"Luminoso e solo, come se fossi la prima stella della sera, minuscolo e buio, come se fossi l’ultimo uomo del mondo."

1 Dialogo con donna liquida

Eri una donna liquida senza consistenza.

Ti allargavi con grazia su tele emotive.

Rendevi colore l'emozione umida trattenuta.

In ogni tuo gesto trovavo le mie parole non ancora trasposte.

Un ritratto vivo da osservare con rapido cenno di occhi inespressivi: lo punivo con silenzio e con successive riflessioni.

Non lo abbellivo, non lo modificavo.

Lo privavo dei numeri e dei desideri.

Lo spogliavo dei miei occhi e lo accarezzavo.

2 Mi armavo del tuo pudore timido per scoraggiare l'irruenza della mia parola.

Fermavo la passione, quella di un tempo, quella che non hai vissuto, quella che non ti diedi.

La notte ribadiva la mia incompletezza come esito di meccaniche rituali.

Un pensiero varcava la fantasia ed immaginava un tuo sguardo rubato, senza procedere oltre.

Mi piaceva vederlo, ero convinto di sentirlo, l'ho avvertito, so che era per me.

Delicato, delicatamente.

Erano i soliti microsecondi necessari per una potente magia. Me l'hai dedicato, tu sai quando, tu sai come.

3 Grímsvötn

Cenere sospesa in cielo estende il territorio dell'alba.

L'aria è ferma senza freschi isterismi di vento.

Ombre calme nascono dalle rade lacrime di sole.

Il cielo è saturo di grigiore caotico, di grumi annoiati di vapore.

Il mio respiro aumenta.

Creo condensa, ispessendo la mia sagoma cheta di polvere estrosa.

Le gambe cercano pose orizzontali estraniandomi da panorami omogenei.

Occhi invaghiti di nero e chiusura, rimuovono i filtri dall'orizzonte emotivo.

4 Nel bianco sbiadiscono il turchese ed i tenui verdi indossati dalla roccia.

Mare d'acqua e mare di pietra, si allontanano.

Occhi cercano notte nella stagione ibrida, nel tempo incerto, nel tempo morto.

Il giorno ferito, sanguina di tramonto nell'invenzione del sogno.

La cenere sospesa in un cielo umiliato, non racconta la storia di stelle uccise.

Cenere sospesa in cielo, avvolge la notte di buio bianco.

Intanto, io, sono posato in me, occhi nella pelle, pelle nella terra e nell'aria.

Islanda interiore. Il monologo continua.

5 Sguardi

Incido l'aria di volanti occhiate, impavide, non trattenute tra le ciglia.

Mi osservo senza che occorrano specchi, senza laghi di cristallo che catturino il mio volto, senza la vanità che si adorna di riflessi e di increspature emotive.

Vedo e mi riempio di memoria, di tempo e di luoghi.

Apro brecce nelle volte astrali: lambisco di occhi misteri marini e graduali variazioni di blu tra sfregi bianchi di vento, colgo discreto, spaccati familiari.

6 Ritorno con pigra sorpresa al mutare lento della mia pelle nell'annoiato ritroso.

Vedo tutto: lo sguardo sfugge sfumato, emigra silenzioso verso panorami nitidi e sporadiche opacità, colpisce altri sguardi o muore nell'orizzonte trafitto dai colori scomposti.

Poi troverò deserti, sterminati per occhi che circoscrivono l'infinito.

Ci sarà la pace verde del grano incupito dall'ondeggiare, lo smarrimento infinito del mare, l'apoteosi sanguigna del vespro, e luci e chiaroscuri tra palazzi e città, ed ancora luci, sempre più intense ed artificiali, sino ad essere ornamento del rumore di fondo.

Il mio sguardo si infrange nel grande occhio di sole.

Si chiuderanno i miei occhi macchiati di tramonto. E sarà notte.

7 Sui miei passi

Il cammino perdeva i colori.

Le gambe strappavano i lembi del paesaggio, come forbici voraci di scenografie di cartone.

Il movimento senza scie moriva nei miei passi e continuava in quelli successivi, nella pur breve pressione, nella gravità accelerata del calpestio.

Trafiggevo di me il suolo con le falcate verticali, senza lasciare impronte, cercando un abbraccio di vento per farmi sospingere.

L'animazione in divenire di una sagoma di carne si interrompeva a scatti, gonfiava i polmoni e ripartiva

8 senza pigrizia statica, senza indugi, disegnando sentieri intuitivi.

Si spegne la luce.

Si riaccende.

I passi raccontano il mio cammino, la polvere sulle mie scarpe, i sassi scalciati, le carte che guarniscono un giardino urbano.

Non hanno viso ed occhi, né sorrisi, solo forza e stanchezza a decidere l'inesorabilità del moto.

Movimento e stasi, equilibrio.

Insisto sui piedi, li raddrizzo, li muovo: punto luoghi, destinazioni, dimentico sudori e polvere nel mio incedere rivestito di sospiri.

Ansimante, lungo la via cosparsa di visi, di mani, di gambe e di altri piedi, temo deserti improvvisi, oasi ferme senza brusio.

Non finisce la strada sotto le suole: non si illumina d'alba, non viene inghiottita dalla notte. Così mi siedo su di una panchina e tra sole e luna leggo pagine di cielo.

9 Cielo di calce

Ci sono le stelle in quel cielo di calce.

Astri brillano, trapuntando occhi, scostando lenzuola di buio.

Un respiro esile è l'unico vento.

Un respiro intenso racconta le memorie dei sensi, come se desse vita alla pressione di dita su pelle.

Silenzio grande: contiene segreti piccoli, conserva l'istante, rubandolo al tempo.

Resto fermo, immobile, dimenticando il crepuscolo con gioia stanca, spogliato della solitudine antica. Il mare è bianco, il cielo è bianco.

10 Il colore dello spasimo si scioglie negli sguardi, nelle palpebre che si poggiano sul piano soffice come in sequenza rallentata.

Sospeso nel firmamento accessibile, siamo io ed il mio brivido.

Mi nascondo nel mio silenzio.

Ho tutto il tempo. Non più solo.

11 Visi

Cesellati dal tempo, i visi cambiano.

Scorticati dalla pietra, schiaffeggiati dal vento, i visi cambiano.

L'emozione deforma bocche, dilata orbite, corruga le fronti ed i visi cambiano.

Parli, racconti, poi ascolti nel tuo silenzio ed i visi cambiano.

Iniziano a vivere con una smorfia che secerne lacrime di pianto per sentire l'aria, gli uomini, poi i loro visi cambiano.

12 Gli anni ricoprono di segni i volti, lasciano rughe di sorriso e di dolore affondare nella pelle serena ed i visi cambiano.

Racconto di me, dei miei giorni, modulo la voce ricavandola dall'anima, non avverto le stagioni sulla carne e sulla pelle, solo il mio tempo che scandisco con il senso della voce.

Il mio viso non cambia.

I vostri visi mi raccolgono, sono in ogni parola, sono in ogni brivido, sono in ogni cenno che plasma espressioni ed evoca stupore e sensibili alterazione di colore sul corpo.

Il rossore ed il pallore, la calma e la frenesia, la convulsione erotica, l'abbandono tragico, si trasfigurano nella faccia, disegnano linee e curve, raccontano caratteri e storie, si sciolgono, si enfatizzano, continui.

Il mio viso non cambia con la parola che mi sussurra nelle orecchie, col respiro che ricevo, con i ricordi di cui sono cosparso.

I miei occhi non si macchiano d'odio e non si perdono nell'amore.

Annullo i tratti di una mutevole mimica senza tradirmi con le pieghe cutanee scolpite dall'interiorità.

Vedo solo l'esterno da cui mi sono escluso.

13 Vi guardo intensamente, così diversi da me, mentre i vostri visi cambiano.

14 Negativo fotografico

La materia visiva divenne ricordo.

La luce dei giorni perse il respiro, i contorni sfumati di sguardi estesi.

Il delirio degli occhi ammutolì nella posa serena di sequenze già catturate.

La materia visiva era immobile su sfondo fisso dai colori netti.

Moriva senza spasimi nelle opacità del tempo.

La natura attorno si sfibrava, sanguinava incolore, perdeva il passato.

15 Il ricordo deturpava i volti, pietoso, a tratti crudele, copriva di sole, copriva di buio sagome scabre, con oscillazioni cromatiche di memorie poco nitide.

Un crepuscolo interiore rivestiva i cieli dello sguardo illanguidendo il passato.

Invertivo il colore di me: i toni caldi si raffreddavano, la pelle era bruna come fatta d'ombra, le labbra chiuse glacialmente, gli occhi scintillavano di bianco innaturale tra grigi incupiti e venature di blu.

Invertivo il colore del cielo, ambra sospesa su mari di petrolio, la roccia si bagnava di sole, larghe macchie di nero sporcavano il giorno con parossismi sporadici.

Cieli chimici e terre grigie, con le sfumature sintetiche, raccontavano un futuro interrotto da sguardi malati, senza espressione di immagine. Come se non fosse soltanto un negativo fotografico.

16 Aerei

Aerei.

Sono solo un sibilo.

Non rigano di scie di fuga la notte attraversando prati azzurri spenti.

Tagliano deserti astrali fingendosi stelle.

Punti rossi nel buio.

Nero fitto.

Punti rossi nel buio.

Nero fitto.

Punti mobili frenetici tradiscono gli occhi.

17 Nell'apparente stasi pulsatile raccontano mondi esterni con fantasie ellittiche: polvere di metallo cosparge illusoria il sogno di fughe terrestri.

Altri aerei sfiorano l'universo ed inghiottono la continuità del vento.

Non mi distrae il pallore banale della solita luna.

I miei passi lenti non brillano.

Calpesto indifferente il pianeta Terra. Corpi soli si allontanano con moto proprio.

18 Estro

Mi impigrivo di volatile estro, appeso alle ali dell’immaginazione, vagando trasognato ed immobile.

Il vissuto ed il futuro programmabile si illuminavano di un temporaneo benessere.

Il pensiero divagava nei cieli di tessuto, entrando in rotta di collisione con il silenzio marmorizzato, lasciandosi sfiancare da improvvise perplessità e conflitti appena sorti.

19 La parola si tuffava nell’ombra, intrappolata nei quadrati del tempo, nei vortici obbligati dei bisogni e dei doveri.

L’estro si annullava nell’ordine, nella forma, rigidamente piegato ad un destino schematico già in corso.

Ero la variabile umana, la scintilla di idee sprizzate da pelle e momenti, che tornava alla pace reazionaria dell’inespressività, dell’adeguamento ad un contesto standardizzato.

L’intuizione si spegneva per mancanza di oggetti, un cielo rarefatto si avvolgeva e si rimpiccioliva, annegando nella spirale nera astri e puntiformi luminosità.

Le scintille non innalzavano impeti di fuoco, non scoccavano dallo stridere di carne e desiderio, il soffio moriva sulle labbra per sputar via la noia.

L’umidità rammolliva ardori mentali e virilismi poetici usciti fuori dai binari temporali.

L’estro era sciolto nel non senso che rapiva la geometria e la sostanza al mondo.

Leggero si disperdeva come un respiro, diafano fuggiasco per campi d’aria: non aveva più corpi a cui parlare, non aveva il peso per tornare di nuovo sulla terra, silenziosamente impercettibile, senza

20 irriverenza comunicativa, mutilato ed afono, senza contorni e sfondo, svuotato e cavo.

Mimetico ed inconsistente si allontanava mentre io mi addormentai, senza idea di volo.

21 Venti

Il respiro si nascondeva nella continuità del vento.

Polvere e tempo correvano per i corridoi d’aria.

Gli occhi varcavano ciechi l’impeto opposto delle correnti.

Era aria contro la parola e contro lo sguardo.

Riempivo le narici di freddo.

Le sensazioni erano sospese in un passato lontano e fermo.

Il respiro era cattura di un balsamo.

Gli occhi dipingevano ritratti di volti sfuggenti.

22 La bocca riempiva distanze, con le frasi che impressionavano sequenze corporee, sequestrando altri sensi di differenti organi emotivi.

La mano non mi schermava, le gambe correvano veloci.

Il tempo era dimenticato, inutilizzato nell’oblio della relatività.

La luce non era dolorosamente illusa dall’alba e frustrata dal tramonto.

Esistevano i colori non il grigio.

Il profumo aveva una forma, da cui, inebriandomi, era emesso.

La parola mi aveva accostato la figura alla completezza dei miei sensi.

Ora solo il vento soffiava.

I respiri si perdevano a ritroso, con le molecole volubili del ricordo.

Gli occhi schiaffeggiati si chiudevano, lasciando il presagio di un incavo nero, il senso anomalo di una caduta orizzontale.

Gli occhi si coprirono di mani.

Le mani sostituirono la voce, e sentirono altre mani, imprigionandone l’odore.

23 Io andavo avanti, costretto dal flusso impetuoso.

Mi lasciai andare.

Cercai da quel momento le mani a cui donarmi, per fermarmi in un corpo che avesse quello stesso profumo, remotamente avvertito.

Il vento continuò a soffiare, forte, in avanti, ed io ero in lui.

24 Islanda

Tocco acqua e ghiaccio per mutare sensazioni somatiche.

Non recupero conforto tra strati di tepore sintetico.

In un lago profondo di pelle e di stoffa si inabissano corpi.

Ondulazioni di tessuto ricoprono tentativi mimetici e lenti respiri. Un lago gelido mi bagna.

Scheletri di legno crepano panorami bianchi con sagome appuntite che toccano cieli candidi.

25 Il corpo svestito svuota il calore nell’aria muta, si colora di freddo, poi si spegne. La pietra è senza variazioni concentriche ed emozione fluida.

I tremori sono alleviati da manti rigidi, da saturazioni assenti, nella tonalità fissa di Un insieme.

Le nuvole si fondono alla terra senza spasimo liquido ed umori di pioggia.

La musica scioglie coaguli, danza sui tasti, mi sussurra come un vento timido emotività represse.

Il ghiaccio è tenero, si rompe, ritorna acqua che colora il grigio compatto di gradazioni turchesi, sprigiona umori termici di una natura rinata.

Ritrovo enfasi sanguigna nel vapore della terra, gli alberi non sono più punte di cristallo.

Blu e fuoco, sporadici bianchi. Il pianoforte suona nella mattina d’Islanda.

26 Segni

I segni blandi di quel tempo remoto furono fiamme.

Non marcano la pelle e scivolano nel senso minimo del ricordo.

Si posano negli spazi dimenticati, nei deserti di tempo arso.

Le fiamme descrivevano emozioni e calore.

Raccontavano il brivido di una stagione senza numeri.

Trovo solo costellazioni fredde di scintille dai rari sprazzi.

Non cercavo miracoli nell’orizzonte di luce voluta.

27 Stemperavo la sacralità della vita immergendomi nell’evanescente attesa di sorprese.

Crederci era emozione, ardito bruciarsi di pensieri e tracciati immaginati, correre a perdifiato su percorsi aerei senza temere la profondità degli estremi.

Rintocchi mi svegliano, inquietamente schiacciato dentro un perimetro di vita improvvisamente stretto e scomodo. Adesso il buio è notte, non più fantasia.

Il calore si inginocchia e si raccoglie come proiezione di un corpo solo.

La voce parla come eco di un’anima.

Un mondo diverso vivo adesso.

L’altro mondo è scisso da me, con una sua assestante atmosfera, solo apparentemente uguale nei panorami silenti.

Il tempo incide altri segni, impolvera di grigio sembianze umane, ma non produce fiamme né sporadiche scintille.

Si tramuta in cenere nomade dispersa.

Il vuoto si tramuta in lettera che muore sui fogli sparsi, e muore senza respiro ogni parola.

28 Non l’ascolta nessuno: si spegne senz’aria, senza l'appassionata favella di lingue di fuoco. Un viso senza solchi ha chiuso gli occhi.

29 Numeri

Solo una diaspora di numeri atrofici ho nel mio cielo.

Stampati su pezzi di cronaca, contengono un passato senza emozione.

Possiedono il senso della quantità ma non raccontano la forma interiore.

Il vento li solleva e li sospende, come se fossero congelati da un fermo immagine che raffigura il tempo.

Si confondono con l'aria di pioggia, sono cicatrici di ricordo rimosse dalla pelle.

Le mie parole non hanno data, neppure i codici,

31 sproporzionate dalle mie derive estreme, hanno espressione continua, sussurrata, raccontata, scritta, vissuta.

La mia noia trattiene le cifre in un cielo basso, tratteggiate col nero, senza calore del sangue, senza segni di unione né di separazione.

Sono sparsi nell'aria, senza gravità. Sono solo numeri.

32 Macchie

Poche macchie catturano un senso e lo definiscono.

Superano la geometria della parola e dilagano nei vuoti profondi.

Riempiono incisioni, ritrovano forma e sagoma.

Sbavano dalle palpebre come trucco diluito da lacrima.

Sono silenzio inghiottito e parola scritta di notte, gettata in una voragine rassicurante di carta.

L'inchiostro è nuvola, diradata da colori misti dell'animo, stemperata dalla finzione dei neon e dei riflessi, da tinte tiepide di gioie veloci, dall'intensità sterile di ogni speranza.

Le macchie si sciolgono e gocciolano via da un viso basso e da occhi posati su di un piano dissolto.

Racconteranno tristezza. Poi qualcuno le laverà.

33 Viaggio dormiente

Rimuovo deserti lenti senza miraggi tremanti sullo sfondo cercato dagli occhi.

La polvere che sporca il panorama, ricorda incendi spenti e resti scarni di nature morte.

Mi distraggo dal senso di fine, dagli interrogativi brutali, dai silenzi passivi, dalla sconfitta dei sensi. Rinasco.

I miei passi solcano asfalto e mare, allontanano le mani dal fango di stoffa, dai sudori di sequenze insonni, da un piano orizzontale paralizzato dal buio.

