla Benedetti, “Bambini fuori dal coro”, L’Espresso, 5 luglio 2007.

[13] Laura Pariani, Dio non ama i bambini, Torino, Einaudi, 2007, pp. 23-24.

[14] Ibid., p. 115.

[15] Ibid., p. 59.

[16] Ibid., p. 85.

[17] Adriana Cavarero, Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 45.

[18] Laura Pariani, Quando Dio ballava il tango, Milano, Rizzoli, 2002, pp. 77 e 78.

[19] Ibid., p. 197.

[20] Ibid., p. 31.

[21] Ibid., p. 19.

[22] Lidia De Federicis, L’Indice dei Libri del mese, n. 11, 1993.

[23] Laura Pariani, La Signora dei porci, Milano, Rizzoli, 1999.

[24] Pariani, Milano è una selva oscura, p. 61.

[25] Ibid.

[26] Loredana Lipperini, “La saggezza antica della donna dei lupi”, La Repubblica, 6 novembre 2011.

[27] Pariani, La valle delle donne lupo, pp. 181 e 193.

[28] Ibid., p. 241.

[29] Laura Pariani e Nicola Fantini, Nostra Signora degli scorpioni, Palermo, Sellerio, 2014, p. 433.

[30] Laura Pariani, Il pettine, Palermo, Sellerio, 1995, p 27.

[31] Pariani, Di corno o d’oro, bandella.

200 [32] Pendìzi: lavoro obbligatorio e gratuito per il padrone; Pariani, Di corno o d’oro, p. 35.

[33] Laura Pariani, “La morale della stalla: luglio 1883”, Ulisse 3.7 (maggio 1992), pp. 12-15.

[34] Laura Pariani, La perfezione degli elastici (e del cinema), Milano, Rizzoli, 1997.

[35] Laura Pariani, Il paese delle vocali, Bellinzona, Casagrande, 2000.

[36] Cletto Arrighi, Dizionario milanese-italiano, Milano, Hoepli, [1896] 1983.

[37] Carlo Porta, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, I Meridiani Mondadori, 1975, e El lava piatt del Meneghin ch’è mort, Milano, Ricciardi, 1960.

201 Note

Raccontare, spaesare, tramandare la Palestina: oralità e genealogia femminile

[1] Va registrato, in questo senso, lo ‘spaesamento’ del nome stesso della Palestina: il nome “Palestina” non appare sulle mappe geografiche. Solo nel 2013 Google ha modificato la tagline per Palestine.ps da “Palestinian Territories” a “Palestine”, ma non ha ancora inserito la dicitura “Palestina” in Google Maps, mentre essa compare in Google Earth: il riconoscimento (seppure parziale) da parte di Google fu accolto dall’Autorità Palestinese come un segnale importante verso il riconoscimento politico e culturale dello Stato palestinese, che è stato riconosciuto ufficialmente Stato osservatore non membro dalle Nazioni Unite nel 2012. L’utilizzo del nome “Palestina” diventa, evidentemente, una questione politica particolarmente carica, a conferma della crucialità del linguaggio e del suo spaesamento nell’articolazione dei rapporti di potere.

[2] Rashid Khalidi, Palestinian Identity: The Construction of Modern National Consciousness, New York, Columbia University Press, 1997, p. 1, trad. mia.

[3] Edward W. Said, Sempre nel posto sbagliato, trad. A. Bottini, Milano, Feltrinelli, 2009.

[4] Suad Amiry è un’architetta e scrittrice palestinese, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. Amiry ha vissuto tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, gli USA e la Scozia; attualmente vive a Ramallah. In Italia sono i suoi romanzi pubblicati da Feltrinelli sono Se questa è vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione (2005), Niente sesso in città (2007), Murad Murad (2009), Golda ha dormito qui (2013).

[5] Si veda la voce rawi nel Vocabolario Arabo-Italiano, Napoli, Istituto per l’Oriente, 1989: “chi tramanda, trasmettitore (di una tradizione, di versi spec. della poesia araba preislamica); rapsodo; narratore, novellatore, cantastorie”. Dalla stessa radice deriva anche riwaya, la parola araba che indica “romanzo”.

[6] Alla voce rawi della Encyclopedia Britannica si legge: “Il metodo per preservare la poesia attraverso i rawi, fondandosi sulla memoria, tuttavia, era imperfetto, e la poesia del periodo pre-islamico era soggetta a mutazioni, omissioni, aggiunte non autorizzate, e la trasposizione di frasi e versi. Le prime poesie registrate in più di una versione mostrano grosse divergenze testuali, e si trovano spesso assemblati pezzi di poesie diverse.” "rawi". Encyclopædia Britannica. Encyclopædia Britannica Online. Encyclopædia Britannica Inc., 2015, www.britannica.com/EBchecked/topic/492334/rawi (22 marzo 2016), traduzione mia.

[7] In questo senso va considerata anche la catalogazione o ‘lettura’ che si è fatto e ancora in parte si fa in occidente soprattutto con taglio antropologico della produzione orale di popoli colonizzati o, in generale, non occidentali, o, per usare altre categorie, di culture subalterne. Si veda, in tal senso l’utilizzo del termine “arte verbale” e la fondamentale analisi di Walter J. Ong nel suo volume Orality and Literacy: The Technologizing of the Word, New York and London, Routledge, 2002 [1982].

[8] Hélène Cixous e Julia Kristeva, tra le altre, teorizzano la contrapposizione tra il linguaggio ‘femminile’ in cui la parola ha carattere ritmico, musicale e poetico, e il logos, che resta invece legato a un sistema concettuale maschile. Si veda, tra l’altro, Hélène Cixous, Catherine Clément, La jeune née, Paris, Union Générale D’éditions, 1975; Julia Kristeva, La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia, 1975.

[9] Le ricerche che conducono alla realizzazione del film nascono dal lavoro di uno studente di dottorato israeliano che scoprì una serie di documenti inerenti a queste azioni di sottrazione di circa 70.000 libri da case private a Gerusalemme, Haifa, Jaffa, Nazareth e altrove nei territori occupati. Oggi, circa 6.000 di questi libri si trovano nella Biblioteca Nazionale di Israele, a Gerusalemme, catalogati con la sigla “AP” ovvero “Abandoned Property” [“Proprietà Abbandonata”]. Il film The Great Book Robbery. Chronicles of a Cultural Destruction (Olanda, 2010) fa parte di un progetto più ampio che mira, tra le altre cose, a costruire una biblioteca virtuale dei libri sottratti, trovare gli eredi dei legittimi proprietari dei libri, organizzare iniziative attorno ai libri e ristamparne alcuni come atto di “rinnovamento culturale”. Il progetto è consultabile al sito: https://vimeo.com/48141495 (22 marzo 2016).

[10] Doumani, Beshara, “Archiving Palestine and the Palestinians: The Patrimony of Ihsan Nimr”, Jerusalem Quarterly 9.1 (2009), p. 3.

[11] Esempi di questi siti internet sono: PalestineRemembered.com, #NakbaSurvivor, NakbaArchive, Zochrot, A common archive/Palestine 1948, DeirYassin Remembered. Per la mappatura più aggiornata della diaspora palestinese online, si veda: www.e-diasporas.fr/wp/ben-david.html (22 marzo 2016). Cfr. Olga Solombrino, “Narrating the Palestinian Nation in Cyberspace. The memory of the Nakba and online archives: new forms of narration of the Palestinian diasporic community”, Atti del convegno Diasporas: Exploring Critical Issues, 5-7 July 2014, Mansfield College, Oxford, www.inter-disciplinary.net/at-the-interface/wp-content/uploads/2014/05/solombrinodiaspaper.pdf (22 marzo 2016).

[12] Con il termine arabo al-nakba (“la catastrofe”) si intende l’espulsione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi dalle proprie case e dal territorio palestinese nel 1948. Lo Stato d’Israele impedì l’esercizio del diritto di rientrare, sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite; i profughi furono sistemati in campi nei Paesi arabi ospitanti.

[13] Va registrata la complessità del tema della ‘nazione’, evidentemente centrale nella questione palestinese, ma articolato in quello che Bhabha chiama “il tempo performativo del postcoloniale” attraverso la narrazione della e dalla diaspora, in cui si sovrappongono livelli continuamente riconfigurati di identità, identificazione, solidarietà transnazionale, e retorica nazionalistica; vedi Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001.

[14] A proposito della relazione tra la figura di Shahrazade e il femminismo, si veda tra l’altro: Suzanne Gauch, Liberating Shahrazad: Feminism, Postcolonialism, and Islam, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2006; Fatima Mernissi, L’harem e l’occidente, Firenze,

202 Giunti, 2000; Lidia Curti et al. (a cura di), La nuova Shahrazad. Donne e multiculturalismo, Napoli, Liguori, 2004 (soprattutto l’introduzione di Lidia Curti, “Corpi prigionieri, anime in movimento”); Charlotte Weber, “Unveiling Scheherazade: Feminist Orientalism in the International Alliance of Women, 1911-1950”, Feminist Studies 27.1 (2001), pp. 125-157.

[15] Assia Djebar, “La donna fatta a pezzi”, in Nel cuore della notte algerina, Firenze, Giunti, 1998, p. 132.

[16] Lidia Curti, Female Stories, Female Bodies, London, Palgrave Macmillan, 1998, p. viii (traduzione mia).

[17] Vanno menzionate in tal senso, tra le altre, Nathalie Handal, Suheir Hammad (si veda infra), Randa Jarrar, Susan Abulhawa. Sulla costruzione di un’identità palestinese multipla e transnazionale, si veda: Marta Cariello, “Why does our vocabulary invent us? Palestinian identity, polyglossia and dissemination”, in J. Block, A. Haste (a cura di), Constructing Identity in an Age of Globalisation, Paris, Ars Identitatis/Ex Modio, 2014.

[18] Ein El Hilweh resta a tutt’oggi il campo di rifugiati palestinesi più grande del Libano; la popolazione è quasi raddoppiata dal 2011, con l’afflusso di rifugiati dalla Siria. Ad Ein El Hilweh visse anche il noto disegnatore palestinese Naji al-Ali, autore, tra l’altro, del personaggio di Handala, il bambino raffigurato sempre di spalle, diventato icona della protesta palestinese. La regista del documentario, Dahna Abourahme, è nata ad Amman da genitori palestinesi e attualmente risiede a Beirut. Il suo primo lungometraggio si intitola Until When (Libano, 2005) ed è ambientato a Betlemme durante la seconda Intifada.

[19] Amany Al-Sayyed, “Everyday heroes: filmmaker Dahna Abourahme interviewed”, The Electronic Intifada (25 novembre 2010), electronicintifada.net/content/everyday-heroes-filmmaker-dahna-abourahme-interviewed/9779 (22 marzo 2016).

[20] The Kingdom of Women, www.youtube.com/watch?v=ceUey6OXeGQ (22 marzo 2016).

[21] Adrienne Rich, Diving into the Wreck: Poems 1971-1972, New York Norton, 1973, p. 24; trad. it. Adrienne Rich, Esplorando il relitto. Poesie, trad. e cura di Liana Borghi, Roma, Savelli Editore, 1979, p. 36.

[22] Ibid.

[23] Ibid.

[24] Deborah Pope, A Separate Vision: Isolation in Contemporary Women’s Poetry, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1984, p. 148.

[25] Femminile di rawi.

[26] Nella versione scritta delle sue poesie, Hammad ‘performa’ in qualche modo l’arabo che alberga dentro al suo inglese usando sempre le lettere minuscole, come avviene per la lingua araba, che non ha lettere maiuscole.

[27] Suheir Hammad, “argela remembrance”, in born palestinian, born black, New York, UpSet Press, 2010, p. 38; traduzione mia.

[28] Suheir Hammad, born palestinian, born black & the gaza suite, New York, UpSet Press, 2010, pp. 87-88, www.youtube.com/watch? v=Ju_i5-NDhnQ (22 marzo 2016); traduzione mia.

203 Note

Avere due patrie e non averne nessuna: le valigie delle donne

[1] Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, Milano, Rizzoli 2010, pp. 94-99.

[2] Igiaba Scego, Adua, Firenze, Giunti, 2015.

[3] Igiaba Scego, La nomade che amava Alfred Hitchcock. Ari racaato jecleeyed Alfred Hitchcock, Roma, Sinnos, 2003, con illustrazioni di Claudia Borgioli e testo in somalo a fronte di Zahara Omar Mohamed.

[4] Igiaba Scego, “Introduzione”, in Scego, La nomade che amava Alfred Hitchcock, p. 8.

[5] Ibid., p. 9.

[6] Ibid., p. 78.

[7] Igiaba Scego, “Salsicce”, in Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiagy, Igiaba Scego, Laila Waida, Pecore nere. Racconti, a cura di Flavia Capitani e Emanuele Coen, Bari, Laterza, 2005, pp. 23-36.

[8] Ibid., p. 24.

[9] Abito femminile somalo.

[10] Miscela di incenso e altri profumi.

[11] Focaccia.

[12] Ibid., pp. 29-30, le note fanno parte del testo.

[13] Ibid., p. 30.

[14] Igiaba Scego, “Dismatria”, in Kuruvilla, Mubiagy, Scego, Waida, Pecore nere, pp. 5-21.

[15] Ibid., p. 11.

[16] Igiaba Scego, Rhoda. Romanzo, Roma, Sinnos, 2004.

