Filosofia teoretica 2

Richard Davies

Modulo B (24027) a.a. 2005-6 (secondo semestre)

Strategie e decisioni: valore, conflitto e diritto

Dispensa per frequentanti e per non-frequentanti

1 Indice

Introduzione Obblighi per frequentanti e non-frequentanti 3 (1) Obblighi comuni 3 (2) Obblighi per i frequentanti 3 (3) Obblighi per i non-frequantanti 4 Programma delle lezioni del semestre 4

Testi (in ordine cronologico) Platone Gorgia , 481c-95a 8 Repubblica , 357e-60a 25 Aristotele Etica nicomachea , V, i e vii 32 Politica , I, ix 36 San Tommaso Somma Teologica , IIa IIæ, qu. 64 39 Thomas Hobbes Leviatano , I, capp. xiii e xiv 53 John Locke Secondo trattato , cap. ii 67 Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene (capp. scelti) 74 John Rawls Una teoria della giustizia §24 86 Judith Jarvis Thomson ‘Una difesa dell’aborto’ 92 John Harris ‘La lotteria della sopravvivenza’ 112

Sinossi dei film Wall Street 121 28 giorni dopo 127 John Q 131

Letture autonome Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti 135 Suggerimenti di lettura Strumenti di consultazione 139 Introduzioni alla filosofia 140

Prontuario per la stesura di una tesina 141

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Introduzione

Obblighi per frequentanti e non-frequentanti

(1) Obblighi comuni , sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi universitari [CFU]) Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con: (i) capp. 1 e 2 di R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, Net, Milano, 2003 (pp. 21-137) (ii) S. Blackburn Essere buoni ; Pratiche, Milano, 2003; e (iii) i testi contenuti in questa dispensa a pp. 8-120. Le letture di (i) e di (ii) forniscono un vocabolario e una gamma di esempi che fungono da sfondo per inquadrare i testi in (iii). Perciò nessuna delle letture da sola o in combinazione con solo una delle altre costituisce preparazione adeguata all’esame.

(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU) Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo, inclusa la visione di tutti e tre i film del modulo (o in aula o privatamente). L’esame orale verterà sugli argomenti discussi in aula in connessione con i film e i testi di cui sopra (‘ Obblighi comuni’ ). In aggiunta all’esame orale previsto dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale. La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in una scelta di tre domande delle sei proposte per quanto riguarda il contenuto delle lezioni. La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una tesina in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una tesina’, pp. 141-7). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i non- frequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 135-8) o proporre un percorso personale inerente

3 Introduzione

ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale per 5 formativi crediti universitari (CFU).

(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU) I non-frequentanti devono leggere i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno degli approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 135-8). Per la preparazione si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base. Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono elaborare una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una tesina’ pp. 141-7) o su uno degli argomenti proposti o proponendo un percorso personale inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU)

Programma delle lezioni

N° Argomento trattato Testo di riferimento Disp. lezione pp.

1 Materiali e modalità del corso – concretizzare i ‘princìpi’: illustrazioni filmiche e ‘soluzioni creative’ 2 Temi di Wall Street e i loro nessi con gli altri film (Sinossi dei film) 121-6 adottati 3 La figura di Gordon Gekko e l’egoismo energico Platone, Gorgia , 8-24 – l’encomio dell’avidità 481c-95a – un leone, un principe, un superuomo 4 Mezzi e fini (1) Aristotele, Politica , I, 36-8 – lo statuto dei soldi ix – perché i mafiosi non sanno fare un regalo (Natale in Donnie Brasco )

4 Introduzione

5 Mezzi e fini (2) Platone, Rep ., 357e- 25-31 – gli usi della segretezza 60a – la razionalità di Gige – la coerenza dell’uomo invisibile ma vedente 6 ‘Forti, intelligenti e scaltri’: le pretese di impunità di Platone, Gorgia , 15-21 Gordon e Bud 488a-92c – le leggi che si applicano gli ‘altri’ 7 La fede tra i ladri: gli impegni di Bud – verso il padre (e Blue Star) – verso Gordon – verso la legalità 8 Giochi a somma zero – la Tragedia dei Comuni (coordinamento) – il Dilemma del Prigioniero (cooperazione) 9 La condizione del ‘naufragato’ T. Hobbes, 53-7 – l’uguaglianza degli uomini davanti alla natura Leviatano , I, xiii – la debolezza degli umani e la loro dipendenza dai frutti della tecnologia (prodotti sociali) 10 La generazione dello stato di natura (caso New Sinossi del film 127- Orleans dopo l’inondazione) 30 – la generalizzazione dello stato di natura in 28 giorni dopo 11 Misure della gravità del conflitto – la vitalità dei beni – la violenza dei concorrenti – mancanza di ‘cornici’ 12 Di chi possiamo fidarci in uno stato di calamità? T. Hobbes, 57-66 – possiamo scendere a patti con gli sconosciuti? con i Leviatano , I, xiv soldati? con gli infetti? – i tempi di attuazione della ‘legge naturale’ 13 Lo statuto del contratto e il ruolo del giuramento – come si sceglie il Leviatano? – ‘la famiglia fondata sul matrimonio’ e l’ordine concettuale 14 Lo stato di natura pacifico e l’improponibilità Blackburn, cap 16 dell’egoismo

5 Introduzione

dell’egoismo 15 Il diritto di autodifesa e i mezzi leciti per sostenere i J. Locke, Secondo 67-73 beni di base trattato , ii – l’emergere dell’associazione di difesa – vendetta e punizione 16 La creazione del magistrato S. Tommaso, ST , IIa 41-3 – la priorità dell’ordine pubblico sull’individuo IIæ, 64, artt. 2 e 3 – lo statuto del condannato 17 Uno sguardo cinese sull’abolizionismo beccariano C. Beccaria, Dei 79-84 – ogni punizione comporta un danno delitti e delle pene cap. 28 18 Le esclusioni beccariane – i casi difficili – i ragionamenti mirati a ridurre le barbarie 19 I criteri di giusta punizione C. Beccaria, Dei 74-9 e delitti e delle pene 84-5 capp. intro. e conc. 20 Il fallimento della nozione di contratto alla luce dei Blackburn capp. 19- rapporti di potere 21 – le disuguaglianze nel mercato del lavoro 21 La polivalenza del concetto di giustizia Aristotele, EN , V, i e 32-4 – il legame con l’imparzialità vii 22 Imparzialità e ignoranza della propria fortuna – le nozioni di ‘persona morale’ e di ‘pertinenza morale’ 23 Due princìpi di giustizia (1): la massima uguale J. Rawls, Una teoria 86-91 libertà della giustizia , § 24 – le libertà da proteggere 24 Due princìpi di giustizia (2): la protezione degli J. Rawls, Una teoria 86-91 svantaggiati in ogni ridistribuzione dei beni della giustizia , § 24 25 Atteggiamenti al rischio ( John Q ) Sinossi del film 131-4 – assicurazione sociale e equità – lo shock di trovarsi scoperti 26 Quanto i sani devono ai malati J. Harris, ‘La lotteria 112- della sopravvivenza’ – coinvolgimento obbligato 20

6 Introduzione

27 Distinguere tra uccidere e lasciare morire S. Tommaso, ST , IIa 51-2 – la Dottrina di Doppio Effetto IIæ, 64, art. 8 28 Diritti e doveri in senso stretto e comportamenti J. Jarvis Thomson, 92- decenti ‘Una difesa 111 – quanto l’ospedale deve a Mikey dell’aborto’ – il sacrificio proposto da John Q – la simpatia del pubblico e la condanna legale 29 La trasferibilità dei beni biologici

30 Sinossi delle tappe percorse

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Testi in ordine cronologico

Platone (428/7 - 348/7 a.C.) Gorgia Traduzione a cura di Diego Fusaro Sottotitoli in grassetto seguendo Giovanni Reale [Stephanus pag. 481b]

[Socrate ha appena cercato di convincere Polo delle tesi secondo cui (i) è meglio subire ingiustizia che farla; e (2) è meglio venire punito per ingiustizia fatta che farla franca]

Callicle interrompe il dialogo tra Socrate e Polo CALLICLE: Dimmi, o Cherefonte, Socrate dice queste cose sul serio, o scherza? CHEREFONTE: A me pare, o Callicle, che dica fin troppo sul serio. Eppure, nulla vale quanto domandarlo a lui! CALLICLE: Certo, per gli dèi! Voglio proprio domandarglielo! Dimmi, o Socrate, dobbiamo supporre che tu ora stai dicendo sul serio o stai scherzando? Infatti, se tu dici sul serio, e accade che le cose che dici sono vere, non dovremmo allora pensare che la vita di noi uomini sarebbe capovolta e che, a quanto pare, noi facciamo tutto il contrario di quello che si deve fare? SOCRATE: O Callicle, se gli uomini non provassero lo stesso sentimento, chi per una cosa e chi per un’altra, e ciascuno di noi provasse, invece, un sentimento suo particolare, diverso da quello che provano gli altri, non sarebbe facile far capire ad altri il proprio sentimento. E lo dico pensando che a me e a te, ora, accade di provare lo stesso sentimento, visto che siamo ambedue innamorati di due cose ciascuno: io di Alcibiade figlio di Clinia e della filosofia, e tu, a tua volta, di due cose, cioè del demo degli Ateniesi e di Demo figlio di Pirilampo. Ebbene, io mi accorgo che tu, in ogni occasione, malgrado la tua abilità, non sei capace di contraddire ciò che dicano i tuoi amati e le loro affermazioni su come stanno le cose, ma lasci che ti voltino in su e in giù. E così nell’Assemblea, se, a una tua affermazione, il demo degli Ateniesi dice che le cose non stanno così, tu, voltando opinione, dici quello che vuole lui. E una cosa del genere ti accade

8 Platone: Gorgia

anche nei confronti di quel bel giovane figlio di Pirilampo. Infatti, non sei capace di opporti ai consigli e ai discorsi dei tuoi diletti, sicché, se uno, al tuo dire in ogni circostanza le cose che per amor loro dici, si stupisse dell’assurdità di tali affermazioni, forse tu dovresti rispondergli, se volessi dire la verità, che, [pag. 482] a meno che qualcuno non faccia smettere i tuoi amati di fare questi discorsi, neppure tu smetterai di dire queste cose. Ebbene, fa conto di dover sentire anche da me cose di questo genere, e non stupirti che io dica queste cose, ma fa smettere la filosofia, che è la mia amata, di dire queste cose. è lei, infatti, a dire le cose che ora mi senti dire, ed è molto meno volubile dell’altro mio amato: il figlio di Clinia, infatti, dice ora una cosa ora un’altra, mentre la filosofia dice sempre le stesse cose, ed è lei appunto a dire le cose di cui ora ti stupisci, e c’eri anche tu quando le si diceva. Dunque, o confuterai la filosofia, come ho appena detto, provando che non è vero che il commettere ingiustizia e il non pagare per la colpa commessa quando si sia colpevoli di ingiustizia, è l’estremo dì tutti i mali; oppure, se lascerai questo non confutato, per quel cane che è il dio degli Egizi, Callicle non sarà d’accordo con te, o Callicle, ma discorderà da te per tutta la vita. Io invece credo, o carissimo, che sarebbe meglio che la mia lira fosse scordata e stonata, e che lo fosse il coro che io dirigessi, e che la maggior parte della gente non fosse d’accordo con me e mi contraddicesse, piuttosto che sia io, anche se sono uno solo, ad essere in disaccordo con me stesso e a contraddirmi.

Secondo Callicle, la tesi di Socrate è contro natura CALLICLE: O Socrate, sembri svolgere i tuoi ragionamenti con giovanile baldanza, come un vero oratore popolare. E anche in questa occasione parli come un oratore popolare, visto che a Polo accade la stessa cosa che egli accusava Gorgia di subire nei tuoi confronti. Egli diceva, infatti, che Gorgia, alla tua domanda se, quando venisse alla sua scuola uno che volesse imparare la retorica senza conoscere la giustizia, Gorgia gliela avrebbe insegnata, egli si vergognò e disse che gliela avrebbe insegnata, solo in considerazione dell’usanza che vige fra gli uomini, di sdegnarsi se uno rifiutasse di farlo. Ebbene, secondo Polo, fu questa sua ammissione che portò Gorgia a contraddirsi e questo ti riempì di soddisfazione. E allora Polo si fece beffe di te, e con ragione, secondo me.

9 Platone: Gorgia

Ma ora la stessa cosa accade proprio a lui. E per questa ragione io non ammiro Polo, ossia per avere ammesso davanti a te che il commettere ingiustizia è più brutto che subirla: infatti, in seguito a questa sua ammissione, impastoiato nei tuoi ragionamenti, si è trovato imbavagliato, vergognandosi di dire ciò che pensava. E questo perché tu, o Socrate, mentre sostieni di cercare la verità, in realtà porti gli altri a fare affermazioni di questo genere, grossolane e volgari, che non sono belle rispetto alla natura, ma rispetto alla legge. E queste, vale a dire la natura e la legge, sono nella maggior parte dei casi opposte. Dunque, quando uno si vergogna e non osa dire le cose che pensa [pag 483] , finisce necessariamente per contraddirsi. E tu, imparata questa astuzia, tendi tranelli nei tuoi ragionamenti, riferendo le tue domande alla natura, quando uno parla riferendosi alla legge, e facendo riferimento alla legge, quando uno si riferisce alla natura. E questo è quello che hai appena fatto a proposito del commettere e del subire ingiustizia: mentre Polo si riferiva a ciò che è più brutto secondo la legge, tu svolgevi il tuo ragionamento facendo riferimento alla natura. Secondo natura, infatti, è più brutto tutto ciò che è anche peggiore, vale a dire il subire ingiustizia; secondo la legge, invece, è più brutto il commettere ingiustizia. Infatti questa condizione, ossia quella di essere vittima di ingiustizia, non è degna di un uomo, bensì di uno schiavo qualsiasi, per il quale è meglio essere morto che vivere, e che, quando è vittima di ingiustizia e viene oltraggiato, non è in grado di portare aiuto a se stesso, né ad altri di cui si prenda cura. Ma io credo che ad istituire le leggi siano stati uomini deboli e del volgo. Dunque, per sé e nel proprio interesse costoro istituiscono leggi, fanno elogi e muovono rimproveri. E per spaventare gli uomini più forti e capaci dì prevaricare, affinché non abbiano più di loro, dicono che è brutto e ingiusto prevaricare, e che proprio in questo consiste il commettere ingiustizia, vale a dire nel cercare di avere più degli altri. Io credo, in effetti, che costoro siano contenti quando abbiano l’uguaglianza, perché sono meno capaci degli altri.

Secondo Callicle, la giustizia è il diritto del più forte Per queste ragioni, dunque, per legge si dice che è brutto e ingiusto il cercare di avere più degli altri, ed è questo ciò che essi chiamano “commettere ingiustizia”. Invece, mi pare che la natura stessa mostri questo, vale a dire che è giusto che chi è migliore abbia più dì chi è peggiore, e chi è

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più capace abbia più di chi è meno capace. E che le cose stanno così, lo dimostra in molti casi, sia nelle altre specie animali, sia in tutte le città e stirpi umane, cioè che il diritto si giudica con questo criterio: che il più forte comandi sul più debole ed abbia più di lui. Del resto, avvalendosi di quale diritto Serse mosse guerra alla Grecia, o suo padre agli Sciti? E si potrebbero citare altri innumerevoli casi di questo genere! Ma io penso che costoro agiscano così secondo il diritto della natura, e, per Zeus, anche secondo la legge, almeno quella di natura, e tuttavia, probabilmente, non secondo quella legge che noi istituiamo. Per plasmare i migliori e i più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni, incantandoli e seducendoli, li sottomettiamo [pag. 484] , dicendo loro che bisogna ottenere l’uguaglianza e che in questo consiste il bello e il giusto. Ma io penso che, se solo nascesse un uomo dotato di una natura che ne fosse all’altezza, costui, scrollatosi di dosso, fatte a pezzi e sfuggito a tutte queste cose, calpestati i nostri scritti, incantesimi, sortilegi e leggi, che sono tutte contro natura, così ribellatosi, il nostro schiavo si rivelerebbe nostro padrone, ed allora splenderebbe il diritto di natura. E mi pare che anche Pindaro esprima le stesse cose che io esprimo, in quel carme dove dice: La legge regina di tutti Dei mortali e degli immortali... ebbene, questa, lui dice, Guida, giustificando l’azione più violenta, Con mano potente: lo deduco Dalle imprese di Eracle, Poiché ... senza averle comprate...; dice press’a poco così, perché non so il carme a memoria. In ogni modo, dice che, senza averle comprate e senza che Gerione gliele avesse donate, Eracle portò via le vacche, Convinto che questo fosse per natura suo diritto, e che tanto le vacche quanto le altre cose che sono in mano ai peggiori e ai più deboli appartengono tutte al migliore e al più forte.

Secondo Callicle, la filosofia che pratica Socrate rende gli uomini buoni a nulla E che la verità sia questa, potresti capirlo se, lasciata ormai perdere la filosofia, tu venissi a cose più grandi. Certo, Socrate, la filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con misura, in

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giovane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini. Infatti, per quanto uno sia ben provvisto di doti naturali, qualora si attardasse a filosofare anche quando fosse ormai avanti negli anni, per forza di cose egli diventerebbe inesperto di tutte quelle cose di cui deve avere esperienza chi intende essere uomo per bene e onorato. Infatti, costoro diventano inesperti delle leggi che riguardano la città, di quei discorsi di cui ci si deve servire quando si hanno faccende da sbrigare con altri uomini, in privato e in pubblico, dei piaceri e dei desideri umani, e, in generale, diventano del tutto inesperti dei costumi degli uomini. Quando poi si dedichino a qualche affare, privato o pubblico, si rendono ridicoli, allo stesso modo in cui, credo, si rendono ridicoli i politici quando si intromettano nelle vostre dispute e nei vostri ragionamenti. Accade infatti quanto dice Euripide, che ciascuno brilla in una data cosa, e a questa si sente attratto, Dedicando ad essa la maggior parte del giorno Perché lì gli accade di superare se stesso. [pag. 485] Quella cosa, invece, in cui uno si ritrovi mediocre, la evita e ne parla male, e loda l’altra per amor proprio, pensando di lodare in questo modo se stesso. Ma io penso che la cosa più giusta sia partecipare dell’una e dell’altra cosa: è bello partecipare alla filosofia nella misura in cui è utile all’educazione spirituale, e non è brutto filosofare finché si è giovani; ma quando si attardi a filosofare un uomo ormai avanti negli anni, la cosa, o Socrate, si fa ridicola, ed io provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi un sentimento identico a quello che provo nei confronti di coloro che balbettano e giocano. Infatti, quando mi capita di vedere un fanciullo, a cui ancora si addice l’esprimersi in questo modo, cioè balbettando e giocando, ne gioisco e mi pare grazioso, spontaneo, e confacente alla sua età. Quando invece mi capita di sentire un fanciullo esprimersi con chiarezza, mi dà l’impressione di essere una cosa acerba, mi infastidisce le orecchie, e mi pare un modo di fare servile. Se poi ci accade di sentire un uomo balbettare o di vederlo giocare, ci appare cosa ridicola e poco virile, e pensiamo che meriti di essere preso a botte. Ebbene, lo stesso sentimento lo provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi. Infatti, provo gusto a vedere la filosofia sulla bocca di un giovane, e mi sembra che gli si addica e penso che costui sia un uomo libero, mentre considero uomo non libero colui che non coltiva la filosofia, e penso che non sarà mai all’altezza di cose belle e nobili. Ma quando vedo un uomo già avanti

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negli anni che ancora coltivi la filosofia e non sappia separarsene, mi sembra, o Socrate, che costui abbia bisogno dì essere preso a botte. Infatti, come dicevo poco fa, a quest’uomo, per quanto sia ben provvisto di doti naturali, toccherà diventare un ignavo, fuggendo il centro della città e le piazze, dove, come dice il poeta, gli uomini si affermano, e passare il resto della vita rintanato in un angolo a borbottare con tre o quattro giovanotti, senza mai fare un discorso degno di uomo libero, elevato e valido.

Socrate dovrebbe dedicarsi alla vita pratica della città Ma io, Socrate, nutro per te vera amicizia: rischio di provare nei tuoi confronti quel sentimento che lo Zeto di Euripide provava nei confronti di Anfione, che ho già menzionato. Anche a me, infatti, viene di dirti le stesse cose che costui disse al fratello: “Tu trascuri, Socrate, le cose di cui dovresti occuparti, e travesti di una forma puerile la natura così nobile della tua anima [pag. 486] ; né ai processi sapresti portare un discorso che regge, né sapresti prendere la parola in modo da essere ragionevole e persuasivo, né sapresti prendere un consiglio ardito in favore dì altri”. Ebbene, caro Socrate, e non prendertela con me, perché io parlo per il tuo bene, non ti pare che sia sconveniente per te trovarti in questa situazione, in cui io credo che vi troviate tu e gli altri che si addentrano sempre più avanti nella filosofia? Infatti, supponiamo che ora uno, arrestato te o un altro qualsiasi di quelli che sono come te, ti trascinasse in carcere dicendo che tu hai commesso un delitto, benché tu sia innocente: sai bene che tu non sapresti che fare di te, ma resteresti smarrito e a bocca aperta, non sapendo che dire; e che, una volta messo piede in tribunale, anche se ti capitasse un accusatore buono a niente e incompetente, potresti morire, se costui volesse chiedere per te la pena di morte. Ebbene, o Socrate, come può essere saggia quell’arte che, preso sotto le sue cure un uomo di buone speranze, lo renda peggiore, e incapace di aiutare se stesso e di salvare dai più grandi pericoli se stesso o qualsiasi altro uomo, e che lo lasci in balia dei suoi nemici, perché lo spoglino di ogni suo avere, e lo faccia vivere privato di ogni diritto nella sua città? Un uomo del genere, anche se l’espressione è piuttosto rozza, si può prendere a schiaffi impunemente! Ma amico mio, dammi retta, smettila di confutare, e coltiva invece la buona musa delle cose pratiche, dedicati a quelle cose, grazie alle quali ti farai la reputazione di essere uomo di buon senso, lasciando ad altri queste sottigliezze, chiacchiere o fandonie che si debbano

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chiamare, con le quali finirai per abitare in vuote dimore, ed emulando non gli uomini che stanno a confutare queste piccolezze, ma coloro che possiedono averi, fama e molti altri beni.

Elogio ironico della posizione di Callicle SOCRATE: Se io avessi l’anima d’oro, o Callicle, non credi che sarei ben contento di trovare una di quelle pietre con cui si saggia l’oro, la migliore che esista, e, avvicinandole la mia anima, di poter sapere con certezza, se quella pietra mi confermasse che la mia anima è stata ben allevata, di essere in buona condizione e di non aver bisogno di altre prove? CALLICLE: A che scopo fai questa domanda, o Socrate? SOCRATE: Te lo dirò. Io penso che l’essermi imbattuto in te, quest’oggi, sia stato come imbattermi in un tesoro di questo genere. CALLICLE: E perché? SOCRATE: So bene che, se confermerai le cose che la mia anima pensa, queste saranno allora vere. Infatti penso che colui che si accinge a saggiare in modo efficace un’anima, [pag. 487] per vedere se essa viva o no con rettitudine, deve avere tre requisiti, che tu possiedi senza eccezione, vale a dire conoscenza, affetto e schiettezza. E così mi capita di imbattermi in molti uomini che non sono in grado di saggiarmi, perché non sono sapienti come te; altri, invece, sono sapienti, ma non se la sentono di dirmi la verità, perché non si prendono a cuore il mio bene, come invece fai tu. E questi forestieri, poi, Gorgia e Polo, sono sapienti e amici miei, ma mancano di schiettezza e si fanno più scrupoli del dovuto. E come potrebbe non essere così? Sono arrivati a un tal punto di pudore che, proprio perché si fanno scrupolo, ciascuno dei due ha il coraggio di contraddirsi di fronte a molta gente, e su importantissime questioni. Tu, invece, possiedi tutti questi requisiti che gli altri non possiedono: hai avuto un’eccellente educazione, come molti Ateniesi potrebbero confermare, e sei benevolo nei miei confronti. E quale prova ne ho? Te lo dirò. So che voi quattro, Callicle, ossia tu, Tisandro di Afidna, Androne di Andozione e Nausicide di Colarge, siete stati compagni di sapienza; e ho sentito dire che una volta avete tenuto consiglio per stabilire fino a che punto la sapienza andasse coltivata, e so che prevalse fra voi questa opinione, vale a dire che non bisogna mettere troppo zelo nel praticare la filosofia con eccessivo rigore, e che anzi vi raccomandavate l’uno all’altro di stare

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attenti, che, diventando più sapienti del dovuto, non finiste per rovinarvi senza accorgervene. Ebbene, visto che ti sento farmi le stesse raccomandazioni che facevi ai tuoi migliori amici, questo è per me prova sufficiente che sei veramente benevolo nei miei confronti. Che, poi, tu sia capace di parlare francamente e senza farti scrupolo, tu stesso lo dichiari, e il discorso che hai fatto poco fa conferma quello che dici. Dunque, è chiaro che, su questi punti, le cose stanno così: se, nel corso dei miei ragionamenti, ti riconoscerai d’accordo con me su qualche cosa, questa sarà da considerarsi ormai sufficientemente saggiata e da me e da te, e non ci sarà più bisogno di sottoporla ad altre prove. Infatti, non l’avresti mai approvata per difetto di sapienza o per eccesso di scrupolo, né mi daresti la tua approvazione allo scopo di ingannarmi, perché mi sei amico, come tu stesso professi. In effetti, dunque, l’assenso mio e tuo avrà forza di verità. E la ricerca più bella di tutte, Callicle, è quella che riguarda le cose su cui tu mi hai rimproverato, ossia quale debba essere l’uomo, di cosa debba occuparsi e fino a che punto [pag. 488] , sia quando è vecchio, sia quando è giovane. Se, infatti, faccio qualcosa in modo non giusto nella mia vita, sappi bene che non faccio questo sbaglio volontariamente, ma per mia ignoranza. Tu, dunque, non smettere di rimproverarmi come hai cominciato a fare, ma mostrami bene cosa sia ciò di cui dovrei occuparmi, e in che modo potrei entrarne in possesso; e, se mi troverai d’accordo con te ora, e in futuro, invece, mi sorprenderai a non fare le cose alle quali avevo acconsentito, considerami pure un indolente, e non rimproverarmi mai più, pensando che io non ne valgo affatto la pena. Ma riprendiamo da capo: qual è, a detta tua e di Pindaro, la condizione del giusto, il giusto secondo natura? Che il più forte si prenda con violenza ciò che appartiene ai più deboli, che il migliore comandi sui peggiori e che chi è più capace abbia più di chi è meno capace? Dici che il giusto non è altro che questo? Ricordo bene? CALLICLE: Lo dicevo allora, e anche ora te lo ripeto!

La tesi che il migliore è il più forte e le sue conseguenze SOCRATE: Ma tu chiami la stessa persona migliore e più potente? Perché neppure prima sono riuscito a capire che cosa tu intendessi dire! Per “più potenti” intendi dire “più forti”, e affermi che i più deboli devono obbedire a chi è più forte, come mi pare che tu anche prima facevi

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intendere, sostenendo che le grandi città muovono contro le piccole per diritto di natura, perché sono più potenti e più forti, nella convinzione che il più potente, il più forte e il migliore siano la stessa cosa; oppure si può essere migliore, pur essendo meno potente e più debole, ed essere più potente, pur essendo più malvagio? O la definizione di “migliore” e di “più potente” è la stessa? Di questo devi darmi una chiara definizione: il più potente, il migliore e il più forte sono la stessa cosa o cose diverse? CALLICLE: Ma io ti dico chiaramente che sono la stessa cosa! SOCRATE: Ora, i molti non sono forse più potenti di uno solo, in natura? Senza dubbio, sono costoro ad imporre le leggi a quell’uno, come anche tu poco fa dicevi! CALLICLE: E come no? SOCRATE: Dunque, le leggi dei molti sono anche le leggi dei più potenti. CALLICLE: Certamente. SOCRATE: E non sono, allora, anche le leggi dei migliori? Infatti i più potenti sono anche migliori, secondo il tuo discorso. CALLICLE: Sì . SOCRATE: E le leggi di costoro non sono allora belle secondo natura, visto che costoro sono i più potenti? CALLICLE: Lo affermo. SOCRATE: Non è forse vero, allora, che i più la pensano in questo modo, come del resto tu poco fa dicevi, vale a dire che è giusto che si abbia uguaglianza e che è più brutto commettere che subire ingiustizia? [pag. 489] E così o no? E bada, a questo punto, di non farti sorprendere anche tu a prenderti riguardo. Ritengono o no, i più, che sia giusto avere uguaglianza, e non avere più degli altri, e che sia più brutto commettere ingiustizia che subirla? Non negarmi questa risposta, o Callicle, perché io possa, nel caso in cui tu mi dia il tuo assenso, essere rassicurato da te, visto che la conferma mi verrebbe da un uomo che è all’altezza di giudicare. CALLICLE: Ma i più la pensano proprio così . SOCRATE: Allora, non solo per legge è più brutto commettere che subire ingiustizia, e neppure solo per legge è giusto avere uguaglianza, ma anche per natura; sicché c’è il rischio che tu non abbia detto la verità nei precedenti ragionamenti e non mi abbia accusato con giusta ragione, quando sostenevi che la legge e la natura sono tra loro opposte, e che io, consapevole di questo,

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tendo tranelli nei ragionamenti, portando il ragionamento sul piano della legge quando uno parli riferendosi alla natura, e portandolo sul piano della natura quando uno parli riferendosi alla legge.

Il migliore è il più intelligente e quindi il più potente CALLICLE: Quest’uomo non la smetterà mai di dire insulsaggini! Dimmi, o Socrate, non ti vergogni, alla tua età, di andare a caccia di parole, e, quando uno si sbagli di una parola, di credere di aver trovato in questo una fortuna inaspettata? Pensi forse che io per “più potenti” intenda qualche altra cosa che non “migliori”? Non ti sto dicendo da un pezzo che secondo me “migliore” e “più potente” sono la stessa cosa? O credi che io voglia dire che, qualora si riunisse un’accozzaglia di schiavi e di gente di ogni sorta, buona a nulla tranne forse che a sfruttare la propria forza fisica, e qualora costoro facessero delle affermazioni, queste affermazioni costituirebbero le leggi? SOCRATE: E sia, o sapientissimo Callicle! Dici così? CALLICLE: Certamente. SOCRATE: Ma anch’io, o divino, è da un pezzo che credo di indovinare che tu per “potente” intenda una cosa del genere, e torno tuttavia a domandartelo, perché desidero sapere con chiarezza che cosa tu voglia dire. Di certo, infatti, tu non pensi che due siano migliori di uno, né che i tuoi schiavi siano migliori di te, per il fatto che sono più forti di te. Ma torna a dirmi, daccapo: che cosa intendi dire per “migliori”, visto che non intendi “i più forti”? E, carissimo, insegnami con un po’ più di maniera, se non vuoi che smetta di venire alla tua scuola. CALLICLE: Fai dell’ironia, o Socrate. SOCRATE: No, o Callicle, per Zeto, di cui poco fa ti sei servito per fare un bel po’ d’ironia nei miei confronti! Ma dimmi: chi sostieni che siano i migliori? CALLICLE: Io dico che sono i più virtuosi. SOCRATE: Ma non vedi che anche tu dici solo parole e non dimostri nulla? Non vuoi dirmi se per “migliori” e “più potenti” tu intendi dire “i più assennati”, o altri? CALLICLE: Ma sì, per Zeus! Proprio questi intendo dire, e anzi lo affermo con certezza! [pag. 490] SOCRATE: Spesso, allora, uno solo che sia assennato, secondo il tuo ragionamento, è più potente di una moltitudine di uomini che non abbiano senno, e costui deve comandare e gli altri lasciarsi comandare, e chi comanda deve avere più di quelli che obbediscono al suo

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comando. Questo mi pare tu voglia dire (e non vado a caccia di parole!), quando sostieni che uno solo è più potente di una moltitudine di uomini. CALLICLE: Ma è proprio questo quello che intendo dire! Infatti, io credo che in questo consista il giusto secondo natura: che chi è migliore e più assennato comandi ed abbia di più di quelli che sono meno capaci.

I più intelligenti e potenti sono coraggiosi e competenti negli affari della città SOCRATE: Fermati qui! Che cosa rispondi adesso? Supponiamo che ci trovassimo in molti, come ora, radunati nello stesso luogo, e che avessimo in comune cibi e bevande in abbondanza; che fossimo uomini di vario tipo, alcuni forti, altri deboli; e che uno di noi fosse più assennato degli altri in materia di cibi e bevande, essendo medico, ma fosse, com’è ragionevole supporre, più forte di alcuni e più debole di altri: costui, avendo più senno di noi, non sarà in queste cose anche migliore e più potente? CALLICLE: Certamente. SOCRATE: Forse allora, di questi cibi, costui deve averne più di noi, per il fatto di essere migliore? Oppure, per il fatto di essere lui a comandare, bisogna che sia lui a distribuire tutto, ma non che sia privilegiato rispetto agli altri nel consumare e nell’adoperare questi cibi per il proprio corpo, se non vuole essere invidiato, ma bisogna che ne abbia di più rispetto ad alcuni e meno rispetto ad altri? Non è così , amico mio? CALLICLE: Tu parli di cibi, di bevande, di medici e di simili sciocchezze. Ma non sono queste le cose di cui parlo io! SOCRATE: Non chiami “migliore” chi è più sapiente? Affermalo oppure negalo! CALLICLE: Sì . SOCRATE: E non dici che il migliore deve avere più degli altri? CALLICLE: Non di cibi, almeno, né di bevande! SOCRATE: Capisco! Forse, allora, di vestiti: il tessitore più abile deve avere il mantello più grande e andare in giro con più vestiti degli altri e vestito dei più bei abiti? CALLICLE: Ma quali vestiti?

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SOCRATE: E, a proposito di scarpe, è ovvio che deve essere privilegiato chi in questo campo è più esperto e migliore. Così il calzolaio, forse, deve passeggiare calzato di scarpe più grandi e con più scarpe degli altri. CALLICLE: Ma quali scarpe? Continui a dire sciocchezze! SOCRATE: Ma se non sono queste le cose di cui parli, forse sono queste altre: il contadino, ad esempio, che si intende di terra, ed è in questo campo esperto e capace, forse deve avere più sementi degli altri, e deve adoperarne, per la sua terra, più che può. CALLICLE: Dici sempre le stesse cose, o Socrate! SOCRATE: Non solo, Callicle! Le dico anche sugli stessi argomenti! [pag. 491] CALLICLE: Per gli dèi! Non la smetti proprio di parlare di calzolai, di cardatori, di cuochi e di medici, come se la nostra discussione riguardasse costoro! SOCRATE: Ma allora, a proposito di quali cose il più potente e il più assennato sarà giustamente privilegiato nell’avere più degli altri? Oppure non lascerai che sia io a suggerirlo, né lo dirai tu stesso? CALLICLE: Ma è un pezzo che te lo dico! Come prima cosa, con “più potenti” non mi riferisco né a calzolai né a cuochi, ma a coloro che, riguardo agli affari della città, siano assennati tanto da capire in che modo li si possa amministrare con successo, e non solo assennati, ma anche coraggiosi, che siano cioè capaci di mettere in atto le cose che pensano, e che non desistano per debolezza dell’anima. SOCRATE: Vedi, mio caro Callicle, che le cose di cui tu mi accusi non sono le stesse di cui io accuso te? Tu, infatti, sostieni che io dico sempre le stesse cose, e mi rimproveri; io, invece, ti accuso del contrario, sostenendo che non dici mai le stesse cose a proposito dei medesimi argomenti: prima definivi i migliori e i più potenti come i più forti, poi tornavi a definirli come i più assennati, e adesso, di nuovo, te ne vieni con un’altra definizione, e i più potenti e i migliori vengono da te definiti come uomini più coraggiosi di altri. Ma, amico mio, sbrigati a dire chi siano secondo te i migliori e i più potenti, e in che cosa lo siano! CALLICLE: Ma ti ho già detto che si tratta di coloro che sono assen- nati circa gli affari della città e coraggiosi. A costoro, infatti, spetta di diritto governare le città, e la giustizia consiste in questo: che costoro abbiano più degli altri, vale a dire quelli che comandano più di quelli che sono comandati.