34 Divento carovana anfibia di carne e di parola. Muto un orizzonte fermo, imprimo una scia nello scenario prima che cambi, invado campi di sole ed isole di notte, devio le carezze pudiche degli astri ed appassionati baci di sole.

I miei passi sono lenti, il calpestio è deciso, le mani sono stanche ma separano le acque cercando progressione oltre i flutti.

Bagnato di mare, trascino con me le terre degli uomini, come fossero un mantello soffice, come uno strascico solenne.

I sensi si bagnano di mattino, si illuminano di sole, poi continuano a guidarmi.

Per questo viaggio dormiente la meta è lontana, così tanto che non importa se esiste davvero. Il mare non finisce, il cielo lo continua e lo estende, ed assieme abbracciano la terra: tutta quanta, come un velo, avvolto su di me.

35 Cronaca grigia

La cronaca quotidiana di un piccolo uomo si dissolveva nel gioco di dita e di occhi.

Il nero del piombo stampato si insanguinava di nomi scomparsi, di violenza, di geografia macabra.

I ricordi scivolavano dalle pagine verticali di un giornale, come inchiostro non assorbito, come una lettura evitata.

Il giallo di pagine sgualcite continuava nel bianco e nero compatto delle immagini, nella dimensionalità ridotta, nel liquido e nel solido che erano una macchia unica, nei primi piani che ritoccavano asimmetrie facciali diplomaticamente, attutendo enfasi e squallore.

36 Le mie giornate si concludevano senza resoconto della mia attività umana, senza dovizia di particolari.

Un piccolo uomo tornava al buio, senza far parte di quei ricami di inchiostro, senza commenti se non nella mimica, improducibile nelle memorie stampate.

Tornavo bambino, mi aggrappavo ad un mondo di parole e di paure, di sogni rotondi e variegati, di eroi e di nomi cubitali da memorizzare.

Trovavo nella carta bimbi nudi, bimbi scalzi, bimbi orfani, bimbi dalle pance gonfie, bimbi che fanno il girotondo, bimbi che cadono giù per terra, bimbi che non si rialzano più.

Conservavo inserti emotivi strappandoli alla carta, unendo sadismo ed incoscienza, diluiti poi nel sonno, assieme alle avventure immaginate, alle guerre combattute, alle rincorse infinite verso salvezze illuminate.

Mi stordivo di cronache di guerra, delle esplosioni e delle eco assordanti di granate che squarciavano i fogli scritti, e della politica chiassosa che invece li riempiva.

I contrasti di lettere e numeri si perdevano tra file di grattacieli di parole attigue, tra fitte appendici verbose che emettevano a tratti angoscia e noia, ogni tanto speranza, meno spesso gioia.

37 Leggevo quel mondo come se fosse altrove, come se i numeri non avessero volto, come fosse tutto fantasia narrata con realismo ed asettico rigore.

Volevo sentire il mondo, impressionare la carta con pelle e calore, esserne parte donandole pensieri.

Ero solo un piccolo uomo, la mia storia non la raccontava nessuno, né voci, né rotative.

Mi sentii pure io un numero, non sommato ad altri per indifferenza o per volontario distacco. Ininfluente e fuori dalla descrizione del mio tempo, chiusi il giornale e mi addormentai.

38 Membrane

Sono una membrana separatoria dai fluidi rappresi.

Punte salgono, scendono e poi si appianano.

Il respiro è regolare, lento e sereno.

Il vento smussa le punte come se fossero vette ghiacciate.

La sua gola vorace inghiotte polvere e detriti.

Superfici scabre si prolungano sconfinate.

Prima dure poi soffici, accolgono un corpo, aderiscono alle sue membrane.

Sulle membrane non soffiano altri respiri, voci miste a musica che possano tenderle.

39 L'acqua le screpola, il sale le dissecca. Le gambe si incrociano, con armonia pigra si flettono.

Sono onde ossute non stimolate da agenti esterni, la volontà sfida il muscolo.

L'astenia non muta il panorama.

Il respiro è lento e sereno, governato da ordini impercettibili, non distratto da profumi fallaci.

Le gambe si accavallano, poi si incrociano di nuovo.

Posate l'una sull'altra si accarezzano, impregnate di reciproci sudori.

La testa sprofonda nel ricordo di un neon appena spento.

Si fa volatile la sensazione di tocco di mani che lasciano solchi .

Poi non ho più pelle e neppure memoria, solo strati membranosi compatti.

Il sole incarcerato ha lasciato solo ombre sempre più esili.

Un velo di notte ricopre maschere bianche, chiude fessure curiose, impedendone futili espressioni. Membrane di uomo le tengono distanti, lontane dal mio deserto.

40 Mutevolezza arida

Sentire freddo come un cambiamento di stato.

La dolcezza di un senso provoca sonno.

Lo intendi come languida possibilità di piacere, una distesa vasta di perdizione.

Sostengo tra due dita lembi di epidermide mutevole, stravolta.

Le pulsioni le danzano sopra, lente e veloci.

Invecchiano dentro ricordi rammentati, nell'estinguersi di rossori enfatici, nelle paure di bambini a ritroso, negli amori sbiaditi senza parossismi duali.

40 La carta brucia. Le mie labbra bruciano nel deserto.

Non ho saliva che le impregni, né stimolo di organo molle.

Danzano parole su quelle labbra.

Danzano musicate da soliloquio dissennato.

Mormorio fitto, di una voce disarticolata sfrangiata da moltitudine di accenti e pronunce.

Sussurri senza musica, piaga per ferite superficiali, trascurabili.

Un brivido è solitudine, è scia nel mare, è il canto per me soltanto.

Pianto secco, pianto lungo. Umido, ma poi si asciuga.

41 Preghiera unta (umana troppo umana)

Sporcami di malinconia, di luci rarefatte. Sporcami di sguardo. Rubamelo dagli occhi.

Provocami sudori, agitazione, viscida libidine per ungere noia casalinga.

Creami estro, dammi voce, dammi parola. Sporcami di follia ed umori. Rendi brivido un profumo.

Rendi smarrimento ingenue oscenità. Avanza timida. Avanza torbida.

Diventa pelle e carne, rotondità e respiro. Ascolta la mia preghiera: si unge di te.

42 Amplificati.

Amplificami il sapore di te, il calore di noi, lo struggimento mio.

Renditi forte, inturgidiscimi nella scioglievolezza di ormoni girovaghi per le rugosità appianate di organi sensibili, umanizzati da sguardi che si beano di te.

Fallo. Ardi e fallo. Riesci ad essere parte di invocazione, di profana preghiera.

Sii desiderio, rovente e calmo. Calmo e rovente ti desidero. Non importa che sei ombra.

Non importa che tutto è un deserto.

43 Il mondo in me

Ho i suoni, ho le immagini, ho le parole ed ho me stesso.

Non ho altro.

La mia sensazione colora le immagini che definisco con sprazzi d'arte, concretizzando movimento e pulsione per umanità approssimativa.

La frenesia disegna interiorità nei pupazzi mobili, la fa vibrare irregolare, con battito umano, senza concetti di sintesi e con eccitazione occasionale.

Creo un mondo con naturalezza ingenua, so anche distruggerlo col silenzio ribelle, con la parola non detta, col bianco afono e perfido che sfora nel grigio disumano senza sostegno mistico del ritmo circadiano.

44 Non reagisco, sono arido: spontanei sussulti non variano la noiosa circolarità di un evento continuativo.

Ho la sterilità di riflessi assenti a stimolazioni coerenti di normalità mondane, incongrue reazioni alla luce spezzata, ai soli plumbei di un regime nuvoloso prepotente che sancisce rare variazioni di colore nel mio cielo.

Non ho un sorriso, non ho motivazioni se non completare un ciclo giornaliero per riconoscerne l'insensatezza senza beneficio minimo, cercando di non trovarne soluzioni notturne troppo deprimenti.

I pupazzi intanto hanno le rime labiali fuse, gli occhi di bambola, i nistagmi angosciosi, i passi biascicati, gettati senza forza sulle rette rigide del cammino imposto.

L'infinito dura poco, la glacialità l'estende appena, un brivido si slarga con appassionati artefatti, poi si appiana, sparendo nella fissità pallida di un panorama umano ben strutturato.

Scuoto i pupazzi, mi stupisco del loro mutismo, della loro bellezza placida, della serenità senza dietrologia: sono indifferenti ed algidi, quasi da provocarmi altro brivido, quasi da farmeli scansare scortesemente come ostiche barriere del caso.

45 Sento il freddo di un inverno continuo con il senso drastico di un tempo finito, per giunta mal vissuto, mal gestito, non recuperato, temuto.

Ho il rimpianto che mi prepara al senso di rifugio, di smarrimento quasi estatico, più concretamente di fisiologico riposo.

Non sento il ristoro nelle mie esili aspettative, solo fastidio articolare, solo vana pressione negli arti pigri che non troveranno materiale per comporre progetti.

Dissolvo l'inventiva fuorviante, scrivo, cerco caratteri per adeguarli al senso di ogni attimo, trasfigurati in un insieme espressivo di emozioni incise: li raccolgo dentro me e poi li svuoto, con irruenza e con non senso, quasi indifferente, decisamente contrariato.

Le parole completeranno la sintassi di ogni periodo umano, concluderanno il giorno con un amen rituale, avvilito e dissacrato, salutando con banali formule di commiato comparse dinoccolate ed ombre di uomini quasi solide che si scompongono nell'umidità della sera tra gelo e delusione.

Come una canzone, lenta, sussurrata e senza musica poi mi riportano dolcemente di nuovo nel mio sonno.

46 Danziamo (sino alla fine dell'amore)

Danzavi sul terreno trafitto dal sole con le punte ingessate.

Le sporcavi di polvere col movimento impacciato da un contesto inadatto.

La luce ti inondava sfigurandoti, appesantendo armonie con aloni continui.

Danzavi nel deserto, senza orchestre, senza il fiato di strumenti a darti un inizio, senza il silenzio d'atmosfera ad interrompere il tuo ballo ed a fermare il tuo corpo.

Avevi la tua danza, il tuo ritmo, solo te stessa.

Il vento ti gettava addosso la polvere, mutava le pieghe della tua seta, a tratti ti denudava, ti lasciava il freddo, ti lasciava la solitudine.

47 Solo aria avevi attorno: nessuno specchio a catturare i tuoi sguardi, a descrivere sinuosità e panneggi, l'eleganza riflessa nello sguardo di altri occhi oltre che della magia antica del vetro opaco.

Aprivi le zolle nel deserto bruno con le tue movenze, con l'unisono di simmetrie corporee, con i fianchi che cercavano mani per essere accompagnati nel rito e braccia per essere sollevata in aria.

Le tue dita disegnavano pareti fisiche su un cielo diffuso attorno: frenetiche mi seducevano verso una languida vertigine, come se orientassero il tuo profumo verso le mie narici.

Immaginavo un suolo di marmo che ti scintillasse negli occhi, assieme alla magia degli ottoni, al trionfo di perle e di gemme incrostate su un firmamento luccicante di pelle femminile.

Ti immaginavo in un volo non decollato sulle note ricche, rallentato dal fumo che si alzava dai candelabri, il tuo corpo libero ed il tuo corpo in una presa, poi il vento sfumava il frinire barocco degli archi, lasciava sospiri e la plasticità muta di arti disadorni, spegnendo le candele.

Dissolvevo il senso di corpi soli, il passato avvilito dalla fine di un giorno, mi adornavo della sensazione di altra pelle addosso.

48 Avevi il calore, ma non avevi a chi darlo.

Ero fermo nel mio deserto emozionale senza pieghe armoniche, senza suoni per incantarmi il corpo.

Avevo solo lo sguardo per te. Eri una figura avvolta dal vento, sospesa nel pensiero in penombra di chi sogna di nascosto. Chiusi gli occhi e sentii la tua mano aderire calda alla mia, accompagnarmi al tuo ballo, sciogliendo il gelo di dosso con il respiro di labbra appena vicine, dimenticando un silenzio non scandito dalla continuità della solitudine, danzando sulla polvere, danzando sulla terra spaccata, danzando coi nostri corpi in uno solo, danzando sino alla fine dell'amore.

49 Oasi definitiva

Vivo in un'oasi senza deserto.

Travolto dal senso di pace.

Solo una continuità aderente di sé e di un luogo per un cammino sospeso su attesa e stupore.

Il mare si svuota.

La ricerca finisce.

Le scale si interrompono.

Un cielo è raggiunto.

La materia è aria.

Lo sguardo è beatitudine.

Beatitudine infinita.

La testa affonda nell'acqua, la testa riemerge.

50 Come dormire e vivere dentro una placenta aperta, rigogliosa di vita, odorosa e densa.

Carovane di pensieri restano sospese nella stazione di un respiro.

E' come un sogno, è come una non vita.

Non ho calpestato deserti altrui, ma sono il miraggio di tanti occhi: sagoma e buio in una dispercezione collettiva.

Esisto per me, nella mia oasi, per dormire e per fingere di vivere ancora.

Come l'eco di un fiato.

Ancora, ancora, ancora.

Ancora attorno, il vento è muto. Ai lati il tempo soffia via la sabbia.

51 Gocce

Una goccia tagliata dal vento.

Due gocce che toccano terra.

Una foresta di gocce fitte.

Gocce che diventano sudore.

Sudore come un senso di mare per organi d'uomo disancorati.

Naufragare in sé stessi.

Ondeggiare, affondare, inghiottire, dimenticare il respiro, riaffiorare e sentire aria.

Gocce di nuovo gocce.

Gocce per non sentire sete.

52 Gocce per svegliarsi. Gocce continue, melodia e rumore. Gocce nel vento, come una carezza. Gocce nel vento, come uno schiaffo.

Battito del tempo, involucro di apparenze umide.

Sforzo e lacrima, fatica e lotta, con la pelle bagnata.

Pianto.

Senza aridità.

Cadono gocce.

53 Acqua

Il mio senso palpa e trattiene qualcosa che scorre e scivola, inumidisce ed evapora.

Il vapore pesante mi ricade addosso come ricami di perle, come rugiada inquieta che scivola in basso.

Il senso bagnato mi raffredda, mi scuote, con ogni millimetro che scorre su segmenti di me, con ogni goccia che si allunga nel suo destino fluido condiviso con il mio brivido.

Cadenze ed onomatopee toccano i polpastrelli e foderano le labbra.

Lacrime fatue avviluppano la visione come pellicole memori di un mondo interrotto: si impregnano di immagini liquide, inumidiscono la notte che allaga gli occhi.

Un velo d'acqua mi bacia le labbra.

54 Pedali

Un campo visivo si stringeva tra occhi ed orizzonti fatti di corpi brevi ed esili che diventavano ostacoli gonfiati dalle accelerazioni di piedi pressanti e gomiti sempre più schiacciati, paralleli al manubrio.

Ruote e fatica perdevano il senso circolare e divenivano pensieri sospesi su gomma ed irregolarità di asfalto, vocio e linee bianche che tratteggiavano una colonna di sospiri lasciati dietro da una schiena incurvata.

Coglievo polvere nelle narici, calura stemperata da un fresco timido e pigro di una sera d'estate.

Vedevo piedi accostati tra le mani sudate di visi d'Africa sereni, nell'attesa eterna di svuotare la pancia ripiena di sacchi colmi di mercanzia, bambini

55 che coloravano di confusione le corsie impregnate di mare e di fumo.

Scorgevo targhe di autoveicoli senza futuro, annerite da un passato remoto che occultava nei numeri indistinti, storie quotidiane di mortificazione ed estenuanti viaggi senza codici e senza rispetto.

Mi estraniavo dal tempo, senza i risvegli di percussioni commerciali che tappezzavano ogni metro di scorrimento.

Ero soltanto un pellegrino nel nulla ciclico di gambe alternate, in un deserto fisico di entropie umane e di miraggi pregni e corposi e così mi sentivo evaporare assieme ad i miei sudori.

Contrassi i polpacci scatenandoli con sufficiente forza sui pedali, scomparendo tra boccate di aria umida e densa nella strada, come un fantasma sottile.

56 Prima di un nuovo giorno

Restai chiuso in una capsula intima con i sospiri ed una luce puntata addosso, stemperata nella caduta dolce di un mattino sulla terra addormentata.

Le ore si confondevano nella meravigliosa insonnia.

Riflessi metallici inondavano mani che li cercavano nello scorrere compiaciuto sui ricami di seta che supponevo con le dita curiose, rilassate ed invadenti.

La luce si spense dietro un albero ed il verde bruno di germogli, gli occhi beati fecero il resto, senza perdere tempo si nascosero nel non senso di sospiri e di tepore inventato dentro una sensazione interiore intensa.

Non c'era idea che finisse, che quel buio così sfumato potesse accendersi di giorno all'improvviso: era

57 tutto fermo nell'immaginazione che quel crepuscolo alla rovescia perdurasse, nascondesse tutto quel mondo privato sfiorandolo con leggeri chiarori di una data aggiornata.

Il metallico si coprì sofficemente di palpebre, e fu carne, tra le dita, tra la bocca ed il respiro incruento ma denso di immagini create ad occhi chiusi accostati.

Prima della luce definitiva me ne andai come un tramonto qualsiasi, come una luna sfuggente.

Fu giorno come sempre, dopo.

58 Tratti di sospensione

Quella sensazione non svaniva nei versi finali immaginati di una poesia non conclusa.

L'alba sbiadiva le tenebre tra smarrimento ed accelerazioni continue su percorsi di seta cosparsi di silenzi impregnati di un solo profumo.

I versi sfumavano nei metri di asfalto, troncati da una nostalgia afona e completati senza memoria nell'amena perdizione di occhi chiusi su un giorno appena nato.

I polpastrelli vagavano in un senso aereo, divenivano gomma a solcare strade infinite: accarezzavano pieghe di lenzuola di un letto disfatto dentro l'ovattata sfera di un sonno prossimo ma quasi temuto.

59 Sentivo una testa appoggiarsi alla mia, cercata dal mio fiato, aspirata dai miei pensieri nella voragine perfetta, languida e circolare di un occhio di luna su una notte sospesa e senza tempo.