[17] Per la definizione del termine “personagge” rimando al XII Convegno della Società Italiana delle Letterate dedicato a Io sono molte. L'invenzione delle personagge (Genova, 18-20 novembre 2011), ora in Roberta Mazzanti, Silvia Neonato, Bia Sarasini (a cura di), L’invenzione delle personagge, Roma, Iacobelli, 2016; e ai contributi di Nadia Setti, “Personaggia, personagge”, Altre Modernità 12 (2014), pp. 204-213; Maria Vittoria Tessitore, “L’invenzione della personaggia”, Altre Modernità 12 (2014), pp. 214-219.

[18] Ha osservato Anna Proto-Pisani che: "Il dominio sui corpi e in particolare sui corpi delle donne è l’immagine più forte del rapporto di potere e di violazione insito nella relazione coloniale. La donna colonizzata è letteralmente fatta a pezzi, ridotta a ‘frammenti di donna’, come recita il titolo, e messa sotto formalina invece di essere sepolta. L’appropriazione, l’esposizione, lo stupro, la vivisezione e lo smembramento del corpo femminile, da vivo e da morto, rappresentano la realtà coloniale e al tempo stesso costituiscono la tragica metafora, della penetrazione coloniale nel suo complesso. Attraverso queste immagini è possibile osservare come la colonizzazione sia raccontata o evocata attraverso il devastante impatto materiale che si incide sui corpi e si ripercuote sulle storie. Per descrivere questo scontro la scrittura di I. Scego si fa materiale, diventa prosaica, attenta agli stravolgimenti fisici, ai disagi, alle reazioni del corpo e assume uno spessore tragico nelle opere più mature”; Anna Proto- Pisani, “Igiaba Scego, scrittrice post coloniale in Italia”, Italies 14 (2010), italies.revues.org/4042 (22 marzo 2016).

[19] Igiaba Scego, Oltre Babilonia, Roma, Donzelli, 2008.

[20] Ibid., p. 16.

[21] Laura Fortini, “Diventare donne, diventare scrittrici nel primo Novecento italiano”, in Il romanzo del divenire. Un Bildungsroman delle donne?, a cura di Paola Bono e Laura Fortini, Pavona (Albano Laziale - Roma), Iacobelli, 2007, pp. 34-59.

[22] Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, Milano, Rizzoli, 2010.

[23] Ibid., p. 31.

[24] Ibid., pp. 54-55. Ha scritto Maria Vittoria Tessitore nelle motivazioni della nomina di Igiaba Scego a socia onoraria della Società Italiana delle Letterate che “l’elefante della Minerva, un animale africano al centro di una piazza romana, ha lo sguardo dell'esule, anzi lo stesso sguardo della mamma di Igiaba, che nei suoi successivi spostamenti ridisegna la propria mappa. E con il bagaglio che è proprio della tradizione somala, dispiega le molte storie”; “Le mappe della scrittura di Igiaba Scego”, www.societadelleletterate.it/2013/05/le-mappe-della-scrittura-di-

204 igiaba-scego/ (22 marzo 2016).

[25] Rino Bianchi, Igiaba Scego, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, presentazione di Nadia Terranova, postfazione di Andrea Branchi, Roma, Ediesse, 2014.

[26] Ibid., p. 22, pp. 34-35.

205 Note

... so di non essere dotata per un altro (mondo)

[1] Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Torino, La Rosa, 1982, p. 5.

[2] Ibid., p. 11.

[3] Rosi Braidotti, Soggetto nomade, Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli, 1995, p. 18.

[4] Ibid.

[5] Nadia Tarantini, “Paesaggi violati (e) tessiture dell’immaginario”, Leggendaria 100 (2013), p. 27.

[6] Lispector, La passione secondo G.H., p. 59.

[7] Max Frisch, Diario d’antepace, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 43.

[8] Vedi Lina Mangiacapre e Angela Putino, “Androgina / Amazzone”, Manifesta. Il diverso della scrittura 1 (1988), pp. 1-3, ora anche in www.adateoriafemminista.it/wp-content/uploads/2013/11/5.pentesileastef.pdf (22 marzo 2016); “Funzione guerriera e inaddomesticato”, in Centro culturale V. Woolf-Università delle donne (a cura di), Imparare dalle donne, Terni, s.i.e., 1992, p. 7; “Donna guerriera”, DWF 7 (1988), p. 10; “La funzione guerriera e la sua originaria forma femminile”, in M. Forcina, A. Prontera, P.I. Vergine (a cura di), Filosofia donne filosofe, Lecce, Milella, 1994; Angela Putino, Amiche mie isteriche, Napoli, Cronopio, 1998, pp. 39-40.

[9] Vedi Michel Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Sesto San Giovanni (Mi), Mimesis, 2001.

[10] Emily Dickinson, lettera ad Abiah Root, 28 marzo 1846, in Emily Dickinson, The Letters, 11-20, traduzione e note di Giuseppe Ierolli, www.emilydickinson.it/l0011-0020.html (22 marzo 2016).

[11] “Certo dovevano ragionevolmente esistere in un luogo. Ma ero davanti a un muro che palpavo singhiozzando senza trovare la porta” (Hélène Cixous, Le fantasticherie della donna selvaggia, trad. Nadia Setti, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 36).

[12] Sara Bigardi, Quando il reale e il delirio si toccano, www.diotimafilosofe.it/down.php?t=3&id=326 (22 marzo 2016), p. 1.

[13] Anne Michaels, La cripta d’inverno, Firenze, Giunti, 2009, pp. 232-233.

[14] Ibid., p. 40.

[15] Ibid., p. 49.

[16] Lidia Campagnano, “Lottare è questo riprendersi del cuore. Appunti di un’ospite dell’Aquila”, Leggendaria 86 (2011), p. 44.

[17] Michaels, La cripta d’inverno, p. 51.

[18] Ibid., p. 113.

[19] Ibid.

[20] Ibid., p. 234.

[21] Anna Maria Ortese, “Il ‘mare’ come spaesamento”, in Il mare non bagna Napoli, Milano, Adelphi, 1994, p. 9.

[22] Anna Maria Ortese, Il porto di Toledo, Milano, Adelphi, 1998, p. 112.

[23] Ortese, “Il ‘mare’ come spaesamento”, p. 10.

[24] Ibid.

[25] Ibid.

[26] Ibid., pp. 10-11.

[27] Anna Maria Ortese, “Un paio di occhiali”, in Il mare non bagna Napoli, p. 17.

[28] Ibid., p. 33.

206 [29] Ibid., p. 34.

[30] Ibid.

[31] Ibid.

[32] Anna Maria Ortese, “La città involontaria”, in Il mare non bagna Napoli, p. 81.

[33] Anna Maria Ortese, “Le giacchette grigie di Monte di Dio”, in Il mare non bagna Napoli, p. 174.

[34] Ibid., p. 175.

[35] Carla Lonzi, Taci, anzi parla, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1978, p. 13.

[36] Ibid., p. 7.

[37] Ibid., p. 14.

[38] Ibid., p. 15.

[39] Marta Lonzi, Anna Jaquinta, Carla Lonzi, È già politica, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1977, p. 22.

[40] Ibid.

[41] Michaels, La cripta d’inverno, p. 139.

[42] Ibid., pp. 278-279.

[43] Ibid., p. 287.

[44] Ibid., p. 287.

[45] Federica Giardini, “La differenza in movimento”, Leggendaria 50 (2005), p. 33.

[46] Simone Weil, La prima radice, Milano, SE, 1990, p. 49.

[47] Vedi Luca Miele, “La curiosità e la filosofia: Michel Foucault”, bombacarta.com/2008/05/26/la-curiosita-e-la-filosofia-michel-foucault/ (22 marzo 2016).

[48] Silvia Neonato, “Verso L’Aquila. La parola che cura”, Leggendaria 102 (2013), p. 6.

[49] Emily Dickinson, “J419/F428 (1862)”, in The Complete Poems – Tutte le poesie, traduzione e note di Giuseppe Ierolli, www.emilydickinson.it/j0401-0450.html (22 marzo 2016).

207 Note

Guasto celeste

[*] Questo titolo rende conto della relazione fra me e Laura Fortini che mi ha persuasa e accompagnata a prendere parola in questa occasione. Il titolo evoca infatti e tiene insieme il libro caro a Laura – Guasto di Christa Wolf – e quello caro a me – Corpo celeste di Anna Maria Ortese – in materia di parole per la terra, e la traccia di riflessione che desidero proporre è nata giustappunto da un accostamento fra i due.

[1] Cito dal primo programma del convegno, a cura del direttivo della SIL, circolato in rete in preparazione dell'evento; vedi www.societadelleletterate.it/2013/09/terra-e-parole/ (22 marzo 2016).

[2] Cito e traduco liberamente da María Zambrano, La experiencia de la historia, in Los intelectuales y el drama de Espaňa y otros escritos de la guerra civil, Madrid, Trotta Editorial, 1998.

[3] Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti, trad. Laura Guarino, Milano, Bompiani, 1996, p. 32.

[4] Christa Wolf, Guasto, trad. Anita Raja, Roma, e/o, 1987, p. 43.

[5] Vandana Shiva, Fare pace con la terra, trad. Bruno Amato, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 280.

[6] Wolf, Guasto, pp. 9-33.

[7] Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Milano, Adelphi, 1997, pp. 116-125.

[8] Se ne ha adeguato riscontro in Annarosa Buttarelli, Sovrane. L'autorità femminile al governo, Milano, Il Saggiatore, 2013.

[9] La riflessione risente della lettura di Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura, Milano, Il Saggiatore, 2005.

[10] Hannah Arendt, Vita activa, trad. Alessandro Dal Lago, Milano, Bompiani, 2009.

[11] Cristina Campo, Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999, pp. 48 e 49-50.

[12] Wolf, Guasto, pp. 110-112.

[13] Rispettivamente Ortese, Corpo celeste, p. 13 e Da Moby Dick all'Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull'arte, a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi, 2011, p. 113.

[14] Ortese, Corpo celeste, pp. 29, 149, 130.

[15] Wolf, Guasto, p. 112.

[16] Luisa Muraro (con Franco Cardini), Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli, Torino, Lindau, 2012, p. 99.

[17] Shiva, Fare pace con la terra, p. 122.

[18] Ortese, Corpo celeste, pp. 51-54.

208 Note

Uno scheletro in crinolina si affacciò tra le rovine

[1] Vedi www.societadelleletterate.it/wp-content/uploads/2013/09/pieghevole_def1.pdf (22 marzo 2016).

[2] Vedi https://ttworkshop.wordpress.com/ (22 marzo 2016). L’indagine territoriale era finalizzata alla rilettura e alla reinterpretazione del territorio, dopo 40 anni dal sisma, attraverso differenti linguaggi, e vide la partecipazione di architetti, geografi, antropologi, semiologi, urbanisti, fotografi e artisti.

[3] Clara Cot, “Cicatrici” (2009), ttworkshop.wordpress.com/2009/10/26/cicatrici/ (22 marzo 2016).

[4] Anne Michaels, La cripta d’inverno, trad. Roberto Serrai, Giunti, Firenze, 2009, p. 215.

[5] Ibid., p. 181.

[6] Ibid., p. 182.

[7] Lucina Floris, “Abitare la soglia”, in L. Borghi, U. Treder (a cura di), Il globale e L’intimo: luoghi del non ritorno, Perugia, Morlacchi editore, 2007, pp. 72, 74.

[8] Annamaria Caprarotta, Carta Bianca storie di Gibellina nuova in http://www.balloonproject.it/carta-bianca-a-gibellina/ (22 marzo 2016). A Gibellina, scrive Craparotta, per un lungo periodo la gente viveva contemporaneamente in tre città, in un contesto dunque eterotopico e mutevole: dormiva nella città nuova, lavorava nelle baracche e viveva dei ricordi del vecchio paese. Lo spazio delle relazioni col passare degli anni e il diminuire delle relazioni si è ripiegato verso l’interno delle case, lasciando vuote le strade.

[9] Simona Vinci e Loredana Lipperini, “Strade”, Lipperatura (2008), loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/tag/simona-vinci/ (22 marzo 2016).

[10] Il gruppo di Dolci che aveva sede a Partinico e fondato sulla non violenza, aveva preso le distanze, soprattutto dopo il pubblico processo allo Stato che si tenne a Roccamena un anno dopo il terremoto, dal progetto portato avanti da Barbera che prevedeva, nella sua visione comunista, una presa violenta del potere.

[11] Il Centro, che nel 1973 si trasformerà in CRESM, sorretto dagli aiuti di diversi Stati, tra cui la Svezia, era diventato meta di intellettuali di varie nazionalità. Vi soggiornarono per un periodo anche le figlie di Ulrike Meinhof, terrorista tedesca cofondatrice della banda Baader- Meinhof, con le quali Susani giocava.

[12] Carola Susani, L’infanzia è un terremoto, Bari, Laterza, 2008, p. 120.

[13] Ibid., p. 76.

[14] Ibid., p. 31.

[15] Monica Farnetti, “Senza un luogo dove stare”, in C. Barbarulli, L. Borghi (a cura di), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, Cagliari, Cuec, 2006, p. 257.

[16] Floris, “Abitare la soglia”, p. 75.

[17] Michaels, La cripta d’inverno, p. 263.

[18] Susani, L’infanzia è un terremoto, p. 42.

[19] Ibid., p. 42.

[20] Antonella Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Torino, Einaudi, 2012, pp. 35 e 28.

[21] Ibid., p 86; corsivo nel testo.

[22] Ibid., p. 13.

[23] Tarpino, Spaesati, pp.17, 20.

[24] Susani, L’infanzia è un terremoto, pp. 13, 14.

[25] Ibid., p. 105.

209 [26] Tarpino, Spaesati, p. 29.

[27] Ibid., pp.14, 20.

[28] Ibid., p. 23.

[29] Simona Vinci, Rovina, Milano, edizioni Ambiente, 2007, p. 116.

