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MICHELE TRANASI

Un’annosa questione: la contesa territoriale tra Manfredonia e Monte Sant’Angelo

ESTRATTO

Convegno della Società di Storia Patria, sezione di Manfredonia, 23 - 24 novembre 2016

ATTI

a cura di Lorenzo Pellegrino

Manfredonia 2017

MICHELE TRANASI*

Un’annosa questione: la contesa tra Manfredonia e Monte Sant’Angelo

------*Società di Storia Patria per la Puglia ------

Le contese tra Comuni, feudatari ed enti ecclesiastici per l’affermazione del dominio sui territori costituiscono un abbondante materiale di ricerca per gli studiosi che si occupano di problemi di storia. Non fanno eccezione quelle afferenti il territorio di Monte Sant’Angelo, come viene attestato dalla documentazione che ci hanno lasciato, che avremo modo di analizzare, anche se solo di sfuggita, nel corso della nostra indagine. In essa focalizzeremo la controversia che ha visto contrapposti il Comune di Manfredonia, da una parte, il feudatario e il Comune di Monte Sant’Angelo, dall’altra, in ordine all’agro feudale, che fu poi diviso in forza dei provvedimenti attuativi delle leggi dell’eversione della feudalità varate nel Regno di Napoli nel Decennio francese, e alla piana di Macchia compresa fra i torrenti Pulsano e Varcaro. Le due questioni, diversissime tra loro quanto alla loro natura – feudale la prima, universale (comunale) la seconda – sono accomunate dall’essere passate attraverso le vicende di molte liti, che trascendevano spesso in conflitti aperti e violenze, per finire poi in tribunale. Le differenzia il fatto che la questione riguardo alla titolarità della piana si trascinerà, per volontà di Manfredonia, in termini polemici anche accesi, dopo la chiusura delle operazioni di divisione dei demani, per arrivare fino alla prima metà del Novecento. Le due dispute correvano parallele, ma, per ovvie ragioni, spesso s’incrociavano. La controversia tra il barone di Monte Sant’Angelo e l’Università (Comune) di Manfredonia ebbe origine nel XIV secolo. Quest’ultima riteneva che Monte Sant’Angelo fosse un suo antico casale – come nata da una sua costola –, dopo la scomparsa di , e non riconosceva la Platea del Berlingieri, l’Inventario di tutti i beni fondiari di Monte Sant’Angelo, che aveva tracciato i confini tra i due Comuni nel lontano 1304. Al netto di tutto questo, essa poteva vantare sul feudo sito al suo confine diritti basati su titoli molto vecchi. Le fonti più antiche, le «Carte» che confermavano il godimento degli usi civici sull’«intiera estensione di Montegargano» da parte di Manfredonia, risalivano al 1320 e 1329 e furono emesse dall’«autorità Sovrana». Ad esse fece seguito lo Strumento con il quale, nel 1479, il feudatario Giovanni Castriota riconosceva non solo «l’esenzione della fida che vi [sul territorio] godevano i Manfredoniani», vale a dire l’esercizio del diritto di «Communità» nel medesimo, ma addirittura apriva a loro vantaggio le difese (chiusure) che aveva appena formate. Però, nel 1559 Manfredonia fu obbligata a comprare per 2.200 ducati da Ferdinando e Luisa di Sangro, affittuari del feudo, «la sua acquiescenza allo Strumento di Castriota». Ne nacque una controversia, con inizio nel 1577 presso il sacro regio Consiglio, al quale l’Università di Manfredonia si rivolse per rivendicare i suoi antichi diritti. La decisione arrivò il 26 aprile 1619 e le fu sfavorevole. Ma non per questo la lite terminò, anzi si rinfocolò, allorché Manfredonia intravide la possibilità di poter contare sull’alleanza con la Mensa arcivescovile, da tempo in causa con il feudatario per questioni analoghe. La lite giunse a termine nel 1774, dopo una seconda sentenza favorevole al barone. Da allora l’Università di Manfredonia, pur ritenendosi insoddisfatta, non pensò più di risolvere la questione con i tribunali, per viam iuris. Il documento più illuminante del clima di terrore che si respirava in città negli anni a cavallo del Seicento e Settecento è la registrazione di un passo di una lettera dell’arcivescovo Annibale de Ginnasiis, dove è riportato che il feudatario di Monte Sant’Angelo «va occasionando di maltrattare i cittadini et abitanti di questa città [Manfredonia], tenendoli miseramente oppressi e timorati che non possono vivere nonché respirare». L’arcivescovo non interveniva nell’interesse di quelle povere anime, ma in quello della Curia, che rivendicava per sé diritti di possesso a vario titolo su vaste aree del tenimento di Monte Sant’Angelo, contro il barone di turno e la stessa Università, con i quali è stata sempre in conflitto, anche successivamente. All’inizio del secolo scorso una settantina di ettari, siti nelle contrade Tor di Lupo, Mattinatella, Mergoli e Vignanotica, erano ritenuti «non si sa a quale titolo di spettanza della Mensa Arcivescovile di Manfredonia» (il virgolettato è preso da una relazione congiunta dell’Ispettorato forestale e dell’Ufficio tecnico di Finanza di del 20 giugno 1911), che percepiva regolarmente i relativi canoni. Grazie alle affrancazioni degli anni passati, anche recentissimi, oggi ne sono rimasti una quindicina di ettari. Di fragile consistenza appare, invece, la rivendicazione della piana di Macchia da parte di Manfredonia, almeno a stare alle decisioni che verranno adottate successivamente. Come che sia, affinché la vicenda riesca più agevolmente comprensibile, è opportuno qualche cenno sulla contrada dove la piana è collocata, chiamata Casiglia. Nei secoli passati anch’essa è stata interessata da liti infinite con alterne vicende. Ad aprire le ostilità furono, nel XVII secolo, le Locazioni della Dogana di Foggia – ne erano interessate ben 6 su 23 – con l’intento di conoscere da quel Tribunale se «la Contrada denominata Casiglia fosse Difesa dell’Università, o pure un Demanio aperto della medesima Università». Le Locazioni erano, ovviamente, per la seconda opzione, asserendo di avervi il «diritto di riposo», ossia la facoltà di sosta nei mesi di ottobre e novembre, prima di entrare nei pascoli del Tavoliere, diritto che già avevano sul feudo, a seguito di accordi con i Grimaldi risalenti al 1611 e 1778. Nello stesso periodo ebbe inizio anche la controversia dell’Università di Monte Sant’Angelo con i Grimaldi, riguardante sempre le stesse questioni: pascoli, tagli di alberi, raccolta della manna, uso delle cisterne, diritti di colonìa, ecc.). Le diverse liti necessitarono di varie inchieste (Sapio, Marciano, ecc.) e svariati giudizi (Sacro Regio Consiglio, Regia Camera della Sommaria, ecc.). Nella consultazione degli atti di queste lunghe liti giudiziarie non sono stati riscontrati grossi problemi che riguardassero specificamente Manfredonia. Ciò non significa che problemi non esistessero o che non si facessero sentire – gli sconfinamenti dei pastori di Manfredonia erano all’ordine del giorno, erano una pratica quotidiana (Casiglia era una via di passaggio obbligata verso il feudo) e lo stesso le lamentele reciproche con l’Università di Monte Sant’Angelo –; significa semplicemente che essi possono essere tranquillamente derubricati a scaramucce all’interno delle due contese. Sia come sia, nel Catasto Onciario predisposto nel 1753, in attuazione delle disposizioni emanate da Carlo III di Borbone nel 1741, la piana di Macchia venne assegnata alla città di Monte Sant’Angelo. Anche se in contestazione con Manfredonia. Per dirimere la lite sorta a proposito di Casiglia tra la principessa di Gerace, Maria Antonia Grimaldi, l’ultima feudataria di Monte Sant’Angelo, e l’Università di Monte sant’Angelo, il sovrano diede un incarico ad hoc al marchese Vivenzio, luogotenente della Regia Camera della Sommaria. Questi il 27 maggio 1801 emanò a Manfredonia un apposito decreto, con il quale stabilì quanto segue:

