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DIPARTIMENTO DI STUDI EUROPEI AMERICANI E INTERCULTURALI SAPIENZA - UNIVERSITÀ DI ROMA © Dipartimento di Studi Europei Americani e Interculturali 2012

© RCS Libri S.p.A. La Nuova Italia per i testi Dante Alighieri, Divina Commedia, Francesco Petrarca, Canzoniere, Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, James Joyce, Ulisse, Franz Kafka, Il processo, Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore di Roberto Antonelli Giovanni Boccaccio, Decameron, William Shakespeare, Amleto, Johann Wolfgang Goethe, Faust, Gustave Flaubert, Madame Bovary, Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo di Maria Serena Sapegno

Elaborazione grafica dell’immagine in copertina di Roberto Di Bernardini

Edizione fuori commercio destinata ai partecipanti al Convegno “La letteratura e la formazione degli europei”

Il presente progetto è finanziato con il sostegno della Commissione europea. L’autore è il solo responsabile di questa comunicazione e la Commissione declina ogni responsabilità sull’uso che potrà essere fatto delle informazioni in essa contenute. Letteratura europea Il canone

a cura di Roberto Antonelli Gioia Paradisi Maria Serena Sapegno

2012 Dipartimento di Studi Europei Americani e Interculturali

Indice

9 Introduzione

11 Iliade di Omero ROBERTO NICOLAI

23 Odissea di Omero PIERO BOITANI

35 Divina Commedia di Dante Alighieri ROBERTO ANTONELLI

45 Canzoniere di Francesco Petrarca ROBERTO ANTONELLI

55 Decameron di Giovanni Boccaccio MARIA SERENA SAPEGNO

65 Amleto di William Shakespeare MARIA SERENA SAPEGNO

79 Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes INES RAVASINI

93 Faust di Johann Wolfgang Goethe MARIA SERENA SAPEGNO

105 Madame Bovary di Gustave Flaubert MARIA SERENA SAPEGNO

115 I fiori del male di Charles Baudelaire LUIGI SEVERI

125 Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij MARIA SERENA SAPEGNO 

135 Guerra e pace di Lev Tolstoj CESARE G. DE MICHELIS

145 Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust ROBERTO ANTONELLI

157 Ulisse di James Joyce ROBERTO ANTONELLI

167 Il processo di Franz Kafka ROBERTO ANTONELLI

181 Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello ROBERTO ANTONELLI Introduzione

In un convegno tenutosi all’Università “Sapienza” di Roma il 15 e 16 giu- gno 2007 furono discussi i risultati di un sondaggio fra i docenti di una quindicina di università europee, volto a verificare se nella coscienza dei docenti europei esistesse un comune sentire riguardo all’esistenza di un canone letterario condiviso e se fosse quindi possibile immaginare un insegnamento letterario fondamentale comune a tutta l’Europa. Nel corso del Convegno fu avanzata anche l’idea di tradurre in pratica i risultati della ricerca, raccogliendo brani antologici delle opere più vota- te e proponendoli alla scuola secondaria europea come prima proposta di possibili letture comuni, derivata da un sondaggio certo preliminare ma abbastanza indicativo e comunque da affinare nel prossimo futuro e da aprire ad altre esperienze. Un minimo comun denominatore letterario europeo, a partire dalla scuola, che è sempre stata, per più di duemila anni, il principale veicolo della formazione giovanile. La letteratura nel corso del tempo ha svolto un ruolo fondamentale per la formazione dell’immaginario e del sistema affettivo delle giovani gene- razioni, in tutta Europa, e in particolare in Italia, per la funzione attribui- ta alla letteratura nella costituzione di un sentimento unitario. Ci siamo pertanto chiesti se la letteratura potesse svolgere ancora un tale ruolo positivo, malgrado la presenza sempre più forte dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Abbiamo risposto positivamente alla domanda, soprattutto considerando che gli archetipi dell’immaginario mediatico derivano in qualche modo e comunque da quelli elaborati in centinaia d’anni nelle letterature dei vari paesi europei e che proprio nella com- prensione della loro relazione con le comunicazioni di massa può essere arricchito il senso critico dei giovani, la capacità di interpretare e agire cri- ticamente rispetto alla quantità di informazioni che quotidianamente ven- gono immesse in rete.

L’antologia è un primo risultato di quella proposta, resa possibile da un nuovo sondaggio svolto nella scuola secondaria e nelle università di cin-  Introduzione que paesi dell’Unione Europea: Germania, Italia, Portogallo, Romania, Spagna. Raccoglie brani di quindici opere, da Omero a Kafka, più una sedicesima opera, “nazionale” (o meglio “areale”) con cui i partecipanti di ogni paese possono integrare la lista. Per l’Italia è stato scelto Sei perso- naggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, ovvero di uno dei massimi innovatori, nel mondo e non solo in Italia, del teatro novecentesco. La decisione di limitare la scelta del canone ad autori europei non è dovuta ad aprioristiche chiusure: se oggi è inevitabile pensare ad un cano- ne mondiale, è anche vero che la letteratura europea presenta caratteristi- che diverse da quelle americane o asiatiche o africane, se non altro per- ché è l’unica in cui il nesso tradizione-innovazione, così organico allla scrit- tura e all’interpretazione letteraria, poggia su una storia di quasi tremila anni. Una cosa però è certa: anche per quanto riguarda la letteratura occor- rerà lavorare per un’Europa aperta, non chiusa in se stessa, consapevole certo della propria specificità e identità, ma proprio per questo curiosa delle letterature e dei canoni di altri continenti (posto che tale è la scala su cui è insieme interessante e opportuno ragionare e confrontarsi).

L’antologia, del tutto sperimentale, è rivolta ai giovani, come primi desti- natari, per affiancare la lettura degli autori “nazionali” previsti dai pro- grammi ministeriali: è ridotta all’essenziale, in modo da non interferire nella programmazione scolastica, ma speriamo possa ugualmente risultare efficace per stimolare alla lettura e all’interpretazione critica. Iliade di Omero

La prima opera della letteratura occidentale non è un’opera letteraria, almeno se consideriamo la letteratura come legata alla scrittura, alle lit- terae: nasce in una società caratterizzata da oralità primaria, si sviluppa e prende forma in un contesto aurale e soltanto relativamente tardi viene fissata per iscritto. Peraltro la lingua greca non ha un termine per indi- care la letteratura e presso i Greci soltanto nella prima metà del IV seco- lo si comincerà a riflettere su quello che noi chiamiamo lo specifico let- terario. Un’altra grande differenza rispetto alle opere delle letterature moderne è l’assenza di un autore: una differenza sentita già dai Greci, e piuttosto precocemente, dato che ne crearono uno, come si inventa la figura del fondatore di una città o l’antenato di una stirpe aristocratica. Omero nac- que probabilmente ad opera di una corporazione di rapsodi, gli Omeridi, che nel VI secolo era attiva nelle feste panelleniche e locali e che si die- dero un capostipite. Col tempo sarebbero sorte persino tradizioni biogra- fiche, anche queste integralmente inventate. Nella fase orale le recitazioni dell’epos seguivano una dinamica complessa, come risulta chiaro dalle scene, soprattutto dell’Odissea, in cui compaiono aedi: il pubblico interagiva con l’aedo e ne condizio- nava le scelte. Tra l’aedo e il pubblico si stabiliva un rapporto di empa- tia che era parte integrante dell’esecuzione. Il forte coinvolgimento emotivo del pubblico è ben espresso in due versi dell’Odissea, relati- vi a Odisseo che aveva raccontato le sue vicende (13. 1 s.): «Disse così e immobili erano tutti, in silenzio / erano presi d’incanto nella sala ombrosa» (trad. Aurelio G. Privitera). Il proemio dell’Odissea ci può fare da guida nel tentativo di comprendere come si svolgessero le esi- bizioni degli aedi: dopo aver presentato Odisseo, l’eroe polytropos, vengono esposte in sintesi le sue peregrinazioni e si fa cenno dell’e- pisodio dei buoi del Sole. A questo punto, al verso 10, il poeta invo- ca nuovamente la Musa: «Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di ». Ho riportato il verso nella traduzione di Aurelio Privitera che,  R. Nicolai come ha notato Luigi Enrico Rossi1, e come quasi tutte le altre tradu- zioni, non rende ragione dell’avverbio hamothen, che significa «da un punto qualsiasi» (LSJ: «from some place or other»). Letteralmente il verso significa: «Di queste cose da un punto qualsiasi, o dea figlia di Zeus, dì anche a noi». Il proemio dell’Odissea testimonia nella forma più esplicita che non esi- steva neanche un testo che servisse da riferimento fisso, esisteva soltanto un repertorio di canti, dal quale l’aedo poteva liberamente scegliere, indi- viduando anche il momento del racconto da cui prendere le mosse. I poemi epici, nella prima fase della loro elaborazione e almeno fino alla cosiddetta redazione monumentale (la definizione è di Gilbert Murray), e in certa misura anche dopo, non avevano quindi neanche quella caratteri- stica che per noi è normalmente associata a un’opera letteraria: l’unità e la stabilità del testo. D’altra parte proprio i proemi erano tra le sezioni più esposte a possibili variazioni e adattamenti: dell’Iliade, oltre al proemio per noi abituale («Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta», il primo verso nella celebre traduzione di Vincenzo Monti), circolavano nell’anti- chità due proemi alternativi, evidentemente realizzati per diverse circo- stanze di esecuzione e per diverse forme di organizzazione della materia. Ne conosciamo l’inizio. Il primo suona così: «Narratemi ora, o Muse che abitate le case dell’Olimpo, / in che modo l’ira colse il Pelide / e lo splen- dido figlio di Latona. Costui infatti, adirato col re, …». Del secondo posse- diamo un solo verso: «Le Muse canto e famoso per l’arco». Quest’ultimo proemio si presenta come un inno alle divinità tutelari del canto, le Muse e Apollo, e si può paragonare ai cosiddetti Inni omerici, il cui scopo era proprio quello di introdurre il canto epico celebrando la divi- nità alla quale era dedicata la festa. Odisseo che racconta ai Feaci è l’alter ego del poeta dell’Odissea, il suo doppio: come l’aedo non partiva dall’inizio, cioè dalla partenza degli Achei da Troia, così Odisseo (7. 241) afferma che è difficile raccontare in sequen- za e parte dall’episodio di Calipso, quello che aveva aperto l’opera. Soltanto quando dichiarerà il suo nome, all’inizio del libro IX, Odisseo rac- conterà le sue avventure dalla partenza da Troia all’arrivo nell’isola dei Feaci. Ma anche in questo caso si chiederà che cosa dovrà narrare per prima e che cosa per ultima (9. 14). Ogni aedo, compreso Odisseo, si pone il problema del punto dal quale doveva prendere avvio il suo canto. Oltre a Odisseo, l’aedo ha altri doppi: sono Demodoco e Femio, gli aedi, rispet- tivamente, dei Feaci e di Itaca. Può essere sorprendente notare quanta con-

1 Vd. da ultimo L. E. Rossi, La comunicazione orale: Omero ed Esiodo nell’arcipelago epico, in «Critica del testo», 13/3, 2010, pp. 69-81, p. 74. Omero, Iliade  sapevolezza dell’arte poetica vi sia in un’opera così arcaica. Quando Femio, l’aedo di Itaca, scongiura Odisseo di risparmiargli la vita, descrive le caratteristiche della sua arte (Odissea 22. 345-349): «Tu avrai rimorso, un giorno, se uccidi il cantore / perché per i numi e per gli uomini io canto. / Da solo imparai l’arte, un dio tutti i canti / m’ispirò in cuore; mi sembra che davanti a te canterei / come davanti a un dio: perciò non tagliarmi la testa», trad. Rosa Calzecchi Onesti). Nel contesto di una cultura aurale (seconda metà VIII-VI sec. a.C., e anche per buona parte del V) i poemi continuarono a essere diffusi attra- verso la viva voce degli aedi e dei rapsodi, e la scrittura fu usata soltanto per garantire la conservazione e la trasmissione dei testi, che manteneva- no ancora un forte grado di flessibilità, legati com’erano alle varie circo- stanze di esecuzione. Le redazioni scritte possono essere considerate una prima forma di canonizzazione: nella scelta dei canti e nell’ordine nel quale erano trascritti. La trascrizione dell’epos è connessa con la protezio- ne del testo da parte delle istituzioni cittadine. Ad esempio la cosiddetta redazione pisistratea fu realizzata in funzione delle esecuzioni alle feste Panatenee di Atene. L’Iliade racconta cinquanta giorni dell’ultimo dei dieci anni della guerra di Troia, non racconta l’intera guerra, che era oggetto del ciclo troiano, una serie di poemi composti intorno al VII secolo, in parte sulla base di mate- riali più antichi. Il ciclo partiva con i Cypria, i Canti cipri (giudizio di Paride, rapimento di Elena, guerra di Troia fino alla contesa tra Achille e Agamennone), proseguiva con l’Iliade, con l’Etiopide, la Piccola Iliade, i Nostoi, la Telegonia. Uno dei Nostoi, i Ritorni degli eroi achei da Troia, era l’Odissea. L’Iliade e l’Odissea si inserivano nel ciclo, pur essendo di pro- porzioni molto maggiori rispetto agli altri poemi. Nella prassi delle recita- zioni, almeno da un certo momento in poi, i poemi erano collegati l’uno con l’altro: per l’ultimo verso dell’Iliade (24. 804) è attestata una variante che sostituisce l’epiteto di Ettore «domatore di cavalli» con «venne l’Amazzone», in riferimento a Pentesilea, regina delle Amazzoni e protago- nista dell’Etiopide, il poema che seguiva l’Iliade nel ciclo. Anche il ciclo epico ha avuto importanza nel processo di canonizzazione, in questo caso della saga troiana, che è diventata argomento privilegiato e ineludibile, fonte per eccellenza di paradigmi. Il ciclo è completamente perduto, ma ha offerto materia prima di tutto per la tragedia e poi per altre opere sulla saga troiana, da Ditti Cretese e Darete Frigio fino ai romanzi medievali. Nel V secolo a.C. abbiamo testimonianze di un interesse esegetico per l’epos che, tra l’altro, portò a distinguere le opere considerate autentica- mente omeriche da quelle spurie o di incerta attribuzione. Erodoto distin- gue Omero dall’autore dei Cypria (2. 117) e mette in dubbio la paternità  R. Nicolai omerica degli Epigoni, un poema del ciclo tebano (4. 32). Già intorno alla metà del V secolo, quindi, all’interno della poesia epica si era formato un canone più ristretto, che comprendeva soltanto i poemi considerati opera di Omero: questo canone, che sarà poi ridotto ai due soli poemi maggio- ri, Iliade e Odissea, portò alla progressiva emarginazione del ciclo epico. Nella Poetica di Aristotele la supremazia di questi due poemi viene defini- tivamente sancita: Iliade e Odissea sono superiori ai Cypria e alla Piccola Iliade per la scelta della materia e l’articolazione del racconto (1459a 30 ss.). Conclude Aristotele (1459b 14 ss.): «i due poemi sono distintamente composti, l’Iliade semplice e luttuosa, ma l’Odissea complessa, perché dap- pertutto sono riconoscimenti e carattere. Oltre a ciò, naturalmente, i due poemi eccellono su tutti gli altri nel linguaggio e nel pensiero» (trad. Carlo Gallavotti). Il giudizio di Aristotele arriva al termine di un lungo percorso, attraverso il quale i due poemi omerici sono diventati il testo base per l’e- ducazione dei giovani greci. Quando il sistema educativo cominciò a strut- turarsi, verso la fine del V secolo e poi nel IV, la fase dello studio presso il grammatico riguardava essenzialmente i poemi omerici, e così fu per tutta l’antichità. Ma anche i retori, che insegnavano l’eloquenza e la com- posizione in prosa, usavano moltissime esempi tratti dai poemi omerici, ad esempio per le figure retoriche. Iliade e Odissea sono quindi anche le prime opere del canone scolastico greco e occidentale. L’Iliade ci presenta un mondo molto lontano dal nostro: per fare un solo esempio, durante i funerali di Patroclo, Achille sacrifica dodici giovani troiani (23. 175 s.). La distanza antropologica che noi sentiamo rispetto al mondo dell’Iliade è maggiore, ma non troppo, rispetto a quella che già sentivano i Greci di età classica o ellenistica. Tale distanza deriva dall’og- getto del poema, che era antico già per gli antichi e che gli aedi contri- buivano a rendere ancora più arcaico. La guerra di Troia per i Greci era un fatto storico, uno dei pochi che conoscevano della loro storia più antica. Questo non significa ovviamente che l’Iliade sia una fonte storica: il gene- re epico ha le sue leggi e, per di più, il poema si è formato nel corso di diversi secoli attraverso una stratificazione di usanze, di oggetti della cul- tura materiale, di usi linguistici. Lo strato più antico, che risale al periodo submiceneo, deriva in parte dalla tradizione poetica, in parte dal recupe- ro, per così dire archeologico, compiuto dagli aedi. Nelle grandi tombe micenee dovevano essere visibili armi e altri oggetti che gli aedi attribui- vano all’epoca degli eroi che avevano combattuto a Troia. Di alcuni di que- sti, come, ad esempio, del carro da guerra, non sapevano quale fosse l’uso in battaglia: nell’Iliade gli eroi si servono dei carri da guerra per raggiun- gere il campo di battaglia, non per travolgere le file dei nemici, come avve- niva nelle culture del Vicino Oriente. La compresenza di istituti antropolo- Omero, Iliade  gicamente opposti, come le due forme di matrimonio, per dote e per acquisto, all’interno dell’Iliade è un’altra testimonianza della stratificazione compositiva dei poemi omerici. Il procedimento per cui gli aedi introdu- cono elementi arcaici, coerentemente con la prassi del genere e con la col- locazione dei fatti di Troia in un remoto passato, genera quello che è stato definito un composto chimico irreversibile. Un buon esempio è costituito dal libro X dell’Iliade, considerato recenziore già dagli antichi, nel quale compare però uno degli oggetti più antichi dell’intero poema: l’elmo orna- to di zanne di cinghiale dell’eroe Merione (10. 261-265). Quando Schliemann scoprì le rovine di Troia, il problema del rapporto tra l’Iliade e la storia sembrò risolto: in realtà, doveva semplicemente essere posto su nuove basi. Il tentativo di ritrovare sulla collina di Hissarlik tutti i dettagli presenti nell’Iliade, oltre che comportare enormi difficoltà, è in grandissi- ma parte inutile, in quanto la funzione dei poemi non era certo quella di fornire informazioni ai futuri archeologi. A questo punto non si può eludere un problema: poiché l’Iliade è stato definita una «enciclopedia tribale» (Havelock) o un «libro di cultura» (Lotman), ovvero che genere di insegnamenti poteva dare agli ascoltatori un poema che non rifletteva gli usi sociali di alcuna comunità storica? Si può rispondere che l’Iliade non offriva puntuali precetti da seguire, ma proponeva paradigmi, cioè esempi di comportamento, straordinari perché relativi a circostanze eccezionali e a gesta compiute da eroi. La coerenza dell’ambientazione storica non è uno dei requisiti indispensabili per l’e- semplarità. Viceversa, la distanza cronologica è uno dei presupposti essen- ziali perché si attivi il meccanismo del paradigma. Quando viene a man- care, è sostituita da un altro genere di distanza, quella spaziale e antropo- logica: è questo il caso dei Persiani di Eschilo, ambientati soltanto otto anni prima rispetto alla messa in scena della tragedia.

Il duello fra Ettore e Achille Paradigmatici per eccellenza nell’Iliade sono i comportamenti dei due eroi maggiori, Achille ed Ettore. La scena del duello tra i due eroi, che occupa quasi completamente il XXII libro, rappresenta bene il comporta- mento che ci si aspetta da un guerriero in quella che gli antropologi chia- mano «civiltà di vergogna». Leggiamo ora, nella traduzione di Giovanni Cerri, la preparazione del duello, con la decisione di Ettore di affrontare il nemico, malgrado le accorate insistenze degli anziani genitori, Priamo ed Ecuba (Iliade 22. 33-138):

Il vecchio dette in un gemito, si percosse la testa con le mani  R. Nicolai

alzandole in alto e gridava forte tra i gemiti scongiurando suo figlio; che stava a piè fermo 35 davanti alla porta, sempre deciso ad affrontare Achille; a lui il vecchio tendendo le braccia miseramente diceva: «Ettore, non affrontare, figlio mio, quell’uomo da solo, lontano dagli altri, che tu presto non trovi la morte sotto i colpi del Pelide, perché certo è molto più forte, 40 uomo senza pietà; così fosse caro agli dei quanto è caro a me: cani e avvoltoi lo mangerebbero subito steso morto; mi svanirebbe dal petto questo tremendo rancore! Lui che m’ha reso privo di tanti figli valorosi, ammazzandoli, vendendoli schiavi nelle isole più lontane. 45 Anche adesso due figli, Polidoro e Licaone, non riesco a vedere tra i rifugiati a Troia, me li dette alla luce Laotoe, signora fra le donne. Ma se sono vivi laggiù dentro al campo, allora di certo con bronzo, con oro, li riscatteremo; dentro casa ne abbiamo: 50 molto dette a sua figlia il vecchio Alte glorioso. Se poi ormai sono morti e stanno a casa di Ade, strazio al mio cuore e alla madre, che li demmo alla luce; ma più lieve sarà il dolore per il resto del popolo, se non morirai anche tu, ammazzato da Achille. 55 Su, figlio mio, torna dentro le mura, per potere salvare Troiani e Troiane, per non dare ad Achille questo gran vanto, perché tu stesso non resti privo della tua vita. Abbi anche pietà di me, sventurato, non ancora uscito di senno, disgraziato, che il padre Cronide sul limite estremo della vecchiaia 60 farà morire di sorte crudele, dopo aver visto tante sciagure, figli ammazzati, figlie rapite, talami profanati, bambini in fasce scaraventati a terra nella mischia furiosa, le mie nuore trascinate dalle mani maledette degli Achei! 65 Me per ultimo i cani sulla soglia di casa trascineranno voraci, quando qualcuno infilzandomi o bersagliandomi m’abbia tolto la vita dal corpo col bronzo affilato, i cani che tenevo in casa, alla mensa, alla porta, che bevuto il mio sangue, ebbri in cuor loro, 70 staranno stesi nel portico. Ad un giovane tutto sta bene, quand’è caduto in battaglia, trafitto dal bronzo affilato, anche restare sul campo; tutto è bello, quanto si vede, anche se è morto; ma quando il capo canuto, il mento canuto ed il pube sbranano i cani ad un vecchio ammazzato, 75 questo è il più triste spettacolo per i miseri mortali». Disse il vecchio, e si tirava con le mani i bianchi capelli, strappandoli via dalla testa; ma non piegava l’animo d’Ettore. Omero, Iliade 

Dall’altra parte piangeva la madre versando lacrime, scoprendosi il seno, con l’altra mano alzava la mammella; 80 e versando lacrime gli diceva parole che volano: «Ettore, figlio mio, abbi rispetto di questa, abbi pietà di me, se mai ti detti questa mammella, che faceva cessare il tuo pianto; non lo dimenticare, figlio mio, evita quell’uomo terribile, stando dentro le mura, non farti campione contro di lui, 85 sciagurato! Se quello t’ammazza, non potrò piangerti poi sul tuo letto, figliolo caro, io che t’ho dato alla luce, e nemmeno la sposa preziosa; da noi lontanissimo ti sbraneranno i cani veloci alle navi degli Argivi». Così piangendo quei due parlavano al figlio loro, 90 in preghiera accorata; ma non piegavano l’animo d’Ettore, anzi attendeva a piè fermo il terribile Achille, che s’avvicinava. Come serpente montano dalla sua tana aspetta il passante, dopo aver mangiato erba maligna, e l’ha preso ferocia rabbiosa, guarda con furia, contorcendosi dentro la tana; 95 così Ettore non arretrava, animato da odio inesausto, alla torre sporgente appoggiato il lucido scudo; disse allora turbato al suo stesso cuore animoso: «Misero me! Se rientro nella porta e dentro le mura, Polidamante per primo mi farà il suo rimprovero, 100 lui che in città m’esortava a riportare i Troiani in questa maledetta notte, quando Achille divino si è mosso. Ma non gli detti retta; e sarebbe stato assai meglio! Rovinato adesso il mio popolo per la mia sventatezza, mi vergogno di fronte ai Troiani, alle Troiane dai pepli fluenti, 105 che non dica qualcuno, benché peggiore di me: “Ettore, presumendo della sua forza, ha distrutto l’esercito”. Diranno proprio così: sarebbe allora per me assai meglio, battendomi faccia a faccia, o uccidere Achille e tornare, o essere ucciso da lui gloriosamente sotto le mura. 110 Se deponessi invece lo scudo ombelicato e l’elmo pesante, ed appoggiata al muro la lancia andassi incontro io stesso ad Achille perfetto, gli promettessi che Elena e con lei le ricchezze, tutte quante Alessandro sulle navi ricurve 115 portò via con sé a Troia, quello che della guerra è stato il motivo, restituiremo agli Atridi, ed altro a parte daremo agli Achei, di quanto possiede questa città; esigerei dai Troiani in quel caso il giuramento degli anziani di nulla nascondere, ma dividere tutta in due parti 120 quanta ricchezza la nostra bella città racchiude in se stessa … Ma perché queste cose m’ha detto il mio cuore? Temo che se vado a supplicarlo, non avrà compassione di me  R. Nicolai

e nemmeno rispetto, mi scannerà indifeso come una donna, una volta ch’io abbia deposto le armi. 125 Non è più possibile ormai conversare con lui di questo e di quello, come un ragazzo ed una ragazza, come tra loro ragazza e ragazzo conversano. Meglio attaccare al più presto battaglia; vediamo a quale dei due l’Olimpio concederà la vittoria». 130 Così pensava aspettando, e gli venne incontro il Pelide che pareva Enialio, il guerriero dall’elmo ondeggiante, librando il frassino pelio sopra la spalla destra, tremendo; risplendeva il bronzo sulle sue membra come raggio di fuoco che arde o di sole che sorge. 135 Ettore, come lo vide, fu preso dal panico; non osò più a lungo restare lì fermo, si lasciò la porta alle spalle, si dette alla fuga; lo inseguì il Pelide, fidando nei piedi veloci.

Questo passo sintetizza molti dei valori che l’epos trasmetteva: anzitut- to la ricerca della gloria (vv. 57; 110; 130), che può essere conquistata sol- tanto sul campo, combattendo faccia a faccia con il nemico. La gloria rag- giunge sia il vincitore sia il vinto e non si possono cercare scorciatoie, attra- verso il pagamento di un prezzo in denaro. Ma sull’eroe agisce anche la pressione della comunità che lo spinge a provare vergogna (v. 105) e quin- di ad affrontare un nemico più forte. Il massimo disvalore è rimanere inse- polti, preda per cani e uccelli: questo scenario viene evocato da Priamo, che prima augura questo destino ad Achille (v. 42 s.) e poi prefigura la sua morte e lo scempio ad opera dei suoi stessi cani (vv. 69-71); quindi da Ecuba, che immagina il figlio morto lasciato in preda ai cani vicino alle navi achee (v. 88 s.). I personaggi dell’epos, legati come sono ai paradigmi di cui sono por- tatori, non hanno un’evoluzione psicologica, sono caratteri fissi. Le loro stesse reazioni emotive sono spesso rappresentate come indotte da forze esterne, le divinità che interagiscono con loro. Le divinità, dal canto loro, sono mosse da pulsioni e sentimenti non diversi da quelli che animano gli eroi: la differenza è nel destino di morte, al quale gli uomini non possono sfuggire. Gli eroi, in genere figli o discendenti di divinità, sono uomini con caratteristiche eccezionali, in positivo o in negativo, e per questo motivo sono paradigmi di straordinaria potenza. I poemi omerici saranno riferimento permanente per la letteratura greca e, in modo diretto o mediato, per tutte le letterature occidentali. Molta parte della letteratura greca si può definire come un commento a Omero e quegli autori che da Omero si allontaneranno lo faranno per sostituirsi a lui nel ruolo di testi paideutici fondamentali: non è casuale che, nel Omero, Iliade  momento del passaggio da una diffusione aurale a una diffusione preva- lentemente scritta dei testi, tre autori fondamentali come Tucidide, Isocrate e Platone si confrontino più o meno apertamente con Omero. Tucidide propose, in luogo dell’epos, il paradigma di un grande evento recente rico- struito con accuratezza; Isocrate compose orazioni fittizie finalizzate alla formazione retorica e politica; Platone traspose il dialogare di Socrate in opere che ne dovevano perpetuare l’insegnamento. L’Iliade è stata ipotesto per opere appartenenti a generi molto diversi. Propongo due soli esempi, tratti dal passo che abbiamo letto. La contrap- posizione tra la bellezza eroica del giovane caduto in battaglia e lo spetta- colo offerto da un vecchio ucciso viene ripresa in un carme parenetico di Tirteo, quasi con le stesse parole (fr. 10 W., vv. 21-30):

È uno sconcio che un vecchio cada in prima fila e resti sul terreno innanzi ai giovani, con quel suo capo bianco e il mento grigio, e spiri l’animo suo gagliardo nella polvere, con le mani coprendo le pudende insanguinate (spettacolo indecente, abominevole), nude le carni: nulla c’è che non s’addica a un giovine finché la cara età brilla nel fiore. Da vivo, tutti gli uomini l’ammirano, le donne l’amano; cade in prima fila: è bello. (trad. Filippo Maria Pontani)

Tirteo rifunzionalizza la scena omerica, insistendo sulla posizione nello schieramento, la prima fila, fondamentale nella tecnica di combattimento oplitica. La scena di Ecuba che si scopre il seno per indurre il figlio a ritornare dentro le mura di Troia viene ripresa, e anche in questo caso rifunziona- lizzata, da Eschilo nelle Coefore (896-898):

CLITEMESTRA Fermati, figlio; abbi ritegno, figlio mio, di questo seno, su cui spesso ti addormentavi succhiando con le gengive il latte che ben ti nutriva. (trad. Luigi Battezzato)

Quando Oreste sta per uccidere la madre Clitemestra, questa si rivolge al figlio scoprendosi il seno, in un estremo tentativo di ottenere pietà. La madre che supplica il figlio perché si salvi è sostituita da una madre che implora il figlio di non ucciderla. ROBERTO NICOLAI  R. Nicolai

E. A. HAVELOCK, Iliade da E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, introduzione di B. Gentili, Laterza, Bari-Roma 1973

In una cultura orale, la conservazione e la permanenza della comunicazione sono garantite dall’epos e dai suoi affiliati, e solamente da questi. Essi costituiscono il mas- simo grado di complessità e raffinatezza possibile. Omero, lungi dall’essere «specifico», impersona la mentalità dominante. Non dobbiamo pensare che il parlar quotidiano della sua epoca, che per noi è andato perduto, rappresenti una gamma più ricca ed ampia di espressione e di pensiero, entro la quale la visione omerica del mondo si sarebbe costituita su una speciale base «poetica». Al contrario, è solo nel discorso con- servato e significativo, dotato di vita propria, che si sviluppa il massimo di significato accessibile alla mentalità di una data cultura. L’epos, malgrado il suo lessico lievemen- te esoterico (e addirittura in forza di questo lessico) rappresentava il discorso significa- tivo, e non aveva concorrenti in prosa. La mentalità omerica era quindi, potremmo dire, la mentalità generale. Questa affermazione non può ovviamente venir suffragata da documenti dell’età omerica, che era illetterata, ma può forse essere indirettamente illustrata da un esame di quelle civiltà preomeriche del Vicino Oriente che conoscevano dei sistemi di scrit- tura. Questi sillabari erano troppo rudimentali e ambigui per consentire un uso corrente o per promuovere l’istruzione generale. Quindi, la loro lingua non aveva il potere di modificare il linguaggio generale della comunicazione orale, ma al contrario era costret- ta a riprodurlo, e in queste trascrizioni cogliamo fugaci tratti di quel tipo di parlare pro- fano che in una condizione totalmente illetterata qual era quella dei greci non era con- servabile, fintantoché non entrava a far parte dell’epos. Le tavolette rinvenute a Pilo e a Cnosso rappresentano comunicazioni della civiltà cretese-micenea e micenea. La loro decifrazione sembra indicare che nelle corti di re di lingua greca si potevano affidare alla scrittura non soltanto gli inventarii ma anche le direttive operative. Alcuni studiosi hanno ravvisato in queste direttive un greco dal- l’andamento ritmico. Se essi sono nel giusto, si può concludere che la direttiva pren- deva forma per l’udito, non per la vista. Era modellata oralmente per l’apprendimento mnemonico e la trasmissione verbale, e in seguito veniva anche ad essere scritta. Le leggi della sua composizione sono acustiche, e la scrittura, invece di essere usata per creare nuove possibilità alla prosa, rimane al servizio della dominante tecnica orale. […] In tali culture illetterate, si potrebbe dire che il compito dell’educazione consista nel conferire all’intera comunità una mentalità formulare. Lo strumento per far ciò era l’uso delle epopee tribali come paradigmi. Naturalmente, il loro stile è più intenso. Il loro lin- guaggio mostra un virtuosismo che veniva forse imitato nelle transazioni comuni, ma ad un più semplice livello d’arte. Un aedo doveva essere un uomo di memoria ecce- zionale, e forse anche il principe e il giudice. Ciò significava automaticamente un non comune senso ritmico, giacché il ritmo era il mezzo per conservare il discorso. Alla memoria ed al senso ritmico eccezionali doveva anche accompagnarsi una superiore maestria nel maneggio delle formule. Coloro che tra il popolo avevano memoria più Omero, Iliade  debole dovevano accontentarsi di usare un linguaggio più semplice, meno elaborato. Ma l’intera comunità, dall’aedo e dal principe al contadino, era sintonizzata sulla psi- cologia del ricordo. Un’epopea poteva registrare un intero complesso di fatti storici e di consuetudini. In un villaggio, i capi locali erano forse in grado di ripeterla, mentre i contadini probabilmente la ricordavano solo in parte. Ma tutti indistintamente erano addestrati a rispondere a direttive formulari – un ordine militare, diciamo, o un’impo- sizione di tasse locali – in cui lo stile epico veniva imitato o riecheggiato. Ciò equivale a dire che il poeta, e in particolare il poeta epico, doveva esercitare un grado di con- trollo culturale sulla sua comunità che è difficilmente immaginabile nelle condizioni della moderna istruzione, in cui la poesia non fa più parte dell’attività di tutti i giorni. Il suo linguaggio epico doveva costituire una specie di linguaggio culturale, un siste- ma di riferimento e una norma di espressione cui, in vario grado, erano rimandati tutti i membri della comunità. […] Il termine «linguaggio culturale» […] è stato limitato alle lingue che possiedono una letteratura scritta. La teoria può essere integrata postulando che di conseguenza in una società conservata oralmente sia soprattutto l’epos che di massima fornisce il linguag- gio culturale. L’estensione della sua funzione per questo rispetto dipenderà dal grado di virtuosismo che si impiega per conferire al discorso la forza di sopravvivere. […] Le epopee omeriche costituivano un complesso di scritture invisibili impresse nella mente della comunità. Rappresentavano un monopolio esercitato dalla tecnica epica sul lin- guaggio culturale. Tale controllo doveva essere collegato all’esecuzione funzionale per essere efficace. Il fatto che la lingua omerica non era il vernacolo non fece che esalta- re il suo potere di controllo. I tempi e le condizioni precise in cui i vari dialetti greci si separarono sono ancora oscuri, ma in tutta l’età arcaica e classica, in Grecia si parlava ancora omericamente, e si tendeva altresì a pensare omericamente. Non si trattava sol- tanto di uno stile poetico, bensì di uno stile internazionale, di un superiore idioma di comunicazione. Per un popolo, il controllo esercitato sullo stile del suo linguaggio, per quanto indi- retto, significa anche un controllo sul suo pensiero. Le due tecnologie di conservazio- ne della comunicazione conosciute dall’uomo, ossia lo stile poetico col suo apparato acustico, e lo stile prosastico visivo col suo apparato visivo e materiale, ciascuno nel suo rispettivo ambito, controllano anche il contenuto di ciò che è comunicabile. In un certo complesso di circostanze, l’uomo riordina in parole la sua esperienza in un dato modo; nell’altro complesso, riordina la stessa esperienza diversamente, con parole diverse e diversa sintassi; e probabilmente, nel far così, l’esperienza stessa si modifica. Ciò equivale a dire che gli schemi del suo pensiero hanno proceduto storicamente su due distinti binari, quello orale e quello scritto. La giustezza di questa ipotesi non è stata ancora verificata. Ma almeno Platone, se ci è consentito tornare a lui, sembra fosse convinto che la poesia ed il poeta avevano esercitato un controllo non solamente sul- l’espressione verbale dei greci, ma anche sulla loro mentalità e sulla loro coscienza. Secondo lui, questo controllo era stato fondamentale, e nella sua descrizione esso risul- ta di tipo monopolistico. Ciò si accorda con la nostra analisi della situazione del poeta nei secoli oscuri della Grecia. Se ha ragione Platone, questa situazione era perdurata virtualmente immutata per tutta l’età greca classica.

Odissea di Omero

Il secondo poema omerico, generalmente datato all’VIII secolo a.C., presuppone il primo, l’Iliade, del quale riprende molti personaggi e vicen- de, pur essendo da quello completamente diverso per tema e struttura. L’Odissea è il poema del dopo-guerra, del ritorno del reduce a casa: e delle narrazioni dei nostoi, i ritorni dei vincitori greci di Troia, doveva origina- riamente far parte (frequenti sono in esso il contrasto con quello tragico di Agamennone e il parallelismo con quello di Menelao). Organizzato come l’Iliade in ventiquattro Libri, l’Odissea ha una struttu- ra, come già sosteneva Aristotele nella Poetica, «complessa», e «intreccio doppio»: non narra infatti il ritorno di Odisseo/Ulisse in patria, nella sua Itaca, in sequenza cronologica, ma si serve (primo nella narrativa occi- dentale) di mirabili anticipazioni e flashback, e giunge alla fine (duplice, appunto: punizione dei cattivi e trionfo dei buoni) dividendosi in tre gran- di sezioni. Nella prima (Libri I-IV) il protagonista è fisicamente assente dalla scena (ma la sua assenza costituisce un tema ossessivo), mentre viene presentata la situazione di Itaca, nella quale i principi locali e delle isole vicine, i Proci o Pretendenti, vivono nel palazzo reale consumandone le ricchezze e facendo la corte a Penelope, la moglie che Odisseo ha lascia- to venti anni prima per recarsi a Troia. Telemaco, l’unico figlio di Odisseo e Penelope, è ormai un giovane uomo e, su impulso di Atena, parte per Pilo e Sparta a cercare notizie del padre presso i suoi antichi compagni d’arme, Nestore e Menelao. Con la seconda sezione (Libri V-XII) Odisseo prende il suo posto di protagonista, dapprima ospite-prigioniero della dea Calipso sulla sperduta isola di Ogigia, poi in navigazione su una zattera verso Scheria, l’isola dei Feaci, infine nel palazzo del re di costoro, Alcinoo, dove narra le proprie avventure (Libri VIII-XII) e dunque ritorna indietro nel tempo costruendo egli stesso l’«Odissea». Tutte le tappe di questa (Ciconi, Ciclopi, Eolo, Lestrigoni, Lotofagi, Cir- ce, Ade, Sirene, Scilla e Cariddi, isola del Sole, Calipso: i mythoi o «apolo- ghi di Alcinoo») sono fantastiche e ambientate in luoghi al di fuori del mon- do reale (benché sin dall’antichità si sia tentato con caparbietà di ritrovar-  P. Boitani ne l’ubicazione attorno al Mediterraneo o, più recentemente, in Scandina- via, e persino sull’intero pianeta). Tutte, dopo l’episodio di Polifemo, sono dominate dall’ira del dio del mare, Poseidone, del quale Odisseo ha acce- cato il figlio Ciclope. È l’ira di Poseidone a determinare il lungo errare di Odisseo (due dei dieci anni del ritorno, poiché uno egli ne passa con Cir- ce e ben sette con Calipso), ma l’eroe non rifiuta mai, e anzi desidera, la conoscenza di luoghi, esseri e costumi strani, mostruosi e pericolosi (co- me le Sirene, delle quali vuole a tutti i costi ascoltare il canto mortale). La narrazione di Odisseo esercita inesauribile fascino già sui primi ascoltatori, i Feaci stessi, che, in silenzio, sono disposti a seguire il rac- conto per tutta la notte; e poi attraverso i secoli sino ai nostri giorni, men- tre sin dall’antichità ne emerge il carattere immediatamente esemplare, il quale darà luogo ben presto alle interpretazioni allegoriche e morali. Che l’incontro con i Mangiatori di Loto rappresenti la tentazione suprema del- l’oblio è osservazione tanto ovvia a una prima lettura quanto tuttora per- tinente. Il confronto con Polifemo può essere letto come lo scontro con l’altro da sé, l’inumano, il mostro (l’orco delle fiabe), il selvaggio, il pri- mitivo, il cannibale. Le Sirene rappresenteranno la seduzione del canto, della morte, della conoscenza, della bellezza carnale (e Odisseo legato all’albero della nave quando questa passa davanti alle Sirene verrà inter- pretato in ambito cristiano addirittura come prefigurazione di Cristo inchiodato alla croce). Il lungo soggiorno presso Calipso, il rifiuto del- l’immortalità, la «nostalgia» (letteralmente, «dolore del ritorno») potranno essere prese per incrollabile fedeltà al proprio essere uomo, per rigetto della divinità, ma anche come anelito di Odisseo non verso la terra nata- le, ma verso la Patria celeste (sarà il filosofo neoplatonico Plotino a con- sacrare questa interpretazione). La visita all’Ade – la nekyia o evocazione dei morti: l’incontro con la madre, con Achille, Agamennone, Aiace, gli eroi e le eroine del mito – è collocata significativamente al centro di tale trama: perché costituisce l’e- sperienza suprema di ciò che non è più, del mondo della morte dal quale l’eroe è toccato sin nel profondo delle sue radici esistenziali (la madre), della propria giovinezza (i compagni di Troia), del passato tutto della sua gente; nel quale egli deve sprofondare per poterne emergere vivo e cosciente. Non sarà un caso, del resto, se proprio nell’altro mondo Platone presenterà Odisseo al termine della Repubblica, nell’ambito del mito di Er: dove il nostro eroe dovrà scegliere una figura per la sua prossima reincar- nazione e finirà, felice, per contentarsi di quella di un uomo privato e insi- gnificante, lontano dai furori eroici e dalle erranze infinite dell’Odisseo omerico, preannunciando quindi l’«ognuno», l’uomo comune che Leopold Bloom rappresenterà nell’Ulisse di Joyce. Omero, Odissea  Tutta la terza e ultima sezione dell’Odissea (Libri XIII-XXIV) è dedicata al ritorno a Itaca su una nave dei Feaci e alla riconquista da parte dell’e- roe della sua reggia e della moglie insidiata dai Pretendenti. Odisseo, tra- sformato in vecchio mendicante da Atena, riparte ancora una volta da zero (già arrivando a Scheria compariva nudo e incrostato di sale, come un vero Nessuno, il nome col quale si era presentato a Polifemo). È questa la parte del poema nella quale si succedono in crescendo l’una dopo l’altra le scene di riconoscimento e mancato riconoscimento – con Telemaco, con il cane Argo, con la nutrice Euriclea, con Penelope, con Eumeo e Filezio, con il padre Laerte – che già avevano segnato le prime due, tali che pro- prio la loro presenza spingeva Aristotele a definire «complesso» il poema. A poco a poco, attraversando scene comiche (la lotta con l’altro mendi- cante, Iro), patetiche (la morte del cane Argo) e apocalittiche (il riso cieco dei Proci), Odisseo prepara la tremenda vendetta sui Pretendenti, che ster- mina tutti senza pietà dopo aver vinto la gara con l’arco proposta da Penelope per chi la voglia sua sposa. Dopo la lunga notte che marito e moglie finalmente passano insieme, il poema termina con il ricongiungi- mento di Odisseo al padre e la pace che Atena stabilisce tra Odisseo e i suoi da un lato e i parenti dei Proci dall’altro. Poema sfaccettato come il suo protagonista (Odisseo è polutropos, «dai molti lati», e polumetis, dalla mente piena di molti accorgimenti), l’Odissea odora di mare e sa di salmastro, ma è anche capace di entrare nei palazzi, nelle capanne, nelle spelonche, nelle selve e nei giardini incantati. Capisce l’animo di una moglie ferma e fedele, ma sola per vent’anni, e quello di una fanciulla come Nausicaa, che per lo straniero venuto dalle acque prova un sentimento di attrazione descritto con delicatezza senza pari. Si fa comme- dia “borghese” quando mostra Alcinoo, il padre di Nausicaa, che pensa di maritarla allo sconosciuto del quale non sa ancora il nome. Esplora il regno tremendo della morte, restando però aperta alla luce. È il poema della se- nescenza, nel quale tutti i personaggi sopravvissuti alla guerra di Troia so- no invecchiati, ma celebra la vita e il perdurante amore di moglie e marito. Penetra nella psiche di dèi, re, guerrieri, pastori, servi e, per la prima volta, delle donne (Anticlea, Penelope, Elena, Nausicaa, Circe, Calipso, Euriclea). Sonda gli abissi teologici della giustizia divina. Situa al suo centro l’eroe del- l’esperienza umana, dell’intelligenza, della conoscenza e della sopravviven- za: che, ridotto a nulla, rifiuta l’immortalità offerta da Calipso e penosa- mente riconquista la propria identità di uomo. Epica nella forma, costitui- sce l’archetipo di quello che più tardi si chiamerà “romanzo”. Fa poesia del- la memoria, del racconto poetico e del canto: Aristotele, con intuito genia- le, sosteneva che la scena di riconoscimento con Alcinoo avviene «attraver- so la memoria», ma questa è destata dal canto dell’aedo Demodoco, e Alci-  P. Boitani noo stesso dice a Odisseo, un attimo prima che questi si riveli, una frase la cui sbalorditiva portata fu sottolineata da Jorge Luis Borges: «Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi / quando odi la sorte dei Danai argivi e di Ilio. / A volerla sono stati gli dei: filarono la rovina / per gli uomini, perché aves- sero anche i posteri il canto». Infine, nell’Odissea il fiammeggiante spirito agonistico dell’Iliade è sostituito, scriveva l’autore anonimo del trattato Sul sublime, da un ondeggiare – «come l’Oceano, quando si ritrae in se stesso e se ne sta solo nei suoi argini» – tra «favole straordinarie». Il poema resta poi misteriosamente, enigmaticamente aperto: perché la profezia che Tiresia pronuncia per Odisseo nel mondo dei morti promet- te sì il ritorno a casa, ma prefigura anche un «ultimo viaggio» verso un paese che non conosce il mare, le navi, il cibo condito col sale, e dove un remo potrà essere scambiato per una pala da grano: una landa insomma al di fuori dell’esperienza della Grecia arcaica, e dunque un viaggio poten- zialmente senza fine. Infinito infatti nel tempo e nello spazio è stato l’itinerario di Odis- seo/Ulisse nella nostra civiltà: dai vasi dipinti dello stesso VIII secolo agli studiosi alessandrini e bizantini, dai poeti augustei alle passioni politiche degli imperatori di Roma, da Boezio all’esegesi cristiana, dalle narrazioni medievali irlandesi a Dante, sino alla pittura, alla poesia e alla musica del Rinascimento e del Romanticismo, e oltre: all’Ulisse di Joyce, a La naissan- ce de l’Odyssée di Giono, a 2001: Odissea nello spazio. , il poeta dei Caraibi insignito del Premio Nobel nel 1992, autore di una ver- sione drammatica del poema e di un Omeros che è riscrittura dello stesso, coglie appieno il senso dell’Odissea e della sua storia nell’immaginario oc- cidentale quando nel 1981 compone la sua breve lirica Mappa del nuovo mondo, rievocando il conflitto dell’Iliade e il sorgere del secondo poema omerico per mezzo di un nuovo inizio: «Alla fine di questa frase, comin- cerà la pioggia. / All’orlo della pioggia, una vela. // Lenta la vela perderà di vista le isole; / in una foschia se ne andrà la fede nei porti / di un’inte- ra razza. // La guerra dei dieci anni è finita. / La chioma di Elena, una nu- vola grigia. / Troia, un bianco accumulo di cenere / vicino al gocciolar del mare. // Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa. / Un uomo con oc- chi annuvolati raccoglie la pioggia / e pizzica il primo verso dell’Odissea».

XIX, 349-504: Il riconoscimento di Euriclea È una delle scene più celebri della letteratura di tutti i tempi. Nella trama dell’Odissea, riprende uno dei temi più insistenti, soprattutto nella secon- da parte del poema, quella ambientata a Itaca: il tema del riconoscimento e del non-riconoscimento. La scena con Euriclea è inserita all’interno di Omero, Odissea  un’altra, che occupa in sostanza l’intero Libro XIX: l’incontro, dopo vent’anni, tra Ulisse e Penelope. Siedono l’una di fronte all’altro presso il fuoco, lei splendente di bellezza, lui nelle vesti di vecchio mendicante. Penelope domanda subito allo straniero chi sia e da dove venga, ma Odisseo, con la scusa che il ricordo gli accrescerebbe le sofferenze, non risponde. È invece Penelope a raccontare al mendicante l’inganno per mezzo del quale ha tenuto a bada i Proci per qualche tempo: la tela che tesseva di giorno e disfaceva di notte per il sudario di Laerte. Per parte sua Odisseo inventa per sé una delle svariate identità cretesi con le quali si presenta in patria, questa volta addirittura di fratello di Idomeneo, il condottiero dei Cretesi a Troia. Penelope mette l’ospite alla prova, domandandogli come Odisseo fosse vestito e quali compagni fos- sero con lui in quell’incontro di vent’anni prima. La risposta precisa al mini- mo dettaglio le fa versare calde lacrime, ma non la conduce al riconosci- mento, mentre il mendicante termina il suo discorso profetizzando l’immi- nente ritorno in patria di Odisseo. A questo punto Penelope chiama la vecchia Euriclea a lavare i piedi del mendico. Non appena ne tocca le membra, Euriclea riconosce la ferita che un cinghiale gli aveva inferto durante una partita di caccia cui Odisseo aveva partecipato col nonno materno Autolico sul monte Parnaso. Inizia allora, con transizione fulminea, una delle digressioni più famose della sto- ria della letteratura Il segno del riconoscimento riguarda la carne stessa di Odisseo, la sua sto- ria di adolescente e di uomo. Non è perciò un caso che Omero scelga la ci- catrice per effettuare l’agnizione. Né è certo un caso che Aristotele, nel ca- pitolo 16 della Poetica, indichi la scena del “Bagno”, questa appunto, come esempio supremo di anagnorisis (riconoscimento) «per mezzo di segni» o in- dizi materiali: perché in essa si combinano in maniera “artistica” l’acquisi- zione della conoscenza (nella teoria aristotelica, il suo primo gradino, la co- noscenza attraverso i sensi: qui la vista e il tatto) e la peripeteia, il ribalta- mento della situazione narrativa (la scoperta che lo sconosciuto mendicante è Odisseo stesso), producendo uno shock di sorpresa ed emozione. Manie- ra “artistica”, mentre quella usata più tardi, nel riconoscimento da parte di Eumeo e Filezio attraverso la stessa cicatrice è, nota Aristotele, meccanica (Odisseo mostra semplicemente la ferita come «segno chiarissimo»). E cono- scenza radicale, basilare, quella dei sensi, che Aristotele pone per prima nel- la scala ascendente dell’anagnorisis e nella sua teoria della conoscenza.

Gli rispose allora la saggia Penelope: «Ospite caro, un uomo così avveduto giammai tra gli ospiti di terre lontane arrivò a casa mia più gradito,  P. Boitani

come sei tu che dici ogni cosa in modo chiaro e assennato. C’è una vecchia con me, ed ha nella mente connessi pensieri1, che crebbe e allevò con affetto quel misero, accogliendolo nelle sue braccia, appena la madre lo partorì: ti laverà i piedi costei, anche se è molto debole. Dunque ora alzati, saggia Euriclea, e lava un coetaneo del tuo signore: Odisseo certo ha ormai i piedi e le mani ridotte così, perché i mortali invecchiano subito nella sventura». Disse così, e la vecchia si coprì con le mani la faccia, versò calde lacrime, pronunciò lamentose parole: «Per te, o figlio, m’accoro, impotente: tra gli uomini Zeus odiò te di più, che avevi un animo pio. Nessuno bruciò tra i mortali a Zeus lieto del fulmine cosci grassi e scelte ecatombi così numerosi2, quanti ne desti tu a lui, pregando di poter arrivare ad una splendente vecchiezza e crescere il figlio illustre: ed ora a te solo tolse del tutto il dì del ritorno. Forse le donne dei forestieri di paesi lontani irridevano così anche lui, quando arrivava nella casa illustre di uno, come irridono te queste cagne, tutte; ed ora, per evitarne l’oltraggio e le molte infamie, non le lasci lavarti; e l’ha ordinato a me, consenziente, la figlia di Icario, la saggia Penelope. Ti laverò dunque i piedi, per riguardo a Penelope e a te, perché il mio animo, dentro, è mosso da compassione. Ma ora ascolta la parola che dico: molti stranieri qui sono giunti, provati dalla sventura, ma nessuno, dico, a vederlo somigliava tanto ad Odisseo, come tu gli somigli, nell’aspetto, la voce, i piedi». Rispondendo le disse l’astuto Odisseo: «O vecchia, così dicono quanti con gli occhi ci videro entrambi, che siamo assai somiglianti tra noi, come affermi con senno anche tu». Disse così, e la vecchia prese il bacile lucente, in cui lavava i piedi, vi versò molta acqua fredda e aggiunse poi quella calda. Odisseo sedeva accanto al braciere, e d’un tratto si volse alla tenebra: subito temette nell’animo che nel toccarlo notasse la sua cicatrice e si scoprisse ogni cosa. Lavava il padrone accostandosi e riconobbe all’istante la ferita che gli inferse il cinghiale col bianco dente, quando andò sul Parnaso, da Autolico e i figli, dal nobile nonno materno, che spiccava tra gli uomini per ladrocinio e spergiuro: glieli diede il dio stesso Omero, Odissea 

Ermete, al quale bruciava cosci graditi di agnelli e capretti, e che lo scortava benevolo3. Arrivando nel ricco paese di Itaca, Autolico aveva trovato il figlio neonato di sua figlia; sui ginocchi Euriclea glielo pose, quando egli fini la sua cena, gli rivolse la parola, gli disse: «Autolico, trova ora tu un nome da imporre al figlio caro di tua figlia: fu tanto agognato da te». Le rispose allora Autolico e disse: «Genero mio, figlia mia, mettetegli il nome che dico: io vengo qui con odio per molti, uomini e donne sulla terra molto ferace, e dunque si chiami Odisseo di nome4. Ed io, allorché cresciuto verrà sul Parnaso5, nel palazzo materno dove sono i miei beni, a lui ne darò mandandolo a casa contento». Per questi Odisseo andò, per avere gli splendidi doni. Autolico e i figli di Autolico l’accolsero con abbracci e parole gentili; Anfitea, la nonna materna, strinse Odisseo, gli baciò il capo e i due occhi belli. Autolico ordinò ai suoi figli gloriosi di preparare il pranzo: essi ubbidirono all’ordine. Subito portarono un bue di cinque anni, lo scuoiarono e prepararono, lo squartarono tutto, lo spezzettarono con maestria, l’infilzarono in spiedi, l’arrostirono con attenzione e le parti divisero. Così tutto il giorno, fino al tramonto, mangiarono, e al loro animo non mancò la giusta porzione; appena il sole calò e sopraggiunse la tenebra, allora si coricarono e colsero il dono del sonno. Quando mattutina apparve Aurora dalle rosee dita6, per la caccia partirono, sia i cani sia loro, i figli di Autolico; il chiaro Odisseo andava con essi. Salirono il ripido monte vestito di boschi, il monte Parnaso, e presto arrivarono in gole ventose. Il sole colpiva da poco i campi fuori dal calmo e profondo Oceano fluente, e i cacciatori arrivarono in una valletta: davanti ad essi andavano i cani, cercando le tracce, e dietro i figli di Autolico; il chiaro Odisseo andava con essi, accosto ai cani, agitando la lancia dalla lunga ombra. Lì, nella folta macchia, era acquattato un grosso cinghiale; non la penetrava il vigore dei venti che spirano umidi, né mai il sole lucente la colpiva coi raggi,  P. Boitani

e neppure vi filtrava la pioggia: così fitta essa era, e c’era un mucchio enorme di foglie. Gli giunse il rumore dei piedi degli uomini e quello dei cani, come cacciando avanzavano: sbucò loro incontro dal covo, irto di setole, spirando fuoco dagli occhi, e s’arrestò innanzi ad essi. S’avventò Odisseo per primo, alzando la lunga lancia con la mano robusta, bramoso di ucciderlo; lo prevenne il cinghiale, lo percosse sopra il ginocchio, gli cavò molta carne col dente, di fianco avventandosi, ma senza giungere all’osso dell’uomo. Odisseo lo colse e ferì alla spalla diritta, la punta dell’asta lucente lo passò parte a parte: nella polvere cadde, stridendo, gli volò via la vita7. Gli prestarono aiuto i cari figli di Autolico: legarono con abilità la ferita del nobile Odisseo pari a un dio, arrestarono il fosco sangue con un incantesimo8 e subito giunsero alla casa del padre. Autolico e i figli di Autolico, dopo averlo ben curato, offertigli splendidi doni, lietamente lo mandarono a Itaca, lieto, rapidamente. Il padre e la madre augusta gioirono che fosse tornato e gli chiesero in ogni punto perché subì la ferita: e ad essi egli spiegò che a caccia lo aveva aggredito un cinghiale col bianco dente, quando egli andò sul Parnaso coi figli di Autolico. Questa ferita la vecchia toccò con le palme e al tatto la riconobbe: abbandonò il piede. Piombò nel bacile la gamba, risuonò il bronzo, s’inchinò dalla parte opposta, l’acqua si versò a terra. Gioia e dolore a un tempo la colsero al cuore, le si empirono gli occhi di lacrime, le si arrestò la voce fiorente. Toccandogli il mento disse ad Odisseo: «Ma tu, figlio caro, sei Odisseo: ed io prima non t’ho ravvisato, prima d’aver tutto palpato il mio signore»9. Disse e guardò con gli occhi Penelope, volendo mostrarle che il caro sposo era in casa. Ma lei non poteva vederla in faccia e capire: le distolse Atena la mente10. Odisseo intanto le prese e afferrò con la destra la gola, con l’altra la trasse a sé e le disse: «Balia, perché mi vuoi perdere? Mi hai nutrito tu stessa al tuo seno! dopo tanti dolori sofferti, ora sono tornato, al ventesimo anno, nella terra dei padri. Ma poiché hai scoperto e un dio te l’ha posto nell’animo, taci! nessun altro in casa lo sappia. Omero, Odissea 

Perché così io ti dico e così di sicuro sarà: se un dio abbatterà per mia mano gli egregi corteggiatori, non rispetterò te, che pur sei la mia balia, qualora le altre ancelle uccidessi nella mia casa, le donne». Gli disse allora la saggia Euriclea: «Figlio mio, che parola ti sfuggì dal recinto dei denti11. Lo sai, come è salda e non cede la mia volontà: come una solida roccia starò, come il ferro. Ma ti dirò un’altra cosa e tu tienila a mente. Se un dio abbatterà per tua mano gli egregi corteggiatori, allora ti enumererò quali sono in casa le donne che non ti rispettano e quelle che sono innocenti». Rispondendo le disse l’astuto Odisseo: «Balia, perché vuoi dirmele tu? non è necessario. Da me noterò e saprò di ciascuna perfettamente. Mantieni il silenzio e fa’ agire gli dei». Disse così e la vecchia uscì dalla stanza, per portare l’acqua dei piedi: la prima s’era tutta versata. (da Odissea, vol. V, a cura di Joseph Russo, trad. di G. Aurelio Privitera, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 19913).