[30] Carola Susani, Eravamo bambini abbastanza, Roma, Minimum Fax, 2012.

[31] Ibid., p.10.

[32] Ibid., p.70.

[33] Susani, L’infanzia è un terremoto, p. 7, 8.

[34] Tarpino, Spaesati, p. 132.

[35] Susani, Eravamo bambini abbastanza, p. 16.

[36] Ibid. p. 69.

[37] Ibid. p. 55.

[38] Ibid. p. 5.

[39] Susani, L’infanzia è un terremoto, p. 14.

[40] Ibid. p. 14.

[41] Ibid. p. 14, 15.

[42] Ibid., p. 15. Oggi la situazione sembra sia cambiata di segno. I ragazzi di Gibellina vanno al Cretto e ci portano gli anziani. Scrittori e artisti stanno nascendo da Gibellina. “Le cose del mondo si trasformano in meglio per sogni di redenzione […] succede a onde. Le onde non creano un sicuro procedere ma quando va bene si richiamano l’un l’altra e tutto sta nel resistere alla risacca” (Susani, L’infanzia è un terremoto, p. 59).

[43] Ibid., p. 12.

[44] Ibid., p. 19.

[45] Ibid., p. 34.

[46] Ibid., p. 30. Nel ’68, anno del terremoto, il Belice era già al centro di iniziative ‘traumatiche’ da un punto di vista politico sociale cominciate nei primi anni Sessanta. Mi riferisco alle lotte di Danilo Dolci a Partinico e di Lorenzo Barbera a Partanna per la costruzione delle dighe, il rimboschimento e la bonifica della Valle del Belìce, culminate nella storica “Marcia per la Sicilia occidentale e per la pace”, nel 1967, che partì da Partanna per raggiungere Palermo. Oltre a Danilo Dolci e Lorenzo Barbera vi parteciparono i sindaci della Valle, Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Carlo Levi, Rosa Balistreri e il vietnamita Vo Van Ai. Nel marzo del ‘69, in 1500 provenienti dalla Valle, si accamparono per quattro giorni e quattro notti davanti a Montecitorio, sostenuti da una grandiosa campagna di solidarietà nazionale che portò a un testo di legge per la ricostruzione e lo sviluppo della Valle del Belìce. Fatti magistralmente raccontati da Lorenzo Barbera in I ministri dal cielo, Palermo, duepunti edizioni, 2011. Venne persino organizzata la settimana del Giudizio Popolare, invitando nella piazza di Roccamena il Ministro dei lavori pubblici Mancini e il Presidente della Regione, i quali furono condannati a risiedere in tenda per una settimana. Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina, disse in proposito: “Il movimento tellurico era già interno alla società”.

[47] Emanuele Sirolli, in F. Carnelli, O. Paris, F. Tommasi (a cura di), Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma, Arcidosso, C&P Adver Effigi, 2012, p. 63, 64. La definizione di “passivizzazione” e “infantilizzazione” è di A. Puliafito in Protezione civile SPA. Quando la gestione dell’emergenza si fa business, Reggio Emilia, Aliberti editore, 2010, p. 22.

[48] Susani, L’infanzia è un terremoto, p. 93 e p. 71.

[49] Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Faré, “Introduzione”, in B. Bottero, A. Di Salvo, I. Farè (a cura di), Architetture del desiderio, Napoli, Liguori, 2011, p. 7.

[50] Nadia Nappo, “La cura del rifiuto che si apre alla visione dell’abitare”, in B. Bottero, A. Di Salvo, I. Farè (a cura di), Architetture del desiderio, p. 17 e 21.

[51] Mariarosaria Mariniello, Nadia Nappo, “Un piccolo resoconto dell’incontro con Terre Mutate all’Aquila”, Il paese delle donne on line (12 maggio 2012).

[52] Annarosa Buttarelli, Pensare il mondo come ambiente domestico, http://www.diotimafilosofe.it/down.php?t=3&id=120 (22 marzo 2016).

210 Note

La luce delle cose. Breve indagine sulla poesia di Antonella Anedda

[1] Antonella Anedda, La luce delle cose. Immagini e parole nella notte, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 9.

[2] Ibid. p. 11.

[3] Ibid. p. 13.

[4] Ibid. p. 32.

[5] Ibid., p. 35.

[6] Ibid. Vedi Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Milano, Adelphi, 1994.

[7] Ibid.

[8] María Zambrano, Chiari del bosco, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 7.

[9] Michel Foucault, Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 24.

[10] Anedda, La luce delle cose, p. 50.

[11] Paul Celan, Conseguito silenzio, Torino, Einaudi, 1998; cit. in Anedda, La luce delle cose, p. 51.

[12] Anedda, La luce delle cose, p. 54.

[13] Ibid., pp. 109-110.

[14] Ibid., p. 119.

[15] Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Milano, Feltrinelli, 1991.

[16] Jacopo Pontormo, Il libro mio, in Salvatore S. Nigro, L’orologio di Pontormo, Milano, Rizzoli, 1998.

[17] Anedda, La luce delle cose, p.150.

[18] Osip Mandel’štam, I quaderni di Voronež, Milano, Modadori, 1995.

[19] Marina Cvetaeva, Deserti luoghi, Milano, Mondadori, 1988.

211 Note

Dal dissesto alla genealogia. Conversazione con Ida Travi

[1] Le ultime tre sillogi di Ida Travi, pubblicate a distanza di un anno una dall’altra, sono Tà. Poesia dello spiraglio e della neve, Bergamo, Moretti&Vitali, 2011, Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso, Bergamo, Moretti&Vitali, 2012, e Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Bergamo, Moretti&Vitali, 2013.

[2] Cfr. Ida Travi, L’aspetto orale della poesia, Bergamo, Moretti&Vitali, 2007.

[3] Ida Travi, Poetica del basso continuo, Bergamo, Moretti&Vitali, 2015, p. 50.

[4] Luigi Bosco, “Ricominciare da Tà”, www.poesia2punto0.com/2011/07/29/ricominciare-da-ta-per-una-nuova-mitologia-contemporanea/ (22 marzo 2016), ma anche Luigi Bosco, “Buone nuove dalla terra di Zard. Narrazione e promessa di senso nella poetica di Ida Travi”, www.inrealtalapoesia.com/buone-nuove-dalla-terra-di-zard-narrazione-e-promessa-di-senso-nella-poesia-di-ida-travi/ (22 marzo 2016).

[5] Cfr. Ida Travi, Diotima e la suonatrice di flauto, Milano, La Tartaruga, 2000.

[6] Cfr. Ida Travi, Neo-Alcesti. Canto delle quattro mura, Bergamo, Moretti&Vitali, 2009.

[7] Cfr. Ida Travi, La corsa dei fuochi, Bergamo, Moretti&Vitali, 2007.

[8] “[Diotima:] molte cose Socrate non sa sul mio pensiero […] Immagini, visioni d’amore, intelligenza di tutto un altro genere. A volte, a sera sul punto di dormire, un’immagine viene e mi dà un’immensa pace: una donna accoglie un corpo quasi esangue, lo tiene tra le braccia, leggerissimo, lo guarda solamente e il corpo cerca piano di parlare. Questa è l’immagine d’una Pietà vivente, una figura umana che ha il volto femminile della cura” (Travi, Diotima, p. 49).

[9] Travi, Poetica del basso continuo, p. 51.

[10] Cfr. Travi, L’aspetto orale della poesia, p. 38.

[11] Travi, Poetica del basso continuo, p. 41.

[12] Cfr. Alessandra Pigliaru, “Nel cuore della parola”, postfazione a Ida Travi, Il mio nome è Inna.

[13] Ibid., p. 48.

[14] Ida Travi, “Il gioco pesante di tutta la vita”, in Chiara Zamboni, Il cuore sacro della lingua, Padova, Il Poligrafo, 2006, p. 72.

[15] Travi, Poetica del basso continuo, p. 37.

212 Note

Caryl Churchill: uno sguardo profetico

[1] Caryl Churchill, Lontano lontano, in Teatro I, a cura di Paola Bono, trad. di Massimiliano Farau, Spoleto, Editoria & Spettacolo, 2013, p. 144.

[2] Sara Soncini, “‘This is not a war’: le neoguerre nel teatro di Caryl Churchill”, in M. Cavecchi, M. Rose (a cura di), Caryl Churchill. Un teatro necessario, Firenze, ed.it, 2012, p. 81.

[3] È questo il titolo di un breve articolo di una Churchill poco più che ventenne; con una lucidità di giudizio e una nettezza di propositi non comuni, vi delineava la sua idea di un teatro insieme politico e poetico, che andasse oltre il naturalismo senza dimenticare i problemi posti dalla realtà, osando alzare costantemente e senza cautele la posta dell'immaginazione: Caryl Churchill, “Not Ordinary, Not Safe: A Direction for Drama?”, The Twentieth Century [numero monografico: Young Opinion. No Contributor to This Number Is Over 25], 168.1005 (1960); qui e altrove, la traduzione di citazioni da fonti in inglese è da considerarsi mia.

[4] Caryl Churchill, “Introduction”, in Plays 4: Hotel, This is a Chair, Blue Heart, Far Away, A Number, A Dream Play, Drunk Enough to Say I Love You?, Londra, Nick Hern Books, 2008, p. viii.

[5] Churchill, Lontano lontano, p. 131.

[6] Elin Diamond, “On Churchill and Terror”, in E. Aston, E. Diamond (a cura di), The Cambridge Companion to Caryl Churchill, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, p. 139.

[7] ‘Ecocidio’ è termine entrato in uso in numerose lingue a partire dalla fine degli anni Sessanta/primi anni Settanta del Novecento; in Italia ne registra la presenza il supplemento all'edizione del Dizionario Devoto-Oli pubblicato nel 1971 (Le nuove parole. Aggiornamento del Dizionario della lingua italiana, a cura di Lorenzo Magini), che così lo definisce: “Distruzione perpetrata volutamente di un ambiente naturale”. Già nel 1970 iniziarono i tentativi di dar vita a una legislazione internazionale che proibisse tale distruzione: la prima proposta fu avanzata da Arthur Galston a un convegno su “Guerra e responsabilità nazionale” tenutosi a Washington; ne dà notizia un articolo sul New York Times del 28 febbraio di quell’anno, citato in Barry Weisberg (a cura di), Ecocide in Indochina. The Ecology of War, San Francisco, Canfield Press, 1970, p. 4. Tali sforzi non si sono mai interrotti, ed esiste in merito una crescente letteratura politica e legale; alcuni paesi hanno introdotto leggi che definiscono e perseguono il reato di ecocidio (sebbene la loro applicazione sia dubbia), ma a livello internazionale resta il paradosso che siano compresi tra i crimini di guerra i danni gravi e a lungo termine all'ambiente, ma che gli stessi danni possano essere inflitti restando impuniti in tempo di pace.

[8] Una Chaudhuri, “Different Hats: Caryl Churchill's Far Away”, Theater 33.3 (2003), p. 133, www.hotreview.org/articles/differenthats_print.htm (22 marzo 2016). In questo articolo-recensione della messa in scena del testo di Churchill al Theatre Workshop di New York, molto interessante è il richiamo a Homebody/Kabul di Tony Kushner, che pure parla di cappelli esoticamente favolosi, frutto di dolore e oppressione eppure bellissimi. Il parallelo tra i due drammi appare anche nella recensione di Alisa Solomon, “When We Dread Awaken”, The Village Voice (12 novembre 2002), www.villagevoice.com/2002-11-12/theater/when-we-dread-awaken (22 marzo 2016).

[9] Michel Serres, Il contratto naturale, Milano, Feltrinelli, 1991 [1990], p. 64. Dello stesso autore si veda anche Il mantello di Arlecchino. Il Terzo-istruito: l'educazione dell'età futura, Venezia, Marsilio, 1992 [1991].

[10] Churchill, Lontano lontano, p. 144. Come nota Sara Soncini (“'This is not a war'”, p. 86), qui e altrove “proprio negli elementi più surreali dello scenario bellico evocato non è difficile riconoscere situazioni o dinamiche che appartengono alle guerre di ultima generazione: dalla notoria affermazione dell’allora segretario di Stato americano Madeleine Albright che, di fatto, qualificava il milione di bambini iracheni sotto i cinque anni morti a causa dell’embargo come un bersaglio legittimo, alle storie un po’ strampalate di animali arruolati come combattenti nell’uno o nell'altro schieramento”. Si vedano anche le note 18 e 19 alle pp. 97-98, e il precedente saggio della stessa autrice, “Stage Wars: The Representation of Conflict in Contemporary British Theatre”, in C. Dente, S. Soncini (a cura di), Conflict Zones: Actions Languages Mediations, Pisa, Edizioni ETS, 2004.

[11] Churchill, Lontano lontano, p. 142.

[12] Ibid., p. 144.

[13] Ibid., p. 142.

[14] Christine Dymkowski, “Caryl Churchill: Far Away... But Close to Home”, The European Journal of English Studies 7.1 (2003), pp. 63-64.

[15] Churchill, Lontano lontano, pp. 142-43.

[16] Venne trasmesso da BBC Radio 3 il 31 marzo 1971, per la regia di John Tydeman.

[17] In Lontano lontano, ad esempio, il lavoro di Joan e Todd, pur essendo di tipo creativo, è organizzato secondo modalità fordiste: “In un testo dove le didascalie sono ridotte al minimo, Churchill eccezionalmente indica la scansione ritmica e ripetitiva del loro lavoro, ripetendo quattro volte l’indicazione: ‘Silenzio. Continuano a lavorare’” (Elaine Aston, “But Not That: Caryl Churchill’s Political Shape Shifting at the Turn of

213 the Millennium”, Modern Drama 56.2 (2013), p. 156). Inoltre i tempi vengono man mano tagliati per aumentare la produttività, mentre il rogo dei cappelli significa anche la coazione all’usa e getta che caratterizza le società consumiste, nonché la necessità di oggetti a breve durata perché il ciclo produzione-consumo non si interrompa.

