La Ricostruzione Dell'immaginario Violato in Tre Scrittrici Italofone Del Corno D'africa
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Igiaba Scego La ricostruzione dell’immaginario violato in tre scrittrici italofone del Corno D’Africa Aspetti teorici, pedagogici e percorsi di lettura Università degli Studi Roma Tre Facoltà di Scienze della Formazione Dipartimento di Scienze dell’Educazione Dottorato di ricerca in Pedagogia (Ciclo XX) Docente Tutor Coordinatore della Sezione di Pedagogia Prof. Francesco Susi Prof. Massimiliano Fiorucci Direttrice della Scuola Dottorale in Pedagogia e Servizio Sociale Prof.ssa Carmela Covato Anno Accademico 2007/2008 Per la stella della bandiera Somala e per la mia famiglia Estoy leyendo una novela de Luise Erdrich. A cierta altura, un bisabuelo encuentra a su bisnieto. El bisabuelo está completamente chocho (sus pensamiemto tiene nel color del agua) y sonríe con la misma beatífica sonrisa de su bisnieto recién nacido. El bisabuelo es feliz porque ha perdido la memoria que tenía. El bisnieto es feliz porque no tiene, todavía, ninguna memoria. He aquí, pienso, la felicidad perfecta. Yo no la quiero Eduardo Galeano Parte Prima Subire l’immaginario. Ricostruire l’immaginario. Il fenomeno e le problematiche Introduzione Molte persone in Italia sono persuase, in assoluta buona fede, della positività dell’operato italiano in Africa. Italiani brava gente dunque. Italiani costruttori di ponti, strade, infrastrutture, palazzi. Italiani civilizzatori. Italiani edificatori di pace, benessere, modernità. Ma questa visione delineata corrisponde alla realtà dei fatti? Gli italiani sono stati davvero brava gente in Africa? Nella dichiarazioni spesso vengono anche azzardati parallelismi paradossali tra la situazione attuale e quella passata delle ex colonie italiane. Si ribadisce con una certa veemenza che Libia, Etiopia, Somalia ed Eritrea tutto sommato stavano meglio quando stavano peggio, cioè dominati e colonizzati dagli italiani. C’è chi richiede addirittura una sorta di revisione della storia coloniale italiana. Una revisione che metta in luce gli aspetti positivi di tale colonialismo. È chiaro che una posizione di questo tenore è assolutamente insostenibile dal punto di vista storico e sociologico. Il termine colonialismo e il termine positivo sono difficilmente assimilabili l’uno con l’altro. A tal proposito uno studioso come Frantz Fanon paragonava la colonizzazione a un processo di decerebrazione. Fanon analizzava il fenomeno anche da un punto di vista medico, essendo lui uno psicoterapeuta. Ne I dannati della terra il medico-pensatore antillano descrivendo il dilemma del popolo algerino, riesce a cogliere (e a trasmetterci) la tragedia di ogni popolo colonizzato. Si è privati di ogni tipo di dignità. Spogliati della propria personalità, della propria lingua, della propria terra. Il colonizzato è costretto ogni singolo giorno a vivere come invasore, a guardarsi attraverso lo sguardo dell’altro. Per Fanon la colonizzazione portava sistematicamente la persona a domandarsi “Ma chi sono io veramente?”. Il colonialismo quindi era perdita di certezze, di equilibrio e spesso portava a casi di schizofrenia socioculturale. Il colonizzato si sentiva scisso, lacerato, umiliato, perso. Perché, e questo Fanon lo ha sottolineato bene in ogni suo scritto, la colonizzazione è negazione sistematica dell’altro e di ogni suo attributo umano. Il colonizzato è un essere subumano, privato della scintilla del vivere. Diviene così di volta in volta una bestia, una macchina, uno schiavo, un non essere, un vuoto. Un essere svalutato dalle dinamiche di potere. Un abitante illegittimo della propria terra. Di fatto in un dominio coloniale l’unico abitante legittimo è solo chi detiene il potere. Gli altri sono solo strumenti1. In questo lavoro di tesi lo sforzo messo in atto è quello di dimostrare che il colonizzato non è un essere subumano, anzi che la sua visione del mondo e dei fatti 1 Fanon F., I dannati della terra, Einaudi, Torino, 2000. I può aiutarci a capire meglio una storia che si è voluto sistematicamente dimenticare. La memoria del colonizzato e dei soprusi subiti, l’acquisizione di un punto di vista differente, la ricostruzione di un immaginario violato ci permettono quindi di avere una chiave di lettura valida non solo per il passato coloniale, ma anche per gli attuali movimenti migratori in atto (verso l’Italia e in generale verso l’Europa). Citando le parole della scrittrice italo-etiope Gabriella Ghermandi: è passato, ma non tanto da non riparlarne. Bisognerebbe dargli la nostra versione dei fatti2. La versione dei fatti delle classi subalterne, del sud del mondo, dei migranti, di chi per molto tempo non ha avuto la voce per poter dichiarare “io sono”, è basilare per comprendere gli avvenimenti del nostro presente. È chiaro che la versione dei fatti proposta dalla scrittrice Gabriella Ghermandi non include il mito dell’italiano brava gente. Nelle parole della scrittrice c’è una richiesta di presa di coscienza collettiva delle ferite inflitte dal colonialismo, ma c’è