Note 1. connessi pensieri: traduce il greco pukiná phresí, «dalla mente compatta». 2. ecatombe: è il sacrificio di cento buoi. 3. lo scortava benevolo: è il segno della speciale protezione che Ermes riserva ad Autolico. Qualcosa della natura “ermetica” giunge dunque sino a Odisseo tramite il nonno paterno 4. Odisseo di nome: in tutta l’Odissea il gioco di parole tra il nome del protagonista e la voce verbale (participio) odyssámenos è frequente, mentre qui l’espressione viene usata in funzione etimologica; odyssomai contiene sia l’odio (latino odium) sia l’ira sia infine il dolore, sicché Odisseo è dalla nascita l’uomo che li suscita (all’attivo) o li patisce (al passivo). 5. Parnaso: è la montagna che domina il centro della Grecia, sopra Delfi: era consacrato al culto di Apollo e delle Muse, che qui avevano una delle loro due dimore. 6. Aurora dalle rosee dita: «dalle rosee dita», rododáktulos è l’aggettivo che sempre accompa- gna l’alba nei poemi omerici. 7. gli volò via la vita: l’allusione è alla credenza che il thymós, l’animo, abbandoni il corpo o sia esalato quando un guerriero o un animale muore. 8. con un incantesimo: «Uno dei rari riferimenti alla fede arcaica nel potere magico degli incantesimi cantati» (Russo, ed. cit., ad Odyss. XIX, 457-8). 9. prima d’aver tutto palpato il mio signore: entro la stessa frase l’emozionata Euriclea chiama Odisseo prima «figlio», poi «signore». 10. le distolse Atena la mente: Penelope, dunque, non può vedere né capire a causa di un diret- to intervento di Atena, la dea che protegge Odisseo. 11. recinto dei denti: Il «recinto dei denti» (érkos odónton) è l’espressione comune (in termini di poesia nordica, una kenning) in Omero per «bocca». PIERO BOITANI  P. Boitani

ERICH AUERBACH, La cicatrice d’Ulisse da E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, 2 voll.

I lettori dell’Odissea ricordano la scena ben preparata e commovente del canto XIX, in cui la vecchia dispensiera Euriclea riconosce Ulisse, di cui era stata nutrice, da una ferita alla coscia. Lo straniero ha conquistato la benevolenza di Penelope, che secondo il desiderio di lui comanda alla massaia di lavargli i piedi; in tutti i racconti antichi è questo il primo dovere dell’ospite verso lo stanco viandante. Euriclea, affaccendando- si a prender l’acqua e a mescolare la fredda con la calda, parla intanto dell’eroe scom- parso, che potrebbe avere la stessa età dell’ospite, e che adesso forse va anche lui per il mondo ramingo, e viene anche notando, stupita, quanto i due s’assomiglino. Nel frat- tempo Ulisse si ricorda della cicatrice, e si ritrae dove è più buio, per celare almeno a Penelope il riconoscimento ormai inevitabile, ma non ancor desiderato. Non appena Euriclea ha toccato la cicatrice, con lieto spavento lascia cadere il piede nel bacino, l’ac- qua trabocca, lei vuol gridare la sua gioia: Ulisse sottovoce, con lusinghe e minacce, la trattiene; essa si riprende. Penelope, la cui attenzione è stata distratta dalle arti d’Atena, non si è accorta di nulla. Tutto questo è raccontato con precisione e con lentezza. Le due donne manifesta- no i loro sentimenti con discorso minuzioso, fluido, diretto; quantunque i loro senti- menti siano mescolati a qualche considerazione generale sull’umano destino, il legame sintattico fra le parti è perfetto, e tutti i contorni sono nitidi. Tempo e spazio abbon- danti sono concessi anche a una descrizione ordinata delle suppellettili, all’assistenza all’ospite, ai gesti. Perfino nel momento drammatico del riconoscimento non si trascu- ra di render noto al lettore che è con la mano destra che Ulisse afferra la vecchia alla gola, per impedirle di parlare, mentre con l’altra la trae più vicino a sé. Uomini e cose stanno o si muovono chiaramente circoscritti, limpidamente e ugualmente illuminati entro uno spazio che si può tutto abbracciare, e non meno chiaramente ed esaurien- temente sono descritti i sentimenti e i pensieri, ordinati anche nella loro violenza. In questo mio riassunto ho taciuto finora tutta una serie di versi che rompono a mezzo il racconto. Sono più di settanta, mentre la vicenda è narrata nei circa cinquan- ta versi precedenti e nei quaranta susseguenti l’interruzione. Questa interruzione, che avviene proprio nel momento in cui la dispensiera riconosce la cicatrice, e cioè nel momento della crisi, descrive l’origine della cicatrice, una disgrazia capitata a Ulisse gio- vinetto cacciando il cinghiale durante un soggiorno presso il nonno Autolico. Ciò dà dapprima l’avvio a informare il lettore su Autolico, sul paese in cui abitava, sulla sua parentela con Ulisse, sul suo carattere e, in modo diffuso e tuttavia incantevole, sul suo comportamento dopo la nascita del nipote. Segue poi la visita del nipote divenuto gio- vinetto; il saluto, il banchetto con cui è accolto, il sonno, il risveglio, la partenza mat- tutina per la caccia, la traccia dell’animale, il combattimento, la ferita d’Ulisse per una zannata, la fasciatura della ferita, la guarigione, il ritorno a Itaca, le ansiose domande dei genitori; tutto viene minuziosamente descritto, senza nulla lasciare nell’ombra e con perfetti legami. E soltanto allora il narratore ritorna alla camera di Penelope, ed Euriclea, che già dianzi ha riconosciuto la cicatrice, soltanto a questo punto, dopo l’in- terruzione, lascia per lo spavento ricadere nel bacino il piede alzato. Omero, Odissea 

Il primo pensiero che si affaccia a un lettore moderno è che qui si sia mirato ad aumentare la tensione, cosa non del tutto falsa, ma non decisiva per spiegare il proce- dimento omerico. Infatti si può dire che nei poemi omerici raramente si avverte la ten- sione; in genere il loro stile non vuole far trattenere il fiato. Ma un tale intento dovreb- be soprattutto far sì che quanto mira a provocare la «tensione» nel lettore non produca invece la «distensione», come invece avviene molto spesso, e anche qui. L’ampia e gra- ziosa scena di caccia, con tutti i suoi piaceri e la ricchezza delle sue immagini idillia- che, mira a conquistar tutto per sé l’ascoltatore durante il tempo che la segue, a fargli per l’appunto dimenticare quello che accadeva prima, al momento della lavatura dei piedi. Intento proprio d’una digressione, che esalti la tensione ritardandola, è non riem- pire del tutto il momento presente, non fare dimenticare la crisi, di cui con ansia si aspetta lo scioglimento, distruggendo così anche lo stato di «tensione». Crisi e tensione debbono conservarsi, debbono rimaner presenti nello sfondo. Ma Omero […] non conosce sfondo. Quello che egli racconta è sempre e soltanto presente, e riempie com- pletamente la scena e l’anima dello spettatore. Così avviene anche qui. Quando Euriclea giovane […] dopo il banchetto, pone sulle ginocchia del nonno il neonato Ulisse, la vecchia, che pochi istanti prima ha toccato il piede del viandante, è comple- tamente sparita dalla scena e dall’animo dell’ascoltatore. […] L’excursus sull’origine della cicatrice non si distingue in fondo dai molti passi in cui un personaggio o un oggetto non prima veduti, foss’anche in mezzo all’infuriare della battaglia, viene descritto nella sua forma e origine, o da quelli in cui si dànno notizie d’un dio novellamente apparso, di dove s’è trattenuto nell’ultimo tempo, di che cosa v’ha fatto, e per quale via è arrivato; anzi mi sembra che perfino gli epiteti siano alla fine da riportare alla stessa necessità di dare a tutto ciò che compare una forma sensi- bile. Qui è la ferita ad apparire nel corso dell’azione, ed è una cosa intollerabile per il sentimento omerico vederla semplicemente emergere dal fondo oscuro del passato. Essa deve uscire, chiara alla luce, e con essa un tratto della giovinezza dell’eroe; non altrimenti che nell’Iliade, quando già brucia la prima nave e finalmente i Mirmidoni s’accingono a correre in aiuto, si trova ancor tempo non solo per una splendida simi- litudine con i lupi, non solo per l’ordinamento delle schiere dei Mirmidoni, ma anche per la descrizione esatta dell’origine di alcuni capi minori (Il., XVI, I55 sgg.). Senza dub- bio l’effetto estetico che con ciò si raggiunge deve esser stato notato assai presto, e più tardi anche voluto; ma tuttavia il motivo originale si dovrebbe cercare nella fonda- mentale tendenza dello stile omerico a presentare le cose in una forma finita ed esat- ta, palpabili e visibili in tutte le loro parti e nelle loro relazioni di spazio e di tempo. Le cose non vanno diversamente per gli aspetti intimi: anche di questi nulla può restare celato o inespresso. Gli uomini d’Omero manifestano il loro intimo senza nulla tralasciare, e anche l’espressione delle passioni ha un suo ordine: quello che non dico- no agli altri, lo dicono nel proprio cuore, sicché il lettore venga a conoscerlo. Nei poemi omerici accadono molte cose orribili, ma accadono raramente senza che le boc- che parlino: Polifemo parla con Ulisse, costui parla coi pretendenti quando comincia a ucciderli; Ettore e Achille parlano a lungo prima della battaglia e dopo, e nessun discor- so è così affannoso da mancare dell’articolazione logica e linguistica o da cadere nel disordinato. E ciò vale naturalmente non soltanto per i discorsi, ma in genere per ogni  P. Boitani cosa rappresentata. I singoli elementi della rappresentazione vengono ovunque messi in chiarissima relazione reciproca, e un gran numero di congiunzioni, d’avverbi, di par- ticelle e d’altri strumenti sintattici, tutti ben definiti nella loro importanza e finemente graduati, delimitano fra di loro le persone, le cose e gli avvenimenti, creando nello stes- so tempo un collegamento fluido e continuo. Come le cose singole, così assumono evi- denza in una forma perfetta anche le loro relazioni di tempo, di luogo, causali, finali, consecutive, comparative, concessive, antitetiche e limitative, sicché si ha un trascorre- re incessante, ritmico e vivace dei fenomeni e non si scorge mai una forma rimasta allo stato di frammento o illuminata a metà, mai una lacuna, una frattura, una profondità inesplorata. Divina Commedia di Dante Alighieri

Dante Alighieri è considerato il più grande poeta del Medioevo: ancora oggi è l’autore italiano più amato, letto e studiato in tutto il mondo. Nasce nel 1265 a Firenze, che in quel momento si stava sviluppando impetuosa- mente, fino a rappresentare una delle massime potenze economiche del tempo, alleata del Papato e della Francia. È il momento in cui il Medioevo feudale sta finendo e in cui sta nascendo, proprio nei Comuni italiani (e a Firenze in particolare), una nuova società, fondata sull’industria manifattu- riera, il commercio e la finanza. Dante, pur nato in una famiglia della pic- cola nobiltà, sceglie per sé un compito difficile e controcorrente: vivere e tentare di capire e interpretare quel mondo alla luce della cultura e della poesia, sacrificando a questo scopo ogni altro interesse. Quando viene condannato all’esilio, per la sua opposizione alla politi- ca del papa Bonifacio VIII e del partito fiorentino filo-papale, è costretto ad una vita dura ed errante nella quale trova però nuovi orizzonti di rifles- sione e di creatività, oltre i limiti degli orizzonti cittadini. Arriva così a orga- nizzare in una amplissima e articolatissima visione poetica, la Divina Commedia, l’intera storia personale sua e del mondo, dall’antichità più remota alla contemporaneità, rivisitati attraverso il viaggio che il protago- nista Dante (il primo personaggio che dice e racconta l’“Io” nella storia della letteratura europea) immagina di aver realmente compiuto nell’oltre- tomba cristiano, in virtù della grazia divina. L’incontro e lo scontro con le anime dei più famosi personaggi del passato e del presente, ormai sottrat- ti alle finzioni del mondo e colti nella loro verità ultraterrena, come imma- ginata dallo stesso Dante, danno così luogo ad una rappresentazione potentemente realistica dell’intera umanità, nelle sue miserie, tragedie e grandezze. Il carattere straordinario e abnorme del poema, non completamente iscrivibile in realtà in nessun genere letterario e in nessuna regola o cate- goria precedente e seguente, ha determinato il successo immediato dell’o- pera. Proprio queste caratteristiche straordinarie l’hanno allontanata dal- l’apprezzamento dei lettori dall’età umanistica fino all’Illuminismo. Non si  R. Antonelli poteva disconoscere la grandezza indubbia della Commedia, ma essa si presentava come troppo “medievale” ed estranea alle regole del classici- smo e della ragione per poter essere pienamente accolta. Soltanto alla fine del Settecento e nell’Ottocento proprio la potenza delle emozioni e dei sentimenti rappresentati e la loro vitalità e originalità, l’hanno riproposta all’ammirazione integrale dei lettori di tutto il mondo, fino ai giorni nostri, rendendola una delle opere “canoniche” della letteratura mondiale.

Divina Commedia La Commedia, definita con questo nome dallo stesso Dante (Inferno, XI, 128), racconta il viaggio nell’oltretomba di un personaggio che si pre- senta come individuo particolare e storico, con tutte le sue idee ed emo- zioni, e insieme come rappresentante dell’intera umanità in quanto pre- scelto da una speciale grazia divina. È un viaggio di conoscenza attraverso la storia di tutto il genere umano, dalle origini alla contemporaneità, poiché Dante nell’oltretomba incontra tutti i personaggi del passato e del proprio presente, offrendo la rappre- sentazione di tutte le possibili manifestazioni affettive ed emozionali, in un quadro reso drammatico da incontri, scontri, riconoscimenti, spesso impre- visti o improvvisi. Dante immagina di essersi smarrito nella selva del pec- cato nel 1300, anno del primo giubileo, promosso dal suo acerrimo nemi- co, papa Bonifacio VIII. È guidato verso la salvezza prima da Virgilio e poi da Beatrice, attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, dove incontra i grandi protagonisti della storia e della contemporaneità. A ciascuno è assegnato un posto nell’aldilà, una pena o un premio, in relazione a come si è comportato nella vita terrena. Sin dai primi due versi del poema Dante chiarisce che sta parlando di una vicenda personale (IO «mi ritrovai») ma in realtà rappresentativa di tutti NOI, di tutta l’umanità («Nel mezzo del cammin di nostra vita»). Dante dunque può vedere le verità di questo mondo attraverso il viag- gio nelle verità del mondo ultraterreno. Il suo è un viaggio interiore e peni- tenziale poiché la vista e l’esperienza delle pene e dei premi assegnati da Dio alle anime dei trapassati costituiscono altrettante tappe di una rifles- sione critica sui peccati propri e dell’umanità contemporanea e storica, fin da Adamo ed Eva. L’accostamento delle anime di personaggi rappresentativi del presente e del passato consente inoltre un’attualizzazione possente del racconto e dei drammi rappresentati, che penetra violentemente ed efficacemente nel- l’animo del lettore, portandolo alla commozione e all’autoriflessione. Contrariamente al pellegrinaggio giubilare indetto da Bonifacio VIII (e al Dante Alighieri, Divina Commedia  quale lo stesso Dante sembra aver partecipato), che assicurava ai fedeli pellegrini a Roma l’indulgenza plenaria dai peccati, il viaggio del perso- naggio “Dante” è dunque un vero giubileo, tutto interiore, spirituale. Bonifacio VIII, il papa responsabile del suo esilio, è sbattuto in anticipo all’Inferno, fra i simoniaci, in quanto ritenuto organizzatore della vendita di cose sacre (Inferno, XIX, 52-57). Dante si erge così a campione di una reli- giosità vissuta sinceramente, al di fuori della pompa e delle istituzioni cor- rotte. L’autore della Commedia si pone perciò non soltanto come un giu- dice ma anche come un profeta, un nuovo Mosè (a sua volta “figura” di Cristo nell’interpretazione cristiana), che intende portare in salvo il popolo cristiano oltre il Mar Rosso della crisi morale contemporanea, così come Cristo aveva salvato dal peccato originale, con la sua incar- nazione e morte, l’intera umanità. Alla fine del viaggio, in Paradiso (XXVII, vv. 63-66), sarà san Pietro a conferirgli il potere e il dovere di riferire e svelare il Vero e salvare l’umanità in pericolo: «e tu figliuol, che per lo mortal pondo [‘corpo’] / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder [‘nascondere’] quel ch’io non ascondo». Anche il lettore è chia- mato dunque a prender partito: si trova infatti di fronte alla rappresen- tazione e alla valutazione di tutte le virtù, i vizi, gli affetti e le emozioni degli esseri umani, passati e presenti che egli stesso è chiamato a giu- dicare.

L’incontro con Ulisse (Inferno, XXVI, 51-142) Nel XXVI canto Dante e la sua guida, il poeta latino, Virgilio, scendono nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, ove sono puniti i consi- glieri fraudolenti, fra i quali Diomede e Ulisse, colpevole di aver ideato l’in- ganno del cavallo che portò alla distruzione di Troia. Dante chiede a Virgilio di conoscere le circostanze della loro morte. Ulisse, «lo maggior corno della fiamma antica», risponde. È uno fra i passi più famosi dell’Inferno e della Commedia e ha dato origine a due diverse interpretazioni, sin dai primi commentatori; l’una ha sottolineato il peccato di superbia di Ulisse e quindi una sua colpa che spiegherebbe il fallimento del viaggio oltre le colonne d’Ercole, l’altra ha invece posto l’accento sul suo essere comunque un eroe «magnanimo», di animo grande, proteso ad accrescere la conoscenza delle cose e condan- nato al naufragio solo perché pagano e quindi privo della grazia. Entrambe le posizioni contengono un nucleo di verità. Ulisse appare in realtà come figura antinomica rispetto a Dante: viene condannato proprio per aver voluto sfidare i limiti imposti da Dio al suo ingegno, fondato solo  R. Antonelli sulla “naturale” sete di conoscenza, sul sapere di tipo filosofico (come Dante nel Convivio, l’opera precedente la Commedia). Dante riuscirà invece ad ascendere sulla montagna del Purgatorio, dinanzi alla quale naufraga Ulisse, proprio grazie ad un ingegno assistito dalla virtù e dalla grazia divina, superando nella Commedia anche le proprie precedenti posizioni. Dante raggiungerà la conoscenza suprema attraverso la visione di Dio nel Paradiso, dopo un duro viaggio penitenziale nell’Oltretomba, mentre Ulisse morirà nel suo tentativo. Come in altri casi della Commedia perciò, la figura di un personaggio rappresenta la storia dello stesso Dante, che incorpora nell’eroe greco il proprio percorso poetico-cultura- le: narra la storia e l’ambizione conoscitiva di Ulisse e la supera in una diversa prospettiva, mistica. L’incontro con Ulisse permette così un’inter- pretazione duplice, a seconda del punto di vista del lettore: quest’ultimo può privilegiare come il protagonista dell’Odissea la ricerca della cono- scenza su questa terra e come Dante personaggio-poeta la ricerca della salvezza per sé e per l’umanità. Per i lettori della Commedia Ulisse ha comunque e perciò rappresentato, e rappresenta, il simbolo del destino degli esseri umani, tesi irresistibilmente verso l’infinito («l’alto mare aper- to») e verso sempre nuove conoscenze, ma destinati a un esito spesso tra- gico e quindi “eroico”, proprio in quanto uomini. Attraverso Ulisse, ma in realtà in tutto il poema, Dante si interroga e giudica se stesso e l’umanità, invitando anche il lettore a interrogarsi e a giudicare se stesso e il senso della propria esistenza.

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti: 51 chi è ’n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov’Eteòcle col fratel fu miso?». 54 Rispuose a me: «Là dentro si martira Ulisse e Dïomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l’ira; 57 e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme. 60 Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta». 63 «S’ei posson dentro da quelle faville parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 66 Dante Alighieri, Divina Commedia 

che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!». 69 Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto, ma fa che la tua lingua si sostegna. 72 Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto». 75 Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: 78 «O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco 81 quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi». 84 Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica; 87 indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: «Quando 90 mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse, 93 né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, 96 vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore, 99 ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. 102 L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna. 105 Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi 108 acciò che l’uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111  R. Antonelli

«O frati,» dissi, «che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia 114 d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. 117 Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza». 120 Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti, 123 e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. 126 Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo. 129 Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, 132 quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna. 135 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. 138 Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141 infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».

Parafrasi «Maestro mio – risposi – per averti ascoltato sono più sicuro, ma già mi sembrava che fosse così e già volevo dirti: chi c’è in quella fiamma così divisa nella parte di sopra, che sembra sorgere dal rogo di Eteocle e Polinice?» Egli mi rispose: «Lì dentro sono puniti Ulisse e Diomede, che sono uniti nella puni- zione di Dio così come andarono insieme incontro alla sua ira; e nel loro fuoco si piange l’inganno del cavallo di Troia, da cui ebbe origine la nobile stirpe dei Romani. Vi si espia anche l’inganno a causa del quale, da morta, Deidamia ancora piange Achille e vi si sconta anche la pena per il furto della statua di Pallade.» «Se possono parlare dentro quella fiamma – dissi io – ti prego e ti riprego molto, e la mia preghiera ne valga mille, maestro, che tu non mi neghi di aspettare finché Dante Alighieri, Divina Commedia  la fiamma doppia (cornuta) venga qua: vedi che per il desiderio mi protendo verso di lei!». Ed egli a me: «La tua preghiera è degna di grande lode e perciò l’esaudisco, ma trattieni la lingua. Lascia parlare me, perché ho capito ciò che desideri: forse essi disdegnerebbero di parlare con te poiché furono greci.» Dopo che la fiamma fu arrivata dove al mio maestro parve opportuno, lo udii par- lare in questo modo: «O voi che siete racchiusi in due in una sola fiamma, se io acqui- sii meriti presso di voi mentre ero vivo, se io qualche merito ebbi presso di voi quan- do scrissi il mio poema, non muovetevi, ma uno di voi mi dica dove se ne andò a morire, perduto.» La cima più alta della fiamma antica cominciò a ondeggiare mormorando, proprio come il fuoco agitato dal vento, quindi scrollando la punta più alta qua e là, gettò fuori la voce come fosse una lingua che parlasse, e disse: «Quando mi separai da Circe, che mi sottrasse a me più di un anno vicino a Gaeta, prima che Enea le desse questo nome, né il dolce affetto del figlio né il rispetto pietoso per il vecchio padre, né il dovuto amore coniugale che doveva rendere felice Penelope, poterono vincere dentro di me il desiderio ardente di conoscere il mondo e i vizi e le virtù degli uomi- ni, ma mi misi per il profondo e sconfinato mare, solo con una nave e con quella piccola compagnia dalla quale non fui abbandonato. Vidi l’una e l’altra sponda, vidi infine la Spagna e il Marocco e la Sardegna e le altre isole che quel mare bagna. Io e i compagni eravamo vecchi e lenti quando arrivammo a quello stretto dove Ercole mise i suoi segni, affinché l’uomo non li oltrepassi; sulla sponda di destra mi lasciai Siviglia, sulla sinistra avevo già oltrepassato Ceuta. «O fratelli, dissi, che attraverso centomila pericoli siete giunti all’Occidente, in questo periodo di vita così breve rispetto al resto, non vogliate negare l’esperienza di esplorare il mondo disabitato, seguendo il corso del sole. Pensate alla vostra ori- gine: non foste creati a vivere come animali non razionali, ma per perseguire valo- re e sapere». Con questo piccolo discorso io feci i miei compagni così desiderosi di andare avanti che dopo avrei potuto trattenerli a fatica, e rivolta la poppa della nostra nave ad oriente, rendemmo i remi come ali per il nostro folle volo, continuando ad inol- trarci sul nostro fianco sinistro. La notte mostrava ormai tutte le stelle del polo antartico e quelle del nostro polo tanto basse che non si alzavano oltre l’orizzonte del mare. Per cinque volte si era riaccesa e altrettante spenta la luce sotto la faccia inferio- re della luna, da quando eravamo entrati nel profondo cammino, quando ci appar- ve una montagna, scura per la distanza, e mi sembrò tanto alta quanta mai ne avevo veduta alcuna. Noi ci rallegrammo, ma subito la gioia si volse in pianto, poiché dalla terra appe- na vista si levò un vento turbinoso e percosse la parte anteriore della nave. Tre volte la fece girare insieme alle acque intorno; alla quarta la poppa si alzò in alto e la prua andò in basso, come volle altri, finché il mare si richiuse sopra noi.  R. Antonelli Note 54. dov’ Eteocle fu col fratel miso…: i due fratelli s’uccisero a vicenda ma il fuoco nato dal rogo dei loro corpi si divise in due. 62-63. Piangevisi … porta: Diomede e Ulisse smascherarono con un inganno Achille, travesti- to da fanciulla per non partire per la guerra di Troia: Deidamia, figlia del re presso cui Achille si nascondeva e innamorata di lui, piange ancora la sua perdita. Ulisse e Diomede rubarono la sta- tua della dea Atena (Pallade), protettrice di Troia (secondo la leggenda la città non sarebbe cadu- ta finché la statua fosse rimasta al suo interno). 75. e’ fuor greci: i greci avevano fama di essere ingannatori (proprio a causa del cavallo di Troia) e superbi. 90. Circe: la maga che stregò i compagni di Ulisse riducendoli a maiali e sedusse lo stesso Ulisse. 94. né dolcezza di figlio… né la pietà del vecchio patre, ne’l debito amore…: Dante allude al diverso e pietoso comportamento di Enea (che salva padre e figlio dalla distruzione di Troia) rispetto ad Ulisse. Il poeta si propone infatti, nel suo viaggio nell’Oltretomba, sin dall’inizio della Commedia come “nuovo” Enea. In quanto fondatore dell’Impero romano in cui nacque Cristo, Enea era ritenuto investito di una missione divina, come Dante, e al contrario di Ulisse. 108. dov’Ercule … riguardi: lo stretto di Gibilterra e le cosiddette colonne d’Ercole. 141. altri: Dio, non nominato dal pagano Ulisse. ROBERTO ANTONELLI Dante Alighieri, Divina Commedia 

ERNST ROBERT CURTIUS, Dante da E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992

Che cosa ha reso possibile la Commedia? Il lettore comune attento solo al piacere estetico non si pone questo problema; ma lo storico della letteratura deve necessaria- mente affrontarlo. [… ] Durante le nostre indagini sulle forme e tradizioni tipiche del Medio Evo latino, abbiamo dovuto citare esempi danteschi ad ogni piè sospinto. Bisogna dunque concludere: accanto alla lirica provenzale ed italiana, è il Medio Evo latino l’elemento-base da analizzare per lo studio della genesi della Commedia. Fu caratteristica comune a tutta la Romània, l’arricchimento delle lingue e letterature romanze con la cultura latina; ma le forme di questo processo si differenziarono in Francia, in Italia, in Spagna. In Italia, tale sviluppo era favorito dalla maggiore somiglianza fonetica e lessicale del volgare al latino. Si considerino i due primi versi della Commedia: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / Mi ritrovai per una selva oscura». «Nostra vita» è sia italiano, sia latino; «una selva oscura» differisce appena dal latino una silva obscura. Le corrispon- denti espressioni spagnole – nuestra vida e bosque oscuro –, nonché le antico-francesi – nostre vie e forest oscure –, differiscono assai di più, foneticamente e lessicalmente. Nel contempo, però, le analogie fra volgare e latino provocano talvolta particolari dif- ficoltà al poeta italiano: questi può sentirsi chiamato a commisurare, ad assimilare, la lingua volgare alla latina, soprattutto quando vi sono implicate le rime. Tra il volgare ed il latino può allora insorgere una certa tensione, che sarà tanto maggiormente per- cepita quanto più il poeta sarà impregnato di cultura latina ed incline a sperimenta- zioni. Dante assorbe dai Provenzali, in particolare da Arnaut Daniel, l’ideale stilistico della tecnica difficile. Le riflessioni tecniche nascono in lui parallelamente al processo crea- tivo; vorrebbe trovare, per l’Inferno (XXXII 1), «rime aspre e chiocce», nel Paradiso (XXX 36) lotta con «l’ardua sua matera» e (Par. XXX 33) aspira alla perfezione stilistica, «come a l’ultimo suo ciascuno artista». Egli è un tecnico ed un artista dell’elocuzione e – per questo fatto stesso – deve sempre confrontarsi con le teorie letterarie antiche e medievali. Fra tutti gli autori delle letterature romanze, nessuno – neppure Gongora – ha sentito così profondamente come Dante la problematica del rapporto, talora con- flittuale, tra lingua volgare e lingua latina. Questa specie di tensione è rintracciabile in tutte le sue opere e si manifesta non solo con 1’alternare scritti latini e scritti italiani, ma anche col trasferire locuzioni e forme latine in lingua italiana; così si giustificano certi manierismi tecnici, ad es. l’uso della perifrasi e dell’annominatio, e si spiegano anche alcune peculiarità nella topica e nella tematica della Commedia. […] La dovizia di personaggi presenti nella Commedia si spiega grazie alla più incisiva e più feconda innovazione che il genio di Dante abbia introdotto nel patrimonio arti- stico-letterario ereditato dall’Antichità e dal Medio Evo: il riferimento vivo al mondo contemporaneo. Dante chiama in causa papi e imperatori del suo tempo, re e prelati, politici, tiranni e condottieri, uomini e donne della nobiltà e della borghesia, delle cor- porazioni di arti e mestieri e della scuola. L’ignavo Belacqua, liutaio semisconosciuto,  R. Antonelli trova posto nell’aldilà, esattamente come ladri, assassini, santi, artisti e poeti, filosofi ed eremiti, gente di ogni professione e di ogni gradino sociale. La Divina Commedia è in pari tempo una Comédie Humaine, in cui nulla di umano appare troppo elevato o trop- po misero. Il poema si muove integralmente all’interno della trascendenza; questa però è costantemente pervasa dall’alito della storia, dalle passioni del presente. L’atemporalità e la temporalità non solo si giustappongono e si contrappongono vicen- devolmente, ma anzi s’intessono e s’intrecciano a tal punto che i fili non sono più sepa- rabili. Il violento irrompere della storia vissuta nell’insieme degli elementi epici, mito- logici, filosofici e retorici che formavano la cultura del Medio Evo latino rese possibile la congiuntura da cui nacque la Commedia. È la risposta dello spirito di Dante al desti- no di Dante: l’esilio. Per l’Alighieri, l’esilio non fu altro che la conferma sul piano per- sonale del generale sconvolgimento del mondo: Imperium e Sacerdotium erano usciti dalla retta via; la Chiesa degenerata; l’Italia disonorata (Pg. VI, 76 sgg.): «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / Nave sanza nocchiere in gran tempesta, / Non donna di provincie, ma bordello». Il mondo era dissestato; a Dante toccava l’immane compito di rimetterlo in carreggiata. Nella Monarchia egli si era proposto di determinare i giusti rapporti fra Impero e Papato. Nella Commedia egli smembra l’intero universo storico, per poterlo quindi ricomporre nel cosmo astrale dell’universo e nel cosmo metafisico della tra- scendenza; i valori dell’uno e dell’altro sono in stretta e reciproca corrispondenza. Canzoniere di Francesco Petrarca

Petrarca è probabilmente il poeta lirico più letto e imitato al mondo. Ha portato a perfezione e sintetizzato in un unico libro, il Canzoniere, tutta l’elaborazione poetica sull’amore a lui precedente, classica e volgare (par- ticolarmente: provenzale e italiana). In particolare, ha offerto un modello di analisi psicologica del soggetto alle prese con le diverse emozioni e riflessioni della relazione amorosa, valendosi di una lingua poetica esem- plarmente limpida ed armonica. La perfezione formale e retorica con cui è costruito il Canzoniere è una delle ragioni basilari della sua enorme fortuna ma anche, talvolta, dell’ac- cusa rivolta a Petrarca di essere un poeta ormai lontano dalla sensibilità moderna. A partire dall’Ottocento si è pensato infatti che a tanta cura per la costruzione del discorso non corrispondessero altrettanta “sincerità” e “passione” e che Petrarca fosse un autore “freddo” e “insincero”. Tra Ottocento e Novecento si è perciò tentato con successo di abbandonare il sistema di forme e di sentimenti codificato da Petrarca e dai cosiddetti “petrarchisti”, cercando nuove strade. La lirica del Canzoniere era stata infatti oggetto di troppe e continue imitazioni per secoli, fino a divenire un codice ripetitivo e lezioso. La poesia italiana post-petrarchesca era rimasta bloccata e incapace di rinnovarsi, perfino di fronte all’esplosione di rivo- luzioni storico-sociali e di movimenti culturali del tutto nuovi. Malgrado ciò Petrarca è, con Dante e Boccaccio, uno dei tre capisaldi del primo cano- ne “classico” della letteratura italiana ed europea. Oggi è anche e soprattutto un autore di cui si sta sempre più com- prendendo la serietà delle passioni, dei sentimenti e delle contraddizioni e soprattutto la sua funzione capitale nella scoperta dell’interiorità dell’Io e delle sue contraddizioni: il primo autore autenticamente “moderno” della letteratura europea. Tutti questi elementi lo avvicinano alla sensibilità e alle problematiche anche della contemporaneità. Bisogna però capire che le emozioni di Petrarca sono espresse in un discorso non solo complesso e denso ma lucidissimo e controllatissimo. Nel Canzoniere l’analisi delle contraddizioni e delle angosce del Soggetto è affidata a un sistema di  R. Antonelli forme, riprese verbali e allusioni talmente perfetto da ricoprire la presen- za e l’irruenza dei sentimenti sotto lo splendore e il rigore della scrittura: una dimensione “classica”, sottratta all’immediata quotidianità. Petrarca voleva cioè creare una poesia capace sia di resistere al tempo sia di rap- presentare il caos di problemi e passioni che agitavano l’uomo cristiano tra Medioevo e Rinascimento.

Canzoniere Il titolo originario del Canzoniere, così come fissato da Petrarca nel- l’autografo, è Rerum vulgarium fragmenta («Frammenti di cose volgari»). I frammenti a cui si riferisce il titolo sono i componimenti della raccolta ma sono al tempo stesso, come risulta da altri luoghi, i frammenti in cui Petrarca riconosce «sparsa» la propria anima alle prese, giorno per giorno, con le proprie passioni e ambizioni e soprattutto con le contraddizioni determinate dal conflitto fra desiderio delle cose terrene, a cominciare dal- l’amore per Laura, e ricerca della perfezione spirituale. Quando Petrarca decide di raccogliere le proprie liriche in un canzoniere unitario, in un libro, compie dunque un atto non puramente “tecnico”: intende con quel gesto riunire anche gli sparsi frammenti della sua anima divisa e angosciata (sparsa animae fragmenta recolligam, ‘riunirò gli sparsi frammenti dell’a- nima’). Con il libro-canzoniere Petrarca tenta di restituire unità alla sua anima in crisi, attraverso la forma che identifica con la sua vita stessa: la scrittu- ra. Il momento in cui matura la decisione di raccogliere i frammenti vol- gari in un libro unitario è significativo: intorno ai quarant’anni, e richiama non per nulla la dichiarazione di apertura della Commedia dantesca («Nel mezzo del cammin di nostra vita», cioè a trentacinque anni). Fra i trenta- cinque e i quarant’anni la cultura medievale collocava infatti per l’uomo il passaggio dalla giovinezza alla maturità: conseguentemente, per i poeti era previsto un passaggio di fase, o l’abbandono totale della poesia (conside- rata tipica dell’età giovanile) o almeno il passaggio dalla poesia d’amore alla poesia morale. Nell’epistola Alla posterità Petrarca collega esplicita- mente i suoi quarant’anni, la fine del suo fortissimo e peraltro “puro” amore giovanile (con la morte di Laura) e il ripudio definitivo di ogni atto di amore carnale, di “libidine” («presso ai quarant’anni, quando ancora avevo parecchia sensibilità e parecchie energie, […] ripudiai non soltanto quell’atto osceno, ma il suo totale ricordo, come se mai avessi visto una donna») La morte della donna amata (una morte definita nell’epistola Alla poste- rità addirittura «crudele ma provvidenziale») assume un’importanza centra- Francesco Petrarca, Canzoniere  le: divide la vita e il Canzoniere di Petrarca in due parti, un prima e un dopo. L’elemento unificante non è però il fatto amoroso in sé o la figura di Laura, ma il personaggio che sin dal primo sonetto dice «Io» e che è distinto dall’autore perché agisce su un piano letterario, autonomo rispet- to a quello biografico. Il Canzoniere è dunque la storia dell’Io-Petrarca, della sua contraddittoria vicenda interiore (cfr. Pace non trovo, et non ò da far guerra, Canzoniere, CXXXIV), delle sue paure, gioie e incertezze e soprattutto dei suoi dubbi: un modernissimo «Io» angosciato e «diviso» tra due possibili strade che lo stesso Petrarca non esita a riconoscere come «un doppio uomo che è in lui». Soggetto dell’opera è dunque l’Io alla ricerca, nella scrittura, della propria unità spirituale perduta.

XXXV Solo et pensoso i più deserti campi È uno dei più celebri sonetti del Canzoniere per intensità emotiva ed equilibrio for- male: al centro è posto, per la prima volta in sede lirica, il tema della solitudine. Petrar- ca pone per di più in correlazione bisogno di solitudine, dialogo con la natura e tor- mento amoroso. La natura partecipa dello stato d’animo dell’Io; anzi, la natura diviene pura funzione dell’Io, viene addirittura «misurata» (cfr. v. 2). Fra solitudine e natura si crea così una relazione necessaria quale condizione della poesia, che diviene compiu- tamente lirica nel senso moderno del genere: l’Io riduce infatti a se stesso, ai propri mo- vimenti interiori, ogni altro elemento, natura compresa. L’attenzione a non rivelare agli altri i propri sentimenti era invece uno dei motivi topici della fenomenologia amorosa, da Ovidio fino ai trovatori: il sonetto, grazie all’inserimento dell’elemento naturale, rie- labora completamente il tema rendendolo funzionale al turbamento e alla tensione in- teriore dell’amante, vanamente proteso alla ricerca di un equilibrio interiore. metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, CDE. La rima A è in assonanza tonica con C, la rima B con D, gioco fonico anche fra -mp- di A e -mp(r)- di D; rima deriva- tiva «campi»: «scampi» (vv. 1 e 5).

Solo et pensoso1 i più deserti campi2 vo mesurando a passi tardi et lenti3, et gli occhi porto per fuggire intenti4 ove vestigio human l’arena stampi5. Altro schermo6 non trovo che mi scampi7 dal manifesto accorger8 de le genti, perché negli atti d’alegrezza spenti9 di fuor si legge10 com’io dentro avampi: sì ch’io11 mi credo omai che monti et piagge12 et fiumi et selve sappian di che tempre13 sia la mia vita, ch’è celata altrui14. Ma pur sì aspre vie né sì selvagge15  R. Antonelli

cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando16 con meco, et io co˙llui17.

Note 1. solo et pensoso: ‘solitario e pensieroso’. 2. più deserti campi: ‘luoghi più solitari’. 3. vo … lenti: ‘percorro misurando lentamente’. 4. gli occhi … intenti: ‘ho gli occhi intenti a schivare’. 5. ove … stampi: ‘i luoghi in cui l’impronta dell’uomo («vestigio human») segni il terreno («arena»)’. L’isolamento e il rapporto esclusivo con la natura sono espressi con le parole del passo omerico (Iliade, VI, 201-202) relativo a Bellerofonte, l’eroe che per sfuggire agli dèi vaga solitario attraverso terre desolate. 6. schermo: ‘riparo’, ‘difesa’. 7. mi scampi: ‘mi salvi’, in paronomasia rispetto al rimante precedente «stampi» (v. 4). 8. dal manifesto accorger: ‘dal chiaro riconoscimento’ dei suoi sentimenti da parte degli estra- nei, che il poeta evita cercando rifugio nella solitudine e nella natura. 9. atti … spenti: ‘gesti e atteggiamenti privi di allegria’, con «spenti» in iperbato e in antitesi con il rimante seguente, «avampi». 10. di fuor si legge: ‘esteriormente appare’; «legge» è vicinissimo foneticamente alla rima C («piagge» : «selvagge»), e costituisce un legame tra le due quartine e le due terzine; «dentro»: in antitesi con «di fuor», così come «avampi» con «spenti». 11. sì ch’io: è in diretta consecuzione con i vv. 5-6, la ricerca di solitudine è così frequente che ormai crede che…; «omai»: ‘ormai’. 12. piagge: ‘lande’, ‘pianure’, in coppia con «monti», in legame enumerativo con «fiumi et selve» al verso seguente. 13. sappia … tempre: ‘conoscano di quale genere’. 14. ch’è celata altrui: ‘che è nascosta agli altri’, in epifrasi, ovvero in aggiunta al pensiero della frase precedente, apparentemente finita (come al v. 14, in clausola); qui aggiunge una notazione fondamentale: solo la natura sa che tipo di vita (disgraziata) conduca l’«Io»; «altrui»: ‘agli altri’, cioè al «manifesto accorger de le genti» del v. 6. 15. Ma pur … selvagge: ‘Ma tuttavia non so cercare cammini così duri e selvaggi’. 16. venga … ragionando: ‘parli’; il «ragionamento» con Amore, svolto in modalità dialogica, si contrappone al pensare in solitudine cui il poeta accenna nel verso iniziale («Solo et pensoso i più deserti campi»). 17. et io co˙llui: epifrasi, ancora una volta decisiva, poiché con apparente levità s’introduce il riconoscimento di un continuo dialogo fra «Io» e Amore.

XC Erano i capei d’oro a l’aura sparsi È un altro dei grandi sonetti del Canzoniere: Laura viene descritta in alcuni conno- tati fisici essenziali, rivissuti nell’impressione che hanno fatto sull’amante al momento dell’innamoramento e poi proiettati sul presente, per affermare la costanza di un amore concepito come eterno. La donna diviene natura (del resto il nome Laura rimanda anche a un albero, il lauro) e fra natura e donna si crea una relazione integralmente scambievole. E poiché la donna è vissuta e descritta come proiezione dei sentimenti dell’Io, anche la natura diviene proiezione dell’Io e dei suoi sentimenti. Nella lirica petrarchesca l’Io occupa in ogni circostanza il centro emotivo della narrazione, anche quando apparentemente si descrive altro. Francesco Petrarca, Canzoniere  metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, DCE. La rima B è sempre desinenzia- le (-ea, terza pers. dell’imperfetto); è ricca la rima «mortale»: «tale» (vv. 9 e 13) e gram- maticale «ardea» con «arsi» (vv. 3 e 8). Assonanza tonica tra le rime A, C ed E, assonan- za atona e consonanza fra C e D.

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi1 che2’n mille dolci nodi3 gli4 avolgea, e ’l vago lume oltra misura ardea5 di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi6; e ’l viso di pietosi color’ farsi7, non so se vero o falso8, mi parea: i’ che l’ésca amorosa9 al petto avea, qual meraviglia se di sùbito10 arsi? Non era l’andar11 suo cosa mortale12, ma d’angelica forma13; et le parole sonavan altro, che pur voce humana14. Uno spirto celeste, un vivo sole15 fu quel ch’i’ vidi: et se non fosse or tale16, piagha per allentar d’arco non sana17.

Note 1. i capei … sparsi: ‘i biondi capelli sciolti al vento’. Nel manoscritto «l’aura» è sempre scritto «laura» ed è quindi sempre interpretabile, come in questo caso, Laura o l’aura, o altro, mentre la scrittura analitica moderna impedisce il gioco previsto dall’autore. Lo splendore dei capelli è immagine ricorrente in Petrarca: associata al vento è già in Virgilio per Venere e in Ovidio per Diana, ma all’invenzione petrarchesca non sono estranei neppure il trovatore Arnaut Daniel e Dante. 2. che: l’aura. 3. dolci nodi: quelli delle «trecce bionde», ma con possibile allusione metaforica ai nodi d’amore. 4. gli: ‘li’, i capelli. 5. e … ardea: ‘e la vivace luminosità di quei begli occhi risplendeva fortemente’; «vago lume» è da collegare per enjambement a «di quei begli occhi» (v. 4). 6. ch’or … scarsi: ‘che (cioè «gli occhi») ora ne (del «vago lume») sono così poveri’. 7. di … farsi: ‘e mi sembrava («mi parea», v. 6) che il viso si tingesse di colorito pietoso, amo- roso’. 8. se vero o falso: ‘se sinceramente o no’. 9. ésca amorosa: l’«esca» è l’elemento d’avvio della combustione; la metafora dell’«ardere per amore», indica dunque la naturale predisposizione al sentimento amoroso da parte del poeta. 10. di sùbito: ‘immediatamente’. 11. l’andar: ‘il modo di manifestarsi’. 12. cosa mortale: ‘(proprio di) creatura mortale’, come già in Dante: nelle terzine il poeta svi- luppa il motivo della trasfigurazione della donna amata, nel consueto parallelo fra “terrestre” e “celeste”, attraverso le coppie antitetiche «cosa mortale» e «voce umana» (v. 11) rispetto a «angelica forma» (v. 10) e «spirito celeste» (v. 12). 13. angelica forma: ‘sembianza angelica’. 14. sonavan … humana: ‘parevano all’ascolto differenti dalla semplice («che pur», ‘che soltan- to’) voce umana’.  R. Antonelli

15. un vivo sole: la metafora sottolinea e riassume lo splendore della visione, già anticipato dai capelli («d’oro», v. 1), gli occhi («vago lume», v. 3) e il viso («pietosi color», v. 5). 16. se … tale: ‘se anche non fosse più così, con tale intensità’, sembra alludere alla possibilità di regressione legata al trascorrere degli anni, come già al v. 4 («c’or ne sono sì scarsi»); «fu… fosse»: poliptoto, a sottolineare l’opposizione passato/presente («or»). 17. piagha … sana: ‘la ferita (d’amore) non guarisce perché l’arco (d’Amore) si allenta, si scari- ca’. Il verso intero è posto in chiusura a modo di sentenza con valore proverbiale.

CCXXVI Passer mai solitario in alcun tetto La solitudine del passero e della fiera nel bosco richiamano al poeta la propria soli- tudine dovuta alla lontananza dell’amata. Alla terzina finale, come spesso nel Canzoniere, è affidata la rivelazione della chiave emotiva dei versi precedenti: c’è un paese che è «solo» al mondo, ma stavolta nel senso di ‘unico’, quello che ospita Laura. Il paese di Laura è caratterizzato da paesaggi ridenti, tipici della primavera, in contrap- posizione alla tristezza dell’Io: è quindi descritto non con antitesi ma con iterazioni sinonimiche («almo»/«felice», «verdi»/«fiorite»), cui si oppone (come in Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena, CCCX) la condizione dell’Io (v. 14), che riafferma le ragioni del con- flitto interiore. Al rovesciamento della situazione dell’Io (infelice perché «solo» vs il «paese», felice perché con Laura) corrisponde il rovesciamento strutturale nella distribu- zione dei temi: l’«esordio» primaverile è alla fine, perché non riguarda l’Io ma la natu- ra, umanizzata nella felicità (vv. 12-13) quanto prima (vv. 1-2) era stata proiezione dell’infelicità. L’immagine del passero associata alla condizione dell’Io colpirà a distanza di secoli un grandissimo lirico della modernità, Giacomo Leopardi, che dalla stessa immagine elaborerà un suo famoso canto, Il passero solitario. metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, CDE. La rima A è in assonanza atona con B, così come lo sono tra loro C, D ed E.

Passer mai solitario in alcun tetto1 non fu quant’io, né fera in alcun bosco2, ch’i’ non veggio ’l bel viso, et non conosco altro sol, né quest’occhi ànn’altro obiecto3. Lagrimar sempre è ’l mio sommo diletto4, il rider doglia5, il cibo assentio et tòsco6, la notte affanno, e ’l ciel seren m’è fosco7, et duro campo di battaglia il letto8. Il sonno è veramente qual uom dice9, parente de la morte, e ’l cor sottragge a quel dolce penser che’n vita il tene10. Solo11 al mondo paese12 almo13, felice, verdi rive fiorite, ombrose piagge14, voi possedete, et15 io piango, il mio bene. Francesco Petrarca, Canzoniere  Note 1. passer … tetto: l’incipit ricalca il Salmo 108, 8 («et factus sum sicut passer solitarius in tecto» ad esprimere con immagine viva e autorevole la piena solitudine in cui versa il poeta. 2. né … bosco: ‘né animale selvaggio in alcun bosco’, sottintende il precedente ‘fu solo quanto me’, come ulteriore similitudine della condizione personale. 3. ch’i’ … obiecto: ‘poiché io non vedo il bel «viso» (= Laura), e non riconosco altro «sole» (= Laura), né i miei «occhi» hanno obiettivo differente (sottinteso: da Laura)’, con i tre termini è indi- cata la causa della malinconica solitudine del poeta: la forzata separazione dalla donna amata. 4. lagrimar … diletto: ‘pianto continuo è la mia massima gioia’, nella seconda quartina si svi- luppano le contraddizioni proprie delle pene d’amore attraverso una sequenza di opposti. 5. il rider doglia: ‘il riso dolore’. 6. assentio et tòsco: ‘amaro (come l’assenzio) e tossico’. 7. fosco: ‘scuro’, ‘nuvoloso’. 8. duro … letto: ‘il letto è duro come un campo di battaglia, dal momento che la notte è insonne e piena di dolore’ («la notte affanno», v. 7). 9. qual … dice: ‘come si dice’, impersonale. 10. e ’l cor … tene: ‘e (il sonno) sottrae il cuore a quel dolce affanno che lo tiene in vita’; il sonno, come l’oblio, è capace di cancellare il pensiero d’amore e di conseguenza le gioie e i dolori a esso connessi. 11. solo: ‘unico’. 12. paese: Valchiusa, in Provenza. 13. almo: ‘che dà vita’, ‘sacro’. 14. piagge: ‘pianure’. 15. et: in senso avversativo ‘mentre’, ‘al contrario’.

CCLXXII La vita fugge, et non s’arresta una hora Nella storia narrata nel Canzoniere, Laura è morta da poco. Il trascorrere del tempo incombe ormai come un problema fondamentale per l’Io. Ricordare e aspettare, ovve- ro passato e futuro, sono ugualmente opprimenti, e il presente è ormai statico nella tri- stezza. L’Io è stanco, impotente: l’idea della morte percorre tutto il componimento. La fugacità della vita e l’incombere della morte, fra i temi centrali del Canzoniere, diven- tano qui il nucleo fondamentale del componimento poiché coinvolgono e riassumono le contraddittorie dinamiche dell’Io (vv. 5-8). La conflittualità, sottolineata con l’op- posizione spaziale («or quinci or quindi», v. 6), è talmente forte da indurre il poeta al desiderio di darsi quella morte temuta, eppure auspicata, che lo sottrarrebbe al tumul- to del mondo e delle passioni. Solo il pensiero di ciò che avverrebbe dopo lo trattiene in vita (v. 8). Di fronte all’impossibilità di vivere e di morire rimane soltanto il passato e il pensie- ro di non essere mai stato felice (vv. 9-10), che si ripercuote ancora sul pensiero di un futuro nel quale vede soltanto l’ormai inesauribile stanchezza. metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, CDE. Rime ricche «anchora»: «accora» (vv. 4 e 5), che includono «hora» (v. 1), «pietate»: «veritate» (vv. 6-7); derivativa «mai»: «omai» (vv. 9 e 12). Assonanza tra B e D, solo tonica fra B, C, D; consonanza imper- fetta tra B, D, E.  R. Antonelli

La vita fugge, et non s’arresta una hora, et la morte vien dietro a gran giornate1, et le cose presenti et le passate mi dànno guerra2, et le future anchora3; e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora4, or quinci or quindi5, sí che ’n veritate, se non ch’i’ ò di me stesso pietate6, i’ sarei già di questi penser’ fòra7. Tornami avanti, s’alcun dolce mai ebbe ’l cor tristo8; et poi da l’altra parte9 veggio al mio navigar turbati i vènti10; veggio fortuna in porto11, et stanco omai il mio nocchier12, et rotte arbore et sarte13, e i lumi bei che mirar soglio, spenti14.

Note 1. a gran giornate: ‘a tappe forzate, velocemente’; «giornata» indicava il percorso che si poteva fare in un giorno di viaggio. 2. mi dànno guerra: ‘mi sono avverse’. 3. le future anchora: ‘e anche le future’. 4. e ’l rimembrare … m’accora: ‘e da un lato («or quinci») mi stringe il cuore il ricordare e dal- l’altro («or quindi») l’attendere’. 5. or quinci or quindi: in forma avverbiale (‘qui e là’), ribadisce su un piano spaziale le due dimensioni in cui si trova il poeta («’l rimembrare et l’aspettare»). 6. se … pietate: ‘se non avessi compassione di me stesso’, evitando cioè le pene infernali pre- viste per i suicidi. 7. fòra: ‘fuori’, ‘lontano’, tramite la morte. 8. tornami … tristo: ‘se mai il mio cuore afflitto ebbe eventualmente qualche piacere, esso mi torna in mente’. 9. et … parte: in chiave avversativa («et»: ‘ma’) si ripropone l’alternanza fra i due differenti momenti («or quinci or quindi») di ricordo e attesa. 10. veggio … vènti: ‘vedo che i venti che sostengono il mio navigare si guastano’; è concentrata la nota metafora della vita come navigazione. 11. veggio … porto: ‘vedo tempesta («fortuna») in prossimità della meta’. 12. nocchier: ‘pilota della nave’, qui, metaforicamente, indica la ragione. 13. rotte … sarte: ‘spezzate le sartie (i cordami) e l’albero maestro’, ovvero, in continuazione della metafora, la fortezza e le altre virtù. 14. e i lumi … spenti: ‘(vedo) spenti i begli occhi che ero solito guardare’.