[18] Sheila Rabillard, “On Caryl Churchill’s Ecological Drama: Right to Poison the Wasps?”, in Aston, Diamond (a cura di), The Cambrige Companion, p. 88. Senza poter parlare di tutti, anche se ad alcuni accennerò ancora, mi limito a elencare qui i testi di Churchill, oltre a Not Not Not Not Not Enough Oxygen (1971) e a Far Away (Lontano lontano, 2000), in cui in modi anche assai diversi appare evidente l'attenzione al rapporto con la natura e l'ambiente: Moving Clocks Go Slowly (1975), Fen (1983), Lives of the Great Poisoners (con musiche di Orlando Gough e coreografie di Ian Spink, 1991), The Skriker (1994), e il libretto per la corale We Turned on the Light (musica di Gough).

[19] Caryl Churchill, “Introduction”, in Shorts: Lovesick, Abortive, Not Not Not Not Not Enough Oxygen, Schreber’s Nervous Illness, The Hospital at the Time of the Revolution, The Judge’s Wife, The After-Dinner Joke, Seagulls, Three More Sleepless Nights, Hot Fudge, Londra, Nick Hern Books, 1990, p. vii.

[20] Philip Roberts, About Churchill. The Playwright and the Work, Londra, Faber and Faber, 2008, p. 28.

[21] Serres, Il mantello di Arlecchino, p. 177.

[22] Churchill, Not Not Not Not Not Enough Oxygen, in Shorts, p. 39.

[23] Ibid., p. 51.

[24] Se non si può acquistare il permesso, si può concorrere a una lotteria per vincerne uno – ma se una donna resta incinta senza averlo, è obbligatorio l'aborto, oppure si diventa fuorilegge in fuga di paese in paese, come è successo al fratellastro di Claude, Alexander, e a sua moglie; stremati e col senso di colpa, hanno infine ucciso il bambino e, essendo entrambi medici, per espiare sono partiti per un paese dove infuria una epidemia.

[25] Rabillard, “On Caryl Churchill's Ecological Drama”, p. 90.

[26] Churchill, Not Not, p. 39. In relazione alla già sottolineata ricorrenza di temi ecologici nell’opera di Churchill, segnalo come esempio Moving Clocks Go Slowly (1975), ambientato in parte in una stazione spaziale e in parte su una terra inaridita e devastata come quella di Not Not, dove la nonna della protagonista Kay le ricorda i tempi passati dicendole: “Non devi giudicare il nostro pianeta da quel che è ora. C’erano giardini fioriti e animali” – proprio come Mick in Not Not a un certo punto esclama nostalgicamente che “C’erano ancora degli uccelli negli anni Ottanta” (p. 44). Purtroppo Moving Clocks è a tutt’oggi inedito; la citazione viene da Roberts, About Churchill, p. 54, cui si rimanda anche per altre informazioni su questo testo.

[27] Elaine Aston, “‘A Licence to Kill’: Caryl Churchill’s Socialist-Feminist ‘Ideas of Nature’”, in G. Giannachi, N. Stewart (a cura di), Performing Nature. Explorations in Ecology and the Arts, Bern, Peter Lang, 2005.

[28] Churchill, Not Not, p. 51.

[29] Ibid., p. 52.

[30] Caryl Churchill, The Skriker, in Plays 3: A Mouthful of Birds (co-author: David Lan), Icecream, Mad Forest, Lives of the Great Poisoners (co-authors: Orlando Gough and Ian Spink), The Skriker, Thyestes (translated from Seneca), Londra, Nick Hern Books, 1998, p. 243.

[31] Cit. in Judith Mackrell, “Flights of Fancy”, The Independent, 20 gennaio 1994, p. 25, www.independent.co.uk/arts-entertainment/theatre— flights-of-fancy-perhaps-dancers-swamp-the-actors-in-caryl-churchills-the-skriker-judith-mackrell-talked-to-the-playwright-during-rehearsals- 1401256.html (22 marzo 2016).

[32] Si veda in proposito Roberts, About Churchill, pp. 129-30, che dà notizia della lenta e per alcuni aspetti problematica genesi dell’opera, durata oltre 10 anni.

[33] La/lo Skriker parla spesso in un flusso quasi onirico, ricco di richiami a una sorta di inconscio collettivo e di invenzioni linguistiche – termini compositi, neologismi fantasiosi che si collegano per analogie e assonanze – tanto da essere stato definito un linguaggio ‘joyciano’; vedi Derek Attridge, “From Finnegans Wake to The Skriker: Morphing Language in James Joyce and Caryl Churchill”, Papers on Joyce 7-8 (2001- 2).

[34] Churchill, The Skriker, pp. 282-83.

214 Note

Tre scosse

[1] Ho compiuto questo viaggio con un gruppo di aderenti alle Associazioni Les Amis du jumelage Dano-Etrechy e Échanges et Coopérations Solidaires, le cui attività sono principalemente il patrocinio di bambini e ragazzi dalla scuola elementare all'università e il sostegno dell'apprendistato di giovani nella città di Dano, in Burkina Faso. La foto è di Odile Rouquier, una delle fondatrici dell’associazione Les Amis du Jumelage.

[2] Coordinatrice dell’associazione African Family Service di Tower Hamlet Borough di Londra.

[3] Ho fatto parte del viaggio organizzato da Assopacepalestina tra il 27 dicembre 2013 e il 5 gennaio 2014, associazione la cui anima è la straordinaria Luisa Morgantini; vedi www.assopacepalestina.org (22 marzo 2016). Il diario del viaggio è diventato un libretto collettivo: Stefano Casi (a cura di), Ci conducono gli ulivi. Diario di un viaggio in Palestina, Assopacepalestina 2014.

[4] Fonte OCHA Ufficio ONU per il coordinamento delle questioni umanitarie: http://www.ochaopt.org (22 marzo 2016).

[5] Wendy Brown, Walled States, Waning Sovereignty, New York, Zone Books, 2014.

[6] Ibid., p. 40; traduzione mia.

[7] Suad Amiry, Golda ha dormito qui, Milano, Feltrinelli, 2013.

[8] Nurid Peled Elhanan, Palestine in Israeli Books: Ideology and Propaganda in Education, London, I.B. Tauris, 2012.

215 Note

Sulle tracce della città con Laudomia Bonanni

[*] Da The Weight of Oranges / Miner’s Pond, Toronto, McClelland & Stewart, 1997, p. 86; in italiano in Anne Michaels, Quel che la luce insegna, trad. Francesca Romana Paci, Firenze, Giunti, 2001, pp. 85-6. Qui la traduzione è mia.

[1] Per le passeggiate della Società Italiana delle Letterate vedi www.societadelleletterate.it/passeggiate-letterarie (22 marzo 2016).

[2] In concomitanza con il convegno Maria Rosaria La Morgia ha scritto “Laudomia nella Zona Rossa”, Leggendaria 102 (2013), pp. 12-13.

[3] “Mi capitò per caso di scoprire, sulla facciata di una casetta medievale con bifore, questo piccolo giglio nero in ferro battuto. […] E poi altri, sempre su edifici vetusti […] messi molto in alto, di qua e di là degli spigoli, a coppie. […] a testimonianza di gratitudine per essere stati salvati dal disastro. Si tratta insomma dei muri rimasti indenni nel 1703, giorno del terremoto distruttivo e giorno della Purificazione.“ Laudomia Bonnanni “I fiori del terremoto”, Il giornale d’Italia, 12-13 ottobre 1974; cit. in Giancarlo Giustizieri, Laudomia. Scrittrice senza tempo, Lanciano, Carabba, 2010, pp. 167-168. In un successivo articolo uscito su InAbruzzo (7 gennaio 2014) lo stesso Giustizieri riferisce come Maurizio D’Antonio nel libro Ita terrae motus damna impedire. Note sulle tecniche antisismiche storiche d’Abruzzo, (Pescara, Carsa, 2013) dimostra che i gigli furono realizzati come capochiave di catene antisismiche montate su edifici storici della città già nel XV e XVI secolo. E sui “Gigli di Laudomia” scrive anche Maria Rosaria La Morgia in Leggendaria 84 (novembre 2011), p. 39.

[4] Gianfranco Giustizieri descrive la passeggiata della SIL in Abruzzo24ore (11 novembre 2013): www.abruzzo24ore.tv/news/Passeggiata-con- Laudomia-il-suo-cielo-tersissimo-lungo-le-strade-ferite/129363.htm (22 marzo 2016). Mentre Patrizia Tocci, autrice di vari saggi e di un video (8’40”) diretto da Carlo Nannicola (“Come se il fiore nascesse dalla pietra. Omaggio a Laudomia Bonanni”, 2007 www.nannicola.net/come-se- il-fiore-nascesse-dalla-pietra/ 22 marzo 2016), ripercorre i luoghi aquilani della scrittrice in “Parco letterario sui passi della Bonanni”, InAbruzzo (23 settembre 2011): www.inabruzzo.com/?p=92282 (22 marzo 2016). Nello stesso 2007 per “Vuoti di memoria”, serie di documentari sulle scrittrici italiane prodotto da Rai Educational a cura di Loredana Rotondo, è uscito “Io ero una di domani”, dedicato alla scrittrice aquilana.

[5] Laudomia Bonanni, “L’Aquila rivisitata”, in Pasquale Scarpitti (a cura di), Discanto, Pescara, Sarus, 1972; cito dalla riproduzione in Giustizieri, Laudomia. Scrittrice senza tempo, p. 192. Un precedente ritratto della città, con il suo ampio cerchio di montagne (“Siamo in montagna anche dentro la città. E una città che ha difficili fin le strade”) lo aveva scritto per il settimanale Omnibus (9 luglio 1950); riprodotto integralmente in Giustizieri, Laudomia. Scrittrice senza tempo, pp. 185-190. Da ricordare anche le pagine particolarmente toccanti che dedica all’Aquila, senza nominarla, in Le droghe (Milano, Bompiani, 1982), pp. 119-121.

[6] Silvana Cichi, “Figlio maschio, figlia femmina: due diverse speranze. Intervista a Laudomia Bonanni”, Amica (14 agosto 1979); cit. in Giustizieri, Laudomia. Scrittrice senza tempo, pp. 22 e 129.

[7] C’è una definizione di felicità che offre Bonanni in Il bambino di pietra (Milano, Bompiani, 1979) che si attaglia al percorso di eudaimonia disegnato da Nussbaum: “La felicità non è allegra come la gioia, la gioia è uno stato chiaro leggero, la felicità ha subito un peso” (p. 73).

[8] Sandra Petrignani, “Laudomia Bonanni. La vita solitaria”, in Le signore della scrittura. Interviste, Milano, La Tartaruga, 1984 [1996], p. 61.

[9] Faulkner, e in particolare Sanctuary, è citato in uno dei racconti di Vietato ai minori (Milano, Bompiani, 1974), p. 209.

[10] Caffè (novembre 1955), poi in Gianfranco Giustizieri, “Io che ero una donna di domani”. In viaggio tra gli scritti di Laudomia Bonanni, L’Aquila, Consiglio Regionale dell’Abruzzo, 2008, p. 108.

[11] Lettera a Emilio Cecchi (18 maggio 1955), dal Fondo Cecchi dell’Archivio Contemporaneo Gabinetto Vieusseux di Firenze, in Laudomia Bonanni, Epistolario I, a cura di Fausta Samaritani, Lanciano, Carabba, 2006, p. 133.

[12] Fausta Samaritani, “La penna dell’Aquila”, in Bonanni, Epistolario I, pp. 18-24; Gianfranco Giustizieri, Laudomia Bonanni tra memoria e futuro. Itinerari di lettura nelle pagine della critica letteraria, Lanciano, Carabba, 2014, pp. 43-46.

[13] Tra le lettere riprodotte nel secondo lavoro di Fausta Samaritani, Affettuosamente Sua Laudomia Bonanni, Roma, repubblicaletteraria.it, 2011 (pre-edizione in CD riservato a biblioteche e da me consultato presso la Biblioteca Statale Antonio Baldini di Roma) c’è una lettera del 1965 (conservata nel Fondo De Giorgi del Centro Manoscritti di Pavia) indirizzata a Elsa De Giorgi (notoriamente antifascista della prima ora) di apprezzamento del suo ultimo romanzo Un coraggio splendente. E due lettere a Maria Luisa Spaziani (1950, 1952).

[14] Noi Donne VII.40 (12 ottobre 1952), p. 6.

[15] Il bando del premio quale fu letto da Domenico Rea durante la giornata conclusiva del Congresso è pubblicato su Noi donne, VII.43 (2 novembre 1952), p. 5. La giuria risulta composta da Sibilla Aleramo, Anna Banti, Laudomia Bonanni, Maria Antonietta Macciocchi (direttrice del giornale), Francesco Flora, Concetto Marchesi, Leonida Repaci, Luigi Russo, con Fausta Terni Cialente segretaria del Premio.

[16] Del premio letterario “Noi donne” si è parlato anche in Parlamento, per un’interrogazione avanzata da Maria Maddalena Rossi, all’epoca anche presidente dell’UDI nonché deputata del Partito Comunista, insieme a venti deputate e a Concetto Marchesi, sulla proibizione in extremis da parte del Questore di Roma di festeggiare l’8 aprile 1954 la conclusione del concorso e la proclamazione della vincitrice del premio stesso alla Casina delle Rose. Vedi Atti parlamentari – Camera dei Deputati, seduta del 14 maggio 1954, p. 8014 e segg.