La luna si spense trafitta da fanali paralleli e da timidi cenni di un chiarore precoce.

Mi perdevo cieco nei sensi residui, nutrito dai sapori densi, riempito da un corpo sentito in uno smarrimento dimezzato da un'estasi rimandata.

Il viaggio era la terra di demarcazione tra due terre umane toccate e bagnate di un unico mare che regalava alla notte la sua danza liquida e scintillante.

Arrivai.

60 Dissolvenze del vespro

Il mio sguardo ha catturato il sole ed ha bevuto la sua luce dalle pupille, macchiando di colore la mia pelle.

Il mio corpo nel vento vorrebbe fondersi all'orizzonte e dileguarsi nei tramonti nel gioco visivo di ombre, opacità e contorni bruni nella notte che scende lenta e lieve sulla terra e sul mare.

Sapori, sudori, particelle, molecole, ribelli deformano il profilo contro la logica umana dei cromosomi: la sabbia scende a granelli ad ogni mio cenno, frenata nella corsa da brividi avvertiti, poi prende quota e si alza sugli occhi, quasi a seguire le ondulate tracce delle onde e le punte ribelli degli schizzi.

61 I pensieri sono polvere che esclude gli occhi dal senso infinito, coriandoli di parole non dette, bruciati da raggi violenti e lasciati a danzare nel trionfo dorato sino a che il buio ritorna.

La mia sagoma è netta, non gocciola umori del mare, neppure sudori di emozioni salmastre e di abissi paventati e scherniti dal diletto temerario: si ingrossa del vento, poi si assottiglia compressa tra gli elementi per diventare linea d'orizzonte, senza vertici, senza contrasto, svanisce nel buio che annerisce le dissolvenze del vespro.

62 Il fuggitivo ossia Gasparino detto "Il Matto"

Sono evaso dalla mia cella.

La serratura si apre per un matto senza numeri e senza trionfi, agli antipodi della miseria, facendolo fuggire via.

Niente mi identifica, solo un nome buffo per le occasioni in cui scrollo di dosso l'ombra che mi maschera, nelle rinnovate collisioni con l'umanità.

Ho girato ogni carta della mia vita senza prevedere futuri possibili.

Il destino è pelle e sangue, non carta antica di tarocchi ingialliti, subdoli e sapienti.

L'occulto si colora e perde le sue sottigliezze ed i suoi mostri.

63 La storia di un uomo riparte illogicamente dal senso di fine, come se tutto si fosse compiuto.

Adesso vivo nell'idea di cammino, di corsa, senza segretezza: il buio non mi strappa dal viso e dalle mani l'angoscia dell'evaso che ormai colora e permea tutta la mia essenza.

Il senso notturno vive in me depurato dall'arcano maggiore che offriva visuali fosche ed opprimenti, combinazioni di carte mischiate, aleatoriamente.

Non ci sono sbarre, non ci sono pareti, la fuga è un'opportunità silenziosa, un azzardo che alza la voce e gonfia i polmoni, la libertà è nel vento senza voce.

La paura si attacca alle spalle come un fardello di piombo, la libertà la scaraventa nella polvere, nelle impronte calpestate, nei secondi strapazzati da un desiderio.

Allungo il passo ed il fiato, una carta sfugge via dal mazzo, la cella si estingue nell'orizzonte schiavo, nel passato che muore dentro un sole che mi accoglie nella sua alba non murata.

Sudore non è umidità, gioia e lacrime luccicano negli occhi chiusi e nel ricordo senza nostalgia.

La notte continua nella cella del fuggitivo.

Ho appena girato la carta.

64 Vola nuda

Il movimento nei tuoi gesti era distacco dalle mie frasi.

Disunivi isole di affetto da un continente lacerato.

Le tue mani sentivano quello sguardo a cui ti negavi.

Toccavi fredda sostanza, protetta nel tuo nido d'ombra. La tua schiena chiudeva le mie labbra.

Temevi il sole nascosto nelle parole, ricoperta di veli strappati con foga.

Ti spogliavi per vestirti di notte.

Parlavo di te con i colori del fiato su pareti d'aria sempre più spesse.

L'enfasi calda cercava risposta tra grigio insonoro.

La spezzavi tra le labbra, masticandone frammenti, lasciando vana attesa.

65 Il silenzio si allargava come un senso malato, lasciando impronte plastiche di allontanamento.

Persi le tue mani, mi hai tolto le tue braccia, siamo corpi divisi.

Non renderle ali di voli incerti.

La mia pelle si denuda di te e si ricopre di terra e di secondi fitti e voraci.

Linee rigide non continuano nelle curve morbide.

Calpesti le parole sotto i piedi scalzi.

Hai dimenticato il tempo per non viverlo.

Ora sei nuda, ora non sei più me.

Abbozzi uno slancio. Puoi volare.

66 Dolce gravità abissale

Perle sono le lacrime,

Abissale cecità,

Risalite clandestine,

Spari e fiotti rossi,

Abbracciami tra le correnti

Nelle spirali di coralli avvolgimi

E trascinami giù

Senza respiro.

67 Gocce, tante gocce, Tutte le gocce formano il mare,

Sono la tua vita,

Ti appendo la mia vita

In quelle onde subacquee

Che generano le tue squame,

Nella danza oceanica,

Nel rompersi silenzioso nel velo blu

Per bordate di odio, con tuffi gravi

Ed utopie somale immolate,

Attacco, difesa, assalto, caduta,

Profonda, in profondità,

Ci sei tu mia sirena.

68 Velo

Ti adombrava la voce del vento, il silenzio dei sogni e di increspature visive.

Negli occhi soffiavi il tuo respiro di labbra mai viste nelle orecchie le parole come fossero incise e mai dette.

Pensieri abbandonati ti coprono come coltre diafana, come pelle liquida, come un'amorosa placenta impregnata di spasimi passati e vapori incerti prossimi, vicini.

Sei dietro la pellicola, nel limbo del desiderio non fuoriuscito.

69 Espello volontà, come suadente delirio che propago oltre i confini dei sensi.

Tentacolare, mi ritraggo mutilato, nel vischioso coprirmi di te.

70 Pagine Passate

Suoni lontani di decenni mai vissuti, spiriti giovani che levitano nell’aria, qua a ravvivare questa vuota scatola di vite, qua a rintronare di energie mai sopite; rivedo Joan, Bob, Jenny, sì e gli altri quasi emersi da un anello di acqua, o forse sì, di amnios materno, un vortice che, rapido, lascia scorrere a ritroso l’autunno, l’estate, la primavera e l’inverno e foglie morte e giochi di spiaggia e amori sofferti e fughe di casa e l’eroe della strada, quella che non finisce mai e ti lascia così blue dentro e quel tempo che ora è anche tuo, è vicino, così tu ora ne fai parte, un’essenza di

71 fiore, un aroma di un mistico esotico nonsoché che mi sconvolge e mi fa navigare sino all’acerba e acre frustata di un’armonica che mi brucia di violento ardore, sono sempre giovane, anche qui nel passato, in cui non ero ancora nato, in questi momenti in cui non sono stato prima e adesso ci sono a dire basta, a dire non è giusto e perciò protesto il mondo fa schifo e lo contesto, io navigatore di utopie e cacciatore di sogni che si infrangono quando si cerca la gloria del mattino e il giorno prima..., sì, è passato, e il passato non sarà più rivissuto, il suono, la chitarra, il canto dolcemente sopiscono, un soffio nel vento mi dice che tutto questo è scaduto.

72 Estatein...e… Dita

Vedi l'estate come una serra, umida calda opacizzata dai sudori di corpi indolenti, non trovi il cielo e tenti estremi atti per recuperarlo con sguardi fulminei che lasci nell'aria come traccianti scie disegnando traiettorie vaghe e mutilate.

C'è l'azzurro altrove in un orizzonte che ti profuma di esotico in due occhi che vedi distanti, ma l'azzurro non c'è.

Il vento graffia come cartavetrata sui corpi insabbiati, languido ti sospinge verso sogni di un equatore distante, di calure insopportabili e pirati all'assalto.

73 Ti senti un eroe cartonato dipinto su china su sfondi di un eden immaginifico deturpato dall'umanità.

Immagina pure ma resti qua a invaghirti di spiagge bianche e di turchese in cui coleresti l'azzurro sbiadito che concupisci nel tuo spirito vacanziero.

Senti umidità e cerchi nebbia, vorresti la canicola a dardeggiare i flutti ad aspirare il mare per contarne tutti i pesci, per estrarne i tesori, per imparare a scolpire i coralli meravigliosi ed accenderti del loro rossore modellandoteli dentro quella fucina artistica che si muove nella tua mente e nella creatività contorta delle tue mani.

Il mare si rigonfia, il vento lo stria di bianco, gli uomini lo verniciano di torbido, i tuoi occhi pescano solo nuvole nel cielo, perché tu cerchi solo la tempesta, solo perturbazione provando a farla galleggiare in alto in alto con la luna con l'annesso corteo di stelle.

Vedi l'universo e trascuri il cielo, lo vedi come realtà di mezzo e la mediocrità anche metafisica e astronomica ti intristiscono.

Non pensi mai semplice e sei distratto come se un in paesaggio bucolico inesplorato facessi lentamente scendere cadenzate gocce da un rubinetto.

74 Piangi, quelle gocce di lacrima che pensavi fossero granito, come vedi i tuoi occhi non sono di piombo, hanno la mollezza umana e gli ormoni li spremono sino a distillare il succo della tristezza e del senso d'incomprensione.

Pensavi di essere un artista, non conservi nell'astuccio le tue droghe e i tuoi ghetti esistenziali, le pistole e carnet di assegni per comperarti il mondo.

Fai una vita normale, le tue stelle le confondi con le zanzare, pensi che il frinire lontano delle cicale siano i reattori di astronavi aliene.

Hai troppa fantasia cerchi rapimenti più che evasioni, un tempo evadevi, non avevi bisogno di chiavi per uscire via dalle cento celle in cui ti esiliavi.

Già, un tempo: il tempo passato è già il secondo prima, rotoli sul letto a cercare il lato fresco del cuscino, e a malapena sciogli la cintura dai passanti e rimani vestito come se sul giaciglio si preparasse un gran gala... perché ora non dormi...

Un tempo con la tristezza dormivi, con la tristezza sognavi e scrivevi, ora attonito vaghi nel buio e i tuoi occhi vedono il cielo azzurro che c'è stato e ritornerà l'indomani.

75 Però lo sai sempre che tornerà, assieme al sole assieme al languido susseguirsi di assorte meditazioni, non hai capito che non arriveranno mai i soffici sapori in cui vuoi sprofondare, il granito è fuori di te.

Sei in estate, la trentesima, e assieme sei in tutte quelle che verranno, sai solo che ci sarai, tu ed il tuo stato d'animo.

Non conosco il tuo stato d'animo, me lo celi bene, nelle trasparenze ghiacciate della solita sambuca e nei contorni bigi di 10 sigarette.

Fumi molto, di nuovo, più di prima, ogni cosa che fai pensi sia arte perché l'abbini ai tuoi pensieri, non immagino i tuoi pensieri e ci vedo monotonia, dammi i tuoi segreti per carpire i tuoi personali magici gesti.

Arrivi sempre allo stesso punto, arrivi a casa e ci liberi frenetiche sui pulsanti che incidono lettere sullo schermo... pensi che solo noi ti possiamo aiutare, ti assecondiamo, ti vogliamo bene... buonanotte

Le Tue Dita

76 Una guerra qualunque

Entra nella cartolina striata di sangue misto al tramonto, che squarcia l’azzurro di rosso, pacato, sfiorato da uccelli di ferro dai cinguettanti reattori.

Defecano il suolo di escrementi esplosivi.

Lasciano cenere, polvere serena, disorganicano il mondo, ecco la pace. Un arto bagnato di fangoso languore, solitudine polverosa ghignante tra le viscere putride di esseri

77 che vissero. Venti che cantano, venti che sospingono tamburi rassegnati e trombe solenni, buchi di dolore, fianchi di terra spappolati, zolle tra ossa, sangue che scola giù nei tombini, marciapiedi sepolti da palazzi schiantati, passi fantasmi tra sospiri inquieti, sguardi di fulmine, raggi spenti ingrigiti.

Qualcosa esplose, interruppe l’oggi senza l’indomani.

Fu pira innalzata con intrecci umani, fronda di braccia, gambe, capelli.

Clessidre di sangue scendono, gocce rosse coagulano sull’asfalto craterizzato. Eruzioni di paura, lava che affiora dai pensieri pietrificando la vita, coperchio del nulla sul baratro della vita: la luce saluta il destino morente.

78 La Passione secondo me

Le lacrime della terra morta si asciugano con schiaffi di sole su crepe disseccate e scarti opalescenti di petrolio.

Le bocche restano mute mentre il feretro passeggia con le sue mille gambe e le sue mille voci interiori.

Il corridoio ansima, sino a far percepire un canto, spezzato tra le note, tra sapori quotidiani, e fumi urbani.

79 Il massacro della carne si compie senza sangue, senza un corpo: solo angoscia di sintesi che si solleva dai petti battuti.

Immagino pigramente il fluido scarlatto sporcato di azzurro, sdegnatamente la mistura vinosa del sangue e dello spirito colliquato dalla noia e dalle corte speranze di un uomo qualunque.

La saliva ed il denaro si impastano nei sentieri di fango tappezzati di nero e di porpora, la macabra recita si inabissa nella strada, nel sudore trasparente, nella voce incrinata che interrompe l’ascesa della preghiera.

Carni bruciate, carne di legno, prati di chiodi sulla pelle secca, il sangue non brilla: cerco l’ombra e temperature più miti.

La preghiera si spegne nella gola, il bicchiere è vuoto, la bottiglia si rompe in mille pezzi, il vetro scintilla toccando il suolo.

Lo sguardo si impolvera di terriccio, la bocca mastica la pietra, il cuore zoppica, la collina si alza ripida senza il fiato del petto, come divenisse montagna, come se toccasse il cielo, come illudendomi che ci sia qualcosa in alto.

Le cicatrici si aprono sull’orizzonte carcerato dai palazzi tra sibili di cuoio che straziano l’aria.

80 Il canto rimane in basso, con le sue parole biascicate appesantite dai filtri elettrici e dal bisbigliare formicolante di tuniche e panni, lucidi e neri.

La cera non lacrima dalle candele spente, il sole le rende vane, sconfigge il fuoco e le sue pretese smodate, mortifica la fede.

Quel corpo consunto e riarso è sgambettato dalla folla che non lo vede.

Il miraggio allarga la passione, il cielo è il sudario, la terra bruna è piagata con i suoi solchi allargati.

L’orizzonte si verticalizza come un palo di legno, pesante ed odioso, spina atroce, aguzzo come tutti i chiodi, di tutti i giorni, di tutta la vita.

Preferisco non guardarlo.

Il balsamo dolciastro dalle cucine mi inganna lo stomaco, le curve suadenti spezzano il protocollo serioso ed incrementano il battito, le anime pesanti passeggiano sul viale di teste devote mentre l’orchestra sospira con veemenza dentro gli ottoni lucenti.

Il ciclo della vita si accorcia nel mistero triste di un uomo diverso, il suo tempo si ripete, nella rievocazione solenne della condanna del peccato,

81 scandita ed urlata per orecchie sorde: crocifiggilo, a morte, crocifiggilo.

Non patisco la sete di quel corpo percosso, non lo sento morire ad ogni passo, ad ogni gradino superato a stento.

La polvere ricopre i suoi piedi nudi, gronda il sangue, ingrossa i grumi ancora caldi.

Non mi riempio di quel respiro mortificato e pesante, scappo via dal bilico, dal baratro, da una visuale di fine.

Mi distraggo mentre muore.

Morirà ancora, ed ancora una volta.

82 Donna di carta

La disegnavo inginocchiata nel silenzio di un prato deserto.

Deturpavo la stagione, deprimendo il sole e colorando gli scenari delle mie tinte umorali con predominanza di bianco e nero.

Gli spazi larghi delle idee non violava con la sua posa calma, quel contorno dolce che si traduceva in fotografia incorniciata da panorami ariosi.

83 Viveva nei modelli dinamici in serie, estrapolata dai rari fotogrammi, da sguardi incidenti volatili, dalle sensazioni in crescendo sfumate alle nostre spalle.

La delicatezza mi feriva, nei giorni distratti ed impolverati, per i passi non incisivi, per le frasi sterili, per una meravigliosa e timida incompiutezza che lasciava solo scarne voragini.

La foschia quotidiana apriva il varco agli sguardi, ai desideri nostalgici, alla poesia sedata da troppe sconfitte.

Ero un ladro senza occasione, rimanevo uomo, sognante e pigro.

Un ritratto incompleto, un ritaglio irregolare, una scultura non finita, racchiudevano le forme amabili, impresse nelle pagine numerate di libri scritti per non essere letti, nelle date che riportano a labili entusiasmi di gioventù.

Il profumo buono di pelle si confondeva con l’odore della terra su cui mi gettavo, su cui mi rotolavo, su cui giacevo, sempre più stanco, sempre solo, sempre scontento.

I fiori scoloriti dal passato in fuga a ritroso l’adornano della solita grazia semplice.

Le parole rilette sono dediche non morte, riaprono il sorriso in quella bocca mai vissuta, regalano finali

84 non scritti ad una storia nata su sospiri di carta e lasciata in sospeso come un progetto fallito.

Mi concedo il ricordo, lo trasformo, senza modificare il suo viso, provo pure a varcare il limite del sogno.

Sentirla dentro, però, resta sempre e soltanto un pensiero di carta, senza peso.

85 Immaginazione

La notte è appendice della sua chioma.

Il vapore bruno si contorce profumato, modellato come seta docile dai tentativi delle mani e dai sospiri tolti alle labbra.

I suoi capelli si posano su quel tempo lasciato all’amore ed agli sguardi, alla fatica confusa con il sonno come se lo imbrigliassero fatalmente.