anche la voglia di costruire attraverso un patto di memoria una società dove ogni individuo possa esprimere senza vergogna la propria soggettività, il proprio essere cittadino. Infatti nel romanzo Regina di fiori e di perle la memoria è legata non solo a un noi isolato, ma anche ad un voi che lentamente la scrittrice scioglie in un insieme di voci e di sentimenti. La storia, sembra dirci la scrittrice italo-etiope, non ha una sola voce. Non è formata da una sola grande S fatta di numeri, date, nomi di battaglie, trattati, conferenze, guerre, armistizi, giochi diplomatici. La storia è anche oltre questo e ingloba le pratiche del quotidiano, la visione dei vinti, la paura di chi è dominato, la sua resistenza, le sue idee. La storia è quella delle donne, dei bambini, dei partigiani, dei gay, dei racconti intorno al braciere del caffè. È la storia che non viene raccolta, che viene dimenticata, che non viene segnalata. La storia è plurime, multiforme, a più voci. La storia non è un assolo, ma un coro. Ed è questo coro fatto di identità stratificate che va trasmesso. Ed ecco perché va portata lì dove la gente ha dimenticato. A questo proposito la scrittrice attraverso il suo alter-ego Mahlet (che in Regina di fiori e di perle è la cantora, ossia colei che ha il delicato compito di mediare e trasportare la storia) dice: E loro, i tre venerabili anziani di casa, me lo dicevano sempre negli anni dell’infanzia, durante i caffè delle donne: “da grande sarai la nostra cantora”. 2 Ghermandi G., Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma, 2007, p.198. II Poi un giorno il vecchio Yacob mi chiamò nella sua stanza, e gli feci una promessa. Un giuramento solenne davanti alla sua Madonna dell’icona. Ed è per questo che oggi vi racconto la sua storia. Che è poi è anche la mia. Ma pure la vostra3. Qui il “vostra” non è un voi generico, ma un voi che indica l’Italia e gli italiani. Nel primo capitolo del romanzo questo è già esplicitato nella richiesta del venerabile Yacob alla nipote: Tienila stretta quella curiosità e raccogli tutte le storie che puoi. Un giorno attraverserai il mare e porterai le nostre storie nella terra degli italiani4. Italiani che come ben immaginava il venerabile vecchio avevano rimosso la loro amplia parentesi africana. Oggi in ambito accademico lentamente (grazie all’imput dato agli studi da Del Boca, Rochat, Triulzi, Labanca, Ben ghiat, Ithob, ecc.) qualcosa sembra muoversi, ma è un movimento lento rispetto ad una storia coloniale (e come vedremo anche postcoloniale) che stenta a diventare patrimonio comune. Di fatto si può dire che la storia coloniale e le sue nefaste conseguenze sono state rimosse dal pensiero italiano. Questo paradosso ha creato una sfasatura culturale e psicologica che ha contrassegnato negativamente (e spesso ambiguamente) il rapporto dell’Italia con l’altro. Rapporto che mostra tutte le sue incrinature proprio in questo terzo millennio in cui l’Italia è diventata da paese di emigrazione (anche interna) a paese di immigrazione. Oggi insieme alla Spagna è l’Italia a detenere il più alto tasso di crescita della popolazione immigrata. È sempre l’Italia che vede crescere la sua popolazione scolastica grazie all’afflusso dei figli dei migranti nelle aule svuotate dal calo demografico. È necessario quindi colmare questa sfasatura per costruire una società del futuro che possa rispecchiarsi in una storia collettiva e interculturale. Questo è possibile infatti solo dopo un processo di decolonizzazione della memoria. Una decolonizzazione che parta da una presa di coscienza collettiva delle società (italiana e delle ex colonie) sul suo passato. Il punto di partenza naturalmente è rifiutare le scorciatoie facili della rimozione storica e dell’autoassoluzione Per capire la consistenza del fenomeno rimozione è utile partire da un episodio 3 Ivi, p.251. 4 Ivi, pp.5-6. III concreto. Esattamente dall’odissea della restituzione della stele di Axum all’Etiopia. La stele di Axum era stata portata in Italia per volere di Benito Mussolini. Posta nella centralissima Piazza Capena a Roma, era diventata nell’immaginario del regime la prova tangibile da dare agli italiani della gloria perenne di Roma conquistatrice e del suo duce costruttore di imperi. Il luogo (oggi ospita la sede della F.A.O.) doveva essere una piazza simbolo del colonialismo. L’edificio ospitava la sede del ministero italiano delle colonie. Nel dopoguerra una volta ristabilite le relazioni diplomatiche con l’Etiopia, si cercò di rimediare all’incresciosa situazione dell’obelisco. Un monumento che nascondeva in sé più di un imbarazzo. Furono avviate così le trattative per la restituzione. Il tutto venne fatto molto blandamente però. Si avviarono commissioni, si chiamò qualche esperto per la spedizione, ma senza un reale trasporto verso la vicenda. Il tempo passava e l’Etiopia era sempre più arrabbiata per il trattamento a lei riservato dall’Italia. Hailè Selassié per dimostrare il proprio disappunto alle istituzioni italiane decise di “saltare” Roma nel suo tour di capitali europee intrapreso negli anni ’50.