- Si è appuntato, deciso e giudicato che l’Università sia mantenuta e quatenus opus reintegrata nel possesso della Difesa o contrada denominata Casiglia, secondo la confinazione fatta dal Tavolario Sapio, una coi frutti da liquidarsi intese le parti.

Va osservato che anche la perizia dell’agrimensore Sapio, risalente ai primi del XVII secolo, aveva ritenuto Casiglia «di pertinenza dell’Università». La decisione del Vivenzio non ricevette un’accoglienza entusiastica da parte della principessa, che produsse «ricorso per nullità». Non mandarono giù la decisione neanche i locati, che, per mezzo di una Memoria scritta, si lagnarono «per non essere loro stati sentiti nel giudizio». Così il decreto, stante i ricorsi, non ebbe esecuzione. In capo a pochi mesi l’Università di Monte Sant’Angelo, stanca dei soprusi e delle pretese dei Grimaldi, acquistò il feudo, mettendo fine ad ogni controversia.1

1 L’atto notarile, rogato dal notaio Vincenzo Portanova di Napoli, porta la data del 20 settembre 1802. Il prezzo convenuto tra le parti, comprensivo degli interessi, ammontò a 400.000 ducati, da pagarsi in 32 annualità alla Regia Corte, in quanto creditrice nei confronti della principessa di Gerace per la vendita del feudo di Policoro, in Basilicata, di suo dominio. L’Università di Monte Sant’Angelo riuscì a far fronte all’impegno assunto solo per qualche anno, dopo di che troncò ogni pagamento. Allora il rogito fu rescisso con decreto di Gioacchino Murat il 23 maggio 1810. Tutti i beni acquistati furono «retrocessi al Governo e il Re assunse sopra di sé tutta la perdita avvenuta per necessità superiore». Una volta liberato dal peso del debito, al Comune di Monte Sant’Angelo non restava che essere indennizzato, in ossequio alle leggi eversive della feudalità del 1806, per «tutti i diritti che prima della ricompra legittimamente rappresentava sia sul demanio dell’ex feudo, sia sugli altri corpi, e rendite litigiose». Ciò che Nel decreto Vivenzio del 27 maggio, che tra l’altro ripercorre le vicissitudini giudiziarie di Casiglia a partire dal XIV secolo, di Manfredonia non si parla; neanche di sfuggita. A riprova del fatto che l’appartenenza di quell’area al tenimento di Monte Sant’Angelo era fuori discussione, un fatto acquisito, almeno a giudizio del luogotenente della Sommaria. Qui importa osservare anche che Casiglia era riportata per 10.981 tomoli (versure 2.745, pari a ha 3.388) già nella inchiesta del Sapio, il che la dice lunga sul fatto che in quella cifra fosse compresa, già a quell’epoca, anche la fetta della piana compresa tra i torrenti Pulsano e Varcaro. Manfredonia espresse tutta la sua contrarietà al decreto Vivenzio, quando questo era ancora nel suo processo di gestazione. In primo luogo invocò una decisione del sacro Consiglio del 1747, con la quale, a suo dire, «fu deciso che la Città di Manfredonia si fosse mantenuta nel possesso di detta confinazione», che comprendeva la piana di Macchia fino a Varcaro e al Macerone. Ma disse anche dell’altro, che va sottolineato per la singolarità delle sue affermazioni: «E pure l’Ingegnieri [Pollio e Porpora] dimentichi della loro commissione, che non era di decidere cause, ma di apprezzare territori e del rispetto dovuto al S.C e alla R.C. si erano ingannati. Ma poi rientrando in loro medesimi, in più luoghi della loro relazione dicono: “Dipendendo la decisione di questo punto di controversia assolutamente da ciò, che si rileva da’ documenti, e niente affatto dalla ispezione oculare, è cosa dunque che tutto si appartiene al savio giudizio di V.I., e non già ad altri”». Secondo Manfredonia, «questo parere degl’Ingegnieri, dichiarato da essi medesimi di nessunissimo vigore», sarebbe stato sufficiente, però, a ringalluzzire Monte Sant’Angelo, fino al punto di spingerlo a compiere atti criminosi contro i avverrà, come vedremo tra breve, con l’accantonamento in suo favore di un vasto territorio, a seguito della divisione del suo demanio ex feudale. manfredoniani che pascolavano in quella zona. Questo è tutto sul decreto Vivenzio del 1801, nulla di più. A fare ricorso ci avrebbero pensato gli altri! Non passerà un lustro che l’ordinamento amministrativo ed economico del Regno muterà, per effetto delle riforme eversive della feudalità approvate dall’Amministrazione francese (leggi del 2 agosto e 1° settembre 1806). Esse rappresenteranno un punto di svolta nella storia delle provincie napoletane ed incideranno proprio sul regime di proprietà della terra. L’anno dopo sarà istituita anche un’apposita Commissione, detta feudale, incaricata di decidere il contenzioso fra i baroni e le Università e fra queste ultime. Una sentenza riguarderà Monte Sant’Angelo e Manfredonia, come più avanti diremo. Qui preme mettere in evidenza che fu proprio in quel torno di tempo che i contrasti riguardo a Macchia si erano andati inasprendo, fino a toccare il culmine il 1807, in occasione della formazione del Ruolo di fondiaria di quella zona, che ognuno dei due Comuni rivendicava a sé. L’anno dopo, poi, «un controloro, accordando de’ favori a Manfredonia, per cui n’ebbe la destituzione, formò una linea capricciosa» (a parlare è Monte Sant’Angelo), che determinerà nel 1811, in occasione del Catasto provvisorio, l’inserimento della piana nello Stato di Sezione di Manfredonia. Per tutta risposta Monte Sant’Angelo si rivolse all’Intendenza di Capitanata, per chiedere di rendersi promotrice di un arbitrato, nella speranza di ottenere per questa via che «la Difesa denominata Casiglia, come sua Comunale, sia riportata nel suo Ruolo di Fondiaria, togliendosi da quello di Manfredonia, in cui per errore siasi riportata nella formazione del Catasto Provvisorio». Manfredonia vi si oppose, come era prevedibile, ribadendo che «in forza di vertenza non cade dubbio che il confino del territorio di Manfredonia è fino al Vallone Varcaro» (seduta decurionale del 10 novembre 1812). Il Consiglio d’Intendenza si pronunciò il 29 novembre 1813, disponendo che «per la promiscuità di pascolo pretesa dal Comune di Manfredonia sulla difesa denominata Casiglia si attenda l’ordinanza del già Commissario del Re, Intendente di Molise. Ciò pendente, senza prendersi norma del Catasto Provvisorio, debba per detta difesa starsi a quella descrizione di Fondiaria, che trovasi esistente ne’ rispettivi Ruoli, all’epoca antecedente di detto Catasto Provvisorio». L’ordinanza del commissario Zurlo era stata emanata una ventina di giorni prima, ma era in attesa della sanzione sovrana, quindi non ancora operante. Comunque, una soluzione per la piana di Macchia era già stata trovata. Ma di questo si dovrà parlare più avanti. Ora occorre fare un passo indietro e dare conto della decisione della Commissione feudale, alla quale, tra l’altro, Manfredonia si era richiamata proprio nella seduta decurionale del 10 novembre 1812. L’Università di Manfredonia si era rivolta alla Commissione feudale per chiedere: «1) la reintegra nel Condominio, e promiscuità di pascolo sull’intiera estensione di Montegargano; 2) la reintegra del territorio compreso tra’ confini della linea tracciata da’Tavolarj, Pollio e Porpora». Il secondo punto riguardava proprio l’area compresa tra i due torrenti, che si estendeva dal mare al Macerone e aveva una superficie di 1.065 versure. Su di essa, come si può notare, si chiedeva sic et simpliciter il dominio diretto, la piena proprietà, in quanto considerata facente parte della difesa Mezzanella, di sua pertinenza. La Commissione, considerando che Manfredonia, «sorta nel tenimento di Montegargano dopo la ruina dell’antica Siponto, non ha un distretto proprio intorno al recinto delle sue mura», accolse in parte le sue richieste con sentenza del 20 febbraio 1810, che suona così:

- Competere agli abitanti di Manfredonia i pieni e comodi usi civici in tutti i demani ex feudali di Montesantangelo. A qual’effetto nella divisione del demanio un accantonamento in proprietà libera di terra sarà fatto in favore del Comune di Manfredonia nella parte più contigua ed immediata all’abitato, accantonamento che corrisponderà ai diritti di sopra dichiarati. Lo accantonamento avrà luogo nella linea tracciata da’ Tavolarj Porpora e Pollio, salvo però sempre la proprietà de’ particolari [liberi proprietari].

Il testo completo è nell’Appendice 1. Va ricordato che le sentenze della Commissione feudale erano inappellabili. La sentenza è alquanto generica, ma su un punto, che poi si rivelerà dirimente, era chiara: a Manfredonia non venivano riconosciuti diritti di uso civico su Casiglia, e meno che meno la titolarità. Come dire che ci potevano anche essere usi di tale natura in quell’area, esercitati per semplice tolleranza di Monte Sant’Angelo o come conseguenza della necessità di transito degli animali verso il feudo, ma da qui a vantare la titolarità di un diritto derivante da un atto scritto ce ne corre. La sentenza del 20 febbraio non accontentò Manfredonia, che diede della stessa una interpretazione strana, obbligando la Commissione ad esprimersi una seconda volta. Essa riteneva che: «1) gli usi civici accordati con la medesima Sentenza si debbano intendere anche per causa di commercio; 2) gli stessi usi civici s’intendano accordati non solo su i demani ex-feudali, ma benanche su tutt’i territori comunali; 3) nella divisione de’ demani e delle altre proprietà del tenimento di Montesantangelo venghino (sic!) considerati gli abitanti di Manfredonia come cittadini di Montesantangelo con dritti propri ed indipendenti da essi, e nei termini degli articoli 13 e 14 delle Istruzioni approvate con decreto de’ 10 Marzo 1810». La Commissione feudale si pronunziò il 31 dicembre 1810, dichiarando in modo sbrigativo e seccato: «Che non vi è luogo a deliberare». Si è detto sopra, parlando degli Stati di fondiaria, che in altra sede, decisamente più importante, si era alla ricerca di soluzioni alle varie dispute territoriali, e cioè in quella in cui si svolgevano le operazioni dirette alla divisione del demanio ex feudale di Monte Sant’Angelo. A tal fine l’intendente del Molise, Biase Zurlo, incaricato dell’espletamento delle stesse, nella primavera del 1811 mantenne frequenti contatti con i rappresentanti dei due Comuni, per metterli al corrente delle sue decisioni e sperare di ottenerne il consenso. Si riportano, in estrema sintesi, gli incontri istituzionali susseguitisi in quel periodo. Ve ne furono tre: il primo si tenne a Monte Sant’Angelo il 16 maggio 1811, gli altri due a Manfredonia, il 1° e il 3 giugno successivi. L’ultimo di questi, riguardante solo Manfredonia, ci aiuta a capire proprio la questione controversa della piana di Macchia. Erano presenti il sindaco Gian Tommaso Giordani e nove decurioni (consiglieri comunali), i quali, alla domanda di Zurlo «se questo stesso Comune aveva demani a dividere», risposero che vi era «1° - Il Demanio ex-feudale promiscuo con Montesantangelo, ed era appunto quello su di cui la Commissione Feudale aveva accordato agli abitanti di Manfredonia i pieni e comodi usi civici»; a seguire venivano indicati tutti gli altri demani comunali: Mezzanella (v. 398), Palude (v. 240), Pagliete (v. 390), Sciale (v. 270) e Candelaro (v. 400).2 Nel virgolettato è scritto a chiare lettere che il demanio promiscuo, cioè soggetto a divisione, «su di cui la Commissione

2 Converrà ricordare che, oltre ai demani su citati, ve n’era un altro, il più esteso di tutti: Cozzolete. Di 4.120 versure, era in parte del Tavoliere (v. 2.080), in parte ecclesiastico (v. 1.700), per il resto costituito da proprietà private – i dati sono nell’ordinanza del 23 dicembre. Quanto al demanio ecclesiastico, va osservato che, con la soppressione, nel 1807, dell’abbazia di Santa Maria di Pulsano, alla quale da lungo tempo apparteneva, era passato, assieme a tutti gli altri beni, al Regio Demanio. Con il ritorno dei Borboni, nel 1815, esso passò al Patrimonio Regolare, che lo assegnò in dote alla Certosa di San Martino di Napoli, soppressa la quale, nel 1861, tornò di nuovo al Demanio. Il Comune, viste le continue richieste di affrancazione del terraggio (prestazione fondiaria) da parte dei coloni della zona – praticabile o con la legge sul Tavoliere del 1865 (affranco coattivo) oppure con quella sull’affrancazione e sulla commutazione del canone in derrate a quello in denaro dell’8 giugno 1873 – si fece portavoce delle loro istanze presso il Demanio, approvando, nel Consiglio comunale dell’8 luglio 1872, una transazione da sottoporre allo stesso. Offriva una somma di 20.000 lire, che poi avrebbe recuperato dai coloni. Non si conosce l’esito dell’iniziativa. Feudale aveva accordato agli abitanti di Manfredonia i pieni e comodi usi civici», era quello ex feudale di Monte Sant’Angelo. Ma c’è di più. Al verbale del 3 giugno sono allegate delle Piante – una per ogni contrada –, redatte, sotto la direzione dell’agente demaniale del circondario di Monte Sant’Angelo, Angelo d’Aversa, dal regio agrimensore Giuseppe d’Ecclesia; ebbene, quella di Mezzanella, che qui ci interessa, contrassegnata dalla lettera A, metteva ben in evidenza che il confine tra i due tenimenti passava proprio a ridosso di detta contrada. I rappresentanti di Manfredonia non ebbero niente da eccepire a questi tavoli.