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I potenti dominano gli altri e non se stessi SOCRATE: E poi? Rispetto a se stessi, amico mio, in che posizione si trovano? Nella posizione di chi comanda, o in quella di chi è comandato? CALLICLE: Come dici? SOCRATE: Mi riferisco alla questione se ciascuno di essi comandi su se stesso. Oppure non c’è alcun bisogno di questo, cioè che uno comandi su se stesso, e basta, invece, che uno comandi sugli altri? CALLICLE: In che senso dici “che comandi su se stesso”? SOCRATE: Non intendo dire nulla di complicato, bensì lo dico nel senso in cui lo intende la maggior parte della gente: che sia temperante e padrone di sé, e che sappia comandare i piaceri e i desideri che dimorano dentro di sé. CALLICLE: Come sei dolce! Tu, allora, chiami temperanti gli stolti. SOCRATE: Come sarebbe? Non c’è nessuno che non comprenda che non è questo quello che intendo dire io! CALLICLE: Non c’è dubbio che è proprio questo, o Socrate! Infatti, come potrebbe essere felice un uomo che fosse schiavo di qualcuno, non importa di chi? Invece, il bello e il giusto secondo natura consiste in questo che io ora, parlando con franchezza, ti dico: colui che intende vivere con rettitudine deve lasciare che i propri desideri si ingrandiscano il più possibile e non deve mettervi freno [pag. 492] ; e, quando abbiano raggiunto il massimo dello sviluppo, deve saperli servire con coraggio e accortezza, ed essere capace di appagare ogni desiderio che di volta in volta gli venga. Ma questo, credo, alla maggior parte della gente non è possibile. Perciò biasimano quelli che ne sono capaci per vergogna, per nascondere così la propria impotenza, e dicono che l’intemperanza è cosa abbietta, come ho detto prima, allo scopo di asservire gli uomini che per natura sono migliori; e, poiché essi non sono capaci di procurare soddisfazione ai propri piaceri, elogiano la temperanza e la giustizia per la propria mancanza di virilità. Infatti, per coloro ai quali fin da principio toccò in sorte di essere figli di re, o di essere per natura capaci di procurarsi un potere di qualche genere, tirannide o signoria che sia, che cosa potrebbe essere in verità più brutto e peggiore della temperanza e della giustizia per questi uomini? E costoro, pur avendo il pote re di godere dei beni senza che nessuno li ostacoli, dovrebbero di

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propria iniziativa farsi un padrone nella legge della moltitudine degli uomini, nei loro discorsi e nel loro biasimo? E come potrebbero non essere resi infelici dalla bellezza della giustizia e della temperanza, non potendo distribuire ai loro amici nulla di più che ai loro nemici, e questo pur comandando nella propria città? Ma, Socrate, in nome di quella verità che tu dici di cercare, così stanno le cose: dissolutezza, intemperanza e libertà, quando abbiano un sostegno su cui poter contare, costituiscono la virtù e la felicità, e tutte queste altre cose non sono che bella facciata, convenzioni contro natura fatte dagli uomini, sciocchezze e roba che non vale nulla.

La vita esaltata di Callicle viene paragonata alla morte SOCRATE: Callicle, spieghi le tue ragioni davvero con coraggio e franchezza: tu, ora, dici chiaramente cose che gli altri pensano, ma non sono disposti a dire. Ti prego, dunque, di non desistere in alcun modo, perché diventi veramente chiaro in che modo si debba vivere. Dimmi: tu sostieni che non bisogna frenare i desideri, se si vuole essere come si deve, ma che bisogna, lasciandoli sviluppare il più possibile, procurare loro soddisfazione trovandola non importa dove, e che in questo consiste la virtù? CALLICLE: Questo è quello che affermo. SOCRATE: Allora, non è giusto dire che felici sono coloro che non hanno bisogno di nulla! CALLICLE: Già: se così fosse, le pietre e i cadaveri sarebbero i più felici. SOCRATE: Eppure, come anche tu sostieni, la vita è terribile. E non sarei sorpreso se Euripide dicesse il vero là dove dice; Chi sa, se il vivere non sia morire, E se il morire non sia vivere? [pag. 493] Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Infatti, ho già sentito dire dai sapienti che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che questa parte dell’anima in cui hanno sede i desideri è tale da lasciarsi sedurre e da mutare direzione in su e in giù. E un uomo arguto, un tale che si spiega per immagini, forse un siculo o un italico, prendendo il nome dal suo carattere credulo e facile a persuadersi, chiamò questa parte dell’anima “orcio”, e diede agli uomini privi di senno il nome di “non iniziati”, e disse che quella parte dell’anima dei

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dissennati dove hanno sede i desideri 1, per il suo carattere sfrenato e la sua incapacità di ritegno, è come un orcio forato, paragonandola a questo per la sua insaziabilità. E, al contrario di te, o Callicle, costui fa vedere come, di coloro che sono nell’Ade (e con questo si riferisce al mondo invisibile 2), i più infelici siano proprio costoro, vale a dire i non iniziati, e come essi debbano portare acqua nell’orcio forato con un crivello anch’esso pieno dì buchi. E con il crivello, come disse chi me ne informò, egli intendeva riferirsi all’anima: paragonava l’anima dei dissennati ad un crivello pensando che essa è come forata, perché è incapace di ritenere nulla per incredulità e dimenticanza. Queste similitudini sono probabilmente un poco strane, ma chiariscono quello che io voglio dimostrarti, per persuaderti, purché ne sia in qualche modo capace, a fare il cambio e a prendere, al posto della vita insaziabile e sfrenata, la vita bene ordinata, che è soddisfatta e si accontenta di ciò che ha. Ma riesco a convincerti a mutare parere e a persuaderti che gli uomini ordinati sono più felici dei dissoluti, oppure posso ben raccontarti molti altri miti come questo, senza per questo farti cambiare idea? CALLICLE: Quest’ultima cosa che hai detto, o Socrate, è la più vera.

Paragoni per illustrare la vita dissoluta promossa da Callicle SOCRATE: Allora voglio riportarti un’altra similitudine, che proviene dalla stessa scuola da cui viene quella di cui ti ho appena parlato. Considera la vita dell’uno e dell’altro, la vita cioè dell’uomo temperante e quella dell’uomo senza freni, se si può dire che è come se, di due uomini, ciascuno di essi possedesse molti orci, e l’uno avesse i suoi sani e pieni, uno di vino, un altro di miele, un altro ancora di latte, e molti altri orci pieni di molti altri liquidi, e i liquidi contenuti in ciascuno di essi siano rari e ottenibili a prezzo di molte e dure fatiche: costui, dopo averli riempiti, non dovrebbe più portarvi altro liquido né darsene alcun pensiero, ma riguardo ai suoi orci potrebbe stare tranquillo. Anche per l’altro, come per il primo, è possibile procurarsi quei liquidi, sebbene siano difficili da ottenere, ma i suoi orci

1 Questo gioco di parole funziona in greco, associando i suoni per una giara ( pithon ), per l’impressionabile ( pithanos ) e per il desiderio ( epithumia ). [nota di Davies] 2 Il rimando deve essere alle Danaide, che furono condannate a riempire contenitori che non potevano essere riempiti; l’immagine è quella di un compito futile e frustrante; cfr. le punizioni di Sisifo e di Tantalo [nota di Davies]

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sono forati e logori: costui sarebbe costretto a riempirli continuamente, notte e giorno, [pag. 494] perché, se così non facesse, patirebbe i dolori più grandi. Ebbene, supponendo che sia tale la vita di ciascuno di costoro, puoi dire che la vita dell’uomo dissoluto è più felice di quella dell’uomo ben regolato? Con questo mio ragionamento ti persuado ad ammettere che la vita ben regolata è migliore di quella sfrenata, o non ti persuado? CALLICLE: Non mi persuadi, o Socrate. Infatti, per colui che ha ormai riempito i suoi orci non resta più alcun piacere, e proprio in questo consiste, come dicevo poco fa, il vivere come una pietra, senza più provare, una volta riempiti gli orci, né piacere né dolore. Invece, in quest’altro consiste il vivere piacevolmente: nel versare negli orci quanto più liquido è possibile! SOCRATE: Ma non è allora necessario che, se molto vi si versa, sia molto anche quello che se ne va, e che piuttosto grandi siano i fori per lo scolo? CALLICLE: Certamente. SOCRATE: Ma la vita di cui parli tu è quella del caradrio 3, e non quella di un morto o di una pietra! Ma dimmi: ti riferisci forse a una cosa del genere: aver fame, e quando si ha fame mangiare? CALLICLE: Sì . SOCRATE: E aver sete, e quando si ha sete bere? CALLICLE: Proprio di questo parlo! E dico che il vivere felici consiste nel provare tutte le altre voglie e, trovandosi nella possibilità di farlo, nell’appagarle traendone piacere. SOCRATE: Bene, carissimo! Continua come hai cominciato e bada di non farti scrupolo! E, a quanto pare, bisogna che neppure io me ne faccia. Come prima cosa, dimmi se vivere felicemente è anche passare la vita a grattarsi quando si ha la scabbia e la voglia di grattarsi, se ci si può grattare senza impedimenti. CALLICLE: Quanto sei assurdo, o Socrate! E che autentico oratore da piazza sei! SOCRATE: E infatti, o Callicle, ho sconvolto e messo soggezione a Polo e a Gorgia! Ma tu non farti sconvolgere né mettere soggezione, visto che sei coraggioso. Ma cerca solo di rispondermi.

3 Questo uccello è un tipo di piviere, il cui nome significa qualcosa come ‘uccello-torrente’, perché mentre mangia e beve simultaneamente evacua senza pausa. [nota di Davies]

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CALLICLE: Allora ti dico che anche colui che passa la vita a grattarsi dovrebbe vivere piacevolmente. SOCRATE: E se piacevolmente, allora anche felicemente? CALLICLE: Certamente. SOCRATE: E se ha voglia di grattarsi solo la testa... o c’è bisogno che ti faccia altre domande? Considera, o Callicle, che cosa risponderesti, se qualcuno ti facesse questa domanda a proposito di tutte le parti del corpo, una dopo l’altra. E, stando così le cose, in somma, la vita dei cinedi 4 non è forse terribile, brutta e infelice? O avrai il coraggio di dire che costoro sono felici, purché abbiano in abbondanza ciò di cui sentono il bisogno? CALLICLE: Non ti vergogni, o Socrate, di portare il ragionamento a tali conclusioni? SOCRATE: Sono forse io che lo porto a tali conclusioni, mio caro, o piuttosto chi sostiene senza ritegno che felici sono coloro che godono, in qualsiasi modo godano, e non distingue, fra i piaceri, quali siano buoni e quali siano cattivi? Ma dimmi ancora una volta se, secondo te, il piacere e il bene sono la stessa cosa, o se sostieni che fra i piaceri ve ne sia qualcuno che non sia buono. CALLICLE: Ebbene, affinché il mio ragionamento non risulti incoerente, nel caso in cui dicessi che si tratta di cose diverse, affermo che sono la stessa cosa.

4 Un cinedo era il partner passivo, pagato e promiscuo di incontri omosessuali. [nota di Davies]

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Platone Repubblica

Traduzione Giovanni Caccia Sottotitoli in grassetto seguendo Giovanni Reale [Stephanus vol. II p. 357]

[È Socrate che, in esordio al secondo libro, narra la discussione]

L’opinione comune sulla giustizia Dopo aver detto questo io credevo di essermi sbrigato dalla discussione; ma quello, a quanto pare, era soltanto il proemio. Infatti Glaucone, che in ogni circostanza è sempre il più combattivo, anche in quel caso non accettò la rinuncia di Trasimaco, ma disse: ‘Socrate, vuoi dare l'impressione di averci persuasi, o vuoi veramente persuaderci che il giusto è in ogni modo migliore dell'ingiusto?’ ‘Se dipendesse da me’, risposi, ‘preferirei persuadervi davvero’. ‘Allora non raggiungi il tuo scopo’, ribatté.

I beni desiderabili solo per sé ‘Dimmi un po': ti sembra che esista un bene tale che potremmo accettarlo non per il desiderio dei vantaggi che ne derivano, ma perché ci è caro per se stesso, come la gioia e tutti i piaceri che non arrecano danno e che per il tempo a venire non comportano altro che il godimento del loro possesso?’ ‘A me sembra che qualcosa del genere esista’, risposi.

I beni desiderabili per sé e per gli effetti che procurano ‘E che dire allora di quel bene che amiamo per se stesso e per ciò che ne deriva, come possedere l'intelligenza, la vista e la buona salute? Beni di questo genere li apprezziamo per entrambe le ragioni’. ‘Sì’, dissi.

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I beni apprezzabili solo per i loro effetti ‘E riconosci’, proseguì, ‘una terza specie di beni, di cui fanno parte la ginnastica, la guarigione da una malattia, l'esercizio della medicina e le altre professioni redditizie? Potremmo dire che queste attività sono faticose ma ci danno giovamento, e non accetteremmo di possederle per se stesse, ma per il compenso e per tutti gli altri vantaggi che ne derivano’. ‘Sì’, dissi, ‘esiste anche questa terza specie. E allora?’ ‘In quale di esse collochi la giustizia?’, chiese. [pag. 358]

La giustizia si trova fra i beni del secondo tipo ‘Nella migliore, credo’, dissi, ‘quella che chi vuole essere beato deve apprezzare sia per se stessa sia per ciò che ne deriva’. ‘Tuttavia la gente non la pensa così’, ribatté, ‘ma colloca la giustizia nella specie dei beni che costano fatica e si devono coltivare per i compensi e la buona fama che procurano, ma si devono fuggire per se stessi in quanto molesti’. ‘Lo so’, dissi, ‘che la gente la pensa così e già da un pezzo Trasimaco biasima la giustizia in quanto tale, e loda l'ingiustizia; ma io, a quanto pare, sono duro di comprendonio’.

Glaucone si fa difensore dell’ingiustizia per sollecitare le risposte di Socrate ‘Via’, disse, ‘ascolta anche me, per vedere se resti ancora della tua opinione. Mi sembra che Trasimaco sia stato incantato da te troppo presto, come un serpente, e la dimostrazione dei concetti di giustizia e ingiustizia non mi ha ancora convinto; desidero infatti ascoltare che cos'è l'una e l'altra cosa, e quale forza possiedono di per sé quando agiscono sull'anima, lasciando perdere i compensi e ciò che ne deriva. ‘Farò dunque così, se anche tu sei d'accordo: rinnoverò il discorso di Trasimaco, e innanzitutto esporrò l'opinione comune sulla giustizia e sulla sua origine; in secondo luogo dirò che tutti coloro che la praticano lo fanno contro voglia, come una necessità e non come un bene, in terzo luogo che la loro condotta è ragionevole, perché secondo loro la vita dell'ingiusto è di gran lunga migliore di quella del giusto.

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‘Io però, Socrate, non sono di questo avviso: tuttavia mi trovo nel dubbio, perché ho le orecchie rintronate dai discorsi di Trasimaco e di tantissime altre persone, ma non ho ancora sentito nessuno esporre nel modo in cui voglio la tesi che la giustizia è migliore dell'ingiustizia; io voglio sentirla elogiare per se stessa, e mi aspetto questo discorso soprattutto da te. Pertanto mi sforzerò di tessere le lodi della vita ingiusta, e con le mie parole ti mostrerò come voglio sentirti biasimare a tua volta l'ingiustizia ed elogiare la giustizia. Vedi dunque se la mia proposta ti piace’. ‘Più d'ogni altra!’, risposi. ‘Su quale argomento una persona assennata potrebbe aver piacere di parlare e ascoltare più spesso?’

I più ritengono la giustizia un compromesso fra l’utile del debole e quello del forte ‘Molto bene’, disse. ‘Ascolta ora il primo argomento che avevo preannunciato, ovvero che cos'è la giustizia e da dove nasce. Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla un male, e che il subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di conseguenza, quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche e provano entrambe le condizioni, non potendo evitare l'una [pag. 359] e a scegliere l'altra sembra loro vantaggioso accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. ‘ ‘Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l'origine e l'essenza della giustizia, che sta a metà tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia, essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma come un qualcosa che è tenuto in conto per l'incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e l'origine della giustizia, secondo l'opinione corrente. ‘Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per l'impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a ciascuno dei due, al giusto e all'ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli osservando dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la stessa strada

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dell'ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire come un bene, mentre la legge la devia a forza a onorare l'uguaglianza.

Il racconto del anello di Gige ‘E la facoltà di cui parlo sarebbe tale soprattutto se avessero il potere che viene attribuito a Gige, l'antenato di Creso re di Lidia. Si racconta che egli serviva come pastore l'allora sovrano di Lidia. Un giorno, a causa delle forti piogge e di un terremoto, la terra si spaccò e si produsse una fenditura nel luogo in cui teneva il gregge al pascolo. ‘Gige si meravigliò al vederla e vi discese; qui, tra le altre cose mirabili di cui si favoleggia, vide un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi si affacciò e scorse là dentro un cadavere, che appariva più grande delle normali dimensioni di un uomo; e senza avergli tolto nulla tranne un anello d'oro che portava a una mano, uscì fuori. ‘Quando ci fu la consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato delle greggi, si presentò anch'egli, con l'anello al dito; quindi, mentre era seduto in mezzo agli altri, girò per caso il castone dell'anello verso di sé, all'interno della mano, e così [pag. 360] divenne invisibile ai compagni che gli sedevano accanto e che si misero a parlare di lui come se fosse andato via. Egli ne rimase stupito e toccando di nuovo l'anello girò il castone verso l'esterno, e appena l'ebbe girato ridiventò visibile. Riflettendo sulla cosa, volle verificare se l'anello aveva questo potere, e in effetti gli accadeva di diventare invisibile quando girava il castone verso l'interno, visibile quando lo girava verso l'esterno. Non appena si accorse di questo fece in modo di essere incluso tra i messi personali del re; una volta raggiunto l'obiettivo divenne l'amante della sua sposa, congiurò assieme a lei contro il re, lo uccise e in questo modo si impadronì del potere. ‘Se dunque esistessero due anelli di tal genere e uno se lo mettesse al dito l'uomo giusto, l'altro l'uomo ingiusto, non ci sarebbe nessuno, a quel che sembra, così adamantino da persistere nella giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neanche toccarli, potendo prendere impunemente dal mercato ciò che vuole, entrare nelle case e congiungersi con chi vuole, uccidere e liberare di prigione chi vuole, e fare tutte le altre cose che lo renderebbero tra gli uomini pari agli dèi. Agendo così non farebbe niente di diverso dall'altro uomo, ma batterebbero entrambi la stessa via.

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‘E questa può essere definita una prova decisiva del fatto che nessuno è giusto di sua volontà, ma per costrizione, come se non ritenesse la giustizia un bene di per sé: ciascuno, là dove pensa di poter commettere ingiustizia, la commette. Ogni uomo infatti crede che sul piano personale l'ingiustizia sia molto più vantaggiosa della giustizia, e ha ragione a crederlo, come dirà chiunque voglia difendere questa tesi; poiché se uno, venuto in possesso di un simile potere, non volesse commettere ingiustizia alcuna e non toccasse i beni altrui, agli occhi di quanti lo venissero a sapere parrebbe l'uomo più infelice e più stupido, ma in faccia agli altri lo loderebbero, ingannandosi a vicenda per timore di subire ingiustizia. ‘Così stanno le cose.

L’uomo perfettamente giusto e totalmente ingiusto a confronto ‘Potremo valutare correttamente la vita delle persone di cui stiamo parlando se distingueremo l'uomo più giusto e l'uomo più ingiusto; altrimenti no. E il criterio distintivo sarà il seguente: non togliamo nulla all'ingiustizia dell'ingiusto e alla giustizia del giusto, ma poniamoli entrambi al più alto grado di perfezione nella loro condotta. Innanzitutto supponiamo che l'ingiusto si comporti come i bravi artigiani: ad esempio, come un timoniere molto esperto o un medico sa discernere nell'esercizio della propria arte ciò che è possibile da ciò che non lo è [pag. 361] , mette mano a certe cose e ne tralascia altre, e inoltre, se per caso commette uno sbaglio, è in grado di porvi rimedio, così anche l'uomo ingiusto deve intraprendere le sue azioni delittuose con accortezza, senza farsi scoprire, e vuole essere veramente ingiusto. Chi viene colto sul fatto dev'essere giudicato una persona dappoco, poiché il massimo dell'ingiustizia consiste nel sembrare giusto senza esserlo. Pertanto a chi è perfettamente ingiusto bisogna concedere la più perfetta ingiustizia senza togliergli nulla, anzi gli si deve permettere di procurarsi la più grande reputazione di giustizia compiendo le azioni più ingiuste; inoltre deve avere la possibilità di rimediare agli errori che eventualmente commette, di parlare in modo persuasivo se qualche sua ingiustizia viene denunciata, e di ricorrere alla forza nelle circostanze che la richiedono, grazie al suo coraggio, al suo vigore e alla disponibilità di amici e sostanze. ‘Stabilita in questi termini la sua indole, supponiamo di collocargli accanto il giusto, uomo schietto e nobile, “desideroso”, come dice Eschilo, “di non sembrare buono, ma di esserlo”. Bisogna però togliergli l'apparenza di giustizia, perché se sembrerà giusto, avrà per questa sua

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fama onori e ricompense, e non sarebbe chiaro se si comporta così per amore di giustizia o per ricevere donativi e onori. ‘Perciò bisogna spogliarlo di tutto, tranne che della giustizia, facendo in modo che si trovi nella condizione opposta a quella dell'individuo di prima: senza commettere ingiustizia alcuna abbia la fama della più grande ingiustizia, così verrà provato se la sua giustizia non si lascerà piegare dalla cattiva fama e dalle sue conseguenze; resti però irremovibile fino alla morte, giusto per tutta la vita pur nell'apparenza di ingiustizia, e quando entrambi saranno giunti al culmine, l'uno della giustizia, l'altro dell'ingiustizia, si giudicherà chi dei due sia più felice’ ‘Ahimè, caro Glaucone’, feci io, ‘con quanto vigore levighi i due individui, come una statua da sottoporre al giudizio!’.

La tragica sorte del giusto e la fortuna dell’ingiusto ‘Faccio del mio meglio’, rispose. ‘Rappresentando così i due caratteri credo che non sia più difficile spiegare quale vita attende l'uno e l'altro. Diciamolo dunque; e se le mie parole riusciranno un po' rozze, non pensare, Socrate, che le proferisca io, bensì coloro che lodano l'ingiustizia anziché la giustizia. ‘Essi diranno che in queste condizioni il giusto sarà frustato, torturato, imprigionato, [pag. 362] gli saranno bruciati gli occhi, e alla fine, dopo aver subito ogni genere di mali, verrà impalato e riconoscerà che non bisogna voler essere giusti, ma sembrarlo. Il verso di Eschilo sarebbe molto più corretto applicarlo all'ingiusto. In realtà diranno che l'ingiusto, dal momento che dedica i suoi sforzi a una cosa attinente alla verità e non vive secondo l'apparenza, non sembra ingiusto ma vuole esserlo, “nella mente frutto traendo da profondo solco, donde germogliano gli accorti intendimenti”. In primo luogo, grazie alla sua fama di giusto, egli governa nella sua città, poi prende moglie dove vuole e dà le figlie in sposa a chi vuole, stipula contratti e associazioni con chi gli pare, e oltre a tutto ciò ha il vantaggio di ricavarne un guadagno, perché non gli ripugna commettere ingiustizia. Perciò, quando prende parte a contese pubbliche e private, ne esce vincitore e ha la meglio sugli avversari; in questo modo si arricchisce, benefica gli amici e danneggia i nemici, offre agli dèi sacrifici e doni votivi con il dovuto decoro, e si procura il favore degli dèi e di qualsiasi uomo desideri molto meglio dell'uomo giusto. Di conseguenza è probabile che a lui, più che all'uomo giusto, tocchi di essere

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caro agli dèi. Per questo motivo, Socrate, essi sostengono che gli dèi e gli uomini riservano all'ingiusto una vita migliore che al giusto’. Io avevo già in mente una risposta da dare alle parole di Glaucone, ma suo fratello Adimanto intervenne: ‘Non credi, Socrate, che ci siamo dilungati abbastanza sull'argomento?’

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Aristotele (384-22 a.C.) Etica nicomachea Traduzione Claudio Mazzarelli Titoli dei capitoli seguendo W.D. Ross Quinto libro [Bekker pag. 1129a]

Capitolo i ( Il giusto come il legale [giustizia universale] e il giusto come l’equo [giustizia particolare]: considerazioni sul primo ) Dobbiamo ora indagare intorno alla giustizia e all’ingiustizia, determinando con quali azioni esse si trovano ad essere in rapporto, quale medietà sia la giustizia, e di quali estremi il giusto sia il mezzo. La nostra indagine si svolgerà secondo lo stesso metodo delle parti precedenti. Vediamo dunque che tutti vogliono chiamare giustizia quella disposizione di animo, per la quale gli uomini sono inclini a compiere cose giuste e per la quale operano giustamente e vogliono le cose giuste: altrettanto è dell’ingiustizia, per la quale gli uomini commettono ingiustizie e vogliono le cose ingiuste. Perciò questa definizione anzitutto valga per noi come abbozzo generale. Vi è al proposito differenza tra le scienze e le facoltà da un lato, e le disposizioni dall’altro. Mentre infatti sembra che vi possano essere una stessa scienza e una stessa facoltà di cose contrarie, invece di cose contrarie la disposizione contraria non è la stessa: ad esempio dalla salute non possono derivare gli effetti contrari, bensì solo quelli relativi alla salute; e diciamo infatti che uno cammina in modo sano, quando cammina come chi è sano. Spesso invero si conosce la disposizione contraria dal suo contrario, e spesso le disposizioni opposte derivano dalle loro condizioni implicite: così da un lato, se è noto qual è la buona costituzione fisica, ne diventa nota anche la cattiva, dall’altro la buona costituzione fisica appare dalle condizioni della salute e queste appaiono da quella. Ne consegue per lo più che, se di una delle due disposizioni si può parlare in molti sensi, anche dell’altra si potrà parlare in molti sensi: ad esempio se si parla in molti sensi del giusto, altrettanto sarà anche per l’ingiusto e l’ingiustizia. Sembra appunto che della giustizia e dell’ingiustizia si parli in molti sensi, ma essendo questi sensi assai vicini tra loro a causa della loro omonimia, essi

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sfuggono e non sono evidenti come invece accade nelle cose lontane tra loro. La differenza infatti è grande quando riguarda l’idea: ad esempio in greco si chiama egualmente ‘chiave’ sia la clavicola degli animali sia la chiave con cui si chiudono le porte. Vediamo dunque in quanti sensi si dice che uno è ingìusto. Sembra che ingiusto sia tanto il trasgressore della legge, quanto chi vuole avvantaggiarsi, quanto l’iniquo, per cui è evidente che anche il giusto sarà sia il rispettoso della legge sia l’equo. Perciò ciò che è giusto sarà quel ch’è legale e quel ch’è imparziale, ciò che è ingiusto sarà quel ch’è illegale e quel ch’è iniquo. [pag. 1129b] E poiché l’ingiusto è anche uomo che vuol avvantaggiarsi, si mostrerà tale intorno ai beni, ma non intorno a tutti, bensì intorno a quelli in cui v’è buona e cattiva fortuna, i quali in genere sono sempre beni, ma per qualcuno non lo sono sempre. Gli uomini li desiderano e li inseguono; però non bisogna fare così, bensì bisogna desiderare che quelli che sono beni in senso assoluto divengano beni anche per noi stessi e scegliere solo quelli che sono beni per noi. L’uomo ingiusto poi non sceglie sempre ciò ch’è più del dovuto, bensì sceglie anche il meno nel caso dei mali in genere: però, poiché sembra che anche il minor male sia in certo modo un bene, e la prepotente avidità concerne il bene, per questo egli sembra esser uomo che vuole avvantaggiarsi. Ed è anche iniquo: questo concetto poi abbraccia tutto ciò ed è quindi comune. Poiché dunque, come s’è detto, il trasgressore della legge è ingiusto, mentre il rispettoso della legge è giusto, è evidente che tutte le cose legali sono in certo modo giuste: infattì le cose stabilite dal potere legislativo sono legali, e noi diciamo che ciascuna di esse è giusta. Le leggi poi si pronunziano su ogni cosa, mirando o all’utilità comune a tutti o a quella di chi primeggia o per virtù, o in qualche altro modo simile; perciò con una sola espressione definiamo cose giuste quelle cose che procurano o salvaguardano la felicità o parti di essa alla comunità civile. La legge poi comanda anche di operare da uomo coraggioso, ad esempio di non abbandonare le file, di non fuggire e di non gettare lo scudo; e da uomo moderato, ad esempio di non compiere adulterio e oltraggio; e da uomo mansueto, ad esempio di non percuotere e di non far maldicenza; e parimenti secondo le altre virtù e colpe, prescrivendo alcune cose e vietandone altre. È retta poi la legge stabilita rettamente, peggiore quella improvvisata. Questa giustizia è dunque una virtù perfetta, ma non di per sé, bensì in relazione ad altro. E per questo spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù, e che né la stella della sera né quella del mattino siano cosi ammirabili; e, nel proverbio, diciamo:

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Nella giustizia è insieme compresa ogni virtù. Essa è una virtù sommamente perfetta, perché il suo uso è quello di una virtù perfetta; cíoè è perfetta, perché chi la possiede può servirsi di questa virtù anche nei riguardi di un altro e non solo di se stesso; infatti molti nelle proprie cose possono servirsi della virtù, ma non possono servirsene nelle cose che concernono altri. [pag. 1130a] E per questo sembra esser giusto il detto di Biante che ‘è la carica che fa conoscere l’uomo’: infatti chi esercita una carica è già in rapporto con altri e partecipa alla società. Proprio per questo poi la giustizia è la sola delle virtù che sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri: essa infatti compie ciò che è utile ad altri, sia ai capi, sia alla società. È dunque l’uomo peggiore colui che diventa reo verso se stesso e verso gli amici; mentre il migliore non è chi fa uso della virtù riguardo a se stesso, bensi riguardo ad altri: e questo è opera difficile. Questa giustizia dunque non è una virtù parziale, bensi è virtù completa, e l’ingiustizia che le si oppone non è un vizio parziale, ma è vizio completo. (In che cosa differisce poi la virtù da questa giustizia, è chiaro da ciò che s’è detto: entrambe infatti coincidono, ma la loro essenza non è la stessa, bensì in quanto essa riguarda gli altri è giustizìa, in quanto invece è una tal disposizione, in sé, è virtù.)

-–ooOoo–- [pag. 1134b] Capitolo vii (La giustizia naturale e legale [positiva] ) Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito. Per esempio, che il riscatto di un prigioniero sia di una mina, che si deve sacrificare una capra e non due pecore, e inoltre tutto quello che viene stabilito per legge per i casi particolari, per esempio, il sacrificio in onore di Brasida, e le norme derivate da decreti popolari. Alcuni ritengono che tutte le norme appartengano a questo secondo tipo di giustizia, perché ciò che è per natura è immutabile ed ha dovunque la stessa validità (per esempio, il fuoco brucia qui da noi come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giustizia sono mutevoli. Ma

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questo non è vero in senso assoluto, bensì solo in un certo senso: anzi, almeno tra li dèi, certamente, non è affatto vero, mentre tra noi uomini c’è una specie di giusto per natura, benché sia tutto mutevole; pur tuttavia, c’è un tipo di giusto che si fonda sulla natura ed uno che non si fonda sulla natura. Ora, tra le norme che possono essere anche diverse, è chiaro quale sia per natura e quale non sia per natura ma per legge, cioè per convenzione, se è vero che sia la natura sia la legge sono mutevoli. La medesima distinzione è adatta anche negli altri casi: per natura, infatti, la mano destra è più forte, eppure è possibile per chiunque diventare ambidestro. Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili [pag. 1135a] sono simili alle misure: infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si compra all’ingrosso sono più grandi, dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le norme di giustizia che non derivano dalla natura ma dall’uomo non sono le stesse dappertutto, perché non sono le stesse le costituzioni, ma una soltanto è dappertutto la migliore per natura. Ciascun tipo di norma giuridica, cioè di legge, è come l’universale nei riguardi del particolare; le azioni compiute, infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è una: la norma è un universale. C’è differenza, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una cosa è ingiusta o per natura o per una prescrizione di legge. Questa stessa cosa, quando è stata tradotta in azione, è un atto ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto ingiusto, bensì una cosa ingiusta. Lo stesso vale anche per l’atto di giustizia: in senso generale si chiama piuttosto “azione giusta”, mentre “atto di giustizia” si chiama l’atto che corregge un atto di ingiustizia. Ma su ciascun tipo di legge, sulla natura e sul numero delle loro forme e sulla natura dei loro oggetti si dovrà indagare in seguito .