216 [17] E continua: “Scrivevo da bambina. Scrivevo, a quattordici anni, sul rovescio dei bollettari, in un ufficio in cui stetti nei mesi delle vacanze. A diciassette, maestra con le trecce sulle spalle, in cima a una montagna, scrivevo su un banco di scuola dopo l’uscita dei bambini”; cit. in Olga Lombardi, “Laudomia Bonanni”, in Letteratura italiana: I contemporanei, vol. 4, Milano, Marzorati, 1976, p. 595.

[18] Anche questa lettera è stata recuperata da Samaritani all’Archivio Centrale dello Stato, e riprodotta in Samaritani, Affettuosamente Sua Laudomia Bonanni (lettera n. 50). Probabilmente questa lettera, del 28 settembre, è arrivata troppo tardi alla Commissione Centrale che aveva già ricevuto dalla Delegazione di Aquila la richiesta di condannare Laudomia Bonanni alla sospensione dal servizio e dallo stipendio per sei mesi. Di tale provvedimento di sospensione manca la documentazione, ma Samaritani deduce che sia avvenuto, siccome il suo collocamento a riposo dopo 40 anni di servizio è datato al 1 ottobre 1966, quindi dopo 40 anni e sei mesi dalla presa di servizio avvenuta il 16 marzo 1926.

[19] Intervista a Tripode (10 febbraio 1951); cit. in Gianfranco Giustizieri, “Io che ero una donna di domani”, p. 106.

[20] Si tratta dell’Associazione Internazionale di cultura “Laudomia Bonanni” che ha sede all’Aquila e dal 2005, anno della sua fondazione, costituisce un punto di riferimento essenziale per tutti gli studiosi e le studiose che si interessano alla scrittrice abruzzese. Oltre all’archivio pazientemente ricostruito e aggiornato, l’Associazione pubblica un sito che contiene una presentazione analitica della scrittrice e informa sulle attività dell’Associazione: www.laudomiabonanni.it (22 marzo 2016).

[21] Tra articoli e racconti Giustizieri, coordinatore dell’Associazione, ha catalogato 1250 testi di Laudomia Bonanni pubblicati nella stampa periodica. Su ventisei testate di giornale – questi erano più propriamente elzeviri di terza pagina, come venivano chiamati allora – e trentaquattro riviste periodiche, datati dal 1938 al 1983. Ma anche prima del ’38 Bonanni aveva pubblicato articoli e racconti su I diritti della scuola, la stessa rivista su cui uscivano in quegli stessi anni i racconti di Elsa Morante, anche lei figlia primogenita di maestra e dalla madre spinta a scrivere e pubblicare.

[22] In Samaritani, Affettuosamente Sua Laudomia Bonanni, lettera 79, dal Fondo Maria Luisa Spaziani, Centro Manoscritti, Università di Pavia. Il romanzo cui si fa riferimento, come nota Samaritani, è probabilmente L’imputata.

[23] Laudomia Bonanni, La rappresaglia, a cura di Carlo De Matteis, L’Aquila, Textus, 2003. Le indicazioni di pagina nel mio testo, precedute dal numero del capitolo e della sezione al suo interno, si riferiscono tutte a questa edizione.

[24] Lettera a Maria Bellonci (10 dicembre 1985), in Bonanni, Epistolario I, pp. 123-125. Le trentatré lettere di Bonanni a Maria Bellonci pubblicate da Fausta Samaritani sono conservate alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma nella sezione Archivi, Raccolte e Carteggi (A.R.C.) n. 31. Non sembra sia rintracciabile la corrispondenza intercorsa tra l’autrice e la casa editrice Bompiani a questo proposito.

[25] Con questa lettera si conclude anche lo scambio epistolare tra Bonanni e la Mondadori conservato nell’Archivio Storico della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e riprodotto a cura di Fausta Samaritani in Bonanni, Affettuosamente Sua Laudomia Bonanni (Sezione Carteggi). Tutte le fasi di questa complessa vicenda editoriale sono state poi riassunte da Samaritani in “Un romanzo e due rifiuti” pubblicato nel sito dell’Associazione Laudomia Bonanni (www.laudomiabonanni.it/la-rappresaglia.html; 22 marzo 2016) e riprodotto integralmente in Giustizieri, Laudomia Bonanni tra memoria e futuro, pp. 293-95.

[26] La lettura in chiave femminista dell’opera di Bonanni è stata frequentata dalle studiose statunitensi di letteratura italiana, in tesi di dottorato: Sara Teardo, “Alla conquista della scena: donne e scrittura negli anni cinquanta e sessanta” (2009, con un’analisi de L’adultera); Joanne Frallicciardi Lyon, “Negotiating Motherhood in the Works of Laudomia Bonanni” (2011), entrambe per la Rutgers University; e nella conferenze annuali dell’AAIS – American Association of Italian Studies (2011 e 2012). Mentre in Gran Bretagna Caroline Lynch, docente di italiano all’università di Cardiff, studia la fioritura in Italia di una storiografia alternativa femminile della Seconda Guerra Mondiale già dal 2009 e in dettaglio la rappresentazione delle donne che ne fa Bonanni in La rappresaglia. Nel 2013, infine, è uscita negli Stati Uniti, la traduzione di La rappresaglia: Laudomia Bonanni, The Reprisal, a cura e con introduzione di Susan Stewart e Sara Teardo, Chicago and London, University of Chicago Press, 2013.

[27] Identificato con l’eremo di Santo Spirito della Majella, a Roccamorice, sicuramente ben noto alla scrittrice. A sostegno di un progetto di valorizzazione degli eremi celestini della Majella in convenzione con Italia Nostra, il 27 settembre 2015 si è tenuta all’eremo di Santo Spirito una lettura pubblica di alcuni brani di La rappresaglia con una introduzione di Lucilla Sergiacomo.

[28] Non è casuale chiamare teatro il testo di La rappresaglia. Infatti è strutturato in dieci capitoli numerati in successione, e ciascun capitolo/atto si articola in sei quadri anch’essi numerati in successione. La presentazione folgorante di ciascun quadro rinvia alla modalità joyciana del racconto che Joyce stesso fa risalire a una epifania. In questo senso è puntuale il richiamo allo scrittore irlandese dei racconti che fa Montale commentando Il fosso (sul Corriere d’informazione, Milano, 6 dicembre 1949). Marginalmente sopraggiungono sulla scena anche due donne mogli di due del gruppo. Sono i primi due quadri del settimo capitolo che preludono all’inizio del travaglio della prigioniera. Queste scene con gli stessi nomi delle due donne sono state rintracciate da Giustizieri nel racconto “Una donna tra le mogli”, pubblicato sul Giornale d’Italia il 27 aprile 1952, e riprodotto in Giustizieri, “Io che ero una donna di domani”, p. 147.

[29] Intervista di Lilli Cavassa, “I giovani sono cambiati”, in La fiera letteraria (17 novembre 1974); cit. in Giustizieri, Laudomia scrittrice senza tempo, p. 128.

[30] La presentazione di Vietato ai minori (1974) del catalogo Bompiani riporta questa frase di Bonanni, poi molte volte utilizzata per sottolineare il peso della volontà della scrittrice.

[31] Corrado Colacito (1896-1961), marito di Maria Luisa Bonanni, sorella minore di Laudomia, mal visto dalle autorità per le sue idee socialiste, è autore di “Sotto il tallone tedesco”. Cronaca di un paese d’Abruzzo, Lanciano, Gino Carabba, 1945.

[32] Laudomia Bonanni, “Seme”, in Il fosso, a cura di Carlo De Matteis, L’Aquila, Textus, 2004, pp. 81-103; in seguito nel testo. Il testo è quello dell’edizione Mondadori 1949.

[33] La frase con cui Rimanelli (n. 1926) presenta nel 1950 a Cesare Pavese il suo Tiro al piccione che l’autore, egli stesso reduce dell’esercito repubblichino, aveva già scritto in una prima stesura nel 1945; sarà poi pubblicato da Einaudi nel 1953. Per l’impressione ricevuta da Bonanni vedi Giustizieri, Laudomia. Scrittrice senza tempo, p. 108.

[34] Petrignani, “Laudomia Bonanni. La vita solitaria”, p. 60.

[35] “[M]ia madre impazzisce quando ha con sé un figlio maschio”; lettera a Maria Bellonci (3 febbraio 1966), in Bonanni, Epistolario, p. 118.

[36] È uno degli elzeviri contenuti nella raccolta curata da Anna Maria Giancarli (Laudomia Bonanni, Elzeviri, Pescara, Tracce, 2007), p. 51. I testi di questa raccolta sono tutti apparsi sul Giornale d’Italia tra il 1960 e il 1965, e sono stati raggruppati dalla curatrice in quattro sezioni tematiche. “Stella in orbita”, come si intitola l’elzeviro citato, fa parte della sezione che raccoglie “Elzeviri sull’Aquila”. Anche in altri elzeviri contenuti in questa raccolta e all’interno di racconti e libri più o meno esplicitamente ambientati in Abruzzo, Bonanni sottolinea la familiarità con il terremoto tra gli abitanti di questi territori.

217 [37] Lettera a Maria Pacifico Ciuffini, ispettrice scolastica (26 febbraio 1949); in Giustizieri, “Io che ero una donna di domani”, p. 125.

[38] Laudomia Bonanni-Caione, Noterelle di cronaca scolastica, a cura di Maria Luisa Jori, Torino, Nino Aragno Editore, 2006. L’edizione originale è pubblicata dalle Officine Grafiche Vecchioni (1932).

[39] Vedi l’attestato della Fiduciaria Federale, datato 5 giugno XVII [1939], riprodotto in Giustizieri “Io che ero una donna di domani”, p. 140, e la lettera di apprezzamento del Procuratore del Re dell’Aquila, datata 26/5/1939 XVII, riprodotta in Giustizieri, Laudomia. Scrittrice senza tempo, p. 198.

[40] Laudomia Bonanni, L’imputata, Milano, Bompiani, 1964, poi (a cura di Liliana Biondi) L’Aquila, Textus, 2007. Laudomia Bonanni scrive a Geno Pampaloni che le aveva chiesto di conoscere la storia “interna” del romanzo in vista della presentazione che egli stesso ne avrebbe fatto alla selezione del premio Strega: “La storia ‘interna’ dell’Imputata sarebbe lunga, se riuscissi a districarla tutta. Cominciai a lavorarvi nel ’51, ma il mondo e la gente del libro mi si erano configurati dentro dal principio della guerra. Sentivo fortemente di dover assorbire l’esperienza di quel tempo, che mi sarebbe servita. Una esperienza acuita dal contatto diretto coi bambini, come maestra, e coi ragazzi passati davanti a un tribunale minorile dove sono stata per 18 anni. E quali anni: ci sono passati tutti i possibili casi umani, tranne forse i veri criminali. Ritengo che non ce ne siano, fra i ragazzi. Credo che nel processo de L’imputata si senta questa esperienza così lunga e approfondita. Averla potuta conquistare lo ritengo un privilegio, sono l’unico scrittore che la possegga. Nei tribunali minorili, lei lo saprà, i processi sono sempre a porte chiuse. E non sarebbe bastato impadronirsi del consueto meccanismo procedurale, perché dove si tratta di ragazzi è sempre un’altra cosa. Mi pare di aver divagato. Ma forse no, forse è proprio questo il nocciolo. […] parecchio tempo dopo aver terminato il libro mi sono accorta, a un certo momento, di aver colto sul nascere un fenomeno ancora da verificarsi, quello che è poi esploso con la violenza dei ragazzi”. Nel seguito della lettera Bonanni racconta come questo libro le sia costato molte sofferenze, forse troppe, anche per costruirne “un’architettura quasi rigorosa: in ultimo, quando ho raccolto le fila, ogni fatto, ogni personaggio, ogni parola sono andati al loro posto, o almeno così mi è sembrato”; lettera a Geno Pampaloni (15 maggio 1960), in Samaritani, Affettuosamente Sua Laudomia Bonanni, lettera n. 30.

[41] Su L’Italia che scrive (agosto-settembre 1955) Bonanni dichiara di essere impegnata in questo libro da quattro anni. Mentre da una lettera a Maria Bellonci del 20 ottobre 1957 sappiamo che il giorno prima aveva spedito il manoscritto corretto a Alberto Mondadori, e che un’altra copia aveva già dato all’editore Casini. Solo nel 1960 L’imputata esce per le edizioni Bompiani. Per una accurata storia dei racconti usciti anche precedentemente alla stesura del libro, e per una analisi approfondita di L’imputata si rinvia all’introduzione di Liliana Biondi alla già citata edizione Textus (2007) del romanzo.

[42] In Giustizieri, “Io che ero una donna di domani” (p. 83) c’è l’elenco delle prime versioni già uscite nella stampa periodica, spesso con un diverso titolo, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1966. Solo di quattro racconti Giustizieri non ha trovato una versione originale, e allo stesso tempo rileva che il tema della criminalizzazione e della reclusione dei minori è presente anche in molti altri contributi della scrittrice a giornali e riviste. Sono più di novanta le “storie” che Bonanni ha scritto intorno a questo tema secondo quanto rileva Giustizieri, Laudomia Bonanni tra memoria e futuro, pp. 208-209.

[43] Laudomia Bonanni, Vietato ai minori, Milano, Bompiani, 1974, p. 9.

[44] Ibid., p. 224.

[45] Ibid., p. 236.