In capo a pochi mesi, il 23 dicembre 1811, Zurlo emanerà la 1ª ordinanza sul demanio ex feudale di Monte Sant’Angelo. E proprio riguardo all’area controversa c’è un punto che merita di essere sottolineato: «Considerato che l’estendere una linea sino al Vallone di Varcara, come propone Montesantangelo, sia inutile ugualmente per Manfredonia, perché sebbene abbracci una estensione di carra 53 e versure 5 che fa parte di Casiglia, pure dal Comune di Manfredonia si disse questo spazio tutto occupato dai particolari nel verbale suddetto [1° giugno], ed in contradizione di Montesantangelo che niente vi oppose. Considerato che…». La formulazione non dà adito alle interpretazioni: quell’area della piana di Macchia Manfredonia non la voleva, e poi diremo perché. Sta di fatto che da allora si venne nella determinazione di individuare un’altra zona, che, come vedremo, sarà Cavolecchia. Anche perché espressamente chiesta da Manfredonia, a cui faceva gola una zona altamente boscata.3 Su questo punto l’ordinanza del 23 dicembre rappresenta decisamente un punto di svolta. Qui va anche ricordato che il 30 ottobre, vale a dire un paio di mesi prima dell’uscita dell’ordinanza, a Zurlo era arrivato il placet dal presidente della Commissione feudale, Davide Winspeare: «Vi ho scritto per Manfredonia anche in seguito agl’Impulsi del Presidente della Provincia. Del resto da ciò che vi siete compiaciuto dirmi col vostro foglio del 14 corrente, veggo che è superfluo che voi m’interpelliate più, perché l’idea che voi avete fatto della cosa, è la stessa di quella ch’avevo io formato». È bene ricordare che fino al 14 di settembre di quell’anno il Winspeare non aveva ancora ricevuto informazioni dallo Zurlo (lo si apprende da una sua missiva allo stesso presidente).

3 Si deve ricordare che lo sfruttamento del bosco era tra le risorse più importanti per l’economia dell’epoca. Non a caso proprio nel bosco Quarto, un secolo più tardi, troverà posto una grande infrastruttura, davvero unica per quell’epoca: la teleferica. La sua costruzione, avvenuta subito dopo la 1^ guerra mondiale per conto delle Ferrovie dello Stato, che avevano preso in concessione il taglio dei boschi della zona per ricavarvi delle traverse per la linea ferroviaria, doveva servire al trasporto del legname. Essa partiva proprio dal bosco Quarto e si snodava per una quindicina di chilometri, posti soprattutto in territorio di Manfredonia, fino alla stazione Campagna. Da qui il legname veniva portato al porto (molo di ponente), per essere imbarcato per il trasporto a destinazione. Per azionare la teleferica, l’Amministrazione ferroviaria impiantò anche una centrale elettrica nel Comune di Manfredonia, a 300 metri sul livello del mare. La teleferica restò in funzione fino al 31 dicembre 1924, anno delle scadenza della concessione. Nello stesso periodo nel bosco Quarto era in funzione anche una ferrovia Decauville. Converrà anche ricordare che in quel torno di tempo il Comune di Manfredonia aveva pubblicato una «Memoria contra quelli di Monte S. Angelo e Regio Demanio», con la quale aveva fatto conoscere il suo punto di vista sulla divisione del demanio, che «dev’essere sempre uniforme alle leggi di sopra enunciate, con la conseguenza che non si deve stare alle nude parole della norma data dalla Commissione Feudale, ma allo spirito di queste». Della sentenza del 10 febbraio esso contestava la parte che limitava il contingente da assegnargli a «quel poco di territorio solo ch’è circoscritto dalla linea di Porpora e Pollio». Come si vede, la Memoria ruotava attorno al quantum, vale a dire a «qual sia il contingente che spetta a Manfredonia». Che, stando alle Istruzioni del 10 marzo 1810, dalla stessa richiamate, avrebbe dovuto essere «tassativamente non meno della metà dell’intiero demanio ex Feudale di Monte S.Angelo, e anche li due terzi o tre quarti, ove le circostanze l’accompagnano». E questo perché Manfredonia riteneva che le spettassero gli usi civici della 2ª classe. Erroneamente, visto che nella sentenza della Commissione feudale si parla di usi civici «pieni e comodi», che sono quelli di 1ª classe.4 Avremo modo di

4 Le Istruzioni del 10 marzo avevano diviso gli usi civici in tre categorie o classi. Alla 1ª classe appartenevano gli usi civici essenziali, detti anche «pieni e comodi», riguardanti lo stretto uso personale necessario al mantenimento dei cittadini, indispensabile alla loro sopravvivenza: «il pascere, l’acquare, il pernottare, il coltivare dietro prestazione al padrone, il legnare per lo stretto uso del fuoco e degli strumenti rurali, per edilizia, il cavar pietre o fossili di prima necessità e l’occupare suoli per costruirvi abitazioni». Alla 2ª appartenevano gli usi civici utili, comprendenti «una parte d’industria», cioè un qualche vantaggio economico ulteriore: «il legnare indistintamente, il raccogliere ghiande cadute o castagne, il pascere per uso proprio o per il padrone, sia su tutto il demanio che su di una parte di esso, il riscuoterne anche i frutti pendenti, l’immettervi gli animali concessi a soccida e il cuocere calce per commercio». Alla 3ª appartenevano gli usi civici dominicali, che vi aggiungevano altre utilità: «il crescere piante orticole senza prestazioni, il seminare grano per uso proprio, il partecipare del diritto di fida, o dei terraggi e dei frutti che si vendevano, il fissare ogni anno la parlarne più oltre. Qui si fa notare che, così facendo, cioè seguendo le indicazioni sopra esposte, per gli altri non sarebbe rimasto più niente. L’altra richiesta avanzata da Manfredonia riguardava l’assegnazione di «una parte di Bosco», che le sarebbe spettata «per legge». Il 7 dicembre 1810, poi, lo stesso sindaco Giordani aveva scritto a Zurlo, per metterlo a conoscenza che i suoi provvedimenti erano ritenuti di grande importanza per la città, quasi una questione di vita o di morte: «Solo Le ricordo che questa Comune è la più misera, la più infelice di tutte le altre Comuni del Regno, perché priva di ogni risorsa territoriale, e spera la sua rigenerazione dalla di Lei giustizia». Con l’ordinanza del 23 dicembre 1811 furono fissati dei punti fermi, a cominciare dagli assegnatari, che sono quattro: Regio Demanio, , Comuni di Monte Sant’Angelo e di Manfredonia. Il Regio Demanio rappresentava i diritti che sarebbero spettati al barone, il Tavoliere aveva il diritto del riposo sull’intero agro ex feudale,5 Monte Sant’Angelo e Manfredonia i diritti di uso civico. Prima di passare all’attribuzione delle quote occorreva risolvere le questioni aperte con il barone di e il Comune di , che si erano rivolti a Zurlo per chiedere lo scioglimento della promiscuità su dei territori di confine con l’ex feudo di Monte Sant’Angelo. Questi vi provvide con i primi tre punti dell’ordinanza. Nel caso di Cagnano Varano procedette ad una nuova determinazione dei confini sulla contrada detta Compromesso, nel caso di San Giovanni Rotondo allo scioglimento dei diritti promiscui ancora