I suoi occhi sono appendice del mio sorriso, si cercano e si seguono, nomadi felici nelle brevi praterie in penombra.

86 La sua gioia è cattura e vertigine liquida e densa, prigionia affamata e rincorsa estatica.

Il volto poi si nasconde nella tregua pudica, le spalle si inarcano, le palpebre si chiudono, petali che si chiudono sulla corolla.

Il fiore si reclina sul gambo.

Perdo il contatto della pelle con mani aperte e vuote, il suo sguardo riposa in una nicchia di nero: i due corpi sono soli nel deserto, soli in due deserti distanti, senza tepore di primavera.

Le mie mani diventano ombra, il mio corpo si raffredda come un giardino d’inverno.

Perdo il suo sguardo nei prati d’erba sterminati, tutti gli astri sono spenti.

La notte ritorna appendice della mia immaginazione.

87 Nastro di Möbius

La notte magnificamente m'illude che ogni giorno appena giunto non sia un nastro di Möbius capricciosamente dilatato e neppure inverosimilmente un nodo stretto; poi mi sotterra nella nicchia serena in cui il mondo mi ha posto e dimenticato.

I pensieri sono rami cresciuti attorcigliati in una zona estesa di aria spinosa visivamente catturata, mentre le radici induriscono nei loro grovigli terrestri espansi, tentando un deciso sprofondare nel suolo carnoso delle idee.

Gomitoli allungati dalla penna anneriscono di fili afoni e variamente circonflessi, le pareti della

88 stanza: sembrano capelli, catene e fruste che evocano un dolore già rimosso, una fatica ciclica, il dovere imposto, l'abbandono spossato. Ho il sospetto della voragine, se lo trascuro accelero temerario verso il precipizio. La notte è pausa ed emozione, fermarsi e ripartire, poi è violenta corsa sullo slancio di un'inesauribile inerzia, forzatura dolce di situazioni improbabili ed invenzione di impalcature oltre il sipario scenico delle palpebre, inserimento di attori e sapori, ombre minori, urla silenziate da un ambiente già attutito dalla sterminatezza del sogno.

L'atmosfera è ipocrita, il pubblico ha abbandonato la platea e vociante si dilegua.

Il vento soffia negli acufeni che si distaccano dall'orecchio e poi lo trafiggono, conficcati come aculei nel sudario dei suoni sospesi e delle parole uccise.

Un unico applauso mi avvolge con un unico richiamo, un unico suono, concentrico e malato, compassionevole ed intenso, un piccolo vento che esce dall'incontro rapido di due superfici fuggevoli, quasi senza attrito. La sciarpa è attorno al collo nelle fasi contigue di freddo, del brivido, del tepore e del caldo,

89 9 mentre il giro solenne e crudo dell'orologio sul polso descrive la fine continua del tempo. Le stringhe delle scarpe costringono al passo flemmatico un'inconsulta frenesia di gambe, il compasso danza con l'unico piede di grafite nello scenario candido ed imbrattabile del foglio e l'anello scivola dal dito e rotola musicalmente sino a perdersi. Il tutto si ripete allorché ricomincia.

90 9 Favola

Balbetto favole tra i cammini solitari, tra tentazioni astratte e realtà precipitose.

Un solo protagonista percorre i canali occasionali battuti dal vento, nella ciclica riproposizione di una stagione unica, dolorosamente lunga.

Sono ancorato a pensieri che assorbono nella noia umori non solidificati e succhi emotivi che si innalzano come scintille audaci e ricadono come cenere leggera.

Calpesto visivamente i mosaici grigi di un cielo autunnale rivissuto attraverso i rami secchi e le finestre continue, poi annaspo tra coperte accartocciate, penisole di pigrizia e di calore

91 gradite, territorio sterminato di sogni a tratti scomodo ed irritante.

La favola vive la sua dimensione divergente, io l'ho abbandonata per godere della mia oasi sterile, quindi ne ho perso il copione, la trama, l'immagine sorridente di un lieto fine evitato.

Le settimane trascorrono, senza sottrarmi l'opacità ed il ritmo blando, la passiva commemorazione di un tempo diversamente vivibile, le occasioni sfumate, le corse frenate, all'improvviso e senza ragione, del sangue nelle vene.

Balbetto parole di carica vitale, con la fatica che le spezza, con i denti che masticano aria e nella grinta spengono gli occhi strappandone i contorni di futuro.

Non penso a correre, parto stanco, c'è andatura poco sostenuta, fatica che affiora da muscoli provati ancora turgidi.

La solitudine mi coinvolge, come se sentissi il respiro, non mio, come se frammenti di parole appena dette fossero il vocio del mondo accalcato dietro una parete sottile, non scarti biascicati di malumore limitati ad una stanza stancamente vissuta.

La finestra un po’ distante è dietro ai miei occhi e di fronte alla vita.

92 I passi sono conservati nei piedi posati, la favola perde le pagine di sogni non ricreati, l'amore rattrappito è un ricordo senza rimorso, naufragato nell'impeto solitario e nelle scariche occasionali di un piacere diverso.

Il protagonista tace fermo, la carrozza l'ha persa, i suoi piedi non trovano il ballo, le sue mani non hanno altre mani, quindi si alza quasi angosciato in quel grigio che sa di notte spezzata, cercando la finestra come via di fuga disperata e felice.

La voce irrompe nel vento muto della camera, poi si zittisce mentre aumenta il respiro, il ritmo, il battito, mentre il pavimento dietro una porta sbattuta diventa asfalto, erba, terra, campi seminati di desiderio, ed allora io corro, io urlo, io vivo, scalzo, nudo, senza pietre in tasca, senza freddo dentro.

Ritrovo la vita.

Aspetto una nuova favola.

93 Esterno urbano

Le luci di case e lampioni macchiano le mie spalle già appesantite dalla sera, sembrano quasi spingermi verso un ritorno, verso la fine del giorno.

Sono nascosto dai vertici ispidi dei palazzi agli sguardi variegati delle stelle non raccolti da un viso basso.

Le mie dita si tendono nell'aria come nodi sciolti, come rami secchi piegati dall'insistenza del vento, e si conservano fuggenti nel tepore sagomato del cappotto.

Le parole sopravvissute sono fiacche e non hanno amici a cui raccontarsi nei segmenti rapidi di un esterno urbano subìto come un precipizio breve ed orizzontale.

94 Ci siamo io, il vento isterico ed i treni che non passano, le nuvole che lisciano la luna, gli sguardi su angoli casuali e rette improvvise su cui mi illudo di infinito con lentezza puntiforme.

Il sipario della pioggia accorcia il finale della scena ripetuta, lava le impronte labili ed i numeri arabi di una data già estinta nell'agenda in tasca.

L'indomani è silenzioso, non svela futuri movimentati, deludendo con il solito torpore speranze e proclami folli.

Accelero l'ombra nel passo verso casa, la disoriento accendendo la luce.

Rivesto di notte la nuda pelle senza strati: le restituisco la mimica stanca prima di sferzarla di penombra.

Ci pieghiamo in una fessura di buio e dormiamo insieme.

95 Sorriso di luna

Un'unghia innocua senza smalto laccato, in bilico, non affonda con sensuale solco nelle fredde distese buie che coprono frenesie di dita nascoste ed appetiti umidi.

E' solo un ingenuo sorriso tagliente quello di una luna senza consueto spessore.

Residua un incavo eccessivo al nero della notte, troppo, esageratamente lasciva, quasi delicata col suo tiepido ciglio di luce.

96 Dinamismo e stasi

Circondo di sguardi le traiettorie gelate ed i sentieri di evasione.

La notte allunga il viaggio dei miei occhi sino ad essere il filtro dei sogni.

Correre è un delicato camminare sulle scie dell'immaginazione, sui futuri costruiti su fiato e condensa con irruenza e cautela.

Le parole non dette risparmiano l'emozione di un momento non ancora vissuto, la musica tende a sopraffarle, l'ambiente ad assorbirle.

97 La frenesia diventa un volo ardito, le ali non stridono sulla strada ed il cielo ha il mantello lacero.

Mi concentro tanto su variazioni statiche di silenzio ingannando i miei sensi tra fede ostinata ed erotismo soffice.

Il bianco si scioglie tra le nuvole annerite dalla sera precoce senza lasciare disordini liquidi per naufragi imprevisti e fermate inopportune.

Il freddo è l'istante prima, l'emozione insicura, instabile, volatile, il brivido nascosto e mortificato, la paura grande che diventa sbadiglio, l'eventualità tramortita.

Gli sguardi cercati non diventano voce a cui dedicarsi, il passato non ha cupi riverberi che disorientano la coscienza, il miraggio diventa tragitto infinito e libidinoso, quasi galleria untuosa.

Il deserto bruciato dal sole di un passato demolito, sarà ombreggiato dai tocchi languidi della luna, luccicante di umidità e freddo, e lo sentirò dentro di me, nei contrasti dilanianti con le passioni e l'estro, i desideri ed i disegni incisi su ogni metro del percorso.

98 Solco le stagioni miscelando il tepore al ghiaccio con foga che non interessa ogni segmento corporeo.

Non parlo e non forzo il rumore, quasi lo isolo: il silenzio è avvolgente, ricopre gli attriti e le voci del vento sfiancato dalla mia corsa, i battiti indecisi delle gocce di pioggia sulla pelle insensibile del vetro.

Le montagne si inceppano nei piedistalli innevati, paralizzate dall'inverno che le congela dietro la mia nuca che cerca sequenze successive in rapida evoluzione.

Gli sguardi svaniscono, trasfigurati nel mio viso, violentati da desideri veloci, avviliti e poi mutilati da rifiuti perentori ed odiosi, uccisi dal crepacuore dell'assenza.

Sono stracci che il vento disperde, come giorni di un tempo che non c'è più, non hanno più un volto, non hanno umanità.

Dinamicamente ingoio il mio passato nell'inespressività statica del mio corpo, nella fissità del mio assetto, calpestando zone poco intense di tempo con indifferenza ergonomica ed il sentimento concentrato per la meta.

Il viaggio è continuo, anche dopo l'arrivo.

99 Nell'ora fredda

Nell'ora fredda non ho un cappello da far precipitare sugli occhi.

Le tenebre spariscono nel letto, le nebbie contaminano i sogni.

Nell’ora fredda non ho coperte che mi scaldino ma veli di angoscia quasi profetica.

Il nero inghiotte l’eroismo di un viandante pigro nella voragine fobica dei rimorsi.

Nell’ora fredda il brivido solleva la pelle poi sarà solo indifferenza la terapia del futuro.

Dormire non nasconde il passato, è un tentativo delicato di mimetismo.

100 Nell’ora fredda le sagome inerti prendono vita sfidando un’alba improvvisa.

Il corpo è fermo, inchiodato da uno sguardo perso al cielo basso di un’anima greve.

Nell’ora fredda il rumore pare neve che imbianca sequenze oscure continue.

Il senso di rassegnazione invecchia e corruga lo sguardo, labili sentieri d'empietà non lo ravvivano.

Nell’ora fredda lo specchio è appannato da sequenze rallentate di sbadigli.

La tensione si mimetizza nella tregua plastica degli arti.

Neppure ritrovo il tepore in un’ultima emozione.

E’ finita l’ora fredda ed è iniziato il sonno.

101 L'aura

Ho sentito la fantasia del cielo che ti fasciava, premermi della sua spinta.

Era la tua voce, il tuo respiro, il tuo profumo, addosso a me.

Dolcemente audace, come se tu decisa lo volessi, come se mi chiamassi.

L'hai ripetuto per dirmi ci sono.

Mi hai guardato senza incrociarmi.

Sapevi che ti vedevo, che ero là per te.

Mi hai sfiorato il corpo con il tuo.

102 Mi hai detto che non sei fatta di lettere. Mi sono girato e ti ho seguito, ti ho desiderato, su una scia che non ho calpestato.

Qualcosa ci lega.

Non eri solo poesia: l'aura di una presenza, mani che toccano la schiena, invisibili, con il tuo viso che correva via di profilo mentre ci staccavamo.

Lo so.

So che mi ha sfiorato il cielo, so che vorrei raggiungerlo e viverlo. So che ti aspetto da tanto, troppo tempo.

103 Respiri

Un respiro prolungato fugge via da cavità umane e sembra quasi vento, diventa quasi musica, quasi canto.

La fatica ed il piacere si alternano in quella bocca che si attacca all’aria, e si disperdono in quella stessa aria riempita da un viso e da nuvole di fiato.

Aria è un mare che non bagna, un tuffo costante, un abisso orizzontale e verticale, senza fondali, senza pesci, dove correre e stare fermi.

104 L’aria ha il limite di una tinozza di cielo, immenso ed impalpabile, non liquido, che la contiene tutta, schiacciando visivamente corpi puntiformi.

Della stessa sostanza dell’anima, ingoiata da una cavità di carne ne ha smarrito il peccato, fuggendo via verso l’alto, leggera.

Un respiro prolungato pare quasi divenire voce, un urlo ed una smorfia, un uomo ed un animale, forme alterate, il verso di un’ombra sfregiata da luci bianche schizzate all'improvviso.

Un respiro è fluido caldo su cui far scorrere la parola, da far sgorgare copioso, come sangue, come seme, come poesia, come vita.

Nel movimento dei corpi, la pelle plasmata dal vento si ribella alle chiusure geometriche, alle forme già tracciate, alle danze studiate col moto degli arti, e codifica la voce interiore, lo zefiro modulato, lo smarrimento breve, la dissoluzione continua.

Mi confondo con il mio ambiente bevendo ossigeno dalle narici, soffiando calore e memoria labile di uomo nei miei liberi percorsi.

Temo sempre di restare solo e di soffocare, ma vivere non è solo un respiro.

105 Il cielo curvo

Il cielo si incurva nello sguardo di un piccolo uomo.

Parole troppo deboli scrissero per lui un destino esile.

La carta si lacerò con il respiro animoso del vento.

Si raccoglie nei colori rappresi nella mappa piegata di un mondo breve, quel cielo catturato.

Solo quell'uomo nell'ambiente disadorno, profilo affilato ed ombra larga come un orizzonte sulle pareti: il suo viso è una terrazza mobile sulla terra distante, un’isola umana risucchiata da un oceano drammatico.

106 Il cielo stropicciato dal vento incolore di un fiacco tramonto non si rianima con il riflesso inscurito del mare.

E la notte non racconta le strie candide delle onde, sorda alle urla del vento, non corrotta dai sogni dei marinai.

L’azzurro di ieri foderava di luce e d'azzurro tutte le finestre: il piccolo uomo alterava la forma delle nuvole con sguardi non sequenziali versati dalle fessure irregolari della stanza.

Lo spazio è la sfida cieca, la domanda senza risposta che circoscrive il futuro.

Il cielo è un prato rotondo nel ritaglio incavo delle orbite, macchiato di stelle, nel buio totale non ha un colore definito.

Era pieno di questo cielo, una coperta impalpabile nella piega dei suoi occhi: una cornice di brivido e sorriso contornano un viaggio promesso ed atteso.

Non hanno colore i suoi occhi, vagano in alto per non toccare l'abisso, marinai senza nave, improvvisamente distanti dal suo piccolo corpo, silenzioso e sottile come un punto solitario.

Luminoso e solo, come se fosse la prima stella della sera, minuscolo e buio, come se fosse l’ultimo uomo del mondo.

107 Inadatto

Il guscio esterno inviolabile sembra toccare il mio sguardo.

Il grigio della pietra dilaga sulle mie mani dal primo contatto con le dita che l’indicano.

La forma si slarga nel tempo e nello spazio, come a coprire il cielo con un pianto di metallo.

Il piombo è solido e geometrico, senza variazioni sostanziali, qualche crepa, come rughe in un viso.

Vedo le fessure nere mimare l'abisso che ho intorno.

In una fessura di luce povera, disegnata da una

110 candela, bruciano ossigeno e ricordi. Le finestre guardano i miei occhi, senza espressione, sembrano cercarli nel deserto rabbuiato di un volto solo, per strada, di un uomo debole ed inadatto.

Resto smarrito nel senso grande di una solitudine che non ha ancora definito i limiti, nell’angoscia squadrata di cemento diffuso e di aperture logiche e misurate.

Mi sento schiacciato da una verticalità imponente che trafigge la terra e nasconde il futuro.

La vertigine abbassa il mio sguardo ed ammalia un affannoso equilibrio.

È solo un ricordo adesso quella che fu prigione: il blocco divenne sogno e sentii solo aria nei polpastrelli in cerca di pareti, il vuoto nella mia corsa libera nei corridoi bianchi del vento contro.

Mi manca il confine da superare, il contrasto con il troppo colore di ogni nuovo giorno: nei miei occhi creo una nuova prigione per dimenticare questo eccesso di libertà.

L'abitudine crea nostalgia anche fuori da un ghetto.

Adesso sono soltanto un uomo troppo libero.

110 Curva su linea

Tutti guardano ma nessuno sa vedere.

L'oggetto inanimato si anima e vive.

La condensa è acqua da bere, il vento disseta di aria la ricerca di respiro.

Divento uomo nel brivido che uccide inerzia lunga ed estensioni sanguigne di tramonto.

La mia donna è tocco su superficie fredda, una curva che si posa su una linea.

La mia donna si brucia di ogni nuova fiamma che libero nell'attrito intimo, nella corsa senza strada, nella tensione soffice.

L'incendio toglie il velo nero della sera come in un trionfo di candele rosse; accese, descrivono un altare

110 nascosto dai chiaroscuri: la preghiera è due mani strette, giustapposte e poi intrecciate.

Voi non mi vedete, io sono nei suoi occhi soltanto, e lei in me e ci imprigioniamo nei nostri sguardi.

Nell'ambiente-notte filtro dettagli diurni sminuiti e rigori stagionali gettati fuori dalle coperte, mentre labbra trattengono sapori delle sue appena raggiunte, sagomandosi di un sorriso grande per un indomani senza tempo.