CCCX Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena La «resurrezione ciclica del mondo» con la primavera è tema antico, sviluppato già nella poesia classica e poi in quella romanza, legato anche a una cultura essenzialmente agricola. In Petrarca i richiami ai modelli dell’antichità (sicuramente almeno Ovidio e Virgilio) si fondono con i precedenti trobadorici e stilnovistici, creando una lirica di impronta e reminiscenze classiche ma originalmente moderna: la natura è più che mai proiezione dei sentimenti e dei conflitti interiori del poeta, ora vissuta all’insegna della Francesco Petrarca, Canzoniere  memoria e del ricordo. La morte di Laura proietta perciò l’esordio primaverile sul piano del ricordo («e ’l bel tempo rimena», v. 1), che apre la strada al dolore dell’Io ormai solo. metro: sonetto con schema ABAB, ABAB; CDC, DCD. Assonanza atona in A e B, asso- nanza tonica in C e D. Rima ricca «famiglia»: «vermiglia» (vv. 2-4).

Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena1, e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia2, et garrir Progne et pianger Philomena3, et primavera candida et vermiglia4. Ridono i prati5, e ’l ciel si rasserena; Giove s’allegra di mirar sua figlia6; l’aria et l’acqua et la terra è d’amor7 piena; ogni animal d’amar si riconsiglia8. Ma per me, lasso, tornano i piú gravi sospiri9, che del cor profondo tragge quella ch’al ciel se ne portò le chiavi10; et cantar augelletti, et fiorir piagge11, e ’n belle donne honeste atti soavi12 sono un deserto, et fere aspre et selvagge13.

Note 1. Zephiro … rimena: ‘torna Zefiro e riconduce con sé la bella stagione’. Zefiro è il vento (occidentale) della primavera, sin dall’antichità classica. 2. sua dolce famiglia: sono gli elementi stagionali generati da Zefiro («bel tempo», «fiori», «erbe»). 3. et … philomena: personaggi mitologici che, mutati secondo la tradizione in rondine e usi- gnolo, indicano gli uccelli primaverili. 4. candida et vermiglia: dittologia metonimica, data dai colori dei fiori. 5. ridono i prati: immagine tradizionale che esalta la gioia per il ritorno della bella stagione, amplificata anche dalle espressioni «si rasserena» e «s’allegra» (v. 6). 6. Giove … figlia: allude alla posizione dei pianeti di Giove e Venere (sua figlia, per la mitolo- gia), massimamente ravvicinati nel periodo primaverile, per cui l’uno ‘si rallegra di guardare’ («mirar») da vicino l’altro. 7. amor: è l’energia vitale che risveglia gli elementi fondamentali della natura. 8. ogni … riconsiglia: ‘ogni essere vivente («animal») torna a volere amare’, con ripresa di «amor» del verso precedente. 9. ma … sospiri: avversativa tradizionale negli esordi «naturali», ove spesso si contrappone lo stato della natura a quello interiore del poeta; si noti l’enjambement, che sottolinea i sospiri. 10. del cor … chiavi: ‘dal profondo del cuore trae colei (Laura) che ne (del cuore) portò con sé le chiavi in cielo’, cioè: con la morte dell’amata, il cuore del poeta si è chiuso per sempre. 11. piagge: ‘pianure’, ‘campi’. 12. e … soavi: ‘e in belle e nobili («honeste») donne atti pieni di grazia’, con reminescenze dan- tesche. 13. sono … selvagge: ‘sono (per me) un territorio desertico (senza «augelletti» e «piagge», in opposizione cioè al v. 12), e bestie feroci (in opposizione alle donne «belle e nobili» del v. 13). ROBERTO ANTONELLI  R. Antonelli

NATALINO SAPEGNO, Petrarca da N. Sapegno, Francesco Petrarca, in Il Trecento, Garzanti, Milano 1965

Allora riuscirà più chiaro perché il poeta si accosti ai punti dolenti della condizione reale che vuole esprimere sempre così da lontano, per via di perifrasi e di parole-sim- boli: e la sua pena d’uomo e il peso carnale diventa il «terreno incarco» (il «fascio anti- co», la «terrena soma»); e l’amore, la suprema inquietudine, la tormentata dialettica della sua sofferenza si traduce in parole scolorite e scorporate, e perciò tanto più dense e pregnanti: un lungo «vaneggiare» («e del mio vaneggiar vergogna è ’1 frutto»), e poi «riso» e «pianto», «paura» e «ira» («or ride or piange, or teme or s’assecura»). Il fatto è che pro- prio quelle parole così nude e astratte, quelle spoglie di un lessico ridotto all’estrema essenzialità, riassumono veramente per il poeta il significato di tutta la sua esperienza e, agli occhi di chi ne abbia ricostruito la storia culturale e biografica, acquistano un peso, una materia sostanziale di poesia. Solo per esse il Petrarca si confessa, senza avvi- lirsi nello sfogo; solo così la contemplazione della propria miseria e disperazione si fa lirica, senza cadere nel lirismo. Ed ecco come, fra le altre voci più lievi e meno impe- gnative, quasi guidata e sorretta e introdotta da esse, si affaccia anche la parola più forte, che per un istante par rompere la nitida superficie del discorso e rivela quasi in un lampo il fondo tenebroso di questa poesia, la sua nota più dolente e vergognosa e segreta: la «paura» («tal cordoglio e paura ho di me stesso», «tal paura ho di ritrovarmi solo»). Perché questo è il dono del Petrarca: l’intelligenza superstite nel naufragio delle passioni e delle speranze, la volontà pertinace e strenua di conoscersi e scrutare den- tro di sé fino in fondo: «Sì vedrem chiaro poi …». In questa attenzione ferma, e nuda di ogni compiacimento, senza illusioni, ma anche senza cinismo, anzi tutta venata di rimorsi e accettata col rigore di una disciplina, è, agli inizi dell’Umanesimo, quella che abbiamo chiamato la scoperta moderna, profondamente umana, della liricità. La coerenza assoluta del mondo poetico, esclusivo sino a sfiorare la monotonia, e la conseguente rigorosissima scelta degli strumenti lessicali e stilistici secondo un modulo classicista (tutto l’opposto della straordinaria libertà e varietà e spregiudicatez- za formale della Commedia), predestinavano quasi naturalmente la lirica del Petrarca ad assumere una funzione normativa, di modello per eccellenza nell’ambito del gene- re lirico e anche, al di là di esso, di tutta la letteratura poetica colta. Il petrarchismo nasce, vivo ancora il poeta, come omaggio ad un’opera nella quale si assommavano e trovavano compimento i conati e le tendenze di tutta una tradizione poetica; […] l’i- mitazione del Canzoniere tocca il suo vertice, come è noto, nel sedicesimo secolo, con- figurandosi come instancabile esplorazione e sperimentazione raffinata di un patrimo- nio prezioso di situazioni e di stilemi e costituendo la fortuna, non pure italiana ma europea, dello scrittore. Soprattutto il petrarchismo impronta profondamente le lettera- ture di Spagna, di Francia e d’Inghilterra; talora è imitazione arida e artificiosa; più spes- so disciplina, ancor più che utile, necessaria; qualche volta, quando si tratti di poeti veri e grandi, è ritorno dettato da una simpatia profonda. Decameron di Giovanni Boccaccio

Giovanni Boccaccio (1313-1375), insieme a Dante e Petrarca, è uno dei tre autori che costituiscono il primo “canone” della tradizione letteraria ita- liana, cioè il grande modello che ha dominato a lungo l’attività letteraria in Italia e in Europa. Più giovane degli altri due, Boccaccio cresce a Firenze nel culto di Dante e venera Petrarca, che incontra nel pieno della sua maturità, strin- gendo con lui una profonda amicizia; a entrambi questi modelli rimane fedele per tutta la vita, pienamente consapevole dello straordinario legame che lo unisce a loro e che nei secoli successivi viene rappresentato dalla fortunata immagine delle «tre corone» di cui egli stesso è l’artefice geniale. Come Dante e Petrarca, Boccaccio non è solo un grande scrittore ma anche un grande intellettuale: ha cioè una visione generale della cultura del suo tempo, un’idea precisa del ruolo che in essa dovrebbe giocare la letteratura e la profonda convinzione del suo valore sociale, del contribu- to specifico di civiltà portato a una società nella quale donne e uomini siano protagonisti. Nelle sue opere Boccaccio si pone come erede di diver- se tradizioni culturali e sa fonderle insieme in un quadro variegato ma uni- tario. Il suo capolavoro, il Decameron, è il primo grande libro in prosa della nuova cultura volgare e in esso la prosa narrativa trova una nuova lingua ricca ed espressiva, capace anche di porsi all’altezza del latino per eleganza e complessità. Per questi motivi la lingua di Boccaccio è stata modello di tutta la letteratura italiana in prosa dei secoli successivi ed è quindi componente profonda del patrimonio linguistico italiano e non solo italiano. Boccaccio riesce a fare della propria opera il modello della narrativa europea per oltre due secoli proprio perché, dall’interno di quella cultura, si appropria di una ricca eredità narrativa e la rielabora nella sua complessa e articolata struttura. Egli dichiara esplicitamente questa sua operazione, consapevole del valore della varietà: «intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo […] e alcune canzonet- te». Non si tratta qui di un casuale accostamento di sinonimi, ma della pun-  M. S. Sapegno tigliosa elencazione delle diverse tipologie narrative. Novella è il termine più ampio e generico (comprende l’aneddotica comunale ma anche la nar- rativa orientale filtrata attraverso le varie raccolte latine medievali), favola rinvia ai fabliaux francesi, parabola descrive narrazioni di tipo allegorico e didascalico (come quella medievale degli exempla), istoria indica raccon- ti, a sfondo storico, di personaggi noti (l’aneddotica tardo-classica dei fatti e detti memorabili); infine la canzonetta è una ballata cantata dalle giova- ni a fine giornata. Boccaccio sa parlare anche a un lettore contemporaneo sia con il pia- cere della narrazione, collocato come valore al centro della sua opera, sia con l’ironia che la pervade. Ci parla di una civiltà fatta di uomini e donne in carne e ossa, del grande potere dell’amore ma anche di quello della parola e dell’intelligenza, della grande letteratura come sfida alla morte e consolazione del dolore.

Decameron Boccaccio compone il Decameron tra il 1349 e il 1351. Nell’incipit pre- senta la propria opera con nome e cognome, come se si trattasse di una persona: «Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato Prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in dieci dì dette da sette donne e da tre giovani uomini». Il “nome” è un probabile richiamo all’Hexameron di sant’Ambrogio, il racconto dei sei giorni della creazione divina, e indica appunto quei dieci giorni nei quali l’autore ritiene sia accaduto qualcosa di straordinario (con un’etimologia grecizzante: deka ‘dieci’ ed emeron ‘giorni’). Il “cognome” rinvia invece al canto V dell’Inferno, al famoso episodio di Paolo e Francesca, nel quale Dante cita il libro che avrebbe rivelato il loro amore reciproco, il romanzo francese Lancelot, attraverso il nome di uno dei per- sonaggi («Galeotto fu il libro e chi lo scrisse»). Considerando questa apertura, densa di riferimenti letterari, possiamo desumere l’intento dell’autore: favorire l’amore, proprio come fece Galehaut per il suo amico Lancelot. In modo altrettanto esplicito viene descritta la struttura del libro, composto di cento novelle raccontate da sette donne e tre giovani uomini, nello spazio appunto di dieci giornate; una storia, quindi, che contiene altre storie. La storia portante è raccontata in prima persona da chi, nel testo, si de- finisce come l’autore del libro e narra la vicenda di dieci giovani che la- sciano Firenze devastata dalla peste per spostarsi in villa, dove ogni gior- no, per dieci giorni, si raccontano, a turno, una novella ciascuno. Questa storia è la “cornice” delle dieci giornate e delle cento novelle: viene ripre- Giovanni Boccaccio, Decameron  sa nelle introduzioni e nelle conclusioni di ogni giornata e di ciascuna no- vella. Il racconto-cornice non è soltanto un tessuto connettivo, cioè il prete- sto per organizzare il materiale narrativo secondo un ordine logico e tema- tico; è invece a tutti gli effetti una storia che amplifica il senso delle novel- le le quali, inquadrate in un progetto letterario più ampio, si sottraggono alla definizione di raccolta per elevarsi, a buon titolo, a quella di libro. La cornice narra la vicenda esemplare dei giovani attraverso la descri- zione iniziale degli orrori della peste e, in particolare, delle sue catastrofi- che conseguenze sul tessuto sociale. È proprio il venir meno dei rapporti di convivenza civile, insieme al pericolo di contagio, a rendere necessaria la scelta che porta i giovani a lasciare Firenze. Alla città, al disordine e alla morte si contrappone la «vita in contado», la serenità incontaminata del locus amoenus in cui i giovani costituiscono un nuovo ordine, attraverso la designazione giornaliera di una regina o di un re, che governi la picco- la «brigata». L’esemplarità di questa «onesta» convivenza non può che esau- rirsi con il ritorno in città, perché non si tratta di una fuga dal contagio o dall’orrore, ma di un’esperienza formativa, morale, appunto «esemplare» (didascalica), in seguito alla quale i giovani possono tornare e affrontare nuovamente e con maggiore consapevolezza le difficoltà della vita. Il cosiddetto “realismo” di Boccaccio è dovuto soprattutto alla scelta di una chiave stilistica particolare che risponde a un’esigenza profonda di verosimiglianza, a una spinta morale. L’autore vuole convincere il suo pub- blico che non sta trattando di favole o di sogni, non di una realtà come la si vorrebbe, ma della realtà per quello che è. Per raggiungere questo scopo intreccia magistralmente un’enorme varietà di testi letterari, inventa perso- naggi mai esistiti, attingendo a una straordinaria capacità di osservazione del reale. Nel Decameron la parola assume una forza straordinaria: attraversa i ceti sociali e i generi sessuali, è la grande risorsa di una società che rispon- de alla crisi (in questo caso incarnata dalla peste) con lo scatto d’orgoglio rappresentato dal coraggio di sfidare la morte non solo con la paura o la preghiera, ma attraverso la riaffermazione dei valori della vita, individuale e associata, all’interno di una visione intellettuale che non cancella il corpo ma lo celebra, che ride di se stessa ma sa anche prendersi sul serio. Il più grande poeta inglese dell’epoca, Geoffrey Chaucer, fu molto influenzato dal Boccaccio e, in effetti, sarebbe difficile spiegare i suoi Canterbury Tales senza una conoscenza diretta del Decameron. Sicuramente l’opera di Boccaccio fu tradotta in catalano, tedesco e casti- gliano e alcune novelle, particolarmente amate, furono tradotte perfino in latino e in greco. Il Decameron diviene un modello per il narrare in ogni  M. S. Sapegno paese europeo. Questo grande successo di pubblico e la grandezza stessa – innegabile – dell’opera costrinsero tutti i novellieri successivi a tener conto in qualche modo di quel modello, ma non furono molti in grado di comprendere, o di accettare, la grande novità d’impianto e le altissime ambizioni letterarie, oltre che l’audacia dei contenuti. Per la prima volta una grande opera volgare comincia subito a viaggia- re al di fuori della cultura d’origine e trova presto anche la via delle tra- sposizioni pittoriche, che furono numerosissime e che impegnarono anche artisti importanti; si pensi per tutte alle tavole su Nastagio degli Onesti dipinte da Botticelli (ora al Museo del Prado di Madrid.)

Melchisedech giudeo La figura del saggio ebreo è molto diffusa nella tradizione narrativa medievale e moderna e si trova anche nel Novellino. Qui, come in altre novelle del Decameron in cui l’azione narrativa è quasi inesistente, ciò che interessa Boccaccio è l’ingegno umano che si esprime attraverso il potere della parola. La rubrica indica che l’ebreo Melchisedech usa una «novella», ovvero la brillantezza del discorso, per sfuggire alla trappola tesagli da un grande personaggio, il Saladino. La narratrice Filomena aggiun- ge però che il suo racconto tratterà del potere, e quindi della pericolosità dell’arte verba- le per dimostrare che l’uso dissennato di questa spesso determina circostanze spiacevo- li, e che al contrario, esprimersi in modo accorto può essere fonte di sicurezza e conso- lazione. Il senso forte del testo è il rapporto speciale che c’è tra intelligenza e parola, ma anche il legame che si stabilisce tra due personaggi diversissimi, accomunati però dal rispetto per l’intelligenza. Da notare infine che i due protagonisti sono entrambi non-cristiani: in questo modo Boccaccio stesso si esime dal compromettersi affidando a un punto di vista “altro” il delicato dibattito sul primato religioso.

Melchisedech giudeo con una novella di tre anella1 cessa2 un gran peri- colo dal saladino apparecchiatogli3. Poi che, commendata4 da tutti la novella di Neifile5, ella si tacque, come alla reina6 piacque Filomena così cominciò a parlare: – La novella da Neifile detta mi ritorna a memoria7 il dubbioso caso già avvenuto a un giudeo8. Per ciò che già e di Dio e della verità della nostra fede è assai bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti e agli atti degli uomini non si dovrà disdire9: a narrarvi quella10 verrò, la quale udita, forse più caute diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fos- sero11. Voi dovete, amorose compagne12, sapere che, sì come la scioc- chezza spesse volte trae altrui di felice stato e mette in grandissima mise- ria13, così il senno di grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande e Giovanni Boccaccio, Decameron  in sicuro riposo14. E che vero sia che la sciocchezza di buono stato in mise- ria alcun conduca, per molti essempli si vede15, li quali non fia16 al pre- sente nostra cura17 di raccontare, avendo riguardo che tutto il dì mille essempli n’appaiano manifesti18: ma che il senno di consolazion sia cagio- ne19, come premisi, per20 una novelletta mostrerò brievemente. Il Saladino21, il valore del quale fu tanto, che non solamente di piccolo uomo22 il fé23 di Babillonia soldano24 ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissi- me sue magnificenze speso tutto il suo tesoro e per alcuno accidente sopravenutogli bisognandogli una buona quantità di denari25, né veggen- do donde così prestamente come gli bisognavano avergli potesse26, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale prestava a usura in Alessandria. E pensossi costui avere da poterlo servire, quando volesse27, ma sì era avaro che di sua volontà non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare28; per che, strignendolo il bisogno29, rivol- tosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse30, s’avisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata31. E fattolsi32 chiamare e familiarmente ricevutolo, seco33 il fece sedere e appresso34 gli disse: «Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti35; e per ciò io saprei volen- tieri da te quale delle tre leggi36 tu reputi la verace37, o la giudaica o la sara- cina38 o la cristiana». Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione39, e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una che l’altre lodare40, che il Saladino non avesse la sua intenzione41; per che42, come colui il qual pareva d’aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere43, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente avanti44 quel- lo che dir dovesse; e disse: «Signor mio, la quistione la qual voi mi fate45 è bella, e a volervene dire ciò che io ne sento46 mi vi convien dire una novel- letta, qual voi udirete. Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già47, il quale, intra l’altre gioie48 più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore49 e in per- petuo lasciarlo ne’ suoi discendenti50, ordinò che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri esser come maggiore onorato e reverito51. E colui al quale da costui fu lasciato tenne simigliante ordine ne’ suoi discendenti52 e così fece come fatto avea il suo predecessore; e in brieve53 andò questo anello di mano in mano a molti successori, e ultimamente pervenne alle mani a uno54 il quale avea tre  M. S. Sapegno figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre parimente55 gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine56 dello anello sapevano, sì come vaghi ciascuno d’essere il più onorato tra’ suoi57, ciascun per sé, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vec- chio, che, quando a morte venisse58 a lui quello anello lasciasse. Il valente uomo, che parimente tutti gli amava né sapeva esso medesimo eleggere59 a quale più tosto lasciar lo volesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare: e segretamente a un buon mae- stro60 ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero61, che es- so medesimo che fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il vero62; e venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli. Li qua- li, dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l’onore occupa- re63 e l’uno negandola all’altro, in testimonianza di dover ciò ragionevol- mente64 fare ciascuno produsse fuori65 il suo anello; e trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro, che qual fosse il vero non si sapeva cognoscere, si ri- mase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente: e ancor pende66. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste67: ciascuno la sua eredità, la sua ve- ra legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare68, ma chi se l’abbia69, come degli anelli, ancora ne pende la quistione70». Il Saladino conobbe costui ottimamente esser saputo uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso gli aveva71, e per ciò dispose d’aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse72; e così fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare73, se così discretamente74, come fatto avea, non gli avesse risposto. Il giudeo liberamente75 d’ogni quantità76 che il Saladino richiese il servì, e il Saladino poi interamente il sodisfece77; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per suo amico l’ebbe e in grande e ono- revole stato appresso di sé il mantenne78.

Note 1. di … anella: ‘a proposito di tre anelli’. 2. cessa: ‘scampa’. 3. apparecchiatogli: ‘preparatogli’. 4. commendata: ‘lodata’. 5. novella di Neifile: ‘la novella narrata da Neifile e appena conclusasi’. 6. reina: regina della prima giornata è Pampinea. 7. mi … memoria: ‘mi fa ricordare’. 8. dubbioso … giudeo: ‘pericoloso accidente capitato a un ebreo’. 9. per ciò che … disdire: ‘dal momento che le novelle precedenti hanno trattato bene di Dio e della verità della nostra fede, non sarà fuori luogo («non si dovrà disdire») scendere a trattare dei fatti che riguardano gli uomini e le loro azioni’. 10. quella: ‘quella novella’. Giovanni Boccaccio, Decameron 

11. più … fossero: ‘diverrete più prudenti nel rispondere ai quesiti che vi fossero rivolti’. 12. amorose compagne: ‘compagne innamorate’. 13. la sciocchezza … miseria: ‘la stupidità allontana spesso uno («altrui») da una situazione favorevole e lo fa cadere in una grandissima infelicità’; «altrui» ha qui il valore di un pronome indefinito. 14. così il senno … riposo: ‘così l’intelligenza salva chi è saggio e lo pone in una situazione sicu- ra e tranquilla’. 15. per molti … vede: ‘è evidente attraverso numerosi esempi’. 16. fia: ‘sarà’. 17. nostra cura: ‘nostra preoccupazione’. 18. avendo … manifesti: ‘considerando il fatto che ogni giorno se ne possono trovare esempi evidenti’. 19. ma … cagione: ‘ma che la saggezza produca consolazione’, cioè la soluzione dei problemi e la serenità. 20. per: ‘attraverso’. 21. il Saladino: si tratta di un personaggio storico realmente esistito, Salahaddin (1138-1193) sultano del Cairo («Babillonia»). Nel 1187 riconquistò Gerusalemme, togliendola ai cristiani. Fu celebrato in Occidente per le sue qualità umane e politiche e godette di grande popolarità: Dante lo ricorda nel Convivio (IV, 11) e nell’Inferno, dove è posto nel castello degli «spiriti magni» (IV, 129); Petrarca ne tesse le lodi nel Trionfo della fama (II, 148), mentre Boccaccio ne fa il protagonista anche di una seconda novella (X, 9). 22. di piccolo uomo: la leggenda narra che il Saladino fosse di umili origini. In realtà era figlio di un dignitario di corte. 23. il fé: ‘lo fece diventare’. 24. soldano: ‘signore’, ‘sultano’. 25. per … denari: ‘avendo bisogno di una buona quantità di denaro, a causa di un caso impre- visto che gli era capitato’. 26. né veggendo … potesse: ‘non vedendo da dove avrebbe potuto prenderli così in fretta come gli servivano’. 27. e pensossi … volesse: ‘e pensò che questi (Melchisedech) dovesse potergliene prestare in ogni momento («quando volesse»)’. 28. e forza … fare: ‘e il sultano non voleva indurre Melchisedech a prestargli il denaro con la forza’. 29. strignendolo il bisogno: ‘sotto la pressione della necessità’. 30. rivoltosi … servisse: ‘dedicatosi interamente a trovare il modo per farsi prestare i soldi dal giudeo’. 31. s’avisò … colorata: ‘pensò di forzarlo con un sistema che avesse una parvenza di legalità («da alcuna ragion colorata»)’. 32. fattolsi: ‘fattoselo’. 33. seco: ‘vicino a sé’. 34. appresso: ‘poi’. 35. senti molto avanti: ‘sei molto competente’. 36. leggi: ‘religioni’. 37. verace: ‘veritiera’. 38. saracina: ‘maomettana’. 39. s’avisò … quistione: ‘si accorse fin troppo bene che il Saladino mirava a coglierlo in fallo nelle parole (che avrebbe usato nella risposta) per poi muovergli qualche accusa («quistione»)’. 40. pensò … lodare: ‘pensò di non poter lodare nessuna di queste tre religioni più delle altre’. 41. che … intenzione: ‘senza che il Saladino non raggiungesse il suo scopo’, di coglierlo, cioè, in errore. 42. per che: ‘per la qual cosa’.  M. S. Sapegno

43. come colui … essere: ‘come uno che credeva di avere bisogno di una risposta irreprensibile («per la quale preso non potesse essere»)’, che non fornisse, cioè, appigli per essere accusato di alcunché. 44. gli venne … avanti: ‘gli venne subito in mente’. 45. la qual … fate: ‘che mi ponete’. 46. ciò … sento: ‘quello che me ne pare’. 47. che … già: ‘che un tempo ci fu un grande e ricco uomo’. 48. gioie: ‘gioielli’. 49. al quale … onore: ‘volendo fare onore all’anello in virtù della sua bellezza e del suo valore’. 50. in perpetuo … discendenti: ‘volendo lasciarlo per sempre in eredità ai suoi discendenti’. 51. colui … reverito: ‘quello tra i suoi figlioli presso («appo») il quale l’anello, lasciatogli da lui, fosse stato trovato, sarebbe stato considerato suo erede e quindi onorato e riverito come più importante’. 52. simigliante … discendenti: ‘ordinò che la stessa regola valesse per i suoi discendenti’. 53. in brieve: ‘per farla breve’. 54. ultimamente … uno: ‘alla fine arrivò nelle mani di uno’. 55. parimente: ‘in uguale misura’. 56. consuetudine: ‘la tradizione familiare’. 57. sì come … suoi: ‘poiché ciascuno era desideroso di essere il più onorato tra i suoi (figli)’. 58. quando … venisse: ‘dopo la sua morte’. 59. eleggere: ‘scegliere’. 60. buon maestro: ‘bravo artigiano’, in questo caso un orafo. 61. simiglianti al primiero: ‘simili al primo’. 62. che esso … vero: ‘la stessa persona che li aveva fatti sapeva appena riconoscere quale fosse quello vero’. 63. la eredità … occupare: ‘ottenere l’eredità ed essere considerato più importante rispetto ai fratelli («onore»)’. 64. ragionevolmente: ‘in conformità alla regola’, ‘di diritto’. 65. produsse fuori: ‘tirò fuori’, come prova. 66. si rimase … pende: ‘rimase aperta («in pendente») la questione di chi fosse il vero erede del padre, e ancora non è stata risolta’. 67. e così … proponeste: ‘e la stessa cosa si può dire a proposito delle tre religioni date da Dio padre, su cui mi proponeste il quesito’. 68. ciascuno … fare: ‘ciascuno crede a buon diritto di avere la sua eredità e di seguire la sua vera religione e i suoi comandamenti’. 69. ma … abbia: ‘ma chi l’abbia davvero’, ‘chi sia il vero erede’. 70. ancora … quistione: ‘ancora la questione non è stata risolta’. 71. laccio … aveva: ‘dalla trappola che gli aveva teso davanti ai piedi’. 72. e per ciò … volesse: ‘e per questo motivo decise di rivelargli il suo bisogno e vedere se avrebbe voluto concedergli il prestito’. 73. aprendogli … fare: ‘svelandogli cosa aveva intenzione di fare’. 74. discretamente: ‘con discernimento’, cioè ‘saggiamente’. 75. liberamente: ‘generosamente’. 76. quantità: ‘somma’. 77. interamente il sodisfece: ‘gli restituì per intero il prestito’. 78. in grande…mantenne: ‘lo tenne vicino a sé in una posizione importante e degna d’onore’. MARIA SERENA SAPEGNO Giovanni Boccaccio, Decameron 

ERICH AUERBACH, Boccaccio da E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, 2 voll.

Il primo contatto co n la concezione dello stile illustre degli autori antichi, un con- tatto che inoltre non era ancora libero dall’influenza di concezioni medievali, condu- ceva molto facilmente a un innalzamento per così dire cronico del livello stilistico, e a un impiego eccessivo di ornamenti dotti; e ciò faceva sì che quasi di continuo la lin- gua salisse sui trampoli, e appunto per questo restasse lontana dal suo argomento e si rendesse, in tale forma, adatta quasi solamente a scopi oratori e decorativi: un lin- guaggio così elevato era assolutamente incapace d’abbracciare la realtà sensibile della vita in atto. Senza dubbio col Boccaccio le cose andarono diversamente fin dal princi- pio. Egli è disposto e sensibile a modi più spontanei, propenso a un’elaborazione ama- bilmente scorrevole, intrisa di sensualità ed elegante. Fin dal principio egli non è fatto per lo stile illustre, ma per quello medio; e la società della Corte angioina a Napoli, dove aveva trascorso la sua gioventù e dove era apprezzata più che nel resto d’Italia l’eleganza virtuosa delle forme tarde della cultura cavalleresca della Francia settentrio- nale, dette ricco alimento a quella sua disposizione. Le sue prime opere sono rifaci- menti di romanzi d’amore, d’avventure cavalleresche del tardo stile cortese, e nella loro maniera, così a me sembra, si può avvertire qualcosa di francese: la maggiore ampiez- za delle sue descrizioni, le ingenue raffinatezze e le delicate sfumature del giuoco amo- roso, la mondanità di quella società feudale già un po’ in decadenza che rappresenta la maliziosità del suo spirito. Ma quanto più maturo egli diviene, tanto maggior forza acquista accanto a tutto questo il mondo borghese, umanistico e soprattutto la gagliar- da vita popolana. In ogni modo la tendenza a un innalzamento retorico dello stile, che anche per lui costituiva un pericolo, gli serve nelle sue opere giovanili esclusivamente per la rappresentazione dell’amore sensuale, come pure per essa servono quell’ecces- so di erudizione mitologica e quell’allegorismo convenzionale che si palesano in alcu- ne delle opere giovanili. Con tutto ciò egli rimane, anche se talvolta tenta d’uscirne (come nella Teseida), entro i limiti dello stile medio, che fondendo l’idilliaco e il reali- stico, è destinato alla rappresentazione dell’amore sensuale. Di stile medio, idilliaco, è anche l’ultima e di gran lunga la più bella delle sue opere giovanili, il Ninfale fiesola- no; e di stile medio è anche il grande volume delle cento novelle. Per la determina- zione del livello stilistico non ha importanza quale delle opere giovanili sia scritta tutta o in parte in versi, e quale in prosa; dovunque l’atmosfera è la stessa. Non v’è dubbio che svariate sono, nell’ambito dello stile medio, le sfumature del Decamerone, e che i confini sono molto ampi; però perfino là dove i racconti si avvi- cinano al tragico, il tono e l’atmosfera rimangono nel campo del sentimentale e del sen- suale ed evitano il sublime e il grave; e anche là dove, ben più che nel nostro esem- pio, si mettono a profitto motivi di grossa farsa, il linguaggio e la rappresentazione rimangono nobili, in quanto che innegabilmente narratore e ascoltatore rimangono sempre assai al di sopra dell’argomento, e guardandolo criticamente dall’alto si diletta- no in maniera leggera ed elegante. La particolarità dello stile medio elegante può rico- noscersi meglio proprio negli argomenti più popolari e realistici e perfino grossolana- mente farseschi; poiché dalla forma di tali racconti è possibile dedurre l’esistenza d’un  M. S. Sapegno ceto sociale che, stando al di sopra degli strati inferiori della vita quotidiana, trae godi- mento dalla sua vivace rappresentazione, godimento che va in cerca di individui umani fatti di sensi, e non di tipi sociali. Tutti i Calandrini, i fra’ Cipolla e i Pietri, le Peronelle, Caterine e Belcolore sono, alla pari di frate Alberto e di Lisetta, personaggi ben altri- menti delineati che il villano o la pastorella ammessi nella poesia cortese; essi sono per- fino molto più vivi e nella loro forma particolare più precisi che le figure delle farse popolari, come abbiamo visto più sopra, quantunque il pubblico a cui debbono pia- cere sia d’una condizione del tutto diversa. Evidentemente al tempo del Boccaccio esi- steva una classe sociale di alta condizione, però non feudale, bensì appartenente all’a- ristocrazia cittadina, che provava un raffinato piacere nella realtà variopinta della vita, dovunque le si rivelasse. Amleto di William Shakespeare

William Shakespeare (1564-1616) rappresenta con la sua opera uno dei più alti risultati del movimento culturale del Rinascimento: anche grazie a lui il teatro ritrova la centralità e l’importanza che ha avuto in età classica. Attore e poeta, il suo genio si dispiega soprattutto nella rappresentazione teatrale, dove sa magistralmente mettere in scena alcuni dei conflitti che stanno maturando nella coscienza europea, come il rapporto tra individuo e società e le dinamiche della lotta per il potere, vista come uno scontro senza esclusioni di colpi, che nulla concede ad alcun sentimento, inclusi i rapporti familiari più stretti. La rappresentazione di tali conflitti dà vita a interrogativi e riflessioni universali, che portano l’autore al successo internazionale, e che diviene sempre maggiore col passare dei secoli, in tutto il mondo e in particolare in Inghilterra, ove le sue opere e la sua figura contribuiscono alla forma- zione di una coscienza nazionale. Pur essendo un autodidatta Shakespeare fa riferimento a grandi autori classici come Plauto e Plutarco, usa le fonti storiche medievali inglesi e conosce in traduzione molti testi contemporanei. I suoi orizzonti si allar- gano grazie alle conoscenze, alle amicizie e alla frequentazione a corte di vari rifugiati francesi e italiani, tra i quali Giovanni Florio, che pare gli abbia favorito l’accesso a molte fonti letterarie italiane come Boccaccio, Ariosto, Bandello, Giraldi Cinzio, Castiglione, oltre che al teatro contemporaneo. Eppure della vita di Shakespeare, uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, non si sa molto. Inoltre, non è rimasto alcun manoscritto autografo, anche se conosciamo la sua firma, apposta sotto alcuni documenti legali. A parte alcune edizioni pirata di sue opere, una prima edizione completa, postuma, dovuta a due suoi collaboratori, è stampata nel 1623. Le infor- mazioni sulla datazione delle opere ci giungono prevalentemente dalla loro messa in scena. Se guardiamo all’insieme delle opere di Shakespeare, alla loro qualità e quantità, e pensiamo che sono state scritte in circa vent’anni di attività, occorre ammettere che ciò ha del prodigioso. La stretta relazione che l’au-  M. S. Sapegno tore intrattiene tra scrittura e messa in scena gli consente di calibrare sem- pre la misura del testo alla sua effettiva rappresentabilità; allo stesso tempo ciò non gli impedisce di conservare un senso alto della letterarietà di quan- to compone. La felicità straordinaria della sua scrittura è nella capacità di adattare la poeticità della lingua alle esigenze drammatiche. Come tutte le grandi opere d’arte, anche le sue possono essere lette a diversi livelli di profondità; ciò gli permette di venire incontro da un lato alle esigenze di raffinatezza e complessità proprie dell’ambiente della corte, dall’altro alla richiesta di una godibilità diretta, fatta di emozioni più semplici. Nonostante la complessiva unità dell’opera drammatica shakespeariana, è possibile individuare al suo interno delle linee evolutive e dei gruppi di te- sti ordinabili per sottogeneri. A tale proposito già la prima edizione in folio contiene una macrosuddivisione in commedie, tragedie e drammi storici. Proprio i drammi storici aprono la produzione teatrale (Enrico VI), come un filo rosso che non viene mai abbandonato, la attraversano tutta fino all’ultima opera (Enrico VIII) rappresentando una sorta di lungo poema epico nazionale che va alle radici della formazione dello Stato inglese moderno. Nel ripercorrere le vicende tormentate e sanguinose della costru- zione della monarchia, a partire da uno studio delle cronache e dei docu- menti storici, Shakespeare ne segue dapprima la forma un po’ episodica, a cui aggiunge una caratterizzazione dei personaggi, per poi evolvere nella direzione della tragedia contemporanea e trovare infine una strada tutta originale in capolavori come Enrico IV. In questo dramma storico, accan- to alla ricostruzione delle vicende trova posto l’analisi intima e profonda dei rapporti padre-figlio, ma anche la messa in discussione di valori fon- danti dell’epoca (come per esempio l’onore). In queste opere il dramma- turgo pone in primo piano tutti i problemi del potere, della sua contro- versa legittimazione, ma anche della sua implicita violenza, interpretando- ne i conflitti senza indugiare su alcuna idealizzazione, ma proponendo un sistema di valori che possa dare ordine e rendere il potere moralmente accettabile. Nella prima fase di apprendistato, tra il 1590 e il 1595, caratterizzata da una certa sperimentazione, Shakespeare compone testi già perfetti e di notevole maturità come la commedia romantico-fantastica Il sogno di una notte di mezza estate, e la tragedia Romeo e Giulietta. Alla seconda fase, che va dal 1596 al 1600, appartengono opere della serie storica ormai per- fezionata ma anche diverse commedie romantiche come Tanto rumore per nulla e Come ti piace e Giulio Cesare, l’importante tragedia di ambiente classico. Nella terza fase, che invece va dal 1601 al 1608, prosegue la pro- duzione di commedie di un’atmosfera meno sorridente e più tesa rispetto alle precedenti, mentre troviamo la maggiore concentrazione di grandi tra- William Shakespeare, Amleto  gedie, dominate da uno sguardo cupo e pessimista sull’individuo e sulla sua relazione con il potere. Il dramma di una figura nobile in profonda crisi, costretta a misurarsi con le proprie contraddizioni, oberata dal peso di responsabilità generali, è presente in tragedie come Amleto, Otello, Macbeth, Re Lear, Antonio e Cleopatra e Coriolano, in cui si assiste allo scatenamento delle passioni e delle parti più oscure dell’individuo, la follia, la gelosia, l’ambizione, la pas- sione amorosa, la disperazione, la violenza. Talora accanto ai toni tragici si avvertono l’umorismo e l’ironia, senza una netta contrapposizione tra il bene e il male. La contraddizione sembra invece caratterizzare profondamente tutti i personaggi shakespeariani, complessi, pieni di sfumature e dotati di credibilità e impatto straordinari, immersi in un universo di valori in movimento e in continua crisi ma alta- mente morale. A giudicare dal tono delle ultime opere, in cui non c’è traccia di pessi- mismo, sembra quasi che Shakespeare sia uscito rasserenato e più legge- ro dal viaggio nell’abisso dell’errore umano compiuto attraverso i suoi testi. È il caso di commedie fantastiche come Il racconto d’inverno o La tempe- sta, la commedia più moderna, dotata di una qualità magica, considerata da molti il suo capolavoro assoluto. In questa fase il perdono e la riconci- liazione, spesso presenti come possibilità anche nelle tragedie più oscure, si sono trasformati in un’eventualità facile da percorrere, una strada di sere- nità e di saggezza che contiene una dimensione fantastica, ma poggia anche esplicitamente sul senso più profondo dell’esistenza, legato alla con- sapevolezza e all’accettazione della morte.

Amleto Il re di Danimarca e padre di Amleto è morto tragicamente; suo fratel- lo Claudio ne sposa la vedova e diventa re. Il fantasma del sovrano rivela però al figlio di essere stato ucciso da Claudio con la complicità della regi- na e gli chiede di vendicarlo. Da quel momento Amleto finge di uscire di senno e si pensa che ciò sia dovuto al rifiuto di Ofelia, la fanciulla amata. Intanto arriva a corte una compagnia teatrale alla quale Amleto chiede di rappresentare un’opera nella quale una regina sposa l’assassino del mari- to. La rappresentazione e le reazioni del pubblico confermano ad Amleto la colpa dei sovrani, ma l’implicita accusa che il personaggio muove lo mette in pericolo. Dopo la famosa scena del monologo («To be or not to be…», ‘Essere o non essere’), Amleto, a colloquio con la madre, credendo di uccidere il re, colpisce a morte il padre di Ofelia ed è cacciato dalla corte. Ofelia impazzisce e muore, mentre suo fratello Laerte al ritorno del  M. S. Sapegno protagonista lo sfida a duello. Amleto uccide il re e Laerte e ne viene a sua volta ucciso, mentre la regina muore bevendo il veleno preparato per lui. Tutto il testo è attraversato da rapidissimi e drammatici colpi di scena: le apparizioni del fantasma, il teatro nel teatro, i duelli, la follia e la morte violenta. In questa tragedia, però, come nel Giulio Cesare, è molto pre- sente anche la tematica politica: il desiderio di potere e la violenza che ne deriva. La fama dell’Amleto, la tragedia di Shakespeare più rappresentata anco- ra ai nostri giorni, è legata alla figura del protagonista, visto come un indi- viduo del tutto moderno, quasi un precursore della soggettività tormenta- ta contemporanea, da cui l’aggettivo ‘amletico’, ancora di largo uso, per indicare la persona tormentata dai dubbi.

Essere o non essere Questo monologo di Amleto è probabilmente il più famoso soliloquio della storia del teatro, per la modernità con cui viene affrontato il dramma esistenziale e le domande che riguar- dano il senso della vita, la follia o la sua rappresentazione, la sofferenza e l’alienazione, la solitudine profonda. Segue il colloquio con Ofelia, nel quale si palesa la follia.

Atto III, scena I

AMLETO. Essere o non essere; questo è il problema: se sia più nobile all’animo soppor- tare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di sciagure e combattendo disperderle. Morire: dormire; nulla più: – e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, è soluzione da accogliere a mani giunte. Morire – dormire – sognare, forse: ma qui è l’ostacolo: perché, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte – ci trattiene: è la remora, questa, che di tanto in tanto prolunga la vita ai nostri tormenti. Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl’insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della legge, l’oltracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito pazien- te riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudan- do sotto il peso di tutta una vita, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la morte – la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore – a sgomenta- re la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che corre- re in cerca d’altri che non conosciamo? Così ci fa vigliacchi la coscienza; così l’in- carnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro corso: e dell’a- zione perdono anche il nome.

Ma, silenzio ora: ecco la bella Ofelia. Ninfa, ricordati di tutti i miei peccati, nelle tue orazioni. William Shakespeare, Amleto 

OFELIA Mio buon signore, come è stata vostra altezza in tutti questi giorni? AMLETO Vi ringrazio umilmente: bene, bene, bene. OFELIA Monsignore, ho qui certi vostri ricordi che da tempo volevo restituirvi. Prendeteli. AMLETO No. Io no. Non vi ho dato mai nulla, io. OFELIA Ma sì, mio degno signore: sapete bene di avermeli dati; e con le parole di così dolce alito che ne accrescevano il pregio. Svanito il loro profumo, vi prego, ripren- deteveli: diventano poveri per un animo sensibile i ricchi doni quando il donatore si rivela crudele. Ecco, a voi, altezza. AMLETO Ahà! Siete onesta, voi? OFELIA Che cosa, signore? AMLETO E bella? OFELIA Che intende dire vostra altezza? AMLETO Che se siete onesta e bella, la vostra onestà dovrebbe guardarsi bene dall’at- taccar discorso con la vostra bellezza. OFELIA Potrebbe la bellezza, monsignore, meglio accoppiarsi che coll’onestà? AMLETO Sì; mille volte meglio. Perché arriverà prima la bellezza, con i suoi sortilegi, a fare della vostra onestà una prostituta, che non la forza dell’onestà a ridur la bel- lezza a sua immagine e somiglianza. Questo, un tempo, era un paradosso; ma il tempo nostro lo ha provato vero. Io vi ho amato, una volta. OFELIA Così, difatti, mi faceste credere, monsignore. AMLETO Non bisognava prestarmi fede. Non si potrà innestare la virtù, nel nostro vec- chio ceppo, mai tanto a fondo, che la sua vecchia fibra non rigermogli. Io non vi amavo. OFELIA Tanto più fui ingannata. AMLETO Va’ in convento. Perché vuoi farti matrice di peccatori tu? Sono anch’io onesto, sufficientemente onesto. Eppure potrei accusarmi di tali colpe, che meglio sarebbe stato se mia madre non mi avesse mai partorito. Sono orgoglioso, molto; ambizio- so, vendicativo. E con più colpe ai miei cenni che non abbia pensieri a contener- le, né fantasia a plasmarle, né tempo per attuarle. Che ci va bulicando, la gente del mio stampo, tra cielo e terra? Qui siamo un branco di canaglie. Tutti. E tu non farti incantare da nessuno di noi; va’, prosegui per la tua strada: in convento! In con- vento! Dov’è tuo padre? OFELIA A casa, monsignore. AMLETO Ci stia. Mettilo sotto chiave: che lo stupido sia costretto a farlo a domicilio. Addio. Va’. OFELIA Dio di misericordia proteggilo! AMLETO Se mai dovessi prendere marito, ti lascio in dote questo pronostico: fossi tu casta come ghiaccio e come neve pura, dalla calunnia non ti salverai. Va’. Va’ in convento. Addio. Ma se tu d’un marito non potrai proprio fare a meno, spo- sati un gonzo: un uomo intelligente sa fin troppo a che razza di mostro siete capa- ci di ridurlo. Va’ in convento. E presto. Va’. Addio. OFELIA O potenze del cielo, fatelo guarire! AMLETO So che usate i belletti; ne ho sentito spesso parlare. Dio vi ha dato una faccia e ve ne pasticciate un’altra, voi altre. Ballonzolate, sculettate, pargoleggiate.  M. S. Sapegno

Spettegolate; chiamate con nomignoli le creature di Dio e usate maliziosamente il vostro candore. Va’. A questo gioco non gioco più: mi ha portato alla pazzia. Ascolta quel che ti dico: non ci saranno più matrimoni. Gli sposati a tutt’oggi, vivranno; tutti meno uno. E gli altri resteranno come sono. Va’ in convento, va’! [Esce]. (da W. Shakespeare, Teatro, trad. e note di C. Vico Lodovici, Einaudi, Torino 1960)

L’incontro fra Amleto e la madre Si tratta di un dialogo straordinario e giustamente famoso per la densità del testo e i molti livelli di detto e di non detto. Si incrociano il sospetto non dichiarato da parte di Amleto, che accusa implicitamente la madre di complicità nell’assassinio del padre, e desideri proibiti. La madre si sente in colpa ma non comprende e respinge le accuse del figlio, è sconvolta, ne vede il terribile turbamento. Al centro della scena, l’omicidio di Polonio ma anche il passaggio dello spettro che appare alla madre come il frutto della mente di Amleto ormai travolta dalla follia. Al pubblico è assegnato il compito di inter- pretare tutti i livelli e di farsi un’opinione. Ma la scena resta impressa anche per la com- plessità del rapporto tra i due personaggi. Atto III scena IV

Entra AMLETO

AMLETO Che c’e, dunque, madre? REGINA Hai molto offeso tuo padre, Amleto! AMLETO Anche voi avete molto offeso il mio. REGINA Andiamo, queste sono risposte oziose. AMLETO E le vostre sono domande maligne. REGINA Suvvia, Amleto. AMLETO Ebbene? REGINA Hai dimenticato chi sono? AMLETO Per la croce, no davvero. Siete la regina, la moglie del fratello di vostro marito, e anche – così non fosse! – mia madre! REGINA Vedremo se troverò qualcuno che sappia parlarti. AMLETO Oh, state seduta, non muovetevi. Non dovete muovervi d’un palmo prima che v’abbia messo davanti uno specchio in cui possiate vedervi fino in fondo! REGINA Che intendi fare? Vuoi assassinarmi? Aiuto, aiuto! POLONIO Olà, aiuto! Aiuto! AMLETO Come? C’è dunque un topo! Per un ducato! Eccolo bell’e morto!

Uccide POLONIO William Shakespeare, Amleto 

POLONIO Sono finito. REGINA Povera me! Che hai fatto? AMLETO Non lo so proprio. È il re? REGINA Oh furia sanguinosa e inconsulta! AMLETO Un gesto sanguinoso davvero, madre mia. Quasi perverso come uccidere un re e sposarne il fratello. REGINA Come uccidere un re? AMLETO Così ho detto, signora. Addio, povero sciocco, temerario e indiscreto! T’avevo creduto uno migliore di te.] Prendi quel che ti capita. Ecco ciò che succede ai troppo zelanti. Non torcetevi le mani, vi prego, sedetevi e lasciate ch’io vi sprema il cuore. È quello che farò, se è fatto di materia penetrabile e se la maledetta abitudine non 1’ha indurito e corazzato contro ogni sentimento. REGINA Che ho fatto io dunque perché tu osi menar la lingua contro di me con tanta villania? AMLETO Un atto che offusca la grazia e il rossore della modestia, che fa ipocrita la virtù e strappa la rosa dalla fronte di un innocente amore, per lasciarvi una vescica di sangue; un atto che rende false come i giuramenti dei giuocatori le promesse del matrimonio. Una tale azione districa 1’anima stessa dal corpo d’un impegno fermato in accordo e avvilisce a centone di parole la profondità della religione; la faccia del cielo s’infiamma, questa salda terra, quest’aggregata massa, come a cospetto del Giudizio finale, impazzisce di fronte a quest’atto. REGINA Ahimè, quale orrore dunque, che tuona così forte fin dall’antifona? AMLETO Guardate quest’immagine, e poi quest’altra: sono i ritratti di due fratelli. Tempie colme di grazia, ricci da Iperione, fronte degna di Giove, occhi di Marte, pronti alla minaccia e al comando, una figura simile a quella dell’araldo Mercurio appena sceso su un colle che bacia la volta celeste; una forma in cui ogni dio pareva aver posto la sua impronta per dare al mondo la certezza di un uomo. Era vostro marito. Ed ora osservate 1’altro! Questo è vostro marito; come una spiga divorata dalla ruggine, egli corrompe la salubre pienezza del fratello.  M. S. Sapegno

Avete occhi? Come poteste lasciare il pascolo di questa cima per impinguarvi in una palude? Avete occhi? Non dite che fu per amore. Alla vostra età la furia del sangue si smorza, si calma, e s’accorda al giudizio; e qui quale giudizio farebbe questo passo? Sentimento avete poiché avete volontà; ma certo cotesto sentimento è paralizzato; perché la follia non peccherebbe; ne mai si vide il sentimento tanto asservito al delirio da perseguire un simile proposito. Quale demonio v’ha preso a mosca cieca? Gli occhi senza il tatto, il tatto senza la vista, gli orecchi senza mani ed occhi, 1’odorato senza gli altri sensi, o una parte sola malata di uno dei cinque sensi non avrebbero potuto cadere in simile malinconia. Oh vergogna, dov’è il tuo rossore? Riottoso inferno, se tu puoi destare la ribellione nella midolla d’una matrona, alla giovinezza ardente sia la virtù come cera che nella sua fiamma si fonda; e di’ che quando 1’impellente ardore muove alla carica, ciò non è vergogna, poiché il gelo stesso arde così vivamente, se la ragione si fa mezzana della volontà. REGINA Non parlar più, Amleto. Mi fai volgere gli occhi nel fondo della mia anima stessa, e vedo la macchie nere e profonde che non potranno cancellarsi. AMLETO No, certo, ma vivranno nel fetore di un letto lardoso, crogiolandosi nella corruzione, con parole di miele e sospiri d’amore, tra le immondizie. REGINA Non più, Amleto! Le tue parole m’entrano negli orecchi come pugnali. Basta, dolce Amleto! AMLETO Un assassino e un cialtrone; un tirapiedi che non vale un millesimo del vostro primo consorte; un re di coppe; un tagliaborse dell’impero, che ha tolto da un cassetto il prezioso diadema e se l’e scivolato in tasca! REGINA Basta, basta!

Entra lo SPETTRO, in veste da notte William Shakespeare, Amleto 

AMLETO Un re di rattoppi e di sbrendoli. Salvatemi voi e statemi sopra con le vostre ali, angeli celesti! Che vuole la tua nobile figura? REGINA Ohimè, è pazzo! AMLETO Vieni forse a rimproverare tuo figlio per la trascuratezza e il ritardo con cui, trascorso il primo impulso, obbedisce all’ordine? Dimmi. SPETTRO Non dimenticare. Questa mia visita vuol solo aguzzare i tuoi propositi ormai quasi smussati. Ma guarda tua madre, 1’attonimento le sconvolge il viso. Oh, mettiti fra lei e 1’anima sua combattuta. Nei corpi indeboliti 1’immaginazione lavora meglio. Parlale, Amleto. AMLETO Che avete, dunque, signora? REGINA Ahimè, è ciò che domando a te, che fissi il vuoto e discorri con 1’aria incorporea. I tuoi spiriti anelano selvaggi sulla soglia dei tuoi occhi; i tuoi capelli, come soldati desti dall’allarme, si rizzano e si irrigidiscono. Versa la tepida pazienza, mio figlio, sulla tua furia affocata. Dove guardi? AMLETO Lui, lui! Guardate come splende il suo pallore! Con quell’aspetto e per la causa che lo spinge, se parlasse alle pietre smuoverebbe anche queste! – Non mi guardare, non impietosire i miei duri affetti, non mi occorrono lacrime, mi occorre sangue. REGINA A chi parli? AMLETO Non vedete nulla laggiù? REGINA Nulla; e pur vedo tutto ciò che è. AMLETO E non avete sentito nulla? REGINA Nulla, all’infuori di noi. AMLETO Ma guardalo, guardalo che fugge! Mio padre, vestito com’era in vita. Eccolo! È là! Presso la porta!

Esce lo SPETTRO

REGINA È un frutto della tua fantasia, Amleto, del delirio che crea queste immagini senza corpo. AMLETO Delirio? II mio polso va a tempo come il vostro, e dà una musica perfettamente sana. Non sono pazzie quelle che ho detto. Mettetemi alla prova,  M. S. Sapegno

vi dirò ancora tutto parola per parola, mentre la pazzia salterebbe chissà dove. Madre, per amor della grazia, non ungetevi 1’anima con questa illusione, che parli la mia pazzia e non la vostra colpa. Sarebbe una pelle troppo sottile sull’ulcera, e la cancrena, sotto, infetterebbe tutto, invisibile. Confessatevi al Cielo: pentitevi del passato, cercate di scansare 1’avvenire, non gettate il letame sulle ortiche per farle più folte. E perdonatemi questa mia virtù, perché in tempi di grascia anche la virtù deve inchinarsi al vizio e chiedergli, lisciandolo, il permesso di beneficarlo. REGINA Oh Amleto, m’hai spaccato il cuore in due. AMLETO Buttatene via la parte peggiore e vivete più pura con 1’altra metà. Buonanotte; ma non tornate nel letto di mio zio. Fingete la virtù, se non 1’avete. La consuetudine, quel mostro che ogni sensibilità consuma, il demonio delle abitudini, e però anche angelo, quando con lo stesso viso veste di livrea le azioni buone e le malvage, vestito che s’indossa con facilità estrema. Contenetevi, stanotte, e la prossima astinenza vi sarà più facile; e più ancora la successiva. L’abitudine può cambiare lo stampo della natura e domare il diavolo o cacciarlo del tutto, con forza meravigliosa. Buonanotte ancora; e quando vorrete essere benedetta, sarò io a chiedere la vostra benedizione. – Quanto a questo messere, io mi pento. Ma è piaciuto al Cielo ch’io punissi me stesso con lui e lui con me, come suo flagello e ministro. Lo porterò via e risponderò della morte che gli ho data. E un’altra volta, buonanotte. Debbo essere crudele solo per essere buono; così il male comincia e il peggio ha da venire. Ancora una parola, buona signora. REGINA Che debbo fare? AMLETO Oh, in nessun modo quel che v’ho chiesto io! Lasciate che il gonfio re vi chiami ancora nel suo letto; vi pizzicherà il mento, vi dirà «topo mio»; e tra un sudicio bacio e 1’altro, tastandovi il collo con le sue dita maledette, vi farà metter fuori William Shakespeare, Amleto 

tutta la faccenda, vi farà dire ch’io non sono pazzo davvero ma per astuzia. Sarà molto bene farglielo sapere, perché chi mai, non essendo che una bella, prudente e ragionevole regina, potrebbe nascondere simili faccende a un rospo, a un pipistrello, a un gattone come lui? Chi lo farebbe mai? No, a dispetto del buon senso e della segretezza, vi vedo già staccare il cesto attaccato al soffitto, farne scappare gli uccelli, poi saltare nel paniere come la scimmia della favola, per imitarli, e giù, pànfete, rompervi il collo. REGINA Se le parole son fatte di fiato e il fiato di vita, stai pur certo ch’io non ho tanta vita da fiatare una parola di ciò che m’hai detto. AMLETO Debbo andare in Inghilterra; lo sapete? REGINA Me 1’ero dimenticata, ahimè. Così è deciso. AMLETO Le lettere sono gia sigillate; e i miei due compagni di scuola, dei quali mi fido come di due serpi velenosi, portano il mandato. Tocca a loro due di farmi strada e guidarmi alle bricconate. Facciano pure; è divertente che 1’ingegnere salti in aria col suo stesso petardo. Voglio vedere se non mi riuscirà a scavare qualche palmo sotto alle loro mine e a scaraventarli nella luna. Sarà bellissimo 1’incontro di due diverse astuzie sulla stessa linea retta. Ecco 1’uomo che mi costringerà a far bagagli. Rimorchierò questa trippaglia nella stanza vicina. Buonanotte, madre. Ecco un consigliere che ciarlava troppo in vita sua, e ora sembra molto tranquillo, molto grave e discreto. Vieni, messere, fatti trarre a una conclusione. Buonanotte, madre.