[46] Lettera a Maria Bellonci (11 maggio 1967), in Bonanni, Epistolario I, p. 122.

[47] È la lettera del 25 giugno 1948 a Maria Bellonci, in Bonanni, Epistolario I, p. 81.

[48] Lettere del 19 giugno 1969 e dell’8 gennaio 1970 a Giuseppe Rosato, in Bonanni, Epistolario I, pp. 203 e 205.

[49] G. Barattelli, “Laudomia Bonanni dieci anni dopo”, in Tribuna politica. Quotidiano parlamentare, 17.131 (24 giugno 1974); cit. in Giustizieri, Laudomia. Scrittrice senza tempo, p. 110.

[50] Laudomia Bonanni, Il fosso, Milano, Arnoldo Mondadori, 1949. L’uscita nella Medusa degli Italiani ha evidentemente dato inizio anche all’interesse per la scrittrice tra gli studiosi di letteratura italiana negli Stati Uniti. Ne testimonia la traduzione del racconto “Il mostro” a cura di Gilbert Creighton uscito in Perspective: A Quarterly of Literature 3.3 (1950). Molto più tardi nel 2001, è dedicato all’analisi de Il fosso il volume di Antonio Illiano, docente di Letteratura italiana nell’Università del North Carolina (Invito al romanzo d’autrice ’800-’900. Da Luisa Saredo a Laudomia Bonanni, Firenze, Cadmo 2001).

[51] Lettera a Maria Bellonci (30 gennaio 1949), in Bonanni, Epistolario I, pp. 85-89.

[52] Giustizieri, “Io che ero una donna di domani”, pp. 72-73, e per L’adultera, pp. 77-80. L’imputata entra nella cinquina dello Strega e ottiene il premio Viareggio; L’adultera non entra nello Strega, ma tra i cinque della selezione Campiello – Giuria dei Letterati (vinto quell’anno da Il male oscuro di Giuseppe Berto).

[53] “L’inizio del mio viaggio fu dalla tua casa e spero di proseguirlo così degnamente come impone il nome a cui è legato”; lettera a Maria Bellonci (28 dicembre 1954), in Bonanni, Epistolario 1, p. 100.

[54] Riprodotto integralmente in Giustizieri, Laudomia. Scrittrice senza tempo, pp. 175-179.

[55] Intervista a cura di Minnie Alzona in Il Gazzettino (25 gennaio 1979); cit. in Giustizieri, Laudomia scrittrice senza tempo, p. 32.

[56] Cit. in Giustizieri, Laudomia scrittrice senza tempo, p. 126, come parte dell’intervista di Petrignani che tuttavia non trovo nella edizione che ho a disposizione.

[57] Il testo uscito sul Giornale d’Italia (24-25 luglio 1961) si trova in Laudomia Bonanni, Elzeviri, a cura di Anna Maria Giancarli, Pescara, Tracce, 2007, pp. 159-162. “Scrivere un romanzo”, L’Osservatorio politico-letterario, 8.8 (agosto 1962), pp. 89-96.

[58] Laudomia Bonanni Caione, Storie tragiche della montagna. Novelle D’Abruzzo, L’Aquila, Officine Grafiche Vecchioni, 1927; Noterelle di cronaca scolastica, a cura di Maria Luisa Jori, Torino, Nino Aragno Editore, 2006; Men. Avventura al Nuovo Fiore, Milano, Bompiani, 1939.

[59] Petrignani, “Laudomia Bonanni. La vita solitaria”, p. 61.

[60] Il riferimento ai racconti brevi del primo D’Annunzio sostiene appunto il vorticismo dei dettagli, ma il progressivo fuoco sulla personaggia individuale e collettiva è tutta anche nella proposizione femminista della scrittrice.

[61] Bonanni-Caione, Noterelle di cronaca scolastica, p. 33.

218 [62] Laudomia Bonanni, “Hanno ammazzato una bambina”, in Vietato ai minori, pp. 141-146. Il titolo è nello stile di un titolo di giornale, e si riferisce a un episodio davvero accaduto a Roma nel febbraio 1950: lo stupro e l’uccisione della dodicenne Annarella Bracci. Un altro episodio cui si accenna qui di sfuggita, è il ritrovamento sopra a un mucchio di immondizia di un feto incartato, riferito a Maria dal padre spazzino, che rinvia all’episodio iniziale de L’imputata.

[63] Laudomia Bonanni, Le droghe, Milano, Bompiani, 1982.

[64] Intervista a Laudomia Bonanni su Telesera, 4-5 marzo 1961; cit. in Giustizieri, Io che ero una donna di domani, pp. 109-110.

[65] Cit. in RAC-K. Rivista Abruzzo Cultura, anno VII, 8 dicembre 2007, numero di omaggio a Laudomia Bonanni nel centenario della nascita: digilander.libero.it/alfredofiorani/addins/img/Rack01.pdf (22 marzo 2016).

[66] Cichi, “Figlio maschio, figlia femmina”, p. 121.

[67] Petrignani, “Laudomia Bonanni. La vita solitaria”, p. 64. È noto che il personaggio dell’analista in Il male oscuro (1964) di Giuseppe Berto si rifà proprio a Nicola Perrotti (morto nel 1970).

[68] Giornale d’Italia, 12-13 settembre 1969. Riportato integralmente in Giustizieri, Laudomia scrittrice senza tempo, pp.179-84.

[69] Silenziosa, ma non del tutto. Infatti continua la collaborazione con i quotidiani. E inoltre, il 26 maggio 1966 il Terzo programma di Radio RAI trasmette “La ragazzina” di Laudomia Bonanni, un racconto uscito nella raccolta Nuovi racconti italiani 2, Milano, Nuova Accademia, 1963, pp.121-133. Lo stesso racconto entrerà poi nel primo volume di Racconti italiani del 1900, a cura di Enzo Siciliano, Milano, Mondadori, 2001.

[70] Barattelli, “Laudomia Bonanni. Dieci anni dopo”; in Giustizieri, Laudomia scrittrice senza tempo, p.60.

[71] Donata Aphel, “Interviste”, Il Tempo (17 giugno 1975); in Ibid., p.129.

[72] Intervista a Radio Subasio, Roma, agosto 1981; in Ibid., p.129.

[73] Barattelli, “Laudomia Bonanni. Dieci anni dopo”; in Ibid., p.127.

[74] Minnie Alzona, “Intervista a Laudomia Bonanni”, Il Gazzettino, 25 gennaio 1979; in Ibid., pp. 33 e 34.

[75] Laudomia Bonanni, Il bambino di pietra, Milano, Bompiani, 1979; in seguito nel testo.

[76] Barattelli, “Laudomia Bonanni. Dieci anni dopo”; in Giustizieri, Laudomia scrittrice senza tempo, p.127.

[77] Giulia Massari, “Intervista a Laudomia Bonani”, Tuttolibri – La Stampa 30 giugno 1979; in Giustizieri, Laudomia scrittrice senza tempo, p.248.

[78] Cichi, “Figlio maschio, figlia femmina”, p. 23.

219 Le autrici

L’Associazione Donne TerreMutate (www.laquiladonne.com) nasce come Comitato a L’Aquila nell’ottobre del 2010 per organizzare un incontro nazionale di donne che si terrà nel capoluogo abruzzese il 7 e 8 maggio 2011. Il nome l’avevamo preso dal numero 81 della rivista Leggendaria, che a sua volta l’aveva preso dall’auto-definizione di Francesco Paolucci, filmaker aquilano (“Sono un terre-mutato”). Le donne promotrici dell’evento, che dall’aprile 2009 non hanno mai smesso di incontrarsi, ragionare e progettare insieme nuovi luoghi, hanno voluto creare una rete solidale con altre realtà femminili che lavorano dentro le associazioni, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nell’arte. Circa 600 donne, da tutta Italia, hanno partecipato agli incontri e alle iniziative durante le giornate del maggio 2011. Da quegli incontri, sono nate 26 “staffette” in altrettante città d'Italia e luoghi di donne, che hanno voluto invitare delegazioni di TerreMutate perché raccontassero e si facessero raccontare cosa accade nelle altre realtà. Le stesse donne hanno sostenuto con donazioni le attività del Comitato. Dopo due anni, il Comitato ha lanciato un nuovo incontro nazionale, il 18 e 19 maggio 2013. Alla vigilia di questo incontro, Donne TerreMutate è diventato un’Associazione le cui socie fondatrici, le stesse che hanno promosso il Comitato, hanno lanciato una Carta degli Intenti ed elaborato uno statuto per la futura Casa delle Donne dell'Aquila.

Paola Bono ha insegnato al Dams dell’Università Roma Tre. Tra le fondatrici della Società Italiana delle Letterate, ne è stata la prima presidente. È autrice di numerosi saggi e di alcuni libri, tra cui Esercizi di differenza: letture partigiane del mondo e dei suoi testi (Milano 1999) e diversi altri ne ha curati, spesso a quattro mani (con M. Vittoria Tessitore, Sandra Kemp, Laura Fortini, Bia Sarasini). Al momento è impegnata nella cura della pubblicazione in italiano dell'opera teatrale di Caryl Churchill, drammaturga straordinaria e acclamata a livello internazionale, ma qui ancora poco nota.

Lina Calandra è professore associato presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Aquila dove insegna Geografia, Geografia urbana e regionale e Cartografia e dirige il Laboratorio “Cartolab”. Nei suoi studi si interessa di geografia del colonialismo in Africa; di conservazione ambientale con particolare attenzione alla gestione dei conflitti e allo sviluppo locale attraverso metodologie partecipative (sia in Africa che nelle aree protette appenniniche); di didattica della geografia. Dopo il terremoto dell’Aquila del 2009, si occupa anche di geografia sociale e ricerca-azione partecipativa in relazione alle conseguenze sociali, territoriali e politiche dei disastri. Ha pubblicato diversi articoli, volumi e curatele: Atlante del turismo sostenibile in Africa (2007, con A. Turco), Progetto Geografia. Percorsi di riflessione e didattica (2007 e 2009), Territorio e Democrazia. Un laboratorio di geografia sociale nel doposisma aquilano (2012), Multiple Geographical Perspectives on Hazards and Disasters (2014, con G. Forino e A. Porru).

Marta Cariello è ricercatrice di Letteratura Inglese presso la Seconda Università di Napoli. I suoi principali temi di ricerca sono la letteratura postcoloniale e la scrittura femminile araba anglofona. Il suo volume più recente è Scrivere la distanza. Uno studio sulle geografie della separazione della scrittura femminile araba anglofona (Liguori, 2012). I suoi studi attualmente riguardano la tematizzazione dell’esilio nelle scrittrici palestinesi della diaspora, il multilinguismo come strategia discorsiva femminile e la costruzione culturale della rivoluzione.

Giuliana Carli, dopo la laurea alla Sapienza in Lingua e letteratura giapponese nel 1982, si è formata e ha insegnato in Giappone, Keio University e University of Foreign Language di Tokyo, e negli Stati Uniti, University of Michigan di Ann Arbor con una Fulbright fellowship. Ha collaborato a progetti di ricerca sulla letteratura femminile presso La Sapienza, dove ha insegnato Lingua e letteratura giapponese dal 2001 al 2011. Ha tradotto e pubblicato scrittrici contemporanee, oltre a saggi e articoli sulla letteratura delle donne in Giappone. Line producer per documentari TBS- Unesco; interprete e guida turistica autorizzata dal 1989, come socio fondatore e fino al 2012 vicepresidente di Jasga

220 (Japanese Speaking Guide Association of Rome), ha organizzato l’evento di beneficenza “I love Fukushima” a sostegno della popolazione colpita dallo tsunami.

Paola Di Cori ha insegnato studi culturali e studi di genere in diverse università italiane ed estere. Negli ultimi anni ha pubblicato: Rovine future (a cura, con D. Borrelli, 2010); Asincronie del femminismo. Scritti e interventi 1986-2011 (2012); tra i saggi: “Sarah Kofman. Filosofa impertinente, scrittrice senza potere”, Lo Sguardo 11 (2013); “Un avvenire promettente, forse. Appunti su Foucault, storici e storiche in Italia”, Contemporanea (2014); “Non solo polvere. Soggettività e archivi”, Archivi delle donne in Piemonte (2014). Tra i numerosi contributi su Michel de Certeau, “Porte girevoli”, postfazione a L’invenzione del quotidiano (2°. ed., 2010); ha curato (con D. Napoli), il fascicolo di Humanitas (4 2012) dedicato a Michel de Certeau. Il corpo della storia; e il Dossier Favre. Michel de Certeau e l’Introduction al Mémorial (con E. Prandi, 2014). Fa parte del gruppo “Prendere la parola”, che cura la homepage www.micheldecerteau.eu.

Sara Faccini, nata a Trento, ha studiato Filosofia e poi Lettere moderne all’Università di Bologna, città in cui ha vissuto per circa dieci anni. Lasciata Bologna e trascorso un anno a Vienna, è rientrata a Trento, dove insegna Lettere negli istituti superiori e Italiano L2 agli/lle straniere adulte. All’attività di insegnante, affianca un costante interesse per le tematiche femministe in rapporto con la letteratura. È socia SIL e collabora con la rivista online Letterate Magazine.