Ma voi, pensatemi come una penisola di felicità privata, guardatemi senza poesia dai vetri fumé.

111 Autobiografia corretta

Agito ogni più piccolo segnale negli alambicchi emotivi.

La stanza al buio pare senza pareti e confini ottusi: le tende nere sugli occhi liberano il mondo con uno sbadiglio.

Carrucole di spago sostengono sogni invertebrati, stratificati su materassi di carta moneta.

Il fumo crea gradini molli per un’ambizione smodata, per passeggio rilassato e stelle da accendere o spegnere con il telecomando.

112 Trovo sostentamento nel brivido e nella parola, preferisco la voce da espellere al cibo da introdurre.

L’intuito mi fa toccare la fine come fosse il più perfetto dei presagi.

Dileguo le zone di gelo ritornando su passi già calpestati, strofinando i piedi sulla polvere già sollevata.

Respiro la mia aria, torno nel passato come un pendolare metodico tra due mete costrette.

Il respiro è libero, le funi nell’aria sono opzionali, niente le sospende, neppure il soffitto di ghiaccio di un giorno d'inverno.

La voce si dimentica tra pensieri qualsiasi, afoni e non musicati.

Registro frazioni fulminee prima che la memoria le divori.

Il vortice di silenzio è carnivoro, mi inghiotte nei dilatati istanti vissuti ad occhi aperti.

Temo di non ricordare, più che di non vivere.

Il vetro degli alambicchi si incrina, ed ondeggia il liquido come un mare in un pianeta di cristallo.

La notte diventa il piccolo scrigno di oro e gioielli che non brillano, nel buio parte la musica del

113 carillon per i minuti previsti dal meccanismo fiammingo.

Il valore è inestimabile ma tutt’attorno c’è povertà e disagio.

I confini pungono come lana su pelle sudata. Lo spago è stretto come un cappio al mio collo, sopprimendo le vocali nel pozzo lungo della gola.

Gradini di fumo trovano vento a disperderne le pretese.

Mi siedo qualche istante sulle gelide scalinate di un purgatorio mediocre.

La luna incattivita si allontana nelle fauci del cielo, come un’isola nell’universo.

La parola non mi basta, cercavo amore nelle strade e silenzio per il mio piacere.

Ho lasciato perdere le riflessioni, le sensazioni, il passato subito, il presente scontato ed il futuro dedotto.

Il nastro su cui scrissi il mio passato nutre le fiamme riscaldando le mani intirizzite. Ho iniziato a vivere dentro la più grande delle bugie.

Ma adesso, quasi senza troppi stenti, vivo.

114 La farfalla dalle ali di neve

Una farfalla dalle ali di neve si perse nella notte.

Cercò fiori e profumo nell’aria rivestita di gelo.

Confuse le luci con il sole non conoscendo né gli uomini né le stelle.

Vide palazzi come steli grigi senza corolla, senza nettare, amari ed umidi: li puntò con le antenne timide.

Irraggiungibili.

Una farfalla dalle ali di neve trovò le luci di Natale nel brillare alternato dei resti di gioia umana nelle distese di nera solitudine.

Immaginò prati e primavera, verde e colori.

115 Immaginò quadri vivi di quella città intorpidita, natura e giorno in quel reticolo scialbo di viali e strade cosparse di fiori di cemento e fioche lucciole elettriche.

Perse la sagoma delle ali, sbiadite dall’inverno, rigide senza il veloce battito, restando sospesa nella nostalgia.

Ricordò il passato senza rivedersi crisalide, ricordò le danze su per i caldi corridoi d’aria.

Ricordò la danza ed il contatto con i petali, quasi come un bacio, quasi come un arrivederci.

Dimenticò la brevità del suo tempo.

E falde di neve spezzarono ricordi e le fragili ali rivolte verso un volo sognato come un amore senza volto, come il vestito più bello per la festa più attesa.

Il cielo azzurro dell’indomani rimase l’abisso nero di quell’inverno indossato.

Cadde giù.

Di nuovo verme.

116 Biglietto d'aria

Il tuo movimento raccolgo tra altri che non hanno nome.

Ti ricompone la luce che ancora non ha la parola.

La stessa imprigionata in quel fiato, a cui graziosamente mi dedicai in quel chiarore astratto, si sporcava di buio e di porte socchiuse e suoni differenti da prestare al silenzio.

Un movimento ti ha ricomposto negli occhi, nella brevità di quelle luci strane e di suoni volutamente non sentiti, nel desiderio da ricercare il giorno dopo con coraggio e timore.

117 Non più solo ombra, né fluente chioma: un nome hai ravvivato nello scambio della parola sospesa tra due sospiri.

La notte per due sotto neon improvvisamente meno freddi, la notte per due, sotto differenti cieli che diventano indirizzi e distanza.

Hai un nome da rigirare tra le labbra...

E me lo rigiro tra le labbra… ancora ed ancora una volta... il tuo.

118 La sirena dell'oceano breve

Nuota nella carta vecchia la sirena sola, tra pagine vuote di racconti non scritti, senza scogli di inchiostro ed isole di salvezza.

Copre il petto con un fremito della mano mentre libera la melodia, proteggendo un brivido dal fascino della paura.

L’aria e l’acqua si incontrano nelle isole di ghiaccio.

Il canto annega nel latte senza sapore, senza vapori salmastri evocati dall’onda temperata.

Il mare è vuoto, senza muggiti di vento a spingere sogni arditi di legno e di stoffa.

119 Il canto è debole, senza marinai e miraggi tatuati.

Appoggia le squame dove non può cadere. La coda non luccica senza sguardi di sole ed orbite sgranate, disadorna, senza pizzi.

Sopisce il desiderio perché non può sedurre.

Non c’è il blu dell’abisso per dimenticare.

Una pergamena senza scrigni da aprire, senza occhi disegnati, senza braccia, senza passione.

La mano smarrita cerca tepore per il suo seno rimasto senza uomo.

La bocca che parla, la bocca che sussurra, la bocca che bacia, è una nave che non trafiggerà i centimetri dell’orizzonte.

Allora, c’è solo quel piccolo oceano bianco di mare carta per sparire: poi annega la sirena ed annega la donna.

120 Due passi

Con due passi dirado pigrizia su sentieri di vento senza pareti.

Con un passo copro distanze, con un altro giungerei da te.

Ne serve un altro ancora per tornare da solo, ma è come restare fermi.

È come non pensare, come non ricordare, come non volere.

Non parlare tra file di mie parole, disturbi sequenze fitte di solitudine.

Tagli collane di perle: mi fai scoprire che sono vetri opachi che non si colorano di notte e di altro tuo

121 respiro, non saranno acqua per la terra ma pietre che rotolano via.

Con quel fiato spezzavi il filo di seta e disadorna cercavi i miei occhi aperti anche di notte.

Le dita giravano sul tuo collo, non parlavano ma ti lasciavano sussurrare piano preghiere mormorate per un dio profano tra fumi di sonno.

Il tempo del soffrire più forte, il tempo che mi sentivi: poi la tua mano le fermava nella carezza che si chiudeva.

Finiscono là i miei due passi.

122 Ciao

Un esile ciao che non si è sentito, un esile ciao che non hai voluto pronunciare.

Poi il nostro lungo sguardo di pochi istanti piegato come una fiamma debole da un buio mite e da ali sfrangiate di gente.

Ti dico ciao adesso che non conta perché non lo senti, perché lo volevi prima, te l'ho letto negli occhi assieme ad un tremito.

Ora è più dolce, ora è sofferenza.

Ciao.

123 Una domenica

La mattina fodera di velluto bagnato i sentieri svuotati.

Non traluce il risveglio, di vernice nera appena versata.

Ditate d’acqua rompono bolle di sapone soffiate via da stupore deluso e pezzi scomposti di sogno frammentati sul cuscino.

Radi aliti di benzina annegano nelle pozzanghere le inutili corse, ed i miei piedi dalle punte in

124 tensione, cedono calore nei passi sul pavimento verso il davanzale.

La mia notte non è ancora cominciata ed il mio giorno è già finito.

Resto sospeso nel mio senso asciutto, sdraiato negli interrogativi placidi ed orizzontali di una domenica mattina.

Il mondo descritto da sguardi veloci dietro la condensa è piccolo e quasi fiabesco, pare una terra promessa di natura morta gocciolante e di geometrie di cemento che vorrebbero liquefarsi assieme al loro contenuto.

Il sole mi ha dimenticato dietro un fazzoletto grigio intriso d’autunno.

Abuliche pennellate di colore non diventano acquerello ma tratteggi indefiniti di un esterno.

La tavolozza dei bianchi e dei neri dipinge di sensazioni miste il paesaggio d'inverno abbozzato. Ma a tratti riesco ad ascoltare distinti cinguettii.

Una variazione ambientale è sempre possibile.

125 Virtualmente già Natale

Compro idee di gioia nei supermercati visivi.

Scelgo colori per occhi disambientati.

Scelgo tessuti per un corpo nudo.

Scelgo l’involucro per la notte speciale.

Corro per i viali brulicanti di ologrammi.

Viandanti spariscono ad ogni cenno di dita, aspirati dai negozi o da navigazioni nervose di chi li ha inventati.

Il freddo si nasconde nel domicilio forzato, nel letto senza ruote, nel futuro immediato, nella semplicità unica del tepore delle coperte.

126 L’aria non si inventa e non si compra. Un gesto aprirebbe finestre, regalerebbe respiro modulabile a paesaggi saturi di aria monocromatica.

I supermercati chiudono alla fine della notte.

Il primo sole è nella labbra della cassiera, ogni ammiccamento rovista nelle tasche e languidamente accarezza filigrane magniloquenti piegate a fascetti.

I sogni si appendono a monete d'oro col filo, alleggerite da poco potere d'acquisto, come fossero mongolfiere in una cassaforte.

I fiori sono appassiti nei vasi senza terra, perché l’acqua dà solo sensazione di umido.

L'ombrello rimpicciolisce il cielo, lo trafigge crudelmente e lo sgonfia sino a farlo sparire.

Il cachemire è logoro come un tappeto nuvoloso di inizio dicembre.

La festa non è cominciata, o forse è già finita.

Nessuno può dirmelo, gli ologrammi non parlano, raccontano cicli di frasi fatte da esibire boriosamente, poi, dei giornali leggo soltanto i titoli in grassetto.

Mi giungeranno leggende, fotografate come feticci patinati, stropicciate da danze oscene, stinte dal cocktail caduto addosso sul vestito con molta

127 nonchalance, cancellate ingenuamente dal comune oblio.

Distrazione e chiaroscuri inevitabili faranno il resto: non ci sono scrittori a recuperare favole nel fondo del pozzo.

La gioia verrà domani, non è scritto nelle carte, negli oroscopi fioriti, nella cabala dei maghi.

Nei corridoi percorsi con le scarpe sino al cuore, con i capelli trascinati dal vento, e con l’emozione incollata alla faccia, ci sarà la gioia.

I negozi sono illuminati dal sole, i neon tutti fulminati da fiondate discole, le lacrime di ieri derise dai canti scurrili.

La merce non si paga, la merce si prende, si tocca, prende vita con me.

Il mio letto è metallizzato, ha le gomme gonfie ed il motore ruggente, i piedi nudi sull’asfalto inghiottono aria ad ogni balzo.

La notte è lunga come una poesia non scritta.

Compro gioia a piccole dosi in questo frenetico domani perché è già tardi e verrà di nuovo la luce.

La materia poi si corrompe e la gioia finisce.

128 Battimenti

Della pioggia sento solo il suono.

Il contatto descrive col battito la materia colpita.

Creo l'idea di acqua e la tensione di una goccia, la caduta e la percussione.

I vetri vibrano, la terra si inzuppa, il metallo è muto.

Continuità senza musica: quella è dentro di me.

Un sottofondo timido racconta archi e dita di un uomo assente, tentazioni di pianto, pozzanghere in cui annegano passi di corsa.

Tappeto soffice, scudo sottile: solo una melodia prima che il sonno la soffochi.

Poi è non sentire neppure la pioggia.

129 Spomenik*

Inciampo nella mia insonnia che dilania futuri ed innalza spomenik mentale di matrice opposta ad un estro duttile.

Il metallo è freddo, come la pietra, come l'erba bagnata di un mattino anticipato.

Il letto è caldo di schiena e di braccia adagiate, di una sagoma inquieta che ha impresso insicurezza con fiacchi tellurismi somatici.

Il giorno è freddo, nei colori che circondano gli occhi, nelle forme che intagliano paesaggi e sintetizzano natura ed arte dove c'è deserto perdurante. Solitudine lunga, larga, estenuante.

130 L'uomo manca nel paesaggio, il futuro è imposto, non si crea, non genera, ma ricopre un mondo di mondi sovrapposti e sovrapponibili.

Sono parte dell'ambiente, vento e respiro, aghi di pino ed unghia, sangue e fiumi che scorrono, ossa e pietre che scalcio con acustica ammutolita.

Passato e polvere, raggi di sole appuntiti si sono smussati, il nucleo incandescente è sbiadito nel pallore ideologico che ha partorito giganti inerti.

La pioggia lava passato e polvere, abbatte nugoli caotici di sospiri miei e della terra, quasi frena i venti.

Argilla dilavata si incide con la goccia tenace, la pietra si arrampica verso il cielo come un dito che divarica il verde dei prati, solletica un cielo plumbeo odoroso di terra aperta.

La geometria ricorda il tempo, ricorda profili umani, gesti, sudore, rumore, il lavoro, l'ordine, l'inizio e la fine, i numeri.

Sembrano foschia solida quelle forme di cemento: apparizioni constatate da scetticismo blandito da un sonno deluso, rivelano la compiutezza di un pregresso progetto.

La glaciazione crudele della carne estingue venti e colori.

131 Il sogno diventa pietra, vivere è soltanto sonno codificato dalla regola urlata da totem amorfi.

Me l'hanno ordinato. Ora eseguo. L'avvenire non ha sole.

*ndt: Gli Spomenik sono i futuristici monumenti che il Presidente Tito aveva fatto costruire per tutta ex Iugoslavia per commemorare i caduti e i luoghi della Seconda Guerra Mondiale e dei campidi concentramento, come Jasenovac e Niš. E per ricordare a tutti la forza e la solidità della sua Repubblica Socialista Federale.

132 Stella fredda

Isole distanti senza parole, senza fiato, senza pelle, senza risposte.

Non vogliamo.

Non ci riusciamo.

La tua voce l'ho immaginata in quelle sensazioni che non mi restituisci.

Sono parole mie, racconti, brani, poesie, sconfitte emotive, croci sottili.

Però ci sei.

Scivoli da un viso scavato che ti guarda con romantica amarezza.

133 Il rimpianto muore nel tuo silenzio ostinato, in quel respiro che non tramuti in voce.

Raccontavo di te, di sensi non cresciuti, appariva un amico, poi un'amica, dissolvenza di comparse.

C'eri tu attorno, mentre parlavo di te.

Ti ho notato, come sempre.

Ma eri stella fredda stasera, ed io stella calda, caduta, ripescata da una voglia immensa di vivere, di amare.

Osservo la mia notte.

Un silenzio rubato ai ritmi festosi, io che mi rileggo nell'eco dei miei pensieri disordinatamente insonni che non trova ostacoli in un mare troppo colorato di notte.

Appari, urla, scrivimi.

134 Un bimbo

Violento ed innocuo è quel pianto. Orizzontale tremore non smorzato da limiti geometrici e da vento assente. I rifiuti schiaffeggiano morali in deflessione graduale, sbattono su pareti di cemento compatte e lunghe, ricordano un cammino non finito appena intrapreso. Un racconto progressivo senza particolari, solo panorami sfumati, sbavature smemorate, nessuna base d'appoggio, solo riposo obbligato ed ansia che domina ogni desiderio, ogni possibilità, ogni immaginifico supporre altro. Cubi su cubi, di luce e di buio, la postura inquieta è imposta.

135 Ho sete, ho fame, ho caldo, ho freddo, ho sonno, ho paura. Non ho codici espressivi, non ho ancora voce. Non decido io la venuta della notte, la ricomparsa del mio sole nella gabbia senza soffitto. Scisso dal concetto di vita, anche se la sento in me. Emetto un suono, emetto pensieri che semplici parole non descrivono. I gesti si confondono con le ombre di un sonno forzato. Il sorriso è lontano, un disegno sulla bocca. Soltanto io mi trovo nella foresta di immagini. Vegetali tutti, mobili e fermi, creature di gomma e lana appese su ombre spigolose. Fremo anche se è notte, con la pelle, dentro la pelle. nualtro. Sono solo un bimbo.

136 Cera d'autunno

Respiro e tocco l'aria cerea attorno.

È rappresa nella molle indolenza scolorita di un sole d'autunno.

Cattura zone celesti e pensieri affacciati sui davanzali timidi dello sguardo, senza accorciarmi il respiro con fiacchi stimoli decadenti.

Un alveare di emozioni volatili, di miele insipido, di profumi nostalgici e speziati, si sfalda nel cassetto che si chiude.

Vanità ed arabeschi decorano specchi opachi e fumi verbali interrompono futilmente continuità di denti

137 serrati; poi muoiono nei droni infiniti ed estatici sul tappeto monotono ed ispido, tessuto nelle pause inerti tra silenzi e tedio.

Le immagini spariscono dalle pareti, il bianco dilaga senza stravaganze fiorite, sensazioni gommose ammortizzano cadute di stile e di tensione.

Cera calda si intiepidisce.

Le dita sognano magie soffici damascate ed orizzonti da solcare con gli occhi, curve ed abbandoni casti.

Zattere di pelle, vele di luce, venti d'ossigeno, dilatano un corpo, inondano la vista.

Le navi corrono veloci nelle fauci larghe del tramonto.

Un fazzoletto di stelle asciuga rimpianti, si sporca del nero muliebre di un viso sconvolto, si lava con lo spasimo cruento di ininfluenti poesie e di tormento lirico.

Reticoli di sangue e di dita sfidano le ombre infittite.