Esce AMLETO trascinando il cadavere di POLONIO

(da Teatro completo di W. Skaespeare, a c. di G. Melchiori; I Drammi Dialettici, a c. di G. Melchiori, Milano 1997, trad. di E. Montale). MARIA SERENA SAPEGNO  M. S. Sapegno

AGOSTINO LOMBARDO, La domanda di Amleto in A. Lombardo, L’eroe tragico moderno. Faust, Amleto, Otello, Donzelli, Roma 2005

Un discorso su quest’opera così problematica e così complessa, così grande e così misteriosa e fin sfuggente, così shakespeariana e insieme così moderna, non può che essere una mera introduzione. Di altri drammi si può, forse, ridurre in qualche modo l’esperienza ad alcuni segni e tratti fondamentali, certo incompleti ma che pur posso- no restituire un’immagine del dramma e delle sue intenzioni, e suggerirne, almeno, il significato. Ma con Hamlet questa riduzione è impossibile: ci si ferma su un aspetto del- l’opera e del suo protagonista ed ecco che un altro, magari opposto, reclama imperio- samente d’essere espresso; si punta su un elemento ma un altro sta lì ad avvertirci che un’operazione del genere equivale, qui più ancora che in altri casi, a una frammenta- zione della forma totale. Sembrerebbe insomma che la ricchezza, la vitalità e poliva- lenza dell’opera sia tale da non sopportare, non dico la schematizzazione, ma una pura e semplice definizione. E tanto più poi in quanto il dramma, e anzi il personaggio (ché il pericolo della identificazione è sempre incombente), giunge a noi carico delle luci e delle ombre, delle sfumature e ambiguità e suggestioni che gli ha attribuito Shakespeare, ma anche di quelle, e degli innumeri significati, che gli hanno attribuito i poeti e i critici successivi. Nessuna opera e nessun personaggio, io credo, hanno eser- citato tanta influenza sulla vita della letteratura – non c’è scrittore o poeta, di qualsiasi lingua, che non abbia usato Amleto come simbolo, come metafora. Amleto non è più un personaggio drammatico ma è un mito – e per di più polimorfico, proteico. Amleto è sempre diverso, e se per Goethe era un uomo costretto ad affrontare una realtà eroi- ca senza avere la stoffa dell’eroe, Coleridge e Schlegel vedevano nel suo dramma una tragedia della volontà; per altri romantici, il pallido principe di Danimarca era un sim- bolo del loro Weltschmerz e della loro aspirazione all’infinito; per i decadenti e i sim- bolisti, l’immagine del loro spleen e noia e male di vivere; per gli artisti del Novecento, 1’emblema della moderna nevrosi e alienazione. Interpretazioni, queste e altre (e per esempio quelle di tipo psicanalitico) di cui è necessario tener conto, perché hanno tutte una loro ragion d’essere e una loro verità (basti pensare alla lettura freudiana), ma che d’altra parte non esauriscono il problema, ci offrono solo un aspetto, una faccia del personaggio (e dell’opera). Ciò che è ancora più vero delle rappresentazioni teatrali, per cui ogni attore, ogni regista, ogni interprete ci porge una nuova chiave di lettura – che ci viene anche da quei drammaturgi che nell’Amleto trovano molte delle proprie radici (e penso, in Italia, a Pirandello e ad Eduardo). In questa situazione quasi senza scampo, conviene allora aggrapparsi a qualche punto fermo, a qualche dato oggettivo. E il più solido è costituito dalla collocazione dell’Amleto nella situazione storica e culturale in cui nasce. Quest’opera universale, questa grande e autonoma immagine teatrale, questo cosmo poetico, questo «mito», è pur sempre il frutto di un artista che vive in un tempo, una società precisi, i cui temi e problemi Shakespeare immette nella sua opera, li rende parte, sostanza di essa. E inve- ro Amleto è grande tragedia proprio per questo rapporto da cui la sua “universalità” è sostanziata. Scritta tra il 1600 e il 1601 essa si colloca, anzitutto, in un momento cru- ciale della storia politica inglese, quando si è vicini alla morte di Elisabetta (che avverrà William Shakespeare, Amleto  nel 1603), la regina senza eredi che aveva fin qui tenuto in equilibrio le varie forze poli- tiche, sociali, economiche, religiose che formavano il tessuto della società inglese del tempo. L’avvicinarsi della fine del regno comporta dunque non solo l’inquietudine che sempre accompagna questi avvenimenti (a cui s’aggiunge quella prodotta dal mutar di secolo), ma una lotta per il potere, e gli intrighi, le congiure, le manovre di una classe politica in agitazione. E comporta poi la perdita di quell’equilibrio che la grande regi- na aveva ottenuto: nei decenni che seguiranno, le forze fin qui controllate verranno con prepotenza alla ribalta e si avranno la rivoluzione puritana e l’affermazione della borghesia. […] Ora però preme dire che l’importanza attribuita ad Amleto dal drammaturgo è il risultato e insieme la causa della straordinaria espansione che il problema di Bruto assume nell’Amleto. Affidata ad Amleto, la domanda che si poneva Bruto, se fosse giu- sto uccidere, agire, e quale fosse quindi il comportamento morale da assumere, si amplia in misura estrema: non solo quale è il bene e quale il male, ma che cosa è la vita e quali sono le sue ragioni, che cosa è l’uomo e quali sono le sue ragioni e il suo destino. Tutto l’Amleto è in verità una grande domanda, e forse la sola definizione che possa abbracciarne o almeno suggerirne il significato è quella che veda l’opera come immagine dell’uomo moderno, l’uomo (e l’intellettuale) di Montaigne, di Giordano Bruno, di Bacone che si pone di fronte al mistero della realtà e cerca di penetrarlo e, senza potersi appoggiare alle certezze del Medioevo, continuamente si chiede il signi- ficato delle cose e di tutto ciò che lo circonda e delle parole che lo dicono. Del resto tutti, non solo Amleto, qui, si fanno delle domande; il dramma brulica di domande, nessuno ha delle certezze, e a tutti la realtà offre mistero e ambiguità. Così gli uomini sugli spalti si chiedono le ragioni del loro stesso far la guardia; il Re e la Regina e Polonio si chiedono che cosa mai nasconda Amleto (che dunque è soggetto e insieme oggetto della domanda); la stessa Ofelia se ne pone, e non resiste all’urto. In effetti, il principio strutturale dell’opera è proprio questo: l’interrogazione, l’in- terrogarsi su di sé e sugli altri e sul mondo e sulla condizione umana che è di Amleto, e di ogni personaggio, e del pubblico, costretto a interrogarsi dalla dinamica del dramma.

Don Chisciotte di Miguel de Cervantes

Con molti dei generi narrativi in voga nel XVI secolo si cimenta Miguel de Cervantes y Saavedra (1547-1616), autore di un romanzo pastorale (La Galatea, 1585), di novelle in stile italiano (Novelle esemplari, 1613), di un romanzo bizantino (Le avventure di Persiles e Sigismonda, apparso postu- mo nel 1617) e di un libro straordinario, il Don Chisciotte (1605-1615), che non è ascrivibile a nessuno di questi generi, ma tutti li ingloba e rielabora in un’invenzione geniale che è all’origine del romanzo moderno. Soldato (combatte a Lepanto), prigioniero dei turchi ad Algeri per cinque anni, tor- nato in patria Cervantes lavora come esattore d’imposte, ha problemi con la giustizia, è processato e per tre volte imprigionato. Solo negli ultimi anni della sua vita, grazie al successo del Don Chisciotte, può dedicarsi com- pletamente alla scrittura e vedere pubblicate le sue opere, tra cui le mai rappresentate Otto commedie e otto intermezzi (1615). Nel 1605 viene pubblicata la Prima parte del Don Chisciotte, a cui fa seguito nel 1615 la Seconda parte, con cui l’autore pone fine alle avven- ture del suo eroe. Il Don Chisciotte si presenta innanzi tutto come un’in- vettiva contro i libri di cavalleria, seppure condotta sul filo dell’ironia. La critica a questo fortunato genere non era un’invenzione di Cervantes, ma rispecchiava l’opinione, diffusa tra i moralisti, che tali libri fossero men- zogneri e nocivi per l’anima, ed echeggiava un severo giudizio estetico che li reputava mal scritti, prolissi, pieni di esagerazioni inverosimili. Ep- pure nel Don Chisciotte non c’è personaggio che non sia lettore, appas- sionato o critico, di quelle opere e, tra lodi e censure, tutti esprimono il proprio parere, cosicché il romanzo ci appare da subito come una gran- de riflessione sulla letteratura, i suoi pericoli e i suoi piaceri. La condan- na esplicitata nel prologo si stempera a poco a poco e queste molteplici voci avvolgono i libri di cavalleria in un velo di ambiguità che permea l’intero romanzo. D’altronde, don Chisciotte è un eroe cavalleresco alla rovescia, che nulla ha a che fare con i modelli letterari a cui si ispira: non è giovane (ha circa cinquant’anni); non si muove negli spazi esotici e nei tempi remoti in cui  I. Ravasini si muovevano i protagonisti dei testi di cavalleria, bensì in luoghi prossimi e familiari («un paese della Mancia») e nei tempi presenti («or non è molto»); la sua genealogia è insignificante, di lui non sappiamo nulla tranne che è un povero hidalgo, un membro della piccola nobiltà, oltretutto decaduto, che fa fatica a mantenere la dignità del suo stato; l’unica sua occupazione è la lettura. Quando decide di diventare cavaliere errante, tutto in lui appa- re anacronistico e bizzarro: le armi sono quelle desuete dei suoi antenati, corrose dalla ruggine, e il suo destriero non è che un vecchio ronzino. Tuttavia don Chisciotte si muove, parla, agisce come gli eroi dei libri di cavalleria, da cui però si distingue per una totale libertà. I tempi in cui gli è toccato vivere, quelli della Spagna imperiale già sull’orlo della decaden- za, gli appaiono in tutta la loro vile miseria. In «questi… detestabili secoli» il personaggio sogna di soccorrere i deboli, raddrizzare i torti, imporre la giustizia e difendere la virtù, nobili ideali che non sono più attuali nella società del Seicento. La sua grandezza non sta nel voler riportare in vita valori ormai superati, bensì nel credere di poter trasformare in realtà un’u- topia che esiste solo nella finzione letteraria. Il mondo della realtà e quello ideale della cavalleria errante si sovrap- pongono e si scontrano in ogni avventura. Così l’eroismo di don Chisciotte si frantuma contro la banalità della vita quotidiana, con esiti spesso esila- ranti. Il divertimento che suscita la sua pazzia e il sorriso amaro che i suoi fallimenti provocano nel lettore scaturiscono proprio dalla sfasatura tra vita e letteratura. Questa discordanza si manifesta nel contrasto tra il cavaliere e il suo scudiero: nel loro fitto dialogare il linguaggio altisonante di don Chisciotte, intriso di letteratura, si oppone a quello colloquiale di Sancio, infarcito di proverbi e strafalcioni. I loro opposti punti di vista svelano la complessa ambiguità della letteratura e del mondo reale, osservati da due diverse prospettive, quella della pazzia trasfigurante di don Chisciotte e quella della saggezza contadina di Sancio (a cui si sommano anche gli sguardi degli altri personaggi). Se all’inizio la distanza tra i due sembra irri- ducibile, con il passare del tempo va diminuendo, specialmente nella Seconda parte, quando il potere immaginifico della follia di don Chisciotte sembra affievolirsi: mentre il cavaliere comincia a dubitare dei suoi ideali, Sancio inventa soluzioni cavalleresche che possano mantenere salda la fede sempre più vacillante dell’hidalgo. Lungo le strade della Mancia, don Chisciotte e Sancio incontrano per- sonaggi di ogni ceto sociale, coinvolti per caso nelle avventure del cava- liere, travolti dalla sua follia, di cui talora fanno le spese. Ognuno di loro è portatore di una storia e il romanzo diventa così lo spazio dove si intrec- ciano molteplici narrazioni, di stili e linguaggi diversi. Spesso gli incontri avvengono alla locanda, il luogo dove le strade si incrociano e anche le Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia  storie si annodano. Nell’ora del riposo, i personaggi mettono a nudo le loro vite (che non di rado hanno un sapore letterario, ricalcate come sono su avventure di pastori, novelle moresche, peripezie da romanzo bizanti- no), frammenti di esperienza che spesso si aggiungono e intrecciano ad altri racconti già ascoltati andando a formare un mosaico, in cui ogni voce apporta la sua parte di vero. Alle vicende dei personaggi si aggiungono poi stralci di letteratura – novelle lette a voce alta, poesie, racconti folclorici, spettacoli teatrali –, in una fitta trama di racconti e di voci. Tutte queste storie confluiscono in quella del protagonista, affidata alla parola di un narratore che, a sua volta, l’ha letta in un manoscritto arabo, rinvenuto per caso. Sfruttando un altro topos del romanzo di cavalleria, Cervantes inventa un meccanismo narra- tivo complesso, a scatole cinesi: la storia di don Chisciotte, tramandata dallo scartafaccio, è infatti opera di uno storico arabo, Cide Hamete Benengeli, cioè di un infedele miscredente, la cui attendibilità per uno spa- gnolo del Seicento è quanto meno sospetta; tale storia viene poi tradotta in castigliano da un interprete, arabo anch’egli, affinché sia comprensibile a un «secondo autore» (ovvero l’anonimo narratore di cui avvertiamo la voce) che a noi la racconta. Tre voci, dunque, che si sovrappongono mol- tiplicando i punti di vista, talora discordando tra loro, e che non sempre si rivelano «affidabili».

Don Chisciotte della Mancia La penitenza Prima parte, cap. XXV È questo il capitolo della Prima parte «che tratta delle strane cose che accaddero nella Sierra Morena al valoroso cavaliere della Mancia, e della imitazione che egli fece della penitenza di Beltenebroso». Con questo nome, Amadigi di Gaula, modello insuperabile di virtù cavalleresche secondo don Chisciotte, si era ritirato a fare penitenza dopo essere stato respinto dall’amata Oriana. Ispirandosi alla letteratura e ai suoi eroi predi- letti, don Chisciotte decide di affrontare anche lui, come Amadigi e come Orlando rifiutato da Angelica, la sua penitenza per meritare l’amore di Dulcinea del Toboso, sua signora. Si ritira così in un luogo ideale dove poter esprimere i propri lamenti, memore anche dei pastori arcadici e dei luoghi ameni in cui essi erano soliti dare sfogo alle pene d’amore. Sarà compito di Sancio, testimone di quest’avventura, dar conto a Dulcinea della dura prova, dovendo presentarsi al suo cospetto, latore di una lette- ra del cavaliere alla sua amata.  I. Ravasini Il motivo della penitenza dei cavalieri erranti ritorna ripetutamente nella letteratura cavalleresca europea. Se don Chisciotte compie i suoi riti con estrema serietà e non è disposto né ad abbreviarli, né a fingere, per non contravvenire agli ordini della cavalleria che impediscono atti menzogne- ri, Sancio osserva gli spropositi del padrone giudicandoli atti compiuti per scherzo, «cosa finta», e poi «stupidaggini o follie», «insensatezze» degne di chi ha perso il senno. La donna idealmente amata da don Chisciotte incarna tutti gli stereotipi della dama dei libri di cavalleria: è crudele, costringe l’amante alla lonta- nanza, ferisce il suo cuore, trasforma la sua vita in un allegorico inferno d’a- more. A lei il cavaliere chiede un atto di pietà, pronto però ad accogliere an- che il suo rifiuto, disposto a sopportare qualunque pena per colei che invo- ca come «giorno della mia notte, gloria del mio tormento…». La scoperta del- la vera identità di Dulcinea da parte di Sancio (il lettore ne era già stato infor- mato nel primo capitolo) ci consente di vederla ritratta non più attraverso il filtro dell’idealizzazione letteraria, ma tramite lo sguardo compiaciuto del contadino che ne rileva la forza, la corporatura muscolosa e la voce poten- te, la giovialità che nulla ha a che fare con gli sdegnosi atteggiamenti di una dama. All’eterea Dulcinea si contrappone la fisicità di Aldonza, al linguaggio nobile che le riserva don Chisciotte si sostituiscono i modi di dire grossola- ni, le esclamazioni e gli aneddoti prosaici ricordati da Sancio. Quando don Chisciotte parla di letteratura, si rivela un critico lucido e rigoroso. A eccezione dell’universo cavalleresco, che scatena in lui le rea- zioni più stravaganti, il resto della produzione letteraria è commentata dal cavaliere con sapienza ed equilibrio. È in questi momenti che percepiamo come in lui la saggezza conviva con la follia. Dinanzi all’irrimediabile distanza tra Dulcinea e Aldonza, don Chisciotte offre a Sancio una spiega- zione razionale: la realtà non coincide con la letteratura, per i poeti essa non è che uno stimolo, compito della poesia è proprio quello di trasfigu- rare il dato reale. Tuttavia, tale principio è smentito dal cavaliere a ogni avventura e dallo stesso Sancio, che con estrema facilità riesce a sovrap- porre le due donne (si veda con quale naturalezza immagina Aldonza che carda il lino e vede inginocchiarsi davanti a lei i cavalieri vinti, inviati da don Chisciotte). Con altrettanta facilità, don Chisciotte è disposto a pagare a Sancio l’a- sino che egli ha perduto: l’hidalgo non dimentica mai l’esistenza di un mondo dove i debiti vanno pagati e i torti risarciti in nome della giustizia. L’ideale universo della finzione letteraria cede il passo alla realtà con la giu- stapposizione delle due missive: la prima, in stile elevato e poetico, ridon- dante di formule e topoi cavallereschi, ispirata all’amore cortese, è il rove- scio della seconda, ancorata alla necessità di saldare un debito, scritta in Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia  un linguaggio burocratico, in cui l’assegno «asinino» ricorda a don Chisciotte l’imprescindibile presenza del vile denaro. La realtà, concreta e volgare, irrompe nell’universo cavalleresco, sta lì anche a ricordare al nostro eroe la miseria del suo tempo, la banalità del vivere quotidiano con- tro cui si infrange l’utopia cavalleresca. Il dialogo tra i due protagonisti, oltre a svelare opposte visioni del mondo, consente l’indottrinamento di Sancio. Spesso don Chisciotte si rivolge a lui con un tono didattico («Te l’ho già detto molte volte prima di ora…»; «Devi sapere…»), il suo linguaggio colto e forbito, appreso sui libri, si “abbassa” al livello di Sancio accogliendo aneddoti illustrativi ed esem- pi (dedotti anche dal patrimonio classico, come Elena e Lucrezia). Dal canto suo, lo scudiero è portatore di uno stile popolare, basato su una cul- tura orale; il suo parlato è intriso di modi di dire («cavar dai pasticci»; «por- tarselo via il diavolo»; «taglio la corda»), proverbi («non si deve parlar di corda in casa dell’impiccato»), espressioni volgari («figlia d’una grandissi- ma»), paragoni ispirati al quotidiano («più morbida d’un guanto… più ruvi- da d’un sughero»). Il suo rapporto con il sapere di don Chisciotte è ambi- valente: se il più delle volte fraintende e storpia le parole che apprende dal padrone (o quelle della cultura alta), a poco a poco si va imposses- sando del suo linguaggio (per esempio pretende di strappare a Dulcinea una risposta «dolce e melliflua»). L’ingenua credulità di Sancio ha tuttavia un ruolo importante: se è vero che egli guarda il mondo con gli occhi furbi e sagaci del contadino, è altrettanto vero che non esita ad accettare che Dulcinea e Aldonza siano la stessa persona, scambia per cronaca storica molte delle invenzioni caval- leresche o delle storie degli antichi che gli racconta don Chisciotte, si lascia conquistare dallo stile della lettera d’amore a Dulcinea e, alla fine, torna indietro per assistere a qualche capriola del suo padrone perché, forse, anche lui come i cavalieri erranti non vuole mentire. Mosso dalla pietà e dall’affetto per don Chisciotte, Sancio entra a poco a poco nel suo mondo ideale, impara a servirsene e alla fine, quando l’anziano cavaliere sul letto di morte rinnegherà la cavalleria errante, sarà lui a incitarlo a riprendere il cammino verso nuove avventure.

[…] – È questo il luogo, o cieli, che scelgo ed eleggo per piangere la sventura in cui proprio voi mi avete cacciato. È qui dove l’umore dei miei occhi dovrà accrescere l’acque di questo piccolo rivo, e i miei continui e profondi sospiri agiteranno senza posa le foglie di questi montani alberi, a testimonio e segno della pena che il mio oberato cuore patisce. O chiun- que voi siate, rustici dèi1 che in questo inabitabile luogo avete dimora, udite i lamenti di quest’infelice amante, che una lunga assenza e delle  I. Ravasini immaginarie gelosie hanno portato a lamentarsi fra queste balze, e a lagnarsi del duro cuore di quella bella ingrata, termine e frontiera di tutta l’umana bellezza. E voi, napee e driadi2, che avete per uso di abitare nei recessi dei monti, che i lievi e lascivi satiri da cui siete amate (ma invano) non turbino mai la vostra dolce quiete, aiutatemi a piangere la mia sven- tura o se non altro, non stancatevi di udirla. O Dulcinea del Toboso, gior- no della mia notte, gloria del mio tormento, bussola dei miei itinerari, stel- la della mia sorte, che il cielo a te la dia propizia in tutto ciò che gli chie- derai, considera il luogo e lo stato in cui la lontananza da te mi ha con- dotto, e corrispondi benignamente come la fedeltà mia lo merita. O soli- tari alberi, che da oggi in poi dovrete far compagnia alla mia solitudine, date indizi col blando muover dei rami, che la presenza mia non vi dispia- ce! E tu, scudiero mio, mio gradito compagno nei prosperi e negli avversi successi, tieni bene a mente ciò che qui mi vedrai fare, per poi raccontar- lo e riferirlo all’unica causa di tutto ciò. […] – E che devo vedere di più – disse Sancio –, dopo quello che ho visto? – Stai fresco, ancora! – rispose don Chisciotte –. Ora devo strapparmi i vestiti, disseminar l’armi e dar zuccate contro quelle rocce, e altre cose del genere, che devono farti meravigliare. – Per l’amor di Dio – disse Sancio –, stia bene attenta la signoria vostra a come si dà codeste zuccate, perché potrebbe capitare una roccia, e uno spi- golo tale, che bastasse la prima per porre fine a tutto il piano della peniten- za; e io sarei del parere che se proprio alla signoria vostra queste zuccate qui paiono indispensabili, e che in questa impresa non se ne può fare a meno, visto che tutto questo è cosa finta, contraffatta e per scherzo, si accontentas- se, dico, di darle nell’acqua, o in altra cosa morbida, nella bambagia, per esempio; e lasci fare a me, che dirò io alla mia signoria che la signoria vo- stra le dava contro la punta d’una roccia più dura di quella d’un diamante. – Io ti ringrazio della buona volontà, amico Sancio – rispose don Chisciotte –, ma voglio che tu sia conscio che tutte queste cose che io fac- cio non son per scherzo, ma verissime; perché altrimenti sarebbe un con- travvenire agli ordini della cavalleria, che ci impongono di non dire mai una menzogna, sotto pena di recidiva; e fare una cosa invece di un’altra è lo stesso che mentire. Quindi le mie zuccate dovranno essere vere, con- crete e valide, senza avere in sé nulla di sofistico o di fantastico. E sarà necessario che mi lasci alcune filacce3 per curarmi, poiché la sorte volle che ci venisse a mancare il balsamo che abbiamo perso. – […] Prego la signoria vostra di non pensare più a quel beveraggio maledetto4; che solo a sentirlo nominare mi si rivolta l’anima, nonché lo stomaco. E la prego inoltre di far conto che siano già trascorsi i tre giorni che mi ha dato di tempo per vedere le pazzie che fa, perché io faccio Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia  conto d’averle già viste e passate in giudicato5, e ne dirò meraviglie alla mia signora: perciò scriva la lettera e mi spedisca subito, perché ho un desiderio grandissimo di tornar presto a togliere la signoria vostra da que- sto purgatorio in cui la lascio. – Purgatorio lo chiami, Sancio? – disse don Chisciotte –. Faresti meglio a chiamarlo inferno, e anche peggio, se c’è nulla che lo sia. – A quanto ho sentito dire – disse Sancio –, per chi ha inferno, nulla es retenzio6. – Non capisco che vuol dire retenzio – disse don Chisciotte. – Retenzio è – rispose Sancio – che quando uno sta all’inferno non ne esce e non ne può uscire più. Invece per la signoria vostra è il contrario, se ho gli sproni per sollecitare Ronzinante. O dovrebbero cadermi le gambe! E lasci che arrivi io al Toboso, e in presenza della mia signora Dulcinea, e le dirò tali cose sulle stupidaggini o follie (che è tutt’uno) che la signoria vostra ha fatto e continua a fare, che la farò diventare più mor- bida d’un guanto, quand’anche la trovassi più ruvida d’un sughero; e con la sua dolce e melliflua risposta, io tornerò per l’aria come un mago, e strapperò la signoria vostra da questo purgatorio, che sembra inferno ma non lo è, poiché vi è la speranza di uscirne, mentre, come ho detto, non ce l’hanno di uscire coloro i quali si trovano nell’inferno, né credo che la signoria vostra può dire il contrario. – È verissimo – disse il Cavaliere dalla Trista Figura –; ma come fare per scrivere la lettera? – E anche l’ordine di versamento asinino7, no? – aggiunse Sancio. – Ci sarà anche quello – disse don Chisciotte –; e poiché non c’è carta, sarebbe il caso che scrivessimo, come facevano gli antichi, su foglie d’al- beri o su tavolette di cera, ma trovare di queste cose ora non sarà meno difficile che trovar la carta. Ma, ecco, m’è venuto in mente dov’è che sarà bene, anzi ottimo, scriverla: sul taccuino d’appunti di Cardenio8; tu avrai poi cura di farla tradurre su un foglio, in bella calligrafia, nella prima bor- gata che troverai, in cui vi sia un maestro di scuola di ragazzi; altrimenti qualsiasi sacrestano te la potrà ricopiare; ma non darla a copiare a nessu- no scrivano, perché scrivono tutto attaccato9, in modo che non ci capireb- be nulla neanche Satanasso. – E con la firma come si fa? – disse Sancio. – Le lettere di Amadigi10 non erano mai firmate – rispose don Chisciotte. – Sta bene – rispose Sancio –; ma l’ordine di versamento asinino dev’es- sere firmato per forza, perché se lo ricopia, diranno che la firma è falsa, e resto senza ciuchi. – L’ordine di consegna avrà la firma sullo stesso taccuino, e mia nipo- te, vedendola, non troverà difficoltà a effettuarla. Per quanto riguarda inve-  I. Ravasini ce la lettera d’amore, ci metterai per firma: «il vostro fino alla morte, Cavaliere dalla Trista Figura». E non fa nulla che sia di altra mano, perché, per quel che posso ricordarmi, Dulcinea non sa né leggere né scrivere, e in tutta la sua vita non ha mai visto la mia scrittura, né alcuna lettera mia, perché il mio ed il suo amore son sempre stati platonici, senza mai andar oltre degli onesti sguardi. E anche questi, così di tanto in tanto, che potrei veracemente giurare che in dodici anni che son trascorsi dacché l’amo più della luce di questi occhi, che la terra consumerà, non l’avrò vista in tutto quattro volte, e di queste quattro può darsi che lei non se ne sia accorta nemmeno una che la guardavo; tanta è la modestia e la vita ritirata in cui l’hanno educata suo padre Lorenzo Tappo e sua madre Aldonza Noci. Oh, oh! – disse Sancio –. La figlia di Lorenzo Tappo è dunque la signo- ra Dulcinea del Toboso, conosciuta sotto altro nome come Aldonza Lorenzo? – È proprio lei – disse don Chisciotte –, ed è colei che merita d’esser signora di tutto l’universo. – La conosco bene – disse Sancio – e posso dire che scaglia una sbarra di ferro meglio del più forzuto giovanotto di tutto il paese. Ah, per il Creatore, se non è una ragazza in gamba, un pezzo di donna ben piantata che saprebbe cavar dai pasticci qualsiasi cavaliere errante, o in procinto di errare, che volesse averla per dama. Figlia d’una grandissima, che muscoli che ci ha, e che voce! Quello che le posso dire è che una volta salì sulla torre campanaria del paese a chiamare certi suoi garzoni che lavoravano su un fondo di suo padre, e benché stessero lontani più di mezza lega, la sen- tirono come se fossero stati ai piedi della torre. Ma quello che ha di buono è che non è affatto smorfiosa, e ha modi da cittadina: scherza con tutti e di tutto ride e si beffa. E però dico, signor Cavaliere dalla Trista Figura, che la signoria vostra non solamen te può e deve far pazzie per lei, ma è più che giustificato se si dispera e se s’impicca: che non ci sarà nessuno che, sapen- dolo, non l’approvi, dovesse anche portarselo via il diavolo. Vorrei essere già in cammino, per rivederla; che è parecchio che non la vedo, forse è cambiata, perché a star sempre in campagna, al sole e all’aria la faccia delle donne si rovina. E devo confessarle una cosa, signor don Chisciotte: che finora sono stato in un grande errore, perché in verità, e in buona fede, ero convinto che questa signora Dulcinea fosse qualche principessa di cui lei fosse innamorato, o una persona così elevata da meritare i ricchi doni che la signoria vostra le ha inviato, come il biscaglino e i galeotti11, e ve ne saranno stati certamente molti altri, quante saranno state le vittorie che la signoria vostra ha riportato in tutto il tempo che io non ero ancora suo scu- diero. Però, pensandoci bene, che gliene importerà alla signora Aldonza Lorenzo, volevo dire: alla signora Dulcinea del Toboso, che dinanzi a lei Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia  vadano a inginocchiarsi i vinti che la signoria vostra le manda e seguiterà a mandarle? Perché, magari, potrebbe darsi che arrivassero proprio mentre lei sta cardando il lino o trebbiando sull’aia, ed essi vedendola si vergognas- sero, o lei si burlasse o si risentisse del dono. – Te l’ho gia detto molte volte prima di ora, Sancio – disse don Chisciotte –, che sei un gran chiacchierone e pur essendo vuoto di cervel- lo, spesse volte pretendi di fare il furbo; ma affinché tu veda quanto sei sciocco, e quanto io invece sia savio, voglio farti sentire un breve aned- doto. Devi sapere che una bella vedova, giovane, libera e ricca, e soprat- tutto sfrontata, s’innamorò d’un giovane converso12 muscoloso e tarchiato; lo venne a sapere il priore e un giorno disse alla vedova con tono di fra- terna riprensione: «Mi meraviglia molto, signora, e a ragion veduta, che una donna della sua posizione sociale, bella e ricca come lei, si sia innamora- ta di un uomo così spregevole, volgare e idiota com’è Tizio, quando in questo stesso convento c’erano tanti dottori, tanti laureandi e tanti teologi fra cui lei avrebbe potuto scegliere come se fossero state pere, e dire: “que- sto lo prendo, quest’altro no”». Ma essa gli rispose con spiritosa sfacciatag- gine: «la signoria vostra è in errore, ed è molto antiquato se pensa che io abbia scelto male Tizio, perché a lei pare un idiota; perché per quello che serve a me, sa tanta e più filosofia che Aristotele». Cosicché, Sancio, per come l’amo io, Dulcinea del Toboso vale quanto la più alta principessa della terra. Del resto non tutti i poeti che celebrano dame sotto un nome che scelgono di testa loro, le hanno effettivamente. Credi tu che le Amarilli, le Filli, le Silvie, le Diane, le Galatee, le Fillidi e altrettali, di cui i libri, le romanze, le botteghe dei barbieri, i teatri comici risuonano, siano state realmente delle dame in carne ed ossa, e di quelli che le celebrarono e le celebrano? No, di certo; che per lo più se le inventano, per dare un sog- getto ai loro versi, o perché li considerino innamorati e quindi per uomi- ni capaci di esserlo. Perciò a me basta pensare e credere che la buona Aldonza Lorenzo sia bella e sia onesta; e in quanto al lignaggio, poco importa; perché tanto, non devono assumere informazioni per darle qual- che titolo onorifico13, e io per me ritengo che è la più alta principessa del mondo. Perché devi sapere, Sancio, se non lo sai, che due sole cose, sopra tutte le altre, spingono ad amare: e son la grande bellezza e la buona repu- tazione; ed entrambe queste cose si ritrovano in sommo grado in Dulcinea, perché per bellezza non la raggiunge nessuna; e quanto a buona reputa- zione, assai poche le possono star vicino. Insomma, io immagino che sia come dico, senza nulla da aggiungere né da levare, e me la dipingo nella mente come la desidero, sia per bellezza che per grado, e non le può star vicina Elena14, né la raggiunge Lucrezia15, né alcun’altra delle donne famo- se delle preterite16 età, greca, barbara o latina. E dica ciascuno quel che gli  I. Ravasini pare; che se per questo gli ignoranti potranno trovar da ridire su di me, il più severo degli intelletti non saprebbe condannarmi. – Io dico che ci ha ragione la signoria vostra – rispose Sancio –, e che io sono un asino. Non so proprio perché vien fatto alla mia lingua di nominare l’asino, visto che non si deve parlare di corda in casa dell’im- piccato. Ma mi dia la lettera e addio: taglio la corda. […] – Dice così, ascolta – disse don Chisciotte.

LETTERA DI DON CHISCIOTTE A DULCINEA DEL TOBOSO Sovrana ed alta signora: Il ferito dalle punte di lancia della lontananza, e il piagato nelle fibre del cuore, dolcissima Dulcinea del Toboso, ti augura la salute che non ha17. Se la bellezza tua mi tiene in spregio, se non è a mio favore la tua virtù, se non è riservato altro che il tuo disdegno alla mia sollecitudine, per paziente che io sia, mal mi potrò sostenere in quest’ambascia18, che oltre a essere forte, è così tenace. Dal mio buon scudiero Sancio avrai relazione fedele, o bella ingrata, o amata nemica mia!, delle condizioni in cui resto per causa tua: se ti piacesse soccorrermi son tuo; e se no, fa’ quel che meglio ti aggrada, che ponendo fine alla mia vita io non farò che soddisfare la tua crudeltà e la mia aspirazione. Il tuo fino alla morte CAVALIERE DALLA TRISTA FIGURA. – Sull’anima di mio padre – disse Sancio ascoltando la lettera –, è la cosa più egregia che io abbia mai udito. Accidenti come la signoria vostra le dice lì tutto quello che vuole, e come ci azzecca bene la firma: Cavaliere dalla Trista Figura. Non c’è che dire, la signoria vostra è proprio il diavolo in persona, e non c’è cosa di cui non s’intenda. – Ci vuole di tutto – rispose don Chisciotte –, per la professione che faccio. – Allora – disse Sancio –, la signoria vostra aggiunga sull’altra facciata la cessione dei tre ciuchi e ci metta una firma ben chiara, in modo che veden- dola la riconoscano. – Concesso – disse don Chisciotte. E dopo averla scritta, gliela lesse; e diceva così:

Per quest’assegno asinino disponete, egregia nipote, che ne siano versati all’ordine di Sancio Panza, mio scudiero, tre dei cinque che ho lasciati in casa e che vi sono affidati. Detti tre asini, ordino che siano rilasciati e paga- ti per altrettanti che ho qui ricevuto in contanti; e che con la presente e con la quietanza di pagamento saranno scaricati in perfetta regola. Datata nel cuore della Sierra Morena, addì ventidue di agosto del presente anno. Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia  – Sta benissimo – disse Sancio –: lo firmi. – Non c’è bisogno di firmarlo – disse don Chisciotte –: la mia rubrica, che equivale alla firma, basta non per tre, ma per trecento asini. – Mi fido della signoria vostra – rispose Sancio –. Ora mi lasci andare a sellare Ronzinante e si prepari a darmi la sua benedizione; perché voglio partir subito, senza vedere le insensatezze che la signoria vostra farà; tanto, io dirò che gliene ho viste far tante, che più non se ne può vedere. – Per lo meno, io voglio, Sancio, poiché ciò è necessario, voglio, dico, che tu mi veda nudo, far una o due dozzine di pazzie, che non ci vorrà neanche mezz’ora a farle, di modo che avendole viste coi tuoi occhi, possa giurare senza pregiudizio su quelle che tu vorrai aggiungere; e puoi stare tranquillo che non potrai dirne tante quante io ho intenzione di farne. – Per l’amor di Dio, signor mio, non voglio vedere nuda la signoria […]; se proprio ci tiene che io le veda fare alcune pazzie, le faccia vestito, e siano spicciative e limitate allo stretto necessario. Tanto più che per me non ce n’era proprio bisogno e, come già ho detto, sarebbe stato un abbreviare il tempo del mio ritorno, che dovrà essere con le notizie che la signoria vostra desidera e merita. E se no, stia in guardia la signora Dulcinea; che se non risponde a dovere, faccio voto solenne, so io a chi, che le caverò una buona risposta dalla pancia a furia di calci e di schiaffi. Perché, come si può sopportare che un cavaliere errante così famoso come lei diventi pazzo, di punto in bianco, per una…? Ah, non me lo faccia dire, la signora!, che se perdo io il ritegno non mi fa niente che ci rimetto, ma va tutto all’aria! E m’hanno trovato giusto! Non mi conosce! Come una cre- sima santa mi tratterebbe, se sapesse chi sono! – Si direbbe, parola mia – disse don Chisciotte –, che tu non sia affatto più saggio di me. – Non sono tanto pazzo – rispose Sancio –; ma sto più arrabbiato. […] E salito su Ronzinante, […] se ne andò, sebbene don Chisciotte gli faces- se insistenze perché gli vedesse fare almeno un altro paio di pazzie. Ma non aveva fatto cento passi, che tornò indietro e disse: – Trovo, signore, che la signoria vostra diceva bene: che perché io possa giurare senza carico di coscienza che le ho visto far pazzie, sarà bene che ne veda almeno una, benché sia già abbastanza grossa quella che le vedo fare, di restar qui. – Non te l’avevo detto io? – disse don Chisciotte –. Aspetta, Sancio, che le farò in un baleno. E levatisi in fretta i calzoni, restò in camicia e carne nuda e sull’istante diede due calci all’aria e due capitomboli a testa in giù e i piedi in alto, scoprendo cose che, per non doverle vedere di nuovo, Sancio voltò le bri- glie a Ronzinante e si ritenne pago e contento di poter giurare che il suo  I. Ravasini padrone era uscito pazzo. E così lo lasceremo andare per la sua strada, fino al suo ritorno, che sarà fra poco. (da M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. a cura di V. Bodini, Einaudi, Torino 1957).

Note 1. rustici dèi: ‘divinità dei campi’. 2. napee e driadi: ninfe, creature femminili del mito greco abitatrici dei boschi. 3. filacce: insieme di fili derivati dalla sfilacciatura di un tessuto logoro. 4. beveraggio maledetto: si riferisce a un balsamo di cui don Chisciotte era entrato in posses- so e che aveva poi perduto. L’hidalgo ripone la più assoluta fiducia nelle sue virtù terapeutiche: non così Sancio che, dopo aver provato la disgustosa pozione, ne ha riportato disastrose conse- guenze. 5. passate in giudicato: ‘giudicate in modo definitivo’. 6. nulla es retenzio: Sancio storpia le parole dell’Ufficio dei defunti «Quia in inferno nulla est redemptio» (‘poiché nell’inferno non vi è alcun riscatto’) che ha sentito senza capire e che ha memorizzato a modo suo. È uno dei tipici strafalcioni del parlato popolare proprio dello scudie- ro che provoca la richiesta di spiegazioni da parte di don Chisciotte. 7. ordine di versamento asinino: si riferisce alla cedola di donazione di tre asini che don Chisciotte ha promesso a Sancio, il quale ha perduto il suo animale. 8. cardenio: è un giovane innamorato, impazzito per un amore infelice, che si aggira dispera- to fra i monti della Sierra Morena, con gli abiti laceri, vittima di improvvisi attacchi di follia. Don Chisciotte lo ha conosciuto nei capitoli precedenti, entrando in possesso dei suoi pochi averi; ai suoi gesti inconsulti e alla sua vita tra le aspre rupi montane si ispira, in parte, la penitenza del vecchio cavaliere. 9. tutto attaccato: don Chisciotte fa riferimento alla scrittura cancelleresca usata dagli scrivani nei processi o negli atti notarili, particolarmente difficile da decifrare. 10. Amadigi: Amadigi di Gaula, eroe del più famoso libro di cavalleria spagnolo, oggetto di ripetute rielaborazioni nel corso del XIV e XV secolo e poi pubblicato nella versione definitiva di García Rodríguez de Montalvo agli inizi del Cinquecento. 11. ricchi doni … galeotti: allusioni a precedenti avventure: dopo aver battuto a duello uno scudiero biscaglino, cioè originario della Biscaglia (oggi nei Paesi Baschi), e dopo aver liberato dei pericolosi galeotti dai ceppi della giustizia, don Chisciotte aveva ingiunto all’uno e agli altri di recarsi al cospetto di Dulcinea e rendere omaggio alla sua bellezza, a imitazione di quanto avve- niva nei libri di cavalleria. 12. converso: frate laico, quindi non sacerdote, addetto ai lavori manuali. 13. e in quanto al lignaggio … onorifico: per entrare negli ordini militari e religiosi, o per avere un titolo onorifico, era necessario documentare la propria limpieza de sangre con opportune indagini genealogiche. 14. Elena: Elena di Troia, emblema della bellezza. 15. Lucrezia: matrona romana che, violentata da Tarquinio il Superbo, si diede la morte per salvare il proprio onore; è simbolo di castità e di virtù. 16. preterite: ‘passate’. 17. il ferito … che non ha: saluto topico nell’esordio delle lettere di amanti infelici, che si trova già in Ovidio, ripetuto infinite volte nella lirica cortese e nel romanzo sentimentale. 18. ambascia: ‘grave difficoltà’. INES RAVASINI Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia 

FRANCISCO RICO, Don Chisciotte della Mancia, ovvero la storia del romanzo in Il romanzo, vol. IV Lezioni, a c. di F. Moretti, P. V. Mengaldo, E. Franco, Einaudi, Torino 2003

[…] Il contrasto tra il mondo del romance di cavalleria e quello della finzione rea- lista si manifesta in Cervantes sin dall’appellativo dell’eroe. Il nome «Quijote» è forma- to sul modello del celebre «Lanzarote» della materia di Bretagna («Lancillotto, Tristano e gli altri erranti… »), ma in spagnolo il suffisso -ote si applica di solito a termini ridi- coli o giocosi, e combinandosi con «Quijada» o «Quijano», cognomi piuttosto frequenti, produce un ibrido che equivale a una dichiarazione di principi: «Don Quijote» pone terra terra le chimere cavalleresche (il termine quijote indica anche un pezzo minore dell’armatura), con una comica distorsione dell’ideale del romance – l’immagine grot- tesca di un paladino en pantoufles. D’altra parte, Alonso Quijano, modesto hidalgo di paese, appartiene alla piccolissima nobiltà che non ha diritto all’uso del don: appro- priandosene, si assimila ai cavalieri della finzione e allo stesso tempo si promuove alla classe dei caballeros ricchi, un grado sopra il suo nella scala sociale. Quanto poi all’a- rida e solitaria Mancia, dimenticata tra la nobile Castiglia e la vivacissima Andalusia, essa promette di essere la più inadeguata delle cornici per «l’arme, gli amori, le corte- sie, l’audaci imprese». La tensione tra i due poli del romance e della realtà quotidiana costituisce così la sostanza stessa del Chisciotte; e se si ritiene che «la storia del romanzo […] poggia […] sul dialogo secolare fra la rappresentazione idealizzata dell’esistenza umana e la diffi- coltà di misurarsi con questo ideale» – allora si capisce come il romanzo di Cervantes anticipi e compendi tutta la sua traiettoria storica. Il protagonista, la trama, lo stile, la «tesi», il tono, sono tutte cristallizzazioni, a diversi livelli, della proposizione di base. È ovvio, ad esempio, che sotto la maschera di «don Chisciotte» vi è sempre «Alonso Quijano», e che il lettore gode in sol tempo della pazzia dell’uno, delle buone ragioni dell’altro e del paradosso che essi convivono nello stesso individuo. Allo stesso modo, la trama è fatta di episodi dove le visioni cavalleresche nate dalla fantasia dell’eroe (o promosse da terzi) si scontrano con gli ostacoli frapposti dalla vita reale; e dove l’alti- sonanza libresca convive con la naturalezza del linguaggio comune, tanto da parte del narratore (o dei presunti narratori) quanto dei personaggi, in una molteplice distanza ironica. Non è necessario insistere su cose tanto note, ma val la pena di ricordare che il fine dichiarato del Chisciotte, espresso nel prologo, è denunciare le «assurde favole» dei «libri di cavalleria» mediante una scrittura che, pur non sottoposta all’«esattezza della verità», mira tuttavia al «gusto di rappresentare le cose [imitación]». Non ci troviamo dunque di fronte alla “storia” aristotelicamente intesa, né alla “poesia” del classicismo, ma piutto- sto di fronte a un compromesso tra l’una e l’altra: nel mantenere l’aspirazione «a lo general» che è tipica della poesia, la «escritura» promessa nel prologo si compiace a «lo particular» proprio della storia. Si tratta qui della versione cervantina di un concetto – la verosimiglianza – che la teoria letteraria del Cinquecento aveva via via precisato, nell’intento di sposare l’orto- dossia di Aristotele con l’Orlando furioso e la sua discendenza. La questione era stata dibattuta soprattutto in rapporto all’epica (antica e moderna), e alla possibilità di con-  I. Ravasini ciliare la «piccola» e la «grande» storia, i fatti pubblici, risaputi, e quelli privati, inacces- sibili. Per Cervantes la verosimiglianza consiste da un lato in una certa congruenza interna della favola, che detta passo dopo passo le condizioni che la rendono ammis- sibile per il lettore, e dall’altro nell’attenzione alla trama normale dell’esistenza, agli ele- menti minuscoli che accompagnano anche gli eventi più straordinari. […] L’esigenza di rispettare la verità «minore» della finzione, le «parole scritte in piccolo» del vivere, risponde in Cervantes ad alcune premesse generali della teoria letteraria, ma nel Chisciotte si appoggia ancora più decisamente sull’intenzione parodistica e sulla giocosa pretesa di storicità. Basta ricordare la «celata a incastro» (l’elmo che doveva incastrarsi nell’armatura) che il protagonista costruisce faticosamente … e si disfa al primo colpo di spada […] È così che i sogni cavallereschi di don Chisciotte s’infrango- no di continuo contro le resistenze materiali della vita reale, che i lettori ben conosco- no. L’effetto comico che ne consegue ha, per così dire, un «rovescio» negativo (la criti- ca dell’inverosimiglianza del romance), e un «dritto» positivo nell’interesse alle circo- stanze quotidiane, che assumono rilievo e centralità sfuggendo all’oblio cui le aveva consegnate la dottrina tradizionale. L’inserimento dei personaggi nell’ambito quotidia- no dell’esistenza funziona a sua volta come garanzia della veridicità del racconto: i det- tagli di spazio, tempo, comportamento, l’esattezza circa le umili cose concrete contri- buiscono tutte a dimostrare che anche la trama principale è fededegna. Questa minu- ziosità è in buona misura burlesca e spesso diventa a sua volta oggetto di parodia; ma l’esagerazione serve a rafforzare la credibilità dei particolari. Faust di Johann Wolfgang Goethe

Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) ebbe un’enorme influenza sulla cultura europea a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, ma la sua figura non può essere circoscritta a nessun momento o corrente culturale in par- ticolare, sia perché lo scrittore visse molto a lungo, sperimentando profon- di cambiamenti politico-sociali e culturali, sia perché le sue straordinarie caratteristiche di vitalità e di creatività ne fecero l’interprete e il propaga- tore di diverse tendenze letterarie e di gusto. Nel 1770 a Strasburgo, dove studia giurisprudenza, Goethe conosce il geniale critico letterario e filosofo della storia Johann Gottfried Herder (1744-1803), di cui diventa maestro e amico. Da questo incontro, dalla sco- perta dell’architettura gotica e della poesia di Shakespeare (argomenti a cui Goethe dedica dei saggi) e di una nuova sensibilità rispetto alla natura, nasce il movimento dello Sturm und Drang, di cui Herder è uno dei mas- simi teorici e Goethe uno dei principali esponenti. Tra il 1770 e il 1775 scri- ve liriche (Inni), drammi nei quali si rappresenta in modo nuovo l’energia dell’individuo nel rapporto con la natura (Prometeo), un romanzo che narra le passioni amorose (I dolori del giovane Werther, 1774) e la prima redazione della tragedia Faust (1808). Negli anni in cui è precettore del giovane duca di Weimar, dal 1776 al 1786, lo scrittore sperimenta la responsabilità politica e s’interessa di scien- za naturale, uscendo dalla posizione del giovane ribelle per misurarsi con la dimensione adulta e la delusione amorosa. Parte poi per un lungo viag- gio in Italia da cui torna profondamente mutato. Al ritorno a Weimar nel 1788, infatti, si trova a disagio a corte, viaggia molto, scrive satira politica contro la Rivoluzione francese e si lega in un profondo rapporto con Friedrich Schiller. Il rapporto intellettuale tra i due scrittori è fecondo per entrambi e pone le basi di una nuova concezione della cultura tedesca, fondata su un’idea altissima dell’arte come guida a un’armonia umana superiore. Sostanziata dalla passione storica e dalla filosofia di Kant, Fichte e Schelling, l’arte diviene così educazione a una politica basata sulla ragione. In tale stimo-  M. S. Sapegno lante sodalizio intellettuale Goethe scrive su riviste, riprende e completa l’opera giovanile Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795-1796) e torna alla poesia. Negli ultimi decenni della sua vita l’autorità di Goethe è ormai indi- scussa, ma la sua posizione nella cultura tedesca risulta isolata. Continua a lavorare tutta la vita al Faust e alla propria autobiografia (Poesia e verità, 1809-1814), pubblica Le affinità elettive (1809) e gli Anni di vagabondag- gio di Wilhelm Meister (1819), oltre a molte composizioni liriche. I due ulti- mi romanzi, tuttavia, non riscuotono successo di pubblico; in particolare, a sentirli estranei sono i giovani romantici che avevano tanto apprezzato il Werther e che ora, nelle nuove vicende dell’eroe borghese che finisce per integrarsi nella società, vedono tradito l’ideale del «forte sentire».

Faust L’opera, considerata il più importante dei drammi non solo di Goethe ma anche della letteratura moderna dopo Shakespeare, ha occupato, a più riprese, tutta la vita dello scrittore: cominciata infatti nel 1773, e conclusa soltanto l’anno prima della morte (1831), è stata pubblicata in due parti, una nel 1808 e l’altra postuma. La centralità del Faust nella vita e nella fama di Goethe è dovuta all’importanza emblematica del tema centrale: l’insof- ferenza dell’uomo e dell’intellettuale per i limiti della conoscenza, la sua sete inestinguibile del nuovo, il suo rifiuto ad accontentarsi del già noto. Rielaborando un’antica leggenda popolare, ma anche testi “colti” a lui più vicini, come il dramma La tragica storia del Dottor Faustus (1590) di Marlowe e soprattutto quello di Lessing (Il dottor Faust, 1759 ca.), Goethe rappresenta il patto stretto fra l’intellettuale Faust e il demonio, Mefistofele: se questi sarà in grado di offrirgli qualcosa che possa affascinarlo tanto da spingerlo a voler fermare il tempo (dicendo all’attimo: «Fermati, sei bello!»), la sua anima gli apparterrà. Simbolicamente Faust rappresenta la spinta titanica che vuole spostare i limiti sempre oltre e che alcuni critici letterari hanno letto come sete illimitata di potere, ma anche come spinta della bor- ghesia nella sua fase imperialistica: “faustismo” sta perciò a significare anche indifferenza al piacere, incapacità alla relazione umana, sete di danaro o potere fine a se stesso. L’amore per Margherita implica inoltre il contrasto tra la semplicità del mondo della giovane e dei suoi sentimenti da un lato, e dall’altro la supe- riorità intellettuale e sociale di Faust, che esprime nostalgia e un misto di attrazione/repulsione per i valori che la fanciulla rappresenta. Nonostante la genuinità del suo sentimento, Faust non può accettarlo: il suo atteggia- mento di sfida assoluta non può che distruggere e il figlio nato da quell’a- Johann Wolfgang Goethe, Faust  more viene infatti ucciso. Si crea così una contraddizione radicale tra il mondo degli affetti e quello della vita intellettuale. La tragedia, nella sua difficoltà e complessità, rende bene la contraddit- toria ricchezza dell’universo del suo autore: l’uomo nella sua grandezza è al centro di tutto, con la sua apertura a ogni tipo di esperienza possibile, intellettuale ed emotiva. L’arte, massimo risultato dello spirito borghese, può e deve rappresentare ogni aspetto della vita umana e renderlo perciò conoscibile, con tutti i suoi limiti. Tale carattere “enciclopedico”, porta a una struttura del testo non del tutto risolta. In particolare nella seconda parte del dramma i grandi temi stanno uno accanto all’altro. Alcuni vengono solo sfiorati e saranno ripre- si più avanti da altri autori: la ricchezza che porta alla disumanità, la scien- za che vuole creare la vita, la conquista di nuovi territori e il superuomo. Anche la scena finale chiude il dramma lasciando irrisolta l’ambiguità profonda delle ragioni della salvezza di Faust, dopo la morte: è l’amore di Margherita che lo ha salvato o è Faust stesso che alla fine ha vinto la sua scommessa senza mai cedere all’appagamento?

L’insoddisfazione di Faust Parte I, vv. 482-585 È l’inizio della prima parte del dramma. Faust è nel suo studio, insoddisfatto di ciò che sa: tutto gli sembra inutile e nulla gli dà più piacere. La ricerca di qualcosa di più profondo lo porta a consultare i suoi libri e resta così affascinato dai simboli del Macrocosmo e poi dello Spirito della Terra, che finisce per invocare. Nel dialogo tra Faust e lo Spirito è sottolineata soprattutto la contraddittorietà di Faust, che desidera misurarsi con l’essere soprannaturale che gli sta dinnanzi e si sente all’altezza di farlo, ma allo stesso tempo è frenato da timori e paure; lo Spirito avverte questo contrasto, e lo rimarca con espressioni ironiche. L’intervento di Wagner, il servo di Faust, fa da contrappunto alla scena precedente, introducendo il punto di vista borghese, con il suo pragmatismo. Wagner, infatti, rispet- to a Faust e alla sua ansia di elevatezza, rappresenta l’altra faccia dell’umano, che non ha nulla in comune con lo Spirito: l’occhio pratico e borghese sul mondo, di cui Goethe riconosce la legittimità, ma a cui si sente superiore. Il servo utilizza dunque argomenti dotati di una loro logica e di una loro coerenza, criticando, in primo luogo, la tipica separatezza dell’intellettuale rispetto al mondo, che gli impedisce di intervenire attiva- mente nella realtà e di modificarla. A Faust, che sostiene la necessità di scavare nella propria interiorità per trovare le parole giuste che hanno il potere di far presa sugli uomini, Wagner ribatte con due topoi intellettuali importanti. Cita il detto oraziano «l’arte è lunga, la vita breve», ribadendo, in opposizione alla prospettiva spirituale di Faust, l’importanza degli aspetti pratici dell’arte; poi si riferisce allo «spirito dei tempi», tipica formula dello storicismo tedesco, esprimendo l’ottimistica fiducia verso la moder-  M. S. Sapegno nità e il progresso, che poggiano le loro basi sulla saggezza degli antichi. Faust gli oppo- ne invece l’impossibilità di conoscere davvero il passato, mettendo così in discussione anche le acquisizioni del presente, che su quel passato si fondano. Faust prende il libro e con accento di mistero pronuncia il segno dello Spirito. Guizza una fiamma (rossastra), nella fiamma appare lo Spirito

LO SPIRITO Chi mi chiama? FAUST (Volgendosi) Viso tremendo! LO SPIRITO Era potente il tuo scongiuro. A lungo la mia sfera tu hai aspirata. E ora… FAUST Ah, e non reggo a guardarti! LO SPIRITO Tu invochi, ansante, di vedermi, di udire la mia voce, di guardare il mio volto. Mi inclina a te la preghiera potente della tua anima: eccomi! Che spavento pietoso, superuomo, ti stringe? Dov’è il grido dell’anima? Dov’è quel cuore che evocava un mondo in sé e lo portava e lo reggeva? Che in un tremito di gioia cresceva ad eguagliare noi, gli Spiriti? Dove sei, Faust? E mi aveva chiamato, la tua voce, e con tutte le tue forze t’eri avventato a me. Sei tu che al tocco del mio alito tremi nel fondo del tuo essere, verme spaurito che si torce? FAUST Devo cederti, spettro di fiamma? Sono io, sono Faust, pari a te! LO SPIRITO Nelle ondate della vita, nel tumulto dell’azione, salgo, discendo, vado, ritorno. Nascita e tomba. Un mare eterno. Una mobile trama. Una vita rovente. Così al telaio sibilante del tempo lavoro al Divino la veste vivente. FAUST Tu che scorri il mondo grande, operoso Spirito, quanto a te mi sento simile! LO SPIRITO Allo spirito somigli che tu stesso concepisci: non a me! Spare

FAUST (disfatto) Non a te? Johann Wolfgang Goethe, Faust 

A chi, allora? Io, immagine alla Divinità! E neanche a te? Si sente bussare Ah, strazio! So che è. È il mio famulus1. Finita, la mia occasione suprema! Che tanta folla di visioni abbia a guastarla quell’arido noioso! Wagner2 in veste da camera e berretta da notte, con una lucerna in mano. Faust si volta, seccato.