Roberta Falcone è professore associato di Letteratura inglese presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi dell’Aquila. È stata coordinatrice dell’indirizzo di Lingue straniere della SSIS dell’Università dell’Aquila (2005-07) e direttore del Centro linguistico della stessa università. I suoi ambiti di studio includono: il teatro del Cinquecento e del Seicento, il ‘600 puritano, la contemporaneità, la scrittura e critica femminile e femminista, la letteratura postcoloniale, le teorie della traduzione, la poesia paesaggistica nelle culture postcoloniali. Su questi argomenti ha pubblicato saggi come “Gli spazi del femminile in Julius Caesar”, “Aphra Behn: traduttore o traduttrice?”, “Australian Landscape as the Language of a New Identity”, “‘Mapping South Africa’: territorialità tra memoria e avvenire nella narrativa di J.M. Coetzee”, “No fatherland, no motherland: territorio/nazione/identità”, per citarne alcuni. Ha pubblicato il volume Aphra Behn. L’infrazione del canone (2004). Ha fatto parte di tre progetti di ricerca cofinanziati dal Murst/Muir nel 1997, nel 1999 e nel 2004.

Monica Farnetti è nata a Ferrara, ha studiato a Firenze e a Parigi, è stata visiting professor nelle università americane Smith College e UCLA, e insegna Letteratura italiana all’Università di Sassari. Ha pubblicato monografie su autori italiani antichi e moderni e sulla scrittura delle donne, fra i quali Cristina Campo (Tufani 1996); Anna Maria Ortese (Bruno Mondadori 1998); Il centro della cattedrale. I ricordi d’infanzia nella scrittura femminile (Tre Lune 2001); Tutte signore di mio gusto. Ritratti di scrittrici contemporanee (La Tartaruga 2008). Ha curato per Adelphi l’edizione di opere di Cristina Campo (Sotto falso nome, 1998) e Anna Maria Ortese (L’Infanta sepolta, 2000; Romanzi I, 2002, e II, 2005; Mistero doloroso, 2010; Da Moby Dick all’Orsa bianca, 2012), e per l’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara le lettere di Maria Savorgnan a Pietro Bembo (“Se mai fui vostra”, 2012). Con Laura Fortini ha curato l'antologia Liriche del Cinquecento (Iacobelli 2014). È socia dall’origine della Società Italiana delle Letterate.

Laura Fortini, italianista, insegna all'università Roma Tre; fa parte della Società Italiana delle Letterate fin dalla sua fondazione e del gruppo promotore del Seminario Residenziale Estivo della SIL, per il quale ha curato con Donatella Alesi il volume Movimenti di felicità. Storie, strutture e figure del desiderio (manifestolibri, 2004) e insieme a Paola Bono Il romanzo del divenire. Un Bildungsroman delle donne? (Iacobelli, 2007); autrice con Paola Pittalis del volume Isolitudine. Scrittrici e scrittori della Sardegna (Iacobelli, 2010) e curatrice con Mauro Sarnelli del volume Voci e figure di donne. Forme della rappresentazione del sé tra passato e presente (Pellegrini 2012); curatrice con Monica Farnetti del volume Liriche del Cinquecento (Iacobelli 2014), e con Giuliana Misserville e Nadia Setti di Morante la luminosa (Iacobelli 2015).

Serena Guarracino si occupa di performance studies e letteratura postcoloniale anglofona, con particolare attenzione per gli studi culturali e di genere e i rapporti tra letteratura e performatività. Nel 2005 ha conseguito il dottorato di ricerca in “Letterature, culture e storie dei paesi anglofoni” con una tesi dal titolo Aver voce. Migrazioni dell’opera lirica nelle culture di lingua inglese; di recente ha pubblicato le monografie La primadonna all’opera. Scrittura e performance nel mondo anglofono (2010), e Donne di passioni. Personagge della lirica tra differenza sessuale, classe e razza (2011). Ha curato con Marina Vitale un numero doppio della rivista AION Anglistica dal titolo Voicings: Musica across Borders. Ha tradotto in italiano il poema di Suniti Namjoshi “Sycorax” (in Istantanee di Caliban – Sycorax, ed. Paola Bono, 2008). Attualmente insegna un corso di Letteratura inglese (Sette e Ottocento) presso l’università “L’Orientale” (Napoli). Dal 2011 al 2015 è stata membro del direttivo della Società Italiana delle Letterate.

221 Marinella Manicardi, attrice, scrittrice, regista. Laureata in Storia del teatro con Ezio Raimondi, dal 1971 ha interpretato quasi tutti gli spettacoli di Teatro delle Moline/TNE scritti e diretti da Luigi Gozzi, suo compagno d’arte e di vita. Tra i più famosi: Otello!, Freud e il caso di Dora e La doppia vita di Anna O., due casi clinici tratti da Freud, Memorie labili (dai Memoires di Goldoni), Morandi. Di altri autori: Via delle oche di Carlo Lucarelli, Cerimonia e Stanze di Marcello Fois. Come regista ha diretto: Morandi, Anna Cappelli di Annibale Ruccello (segnalazioni per interpretazione e regia ai Premi Ubu), E tu allora? di Marina Mizzau, Le regole del saper vivere nella società moderna di J.L. Lagarce. Come drammaturga ha scritto e interpretato: Luana prontomoda, La Maria dei dadi da brodo e Corpi impuri, commissionato da Filofestival 2011. Dal 2006 i suoi spettacoli sono stati prodotti e presentati da Arena del Sole, teatro stabile di Bologna. Per la RAI ha registrato radiodrammi e spettacoli in video. Ha diretto con Luigi Gozzi la collana di testi Simulazioni per la Clueb. Suoi interventi in Teatro e psicoanalisi (Bolzoni), Binomio (Clueb), Le Moline: trent’anni dopo (Edisai), Alzando da terra il sole (Mondadori). Nel 2013 ha scritto con Federica Iacobelli La Maria dei dadi da brodo, storia economica di Bologna tra teatro e romanzo (Pendragon).

Annalisa Marinelli, architetta di formazione, svolge e pubblica studi in urbanistica di genere. Promuove la cura come una competenza femminile sul mondo e un punto di vista privilegiato sulla città. Dal 1996 segue questo particolare taglio di ricerca mettendolo alla prova nelle diverse forme urbane delle città in cui ha vissuto: Termoli, Milano, Roma, Genova e Stoccolma dove attualmente vive. Ha proposto politiche, prassi e soluzioni che apportano accessibilità e pari opportunità nella progettazione e organizzazione degli spazi urbani e sociali. Lo ha fatto in qualità di consulente, formatrice, e, nell'ambito della comunicazione, attraverso pubblicazioni, attività seminariali, realizzazioni di eventi. Tra le pubblicazioni, La città della cura. Ovvero, perché una madre ne sa una più dell'urbanista (2015); “Condividere la cura: innovazioni di coppia e inerzia sociale”, in Silenzi. Non detti, reticenze e assenze di (tra) donne e uomini, a cura di Stefano Ciccone e Barbara Mapelli (2012); “La grammatica del quotidiano”, in Architetture del desiderio, a cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Farè (2011); Etica della cura e progetto (2002), “La città della cura”, in A cura di – Narrazioni e pratiche di un lavoro sociale, a cura di Maria Teresa Battaglino e Cristina Cappelli (2008).

Roberta Mazzanti è stata ricercatrice di Letteratura anglo-americana presso l’Università degli Studi a Milano, dove è nata nel 1953. Dal 1986 al 2010 ha lavorato come editor di narrativa per Giunti, ideando la collana Astrea, dedicata alla narrativa delle donne di varie epoche e paesi, e curando altre collezioni letterarie. Ha fatto parte della redazione di “Linea d’Ombra”, collabora tuttora con riviste e case editrici, e con l’Archivio delle Memorie Migranti. Fa parte dell’Associazione Forum per il libro e della Società Italiana Letterate. Nella narrativa d’impronta autobiografica ha pubblicato di recente Sotto la pelle dell’orsa (Roma: Iacobelli, 2015); e nel 2003 per Giunti “La gente sottile”, in Baby Boomers: vite parallele dagli anni Cinquanta ai cinquant’anni, scritto con Rosi Braidotti, Serena Sapegno e Annamaria Tagliavini; fra i saggi, “Dalla ‘Stanza gialla’ alla ‘Terradilei’: tappe del viaggio di costruzione di sé di Charlotte Perkins Gilman” in AA.VV., Identità e scrittura. Saggi sull’autobiografia Nord-Americana, (Roma: Bulzoni, 1988), e “Sad new powers: parole d’esilio e d’amore nel romanzo In fuga di Anne Michaels” in AA.VV., Le eccentriche. Scrittrici del Novecento (Mantova: Tre Lune Edizioni, 2003).

Paola Meneganti, livornese, nata nel 1958, è laureata in filosofia e in scienze archivistiche e biblioteconomiche. È funzionaria in un'amministrazione pubblica ed è delegata sindacale. Ha contribuito a fondare, nel 1984, il Centro Donna di Livorno. Con molte delle compagne di allora lavora da anni nell’Associazione Centrodonna Evelina De Magistris. Ha curato la realizzazione di svariati volumi e quaderni e ha scritto articoli, recensioni, saggi e (pochi) racconti.

Anne Michaels, nata a Toronto (Canada) nel 1958, si è affermata dapprima come autrice di poesia: la sua prima raccolta poetica, The Weight of Oranges (1986), ha ricevuto il Commonwealth Prize; anche la seconda raccolta, Miner’s Pond (1991), ha meritato numerosi premi. In seguito ha scritto due romanzi, il primo dei quali, Fugitive Pieces (1996) le ha dato fama e riconoscimenti a livello mondiale. Pubblicato in molti paesi e accolto con i più lusinghieri giudizi della critica e del pubblico, ha meritato tra gli altri il Trillium Book Award, l’Orange Prize for Fiction, il Guardian Fiction Prize. In Italia, dove è stato pubblicato nella traduzione di Roberto Serrai con il titolo In fuga (Giunti, Firenze 1998), ha vinto il Premio Giuseppe Acerbi. Il secondo romanzo, The Winter’s Vault, è stato pubblicato in Italia come La cripta d’inverno (trad. it. Roberto Serrai, Giunti, Firenze 2008). L’editore Giunti ha pubblicato nel 2001 anche un’antologia della sua produzione poetica, Quel che la luce insegna (trad. it. di Francesca Romana Paci) che attinge alle prime due raccolte e a una terza, Skin Divers (1999). Anne Michaels è anche musicista e compositrice.

Gisella Modica fa parte della Biblioteca delle donne UDIPalermo per la quale ha promosso incontri letterari; è componente del direttivo dell’associazione Mezzocielo, della redazione della omonima rivista e di Letterate Magazine rivista on line della Società Italiana delle Letterate di cui è socia ed è stata componente del direttivo dal 2011 al 2015. Ha condotto laboratori di narrazione orale con donne adulte e alunne/i di scuole superiori. Per Stampa Alternativa ha

222 pubblicato Falce, Martello e cuore di gesù, 2000 e Parole di terra, 2004; per Villaggio Maori Edizioni il racconto Mi dispiace don Fifì, 2013 e Le donne della Cattedrale, senzatetto, femministe e spazi di libertà a Palermo, 2013. Ha pubblicato saggi e racconti in antologie e riviste. Ha curato Le personagge sono voci interiori. Letture in scena (Vita Activa).

Gabriella Musetti, nata a Genova, è vissuta in molte città italiane e all’estero. Attualmente vive a Trieste. Dal 2000 organizza “Residenze Estive”, incontri residenziali di poesia e scrittura a Trieste e nel Friuli Venezia Giulia. Dirige la Rivista “Almanacco del Ramo d’Oro, Nuova serie”, semestrale di poesia e cultura. Collabora a diverse riviste nazionali. È socia della Società Italiana delle Letterate. Ha recentemente fondato la casa editrice Vita Activa Editoria della Casa Internazionale delle Donne di Trieste: www.vitaactivaeditoria.it. Ultime pubblicazioni: Sconfinamenti. Confini passaggi soglie nella scrittura delle donne, a cura di A. Chemello, G. Musetti, Il Ramo d’Oro, Trieste (2008); Racconti triestini. Antologia di scrittrici contemporanee, a cura di, Arbor Librorum, Trieste (2012), Guida sentimentale di Trieste, a cura di, Vita Activa, Trieste (2014), Dice Alice. Percezioni e storie di donne, a cura di, Vita Activa, Trieste (2015). In poesia ha pubblicato: Divergenze, En Plein Officina, Milano (2002), Mie care, Campanotto Udine (2002), Obliquo resta il tempo, Lietocolle, Faloppio (2005); A chi di dovere, La Fenice, Senigallia (2007), primo premio Senigallia Spiaggia di Velluto; Beli Andjeo, Il Ramo d’Oro, Trieste (2009), tradotto in inglese e in serbo e presentato al Belgrade Book Fair 2010; Le sorelle, La vita felice, Milano (2013). Nel 2015 ha vinto il secondo premio Subiaco Città del libro con la raccolta inedita La manutenzione dei sentimenti.