La passione dorme dopo l'urlo, dopo il rossore, dopo la cera calda, gocciolata, piano, piano, piano.

Cera tiepida si raffredda.

La candela si è spenta.

138 Senza peccato

Non ho peccato nelle mie corse tra pigri viali di notte.

Ho scelte rapide fughe per sentieri noti.

Ho ascoltato la voce densa di sapori di vita ed i suoni su cui si annoda.

Non ho peccato negli sguardi dedicati al cielo nero ed all’alba improvvisa.

Ho spento desideri in un mare che pareva vino, creando deserti e laghi di solitudine nelle terre degli uomini.

139 Sono annegato nella tranquillità, nel mio sonno, dopo aver toccato l’involucro umido di un giorno nascente.

Non ho peccato sognando calore e confondendo sudori inerti con rugiada.

Il mio orizzonte è rettilineo sullo sfondo estatico che riempie i miei occhi, ma non mi distraggo con altro sguardo, con altre forme, con altri sensi, con altra vita.

Non si interrompe, non si spezza come un filo di seta fragile, tra differenti tonalità che cercano di mescolarsi, prima di ritrovarsi nella compattezza del nero.

Non ho peccato nella tentazione della penombra, nell’invaghimento olfattivo, nel turbamento sconcio di mani e dita, rallentato e poi sedato.

Nascondo il peccato di un pensiero in ogni parola.

Ne pronuncio tante.

Poi seguo le linee del viso senza scivolare sulla pelle.

Mi faccio parlare alle orecchie da labbra chiuse.

Scivolo sulle rotonde nudità con ingenuità casta.

Il mio tocco affonda senza dolore, cade nel vacuo senza aprire ferite, poi danza nella dimensione di carne, col tremore di un insostenibile ritmo lascivo.

140 Senza peccato riesco a viverlo.

Senza peccato non riesco a vivere.

141 Senza poesia

Stelle pugnalano un cielo nascosto dalla luna e da alberi immaginari.

Non cadono: restano conficcate in uno sguardo gettato nell'attesa vana di una fermata morta, in un tempo rivestito di afa, inutilità e polvere.

Mi muovo tra debole brezza e speranza, tra sospiri che sostano e passeggiano ed aerei che confondono gli occhi ingannati tra strati torbidi di cielo.

Non vedo l'orizzonte tagliato da volubili scie.

Non c'è ascesa mistica ed ingenua di desideri ingigantiti da un fantasticato bisogno affettivo.

142 Guardano in basso i viandanti tra dialogo ozioso e gli slalom umani impacciati, cercano i neon e le nature morte contenute nei loro cerchi pallidi.

La mia parola manca nell'aria senza vento, la risparmio con formali cenni di arti in fuga.

Istanti aridi da calpestare, da dimenticare con ogni passo, si perdono nel retro di un giorno quasi finito.

In quel senso di fine cercavo scintille vivaci, pesci di fuoco nuotare negli oceani del cielo, schegge di materia diventare infinito e nulla assieme.

Spengo le luci attorno, dirado cespugli e siepi dai sentieri visivi rivestiti di raso blu scuro.

Siamo io ed il cielo, noi due soltanto, nella veranda di una mezza estate tollerata.

Gli occhi cercano speranze profane e senza sostanza da fare precipitare da vertici supposti.

Se credo di vederle, cadono quelle gocce di luce mortificata, sul mio domani.

Ma nel sonno scettico non cade quella piccola lacrima cerulea che avrei voluto dare alla terra.

143 Una sirena

L’acqua cammina lenta su progressive dilatazioni circolari. Crei cerchi invisibili di una notte infinita, sirena annoiata sul filo di cielo liquido di un lontano orizzonte.

Ti sei persa nella deriva di solitudine: senza navi che solcano il velo nero della tua acqua, senza un uomo che si inebri stordito dalla tua voce.

Sogni mani impudiche che scoprano dolci il tuo corpo sino al lucido guizzare della tua coda.

144 Il mondo degli umani pare distante, sordo ed isolato da uno strato di cera, come in un abisso superiore di terra ed ossigeno.

Il canto tradisce le lacrime, la brezza le nasconde tra gli schizzi: attutisci il pianto annegandolo tra i flutti.

Inghiotti con pena il tuo senso di mare, e le tue squame non si riscaldano di pelle pulsante.

L’onda spegne il sole, il mare lo divora.

Tu cancelli il tuo viso, il tuo desiderio in un deserto fluido disumano.

Non ci sei più.

Ritorni pesce.

145 Buonanotte

Ho sentito i tuoi occhi tornarmi dentro, scivolare indietro per centimetri intensi.

Hai letto ogni parola che ti scrivo mentre vivevi la tua sera.

Ho espulso un emozionato ciao, ho sentito felicità e pianto poesia, nascosto nella musica, nel brusio, nel ristretto orizzonte cilindrico dei bicchieri.

Sono fuggito a guardare il cielo, dove non c'era nessuno ad appendere romanticismo e desiderio ad un orizzonte liquido, ad un cielo speciale.

Ti avrei scritto, ti avrei vissuto.

146 Ho sentito i tuoi occhi tornarmi dentro, come fu in quel tempo lontano.

Ho sentito anni di silenzio sciogliersi in ogni angolo che ti conteneva.

Ho sceso le scale chiedendomi come faccio a dirtelo, come posso rendere le parole abbraccio, carezza, bacio.

Sei la mia persona speciale, solo tu.

Ho sospeso il mio mondo, vorrei continuarlo con te. Buonanotte.

147 Fatuo ritratto

Una mappa imprecisa di me, definisco coi miei occhi puntati sullo specchio.

Soffusa sul vetro e sul mio viso, una tenue luce che indosso a mezzobusto, raggiunge la mia stanza.

Appaio a me stesso, nel silenzio contemplativo di due occhi smarriti dentro un perimetro perentorio di sé.

Eccomi presente nelle due forme mondane, di carne una, di percezione visiva l'altra, per un incontro muto.

Pare una foto, anticata dai languidi chiaroscuri e da lampade castigate, quella sagoma che mi rappresenta senza sostanza.

148 Il mio volto accarezzo con l'alito, perdo il nitore nella piccola nube di condensa rigata da un dito.

Occhi chiusi non vedono che buio.

Occhi aperti si spalancano su di me, sorpresi tratteggiano la geografia della mia faccia, le zone spigolose, l'orografia essenziale di una mimica appianata senza sussulti interiori.

Le labbra sono chiuse in un silenzio non voluto, strette l'una sull'altra, chiudono il respiro in un'espressione composta e seriosa, senza sorriso, senza candido brillare di denti.

Non cerco rivelazioni intime, non mi concentro su velleità di matrice ormonale, né su vortici esistenziali.

Le guance si rilassano, sgonfiate di tensioni messe da parte, senza rossore.

La barba punge il polpastrello che disegna una scia sotto le gote, quindi gratto il dorso della mano scorrendolo sotto il mento.

Le dita stropicciano gli occhi, come a spremerli e ravvivarli per un mancato stupore, con il contraccolpo immediato di una palpebra dischiusa.

La mia lingua inumidisce angoli secchi di bocca, urta sull'ispido alone dei baffi e poi torna dietro ai denti nel consueto suo riposo afono.

149 Cerco il mio corpo nel senso ibrido di luce e buio che si mischiano, incidendo rughe e variazioni dalle tinte ristrette e deboli su campi circoscritti di pelle.

I capelli luccicano anarchici, piegati dall'acqua e dalle mani che invocano forma per ciocche trascurate dai pettini.

Ogni gesto muta il mio viso, lo nasconde, lo smaschera.

Poi mi svelo, trasfigurato nella parete riflessiva.

Lo specchio mi cattura tra movenze e sembianze ipnotizzate; beve aspre gocce del mio profumo, spruzzato con automatismo, tra morbidi cenni estetici in auto-dedica e bruciore alcolico puntiforme.

Non vede altro, non prevede altro.

Non mi sente, non mi parla: non dialoghiamo.

Si affievolisce ulteriormente il chiarore.

Sparisco: non ho più un'immagine.

Rimangono i sensi.

Soltanto.

150 Cielo spento

Il sonno sfoltisce il cielo delle sue stelle.

Asciuga gocce dense di una luce raccontata da occhi e da bocche.

L'ho vissuta esili istanti, me ne impregnai nei movimenti futili.

Poi me ne spogliai.

Ho respirato nella notte umida il sospiro di un'estate senza slancio, moribonda senza enfasi astrali.

Il mare giace sospeso nella sua incoerente orizzontalità placida, senza ampie linee prospettiche e soli infervorati da annegare.

Panorama muto, senza vento, senza parole.

Neppure Venere punge lo sguardo.

151 Ora tutte le stelle sono cadute da un cielo basso di desiderio inflazionato.

Restano incisi sulla pelle del mondo, voli aerei lontani, e l'audacia di barche che scivolano verso un infinito di tenebra.

Affondano nei miei occhi.

Come pianto di cenere.

Come desideri, tanti, delusi, dimenticati.

152 6 Agosto

Non dà risposte un mare diviso da sguardi che lo tagliano in due orizzonti.

Ho immaginato dolcezza e le ho dato il tuo nome e le mie parole.

La poesia rimane scritta nei ricordi di notti d'estate.

Non c'eri, ti escludevi dalle frasi che precedono il sonno, dalla mia emozione che sa di te.

153 Non hai mai volato, credi che non volerai. Non importa se è estate od inverno: avrei fabbricato le ali.

Le mie, le tue.

Resti ferma, con il tuo viso che non supera il sogno, che non supera la linea di una risposta.

Tu con la tua espressione che vorrebbe cercarmi, riuscire a trovarmi, sentire pelle e fiato, con quel viso nascosto dal buio e dai miei occhi distanti, con le gambe, che in una notte qualsiasi, normalmente ti portano via.

Un lembo di veste di cielo sparisce nell'angolo degli occhi.

So a chi appartiene.

Vorrei riapparisse. Con me, seduta sul mare, in unico sguardo di una terrazza di cielo.

154 Ruote sottili

Solchi piano la notte affondando i pedali nel nero umido di un agosto sfiancante.

Sembra che ti debba vedere ogni volta io esca di casa: è come se lo volessi, è come se lo sapessi.

Sei miraggio e muro, meraviglia ed incapacità: la mia, la tua, naufraghi distratti nel nostro mare di silenzio, nelle nostre strade, nei nostri sguardi, sempre paralleli, sempre scostati.

Allora ti scrivo come se fosse respirare, e come se respirare fosse evocarti, riviverti, rimodellare passato, ammutolendo tremolanti futuri.

Ti chiamo senza emettere voce, ti rincorro con gli sguardi che vorrebbero parlarti, aprirmi ed aprirti.

155 Il presente è in quei giri lenti di gomma che scorre, nell'alternarsi di gambe che danzano sui pedali, in quel viso che si volta schivando aria e sguardi, che riesco a catturare.

Quelle ruote sottili mi calpestano, sul mio letto, nero di notte e di asfalto. Quel viso che amo è già parecchi metri avanti.

156 Lettera

Trattengo la vista di te in una mia zona inesplorata.

Ti ritrovo qua, dove mi hai ispirato, dove vivi per me coi tuoi sguardi, e non li evito.

I tuoi sorrisi aprono le tue labbra sulla tela e sulla carta.

Li traduco in stupore che si fa parola, non si perdono tra la sabbia inghiottita da un mare di notte.

Sospesi nei sogni come foto stese ad asciugare.

Non te lo dissi mai per voce.

157 I tuoi occhi non me l'hanno mai detto: preferirono il silenzio.

Ma mi cercano, ancora.

Io lo so.

Vederti è rubare scatti: occasionali ed indifferenti.

Non squarciano i segreti veli della tua purezza.

Ora scrivo come se mi leggessi, come se potessi capirlo, come se mi risponderai.

Forse mi senti, forse queste parole ora sono in te.

Sono per te.

158 Fiammiferi

Sono fiammiferi al vento i miei giorni.

Esili si perdono nella confusione del sole.

Soffia il tempo celere sulle capocchie facendo danzare pensieri opachi.

Il colore vivo muore annerito.

Uno spasimo di fumo contorto dipinge nei cieli al tramonto sospiri neri.

Sono un fiammifero che si accende.

Piango sotto il sole, nella mia estate di aria rarefatta.

Brucio ed illumino involucri colorati che rivestono una legnosità nascosta.

159 Il fuoco mi ha risvegliato.

Ardono apici sulfurei, ambiziosi puntano il cielo. Fuoco consuma il mio ossigeno, rende forte ogni mia parola: poi mi lascia il deserto nella bocca e segni di carbone nelle mani.

Il tempo mi scuote, insofferente, raramente felice nei ritmi ondulati della mia fiamma.

Spegne i fiammiferi sui bordi scuri della vita.

Spegne i giorni sotto la cappa della notte.

Poi la testa bruna si sfalda tra due polpastrelli.

160 Già ieri

Si ricompone tutto nella notte disfatta.

Rade macchie di mattino e lenzuola che mummificano pelle fredda gettata plastica su di un letto.

Il sogno grande scivola nell'alba, come un brivido furtivo su pelle, che attende il sole per trovare quiete.

Oceano di coltri bagna la terra umana, isola i sensi dentro un concetto di tepore.

Naufrago indolenzito dentro una storia piegata: un respiro lento ed una clessidra che nasconde la sua sabbia nei velami di notte morente.

161 La luna è un occhio gelido su scenari scarni di sagome continue, di corpi inquieti, di luci flebili e variazioni puntiformi di rumore.

Il silenzio è trafitto dai sibili che sfrecciano nei corridoi d'aria.

Il calore circola lento nel sangue senza emozioni, nel digiuno di passioni che attorciglia un uomo al tessuto.

Narcotiche nostalgie comprimono un corpo, ne rubano il respiro, si sciolgono drammatiche sul piano morbido come scaricate dalle tenui tensioni di arti sotto il cuscino.

Ristoro ed oblio chiudono i miei occhi, uccidono quello che è già un tempo appena trascorso: salutano ironicamente l'oggi.

È rapido, troppo rapido, è già diventato ieri.

162 Una giornata al mare

Il mare si decentra negli occhi deviati.

Affluenti di sudore sono corde oblique senza ristoro, senza suoni vibratili, senza cattura.

Cerco pause critiche e silenzio mentale, colgo fruscii di vento e voci mistiche di mare.

Le mani si sono riempite di rena scostante, furono già piene di curve di donna.

Quanti di caldo invadono narici, invadono pensieri di estremo nulla.

L'ombra muore soffocata tra pelle e sabbia.

La seppellisco tra strati subdoli di acqua, crepata da un istantaneo brivido.

163 Mi macero di sale ed arsura sino al tramonto che termina il tempo.

Mi sollevo come un golem risvegliato, senza un richiamo, senza un contatto.

Senza ricerca di verità sollecito le mie articolazioni.

Con cenni sospirati di malinconia, comprimo l'ambito dei miei passi, scostandomi dalla sensazione acquatica.

Volgo le spalle all'orizzonte ferito e rosso.

Sono un sole puntiforme ed opaco.

Torno a casa.

164 Insolazione

Unto di sole, il mio viso fermo si posa docile in equilibrio su di un instabile orizzonte africano.

Crepe di cielo raccontano una luna in tono dimesso ed astri falliti, pendenti come lampadine fulminate, attaccate al soffitto d'aria con capelli di iuta.

Il mare annega nei miei occhi, seccato da un sonno che li chiude, mentre coriandoli di sale imbiancano una notte precipitata anzitempo da un universo ristretto.

165 I libri si aprono come gabbiani annoiati dalla terra ferma.

Confetti rossi impallidiscono tra i sudori della toga. La fionda sfida il sole con vendetta elastica ed ironia biblica.

La musica fomenta i battiti di mano, i fumi grossi di bocche viziose, tremori di piedi sulle superfici molli, mentre scalmanate chiome garrule imperversano su afosi saliscendi d'aria.

Mobile nella sabbia come mercurio senza bulbo di vetro, mi cospargo di farina bionda e calda, cedendo liquidi al contesto arido che mi immortala nel centro immagine.

I pensieri diventano acqua, scrollata dalla fronte con due dita profetiche.

Le scaglio nel turchese fluido come giavellotti olimpici senza fortuna.

Forsennato mi immergo in me, disciolto in una natura morta inacidita dai bagliori verdastri di stelle leccate dai neon, schizzato di tramonto come una lametta da barba inesperta su di un volto glabro.

Scintille di sangue sembrano lacrime su di un corpo oscuro, fragole tra panna che addolcisce una cosmesi perduta.

166 La fotografia le dimentica: il flash è spento, il fotografo si è addormentato.

E' estate pure per lui.

167 Un tramonto

Le ombre si fondono nelle strade del tramonto, come un tuffo nel sangue.

Gli occhi si riaprono sul cielo accessibile, come un viso che riemerge dalle acque.

Libero il respiro con il movimento di mani nude, sciolte da altre mani, non accompagnate.

Mi riempio di brezza, di secondi che scorrono sull’orizzonte struggente.

168 L’uomo solo si ferma sulla calma tagliente di un gradino.

Mi sono intossicato di sole ed ho alterato i miei sensi di desiderio diffuso e caotico.

Il tatto ha investito senza premura oggetti e persone.

Il pudore non sfidò mai l'eccesso.

Le carezze sognanti nascondevano tagli già decisi, non concedevano altra poesia.

Sfioravo viandanti dai nomi volatili, intabarrati anche con la canicola.

Mi raccontavo la storia illanguidita di un pescatore di sguardi e della sirena muta senza sentire la sete e la salsedine.

Rilessi pagine rivolte ad un’immagine, riscoprendone colori non sbiaditi e la lirica nei versi dedicati ad un volto mai mutato.

Poi ho schivato piacere e dolore: sono caduto, ho corso, ho lottato guerre morbide ed incruente tra i cuscini, sobillato rivoluzioni insonni per palpebre cadenti su incantevoli tappeti sonori.