WAGNER Chiedo scusa! La sentivo declamare. Una tragedia greca, no? È un’arte che un poco vorrei praticare, perché, ai giorni nostri, è utilissima. Ho sentito spessissimo dire che un attore potrebbe insegnare anche a un prete. FAUST Già. Se il prete è un attore; cosa che a volte può succedere. WAGNER Ah, se uno si confina nel suo studio e vede il mondo solamente il dì di festa, solo col cannocchiale, appena da lontano, come farà a guidare e a persuaderlo, il mondo? FAUST Chi non lo sente non ci arriva, se non gli viene su dall’intimo e con una forza di istinto sicuro non doma le menti in ascolto. O allora, restate seduti! Colla e forbici, fate un pastone3 dei resti degli altri; e soffiate sul vostro mucchietto di cenere che se ne levi qualche fiamma miserevole. Gran meraviglia per scimmie e bambini, se questo può tentarvi. Mai un’anima l’avvincerete4 a un’altra se dall’anima non vi verranno le parole. WAGNER Però è nella dizione, il successo di chi parla. So bene anch’io di stare ancora molto indietro. FAUST Cerchi vossignoria un guadagno onesto, non mi faccia il buffone che scuote i suoi sonagli! Intelligenza e retto sentire con poca arte si fanno valere da sé. E quando avete qualcosa di serio da dire c’è bisogno di star dietro alle parole?  M. S. Sapegno

Già, quei vostri discorsi così luccicanti dove all’umano genere volete darla a intendere sono una noia come il vento d’autunno che seguita a parlare piano tra le foglie secche. WAGNER Mio Dio, è lunga l’arte ed è breve la vita. Sento sovente, nelle mie ricerche, che testa e cuore mi si turbano. Com’è arduo acquisire i mezzi con cui si risale alle fonti! E prima che sia a metà del cammino un pover’uomo può anche morire. FAUST La pergamena! È questa la sacra fonte dove un sorso basta per sempre alla sete? Non ti disseterai se non di quello che ti scorre dall’anima. WAGNER Chiedo scusa! Ma è un piacere grande situarsi nello spirito dei tempi, vedere quello che un qualche savio pensò prima di noi e a quanta altezza si sia giunti in seguito. FAUST Certo! All’altezza delle stelle! Amico mio, le epoche trascorse per noi sono un libro serrato con sette suggelli5. Quel che chiamate spirito dei tempi è in sostanza lo spirito di quei certi signori in cui si rispecchiano i tempi. E poi è spesso, in verità, una scena trista, da scappar via da voi alla prima occhiata: un bidone per rifiuti e una stanza di sbratto6 o al più un di quei drammi politico-sociali zeppi di massime morali, molto adatti all’eloquenza delle marionette. (da J. W. Goethe, Faust, trad. di Franco Fortini, Mondadori, Milano 1970).

Note 1. famulus: ‘servitore’ (in latino). 2. Wagner: è il servo di Faust. 3. pastone: ‘miscuglio’. 4. avvincerete: ‘attrarrete’. 5. serrato … suggelli: ‘chiuso con sette sigilli’; il passato è cioè impenetrabile, inconoscibile. 6. stanza di sbratto: stanza nella quale si ammassano gli oggetti ingombranti o di cui ci si serve di rado. Johann Wolfgang Goethe, Faust  Il patto col diavolo Nell’incontro con Mefistofele, Faust si rivela in tutte le sue speranze deluse e nelle sue frustrazioni fino ad una disperazione assoluta, che è insieme quella di un vecchio scien- ziato di fronte all’«impossibilità di creare» ma rappresenta anche quella possibile di ogni essere umano. Il dottor Faust, l’intellettuale rispettato da tutti, arriva a maledire i senti- menti e le virtù più riconosciute e più sacre come la grazia, la speranza, la fede e la pazienza. Mefistofele, che rappresenta di fatto l’alter ego di Faust, chi in parte Faust avrebbe voluto essere, si insinua nella crisi con abilità. Fa piazza pulita delle esitazio- ni, espone ed esalta l’altra faccia di Faust, la rivela come possibile. Attraverso il coro degli spiriti arriva a rivelare a Faust la sua volontà di potenza, stimolando il delirio di onnipotenza celato in ogni uomo (e nello stesso autore). Alle spalle di Mefistofele c’è il movimento romantico tedesco, la forza della nuova borghesia, la volontà di abbattere tabù e steccati della società prerivoluzionaria. Il nuovo Io europeo si pone come svinco- lato da ogni precedente legame. Faust è ormai convinto: è il mondo terreno che vuole possedere, è solo in questo mondo che l’essere umano può misurare se stesso. Il resto non conta: è nato un Io pienamente laico, pur se, non a caso, Goethe lo colloca in un ambiente medievaleggiante, popolato di spiriti e riti magici. Ma Faust è uno scienziato ed è prudente, non è un uomo come tutti gli altri: in quanto intellettuale rappresenta tutti i desideri di tutta l’umanità, ma anche la sua scaltrezza mondana. Sa che il dia- volo non fa nulla per nulla. Pone allora la condizione che lo salverà. Dopo aver dichia- rato tutti i desideri e i piaceri che vuole provare, dopo aver accettato di sottoscrivere un patto col diavolo, si riserva una condizione che Mefistofele accetta e Faust sottoscrive. Faust passerà attraverso tutti i tempi e gli spazi, attraverso nefandezze e dolori, ma quando sarà perduto e Mefistofele verrà a raccogliere il frutto del patto, forse proprio la volontà d’infinito dichiarata nella riserva accettata da Mefistofele impedirà la danna- zione: Goethe nella sua maturità riconoscerà a quello che sarà poi definito lo «spirito faustiano», la sua qualità organicamente salvifica e redentrice, umana. È definitiva- mente nato un nuovo mito dell’Occidente. Studio FAUST, MEFISTOFELE

FAUST Bussano? Avanti! Chi mi affligge di nuovo? MEFISTOFELE Sono io. FAUST Avanti! MEFISTOFELE Devi dirlo tre volte. FAUST Avanti, dunque! MEFISTOFELE Così mi piaci. Noi due, mi auguro, ci accorderemo! Perché, a scacciarti le malinconie, eccomi qua nei panni di nobile cadetto: abito rosso, ricami d’oro, corta mantella di seta dura, penna di gallo sul cappello, lungo fioretto acuminato.  M. S. Sapegno

E ti consiglio, senza indugio: indossa subito lo stesso abito, così potrai sperimentare leggero e libero cos’è la vita. FAUST In ogni abito sentirò il tormento di questa angusta vita terrestre. Io sono troppo vecchio per giocare, troppo giovane per non desiderare. Il mondo che cosa mi può offrire? Rinunciare tu devi! rinunciare! Questo è l’eterno ritornello che risuona all’orecchio di ciascuno, che ogni ora per tutta la vita ci ricanta con voce roca. Al mattino mi sveglio con orrore, vorrei piangere lacrime amare vedendo il giorno che nel suo cammino non un mio voto appagherà, non uno, che svuoterà con critiche ostinate anche il presentimento del piacere e con le mille inezie della vita vieterà di creare al mio animo inquieto. Quando cala la notte io debbo coricarmi angosciato sul giaciglio; neppure su di esso trovo pace, spaventato da incubi crudeli. Il dio che mi abita nel petto può scuotere il fondo del mio animo; egli regna su tutte le mie forze, e non può muover nulla al di fuori di me. Io sento l’esistenza come un peso, desidero la morte, odio la vita. MEFISTOFELE E tuttavia la morte non è mai benvenuta. FAUST Felice l’uomo al quale, fulgido di vittoria, la morte cinge il capo di allori insanguinati, felice chi la incontra dopo danze sfrenate, allacciato da braccia di fanciulla! Davanti alla potenza di quel sublime spirito fossi caduto in estasi e spirato! MEFISTOFELE E tuttavia qualcuno, quella notte, non ha bevuto una bevanda scura1. FAUST Spiare, a quanto sembra, ti diverte. MEFISTOFELE Onnisciente non sono; però so molte cose. FAUST Se mi strappò a quel groviglio orrendo allora un suono dolce e familiare Johann Wolfgang Goethe, Faust 

e illuse con l’eco di giorni felici un resto di infantili sentimenti, io maledico ogni lusinga, ogni miraggio che avviluppa l’anima e con forze che accecano e seducono la esilia in questa valle di tristezza! Maledetto sia l’alto intendimento con cui lo spirito s’intrappola da sé! Maledetto l’abbaglio dei fenomeni che si rovescia contro i nostri sensi! Maledetta l’ipocrisia dei sogni, l’inganno della gloria e di un nome che duri! Maledetto il possesso che ci adula come donna o figlio, come servo o aratro! Maledetto Mammone, sia quando ci sprona con i tesori a osare imprese audaci, sia quando ci accomoda i cuscini per invitarci a godimenti oziosi! Maledetto sia il succo balsamico dell’uva! Maledetta la grazia suprema dell’amore! Maledetta speranza! Maledetta la fede! E maledetta soprattutto la pazienza! CORO DI SPIRITI invisibili Guai! Guai! Tu l’hai distrutto il mondo bello con pugno poderoso; precipita, si sfalda! Un semidio l’ha frantumato! Noi portiamo le sue macerie al Nulla, e piangiamo la bellezza perduta. Poderoso tra i figli della terra, ricostruiscilo più splendido, ricostruiscilo dentro il tuo petto! Il corso di una vita nuova comincia con animo sereno, e nuovi canti risuoneranno! MEFISTOFELE Sono i più piccoli del mio corteggio. Ascolta: come vecchi saggi  M. S. Sapegno

consigliano il piacere dell’agire! Nel vasto mondo, via della solitudine dove ristagnano sensi ed umori, ti vogliono attirare. Smettila di giocare col tuo cruccio, che come un avvoltoio ti divora la vita; persino la peggiore compagnia ti fa sentire uomo fra gli uomini. E questo non vuol dire spingerti tra la feccia. Non sono uno dei grandi; tuttavia, se vuoi unirti a me per muovere i tuoi passi nella vita, acconsento volentieri a essere tuo, qui all’istante. Sarò il tuo compagno e, se ti vado a genio, sarò il tuo servo, il tuo schiavo! FAUST E cosa dovrò fare per te in cambio? MEFISTOFELE Per questo hai davanti un lungo tempo. FAUST No, no, il diavolo è un egoista, è raro che si renda utile agli altri per amore di Dio. La tua condizione dilla chiara; un servo simile è un pericolo per la casa. MEFISTOFELE Io m’impegno a servirti qui, pronto al tuo cenno, senza soste e indugi; di là poi, quando ci ritroveremo, dovrai fare per me la stessa cosa. FAUST Dell’aldilà poco mi può importare; manda prima in frantumi questo mondo, e poi che l’altro mondo venga pure. Da questa terra sgorgano le mie gioie, questo sole rischiara le mie pene; che io me ne separi prima, e poi avvenga quel che vuole e quel che può. Non voglio più sentirne parola né sapere se nel mondo a venire si odia e si ama ancora, né se anche in quelle sfere ci saranno un alto e un basso. MEFISTOFELE Se la pensi così puoi arrischiarti. Impegnati, e nei giorni del presente assisterai con gioia alle mie arti; quel che io ti darò nessuno l’ha mai visto. Johann Wolfgang Goethe, Faust 

FAUST E che vuoi dare tu, povero diavolo? Lo spirito dell’uomo nel suo tendere all’alto i pari tuoi lo hanno mai compreso? Possiedi forse un cibo che non sazi, un oro rosso che non stia mai fermo, ma come argento vivo ti scorra via di mano, un gioco al quale non si vinca mai, una ragazza che stretta al mio petto con gli occhi già si vincoli ad un altro, e il bel trastullo degli dèi, l’onore, che si dilegua come una meteora? Mostrami il frutto sfatto prima di essere colto, e alberi che ogni giorno rinverdiscano! MEFISTOFELE È un compito che non mi fa paura; posso servirteli tesori come questi. Ma poi, mio buon amico, arriva anche il momento di assaporare in pace dei buoni bocconcini. FAUST Se mai mi adagerò placato su un pigro letto, venga immediatamente la mia ora! Se con lusinghe potrai tanto ingannarmi che io mi compiaccia di me stesso, se con il godimento ti riuscirà d’illudermi, quello sia per me l’ultimo giorno! Questa scommessa t’offro! MEFISTOFELE Accetto! FAUST Qua la mano! Se dirò all’attimo: Sei così bello, fermati! allora tu potrai mettermi in ceppi, allora sarò contento di morire! Allora suoni la campana a morto, allora non dovrai servire più; l’orologio si fermi, la lancetta cada, e sia passato il tempo che mi è dato! MEFISTOFELE Pensaci bene, non lo scorderemo. (J. W. Goethe, Faust-Urfaust. Testo originale a fronte, a cura di A. Casalegno, Garzanti, Milano 1990).

Note 1. non ha … bevanda scura: allude al mancato suicidio di Faust. MARIA SERENA SAPEGNO  M. S. Sapegno

GEORGES THINÈS, Lo spirito faustiano in Faust ou la mélancolie du savoir, textes réunis par J.-Y. Masson, Editions Desjonquères, 2003

Se è piuttosto scontato parlare di patto faustiano, di dramma faustiano o di mito fau- stiano, lo spirito faustiano è, invece, un concetto dal significato più vasto, o almeno più ambizioso, per il suo legame con la realtà storica e con diverse ideologie. Inoltre, se la storia del dottor Faust ha avuto una fortuna letteraria considerevole, e lo attestano i lavori di Charles Dédéyan, di Geneviève Bianquis e di André Dabezies -per non citar- ne che alcuni-, ci si può domandare in che misura l’avventura del dottor Faust e il mito che egli ha creato possono essere considerati l’avvio di una autentica riflessione filo- sofica. Ora, se si può parlare, in una qualche forma, di spirito faustiano, si deve neces- sariamente far riferimento a un’interrogazione filosofica, più precisamente a un’in- quietudine di ordine metafisico e, al limite, a un movimento filosofico particolare. Ma forse lo spirito faustiano è destinato a confondersi con un’interrogazione metafisica più ampia, pertinente alla nascita e allo sviluppo della modernità. E se di questo si tratta, una tale domanda non può non subire molteplici influenze, non può che essere segna- ta dalle contingenze e dalle incertezze della Storia, dalle credenze e dalle ideologie, cioè dalle variabili vicende delle politiche e delle crisi che esse stesse generano nel momento in cui pretendono di risolverle. Tante ragioni ci spingono a chiederci se, par- lando dello spirito faustiano, non cadiamo in una semplificazione concettuale incom- patibile con la complessità del dramma umano che esso ci fa vedere, e se noi non finia- mo per assegnare a tale concetto un’invaribilità, una sorta di eternità sovra-storica, la quale, sottomessa all’esame critico, si rivela illusoria e non giustifica per nulla il fatto che ne facciamo un tema filosofico e che noi vediamo in essa il punto di partenza di una certa filosofia della Storia. […] Lo spirito faustiano è animato da un movimento di creazione nel quale si fondono diverse forme di libertà. Esso si realizza a un tempo nel barocco e ispira il fantastico meditativo e imprevedibile dei Romantici tedeschi. […] Per tornare al personaggio di Faust, la sua storia offre oscillazioni tra aspirazione filosofica e desideri mutevoli e brutali che rasentano il grottesco […] se il mito faustia- no è ciò che mette in mostra un destino, e precisamente la celebrazione delle forze della coscienza autonoma, esso è ugualmente il mito del rischio e della conoscenza. Madame Bovary di Gustave Flaubert

Con i grandi romanzi di Gustave Flaubert (1821-1880) si giunge, nella narrativa europea, al vertice del realismo; e mentre da un lato si apre la strada al naturalismo, dall’altro si lancia un ponte verso il romanzo nove- centesco del negativo, della malattia, del disagio esistenziale. Per Flaubert i principi di un’arte che deve inchinarsi alla rappresentazione del «vero», secondo i dettami del Romanticismo, vanno portati alle estreme conse- guenze: l’arte deve essere autonoma dalla morale, e quindi deve anche liberarsi dall’eccessiva presenza delle opinioni dell’artista, per far spazio alla vita per quella che è. Siamo molto distanti dai «buoni sentimenti» attra- verso i quali si era voluto educare il lettore: il principio morale che deve guidare l’autore è la fedeltà più scrupolosa al vero. Dopo un’adolescenza e una giovinezza dedicate all’appassionato tenta- tivo di trovare una propria scrittura, Flaubert intraprende, a trent’anni, il lungo e impegnativo lavoro di scrittura del suo grande romanzo, Madame Bovary (pubblicato in volume nel 1859), e lo fa a partire da un fatto di cro- naca. Sceglie come protagonista non un eroe positivo in cui ci si possa identificare, ma al contrario un personaggio talmente trasgressivo da pro- vocare uno scandalo e perfino un’incriminazione e un processo per immo- ralità: un’adultera. C’erano già stati protagonisti di romanzi dalla dubbia integrità morale, ma la presentazione dell’eroina flaubertiana fa davvero scandalo: Flaubert è infatti convinto che la presenza del punto di vista del- l’autore nell’opera, il suo ruolo di guida del lettore verso un’interpretazio- ne, attraverso giudizi più o meno espliciti, vada ridotta drasticamente; l’io dell’autore, il suo bisogno di riscattare le vicende narrate attraverso un’in- dicazione di giudizio morale, deve essere sacrificato alla rappresentazione quanto più possibile oggettiva del vero. Per conseguire il suo scopo, lo scrittore deve trovare una forma lettera- ria che consenta il massimo di rigore e di coerenza di tutte le parti. Lo fa riducendo l’uso della voce del narratore e mettendo in primo piano le sen- sazioni e le esperienze dei personaggi fino a culminare, nei punti più signi- ficativi del romanzo, nell’uso del «discorso indiretto libero», una tecnica nar-  M. S. Sapegno rativa che consente di riferire in maniera indiretta (senza l’uso cioè delle virgolette e della prima persona) i pensieri del personaggio. Si tratta di un incontro tra narrazione e rappresentazione, tra autore e personaggio, tra discorso diretto e indiretto, nel quale è difficile stabilire se a parlare sia il narratore, il personaggio che agisce nel romanzo, o la voce del senso comune. La teoria dell’«impersonalità» dell’opera d’arte, la mortificazione a cui l’autore si sottopone davanti alla propria opera, discendono naturalmente anche dal venir meno di un’ideologia forte da comunicare, dalla crisi della visione del mondo ottimista e costruttiva che era stata della borghesia, o di quella nostalgica del passato che era stata propria dei legittimisti (i sostenitori, cioè, della monarchia). Flaubert è al contrario fortemente criti- co della società borghese, nella quale gli sembra che gli ideali dell’indivi- duo libero stiano lasciando spazio al conformismo del danaro e delle apparenze. Disgustato dai nuovi modelli che si diffondono, narra storie di personaggi frustrati e insoddisfatti, che rappresentano bene, nella loro stes- sa mediocrità, il mondo in cui vivono, ma non ha un modello alternativo da proporre. Madame Bovary narra di una donna insoddisfatta perché attraversata da un ideale di amore/passione del quale è alla perenne ricerca attraverso un illusorio culto delle sensazioni e della bellezza. Il lettore è trascinato dalla narrazione di Flaubert all’interno dei discorsi disperati di Emma Bovary, nelle sue riflessioni, nei dialoghi che rivelano la banalità tragica delle sue aspirazioni. Il «bovarismo», termine nato dal romanzo, sta precisamente a significare quell’inquietudine rispetto alle proprie condizioni reali motiva- ta non da un legittimo desiderio di cambiamento, ma da sogni astratti e megalomani, dall’incapacità di agire nel reale. Si tratta di un’evoluzione del «romanzo d’adulterio»: Emma non tradisce il marito perché innamorata di un altro uomo, ma perché innamorata di un amore astratto e di un’imma- gine di sé inesistente. Un’immagine che le viene da fuori e la determina. La stessa convinzione che il soggetto sia profondamente determinato dalla realtà in cui si trova ispira anche L’educazione sentimentale, un romanzo a cui Flaubert lavora già in una prima stesura nel 1843-1845 e che pubblica rivisto soltanto nel 1869. Ma se Madame Bovary è il romanzo della provincia, l’altro capolavoro di Flaubert è il romanzo della metropo- li, di Parigi: è nelle strade della grande città che avvengono gli incontri del tutto casuali che determinano la storia del protagonista. Come il titolo sug- gerisce, si tratta di un «romanzo di formazione», o meglio, si tratta della radicale critica di quella forma: il protagonista si trova a Parigi travolto dagli eventi della rivoluzione del 1848, e rappresenta un’intera generazione che fallisce perché ha in mente ideali irraggiungibili. Un’opera ambientata con Gustave Flaubert, Madame Bovary  scrupolosità di storico, con studio maniacale delle parti e delle parole, nel timore che tale precisione possa uccidere l’arte, ma nella convinzione che solo attraverso tale amore di verità si possa dare una base alla creazione artistica.

Madame Bovary La seduzione dello scandalo Parte II, cap. IX Il capitolo in cui l’irrequieta protagonista, Emma Bovary, riesce finalmente a realiz- zare il desiderio che ha faticosamente messo a fuoco, quello di vivere un’esaltante pas- sione adulterina, è quello che provocò lo scandalo suscitato dal romanzo alla sua prima apparizione. Fu pertanto citato e letto in tribunale perché, meglio di altri, rivelava la mancanza di un giudizio morale esplicitamente negativo da parte dell’autore: si corre- va così il rischio che il romanzo divenisse un modello di corruzione. Nella scena della seduzione di Emma da parte di Rodolphe assistiamo a un piccolo studio psicologico: è tutto un alternarsi di sentimenti contraddittori, la ricerca di una strategia di approccio che non provochi il rifiuto. Il discorso di lui per rassicurarla, gros- solanamente ipocrita, utilizza insistentemente un’immagine di derivazione sacra e soprattutto letteraria: che Emma possa credere a tali affermazioni è importante nella costruzione del personaggio. Nelle sequenze successive l’accento è soprattutto sulla percezione di Emma che quanto è accaduto corrisponda a una cesura profonda, a una sorta di rinascita. Emma è entrata in uno stato di trance e di godimento, «una nuova pubertà», nel quale interpreta ciò che le sta accadendo come la rivincita da una vita che le pareva grigia, una certezza molto legata in effetti alle sue letture di romanzi, di eroine che viveva- no di passioni proibite e fortissime. Va notato l’uso esteso del «discorso indiretto libe- ro»: siamo nei pensieri di Emma, ma chi parla? Sono pensieri peraltro molto audaci: non c’è alcuna esplicita condanna dell’adulterio, ed è proprio questo che provocò il processo.

Erano i primi giorni d’ottobre. C’era nebbia sulla campagna. Vapori s’al- lungavano all’orizzonte, contro il contorno delle colline; e altri, lacerando- si, salivano, si disperdevano. Qualche volta, in uno squarcio della bruma, sotto un raggio di sole, si scorgevano di lontano i tetti di Yonville, con i giardini in riva all’acqua, i cortili, i muri e il campanile della chiesa. Emma socchiudeva le palpebre per riconoscere la sua casa, e mai quel povero villaggio dove viveva le era parso così piccolo. Dalle alture dov’erano, l’in- tiera1 valle sembrava un immenso lago pallido, svaporante nell’aria. Le macchie degli alberi qua e là spicca vano come rocce nere; e le alte linee dei pioppi, che oltrepassavano la nebbia, sembravano spiagge agitate dal vento.  M. S. Sapegno Accanto, sul prato, fra i pini, una scura luce fluiva nell’atmosfera tiepi- da. La terra, rossastra come tabacco trinciato, smorzava il rumore dei passi; e con i loro ferri i cavalli, camminando, spingevano davanti a sé le pigne cadute. Rodolphe e Emma seguirono così il ciglio del bosco. Lei di quando in quando si voltava, per evitare lo sguardo di lui, e allora non vedeva che i tronchi dei pini allineati, provando a quella sfilata uniforme un lieve senso di stordimento. I cavalli ansavano. Il cuoio delle selle scricchiolava. Mentre stavano per entrare nel bosco, apparve il sole. – Dio ci proteg- ge! – disse Rodolphe. – Credete? – disse lei. – Andiamo, andiamo! – lui riprese. Schioccò la lingua. Le due bestie cor- revano. Lunghe felci, sul ciglio del sentiero, s’impigliavano nella staffa di Emma. Rodolphe, sempre avanzando, si chinava e via via le districava. Altre volte, per scostare i rami, le passava accanto, e Emma sentiva il ginoc- chio di lui sfiorarle la gamba. Il cielo era diventato azzurro. Le foglie non si muovevano. C’erano grandi spiazzi pieni di eriche in fiore; e strati viola s’alternavano al viluppo degli alberi, di color grigio, o fulvo, o dorato, a seconda della varietà dei fogliami. Spesso si udiva, sotto ai cespugli, fru- sciare un lieve battito d’ali, o il grido rauco e soave dei corvi, che volava- no nel folto delle querce. Smontarono. Rodolphe attaccò i cavalli. Essa andava avanti, sul muschio, tra i solchi. Ma la veste troppo lunga le impacciava il passo, benché ne tenesse rial- zato lo strascico, e Rodolphe, camminando dietro a lei, contemplava tra quel panno nero e lo stivaletto nero, la delicatezza della calza bianca, che gli sembrava qualcosa della nudità di lei. Essa si fermò. – Sono stanca, – disse. – Su, ancora un poco! – lui ribatté. – Coraggio! Cento passi più oltre, si fermò di nuovo; e attraverso il velo, che dal cappello da uomo le scendeva obliquo sui fianchi, si scorgeva il suo viso in una trasparenza bluastra, come se nuotasse nell’azzurro delle onde. – Ma dove andiamo? Lui non rispose nulla. Lei respirava d’un respiro irregolare. Rodolphe gettava gli occhi intorno a sé e si mordeva i baffi. Arrivarono in un punto più spazioso, dov’erano stati abbattuti dei quer- cioli. Sedettero su un tronco riverso, e Rodolphe prese a parlarle del suo amore. Sul principio, non la impaurì con parole galanti. Fu calmo, serio, malinconico. Emma lo ascoltava a testa bassa, smuovendo dei trucioli con la punta del piede. Ma, a questa frase: – Non sono forse uniti ora i nostri destini? – Eh, no! – rispose. – Lo sapete bene. È impossibile. S’alzò per andar via. Gustave Flaubert, Madame Bovary  Egli le afferrò il polso. Lei si fermò. Poi, avendolo osservato per qualche istante con occhio amoroso e umido, rapidamente disse: – Ah, sentite, non ne parliamo più… Dove sono i cavalli? ritorniamo. Egli ebbe un gesto di collera e di noia. Lei ripeté: – Dove sono i cavalli? dove sono i cavalli? Allora, sorridendo di un sorriso strano, con la pupilla fissa, i denti stret- ti, lui si fece avanti a braccia tese. Lei, tremante, indietreggiò. Balbettava: – Oh! mi fate paura! mi fate male! andiamo via. – Visto che è necessario, – lui riprese mutando volto. E subito ridiven- ne rispettoso, carezzevole, timido. Lei gli diede il braccio. S’avviarono per tornare. Lui diceva: – Ma che avete? Perché? io non ho capito. Certo avete frainteso? Siete nella mia anima come una madonna su un piedestallo, in una sfera alta, salda e immacolata. Ma ho bisogno di voi per vivere! ho bisogno dei vostri occhi, della vostra voce, del vostro pen- siero. Siatemi amica, siatemi sorella, siate il mio angelo! E allungava il braccio e le cingeva la vita. Lei, mollemente, cercava di liberarsi. Lui la sorreggeva così, camminando. Ma udirono i due cavalli che brucavano il fogliame. – Oh! ancora, – disse Rodolphe. – Non andiamo via! Rimanete! La tra- scinò più lontano, presso un piccolo stagno, dove lenticchie d’acqua vela- vano di verde le onde. Ninfee appassite galleggiavano immobili fra i giun- chi. Al rumore dei loro passi nell’erba, le ranocchie saltarono a nascon- dersi. – Sbaglio, sbaglio, – diceva lei. – Sono pazza a starvi a sentire. – Perché?… Emma! Emma! – Oh! Rodolphe! – fece lentamente la giovane donna chinandosi sulla spalla di lui. Il panno della sua veste s’incollava al velluto della giacca di lui; essa rovesciò indietro il candido collo che si gonfiava d’un sospiro; e languente, tutta in lagrime, con un lungo fremito e nascondendo il viso, s’abbandonò. Scendevano le ombre della sera; il sole orizzontale, filtrando fra i rami, le abbagliava gli occhi. Qua e là, tutt’intorno a lei, nelle foglie e a terra, palpitavano chiazze luminose, come se dei colibrì, nel volo, aves- sero sparso le piume. Il silenzio era ovunque; dagli alberi pareva sprigio- narsi una sorta di dolcezza; essa sentiva il proprio cuore, che aveva ripre- so i battiti, e il sangue fluirle nella carne come un fiume di latte. Allora, udí molto lontano, al di là del bosco, sulle altre colline, un grido confuso e prolungato, una voce vagabonda, e la ascoltava in silenzio mischiarsi come musica alle ultime vibrazioni dei suoi nervi in tumulto. Rodolphe, col siga- ro fra i denti, raggiustava col temperino una briglia rotta. Tornarono a Yonville, per la stessa strada. Rividero sul fango le orme dei loro cavalli, affiancate, e le medesime siepi, i medesimi ciottoli nell’er-  M. S. Sapegno ba. Nulla intorno a loro era cambiato; e tuttavia per lei, qualcosa era avve- nuto di più grande che se si fossero spostate le montagne. Rodolphe, di quando in quando, si chinava e le prendeva la mano per baciarla. Essa era incantevole, a cavallo! Diritta, con la sua persona sottile, il ginocchio ripie- gato sulla criniera della bestia e il viso leggermente colorito dall’aria libe- ra, nella luce rossa della sera. Entrando a Yonville, caracollò sul selciato. La guardavano dalle finestre. Suo marito, a cena, le trovò una buona cera; ma lei sembrò non senti- re quando s’informò della passeggiata; e stava con il gomito accanto al piatto, fra le due candele accese. – Emma! – disse lui. – Cosa? – Bene, sono passato questo pomeriggio dal signor Alexandre; ha una vecchia cavallina ancora bella, soltanto un po’ spelacchiata ai ginocchi, e che si potrebbe avere, ne son sicuro, per un centinaio di scudi… Aggiunse: – Pensando di farti piacere, ho dato la caparra… l’ho comprata… Ho fatto bene? Dimmelo. Lei mosse il capo in segno d’assenso; poi, un quarto d’ora dopo: – Esci stasera? – domandò. – Sì. Perché? – Oh, niente, niente, caro. E non appe- na si fu liberata di Charles, salì a chiudersi nella sua stanza. Provò dappri- ma un senso di stordimento; vedeva gli alberi, i sentieri, i fossati, Rodolphe, e sentiva ancora la stretta delle braccia di lui, nel fremito delle foglie e nel sibilo dei giunchi. Ma, guardandosi allo specchio, si meravigliò del proprio viso. Mai aveva avuto gli occhi tanto grandi, tanto neri, né così profondi. Un’essenza sotti- le diffusa sulla sua persona la trasfigurava. Si ripeteva: «Ho un amante! un amante!» godendo a quest’idea, quasi a quella d’una nuova pubertà a cui fosse giunta. Avrebbe dunque avuto fi- nalmente quelle gioie dell’amore, quella febbre della felicità che disperava di provare. Penetrava in una zona meravigliosa dove tutto sarebbe stato passione, estasi, delirio; una immensità azzurrina la circondava, le vette dei sentimenti scintillavano sotto il suo pensiero, l’esistenza consueta non ap- pariva che in lontananza, giù in basso, nell’ombra, tra gli intervalli di quel- le altitudini. Allora ricordò le eroine dei libri che aveva letto, e le legioni2 liriche di quelle adultere presero a cantare nella sua memoria con voci di sorelle, colmandola d’incanto. Diveniva lei stessa come una parte vera di quelle immaginazioni, e attuava il lungo sogno della sua giovinezza, contem- plandosi in quel tipo di donna appassionata che aveva tanto invidiato. D’altronde, Emma sentiva un piacere di vendetta. Non aveva forse abba- stanza sofferto? Ma adesso trionfava, e l’amore, così a lungo trattenuto, Gustave Flaubert, Madame Bovary  sgorgava tutto, spumeggiando gioiosamente. Lei lo assaporava senza rimorsi, senza inquietudine, senza turbamento. La giornata seguente trascorse in una dolcezza nuova. Si scambiarono giuramenti. Lei gli raccontò le sue tristezze. Rodolphe la interrompeva con i baci; e lei gli chiedeva, contemplandolo con le palpebre semichiuse, di chiamarla ancora per nome e di ripetere che la amava. Erano, come il giorno avanti, nel bosco, in una capanna di zoccolai. Le pareti erano di paglia e il tetto discendeva così basso, che bisognava star curvi. Sedevano l’uno accanto all’altra, su un letto di foglie secche. Da quel giorno, si scrissero regolarmente ogni sera. Emma portava la lettera in fondo al giardino, presso il fiume, in una fenditura della terraz- za. Rodolphe veniva a prenderla e vi infilava una lettera sua, che lei sem- pre accusava d’esser troppo breve. Una mattina che Charles era uscito prima dell’alba, essa fu colta dalla voglia di vedere Rodolphe immediata- mente. Era cosa rapida arrivare alla Huchette, restarci un’ora, e tornare a Yonville quando tutti ancora dormivano. Questa idea la fece ansimare di desiderio; ben presto fu nella prateria, camminandovi a passi veloci, senza guardarsi indietro. Cominciava a spuntare il giorno. Emma, di lontano, riconobbe la casa del suo amante, dove le due banderuole a coda di ron- dine spiccavano nere nel pallore dell’alba. Dopo il cortile della fattoria, c’era un gruppo di costruzioni che doveva essere il castello. Lei vi entrò, come se i muri, al suo arrivo, si fossero scan- sati. Una larga scala diritta saliva al corridoio. Emma girò il saliscendi d’una porta, e a un tratto, in fondo alla stanza, scorse un uomo che dormiva. Era Rodolphe. Lei gettò un grido. – Sei qui, sei qui! – ripeteva lui. – Come hai fatto a venire?… Ah! il tuo vestito è bagnato! – Ti amo! – rispose lei mettendogli le braccia al collo. Essendole riusci- ta felicemente quella prima audacia, ora ogni volta che Charles usciva pre- sto, Emma si vestiva in fretta e scendeva a passi muti la gradinata che por- tava in riva all’acqua. Ma, quando la passerella per le vacche era alzata, bisognava seguire i muri che costeggiavano il fiume; la sponda era scivolosa; lei, per non cade- re, s’aggrappava con la mano ai ciuffi di ravanelli appassiti. Poi attraversa- va di sbieco dei campi arati, dove affondava, incespicava e s’impastava di terra gli stivaletti sottili. Il fazzoletto che portava annodato sul capo, s’agi- tava al vento fra le erbe; aveva paura dei buoi, si metteva a correre; arri- vava senza fiato, con le guance rosee, e tutta la sua persona esalava un fre- sco profumo di linfa, di verzura3 e d’aria. Rodolphe, a quell’ora, ancora dormiva. Era come se gli entrasse nella stanza una mattinata di primavera. Le tende gialle, lungo le finestre, lasciavano filtrare dolcemente una  M. S. Sapegno pesante luce bionda. Emma veniva avanti a tentoni, socchiudendo gli occhi; e le gocce di rugiada, so spese sulle bande dei capelli, formavano come un’aureola di topazio intorno al suo viso. Rodolphe, ridendo, l’atti- rava a sé e la stringeva al cuore. Poi lei esaminava la stanza, apriva i cassetti dei mobili, si pettinava con il pettine di lui e si guardava nel suo specchio da barba. Spesso anche, si metteva tra i denti il cannello d’una grossa pipa, che stava sul comodino da notte, fra limoni e pezzetti di zucchero, accanto a una caraffa d’acqua. Ci mettevano un buon quarto d’ora a dirsi addio. Allora Emma piange- va; avrebbe voluto non abbandonare mai Rodolphe. Qualcosa di più forte di lei la spingeva verso di lui, così che egli un giorno, vedendola soprag- giungere all’improvviso, corrugò la faccia, come fosse contrariato. – Cos’hai dunque? – disse lei. – Stai male? Parlami! Infine egli dichiarò, con aria seria, che le sue visite diventavano impru- denti e che lei si comprometteva. A poco a poco, quei timori di Rodolphe la contagiarono. L’amore, sul principio, l’aveva inebriata, al di là di esso non aveva pensato più a nien- te. Ma essendo esso ora divenuto indispensabile alla sua vita, temeva di poterne perdere qualcosa, o che qualcosa l’avesse a turbare. Quando veni- va via da lui, gettava all’intorno sguardi inquieti, spiando ogni forma che passava all’orizzonte e ogni abbaino del villaggio da cui poteva esser vista. Porgeva orecchio ai passi, ai gridi, al rumore degli aratri; e si fermava più livida e più tremante delle foglie dei pioppi che ondeggiavano sul suo capo. (da G. Flaubert, La signora Bovary, trad. di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 2005).

Note 1. intiera: ‘intera’. 2. legioni: ‘moltitudini’. 3. verzura: ‘vegetazione’. MARIA SERENA SAPEGNO Gustave Flaubert, Madame Bovary 

GÉRARD GENETTE, Silenzi di Flaubert in G. Genette, Figure. Retorica e strutturalismo, Einaudi, Torino 1969

In lui dunque l’abbondanza delle descrizioni non risponde, come ad esempio in Balzac, soltanto a necessità d’ordine drammatico, ma innanzi tutto a qualcosa che egli stesso chiama l’amore della contemplazione. Naturalmente nella sua opera si trovano anche delle descrizioni, come quella di Yonville all’inizio della seconda parte di Madame Bovary, la cui presenza è giustificata dal bisogno di dare all’azione e ai senti- menti una specie di cornice esplicativa: è necessario conoscere lo sfondo di Yonville per capire quale sarà la vita di Emma. Ma il più delle volte la descrizione si sviluppa autonomamente, a spese dell’azione che essa non chiarisce ma cerca, si direbbe, di sospendere e di rimandare. Tutta Salammbô è l’esempio di un racconto che rimane come schiacciato dalla proliferazione sontuosa della sua stessa cornice. Ma, pur essen- do meno massiccio, questo effetto di immobilizzazione è forse più avvertibile in un’o- pera come Madame Bovary, in cui una tensione drammatica indubbiamente molto alta è contrastata di continuo da dilatazioni descrittive di un’ammirevole gratuità […] Sarebbe lungo enumerare tutti i momenti d’estasi (nel doppio significato di rapi- mento contemplativo e di sospensione del movimento narrativo) soppressi nella reda- zione definitiva e che la pubblicazione delle prime stesure ci ha restituito, ma bisogna almeno sottolineare una pagina di cui Flaubert stesso, fatto piuttosto raro, si era all’ini- zio mostrato abbastanza soddisfatto. E a ragione. Questa pagina va inserita nel corso della visita al castello della Vaubyessard, il mattino che segue il ballo. Emma passeggia nel parco ed entra in un padiglione che ha tra l’altro una finestra a vetri di vari colori; guarda la campagna attraverso questi vetri: l’azzurro, poi il giallo, il verde, il rosso e il bianco. Questi paesaggi versicolori le dànno successivamente emozioni diverse, e infi- ne la immergono in una fantasticheria profonda di dove sarà tratta di soprassalto dal passaggio di uno stormo di cornacchie. Charles nel frattempo visitava le culture e si informava della rendita. Quest’ultima notazione reintegra l’episodio all’insieme del romanzo facendogli manifestare la divergenza dei due caratteri; ma anche qui il discor- so supera la sua funzione diegetica per svilupparsi autonomamente, in un fascino immobile cui Flaubert partecipa più ancora forse della sua eroina. «Sai in che modo ho passato tutto il pomeriggio di ieri? A guardare la campagna attraverso dei vetri colora- ti; ne avevo bisogno per una pagina della mia Bovary che, credo, non sarà delle peg- giori». Uno dei segni che contraddistinguono questi momenti in cui il racconto sembra tacere e paralizzarsi sotto quello che Sartre chiamerà il grande sguardo pietrificante delle cose, è appunto l’arrestarsi di ogni conversazione, la sospensione di ogni parola umana […] Anche esseri leggeri o grossolani come Léon, Rodolphe, Charles stesso, si prestano a questi silenzi stupefatti. Ecco una scena tra Emma e Charles prima del matri- monio: «Si erano già salutati, non parlavano più … L’ombrellino di seta cangiante, attra- versato dal sole, illuminava di mobili riflessi la pelle bianca del suo volto. Là sotto essa sorrideva al tepore dell’aria e si sentivano le gocce d’acqua a una a una cadere sulla seta ben tesa». Un’altra, con Rodolphe, durante una delle loro notti d’amore, al chiaro di luna: «Non si parlavano, smarriti com’erano nella loro fantasticheria… si udiva ogni  M. S. Sapegno tanto il tonfo di una pesca matura che cadeva da sola dalla spalliera». Una terza, a Rouen con Léon: «Udirono suonare le otto ai vari orologi del quartiere Beauvoisine, che è pieno di collegi, di chiese, di grandi palazzi abbandonati. Non si parlavano più, ma sentivano, guardandosi, un ronzio nella testa come se dalle loro pupille fisse uscisse un suono e un altro suono rispondesse. Si erano presi per le mani e il passato, il futu- ro, i ricordi, i sogni, tutto si confondeva nella dolcezza di quell’estasi». […] Momenti, come si vede, doppiamente silenziosi: perché i personaggi hanno smesso di parlare per mettersi in ascolto del mondo e del loro sogno, e perché questa interruzione del dialogo sospende la parola stessa del romanzo e per un attimo la rias- sorbe in una specie di interrogazione senza voce. […] Valéry trovava Flaubert (nella Tentation de Saint’Antoine) «come ubriacato dall’ac- cidentale a scapito del principale». Se il «principale», in un romanzo, consiste nell’azio- ne, nei personaggi, nella psicologia, nella morale, nella storia, si capisce come questo giudizio possa applicarsi ai suoi romanzi e come il suo gusto per il particolare, e non soltanto per il particolare utile, significativo, come in Balzac, ma per il particolare gra- tuito e insignificante, possa compromettere in lui l’efficacia della narrazione […] Ripensiamo alla frase finale di Hérodiade («Siccome era molto pesante, la portava- no alternativamente») in cui tutta la storia dell’esecuzione di san Giovanni Battista viene a sfociare e a infrangersi su quest’avverbio impenetrabile, chiusa così possentemente insignificante da pietrificare da sola tutto il senso del racconto. Proust ha saputo coglie- re quel ritmo così particolare della dizione flaubertiana, appesantita, piuttosto che snel- lita dai suoi tagli simmetrici, quella scansione monotona che ad ogni passo lascia cade- re e ricadere la frase, con tutto il suo peso, sull’opaca consistenza di qualche partico- lare inutile, arbitrario, imprevedibile […] Questa trascendenza frustrata, questa evasione del senso nel tremore infinito delle cose, costituisce la scrittura di Flaubert in ciò che ha di più specifico e forse rappre- senta la sua più difficile conquista sulla facilità verbosa delle prime opere. La Correspondance e le opere giovanili lo mostrano chiaramente: Flaubert rigurgitava di cose da dire: entusiasmi, rancori, amori, odi, disprezzi, sogni, ricordi … Ma un giorno, per giunta, maturò il proposito di non dire niente, quel rifiuto dell’espressione che inaugura l’esperienza letteraria moderna. I fiori del male di Charles Baudelaire

Il grande poeta novecentesco Thomas Stearn Eliot scrisse una volta in un suo saggio che «Baudelaire è il più grande esempio di poesia moderna in qualsiasi lingua». E in effetti i critici sono oggi pressoché concordi nel rite- nere Charles Baudelaire (1821-1867) il fondatore della lirica moderna. Pro- tagonista di una vita irrequieta, trascorsa tra fumerie d’oppio, dissesti eco- nomici, relazioni erotiche irregolari sfociate nella sifilide che lo conduce al- la morte a soli quarantasei anni, Baudelaire non è capito e non è apprez- zato dai suoi contemporanei, è anzi apertamente osteggiato dai benpensanti per la sua condotta e per la sua opera considerata immorale. Durante la sua vita riesce a pubblicare così solo una parte della sua vasta produzione let- teraria: due volumi di critica d’arte, testimonianza delle sue profonde cono- scenze in tema di pittura contemporanea; cinque volumi di traduzioni del grande scrittore americano Edgar Allan Poe, della cui conoscenza in Euro- pa è il principale tramite; poche delle sue moltissime prose, tra cui I para- disi artificiali e quattro poemi in prosa inclusi sotto il titolo Lo Spleen di Pa- rigi; il suo libro più importante, la raccolta poetica I fiori del male. Questo libro ha una storia assai travagliata. Viene pubblicato una prima volta nel 1857, l’«anno mirabile» della letteratura francese e mondiale, in cui esce un altro capolavoro assoluto, Madame Bovary di Gustave Flaubert. Dopo un violento attacco sul quotidiano «Le Figaro», I fiori del male ven- gono sequestrati per oscenità: Baudelaire è costretto a pagare una multa e a sopprimere sei poesie, ritenute scandalose. Nel 1861 il poeta stampa dunque la seconda edizione dei Fiori: eliminate le sei poesie censurate, Baudelaire ne aggiunge altre trentacinque e riorganizza il libro secondo un nuovo assetto, definitivo. Una terza edizione, del 1868, ovvero successiva alla sua morte, comprende altre liriche apparse su rivista. Il libro, così come si configura nell’edizione del 1861, che rispecchia l’ultima volontà dell’autore, non è una semplice raccolta di liriche, ma pre- senta una struttura tanto serrata e meditata da farlo apparire come un poema unico. Al centro del libro si pone la condizione del poeta e dell’uomo con-  L. Severi temporaneo: la sua degradazione e la sua sterile ansia di riscatto. La poe- sia nasce in Baudelaire da una viscerale conoscenza del proprio tempo e da una lucidità critica che ha pochi eguali. Baudelaire infatti è perfetta- mente cosciente che la riduzione della vita a una questione economica toglie l’anima anzitempo, condannandola all’immiserimento morale. Questo stato di profondo malessere si riassume nello spleen (o ennui), ovvero nella noia, il vero demone dell’età moderna. Essa non è altro che il vuoto disincanto dell’individuo spogliato di idealità, stanco e insieme disgustato dalla propria realtà quotidiana alla quale non può più sottrarsi se non attraverso le droghe, capaci di trascinare nei paradisi artificiali di sensazioni non convenzionali, ma transitorie e illusorie. Alla condizione miserabile dell’uomo moderno non si sottrae il poeta, che anzi più di tutti vi è invischiato, poiché più di tutti ne soffre. Quanto più infatti vuole sollevarsi verso sogni elevati e spirituali, tanto più viene ricacciato verso il fondo della volgare realtà. Il poeta vive come in esilio da una società che è composta per lo più da uomini che aderiscono al meccanismo della produzione e del lavoro materiale, e ai cui occhi gli ideali dell’artista sono indegni di considerazione. Da una condizione del genere non può che derivare una bruciante frustrazione, essendo ormai la poesia priva di ruolo pubblico. Davanti a questo nuovo e immutabile destino di esclusione, il poeta reagisce abbassando il suo sguardo all’altezza delle miserie morali e mate- riali del mondo in cui vive. Baudelaire nella seconda sezione di Fiori canta la città, contemplata senza pudore in tutti i suoi aspetti più sudici e ripu- gnanti: cloache, miasmi, rifiuti, ma anche accattonaggio, prostituzione. Lo sguardo del poeta non esita a scendere negli inferi metropolitani, traen- done scene e paesaggi nuovi, mai visti prima in poesia. Nasce così una vera e propria estetica della bruttezza. Il deforme e l’anormale sono il nuovo mistero da esplorare, capace di risvegliare quell’inquietudine spiri- tuale che la banalità della vita borghese ha addormentato. Ma proprio questo potere esplorativo dimostra che il poeta conserva, più di chiunque altro, delle risorse conoscitive. La superiorità dell’arte ritor- na così a essere, come per i parnassiani, indiscutibile: se c’è una via di libe- razione dall’oppressione della vita contemporanea, questa passa senza dubbio attraverso l’arte. La poesia, in particolare, deve liberarsi di qualsia- si scopo pratico o didascalico e farsi puro strumento di conoscenza, rico- nosciuto o no che sia dalla società. Si rafforza, più che mai prima, l’aspirazione a una poesia pura. Baudelaire riprende il concetto, più ancora che dai parnassiani, dal gran- de scrittore americano Poe, il quale in una sua opera intitolata Principio poetico (1850) aveva proclamato l’assoluto primato della forma sul conte- Charles Baudelaire, I fiori del male  nuto, a vantaggio della «creazione della Bellezza Suprema». Per Baudelaire il primato della forma significa che attraverso la perfezione delle risorse retoriche e compositive il poeta può arrivare a scoprire le «corrisponden- ze» segrete tra le cose, ovvero quella trama di nascoste inquietudini che l’o- pacità della noia non permette più di percepire. Le analogie, ma anche le sinestesie e soprattutto gli ossimori, che con la loro natura di contrasto mettono in luce le profonde contraddizioni che avvelenano l’anima degli uomini, sono strumenti fondamentali di una poesia decisa a penetrare l’in- volucro opprimente della realtà.

I fiori del male L’albatro I testi iniziali di Spleen e Ideale, prima sezione dei Fiori del male, vogliono mettere a fuoco non solo la poetica di Baudelaire, ma anche la stessa fisionomia del poeta nei tempi nuovi. L’albatro, seconda poesia della sezione, è in questo senso un testo chiave. Nella lirica, infatti, Baudelaire paragona il poeta a un albatro: come l’uccello è mae- stoso quando vola ma goffo e ridicolo quando cammina a terra, così il poeta, che un tempo poteva spaziare nei cieli del pensiero, nella società attuale, fondata su criteri com- merciali e su un pubblico di massa, non è altro che un emarginato, oggetto di scherno per la sua impotenza. Il testo è diviso in due sezioni. Nella prima, corrispondente alle prime tre strofe, Baudelaire descrive la derisione di cui è vittima l’albatro quando viene catturato dai marinai, che lo costringono a camminare per vedere come «pietosamente accanto a sé trascina / come fossero remi le grandi ali bianche» (vv. 7-8). La seconda parte del com- ponimento è invece costituita dall’ultima strofa, in cui si introduce il paragone albatro- poeta: «Il Poeta è come lui», infatti, poiché, sebbene possa ancora essere il «principe delle nubi», sebbene cioè sia ancora capace di elevarsi ad altezze vertiginose, è ormai costret- to a essere «esule in terra fra gli scherni», impacciato da quell’aspirazione al sublime che nella società borghese è tanto improduttiva da apparire ridicola. È chiara dunque la struttura di similitudine del componimento, e così anche il suo significato. Vi è alla base la traumatica percezione di una caduta e di una degrada- zione. Baudelaire ha meditato a fondo la modernità, che è vista come epoca di un pro- gresso che risulta paradossale, poiché inteso come progressivo predominio della materia ai danni dello spirito. In un’epoca del genere è inevitabile che il poeta, da guida spiri- tuale di una civiltà, ne diventi il miserabile scarto, irriso dal pubblico di massa. Non manca neanche un’annotazione psicologica, utile a comprendere la violenta inquietu- dine dei poeti del tempo: l’artista, perduto il proprio ruolo sociale, è effettivamente spae- sato, ovvero incapace di sintonizzarsi su un quotidiano di cui non intende più le coor- dinate. Da qui la sua condizione di «esule in terra», condizione psicologica, morale e materiale insieme. Il senso di contraddizione tra la superiorità spirituale del poeta e la sua oggettiva condizione di esilio si riflette sul componimento, tutto fondato su contrasti. Il primo è  L. Severi implicito, ma evidentissimo per un lettore del tempo. L’uccello dalle grandi ali era infat- ti presso i romantici il simbolo della solitudine e della nobiltà della poesia. Anche il par- nassiano Leconte de Lisle aveva stabilito una suggestiva equazione tra il condor e il poeta, entrambi solitari e maestosi nel volo. Ma il precedente poetico più evidente della lirica è un testo capitale del Romanticismo inglese ed europeo, La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, incentrato sulla folle uccisione dell’albatro, uccello sacro e sim- bolo dell’alleanza tra Dio e gli uomini, uccisione per la quale si scatenerà una terribile maledizione su tutto l’equipaggio e sul marinaio stesso. Chiara la situazione di degra- dazione segnalata dunque dalla lirica: l’albatro, ancora intoccabile in Coleridge, in Baudelaire è vilipeso senza ritegno, e addirittura per consuetudine («Spesso», v. 1). Allo stesso modo il testo al suo interno è intessuto di opposizioni. Al v. 6, per esempio, «il re dell’azzurro» appare «maldestro e vergognoso», e subito dopo colpisce quel «trasci- nare» «come fossero remi le grandi ali bianche». Anche la strofa successiva è tutta fon- data su antitesi: «Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!», dove il sublime «viaggia- tore alato» appare debole e addirittura torvo, colmo di odio per quella inaspettata disav- ventura («sinistro»). E la poesia si chiude proprio su un contrasto, relativo al poeta-albatro: «impediscono / che cammini le sue ali di gigante», dove l’immagine finale delle «ali di gigante», com- mossa dichiarazione di superiorità della poesia, non basta a riscattare quella tremenda incapacità di camminare. metro: nella traduzione italiana quattro quartine di endecasillabi (alessandrini nell’ori- ginale).

Spesso, per divertirsi, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari, indolenti1 compagni di viaggio delle navi in lieve corsa sugli abissi amari2. L’hanno appena posato sulla tolda3 e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso, pietosamente accanto a sé trascina come fossero remi le grandi ali bianche. Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato! E comico e brutto, lui prima così bello! Chi gli mette una pipa sotto il becco, chi imita, zoppicando, lo storpio che volava! Il Poeta è come lui, principe delle nubi che sta con l’uragano e ride degli arcieri; esule in terra fra gli scherni, impediscono che cammini le sue ali di gigante.

L’albatros: Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage / Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers, / Qui suivent, indolents compagnons de voyage, / Le navire glissant sur les gouffres amers. // À peine les ont-ils déposés sur les planches, / Que Charles Baudelaire, I fiori del male  ces rois de l’azur, maladroits et honteux, / Laissent piteusement leurs grandes ailes blan- ches / Comme des avirons traîner à côté d’eux. // Ce voyageur ailé, comme il est gau- che et veule! / Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid! / L’un agace son bec avec un brûle-gueule, / L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait! // Le Poète est sem- blable au prince des nuées / Qui hante la tempête et se rit de l’archer; / Exilé sur le sol au milieu des huées, / Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.

Note 1. indolenti: ‘pigri’, ma qui in un’accezione non negativa: gli albatri, che affidano il loro volo alle correnti, muovono con lentezza le ali, comunicando a chi li guardi un senso di quiete, di riposo persino nel volo. Non manca però un’altra sfumatura: le stesse caratteristiche del poeta, che ha bisogno di ozio e di calma per innalzarsi all’atto della creazione, sono viste come indo- lenza, cioè improduttività, nella società borghese. 2. amari: ‘salati’. Gli «abissi amari» non sono altro che il mare profondo. 3. tolda: ‘coperta’ della nave.