Alina Narciso, regista teatrale, drammaturga e organizzatrice, fondatrice della compagnia Metec Alegre, che dirige dal 1996, dopo gli anni della formazione, debutta nel 1990 con L'uomo rubato, spettacolo tratto da un suo racconto. Nel 1996 crea la compagnia C.A.M. dello spettacolo; nel 1997 si trasferisce a Barcellona, dove lavora per alcuni anni e dove da il via alla manifestazione La escritura de la/s diferencia/s - Biennal Internacional De Drammaturgia Femenina (2000/2015) trasformatosi ormai in un Festival con sede a Cuba; nel 2000 rientra in Italia con la versione italiana dello suo spettacolo Muna Anyambe, vince il Premio Girulà / Migliore Drammaturgia e fonda la Compagnia teatrale Métec Alegre. Nel 2004 apre uno spazio Atelier di teatro Le Métec Alegre dedicato all’approfondimento delle tematiche di genere e del sud. Nel 2007 vince la selezione indetta dal Consejo Nacional de las Artes Escénicas di Cuba per un progetto di co-produzione internazionale, comincia a lavorare a Santiago de Cuba e mette in scena Cuento de aguas para voces y orquesta, spettacolo che nel 2009 apre il Festival del Caribe di Santiago di Cuba, ed a novembre 2010 viene presentato a La Habana nell’ambito de La Semana Italo/Cubana. Nel 2011 mette in scena Strip Tease di Agnieska Hernández Diáz (testo vincitore della V edizione della biennale) che viene invitato a partecipare al Festival Internazionale di Teatro di La Habana. Attualmente il suo lavoro si sviluppa tra l’Italia e Cuba, paese con il quale ha creato una relazione molto speciale, dove ha appena finito di organizzare la VII edizione del Festival (con la partecipazione di 13 paesi) de La scrittura della differenza/e (8/15 marzo 2015) di cui è la fondatrice oltre che direttrice artistica e dove ha messo in scena molti spettacoli di grande successo tra cui ricordiamo l’ultimo La Audiencia del los Confines di Jorgelina Cerritos (el Salvador), presentato anche in Italia al Teatro Mercadante di Napoli (maggio 2013). Nel 2012 ha vinto il Premio Nazionale di Drammaturgia “Il paese delle donne” per la sua opera Malena.

Silvia Neonato, giornalista genovese, ha debuttato sul “Manifesto” e ora dirige il magazine “Blue Liguria” ed è nella redazione di “Leggendaria”. Ha lavorato a Roma al giornale dell’Udi “Noi donne”, a Rai Due (nella trasmissione tv “Si dice donna”) e Radio Tre (a “ora D”), per poi tornare a Genova, al Secolo XIX, dove ha anche diretto le pagine della cultura. Ha partecipato con suoi scritti a diversi libri collettanei. Ha fatto parte del direttivo SIL dal 2009 al 2011, presidente dal 2012 al 2013.

Laura Pariani, nata a Busto Arsizio nel 1951, cresciuta a Magnago, si è laureata in filosofia della storia alla Università Statale di Milano. Negli anni settanta disegna e scrive storie a fumetti. Ex-insegnante, inizia a pubblicare narrativa nel 1993 con la raccolta di racconti Di corno o d’oro, con il quale si aggiudica la vittoria del Premio Grinzane Cavour, del Premio Donna Città di Roma Opera Prima e del Premio Chiara. In seguito ha pubblicato La perfezione degli elastici (e del cinema) (1997, Premio Selezione Campiello), La signora dei porci (1999, Premio Grinzane Cavour), La foto di Orta (2001, Premio Vittorini), “La spada e la luna” (1995), “Il pettine” (1995), “La perfezione degli elastici e del cinema” (1997), Quando Dio ballava il tango (2002), L’uovo di Gertrudina (2003), Il paese dei sogni perduti (2004), Anni e storie argentine (2005), Tango per una rosa (2005) e Dio non ama i bambini (2007). Il suo ultimo romanzo, Questo viaggio chiamavamo amore (2015), è edito da Einaudi. Oltre che scrittrice è anche sceneggiatrice cinematografica, tra le quali Così ridevano di Gianni Amelio che ha vinto il Leone d’Oro a Venezia nel 1998. Le sue opere sono tradotte in diverse lingue.

Giovanna Parisse è Professore di Francese presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila, dove insegna Letteratura Francese e Lingua e Traduzione francese I (traduzione dal francese in italiano). I suoi

223 interessi di ricerca vanno dalla letteratura francese e francofona del ‘900 e contemporanea – con particolare attenzione ai temi della colonizzazione, dell’esilio, dell’immigrazione, del viaggio – alla letteratura fin de siècle e ai linguaggi delle banlieues.

Alessandra Pigliaru, filosofa e storica delle idee, è capo-redattrice della sezione sassarese della rivista Giornale critico di Storia delle Idee e collabora con le pagine culturali del quotidiano Il manifesto. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e di collettiva_femminista Sassari. Fa parte della redazione di LetterateMagazine. Ha pubblicato numerosi saggi sia cartacei che on-line che possono essere facilmente reperiti sul suo profilo di Academia.edu, così come le sue note critiche di taglio interdisciplinare e con un preciso interesse al pensiero e alle scritture delle donne. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro.

Lorella Reale è siciliana. Si è laureata in Filosofia ed Etica applicata a Roma. Fa parte della Società Italiana delle Letterate ed è autrice di libri e articoli sul cinema, la letteratura, il femminismo e il vino. Suo è il documentario Storia del movimento femminista in Italia, prodotto da Rai Educational e Aleph film. Dopo avere filmato con Piero Riccardi le inchieste per la trasmissione Report sullo stato dell’agricoltura italiana, intitolati Buon appetito, Il piatto è servito e Carne, ha dato vita nel Lazio a un’azienda di viticultura biodinamica. Ha studiato cucina al Gambero Rosso ed è Sommelier della Federazione Italiana Sommelier (F.I.S.).

Luisa Ricaldone è stata lettrice presso l’Università di Vienna e ha insegnato letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi di Torino. Si è occupata di Settecento e di Novecento, con particolare attenzione alla letteratura delle donne, àmbito in cui ha pubblicato, fra gli altri: La scrittura nascosta. Donne di lettere e loro immagini tra Arcadia e Restaurazione (1996); Geografie e genealogie letterarie. Erudite, biografe, croniste, narratrici, épistolières, utopiste tra Settecento e Ottocento (con Adriana Chemello, 2000). Per la storia letteraria delle donne ha collaborato a lavori collettivi: A History of Women’s Writing in Italy (2000), Storia di Torino (2005). Ha inoltre curato varie pubblicazioni, fra cui la recente Il simbolico in gioco. Letture situate di scrittrici del Novecento (con Aida Ribero, 2011), e due e-book Cirsde: World Wide Women. Globalizzazione, generi, linguaggi (vol. III, con Tiziana Caponio, Fedora Giordano, Beatrice Manetti, 2011); Vecchie allo specchio. Rappresentazioni nella realtà sociale, nel cinema e nella letteratura (con Edda Melon, Luisa Passerini, Luciana Spina, 2012). Negli ultimi anni ha approfondito il tema della vecchiaia in letteratura: Scrivere ancora. Appunti sullo stile tardo, in Passaggi d’età, a cura di Anna Maria Crispino e Monica Luongo, 2013; e si è dedicata allo studio della scrittura in lingua italiana di donne straniere: Donne migranti che scrivono in italiano: il caso della Romania, in Atti del Convegno internazionale di Craiova, a cura di Elena Pirvu, 2013; Nutrimenti. Cucina e scuola nelle donne di seconda generazione, in Daniela Finocchi (a cura di), L’alterità che ci abita. Donne migranti e percorsi di cambiamento. Dieci anni del Concorso nazionale “Lingua Madre”, Torino, 2015. Recentissima la lettura della “Saffo” di Mme de Staël in Saffo. Riscritture e interpretazioni dal XVI al XX secolo (a cura di Chemello, 2015) e l’aggiornamento del proprio contributo, Il Settecento, per esempio, in Anna Maria Crispino (a cura di), Oltrecanone. Generi, genealogie, tradizioni (2015). E’ componente attiva della Società italiana delle Letterate (SiL) e del CIRSDe.

Igiaba Scego nasce in Italia nel 1974 da genitori somali fuggiti dalla dittatura di Siad Barre. Le sue prime prove letterarie sono La nomade che amava Alfred Hitchcock (2003) e Rhoda (2004). Nella raccolta Pecore nere (2005) pubblica i racconti “Dismatria” e “Salsicce”, con cui vince il premio Eks&Tra. In seguito pubblica i romanzi Oltre Babilonia (2008) e La mia casa è dove sono (2010), che vince il premio Mondello 2011. Collabora con Internazionale. Dopo Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città (2014), scritto con Rino Bianchi, è uscito di recente il suo ultimo romanzo, Adua (Giunti 2015).

Nadia Setti è professoressa di letterature comparate e studi di genere all’università Paris 8 e socia della Società Italiana delle Letterate dal 1996. La sua ricerca e le sue pubblicazioni portano la letteratura alla luce delle teorie e politiche di genere, delle relazioni tra pensieri e scritture contemporanei delle differenze. Tra le più recenti e significative pubblicazioni le monografie Clarice Lispector: une pensée en écriture pour notre temps (con M.G. Besse, 2014) e Passions Lectrices (2010); e gli articoli “La recherche errabonda di Fabrizia Ramondino” in “Non sto quindi a Napoli sicura di casa”. Identità, spazio e testualità in Fabrizia Ramondino (a cura di A. Giorgio, 2013); “Mondialités au féminin: écritures migrantes entre ici et ailleurs”, in Genre et postcolonialismes (a cura di A. Berger e E. Varikas, 2011); e “La sapienza degli inermi. La Storia di Elsa Morante” in Il simbolico in gioco. Letture situate di scrittrici del ‘900 (a cura di A. Ribero e L. Ricaldone, 2011). Tra i suoi lavori più recenti: “La scrittura gaudiosa dolorosa di Elsa Morante”, in L. Fortini, G. Misserville, N. Setti, Morante la luminosa (2014).

Laura Tarantino, laureata in Ingegneria Elettronica presso l’Università “La Sapienza” di Roma e in Decorazione (ind. Beni-Storico Artistici) presso l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, è professore associato di Sistemi

224 dell’Elaborazione dell’Informazione presso il Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica dell’Università degli Studi dell’Aquila. Si occupa di nuove tecnologie e di comunicazione con e mediante il calcolatore, anche con interesse verso le ricadute sociali dei sistemi informatici e il supporto che queste possono fornire a classi di utenti più ‘fragili’ (quali anziani o bambini con difficoltà cognitive); in questi settori ha pubblicato più di 100 articoli tra riviste, libri e conferenze nazionali ed internazionali. In particolare dopo il sisma che ha colpito L’Aquila nel 2009 ha attivato diverse linee di ricerca focalizzate sul ruolo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella ricostruzione dei danni immateriali post-catastrofe. Negli ultimi anni è stata promotrice e curatrice di varie iniziative volte a promuovere progetti che concorrono a delineare l’immagine della nuova città, a riqualificare il territorio e a ricostruire il danno immateriale.

Maria Vittoria Tessitore divide i suoi interessi tra la letteratura e la mediazione culturale come pratica interpretativa del fenomeno migratorio. In particolare è studiosa sia di teatro inglese del periodo rinascimentale (oltre a numerosi saggi ha tradotto Titus Andronicus per l’edizione dei Meridiani) sia di teatro delle donne nel periodo suffragista e contemporaneo (l’ultimo lavoro, appena uscito per Editoria e Spettacolo è la cura con Paola Bono e in collaborazione con Sarah Perruccio di una scelta di tre testi di Timberlake Wertenbaker). Ha insegnato sia nelle scuole secondarie, sia all’università, in Italia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, appassionandosi a una didattica partecipativa e concentrata sull’apprendimento. Su queste premesse ha contribuito a fondare e a coordinare un corso di master in “Politiche dell’incontro e mediazione culturale”. Ha diretto le Relazioni Internazionali dell’Università Roma Tre per molti anni. È socia fondatrice della SIL.

Ida Travi nata a Cologne (Brescia) il 21 settembre 1948. La sua poesia si inscrive nel rapporto tra oralità e scrittura. In prosa nel 2000 pubblica L’aspetto orale della poesia, Anterem Edizioni, terza edizione Moretti&Vitali, 2007 e nel 2015 Poetica del basso continuo. In poesia per Moretti&Vitali Editori pubblica La corsa dei fuochi, Neo/Alcesti, Tà. Poesia dello spiraglio e della neve. Nel 2012 pubblica Il mio nome è Inna (Moretti&Vitali, 2012) e Katrin. Saluti dalla casa di nessuno nel 2013, entrambi con postfazione di Alessandra Pigliaru. L’atto tragico Diotima e la suonatrice di flauto è edito da Baldini Castoldi Dalai nel 2004 e nel 2011 opera lirica, Tesi di Laurea in Composizione del M° Andrea Battistoni. Su poesie e radiodrammi alcuni compositori contemporanei (Andrea Mannucci, Andrea Ziviani, Giuliano Zosi, Nicola Meneghini) hanno composto musiche originali. Collabora a Il manifesto. Una curiosità: negli anni ’80 ha curato per l’edizione italiana di Rolling Stones Magazine la rubrica Angolazioni, interventi tra letteratura e musica su Patty Smith, Demetrio Stratos, Andrè Breton, Dylan Thomas, Franz Kafka.

Nicoletta Vallorani insegna Letteratura inglese e Studi culturali presso l'Università degli studi di Milano. I suoi ambiti di ricerca comprendono visual studies, gender studies e queer studies. Tra i suoi volumi pubblicati, ricordiamo Utopia di mezzo. Strategie compositive in When the Sleeper Wakes, di H.G.Wells (1996), Gli occhi e la voce. J. Conrad, Heart of Darkness: dal romanzo allo schermo (2000), Geografie londinesi. Saggi sul romanzo inglese contemporaneo (2003), Orbitals. Materiali e Script di London Orbital (2009). È anche autrice dei recenti Anti/corpi. Body politics e resistenza in alcune narrazioni contemporanee di lingua inglese (2012) e Millennium London. Of Other Spaces and the Metropolis (2012). Da 7 anni coordina il progetto su geografie urbane, arti visive e contemporaneità Docucity. Documentare la città, (www.docucity.unimi.it), è vicedirettore della rivista online Altre Modernità (riviste.unimi.it/index.php/AMonline) ed è nella redazione della rivista Studi Culturali (Il Mulino).

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