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Aristotele Politica Traduzione R. Laurenti Primo libro [Bekker pag. 1256b] [Aristotele ha appena discusso l’arte di acquisizione ( crematistica ) naturale per amministratori della casa e dello stato] Cap. ix C’è un’altra forma d’acquisizione che in modo particolare chiamano, ed è giusto chiamare, crematistica, a causa della quale sembra non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà [pag. 1257a] : molti ritengono che sia una sola e identica con quella predetta per la sua affinità, mentre non è identica a quella citata e neppure molto diversa. Il vero è che delle due una è per natura, l’altra non è per natura e deriva piuttosto da una forma di abilità e di tecnica. Per trattarne prendiamo l’inizio di qui. Ogni oggetto di proprietà ha due usi: tutt’e due appartengono all’oggetto per se, ma non allo stesso modo per sé: l’uno è proprio, l’altro non è proprio dell’oggetto: ad es. la scarpa può usarsi come calzatura e come mezzo di scambio. Entrambi sono modi di usare la scarpa: così chi baratta un paio di scarpe con chi ne ha bisogno in cambio di denaro o di cibo, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso proprio, perché la scarpa non è fatta per lo scambio. Lo stesso vale per gli altri oggetti di proprietà. In realtà di tutto si può fare scambio: esso trae la prima origine da un fatto naturale, che cioè gli uomini hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno (per cui è anche chiaro che il piccolo commercio non fa parte per natura della crematistica, ché allora avrebbero dovuto fare lo scambìo ìn rapporto a quanto ad essi bastava). Nella prima forma di comunità, e cioè la famiglia, è evidente che lo scambio non ha alcuna funzione: esso sorge quando la comunità è già più numerosa. I membri della famiglia avevano in comune le stesse cose, tutte; una volta separati, ne ebbero in comune molte, e anche diverse – e di queste dovettero fare lo scambio secondo i bisogni, come ancora fanno molti dei popoli barbari, ricorrendo al baratto. Essi infatti scambiano oggetti utili contro oggetti utili ma non vanno al di là di questo, dando per es. o prendendo vino contro grano, e così via per ogni altro genere di tali prodotti. Un siffatto scambio non è contro natura e neppure è una forma di crematistica (giacché

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tendeva a completare l’autosufficienza voluta da natura): da questa, però, è sorta logicamente quella. Perché quando l’aiuto cominciò a venire da terre più lontane, mediante l’importazione di ciò di cui avevano bisogno e l’esportazione di ciò che avevano in abbondanza, s’introdusse di necessità l’uso della moneta. Infatti non si può trasportare facilmente tutto ciò che serve alle necessità naturali e quindi per effettuare il baratto si misero d’accordo di dare e prendere tra loro qualcosa che, essendo di per sé utile, fosse facile a usarsi nei bisogni della vita, come il ferro, l’argento e altri metalli del genere, definito dapprima alla buona mediante grandezza e peso mentre più tardi ci impressero anche uno stampo per evitare di misurarlo – e lo stampo fu impresso come segno della quantità. [pag. 1257b] Dunque, una volta trovata la moneta in seguito alla necessità dello scambio, sorse l’altra forma di crematistica, il commercio al minuto, esercitato dapprima probabilmente in forma semplice, ma che in seguito, grazie all’esperienza, divenne sempre più organizzato, cercando ormai le fonti e il modo di ricavare i più grossi profitti mediante lo scambio. Per questo, quindi, pare che la crematistica abbia da fare principalmente col denaro e che la sua funzione sia di riuscire a scorgere donde tragga quattrini in grande quantità, perché essa produce ricchezza e quattrini. Se spesso si ritiene che la ricchezza consista nel possedere molti denari è proprìo perché a questo tendono la crematistica e il commercio al minuto. Al contrario taluni ritengono la moneta un non senso, una semplice convenzione legale, senz’alcun fondamento in natura, perché, cambiato l’accordo tra quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per alcuna delle necessità della vita, e un uomo ricco di denari può spesso mancare del cibo necessario: certo, strana davvero sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta in abbondanza, lascia morire di fame, come appunto il mito tramanda di quel famoso Mida, il quale, per il voto suggerito dalla sua insaziabilità, trasformava in oro tutto quanto gli si presentava. Per ciò cercano una ricchezza e una crematistica che sia qualcosa di diverso, ed è ricerca giusta: in realtà la crematistica e la ricchezza naturale sono diverse perché l’una rientra nell’amministrazione della casa, l’altra nel commercio e produce ricchezza, ma non comunque, bensì mediante lo scambio di beni: ed è questa che, come sembra, ha da fare col denaro perché il denaro è principio e fine dello scambio. Ora, questa ricchezza, derivante da tale forma di

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crematistica, non ha limiti e, invero, come la medicina è senza limiti nel guarire, e le singole arti sono senza limiti nel produrre il loro fine, (perché è proprio questo che vogliono raggiungere soprattutto) mentre non sono senza limiti riguardo ai mezzi per raggiungerlo (perché il fine costituisce per tutte il limite), allo stesso modo questa forma di crematistica non ha limiti rispetto al fine e il fine è precisamente la ricchezza di tal genere e l’acquisto dei beni. Ma della crematistica che rientra nell’amministrazione della casa, si dà un limite giacché non è compito dell’amministrazione della casa quel genere di ricchezze. Sicché da questo punto di vista appare necessario che ci sia un limite a ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà avviene il contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematistica accrescono illimitatamente il denaro. Il motivo di questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica: e infatti l’uso che esse fanno della stessa cosa le confonde l’una con l’altra. In entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo stesso modo, ché l’una tende a un altro fine, l’altra all’accrescimento. Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell’amministrazione domestica e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza in denaro all’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene [pag. 1258a] , e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito bramano mezzi per appagarli. Quanti poi tendono a vivere bene, cercano quel che contribuisce ai godimenti del corpo e poiché anche questo pare che dipenda dal possesso di proprietà, tutta la loro energia si spende nel procurarsi ricchezze, ed è per tale motivo che è sorta la seconda forma di crematistica. Ora, siccome per loro il godimento consiste nell’eccesso, essi cercano l’arte che produce quell’eccesso di godimento e se non riescono a procurarselo con la crematistica ci provano per altra via, sfruttando ciascuna facoltà in maniera non naturale. Così non s’addice al coraggio produrre ricchezze ma ispirare fiducia, e neppure s’addice all’arte dello stratego o del medico, ché proprio della prima è procurare la vittoria, dell’altra la salute. Eppure essi fanno di tutte queste facoltà mezzi per procurarsi ricchezze, nella convinzione che sia questo il fine e che a questo fine deve convergere ogni cosa. Si è detto a proposito della crematistica non necessaria qual è e per quale motivo ne abbiamo bisogno, e a proposito di quella necessaria che è differente dall’altra, è parte dell’amministrazione della casa, è secondo natura, essa che bada ai mezzi di sostentamento, e non è, come l’altra, senza limiti, ma ha dei confini precisi.

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S. Tommaso d’Aquino (1225-74) Somma teologica (1265-73) Traduzione i Domenicani italiani IIa IIæ, Questione 64 L’omicidio

Eccoci a trattare dei vizi contrari alla giustizia commutativa. Prima di tutto parleremo dei peccati che si commettono nelle commutazioni involontarie; quindi di quelli che si commettono nelle commutazioni volontarie. Si commettono dei peccati nelle cominutazioni involontarie per il fatto che si infligge al prossimo un danno contro la sua volontà: e questo può avvenire in due modi, cioè con i fatti e con le parole. Con i fatti, quando si danneggia il prossimo o nella persona sua propria, o nei suoi congiunti, o negli averi. Perciò parleremo successivamente di codesti argomenti. E innanzi tutto dell’omicidio, che è il più grave tra i danni che colpiscono il prossimo. Su tale argomento si pongono otto quesiti: l. Se sopprimere gli animali, o le piante sia peccato; 2. Se sia lecito uccidere i peccatori; 3. Se ciò sia lecito a una persona privata, oppure solo all’autorità pubblica; 4. Se ciò sia lecito a un chierico; 5. Se sia lecito il suicidio; 6. Se sia lecito uccidere un innocente; 7. Se sia lecito uccidere un uomo per difendere se stessi; 8. Se l’omicidio involontario sia peccato mortale.

ARTICOLO 1 Se sia proibito sopprimere qualsiasi essere vivente. SEMBRA che sia proibito uccidere qualsiasi essere vivente. Infatti: l. L’Apostolo afferma: «Chi resiste all’ordine voluto da Dio, attira su se stesso una condanna». Ora, l’ordine della divina provvidenza vuole che tutti i viventi si conservino in vita, secondo le parole del Salmo: «Dio fa crescere il fieno sui monti, e dà al bestiame il suo nutrimento». Dunque è illecito sopprimere la vita di qualsiasi vivente. 2. L’omicidio è peccato perché con esso un uomo viene privato della vita. Ma la vita è comune a tutte le piante e a tutti gli animali. Quindi per lo stesso motivo è peccato sopprimere gli animali e le piante.

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3. Nella legge divina non viene determinata una pena, se non per un peccato. Ma nella legge divina viene determinata una punizione per chi uccide le pecore, e i buoi altrui. Dunque l’uccisione degli animali è peccato. IN CONTRARIO: S. Agostino insegna: «Quando leggiamo di ‘Non uccidere’, dobbiamo intendere che il comando non è per le piante, poiché son prive di sentimento; e neppure per gli animali bruti, perché essi non hanno nessuna affinità di ordine razionale con noi. Perciò il precetto di ‘Non uccidere’ va inteso esclusivamente per l’uomo». RISPONDO: Nessuno pecca per il fatto che si serve di un essere per lo scopo per cui è stato creato. Ora, nella gerarchia degli esseri quelli meno perfetti son fatti per quelli più perfetti: del resto anche nell’ordine genetico si procede dal meno perfetto al perfetto. Come, dunque, nella generazione dell’uomo prima abbiamo il vivente, poi l’animale e finamente l’uomo; così gli esseri che sono solo viventi, ossia le piante, son fatte ordinariamente per gli animali; e gli aniniali son fatti per l’uomo. Perciò se l’uomo si serve delle piante per gli animali e degli animali per gli uomini, non c’è niente d’illecito, come il Filosofo stesso dimostra. E il più necessario dei servizi è appunto quello di dare le piante in cibo agli animali, e gli animali all’uomo: il che è impossibile senza distruggere la vita. Dunque è lecito sopprimere le piante per uso degli animali, e gli animali per uso dell’uomo in forza dell’ordine stesso stabilito da Dio: «Ecco che io vi ho dato come cibo a voi e a tutti gli anirnali tutte le erbe e tutti gli alberi». E altrove si legge: «Sarà vostro cibo tutto ciò che ha moto e vita». SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: l. Secondo l’ordine stabilito da Dio la vita degli animali e delle piante non viene conservata per se stessa, ma per l’uomo. Ecco perché S. Agostino scriveva: «Secondo l’ordine sapientissimo del Creatore la loro vita e la loro morte sono subordinate al nostro vantaggio». 2. Gli animali e le piante non hanno la vita razionale, per governarsi da se stessi, ma sono sempre come governati da altri mediante un istinto naturale. E in questo abbiamo il segno che essi sono subordinati per natura, e ordinati all’uso di altri esseri. 3. Chi uccide il bove di un altro non pecca perché uccide un bove, ma perché danneggia un uomo nei suoi averi. Ecco perché questo fatto non è elencato tra i peccati di omicidio, ma tra quelli di furto o di rapina.

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ARTICOLO 2 Se sia lecito uccidere i peccatori. SEMBRA che non sia lecito uccidere i peccatori. Infatti: l. Il Signore nella celebre parabola evangelica proibisce di estirpare la zizzania, che sono «i figli del peccato». Ma tutto ciò che Dio proibisce è peccato. Dunque uccidere i peccatori è peccato. 2. La giustizia umana deve conformarsi alla giustizia divina. Ora, la giustizia divina sopporta i peccatori perché facciano penitenza, secondo le parole della Scrittura: «Io non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva». Quindi è assolutamente ingiusto uccidere i peccatori. 3. Ciò che in se stesso è male non può, per un fine buono, diventare lecito, come insegnano concordemente S. Agostino e Aristotele. Ma uccidere un uomo è in se stesso un male: poiché siamo tenuti ad amare con la carità tutti gli uomini; e, a detta di Aristotele, gli amici «vogliaino che vivano ed esistano». Perciò in nessun modo è lecito uccidere un peccatore. IN CONTRARIO: Nell’ Esodo si legge: «Non lascerai vivere gli stregoni»; e nei Salmi : «Di buon mattino sterminerò tutti i peccatori della regione». RISPONDO: In base a quello che abbiamo detto, è lecito uccidere gli animali bruti in quanto essi sono ordinati per natura all’utilità dell’uomo, come le cose meno perfette sono ordinate a quelle perfette. Ora, qualsiasi parte è ordinata al tutto come ciò che è meno perfetto è ordinato a un essere perfetto. Perciò la parte è per natura subordinata al tutto. Ecco perché, nel caso che lo esiga la salute di tutto il corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e cancrenoso. Ebbene, ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto. E quindi se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune; infatti, come dice S. Paolo: «Un po’ di fermento può corrompere tutta la massa». SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: l. Il Signore comandò di non sradicare la zizzania per risparmiare il grano, cioè i buoni. E questo è da osservarsi quando non è possibile uccidere i cattivi senza l’uccisione dei buoni: o perché essi sono mescolati tra questi; oppure perché, come nota S. Agostino, avendo essi troppi seguaci, non si possono sopprimere senza mettere in pericolo i buoni. Ecco perché il Signore

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comanda di tollerare l’esistenza dei malvagi, rinviandone il castigo all’ultimo giudizio, piuttosto che uccidere con essi anche i buoni. Quando invece la loro uccisione non costituisce un pericolo, ma piuttosto una difesa e uno scampo per i buoni, allora è lecito uccidere i malvagi. 2. Secondo l’ordine della sua sapienza, Dio talora i peccatori li sopprime subito per la liberazione dei buoni; talora invece concede loro il tempo di pentirsi, in vista della futura salvezza dei suoi eletti. E la giustizia umana lo imita per quanto è possibile anche in questo: essa infatti sopprime quelli che son nocivi per gli altri; mentre lascia il tempo di pentirsi a quelli che non sono di grave danno per gli altri. 3. Col peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione: egli perciò decade dalla dignità umana, che consiste nell’esser liberi e nell’esistere per se stessi, degenerando in qualche modo nell’asservimento delle bestie, che implica la subordinazione all’altrui vantaggio. Così infatti si legge nella Scrittura: «L’uomo non avendo compreso la sua dignità, è disceso al livello dei giumenti privi di senno, e si è fatto simile ad essi»; e ancora: « L’insensato sarà lo schiavo di chi è saggio». Perciò sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una bestia: infatti un uomo cattivo, come insiste a dire il Filosofo, è peggiore e più nocivo di una bestia.

ARTICOLO 3 Se sia lecito a una persona privata uccidere i colpevoli. SEMBRA che una persona privata abbia la facoltà di uccidere i colpevoli. Infatti: l. La legge di Dio non può comandare niente d’illecito. Ora, nell’ Esodo , per il peccato del vitello d’oro, Mosè diede questo comandamento: «Uccida ciascuno il proprio congiunto, il fratello e l’amico». Dunque anche alle persone private è lecito uccidere i colpevoli. 2. Col peccato, come abbiamo detto, un uomo si rende simile alle bestie. Ma qualsiasi persona privata può uccidere un animale selvatico, specialmente se nocivo. E quindi, per lo stesso motivo, potrà uccidere un uomo colpevole. 3. E cosa degna di lode che uno, pur essendo una persona privata, compia le azioni che sono utili al bene comune. Ora, l’uccisione dei malfattori, come abbiamo già dimostrato, è utile al bene comune. Dunque è cosa lodevole che anche una persona privata uccida i malfattori.

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IN CONTRARIO: S. Agostino insegna: «Chi uccide un malfattore senza nessun pubblico mandato sarà condannato come omicida; e tanto più gravemente in quanto si è arrogato un potere che Dio non gli aveva concesso». RISPONDO: Come abbianio già dimostrato, è lecito uccidere un malfattore in quanto la sua uccisione è ordinata alla salvezza di tutta la collettività. Essa perciò spetta soltanto a colui, al quale è affidata la cura della sicurezza collettiva: come spetta al medico, cui è stata affidata la cura di tutto un organismo, procedere al taglio di un membro malato. Ma la cura del bene comune è affidata ai principi investiti della pubblica autorità. Perciò ad essi soltanto è lecito uccidere i malfattori, non già alle persone private. SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: l. Come nota Dionigi, il vero responsabile di un’azione è colui sotto la cui autorità viene fatta. Ecco perché, a detta di S. Agostino, «non uccide colui che è tenuto a prestare la sua opera a chi comanda, come la spada nelle mani di chi se ne serve». Perciò coloro che uccisero i parenti e gli amici per comando di Dio non sono da considerarsi loro come gli autori del fatto, ma piuttosto colui del quale rispettarono l’autorità: allo stesso modo che il soldato uccide il nemico per l’autorità del principe, e il boia che uccide un brigante per l’autorità del giudice. 2. Una bestia differisce dall’uomo per natura. E quindi non si richiede per ucciderla nessun giudizio, se è selvatica. Se invece è una bestia domestica, si va incontro a un giudizio, non per l’animale in se stesso, ma per il danno arrecato al suo padrone. Il colpevole invece non differisce per natura dagli uomini onesti. E quindi si richiede un processo, per decidere se è degno di essere ucciso per il bene della società. 3. Qualsiasi persona privata ha la facoltà di compiere cose utili al bene comune, che non danneggiano nessuno. Ma se danneggiano qualcuno, non si possono fare che a giudizio di coloro cui spetta determinare il sacrificio da imporre alle parti per la salvezza del tutto.

ARTICOLO 4 Se uccidere i malfattori sia lecito ai chierici. SEMBRA che uccidere i malfattori sia lecito ai chierici. Infatti: 1. I chierici specialmente son tenuti ad eseguire il comando dell’Apostolo: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo», comando che ci impegna ad imitare Dio e i suoi santi. Ora,

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il Dio che noi adoriamo uccide direttamente i malfattori, secondo l’espressione dei Salmi : «Egli ha colpito gli egiziani nei loro primogeniti». Inoltre Mosè fece uccidere dai leviti ventitremila uomini per l’adorazione del vitello d’oro. E il sacerdote Finees uccise l’israelita che stava peccando con una madianita. Samuele poi uccise Agag re di Amalec; Elia trucidò i sacerdoti di Baal; Matatia mise a morte l’apostata che si apprestava a sacrificare; e nel Nuovo Testamente Pietro punì con la morte Anania e Saffira. Perciò anche ai chierici è lecito uccidere i malfattori. 2. Il potere spirituale è superiore a quello temporale, e più vicino a Dio. Ora, il potere temporale ha la facoltà di uccidere i malfattori quale «ministro di Dio», come si esprime S. Paolo. A maggior ragione, quindi, possono ucciderli lecitamente i chierici, che sono ministri di Dio nell’esercizio di un potere spirituale. 3. Chi lecitamente ha ricevuto un ufficio può esercitarne lecitamente i compiti. Ma è compito di un principe temporale anche uccidere i malfattori, come sopra abbiamo dimostrato. Perciò i chierici che sono principi temporali possono uccidere i malfattori. IN CONTRARIO: Sta scritto: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non dedito al vino, non pronto a colpire». RISPONDO: Ai chierici non è permesso uccidere per due motivi. Primo, perché sono incaricati del servizio dell’altare, in cui viene rappresentata la passione di Cristo crocifisso, il quale, come dice S. Pietro, «percosso non ripercuoteva». Ecco perché ripugna che i chierici percuotano e uccidano: i ininistri infatti devono imitare il loro Signore, secondo le parole dell’ Ecclesiastico: «Com’è il capo del popolo, così i suoi ministri». La seconda ragione sta nel fatto che i chierici sono incaricati del ministero della nuova legge, in cui non vengono prescritte pene di morte o di mutilazioni corporali. Perciò affinché essi siano «ministri idonei della nuova Alleanza», devono astenersi da tali cose. SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: l. Dio, quale causa universale, compie in tutti gli esseri ogni retta operazione, però secondo la convenienza di ciascuno di essi. Perciò ognuno deve imitare Dio secondo le esigenze del proprio stato. Quindi sebbene Dio sopprima anche fisicamente i malfattori, non tutti sono in questo autorizzati ad imitarlo. S. Pietro poi non uccise Anania e Saffira con le proprie mani o col suo potere; ma piuttosto promulgò la loro sentenza di morte stabilita da Dio. I sacerdoti e i leviti dell’antico Testamento erano ministri dell’antica legge, la quale infliggeva pene corporali: ecco

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perché era loro concesso di uccidere con le loro mani. 2. Il ministero dei chierici è ordinato a un fine superiore a quello che giustifica le esecuzioni capitali, cioè alla salvezza delle anime. Perciò ripugna che essi s’interessino di cose più meschine. 3. I prelati della Chiesa, pur accettando l’ufficio di principi secolari, non pronunziano da se stessi sentenze capitali, ma ne dànno l’incombenza ad altri.

ARTICOLO 5 Se sia lecito il suicidio. SEMBRA che sia lecito suicidarsi. Infatti: l. L’omicidio è peccato perché contrario alla giustizia. Ma a detta di Aristotele, nessuno può mancare alla giustizia verso se stesso. Dunque nessuno pecca uccidendo se stesso. 2. Chi detiene il potere ha la facoltà di uccidere i malfattori. Ma talora chi detiene il potere è un malfattore. Egli quindi è autorizzato a uccidere se stesso. 3. E lecito esporsi spontaneamente a un pericolo minore, per evitarne uno più grave: come è lecito amputarsi un membro malato per salvare l’intero corpo. Ora, in certi casi uno uccidendo se stesso evita un male peggiore, e cioè una vita di miseria, o la vergogna di un peccato. Dunque è lecito in certi casi il suicidio. 4. Sansone, che da S. Paolo è ricordato tra i santi, uccise se stesso. Dunque il suicidio può esser lecito. 5. Nel Libro dei Maccabei si legge che Razis si uccise «preferendo piuttosto morire nobilmente che cadere nelle mani dei peccatori e subire oltraggi indegni della propria nobiltà». Ma ciò che si compie con nobiltà e coraggio è lecito. Dunque il suicidio non è illecito. IN CONTRARIO: S. Agostino afferma: «Il precetto di ‘Non ammazzare’ va riferito all’uomo. E cioè non uccidere nè gli altri nè te stesso. Infatti chi uccide se stesso non fa altro che uccidere un uomo». RISPONDO: Il suicidio è assolutamente illecito per tre motivi. Primo, perché per natura ogni essere ama se stesso; e ciò implica la tendenza innata a conservare se stessi e a resistere per quanto è possibile a quanto potrebbe distruggerci. Perciò l’uccisione di se stessi è contro l’inclinazione naturale, e contro la carità con la quale uno deve amare se stesso. E quindi il

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suicidio è sempre peccato mortale, essendo incompatibile con la legge naturale e con la carità. Secondo, perché la parte è essenzialmente qualche cosa del tutto. Ora, ciascun uomo è parte della società; e quindi è essenzialmente della collettività. Perciò uccidendosi fa un torto alla società, come insegna il Filosofo. Terzo, la vita è 1 un dono divino, che rimane in potere di colui il quale «fa vivere e fa morire». Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio: come chi uccide uno schiavo pecca contro il suo padrone; e come commette peccato chi si arroga il diritto di giudicare cose che non lo riguardano. Infatti a Dio soltanto appartiene il giudizio di vita e di morte, secondo le parole della Scrittura: «Sono io a far morire e far vivere».’ SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: l. L’omicidio è peccato non solo perché contrario alla giustizia, ma anche perché contrario alla carità che uno deve a se stesso. E da questo lato il suicidio è un peccato anche verso se stessi. Invece in rapporto alla società e a Dio esso ha natura di peccato anche perché è contrario alla giustizia. 2. Chi detiene i pubblici poteri ha la facoltà di uccidere i malfattori, perché ha il compito di giudicarli. Ma, nessuno è giudice di se stesso. Ecco perché chi comanda non può uccidere se stesso per nessun peccato. Tuttavia egli ha la facoltà di sottoporsi al giudizio di altri. 3. L’uomo viene costituito padrone di sè dal libero arbitrio. Egli quindi può disporre di se stesso per le cose che riguardano la vita presente regolate dal libero arbitrio. Ma il passaggio da questa vita a un’altra più felice non dipende dal libero arbitrio dell’uomo, bensi dall’intervento di Dio. Perciò all’uomo non è lecito uccidere se stesso, per passare a una vita più felice: E neppure gli è lecito, per sfuggire qualsiasi miseria della vita terrena. Poiché, a detta del Filosofo, la morte «è l’ultimo e il più tremendo» tra i mali della vita presente; cosicché darsi la morte per sfuggire le altre miserie di questa vita, equivale ad affrontare un male più grave per evitarne uno minore. Parimenti non è lecito suicidarsi per un peccato commesso. Sia perché in tal modo uno danneggia se stesso in maniera gravissima, privandosi del tempo necessario per far penitenza. E sia anche perché l’uccisione dei malfattori è rimessa al giudizio dei pubblici poteri.

1 I domenicani sopprimono la parola ‘ quodammodo : ‘in qualche modo’. [nota di Davies]

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Così non è lecito uccidersi a una donna per non essere violentata. Poiché essa non deve commettere il delitto più grave verso se stessa, qual è appunto il suicidio, per evitare il delitto minore di un altro (infatti una donna violentata, quando manca il consenso, non commette peccato: perché come disse S. Lucia, «il corpo non rimane insozzato, se non per il consenso dell’anima»). Si sa, infatti, che la fornicazione, o l’adulterio sono peccati meno gravi dell’omicidio: specialmente poi del suicidio, che è gravissimo, poiché cosi uno nuoce a se stesso, che è tenuto ad amare più di ogni altro. Inoltre è il peccato più pericoloso; perché non lascia il tempo per l’espiazione. Finalmente a nessuno è lecito uccidere se stesso per paura di acconsentire al peccato. A detta di S. Paolo, infatti, «non si deve fare il male perché ne venga un bene», o per evitare la colpa, specialmente se si tratta di colpe minori e meno sicure. Ora, uno non può esser sicuro che in seguito consentirà al peccato: poiché il Signore in qualsiasi tentazione può liberare un uomo dalla colpa. 4. Come spiega S. Agostino, «Sansone non si può scusare dall’aver seppellito se stesso assieme ai nemici distruggendo l’edificio, se non per un segreto comodo dello Spirito Santo, il quale faceva miracoli per mezzo suo». E allo stesso modo egli giustifica la condotta di alcune sante donne venerate dalla Chiesa, che durante la persecuzione si uccisero da se stesse. 5. È un atto di coraggio affrontare per la virtù la morte inflitta da altri, per evitare il peccato. Ma il dare la morte a se stessi per evitare delle sofferenze ha una certa parvenza di coraggio, per cui alcuni si sono uccisi così pensando di agire coraggiosamente, e tra questi c’è appunto Razis: ma non si tratta di vero coraggio, bensì di una certa pusillanimità, incapace di affrontare la sofferenza, come nota sia il Filosofo, che S. Agostino.

ARTICOLO 6 Se in qualche caso sia lecito uccidere un innocente. SEMBRA che in qualche caso sia lecito uccidere un innocente. Infatti: l. Il timor di Dio certo non si manifesta col peccato: che anzi «il timore di Dio allontana il peccato». Ora, Abramo viene lodato per aver temuto Dio con la sua decisione a uccidere il figlio innocente. Dunque uno può uccidere un innocente senza far peccato. 2. Nei peccati contro il prossimo una colpa è tanto più grave, quanto maggiore è il danno che si

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commette. Ma l’uccisione arreca più danno al colpevole che all’innocente, il quale con la morte passa dalla miseria di questa vita alla gloria celeste. Perciò, siccome in certi casi è lecito uccidere i colpevoli, molto più è lecito uccidere un giusto, o un innocente. 3. Ciò che si compie secondo l’ordine della giustizia non è peccato. Ma talora secondo l’ordine della giustizia uno è costretto a uccidere l’innocente: il giudice, p. es., che è tenuto a giudicare secondo le disposizioni, è costretto a condannare a morte una persona convinta da falsi testimoni, che egli invece conosce essere innocente; lo stesso si dica del boia, il quale uccide chi è condannato ingiustamente, ubbidendo al giudice. Dunque uno, senza peccato, può uccidere un innocente. IN CONTRARIO: Sta scritto: «Non uccidere l’innocente e il giusto». RISPONDO: Un uomo si può considerare sotto due aspetti: in se stesso, e in rapporto agli altri. Considerato in se stesso nessun uomo può essere ucciso lecitamente: perché in ciascuno, anche se peccatore, dobbiamo amare la natura, che è stata creata da Dio, e che viene distrutta dall’uccisione. Invece l’uccisione del colpevole diviene lecita, come sopra abbiamo detto, in vista del bene comune, che il peccato compromette. Ora, la vita dei giusti serve a conservare e a promuovere il bene comune: poiché essi costituiscono la parte più nobile della società. Perciò in nessun modo è lecito uccidere un innocente. SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: l. Dio è padrone della vita e della morte: e quindi per suo ordine muoiono sia i peccatori che i giusti. Perciò chi uccidesse l’innocente per comando di Dio non peccherebbe, come non pecca Dio, di cui eseguisce la volontà; e mostrerebbe di temere Dio, obbedendo ai suoi comandi. 2. Nel misurare la gravità di un peccato si devono considerare più gli elementi essenziali che quelli accidentali. Ecco perché chi uccide il giusto pecca più gravemente di chi uccide il peccatore. Primo, perché nuoce a una persona che è tenuto ad amare di più: e quindi il suo agire è più in contrasto con la carità. Secondo, perché fa un torto a chi meno lo merita: e quindi offende maggiormente la giustizia. Terzo, perché priva la società di un bene maggiore. Quarto, perché disprezza maggiormente Dio, avendo egli detto per i giusti quelle parole:, «Chi disprezza voi disprezza me». – Il fatto, invece, che il giusto ucciso viene da Dio accolto nella gloria, è accidentale all’uccisione. 3. Il giudice, quando fosse persuaso che un accusato, convinto dalle false testimonianze, è

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innocente, deve riesaminare i testimoni con maggiore diligenza, per trovare il modo di liberarlo, come fece Daniele. Ma se non può far questo, deve rimandare l’accusato a un giudice superiore. E se anche questo è impossibile, non pecca dando la sentenza in base alle deposizioni: allora infatti non è lui che uccide l’innocente, ma gli accusatori. Il carnefice poi che è alle dipendenze di un giudice il quale condanna l’innocente, se la sentenza implica un errore patente, non deve ubbidire: altrimenti sarebbero da scusarsi i carnefici che uccisero i martiri. Se invece non c’è un’ingiustizia patente, allora egli non pecca eseguendo una condanna: poiché egli non è in grado di discutere la sentenza del suo superiore; e non è lui ad uccidere l’innocente, ma il giudice di cui è l’esecutore materiale.

ARTICOLO 7 Se sia permesso uccidere per difendersi. SEMBRA che non sia lecito a nessuno uccidere per difendersi. Infatti : l. S. Agostino scrive: «Non mi sembra bene consigliare a nessuno di uccidere altri uomini, sia pure in propria difesa, a meno che non si tratti di soldati o di altri che abbiano ufficialmente codesto compito, non per se stessi, ma per il bene altrui». Ma chi per difendersi uccide un altro, l’uccide per non essere ucciso lui. Dunque è una cosa illecita. 2. «Come saranno esenti da peccato», dice ancora S. Agostino, «coloro che si sono macchiati dell’uccisione di un uomo per cose che siano tenuti a disprezzare?». E codeste cose da disprezzare son quelle «che gli uomini possono perdere involontariamente». Ora, la vita del corpo è appunto tra quelle. Dunque non è mai lecito uccidere un uomo per conservare la vita corporale. 3. Il Papa Niccolò I ha dato questa risoluzione, riportata dal Decreto: «Riguardo a quei chierici per i quali mi hai chiesto, se possono con la penitenza tornare al loro stato precedente, o ascendere a un grado superiore, dopo aver ucciso un pagano per difendersi, sappi che noi non vogliamo dare ad essi nessuna occasione e nessuna licenza di uccidere un uomo in qualsiasi maniera». Ma a osservare i precetti morali son tenuti ugualmente chierici e laici. Perciò anche ai laici è proibito di uccidere chiunque nel difendersi. 4. L’omicidio è un peccato più grave della semplice fornicazione, o dell’adulterio. Ora, a nessuno è permesso commettere una semplice fornicazione, o un adulterio, o qualsiasi altro peccato mortale per conservare la propria vita: poiché la vita spirituale si deve preferire alla vita

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corporale. Perciò nessuno può uccidere un altro per conservare la propria vita. 5. Se l’albero è cattivo, è cattivo anche il frutto, come dice il Vangelo. Ma la propria difesa è illecita, come risulta dalle parole di S. Paolo: «Non vi difendete, o carissimi». Dunque è illecita anche l’uccisione che ne deriva. IN CONTRARIO: Nella Scrittura si legge: «Se un ladro sarà trovato a sforzare una porta o a sfondare un muro, e verrà ferito e ucciso, il feritore non sarà colpevole del sangue di lui». Ora, è molto più lecito difendere la propria vita che la propria casa. Se uno, quindi, uccide un uomo per difendere la propria vita, non è reo di omicidio. RISPONDO: Niente impedisce che un atto abbia due effetti, di cui l’uno intenzionale e l’altro involontario. Gli atti morali però ricevono la specie da ciò che è intenzionale, non da ciò che è involontario, essendo questo un elemento accidentale, come sopra abbiamo visto. Perciò dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore. Orbene, codesta azione non può considerarsi illecita, per il fatto che con essa s’intende di conservare la propria vita: poiché è naturale per ogni essere conservare per quanto è possibile la propria esistenza. Tuttavia un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine. Se quindi uno nel difendere la propria vita usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita: infatti il diritto stabilisce, che «è lecito respingere la violenza con la violenza nei limiti della legittima difesa». Non è quindi necessario per la salvezza dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui. Siccome però spetta solo alla pubblica autorità uccidere un uomo per il bene comune, come sopra abbiamo detto, è illecito che un uomo miri direttamente a uccidere per difendere se stesso, a meno che non abbia un incarico pubblico che a ciò lo autorizzi per il pubblico bene: com’è evidente per il soldato che combatte contro i nemici e per le guardie che affrontano i malviventi. Anche questi però peccano, se sono mossi da risentimenti personali. SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: l. L’affermazione di S. Agostino va applicata nel caso che uno abbia l’intenzione diretta di uccidere per liberare se stesso dalla morte. 2. E a codesto caso va applicata anche l’altra frase del Santo.

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Ecco perché egli dice espressamente: «per cose che.... » ; indicando con tale particella l’intenzione. È cosi risolta anche la seconda difficoltà. 3. L’irregolarità accompagna sempre l’uccisione di un uomo, anche se avviene senza colpa: cioè è evidente nel caso del giudice il quale giustamente pronunzia una sentenza capitale. Ecco perché un chierico, anche se uccide per difesa personale, è irregolare sebbene non abbia l’intenzione di uccidere, ma solo di difendersi. 4. La fornicazione e l’adulterio non sono necessariamente ordinate alla conservazione della propria vita come talora lo sono gli atti dai quali scaturisce l’omicidio. 5. In quel testo vien proibita la difesa accompagnata dal livore della vendetta. La Glossa infatti precisa così: «Non vi difendete; cioè: Non ripagate l’avversario con le stesse ferite».

ARTICOLO 8 Se chi uccide casualmente un uomo sia colpevole di omicidio. SEMBRA che uno il quale uccide casualmente un uomo sia colpevole di omicidio. Infatti: l. Si legge nella Genesi, che Lamec, credendo di uccidere una bestia, uccise un uomo, e gli fu imputato per omicidio. Dunque chi uccide casualmente un uomo è colpevole di omicidio. 2. L’Esodo prescriv e che «se uno percuote una donna incinta e la fa abortire, e ne seguirà poi la morte, renderà vita per vita». Ma questo può avvenire anche senza l’intenzione di uccidere. Perciò l’omicidio involontario implica il reato di omicidio. 3. Nel Decreto ci sono diversi canoni in cui si puniscono gli omicidi involontari. Ma la punizione non è dovuta che alla colpa. Perciò chi casualmente uccide un uomo è colpevole di omicidio. IN CONTRARIO: S. Agostino afferma: «Non sia mai che ci venga imputato quel male occasionale con cui possiamo colpire qualcuno, mentre noi facciamo per il bene delle azioni lecite». Ora, capita talora che mentre uno sta facendo qualche cosa per il bene, casualmente ne segua l’uccisione di un uomo. Dunque a chi ne è responsabile ciò non è imputato come colpa. RISPONDO: Come insegna il Filosofo, il caso è una causa preterintenzionale. Perciò le cause casuali, assolutamente parlando, non sono intenzionali nè volontarie. E poiché, secondo il detto di S. Agostino, ogni peccato è volontario, ne viene che le cose casuali in quanto tali non sono peccati. Però può capitare che quanto non è oggetto diretto di volizione e di intenzione, sia voluto

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e inteso accidentalmente [o indirettamente], cioè come può esserlo una causa removens prohibens. Perciò se non si toglie la causa da cui può seguire l’uccisione di un ‘ uomo, quando si è tenuti a f arlo, l’uccisione in qualche modo è volontaria. Ora, questo può avvenire in due modi: primo, quando l’uccisione capita mentre uno compie cose illecite che era tenuto a evitare; secondo, quando uno non prende le dovute precauzioni. Ecco perché secondo il diritto, se uno nel compiere una cosa lecita con le debite precauzioni provoca l’uccisione di un uomo, non incorre il reato di omicidio; se invece egli provoca la morte di un uomo nel compiere una cosa illecita, oppure nel compiere cose lecite non prende le dovute precauzioni, non può sfuggire il reato di omicidio. SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: l. Lamec non usò le debite precauzioni per evitare l’uccisione di un uomo, ecco perché incorse nel reato di omicidio. 2. Chi percuote una donna incinta compie un’opera illecita. Perciò, se ne segue la morte della donna o del bambino già formato, non può evitare la responsabilità dell’omicidio: specialmente se la morte segue quasi immediatamente le percosse. 3. I canoni impongono una punizione a coloro che uccidono casualmente, nel compiere cose illecite, oppure a coloro che non usano le debite precauzioni.