prestazione che i contadini dovevano pagare al padrone per le ghiande, le castagne e simili». 5 Vi erano interessate 6 Locazioni, su 23: Cave, Candelaro, , Arignano, Ponte Albanito e Sant’Andrea.

in essere e alla ridefinizione della linea di confine tra i due Comuni. Tornando all’assegnazione delle quote, al Tavoliere furono assegnate «due none» dell’intero agro, a Monte Sant’Angelo «due terzi», a Manfredonia «soli due settimi della metà». Naturalmente, per ognuna di queste percentuali vi fu una spiegazione. Riguardo alle Locazioni , fu decisiva, oltre alla visura dei «libri delle fide», la considerazione che gli usi civici goduti dai pastori del Tavoliere erano di 1ª classe e i pascoli della zona fruibili per non più di nove mesi all’anno. Un calcolo diverso fu fatto per i due Comuni. Per essi fu preso in considerazione, oltre alla classe degli usi civici, il numero degli abitanti residenti e degli animali in loro possesso. Il ragionamento seguito dal commissario, nell’attribuzione delle quote parti, fu molto semplice: se gli usi civici di entrambi i Comuni sull’ex feudo fossero stati solo essenziali (1ª classe), considerato il numero totale degli abitanti e degli animali, che ascendevano rispettivamente a 14.600 e a 26.000, il valore complessivo della quota non sarebbe potuto essere minore della metà. Ora, considerato che la popolazione di Monte Sant’Angelo era di 10.496 abitanti e quella di Manfredonia di 4.104, mentre il numero di capi di bestiame rispettivamente di 18.520 e 7.480, la proporzione, riferita sempre alla metà dell’agro, sarebbe dovuta essere di due (per Manfredonia) a cinque (per Monte Sant’Angelo). Ma, dal momento che a Monte Sant’Angelo furono riconosciuti anche gli usi civici utili e dominicali (2ª e 3ª classe), che meritavano una quota maggiore, il commissario ripartitore stimò che, come compenso dei diritti civici dei due Comuni, «l’accantonamento su gli ex Feudali di Montesantangelo non possa essere minore di due terzi dello intero agro boscoso e libero in valore, sul quale debba essere assegnato a Manfredonia il suo contingente per soli due settimi sulla metà». Va osservato che qui si parla di «agro boscoso e libero», perché le terre a coltura agraria e quelle private non potevano entrare nella divisione, e quindi nel calcolo. Prima di dare esecuzione al provvedimento, Zurlo pensò di risolvere la situazione di Casiglia, che presentava delle criticità: «Fra gli altri incarichi che devo disimpegnare in Montesantangelo ve n’è uno specialmente che riguarda la Casiglia che il Comune chiama Difesa e che i Locati credono un fondo serviente al loro pascolo». E difatti per contestare le pretese di questi, che venivano da lontano, in quel lasso di tempo l’Università fu costretta a presentare una nuova Memoria, con la quale ribadiva la proprietà piena sulla stessa, affermata, come si è visto sopra, anche in tempi recenti. Il commissario Zurlo, dopo aver «esaminati attentamente tutti li titoli riportati dal marchese Vivenzio, da’ quali chiaramente apparisce che la Casiglia sia stata sempre una proprietà comunale, e che la sola usurpazione e prepotenza dell’ex Barone abbia potuto pel corso di un secolo e mezzo ed anche più metterla in contrasto, come ex feudale», nell’estate del 1811 elaborò un progetto di ordinanza da sottoporre al Ministero dell’Interno per la sanzione sovrana. Il progetto, che in buona sostanza ricalcava la decisione del Vivenzio, ottenne l’approvazione del re il 31 ottobre di quell’anno e fu trasfuso, leggermente modificato, nell’ordinanza del 7 giugno 1813, che al primo punto recita testualmente:

- Abbiamo pronunziato ed ordinato quanto segue: La contrada denominata Casiglia con effetto è dichiarata comunale di Montesantangelo, rimanendo confirmata in tutte le sue parti ed espressioni la preinserta decisione del marchese Vivenzio.

Inoltre (ed è il secondo punto dell’ordinanza) i locati del Tavoliere – nel frattempo erano divenuti censuari – furono condannati a pagare 3.300 ducati per aver pascolato in quella contrada dal 1802 fino a quella data. Il commissario Zurlo tracciò anche la «linea de’ confini» di Casiglia, che si rivelerà poi decisiva per gli sviluppi futuri della confinazione con il Comune di Manfredonia. I confini venivano fissati in termini molto precisi, che non lasciavano adito ad alcun margine di interpretazione: «Vallone di Varcara, Vallone di Scannamogliera, Vallone di Santangelo, Vallone di Carbonara, Grotta delle Cozzolle, Vallone della Mollina e Vallone di Pulsano sino al mare Adriatico secondo acqua corre». Si notino le ultime due località, confinanti con Manfredonia. L’ordinanza Zurlo rigettò, dunque, qualsiasi diritto di condominio su Casiglia da parte dei censuari del Tavoliere, restituendo al Comune di Monte Sant’Angelo il dominio pieno sulla stessa. Il possesso avvenne, così come richiesto dal punto 4° dell’ordinanza del 7 giugno, per decisione del giudice di Pace nel dicembre del 1813, cosa che avvenne anche per la difesa Vota, posta al suo fianco. Neanche nell’ordinanza del 7 giugno si parla mai di Manfredonia. Vien da pensare che una questione Macchia semplicemente non esistesse, visto che non c’è traccia negli atti che siamo venuti analizzando. E pensare che in quel momento storico si stava decidendo il futuro dell’ex feudo, dal punto di vista della proprietà, nel senso da noi inteso oggi. È da ritenere, allora, che Manfredonia si sentisse in qualche modo appagata, almeno nei suoi desiderata fondamentali. Neanche per idea. Infatti, da un esposto a Zurlo del sindaco di Monte Sant’Angelo, Pietro De Cocco, e del «deputato alle liti», Filippo d’Errico, che porta la data del 28 luglio 1813, si apprende che «questa linea [di Zurlo] è stata violata nel lato detto Montagna, con verbale redatto dal Vostro Incaricato [Francesco Saverio Benvenuto] ed accettato dalle sole parti favorite». La storia della lite relativa alla piana di Macchia si arricchirà, come presto vedremo, di nuovi capitoli. Ma riprendiamo il filo dell’esposizione, tornando alla divisione dei demani. Il giorno successivo all’ordinanza su Casiglia, vale a dire l’8 giugno, ebbe luogo a Monte Sant’Angelo l’incontro decisivo tra le parti, che rappresenta una tappa importante nella definizione delle quote. Infatti, nel Verbale che lo accompagnava si legge che «esso Sig. Intendente, … dopo aver fatto leggere e sentire da parola a parola il progetto di ordinanza, ha voluto presentare un piano per la divisione, per sentire le parti interessate sul medesimo e per non dar luogo successivamente a reclami nella pubblicazione della sua ordinanza». Per Monte Sant’Angelo c’erano i due politici sopra citati, per Manfredonia il «deputato alle liti», Domenico Fiore, al momento giudice di Pace del circondario di Manfredonia. Nessuno sollevò obiezioni, «avendolo [il piano] trovato regolare, e il solo che compensa i dritti di esse parti e le dia tutto il comodo della località senza che l’uno abbia che fare con l’altro». Gli articoli che interessavano i due Comuni erano il secondo e il terzo:

- Accantonamento di Montesantangelo di due terze parti sul solo saldo e boscoso. - Parteggio di questo con Manfredonia per due settimi sulla sola metà dell’intero.

Il restante terzo fu assegnato, come già detto, al Regio Demanio, dal quale furono detratti i due noni assegnati ai locati del Tavoliere. Dovendosi assegnare le quote in base al loro valore in denaro, fu necessario procedere alla stima delle singole contrade dell’ex feudo. La valutazione complessiva risultò di 261.798,80 ducati. Seguendo lo schema sopra riprodotto, la suddetta somma fu ripartita in tre parti uguali, una delle quali spettò al Regio Demanio e due altre furono assegnate al Comune di Monte Sant’Angelo, sulle quali si dette al Comune di Manfredonia la sua tangente. Nel dettaglio, la terza parte toccata al Demanio fu di 87.266,26 ducati, comprensiva della quota del Tavoliere, le due parti di Monte Sant’Angelo di 174.532,52 ducati, a cui andava sottratta la quota di Manfredonia, calcolata in 37.399,71 ducati. Alla fine l’accantonamento di Monte Sant’Angelo risultò di 410,05 carra (v. 8.205) ed occupava la parte centrale del territorio ex feudale, costituita dalle contrade Quarto, Spigno, Umbricchio, Marguara e Lama di Milo. A Manfredonia toccarono 61,09 carra (v. 1.229): Cozzolete (c. 26); Montagna (c. 22); Cavolecchia, detta anche «Bosco», (c. 13,09). Come si può notare, è la prima volta che compare Cavolecchia, che fu una scelta obbligata, dettata dall’impossibilità di reperire aree più vicine all’abitato. Infatti, delle contrade limitrofe, Cozzolete e Mezzanella, la prima era in parte del Regio Demanio e in parte di privati cittadini, quindi indisponibile per l’assegnazione, l’altra era già di Manfredonia. Se si considera che le restanti aree relativamente più appetibili per la vicinanza all’abitato erano state date al Tavoliere, non restava altra soluzione che quella escogitata da Zurlo. Solo un osservatore ignaro dei fatti può, oggi, meravigliarsi della scelta del bosco Cavolecchia, che, dopo tutto, era una delle contrade con la rendita più alta, per la presenza di alberi «fruttiferi» (leggi: ghianda). Nonostante l’accordo dell’8 giugno, dopo poche settimane c’era già sul tavolo del commissario Zurlo «il ricorso del sindaco di Manfredonia contro le operazioni relative alla suddetta esecuzione» (informativa del ministro dell’Interno del 24 luglio). L’ordinanza di esecuzione, che porta la data del 6 novembre 1813, confermerà in toto tutto quanto stabilito in precedenza.

Pianta allegata alla divisione del 1813

Poco, molto? Difficile dirlo. Una cosa, però, è certa: il percorso seguito dal commissario ripartitore è stato lineare in sommo grado, non fosse altro perché mirava ad arrivare a una divisione consensuale, non calata dall’alto. La verità è che Manfredonia accettò quella ripartizione con riserva mentale, ritenendo la quota di sua spettanza inadeguata alla portata degli usi civici che in passato aveva esercitato sul territorio di Monte Sant’Angelo. Non c’è da meravigliarsi più di tanto delle rivendicazioni di Manfredonia. Si litiga anche in famiglia quando si arriva alla divisione dei beni ereditari. Si litigò anche sulla divisione del territorio tra Monte Sant’Angelo e , quando nel 1955 questa ottenne l’autonomia comunale. Detto ciò, la polemica che ne è seguita circa la piana di Macchia, come tra breve si vedrà, è chiaramente incomprensibile. Infatti, una volta accettata la soluzione messa sul piatto dallo Zurlo, Manfredonia non aveva niente da recriminare. Anche perché le ordinanze, sia che si tenga conto del contenuto sia che se ne valuti la dicitura testuale, verba vel mens, non si prestavano ad equivoci di sorta: il confine tra i due paesi in quella precisa zona passava per il torrente Pulsano e per la valle Mollina. Niente da recriminare neanche sugli accantonamenti, che si trovavano puntualmente tutti nella famosa «linea tracciata da’ Tavolarj Porpora e Pollio», che, come si vede dalla Pianta appena mostrata, arrivava fino alla Valle dell’Inferno. Il Comune di Manfredonia cercherà in tutti i modi di mantenere in essere la disputa sulla piana, sia con ricorsi al Consiglio d’Intendenza sia, negli anni unitari, con richieste all’Ufficio tecnico catastale di Foggia. Ma bisogna riconoscere che essa farà sempre più fatica a ripresentarsi. Il primo ricorso dell’epoca post-divisione fu deciso già nella seduta del Decurionato del 20 aprile 1814, in cui questo fece presente che la città «è stata gravata di spoglio di quei diritti, che ha sulla Casiglia in forza del Diploma di Carlo V dell’anno 1536, e del giudicato della Regia Camera della Sommaria del 1601, convalidato dalla sentenza della Commissione Feudale de li 10 febbraio 1810». Ad esso seguì, nel 1817, un esposto del sindaco indirizzato allo stesso Consiglio, del tenore seguente: «Infatti si volle assegnare a questo Comune un accantonamento di terreni collettivi, cioè in Montagna, in Bosco e in Cozzoleta, il contingente non fu quello che spettava a Manfredonia, perché gli fu dato pressoché la metà di meno… Invano [il Comune di Monte Sant’Angelo] cerca di farsi largo con una vantata ordinanza che dice d’aver ottenuta dal Commissario Ripartitore, con cui si vuole che siano state chiarite le confinazioni. La confusione delle confinazioni non può avvenire perché troppo note, e dalla natura stessa definite». Qui, oltre alla piana di Macchia, si tira in ballo anche la consistenza dell’accantonamento, rimettendo tutto in discussione. Non si conosce quale sia stato l’esito dei due reclami, perché nessuno se n’è più occupato, né allora né dopo. Con molta probabilità, la cosa fu lasciata cadere dal Consiglio d’Intendenza. Negli anni a venire la questione perderà la sua asprezza, con il Comune di Monte Sant’Angelo che continuerà a mantenere il suo dominio sulla piana di Macchia controversa, come può essere attestato anche dalla Pianta della difesa Casiglia, redatta, per conto dell’Intendenza di Capitanata, dall’ispettore forestale Lorenzo Avellino il 23 giugno 1839, nella quale i territori di appartenenza dei due Comuni sono chiaramente delimitati dal «Vallone di Pulsano». Ma si tratterà di un dominio dimezzato, e non per le pretese del Comune di Manfredonia o dei manfredoniani – questi agivano di concerto con esso – ma per le insidie di un altro contendente, che spadroneggiava in quella stessa zona: il Capitolo della Basilica di San Michele. Ed è questo il motivo per il quale all’epoca di Zurlo quella zona non faceva gola a Manfredonia, ma, forse, neanche a Monte Sant’Angelo.