Corrispondenze Questa lirica, quarta della sezione Spleen e Ideale, è di fatto il più importante testo di poetica che Baudelaire abbia steso. Le cose sono immobili e mute solo in apparenza: in realtà, tra di esse esistono segrete e infinite relazioni percettive, che solo il poeta rie- sce a cogliere. Siamo davanti a un testo chiave, vero e proprio manifesto della poesia di Baudelaire ma anche della poesia simbolista, ancora di là da venire ma qui piena- mente anticipata. La prima quartina si fonda sull’equiparazione tra la natura e un tempio («È un tem- pio la Natura», v. 1): il poeta, attraversandolo, può cogliere i segnali (tradotti in «paro- le») che, quasi vi fosse celebrato un rito perenne, scorrono tra i suoi «viventi pilastri» (v. 1), ovvero gli alberi (ma anche, più in generale, tutti gli elementi naturali). Insomma, la natura è il luogo in cui il poeta, vero e proprio sacerdote della parola, può entrare in contatto con l’aspetto divino delle cose, purché sappia decifrarne le «foreste di simboli» (v. 3), che non gli sono estranei («gli lanciano occhiate familiari», v. 4). Nella seconda quartina Baudelaire passa a spiegare in che cosa consista questa decifrazione dei sim- boli. Si tratta, per il poeta e per l’artista in genere, di individuare i segreti legami tra le cose, gli «echi» che costituiscono un sistema di rimandi, cioè «un’unità profonda e oscu- ra» (v. 6) fra tutti gli elementi dell’universo. In tale unità, in tale sistema profondo di connessioni e di simboli, non esistono più barriere tra le diverse sensazioni, che si intrec- ciano l’una con l’altra: «i profumi, i colori e i suoni si rispondono». Le due terzine servono da esemplificazione di quanto enunciato. Vengono cioè spie- gate le «corrispondenze» del titolo: le sensazioni olfattive («Profumi», v. 9) possono scon- finare in sensazioni tattili («freschi come la carne d’un bambino», v. 9), acustiche e visi- ve («dolci come l’oboe», «verdi come i prati», v. 10). Ma le sensazioni che derivano dagli elementi naturali, avendo sostanza di simboli, conducono anche a significati più  L. Severi profondi e impensabili: è a partire da esse che il poeta può unire «mente» e «sensi» in un viaggio verso le «cose infinite» (v. 12). Il fatto che il poeta sia stato esiliato dalla società, come è affermato nell’Albatro, non toglie nulla al suo potere visionario. Al fondo di Corrispondenze c’è dunque la conce- zione mistica che Baudelaire ha della poesia. L’apparenza delle cose non è che una parte di ciò che significano: la natura (o meglio il mondo in generale) è un insieme di figure da decifrare, una «foresta di simboli», di cui solo il poeta è in grado di scoprire il senso nascosto. Egli possiede la capacità divinatoria di intuire e interpretare quel siste- ma di analogie e di «corrispondenze» che un uso sapiente ed evocativo della parola può almeno in parte penetrare. In questo senso, le risorse analogiche (come la metafora, la sineddoche ecc.) e la sinestesia cessano di essere delle semplici figure retoriche, ma diventano delle forme di conoscenza profonda. La sinestesia, in particolare, rispecchia l’equivalenza fra i dati esperiti dai vari sensi, in virtù di una consonanza di tonalità affettiva di cui solo il poeta ha la chiave. Si tratta di una vera ossessione, per Baudelaire, che fin dal 1846, in un suo scritto di critica d’arte, aveva insistito sulle relazioni «fra i colori, i suoni e i profumi». La metafora, dal canto suo, permette di associare un’immagine a un’altra immagine, a un concetto, a un’intuizione, squarciando il velo dell’apparenza e ponendo il soggetto che percepisce e sa leggere il reale in comunicazione con i signi- ficati dell’universo soprasensibile. È dunque attraverso questa vista analogica che il poeta indovina la profonda unità di tutte le cose, il loro fondamentale accordo, la loro misteriosa verità. Siamo già nel pieno del misticismo simbolista: di questa poetica Mallarmé farà la propria legge. metro: nell’originale sonetto di alessandrini.

È un tempio la Natura, dove a volte parole escono confuse da viventi pilastri e che l’uomo attraversa tra foreste di simboli che gli lanciano occhiate familiari. Come echi che a lungo e da lontano tendono a un’unità profonda e oscura, vasta come le tenebre o la luce, i profumi, i colori e i suoni si rispondono. Profumi freschi come la carne d’un bambino, dolci come l’oboe, verdi come i prati – e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza, con tutta l’espansione delle cose infinite: l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino1, che cantano i trasporti della mente e dei sensi.

Correspondaces La Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sor- tir de confuses paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symbols / Qui l’ob- servent avec des regardes familiers. // Comme de longs échos qui de loin se confon- Charles Baudelaire, I fiori del male  dent / Dans une ténébreuse et profonde unité, / Vaste comme la nuit et comme la clarté, / Les parfums, les couleurs et les sons se répondent. // Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants, / Doux comme les hautbois, verts comme les prairies, / – Et d’autres, corrompus, riches et triomphants, // Ayant l’expansion des choses infinies, / Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens, / Qui chantent les transports de l’e- sprit et des sens. (da Ch. Baudelaire, I fiori del male e altre poesie, trad. di G. Raboni, Einaudi, Torino 1999).

Note 1. benzoino: resina ricavata da piante tropicali, usata in medicina e in profumeria.

Lo Spleen di Parigi Perdita d’aureola Il testo è il quarantaseiesimo della raccolta di poemetti in prosa intitolata Lo spleen di Parigi, pubblicata, nella sua versione definitiva, solo postuma. In Perdita d’aureola Baudelaire mette a nudo la condizione del poeta nella società industriale con un’im- mediatezza senza precedenti, affidata in gran parte all’ironia. La forma scelta non è quella del saggio, ma quella, ben più efficace, della parabola brillante, tanto breve quanto incisiva. L’efficacia del poema in prosa è dovuta alla sua struttura dialogica, rapida e ritmata. Due sono gli interlocutori: il poeta medesimo e un suo amico, il quale apre il dialo- go meravigliandosi di incontrare il primo in un «posto malfamato» (r. 1). Il poeta infat- ti è, nella tradizione occidentale, l’uomo di più nobile ispirazione, capace di parlare con gli dèi (e su di lui vegliano le Muse e Apollo in persona). Per questo è chiamato «il degu- statore di quintessenze», «il divoratore di ambrosia» (rr.1-2): non il vino, non comuni cibi materiali, ma sostanze spirituali, divine, sfanavano il poeta, assetato di conoscen- ze superiori. E si noti l’ironia caustica dell’accostamento di parole sublimi come «quin- tessenze» e «ambrosia» a verbi carnali come «degustare» e «divorare». Ironia che ritorna peraltro nella risposta del poeta. Il quale racconta di aver perso, nell’atto di attraversa- re la strada, la sua tradizionale aureola, il simbolo di nobiltà e di superiorità sacerdo- tale che aveva sempre ostentato.

«Ehi! Ma come? voi qui, carissimo? Voi in un posto malfamato? Voi, il degustatore di quintessenze!1 Voi, il divoratore di ambrosia! Sul serio, c’è di che stupirmi!» «Mio caro, voi conoscete il terrore che ho dei cavalli e delle carrozze. Poco fa, mentre attraversavo di gran premura il boulevard2, e saltellavo nella melma, in mezzo a questo caos frenetico dove la morte accorre al galoppo da tutte le parti in un sol tempo, la mia aureola, a un movimen- to brusco, mi è scivolata di testa nella fanghiglia del macadam3. Non ho  L. Severi avuto il coraggio di raccoglierla. Ho giudicato meno orribile perdere le mie insegne per farmi spezzare le ossa. E poi, mi sono detto, non tutto il male viene per nuocere. Ora posso andarmene in giro in incognito, compiere azioni più vili, asservirmi alla crapula come i semplici mortali. E come vedete, eccomi qua, in tutto eguale a voi.» «Dovreste almeno mettere un annuncio, per questa aureola, farla cerca- re dal commissario…» «Parola mia, no! Qui sto bene. Voi, voi solo mi avete riconosciuto. E poi la dignità mi annoia! E immagino con gioia che qualche poeta spregevole la raccatterà, e impudente se ne acconcerà la testa. Farlo felice, che gioia! E soprattutto un felice che mi farà ridere! Pensate a X…, o a Z…! Ah! Come sarà comico!»

Perte d’aureole Eh! quoi! vous ici, mon cher? vous dans un mauvais lieu! vous, le buveur de quintessences! vous le buveur d’ambroise! en vérité, il y a là de quoi me sur- prendre. – Mon cher, vous connaissez ma terreur des chevaux et des voitures. Tout à l’heure, comme je traversais le boulevard, en grand hâte, et que je sautillais dans la boue, à travers ce chaos mouvant où la mort arrive au galop de tous les côtés à la fois, mon auréole dans un mouvement brusque à glissé de ma tête dans la fange du maca- dam. Je n’ai pas eu le courage de la ramasser. J’ai jugé moins désagréable de perdre mes insignes que de me faire rompre les os. Et puis, me suis-je dit, à quelque chose malheur est bon. Je puis maintenant me promener incognito, faire des actions basses et me livrer à la crapule comme les simples mortels. Et me voici tout semblable à vous, comme vous voyez! – Vous devriez au moins faire afficher cetté auréole, ou la faire réclamer par le commissaire. – Ma foi! non. Je me trouve bien ici. Vous seul, vous m’a- vez reconnu. D’ailleurs la dignité m’ennuie. Ensuite je pense avec joie que quelque mauvais poète la ramassera et s’en coiffera impudemment. Faire un heureux, quelle juissance! et surtout un heureux qui me fera rire! Pensez à X ou à Z! hein! Comme ce serà drôle! (da Ch. Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, trad. di G. Montesano, in Opere, Mondadori, Milano 1996).

Note 1. quintessenze: nel linguaggio degli alchimisti, la quintessenza è la parte più pura di qualsiasi sostanza. Qui ci si riferisce all’uso della parola fatto dal filosofo greco Aristotele, per il quale la quintessenza è l’elemento costitutivo dei corpi celesti. 2. boulevard: viale cittadino. 3. macadam: massicciata stradale costituita da pietrisco compresso; si tratta di un sostantivo francese, dal nome del suo inventore scozzese McAdam. LUIGI SEVERI Charles Baudelaire, I fiori del male 

WALTER BENJAMIN, Baudelaire da W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I «passages» di Parigi, a cura di R. Tiedermann, Einaudi, Torino 1986

Le facoltà dell’anima, che tanto posto hanno in Baudelaire, sono «ricordi» (Andenken) dell’uomo allo stesso modo in cui le allegorie medievali sono ricordi degli dèi. «Baudelaire – ha scritto una volta Claudel – ha per oggetto l’unica esperienza inte- riore che sia ancora concessa all’uomo del XIX secolo: il rimorso». Questa è di fatto ancora una visione troppo rosea; tra le esperienze interiori il rimorso non era meno estinto delle altre canonizzate in precedenza. Il Remord è in Baudelaire solo un ricor- do, come il Repentir o la Vertu, l’Espoir e persino l’Angoisse, colte nell’istante in cui cedono il posto alla morne Incuriosité. [J 53, I]

Ciò in cui in definitiva la modernità si dimostra più intimamente affine all’antichità classica è la sua fugacità. L’ininterrotta risonanza di cui le Fleurs du mal hanno goduto fino ad oggi è connessa ad un determinato aspetto in cui si presentava la grande città nell’atto in cui essa giungeva per la prima volta alla poesia, che è quello più inatteso e imprevedibile. Ciò che traspare in Baudelaire nei versi che evocano Parigi è il caratte- re decrepito e caduco di una grande città. Esso trova forse la trascrizione più perfetta nel Crépuscule du matin che è la riproduzione, nel materiale costituito da una città, del rantolo del dormiente che si risveglia. Quest’aspetto è però più o meno condiviso dal- l’intero ciclo dei tableaux parisiens e giunge ad espressione nella trasparenza della città qual è magicamente messa in scena da Le soleil non meno che nell’evocazione del Louvre in Le cygne. [J 57a, 3]

Baudelaire non possedeva l’idealismo umanitario di un Victor Hugo o di un Lamartine, né disponeva della serenità emotiva di un Musset. Non ha goduto del pro- prio tempo come Gautier, né ha potuto ingannarsi sul suo conto come Leconte de Lisle. Non gli fu concesso di rifugiarsi nella devozione come Verlaine, né di potenziare come Rimbaud lo slancio lirico della giovinezza col suo tradimento nell’età adulta. Baudelaire fu tanto ricco di cognizioni nella sua opera di artigiano quanto povero di scappatoie di fronte al proprio tempo. E persino quel grande copione tragico che egli compose per le platee della propria epoca – il ruolo del “moderno” – poteva essere recitato in defi- nitiva solo da lui stesso. Tutto questo Baudelaire lo seppe senza ombra di dubbio. Le eccentricità di cui si compiacque sono quelle di un mimo che deve recitare dinanzi a un pubblico incapace di seguire la trama degli eventi sulla scena, che ne è consape- vole e che nella sua recita rende giustizia a questa consapevolezza. [J 62, 6]

L’individualità come tale assume dei contorni eroici, quanto più prepotentemente la massa occupa il campo visivo. È questa l’origine della concezione dell’eroe in Baudelaire. In Hugo non è in questione l’individuo isolato come tale, ma il citoyen  L. Severi democratico. Ciò determina un’opposizione fondamentale tra i due poeti. Lo sciogli- mento di questa opposizione avrebbe come sua condizione preliminare l’eliminazione dell’apparenza che essa stessa riflette. Quest’apparenza risale al concetto di massa. La massa come tale, a prescindere dalle diverse classi che la compongono, non ha un significato sociale primario, e quello secondario dipende dall’insieme di relazioni a par- tire dalle quali essa si costituisce volta per volta in ogni singolo caso. Il pubblico di un teatro, un esercito, l’insieme degli abitanti di una città, formano delle masse che non appartengono come tali ad una classe determinata. Il mercato libero moltiplica rapida- mente a perdita d’occhio queste masse, giacché ogni merce attira intorno a sé la massa dei suoi acquirenti. Gli stati totalitari hanno fatto di queste masse il loro modello. La comunità del popolo tende ad estirpare in ogni singolo individuo tutto ciò che è d’o- stacolo al suo dissolvimento pieno e senza residuo in una massa di utenti. [J 81a, 1] Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij

Nel corso di una vita densa di esperienze estreme e drammatiche, Fëdor Michàjloví∫ Dostoevskij (1821-1881) misura la propria vocazione di scritto- re affrontando senza esitazione e con sorprendente modernità i problemi più difficili che si pongono alla coscienza soggettiva: la relazione tra il bene e il male, la responsabilità individuale e il contesto sociale, i rappor- ti di potere, il problema di Dio. Scrittore assai prolifico e di straordinaria complessità, nei suoi romanzi cerca sempre di tendere al limite i confini tra i generi letterari, forzandone le strutture: autobiografia, diario, raccon- to, romanzo, poesia confluiscono in narrazioni sempre attente al dato psi- cologico, morale e religioso. Nella sua difficile giovinezza Dostoevskij rivela una passione precoce per la letteratura europea, legge avidamente e comincia presto a scrivere storie di personaggi sofferenti. Già nel primo romanzo, Il sosia (1846), si evidenzia una grande attenzione ai problemi del disagio psichico e dello sdoppiamento della personalità. L’adesione a un circolo di intellettuali socialisti gli costa la pena capita- le, che viene poi commutata in condanna all’ergastolo e ai lavori forzati in Siberia. Dopo circa dieci anni, grazie alle riforme avviate da Alessando II, lo scrittore riesce però a riprendere una vita normale. Dostoevskij lavora allora come giornalista e scrive opere narrative. Le più importanti sono Umiliati e offesi (1862), romanzo sociale che esce a puntate su una rivista; Memorie dal sottosuolo (1865), storia di una prosti- tuta e di un uomo dolorosamente incapace di vivere; Delitto e castigo (1866), il suo primo capolavoro. Costruito su diversi nuclei narrativi e con- siderando il punto di vista di diversi personaggi, il romanzo, come gran parte delle opere dello scrittore, ha fatto parlare, da parte del grande criti- co russo Michail Bachtin, di tecnica «polifonica». Nel 1867 esce Il giocatore, romanzo breve parzialmente autobiografico che narra le vicende di un uomo soggiogato dal vizio per il gioco d’azzar- do. In questo periodo Dostoevskij trascorre parecchi anni all’estero e pro- getta una sorta di saga epica che attraverso la Vita di un grande peccato-  M. S. Sapegno re illustri trent’anni di storia russa dal punto di vista sociale e filosofico. L’opera non viene mai scritta ma costituisce il filo da cui nascono i grandi romanzi della maturità; tra questi L’idiota, pubblicato nel 1868-1869, storia di un uomo profondamente buono, aristocratico decaduto, povero e mala- to di epilessia, dal comportamento nobile ma sconfitto dalla vita e infine destinato alla follia. Su un altro piano si colloca invece il romanzo I demo- ni, del 1873. Storia di un gruppo di anarchici, profondamente critico verso l’ideologia nichilista, presentata dall’autore come una scelta intellettualisti- ca che travolge ogni rapporto con la realtà, fu considerato il frutto di un’in- voluzione reazionaria dello scrittore. L’ultimo grande romanzo, scritto negli anni di un crescente avvicina- mento alla riflessione mistica e pubblicato nel 1880, è I fratelli Karamazov, costruzione ricca e complessa che pone al centro il conflitto tra il bene e il male, ma anche tra una «ragione» denunciata come arrogante e un «cuore» capace di un’intuizione spirituale e religiosa. Elemento portante della trama è un episodio di parricidio, che viene a rappresentare simbolicamente il crollo di un vecchio mondo patriarcale, della religione dei padri, provoca- to da giovani innamorati di una ragione illusoria. Nonostante sia possibile cogliere un’evoluzione nel pensiero dello scrit- tore, bisogna evitare di leggere i suoi romanzi con esclusiva attenzione alla sua parabola ideologica, quasi fosse un filosofo; Dostoevskij è infatti innan- zitutto uno straordinario narratore, capace di ricostruire un mondo di rela- zioni e di passioni, di riprodurre la complessità di personaggi andando ben al di là della rappresentazione di uno scontro tra idee, per toccare invece i misteri più profondi dell’animo e della vita umana.

Delitto e castigo Delitto e castigo si caratterizza per quella complessità della trama e per quella ricchezza dei personaggi che saranno poi costanti e anzi accentua- te in tutti i romanzi dostoevskiani della maturità. La narrazione non è mai del tutto lineare, né segue il punto di vista di un solo personaggio. Si svol- gono anzi in parallelo ben tre storie, con diversi narratori e con una loro autonomia relativa: la linea portante, condotta da un narratore onniscien- te, che vede al centro lo studente Raskol’nikov, quella narrata in prima per- sona dall’ubriacone Marmeladov (che proviene dal nucleo progettuale per un altro romanzo) e infine quella, raccontata in una lettera della madre dello studente, sulle vicende della sorella Dunja. Nel romanzo si illustrano soprattutto due opposte concezioni del mondo: quella elitaria di Raskol’nikov, avvicinabile alle teorie del supe- ruomo, che riconosce a una strettissima minoranza di individui il diritto di Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo  porsi al di sopra della legge e della morale, e quella di ispirazione cri- stiana, basata sulla morale del sacrificio e dell’amore, di Sonja – una gio- vane che convince Raskol’nikov a confessare alle autorità la propria colpa. Se il racconto porta il lettore a contatto con i vicoli e le casupole di Pietroburgo, con le sofferenze e i problemi del suo popolo, la città diven- ta però anche metafora dell’interiorità nella quale il protagonista si muove alla ricerca di una verità. Tale profondo e tormentato scavo nella interio- rità costituisce la caratteristica che fa del romanzo uno dei testi base della tradizione europea. Lo studente Raskol’nikov uccide a Pietroburgo una vecchia usuraia e sua sorella per denaro, ma anche per un malsano senso di superiorità. Riesce a evitare di essere scoperto, ma la sua colpa e il timore di essere identificato lo perseguitano. Mentre vaga sconvolto, senza meta, incontra la più varia umanità di malfattori e diseredati, in particolare la famiglia del- l’ubriacone Marmeladov, tra cui la dolce Sonja, che è stata spinta alla pro- stituzione. La giovane lo induce a costituirsi, quindi lo segue in Siberia dove è inviato ai lavori forzati. Là, con Sonja, Raskol’nikov troverà conso- lazione. Una storia a sé è costituita dalle vicende della sorella di Raskol’nikov, Dunja, che cerca di aiutarlo in tutti i modi, anche accettando di sposare per denaro un losco personaggio.

Un delitto senza ragione? Raskol’nikov ha compiuto il suo delitto ed è in preda a una profonda agitazione; convocato dalla polizia per altri motivi, è stato sul punto di tradirsi. Torna poi a casa, dove ha lasciato gli oggetti sottratti all’usuraia che ha ucciso. Il brano è incentrato sul- l’ansia del protagonista, una frenesia invincibile che si esprime soprattutto in un’esi- genza di fare in fretta. La riflessione ininterrotta e febbrile sul modo di disfarsi delle prove porta Raskol’nikov a interrogarsi sullo sguardo altrui, sulla possibile visibilità della colpa. Poi credendo, o illudendosi, di essersi liberato finalmente di un peso così schiac- ciante, è invaso da un sentimento anch’esso estremo, una gioia che lo fa ridere isteri- camente, nella speranza di aver cancellato il ricordo dell’evento, e così la sua colpa. Le emozioni si succedono vorticose nella psiche scossa di Raskol’nikov, egli indaga sulle motivazioni stesse della propria azione delittuosa, che si fanno sempre più oscure.

«E se la perquisizione l’avessero già fatta? E se me li trovassi già in casa?» Ma ecco la sua stanza. Niente e nessuno: non c’è stato nessuno. Anche Nastasja non ha toccato nulla. Ma santo Iddio! Come aveva potuto lascia- re tutta la roba in quel buco? Si slanciò verso l’angolo, ficcò la mano sotto la tappezzeria e cominciò a tirar fuori gli oggetti e a riempirsene le tasche. Erano otto in tutto: due  M. S. Sapegno scatolette, con dentro orecchini o qualcos’altro del genere: non stette ad esaminarli; poi quattro astuccetti di marocchino. Una catenina era avvolta semplicemente in un pezzo di giornale. Qualcos’altro, forse una decora- zione, pure in un pezzo di giornale… Ficcò tutto in varie tasche, quelle del soprabito e la tasca destra dei cal- zoni, l’unica rimasta, badando che si notasse il meno possibile. Insieme a quegli oggetti prese anche il borsellino. Poi uscì dalla stanza, questa volta lasciando addirittura la porta spalancata. Camminava con passo rapido e fermo, e sebbene si sentisse a pezzi, era cosciente di quel che faceva. Temeva d’essere inseguito, e che di lì a mezz’ora o a un quarto d’ora potessero già dare ordine di pedinarlo; quin- di occorreva far scomparire al più presto ogni indizio. Doveva riuscirci fin- ché gli restavano ancora un po’ di forze e una residua capacità di ragio- namento… Ma dove andare? Aveva già deciso da un pezzo: buttare tutto nel canale, così sparisce ogni traccia e la faccenda è chiusa. Lo aveva deciso già durante la notte, nel delirio, negli istanti in cui, lo ricordava bene, a più riprese era stato lì lì per cedere all’impulso di alzarsi e di uscire: «Sbrigarsi, sbrigarsi e buttar via tutto». Ma la faccenda si rivelò molto difficile. Da mezz’ora, o forse più, si aggirava lungo il canale Ekaterininskij, e più volte, passandoci accanto, aveva lanciato sguardi furtivi alle rampe che portavano al canale. Ma quanto ad agire, era il caso di pensarci due volte: c’erano, proprio di fianco ai passaggi, certi pontoni su cui le lavandaie sta- vano inginocchiate; oppure c’erano barche all’ormeggio, e dovunque era un brulicare di gente, tanto che avrebbero potuto vederlo da qualsiasi parte, lungo le strade che costeggiavano il canale: desta sospetto uno che scende, si ferma e getta qualcosa in acqua. E poi, se gli astucci non fosse- ro andati a fondo, se avessero cominciato a galleggiare? Senza dubbio sarebbe andata così, e tutti li avrebbero notati. Già adesso, incrociandolo, tutti lo guardavano, lo squadravano, come se non avessero altro da fare. «Perché, poi? Forse è soltanto una mia impressione», pensò. Infine gli venne in mente che sarebbe stato meglio, forse, arrivare sino alla Neva. Ci sarebbe stata meno gente, minor rischio d’esser notato; comunque sarebbe stato più agevole e, ciò che più conta, era lontano da lì. A un tratto si meravigliò: come mai aveva sprecato una buona mezz’o- ra a girovagare, tutto triste e inquieto, in quei posti pericolosi? Come mai non ci aveva pensato prima? Aveva perso mezz’ora buona per una cosa assurda, solo perché aveva deciso così nel sonno, nel delirio! Stava diven- tando terribilmente distratto e smemorato, e se ne rendeva conto. Doveva spicciarsi ad ogni costo! Si avviò verso la Neva seguendo il V-j Prospekt; ma per via, all’im- Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo  provviso, lo colse una nuova idea: «Perché nella Neva? Perché proprio nell’acqua? Non sarebbe meglio andare in qualche posto molto lontano, sia pure di nuovo sulle Isole, e là, in un angolino solitario, in un boschetto, sotto un cespuglio, seppellire tutta questa roba, e magari tenere a mente il posto?» Benché sentisse che non poteva, in quel momento, prendere decisioni chiare e sensate, l’idea gli sembrò azzec- catissima. Ma era destino che non arrivasse nemmeno sulle Isole, perché le cose presero un’altra piega: sbucando dal V-j Prospekt sulla piazza, d’un tratto scorse, a sinistra, l’ingresso a un cortile fiancheggiato da muri senza finestra. Sulla destra, appena oltre il portone, cominciava, e si spingeva lontano nel cortile, il muro senza intonaco e senza finestre del vicino fabbricato a quattro piani. Sulla sinistra, sempre subito dopo il portone e parallelamente a questo muro, correvauna stecconata, che proseguiva per una ventina di passi nel cortile e poi piegava a sinistra. Era un posto riparato e solitario che serviva da deposito di materiali. Più in là, in fondo al cortile, s’intravvedeva dietro la stecconata il profilo di una bassa rimessa in muratura, tutta affumicata, che faceva corpo, evi- dentemente, con qualche fabbrica. Dentro c’era, di sicuro, l’officina di un carradore1 o di un fabbro, o qualcosa di analogo; tutto, a partire quasi dal portone, era nero di polvere di carbone. «Ecco il posto per buttar via la roba e andarmene!» pensò. Non vedendo nessuno nel cor- tile, varcò il portone, e proprio lì accanto vide, a ridosso dello stecca- to, uno scolo per l’acqua sudicia (com’è frequente nelle case abitate in prevalenza da operai, artigiani, vetturini, ecc.): al di sopra, sulla stecco- nata, era scritta col gesso la solita spiritosaggine: «Vietato fermarsi». Era già un bene, dunque, il fatto che nessuno potesse sospettarlo d’essere entrato lì e di esservisi fermato. «Gettare tutto quanto alla rinfusa, e andarsene!» Dopo essersi guardato attorno ancora una volta, aveva già ficcato una mano in tasca, quando a un tratto, proprio vicino al muro esterno, tra il portone e lo scolo d’acqua, in uno spazio di un metro circa al mas- simo, notò una grossa pietra non sgrossata, del peso approssimativo di una ventina di chili, appoggiata direttamente al muro esterno. Oltre il muro c’erano la strada, il marciapiede, si sentiva l’andirivieni dei pas- santi, sempre abbastanza numerosi in quel punto; ma dietro il portone nessuno poteva vederlo, a meno che non avesse deviato dalla strada, cosa che d’altronde era possibilissima: bisognava quindi sbrigarsi. Egli si chinò sulla pietra, ne afferrò saldamente, con tutt’e due le mani, la sommità, chiamò a raccolta tutte le sue forze e la rovesciò. Sotto s’era formata una piccola cavità: subito egli cominciò a gettarvi il  M. S. Sapegno contenuto delle sue tasche. Il borsellino finì proprio in cima, ma nella cavità c’era ancora spazio. Quindi afferrò di nuovo il sasso, con una sola mossa lo rivoltò com’era prima ed esso ritrovò esattamente lo stesso posto; soltanto appariva, forse, un tantino più alto. Ma egli raccolse un po’ di terra e con il piede la schiacciò contro gli orli del sasso. Così non rimanevano tracce. Allora uscì, e si diresse verso la piazza. Di nuovo, come prima all’uf- ficio di polizia, l’invase per un istante una gioia intensa, quasi insop- portabile. «L’incidente è chiuso! A chi mai verrà in mente di cercare sotto quella pietra? È probabile che essa si trovi lì da quando è stata costrui- ta la casa, e che vi rimanga per altrettanto tempo. Ma anche se trovano la roba, chi può pensare a me? È tutto finito! Non esistono prove!» e scoppiò a ridere. In seguito si ricordò di quel suo ridere nervoso, minu- to, sommesso, prolungato, e di aver continuato a ridere mentre attra- versava la piazza. Ma quando arrivò al corso K., dove due giorni prima aveva incontrato quella ragazza, smise subito di ridere. Altri pensieri gli occuparono la mente. Di colpo gli sembrò di provare un tremendo disgusto nel passare davanti a quella panchina, sulla quale quel giorno, dopo che la fanciulla se n’era andata, era rimasto seduto a meditare, e pensò come sarebbe stato penoso incontrare di nuovo quell’agente al quale aveva dato venti copeche2: «Che il diavolo se lo porti!» Camminava guardandosi in giro distratto e iracondo. Tutti i suoi pen- sieri vorticavano ora intorno a un punto fondamentale, ed egli stesso sentiva che era davvero fondamentale e che adesso, proprio adesso, egli rimaneva a tu per tu con esso, per la prima volta, dopo due mesi. «Che vada tutto al diavolo!» pensò d’un tratto in un accesso di rabbia smisurata. «Be’, se la faccenda ha preso questa piega, è segno che dove- va prenderla: al diavolo lei e la nuova vita! Dio mio, com’è tutto stupi- do! e quante bugie ho detto oggi, quante porcheriole ho fatto! Come sono stato schifosamente servile e strisciante, poco fa, con quel ribut- tante Iljà Petròvic3! Del resto, anche queste sono sciocchezze! Me ne infischio di tutti loro, e anche di esser stato servile e strisciante! Non è questo che conta! Non è questo! Non è questo!…» D’un tratto si fermò: all’improvviso una nuova domanda, completa- mente imprevista e straordinariamente semplice, lo disorientò, colman- dolo di amaro stupore: «Se davvero tutto questo l’ho fatto coscientemente e non da pazzo, se mi proponevo davvero uno scopo ben preciso, come mai non ho neanche guardato nel borsellino e non so neanche che cosa mi è toc- cato, per che cosa mi sono cacciato in tutti questi guai, decidendomi consapevolmente ad un’azione così vile, disgustosa e bassa? Poco fa Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo  volevo addirittura buttarlo nell’acqua, il borsellino, insieme a tutti gli oggetti che nemmeno ho guardato… Come si spiega?». (da F. Dostoevskij, Delitto e castigo, trad. di G. Kraiski, Garzanti, Milano 1969).

Note 1. carradore: artigiano che costruisce o ripara carri. 2. copeche: le copeche sono monete russe, originariamente d’argento. Oggi equivalgono a un centesimo del rublo. 3. Iljà Petròvic: tenente di polizia rozzo e insolente. MARIA SERENA SAPEGNO  M. S. Sapegno

MICHAIL BACHTIN, Il romanzo polifonico di Dostoevskij e la sua interpretazione nella letteratura critica in M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002

[…] La pluralità delle voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte, l’autentica polifonia delle voci pienamente autonome costituisce effettivamente la caratteristica fon- damentale dei romanzi di Dostoevskij. Nelle sue opere non si svolge una quantità di caratteri e destini per entro un unitario mondo oggettivo e alla luce di un’unitaria coscienza poetica, ma qui appunto una pluralità di coscienze equivalenti con i loro pro- pri mondi si unisce, conservando la propria incompatibilità, nell’unità di un certo even- to. Gli eroi principali di Dostoevskij sono veramente, nello stesso disegno creativo del- l’artista, non soltanto oggetti della parola dell’autore, ma anche soggetti della propria parola immediatamente significante. La parola dell’eroe, quindi, non è qui esaurita affatto dalle consuete funzioni descrittive e pragmatico-narrative, ma non serve neppu- re da espressione della posizione ideologica propria dell’autore (come in Byron, ad esempio). La coscienza dell’eroe è data come una coscienza altra, estranea, ma nello stesso tempo essa non si reifica, non si chiude, non diventa semplice oggetto della coscienza dell’autore. Dostoevskij è il creatore del romanzo polifonico. Egli ha dato vita a un genere romanzesco sostanzialmente nuovo. Ed è per questo che la sua opera non rientra in alcuna trama, non si sottomette ad alcuno degli schemi storico-letterari che siamo soli- ti applicare ai fenomeni del romanzo europeo. Nelle sue opere compare un eroe la cui voce è costruita così come si costruisce la voce dell’autore nel romanzo di tipo ordi- nario. La parola dell’eroe su se stesso e sul mondo è pienamente autonoma come l’or- dinaria parola dell’autore; essa non è assoggettata all’immagine oggettuale dell’eroe come una delle sue caratteristiche, ma neppure serve da altoparlante della voce del- l’autore. Possiede un’autonomia assoluta all’interno della struttura dell’opera e quasi risuona accanto a quella dell’autore e si unisce in un modo particolare con essa e con le voci altrettanto autonome degli altri eroi. Ne consegue che i consueti legami pragmatico-narrativi d’ordine materiale o psi- cologico nel mondo di Dostoevskij sono insufficienti poiché essi presuppongono l’oggettualità, la reificazione degli eroi nel progetto dell’autore e connettono e uni- scono le immagini umane nell’unità di un mondo monologicamente percepito e capito, anziché una molteplicità di coscienze equipollenti con i loro propri mondi. La consueta pragmatica narrativa nei romanzi di Dostoevskij svolge un ruolo secon- dario ed ha funzioni non consuete, ma particolari. I punti connettivi fondamentali invece, che creano l’unità del suo mondo romanzesco, sono di altro genere; l’even- to principale, appalesato dal suo romanzo, non si concede a un’interpretazione pragmatico-narrativa. Inoltre lo stesso impianto del racconto – sia esso condotto dall’autore in prima per- sona o da un narratore o da uno degli eroi – deve essere affatto diverso rispetto ai romanzi di tipo monologico. La posizione dalla quale è condotto il racconto, è costrui- ta la raffigurazione o è data l’informazione, deve essere orientata in modo nuovo in rapporto a quel nuovo mondo: un mondo di soggetti con pieni diritti, e non di ogget- Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo  ti. La parola narrativa, raffigurativa o informativa deve elaborare un nuovo rapporto verso il proprio oggetto. Per tal modo tutti gli elementi della struttura del romanzo sono in Dostoevskij profondamente originali; essi sono tutti determinati dal nuovo compito artistico che sol- tanto egli ha saputo porre e risolvere in tutta la sua ampiezza e profondità: il compito di costruire un mondo polifonico e di distruggere le forme costituite del romanzo euro- peo fondamentalmente monologico (ovvero omofonico). Dal punto di vista di una conseguente visione e comprensione monologica del mondo raffigurato e del canone monologico di costruzione del romanzo, il mondo di Dostoevskij può sembrare un caos, e la struttura dei suoi romanzi un conglomerato di materiali eterogenei e di principi incompatibili di organizzazione formale. Soltanto alla luce del fondamentale compito artistico dostoevskiano da noi formulato può diventa- re comprensibile la organicità, coerenza e integrità profonda della sua poetica.

Guerra e pace di Lev Tolstoj

Appena scomunicato dal Santo Sinodo (1901), Lev Tolstoj (1828-1910) replicò con una dichiarazione che, capovolgendo un aforisma di Samuel Coleridge, si concludeva dicendo: «Ho cominciato ad amare la mia religio- ne ortodossa più della mia tranquillità, poi ho amato il cristianesimo più della mia chiesa, adesso amo la verità più di qualsiasi cosa al mondo. E per me la verità coincide ancora col cristianesimo come io lo confesso, vivo tranquillo e pacifico e mi approssimo felicemente alla morte». L’anelito alla «verità» (che investe i temi fondamentali della vita: il sesso, la famiglia, l’amore, la società, la morte, Dio) lo ha guidato nella ricerca non solo sul versante etico-politico (e religioso), anche su quello estetico: perciò, a differenza di altri autori – si pensi ad es. a N. Gògol’ – per i qua- li la riflessione etico-religiosa ha ostacolato la creazione letteraria, Tolstoj ha coniugato insieme l’uno e l’altro, fino al termine dei suoi giorni. Ciò im- plica che, nella sua modernità, il suo «realismo» risulti d’una pasta partico- lare, teso più alla «verità» che alla «verisimiglianza», rivelando un legame sot- terraneo con la cultura russo-antica, pre-petrina: di qui, anche, la sua av- versione per una poetica, come quella del simbolismo, che ai suoi occhi disgiungeva l’estetico dall’etico. L’ideologia e l’arte di Tolstoj si trovano a fare i conti con il complesso intreccio tra la sua origine aristocratica e l’aspirazione a identificare l’«uomo di natura» roussoviano nel mu≈ík russo. Lo ha evidenziato Lev Trockij in un intervento per gli ottant’anni dello scrittore, in cui dice: «Nella casa avita, Tolstoj occupa una camera semplice alle cui pareti è appesa una sega, appoggiata una falce, con una scure che sta lí accanto. Però al piano supe- riore dalle pareti guardano gli antenati illustri. Nell’anima del padrone di casa troviamo entrambi i piani, ma in ordine inverso: se negli strati supe- riori della coscienza s’è fatta il nido la filosofia della vita semplice e della fusione col popolo, in quelli inferiori, dove si radicano sentimenti, passio- ni e volontà, ci guarda la galleria degli antenati». Tutta la vasta produzione tolstojana, iniziata con testi autobiografici (Infanzia, Adolescenza, Giovinezza), culminata in tre grandi romanzi  C. G. De Michelis (Guerra e pace, Anna Karenina e Resurrezione) e coronata da alcuni rac- conti (La morte di Ivan Il’i∫, La sonata a Kreutzer, Chad≈i-Murat, Padre Sergij), è sotto il segno della più radicale ‘sincerità’, resa percettibile col procedimento dello straniamento (V. ◊klovskij): con grande consapevo- lezza della non-coincidenza tra i realia impiegati e la loro funzione lette- raria. Quando una conoscente gli chiese chi fosse in realtà il principe Andrej, rispose: «Andrej Bolkonskij non è nessuno, come ogni personag- gio d’un romanziere, e non ha niente a che vedere con le conoscenze e i ricordi dello scrittore. Mi sarei vergognato di venir pubblicato, se tutto il mio lavoro fosse consistito nel fare ritratti» (tuttavia, alla base del romanzo c’è la tradizione di famiglia, e quella materna si chiamava ‘Volkonskij’); anzi, era infastidito quando si cercava di entrare nella sua ‘cucina’, e ad Alessandro d’Ancona, che gli aveva scritto per aver conferma che l’abate Morio avesse come prototipo Scipione Piattoli, non rispose nemmeno.

Guerra e pace Sullo sfondo della storia russa ed europea d’età napoleonica, da Auster- litz fino alla ritirata di Russia, si dipanano le vicende di tre famiglie, i Kurà- gin, i Rostòv e i Bolkónskij, e d’un loro comune amico, l’intellettuale Pier- re Bezúchov. Andréj Bolkonskij, precocemente vedovo e ferito in battaglia, s’innamora, riamato, della giovanissima Nata√a Rostova, il cui fratello Nikolàj nutre un tenero sentimento per Sònja, una parente povera accolta in casa. Le vicende della storia allontanano Andrej e Nata√a sta per cedere alla corte di Anatòlij Kuragin, un bellimbusto la cui sorella, Elèna, aveva sposato Pierre. Durante l’avanzata delle truppe napoleoniche, fino alla con- quista di Mosca, e al successivo incendio, tutto viene stravolto: Pierre è cat- turato dai francesi e nella tragica marcia al loro seguito conosce la saggia semplicità del popolo russo nella persona d’un mu≈ik, Platòn Karatàev. An- drej, ferito gravemente, è accolto per caso nel convoglio dei Rostov in fu- ga da Mosca, morendo tra le braccia di Nata√a e della sorella Màr’ja. Nella Russia finalmente liberata, la vita riprende: Nikolaj sposa la principessa Màr’ja, pur col triste rimpianto dell’amore per Sonja, e Pierre, ormai libero, sposa Nata√a, maturatasi tra le vicende pubbliche e private: «C’è un tempo per la guerra e un tempo per la pace», dice l’Ecclesiaste (3, 8).

La morte del principe Andrej Libro quarto, parte I, cap. XVI Il principe Andrej mortalmente ferito in battaglia, giace presso i Rostov, a Jaroslavl’, assistito da Nata√a e da Sonja. Vi giunge da Vorone≈ anche la principessa Mar’ja, col nipo- Lev Tolstoj, Guerra e pace  tino. Mentre Pierre (le cui vicende vengono alternate a queste) era rimasto a Mosca, dov’e- ra stato catturato dai francesi, gli altri protagonisti s’incontrano presso il letto di Andrej, che a un tratto accetta la prossima fine intendendola quasi come un risveglio, e nel con- tempo si stacca dagli affetti terreni, per inglobarli in un Amore superiore e diverso. Il principe Andrej ritrova l’amore di Nata√a ormai sul letto di morte. Viene assistito anche da Sonja, la parente povera innamorata di Nikolaj, che la madre, preoccupata della situazione economica della famiglia, spinge a sposare Mar’ja, la futura erede della fortuna dei Bolkonskij; e Mar’ja compare anche lei accanto ad Andrej morente, por- tandogli il figlio presto orfano. Le due famiglie stanno per intrecciare le loro sorti, e la trama di preoccupazioni materiali e di passioni complica il mondo dei sentimenti, che l’A. descrive con penetrazione psicologica non disgiunta dalla lucida consapevolezza della complessità della vita. Nata√a ha vent’anni (ne aveva 13 quando la s’incontra per la prima volta nelle pagi- ne del romanzo, nel 1805), ma le tumultuose vicende pubbliche – la guerra, la fuga da Mosca, la rovina economica della famiglia – e private – l’amore non più infantile per il principe Andrej, il tradimento quasi consumato ai suoi danni con Anatolij –, l’hanno rapidamente maturata: imparare a far la calza, sia pure in una situazione ecceziona- le ed estrema, è per lei il primo passo verso la sua maturazione in madre di famiglia, quale la vedremo nelle ultime pagine come moglie di Pierre Bezuchov. Il lento e progressivo disegno dell’uomo che s’avvicina al passo estremo rispecchia la particolare intensità con cui Tolstoj ha sempre affrontato il tema della morte (c’è un suo racconto, il Diario di un pazzo, imperniato sulla sua personale, tremenda, ‘notte di Arzamàs’, 1864). Il percorso va dal distacco emotivo dalla vita che gli sta sfuggendo, alla improvvisa scoperta – tutta interiore – del paradossale accesso alla Vita vera, con la per- cezione della morte come ‘risveglio’. Un procedimento analogo a quello de La morte di Ivan Il’i∫, quando il protagonista sente che la fine s’avvicina, ed è per lui un entrare a forza in una buca buia, fin quando «là in fondo, in fondo alla buca, qualcosa si acce- se e brillò» e «invece della morte c’era la luce».

Prima, aveva paura della fine. Due volte aveva provato questo senso terribilmente tormentoso di paura della morte, e ora non lo capiva più. La prima volta aveva provato questo sentimento mentre la granata gira- va come una trottola davanti a lui, ed egli guardava le stoppie, i cespugli, il cielo, e sapeva che davanti a lui c’era la morte. Quando era rientrato in sé dopo la ferita, e nell’anima sua, come liberato dal peso della vita che lo tratteneva, era sbocciato in un istante quel fiore dell’amore eterno, libero, non legato a questa vita, egli già non temeva più la morte e non vi pen- sava più. In quelle ore di dolorosa solitudine e di semidelirio che aveva trascorse dopo la ferita, quanto più meditava su quel nuovo principio di amore eter- no che gli si era rivelato, tanto più, senza nemmeno accorgersene, ripudia- va la vita terrena. Amare tutto e tutti, sacrificarsi sempre per amare significa- va non amar nessuno, significava non vivere di questa vita terrena. E quan-  C. G. De Michelis to più si penetrava di questo principio d’amore, tanto più si staccava dalla vita e tanto più pienamente distruggeva quella tremenda barriera che, quan- do manca l’amore, sta fra la vita e la morte. Quando, in quel primo tempo, si ricordava che doveva morire, diceva fra sé: «Che importa? Tanto meglio». Ma dopo quella notte a Myti√∫i1, quando nel suo semidelirio gli era com- parsa innanzi colei che egli desiderava e quando, premendo la mano di lei sulle labbra, aveva pianto sommesse lacrime di gioia, l’amore per una donna s’era infiltrato inavvertito nel suo cuore e di nuovo l’aveva riattaccato alla vi- ta. E pensieri lieti e tormentosi avevano cominciato a riprenderlo. Ricordan- dosi di quel momento, al posto di medicazione, quando aveva veduto Kurà- gin2, ora non poteva più tornare al sentimento d’allora: il dubbio se egli vi- vesse ancora o no lo tormentava. E non osava domandarne a nessuno. La sua malattia faceva il suo corso fisico, ma ciò che Nata√a chiamava gli è accaduto accadde due giorni prima dell’arrivo della principessina Mar’ja. Questa era l’ultima lotta morale fra la vita e la morte, nella quale la morte riportò la vittoria. Fu l’inattesa consapevolezza di avere ancora cara la vita, che gli si presentava nell’amore per Nata√a, e l’ultimo rassegnato accesso di terrore davanti all’ignoto. Era sera. Egli, come di solito dopo pranzo, era in uno stato leggermen- te febbrile e i suoi pensieri erano straordinariamente lucidi. Sonja sedeva presso la tavola. Egli si mise a sonnecchiare. A un tratto fu preso da un senso di gioia. «Ah! è lei che è entrata», pensò. Difatti al posto di Sonja s’era seduta allora allora Nata√a, entrata a passi silenziosi. Da che ella lo assisteva, egli provava sempre questa sensazione fisica della sua presenza. Ella sedeva sulla poltrona, di fianco a lui, nasconden- dogli con la persona la luce della candela e faceva la calza. (Ella aveva im- parato a far la calza da quella volta che il principe Andrej le aveva detto che nessuno sa curar meglio i malati delle vecchie bambinaie che fanno la calza, e che nel far la calza c’è qualcosa di calmante). Le sue dita sottili mo- vevano rapidamente i ferri che a tratti si urtavano fra loro ed egli poteva veder chiaramente il profilo pensieroso del viso chinato di lei. Ella fece un movimento, il gomitolo le cadde dalle ginocchia. Ella si scosse, lo guardò e, riparando con la mano la candela, con un gesto cauto, svelto e preciso si chinò, raccolse il gomitolo e si rimise a sedere nella stessa posizione. Egli la guardava senza muoversi e si accorse che dopo quel movimen- to ella avrebbe dovuto respirar forte, ma non si decideva a farlo e tratte- neva con precauzione il respiro. Al convento della Tròica3 avevano discorso del passato ed egli le aveva detto che, se fosse vissuto, avrebbe in eterno ringraziato Dio per Lev Tolstoj, Guerra e pace  la sua ferita che lo aveva riunito a lei; ma da quel momento non ave- vano parlato più dell’avvenire. «Può essere o no? – egli pensava ora, guardandola e ascoltando il leg- gero rumore dei ferri. – Possibile che la sorte ci abbia così stranamente riuniti soltanto perché io debba morire?… Possibile che la verità della vita mi si sia rivelata soltanto perché io viva nella menzogna? Io l’amo più di tutto al mondo. Ma che posso fare se l’amo?» disse egli, e a un tratto si mise involontariamente a gemere per l’abitudine che ne aveva presa nel tempo delle sue sofferenze. Udendo questo suono, Nata√a posò la calza, si curvò dalla sua parte e, scorgendo i suoi occhi luccicanti, gli si avvicinò con passo leggero e si chinò su di lui. – Non dormite? – No, da un pezzo vi sto guardando: ho sentito quando siete entrata. Nessuno come voi mi dà questa pace così dolce… questa luce. Avrei voglia di piangere dalla gioia. Nata√a si fece ancor più vicina a lui. Il suo viso era illuminato da una gioia piena di fervore. – Nata√a, io vi amo troppo! Più di tutto al mondo. – Ed io? – Ella si volse un momento in là. – Perché troppo? – domandò. – Perché troppo?… Ditemi quel che pensate, quel che sentite nell’a- nima vostra: potrò vivere? Che ve ne pare? – Ne sono sicura! ne sono sicura! – gridò quasi Nata√a, prendendogli le due mani con gesto appassionato. Egli tacque un poco. – Come sarebbe bello! – E presa la mano di lei, la baciò. Nata√a era felice, ma sconvolta; e subito si ricordò che questo era proibito, che egli aveva bisogno di calma. – Intanto, non avete dormito, – disse, reprimendo la sua gioia.– Sforzatevi di prender sonno… ve ne prego. Egli lasciò andar la sua mano, dopo averla stretta, ed ella tornò verso la candela e sedette di nuovo nell’atteggiamento di prima. Due volte si volse a guardarlo e gli occhi di lui le sfavillarono incontro. Ella si asse- gnò il compito di fare tanti giri di calza, e si disse che non si sarebbe voltata finché non li avesse finiti. Difatti, poco dopo, egli chiuse gli occhi e si addormentò. Non dormí a lungo e si svegliò, di soprassalto, tutto in un sudore freddo. Addormentandosi, continuava a pensare a ciò che l’aveva occupato in tutto quel tempo: alla vita e alla morte. E più alla morte. Si sentiva più vicino a questa.  C. G. De Michelis «L’amore? che cos’è l’amore?» pensava. «L’amore si oppone alla morte. L’amore è vita. Tutto, tutto ciò che io comprendo, lo comprendo perché amo. Tutto è, tutto esiste solamente perché amo. Tutto è legato soltanto dall’amore. L’amore è Dio4, e morire significa che io, una particella d’amore, ritorno alla sorgente comune ed eterna». Questi pensieri gli parvero consolanti. Ma erano soltanto pensieri. Mancava qualcosa in essi, c’era un che di unilaterale, di personale, di astratto: non c’era evidenza. E continuava la stessa inquietudine, la stessa oscurità. Si addormentò. In sogno si vide disteso nella medesima camera dove realmente giace- va, ma non ferito, bensì sano. Molte persone insignificanti, indifferenti apparivano davanti al principe Andrej. Egli parlava con loro, discuteva di cose inutili. Esse si preparavano ad andare in qualche posto. Il principe Andrej si ricordava confusamente che tutto ciò non aveva importanza e che egli aveva altre cure ben più gravi, ma seguitava a dir loro parole fri- vole e argute, facendole meravigliare. Dopo poco, inavvertitamente, tutte queste persone cominciavano a sparire e tutto cedeva il posto a una sola questione: come chiudere la porta. Si alzava e andava verso la porta per spingere il chiavistello e chiuderla. Dal riuscire o non riuscire a chiuder la porta dipendeva tutto. Egli andava, si affrettava, ma le sue gambe non si muovevano, ed egli sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere la porta, ma pure tendeva disperatamente tutte le sue forze. E una tormentosa paura lo assaliva. E questa paura era la paura della morte: dietro alla porta stava quella cosa. Mentre egli si trascinava impotente, malsicuro verso la porta, questa cosa tremenda stava già dall’altra parte e premeva e spin- geva. Qualcosa di non umano – la morte – spingeva la porta, e bisogna- va trattenerla. Egli si aggrappava alla porta, tendeva le ultime forze: chiu- derla ormai era impossibile – almeno avesse potuto trattenerla! Ma le sue forze erano deboli, impacciate, e, spinta da quella cosa orribile, la porta si apriva e di nuovo si richiudeva. Ancora una volta quella cosa spingeva da fuori. Gli ultimi sovrumani sforzi erano vani, e i due battenti si apriva- no senza rumore. Quella cosa entra, ed è la morte. E il principe Andrej morí. Ma nel momento in cui moriva, il principe Andrej si ricordava di dor- mire e in quello stesso momento fece uno sforzo su di sé e si svegliò. «Si, era la morte. Sono morto: mi sono svegliato. Sí, la morte è un risve- glio». A un tratto l’anima sua s’illuminò, e il velo che fino a quel momen- to nascondeva l’ignoto si sollevò davanti al suo sguardo spirituale. Egli sentì come la liberazione della forza che prima era prigioniera in lui e quel- la strana facilità che da quel momento non lo lasciò più. Quando egli, svegliandosi in quel sudore freddo, si mosse sul divano, Lev Tolstoj, Guerra e pace 

Nata√a gli si avvicinò e domandò che cosa avesse. Egli non le rispose e, senza capire, la guardò con uno sguardo strano. Era questo quel che gli era accaduto due giorni prima che giungesse la principessina Mar’ja. Da quel momento, come diceva il dottore, la febbre che l’estenuava prese un cattivo carattere, ma Nata√a non si preoccupava di quel che diceva il dottore: ella vedeva quei terribili segni morali che per lei erano più sicuri. Da quel giorno cominciò per il principe Andrej, insieme col risveglio dal sonno, il risveglio dalla vita. E relativamente alla durata della vita questo risveglio non gli parve più lento che il risveglio dal sonno relativamente alla durata del sogno. Non v’era nulla di pauroso né di brusco in questo risveglio, relativa- mente lento. Gli ultimi giorni e le ultime ore di lui scorsero come di consueto, sem- plicemente. La principessina Mar’ja e Nata√a, che non si scostavano da lui, lo sentivano. Non piangevano, non rabbrividivano e negli ultimi tempi, sentendo questo, non vegliavano più lui (egli non era più lui, se n’era andato lontano da loro), ma il più vicino ricordo di lui: il suo corpo. Il sen- timento di entrambe era così forte che su loro non agiva il tremendo lato esteriore della morte, ed esse non credevano necessario inacerbire il pro- prio dolore. Non piangevano né davanti a lui, né quando erano sole, e fra loro non parlavano mai di lui. Sentivano di non poter esprimere con paro- le ciò che avevano compreso. Tutt’e due vedevano come egli sempre più profondamente, in modo lento e tranquillo, si staccasse da loro e sparisse lontano lontano, e tutt’e due sapevano che cosí doveva essere e che cosí era bene. Egli si confessò e si comunicò: tutti vennero a dirgli addio. Quando gli condussero il figlio5, gli posò in fronte le labbra e si volse in là, non per- ché sentisse pena e pietà (la principessina Mar’ja e Nata√a lo capivano), ma solo perché pensava che non si voleva altro da lui; e quando gli dissero di dargli la sua benedizione, fece quanto gli era chiesto e si guardò intor- no come per domandare se non occorresse fare qualche altra cosa.. Quando sopravvennero gli ultimi sussulti del corpo abbandonato dallo spirito, la principessina Mar’ja e Nata√a erano presenti. – È finito?! – disse la principessina Mar’ja, quando il corpo era già steso innanzi a loro, immobile, da alcuni minuti e cominciava a raffreddarsi. Nata√a si avvicinò, guardò gli occhi del morto e si affrettò a chiuderli. Li chiuse e non li baciò, ma pose le labbra su quello che era il più vicino ricordo di lui. «Dov’è andato? Dov’è ora?…» (da L. Tolstoj, Guerra e pace, trad. E. Carafa d’Andria, Einaudi, Torino 1990).  C. G. De Michelis Note 1. Myti√∫i: località nei pressi di Mosca, oggi appena fuori del raccordo anulare, sulla strada per Jaroslavl’. 2. Kuragin: Anatolij Kuragin, il fratello di Elena (la prima moglie di Pierre Bezuchov) che aveva ammaliato Nata√a tanto da farle scordare l’amore per Andrej, era stato ferito e gli era stata amputata una gamba proprio nell’ospedale da campo dov’era ricoverato anche Andrej. 3. Troica: leggi «Tròitza» (Trinità), a Sergievskij Posad, sulla strada tra Mosca e Jaroslavl’. 4. L’amore è Dio: I Giov., 8, 16. 5. il figlio: Nikolàj, che aveva avuto dalla moglie Liza, morta di parto nel 1805, ha dunque 7 anni, e ne avrà 20 all’epoca della rivolta del 1825: dunque, appartiene alla generazione del romanzo mai scritto sui Decabristi, di cui Guerra e pace avrebbe dovuto essere l’antefatto. CESARE G. DE MICHELIS Lev Tolstoj, Guerra e pace 

HAYDEN WHITE, Guerra e pace in Il romanzo, vol. IV Lezioni, a c. di F. Moretti, P. V. Mengaldo, E. Franco, Einaudi, Torino 2003