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Thomas Hobbes (1588-1679) Leviatano (1651) Traduzione G. Micheli Libro I Cap. XIII: Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua felicità e la sua miseria

LA NATURA ha fatto gli uomini cosi uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, sebbene si trovi talvolta un uomo manifestamente più forte fisicamente o di mente più pronta di un altro, pure quando si calcola tutto insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole, che un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un altro non possa pretendere, tanto quanto lui. Infatti riguardo alla forza corporea, il più debole ha forza sufficiente per uccidere il più forte, o con segreta macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui nello stesso pericolo. E quanto alla facoltà della mente (lasciando da parte le arti fondate sulle parole, e specialmente quell’abilità di procedere sulla base di regole generali e infallibili, chiamata scienza, che molto pochi hanno e solo in poche cose, non essendo una facoltà naturale, nata con noi, ne conseguita, come la prudenza, mentre ci si occupa di qualcos’altro) io trovo tra gli uomini una eguaglianza ancora più grande di quella della forza. Infatti la prudenza non è che esperienza, ed un tempo eguale la conferisce in egual misura a tutti gli uomini, in quelle cose in cui si applicano in egual misura. Ciò che può forse rendere incredibile una tale eguaglianza non è che un vano concetto della propria saggezza, che quasi tutti gli uomini pensano di avere in un grado maggiore del volgo, cioè di tutti gli uomini, tranne se stessi e pochi altri che approvano per la loro fama, o perché concordano con essi. Tale è infatti la natura degli uomini, che, per quanto possano riconoscere che molti altri sono più saggi o più eloquenti, o più dotti, pure difficilmente crederanno che ci siano molti saggi tanto quanto lo sono essi, poiché vedono il loro ingegno da vicino e quello degli altri uomini a distanza. Ma questo prova che gli uomini sono eguali in quel punto, piuttosto che diseguali. Infatti ordinariamente non c’è segno più grande di egual distribuzione di qualcosa, del fatto che ogni uomo è contento della propria parte.

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Da questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza di conseguire i nostri fini. E perciò, se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria conservazione, e talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. Onde accade che dove un aggressore non ha più da temere che il potere singolo di un altro uomo, se uno pianta, semina, costruisce o possiede un fondo conveniente, ci si può probabilmente aspettare che altri, preparatisi con forze riunite, vengano per spossessarlo e privarlo non solo del frutto della sua fatica, ma anche della sua vita o della libertà. E l’aggressore è di nuovo in un pericolo simile a quello in cui era l’altro. Da questa diffidenza delluno verso l’altro non c’è via così ragionevole per ciascun uomo di assicurarsi, come l’anticipazione, cioè il padroneggiare con la forza o con la furberia quante più persone è possibile, tanto a lungo, finché egli veda che nessun altro potere è abbastanza grande per danneggiarlo; e questo non è più di ciò che la propria conservazione richiede, ed è generalmente concesso. Inoltre, per il fatto che ci sono alcuni che prendono piacere nel contemplare il proprio potere in atti di conquista, che essi spingono più lontano di quanto richieda la loro sicurezza, se gli altri, che diversamente sarebbero lieti di starsene quieti entro modesti limiti. non accrescessero con l’aggressione il loro potere, non sarebbero in grado, con lo stare solo sulla difensiva. di sussistere a lungo. Di conseguenza, tale aumento di dominio sugli uomini, essendo necessario per la conservazione dell’uomo, deve essergli concesso. Ancora, gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti. Ogni uomo infatti bada che il suo compagno lo valuti allo stesso grado in cui egli innalza se stesso; e ad ogni segno di disprezzo o di scarsa valutazione, naturalmente si sforza, per quanto osa (e ciò tra coloro che non hanno alcun potere comune che li tenga quieti, è di gran lunga sufficiente a far sì che si distruggano l’un l’altro) di estorcere una valutazione più grande, da quelli che lo disprezzano arrecando loro danno e dagli altri con l’esempio. Cosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo l’orgoglio. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle

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persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso per difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e qualunque altro segno, di scarsa valutazione, o direttamente nei riguardi delle loro persone, o di riflesso nei riguardi della loro parentela, dei loro amici, della loro nazione, della loro professione o del loro nome. Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La GUERRA , infatti, non consiste solo nella battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in battaglia; perciò la nozione del tempo va considerata nella natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti, come la natura delle condizioni atmosferiche cattive non sta solo in un rovescio o due di pioggia, ma in una inclinazione a ciò di parecchi giorni insieme, così la natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario. Ogni altro tempo, è GUERRA . Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione non c’è posto per l’industria, perché iI frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, animalesca e breve. Può sembrare strano a chi non abbia bene ponderato queste cose che la natura abbia così dissociato gli uomini e li abbia resi atti ad aggredirsi e distruggersi l’un l’altro e perciò, non fidandosi di questa inferenza, tratta dalle passioni, può desiderare forse che gli sia confermata dall’esperienza. Perciò, consideri tra sé che, quando intraprende un viaggio, si arma e cerca di andare bene accompagnato; che quando va a dormire, chiude le porte; che anche quando è nella sua casa, chiude i forzieri e ciò quando sa che ci sono leggi e pubblici ufficiali armati per

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vendicare tutte le ingiurie che gli dovessero essere fatte; quale opinione egli ha dei suoi consudditi, quando cavalca armato; dei suoi concittadini, quando chiude le porte; dei suoi figli e dei suoi servitori, quando chiude i forzieri. Non accusa egli l’umanità con le sue azioni, come faccio io con le mie parole? Ma nessuno di noi accusa in ciò la natura dell’uomo. I desideri e le altre passioni dell’uomo, in se stessi, non sono peccato. Neppure lo sono le azioni che procedono da quelle passioni, finché non si conosce una legge che le vieta; tali leggi, finché non si sono fatte, non possono essere conosciute, e non si può fare alcuna legge, finché non ci si è accordati sulla persona che la deve fare. Si può per avventura pensare che non vi sia mai stato un tempo né una condizione di guerra come questa, ed io credo non ci sia mai stata generalmente in tutto il mondo, ma ci sono parecchi luoghi ove attualmente si vive così. Infatti. in parecchi luoghi dell’America, i selvaggi, se si eccettua il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in quella maniera brutale che ho detto prima. Comunque, si può percepire quale maniera di vita ci sarebbe ove non ci fosse il timore di un potere comune, dalla maniera di vita in cui sono usi degenerare gli uomini che già hanno vissuto sotto un governo pacifico, una guerra civile. Ma anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui gli individui fossero in condizione di guerra l’un contro l’altro, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana., a causa della loro indipendenza, si trovano ad avere continue gelosie, e ad essere nello stato e nella posizione dei gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi l’uno sull’altro, cioè, con forti, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e con spie continuamente nei territori che sono vicini a loro; ciòè una posizione di guerra. Ma per il fatto che così essi sostengono l’industria dei loro sudditi, non segue da ciò quella miseria che accompagna la libertà degli individui. A questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che niente può essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto della giustizia e dell’ingiustizia non hanno luogo qui. Dove non c’è potere comune, non c’è legge; dove non c’è legge, non c’è ingiustizia. La forza e la frode sono in guerra le due virtù cardinali. La giustizia e l’ingiustizia non sono facoltà né del corpo né della.mente. Se lo fossero, potrebbero essere in un uomo che fosse solo al mondo, così come i suoi sensi e le sue passioni. Esse sono qualità che sono relative

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agli uomini in società, non in solitudine. Consegue anche alla medesima condizione che non ci sia né proprietà né dominio, né un mio e un tuo distinti, ma che ogni uomo abbia solo quello che può prendersi e per tutto il tempo che può tenerselo. E ciò basti per quel che riguarda la triste condizione in cui è effettivamente posto l’uomo dalla pura natura, benché egli abbia una possibilitá di uscirne: essa si trova in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione. Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle mediante la loro industria. La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di natura; di esse parlerò più particolarmente nei due capitoli seguenti.

Cap. XIV: Della prima e seconda legge naturale e dei contratti

IL DIRITTO DI NATURA , che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ogni uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a dire, della propria vita, e per conseguenza, di fare qualunque cosa nel suo giudizio e nella sua’ragione egli concepirà essere il mezzo più atto a ciò.

Per LIBERT À, si intende, secondo il significato proprio della parola, l’assenza di impedimenti esterni, i quali impedimenti possono spesso togliere parte del potere di un uomo di fare ciò che vorrebbe, ma non possono ostacolarlo nell’usare il potere che gli è rimasto, secondo ciò che il suo giudizio e la sua ragione gli detteranno.

UNA LEGGE DI NATURA (lex naturalis) è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che gli toglie i mezzi per preservarla, e di omettere ciò con cui egli pensa possa essere meglio preservata. Benché infatti, coloro che parlano di questo soggetto, usino confondere ius e lex , diritto e legge; pure debbono essere distinti, perché il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la

LEGGE determina e vincola a una delle due cose; cosicché la legge, e il diritto differiscono come l’obbligo e la libertà che sono incompatibili in una sola e medesima materia. E per il fatto che la condizione dell’uomo (come è stato dichiarato nel capitolo precedente) è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, e, in questo caso, ognuno è governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di

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aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici, ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo. Perciò, finché dura questo diritto di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di vivere. Per conseguenza è un precetto o regola generale della ragione, che ogni uomo debba sforzarsi alla pace, per quanto abbia speranza di ottenerla, e quando non possa ottenerla, cerchi e usi tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura, che è, cercare la pace e conseguirla. La seconda, la somma del diritto di natura, che è, difeendersi con tutti i mezzi possibili . Da questa fondamentale legge di natura che comanda le agli uomini di sforzarsi alla pace, deriva questa seconda legge, che un uomo, sia disposto, quando anche altri lo sono, per quanto egli penserà necessario per la propria pace e difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e che si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad altri uomini con tro di lui. Infatti, finché ogni uomo ritiene questo diritto di fare ciò che gli piace, tutti gli uomini sono nella condizione di guerra. Ma se gli altri uomini non deporranno il loro diritto, come lui, allora non c’è ragione che uno solo si spogli del suo; ciò sarebbe infatti un esporsi alla preda (cosa a cui nessun uomo è vincolato) piuttosto che un disporsi alla pace. Questa è la legge del Vangelo: tutto ciò che tu richiedi che gli altri ti facciano, fallo a loro; e la legge di tutti gli uomini tutto ciò che tu non vuoi che gli altri ti facciano, non lo fare ad altri.. Deporre un suo diritto a qualcosa, vale, per un uomo, spogliarsi della libertà di ostacolare un altro nel beneficio del suo diritto alla stessa cosa. Infatti colui che rinuncia al suo diritto o lo trasferisce non dà ad un altro uomo un diritto che prima non aveva, perché non c’è nulla a cui ogni uomo non abbia diritto per natura, ma solo si toglie di mezzo, affinché quello possa godere del suo diritto originario senza ostacoli da parte sua, né senza ostacoli da parte di altri. Cosicché l’effetto che ridonda ad un uomo dall’abbandono del diritto di un altro uomo, è solo una altrettanta diminuzione di impedimenti all’uso del proprìo diritto originario. Si depone un diritto o mediante semplice rinuncia oppure mediante trasferimento ad altri.

Mediante semplice RINUNCIA , quando chi lo depone non si preoccupa di sapere a chi ridonda il beneficio di esso; mediante TRASFERIMENTO , quando chi lo depone intende che il beneficio di esso vada ad una data persona o a date persone. Quando un uomo ha, in una maniera o nell’altra,

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abbandonato o ceduto il suo diritto, si dice allora che è OBBLIGATO o VINCOLATO a non ostacolare quelli, a cui tale diritto è stato ceduto o abbandonato, nel beneficio di esso; che deve ed è suo

DOVERE , non rendere vano quel suo atto volontario; e che tale ostacolo è INGIUSTIZIA e INGIURIA , essendo senza legge, dato che prima si e rinunciato al diritto o lo si è trasferito. Cosicché l’ingiuria o l’ingiustizia, nelle controversie del mondo è qualcosa di simile a ciò che, nelle dispute degli scolastici, è chiamata assurdità. Come infatti in quelle è chiamata un’assurditá contraddire ciò che si è sostenuto all’inizio, così nel mondo è chiamata ingiustizia e ingiuria il disfare volontariamente ciò che si è fatto volontariamente all’inizio. Il modo con cui un uomo o rinuncia semplicemente o trasferisce il suo diritto, è una dichiarazione o significazione, fatta con un segno o con dei segni volontari e sufficienti, che egli in tal modo vi rinuncia o lo trasferisce o vi ha rinunciato o lo ha trasferito a chi l’accetta. Questi segni sono o solo parole o solo azioni oppure (come accade più spesso) parole ed azioni insieme. Tali sono i VINCOLI da cui gli uomini sono vincolati e obbligati; vincoli che traggono la loro forza non dalla propria natura (poiché niente si infrange più agevolmente della parola di un uomo) ma dal timore di qualche cattiva conseguenza inerente alla rottura. Ogni volta che un uomo trasferisce il suo diritto, o vi rinuncia, lo fa, o in considerazione del fatto che qualche diritto gli viene reciprocamente trasferito, o per qualche altro bene che egli spera di riceverne. Infatti, è un atto volontario, e l’oggetto degli atti volontari di ogni uomo è qualche bene per se stesso. Ci sono perciò alcuni diritti, che nessun uomo si può intendere che abbia abbandonato o trasferito mediante parole o altri segni. Così, in primo luogo, un uomo non può deporre il diritto di resistere a coloro che lo assalgono con la forza per togliergli la vita, perché non si può intendere che miri con ciò ad un bene per se stesso. Lo stesso si può dire delle ferite, delle catene e della prigionia, sia perché non v’è beneficio a sopportare tali cose, come ve n’è a sopportare che un altro sia ferito o imprigionato, sia anche perché un uomo non può dire, quando vede che degli uomini procedono contro di lui con violenza, se hanno l’intenzione di ucciderlo o no. E per ultimo il motivo e il fine per cui questa rinunzia e questo trasferimento di diritto vengono introdotti non è altro che la sicurezza personale di un uomo nella sua vita e nei mezzi per preservare la sua vita, in modo tale che essa non gli sia di peso. Perciò se un uomo, con parole o altri segni, sembra spogliarsi del fine a cui quei segni erano destinati, non si deve

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intendere come se volesse dire ciò o che quello era il suo volere,- ma che ignorava come tali parole ed azioni dovessero essere interpretate.

Il mutuo trasferimento del diritto è ciò che gli uomini chiamano CONTRATTO . Vi è differenza tra il trasferimento del diritto ad una cosa e il trasferimento o la rimessa, cioè la consegna, della cosa stessa. La cosa infatti può essere consegnata insieme con la traslazione del diritto, come nel comprare onel vendere in contanti o nel cambio di beni o di terre, e può essere consegnata qualche tempo dopo. Inoltre, uno dei contraenti, può, per parte sua, con segnare la cosa contrattata, lasciare che l’altro adempia la sua parte in un tempo determinato successivo e dar gli fiducia per il tempo che intercorre; allora il contrat toper la sua parte, è chiamato PATTO o

CONVENZIONE . Oppure entrambe le parti possono contrattare ora di adempierlo poi, nel qual caso, essendo data fiducia a colui che deve adempierlo in un tempo avvenire, il suo adempimento è chiamato mantenimento di promessa o fede e la mancanza dell’adempimento (se è volontaria) violazione di fede. Quando il trasferimento del diritto non è reciproco, ma una delle parti lo trasferisce nella speranza di guadagnare con ciò l’amicizia o i servigi di un altro o dei suoi amici, oppure nella speranza di guadagnare reputazione di carità o magnanimità, o di liberare il proprio animo dalla pena della compassione, oppure nella speranza di ricompense in cielo, non si ha allora contratto, ma DONAZIONE, LIBERA DONAZIONE, GRAZIA, le quali pa e role significano una sola e medesima cosa. I segni di contratto sono o espressi o per inferenza. Sono segni espressi le parole dette intendendo ciò che significano; tali parole sono o al tempo presente ; o al passato, come do, cedo, ho dato, ho ceduto, voglio che questo sia tuo; oppure al futuro, come darò, cederò: queste parole al futuro sono chiamate PROMESSA . I segni per inferenza sono talvolta la conseguenza delle parole, talaltra la conseguenza del silenzio, talaltra la conseguenza delle azioni, talaltra ancora la conseguenza dell’astenersi da un’azione, e, in generale, segno di un qualunque contratto per inferenza è tutto ciò da cui si arguisce sufficientemente la volontà del contraente. Le sole parole, se sono relative al tempo avvenire, e contengono una semplice promessa, sono un segno insufficiente di libera donazione e perciò non sono obbligatorie. Se sono infatti relative al tempo avvenire, come domani darò , sono un segno che non ho ancora dato, e di conseguenza

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che il mio diritto non è trasferito, ma permane finché non lo trasferisco per mezzo di qualche altro atto. Ma se le parole sono relative al presente o al passato, come ho dato o do da consegnare domani, allora è dato vià oggi il mio diritto di domani, e ciò in virtù delle parole, anche se non c’è stato alcun altro argomento della mia volontà. V’è una grande dífferenza nel significato di queste parole, volo boc tuuum esse cras e cras dabo, cioè tra voglio che questo sia tuo domani e ti darò questò domani; la parola farò (I will 1), infatti, nella prima maniera di parlare, significa un atto della volontà presente, nell’altra invece significa una promessa di un atto avvenire della volontà; perciò le prime parole, essendo relative al presente trasferiscono un diritto futuro, le altre, che sono relative al futuro, non trasferiscono nulla. Ma se vi sono altri segni della volontà di trasferire un diritto, oltre le parole, allora, benché la donazione sia libera, si può tuttavia intendere che c’è il passaggio del diritto per mezzo di parole relative al futuro; così, se qualcuno pone in palio un premio per chi giunge primo alla fine di una corsa, la donazione è libera, e benché le parole siano relative al futuro, si ha tuttavia il passaggio del diritto, poiché se egli non avesse voluto che le sue parole fossero intese in quel modo, non avrebbe lasciato correre i contendenti. Nei contratti, si ha il passaggio del diritto, non solo quando le parole sono relative al presente o al passato, ma anche quando sono relative al futuro, perché ogni contratto è reciproca traslazione o cambiamento di diritto e perciò chi promette soltanto, per il fatto che ha già ricevuto il beneficio per il quale promette, si deve intendere che ha l’intenzione che il passaggio del diritto abbia luogo, perché se non avesse permesso che le sue parole fossero intese in tal modo, l’altro non avrebbe adempiuto per primo la sua parte. A causa di ciò, nel comprare e nel vendere, e negli altri atti contrattuali, una promessa equivale ad un patto ed è perciò obbligatoria.

In un contratto, colui che adempie per primo, si dice che MERITA ciò che deve ricevere dall’adempimento dell’altro, e lo ha come cosa dovuta. Anche quando è proposto a parecchi un premio che deve essere dato solo a colui che vince, o quando è gettato in mezzo a molta gente del denaro, che deve essere goduto da chi lo afferra, benché queste siano libere donazioni, pure quel vincere o quell’afferrare sono un meritare e un avere una cosa come DOVUTA . Infatti il diritto viene trasferito nel proporre il premio e nel gettare il denaro, benché non sia determinato che dal

1 In inglese, ‘ I will ’ deriva da un verbo per esprimere la volontà ( will ) di chi parla e, al tempo stesso funge da modale per formare il futuro del verbo. [nota di Davies]

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risultato della contesa a chi debba andare. Ma tra queste due specie di merito c’è questa differenza, che nel contratto io merito in virtù del mio potere e del bisogno del contraente, mentre nel caso della libera donazione, io sono in grado di meritare solo per la benignità di chi dà; nel contratto merito che l’altro contraente, di sua mano, lasci il suo diritto; nel caso della donazione, non merito che colui che dà lasci il suo diritto, ma soltanto che, quando lo ha lasciato, esso sia mio piuttosto che di un altro. Questo, penso sia ciò che vuol dire la distinzione che fanno gli scolastici tra meritum congrui e meritum condigni. Infatti, avendo Dio Onnipotente promesso il Paradiso agli uomini (cui fanno velo i desideri della carne) che possono camminare attraverso questo mondo secondo i precetti e i limiti da lui prescritti, essi dicono che chi camminerà così, meriterà il Paradiso ex congruo. Ma per il fatto che nessun uomo può domandare un diritto a ciò, per la propria rettitudine o per qualche altro potere che sia in lui, ma solo per la libera grazia di Dio, dicono che nessun uomo può meritare il Paradiso ex condigno. Questo, io dico, penso sia ciò che vuol dire quella distinzione, ma poiché i disputanti non si accordano sul significato dei termini tecnici che usano più in là di quanto serve al loro scopo, non affermerò alcunché riguardo a ciò che vuol dire, ma dirò solo questo: che quando una donazione è data indefinitamente, come un premio per il quale si deve contendere, chi vince merita, e può pretendere il premio come cosa dovuta Se vien fatto un patto, in cui nessuna delle parti adempie al presente, ma entrambe hanno fiducia l’una nell’altra, nella condizione di mera natura, (che è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo), qualunque ragionevole sospetto lo rende vano, ma se c’è un comune potere, posto al di sopra di entrambe, con il diritto e la forza sufficienti per costringere all’adempimento, non è vano. Infatti chi adempie per primo non ha alcuna assicurazione che l’altro adempia in seguito, perché i vincoli delle parole sono troppo deboli per imbrigliare l’ambizione, l’avarizia, l’ira, e le altre passioni degli uomini, senza il timore di qualche potere coercitivo, che non si può supporre vi sia nella condizione di mera natura, dove tutti gli uomini sono eguali e giudici della giustezza dei loro timori. Perciò chi adempie per primo, non fa che consegnarsi al suo nemico, contro il diritto (che non può mai abbandonare) di difendere la propria vita e i mezzi per vivere.

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Ma in uno stato civile, dove c’è un potere istituito per costringere quelli che altrimenti violerebbero la loro fede, quel timore non è più ragionevole e per tale motivo, colui che, per il patto, deve adempiere per primo, è obbligato a fare così. La causa del timore che rende invalido un tale patto, deve sempre essere qualcosa che sorge dopo che il patto è stato fatto, come qualche fatto nuovo o un altro segno della volontà di non adempierlo, altrimenti non può rendere vano il patto. Infatti ciò che non ha potuto ostacolare un uomo dal promettere, non si deve ammettere che sia un ostacolo all’adempimento. Colui che trasferisce qualche diritto, trasferisce i mezzi per godere di esso, per quanto è in suo potere. Cosi chi vende un terreno, si intende che trasferisce l’erba e tutto ciò che cresce su di esso, e chi vende un mulino non può deviare il corso d’acqua che lo muove. E coloro che danno ad un uomo il diritto di governare con sovranità, si intende che gli danno il diritto di esigere denaro per mantenere dei soldati e quello di designare dei magistrati per l’amministrazione della giustizia. Fare patti con le bestie brute è impossibile, perché, non intendendo la nostra parola, non intendono né accettano alcuna traslazione di diritto, né possono trasferire alcun diritto ad altri e, senza una accettazione reciproca, non c’è patto. Fare un patto con Dio, è impossibile, se non per mezzo della mediazione di quelli a cui Dio parla, o per mezzo di una rivelazione soprannaturale, oppure per mezzo dei suoi luogotenenti che governano sotto di lui e in suo nome, poiché altrimenti non sappiamo se i nostri patti sono accettati o no. Perciò coloro che fanno voto per qualcosa che è contrario ad una legge di natura, fanno un voto vano, essendo ingiusto realizzare un tale voto; se invece è una cosa comandata dalla legge di natura, non è il voto, ma la legge che li vincola. La materia o soggetto di un patto, è sempre qualcosa che ricade sotto la deliberazione (poiché il pattuire è un atto della volontà, vale a dire, un atto e l’ultimo atto della deliberazione) e perciò si intende sempre che è una cosa avvenire e il cui adempimento è giudicato possibile da chi fa il patto. Perciò, promettere ciò che si sa essere impossibile, non è fare un patto. Ma se si prova che è impossibile in seguito quel che prima si pensava fosse possibile, il patto è valido e vincola (anche se non alla cosa stessa) tuttavia al suo valore, oppure, se anche questo è impossibile, allo sforzo non finto di adempierlo per quanto è possibile, poiché nessuno può essere obbligato a fare di più.

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Gli uomini si liberano dai loro patti in due modi, o con l’adempíerli o con l’esserne condonati. Infatti l’adempimento è il fine naturale dell’obbligazione e il condono è la restituzione della libertà, essendo un trasferimento di quel diritto in cui consisteva l’obbligazione. I patti in cui si entra per timore, nella condizione di mera natura, sono obbligatori. Per esempio, se pattuisco di pagare a un nemico un riscatto o un servigio per la mia vita, sono vincolato a farlo. Si tratta infatti di un contratto in cui l’uno riceve il beneficio della vita e l’altro deve ricevere del denaro o un servigio per ciò; di conseguenza, ove nessun’altra legge (come nella condizione di mera natura) ne vieti l’adempimento, il patto è valido. Perciò i prigionieri di guerra, se si dà loro fiducia per il pagamento del riscatto, sono obbligati a pagarlo; e se un principe più debole fa una pace svantaggiosa con uno più forte, per timore, è vincolato a mantenerla, a meno che (come è stato detto prima) non sorga qualche nuova e giusta causa di timore per rinnovare la guerra. Ed anche negli stati, se sono forzato a riscattarmi da un ladrone con il promettergli del denaro, sono vincolato a pagarlo, finché la legge civile non me ne liberi. Infatti tutto quello che posso fare legittimamente senza obbligazione, posso anche pattuire legittimamente di farlo per timore, e ciò che legittimamente pattuisco, non posso legittimamente infrangere. Un patto precedente rende vano uno seguente. Chi ha infatti trasferito oggi il suo diritto ad uno, non l’ha più da passare domani ad un altro, e perciò la promessa seguente non passa alcun diritto, ma è nulla. Il patto di non difendermi dalla forza con la forza, è sempre vano. Infatti (come ho mostrato prima) nessun uomo può trasferire, o deporre il suo diritto a salvarsi dalla morte, dalle ferite e dalla prigionia (sfuggire queste cose è il solo fine del deporre un diritto qualsiasi); perciò la promessa di non resistere alla forza, in nessun patto trasferisce un diritto qualsiasi, e non è obbligante. Infatti, sebbene un uomo possa pattuire in questi termini: se non faccio così, o così, uccidimi, non può pattuire in questi termini; se non faccio così, o così, non ti opporro resistenza, quando verrai per uccidermi. L’uomo infatti per natura sceglie il male minore, cioè il pericolo di morte nel resistere, piuttosto che il maggiore, vale a dire la morte certa e immediata nel non resistere. Tutti gli uomini ammettono la verità di ciò nel fatto che si conducono i criminali all’esecuzione e alla prigione con una scorta armata, nonostante che quei criminali abbiano consentito alla legge, dalla quale sono stati condannati.

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Il patto di accusare se stesso, senza avere l’assicurazione del perdono, è similmente invalido. Infatti nella condizione di natura, ove ogni uomo è giudice, non c’è posto per l’accusa, e nello stato civile l’accusa è seguita dalla punizione, alla quale, essendo un atto di forza, un uomo non è obbligato a non resistere. La stessa cosa è vera anche per l’accusa di coloro per la cui condanna si cade in miseria, come . quella di un padre, una moglie, un benefattore. Infatti la testimonianza di un tale accusatore, se non è data di propria volontà, si presume sia corrotta per natura e perciò non deve essere ricevuta; e dove la testimonianza di un uomo non deve aver credito, egli non è vincolato a darla. Anche le accuse fatte sotto la tortura non si devono reputare come testimonianze. Infatti la tortura deve essere usata solo come un mezzo di congettura e come un lume nell’ulteriore esame e ricerca della verità; ciò che in quel caso viene confessato, tende a dar sollievo a colui che è torturato, non ad informare i torturatori e perciò non deve avere il credito di una testimonianza sufficiente, poiché sia che ci si liberi per mezzo di un’accusa vera o falsa, lo si fa per il diritto di preservare la vita. Essendo la forza delle parole, (come ho precedentemente notato) troppo debole per costringere gli uomini g all’adempimento dei loro patti, non ci sono nella natura umana che due aiuti immaginabili per rafforzarla. Sono o un timore per la conseguenza dell’infrangere la parola, o la gloria o l’orgoglio di apparire di non aver bisogno di infrangerla. Quest’ultima è una generosità che si trova troppo raramente perché la si debba presumere, specialmente in coloro che perseguono le ricchezze, il comando o i piaceri sensuali, che sono la maggior parte dell’umanità. La passione sulla quale si deve calcolare è il timore, del quale due sono gli oggetti generalissimi; l’uno, il potere degli spiriti invisibili; l’altro il potere di quegli uomini che ne saranno offesi. Di questi due, benché il primo sia il potere più grande, nondimeno il timore del secondo è comunemente il timore più grande. Il timore del primo è, in ogni uomo, la sua religione, che ha luogo nella natura umana prima della società civile. Non così l’altro, o almeno non ha luogo in misura sufficiente per far mantenere agli uomini le loro promesse, perché nella condizione di mera natura, non si discerne l’ineguaglianza del potere, se non nell’eventualità della battaglia. Cosicché prima del tempo della società civile, o nell’interruzione di essa per la guerra, niente può rafforzare un patto di pace concordato, contro le tentazioni dell’avarizia, dell’ambizione, della concupiscenza, o di altri forti desideri, se non il timore di quel potere invisibile a cui ognuno rende un culto come a Dio e teme come un vendicatore della propria perfidia. Perciò tutto ciò che

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può essere fatto tra due uomini non soggetti al potere civile è di giurare ciascuno sul Dio che teme. Tale GIURAMENTO è una forma di parlare aggiunta ad una promessa per mezzo della quale colui che promette significa che, se non adempie la promessa, rinuncia alla misericordia del suo Dio, o chiama su di sé la sua vendetta. La forma pagana era: Che Giove uccida me, così come io uccido questa bestia. La nostra forma è: Farò così e così, e che Dio mi aiuti. E questo con i riti e le cerimonie che ognuno usa nella propria religione, affinché il timore di infrangere la fede sia più grande. Da questo appare che un giuramento ricevuto secondo qualche altra forma o rito che non sia quello di chi giura è vano, e non è giuramento; e che non v’è giuramento per qualche cosa che colui che giura non pensa sia Dio. Infatti, benché gli uomini abbiano talvolta usato giurare per i loro re per timore o per adulazione, pure volevano che con ciò fosse inteso che attribuivano ad essi onori divini. Giurare poi per Dio senza necessità, non è che un profanare il suo nome e giurare per altre cose come gli uomini fanno nel discorso comune, non è un giurare, ma una consuetudine empia, acquistata discorrendo con troppa veemenza. Appare anche che il giuramento nulla aggiunge all’obbligazione. Infatti un patto, se è legittimo, vincola agli occhi di Dio tanto con il giuramento, quanto senza; se è illegittimo, non vincola affatto, ancorché sia confermato con un giuramento.

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John Locke (1632-1704) Secondo trattato sul governo (1690) Traduzione A. Gialluca

Capitolo II: Dello stato di natura 4. Per comprendere rettamente cosa sia il potere politico e derivarlo dalla sua origine, occorre considerare quale sia lo stato in cui tutti gli uomini si trovano naturalmente, vale a dire uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone come meglio credono, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di un altro. È anche uno stato di eguaglianza in cui ogni potere e autorità sono reciproci, non avendone nessuno più di un altro. Nulla invero è più evidente del fatto che creature della stessa specie e grado, destinate senza discriminazione al godimento dei benefici della natura e all’uso delle stesse facoltà, debbono essere anche uguali fra di loro, senza subordinazione o soggezione, a meno che il signore e padrone di tutte loro non ne abbia, con manifesta dichiarazione della sua volontà, anteposta una alle altre conferendole con una evidente e chiara designazione, un incontestabile diritto al dominio e alla sovranità. 5. Il saggio Hooker 1 considera questa eguaglianza naturale degli uomini così evidente in se stessa e al di là di ogni dubbio, da porla a fondamento di quell’obbligo al reciproco amore fra gli uomini sul quale egli basa i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri e da cui egli deriva i grandi principi della giustizia e della carità. Ecco le sue parole: Il medesimo impulso naturale ha portato gli uomini a riconoscere che è loro dovere amare gli altri non meno che se stessi. Infatti, considerato che le cose uguali devono di necessità avere una sola misura, se non posso non desiderare di ricevere il bene dagli altri nello stesso identico modo in cui gli altri possono desiderarlo nel loro cuore, come potrei sperare di veder soddisfatto in qualche modo il mio desiderio, se io stesso non fossi attento a soddisfare il desiderio simile che è indubbiamente negli altri, dato che noi condividiamo una medesima natura? Offrire agli altri qualcosa che ripugna a quel desiderio deve necessariamente essere penoso per loro quanto per me, cosicché se faccio un torto devo aspettarmi di subirne, non

1 Richard Hooker (1554-1600), uno dei massimi teologi anglicani dell’epoca. [nota di Davies]

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essendovi ragione che gli altri dimostrino per me un grado di amore maggiore di quello che io ho dimostrato per loro. Perciò il mio desiderio di essere amato quanto più possibile da coloro che sono miei eguali per natura, mi impone il dovere naturale di avere nei loro confronti lo stesso identico affetto. Nessuno ignora le diverse regole e canoni che la ragione naturale ha ricavato per la direzione della vita da quella relazione di eguaglianza che sussiste tra noi e coloro che sono come noi. 2

6. Ma sebbene questo sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza. Sebbene in questo stato l’uomo abbia una libertà incondizionata di disporre della sua persona e dei suoi averi, tuttavia non ha la libertà di distruggere se stesso così come ogni altra creatura in suo possesso, tranne nel caso in cui lo richieda un qualche motivo più nobile che la semplice conservazione., Lo stato di natura è governato dalla legge di natura che è per tutti vincolante, e la ragione – che è quella legge stessa – insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi. Infatti, essendo tutti gli uomini opera di un solo Creatore Onnipotente e infinitamente saggio, tutti servitori di un solo supremo Signore, inviati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, essi sono proprietà di colui di cui sono opera, creati per durare fintanto che piaccia a lui e non ad altri. Ed essendo forniti delle stesse facoltà e partecipando tutti di una comune natura, non si può supporre alcuna subordinazione fra noi tale da autorizzarci a distruggerci l’un l’altro, come se fossimo stati creati gli uni ad uso di altri, così come gli ordini inferiori delle creature sono fatti per i nostri usi. Come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e a non abbandonare intenzionalmente il suo posto, così per la stessa ragione – quando non sia in gioco la sua stessa conservazione – deve, per quanto può, preservare gli altri uomini, e non può – se non nel caso di far giustizia di un trasgressore – privare o ledere la vita di un altro o quanto contribuisce alla conservazione della vita come la libertà, la salute, le membra o i beni. 7. E affinché tutti gli uomini possano essere frenati nella violazione dei diritti altrui e nel danneggiarsi l’un l’altro, affinché sia rispettata la legge di natura che vuole la pace e la conservazione di tutto il genere umano, l’esecuzione della legge di natura in quello stato è affidata nelle mani di ciascuno, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di quella legge in misura tale da impedirne la violazione. Ciò in quanto la legge di natura, come tutte le altre

2 R. Hooker, Of the Laws of Ecclesiastical Polity , [ Politica ecclesiastica ] (1591-7) I, viii, 7. [nota di Davies]

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leggi che riguardano gli uomini in questo mondo, sarebbe vana se non ci fosse qualcuno che nello stato di natura ha il potere di renderla esecutiva e così proteggere gli innocenti e reprimere i trasgressori. E se nello stato di natura a uno è dato di punire un altro per un male commesso, la stessa cosa è permessa a ciascuno. Infatti in quello stato di perfetta uguaglianza, dove per natura non vi è alcuna superiorità o giurisdizione di uno su un altro, ciò che uno può fare per rendere esecutiva quella legge ognuno deve di necessità avere il diritto di farlo. 8. In tale modo nello stato di natura un uomo consegue un potere su un altro; ma non il potere assoluto o arbitrario di disporre di un criminale, quando è nelle sue mani, secondo gli appassionati furori o le stravaganze della sua volontà; ma soltanto di retribuire ciò che è proporzionato alla sua trasgressione, secondo quanto gli dettano la serena ragione e la coscienza, vale a dire tanto quanto può servire come riparazione e prevenzione. Infatti, queste ultime sono le due uniche ragíoni per cui un uomo può legalmente fare ad un altro quel male che chiamiamo punizione. Nel trasgredire la legge di natura, il trasgressore dichiara di vivere secondo una regola diversa da quella della ragione e della comune giustizia, che è la misura che Dio ha imposto alle azioni degli uomini per la loro reciproca sicurezza; e così egli diventa pericoloso per gli uomini poiché tiene in poco conto o addirittura recide il vincolo inteso a garantirli dall’offesa e dalla violenza. Essendo questo un reato contro l’intera specie e la sua pace e sicurezza cui presiede la legge di natura, ogni uomo, in base al diritto che ha di provvedere alla sopravvivenza dell’umanità in generale, può reprimere – o se è necessario – distruggere ciò che è ad essa nocivo, e quindi recare a chiunque abbia trasgredito quella legge un male tale da indurlo a pentirsi d’averlo fatto e con ciò dissuadere lui, e sul suo esempio altri, dal commettere lo stesso male. In questo caso e su questo fondamento ognuno ha il diritto di punire i trasgressori e rendersi esecutore della legge di natura. 9. Non dubito che questa sembrerà ad alcuni una dottrina assai strana. Ma prima di condannarla, vorrei mi si chiarisse in base a quale diritto un sovrano o uno Stato possono mandare a morte, o punire uno straniero per un reato che questi commette nel loro paese. E certo che le loro leggi, quale che sia la sanzione che esse ricevono dalla proclamata volontà del legislativo, non riguardano uno straniero: non si rivolgono a lui, e se lo facessero non sarebbe tenuto a darvi ascolto. Il potere legislativo, in forza del quale le leggi sono vincolanti per i sudditi di quello Stato, non ha alcun potere su di lui. Coloro che in Inghilterra, in Francia o in Olanda hanno il