Nelle pagine che seguono cercheremo di mostrare le forme e i modi attraverso i quali il Capitolo della Basilica e il Comune di Monte Sant’Angelo hanno esercitato le prerogative territoriali sulla piana di Macchia, e analizzeremo anche la lite giudiziaria che ne è seguita nei primi anni Venti. Manfredonia in questa non è mai entrata, evidentemente per mancanza d’interesse, ed è questa un’altra prova indiretta che le sue pretese andavano sempre più scemando. Anche questa controversia, al pari delle altre, ha origini lontane, risale al 1678, anno in cui fu redatta la famosa Platea (Inventario dei beni) della Basilica di San Michele, alla quale il Capitolo si è sempre richiamato per sostenere la proprietà di migliaia di ettari di terreno, di cui la piana non è che una piccola parte. Piccola si fa per dire, visto che l’area in questione, identificata col termine di quadrone, superava i 600 ettari. Per limitarci ad alcuni cenni al riguardo, il punto sul conflitto all’indomani della divisione dei demani, frutto di situazioni stratificatesi negli anni, può essere riassunto bene da una denuncia del 1821, che esce dalla penna del sindaco Filippo d’Errico: «I comunisti di Montesantangelo mentre pagano il canone al Comune vengono coazionati dal Reverendo Capitolo Garganico al pagamento de’ terraggi su de’ medesimi fondi siti nelle difese comunali Vota e Casiglia». Il Comune, che si era sempre ritenuto padrone di tutta Casiglia, a maggior ragione dopo la consegna della stessa da parte del giudice di Pace nel 1813, si vide costretto a convenire in giudizio il Capitolo, che intervenne non in rappresentanza dell’istituzione, la Basilica, ma come intestatario dei beni di cui era contesa – conviene ricordare che la Basilica e il Capitolo avevano beni distinti e separati. Era come uscire da un sonno letargico. La prima sentenza, emessa dal Tribunale di , risale al 9 dicembre 1822. Essa proibiva al Capitolo di «terraggiare» sui fondi controversi e lo condannava alla restituzione del terraggio indebitamente esatto dal giugno 1813. Ma, con una seconda sentenza, del 26 agosto 1823, lo stesso Tribunale accolse l’eccezione di prescrizione invocata dal Capitolo ed ordinò che questo non venisse più molestato nel possesso. Avverso la sentenza il Comune produsse appello presso la Gran Corte Civile di Napoli, che, con sentenza del 9 giugno 1826, dispose una perizia per accertare «quale sia la estensione e la confinazione delle terre sulle quali il Capitolo ha esatto dei terraggi dall’anno 1773». «Intanto», aggiunse, «pendente l’ordinata perizia, e fino a che non sarà altrimenti deciso, il Capitolo continuerà la esazione de’ terraggi in questione, ritenendo però presso di sé il prodotto in qualità di Amministratore Giudiziario, con l’obbligo di darne conto ad ogni ordine della Gran Corte». Però il giudizio non ebbe seguito, perché il Comune, che aveva interesse a proseguirlo, desistette da tal proposito. Così la questione di Macchia rimase impregiudicata. Ecco come si esprimerà, nel dicembre del 1864, l’agente demaniale Ignazio Centofanti in una missiva indirizzata al prefetto: «L’incartamento rimase sepolto nella polvere degli Archivi comunali fin dal 1826». Nel biennio 1864-65 il Centofanti tentò una conciliazione con il Capitolo, che non approdò ad alcun risultato. Sempre nel ‘64 il Consiglio comunale nominò una Commissione nelle persone di Donato Giordani e Michele Giordano, con l’incarico di riferire sullo stato della vertenza. Il 24 aprile 1868 fu adottata un’altra delibera di Consiglio, con la quale si autorizzava la Giunta municipale ad approntare una Memoria da sottoporre ad «uno specialista di discipline demaniali», al fine di conoscere se era il caso di riprendere o meno il giudizio. Ma «l’iniziativa non ebbe seguito ed il Capitolo pertanto continua ad esigere il terratico». Il Comune lasciò cadere la cosa nell’oblio. Dovrà passare un cinquantennio prima che un altro agente demaniale porrà mano di nuovo a quella questione. Infatti, degli agenti che si erano susseguiti nel corso di tutti quegli anni, per censire le occupazioni dei demani comunali di Monte Sant’Angelo – Antonio Cicella (1868-73), Francesco Pacelli (1876-88), Enrico Ciardulli (1889-91), Michele Torre (1896-97), di nuovo Enrico Ciardulli (1898-1906), Alberto d’Angelo(1906-07) – nessuno si era occupato del demanio Macchia, che comprendeva anche la piana di Vota. E tutta l’area era stata stralciata dalla planimetria Latessa del 12 dicembre 1894, che riportava le occupazioni censite a quella data. Il primo ad occuparsene, nel nuovo secolo, fu Michele Calvosa, di cui diremo tra breve. Per il momento importa che si torni alla contesa tra i due Comuni, che, dopo essere rimasta sopita per decenni, riesplose in occasione della formazione del Catasto, deciso con la legge del 20 marzo 1886. Si faceva a gara ad intestarsi l’area contestata, con pressioni, lecite e non, delle Commissioni censuarie dei due Comuni sull’Ufficio catastale provinciale. Così, su ricorso di Manfredonia, che «reclamava l’aggregazione a questo territorio di alcuni terreni situati tra il torrente Varcaro e il torrente Pulsano», il perito catastale, pur non accogliendo la richiesta, «dichiarò contestata la zona nelle Mappe del comune di Monte Sant’Angelo» (lo si apprende da una delibera del podestà di Manfredonia del 12 febbraio 1928). Ne risultò che al Catasto dei Terreni, attivato nel 1925, tra gli immobili siti nel Comune di Monte Sant’Angelo figurava anche la piana di Macchia, ma con la contestazione di cui sopra. Si deve ricordare che, nel frattempo, Manfredonia aveva addotto un ulteriore elemento a giustificazione dei suoi diritti sulla piana in questione, e cioè il fatto che alcune famiglie residenti in quella località registravano i figli nel Comune di Manfredonia. Ma, in verità, nei suoi registri non risultano trascritte più di una ventina di nascite del genere nell’arco del primo ventennio di quel secolo. E si dà anche il caso, davvero paradossale, che due figli nati nella stessa famiglia venissero iscritti l’uno nel registro degli atti di nascita di Monte Sant’Angelo e l’altro in quello di Manfredonia. La vicenda della piana di Macchia può ritenersi chiusa con la lettera del podestà di