Ricordo la paralisi ed il sudore, il peso, il senso di rotolamento disegnato da un ciclo senza fine.

Furono mesi ed altri ne passarono.

Ho stretto mani, ho posseduto mani, ho amputato mani.

169 Ho sofferto nella parola, molto di più per il silenzio. Ammutolisco la recita verbosa dell’attore.

In un teatro vuoto e largo, io ed il mare ci guardiamo, ciocche ingrigite e nuvole scarlatte.

Il vento alza i capelli e sparpaglia le nubi.

170 Nulla e nient'altro

Il pavimento è in bilico secondo il cuscino.

Il caldo ingrandisce le zanzare nei pensieri.

Il silenzio pare soffiare come un vento fitto di fischi.

Le ginocchia portate in alto e le gambe flesse sono monti senza neve.

Sono sciolto, quasi spezzato, unito solo per comporre un facile futuro o per reinventarlo, da qua a poco, senza sostanza.

Disegno la mappa del mio disordine prima di pianificare i giorni che verranno.

171 Musiche, a tratti, escono fuori nel mutismo della stanza: filtro il pianoforte e barlumi di armonica, separandoli da elementi vocali non graditi.

I respiri sono sottili come il volo delle dita prima che incontrino i tasti.

Scrivo annoiato, dimentico di srotolare le calze, mentre, meccanici movimenti di braccia fendono l’aria contro le zanzare impudenti e contro parole rimesse in sterile libertà.

Il tono lento delle sensazioni inconsistenti illustra l’agonia del giorno già morto.

Trasognato continuo nel conto alla rovescia di un crollo ben descritto da orbite annerite da ore già trascorse.

Stanco di crogiolarmi nel tiepido reflusso di contenuti nulli, mi abbandono definitivamente sul cuscino, pianeta soffice dall’aria rarefatta, insistendo sul tessuto con il viso, sprofondandovi con la punta del naso.

Potrebbe essere ieri, l’altro ieri, invece è oggi.

Cercherò l’immagine migliore per definire uno stato d'animo, dimenticando che qua è tutto di un'unica tinta.

Adesso tutto è nulla e nient'altro.

172 Lei

C'è quel mio mondo di frammenti ed evanescenze notturne.

Poi all'improvviso giunge il tuo sguardo, il tuo candore, il tuo vestito, il viso che mi hai donato in un ritratto che ho amato in silenzio.

Ti rubo sempre quelle difficoltose fotografie scattate nei labili e furtivi rettangoli di sguardo.

Il mio desiderio si è piegato alla tua purezza, umana musa.

173 Soffro la parola che manca, i metri che separano, i corpi che si incrociano nel dilemma della timidezza e del rispetto.

Mi incanti, ti evito, mi incanti, ed ancora di più ti evito.

Se ti scrivo è perché cerco la tua lettura, perché il mio sogno continui in quello tuo, fugace e denso tra le mie lettere.

Non conosci quanto del mio sguardo ti vada incontro, quanto riesca a vedere tutto di te, quanto tu sia sostanza di poesia e smarrimento, di sogno adolescenziale nella grigia deriva di isole monotone di maturità.

Sono fanciullo quando ti vedo: nel batticuore, nel fremere, nel gemere, nel cercarti in qualche modo, nel donarmi a te.

Il mio linguaggio è articolato col cuore nel silenzio stellato della notte.

Ancora una volta, parole mie, tutte, soltanto per te.

174 Acqua di giugno

Una notte lunga accorcerebbe la recita diurna.

Limiterebbe aridi scenari, odiose cifre, colloqui fitti, comparse e prime donne.

È come se indossassi il sipario di seta nera di una notte attesa in illogico anticipo, tentando difficili mimetismi.

È come se non posassi sul mio viso il peso di una maschera, per non intersecare la sagoma di porcellana con le rughe e linee sudate di un viso, per non

175 ingannare ed ingannarmi.

Preferisco il teatro del mare per smarrire stati d’animo confusi e melanconie barocche.

Ha il suono strumentale improvvisato dai soffi di un timido vento delicato su quella pelle mutevole azzurra e verde che cerca fuga ai quattro lati, da una cartolina disegnata da occhi.

La gente è nei ritagli di immagine, e le forbici saettano voraci ed affilate nell’esclusione drastica da un paesaggio da svuotare: la memoria la lascia sciogliere nel sole passato, regalandomi follia solitaria e labile audacia.

Movimenti evanescenti d’ambiente seguono la manovra di un vento rallentato.

Orizzonte calmo con rari ciuffi di mare sollevati nel panorama glabro.

Odore di pelle, sabbia sulla pelle, lucertole di sudore.

Sguardo fisso sull’orizzonte calmo.

Sguardo che cerca tra le onde sfrangiate misteri raccontati dall’acqua che si imbianca nel diventare schiuma.

Viaggio nella mia andatura, nei piedi che soffrono cercando la battigia.

Poi.

176 Poi, i sensi afferrano il mio stesso respiro, le dita scrollano la sabbia e poi scrollano acqua fingendo sia materia densa.

Poi il corpo si immerge pesante.

Poi il corpo si muove, lento.

Il corpo solca le acque, richiudendole.

Affonda ed affondo, risale e risalgo.

Il mio sguardo cerca la sabbia, schivando un azzurro contrasto, levigando dune estrose in un cambio di orizzonte non forzato ma perversamente voluto.

Mi asciugo ad ogni passo cercando la terra.

E’ ancora presto per la notte.

177 Sirena

La luna versava il chiarore sul pavimento del mare.

L'orizzonte umido incollato al cielo di notte non tremava.

Invadevo con lo sguardo lo scenario largo senza essere coinvolto dal mantello argentato, senza immersione e senza paura di abisso.

Non c'era freddo per le braccia nude.

178 La pelle è liscia sotto il velo sfuggente del bagnato: un senso, l'odore, un altro senso, il tatto.

Immaginavo il mio corpo scendere, le mie parole affondare, il mio respiro divenire bolle: gli occhi bruciano, il freddo si intensifica, i suoni lontani, stracci di luce, stracci di mondo, colori tremuli di mondo.

Non avevo l'invito per la festa.

Come un intruso mi avvicinai alla veranda marina, sedotto da una luce verniciata maliziosamente dalla sera gradevole sul mare d'estate.

La terrazza degli occhi, l'inganno dolce della caduta, le sequenze verticali brevi allungate come un sorso centellinato, sapore salmastro, labbra gonfie che sembravano distaccarsi nella caduta senza vertigine, fine liquida, dolce, violenta, quasi muta.

Poi bolle, solo bolle, tante bolle dietro di me.

Le parole si disperdono, le poesie si sfaldano, i racconti si sciolgono nell'acqua nera, un deserto acquatico, un universo denso di vita che non vedo.

Tocco squame non illusorie, sento pelle non mia, aria nell'aria gorgogliante, i fianchi cinti, un corridoio rapido di ascesa, la nuca piegata da mani gentili, luce intensa.

179 Salire, salire, salire, come nascere, l'ossigeno come una membrana spessa, poi aria luccicante di una notte non ancora morta nell'agonia deserta della sabbia.

La luna era ferma nel grande tondo di cielo con il suo pallore enfatico e con la sua estasi obliqua.

Un tonfo breve nel nero, breve come un saluto accennato: un corpo sparisce tra le frange di luce.

Bagnato aspettai il sole dell'indomani.

Asciutto attendo sul ciglio del mare che sia di nuovo notte.

Ho scritto per lei.

180 Spaccatura, distacco, perdita

Spaccatura, distacco, perdita.

Non ha altre parole la distruzione.

Gli sguardi ed il respiro sono di polvere.

La pelle ed il cuore allungano il tremore della terra.

I battiti sono sotterrati dal tonfo, la geografia è dissacrata.

Una voragine, un buco, un punto e basta.

181 Una fenditura, lunga come un serpente, una virgola tra periodi di angoscia.

Il crollo è di tutto.

Il panorama si sfalda.

Il futuro muore.

Non ha parole la distruzione, solo lacrime di memoria.

Le rovine non raccontano, giacciono inerti.

Spaccatura, distacco, perdita.

Le parole dette tra i sibili del vento.

Le parole che sollevano la polvere.

Il cielo è di nuovo lontano da me.

Ancora di più.

La terra divora i giorni della mia vita.

Spaccatura, distacco, perdita.

Il vuoto è ovunque.

Ovunque si precipita.

Spaccatura, distacco, perdita.

Solo polvere e pezzi di uomo.

182 Lettera non spedita

Disturbi il sonno con quelle labbra che non si muovono.

Ho dimenticato come si leggono.

Era una notte di fine estate, un altro tempo della vita.

Non ti ho cancellata.

Posso riavvolgere quella sera ai bordi dell’acqua, all’infinito, correggere la paura, la timidezza per conservare un mistero, poi quelle spalle girate, quelle mani nelle mani di maschere, strade e volti, incroci a luci spente.

183 So come trovare le parole in me e non ha molta importanza: cerco io chi mi legga dentro, cerco chi mi parli.

Gli sguardi ti cercheranno e rimarranno muti, come se per non essere rapiti si nascondessero.

Mi blocca il desiderio più grande, il viso più amato, la parola più importante da dire.

So solo scrivere, pensare, scrivere e riempirmi gli occhi di ciò che sa di te.

Già sono prigionieri.

Ogni notte me lo racconta.

Ogni giorno me lo fa vivere.

Non importano gli anni che ci oltrepassano come un equatore tiepido.

Ha il tuo nome l’insonnia, l’irruenza delle frasi che pretendono spazi bianchi e l’attenzione dei tuoi occhi.

Ora che ti ho scritto, mi ricorderò del sonno.

Non mi basta, non mi può bastare, è solo un'altra lettera per te.

184 Cartolina di uno sguardo

Un cenno inatteso ti ha regalato ai miei occhi, prima che fosse notte.

Gli sguardi sono andati nelle direzioni opposte, sui viali apparsi spenti e vuoti, improvvisamente senza degna meta.

Gli occhi non possono darti la parola, solo catturare i tuoi, estendendo un piccolo tempo lungo un metro di asfalto ed anni di emozione.

La cartolina di uno sguardo ha il mio ed il tuo volto, timidezza e desiderio, sparsi in quel segmento di noi che corriamo via.

185 Quello che c'è in noi non ce lo siamo mai detti, come se fosse il segreto più grande, come se fossero le parole più belle.

Le mie dita sono silenziose ad accarezzarti di poesia mentre dormi, impalpabile, quasi vana.

Tu sei nell'immagine, io nello spazio bianco di dietro, tra quelle righe riempite a penna.

Te la spedisco di notte: leggimi, rispondimi anche con uno sguardo intensamente muto.

Buona notte.

186 Centralia

C'è un senso che ha il colore rosso e viscoso nuota in una fenditura nascosta di una città abbandonata.

Solca il tempo nelle sue regolari contorsioni con l'abilità liquida di molecole elementari.

Freme il suolo della mia pelle come un'irritazione, un bruciore da sfogare.

Genero la causa e l'effetto, con l'inevitabile e ciclica penetrazione, compressione e fuga, dolce e violenta, sensuale e tossica.

187 Le crepe di un corpo esteso di terra senza immagini impresse, raccolgono pioggia ed estese sequenze di arsura, espellono calore e fiati metodici ed insistenti.

Poi soffia il vento a nascondere resti di voce, ad accarezzare l'asfalto ondulato dei pensieri, prima che diventino piaga, prima che fuggano via.

La mia bocca sono tanti crateri di parole rarefatte nel tempo allungato e sconfitto.

E sembrano crocefissi gli alberi uccisi, sagome paralizzate che infilzano il paesaggio perché non cercheranno più il cielo, e nuovi palazzi non li sovrasteranno.

E sembrano uomini che dormono le pietre calde dagli annoiati ed irregolari sbuffi di veleno, accovacciati nel loro senso dinamico e fossile, come se raccontassero inascoltate un atroce spreco di risorse interiori.

Il giorno di ogni giorno è quasi notte, sempre, io sono città morta ma il sottosuolo vive.

188 La sostanza del calore

Troppo calore nasconde l’inverno ad un corpo rannicchiato senza sfondo grigio, senza un reticolo di alberi bianchi con i loro rimandi suggestivi, con una città che crocifigge il cielo sui palazzi estesi dalla notte, seppellendovi dentro volubili desideri e figure meccaniche azionate da un concetto mutato di festa.

Periodi troppo fitti azzoppano il respiro, mutileranno le rincorse verso un tempo già finito, perderanno motivazioni e gambe: i corridoi sono lunghi, troppo lunghi ed inginocchiati nei gomitoli sclerotici di scale.

189 Troppo calore ho provato in quelle isole di tempo, poi venne l’oceano a cancellarle nel silenzio della memoria.

Ho compresso un sorriso tra gli angoli delle labbra, l’ho incatenato dentro la bocca, quasi a farlo scivolare dentro la gola, tentandolo con quel tepore di aria che riuscivo abilmente ad articolare come una marionetta di sensi senza maschera.

La fine so ripeterla, in un ciclo sfiancante, nella fissità prepotente di un volto nelle sue incostanti apparizioni, costringendola a vivere nella metafora iconoclasta di racconti brevi, nei galleggiamenti su una tristezza troppo abituale per essere temuta, in un abbraccio solubile dentro scenari inumiditi da piacere svilito.

C’erano bambole e sirene a popolare coperte e mare, danzavo sui periodi di mezzo, ricavando frasi non annotate e pagine larghe per recuperare parti di me e secondi persi, scagliando bottiglie senza tappo verso linee perfette d’orizzonte.

Ora ci sono fili di fumo divincolati dal morso dei denti, con viziosa acrobazia di labbra, giornali e cronache di me, continue, esasperate, per raccontare di paesaggi senza dettagli, di guerre incruente, di continenti disabitati, di un paese minimo di un piccolo uomo solo.

190 Distante, non assente

Il freddo non si può misurare con le variabili del tempo.

Strofino le mani rallentate dal buio tramortito da un neon sbavato.

Cerco breve distanza per disegnare un'immagine di cui soffro le assenze.

Occorre distanza per vedere prima di sentire.

Quel volto è un'isola, naufragio, deriva, fragile e totale gioia.

Sono rimasto fermo per lasciarla perfetta ed eterna, come se ne traessi piacere, insoddisfatto ed immenso.

Il freddo è attorno, ho il calore di timide parole non dette da una testa girata.

191 Le nuvole sono troppo grandi per un cielo breve, per una luna dilatata e gialla che non riscalda gelide stelle, gli umori disidratati e labbra orizzontali lasciate senza sapore.

Chiodi sciolti abbandonano ritratti appesi denudando pareti.

Una breve distanza dipinge un volto, lascia il tempo di fermarsi senza percorrere spazi.

Non ha aggettivi l'emozione, ha sillabe lente e veloci, fermate e corse.

Ci sono umide poesie che impregnano mani scoperte e tentano dita frementi.

Mi distraggo su orizzonti mancanti: disegno un nuovo paesaggio sgretolando realtà e disanimando corpi di gesso e sabbia sulla traiettoria statica.

Solo il freddo si dimentica e non si conserva: so ricreare la pelle di un amabile contorno anche dentro un'insipida stanza.

Chiudo gli occhi: una finestra taglia la testa della notte ed i piedi del giorno.

192 Sporca

Eri sporca, e stavi su quella scala che ti prestava statura e distanza e ciuffi laccati di cielo per i tuoi sogni rapidi.

Il tuo corpo era scarabocchiato dalle esperienze, dagli isterismi visuali del trucco, dalla teatralità grottesca di un passato messo in valigia.

Ti incidevi frasi di libertà sull’amabile porcellana della tua pelle, ma eri schiava nelle tue pose viziate, nei movimenti regolati da etichette lascive, nell’obbedienza saltuaria a divinità zoppe e sorridenti.

193 Mi soffermavo sulle tue spalle, sulla tua schiena, sul pendio scuro su cui tramontavano le luci sintetiche ed i desideri di uomo che modifica il domani dimenticandone l’alba.

Eri sporca, per il mio piacere pulito, per la poesia da raccogliere pura, pizzicandola con le dita e sprigionandola nella solitudine insonne in flussi di sé.

Le parole le hai già trovate, nei tuoi rebus facili, negli enigmi che ti hanno reso una sfinge minore: un arcano avvilito da mani che ti hanno scoperto, afferrato, come se la soluzione fosse nei sospiri di turbamento, nel calore subito dissipato dopo fragili sfregamenti ed alcove improvvisate.

Sei sporca, su quella scala, su quei gradini che vorresti calpestare con i tuoi passi affilati e morbidi, con il ticchettio dei tacchi che scandisce la tachicardia del tempo, su quel marmo che diventa melma appena lo sfiori.

Eri pura, tra quelle lenzuola su cui scrivevo la mia storia, cercando la protagonista per non raccontare noia, e poi felice per impregnarmi di serenità intensa e di te, senza vertici caotici, per non chiamarlo mai ieri.

194 Eri pura: incrociavi l’orizzonte come un'onda nel mare, animavi uno sguardo, facevi trascorrere il tempo con l’idea di fermarlo, immutata nei nostri sospiri, danzando in ogni nostro intreccio.

Ora sei sporca, calpestata dalle dita, dalle mani, dalle voci aggrovigliate, dalla pornografia quotidiana che elargisci e ricevi.

Ed i gradini sono volti e ci passi sopra credendo che siano ciechi.

Urli dolore, ma è una nausea che non sai riconoscere e la nascondi nel tuo decadente.

Hai perso il tuo profumo regalandolo a tutti.

I tatuaggi brulicano sulla tua pelle come insetti.

I tuoi tacchi si spezzano.

Sei caduta dalla scala.

195 Pagina deserta

C’è un deserto verticale ristretto, largo e bianco come una pagina non scritta, che mi distrae dal cammino rituale.

I miei pensieri si rattrappiscono nella geometria del futuro.

Sono granulo di uomo, fuori dal mucchio di polvere.

Il vento è trascurabile e la sabbia è un piano indefinito di colore non variabile, uno sfondo senza eventualità, senza miraggi, senza estrose ondulazioni. Non ho sete.