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supremo potere di fare leggi sono per un indiano, come per il resto del mondo, uomini privi di autorità. E dunque, se non è per legge di natura che ogni uomo ha il potere di punire le offese a quella legge, secondo quanto col buon senso si giudica che il caso richiede, non vedo come i magistrati di una comunità possano punire uno straniero d’un altro paese, dato che nei suoi confronti non possono avere maggior potere di quello che ciascuno per natura può avere su un altro. 10. Al reato che consiste nel violare la legge e nel deviare dalla retta norma della ragìone, per la qual cosa l’uomo degenera e dichiara di abbandonare i principi della natura umana e di essere una creatura nociva, si unisce di solito l’offesa fatta ad una o ad un’ altra persona; e a qualcuno la trasgressione arreca danno. In questo caso, colui che ha subito il danno, oltre al diritto di punire – comune a lui e agli altri uomini – ha il diritto particolare di chiedere riparazione da colui che glielo ha arrecato; e ogni altra persona che lo riconosca giusto può anche associarsi a chi è stato offeso e assistirlo nel recuperare dall’offensore quanto basti per avere soddisfazione per il danno che egli ha sofferto. 11. In ragione di questi due distintì dìritti, l’uno di punire il reato per reprimerlo e prevenire analoghe offese – diritto che appartiene a ognuno – l’altro di esigere riparazione, che spetta solo alla parte offesa, accade che il magistrato, che per essere tale ha nelle sue mani il comune diritto di punire, può spesso, laddove il pubblico bene non richiede l’esecuzione della legge, condonare di propria autorità la punizione di violazionì delittuose; ma non può tuttavia condonare la riparazione dovuta ad un privato per il danno che questi ha subito. Colui che ha subito il danno ha il diritto di chiedere la riparazione a suo nome, e lui solo può condonarla; la persona danneggiata ha il potere di appropriarsi dei beni e dei servigi dell’offensore in base al diritto alla conservazione di sé, cosi come ciascuno ha il potere di punire l’offesa per impedire che si commetta di nuovo, in base al diritto che ha di conservare tutto il genere umano, facendo a tal fine tutto ciò che è ragionevole fare. Ed è per questo che ogni uomo nello stato di natura ha il potere di uccidere un assassino, sia per dissuadere altri dal compiere la stessa offesa – che nessuna riparazione può compensare – con l’esempio della punizione che sempre segue per mano di ognuno; sia anche per mettere al sicuro gli uomini dalle aggressioni di un criminale che, avendo rinunciato alla ragione – comune norma e misura che Dio ha dato all’umanità – ha, con l’ingiusta violenza e il brutale assassinio commesso nei riguardi di uno solo, dichiarato guerra

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all’intero genere umano. Quegli può perciò essere ucciso come un leone o una tigre, una di quelle bestie selvagge con cui gli uomini non possono mettersi in società né riceverne sicurezza. Su ciò si fonda quella grande legge di natura secondo cui: «chi ha sparso così il sangue dell’uomo, dall’uomo avrà sparso il suo sangue». E Caino era così pienamente convinto che ciascuno avesse il diritto di uccidere un tale criminale che dopo l’assassinio di suo fratello grida: «chiunque mi troverà mi ucciderà»; così chiaramente quella legge era scrìtta nel cuore di tutti gli uomini. 12. Per lo stesso motivo nello stato di natura un uomo può punire le infrazioni minori di quella legge. Forse si domanderà: con la morte? Rispondo: ogni trasgressione potrà essere punita in misura tale, e con così tanta severità, da essere sufficiente a renderla un cattivo affare per il trasgressore, dargli motivo di pentirsi e dissuadere gli altri nell’intento di fare altrettanto. Ogni offesa che può essere commessa nello stato di natura può, nello stato di natura, essere punita allo stesso modo e nella stessa misura che in uno Stato. Per quanto esuli dal mio attuale proposito l’entrare qui in particolari riguardo la legge di natura o i suoi criteri di punizione, tuttavia è certo che vi è una tale legge, e anche che essa è tanto intelligibile e evidente ad una creatura razionale e a uno studioso di quella legge, quanto le leggi positive degli Stati; forse, anzi più evidente, tanto quanto la ragione è di più facile comprensione delle fantasie e degli intricati espedienti degli uomini che pongono in parole interessi contraddittori e nascosti. Infatti sono proprio così una gran parte delle leggi locali dei singoli paesi, che in tanto sono giuste in quanto sono fondate sulla legge di natura sulla cui base debbono essere regolate e interpretate. 13. A questa strana dottrina, vale a dire che nello stato di natura ognuno ha il potere esecutivo della legge di natura, non dubito si obietterà che è irragionevole per gli uomini essere giudici della propria causa; che l’amore di sé renderà gli uomini parziali nei confronti di se stessi e dei propri amici; e che d’altra parte l’indole cattiva, la passione, lo spirito di vendetta li porterà ad esagerare nel punire gli altri; che quindi non ne seguirà che confusione e disordine; e che appunto per questo Dio ha affidato al governo il compito di reprimere la parzialità e la violenza degli uomini. Concedo facilmente che il governo civile sia il rimedio adatto agli inconvenienti dello stato di natura, che debbono certamente essere gravi qualora gli uomini possono essere giudici nella propria causa, giacché è facile immaginare che chi sia stato così tanto ingiusto da recare offesa al proprio fratello, non sarà così giusto da condannarsi a causa di ciò. Ma vorrei che coloro che sollevano questa obiezione ricordassero che i monarchi assoluti non sono che uomini; e se il

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governo deve essere il rimedio di quei mali che necessariamente seguono dal fatto che gli uomini sono giudici delle loro proprie cause – perciò lo stato di natura non deve durare – mi chiedo che genere di govemo sia questo, e quanto migliore sia dello stato di natura in cui un uomo, comandando sulla moltitudine, ha la libertà di essere giudice della sua propria causa e può fare ai suoi sudditi tutto quello che vuole senza che gli altri abbiano la minima libertà di discutere o controllare coloro che eseguono il suo volere, e in tutto ciò che fa – sia esso guidato da ragione, da errore o da passione – devono essergli sottomessi. Molto meglio è lo stato di natura in cui gli uomini non sono costretti a sottomettersi all’ingiusta volontà di un altro e in cui colui che giudica, se giudica male della causa propria o altrui, ne deve rispondere al resto degli uomini. 14. Si domanda spesso, come ad avanzare una grande obiezione: dove sono o vi furono mai uomini in siffatto stato di natura? A ciò sarà sufficiente, per ora, rispondere che poiché tutti i principi e governanti di governi indipendenti, in ogni parte del mondo, sono in uno stato di natura è chiaro che il mondo non fu mai, né sarà mai, senza un certo numero di uomini in quello stato. Ho fatto riferimento a tutti coloro che governano comunità indipendenti, siano esse o meno consociate con altre, perché non ogni patto mette fine allo stato di natura fra gli uomini, ma solo quello in cui si concorda, insieme e reciprocamente, di entrare in un’unica comunità e costituire un solo corpo politico: gli uomini possono farsi l’un l’altro promesse e stringere patti e tuttavia rimanere ancora nello stato di natura. Le promesse e i contratti per un carro, ecc. fra due uomini nell’isola deserta di cui parla Garsilao de la Vega nella sua storia del Perù 3 o tra uno svizzero e un indiano nelle foreste d’America, sono vincolanti per loro, sebbene essi si trovino in un perfetto stato di natura. Ciò in quanto la sincerità e il tenere fede alla parola data competono agli uomini in quanto tali e non in quanto membri della società. 15. A coloro che affermano che non vi furono mai uomini nello stato di natura, non solo opporrò l’autorità del saggio Hooker che nella sua Politica Ecclesiastica (1, 10) dice: Le leggi di cui fin qui si è detto [cioè le leggi di natura] vincolano gli uomini in modo assoluto proprio in quanto uomini, anche qualora non abbiano né costituito una società, né abbiano stabilito un accordo solenne fra di loro relativamente a che cosa fare o non fare. Ma in quanto noi non siamo sufficienti a noi stessi per fornirci di una adeguata scorta di cose necessarie a una vita quale la nostra natura desidera, una vita conforme alla dignità umana, allora per sopperire a quelle deficienze e imperfezioni che sono in noi quando viviamo singolarmente e

3 Garcilaso de la Vega, Comentarios reales (1609-1617) I, viii [nota di Davies].

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isolatamente per noi stessi, siamo naturalmente spinti a cercare la comunione e la società con altri. Questa è stata la causa per cui gli uomini si sono uniti fra di loro in società politiche 4.

Ma in più affermo anche che tutti gli uomini si trovano naturalmente in questo stato e vi rimangono finché per loro consenso non si rendano membri di una società politica, ciò che non dubito di rendere evidente nel seguito di questo discorso.

4 R. Hooker, Politica ecclesiastica , I, x, 1.

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Cesare Beccaria (1738-94) Dei delitti e delle pene (1764) Edizione Franco Venturi

Capitolo 1 - ORIGINE DELLE PENE Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de’ motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi. Dico sensibili motivi, perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al bene universale: né l’eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le piú sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti.

Capitolo 2 - DIRITTO DI PUNIRE Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere piú generale cosí: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e in esso

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troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poiché non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti indelebili dell’uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo. Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne’ romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo. La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che la sterile ed abbandonata natura offriva per soddisfare ai bisogni che sempre piú s’incrocicchiavano tra di loro, riuní i primi selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente le altre per resistere alle prime, e cosí lo stato di guerra trasportossi dall’individuo alle nazioni. Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di piú è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto. Osservate che la parola diritto non è contradittoria alla parola forza, ma la prima è piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione piú utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari, che senz’esso si scioglierebbono nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola giustizia l’idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell’altra sorta di giustizia che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire.

Capitolo 3 - CONSEGUENZE La prima conseguenza di questi principii è che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest’autorità non può risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale; nessun magistrato (che è parte di società) può con giustizia infligger pene

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contro ad un altro membro della società medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle leggi è la pena giusta piú un’altra pena; dunque non può un magistrato, sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente cittadino. La seconda conseguenza è che se ogni membro particolare è legato alla società, questa è parimente legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il piú grande e il piú miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che è interesse di tutti che i patti utili al maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad autorizzare l’anarchia. Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può formare che leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non già giudicare che uno abbia violato il contratto sociale, poiché allora la nazione si dividerebbe in due parti, una rappresentata dal sovrano, che asserisce laviolazione del contratto, e l’altra dall’accusato, che la nega. Egli è dunque necessario che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità di un magistrato, le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano in mere assersioni o negative di fatti particolari. La terza conseguenza è che quando si provasse che l’atrocità delle pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d’impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtú benefiche che sono l’effetto d’una ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici piú che a una greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo. -–ooOoo–- Capitolo 6 - PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano piú rari a proporzione del male che arrecano alla società. Dunque piú forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene. È impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universal combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragione composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degl’interessi particolari che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All’esattezza

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matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl’imperi, e, scemando nell’istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione dell’interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò la necessità di aggravare le pene si va per questo motivo sempre piú aumentando. Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima inseparabile dall’uomo, e il legislatore fa come l’abile architetto di cui l’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio. Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla opposizione medesima degl’interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l’ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo dal piú sublime al piú infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla piú forte alla piú debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti principali, senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo. Se vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni. Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non può essere chiamata delitto, o punita come tale, se non da coloro che vi trovano il loro interesse nel cosí chiamarla. La incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione; piú attuali legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che espongono il piú saggio alle pene piú rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di virtú, e però nata l’incertezza della propria esistenza, che produce il letargo ed il sonno fatale nei corpi politici. Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali, troverà

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quasi sempre i nomi di vizio e di virtú, di buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per conseguenza sempre conformi all’interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli errori che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di un secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del fanatismo e dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò cosí, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali all’equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e dell’accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtú, e tali sono perché si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano coi fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma della morale geografia. Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle piú sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione, quanto piú comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena uguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un piú forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio.

Capitolo 7 - ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte colla piú cattiva volontà ne fanno il maggior bene. Altri misurano i delitti piú dalla dignità della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri

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dovrebbe piú atrocemente punirsi che l’assassinio d’un monarca, la superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa. Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune, che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono essere in contradizione coll’Onnipossente nell’offenderlo, possono anche esserlo col punire. -–ooOoo–- Capitolo 28 - DELLA PENA DI MORTE Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo

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essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità. La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte. Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione. Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza.

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La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti che forti. La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio piú fatto per essi che per il reo. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L’animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della

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schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice. Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un cosí grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia. Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piú che non lo corregge.

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Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo. Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a’ delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può piú che la religione medesima.

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Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al piú gran numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle. La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell’intimo de’ loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei Traiani. Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri de’ loro popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi perché toglie quell’intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità. -–ooOoo–- Capitolo 47 - CONCLUSIONE Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Piú forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un

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popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società cresce la sensibilità e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la relazione tra l’oggetto e la sensazione. Da quanto si è veduto finora può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme all’uso, legislatore il piú ordinario delle nazioni, cioè: perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi.

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John Rawls (1921-2002) Una teoria della giustizia (1971) Traduzione U. Santini

24. Il velo di ignoranza L’idea della posizione originaria è quella di stabilire una procedura equa di modo che, qualunque siano i princìpi su cui ci si accorda, essi saranno giusti. L’obiettivo è usare la nozione di giustizia procedurale pura come base della teoria. Dobbiamo in qualche modo azzerare gli effetti delle contingenze particolari che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio vantaggio le circostanze naturali e sociali. A questo scopo, assumo che le parti sono situate dietro un velo di ignoranza. Le parti non sanno in che modo le alternative influiranno sul loro caso particolare, e sono quindi obbligate a valutare i princìpi soltanto in base a considerazioni generali 1 Si assume quindi che le parti non conoscono alcuni tipi di fatti particolari. Innanzitutto, nessuno conosce il proprio posto nella società, la sua posizione di classe o il suo status sociale; lo stesso vale per la sua fortuna nella distribuzione delle doti e delle capacità naturali, la sua forza, intelligenza e simili. Inoltre, nessuno conosce la propria concezione del bene, né i particolari dei propri piani razionali di vita e neppure le proprie caratteristiche psicologiche particolari, come l’avversione al rischio o la tendenza al pessimismo o all’ottimismo. Oltre a ciò, assumo che le parti non conoscono le circostanze specifiche della loro società. Le parti sono all’oscuro della situazione politica ed economica, o del livello di civilizzazione e cultura che la società è stata in grado di raggiungere. Le persone nella posizione originaria non hanno informazione riguardo alla generazione cui appartengono. Queste restrizioni più ampie sulla conoscenza sono importanti soprattutto perché sorgono problemi di giustizia sociale sia tra generazioni diverse sia all’interno di una stessa, come ad esempio la questione dell’opportuno tasso di risparmio, o quella della

1 Il velo di ignoranza è una condizione così naturale, che molti devono avere pensato e qualcosa dei genere. L’enunciazione piú simile di cui sono a conoscenza è quella di J. C. HARSANY], Cardinal Utility in Welfare Economics and in Theory of Risk-Taking’ , in Journal of Political Economy , vol. 61, 1953. Harsanyi la usa per sviluppare una teoria utilitarista.

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conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali. Esiste anche, perlomeno da un punto di vista teorico, la questione di un’accettabile politica eugenetica. Per adeguarsi all’idea della posizione originaria, anche in questi casi, le parti non devono conoscere i fatti contingenti che le oppongono l’un l’altra. Devono essere pronte a vivere le conseguenze dei princìpi che hanno scelto, qualunque sia la generazione cui appartengono. Perciò, nei limiti del possibile, gli unici fatti particolari a conoscenza delle parti sono la determinazione della loro società da parte delle circostanze di giustizia, e tutto ciò che questo implica. D’altra parte, si dà per scontato che conoscono i fatti generali che riguardano la società umana. Comprendono i problemi politici e i princìpi della teoria economica; conoscono le basi dell’organízzazione sociale e le leggi della psicologia umana. In realtà, si presume che le parti siano a conoscenza di tutti i fatti generali che influenzano la scelta dei princìpi di giustizia. Non ci sono limitazioni all’informazione generale, cioè a quella che riguarda leggi e teorie generali, poiché le concezioni della giustizia devono essere adattate alle caratteristiche dei sistemi di cooperazione sociale che devono regolare, e non c’è alcun motivo per escludere questi fatti. Per esempio, è una considerazione sfavorevole per una concezione della giustizia il fatto che gli uomini, in base alla leggi della psicologia morale, non desiderano agire in conformità a essa, anche quando le istituzioni della loro società la soddisfano. In un caso simile, infatti, sarebbe difficile assicurare la stabilità della cooperazione sociale. Una caratteristica fondamentale di una concezione della giustizia è la capacità di generare da sé il proprio sostegno. Ciò significa che i suoi princìpi devono essere tali che, quando sono inclusi nella struttura fondamentale della società, gli uomini tendono a acquistare il senso di giustizia corrispondente. Dati i princìpi dell’apprendimento morale, gli uomini sviluppano un desiderio di agire secondo i suoi princìpi; in questo caso, una concezione della giustizia è stabile. Questo tipo di informazione generale è ammesso nella posizione originaria. La nozione di velo di ignoranza dà luogo a varie difficoltà. Si può obiettare che l’esclusione di quasi tutta l’informazione particolare rende difficile comprendere il significato della posizione originaria. A questo proposito, può essere utile ricordare che, in ogni istante, una o più persone possono entrare in questa posizione, o meglio, simulare le deliberazioni fatte in questa situazione ipotetica, semplicemente per mezzo di argomenti in accordo con le restrizioni opportune. Nel sostenere una concezione della giustizia, dobbiamo essere sicuri che è tra le alternative consentite

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e che soddisfa i vincoli formali convenuti. Non è possibile parlare in suo favore se non con argomenti che sarebbe razionale avanzare se ci mancasse il genere di conoscenza che è stata esclusa. La valutazione dei princìpi dipende dalle conseguenze generali di una loro accettazione collettiva e di una loro applicazione universale, nell’ipotesi che essi vengano rispettati da ciascuno. Affermare che una certa concezione della giustizia verrebbe scelta nella posizione originaria equivale a dire che la deliberazione razionale che soddisfa certe restrizioni e condizioni raggiungerebbe una data conclusione. Se necessario, l’argomento che porta a questo risultato può essere presentato in modo più formale. Tuttavia, continuerò a esprimermi nei termini del concetto di posizione originaria; è un modo più semplice e più suggestivo, e mette in luce certe caratteristiche essenziali che altrimenti potrebbero essere facilmente trascurate. Queste osservazioni mostrano che la posizione originaria non deve essere considerata come un’assemblea generale che include, istantaneamente, tutti coloro che vivranno in qualunque periodo; o, ancor meno, come un’assemblea di tutti quelli che potrebbero vivere in un dato tempo. Essa non è la raccolta di tutti gli individui attuali e possibili. Immaginare la posizione originaria in uno di questi modi è un atto di fantasia arbitrario; la concezione cesserebbe di rappresentare una guida naturale per l’intuizione. In ogni caso, è importante che la posizione originaria sia interpretata in modo che ognuno possa, in ogni momento, adottarne la prospettiva. Non è rilevante la persona che accetta questo punto di vista, o il momento in cui Io fa; le restrizioni devono essere tali che vengano sempre scelti gli stessi princìpi. Il velo di ignoranza è un elemento essenziale per soddisfare questa condizione. Non solo garantisce che l’informazione disponibile è importante, ma anche che rimane identica nel tempo. Si può obiettare che la condizione dei velo di ignoranza è irrazionale. Qualcuno potrebbe anche osservare che i princìpi dovrebbero essere scelti alla luce di tutte le conoscenze disponibili. Vi sono diverse risposte da dare a queste affermazioni. Mi limiterò a accennare a quelle che sottolineano le semplificazioni che è necessario operare se si vuole ottenere una qualsiasi teoria. (Verranno presentate píú avanti, nel §40, quelle basate sull’interpretazione kantiana della posizione originaria.) In primo luogo è chiaro che, poiché le differenze tra le parti sono a esse sconosciute, e ognuno è. ugualmente razionale e nella stessa situazione, ciascuno si lascia convincere dagli stessi argomenti. Possiamo perciò vedere la scelta all’interno della posizione originaria dal punto di vista di una persona scelta a caso. Se, dopo la dovuta riflessione, essa

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preferisce una concezione della giustizia a un’altra, tutti faranno allo stesso modo, e. verrà Così raggiunto un accordo all’unanimità. Per dirlo in modo più vivace, possiamo immaginare che le parti debbano comunicare reciprocamente attraverso un arbitro che funga da intermediario, e che quest’ultimo debba annunciare quali alternative siano state suggerite e quali le ragioni presentate per appoggiarle. Egli impedisce ogni tentativo di formare coalizioni, e informa le parti quando un’intesa è stata raggiunta. Un arbitro del genere è evidentemente superfluo appena si assume che le deliberazioni delle parti devono essere simili. Da ciò segue quindi l’importante conseguenza che le parti sono prive di base per la contrattazione, nel senso corrente dei termine. Nessuno conosce la sua posizione nella società né le sue doti naturali, e quindi nessuno si trova nella condizione di adattare i princìpi a proprio vantaggio. Possiamo immaginare che uno dei contraenti minacci di non cedere a meno che gli altri non acconsentano a princìpi a lui favorevoli. Ma in che modo egli può sapere quali princìpi sono particolarmente vantaggiosi per i suoi interessi? Lo stesso vale per la formazione di coalizioni: se un gruppo dovesse decidere di unirsi a scapito degli altri, esso non saprebbe come avvantaggiarsi nella scelta dei princìpi. Anche se riuscisse a costringere tutti a accettare la sua proposta, non avrebbe alcuna garanzia che essa vada a suo beneficio, poiché non è in grado di autoidentificarsi, né con un nome né con una descrizione. Il solo caso in cui questa conclusione non è valida è quello del risparmio. Poiché le persone nella posizione originaria sanno di essere contemporanee (accettando l’interpretazione di contemporaneità), esse possono favorire la loro generazione rifiutando di fare qualunque sacrificio per i propri discendenti; esse non fanno altro che accettare il principio per cui nessuno ha il dovere di risparmiare per i propri discendenti. Le generazioni precedenti possono avere risparmiato o meno; le parti ora non possono fare nulla che influenzi quel fatto. In questo caso, il velo di ignoranza non riesce a garantire il risultato desiderato. Risolveremo quindi il problema della giustizia tra generazioni in modo diverso, e cioè cambiando l’assunzione motivazionale. Ma con questo aggiustamento, nessuno è in grado di formulare princìpi speciali per favorire la propria causa. Qualunque sia la sua posizione temporale, ciascuno è costretto a scegliere per tutti. 2 Le restrizioni all’informazione particolare sono quindi di fondamentale importanza nella

2 J.J. Rousseau, Il contratto sociale , II, iv, 5.

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posizione originaria. Senza di esse non saremmo in grado di proporre alcuna teoria definita della giustizia. Dovremmo accontentarci di una vaga formulazione secondo cui la giustizia sarebbe qualcosa su cui si sarebbe d’accordo senza poter dire quasi nulla sul contenuto di questo stesso accordo. Le restrizioni formali al concetto di giusto, perlomeno quelle che si applicano direttamente ai princìpi, non sono sufficienti per i nostri scopi. Il velo di ignoranza rende possibile una scelta unanime di una particolare concezione della giustizia. Senza queste limitazioni alla conoscenza, il problema della contrattazione nella posizione originaria sarebbe disperatamente complicato. Anche se teoricamente esistesse una soluzione, non saremmo, almeno sino a ora, in grado di determinarla. Credo che la nozione di velo di ignoranza sia implicita nell’etica di Kant (§40). Tuttavia, il problema di definire le conoscenze delle parti e di caratterizzare le alternative a loro disposizione è stato spesso ignorato, anche dalle teorie contrattualiste. In alcuni casi la situazione definitiva della deliberazione morale è stata esposta in modo tanto indeterminato, che è impossibile capire cosa ne risulterà. La dottrina di Perry, ad esempio, è essenzialmente contrattualista: egli sostiene che l’integrazione sociale e quella personale devono procedere in base a princìpi totalmente differenti: la seconda per mezzo della prudenza razionale, e la prima grazie al concorso di persone di buona volontà. 3 Perry sembra rifiutare l’utilitarismo più o meno per gli stessi motivi che abbiamo proposto prima; e cioè che esso estende scorrettamente il principio di scelta per un individuo singolo a scelte che riguardano la società. Il giusto corso d’azione è caratterizzato come quello che meglio favorisce gli scopi sociali, nei modi in cui questi verrebbero formulati per mezzo di un accordo riflessivo, a condizione che le parti abbiano una conoscenza completa delle circostanze e siano spinte da una benevola attenzione riguardo ai loro reciproci interessi. Non si fa però alcuno sforzo per specificare con precisione i possibili risultati di questo genere di accordo. In realtà, non è possibile trarre alcuna conclusione senza una trattazione piu approfondita. Non intendo qui criticare altri, ma spiegare la necessità di quelli che ogni tanto possono sembrare particolari senza importanza. Le ragioni a favore del velo di ignoranza vanno al di là di una esigenza di pura semplicità. Vogliamo definire la posizione originaria in modo da ottenere la soluzione desiderata. Se è

3 Vedi R.B. Perry, the General Theory of Value , Longmans, Green and Co., New York, 1926, pp. 674-82.

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permessa una conoscenza dei particolari, allora il risultato è influenzato da contingenze arbitrarie. Come abbiamo già rilevato, ‘a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia’ non è un principio di giustizia. Se la posizione originaria deve produrre accordi giusti, le parti devono essere situate equamente e trattate egualmente come persone morali. L’arbitrarietà del mondo deve essere corretta modificando le circostanze della situazione contrattuale iniziale. Se inoltre richiediamo l’unanimità nella scelta dei princìpi anche quando c’è informazione completa, potranno essere risolti soltanto pochi casi piuttosto ovvi. In queste circostanze, una concezione della giustizia basata sull’unanimità sarebbe veramente debole e banale. Ma con questa esclusione della conoscenza, il requisito dell’unanimità non è fuori luogo, e il fatto che possa venire soddisfatto assume una grande rilevanza. Esso ci mette in condizione di affermare che la concezione della giustizia prescelta rappresenta un’effettiva composizione di interessi. Un’ultima osservazione: in genere suppongo che le parti possiedano un’informazione generale completa. Non ci sono fatti generali di cui esse siano all’oscuro; ciò soprattutto per evitare complicazioni. Tuttavia, una concezione della giustizia deve essere la base pubblica della cooperazione sociale. Poiché la comprensione comune richiede una limitazione alla complessità dei princìpi, possono sussistere limiti analoghi all’uso della conoscenza teorica nella posizione originaria. Ovviamente sarebbe molto difficile classificare per grado di complessità i vari tipi di fatti generali; io non tenterò di farlo. Quando la incontriamo, siamo però in grado di riconoscere una costruzione teorica complessa. Sembra perciò ragionevole affermare che, a parità, una concezione della giustizia è preferibile a un’altra quando è fondata su fatti generali nettamente più semplici, e quando la sua capacità di non di scelta non dipende da calcoli elaborati alla luce di un ampio spettro di possibilità definite teoricamente. Se le circostanze lo permettono, è preferibile che i fondamenti di una concezione pubblica della giustizia siano evidenti per chiunque. Credo che questa considerazione favorisca i due princìpi di giustizia nei confronti del criterio di utilità.

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Judith Jarvis Thomson ‘Una difesa dell’aborto’ (1971) Traduzione P. Donatelli

L’opposizione all’aborto si basa principalmente sulla premessa che fin dal concepimento il feto è un essere umano, una persona. A sostegno di tale premessa vengono presentati argomenti, ma, a mio avviso, non in modo convincente. Prendiamo, ad esempio, l’argomento più comune. Anzitutto, ci viene richiesto di prendere buona nota del fatto che lo sviluppo di un essere umano dal concepimento alla nascita fino alla fanciullezza è un processo continuo. Allora, così si prosegue, tracciare una linea divisoria, scegliere un punto in questo processo di sviluppo e dire «prima di questo punto non è una persona, dopo questo punto è una persona» significa fare una scelta arbitraria, una scelta che non può trovare ragione nella natura delle cose. La conclusione è che il feto è, o almeno faremmo meglio a dire che è, una persona fin dal momento del concepimento. Ma siffatta conclusione non segue dalla premessa. Qualcosa di simile si potrebbe dire dello sviluppo di una ghianda in una quercia, ma da ciò non segue che le ghiande sono querce, o che faremmo meglio a dire sono querce. Argomenti di questo tipo sono talvolta chiamati «argomenti del piano inclinato» – l’espressione si spiega da sé – ed è costernante che gli avversari dell’aborto vi ricorrano in modo così esclusivo e acritico. Sono tuttavia propensa a ammettere che non vi sono prospettive promettenti nell’idea di «tracciare una linea divisoria» nello sviluppo del feto. Dovremmo probabilmente anche convenire sul fatto che il feto è già diventato una persona umana ben prima della nascita. lnvero, si resta sorpresi quando si viene a apprendere quanto precoce sia l’inizio dell’acquisizíone delle caratteristiche umane. Alla decima settimana, per esempio, il feto ha già un volto, braccia e gambe, e le dita delle mani e dei piedi; possiede organi interni, ed è rilevabíle attività cerebrale 1.

1 Daniel Callahan, Abortion: Law, Choice and Morality, New York, 1970, p. 373. Questo libro presenta un affascinante resoconto delle conoscenze disponibili sull’aborto. La tradizione ebraica viene esaminata in David M. Feldman, Birth Control in Jewisb Law, New York, 1968, parte V; quella cattolica in John T. Noonan, Jr., «An Almost Absolute Value in History», in The Morality of Abortion, a cura di John T. Noonan ir., Cambridge, Mass, 1970.

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D’altra parte, penso che la premessa dell’argomento antiabortista sia falsa, non è vero che il feto sia una persona fin dal momento del concepimento. Un ovulo fecondato da poco, un agglomerato di cellule da poco impiantato, non è una persona più di quanto una ghianda non sia un albero di quercia. Ma non discuterò queste questioni. Mi sembra infatti del massimo interesse indagare quello che accade se, per amore dell’argomento, accettiamo la premessa. In che modo, precisamente, siamo tenuti a concludere da questa premessa alla inammissibilità morale dell’aborto? Gli avversari dell’aborto di solito impiegano la maggior parte delle loro energie a stabilire che il feto è una persona, ma quasi mai spiegano il passaggio da questa tesi alla inammissibilità dell’aborto. Forse pensano che sia troppo semplice e ovvio per richiedere un commento. O forse stanno semplicemente applicando un principio di economia nell’argomentazione. Molti di coloro che sono a favore dell’aborto si basano infatti sulla premessa che il feto non è una persona, ma solo un insieme di tessuti biologici che diventerà una persona all’atto della nascita: perché allora offrire più argomenti del necessario? Qualsiasi sia la spiegazione dell’atteggiamento degli antiabortísti, suggerisco che il passaggio argomentativo che assumono non è né facile né ovvio, che, al contrario, esso esige un esame più accurato di quello solito, e che, una volta esaminato più accuratamente, ci sentiremo più propensi a rifiutarlo. Propongo allora di riconoscere che il feto è una persona fin dal momento del concepimento. Assumo che l’argomento continui grosso modo così. Ogni persona ha diritto alla vita. Pertanto il feto ha diritto alla vita. Indubbiamente, la madre ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo interno; ciò verrà ammesso da chiunque. Ma è certo che il diritto alla vita di una persona è più forte e più cogente del diritto della madre di decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo interno, e quindi prevale su di esso. Pertanto il feto non può essere ucciso e l’aborto non può essere effettuato. 2 Tutto ciò appare plausibile. Ma ora vi chiedo di immaginare questa situazione. Una mattina vi svegliate distesi al fianco di un violinista privo di conoscenza, un violinista molto famoso. Gli è stata diagnosticata una grave insufficienza renale, la società dei musicofilí ha consultato tutti gli

2 «Diretto», negli argomenti cui mi riferisco, è un termine tecnico. In breve, ciò che si intende con «uccisione diretta» è o l’uccidere come un fine in sé, o l’uccidere come mezzo per qualche fine, ad esempio, il fine di salvare la vita di qualcun altro. Si veda la nota 6, più sotto, per un esempio del suo uso.

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archivi medici disponibili e ha scoperto che siete gli unici a possedere il tipo di sangue adatto per la trasfusione. Vi hanno rapito, e la notte precedente il sistema circolatorio del violinista è stato collegato al vostro, in modo che i vostri reni possono depurare il suo sangue così come fanno con il vostro. Il direttore dell’ospedale vi dice ora: «Guardi, siamo spiacenti che la società di musícofili le abbia fatto questo – non l’avremmo mai permesso se l’avessimo saputo. Tuttavia l’hanno fatto e ora il violinista è collegato al suo corpo. Staccarsi vorrebbe dire ucciderlo. Ma non c’è da preoccuparsi, è solo per nove mesi. Per allora sarà guarito dalla sua insufficienza, e potrà essere staccato senza pericoli.» Avete il dovere morale di acconsentire a questa situazione? Farlo sarebbe senza dubbio gentile da parte vostra, molto gentile. Ma dovete acconsentirvi? Che dire se non si trattasse di nove mesi ma di nove anni? O di un periodo ancora più lungo? E se il direttore dell’ospedale dicesse: «t stato sfortunato, ma ora deve rimanere a letto, con il violinista collegato al suo corpo, per il resto dei suoi giorni. Ricordi che ogni persona ha diritto alla vita, e i violinisti sono persone. Certo, lei ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo interno, ma il diritto alla vita di una persona prevale sul suo diritto a decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo interno.» Immagino che considerereste queste parole come un affronto, e ciò suggerisce che effettivamente c’è qualcosa di sbagliato in quell’argomento così apparentemente plausibile che ho menzionato poco fa. In questo caso, naturalmente, siete rimaste vittime di un rapimento, non vi siete sottoposti volontariamente all’intervento chirurgico che ha collegato il violinista ai vostri reni. Coloro che si oppongono all’aborto in base al diritto alla vita del feto possono fare un’eccezione per le gravidanze dovute a violenza carnale? Certo. Si può sostenere che le persone hanno diritto alla vita solo se la loro esistenza non è dovuta a violenza carnale, oppure si può affermare che tutte le persone hanno diritto alla vita, ma che alcune ne hanno meno di altre, in particolare quelle la cui esistenza è dovuta a violenza carnale. Siffatte affermazioni suonano piuttosto sgradevoli. t chiaro che la questione circa l’avere o meno diritto alla vita, o di quanto diritto si abbia, non dovrebbe dipendere dalla questione circa l’essere o meno il prodotto di una violenza carnale. Del resto gli avversari dell’aborto non ammettono eccezioni nel caso che la madre debba trascorrere a letto i nove mesi della gravidanza. Converrebbero che si tratta di un grosso inconveniente, difficile da sopportare per la madre; ma nondimeno, tutte le persone hanno diritto alla vita, il feto è una persona, e così via. Sospetto, in verità, che non farebbero un’eccezione

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nemmeno se, per un caso prodigioso, la gravidanza occupasse nove anni, o addirittura il resto della vita della madre. Alcuni non vorranno ammettere eccezioni nemmeno nel caso in cui il proseguimento della gravidanza avrà come probabile conseguenza quello di abbreviare la vita della madre; considerano l’aborto inammissibile anche a costo della vita della madre. Oggi questi casi sono molto rari, e molti avversari dell’aborto non accettano questa tesi estrema. Nondimeno, essa offre un buon punto di partenza per la discussione in quanto consente di sollevare alcune questioni di notevole interesse.