Il romanzo storico del primo Ottocento fu il prodotto di due linee di sviluppo che sarebbero state inimmaginabili anche solo un secolo prima: la trasformazione della sto- ria in scienza e del romance in un genere letterario serio. Dal Rinascimento fino all’Illuminismo, la letteratura storica era stata considerata una branca della retorica e della pedagogia (un modo per insegnare la moralità attraverso gli esempi). Alla fine del Settecento la storia fu però scorporata dalle belle lettere e messa in relazione con la filologia, la paleografia e la diplomatica; ai primi dell’Ottocento divenne una scienza insegnata nelle Università, e incaricata di fornire una genealogia agli stati-nazione che andavano formandosi a seguito delle guerre napoleoniche. Questa nuova scienza sto- rica era ufficialmente impegnata nello studio obiettivo degli avvenimenti e in una nar- razione veritiera (e non più d’invenzione). Doveva essere separata dalla filosofia e dalla teologia e limitarsi a descrivere come le cose stavano realmente anziché come avreb- bero potuto o dovuto essere. Quest’ultimo compito venne demandato alla «letteratura» e, in particolare, al romance, un genere originariamente scritto perlopiù da donne e per donne, in cui attraverso la fantasia si poteva evadere dalla quotidianità e rifugiarsi in un passato idealizzato fatto di avventura, amore e magia. Se Aristotele aveva distin- to la storia dalla «poesia» definendo l’una la conoscenza del singolo avvenimento e l’al- tra dell’universale, nell’Ottocento la storia divenne la conoscenza del mondo reale, e la letteratura il luogo dei mondi possibili. Il fatto storico divenne insomma l’esatto con- trario dell’invenzione letteraria. La commistione delle due modalità era altrettanto impensabile della mescolanza tra i sessi. Quando dunque Walter Scott, nel 1814, pubblicò (in forma anonima) Waverley, chie- se scusa per aver messo insieme ciò che Dio, l’uomo e la cultura avevano voluto tenere separato. Malgrado l’immediata e universale popolarità del romanzo storico, Scott si scu- sò poiché lui stesso credeva nel nuovo tipo di storiografia, e riteneva che la conoscenza del passato dovesse basarsi su un’accurata ricerca delle fonti originali. (Egli stesso basò la parte storica del romanzo sull’opera di studiosi di storia, letteratura e folklore scozze- si). Egli giustificò il ricorso all’invenzione come un artificio pedagogico per facilitare l’as- similazione della materia storica da parte del gentil sesso attraverso il racconto delle av- venture di Edward Waverley durante la ribellione scozzese del 1745. Scott sperava che i suoi lettori non confondessero i fatti con la finzione e la storia con il romanzo, e cercò di tracciare fra i due una linea di demarcazione precisa. Ma sebbene il successo interna- zionale avesse consacrato la legittimità del romanzo storico, gli storici di professione vi videro un pericolo. Per mantenere la propria dignità, la storia doveva rimanere inconta- minata da qualsiasi tipo di fiction, letteraria, scientifica o filosofica che fosse. Ora, Tolstoj non condivide affatto la deferenza di Scott verso gli storici di profes- sione. Non solo riteneva di capire la storia russa meglio degli storici; era anche con- vinto di comprendere la natura della realtà storica meglio degli storici e dei filosofi della storia del suo tempo. Voleva riportare in vita il passato, far sentire che cosa si prova in battaglia, a essere feriti, a marciare fino allo sfinimento, a soffrire la prigionia e ad affrontare la morte per l’incompetenza dei propri superiori. E pensava che l’arte potesse riuscirci meglio della storia. Non c’è romance nel modo in cui Tolstoj rende le  C. G. De Michelis scene, i suoni, gli odori e il sapore della guerra. Certo, egli trasmette il senso di came- ratismo tra gli uomini in battaglia, e riconosce il fascino di certe situazioni estreme – le grandi battaglie, le cariche di cavalleria, il corpo a corpo. Ma mostra anche come l’eufo- ria della battaglia possa venire spezzata dalle raffiche dell’artiglieria. Insomma, Tolstoj ci trasmette la «sensazione» della guerra anziché descrivere la logistica delle campagne; ci dà il territorio della battaglia e non la mappa che la rende trasparente e la fa sem- brare più ordinata di quanto non sia. Anche quando descrive la società Tolstoj ci dà il territorio, non la mappa. Egli voleva rendere l’idea di che cosa significasse essere un aristocratico, appartenere alla «società», essere russo, avere a che fare con i servi, cacciare con i cani, stando magari tutto il gior- no appostato in un nascondiglio, battersi a duello, innamorarsi, fare un buon matrimo- nio oppure no, allevare dei figli, veder morire un amico, essere tradito dalla persona amata. Descrive la vita dell’aristocrazia dall’interno e in maniera benevola, anche se non acritica, e mostra al lettore il vecchio regime nel suo ultimo grande momento, quando lo zar era riuscito a ispirare il popolo a difendere il suolo sacro della madrepatria e la nobiltà aveva guidato l’esercito contro l’invasore. Ma dal punto di vista del suo tempo, ses- sant’anni dopo il 1805 (la distanza di Scott dai fatti di Waverley), Tolstoj si rende conto che l’aristocrazia ha i giorni contati. Nel descrivere le vicende dei Rostov, ci mostra una tipica famiglia nobile già assillata dalle difficoltà, e con un fondamento economico – lo sfruttamento del lavoro dei servi – in progressiva erosione. Lo stesso avviene per tutte le altre famiglie: guidate da anziani tiranni di varia natura, la loro principale speranza è che le figlie femmine sposino dei ricchi proprietari terrieri. No, la descrizione tolstojana della società è altrettanto poco romantica della descrizione della guerra. In Guerra e pace, è all’imperatore Napoleone che la storia fa dono di una sorta di fol- lia romantica, prima concedendogli un successo militare che in realtà non merita, poi ele- vandolo ai fasti imperiali e infine facendogli concepire una campagna irrealizzabile. È stata la storia a fare tutto questo, ma senza alcuno scopo morale o metafisico – perché «storia» è semplicemente il nome che gli uomini danno ai fatti concreti, alle cose che sono accadute in passato, accadono nel presente e accadranno in futuro. Poiché questi avve- nimenti non hanno alcun fine, la loro conoscenza è sempre locale, contingente, limitata. Di conseguenza, la discrezione è la parte migliore della conoscenza. I personaggi «positivi» di Guerra e pace – Kutuzov, Pierre, Nikolaj Rostov, Nata√a, la principessina Marja, Platon Karatajev – sono ricchi in virtù di tutte le conoscenze mondane che hanno saputo abbandonare. Al termine del romanzo, dopo che Napoleone è stato respinto, deposto ed esiliato, dopo la morte del vincitore Kutuzov, dopo che lo zar Alessandro è caduto sotto l’influenza di mistici e ciarlatani, dopo la ricostruzione di Mosca, e il matrimonio di Nikolaj e Marja e la nascita di quattro figli dall’unione di Pierre e Nata√a, tutti questi personaggi hanno acquisito pochissimo in termini di saggezza umana e ancor meno dal punto di vista del buonsenso sociale. Pierre – forse il personaggio cen- trale del romanzo – sembra più sconcertato che mai dalla realtà che lo circonda; Nata√a è cresciuta, ma non maturata; Nikolaj ha risolto i propri problemi finanziari sposando una donna che gli piace ma che non ama; lo zar è sprofondato in un’incomprensione reazionaria della società russa che fomenterà una rivolta dopo l’altra, e così via. La sto- ria non si può capire, ma solo sopportare – se si è fortunati. Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust

Parigi, con la sua società aristocratica e mondana, costituisce l’ambien- te vitale di Marcel Proust (1871-1922) e la sua primaria fonte d’ispirazione, in un momento in cui la capitale francese è riconosciuta come il cuore della letteratura e dell’arte europea. Nato da una famiglia benestante e attratto sin da giovane dalla vita mondana, Proust si dimostra per tutta la vita uno studioso di grande sensibilità e ampiezza d’interessi. Esordisce precocemente, a venticinque anni, con la raccolta di prose I piaceri e i giorni (1896), nel cui titolo va probabilmente riconosciuta un’al- lusione parodica alle Opere e i giorni del poeta greco Esiodo: nonostante il libro appaia segnato dagli interessi mondani del giovane Proust, vi si ma- nifestano già qualità che saranno poi esaltate dall’opera maggiore, come l’attenzione quasi maniacale dedicata a un’analisi puntuale di oggetti e per- sonaggi. Sempre nel 1896, lo scrittore inizia a comporre Jean Santeuil: interrotto nel 1904 e pubblicato soltanto postumo, è un corposo romanzo autobio- grafico, o di «formazione», che anticipa per molti aspetti Alla ricerca del tempo perduto. L’obiettivo dell’opera è infatti fornire al lettore – secondo le parole di Proust – «un libro che dovrebbe rappresentare me stesso». Vi risulta inoltre già consapevolmente applicato uno dei tratti distintivi della tecnica compositiva attuata nella Ricerca, lo sguardo che si china, come in un’analisi al microscopio, verso i più insignificanti elementi costitutivi del reale, verso gli oggetti e gli eventi più banali e quotidiani, dai quali è pos- sibile ricavare la traccia di una dimensione dell’esistenza in cui è possibile individuare un senso. Nel 1906 Proust inizia a comporre la Ricerca. Il testo si apre con la rap- presentazione di un fatto del tutto banale: la descrizione del dormiveglia, delle riflessioni e delle impressioni di un uomo insonne nel proprio letto. Lo scrittore rinuncia alla rappresentazione dei sentimenti eroici, delle proble- matiche epocali, degli ideali elevati caratteristici del romanzo ottocentesco, per dedicarsi a tratteggiare difficoltà psicologiche e fantasie fondamental- mente ordinarie. I lettori delle case editrici dell’epoca rimangono spaesati da  R. Antonelli un simile approccio e rifiutano la pubblicazione del primo volume dell’ope- ra: «sarò un po’ ottuso, – scrive uno di questi a un amico di Proust – ma non riesco proprio a capire che un tipo possa impiegare trenta pagine per de- scrivere come si gira e rigira nel letto prima di prender sonno». Ma proprio attraverso tale rappresentazione Proust può provocatoria- mente porre al centro dell’opera non l’eroe del romanzo tradizionale, ma la nudità dell’Io moderno, attraversato da angosce e dubbi, profondamen- te segnato da lontane esperienze infantili, insignificanti per la cultura pre- novecentesca, ma traumatiche per l’ipersensibile interiorità del protagoni- sta e basilari per la comprensione dell’individuo nella modernità post-freu- diana. Nell’epoca delle macchine, della fotografia, dei giornali, di fronte a una Storia in cui agiscono ormai masse di milioni di persone, Proust porta al centro della narrazione e della riflessione umana la formazione e lo svi- luppo dell’Io, la sua reale identità, recuperata attraverso una capillare rico- struzione della sua memoria. La Ricerca conferisce così a dati apparentemente minimi dell’esistenza una rilevanza fondamentale, in quanto proprio tramite tali elementi quoti- diani è possibile entrare in contatto con una dimensione profonda, sepol- ta nei recessi della coscienza e della memoria, riattivata dal soggetto sol- tanto involontariamente, attraverso scatti associativi casuali, legati a sensa- zioni o impressioni. Tale fenomeno, che può richiamare in parte la poeti- ca leopardiana della «ricordanza», assume in Proust un ruolo centrale, quasi esclusivo e ossessivo, poiché proprio dal recupero di frammenti del «tempo perduto» diviene possibile ristabilire e dotare di senso, sottraendola al nulla, l’esistenza dell’Io e di un’intera generazione, contemplata e analiz- zata attraverso una nuova concezione del tempo e della memoria, forse influenzata dal pensiero del filosofo Henri Bergson. Nel Contro Sainte-Beuve Proust si scaglia violentemente contro quanti confondono la biografia di un autore e la sua opera, dati che per lo scrit- tore devono rimanere completamente indipendenti. Lo stesso avviene nel rapporto, pure strettissimo, che all’interno della Ricerca si pone tra il nar- ratore omodiegetico (in cui cioè si assommano le funzioni di Io narrante e protagonista) e l’autore Marcel Proust, sebbene il romanzo accolga nume- rose esperienze biografiche di Proust, riproducendo per esempio molti degli ambienti che lo scrittore ha realmente frequentato.

Alla ricerca del tempo perduto Il «tempo perduto» del titolo allude al tempo passato e, insieme, al tempo «sprecato», non dedicato all’indagine interiore e alla ricerca della verità. L’opera si conclude significativamente con il Tempo ritrovato, con il Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto  recupero del tempo «perduto» attraverso il viaggio di una coscienza laica che muove alla conquista di una dimensione vera nel vuoto del mondo contemporaneo, in un itinerario che è lo stesso Proust a definire l’«appren- distato di un uomo di lettere». Romanzo «mostruoso», di oltre tremila pagine in diversi volumi, la Ricerca segue lo sviluppo di numerosi temi, evocati di volta in volta, fram- mentariamente, dalle associazioni casuali e involontarie della memoria dell’Io narrante. Al centro dell’opera si pone dunque, oltre al tempo e al suo trascorrere/permanere nella memoria, la vicenda di un Io ormai fram- mentato che scava ossessivamente nella propria e nell’altrui interiorità, non più sorretto da certezze metafisiche o religiose, ma aperto alla novità di ogni esperienza. La Ricerca si presenta dunque come un insieme di associazioni invo- lontarie che seguono un percorso ordinato dalla memoria dell’autore in un disegno complessivo circolare. Il libro conclusivo, infatti, il già citato Tempo ritrovato, fornisce la chiave per l’interpretazione del complesso del- l’opera e, in particolare, del percorso dell’Io, che al termine del proprio viaggio riconosce la sua vocazione di scrittore, la propria dimensione autentica. Il romanzo costituisce così a un tempo l’itinerario della ricerca e il risultato della ricerca stessa, intesa come una sorta di quête («ricerca», appunto) nella fenomenologia dell’Io contemporaneo, in cui non manca- no però ricordi letterari tardo-medievali, come il Roman de la rose e la Divina Commedia. È lo stesso Proust a paragonare la propria opera a una cattedrale goti- ca (medievale, quindi), con una navata centrale e molteplici corpi laterali, quasi a significarne la ricchezza di apporti e di sfumature che la caratte- rizzano, al di là dell’idea portante dalla quale essa muove e intorno a cui ruota. Un primo, significativo esempio di tale poliedrica natura del romanzo è rinvenibile nel fatto che l’Io presenta se stesso come un essere segnato dal desiderio, sin dal racconto dell’infanzia, età in cui appare quasi morbosa- mente legato alla madre e alla nonna: questo fa sì che la Ricerca sia anche il romanzo dell’amore, affrontato in tutte le sue possibili manifestazioni, eterosessuali come omosessuali. Proprio l’amore infatti consente all’Io di pervenire alla rivelazione del sé e dell’altro nel mondo: è lo strumento che conduce fin nelle profondità dell’essere umano, inteso come complesso di anima e corpo. Il romanzo testimonia così di una visione totalmente laica dell’esistenza, per la quale soltanto la scrittura e la letteratura si presenta- no ormai come un approdo sicuro nella molteplicità di frammenti da cui appare formata la realtà moderna. Lo stile proustiano è vario e ricchissimo, caratterizzato da una sintassi  R. Antonelli ampia ed elaborata, eppure aperto a improvvise folgorazioni, in un ritmo che aspira non solo a restituire il flusso continuo dei ricordi, ma anche, a livello più profondo, a identificarsi con la memoria stessa.

Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, I Combray Dalla parte di Swann costituisce la prima parte della Ricerca. Nelle pagine iniziali l’autore introduce i temi principali del romanzo: le stanze e i luoghi in cui l’Io narran- te ha vissuto, il sogno, il tempo, la memoria (involontaria) e la sua funzione, il deside- rio. Il brano seguente è l’incipit dell’opera. Il narratore rievoca la stanza in cui ha dor- mito nella casa di campagna della propria famiglia, a Combray, ripercorrendo le sen- sazioni provate al momento di addormentarsi e i sogni la cui memoria sopravvive ai frequenti risvegli dovuti all’insonnia.

A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: «Mi addormento». E, mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che crede- vo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po’ particolare; mi sembrava d’essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quar- tetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V1. Questa convinzione sopravviveva per qualche secondo al mio risveglio; non scombussolava la mia ragione, ma premeva come un guscio sopra i miei occhi impedendogli di rendersi conto che la candela non era più accesa. Poi cominciava a diventarmi incomprensibile, come i pensieri di un’esistenza anteriore dopo la metempsicosi2; l’argomento del libro si stac- cava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; immediatamente recu- peravo la vista e mi sbalordiva trovarmi circondato da un’oscurità che era dolce e riposante per i miei occhi ma più ancora, forse, per la mia mente, alla quale essa appariva come una cosa immotivata, inspiegabile, come qualcosa di veramente oscuro. Mi chiedevo che ora potesse essere; senti- vo il fischio dei treni che, più o meno da lontano, come il canto d’un uccel- lo in una foresta, dava risalto alle distanze, descrivendomi la distesa della campagna deserta dove il viaggiatore si affretta verso la stazione più vici- na, e il sentiero che percorre è destinato ad essere impresso nel suo ricor- do dall’eccitazione che gli viene da luoghi nuovi e gesti non abituali, dai discorsi e dagli addii scambiati poco fa sotto una lampada straniera e che ancora lo seguono nel silenzio della notte, dalla dolcezza che si approssi- Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto  ma del ritorno. Appoggiavo con tenerezza le mie gote a quelle incantevo- li del guanciale che sembrano, così piene e fresche, le gote della nostra fanciullezza. Accendevo un fiammifero per guardare l’orologio. Quasi mez- zanotte. È il momento in cui il malato che è stato costretto a mettersi in viaggio e ha dovuto fermarsi a dormire in un albergo sconosciuto, sve- gliandosi per una crisi, vede con gioia scivolare sotto la porta una striscia di luce. Che felicità, è già mattino! Fra un momento i domestici si alzeran- no e lui potrà suonare, verranno a portargli aiuto. La speranza del soccor- so gli dà nuovo coraggio per soffrire. Ecco, gli sembra d’aver sentito dei passi; i passi si avvicinano, poi si allontanano. E la striscia di luce che era sotto la porta è scomparsa. È mezzanotte; hanno spento il gas; l’ultimo domestico se n’è andato, e bisognerà restare tutta la notte a soffrire senza rimedio. Mi riaddormentavo e a volte non mi svegliavo più che per brevi istan- ti, il tempo di sentire gli scricchiolii organici dei legni, d’aprire gli occhi per fissare il caleidoscopio del buio, di assaporare grazie a un momentaneo barlume di coscienza il sonno nel quale erano immersi i mobili, la stanza, quel tutto di cui io non ero che una piccola parte e alla cui insensibilità tornavo subito ad unirmi. Oppure, dormendo, avevo raggiunto senza sfor- zo un’età compiuta per sempre della mia vita primitiva, ritrovato l’uno o l’altro dei miei terrori infantili, per esempio quello che il mio prozio mi tirasse per i boccoli, terrore svanito il giorno – inizio per me di una nuova era – in cui me li avevano tagliati. Il ricordo di questo avvenimento m’era sfuggito durante il sonno, lo ritrovavo non appena riuscivo a svegliarmi per scappare dalle mani del mio prozio, ma per precauzione mi circonda- vo completamente la testa con il guanciale prima di sprofondare di nuovo nel mondo dei sogni.

Note 1. la rivalità … Carlo V: Francesco I, re di Francia (1494-1547), e Carlo V imperatore (1500- 1558), protagonisti di un lungo conflitto per la supremazia in Europa. 2. metempsicosi: la reincarnazione delle anime, secondo una credenza diffusa in alcune reli- gioni.

La madeleine È questo uno dei brani fondativi della poetica proustiana. L’«Io» protagonista e nar- rante descrive come, un giorno qualsiasi, grazie a un dolcetto chiamato madeleine, si fossero attivati i meccanismi memoriali in grado di richiamargli involontariamente l’in- fanzia a Combray. Il passato, prima «perduto», viene involontariamente rievocato e rivis- suto nel presente grazie a un avvenimento casuale: l’odore di un piccolo dolce da tè  R. Antonelli determina una specie di «cortocircuito» fra passato e presente. Ne deriva una nuova nozione del tempo, che viene percepito come «durata reale» (secondo la concezione del filosofo Henri Bergson), grazie al riemergere di strati dispersi della coscienza.

E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo di tenebre indistinte, simile a quelli che l’accensione di un bengala1 o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta per le altre parti sprofondato nel buio: abbastanza largo alla base, il salottino, la sala da pranzo, l’imbocco del viale non illuminato dal quale sarebbe com- parso il signor Swann, l’ignaro responsabile delle mie tristezze2, il vestibolo nel quale mi sarei avviato verso il primo gradino della scala, che era così cru- dele salire e che costituiva da sola il tronco fortemente assottigliato di que- sta piramide irregolare; e, al vertice, la mia camera da letto con annesso il piccolo corridoio dalla porta a vetri per l’ingresso della mamma; in breve, visto sempre alla stessa ora, isolato da tutto ciò che poteva esistere intorno, si stagliava, unica presenza nell’oscurità, lo scenario strettamente indispen- sabile (come quelli che figurano in testa ai vecchi copioni teatrali per le rap- presentazioni in provincia) al dramma della mia svestizione; come se Combray non fosse consistita che di due piani collegati fra loro da un’esile scala e come se non fossero mai state, là, altro che le sette di sera. Per dire la verità, a chi m’avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray comprendeva altre cose ancora ed esisteva anche in altre ore. Ma poiché quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto dalla memoria volonta- ria, dalla memoria dell’intelligenza, e poiché le informzioni che questa for- nisce sul passato non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Per me, in effetti, era morto. Morto per sempre? Poteva darsi. Il caso ha gran parte in tutto ciò, e spesso un secondo caso, quello della nostra morte, non ci permette di aspettare troppo a lungo i favori del primo3. Trovo del tutto ragionevole la credenza celtica4 secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduti sono imprigionate in qualche esse- re inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute dav- vero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci tro- viamo a passare accanto all’albero o a entrare in possesso dell’oggetto che ne costituisce la prigione. Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appe- na le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte, e tornano a vivere con noi. Così per il nostro passato. È uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta nascosto al di là del suo Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto  dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale (nella sensazione che questo ci darebbe). Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai. Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me, quando, un giorno d’inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendo- mi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una «cappasanta»5. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospet- tiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordina- rio che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi no- zione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove ve- niva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella qua- le non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ me- no della seconda. È tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminui- re. È chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamen- te, ma con sempre minor forza, la stessa testimonianza che io non riesco a interpretare e che vorrei almeno poterle chiedere di nuovo ritrovandola su- bito intatta, a mia disposizione, per un chiarimento decisivo. Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che modo? Grave incertezza, ogni volta che lo spirito si sente inferiore a se stes- so; quando il cercatore fa tutt’uno con il paese ignoto dove la ricerca deve aver luogo e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? Di più: creare. Eccolo faccia a faccia con qualcosa che non esiste ancora e che lui solo può realizzare e far entrare, poi, nel raggio della sua luce. Rico- mincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota, che non adduceva alcuna prova logica, bensì l’evidenza della sua felicità, della sua realtà davanti alla quale le altre svanivano. Cercherò di farla riap-  R. Antonelli parire. Retrocedo col pensiero al momento in cui ho sorbito il primo cuc- chiaino di tè. Ritrovo lo stesso stato senza una chiarezza nuova. Chiedo al mio spirito di fare un ulteriore sforzo, di richiamare ancora una volta la sen- sazione che sfugge. E perché niente possa spezzare lo slancio con il qua- le cercherà di riafferrarla, tolgo di mezzo ogni ostacolo, ogni idea estranea, metto al riparo le mie orecchie e la mia attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma quando m’accorgo che il mio spirito s’affatica senza successo, lo induco invece a prendersi quella distrazione che gli negavo, a pensare a qualcos’altro, a ritemprarsi prima di un tentativo supremo. Per la secon- da volta gli faccio il vuoto davanti, lo rimetto di fronte al sapore ancora re- cente di quella prima sorsata e dentro di me sento tremare qualcosa che si sposta, che vorrebbe venir su, come se fosse stato disancorato a una gran- de profondità; non so cosa sia, ma sale lentamente; avverto la resistenza, percepisco il rumore delle distanze attraversate. A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l’immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sa- pore, si sforza di seguirlo fino a me. Ma troppo lontano, troppo confusa- mente si dibatte; colgo a stento il riflesso neutro in cui si confonde l’inaf- ferrabile vortice dei colori rimescolati; ma non arrivo a distinguere la for- ma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, di spie- garmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratta. Giungerà mai alla superficie della mia coscienza lucida quel ricordo, quell’istante remoto che l’attrazione di un identico istante è venuta così da lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel mio io più profondo? Non lo so. Adesso non sento più niente, si è fermato, forse è ridisceso; chi può dire se risalirà mai dalla sua notte? Dieci volte devo ricominciare, sporger- mi verso di lui. E ogni volta la viltà che ci distoglie da ogni compito diffici- le, da ogni impresa importante, mi ha indotto a lasciar perdere, a bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani che si lasciano rimasticare senza troppa fatica. E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di made- leine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima dell’ora della messa), quando andavo a dirle buon- giorno nella sua camera da letto, zia Léonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della piccola madeleine non m’ave- va ricordato nulla prima che ne sentissi il sapore; forse perché spesso dopo di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticce- ri, e la loro immagine s’era staccata da quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgrega- to; le forme – compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto  grassamente sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota – erano scomparse, oppure, addormentate, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe permesso loro di raggiungere la coscienza. Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreg- gere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edifi- cio del ricordo. E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di made- leine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito (benché non sapessi ancora – e dovessi rimandare a ben più tardi il momento della scoperta – perché quel ricordo mi rendesse tanto felice) la vecchia casa grigia verso strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di tea- tro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino e costruito sul retro per i miei genitori (cioè all’unico isolato lembo da me rivisto fino a quel momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello. E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si diffe- renziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne6, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè. (da M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. di F. Calamandrei, N. Neri, Einaudi, Torino 1991).

Note 1. bengala: ‘razzo luminoso’. 2. il signor Swann … tristezze: il vicino di casa, il cui arrivo determinava l’ora del ritiro in camera da letto e il distacco dalla madre, che doveva ricevere l’ospite. 3. e spesso … primo: il caso potrebbe cioè non verificarsi mai. 4. celtica: dei Celti, popolazione che abitava l’Europa occidentale, e che aveva credenze reli- giose di tipo animista, secondo le quali era portata ad attribuire cioè un’anima a ogni fenomeno dell’universo. 5. cappasanta: mollusco bivalve con una caratteristica conchiglia a forma di ventaglio. 6. Vivonne: corso d’acqua lungo le cui rive il narratore si recava a passeggio; l’immagine delle ninfee proviene da una visita a una mostra del pittore impressionista Monet che proprio alle nin- fee dedicò numerosissimi quadri. ROBERTO ANTONELLI  R. Antonelli

LUCIANO DE MARIA, Alla ricerca del tempo perduto da M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, a c. di L. De Maria, trad. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1987

Nella copia dattiloscritta, la prima parte di Du côté de chez Swann, Combray, era stata ripartita da Proust in quattro chemises (cartelle), corrispondenti ad altrettanti capi- toli del testo. Questa ripartizione, che si è persa nell’edizione stampata, individuava i seguenti nuclei narrativi: 1) la scena del bacio materno; 2) la rivelazione della made- leine, l’evocazione di Combray e di zia Léonie; 3) la domenica a Combray; 4) i due côtés di Meséglise e di Guermantes. Questi nuclei corrispondono a una scansione reale del testo, ma tutto sommato esterna. È preferibile avviare il lettore a una comprensione adeguata dell’opera median- te una segnaletica interna, poco appariscente a un primo sguardo, ma certamente più profonda e proficua. Nelle prime pagine […], vera e propria ouverture dell’opera, il Narratore insonne rievoca le stanze in cui, nella sua vita, ha dormito. Longtemps, je me suis couché de bonne heure: sono pagine memorabili, affascinanti, dolcissime, intrise dell’elegia del passato, ma al tempo stesso programmatiche e, all’inizio, enigmatiche. L’effetto di spae- samento è fortissimo, ma, come ha scritto Adorno, Proust «senza il ronzio della ‘came- ra oscura’, senza la veduta panoramica del narratore onnisciente, introduce all’interno del libro, rinuncia all’incanto e solo così lo realizza». Alcuni tra i primi lettori, ancorati a un’estetica tradizionalistica, denunciarono in ter- mini estremamente significativi e in fondo maldestramente efficaci, il senso di vertigi- ne, lo sbigottimento, provato nel leggere le prime pagine della Ricerca. Ad esempio, un letterato, Jacques Madeleine, «lettore» della casa editrice di Eugène Fasquelle, al quale Proust aveva fatto pervenire il dattiloscritto di Du côté de chez Swann, nel 1912, riscontrava nell’insieme, «un caso patologico, nettamente caratterizzato», e quanto alle primissime pagine annotava: «Un tizio ha delle insonnie. Si rigira nel letto e rimugina nel dormiveglia alcune impressioni e allucinazioni di cui certune lo riportano alle sue difficoltà di addormentarsi, quand’era bambino, nella casa di campagna della sua fami- glia a Combray. Diciassette pagine! con una frase […] di quarantaquattro righe, in cui ci si perde». E poco dopo, in seguito al rifiuto di Fasquelle, Alfred Humblot, direttore della casa editrice Ollendorf, così scriveva a un amico di Proust, Louis de Robert, che gli aveva inviato e raccomandato il libro: «Caro amico, sarò un po’ ottuso, ma non rie- sco proprio a capire che un tipo possa impiegare trenta pagine per descrivere come si gira e rigira nel letto prima di prender sonno». In realtà, in queste primissime pagine della Ricerca, Proust introduce, per così dire musicalmente, come in un’ouverture, i temi principali della sua opera, con quelle figu- re narrativo-esistenziali che sostanziano il libro: il tempo legato ai luoghi, la memoria (e la memoria del corpo), il sogno, l’abitudine, il desiderio. Anche se a una prima let- tura, non si possono afferrare i riferimenti ai risvegli nelle camere via via abitate dal Narratore (a Combray, a Tansonville, a Balbec ecc.), non si può fare a meno però di lasciarsi trasportare dall’onda dolce e impetuosa della narrazione. Segue […] la presentazione iniziale di Combray, quello che J.-Y. Tadié ha chiamato Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto 

«Combray I», cioè quanto il Narratore rievoca della cittadina prima dell’intervento mira- coloso della «memoria involontaria» propiziata dalla madeleine. Assistiamo a una delle scene capitali del «romanzo famigliare», quella in cui il Narratore bambino, angosciato per non aver ricevuto il materno bacio della buonanotte, ottiene dal padre che la madre passi la notte nella sua stanza. Il protagonista tornerà più volte, nel seguito del roman- zo, sul significato di questo episodio: una vittoria di Pirro, che dà una soddisfazione immediata al bambino, ma gli intacca la volontà, già fragile, e gli crea un primo senso di colpa. Il clima intensamente, dolorosamente edipico di queste pagine è più che pale- se […] Da segnalare, inoltre, in questa sezione, l’irrompere della tematica erotica, con «la stanzetta che odorava di giaggiolo», dove il fanciullo conosce i primi piaceri solita- ri, e con il torrione di Roussainville-le-Pin, vero e proprio emblema e epicentro della sessualità infantile e adolescenziale nel mondo di Combray. L’episodio famosissimo e commentatissimo della madeleine […] va interpretato cor- rettamente come una trouvaille psicologico-esistenziale e come espediente narrativo. Sulla base delle teorie di Bergson, ma oltrepassandole, Proust contrappone alla «memo- ria volontaria» (o «memoria dell’intelligenza») la «memoria involontaria», che agisce spon- taneamente, per caso, in episodi come quello della madeleine. In quanto trouvaille psi- cologico-narrativa, ognuno di noi ha provato (specie dopo aver letto la Ricerca, s’in- tende!) che un odore, un sapore, una sensazione insomma, possono rievocare, con tutto il suo contorno, una sensazione analoga del passato. Proust ha approfondito, teo- rizzato, codificato, divulgato questo fenomeno ma non l’ha inventato; tant’è vero che Alfieri nel secondo capitolo della Vita ne aveva già fornito una suggestiva esemplifica- zione: «Ripigliando dunque a parlare della mia primissima età, dico che di quella stu- pida vegetazione infantile non mi è rimasta altra memoria se non quella di uno zio paterno, il quale […] mi dava degli ottimi confetti. Io non mi ricordava più quasi punto di lui, né altro me n’era rimasto fuorch’egli portava certi scarponi riquadrati in punta. Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso dello zio morto già da gran tempo […] la subitanea vista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi richia- mava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch’io avea provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia. Mi sono lasciata uscir di penna questa puerilità, come non inutile affatto a chi specula sul meccanismo delle nostre idee, e sull’affinità dei pensieri colle sensazioni» (il corsivo è mio). […] L’episodio della madeleine è scandito teatralmente nella narrazione (non per nien- te la parola teatro ricorre due volte in queste pagine), quasi che Proust volesse sottoli- neare con enfasi, con enfasi teatrale, appunto, l’importanza di questa scena. E di fatto, anche nel Tempo ritrovato, rivelazioni analoghe a quella della madeleine (quattro per la precisione), mettono in moto miracolosamente, teatralmente, il processo psicologico che porterà il Narratore alla decisione di scrivere.

Ulisse di James Joyce

Come Alla ricerca del tempo perduto di Proust, I Buddenbrook di Mann e L’uomo senza qualità di Musil, Ulisse di James Joyce (1882-1941) segna un punto di arrivo e insieme di svolta nell’evoluzione della letteratura occi- dentale: dopo il capolavoro dello scrittore irlandese il romanzo non sarà più lo stesso, neppure quando riprenderà a procedere lungo sentieri appa- rentemente più tradizionali rispetto alle intense sperimentazioni di inizio secolo, che toccano il loro esito più alto proprio con l’opera joyciana. L’Ulisse è infatti un libro che ha mutato la storia del romanzo e con cui è dunque necessario fare i conti, malgrado la sua difficoltà, per comprende- re la letteratura novecentesca. James Joyce nasce nel 1882 a Dublino da una famiglia della buona società. Tra l’ambiente culturale delle capitale irlandese, cattolico e nazio- nalista, e lo scrittore, aperto alle esperienze culturali europee più avanza- te, si manifesta però un’immediata incompatibilità che presto trova espres- sione nei primi scritti e nei primi abbozzi di opere più impegnative. Lasciata l’Irlanda, Joyce giunge, dopo lunghe peregrinazioni attraver- so l’Europa, a Trieste, dove, per circa dodici anni (1904-1915 e 1919- 1920), vive insegnando inglese, in difficili condizioni economiche. Qui scrive undici dei quattordici racconti che vanno a comporre la raccolta, iniziata in Irlanda, Gente di Dublino, tesa a «smascherare l’anima di quel- la emiplegia o paralisi che molti considerano una città». Osserva Joyce a tale proposito: «ho scelto Dublino come scena perché quella città mi pareva essere il centro della paralisi», a causa delle «sovrastrutture che rendono impossibile, a Dublino, il manifestarsi della vita autentica della persona umana; la religione (la Chiesa cattolica), le convenzioni sociali, il dominio straniero e il gretto e inetto nazionalismo che gli si contrap- pone». Sembra che la prima idea dell’Ulisse sia stata elaborata da Joyce duran- te il soggiorno a Roma nel 1906-1907; nell’universo creativo dello scrittore la capitale italiana è accomunata a Dublino in quanto centro del cattolice- simo europeo. Negli anni successivi il progetto si precisa ulteriormente nel  R. Antonelli recupero del mito di Ulisse, dal quale l’autore era rimasto affascinato sin da ragazzo. Il motivo ulissiaco del viaggio e del ritorno a casa si pone all’origine sia della letteratura greca e occidentale in genere, sia, con la Divina Commedia, della tradizione europea moderna e cristiana. Proprio il poema dantesco, nella sua natura di capolavoro epico della cristianità, con il viag- gio di redenzione spirituale teso alla salvezza del genere umano, agisce nell’Ulisse a livelli più profondi, pur se meno espliciti, rispetto alla stessa Odissea. Le peregrinazioni del protagonista Leopold Bloom attraverso Dublino rimandano così, come in Dante, a un itinerario che porta il pelle- grino ad affrontare le problematiche culturali e letterarie della contempo- raneità. Inoltre, come Ulisse e Dante risolvono il loro viaggio nell’incontro con una donna (Penelope nell’Odissea, Beatrice nella Commedia), così anche Bloom nell’Ulisse conclude la propria giornata con la moglie Molly, una donna carnale che lo tradisce, pur restandogli sostanzialmente fedele nello spirito, e che costituisce dunque una «parodia» della pagana Penelope, ma anche di Beatrice, sua controfigura spirituale cristiana. Tutto il viaggio di Bloom, come chiarisce esplicitamente Joyce, rappre- senta però anche un’epopea del corpo umano, il cui ciclo è infatti fedel- mente seguito dalla giornata del protagonista: a ogni fase dell’itinerario è associato un elemento fisico, fino al riconoscimento finale della carne e del grembo di Molly come unico possibile senso unitario della vita. Alla fina- lizzazione spiritualistica a cui danno voce sia la Commedia (la candida rosa e l’incontro con la Madonna e Dio) sia Tommaso d’Aquino, chiamato espli- citamente in causa da Joyce come controparte filosofica, si contrappone un viaggio, di una sola giornata, che si presenta come compendio di tutta l’e- sperienza fisica dell’uomo e negazione di quella metafisica. Sul modello della Commedia, l’Ulisse si pone punto d’arrivo e di svol- ta di un’intera cultura e si fonda su una pluralità linguistica e stilistica por- tata fino alle estreme conseguenze, anche sul piano strutturale. Lo sforzo immane tentato da Joyce aspira infatti a ripercorrere, parodiandolo in uno straordinario percorso storico-culturale, l’intero immaginario letterario europeo, dalle sue lontane origini epiche e classiche fino al romanzo otto- novecentesco, rappresentandolo nella vita e nei personaggi di una città, cattolica e novecentesca, come Dublino. Ne emerge una sorta di grande poema eroicomico, ma soprattutto un romanzo condotto in forma di anti- romanzo, privo di trama, costruito su piani temporali sfalsati o sovrappo- sti nei modi più diversi, in un’inesauribile confondersi di stili diversi, in continue riprese e parodie del linguaggio comune e letterario. L’autore supera così le regole narrative tradizionali, spesso recuperando intuizioni di Laurence Sterne (1713-1768), per esempio nell’esposizione James Joyce, Ulisse  esplicita degli artifici narrativi e nell’uso dei meccanismi associativi e lin- guistici. Joyce cura perciò in modo particolare struttura e riferimenti ester- ni (ad altre opere, a cominciare dall’Odissea) e interni (tra un episodio e un altro, tra temi e personaggi), come dimostrano anche gli schemi dell’o- pera presentati agli amici: il tutto tende però a un fine opposto rispetto all’ordine rigido su cui si fonda la scrittura dell’autore. Secondo il poeta T.S. Eliot, Joyce «ha completamente distrutto il diciannovesimo secolo. […] Ha smascherato la futilità di tutti gli stili esistenti in inglese». Dopo Ulisse Joyce pone mano immediatamente a un altro romanzo, La veglia di Finnegan (Finnegan’s Wake), una sorta di continuazione, dal punto di vista formale, del libro precedente. La realtà di riferimento appa- re qui mascherata attraverso un complesso gioco di simboli e miti di deci- frazione sempre più ardua, in un procedimento narrativo che recupera persino le teorie vichiane sui ricorsi storici. Il romanzo fa largo uso della tecnica del flusso di coscienza, con un’ulteriore forte manipolazione del linguaggio. L’opera è pubblicata nel 1939; Joyce morirà due anni dopo, ancora in esilio volontario da quella Dublino così centrale, per quanto tra- sfigurata, nella sua opera.

Ulisse Il romanzo si articola in tre sezioni, come l’Odissea omerica; tutte hanno luogo il 16 giugno, data del primo appuntamento di Joyce con la futura moglie. Ogni parte è a sua volta suddivisa in episodi, per un totale di diciotto capitoli: 1. Telemachia, ovvero le avventure di Stephen-Telemaco, incentrate sulla figura del figlio, divisa in tre episodi; 2. Odissea, ovvero le avventure di Bloom-Ulisse, incentrate sulla figura del padre, in dodici episodi; 3. Nostos («ritorno»), ovvero il ricongiungimento di Bloom e Stephen (Ulisse e Telemaco), a cui presiede Molly Bloom (Penelope), moglie e madre, simbolo della donna, in tre episodi. Ogni episodio del romanzo ne richiama esplicitamente uno dell’Odissea o accenna in qualche modo all’e- pos ulissiaco, ma rappresenta nel contempo una parte del corpo; ogni momento del libro è inoltre popolato da vari personaggi, caratterizzati da stili espressivi specifici e collocati in un preciso luogo di Dublino. Quella dell’Ulisse è dunque una struttura complessa, tanto da risultare avvicinabi- le, per certi aspetti, a quella dell’oltretomba dantesco. Per dichiarazione dello stesso Joyce, il romanzo è del resto «una specie di enciclopedia» nella quale il mito di Ulisse è reso «nella forma del nostro tempo»: un’epopea che ha come protagonista un irlandese ebreo medio,  R. Antonelli Leopold Bloom(-Ulisse), le peregrinazioni sue e del «figlio» spirituale, Stephen(-Telemaco) durante una normale giornata vissuta nella capitale irlandese. L’ebreo Bloom rappresenta per Joyce il tipo dell’emarginato, del- l’esule, nell’ostile ambiente cattolico irlandese: era quanto aveva speri- mentato l’autore stesso, costretto a peregrinare per mezza Europa a causa della grettezza della «gente di Dublino». La capitale irlandese, con la sua geografia materiale e simbolica (il potere della Chiesa cattolica e dello Stato), è dunque l’altra grande protagonista del romanzo. Joyce struttura la giornata di Bloom tenendo sott’occhio la carta topografica della città e isti- tuendo sottili legami fra personaggi, temi e luoghi. Un altro degli obiettivi principali dell’opera risiede infatti per Joyce, come era già avvenuto in Gente di Dublino, nel rivelare il senso profondo di una città dalla quale, sentendosi soffocare, l’autore aveva precocemente deciso di fuggire.

Il monologo di Molly Bloom Siamo alla conclusione del libro e della «giornata di Leopold Bloom», che è tornato a casa dove la moglie, Molly-Penelope, l’attende a letto. La donna pensa alla richiesta del marito di portargli la colazione a letto, come era accaduto solo un’altra volta, molti anni prima. Si innesca così, nel dormiveglia, una lunga fantasticheria sensuale e libe- ratoria. Molly, nella struttura del romanzo, rappresenta infatti la carne in quanto donna, moglie e madre: nell’«epica del corpo umano» che costituisce uno dei motivi struttura- li profondi dell’opera, sostituisce lo Spirito della Trinità cristiana (il Padre è lo stesso Bloom-Ulisse, il Figlio è Stephen- Telemaco, che Bloom protegge). Il monologo di Molly Bloom (qui riprodotto in minima parte) è uno dei più famosi esempi della tecnica del flusso di coscienza nel romanzo e nella letteratura del Novecento, il primo momento in cui si assiste allo straordinario fenomeno di un personaggio che si costruisce nar- randosi. Il primo incontro con Bloom, rievocato nella parte finale del brano, è scandito quasi romanticamente dalla parola «sì», ripetuta più volte in poche righe, e dall’ambiente leg- giadramente campestre che fa da sfondo al dialogo tra i due, ma anche dalla capacità di Molly di saper ragionare con disincantato realismo persino nei momenti di maggio- re sentimentalità («io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo», rr. 42-43). Joyce evoca così una scena da romanzo ottocentesco inserendola in un contesto linguistico rove- sciato che non nega il sentimento ma sa guardarlo con ironia, dall’esterno. Molly ripensa così ai suoi tanti amori, in una sequenza rapidissima composta per il lettore soltanto da puri nomi e da luoghi e contesti. Joyce non tenta neppure di chiarir- li: è l’interiorità di Molly che è in scena e non avrebbe senso fornire, qui, spiegazioni. I pensieri della donna scorrono rapidamente senza un apparente filo logico: i contenuti mentali sono riprodotti così come si presentano alla coscienza della donna. La scrittu- ra ne registra il flusso ininterrotto ricorrendo a uno stile che non prevede pause sintat- tiche né punteggiatura. Proprio grazie a questa tecnica il lettore coglie però l’essenziale. James Joyce, Ulisse 

Molly sta rievocando velocemente anni di vita, di sensazioni e di piaceri, localizzati in una terra gioiosa e vivace, la Spagna, il Mediterraneo, luoghi di grande allusività per i lettori nordici. Ma il sentimento è tutto per Bloom e per il loro primo incontro. Molly si costruisce come una figura complessa, come una Penelope davvero moderna, attenta al proprio uomo ma mai dimentica della propria vita e dei propri amori. Una donna com- pleta, formata da un corpo a da un’interiorità, elementi, questi, dai quali non è possi- bile prescindere se si mira ad avere una compiuta conoscenza della persona.

Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la cola- zione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quan- do faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan1 vecchia befana e lui credeva d’esse- re nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’a- nima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sem- pre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe volu- to vedere addosso a lei si capisce dico che era pia perché nessun uomo si è mai voltato a guardarla spero di non diventar come lei miracolo che non voleva ci si scoprisse la faccia ma certo era una donna colta e quelle bug- gerate su Mr Riordan qua e Mr Riordan là io dico è stato felice di levarsela di torno e il suo cane che mi odorava la pelliccia e cercava d’infilarmisi tra le sottane specialmente quando eppure questo mi piace in lui2 così gentile con le vecchie e i camerieri e anche i poveri non è orgoglioso di nulla pro- prio ma non sempre se mai gli capita qualcosa di grave è meglio che vada- no all’ospedale dove tutto è pulito ma io dico mi ci vorrebbe un mese per cacciarglielo in testa sì e poi ci sarebbe subito un’infermiera tra i piedi e lui ci metterebbe le radici finché non lo buttan fuori o una monaca forse come quella di quella fotografia schifosa che ha che è una monaca come lo sono io sì perché sono così deboli piagnucolosi quando son malati ci vuole una donna per farli guarire se gli sanguina il naso c’è da credere che sia un dram- ma in piena regola e quell’aria da moribondo scendendo dalla circolare sud quando s’era slogata una caviglia alla festa della corale di Monte pan di zuc- chero il giorno che avevo quel vestito Miss Stack gli portò i fiori i peggio3 che aveva trovato appassiti in fondo al paniere cosa non avrebbe fatto per entrare in camera di un uomo con quella voce da zitella cercava di imma- ginarsi che stesse morendo per amor suo non più mai rivederti benché aves- se l’aria più da uomo con la barba un po’ lunga a letto papà era lo stesso e poi non mi andava di fasciarlo e dargli pozioni quando si tagliò il dito del piede col rasoio a spuntarsi i calli paura d’un avvelenamento del sangue ma se fossi io per esempio ad ammalarmi allora vorrei vedere un po’ solo che  R. Antonelli la donna lo nasconde si capisce per non dare tante seccature come loro sì ha fatto qualcosa in qualche posto me ne accorgo dall’appetito comunque non è amore sennò non mangerebbe per pensare a lei […] eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweed grigio e la paglietta il giorno che gli feci fare la dichiarazione sì prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotti all’anice e era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì disse che ero un fior di montagna sì siamo tutti fiori allora un corpo di donna sì è stata una delle poche cose giuste che ha dettoin vita sua e il sole splende per te oggi sì perciò mi piacque sì perché vidi che capiva o almeno sentiva cos’è una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto finché non mi chiese di dir di sì e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulvey4 e Mr Stanhope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai che gio- cavano al piattello e alla cavallina come dicevan loro sul molo e la sentinel- la davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all’elmetto bian- co povero diavolo mezzo arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e quei pettini alti e le aste la mattina i Greci e gli ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d’Europa e Duke street e il mercato del pollame un gran pigolio davanti a Larby Sharon5 e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all’ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello vecchio di mill’anni sì e quei bei Mori tutti in bianco e tur- banti come re che ti chiedevano di metterti a sedere in quei loro buchi di botteghe e Ronda con le vecchie finestre delle posadas6 fulgidi occhi celava l’inferriata perché il suo amante baciasse le sbarre e le gargotte7 mezzo aper- te la notte e le nacchere e la notte che perdemmo il battello ad Algesiras8 il sereno che faceva il suo giro con la sua lampada e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda9 sì e tutte quelle stra- dine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i gera- nii e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sen- tire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio sì10. (da J. Joyce, Ulisse, trad. di G. De Angelis [con lievi modifiche], Mondadori, Milano 1989). James Joyce, Ulisse  Note 1. mrs Riordan: un’anziana donna che Leopold ha cercato di ingraziarsi per ottenerne l’ere- dità. 2. lui: Leopold Bloom, marito di Molly. 3. i peggio: ‘i peggiori’; forma dialettale. 4. Mulvey: altro amante di Molly. 5. Larby Sharon: negozio di Dublino. 6. posadas: spagnolo, ‘locande’. 7. gargotte: ‘taverne’, ‘bettole’. 8 Algesiras: porto della Spagna meridionale. 9. alameda: nelle città spagnole, viale alberato. 10. sì: il «Sì» con cui si chiudono il monologo e l’intero romanzo costituisce il sì detto a tutta la vita da una Penelope, che, corrispondentemente al senso parodico dell’opera, non è più fedele come quella omerica ma che ritorna sempre a Bloom, «l’unico a cui essa sia sentimentalmente legata».

ROBERTO ANTONELLI  R. Antonelli

GUIDO DE ANGELIS, Commento a «Ulisse» da Ulisse. Guida alla lettura, a c. di G. Melchiori e G. De Angelis, Mondadori, Milano 2000

In questo monologo troviamo il primo esempio nella letteratura mondiale di per- sonaggio che si costruisce narrandosi e i cui tratti si precisano organizzandosi lenta- mente e progressivamente. All’inizio non c’è una persona poeticamente definita ma come un grumo di sensualità torpida che prende a muoversi seguendo il filo di un fan- tasticare distratto. È l’ultimo definitivo bilancio della giornata, la chiave di volta dell’e- dificio. I temi, poco differenziati e non scolpiti come nel resto dell’opera, sono qui tutti riconducibili all’eterna preoccupazione della carne calda e matura di Molly: gli uomini, l’Uomo, il marito, l’amante. È significativo che pur passando in rivista tutti i suoi uomi- ni Molly sempre ritorni a Bloom che è, in fondo, l’unico a cui essa sia sentimentalmente legata. In questo senso, possiamo proporre un’interpretazione del parallelo Penelope- Molly. Non l’infedele dublinese opposta alla fedelissima tessitrice dell’eterna tela, non l’ovvia parodia, ma l’interpretazione profonda di una Molly fedele nonostante l’infe- deltà. E nel viluppo dei riferimenti a «lui» spesso sarà difficile leggere un riferimento preciso a Bloom o ad un altro amante. Lui è l’uomo, tutti gli uomini. Molly nel suo monologo tira veramente le somme. È l’unica a veder chiaro e a rista- bilire in un certo senso quell’equilibrio che l’incontro tra Bloom, uomo medio e sen- suale e Stephen, gelido e astratto intellettuale, non ha realizzato, se non in parte. È questo il senso definitivo del suo «sì». Sì alla vita, sì a tutta la vita. Molly non ha pro- blemi, non è umiliata come Bloom, non ha nemici da combattere, né un credo este- tico da proclamare, né un libro da scrivere come Dedalus. È la donna, la terra madre, che nel suo grembo tutto accoglie con suprema indifferenza e ad ogni cosa sa dare, per forza d’istinto, il suo vero valore. Giace sovranamente serena sul suo letto (come l’abbiamo vista all’inizio) ed è rimasta estranea alla convulsa e inutile agitazione di quella giornata di mezza estate. Il convegno amoroso con Boylan è stata la sola atti- vità a cui si è dedicata, per quanto ne sappiamo. Ora accoglie il marito, navigatore stanco che ha terminato il suo periplo nell’oceano dublinese, ma la sua reazione è quella di una qualsiasi altra fine di giornata. Impossibile immaginare un diverso atteg- giamento di Molly. La sentiamo fuori del tempo (il suo primo amante le è presente come se si trattas- se di un incontro del giorno prima) e fuori dello spazio (la sua fantasticheria potrebbe riferirsi a Gibilterra dov’è nata, come a Dublino dove ora si trova). La sua curiosità sen- suale è simile a quella di Bloom e come lui essa è gelosa – gelosa del marito. Arriva a provare un’inconscia gelosia nei riguardi della figlia e non perdona al marito le sue rela- zioni con altre donne. Molly è una figura viva nelle sue contraddizioni, nel suo amore per il marito, come nei suoi tradimenti. È assolutamente priva di pudore. È al di sopra e al di là del pudore. Scarsamente collegato col resto del libro, dal punto di vista tematico, l’episodio è, come la donna Molly, compiuto ed isolato in sé. Unico motivo centrale: la sua vita. L’infanzia e l’adolescenza a Gibilterra, i suoi amori, l’incontro con Bloom, l’insoddisfa- cente relazione col marito, il suo amante attuale. Scarso peso ha la sua carriera artisti- ca, cui si accenna nel settimo brano del soliloquio. E Stephen passa come un’ombra James Joyce, Ulisse  davanti ai suoi occhi, appanna lievemente la sua coscienza ed è visto solo come un ipotetico ennesimo amante. Molly riduce tutto al suo comune denominatore. Ogni brano di «Penelope» è variamente intonato a seconda del diverso stato d’ani- mo di Molly ed è questo l’unico episodio di Ulisse che possa essere interpretato come variazione su un tema, la vita sessuale e sentimentale di Molly. L’altro grande monolo- go (quello di Stephen, terzo episodio) ha ben altra densità tematica, come abbiamo visto: non essendo il ritratto della donna matura bensì quello più complesso dell’arti- sta immaturo. «Proteo» è, piuttosto, la conclusione dell’iter di Dedalus e lo si può con- siderare l’ultimo capitolo «ideale» di Dedalus.

Il processo di Franz Kafka

Franz Kafka (1883-1924) nasce a Praga. Il padre è un commerciante ebreo riuscito dopo una vita durissima a raggiungere una certa agiatezza, tanto da permettere al figlio una formazione con un’insegnante privata di francese, il liceo tedesco e, dopo studi di chimica e germanistica, la laurea in Giurisprudenza all’Università di Praga. Il giovane Franz coltiva intanto il proprio amore per la letteratura (tra gli autori più frequentati Kleist, Grillparzer, Flaubert, Dostoevskij) e a circa vent’anni scrive il suo primo racconto. Praga è una città «magica», ricca di contrasti sociali e culturali, una «città maledetta» secondo Kafka, che l’amerà sempre e che, pur senza nominar- la esplicitamente, ambienta nella sua atmosfera inquietante e oscura gran parte della propria narrativa. A quel tempo è la capitale della Boemia, cro- cevia di un mosaico etnico e culturale molto particolare. Vi convivono slavi, tedeschi ed ebrei tedeschi. Proprio i tedeschi costituiscono il gruppo dominante: sono di fatto isolati dagli slavi, dei quali non comprendono la lingua e la cultura e a cui riconoscono i caratteri minacciosi del «diverso». Il gruppo ebraico, a sua volta, riveste un ruolo fondamentale nella vita economica e culturale della minoranza tedesca. Il processo di assimilazione degli ebrei alla cultura borghese-liberale tedesca e austriaca mina i legami comunitari che nella tradizione ebraica garantiscono la salvezza: è una situazione in cui sono facili lo sradicamento e lo sgretolamento dell’identità collettiva e individuale. Kafka vive tale atmosfera in prima persona, fino a soffrire di patologie nevrotiche che tur- bano la sua vita privata, innanzitutto nei rapporti con il padre (verso il quale manifesta un rapporto aspramente ed esplicitamente conflittuale), ma anche nei riguardi delle donne amate. Lo scrittore non riesce mai a sta- bilire un rapporto di coppia equilibrato; ogni fidanzamento si conclude con una rottura, spesso tanto improvvisa quanto apparentemente inspie- gabile. È poi attratto dalla vitalità e dal successo del padre, proprio men- tre è schiacciato dal desiderio irrealizzabile e colpevole di prenderne il posto, di raccoglierne l’eredità e «usurpare la sua autorità e la sua respon-  R. Antonelli sabilità». Il padre rappresenta ciò che Kafka vorrebbe e, secondo la tradi- zione ebraica, dovrebbe divenire, ma anche ciò che sente profondamente di non poter mai essere. Tra autorità paterna, peso della tradizione ebraica e incapacità indivi- duale di vivere in modo non traumatico la propria condizione esistenziale si apre per lo scrittore un mondo angoscioso e perturbante che non riesce a trovare un punto di pacificazione. La vita appare allora un intermezzo penoso. Quando Kafka scopre di essere malato di tubercolosi immagina che nel suo corpo si instauri una trattativa fra cervello e polmoni affinché i secondi, ammalandosi, assecondino le pulsioni autodistruttive del primo. Di fatto egli accoglie con un certo sollievo la rivelazione della malattia (1917), quasi fosse un pretesto per poter finalmente rinunciare alla lotta imposta dalla vita e abbandonarsi passivamente all’infelicità: con l’occasio- ne rompe infatti, significativamente, anche il fidanzamento con Felice, con la quale pure scambia un intenso epistolario amoroso. La scrittura diviene così ricerca di chiarezza, verità, conoscenza di sé e del mondo, in un itinerario condotto attraverso l’analisi di circostanze estre- me o irrealistiche, che però proprio per tali caratteristiche arrivano a espri- mere nel modo più stringente e «realistico» il senso profondo di una situa- zione personale e, più in generale, di una condizione umana vista come disperatamente sola e alienata. Nel Processo l’alienazione raggiunge il culmine. Posto improvvisamente di fronte a una colpa ignota, il protagonista è costretto ad affrontare l’an- goscia più insopportabile per un uomo del Novecento e per un figlio ossessionato dalla prepotente personalità del padre: il non veder ricono- sciuta la propria identità. Il personaggio, che l’autore indica lungo tutto il romanzo con una semplice «K.», iniziale di Kafka e insieme espressione di anonimato, è preda di un’ossessione che rende progressivamente più vana e infine impossibile la sua vita così come la sua possibilità di difesa. Freud e la teorizzazione del complesso d’Edipo, ossia del desiderio infantile di uccidere il padre, appaiono idealmente vicini, nonostante l’assoluta inde- terminatezza dell’accusa renda il romanzo aperto a molteplici interpreta- zioni, non necessariamente univoche, fino a porlo come una delle opere simbolo del Novecento europeo («il mio tempo – dice Kafka – a cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare»). Dietro l’accusa indeterminata e assoluta è infatti possibile riconoscere un paradigma dell’angoscia dell’uomo moderno, incapace di comprendere le ragioni della frammentazione dell’Io e della perdita della propria identità. Gli incubi di Kafka di fronte a una condizione familiare e sociale segna- ta da paure e angosce, sono un riflesso della profonda crisi attraversata Franz Kafka, Il processo  all’epoca dalla civiltà europea e rappresentano un’eco del massacro vissu- to da un’intera generazione durante la prima guerra mondiale. Si sono inol- tre rivelati tragicamente profetici con l’avvento del totalitarismo e di uno sterminio teso a colpire proprio il popolo e la cultura da cui Kafka prove- niva (le tre sorelle dello scrittore morirono in campi di sterminio nazisti). Per questo oggi l’aggettivo «kafkiano» significa certamente «relativo alle opere di Kafka», qualcosa «che ricorda l’atmosfera angosciosa e allucinan- te propria delle opere di Kafka», ma indica anche, più semplicemente e immediatamente, «assurdo», «inquietante», ciò che Freud indica con «per- turbante», ovvero il fondo oscuro dell’inconscio umano che la scrittura di Kafka porta a chiarezza e verità.