Manfredonia al prefetto del 18 luglio 1935, che viene riprodotta nella parte essenziale: «Questa Amministrazione, nei riguardi dello stesso Comune di Monte Sant’Angelo, non ha mai fatto, agli effetti del censimento [censimento generale della popolazione del 1931], alcuna obiezione relativa al confine delimitato dal torrente Pulsano per quanto questo Comune da tempo antico ritiene e sostiene che in quella parte del territorio il confine sia molto al di là e precisamente lungo il torrente Varcaro. Ma, se il Comune di Monte Sant’Angelo, insistendo nel proprio principio, continuasse a dichiarare controversa l’appartenenza della zona Tomaiuolo, sarò costretto a fare altrettanto per la vasta zona di territorio compresa tra i suindicati due torrenti». Come dire che, se Monte Sant’Angelo avesse rinunciato alle sue pretese su Tomaiuolo (frazione Montagna), Manfredonia avrebbe disarmato di fronte alla questione della piana di Macchia. Con quella richiesta, del tutto nuova, di ritenere sua frazione la contrada Tomaiuolo, Monte Sant’Angelo aveva aperto un altro fronte! La desistenza unilaterale da ogni azione del podestà di Manfredonia arrivò inaspettata, una folgore a ciel sereno, soprattutto se messa in relazione con la condotta dallo stesso espressa con la delibera del 12 febbraio 1928, in risposta alla pretesa, nuova anch’essa – era del gennaio di quell’anno –, del podestà di Monte Sant’Angelo di estendere gli accertamenti per l’imposta sul bestiame alla Montagna. Nella delibera è scritto: «Letta la nota prefettizia in data 2 febbraio 1928, n. 1998…; considerato che la vertenza odierna deve riallacciarsi all’altra già esistente fra i due Comuni relativa alla delimitazione territoriale fra essi, e non venga giudicata indipendentemente dalla prima…; delibera: 1)…; 2) stabilire, siccome stabilisce, che la decisione che starà per essere adottata debba avere carattere provvisorio, fino a quando non sarà deciso il reclamo avanzato dal Comune di Manfredonia per l’aggregazione al suo territorio della zona ora dichiarata dal Perito Catastale Provinciale contestata». Ma tant’è. Mentre tutto questo avveniva, si era da tempo conclusa la prima verifica del demanio Macchia da parte dell’agente demaniale Calvosa, che è datata 17 giugno 1919. Essa aveva riguardato un migliaio di cittadini, tutti occupatori a vario titolo, per una superficie di 1.963 ettari circa. C’era stata anche qualche conciliazione, ma non una presa di posizione riguardo alla questione spinosa del quadrone. Sarà il suo successore, l’istruttore demaniale Anacleto Marinelli, ad occuparsene nel 1936. Egli, riportandosi alle testimonianze storiche sull’area in contestazione, avanzò una proposta perentoria, quella di risolvere la questione giudiziariamente: «Scaturisce evidente la conclusione che il territorio posseduto dal R. Capitolo di Montesantangelo debbe considerarsi di pertinenza del Comune; e che sia pertanto utile ed urgente per il Comune stesso di riproporre il giudizio nei confronti del Capitolo, per assicurare ai cittadini l’esercizio degli usi civici sulla estensione contestata». Qualche anno dopo arrivò l’istruttore Ciro Lapeschi, che, ritenendo il quadrone un demanio ex ecclesiastico – peccato che Zurlo non ci avesse pensato! – propose di liquidare l’uso civico mediante divisione, con un compenso al Comune di Monte Sant’Angelo di «1/3 del valore del fondo». Lo Stato dei possessori di Macchia, da lui redatto, porta la data del 27 febbraio 1942. Ma neanche allora se ne fece niente, perché lo Stato restò lettera morta. La situazione, quindi, rimase com’era prima, con il risultato che il Capitolo ha continuato a riscuotere i canoni su quelle terre per tutta la prima metà del secolo scorso e chi gli è subentrato, la Curia arcivescovile, continua ancora oggi a beneficiare dei proventi delle relative affrancazioni. In tutte queste indagini Manfredonia non è mai entrata a nessun titolo, a riprova della sua estraneità a quella zona. La questione della piana di Macchia si riaffaccerà più tardi, ai tempi del Petrolchimico Enichem, nei momenti in cui la protesta dei manfredoniani contro quello stabilimento si farà più accesa, facendo intendere che l’aver lasciato – irresponsabilmente, s’intende – quell’area in mano a Monte Sant’Angelo, rea di aver autorizzato a cuor leggero l’installazione del Petrolchimico in quella zona, era stata la più grande iattura di Manfredonia. Come dire che se la piana di Macchia fosse stata di dominio di questa città, l’Enichem non sarebbe sorta. Una sciocchezza! Era il tempo delle «cattedrali nel deserto» ed è risaputo che quel progetto veniva da fuori ed era reclamato anche da Manfredonia. Contrastarlo, poi, avrebbe dovuto significare mettersi contro i Palazzi romani. Cosa che non era alla portata dell’Amministrazione comunale di Manfredonia del tempo, a maggioranza democristiana, e neanche di quelle successive, di colore diverso. È altrettanto risaputo, infatti, che i maggiorenti locali dei partiti, indistintamente, hanno sempre accettato supinamente quel che veniva propinato loro dai capi, accontentandosi degli ampi margini di manovra di cui essi godevano nella gestione del sottobosco clientelare. Quella volta sarebbe andata ancora così, con buona pace dei manfredoniani.

Appendice

Bibliografia

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FARINA G., TALAMO R., GUACCI F., Memoria pel Comune di Montesantangelo nella causa contro il Capitolo, Tipografia di Nunzio Pasca, Napoli, 1825.

LAPESCHI C., Relazione su Le terre del Demanio “Macchia”, Taranto, 20 dicembre 1939.

LAPESCHI C., Relazione su Il Demanio Macchia, Brindisi di Montagna, 27 febbraio 1942.

TRANASI M., Dalla Proprietà Comune alla Proprietà Privata - Monte Sant’Angelo 1806-1860, Leone Editrice, Foggia, 1994.

TRANASI M., La Nascita della Proprietà Privata - Monte Sant’Angelo 1861-2001, Leone Editrice, Foggia, 2002.

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ZURLO B., Ordinanza 23 dicembre 1811, Campobasso, 1811.

ZURLO B., Ordinanza 7 giugno 1813, Monte Sant’Angelo 1813.

ZURLO B., Ordinanza 6 novembre 1813, Campobasso, 1813.

INDICE

- Un’annosa questione. La contesa tra Manfredonia p. 2 e Monte Sant’Angelo - Appendice p. 32 - Bibliografia p. 36