I. Denominiamo la tesi secondo cui l’aborto è inammissibile anche a costo della vita della madre «tesi estrema». Desidero suggerire anzitutto che questa tesi non deriva dall’argomento menzionato in precedenza a meno che non si aggiungano alcune premesse piuttosto forti. Supponiamo che una donna incinta apprenda di avere un vizio cardiaco che le impedisce di portare a termine la gravidanza senza andare incontro a morte sicura. Cosa si può fare per lei? Il feto, essendo una persona, ha diritto alla vita. Presumibilmente, essi hanno un eguale diritto alla vita. Come si arriva allora a sostenere che non si può abortire nemmeno in questo caso? Se madre e bambino hanno un eguale diritto alla vita, non dovremmo forse decidere con la monetina? 0 dovremmo aggiungere al diritto alla vita della madre il suo diritto a decidere del suo corpo, diritto che chiunque sembra disposto a riconoscerle – con ciò facendo prevalere la somma dei suoi diritti sul diritto alla vita del feto? L’argomento più comune a questo riguardo è il seguente. Si sostiene che eseguire l’aborto significherebbe uccidere direttamente il bambino, mentre non far niente non comporterebbe l’uccisione della madre ma solo lasciarla morire. Inoltre, con l’uccisione del bambino, si ucciderebbe un innocente, perché il bambino non ha commesso alcun crimine e non mira alla morte della madre. A questo punto ci sono molti modi in cui l’argomento potrebbe proseguire. (1) Poiché uccidere direttamente un innocente è sempre e assolutamente inammissibile, non si può abortire. Oppure, (2) poiché uccidere direttamente un innocente è omicidio, e l’omicidio è

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sempre e assolutamente inammissibile, non si può abortire. 3 O ancora, (3) poiché il dovere di astenersi dall’uccidere direttamente un innocente è più cogente del dovere di salvare una persona dalla morte, non si può abortire. O infine, (4) se le uniche opzioni disponibili sono uccidere direttamente un innocente o lasciar morire una persona, allora si deve preferire lasciar morire la persona, e pertanto non si può abortire. 4 Alcuni sembrano sostenere che non si tratta qui di premesse ulteriori che devono essere aggiunte per arrivare alla conclusione desiderata; al contrario, esse deriverebbero dal solo fatto che un innocente ha diritto alla vita 5. Questo mi sembra un errore, e forse il modo più semplice di mostrarlo è di spiegare come, mentre dobbiamo certamente riconoscere che persone innocenti hanno diritto alla vita, le tesi da (1) a (4) sono tutte false. Consideriamo, per esempio, la (2). Se l’uccisione diretta di un innocente è omicidio, e pertanto inammissibile, allora l’uccisione da parte della madre dell’ínnocente che è in lei è omicidio, e pertanto è inammissibile. Ma non si può seriamente considerare l’idea dell’omicidío se la madre abortisce per salvarsi la vita. Non si può affermare sul serio che ella deve astenersi dal farlo, che deve attendere passivamente la propria morte. Torniamo al caso del violinista. Siete stesi al fianco del violinista e il direttore

3 Cf. l’enciclica di Papa Pio XI sul matrimonio cristiano (tr. inglese, St. Paul Editions, Boston, s. d., p. 32): «per quanto grande possa essere la nostra pietà per la madre la cui salute, e perfino vita, viene messa in grave pericolo nell’adempimento del dovere assegnatole dalla natura, nondimeno quale mai ragione potrebbe essere sufficiente a scusare in un qualsiasi modo l’assassinio diretto dell’ínnocente? t precisamente di questo di cui si tratta». Noonan (in The Morality of Abortion, cit., p. 43) interpreta il passo così: «Quale causa può mai servire a scusare in un modo qualsiasi l’uccisione diretta dell’innocente? Perché è questo di cui si tratta.» 4 La tesi (4) è più debole, ma in modo interessante, delle tesi (1), (2) e (3). Queste ultime escludono l’aborto anche in casi in cui sia la madre sia il bambinomoriranno se non si ricorre all’aborto. Per contrasto, chi sostenesse la tesi espressa in (4) potrebbe coerentemente affermare che non si deve preferire lasciar morire due persone all’ucciderne una. 5 Si veda il brano seguente tratto dal messaggio indirizzato da Pio XI ana associazione delle ostetriche cattoliche italiane: «Il bambino nel ventre materno riceve il diritto alla vita immediatamente da Dio. – Pertanto, non c’è uomo, né autorità umana, né scienza, nessuna prescrizione medica, eugenetica, sociale, economica o morale che possa stabilire o garantire una base giuridica valida per una diretta e deliberata disposizione di una vita umana innocente, cioè una disposizione che abbia come scopo la sua distruzione o come fine o come mezzo per un altro fine forse non illecito di per sé. – Il bambino, ancora non nato, è una persona nello stesso grado e per la stessa ragione per cui lo è la madre» (citato in Noonan, The Morality of Abortion, cit., p. 45).

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dell’ospedale vi dice: «So che si tratta di una situazione angosciosa, e ne ho profonda compassione, ma lo sforzo aggiuntivo cui vengono sottoposti i reni la condurrà a morte nel giro di un mese. Nondimeno, deve restare dov’è. Perché staccare l’apparecchiatura significherebbe uccidere direttamente un violinista innocente, e questo è omicidio, ed è inammissibile. » Ma se c’è una verità al mondo, questa è senz’altro che non si commette omicidio, non si fa nulla di inammissibile, se ci si volta dall’altra parte e si stacca il collegamento con il violinista al fine di salvare la propria vita. Negli scritti sul problema dell’aborto l’attenzione è stata concentrata principalmente su quello che una terza parte può o non può fare in risposta a una richiesta di aborto da parte di una donna. In un certo senso, ciò è comprensibile. Allo stato delle cose, non c’è molto che una donna possa fare per abortire da sola. Così la questione è che cosa una terza parte può fare, mentre quello che può fare la madre, se pure viene menzionata, viene dedotto, come conseguenza secondaria, da ciò che viene concluso circa quello che la terza parte può fare. Ma trattare la questione in questo modo, mi sembra, significa rifiutare di riconoscere alla madre proprio quello status di persona su cui tanto si insiste per il feto: non possiamo stabilire quello che una persona può fare in base a quello che può fare una terza persona. Supponiamo che vi troviate íntrappolati in una casa angusta con un bambino in fase di crescita. La casa è estremamente angusta e il bambino cresce rapidamente. Siete già costretti contro il muro della casa e fra pochi minuti resterete schiacciati contro la parete. D’altra parte il bambino non corre pericolo di restare schiacciato; se la sua crescita non viene fermata si farà male, ma alla fine gli basterà sfondare le mura di casa e se ne andrà libero per il mondo. Ora sarebbe comprensibile se un terzo astante dovesse dire: «Non c’è niente che possiamo fare per voi. Non possiamo scegliere tra la vostra vita e la sua, non possiamo essere noi a decidere chi deve vivere, non possiamo intervenire.» Ma da ciò non segue che nemmeno voi possiate fare niente, che non potete attaccarlo per salvarvi la vita. Per quanto innocente possa essere il bambino, non avete il dovere di attendere passivamente mentre vi schiaccia a morte. Forse c’è la vaga sensazione che una donna incinta abbia lo status di una casa, cui non riconosciamo il diritto di autodífesa. Ma se la donna ospita il bambino, non andrebbe dimenticato che è una persona che lo ospita. Forse, a questo punto, dovrei dichiarare in modo esplicito che non sto sostenendo che le persone hanno il diritto di fare qualsiasi cosa per salvare la propria vita. Penso, piuttosto, che vi

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siano limiti severi al diritto di autodifesa. Se qualcuno vi minaccia di morte a meno che non torturiate qualcun altro a morte, credo che non abbiate il diritto di farlo anche a costo della vostra vita. Ma il caso considerato qui è molto diverso. Nel nostro caso vi sono solo due persone coinvolte, una la cui vita viene minacciata e l’altra che la minaccia. Entrambi sono innocenti: chi viene minacciato non lo è a causa di una qualche colpa, chi minaccia non lo fa a causa di una colpa. Per questa ragione possiamo pensare che noi, dall’esterno, non possiamo intervenire. Ma la persona minacciata può. In breve, una donna può certamente difendere la sua vita contro la minaccia portata da un bambino non-nato, anche se ciò comporta la morte di quest’ultimo. E ciò mostra non solo che le tesi da (1) a (4) sono false; mostra anche che la tesi estrema sull’aborto è falsa, e quindi non è necessario passare in rassegna tutti gli altri modi possibili di arrivare ad essa partendo dall’argomento menzionato all’inizío.

II. La tesi estrema potrebbe naturalmente essere indebolita in modo da sostenere che mentre l’aborto è ammissibile per salvare la vita della madre, non può essere effettuato da terzi ma solo dalla madre. Ma nemmeno ciò è corretto. Dobbiamo tenere presente che la madre e il bambino non-nato non sono come due inquilini in una casa piccola che, per uno sfortunato errore, è stata affittata a entrambi; è la madre a essere proprietatú della casa. Questa circostanza fa aumentare l’intollerabilità del dedurre la conclusione che la madre non può fare niente dalla supposizione che dei terzi non possano far niente. Ma c’è di più: esso getta luce sulla stessa supposizione che dei terzi non possano fare niente. Di certo ci consente di vedere come una terza persona che dica: «Non posso scegliere tra di voi» e reputi ciò imparzialità, si stia solo prendendo in giro. Se Jones ha trovato un cappotto, di cui ha bisogno per proteggersi dal freddo, ma di cui ha bisogno anche Smith per la stessa ragione, non è per imparzialità che si può dire «non posso scegliere tra di voi» se è Smith il proprietario del cappotto. Le donne hanno ripetuto tante volte «il corpo è mio!» e hanno ragione di sentirsi in collera, di pensare che sono state parole gettate al vento. Dopo tutto, Smith difficilmente ci ringrazierà se gli diciamo: «Certo che è il tuo cappotto, chiunque lo riconoscerebbe. Ma nessuno può scegliere tra te e Jones che ha finito per averlo.» Dovremmo in realtà domandarci cosa significa dire «nessuno può scegliere» di fronte al fatto che il corpo che ospita il bambino è quello della madre. Può trattarsi semplicemente di un

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mancato apprezzamento di questo fatto. Ma può trattarsi di qualcosa di più interessante, cioè che si ha il diritto di rifiutarsi di esercitare violenza contro le persone, anche quando sarebbe giusto e equo farlo, anche quando la giustizia sembra esigere che qualcuno lo faccia. Quindi la giustizia potrebbe richiedere che qualcuno riprenda da jones il cappotto di Smith, e tuttavia si ha il diritto di rifiutare di essere la persona che mette le mani addosso a Jones, si ha il diritto di rifiutarsi di esercitare violenza contro di lui. Penso che ciò debba essere riconosciuto. Ma allora non si deve dire «nessuno può scegliere», ma solo «io non posso scegliere», e a rigore nemmeno questo, ma «io non lo farò», senza escludere che qualcun altro possa o debba farlo, in particolare chi, ricoprendo una posizione di responsabilità con il compito di garantire i diritti delle persone, ne ha sia il potere sia il dovere. Non si pone qui alcuna difficoltà. Non ho sostenuto che chiunque deve acconsentire alla richiesta della madre di effettuare un’aborto per salvarle la vita, ho solo affermato che può farlo. Secondo parecchie concezioni della vita umana, suppongo, il corpo della madre le è dato solo in prestito, e il prestito non le conferisce alcun genere di pretesa prioritaria su di esso. Chi sostiene questa tesi potrebbe reputare conforme a imparzialità dire «non posso scegliere». Mi limiterò a ignorare questa possibilità. Credo che se c’è una cosa su cui un essere umano ha una pretesa prioritarla e giusta, questa è il proprio corpo. E forse non c’è nemmeno bisogno di presentare argomenti a favore, dal momento che, come ho accennato, gli argomenti contro l’aborto che stiamo esaminando riconoscono che la donna ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo interno. Ma nonostante tale riconoscimento, ho cercato di mostrare che essi non prendono sul serio ciò che va fatto per riconoscere effettivamente siffatto diritto. Suggerisco che lo stesso problema si presenterà in modo ancora più chiaro se ci distogliamo dai casi in cui è in pericolo la vita della madre e prendiamo a occuparci, come mi propongo di fare da ora in avanti, dei casi molto più comuni in cui una donna desidera abortire per ragioni meno urgenti della salvezza della propria vita.

III. Quando la vita della madre non è in pericolo, l’argomento menzionato all’inizio sembra avere una forza maggiore. «Ognuno ha diritto alla vita, dunque la persona non-nata ha diritto alla vita.» E non e’ forse vero che il diritto alla vita del bambino ha un peso maggiore di qualsiasi

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altra ragione che la madre potrebbe avanzare per giustificare l’aborto, che non sia il diritto alla vita della madre stessa? Questo argomento tratta il diritto alla vita come qualcosa di nonproblematico. Invece problemi ve ne sono, e proprio il non avvedersene mi sembra la fonte dell’errore. Dobbiamo ora chiederci finalmente cosa significa avere diritto alla vita. Secondo alcune concezioni, avere diritto alla vita include un diritto a ricevere almeno lo stretto necessario per continuare a vivere. Ma supponiamo che ciò che di fatto è lo stretto necessario di cui un essere umano ha bisogno per continuare a vivere sia costituito da qualcosa su cui non si ha alcun diritto. Se giaccio mortalmente malata, e la sola cosa che può salvarmi è il tocco della fredda mano di Henry Fonda sulla mia fronte febbricitante, nondimeno non ho il diritto di ricevere il tocco della fredda mano di Henry Fonda sulla mia testa febbricitante. Sarebbe estremamente gentile da parte sua volare dalla West Coast per questo. Sarebbe meno gentile se dei miei amici, senza dubbio con le migliori intenzioni, andassero a prelevare Henry Fonda dalla sua casa. Ma io non ho alcun diritto che qualcuno faccia questo per me. O ancora, per tornare all’esempio precedente, il fatto che per mantenersi in vita quel violinista abbia bisogno dell’uso continuo dei vostri reni non prova che egli abbia diritto all’uso continuo dei vostri reni. Certamente non ha un diritto nei vostri confronti per cui voi dovreste concedergli l’uso continuo dei reni. Nessuno infatti ha diritto a usare i vostri reni a meno che non siate voi a concedergli tale diritto; e nessuno ha il diritto nei vostri confronti di aver concesso questo diritto – se gli permettete di usare i vostri reni, è una vostra gentilezza, non qualcosa che si può pretendere come dovuto. Né ha un diritto nei confronti di altri per cui dovrebbero essere loro a procurargli l’uso continuo dei vostri reni. Certamente il violinista non ha il diritto nei confronti della società dei musicofili di far sì che siano loro a collegarlo con voi. E se ora cominciate a staccare i collegamenti, dopo aver appreso che altrimenti dovrete trascorrere nove anni al suo fianco in ospedale, non c’è nessuno al mondo che deve cercare di impedirvelo in base alla ragione che così facendo gli viene negato qualcosa cui ha diritto. Alcuni danno del diritto alla vita una intepretazione più ristretta. Secondo la loro concezione, esso non comprende un diritto positivo a qualcosa ma equivale al diritto a non essere uccisi da nessuno, e solo a questo. Ma qui sorge una difficoltà. Se tutti devono astenersi dall’uccidere il violinista, allora tutti devono astenersi dal fare un gran numero di cose. Nessuno deve tagliargli

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la gola, nessuno deve sparargli e nessuno deve staccare i collegamenti tra lui e voi. Ma ha un diritto nei confronti di chiunque per cui chiunque deve astenersi dallo staccare i collegamenti tra lui e voi? Non fare ciò significa permettergli di continuare a usare i vostri reni. Si potrebbe sostenere che ha un diritto nei nostri confronti per cui noi dovremmo permettergli di continuare a usare i vostri reni. Vale a dire, mentre non ha un diritto nei nostri confronti per cui dovremmo procurargli l’uso dei vostri reni, si potrebbe sostenere che egli ha comunque un diritto ora al nostro non-intervento, che, altrimenti, lo priverebbe dell’uso dei vostri reni. Tornerò in seguito sulla questione dell’intervento di terzi. Ma di certo il violinista non ha un diritto nei vostri confronti per cui voi dovreste permettergli di continuare a usare i vostri reni. Come ho detto prima, se gli permettete di usarli è per vostra gentilezza non per qualcosa che gli dovete. La difficoltà che ho indicato qui non è esclusiva del diritto alla vita. Si presenta in connessione con tutti gli altri diritti naturali; e deve essere fronteggiata da ogni teoria dei diritti che voglia essere adeguata. Per i nostri scopi è sufficiente averne preso nota. Ma voglio sottolineare che non sto sostenendo che le persone non hanno diritto alla vita – al contrario, mi sembra che il principale controllo cui dobbiamo sottoporre l’accettabílità di una teoria dei diritti è che deve essere una verità di quella teoria che le persone hanno diritto alla vita. Sostengo solo che avere diritto alla vita non garantisce avere un diritto né all’uso né alla concessione dell’uso continuativo del corpo di un’altra persona – anche nel caso in cui ciò sia necessario per la vita stessa del beneficíario. Pertanto il diritto alla vita non può essere usato per la causa antiabortista in quel modo diretto e chiaro che tanti avversari dell’aborto sembrano aver creduto possibile.

IV. C’è un altro modo di porre in evidenza la difficoltà di cui si sta discutendo. Nei casi più comuni, privare una persona di qualcosa cui ha diritto significa trattarla in modo contrario a giustizia. Supponiamo che un ragazzo e suo fratello minore abbiano ricevuto in regalo per Natale una scatola di cioccolatini. Se il ragazzo più grande prende la scatola e non dà nemmeno un cioccolatino al fratello, è ingiusto nei suoi confronti, perché il fratello ha diritto a metà del contenuto della scatola. Ma supponiamo ora che, dopo aver appreso che altrimenti dovrete passare nove anni accanto al violinista in ospedale, stacchiate le apparecchiature che vi collegano. Sicuramente non vi state comportando in modo ingiusto verso di lui, dal momento che non gli avete concesso il diritto di usare i vostri reni e nessun altro può concedere al

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violinista un diritto siffatto. Ma dobbiamo tenere presente altresì che mentre staccate le apparecchiature in realtà lo state uccidendo, e i violinisti, come chiunque altro, hanno diritto alla vita, e quindi, secondo la tesi che stiamo considerando, hanno il diritto di non essere uccisi. Pertanto, in questo caso, staccando i collegamenti, fate qualcosa che il violinista ha diritto che voi non facciate, ma nel farla non agite in modo ingiusto verso di lui. La revisione che può essere introdotta a questo punto è la seguente: il diritto alla vita consiste non nel diritto a non essere uccisi, ma piuttosto nel diritto a non essere uccisi ingiustamente. Ciò comporta un rischio di circolarità, ma non importa: ci consente comunque di rendere compatibili il fatto che il violinista ha diritto alla vita con il fatto che non si agisce ingiustamente nei suoi confronti staccandosi dall’apparecchiatura, e con ciò uccidendolo. Infatti, se non lo si uccide ingiustamente, non si viola il suo diritto alla vita, e quindi non c’è da meravigliarsi se non gli si fa ingiustizia. Ma se questa versione rivista del diritto alla vita viene accettata, la debolezza dell’argomento contro l’aborto si mostra nel modo più chiaro: non è sufficiente mostrare che il feto è una persona e rammentarci che tutte le persone hanno diritto alla vita – occorre che ci si mostri anche che uccidere il feto viola il suo diritto alla vita, vale a dire che l’aborto è una uccisione ingiusta. Ma lo è? Suppongo che possiamo dare per scontato che in caso di gravidanza dovuta a violenza carnale la madre non ha concesso alla persona nonnata il diritto di usare il suo corpo per cibo e riparo. E in realtà, in quale caso si potrebbe supporre che la madre abbia concesso alla persona non-nata un diritto siffatto? Non ci sono cose come persone non-nate fluttuanti nell’aria in attesa che una donna desiderosa di avere un bambino dica loro: «Prego, accomodatevi.» Ma si potrebbe sostenere che esistono altri modi in cui si può acquisire un diritto all’uso del corpo di un’altra persona, modi diversi da quello di essere invitati a usarlo da parte della persona in questione. Supponiamo che una donna abbia volontariamente rapporti sessuali, consapevole della probabilità di restare incinta, e resti effettivamente incinta; non è forse in parte responsabile per la presenza, di fatto per l’esistenza, della persona non-nata dentro di lei? Senza dubbio non l’ha invitata. Ma la stessa parziale responsabilità della donna per la sua presenza non dà forse

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alla persona non-nata il diritto di usare il suo corpo? 6 Se così, allora l’aborto sarebbe più simile al caso del ragazzo che s’impossessa dei cioccolatini che alla interruzione dei collegamenti con l’apparecchiatura che tiene in vita il violinista – agire in questo modo significherebbe privare il non-nato di qualcosa cui ha diritto, e quindi significherebbe commettere un’ingiustizia nei suoi confronti. E allora ci si potrebbe anche tornare a chiedere se la donna può uccidere o meno il non-nato, sia pure per salvare la propria vita: se lo ha volontariamente chiamato all’esistenza come può ora ucciderlo, sia pure per autodifesa? La prima osservazione da fare a questo proposito è che si tratta di un argomento nuovo. Gli avversari dell’aborto si sono talmente preoccupati di sottolineare l’indipendenza del feto al fine di porre il suo diritto alla vita sullo stesso piano di quello della madre, che hanno in genere sorvolato sul possibile sostegno ottenibile in base alla circostanza che il feto dipende dalla madre, al fine di stabilire una speciale responsabilità di quest’ultima nei suoi confronti, una responsabilità che dà al feto nei confronti della madre diritti non posseduti da nessuna persona indipendente – come il violinista con insufficienza renale che le è completamente estraneo. D’altra parte, questo argomento darebbe alla persona non-nata un diritto al corpo di sua madre solo se la sua gravidanza risultasse da un atto volontario, intrapreso con piena consapevolezza della probabilità di una gravidanza come suo risultato. L’argomento escluderebbe invece completamente la persona non-nata la cui esistenza è dovuta a violenza carnale. A meno di non disporre di ulteriori argomenti, allora, giungiamo alla conclusione che persone non-nate la cui esistenza è dovuta a violenza carnale non hanno diritto all’uso dei corpi delle loro madri, e pertanto abortire in questi casi non significa privarli di qualcosa cui hanno diritto e quindi non si tratta di uccisione ingiusta. E dovremmo anche osservare che non è per nulla scontato che questo argomento mantenga tutto quello che promette. Vi sono casi molto diversi tra loro, e i dettagli fanno la differenza. Se nella stanza c’è aria viziata, e apro la finestra per cambiarla, e un ladro ne approfitta per entrare a

6 La necessità di discutere questo argomento mi è stata chiarita dai membri della Society for Ethical and Legal Philosophy, presso cui questo lavoro è stato inizialmente presentato.

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rubare in casa, sarebbe assurdo dire: «Ah, ora il ladro può anche restare, lei gli ha dato il diritto di usare la propria casa – infatti è parzialmente responsabile per la presenza del ladro lì, perché ha volontariamente fatto ciò che ha consentito al ladro di entrare, con la piena consapevolezza che esistono i ladri e i ladri rubano.» Sarebbe ancora più assurdo dire ciò, se avessi avuto sbarre alla finestre, proprio per impedire ai ladri di entrare, e un ladro fosse riuscito a entrare a causa di un difetto delle sbarre. Resta parimenti assurdo se immaginiamo che non sia un ladro a entrare ma una persona innocente per sbaglio o per caso. Consideriamo questa situazione: semi di persone fluttuano nell’aria come polline, se aprite le finestre uno di questi semi può entrare e mettere radici sul tappeto o sulla tappezzeria. Non desiderate avere bambini, pertanto fissate alle finestre delle cortine di protezione a reticolo, le migliori sul mercato. Ma come talvolta, molto di rado, accade, una delle maglie del reticolo è difettosa; un seme entra in casa e mette radici. La persona-pianta che ora prende a svilupparsi ha il diritto di usare la casa? Sicuramente no – nonostante il fatto che siate state voi ad aprire volontariamente le finestre, a tenere in casa tappeti e tappezzerie, consapevoli che a volte le cortine di protezione presentano delle smagliature. Qualcuno vorrà sostenere che siete responsabili per il seme che ha messo radici, che quindi ha diritto alla vostra casa, perché dopo tutto avreste potuto vivere senza tappeti né tappezzerie, o con finestre e porte sprangate. Ma tutto questo non va – allo stesso modo, infatti, si può evitare una gravidanza dovuta a violenza carnale con una isterectomia, o badando a non uscire di casa privi di un’arma (affidabile!). A mio avviso, l’argomento che stiamo esaminando può al massimo stabilire che vi sono alcuni casi in cui la persona non-nata ha diritto all’uso del corpo di sua madre, e pertanto in alcuni casi l’aborto è un’uccisione ingiusta. C’è poi da precisare quali siano questi casi, se pure ve ne sono. Ma credo che possiamo lasciare la questione aperta, visto che in ogni caso l’argomento non stabilisce che 1’aborto è sempre un’uccisione ingiusta.

V. Tuttavia, c’è ancora spazio per un altro argomento a questo riguardo. Dobbiamo certo tutti riconoscere che possono darsi casi in cui sarebbe moralmente indecente staccare una persona dal vostro corpo a costo della sua vita. Supponiamo di venire a sapere che il violinista non ha bisogno di nove anni della vostra vita ma solo di un’ora: tutto quello che dovete fare per salvargli la vita è trascorrere un’ora in quel letto di ospedale vicino a lui. Supponiamo anche che

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lasciargli usare i vostri reni non danneggerà minimamente la vostra salute. Certo, siete stati rapiti e non avete dato a nessuno il permesso di collegarvi all’apparecchiatura. Nondimeno, mi sembra chiaro che avreste il dovere di permettergli di usare i vostri reni per quell’ora: rifiutare sarebbe contrario alla decenza morale. Di nuovo, supponiamo che la gravidanza duri solo un’ora, e non costituisca minaccia alcuna alla vita e alla salute. E supponiamo che una donna resti incinta dopo aver subito violenza carnale. Certo, non ha fatto nulla di sua volontà per portare all’esistenza un bambino. Certo, non ha fatto assolutamente nulla per dare alla persona non-nata il diritto di usare il suo corpo. Eppure si potrebbe ben dire, come nell’ultima versione rivista della storia del violinista, che la donna avrebbe il dovere di permettergli di restare per quell’ora necessaria – sarebbe moralmente indecente rifiutarsi di farlo. Ora, alcuni sono inclini a usare il termine ‘diritto’ in modo tale che dal fatto che dovreste permettere a una persona di usare il vostro corpo per l’ora di cui ha bisogno, segue che quella persona ha un diritto a ciò, anche se quel diritto non gli è stato concesso da nessuno attraverso atti né dichiarazioni. Ne segue anche, si può proseguire, che se rifiutate agite in modo ingiusto nei suoi confronti. Questo uso del termine ‘diritto’ è forse così comune da non poter essere detto sbagliato; nondimeno, mi sembra una estensione infelice di un concetto che faremmo meglio a tenere sotto stretto controllo. Supponiamo che la scatola di cioccolatini menzionata prima non sia stata donata ai due ragazzi congiuntamente, ma solo al maggiore dei fratelli, il quale comincia a mangiare con fare indifferente i cioccolatini sotto gli sguardi pieni di invidia del fratello più piccolo. A questo punto forse gli diremmo: «Non devi essere così egoista, Devi lasciare qualche cioccolatino anche a tuo fratello.» La mia tesi è che semplicemente non segue dalla verità di quanto detto che il fratello minore ha diritto a dei cioccolatini, Se il ragazzo rifiuta di darne al fratello, si mostra goloso, meschino, insensibile – ma non ingiusto. Suppongo che le persone che ho in mente diranno invece che il fratello ha diritto a qualche cioccolatino, e pertanto l’altro agisce in modo ingiusto se rifiuta di darne al fratello. Ma sostenere ciò significa oscurate una distinzione importante, vale a dire la differenza tra il rifiuto del ragazzo in questo caso e il suo rifiuto nel caso precedente, quando la scatola di cioccolatini viene data a entrambi i ragazzi congíuntamente, e il fratello minore ha così titolo, da ogni punto di vista, a metà dei cioccolatini.

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Una ulteriore obiezione alli uso del termine ‘diritto’ nel senso che dal fatto che A deve fare una cosa per B segue che B ha un diritto nei confronti di A per cui A deve fare quella cosa per lui, fa osservare come in questo modo la questione dell’avere o meno diritto a una cosa viene fatta dipendere dalla f acílità con cui questa cosa può essere fornita; e ciò appare non solo sgradevole, ma moralmente inaccettabile. Consideriamo di nuovo il caso di Henry Fonda. Ho affermato prima di non avere alcun diritto al tocco della sua fredda mano sulla mia fronte febbricitante, anche se questo fosse l’unico modo di salvarmi la vita. Ho anche affermato che sarebbe estremamente gentile da parte sua volare dalla West Coast per salvarmi, ma non ho un diritto nei suoi confronti per cui sarebbe tenuto a fare così. Ma supponiamo ora che non viva sulla West Coast: deve solo entrare dall’altra stanza, porre una mano sulla mia fronte – e, miracolo, la mia vita è salva. In questo caso sarebbe tenuto a farlo, rifiutarsi sarebbe moralmente indecente. Si può forse dire: «Bene, ne segue che lei ha diritto al tocco della sua mano sulla fronte, e sarebbe ingiusto da parte sua rifiutarsi di farlo»? Si può forse sostenere che ho un diritto a qualcosa quando è facile da procurare, ma che questo diritto non c’è quando è difficile farlo? t un’idea piuttosto strana che i diritti di una persona si indeboliscano e scompaiano man mano che diventi più difficile accordarli con le esigenze di chi dovrebbe soddisfarli. La mia tesi è pertanto che anche se sarebbe opportuno permettere al violinista l’uso dei vostri reni per l’ora di tempo necessaria, non dovremmo concluderne che egli ha diritto a ciò – piuttosto, dovremmo dire che se rifiutate, siete, come il ragazzino che si prende tutti i cioccolatini senza lasciarne nessuno, egoisti e insensibili, di fatto moralmente indecenti, ma non ingiustí. E analogamente, anche immaginando un caso in cui una donna incinta a seguito di violenza carnale dovrebbe permettere alla persona non-nata l’uso del suo corpo per l’ora di tempo necessaria, non dovremmo essere condotti alla conclusione che la persona non-nata ha diritto a ciò; la conclusione è, piuttosto, che sarebbe egoista, insensibile, moralmente indecente, da parte della donna, rifiutarsi di farlo, ma non ingiusto. Certo, le critiche non sono meno gravi; sono semplicemente diverse. Tuttavia, non c’è bisogno di insistere su questo punto. Se si desidera dedurre «egli ha un diritto» da «tu devi», si deve nondimeno riconoscere che si danno casi in cui non si è moralmente tenuti a consentire a quel violinista l’uso dei propri reni, casi in cui egli non ha il diritto di usarli e infine casi in cui non ci si comporta ingiustamente verso di lui se ci si rifiuta. E questo vale anche nel caso della madre e del bambino non-nato. Ad eccezione

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dei casi in cui la persona non-nata ha il diritto di esigerlo – e abbiamo lasciato aperta la possibilità che tali casi possano darsi – nessuno è moralmente tenuto a sacrificare parti importanti della propria salute, o dei propri interessi e affetti, o dei propri doveri e impegni, per nove anni, o anche per nove mesi, al fine di mantenere in vita un’altra persona.

VI. Dobbiamo distinguere due specie di samaritani: il buon samaritano e quello che potremmo chianiare il samaritano minimale, che soddisfa i criteri della decenza morale. La parabola del buon samaritano è nota:

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté nei ladri, i quali lo spogliarono, lo caricarono di percosse e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Ora, un sacerdote, per caso, scendeva per la medesima strada, lo vide, ma passò oltre. Così pure un levita, sopraggiunto in quel luogo, lo vide e tirò innanzi. Ma un samaritano, che era in viaggio, arrivatogli vicino, lo vide e n’ebbe pietà. Gli si accostò, fasciò le sue ferite, versandovi olio e vino; poi, fattolo salire sul suo giumento, lo condusse all’albergo e ebbe cura di lui. Il giorno dopo prese due denari e li diede all’albergatore dicendogli: «Abbi cura di lui, e quanto spenderaì dì più, io te lo .restituirò al mio ritorno». (Luca 10: 30-35).

Il buon samarítano deviò dal suo cammino, con qualcbe costo per sé, per aiutare un altro che ne aveva bisogno. Non ci viene detto quali fossero le opzioni, vale a dire, se il sacerdote o il levita avrebbero potuto prestare aiuto con meno di quanto fece il buon samaritano, ma assumendo che l’avrebbero potuto fare, allora il fatto che non abbiano mosso un dito mostra come non fossero nemmeno samaritaní mínimali, non perché non erano samaritani ma perché non raggiungevano la soglia minima di decenza morale. Tutto questo, naturalmente, è questione di grado, ma una differenza c’è e risulta forse nel modo più chiaro nella storia di Kítty Genovese, assassinata mentre trentotto persone rimasero a guardare o ascoltare, senza fare nulla per aiutarla. Un buon samaritano si sarebbe precipitato a aiutarla contro l’assassino. 0 forse sarebbe stato necessario un samaritano eccezionale, dal momento che l’intervento avrebbe messo a repentaglio la sua vita. Ma le trentotto persone non solo non fecero questo, non si presero neppure il disturbo di usare il telefono e chiamare la polizia. A samaritani minimali si sarebbe chiesto almeno questo, e il non averlo fatto fu mostruoso.

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Dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano, Gesù disse: «Va’ e fa’ pure tu lo stesso. » Forse intendeva dire che siamo moralmente tenuti a agire come il buon samaritano. Forse voleva esortate gli uomini a fare più di quanto è loro moralmente richiesto. In ogni caso, sembra chiaro che nessuno dei trentotto era rnoralmente tenuto a esporsi a rischio della propria vita, e del pari che nessuno è moralmente tenuto a sacrificare lunghi periodi della propria vita – nove anni o nove mesi – per mantenere in vita una persona che non ha alcun speciale diritto (avevamo lasciato aperta la possibilità di questo) di esigerlo. In realtà, con una sola classe di eccezioni peraltro piuttosto impressionante, nessuno, in nessun paese al mondo, è giuridicamente tenuto a fare qualcosa di anche lontanamente simile per qualcun altro. La classe delle eccezioni è ovvia. Il mio interesse principale qui non è la legislazione sull’aborto, ma è opportuno rilevare come in nessuno stato dell’Unione si è costretti per legge a essere un samaritano sia pur rnínimale; non c’è una legge in base alla quale accusare le trentotto persone che rimasero a guardare mentre Kitty Genovese moriva. Per contro, nella maggior parte degli stati dell’Unione le donne sono costrette dalla legge non solo a essere samaritani minimali, tna anche buoni samaritaní nei confronti delle persone non-nate dentro di loro. Questo di per sé non decide la questione in un senso o nell’altro, perché si può anche sostenere che leggi siffatte dovrebbero esserci negli Stati Uniti – così come già esistono in molti paesi europei – leggi che sanciscano almeno un comportamento da samaritani minimali 7. Ma tutto ciò mostra che c’è una grossa ingiustizia nell’attuale legislazione. E mostra anche che i gruppi che si battono contro la liberalizzazíone delle leggi sull’aborto, di fatto cercando di ottenere che si dichiari incostítuzionale l’ammíssibilità dell’aborto in uno stato, farebbero meglio a adoperarsi per l’adozione di leggi da buon samaritano in generale, o altrimenti a riconoscere la malafede delle loro azioni. Penso, tuttavia, che leggi da samaritani minimali sarebbero una cosa, leggi da buoni samaritani un’altra e ínvero del tutto inappropríata cosa. Ma qui non ci occupiamo di legislazione. Quello che dovremmo chíedercí non è se si dovrebbe essere costretti dalla legge a comportarsi da buoni samaritaní, ma se dobbiamo consentire a una situazione in cui qualcuno

7 Per una discussione delle difficoltà implicate, e un esame dell’esperienza europea con talì leggi, si veda Tbe Good Samarìtan and the Law, a cura dì James M. Ratclìffe, New York, 1966.