Il processo Un uomo, K., è arrestato, ma nessuno gli spiega il perché, anzi gli stes- si accusatori dicono di non conoscere le ragioni dell’arresto. Lui, il prota- gonista, le ignora e chiede insistentemente ma senza esito di conoscerle; tutti però sembrano insieme sapere e non sapere, tranne lui, che continua a non sapere nulla. Anche il sacerdote nel duomo, che lo conosce, si rive- la parte del sistema. Proprio il sacerdote dirà: «la sentenza non arriva d’un tratto, è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza». Il mondo è divenuto totalmente incomprensibile, dominato da un oscuro processo totalitario: «La giustizia non vuole nulla da te. Ti prende quando tu vieni e ti lascia quando tu te ne vai». L’uomo scopre improvvisamente di essere solo e di non poter essere che solo, totalmente solo e alienato: «Cerchi troppo l’aiuto degli altri», aggiunge il sacerdote, ovvero colui che nella tradizione avrebbe dovuto fornire comprensione, solidarietà: «non si deve prendere tutto per vero, ma solo per necessario». È un mondo senza charitas, in cui la relazione ordinaria è il conflitto, ma per l’uomo comune, per K. in quanto rappresentante di sé e di ogni uomo (un nuovo e antico Everyman), è un conflitto senza speranza, senza giustizia. Pur se si dice che «ognuno è giudicato per quel che è», non appa- re alcuna motivazione, salvo la Legge in sé, che perciò si presenta ormai senza ragioni, senza senso, dunque delegittimata. Essa produce soltanto angoscia: un mondo senza senso è un mondo alla deriva. Kafka non è però uno scrittore dell’Assurdo, ma piuttosto di un mondo, l’Europa della prima metà del XX secolo (ma non solo), ormai in balìa dell’Assurdo e della morte.  R. Antonelli L’arresto Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Non era mai successo prima. K. aspettò ancora un poco, guardò dal suo cuscino la vecchia che abitava di fronte e lo stava osservando con una curiosità del tutto insolita per lei, ma poi, stu- pito e affamato insieme, suonò il campanello. Subito bussarono e un uomo che K. non aveva mai visto prima in quella casa entrò. Era slanciato ma di solida corporatura, indossava un abito nero attillato che, come quelli da viaggio, era provvisto di varie pieghe, tasche, fibbie, bottoni e cintura, e dava quindi l’impressione, senza che si capisse bene a che cosa dovesse servire, di essere particolarmente pratico. «Lei chi è?», chiese K. subito sol- levandosi a metà nel letto. Ma l’uomo eluse la domanda, come se la sua comparsa fosse da accettare e si limitò a chiedere a sua volta: «Ha suona- to?». «Anna mi deve portare la colazione», disse K. e cercò, dapprima in silenzio, con l’osservazione e la riflessione, di stabilire chi mai fosse l’uo- mo. Ma questi non si espose troppo a lungo ai suoi sguardi, si volse verso la porta e l’aprì un poco per dire a qualcuno che stava evidentemente subi- to dietro: «Vuole che Anna gli porti la colazione». Ci fu una risatina nella stanza accanto, dal suono non poteva essere sicuro che non venisse da più persone. Sebbene l’estraneo non potesse con questo aver appreso nulla che già non avesse saputo prima, disse a K. con il tono di una comunica- zione: «È impossibile». «Questa sarebbe nuova», disse K., saltò dal letto e s’infilò in fretta i pantaloni. «Voglio un po’ vedere che gente c’è nell’altra stanza e che giustificazione mi darà la signora Grubach per questa secca- tura». Gli venne subito in mente che non avrebbe dovuto dire questo a voce alta, e che in tal modo riconosceva all’estraneo un qualche diritto di controllo, ma al momento la cosa non gli parve importante. L’estraneo, comunque, l’intese così, perché disse: «Non preferisce rimanere qui?». «Non voglio rimanere qui né che lei mi rivolga la parola finché non si sarà pre- sentato». «L’intenzione era buona», disse l’estraneo e aprì ora spontanea- mente la porta. Nella stanza accanto, dove K. entrò più lentamente di quanto volesse, a un primo sguardo tutto pareva quasi immutato dalla sera prima. Era il soggiorno della signora Grubach, forse nella stanza stracolma di mobili, tessuti, porcellane e fotografie, c’era un po’ più spazio del soli- to, non lo si vedeva subito, anche perché il cambiamento principale con- sisteva nella presenza di un uomo, seduto vicino alla finestra con un libro da cui ora alzò lo sguardo. «Sarebbe dovuto rimanere nella sua stanza! Non glielo ha detto Franz?». «Ma lei che cosa vuole?», disse K., e volse lo sguar- Franz Kafka, Il processo  do dalla nuova conoscenza all’uomo chiamato Franz, che era rimasto sulla porta, e poi ancora all’altro. Dalla finestra aperta si vedeva di nuovo la vec- chia che, con una curiosità veramente senile, si era adesso spostata alla finestra dirimpetto per continuare a vedere ogni cosa. «Insomma, voglio la signora Grubach…», disse K., e fece un movimento come per divincolarsi dai due uomini, che pure stavano distanti da lui, e andarsene. «No», disse l’uomo vicino alla finestra, gettò il libro su un tavolino e si alzò. «Lei non può andarsene, è in arresto». «Si direbbe proprio», disse K. «E perché?», chie- se poi. «Non siamo autorizzati a dirglielo. Vada in camera sua e aspetti. Il procedimento è appena avviato, e lei saprà tutto a tempo debito. Vado oltre il mio incarico parlandole così amichevolmente. Ma spero che non ci senta nessuno al di fuori di Franz, e anche lui è gentile con lei contro ogni regola. Se continua ad avere la fortuna che ha avuta con l’assegnazione delle sue guardie, può sperare in bene». K. volle sedersi, ma ora si accor- se che in tutta la stanza non c’era possibilità di sedersi, se non sulla seg- giola vicino alla finestra. «Se ne renderà conto, di come tutto questo è vero», disse Franz e mosse verso di lui insieme all’altro. Quest’ultimo, soprattutto, era parecchio più alto di K., e gli batté più volte sulla spalla. Tutti e due esaminarono la camicia da notte di K. e dissero che adesso avrebbe dovuto indossare una camicia molto più brutta, ma che avrebbe- ro custodito quella camicia, come pure tutta l’altra sua biancheria, e che gliel’avrebbero restituita se la sua causa si fosse risolta favorevolmente. «È meglio che lei lasci a noi le sue cose piuttosto che al deposito», dissero, «perché al deposito spesso la roba sparisce e inoltre, dopo un certo tempo, vendono ogni cosa senza vedere se il procedimento relativo è concluso o meno. E quanto durano questi processi, specie negli ultimi tempi! Alla fine lei riceverebbe, questo sì, dal deposito la somma ricavata, ma prima di tutto questa somma è già scarsa in sé, perché alla vendita non è determi- nante tanto l’entità dell’offerta quanto quella della corruzione, e poi que- ste somme, per esperienza, si riducono ulteriormente passando di mano in mano e con gli anni». K. prestò scarsa attenzione a questi discorsi, non dava gran peso al diritto, che forse ancora possedeva, di disporre delle proprie cose, molto più importante per lui era vedere chiaro nella sua situazione; alla presenza di quella gente, però, non riusciva nemmeno a riflettere, la pancia della seconda guardia – perché non potevano che esse- re guardie – lo urtava di continuo quasi amichevolmente, ma se alzava lo sguardo vedeva un viso secco, ossuto, con un naso grosso e storto, che non si accordava per niente con quel corpo grasso, che s’intendeva con l’altra guardia senza badare a lui. Che gente era quella? Di che cosa parla- vano? Da quale autorità dipendevano? Eppure K. viveva in uno stato di diritto, dappertutto regnava la pace, tutte le leggi erano in vigore, chi osava  R. Antonelli aggredirlo in casa sua? Era sempre propenso a prendere ogni cosa con disinvoltura, a credere al peggio solo quando il peggio era arrivato, a non farsi preoccupazioni per il futuro, neanche quando si presentava minac- cioso. Ma ora questo non gli sembrava giusto, si poteva considerare il tutto uno scherzo, uno scherzo pesante, montato dai colleghi della banca per motivi a lui sconosciuti, magari perché oggi compiva trent’anni, era senz’al- tro possibile, forse gli bastava ridere in un modo qualsiasi in faccia alle guardie che avrebbero riso anche loro, forse erano fattorini dell’angolo della strada, non sembravano troppo diversi – questa volta comunque, fin dal primo momento che aveva visto la guardia Franz, era deciso a non rinunciare al minimo vantaggio che forse possedeva di fronte a quella gente. Più tardi avrebbero potuto dirgli che non aveva capito lo scherzo, ma in questo K. vedeva un rischio minimo, eppure si ricordava – senza che fosse sua abitudine imparare dall’esperienza – di alcuni casi, di per sé insignificanti, in cui a differenza dei suoi amici aveva agito coscientemen- te con imprudenza, senza minimamente darsi pensiero per le possibili con- seguenze, ed era poi stato punito dai fatti. Non sarebbe più successo, almeno non questa volta; se era una commedia, lui sarebbe stato al gioco. Era ancora libero. «Con permesso», disse, e passando fra le due guardie tornò svelto nella sua stanza. «Sembra ragionevole», sentì dire dietro di sé. In camera aprì subito con uno scatto i cassetti della scrivania, dentro tutto era in ordine perfetto, ma nella sua agitazione non riuscì immediatamen- te a trovare proprio quei documenti d’identità che cercava. Finalmente trovò la tessera di ciclista e con quella voleva subito andare dalle guardie, ma poi gli parve un documento troppo poco importante e continuò a cer- care finché trovò il certificato di nascita. Quando ritornò nella stanza accanto, la porta di fronte si aprì e la signora Grubach fece per entrare. La si vide solo un istante perché, appena riconosciuto K., rimase visibil- mente imbarazzata, chiese scusa, sparì e chiuse con estrema cautela la porta. «Entri pure», aveva appena fatto in tempo a dire K. Ma ora se ne stava in piedi in mezzo alla stanza con i suoi documenti, guardò ancora verso la porta che non si riapriva e si scosse solo a un richiamo delle guar- die che sedevano a un tavolino vicino alla finestra e, come K. ora si accor- se, consumavano la sua colazione. «Perché non è entrata?», chiese. «Non può», disse la guardia più alta. «Lei è in arresto». «Come posso essere in arresto? In questo modo, poi». «Non ricominci adesso», disse la guardia e intinse una fetta di pane imburrata nel vasetto del miele. «A queste doman- de non rispondiamo». «Dovrà rispondere», disse K. «Ecco i miei documen- ti d’identità, fatemi vedere ora i vostri e soprattutto il mandato di arresto». «Santo cielo!», disse la guardia, «possibile che lei non riesca a rassegnarsi alla sua situazione e per giunta sembri mettercela tutta per irritarci inutil- Franz Kafka, Il processo  mente, noi che adesso le siamo forse più vicini di qualsiasi altro essere umano!». «È così, creda», disse Franz, e non portò alla bocca la tazza di caffè che teneva in mano, ma fissò K. con un lungo sguardo, probabil- mente carico di significato, ma incomprensibile. K. indulse senza volere a un muto colloquio con Franz, poi batté la mano sui suoi documenti e disse: «Ecco i miei documenti d’identità». «Che ce ne importa a noi?» gridò la guardia più alta. «Si comporta peggio di un bambino. Ma che cosa vuole? Vuole chiudere in fretta il suo grosso, maledetto processo discu- tendo con noialtre guardie di documenti e mandati? Noi siamo impiegati in sottordine che ne capiscono a malapena di documenti d’identità e che con la sua faccenda hanno a che fare solo per sorvegliarla dieci ore al giorno ed essere pagati per questo. Tutto qui quello che siamo, e tuttavia siamo in grado di comprendere che le alte autorità da cui dipendiamo, prima di disporre un simile arresto s’informano con esattezza sui motivi dell’arresto e sulla persona dell’arrestato. Qui non c’è errore. Le nostre autorità, per quanto le conosco, e conosco solo i gradi più bassi, non è che cerchino la colpa nella popolazione, ma, come è detto nella legge, vengono attratte dalla colpa e devono mandare noi guardie. Questa è legge. Dove ci sarebbe un errore?».

La fine La vigilia del suo trentunesimo compleanno – erano circa le nove, l’ora del silenzio nelle strade – vennero a casa di K. due signori. In finanziera, pallidi e grassi, con cappelli a cilindro apparentemente inamovibili. Ci furono alcuni convenevoli davanti alla porta dell’appartamento, su chi dei due dovesse passare per primo, e gli stessi convenevoli si ripeterono in misura maggiore davanti alla porta di K. Senza che la visita gli fosse stata annunciata, K. sedeva, anche lui vestito di nero, in una poltrona vicino alla porta e s’infilava lentamente dei guanti nuovi, ben tesi sulle dita, nell’at- teggiamento di chi aspetta ospiti. Si alzò subito in piedi e osservò con curiosità i due signori. «È per me che venite, vero?», chiese. I signori annui- rono, e uno indicò con il cilindro nella mano l’altro. K. confessò a se stes- so di essersi aspettato una visita diversa. Andò alla finestra e guardò anco- ra una volta la strada buia. Erano già buie anche quasi tutte le finestre sul lato opposto della strada, molte avevano le tende abbassate. In una fine- stra illuminata, al piano, dei bambini piccoli giocavano insieme dietro una grata e, ancora incapaci di muoversi dai loro posti, si cercavano a tastoni con le piccole mani. «Mandano a cercarmi dei vecchi attori da strapazzo», si disse K. e si guardò attorno per convincersene ancora. «Vogliono libe- rarsi di me a buon mercato». K. si volse a un tratto verso di loro: «In che  R. Antonelli teatro lavorate?». «Teatro?», si consultò uno dei signori con l’altro, con gli angoli della bocca che tremavano. L’altro gesticolò come un muto che lotti con il suo organismo riluttante. «Non sono preparati a ricevere domande», si disse K. e andò a prendere il cappello. Già sulla scala i due signori fecero per prendere K. sottobraccio, ma K. disse: «Aspettiamo di essere in strada, non sono malato». Ma appena fuori del portone lo presero sottobraccio, in un modo come K. non aveva mai camminato con nessuno. Tenevano le spalle premute da dietro alle sue, non piegavano le braccia ma se ne servivano per avvinghiare le braccia di K. in tutta la loro lunghezza, fin giù a stringergli le mani con una presa da manuale, esperta, irresistibile. K. camminava rigido fra loro, tutti e tre for- mavano ora una tale unità che, se si fosse fatto a pezzi uno di loro, sareb- bero andati a pezzi tutti. Era un’unità come quasi solo possono formarla cose inanimate. Sotto i lampioni K. cercò più volte, per quanto il camminare stretta- mente addossati glielo rendesse difficile, di vedere i suoi accompagnatori meglio di quanto era stato possibile nella penombra della sua stanza. «Forse sono tenori», pensò notando il loro pesante doppio mento. La puli- zia dei loro visi lo ripugnava. Sembrava di vedere ancora la mano che aveva pulito, passando nell’angolo degli occhi, strofinando il labbro supe- riore, grattando nelle pieghe del mento. Nel notare questo K. si fermò, di conseguenza si fermarono anche gli altri; erano al margine di una piazza vuota, deserta, ornata di aiuole. «Perché hanno mandato proprio voi!», esclamò più che non chiedesse. I signori parvero non avere risposta, aspettavano con il braccio libero pen- zoloni, come fanno gli infermieri quando il malato vuole riposarsi. «Io non vado avanti», disse K. tanto per provare. I signori non ebbero bisogno di rispondere, bastò che non allentassero la presa e cercassero di trascinare via K., ma K. oppose resistenza. «Non avrò più bisogno di molta forza, la userò tutta adesso», pensò. Gli vennero in mente le mosche che cercano di staccarsi dalla pania strappandosi le zampine. «Questi signori avranno un lavoro difficile». In quel momento, salendo per una scaletta da un vicolo più basso, sbucò davanti a loro sulla piazza la signorina Bürstner. Non era proprio sicuro che fosse lei, certo la somiglianza era grande. Ma a K. non impor- tava neanche che fosse con sicurezza la signorina Bürstner, solo ebbe immediata coscienza dell’inutilità della sua resistenza. Non c’era nulla di eroico se opponeva resistenza, se ora metteva in difficoltà i signori, se ora, difendendosi, cercava di godere ancora l’ultimo barlume di vita. Si mise in movimento, e una parte della gioia che con questo procurava ai signori gli si trasmise. Ora gli permettevano di decidere il percorso, e lui lo decideva Franz Kafka, Il processo  in base alla via che prendeva la signorina davanti a loro, non perché voles- se raggiungerla, non perché volesse vederla il più a lungo possibile, ma solo per non dimenticare il monito che ella significava per lui. «L’unica cosa che ora posso fare», si disse, e l’uniformità dei suoi passi e dei passi degli altri due confermò i suoi pensieri, «l’unica cosa che ora posso fare è con- servare sino alla fine la capacità di discernere con calma. Ho sempre volu- to allungare venti mani sul mondo e per di più a scopi non sempre lode- voli. Non era giusto. Dovrei far vedere, ora, che nemmeno un anno di pro- cesso mi ha potuto insegnare qualcosa? Dovrò andarmene come un tardo a capire? Si dovrà poter dire di me che all’inizio del processo volevo con- cluderlo e che, ora che è alla fine, lo voglio cominciare da capo? Non voglio che si dica questo. Sono grato che per compiere questo tragitto mi abbiano dato per compagni questi due signori, che non parlano quasi e non capiscono niente, e che sia stato lasciato a me di dirmi da solo il necessario». Nel frattempo, la signorina aveva svoltato in un vicolo laterale, ma K. poteva ormai fare a meno di lei e si rimise ai suoi accompagnatori. In pieno accordo, alla luce della luna i tre presero per un ponte, adesso i signori assecondavano prontamente ogni piccolo movimento di K., quan- do lui si voltò appena verso il parapetto, si girarono anche loro facendo fronte da quella parte. L’acqua, che tremolava e luccicava alla luce della luna, si spartiva intorno a un’isoletta, sulla quale si addensavano, come compresse, masse di fogliame di alberi e cespugli. Sotto di loro, ora invi- sibili, correvano sentieri di ghiaia con comode panchine, sulle quali più di un’estate K. si era stirato per bene e allungato. «No, non intendevo fer- marmi», disse ai suoi accompagnatori, umiliato dalla loro premurosità. Alle spalle di K. uno parve fare all’altro un leggero rimprovero per quella fer- mata malintesa, poi proseguirono. Percorsero vicoli in salita, dove qua e là sostavano o camminavano dei poliziotti, ora lontani ora vicinissimi. Uno, con dei folti baffi, la mano sul- l’impugnatura della sciabola, si avvicinò come di proposito al gruppo non proprio insospettabile. I signori si arrestarono, il poliziotto sembrava già aprir bocca, ma K. trascinò avanti i due signori con forza. Più volte si voltò cautamente per vedere se il poliziotto li seguiva; ma appena un angolo di strada fu tra loro e il poliziotto, K. incominciò a correre, e i signori, mal- grado il fiato grosso, dovettero correre anche loro. Così furono presto fuori dalla città, che da quella parte finiva quasi senza transizione nei campi. Nei pressi di una casa dall’aspetto ancora del tutto cittadino, c’era una piccola cava di pietra, abbandonata e deserta. Qui i signori si fermarono, sia che quel luogo fosse stato fin dall’inizio la loro meta, sia che fossero troppo esausti per continuare a correre. Ora lascia-  R. Antonelli rono libero K., che aspettò senza dire parola, si tolsero i cilindri e con i fazzoletti si tersero il sudore dalla fronte, guardandosi intorno nella cava. Dappertutto il chiaro di luna, con quella naturalezza e quiete che nes- sun’altra luce possiede. Dopo uno scambio di convenevoli riguardo a chi spettassero i compiti successivi – pareva che fra i signori gli ordini non fossero stati ripartiti –, uno si avvicinò a K. e gli tolse la giacca, il panciotto e infine la camicia. K. rabbrividì involontariamente, al che il signore gli diede un colpetto sulla schiena per tranquillizzarlo. Poi ripiegò con cura gli indumenti, come cose che si sarebbero usate ancora, anche se non proprio subito. Per non lascia- re K. esposto immobile all’aria pur sempre fresca della notte, lo prese sot- tobraccio e camminò un poco con lui su e giù, mentre l’altro signore esplo- rava la cava alla ricerca di un posto adatto. Quando l’ebbe trovato, fece un cenno e l’altro signore vi accompagnò K. Era vicino alla parete della cava, lì si trovava un masso staccato. I signori fecero sedere K. per terra, appog- giato al masso, e su questo adagiarono la sua testa. Per quanti sforzi faces- sero e per quanto K. si mostrasse loro compiacente, la sua posizione risul- tava sempre molto forzata e non convincente. Allora un signore pregò l’al- tro di lasciare provare un po’ lui solo a sistemare K., ma neanche così andò meglio. Alla fine lasciarono K. in una posizione che non era nemmeno la migliore tra quelle che già avevano trovate. Poi uno dei signori aprì la finanziera e da un fodero appeso a una cintura stretta intorno al panciot- to estrasse un coltello da macellaio lungo e sottile, a doppio taglio, lo tenne sollevato ed esaminò il filo alla luce. Qui ricominciarono i loro disgustosi convenevoli, uno porgeva al di sopra di K. il coltello all’altro, questi glielo restituiva, sempre al di sopra di K. Adesso K. sapeva con esat- tezza che sarebbe stato suo dovere afferrare il coltello mentre passava di mano in mano sopra di lui e trafiggersi lui stesso. Ma non lo fece, girò inve- ce il collo ancora libero e si guardò attorno. Non poteva dare pienamente prova di sé, sottrarre alle autorità tutto il lavoro, la responsabilità di que- st’ultimo errore cadeva su chi gli aveva negato quanto gli restava della forza necessaria. Il suo sguardo cadde sull’ultimo piano della casa attigua alla cava. Come una luce che si accenda improvvisa, si spalancarono le imposte di una finestra, un uomo, debole e sottile per la distanza e l’al- tezza, si sporse d’un tratto e tese le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un amico? Una persona buona? Uno che partecipava? Uno che voleva aiuta- re? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora un aiuto? C’erano obiezioni che erano state dimenticate? Ce n’erano di certo. La logica è, sì, incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che lui non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale al quale non era mai giunto? Levò le mani e allargò le dita. Franz Kafka, Il processo  Ma sulla gola di K. si posarono le mani di uno dei signori, mentre l’al- tro gli spingeva il coltello in fondo al cuore e ve lo rigirava due volte. Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, davanti al suo viso, appoggiati guancia a guancia, i signori scrutavano il momento risolutivo. «Come un cane!», disse, fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere. (da F. Kafka, Il processo, trad. di E. Pocar, intr. di C. Magris, Milano 1975).

ROBERTO ANTONELLI  R. Antonelli

CLAUDIO MAGRIS, Kafka da F. Kafka, Il processo, trad. di E. Pocar, intr. di C. Magris, Mondadori, Milano 1975

[…] Quando Josef K., all’inizio del Processo viene arrestato dai due misteriosi custo- di inviati dall’indecifrabile tribunale, egli si affanna a farsi riconoscere, a esibire docu- menti personali, la tessera di ciclista che gli pare insufficiente o l’atto di nascita. È la grandiosa intuizione di Kafka circa il nesso inestricabile che si è instaurato, nella civiltà moderna, fra anonimato burocratico e anonimato esistenziale, fra l’irrazionalità del mito arcaico e l’irrazionalità dell’apparato ultrarazionalistico della società borghese. Non essere conosciuti, anzi ri-conosciuti significa sentirsi privi di qualsiasi autorizza- zione a operare e a vivere, di qualsiasi status vitale; sentirsi privi di qualsiasi posto nel mondo, dal quale collocarsi – come da un punto archimedico – per misurarsi con la realtà minacciosa. Kafka riveste di una carica inquietante il motivo espressionista dell’Uomo Nudo, essenziale e assoluto, che gli appare così nudo da essere senza qua- lifiche e senza attributi, senza segni che legittimino un suo legame con gli altri e quin- di un suo diritto alla solidarietà e all’aiuto. L’uomo senza divisa non sa a chi appartie- ne e a chi rivolgersi per averne sostegno, mentre sa troppo bene che intorno a lui infu- ria una spietata battaglia nella quale nessuno, e men che meno chi è isolato, è al ripa- ro dei colpi. Con odio, ma anche con attrazione, Kafka insiste nei suoi romanzi sul- l’ambiguo alone che irraggia dalle divise: il saluto «militaresco» di Artur e Jeremias, i due aiutanti dell’agrimensore K. nel Castello, il vestito del custode che viene per arrestare Josef K. nel Processo, «nero attillato, sul tipo degli abiti da viaggio, con diverse pieghe, tasche, fibbie, bottoni e una cintura, e perciò, senza che si capisse a che cosa dovesse servire, [sembrava] particolarmente pratico». In tal senso Kafka ha avuto un precursore nel grande scrittore settecentesco Karl Philipp Moritz, il poeta e l’analista dei primi timi- di ma già crudeli accenni di quella crisi dell’unità della persona individuale che già nel XVIII secolo getta un’ombra di tragica distonìa sull’orgogliosa fede nell’autonomia e nella creatività del soggetto. Nel suo romanzo Anton Reiser (1785-90) Moritz narra come il suo inquieto protagonista, morbosamente dilacerato nel suo intimo, sia felice d’essere accolto quale apprendista cappellaio nella comunità degli artigiani e di rice- vere il grembiule nero da garzone che gli permette di «occupare una posizione» nel mondo e lo «inserisce subito fra gli altri». La poesia di Kafka ruota, con un misto di fascinazione e di repulsione, intorno a questo perno dell’inserimento nella comunità. «Chi cerca, egli scrisse, non trova; chi non cerca, viene trovato» […] L’universo di Kafka è un universo nel quale l’uomo rilutta tenacemente al desiderio e cerca di sfuggire alla sua forza tortuosa e struggente perché teme, o meglio perché sa di non essere all’altezza del grande e trascinante respiro del desiderio e preferisce bloccarlo, reprimerlo, distanziarlo; eluderlo piuttosto che venirne travolto. Nessuno ha descritto come Kafka la debolezza e l’eccitata fragilità dell’uomo moderno, sradicato dalla natura e scagliato come un sasso nella storia, di fronte alla lusinga, alla pienezza del desiderio, che accosta l’individuo alla totalità vitale. Con la sua maniacale e rigoro- sa oggettività, Kafka traccia il ritratto di un mondo spietato e preciso nel quale l’indivi- duo, per salvarsi, deve restare chiuso in casa e non avventurarsi nella notte quando lo Franz Kafka, Il processo  svegliano per un appello misterioso, deve restare al suo scrittoio praghese e tener lon- tana la donna amata come Kafka stesso tiene lontana la sua prima fidanzata Félice a Berlino, deve sotterrarsi in un labirinto di cunicoli come il protagonista del racconto La tana. Ma una difesa di tal genere è sempre vana nella sua agguerrita perfezione tecni- ca e può tutt’al più differire la fine, come lo scarto inatteso della lepre braccata dai cani. L’impossibilità di dire di sì implica pure la vanità della negazione. Kafka vive in un mondo in cui l’individuo gli appare esautorato e manipolato, fagocitato da un potere oscuro e tentacolare, anonimo e sfuggente: in questo mondo appiattito e deserto, che il poeta ha il dovere di rappresentare imparzialmente e di non «defraudare della sua vittoria», se questa è segnata dalla legge delle cose così come sono, l’uomo può esse- re soltanto ingannato e raggirato da tutto ciò che sembra corteggiare e sollecitare la sua persona privata, la sua intimità, il suo corpo, la breve misura dei suoi sentimenti. Kafka registra il vuoto dell’esistenza, il tramonto della calda vita e denuncia la spaventosa tirannia collettiva che ha depauperato la condizione umana di questi legami e valori e li usa ormai soltanto come trucchi e tranelli, per illudere che esistono ancora possibi- lità di vita piena e per far cadere la vittima, abbacinata da questa promessa, in un tra- bocchetto che rinsalda ancora di più le sue catene. Ma dire di no, rifiutarsi a questi insi- diosi miraggi significa respingere ogni possibilità di salvezza per scansare il pericolo, morire d’inedia per timore di morire avvelenati. Tra l’imputazione e la sentenza, tra la minaccia e l’esecuzione resta allora soltanto un intermezzo, un ristretto limite di tempo e di spazio nel quale l’individuo può muo- versi, organizzare le sue difese, procrastinare la distruzione, afferrare quei minimi fram- menti di gioia e di vitalità che questa zona intermedia gli concede. Kafka è il grandis- simo poeta di questo intervallo, di questa vita ridotta a intervallo, e annota puntiglio- samente i confini e i margini di tale territorio circoscritto, le piccole sortite che ne con- sentono qualche modesto ampliamento, le ritirate strategiche e le difese elastiche, la tattica cinese di non offrire punti di presa alla stretta dell’avversario; il minuzioso ritua- le di gesti e abitudini quotidiane opposte al crudele dilagare del nuovo.

Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello

Luigi Pirandello (1867-1936) è oggi considerato in tutto il mondo uno dei massimi drammaturghi e narratori del Novecento. Come altri “classici” contemporanei, Pirandello colloca al centro della sua opera il problema della crisi del soggetto e il “disagio” della civiltà contemporanea, propo- nendo percorsi e soluzioni nuove per la scrittura letteraria, soprattutto in ambito teatrale. È del resto proprio un suo testo teatrale, Sei personaggi in cerca d’autore, che rappresenta agli occhi di molti «la quintessenza del dramma moderno» (Peter Szondi). Pirandello mette a nudo la perdita d’identità dell’uomo di fronte a una modernità caratterizzata da uno sviluppo socio-economico che sconvolge, con una rapidità mai sperimentata prima, assetti culturali, sociali e persino antropologici, inclusa la percezione di sé e degli altri. Tale ricerca si tra- duce in una vorticosa elaborazione formale, caratterizzata da continui rimaneggiamenti, avanzamenti, ritorni e, soprattutto, attraversamenti di diversi generi letterari. A distanza di decenni dalla prima composizione o pubblicazione, una novella può essere rielaborata in romanzo o pièce tea- trale, sceneggiatura di film o opera musicale, così come un romanzo può fornire lo spunto per un dramma o un film, o può essere riscritto in forma di sceneggiatura. La sua produzione può essere insomma considerata un sistema unitario proprio in quanto ininterrotta e poliedrica opera di scrit- tura, che riproduce in molteplici forme il “sentimento” del caos del mondo. L’enorme successo di pubblico raggiunto su scala internazionale (fatto abbastanza insolito per un autore italiano del primo Novecento) testimo- nia come Pirandello abbia colto nel segno.

Sei personaggi in cerca d’autore Scritta tra il 1920 e il 1921, la commedia Sei personaggi in cerca d’autore viene messa in scena per la prima volta a Roma, al teatro Valle, il 10 mag- gio 1921, suscitando con il suo impianto straordinariamente innovativo aspre  R. Antonelli contestazioni e grandi entusiasmi. L’opera è un capolavoro indiscusso del teatro del Novecento. Pirandello vi mette in crisi i canoni fondamentali del teatro tradizionale, disintegrandone la struttura drammatica e scenica. L’idea di portare il teatro nel teatro non comporta solo una riflessione sulle possibilità espressive della scrittura per la scena e, a livello più imme- diato, una satira dell’ambiente teatrale stesso, ma innesca un gioco di spec- chi con la realtà: mediante la rappresentazione di una rappresentazione, Pirandello sviluppa in modo autonomo una delle sue metafore preferite, quella della vita come messa in scena teatrale. Il dato che emerge in modo più netto dal dramma è l’assenza di un significato universale. Non solo la vicenda rimane emblematicamente inconclusa, ma i sei personaggi stessi non sono in grado di fornirne una ricostruzione oggettiva e coerente, facendosi invece ognuno portatore della propria verità; inoltre non si riconoscono nelle interpretazioni degli attori, a ulteriore prova dell’irriducibile relativismo che domina la realtà. La scissione fra personaggi e attori, caratterizzata da reciproche incom- prensioni, rispecchia la disgregazione dell’identità individuale: «Il dramma – dichiara il Padre – per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi […] si creda “uno” ma non è vero: è “tanti”, signore, “tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: “uno” con que- sto, “uno” con quello – diversissimi. E con l’illusione, intanto, d’essere sem- pre “uno per tutti”».

Il teatro nel teatro Atto I È l’inizio della commedia (che, come precisa lo stesso Pirandello in una nota, «non ha né atti né scene»). Le puntuali didascalie dell’autore forniscono tutte le informazio- ni necessarie per seguire lo sviluppo dell’azione. Fin dalla didascalia iniziale diviene chiaro come la commedia pirandelliana rompa tutti canoni tradizionali della rappre- sentazione teatrale. Gli spettatori, entrando in sala, trovano «alzato il sipario, e il pal- coscenico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto, perché abbia- no fin da principio l’impressione di uno spettacolo non preparato». Le implicazioni di tale «impressione» sono enormi. Viene infatti infranta la convenzione che separa la rap- presentazione teatrale dalla realtà (è emblematico che il sipario, la barriera che divide le due dimensioni, si trovi già aperto), e, quindi, violata la stessa «sacralità» artistica della scena. Gli spettatori si trovano ad assistere alla costruzione della finzione teatra- le, che non viene più presentata come una dimensione illusoria che imita la realtà, bensì come una prosecuzione della stessa realtà (si noti la presenza delle scalette che permettono ai personaggi di accedere al palco dalla sala, e non da dietro le quinte). Sulla scena si sta provando una commedia dello stesso Pirandello, Il giuoco delle parti. L’autore ne approfitta per giocare in modo dissacrante con alcuni stereotipi del Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore  mondo del teatro (riducendo così gli stessi attori a maschere fisse): dalla Prima Attrice eternamente ritardataria al Primo Attore che si rifiuta di indossare un berretto da cuoco perché lo trova ridicolo. Inoltre, Pirandello ironizza sull’ostilità che hanno incontrato le sue innovative commedie, accusate di essere troppo sofisticate e astruse. Di fronte alle proteste del Primo Attore, il Capocomico si sfoga: «Che vuole che le faccia io se… ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte appo- sta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti?». A questo punto irrompono in teatro, debitamente introdotti dal fondo della sala dall’Usciere gallonato, i sei personaggi in cerca d’autore. Pirandello, in un’accurata didascalia, che suggerisce anche l’uso di «speciali maschere d’una materia che per il sudore non s’afflosci», spiega che i «Personaggi non dovranno apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e con- sistenti della volubile naturalità degli attori». I Personaggi insomma, invenzioni incom- plete della fantasia dell’autore, con indosso una maschera che fissa «immutabilmente l’espressione del proprio sentimento fondamentale», debbono risultare paradossalmente più veri degli attori, gli esseri umani che debbono rinunciare alla loro identità per impersonarli. Le parole con cui il Padre cerca di convincere l’incredulo Capocomico a mettere in scena il loro dramma sono una rivendicazione della legittimità della follia di fronte all’assurdità della vita reale, tema assai caro a Pirandello. Il Padre osserva infatti come la realtà sia di per sé talmente assurda che il teatro per riprodurla non deve apparire verosimile, anzi, più ricerca il verosimile, cosa «che può stimarsi realmente una pazzia», meno appare vero.

Troveranno gli spettatori, entrando nella sala del teatro, alzato il sipario, e il palcosce- nico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto, perché abbiano fin da principio l’impressione d’uno spettacolo non preparato. Due scalette, una a destra e l’altra a sinistra, metteranno in comunicazione il palcoscenico con la sala. Sul palco- scenico, il cupolino del suggeritore, messo da parte, accanto alla buca. Dall’altra parte, sul davanti, un tavolino e una poltrona con la spalliera voltata verso il pubblico, per il Direttore-Capocomico. Altri due tavolini, uno più grande, uno più piccolo, con parec- chie sedie attorno, messi lì sul davanti per averli pronti, a un bisogno, per la prova. Altre sedie, qua e là, a destra e a sinistra, per gli Attori, e un pianoforte in fondo, da un lato, quasi nascosto. Spenti i lumi della sala, si vedrà entrare dalla porta del palcoscenico il Macchinista in camiciotto turchino e sacca appesa alla cintola; prendere da un ango- lo in fondo alcuni assi d’attrezzatura; disporli sul davanti e mettersi in ginocchio a inchiodarli. Alle martellate accorrerà dalla porta dei camerini il Direttore di scena.

IL DIRETTORE DI SCENA. Ohi! Che fai? IL MACCHINISTA. Che faccio? Inchiodo. IL DIRETTORE DI SCENA. A quest’ora? Guarderà l’orologio. Sono già le dieci e mezzo. A momenti sarà qui il Direttore per la prova.  R. Antonelli

IL MACCHINISTA. Ma dico, dovrò avere anch’io il mio tempo per lavorare! IL DIRETTORE DI SCENA. L’avrai, ma non ora. IL MACCHINISTA. E quando? IL DIRETTORE DI SCENA. Quando non sarà più l’ora della prova. Su, su, pòrtati via tutto, e lasciami disporre la scena per il secondo atto del Giuoco delle parti1. Il Macchinista, sbuffando, borbottando, raccatterà gli assi e andrà via. Intanto dalla porta del palcoscenico cominceranno a venire gli Attori della Compagnia, uomini e donne, prima uno, poi un altro, poi due insieme, a piacere: nove o dieci, quanti si sup- pone che debbano prender parte alle prove della commedia di Pirandello Il giuoco delle parti, segnata all’ordine del giorno. Entreranno, saluteranno il Direttore di scena e si saluteranno tra loro augurandosi il buon giorno. Alcuni si avvieranno ai loro cameri- ni; altri, fra cui il Suggeritore che avrà il copione arrotolato sotto il braccio, si ferme- ranno sul palcoscenico in attesa del Direttore per cominciar la prova, e intanto, o sedu- ti a crocchio, o in piedi, scambieranno tra loro qualche parola; e chi accenderà una sigaretta, chi si lamenterà della parte che gli è stata assegnata, chi leggerà forte ai com- pagni qualche notizia in un giornaletto teatrale. Sarà bene che tanto le Attrici quanto gli Attori siano vestiti d’abiti piuttosto chiari e gai, e che questa prima scena a soggetto2 abbia, nella sua naturalezza, molta vivacità. A un certo punto, uno dei comici potrà sedere al pianoforte e attaccare un ballabile; i più giovani tra gli Attori e le Attrici si met- teranno a ballare.

IL DIRETTORE DI SCENA (battendo le mani per richiamarli alla disciplina). Via, via, smet- tetela! Ecco il signor Direttore! Il suono e la danza cesseranno d’un tratto. Gli Attori si volteranno a guardare verso la sala del teatro, dalla cui porta si vedrà entrare il Direttore-Capocomico, il quale, col cap- pello duro in capo, il bastone sotto il braccio e un grosso sigaro in bocca, attraverserà il corridojo tra le poltrone e, salutato dai comici, salirà per una delle due scalette sul pal- coscenico. Il Segretario gli porgerà la posta: qualche giornale, un copione sottofascia3.

IL CAPOCOMICO. Lettere? IL SEGRETARIO. Nessuna. La posta è tutta qui. IL CAPOCOMICO (porgendogli il copione sottofascia). Porti in camerino. Poi, guardandosi attorno e rivolgendosi al Direttore di scena: Oh, qua non ci si vede. Per piacere, faccia dare un po’ di luce. IL DIRETTORE DI SCENA. Subito. Si recherà a dar l’ordine. E poco dopo, il palcoscenico sarà illuminato in tutto il lato destro, dove staranno gli Attori, d’una viva luce bianca. Nel mentre, il Suggeritore avrà preso posto nella buca, accesa la lampadina e steso avanti a sé il copione.

IL CAPOCOMICO (battendo le mani). Su, su, cominciamo. Al Direttore di scena: Manca qualcuno? Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore 

IL DIRETTORE DI SCENA. Manca la Prima Attrice. IL CAPOCOMICO. Al solito! Guarderà l’orologio. Siamo già in ritardo di dieci minuti. La segni, mi faccia il piacere. Così imparerà a venire puntuale alla prova. Non avrà finito la reprensione4, che dal fondo della sala si udrà la voce della Prima Attrice.

LA PRIMA ATTRICE. No, no, per carità! Eccomi! Eccomi! È tutta vestita di bianco, con un cappellone spavaldo in capo e un grazioso cagnolino tra le braccia; correrà attraverso il corridojo delle poltrone e salirà in gran fretta una delle scalette.

IL CAPOCOMICO. Lei ha giurato di farsi sempre aspettare. LA PRIMA ATTRICE. Mi scusi. Ho cercato tanto una automobile per fare a tempo! Ma vedo che non avete ancora cominciato. E io non sono subito di scena. Poi, chiamando per nome il Direttore di scena e consegnandogli il cagnolino: Per piacere, me lo chiuda nel camerino. IL CAPOCOMICO (borbottando). Anche il cagnolino! Come se fossimo pochi i cani qua. Batterà di nuovo le mani e si rivolgerà al Suggeritore: Su, su, il secondo atto del Giuoco delle parti. Sedendo sulla poltrona: Attenzione, signori. Chi è di scena? Gli Attori e le Attrici sgombreranno il davanti del palcoscenico e andranno a sedere da un lato, tranne i tre che principieranno la prova e la Prima Attrice, che, senza badare alla domanda del Capocomico, si sarà messa a sedere davanti ad uno dei due tavolini.

IL CAPOCOMICO (alla Prima Attrice). Lei dunque è di scena? LA PRIMA ATTRICE. Io, nossignore. IL CAPOCOMICO (seccato). E allora si levi, santo Dio! La Prima Attrice si alzerà e andrà a sedere accanto agli altri Attori che si saranno già tratti in disparte.

IL CAPOCOMICO (al Suggeritore). Cominci, cominci. IL SUGGERITORE (leggendo nel copione). «In casa di Leone Gala. Una strana sala da pran- zo e da studio.»5 IL CAPOCOMICO (volgendosi al Direttore di scena). Metteremo la sala rossa. IL DIRETTORE DI SCENA (segnando su un foglio di carta). La rossa. Sta bene. IL SUGGERITORE (seguitando a leggere nel copione). «Tavola apparecchiata e scrivania con  R. Antonelli

libri e carte. Scaffali di libri e vetrine con ricche suppellettili da tavola. Uscio in fondo per cui si va nella camera da letto di Leone. Uscio laterale a sinistra per cui si va nella cucina. La comune è a destra.» IL CAPOCOMICO (alzandosi e indicando). Dunque, stiano bene attenti: di là, la comune. Di qua, la cucina. Rivolgendosi all’Attore che farà la parte di Socrate: Lei entrerà e uscirà da questa parte. Al Direttore di scena: Applicherà la bussola6 in fondo, e metterà le tendine. Tornerà a sedere.

IL DIRETTORE DI SCENA (segnando). Sta bene. IL SUGGERITORE (leggendo c. s.). «Scena Prima. Leone Gala, Guido Venanzi, Filippo detto Socrate.» Al Capocomico: Debbo leggere anche la didascalia? IL CAPOCOMICO. Ma sì! sì! Gliel’ho detto cento volte! IL SUGGERITORE (leggendo c. s.). «Al levarsi della tela, Leone Gala, con berretto da cuoco e grembiule, è intento a sbattere con un mestolino di legno un uovo in una cioto- la. Filippo ne sbatte un altro, parato7 anche lui da cuoco. Guido Venanzi ascolta, seduto». IL PRIMO ATTORE (al Capocomico). Ma scusi, mi devo mettere proprio il berretto da cuoco in capo? IL CAPOCOMICO (urtato dall’osservazione). Mi pare! Se sta scritto lì! Indicherà il copione.

IL PRIMO ATTORE. Ma è ridicolo, scusi! IL CAPOCOMICO (balzando in piedi sulle furie). «Ridicolo! ridicolo!» Che vuole che le fac- cia io se dalla Francia non ci viene più una buona commedia, e ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti? Gli Attori rideranno. E allora egli, alzandosi e venendo presso il Primo Attore, griderà:

Il berretto da cuoco, sissignore! E sbatta le uova! Lei crede, con codeste uova che sbatte, di non aver poi altro per le mani? Sta fresco! Ha da rappresentare il guscio delle uova che sbatte! Gli Attori torneranno a ridere e si metteranno a far commenti tra loro ironicamente. Silenzio! E prestino ascolto quando spiego! Rivolgendosi di nuovo al Primo Attore: Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore 

Sissignore, il guscio: vale a dire la vuota forma della ragione, senza il pieno dell’i- stinto che è cieco! Lei è la ragione, e sua moglie l’istinto: in un giuoco di parti asse- gnate, per cui lei che rappresenta la sua parte è volutamente il fantoccio di se stes- so. Ha capito? IL PRIMO ATTORE (aprendo le braccia). Io no! IL CAPOCOMICO (tornandosene al suo posto). E io nemmeno! Andiamo avanti, che poi mi loderete la fine! In tono confidenziale: Mi raccomando, si metta di tre quarti, perché se no, tra le astruserie8 del dialogo e lei che non si farà sentire dal pubblico, addio ogni cosa! Battendo di nuovo le mani: Attenzione, attenzione! Attacchiamo! IL SUGGERITORE. Scusi, signor Direttore, permette che mi ripari col cupolino? Tira una cert’aria! IL CAPOCOMICO. Ma sì, faccia, faccia! L’Uscere del teatro sarà intanto entrato nella sala, col berretto gallonato in capo e, attra- versato il corridojo fra le poltrone, si sarà appressato al palcoscenico per annunziare al Direttore Capocomico l’arrivo dei Sei Personaggi, che, entrati anch’essi nella sala, si saranno messi a seguirlo, a una certa distanza, un po’ smarriti e perplessi, guardando- si attorno. Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s’adoperi con ogni mezzo a ottenere tutto l’effetto che questi Sei Personaggi non si confondano con gli Attori della Compagnia. La disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie, allorché quelli saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio; come una diversa colo- razione luminosa per mezzo di appositi riflettori. Ma il mezzo più efficace e idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere per i Personaggi: maschere espressamen- te costruite d’una materia che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca. S’interpreterà così anche il senso profondo della commedia. I Personaggi non dovranno infatti apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fanta- sia immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori. Le maschere ajuteranno a dare l’impressione della figura costruita per arte e fissata ciascu- na immutabilmente nell’espressione del proprio sentimento fondamentale, che è il rimor- so per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre con fisse lagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote, come si vedono nelle immagini scolpite e dipinte della Mater dolorosa9 nelle chiese. E sia anche il vestiario di stoffa e foggia speciale, senza stravaganza, con pieghe rigide e volume quasi statuario, e insomma di maniera che non dia l’idea che sia fatto d’una stoffa che si possa comperare in una qualsiasi bottega della città e tagliato e cucito in una qualsiasi sartoria. Il Padre sarà sulla cinquantina: stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo, con baffetti folti quasi acchiocciolati attorno alla bocca ancor fresca, aperta spesso a un sorriso incerto  R. Antonelli e vano. Pallido, segnatamente nell’ampia fronte; occhi azzurri ovati, lucidissimi e argu- ti; vestirà calzoni chiari e giacca scura: a volte sarà mellifluo10, a volte avrà scatti aspri e duri. La Madre sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e d’av- vilimento. Velata da un fitto crespo vedovile, vestirà umilmente di nero, e quando solle- verà il velo, mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terrà sempre gli occhi bassi. La Figliastra, di diciotto anni, sarà spavalda, quasi impudente. Bellissima, vestirà a lutto anche lei, ma con vistosa eleganza. Mostrerà dispetto per l’aria timida, afflitta e quasi smarrita del fratellino, squallido Giovinetto di quattordici anni, vestito anch’esso di nero; e una vivace tenerezza, invece, per la sorellina, Bambina di circa quattro anni, vestita di bianco con una fascia di seta nera alla vita. Il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in un’accigliata indifferenza per la Madre, porterà un soprabito viola e una lunga fascia verde girata attorno al collo.

L’USCERE (col berretto in mano). Scusi, signor Commendatore. IL CAPOCOMICO (di scatto, sgarbato). Che altro c’è? l’uscere (timidamente). Ci sono qua certi signori, che chiedono di lei. Il capocomico e gli Attori si volteranno stupiti a guardare dal palcoscenico giù nella sala.

IL CAPOCOMICO (di nuovo sulle furie). Ma io qua provo! E sapete bene che durante la prova non deve passar nessuno! Rivolgendosi in fondo: Chi sono lor signori? Che cosa vogliono? IL PADRE (facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette). Siamo qua in cerca d’un autore. IL CAPOCOMICO (fra stordito e irato). D’un autore? Che autore? IL PADRE. D’uno qualunque, signore. IL CAPOCOMICO. Ma qui non c’è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna commedia nuova. LA FIGLIASTRA (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta). Tanto meglio, tanto meglio, allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova. QUALCUNO DEGLI ATTORI (fra i vivaci commenti e le risate degli altri). Oh, senti, senti! IL PADRE (seguendo sul palcoscenico la Figliastra). Già, ma se non c’è l’autore! Al Capocomico: Tranne che non voglia esser lei… La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalini della sca- letta e resteranno lì in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso.

IL CAPOCOMICO. Lor signori vogliono scherzare? IL PADRE. No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso. Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore 

LA FIGLIASTRA. E potremmo essere la sua fortuna! IL CAPOCOMICO. Ma mi facciano il piacere d’andar via, che non abbiamo tempo da per- dere coi pazzi! IL PADRE (ferito e mellifluo). Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assur- dità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere. IL CAPOCOMICO. Ma che diavolo dice? IL PADRE. Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il con- trario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l’unica ragione del loro mestiere. (da L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Maschere nude, vol. I, Mondadori, Milano 1958).

Note 1. Giuoco delle parti: è una commedia dello stesso Pirandello, scritta nel 1918 e rappresentata a Roma nel medesimo anno, senza peraltro riscuotere particolare successo. 2. a soggetto: senza un copione definito, fondata solo su indicazioni di massima dell’autore. 3. copione sottofascia: il testo del dramma corredato di indicazioni per la messa in scena. 4. reprensione: ‘rimprovero’. 5. «in casa … da studio»: è la didascalia iniziale del secondo atto del Giuoco delle parti, i cui personaggi, citati più avanti, sono Leone Gala, Guido Venanzi, Filippo detto Socrate. 6. bussola: una sorta di paravento. 7. parato: ‘vestito’. 8. astruserie: ‘sottigliezze incomprensibili’. 9. Mater dolorosa: la Madonna addolorata. 10. mellifluo: ‘di una dolcezza affettata’.

ROBERTO ANTONELLI  R. Antonelli

CESARE SEGRE, La comunicazione teatrale in Pirandello in C. Segre, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991

Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1929) furono raggruppate da Pirandello stesso, nel primo volume del suo Tutto il teatro (1933), sotto l’etichetta unificante del «teatro nel teatro». L’etichetta, che tra l’altro fa torto alla novità portata da Pirandello, risulta, a un’analisi attenta, imprecisa. Se si guarda a quelli che sono i grandi paradigmi del «teatro nel tea- tro», o, come preferisco dire, della «scena en abyme», voglio dire ad Amleto, a Pene d’a- mar perdute, al Sogno di una notte di mezza estate, si nota che, là, il dato caratteriz- zante sta nell’inserzione, entro il dramma tradizionale, di un altro dramma o spettaco- lo teatrale, di norma incompleto. La rappresentazione seconda costituisce una forma di comunicazione tra i personaggi della rappresentazione inglobante. Le cose non muta- no molto con La bisbetica domata, in cui il dramma tradizionale costituisce la parte inglobata, comunicata. Ciò che della «scena en abyme» passa in Pirandello sono alcune caratteristiche tec- niche della scenab, la scena seconda. Anzitutto è esplicitata la modalità di trasmissione: si mette in evidenza la natura artificiale della rappresentazione, perciò antillusionistica; si lascia che gli attori oscillino tra lo statuto o la personalità che hanno nella scenaa e quelli della scenab; si esibisce l’aspetto di «prova», con incertezze e ripetizioni, e 1’arti- ficialità della messinscena. Viene pure ripreso il procedimento di recupero analettico di fasi precedenti di una vicenda rappresentata solo nel suo momento conclusivo o nel massimo del climax. Per il resto, la «scena en abyme» appare un precedente molto remoto. L’enchassement [‘incastonatura’] non avviene tra una rappresentazione tradi- zionale ed una in fieri, ma tra la scena e l’extrascena; anzi, più che di enchassement si dovrebbe parlare di intrusione, invasione apparentemente incontrollata. È una cancel- lazione della barriera tra scena ed extrascena, ben solida ancora nel caso della «scena en abyme», in cui entrambe le finzioni sono rigorosamente collocate al di là della bar- riera. In più, sussistono differenze notevoli fra le tre commedie di Pirandello. In SP, 1’extrascena è costituita appunto dai personaggi, che, invaso il palcoscenico, finiscono per sostituirsi agli attori, a parte il breve e fallito tentativo di questi ultimi di rappresentare la loro vicenda. L’extrascena di CSM è costituita da persone reali che sarebbero state prese a modello nella vicenda scenica, nonché da un finto pubblico. Infine gli attori, che in scena appaiono alternativamente come tali, o come personag- gi, in QSRS si mescolano anche col pubblico, in questo caso solo come personaggi. Dal punto di vista della finzione attoriale, si presentano vari schemi, di cui sono nuovi, rispetto alla «scena en abyme», i tipi E, F:

A attore1 → personaggio rappresentato B attorel → regista (SP, QSRS) C attore1 → finto spettatore o critico, personale del teatro (CSM, QSRS) D attorel → Attore2 Æ personaggio rappresentato (con alternanza tra fase 2 e fase 3) (SP, QSRS) E attorel → personaggio reale • personaggio rappresentato (con alternanza Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore 

tra fase 2 e 3) (SP) F attorel → persona reale (CSM).

Confrontando con la «scena en abyme» classica, si rileva: che in SP si succedono, in parte sovrapponendosi, tre tipi di scena: I. Dialogo tra i personaggi reali e il regista, con vicenda raccontata desultoriamente; II. Messinscena parziale della vicenda da parte degli attori; III. Ripresa del dialogo tra personaggi reali, che ormai punta verso (e cul- mina con) una messinscena della vicenda da parte dei personaggi reali. Dunque la scena enchassée è semmai quella degli attori. In CSM è l’extrascena che incastona la scena tradizionale, irrompendovi in parte e alla fine interrompendola. In QSRS si alter- nano le fasi-attore, con prevalenza della narrazione e del discorso metateatrale, e le fasi-personaggio, recitate normalmente. Di enchassement si può parlare solo per il frammento di opera lirica alla cui esecuzione assiste, in un finto teatro, una parte dei personaggi. Finito di stampare nel mese di marzo  presso Grafica Editrice Romana - Roma