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viene costretto –dalla natura, forse – a comportarsi da buon samaritano. In altre parole, dobbiamo ora considerare l’eventuale intervento di terzi. Ho sostenuto finora che nessuno è moralmente tenuto a sopportare grandi sacrifici per mantenere in vita un altro che non ha diritto di esigerli, e questo anche quando i sacrifici non comprendono la vita stessa; non siamo moralmente tenuti a essere dei buoni o comunque degli ottimi samaritani gli uni verso gli altri. Ma che accade se una persona non riesce a districarsi dalla situazione in cui si è venuta a trovare? Se ci chiede aiuto? Mi sembra chiaro che si danno casi in cui siamo in grado di prestare aiuto, casi in cui un buon samaritano potrebbe salvarla. E ora siete li, in quella corsia di ospedale dopo essere stati rapiti, con la prospettiva di dover giacere in quel letto per nove anni accanto al violinista. Ma avete la vostra vita da vivere. Vi dispiace, ma semplicemente non riuscite a concepire di dover rinunciare a una parte così cospicua della vostra vita per salvare questa. Non potete togliervi da questa situazione e chiedete ad altri di farlo. Alla luce del fatto che il violinista non ha diritto all’uso del vostro corpo, dovrei considerare cosa ovvia che non abbiamo il dovere di consentire alla costrizione cui siete sottoposti nel rinunciare a tanta parte della vostra vita. Possiamo fare quello che chiedete. Non c’è ingiustizia nei confronti del violinista se lo facciamo.

VII. Seguendo il filo degli argomenti antiabortisti, ho sempre parlato del feto come di una persona, e ciò che mi sono chiesta è se l’argomento con cui abbiamo cominciato, e che prende le mosse dall’essere il feto una persona, riesce effettivamente a provare la sua conclusione. Ho sostenuto che non vi riesce. Ma naturalmente vi sono argomenti e argomenti, e si può ribattere che ho scelto quello sbagliato. Si può obiettare che l’importante non è il mero fatto che il feto è una persona, ma che si tratta di una persona nei confronti della quale la donna ha un tipo speciale di responsabilità, derivante dall’essere sua madre. E si potrebbe dunque sostenere che tutte le mie analogie sono pertanto irrilevanti – perché non c’è una simile responsabilità nel caso del violinista, né Henry Fonda ha questa speciale responsabilità per me. E la nostra attenzione potrebbe essere richiamata sul fatto che uomini e donne sono costretti entrambi dalla legge a prendersi cura dei propri figli. Ho in effetti trattato (brevemente) questo argomento nella quarta sezione; ma una ricaffitolazione (ancora più breve) può essere opportuna. Sicuramente non abbiamo nessuna

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‘speciale responsabilità’ per una persona a meno di non essercela assunta, in modo esplicito o implicito. Se una coppia di genitori non cerca di evitare la gravidanza, non richiede l’aborto, e al momento della nascita non dà il bambino in adozione, ma invece lo porta a casa con sé, allora essi hanno assunto una responsabilità nei suoi confronti, gli hanno concesso dei diritti, e ora non possono rifiutare di prendersi cura di lui, mettendo in pericolo la sua vita. Ma se invece la coppia aveva preso tutte le possibili ragionevoli precauzioni contro l’avere un bambino, essi non hanno una speciale responsabilità per il bambino che viene all’esistenza semplicemente in virtù del loro rapporto biologico con lui. Possono volersi assumere tale responsabilità o meno. E sostengo che se assumersi la responsabilità richiede grandi sacrifici, allora possono rifiutarsi. Un buon samaritano non rifiuterebbe, e in ogni caso non un samaritano splendido, per quanto enormi possano essere i sacrifici. Ma allora sarebbe stato un buon samaritano ad assumersi la responsabilità per quel violinista; e così I lenry Fonda, se fosse stato un buon samaritano, sarebbe volato per me dalla West Coast e si sarebbe assunto la responsabilità per me.

VIII. La mia posizione verrà giudicata insoddisfacente sotto due aspetti da molti di coloro che sono propensi a considerare l’aborto moralmente inammissibile. In primo luogo, mentre sostengo che l’aborto non è inammissibile, non sostengo che è sempre ammissibile. Possono ben esserci casi in cui portare a termine la gravidanza richiede alla madre solo tiri comportamento da samaritano minimale, e questo è uno standard sotto il quale non bisogna cadere. Sono incline a considerare come un merito del mio resoconto proprio il fatto che non conclude per un sì o per un no valido per tutti i casi. Questo resoconto è compatibile e rafforza l’intuizione condivisa secondo cui, per esempio, è ovvio che una studentessa quattordicenne malata e terrorizzata, rimasta incinta dopo una violenza carnale, può scegliere di abortire, e che una legislazione che escluda ciò è una legislazione folle. Ed è inoltre compatibile e rafforza l’intuizione condivisa che in altri casi ricorrere all’aborto è effettivamente fuori della decenza morale. Così sarebbe per la donna che lo richiede, e per il medico che lo esegue, se la donna è al settimo mese e desidera abortire solo per evitare la seccatura di rinviare un viaggio all’estero. Proprio il fatto che gli argomenti su cui ho richiamato l’attenzione trattano tutti i casi di aborto, o anche tutti i casi di aborto in cui la vita della madre non è in pericolo, sullo stesso piano di considerazione morale avrebbe dovuto renderli sospetti fin dall’inizio.

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In secondo luogo, mentre sostengo l’ammissibilità dell’aborto in alcuni casi, non sostengo il diritto di dare la morte al bambino non-nato. ~ facile confondere le due cose dal momento che fino a un certo punto dello sviluppo del feto questi non è capace di sopravvivere fuori del corpo della madre; rimuoverlo da lì comporta la sua morte. Ma si tratta di questioni differenti sotto aspetti importanti. Ho sostenuto che non siete moralmente tenuti a trascorrere nove mesi a letto, mantenendo in vita il violinista; ma ciò non equivale in alcun modo a dire che se, dopo aver interrotto il collegamento con l’apparecchiatura, il violinista sopravvive per miracolo, allora avete il diritto di tagliargli la gola. Potete staccarvi anche se questo gli costa la vita; ma non avete alcun diritto di procurargli la morte con qualche altro mezzo, se la vostra azione di interruzione dei collegamenti non lo uccide. C’è chi resterà insoddisfatto da questo aspetto del mio argomento. Una donna può essere sconvolta dal pensiero di un bambino, una parte di se stessa, dato in adozione e mai più visto o sentito. Pertanto può volere non solo che il bambino venga staccato da lei, ma di più, che muoia. Alcuni avversari dell’aborto sono inclini a giudicare tutto ciò indegno di qualsivoglia considerazione – con ciò mostrando di essere insensibili a quella che sicuramente è una potente fonte di disperazione. Nondimeno, concordo che il desiderio che il bambino muoia non è di quelli che possano giustificare qualcuno, se dovesse risultare possibile staccare il bambino vivo. A questo punto, tuttavia, si dovrebbe ricordare che abbiamo solo concesso che il feto sia un essere umano fin dal momento del concepimento. Un aborto molto precoce non significa certamente uccidere una persona, e pertanto non è stato trattato dagli argomenti qui esaminati.

111

John Harris ‘La lotteria della sopravvivenza’ (1975) Traduzione di P. Donatelli

Supponiamo che le procedure di trapianto di organi siano state perfezionate; in tali circostanze, nel caso in cui due pazienti in punto di morte possano essere salvati con un trapianto di organi, se i chirurghi hanno gli organi richiesti a disposizione e non vi è nessun altro paziente bisognoso, ma se nonostante ciò lasciano morire i loro pazienti, in quel caso saremmo propensi a dire, e saremmo giustificati nel farlo, che i pazienti sono morti perché i medici si sono rifiutati di salvarli. Ma se non vi sono organi di riserva a disposizione né altri disponibili in altro modo, i medici non hanno scelta, non possono salvare i loro pazienti e li debbono lasciare morire. In questo caso non saremmo propensi a dire che i medici siano in un senso qualsiasi la causa delle morti dei loro pazienti. Ma supponiamo inoltre che i due pazienti morenti, Y e Z, non siano felici di essere lasciati morire. Potrebbero sostenere che non è esattamente vero che non vi sono organi che potrebbero essere usati per salvarli. Y ha bisogno di un nuovo cuore e Z di nuovi polmoni. Farebbero osservare che basterebbe uccidere una persona sana per poterne asportare gli organi e salvarli entrambi. Sia noi sia i medici riterremmo probabilmente allo stesso modo che un tale passo, se tecnicamente possibile, sarebbe fuori questione. Non diremmo che i medici stanno uccidendo i loro pazienti se si rifiutassero di depredare i sani per salvare gli ammalati. E dato che questa impresa alla Robin Hood è fuori questione, possiamo dire a Y e a Z che non possono essere salvati e che quando moriranno saranno morti di cause naturali e non per la negligenza dei medici. Y e Z non sono però d’accordo; insistono che se i medici omettono di uccidere un uomo sano e di usare i suoi organi per salvarli, allora i medici sono responsabili delle loro morti. Molti filosofi hanno ritenuto per diverse ragioni che non dobbiamo uccidere persino se così facendo potremmo salvare delle vite. Ritengono che vi sia una differenza morale tra uccidere e lasciare morire. Da questo punto di vista, uccidere A in modo che Y e Z possano vivere non è ammesso perché abbiamo un preciso obbligo di non uccidere ma un dovere di grado inferiore di salvare la vita. La massima di A.H. Clough, «Non uccidete ma non c’è bisogno che siate troppo zelanti nel cercare di tenere in vita», esprime ottusamente questo punto di vista. Possiamo scusare i morenti Y e Z di non essere molto colpiti dalla massima di Clough. Essi sono d’accordo sul

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fatto che è sbagliato uccidere un innocente e sono pronti a dirsi d’accordo con una proibizione assoluta contro questo modo di fare. Non sono d’accordo, tuttavia, sul fatto che A sia più innocente di quanto essi stessi siano. Y e Z potrebbero continuare osservando che il diritto correntemente riconosciuto dell’innocente a non essere ucciso, persino quando la sua vita potrebbe dare la vita ad altri, equivale alla decisione di preferire le vite dei fortunati a quelle degli sfortunati. A è innocente nel senso che non ha fatto nulla per meritare la morte, nia Y e Z sono anch’essi innocenti in questo senso. Perché dovrebbero essere quelli che muoiono, semplicemente perché sono così sfortunati da avere organi ammalati? Perché, potrebbero sostenere, la loro vita o la loro morte dovrebbero essere lasciate al caso, laddove in così tante altre aree della vita umana crediamo di avere un obbligo di assicurare la sopravvivenza del massimo numero di vite possibili? Y e Z sostengono che se un medico si rifiuta di curare un paziente, con il risultato che il paziente muore, egli ha ucciso quel paziente come se gli avesse sparato, e che, esattamente allo stesso modo, se i medici rifiutano a Y e a Z i trapianti di cui hanno bisogno, allora il loro rifiuto ucciderà Y e Z, di nuovo allo stesso modo come se avesse loro sparato. I medici, e quindi la società che sostiene la loro inazione, non si possono difendere affermando che né ci si aspetta da loro, né si richiede loro, per legge o convenzione, di uccidere in modo da poter salvare vite (in verità, proprio il contrario), in quanto questo è solo un appello al costume o all’autorità. Un uomo che conduce da sé il proprio pensiero morale deve decidere se, in queste circostanze, deve salvare due vite al costo di una, o una vita al costo di due. Il fatto che le cosiddette «terze parti» non siano mai state incluse prima in tali calcoli, che non si sia mai pensato prima che fossero coinvolte, non è un argomento contro il fatto che ora lo diventino. Vi sono, naturalmente, buoni argomenti contro il permettere ai medici di portarsi via i passanti dalle strade quando hanno tiri paio di pazienti bisognosi di nuovi organi. Inoltre, gli effetti collaterali dannosi di tale pratica in termini di terrore e di angoscia delle vittime, dei testimoni e della società in genere ci fornirebbero ulteriori ragioni per scartare l’idea. Y e Z si rendono conto di ciò e hanno una proposta, che avanzeranno tra poco, che risponderà ampiamente alle obiezioni contro l’idea di porre un tale potere nelle mani dei medici ed eliminerà almeno alcuni degli effetti collaterali dannosi. Nel caso inverosimile in cui i medici si sentano obbligati a replicare al biasimo di Y e Z, essi

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potrebbero offrire la seguente argomentazione: potrebbero sostenere che un uomo è responsabile unicamente della morte di qualcuno a cui avrebbe potuto salvare la vita se, in tutte le circostanze del caso, fosse stato nelle condizioni di salvarlo con i mezzi disponibili. Ciò spiega perché un medico potrebbe essere un assassino solo se si rifiutasse o trascurasse di curare un paziente che morirebbe senza cure, ma non nel caso in cui potesse salvarlo facendo qualcosa che non dovrebbe fare in alcuna circostanza – uccidere un innocente. Y e Z sono facilmente d’accordo sul fatto che un uomo non deve fare ciò che non deve fare, ma osservano che se i medici, e quindi la società intera, devono a conti fatti uccidere un uomo, per poterne in questo modo salvare due, allora il trascurare di farlo comporterà una responsabilità per le morti conseguenti. Il fatto che la proposta di Y e Z comporti l’uccisione di un innocente non può essere una ragione per rifiutarsi di considerare la loro proposta, dato che questo non sarebbe altro che un rifiuto di affrontare il problema in questione, e quindi un modo di evitare di prendere una decisione su ciò che si deve fare in circostanze come queste. La tesi di Y e Z è che trascurare di adottare il loro progetto comporterà comunque l’uccisione di individui innocenti, anzi, di un numero maggiore rispetto a quanto non comporti l’alternativa proposta. Per difendere quest’ultimo punto, per evitare l’arbitrio di permettere ai medici di selezionare i loro donatori tra coloro che passano per caso fuori dall’ospedale e il potere spaventoso che verrebbe posto in questo modo nelle loro mani, per mitigare le preoccupazioni circa gli effetti collaterali e infine per placare coloro che si domandano perché il povero vecchio A dovrebbe essere scelto per il sacrificio, Y e Z presentano il seguente piano: essi propongono che si dia a ciascuno una sorta di numero della lotteria. In qualsiasi momento in cui i medici abbiano due o più pazienti in punto di morte che potrebbero essere salvati mediante trapianto, e non sia arrivato loro nessun organo adatto attraverso morti «naturali», possono chiedere a un computer centrale di fornire un donatore adatto. Il computer prenderà a caso il numero di un donatore adatto e questi sarà ucciso così che le vite di due o più persone saranno salvate. Indubbiamente, se il piano dovesse mai essere messo in pratica verrebbe impiegato un eufemismo adatto per «uccidere». Con il perfezionamento delle procedure di trapianto un tale piano potrebbe offrire la possibilità di salvare un grande numero di vite che vanno ora perdute. Inoltre, anche prendendo in considerazione la perdita delle vite dei donatori, il numero delle morti premature ogni anno sarebbe drasticamente ridotto, così come sarebbe aumentata la probabilità di vivere fino a una

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veneranda età. Se questa fosse la conseguenza dell’adozione di un tale piano, e lo potrebbe essere senz’altro, non lo potremmo allegramente mettere da parte. Si potrebbe obiettare naturalmente che un numero maggiore di persone anziane avrebbe bisogno di trapianti per prolungare la propria vita rispetto a quanto non ne abbiano bisogno i giovani, e perciò il piano porterebbe inevitabilmente a una società dominata da vecchi. Ma se si ritiene un tale tipo di società indesiderabile, non c’è alcuna ragione di supporre che non si possa concepire un programma per il computer tale da assicurare la conservazione di qualsiasi distribuzione di età tra la popolazione che si ritenga ottimale. Supponiamo che i viaggi interplanetari rivelassero un mondo di persone come noi, ma che organizzano la loro società seguendo questo piano. Nessuno viene considerato in possesso di un diritto assoluto alla vita o alla libertà da ogni ingerenza, ma si fa di tutto per assicurare che il maggiore numero di persone possibile possa vivere a lungo e felicemente. In un tale mondo un uomo che tentasse di fuggire quando fosse estratto il suo numero, o che si opponesse sulla base del fatto che nessuno ha il diritto di prendersi la sua vita, potrebbe benissimo essere considerato un assassino. Potremmo o meno preferire di vivere in un mondo di questo tipo, ma certamente potremmo rispettare la moralità dici suoi abitanti. Non sarebbe ovviamente più barbara, crudele o immorale della nostra. Y e Z sono desiderosi di concedere un’eccezione all’applicazione universale di questo piano. Si rendono conto che sarebbe sleale permettere alle persone che si sono procurate esse stesse la propria disgrazia di beneficiare della lotteria. Vi sarebbe chiaramente qualcosa di ingiusto nell’uccidere l’astemio B in modo che W (il cui fumo accanito gli ha procurato il cancro ai polmoni) e X (il cui bere gli ha distrutto il fegato) siano salvati perché si lascino andare di nuovo al loro vizio. Quali obiezioni potrebbero essere mosse al piano della lotteria? La prima pagliuzza a cui aggrapparsi sarebbe il desiderio di sicurezza. Secondo tale piano non sapremmo mai quando li sentiremmo bussare alla porta. Ogni consegna della posta potrebbe portare una condanna a morte, ogni suono nella notte potrebbe essere il suono degli stivali sulle scale. Ma, come abbiamo visto, la probabilità di essere chiamati a fare l’ultimo sacrificio potrebbe essere più sottile di quanto non sia il rischio attuale di essere uccisi sulle strade, e la maggior parte di noi non giace a letto tremebondo, terrorizzato alla prospettiva di essere ucciso l’indomani. La verità è che le vite

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potrebbero essere in effetti, con un tale piano, più sicure. Se rispettiamo l’individualitá e consideriamo ogni essere umano come unico a suo modo, vorremmo rifiutare una società nella quale sembrerebbe che gli individui siano considerati meramente come unità intercambiabili in una struttura, il cui valore sta nel suo avere quante più unità sane possibili. Ma naturalmente Y e Z vorrebbero sapere perché l’individualità di A sia più degna di rispetto della loro. Un’altra obiezione possibile è la naturale riluttanza a giocare con le vite degli uomini, la sensazione che sia sbagliato fare qualsiasi tentativo di riassegnare le opportunità di vita che la sorte ha determinato, che le morti di Y e di Z sarebbero «naturali», mentre la morte di chiunque venga ucciso per salvarli sarebbe perpetrata dagli uomini. Ma se siamo in grado di cambiare le cose, allora decidere di non farlo significa comunque determinare cosa accadrà nel mondo. Né la presunta differenza morale tra uccidere e lasciare morire offre un modo rispettabile di rifiutare le richieste di Y e Z. Poiché, se desideriamo veramente controbattere a chi propone la lotteria, se desideriamo veramente rispondere a Y e Z e non semplicemente liberarcene, non lo possiamo fare dicendo che la lotteria comporta l’uccisione e sollevare obiezioni per questa ragione, perché fare ciò non sarebbe altro, come abbiamo visto, che una petizione di principio, come se trascurare di salvare quante più persone possibili non equivalesse pure ad uccidere. Optare per la società che Y e Z propongono vorrebbe quindi dire adottare una società in cui la santità sarebbe obbligatoria. Ciascuno di noi dovrebbe riconoscere un obbligo vincolante di rinuncìare alla propria vita per gli altri quando è chiamato a farlo. In tale società chiunque rinnegasse questo dovere sarebbe un assassino. L’obiezione più efficace a questo tipo di società, e in verità a qualsiasi principio che ci richiedesse di uccidere A in modo da salvare Y e Z è, sospetto, che siamo vincolati al diritto di autodifesa. Se posso uccidere A per salvare Y e Z allora egli può uccidere me per salvare P e Q, ed è solo se sarò pronto a essere d’accordo con ciò che opterò per la lotteria, oppure se sarò pronto a concordare con il fatto che una persona potrà essere uccisa se così facendo si salverà la vita di un numero maggiore di persone. Naturalmente c’è qualcosa di paradossale nel fondare le obiezioni al piano della lotteria sul diritto di autodifesa dato che, per ipotesi, ogni persona avrebbe una probabilità maggiore di raggiungere un’età veneranda se il piano della lotteria fosse messo in pratica. Non di meno, la sensazione che non si dovrebbe richiedere a nessuno di sacrificare la propria vita per gli altri rende molte persone

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titubanti di fronte a tale piano, nonostante il fatto che potrebbe essere razionale accettarlo su basi prudenziali, e forse obbligatorio su basi utilitariste. Di nuovo, Y e Z replicherebbero che il diritto all’autodifesa si deve estendere a loro come a qualsiasi altro; e se è vero che essi possono vivere solo se qualcun’altro viene ucciso, sosterrebbero che è anche vero che se vengono lasciati morire, allora qualcuno che continua a vivere lo fa a loro discapito. Si potrebbe argomentare che l’istituzione della lotteria della sopravvivenza non è andata lontano nel mitigare gli effetti secondari dannosi in termini di terrore e di angoscia verso vittime, testimoni e società in genere, che si verificherebbero se i medici agguantassero semplicemente i passanti sulle strade e li privassero dei loro organi per amore dello sfortunato. I donatori dovrebbero essere dopo tutto procurati, e questa operazione, comunque fosse attuata, si dimostrerebbe verosimilmente angosciante per tutti gli interessati. Il piano della lotteria eliminerebbe l’arbitrio di lasciare le decisioni di vita e di morte nelle mani dei medici ed eliminerebbe la possibilità che un tale terribile potere ricada nelle mani di un qualsiasi individuo, però il terrore e l’angoscia rimarrebbero ugualmente. L’effetto di dover arrestare vittime presumibilmente contrarie ci renderebbe incerti. Forse solo un lungo periodo di educazione o di propaganda potrebbe eliminare la nostra avversione. Quello che tale avversione rivela su ciò che è giusto o sbagliato in tale situazione è tuttavia più difficile da accertare. Potremmo essere propensi a dire che solo dei mostri potrebbero ignorare la voce della coscienza in merito all’attuazione della lotteria. Ma le ispirazioni della coscienza non sono necessariamente la guida più affidabile. Nel caso presente, Y e Z sosterrebbero che tali ispirazioni sono semplici schifiltosità, un eccessivo indulgere alla propria sensibilità che non tiene in debito conto il costo in vite umane. La morte, ci rammenterebbero Y e Z, è un’esperienza angosciante ogni volta e a chiunque accada. Perciò, meno accade meglio è: le vittime e i testimoni che rimarranno angosciati in conseguenza degli effetti collaterali del piano della lotteria saranno comunque meno di coloro che soffrirebbero in conseguenza degli effetti collaterali della decisione di non istituirlo. Da ultimo, si potrebbe portare un’obiezione più limitata, non all’idea di uccidere per salvare vite, ma al coinvolgimento di «terze parti». Perché, così procede l’obiezione, non dovremmo dare il cuore di X a Y o i polmoni di Y a X, in modo da salvare lo stesso numero di vite e non mettere a rischio la vita di nessun altro? La risposta di Y e Z a questa obiezione si discosta rispetto alla loro precedente linea di argomentazione. Emendare il loro progetto in modo che il

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coinvolgimento delle cosiddette «terze parti» sia escluso violerebbe, sostengono Y e Z, il loro diritto a godere della stessa considerazione e dello stesso rispetto degli altri membri della società. Essi sostengono che tale proposta equivarrebbe a trattare gli sfortunati che hanno bisogno di nuovi organi come una classe della società le cui vite sono considerate di valore minore rispetto a quelle dei suoi membri più fortunati. Quale possibile giustificazione ci potrebbe essere per selezionare un gruppo di persone, che saremmo giustificati a usare come donatori, anziché un altro? L’idea nella mente di coloro che proporrebbero un tale passo dovrebbe essere più o meno questa: dato che Y e Z non possono sopravvivere, dato che stanno per morire comunque, non c’è alcun male nell’inserire i loro nomi nella lotteria; infatti, la probabilità della loro morte non può con ciò essere aumentata e sarà infatti quasi certamente ridotta. Ma ciò significa esattamente ignorare tutto quanto Y e Z hanno detto. Poiché, se il loro piano della lotteria fosse adottato, non morirebbero affatto – la loro probabilità di morire non è maggiore o minore di qualsiasi altro partecipante alla lotteria di cui potrebbe essere estratto il numero. Svanisce, perciò, questo motivo per limitare la selezione dei donatori agli sfortunati. Ogni altro motivo per farlo discriminerebbe Y e Z come membri di una classe le cui vite sono meno degne di rispetto di quelle degli altri membri della società. Si potrebbe sostenere, con maggiore plausibilità, che i morenti che non possono essere salvati mediante trapìanto, o con qualsiasi altro mezzo, dovrebbero costituire il gruppo di selezione prioritario per il programma del computer. Ma quanto deve essere lontana la morte per un uomo, affinché venga classìficato come «morente»? Coloro che vengono così classificati potrebbero sostenere che i loro ultimi giorni o settimane di vita hanno per loro tanto valore (se non maggiore) quanto ne ha il periodo possibilmente lungo che rimane agli altri. Sospetto che il problema di restringere la classe dei possibilì donatori senza discriminare ingiustamente certe sottoclassi della società sia insolubile. Tale è la situazione della lotteria della sopravvivenza. Gli utilitaristi devono essere in suo favore e gli assolutisti non possono muovere obiezioni facendo riferimento al fatto che comporta l’uccisione di un innocente, poiché il caso di Y e Z è tale che qualsiasi alternativa non può che coinvolgere anch’essa l’uccisione dì un innocente. Se l’assolutista desidera conservare la sua obiezione deve indicare qualche differenza moralmente rilevante tra l’uccisione positiva e negativa. Questa sfida apre la porta a un ampio tema con un’intera biblioteca di letteratura in

118 John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

merito, ma Y e Z stanno morendo e non hanno il tempo di esplorarla esaurientemente. Nel loro caso la caratteristica più verosimile che potrebbe permettere questa differenza morale è l’intento malevolo degli stessi Y e Z. Un assolutista potrebbe certo sostenere che, mentre nessuno si prefigge la morte di Y e Z, né li desidera necessariamente morti, o aspira alla loro morte per qualsiasi ragione, essi invece intendono veramente uccidere A (o farlo uccidere). Ma Y e Z possono replicare che la morte dì A non rientra affatto nel loro progetto; desiderano semplicemente usare un paio dei suoi organi, e se non può vivere senza ... tanto peggio! Nessuno più di Y e Z sarebbe felice se gli organi artificiali potessero andare bene allo stesso modo, e rendere così superfluo il piano della lotteria. Rimane, forse, ancora una versione dell’argomento assolutista. Questa richiede di prendere una posizione orwelliana su alcuni principi di comune decoro. L’argomento sarebbe allora che persino l’inoltrarsi in questa sorta di calcoli «macabri» che Y e Z propongono dimostra una sensibilità ottusa, una mente corrotta e viziata. Forme di questo argomento sono state avanzate recentemente da Noam Chomsky 1 e da Stuart Hampshire 2 . Gli infaticabili Y e Z negherebbero naturalmente che i loro calcoli siano in alcun senso «macabri», e li presenterebbero come la via più umana disponibile in tali circostanze. Inoltre, sosterrebbero che la posizione orwelliana sul decoro è il prodotto dì una mente chiusa e incapace di argomentazione razionale. Qualsiasi difesa ragionata di un tale principio deve appellarsi a nozioni come il rispetto per la vita umana, come in effetti accade nell’argomento di Hampshire, e Y e Z potrebbero dimostrarle compatibili con la loro posizione. Si può rispondere a Y e Z? Forse solo affidandoci all’intuizione morale, all’insistenza sul fatto che sentiamo che vi è qualcosa di sbagliato nella lotteria della sopravvivenza e alla nostra fiducia che questo sentimento è ispirato da una qualche differenza moralmente pertinente tra determinare la morte di A e determinare le morti di Y e Z. Sarebbe interessante sapere se noi riusciremmo a conservare tale fiducia nelle nostre intuizioni se dovessimo essere messi di fronte a una società in cui la lotteria della sopravvivenza fosse operante e accettata da tutti, constatando che essa salvasse molte vite che altrimenti andrebbero perdute.

1 I nuovi mandarini. gli intellettuali e il potere in America , Einaudi, Torino, 1973. 2 ‘Morality and Pessimism’, nel suo Public and Private Morality , Cambridge University Press, Cambridge , 1978.

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Vi sarebbero, naturalmente, notevoli dìfficoltà concrete nel modo di realizzare la lotteria. In moltissimi casi sarebbe angosciosamente difficile decidere se una persona si è procurata la propria sfortuna o meno. Vi sono molteplici modi in cui una persona può contribuire alla sua difficile situazione, e il compito di decidere fino a che punto, e quanto decisamente, una persona sia essa stessa responsabìle della sua sorte sarebbe spaventoso. E in quei casi in cui potremmo essere sicuri che una persona sia innocente della responsabilità della sua difficile situazione, saremmo in grado di acquisire questa sicurezza in tempo per salvarla? Il piano della lotteria sarebbe un’arma pericolosa nelle mani di qualcuno desideroso e capace di farne cattivo uso. Potremmo mai sentirci sicuri che la lotteria non sia nelle mani di programmatori di computer senza scrupoli? Forse dovremmo essere riconoscenti al fatto che tali difficoltà pratiche rendono la lotteria della sopravvivenza una conseguenza improbabile dei perfezionamento dei trapianti. O forse dovremmo essere costernati. Può essere che vorremmo dire a Y e a Z che le difficoltà e i pericoli del loro piano sono un prezzo troppo grande da pagare in cambio dei suoi benefici. Ma deve anche essere chiaro, tuttavia, che vi è un alto prezzo da pagare, forse uno persino più alto, nel rifiutarlo. Quel prezzo sono le vite di Y e di Z e di molti come loro, e ci inganniamo se supponiamo che la ragìone per cui rifiutiamo il loro piano è che accettiamo il sesto comandamento 3.

33 Devo dei ringraziamenti a Ronald Dworkin, Jonathan Glover, M.J. Inwood e Anne Seller per proficui commenti.

120

Sinossi dei film 1

Wall Street (1987) Oliver Stone 2 Min. 0 Sotto i titoli, New York va a lavorare. Buddy arriva in ufficio e il collega Dan consiglia di lasciare il lavoro. Il vicino di scrivania, Marv, promette che ‘faremo uno sterminio oggi’, la prima delle molteplici metafore di guerra e/o di caccia che ricorrono nel film. Alle 9.30, la borsa si apre con attività frenetica. 5 Bud promette al suo cliente telefonico, Howard, che la borsa è in rialzo, ma Howard riattacca, lasciando Bud con un debito di $7.000, che il capo ufficio Mannheim attribuisce a Bud. Marv: ‘fra cinque minuti, le informazioni sono storia’. Marv ricorda a Bud di chiamare Gordon Gekko (GG); Marv ricorda con ammirazione che GG vendeva azioni nella NASA 30 secondi dopo il disastro Challenger. 10 Nel bar, i colleghi del padre di Bud scherzano sul futuro della loro aerolinea, la Bluestar. Il padre non capisce come, con i suoi guadagni, Bud ha sempre bisogno di prestiti per sbarare il lunario. Il padre riferisce che la Bluestar è salva perché, in una sentenza giudiziaria ancora non-pubblicata, è assolta dalla responsabilità per una sciagura di qualche anno prima. Il giorno seguente, il compleanno di GG, Bud si reca al suo studio per consegnargli una scatola di sigari cubani (illegali negli USA). Deve aspettare più di due ore per un’udienza di 5 minuti. 15 GG apprezza la perseveranza di Bud, ma vuole informazione da lui. Bud suggerisce che le azioni di Terafly sono in rialzo, ma GG non si fa persuaso: ‘dimmi qualcosa che non so’.

1 Inevitabilmente, le scelte di riportare solo alcuni aspetti dell’azione e del dialogo sono state guidate dai miei interessi (anche didattici): nessuna descrizione di alcuni dei passaggi può essere filosoficamente ‘innocente’. I numeri a margine corrispondono (+ o -) al lasso di tempo dall’inizio dell’azione 2 Oltre all’inevitabile parzialità, questo riassunto riferisce alcuni dettagli delle operazioni di borsa che non sono essenziali per capire la posizione morale di Bud di volta in volta: le cifre che vengono riportate per spiegare l’azione e gli atteggiamenti non sono ‘oggetto d’esame’.

121 Sinossi di Wall Street

Bud anticipa la notizia sul caso Bluestar e riferisce che avrà nuovi aerei e nuove rotte, ma GG ha paura dei sindacati. Bud lascia il suo biglietto con GG. 20 Tornato nel proprio ufficio, Bud dice di non volere lavorare fino a sessant’anni. GG chiama, ordinando di comprare azioni nella Bluestar. La mattina seguente, Bud legge nel Wall Street Journal l’assoluzione della Bluestar. A pranzo con GG, Bud riferisce i guadagni sulle azioni Bluestar, e dice di non averne comprato per se stesso perché ‘non sarebbe stato legale’. GG gli dà un assegno da $1M da utilizzare in borsa e gli dice di comprare un vestito decente presso il suo sarto. Bud: ‘sono un vincente’. 25 Bud sta studiando l’andamento del mercato quando arriva Lisa, ‘amica di Gordon’, che gli offre sesso e droga. Il giorno seguente, le azioni Terafly sono in calo. Al suo circolo, GG gioca a squash con Bud e gli racconta la sua diffidenza nei confronti della società perbene. Bud ammette le perdite su Terafly. 30 Adesso, GG sa che il padre di Bud lavora alla Bluestar. Il potere dell’informazione: ‘investo solo sul sicuro’. I soliti investitori non influiscono l’andamento del mercato, perché ‘sono pecore e le pecore vanno scannate’. ‘Serve gente povera, furba e affamata ... senza sentimenti’. Vuole che Bud scopra informazione per lui. Nella limousine, GG si lamenta del comportamento sleale di Sir Lawrence Wildman (LW), e manda Bud a spiarlo. In risposta alle remore di Bud, GG gli ricorda che anche le informazioni sulla Bluestar non erano pubbliche al momento in cui GG le ha usate: ‘devi svegliarti; sto parlando di ricchezza’. Prima di lasciare Bud, GG fa l’esempio della differenza tra un barbone e un impiegato: ‘è semplice fortuna?’. Bud accetta la missione LW. 35 Bud segue LW in uffici e ristoranti e poi al suo jet; scopre che LW è diretto in Pennsylvania. Riferisce a GG e insieme desumono che LW sta per comprare Anacott Acciaio. GG decide di comprare le azioni di Anacott attraverso Bud, che deve spargere la voce, anche al giornale con un messaggio in codice. Il giorno seguente, le azioni di Anacott salgono verso $50, il limite fissato da GG.

122 Sinossi di Wall Street

40 Bud viene interrogato da Mannheim sulle sue attività (‘i soldi che facciamo creano posti di lavoro’). Tutti comprano Anacott e il prezzo raggiunge $51. La sera, Bud si reca alla casa al mare di GG e viene presentato alla ‘banda’. Cerca di fare impressione su Darien disprezzando un dipinto, ma lei spiega che GG è un astuto investitore in arte e negli arredi di casa. Bud la invita a uscire insieme. 45 LW arriva alla casa di GG (e forse riconosce Bud?). LW si lamenta dell’interessse di GG per le azioni Anacott, perché predice che GG smantellerebbe la compagnia.In risposta, GG elenca i licenziamenti di cui LW è stato responsabile nelle società da lui comprate. LW offre di comprare Anacott a $65 all’azione. Bud dice che valgono $80. GG cerca di fissare il prezzo a $72. GG accusa LW di aver comprato il titolo ‘Sir’ e di aver venduto la madre; accusa controcambiata (e vera in entrambi i casi?). LW offre $71 per Anacott. GG: $71,50. Affare fatto, LW esce. Bud cita Sun Tzu: ‘tutta la guerra si basa sull’inganno’ 50 La mattina seguente, GG mette $800,000 a disposizione di Bud e lo informa che forse Darien è disponibile. Bud va da Roger, un amico di università e avvocato, per proporlo di entrare nel giro delle informazioni riservate. Roger esprime i suoi scrupoli, ma Bud dice che ‘tutti lo fanno’ e Roger cambia idea. Lo zio di Roger, socio anziano dello studio, tiene nel suo ufficio tutti i segreti della finanza. Bud si improvvisa adetto alle pulizie per aver accesso agli uffici e copiare i documenti durante la notte; una volta viene sorpresa da una segretaria, si scusa e esce. 55 Bud passa le informazioni raccolte a GG. Al bar con Darien, Bud parla del suo progetto di ritirarsi dalla finanza prima dei trent’anni. Nel hangar della Bluestar, il padre di Bud dice che stanno licenziando. Bud ripaga i suoi debiti con un dividendo. Il padre: ‘i soldi sono una grande rottura della palle’. Alla casa di GG, i suoi legali danno a Bud una procura per usare i suoi soldi; i proventi verranno versati su un conto nelle Isole Cayman. 60 Usando il telefono pubblico, Bud raccomanda le azioni Teldar a Roger. Lynch sta licenziando uno degli anziani dell’ufficio e, poi, annuncia che Bud è stato il campione del mese precedente.Bud viene promosso ad un ufficio privato.

123 Sinossi di Wall Street

Bud ispeziona un appartamento di lusso con vista fiume; offre $950,000; Damien lo arreda in modo stravagante (con mattoni finti e dipinti perturbanti). 65 Bud e Damien cucinano una cena a lume di candela. Guardando la città mentre Damien dorme, Bud si chiede se è tutto vero. Ad un’asta, GG compra un dipinto per $2,100,000 e parla con Damien del loro passato insieme. Nessuno dei due crede nell’amore. 70 Marv sorprende Bud mentre sta dando istruzioni a Frank riguardo all’affare Teldar; Bud spinge Marv fuori dal suo ufficio. Le azioni Teldar cominciano a salire; la commisione di sorveglianza (StockWatch) inizia ad interessarsi alle manovre. Alla riunione degli azionisti Teldar, i dirigenti vogliono respingere l’offerta di GG. GG prende il microfono e pronuncia il suo ‘Elogio dell’avidità’: (i) i dirigenti sono burocrati strapagati che gestiscono la società male perché non rishciano i propri soldi; (ii) la legge del mercato è quella dell’evoluzione: ‘o si funziona o si è eliminati; (iii) GG è un ‘liberatore’; (iv) l’avidità è valida, giusta e chiarificatrice; (v) si deve essere avidi di vita, amore, conoscenza e denaro; (vi) l’avidità salverà Teldar e gli Stati Uniti. Applauso. 75 Bud decide di comprare la Bluestar, che è una ‘gemma grezza’ al costo di $10 all’azione. Sul suo aereo, GG esprime le sue riserve riguardo ai sindacati. Bud fa notare che la compagnia ha $75M in fondi pensione, e vuole essere ‘co-pilota’ nel far funzionare l’azienda perché ha ‘parecchi amici lì dentro’. Secondo Bud, si può ridurre costi sull’equipaggio: ‘posso parlare con quella gente, si fida di me ... mio padre può aiutarci a ottenere i tagli’. GG acconsenta. 80 Alla casa di Bud, GG viene presentato ai sindacalisti della Bluestar, tra cui il padre di Bud. GG spiega il suo piano per mettere la linea in sesto, tagliando 20% dello stipendio e aggiungendo 6 ore la settimana per un anno. Bud illustra la necessità di ammodernare, di pubblicità e di espansione. I sindacalisti sono scettici. Bud cerca di convincere il padre che, senza GG, la Bluestar è destinata alla rovina. Il padre rifiuta di misurare il successo in termini di denaro. Bud lo rimprovera di aver le priorità sbagliate.

124 Sinossi di Wall Street

85 La commisione di sorveglianza ha notato i movimenti su Teldar e ha convocato Roger a mostrare i libri contabili. Bud cerca di tranquillizzare Roger: ‘io sono l’uomo invisibile ... noi siamo invulnerabili’. Bud non sapeva che Roger stesse lavorando al piano ‘industriale’ della Bluestar per conto di GG. Da nuovo presidente della linea, Bud è presente alle trattative di finanziamento, in cui i banchieri insistono sulla rottamazione dell’azienda come condizione del prestito. 90 Bud va a protestare con GG, che si giustifica dicendo che la Bluestar ‘è smontabile’. Però, Bud ha dato la sua parola al suo padre. Per GG ‘è una questine di soldi’; Bud gli chiede ‘quando è che basta?’ GG: ‘è un gioco a somma zero ... i soldi non si fanno, si trasferiscono ... io non creo niente’. GG fa l’esempio del dipinto comprato per $60,000 che adesso vale $600,000: ‘l’illusione è diventata realtà’ GG vuole sapere da che parte sta Bud e ordina ai suoi di restare in silenzio sull’operazion Bluestar. 95 Bud confessa a Darien cosa sta succedendo: ‘mi guardo allo specchio e non mi piace quello che vedo’. Darien è leale a GG e lascia Bud. Bud vende il suo appartamento. Il padre di Bud è in ospedale dopo un attacco di cuore. Bud si scusa per le cose dette e dice di aver un piano per salvare la Bluestar, ma vuole il permesso del padre per parlare con i sindacati. 100 Bud spiega il suo piano ai sindacalisti. Poi va da LW offrendo l’azienda a $18 con la cooperazione dei sindacati in cambio di una promessa di non smembrarla. Nel suo ufficio, Bud cerca di scusarsi con Marv e gli raccomanda Bluestar, che sta a $19,50. Offre lo stesso consiglio a Mannheim, che dice ‘il principale guaio del denaro è che ti fa fare cose che non vorresti fare’. Bud sparge al voce anche attraverso il giornale e le azioni salgono a $21. GG è arrabbiato per un’eventuale fuga di notizie, ma comincia a comprare a $22. Quando Bluestar raggiunge quota $22e7/8, Bud dice di vendere. I sindacalisti vanno da GG e tolgono il loro appoggio al suo piano; GG li manda a quel paese e comincia a vendere a $23. Tutto il mercato vende tranne LW, che compra a $18.

125 Sinossi di Wall Street

GG chiama Bud minacciandolo. Bud consiglia di vendere a $16,50, due minuti prima della chiusura della borsa. GG vende. 105 GG sente alla tv che LW era dietro alla manovra. Il giorno seguente, nell’ufficio di Bud, tutti lo evitano perché gli ufficiali della commissione di sorveglianza sono presenti per arrestarlo. 110 Nel parco, GG schiaffeggia Bud e elenca gli affari fatti insieme: ‘ti ho dato tutto’. Bud ammette di aver voluto essere GG. La polizia prende il nastro dell’incontro. Nella sua macchina il padre, guarito, dice ‘hai restituito i soldi e hai detto la verità - sei alla pari ... costruisci qualcosa e non vivere di compravendita’. 115 Bud entra nel palazzo di giustizia, sapendo di andare in galera.

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28 giorni dopo (2003) Danny Boyle

Min. 0 In un laboratorio di Cambridge, uno scimpanzé con elettrodi attaccati alla testa è attorniato da schermi su cui si proiettano scene di violenza urbana. Nonostante le proteste del tecnico, animalisti rilasciano gli scimpanzé, che sono contagiati di rabbia; una degli animalisti viene morsa. 5 28 giorni dopo, Jim, intubato in un ospedale deserto, si sveglia e va in cerca di qualcuno; trova cibo e bevande nelle macchinette; anche i telefoni sono morti. Jim gira per Londra ma non incontra nessuno. 10 Quando trova soldi per terra, li raccoglie; un vecchio giornale parla dell’evacuazione della città e i bigliettini attaccati al ponteggio testimoniano di famiglie spezzate. Nella navata di una chiesa, Jim trova un ammasso di cadaveri, tra cui spunta un prete rabbioso, che Jim uccide; attaccato da altri infetti, Jim fugge. 15 Inseguito dagli infetti, Jim viene salvato da Mark e Selena, che fanno esplodere una stazione di servizio. Nel loro nascondiglio nella metropolitana, Jim racconta il suo incidente di bicicletta e Selena gli spiega la diffusione del virus: ‘non c’è più un governo’. Non si può uscire da soli o di notte. 20 I tre s’incamminano verso la casa di Jim lungo la ferrovia. La casa sembra normale, ma i genitori si sono suicidati tenendo una foto di Jim da bambino. Mark racconta il tentativo di fuga della sua famiglia: ‘i soldi erano inutili’ e gli infetti non erano distinguibili nella ressa. 25 Mentre Jim ripercorre le sue memorie di famiglia, la candela che tiene in mano attrae degli infetti (i suoi vicini di casa); Selena e Mark uccidono gli aggressori, ma Mark è stato contagiato; Selena lo uccide con il suo machete senza esitazione (‘hai venti secondi per decidere’) Selena sta spiegando che ‘i progetti sono inutili’, quando vedono luci natalizie su un grattacielo.

127 Sinossi di 28 giorni dopo

30 L’entrata dell’edificio è intasata da carrelli della spesa; Jim e Selena salgono, ma Jim sta crollando di malnutrizione. Quando arrivano gli infetti, Frank li ferma e fa entrare Jim e Selena nel suo appartamento. Con la figlia Hannah, Frank festeggia l’arrivo di Jim e Selena con crema di menta. Spengono le luci. 35 Nonostante la mancanza di acqua, Jim si rade. Jim ringrazia Selena per avergli salvato la vita. Il tetto del palazzo è pieno di secchi per catturare l’acqua piovana (ma non basta, neanche in Inghilterra). Alla radiolina, sentono un messaggio diffuso dall’esercito che promette un rimedio a nord di Manchester. Hannah dice, ‘abbiamo bisogno di voi quanto voi di noi’ 40 Percorrono una Londra deserta nel taxi di Frank, rischiando di passare attraverso un tunnel pieno di macchine sfasciate. Quando una gomma si buca, arrivano i topi, che sono segno dell’avvicinarsi degli infetti. Per un pelo, i nostri riescono a scappare. 45 In un supermercato abbandonato, fanno rifornimento di cibo e bevande: tranne le mele irradiate, solo la frutta è marcia. Frank lascia la sua carta di credito. Si fermano per fare benzina da un’autocisterna. Jim entra nel ristorante, che è pieno di cadaveri, e viene aggredito da un bambino infetto (‘ti odio’). Lo uccide. 50 Si fermano presso un monastero in rovine per mangiare e vedono una famiglia di cavalli. Jim e Selena riflettono sul fatto che non ci sarà nuova musica o nuovi film. Selena bacia Jim. Selena, che era farmacista prima del disastro, prende una pillola per dormire all’aperto. 55 Jim sogna di essere stato abbandonato; chiama Frank ‘papà’. Rimessi in marcia, trovano Manchester in fiamme; i veicoli dell’esercito al blocco 42 sembrano abbandonati. 60 Un goccio di sange infetto cade nell’occhio di Frank e lui allontana Hannah; i soldati nascosti nel bosco lo uccidono e accompagnano i superstiti alla loro base.

128 Sinossi di 28 giorni dopo

65 Magg. West li accoglie con l’offerta di una doccia calda. Jim e Selena parlano della situazione di Hannah e poi si baciano. West spiega che il promesso ‘rimedio’ è la difesa e non un farmaco; illustra le fortificazioni e la cucina (‘il primo passo verso la civiltà’). I soldati tengono incatenato uno dei loro (Mailer) che è stato contagiato: gli infetti non faranno pane e non coltiveranno, ma bisogna sapere quanto tempo sopravvivono con il virus. 70 Per festeggiare l’arrivo di Jim, Selena e Hannah, West vuole offrire una frittata, ma le uova sono marce. I soldati aspettano ‘il ritorno della normalità’, definita da Farrell come l’assenza di uomini, e da West come ‘persone che uccidono persone’. Hannah vuole seppellire il suo padre. L’attacco degli infetti viene respinto con un massacro. 75 I soldati tentano di prendere il machete di Selena e di stuprarla, ma Jim e West li fermano. Jim confessa l’uccisione del bambino infetto a West, che spiega di aver promesso donne ai suoi per assicurare un futuro: non permetterà che Selena e Hannah partano. 80 Jim e Farrell sono incatenati e vengono portati nel bosco per essere giustiziati, ma scappano. Fuori dal recinto della villa, Jim vede passare un aereo. I soldati vogliono stuprare Selena e Hannah, ma Selena chiede di essere lasciata sola per cambiare vestiti. 85 Mentre Selena e Hannah prendono stupefacenti, suona l’allarme al blocco 42. Al blocco, i soldati cercano di sbucare Jim, ma lui riesce ad ammazzarne uno; e il loro rumore ha attirato gli infetti. Jim torna alla villa e rilascia Mailer. 90 Mentre Hannah, sotto l’effetto dei farmaci, sta stuzzicando le guardie, entra Mailer, che aggredisce i soldati, contagiandone uno. Con due infetti liberi nella villa, Jim cerca le ragazze, che sono sempre sotto guardia. Dopo aver ucciso uno dei soldati, Jim è coperto di sangue e Selena esita prima di usare il suo machete: riconosce che non sia infetto. I due si baciano.

129 Sinossi di 28 giorni dopo

95 Con Hannah, raggiungono il taxi, ma Magg. West si trova dentro e spara a Jim. Un infetto lo trascina fuori e Hannah si mette al volante con Jim e Selena dietro. Sfondano il cancello della villa. 100 28 giorni dopo: Jim è a letto recuperando e Selena è al lavoro con la macchina da cucire. Stanno costruendo un messaggio visibile dall’alto nel giardino della cascina. Gli infetti stanno morendo. Arriva un aereo che vede l’appello di aiuto.

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John Q (2002) Nick Casssavetes

Min. 0 Con i titoli, una macchina bianca viene investita da un camion. Alla tv in casa Archibald, il presidente Bush ammette il rallentamento dell’economia. La macchina di Denise viene pignorata dalla banca; John è indietro anche con l’affitto di casa, perché gli hanno ridotto l’orario lavorativo. Il figlio di John e Denise, Mikey, è appassionato di body-building . 5 In macchina, la famiglia Archibald gioca insieme; davanti alla scuola, Mikey offre i suoi $46 per aiutare. John e l’amico Jimmy cercano un nuovo lavoro, a tempo pieno, ma sono ‘troppo qualificati’. 10 Dopo la chiesa, gli Archibald vanno alla partita di baseball, dove Mikey subisce un collasso. John lo porta in ospedale e, mentre gli infermieri lo intubano, John deve compilare moduli e dare la sua tessera dell’assicurazione. 15 Trasferito nel reparto di cardiologia, Mikey è appena sveglio; l’infermiere spiega che la pressione sanguinea (che sta a 88/58) non deve scendere sotto i 70. Scende a 87. John e Denise vanno nella direzione ospedaliera, dove il dott. Turner illustra il difetto cardiaco di Mikey: senza un trapianto non vivrà a lungo, ma il trapianto è rischioso. Rebecca Payne 1, l’amministratrice, suggerisce di curare Mikey senza intervento chirurgico. 20 Il dott. Turner farebbe il trapianto per il proprio figlio. John crede di aver l’assicurazione, ma la Payne tratta il suo caso come uno da pagare in contanti, $250,000 di cui 30% in anticipo: ‘offrire un servizio sanitario ha i suoi costi’. La dott.ssa Allen Klein consiglia agli Archibald di non farsi intimidire.

1 La parola omofona ‘ pain ’ significa dolore.

131 Sinossi di John Q

Il datore di lavoro di John ha cambiato la sua polizza assicurativa (da ‘PPO’ a ‘HMO’), con un limite di spesa di $20,000. John e Denise iniziano il giro della burocrazia, incontrando rifiuti da tutte le parti. 25 La Payne non accetta la dichiarazione di un ‘ricorso’ al posto di un ‘reclamo’; John è già in debito di $30,000. Si organizza una raccolta in chiesa a favore di John e Denise; loro vendono i mobili. La pressione di Mikey continua a scendere. Jimmy consiglia a John di rivolgersi al giornalista tv Tuck Lampley, che è pronto a fare un servizio sul caso. 30 Turner sta per dimettere Mikey; Denise chiama John, chiedendolo ‘fa qualcosa’. John prende l’autobus all’ospedale e trova Turner che sta scherzando con un paziente guarito (e ovviamente facoltoso). Quando John dice di aver appena pagato $6,000, Turner risponde che la responsabilità non è sua. John cita il fatto che l’ospedale frutta $M75 all’anno per operazioni di cuore; estrae una pistola e minaccia il dottore. 35 John incatena le porte e prende in ostaggio quelli nel pronto soccorso. Oltre ai dottori Turner e Klein Allen, sono: la guardia giurata, Max; quello con la mano sanguinante, Lester; il tirocinante nel pronto soccorso, Maguire; la coppia in procinto di parto, Steve e Miriam; la signora con bambino, Rosa; l’infermiera al suo primo giorno, Debby; la coppia di giovani, Julie e Mitch. John distrugge alcune delle telecamere a circuito chiuso. Quando Lester protesta che gli sanguina la mano, viene medicato da Maguire e John annuncia il principio, ‘trattamento gratuito per tutti’. Arriva un’ambulanza con un’uomo ferito da arma da fuoco e John lo fa entrare. 40 Turner non vuole guarire le ferite; John dice ‘faccia finta che le stanno pagando’. Arriva la polizia; John si identifica al Lt Grimes come ‘John Q’. John vuole che Payne metta il nome di Mikey sulla lista d’attesa per il trapianto. 45 Miriam sta per partorire; Steve non chiede altro che il bambino sia sano. Tutti gli ostaggi sono contro Mitch, perché hanno intuito che è stato lui a rompere il braccio a Julie. Turner ha salvato il ferito. In reparto di cardiologia, l’infermiere somministra molte droghe a Mikey e gli dà una statuetta di un campione di body-building.

132 Sinossi di John Q

50 La ragazza nella stanza accanto a quella di Mikey muore. Mitch chiede a Max perché non si è opposto a John; Max risponde: ‘non rischio la vita per $8,50 all’ora’. Mitch vuole usare un bisturi contro John. Arriva il capo della polizia, Monroe, che vuole ‘chiudere in fretta’. John vuole sapere perché il male di Mikey non è stato rilevato nelle visite annuali; Maguire suggerisce che le società assicuratrici pagano i medici per non fare esami. 55 Lester afferma che il giuramento di Ippocrate è degli ipocriti: i medici curano solo quelli con l’assicurazione. John chiama la polizia per sapere dell’inserimento di Mikey nella lista d’attesa; Grimes vuole che liberi un ostaggio come segno di buona fede; sono le 16.15 e John dà un’ora di tempo; la Payne riconosce John attraverso una telecamera. Mitch aggredisce John e, invece di prendere la pistola di John, Julie spruzza negli occhi di Mitch e lo prende a calci; Mitch viene ammanetato al termosifone. 60 John rilascia Miriam con Steve e Rosa con bambino: dicono ai giornalisti che John è un uomo buono. Payne dice che ci sono 50 millioni di americani senza assicurazione: è un problema politico. Gli ostaggi si lamentano della facilità con cui si può procurarsi una pistola. John sta aspettando un miracolo. Si riprende la scena iniziale dell’incidente stradale. 65 Grimes vuole che Denise cooperi; Payne dice di aver inserito Mikey nella lista. Lampley intervista Jimmy che ironizza sul ‘valore’ e i valori: ‘c’è qualcosa che è malato, non qualcuno’. Un elicottero arriva alla scena dell’incidente stradale. Monroe vuole infiltrare un tiratore nell’ospedale; Grimes non è d’accordo. 70 Il tecnico di Lampley sta cercando di decriptare le immagini dell’interno dell’ospedale per metterle in onda. Alle 17.15, John parla con Denise e Mikey al telefono rosso, che è sotto tiro del cecchino. 75 La Payne si commuove davanti alla tv e inserisce i dati di Mikey per davvero. Lester avverte John dell’intruso e la pallottola gli colpisce al braccio; il poliziotto cade e John lo prende a pugni.

133 Sinossi di John Q

80 La folla in attesa fuori dall’ospedale applaude quando, rilasciando il poliziotto (senza pantaloni), John afferma che ‘quando una persona è malata merita un minimo di aiuto’; chiede di aver Mikey nel pronto soccorso. La pressione di Mikey e bassissima; Turner: ‘senza un cuore nuovo non ce la farà’. John offre il proprio cuore sapendo che i tessuti sono compatibili. 85 Se John fosse morto, Turner prenderebbe il suo cuore per salvare Mikey. John: ‘il mio compito è di proteggerlo’. Quando Turner dice che la proposta è ‘contro ogni etica’, John risponde che hanno già ‘passato ogni limite’. Turner: ‘se c’è un cuore disponibile, non lo lascio inutilizzato’. I dottori in un altro ospedale tolgono gli organi della vittima dell’incidente stradale. John scrive il suo testamento lasciando il suo cuore al figlio. 90 Mikey chiede al padre se hanno trovato un cuore nuovo; John gli dà consigli per la vita: ‘non ti lascerò mai’. La disponibilità di un cuore è segnalata per fax in reparto. 95 John mette una pallottola nella pistola e si mette sul lettino. Payne annuncia l’arrivo del nuovo cuore tra un quarto d’ora. John preme il grilletto, ma c’è la sicura. Denise lo chiama ma lui spegne la radio. Lei grida la notizia attraverso la porta. Gli ostaggi vengono rilasciati e Lester si traveste da John e si fa arrestare. 100 Mentre John e Denise guardano, operano su Mikey: il cuore funziona Dibattiti in tv sulla sanità pubblica Al processo, John è dichiarato colpevole di sequestro di persona e può aspettarsi da 2 a 5 anni di galera. All’uscita, Lester lo chiamo ‘il mio eroe’. Mikey lo ringrazia.

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Letture autonome

Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 3), ai non- frequentanti è richiesto l’approfondimento di uno a scelta tra i tre temi centrali del corso: lo stato di natura, la punizione e la bioetica. In ogni caso, verrà presupposta una lettura dei testi di base: anche gli studenti che vogliono proporre un percorso personale devono comunque (e meglio prima) leggere il materiale di obbligo comune.

1. Lo stato di natura

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di Platone ( Repubblica , II), di Hobbes, di Locke, di Beccaria (soprattutto i capitoli introduttivi) e di Rawls.

(b) Film (almeno 2) In alternativa a Wall Street e 28 giorni dopo , altri film indicati per questo tema sono: – sull’impunità conferita dall’inivisibilità: L’uomo senza ombra , P. Verhoeven, 2000; L’uomo invisibile , J. Whale, 1933 (classico adattamento del omonimo romanzo di H.G. Wells 1); – sulla conflittualità uno-a-uno: Duello nel Pacifico , J. Boorman, 1968 (caso in cui i partecipanti [L. Marvin e T. Mifune] allo stato di natura non hanno una lingua in comune); Heat- La sfida , M. Mann, 1995 (caso in cui R. De Niro e A. Pacino si fidano reciprocamente solo di continuare la lotta) – sulle difficoltà di generare fiducia: Il signore delle mosche , P. Brook, 1963 (versione filmico del omonimo romanzo di William Golding [1954]; adattato anche in una brutta versione americana pseudonima [‘H. Hook’] nel 1990); Cidade de Deus/Città di Dio , F. Meirelles, 2002.

1 Alessandra Calanchi, dell’università di Urbino, ha discusso una serie di affascinanti casi di invisibilità nella letteratura anglo-americana nel suo Dismissing the body , CLUEB, Bologna, 1999, il testo putroppo è in inglese.

135 Percorsi di approfondimento

(c) Letture (almeno 3 a scelta) Platone, Protagora , 316A-326E (qualsiasi edizione o traduzione: un mito della formazione della società umana). D. Hume, ‘Del contratto originario’ (1748) (qualsiasi edizione o traduzione: una critica alla nozione di contratto come fondativo). N. Bobbio, ‘La teoria politica di Hobbes’ (1980) nel suo Thomas Hobbes , Einaudi, Torino, 1989, (ristampato 2004 nella ‘Piccola Biblioteca Einaudi: Filosofia’), pp. 27-71. T. Magri, ‘Patto e Sovrano’ nel suo (a cura di) Il pensiero politico di Hobbes , Laterza, Bari- Roma, 1994, pp. 41-63. G. Sorgi, Quale Hobbes? Dalla paura alla rappresentanza , Franco Angeli, Milano, 1996, Parte II cap. 1 (di questo testo, di difficile reperibilità, c’è una copia a disposizione a ricevimento) A.E. Galeotti ‘Filosofia politica’ in F. D’Agostino e N. Vassallo (a cura di) Storia della filosofia analitica , Einaudi, Torino, 2002, pp. 321-54 (esposizione chiarissima della posizione di Rawls).

2. Giustificare la punizione

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di San Tommaso e di Beccaria

(b) Film (almeno 2) In aggiunta/alternativa a Wall Street (che è effettivamente di pertinenza relativa a questo tema) altri film indicati sono: – sull’uso della pena capitale: Non voglio morire , R. Wise, 1958; Un affare di donne , C. Chabrol, 1988; Decalogo 5 , K. Kieslowski, 1988; Dead Man Walking , T. Robbins, 1995; La Vita di David Gale , A. Parker, 2003; – sulla questione della giustizia privata: Giustiziere della notte , M. Winner, 1974 (con quattro seguiti in 20 anni, sempre con un violento Charles Bronson); Taxi Driver, M. Scorsese, 1976; Una cena quasi perfetta , S. Title, 1996;

136 Percorsi di approfondimento

– sulla punizione a scopi ‘preventivi’: Arancia meccanica , S. Kubrick, 1971; Minority Report , S. Spielberg, 2002.

(c) Letture F. Facchinei ‘Note e osservazioni’ (1765) estratti nell’edizione di Dei delitti e delle pene di Beccaria a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 164-77. F. Venturi, Settecento riformatore , Einaudi, Torino, 1969, cap. ix, esp. pp. 702-20 e 740-7. M. Foucault, Sorvegliare e punire , (1975) Einaudi, Torino, 1976, Parte II, cap. ii (purtroppo cita da un’edizione corrotta di Beccaria). A. Marchesi, La pena di morte , Laterza, Bari-Roma, 2004, cap. I, pp. 3-52.

3. Temi di bioetica

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di San Tommaso, di Harris e della Jarvis Thomson

(b) Film (almeno 2) In aggiunta a John Q , film indicati in questa area sono: Frankenstein di Mary Shelley , K. Branagh, 1994 (uno tra i tanti); Extreme measures – soluzioni estreme , M. Apted, 1996 (sull’uso di cavie non-consenzienti per fare ricerca); Gattaca , A. Niccol, 1997 (sul controllo genetico); Mare dentro , A. Amenabar, 2004 (sull’eutanasia).

Altre proposte di ‘dilemmi etici’ della medicina sono ben accette, anche se desunte dalla televisione ( ER - Medici in prima linea e Dr House sono fonti più probabile di Un medico in famiglia ). Si segnala il volume di P. Cattorini, Bioetica e cinema , Franco Angeli, Milano, 2003, che comprende uno schedario di una settantina di film pertinenti. In caso di dubbio sulla pertinenza del materiale individuato agli scopi del corso, è vivamente consigliata consultazione con il docente del corso.

137 Percorsi di approfondimento

(c) Letture (i) due capitoli coordinati per argomento (ad es. aborto, eutanasia, etica della ricerca medica, distribuzione di beni sanitari), uno tratto da un libro e uno da un altro, desunti da libri introduttivi di bioetica. A titolo esemplificativo suggeriamo i seguenti volumi, presentati qui in ordine alfabetico per autore e non per presunto ‘valore’: L. Ciccone, Non uccidere: questioni di morale della vita fisica , Ares, Milano, 1984. R. Dworkin, Il dominio della vita: aborto, eutanasia e libertà individuale , Edizioni della comunità, Milano, 1996. G. Fornero Bioetica cattolica e bioetica laica , Mondadori, Milano, 2005. E. Lecaldano, Bioetica: le scelte morali , Laterza, Bari-Roma, 1999. S. Maffettone, Il valore della vita , Mondadori, Milano, 1998. R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali: confronto con la bioetica , Feltrinelli, Milano, 2003. A. Pessina, Bioetica , Mondadori, Milano, 1999. E. Sgreccia, Manuale di bioetica , Vita e Pensiero, Milano, 2000. P. Singer, Ripensare la vita , Il Saggiatore, Milano, 1994. (ii) uno sviluppo dell’argomento scelto, facendo riferimento ad almeno due altre letture (capitoli di libro o articoli di rivista scientifica) individuate attraverso le bibliografie presenti nei libri studiati, di cui i seguenti sono offerti a titolo esemplificativo: Eutanasia D. Neri, Eutanasia , Laterza Bari-Roma, 1995, parte I. H. Kung , Della dignita del morire , Rizzoli, Milano, 1996. G. Barazzetti, ‘Diane Pretty e Miss B.: due “casi” morali’, aut aut , N° 318, (2003), pp. 72-82. Aborto M. Tooley, ‘Aborto e Infanticidio’, (1972), in G. Ferranti e S. Maffettone (a cura di) Introduzione alla bioetica , Liguori, Napoli, 1992, pp. 25-56. (Card.) D. Tettamanzi, L’aborto e la comunità cristiana , Edizioni Paoline, Milano, 1998.

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Suggerimenti di lettura autonoma

Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può essere utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso personale.

Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina) Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può, nei migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra questi possiamo segnalare: N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori , Paravia, Torino, 2002 (e poi rielaborato). Anche dello stesso Abbagnano sono: Storia della filosofia , (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione economica nel 1995; e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico: Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993. Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi della Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal 2004. Altri dizionari, quali Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e Dizionario di filosofia , (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972, forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di versioni italiane, vedi Dizionario delle opere filosofiche , (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000. Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente riscontrabile e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 148).

139 Suggerimenti di lettura

Introduzioni A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo: B. Russell, I problemi della filosofia , (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico del genere); S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti , (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette) S. Blackburn, Pensa , (1999), Il saggiatore, Milano, 2001; N. Warburton, Il primo libro di filosofia , (1991), Einaudi Torino, 1998; e T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia , Il saggiatore, Milano 1996 Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in, T. Nagel, Questioni mortali , (1979), Il saggiatore, Milano, 1986. Specificamente su temi di etica e di teoria politica, possiamo indicare: E. Lecaldano, Etica , TEA, Torino, 1996; S. Veca, La filosofia politica , Laterza, Bari-Roma, 1998; P. Donatelli, La filosofia morale , Laterza, Bari-Roma, 2001; e A.E. Galeotti, ‘Filosofia politica’ in F. D’Agostini e N. Vassallo (a cura di), Einaudi, Torino, 2002, pp. 321-54 (con bibliografia ragionata a pp. 548-51).

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Prontuario per la presentazione di una tesina

Valore Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).

Presentazione La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e consegnata con almeno venti giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole sostenere l’esame relativo al corso. La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo. La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti informazioni: cognome e nome dello studente; numero di matricola; titolo del lavoro; il modulo per cui viene presentato (con codice); nel caso di un percorso personale, il nome del docente che ha concordato il titolo; numero arrotondato delle parole; e data prevista della sessione di esame. Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme al materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.

Conteggio delle parole L’indicazione (pp. 3-4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue. Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font leggibile di almeno 12pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi i lati (di più a sinistra se richiesto dalla rilegatura). Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute (2,000 parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la

141 Prontuario per la tesina capacità di contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere manuale può stimare il totale in base ad una campione del testo. Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono incluse.

Originalità Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico ma anche legale) di plagio. La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto vicina a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo studente è sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di sostenerla. Se lo studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere l’esame con un altro membro della commissione d’esame.

Citazioni La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e dà un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le parole esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà. Esempio di parafasi1:

Nel capitolo XXVIII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace come deterrente. Questo ragionamento dipende ...

Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero capitolo in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene . La parafrasi non riporta le parole esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola ‘deterrente’ non ci appare, ma è utile come riassunto. Esempio di citazione :

1 Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne fanno. Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina .

142 Prontuario per la tesina

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti’ 15 . Questo ragionamento dipende ...

Notiamo una serie di aspetti di questa operazione. Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’), doppie (“...”) o a lisca di pesce («...»). Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’ nella citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma, nella citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con parentesi, preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([ e ]) o increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è il freno’, è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate) per indicare l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa corsivo (sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si aggiunge in nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge ‘corsivo originale’. Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno messi con un rientro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza virgolette. Quindi, se si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più forte contro i delitti’ 15 . Questo ragionamento dipende...

Mentre, con testo intero, si ha: Beccaria osserva come,

[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti 15 .

Questo ragionamento dipende...

143 Prontuario per la tesina

Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘ 15 ’). Tutti i programmi moderni di word processing sono in grado di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali attrezzature può raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.

Note Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente) in un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per commenti ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del ragionamento all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa. I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi primari; (ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di più autori). Siti internet vengono citati riportando l’URL. (i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato. Ad esempio, la paginazione, con parte della pagine e riga, di Platone risale all’edizione di Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di Bekker del 1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono riportati in quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla numerazione delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono suddivisi in piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che hanno righe numerate, possono essere citati con il numero fornito nel testo. È comunque da segnalare quale edizione o traduzione è stata adottata. (ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine: autore; titolo in corsivo; nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi; nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i; casa editrice; città di pubblicazione; anno di pubblicazione; e pagina/e.

144 Prontuario per la tesina

Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene , (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 63-4.

Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o

16 Beccaria, op. cit., p. 64. togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’), o

16 Op. cit., p. 64.

Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:

8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene , (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p. 62.

9 Loc. cit.. oppure

9 Ibid..

(dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ significa ‘lo stesso posto nel testo’). Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può avere una sequenza di questo genere:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene , (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 63-4. 16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale , Sansoni, Firenze, 1862, p. 12. 17 Beccaria, op. cit., p. 65.

O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘ Dei delitti ’) può servire come indicazione utile a chi legge.

(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine: autore; titolo del articolo tra virgolette;

145 Prontuario per la tesina

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi; titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di pesce: questa forma è normale solo in Italia); nel caso di una miscellanea, nome del curatore; nel caso di una miscellanea, casa editrice; nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione; nel caso di una rivista, l’anno e il numero; anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e pagina/e. Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia , XLI, (1986), p. 14. che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza nel pensiero ellenistico , Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.

Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo stesso saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente forma:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica , a cura di A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2005, p. 97. Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un convegno, si ha:

3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele: Perché la metafisicsa , a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 190-1.

Bibliografia In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i non- frequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche

146 Prontuario per la tesina bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico è escluso dal conteggio delle parole. L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato corrisponde a quello delle note con poche varianti: (i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele, l’edizione o traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si cita più di un testo, tutti vanno elencati; (ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico; (iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il secondo testo si mette un trattino sulla nuova riga; (iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della casa editrice; (v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine; (vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe successive se il rimando si estende su più di una riga. così, abbiamo, ad esempio, Aristotele , Etica Nicomachea , trad. it. con testo greco a fronte a cura di G. Reale, Rusconi, Milano, 1992. –– Etica Nicomachea , trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere a cura di G. Giannantoni, (4 volumi), Laterza, Bari-Roma, 1973. –– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero, Milano, 1993. Berti, E., Aristotele nel Novecento , Laterza, Bari-Roma, 1992. Dudley, J., Dio e contemplazione in Aristotele , (1983) Vita e pensiero, Milano, 1999 Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1932), appendice al suo Aristotele , trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968. Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele: Perché la metafisicsa , a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 187-214.

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