La mia ombra prescinde il sole ed una notte che non precipiterà.

196 Sono fermo come un orologio rotto, in attesa di sciogliermi nelle sensazioni disfattiste di tempo finito.

Annullo il disorientamento nella fissità dei piedi, nella bocca che trattiene zolle di aria senza masticarla, negli occhi che non cercano fughe dal bianco, panorami nascosti, disegni di interrogativi astratti.

Non ricavo parole, ed ho le mani in tasca, come fossi un segmento piantato sul suolo, una meridiana che non tratteggia il ciclo del sole.

Un giorno escluso dalla sequenza della vita, un uomo che scopre di non sapere scrivere la sua vita.

Il linguaggio è agonizzante in un urlo non sprecato.

La poesia disidratata da una rigida posizione non rapita, non ostacolata.

Non ci sono forze da sprigionare, c’è una pagina da scrivere.

Non ci sono margini, metriche imposte, lirismi e fantasie censurabili.

Una pagina, una vita programmabile e di lato io non ci riesco.

197 Lei va

Lei va.

Il suo movimento non si è fermato tra le parole che le dedicai.

Le sue ginocchia cercano nuovi fotogrammi.

Lei va.

Lo sfondo rosso non muta, non sbiadisce.

Il taglio vivo dei giorni non ne hanno deturpato il viso, illudendomi fossero esili pause.

Lei va.

Io sono sagoma, grumo silente intrappolato nell’inutilità figurativa del margine, quasi distaccato da un coagulo scarlatto di tempo e passione.

198 È il tempo di lei prima che andasse.

Lei va.

199 Camera da letto

La pelle è sotto i tessuti con il suo profumo sfuggente.

Tra i sibili del buio c'è il fruscio del cellophane, le scarpe che paiono nuotare nel pavimento scuro dopo un tonfo che pare un tuffo sulla pietra.

La cintura cigola e le gambe si scoprono, la porta scivola in diagonale sul soffio d'aria emesso dallo spiraglio che respira l'autunno esterno, per poi socchiudersi dolce.

200 Il letto sfatto ed il calore di quelle pieghe, il freddo momentaneo del cuscino, scenario in attesa di me.

La carne è nuda senza i tessuti, i piedi sfuggono il rigore del suolo, la schiena si curva e poi si poggia, fluida ed orizzontale nello spazio calmo.

Oggetti silenti, io come loro, dimenticando la continuità dei sospiri, demolendo scarne memorie di recenti contatti con rapide chiusure degli occhi.

Ombre morte rivivono nei gesti noti, nel ricordo della posizione di ogni cosa, di attimi che fotografano un panorama non modificato.

La parola non serve, i movimenti si riducono, riflessi soliti, il giro di un corpo pesante nella sua orbita intorpidita.

Mi raccolgo nella mia fase intrecciata, murando orecchie nel mutismo della stoffa.

La parola non serve per far parlare i pensieri.

Poi si spegnerà tutto.

201 Insonne

Spezzo i giorni nell'incompletezza delle mie notti.

I sensi si venderebbero ad un nuovo profumo: il naso è schiacciato sul mio braccio, permettendo solo lenti respiri, rassicurati dal mio odore.

La bocca ha il sapore acre del fumo.

Gli occhi sono insipidi viandanti su un tappeto nero di stelle morte, senza la pietà di candele azzittite da un soffio.

La radio sospira nel suo basso volume imposto, musiche e voci che si intercalano a grilli ininterrotti, al sibilo ossessivo del buio, ai rallentati battiti.

202 Le nuvole spremute hanno versato poca pioggia ed i fulmini hanno artigliato il cielo come neon isterici, versando effimere luci sulla parete di foglie appassite.

Subisco l'insonnia ed allontano i sogni, piegando cuscini, cercando sollievo, nascondendo il capo al delirio dei lampi.

L'anima della terra sfugge dalle zolle ed inonda il davanzale e poi la stanza.

Il mio orizzonte si apre docilmente agli sguardi che cercano terre d'approdo.

Oscillo su una sensazione morbida, progressiva e vagamente liquida, di silente malessere, di abulia triste.

Gambe incrociate e viso appeso sul letto.

Pensieri vivi e pensieri scaduti si confondono nei calendari azzerati.

Uno sforzo mi raccoglie nel mio bozzolo tiepido, separato da un vento filtrato che lascio scorrere sulla mia schiena.

Le cadenze dell'acqua si sono arrestate, il desiderio non si è arricchito del disagio, del bisogno, si è affievolito dentro il modesto tepore.

203 Le mani afferrano lembi di lenzuolo, come se provassi piacere nella presa.

Esiliato dalle sensazioni compresse in un sogno, trovo appena poche parole in quei pensieri ingoiati, in quelle date di futuro vicino e confusionario.

Zone di me, stancamente si spengono.

La notte allunga il brivido, mi rimpicciolisco senza sofferenza.

Come una sconfitta indolore chiudo gli occhi.

204 Lungo il viale

Le palme sono ferme come dita che dormono in un autunno nascosto.

Calpesto il viale del sonno compresso da un cielo che avvolge la mia terra, il mio silenzio timido e devoto.

Quasi sonno.

Il vento non mi accompagna lungo la via della notte.

Il nero totale sembra un pastello che colora le sagome ed uccide vitalità tramortita.

205 Io ed i miei pensieri frementi e calmi, zoppicanti ed audaci, i soliti orizzonti svuotati da personaggi a danzarne sul filo.

Le narici sono assorte sui resti di un vizio riemerso.

La nuca attende di sospendersi nella morbidezza insonne del cuscino.

Ho immagini per me, sensazioni private, una natura improvvisa da incidere, un ricordo inutile, me, oscurità, variazioni non turbate dai richiami morfici, da quotidianità accantonate.

Mi struggo di quell'orizzonte su cui appendo ulteriori tappeti di mare.

Mi strugge quel cielo da afferrare con morsi di sguardo, e quelle stelle serene che paiono occhi sgranati di milioni di volti bui e miti.

Non ha voce l'oceano notte, non c'è brezza ad interpretarne il ruolo.

Ho fame dell'indomani, di divorare questa calma infinita e breve, per far scomparire queste improvvise pareti che torneranno cielo.

Dormirò per un inevitabile risveglio.

206 Rosso sul bianco

Oltre le pareti immaginerai il rossore silenzioso del fuoco per nascondere un bianco supposto, attorno, continuo ed invisibile, fitto.

Dentro le pareti, parole da leggere accenderanno vivide fiaccole, i tuoi occhi le faranno danzare sino a che le pareti aspireranno le sempre più esili code di fumo.

Prima delle pareti, le lanterne tiepide, inghiottite dalle foglie, disegnano nella tela d'inverno un delicato sentiero di pietra e di notte.

E solo un corpo lo percorrerà come una scia cieca, lo vedrai mentre si affretta lentamente, accorciando la distanza della casa, prima di tornare piega fetale di carne emozionata, inginocchiata nel tuo calore, raccolta nelle tue braccia.

207 Dentro e fuori ci sono ancora i tuoi passi ed il mio sguardo che cerca il cielo disorientando branchi di nuvole, la mia mano che ha trovato tepore e sa conservarlo, il nero che lascia spazio ai sussulti sincopati del sogno prima di conservare gli occhi nel letto.

Le nostre stanze ferme sono treni in corsa e noi saremo la reciproca fermata.

Non ci fermeranno le tempeste di cristalli scagliate dal vento in direzione opposta e contraria, neppure la mollezza gelida del mare, assieme uccideremo solitudine.

Non esiste quella neve che non vedi, c'è la lunga evanescenza del vapore latteo di un sospiro, lasciato dietro una porta che si chiude, di una nuova stanza che si apre, di un mondo rinchiuso nel suo inverno, fuori da noi.

Le larghe falde non seppelliscono il pensiero: cresce e vola, col mimetismo di una farfalla bianca che squarcia un'ostile notte, scappa da te e non mi lascia.

208 Il prato nero

C'è un prato nero capovolto alla fine del giorno.

Ci rotola sopra la mia testa mentre le mie gambe restano incrociate e ferme sul letto.

Ho i capelli bagnati, neri e lucenti, il sole li ha bruciati ed inariditi, sono fili sfibrati e grigi, vecchi, ma adesso l'acqua nera li colora.

Ho il volto cosparso di gocce, come fossero chiazze trasparenti sopra la pelle intirizzita, la barba timida che strofina nuvole impacciate, gli occhi arrossati dal vento che continua a fuggire imprecando sempre con la stessa cupa parola.

I fiori arsi non potranno marcire, il terreno è fertile e molle.

Il giardino calpestato lascia intravedere il cielo spezzato ai due lati.

209 Il profumo dei fiori di terra è precipitato giù rinvigorendo la vanità degli uomini, minimi istanti d'essenza sembrano vischiose e sottili lingue di miele, ballerine dense sulle mie labbra.

Le stelle sono vinte dal sonno, mentre sopravvivono sobrie ghirlande di lampioni stentati di arancione decadente, quasi malato.

Io corro come una palla sull'erba secca, disperato come un gioco da vincere, ansimante come un bimbo che si nasconde e vorrebbe perdersi per una vittoria macabra.

Ho le mie radici di carne rilassata, posate nell'intreccio morbido e caldo, l'una sull'altra, immobili come recise, affondate in un modesto deserto.

Il mio volto madido ha il terriccio sulle gote e sulla fronte e la stanchezza del pensiero, rotolamenti saniosi con angoscia di precipizio.

Il prato è grande nel suo spazio di otto ore di notte, terreno sterminato per il passeggio della mia testa, inquieta e nomade, come se cercasse una nuova luce in un'improvvisa botola.

Cadrà dentro quel buco di vuoto bianco.

210 Trovandomi scrivendoti

Il silenzio delle palme attutisce quel mare murato che cerca, muggendo, occhiate notturne.

Quei rami fermi, senza vento, trafilano la luna come pettini taglienti, sovrastando conifere boreali, inturgidite da un inverno che secerne la bianca distanza di un nord virtuale.

Lontani e pesanti sono quei cubi di sole, i recinti di maggese dai perimetri infiniti, le braci di sabbia da spegnere in un tuffo cobalto sino agli ultimi deliri del tramonto.

I miei soliti passi, con il solito rompersi secco di foglie disprezzate dal vento, si fermano nell’immediatezza di un pensiero e poi scivolano

211 lunghi e fitti, calpestando gli umori insicuri ed argentei delle lumache ed i crepitii di bacche sul selciato.

Ho un solito pensiero irrigato dal buio, da importanti ricordi.

Lo ricoprirò di lettere, lo rivestirai con i tuoi poeti andalusi ed impertinenti consonanti in fila dalle zampe ossute, nel bordone labiale che soffoca pregno e povero un lirismo trattenuto, orfano di vocali.

Non ci sono altre voci a raccontare notti dopo i soliti passi.

Mi trovo, mi ritrovo, nei cicli del giorno, della notte, del trovarti, del ritrovarti, dopo una ricerca pigra ed assieme disperata.

Per scriverti, sino a scriverti.

212 Carnevale

La tua maschera ha la pelle sottile che nasconde altra pelle e quei tuoi occhi sono incastonati nelle fessure dilatabili di una notte.

Sfuggo le zone di luce che si allargano su di te nel mimetismo sagomato dalla festa.

Sono io felino nel mio inutile randagismo ed assieme re nudo, senza corona, senza regina, senza trono.

Ci sono solo occasionali improvvisazioni di giullari grossolani per tenere a bada la mia distrazione, impigliata nei retrogusti di vino e carne più che nel reticolato erogeno dei collant sgambettanti alla conquista di un salotto buono e di chiacchiere semplici.

Il mio respiro si imprigiona nelle labbra serrate di

213 un personaggio di plastica e non procede oltre.

Faccio scorrere l'elastico della faccia imprestata sopra la nuca.

La mia tristezza so indossarla senza clamori, tenendola per mano come una dama esile e poco appariscente.

Il mio incanto è poesia, vive e muore della sua stessa emozione.

L'orchestra sciopera, il disco gira nella sua missione circolare, amplificato nella pochezza dei suoi contenuti, i balli si diradano, i sorsi si allontanano dal bicchiere.

Rimane il ghiaccio.

Il mio sorriso non è una maschera, ma l'ho posato altrove, quasi per un premeditato oblio.

Il mio sguardo filtra i coriandoli che zampillano dalle mani frenetiche e cerca la donna.

È arida e secca la pioggia di carta, cade troppo velocemente dopo imprevedibili volteggi per scriverci su.

Il salone è buio e senza specchi.

Ti ho visto anche nelle notti più nere e ti ho moltiplicata dentro di me senza il gioco antico dei vetri, senza indossare il vestito per l'evento.

214 Le maschere vivono nei cassetti e nell'inganno dei circhi, nello stupore monetizzato della corte riunita sotto il tendone senza re.

Il re passeggia in borghese, non è riconosciuto, magari ha già perso il suo regno vista la timidezza dei suoi passi, il disinteresse della sua dama.

I colori si sciolgono nell'acqua spremuta dal cielo e dagli occhi.

Un rubinetto aperto pare non gocciolare se la musica è forte.

L'emozione non dovrebbe esistere se non mi guardi, se non mi concedi un cenno, un saluto, una tua parola.

Questo non lo saprai mai.

Tu vedi solo il mio vestito trasparente e non sai leggere la mia nudità.

La maschera non ha brividi che corrano arditi e densi su lineamenti grotteschi.

Il mio viso so trovarlo in uno specchio occasionale, dentro il pensiero contrattile, intenso e caldo anche senza l'onomatopea del battito.

Poi lo concederò al sonno ed ai suoi richiami facili e pesanti, levando la carne.

215 Disordine (versione beta)

Cerco disordine.

Una rondine spezza rettilinei d'aria con inattesa e brusca parabola.

Cerco disordine.

La strada sega l'erba ed il cielo e mi lascia in tasca il senso di tempo già vissuto.

Cerco disordine.

216 I vestiti sul letto non raccontano inutilmente giorni passati, attraverso ogni piega di abbandono e con cenni fugaci di profumo sui colletti, e non rimandano più a vecchie occasioni perdute né ad un successivo rammarico.

Cerco disordine.

Il senso di sabbia sulle mani aperte, il senso di mare lontano la rende altra polvere, la doccia che piove su di me con i suoi pigmenti di calore, il corpo nudo, i vestiti, lo specchio.

Cerco disordine.

L'acqua lava il viso, il rasoio disegna zone glabre, il sorriso brilla, la luce piccola si spegne, cerco i neon, il passeggio, i volti, gli sguardi, i sorrisi che mancano, le parole ripetute, le frasi povere, l'orologio sbirciato, il furto emotivo sventato da una testa girata, le gocce, giri su me stesso, altri corpi, altre gocce, ed ancora altre, nuovo tentativo di furto romantico e muto, il fuoco non si accende, la sigaretta si, boccate in staffetta con piccoli sorsi, processi industriali in piccolo, veloci, improduttivi, nocivi, tossici.

Cerco disordine.

Modulazione costante di una voce, come il vento, come il vocio, come i secondi di ieri, dell'altro ieri, di

217 mesi fa, di anni fa, dopo aver iniziato a provare, a sentire, a vivere, a soffrire.

Cerco disordine.

Rinchiudo le frasi fatte nella bocca di chi non ascolta, disperdo versi, periodi, le frasi mie, prima ancora che tocchino la lingua le lascio nomadi e senza recinto.

Cerco disordine.

Coraggio e paura, lotta e fuga, disegni e poesia, mani illogiche che tolgano altre mani di tasca, il gesto inconsulto, amabile ed inatteso, voluto.

Cerco disordine.

Preghiera, carriera, vestiti, fiori, banconote, sole, le donne, una donna soltanto, sognarla, scriverle, non dormire, sfiducia, oroscopi, tarocchi, il matto ride e fugge via.

Correre veloci, musica, un grido, rompere silenzio, rompere un muro bianco e ronzii di motore, semaforo, neon sadici, alba distante, aspettative infrante, labbra secche, eccitazione scarna.

Cerco disordine.

La pelle dei quadri, la sessualità dell'autoritratto, l'orgasmo delle parole dense, il seme misto al sangue, il gemizio brillante, l'emorragia enfatica,

218 la carne che si impasta con l'illusione nell'illogicità delle lacrime, l'abbraccio, l'intreccio, il punto di fusione, lo spasimo filante, l'isola evanescente in un sogno schivato, esaltato nel suo riformarsi su pagine e pagine, uccidermi, rinascere, rivivere.

Cerco disordine.

219 Paisley* XXX

L'ispirazione si è dissociata in zampilli randomizzati di disegni paisley che spezzano righe e stuprano quadretti stirati con appretto, già rotti da impeto pettorale che discosta l'ingenuità delle asole dai bottoni.

Ho sentimenti blasfemi per le stagioni imposte, per i soli ondivaghi, per i soffi indecisi del vento, per le nuvole deformi e per l'afa destabilizzante.

Non tollero l'azzurro se viene nascosto.

Non tollero la danza di spighe moriture senza rossore di papaveri.

Amo i fiori ed il sangue, i muscoli contratti, le scollature dei monti dilaniati dal mare, il versamento

220 marino di succhi di sole quasi estinto a fine giornata.

Le lacrime non si bevono volentieri, salate, troppo, da indurre sete, faccio desiderare la sambuca dai bordi del bicchiere, come un appetito viscosamente seminale.

I corpi si venerano con la bocca beante nella processione della lingua nella fessura e con la parola ascoltata e scritta prima dopo e durante.

Esultanza fine a sé stessa, dispersione di disegni paisley su pelle nuda o vestita, orchidee dai petali dilatati sembrano sudare, trasudare voglia di antera pulsante di bisogno, giustificandola con l'istinto muto.

Silenzi ed oriente senza sapori, spruzzi assorbiti d'ambra e tentacoli indù con indifferenza per trimurti sentite di troppo.

L'insipido non ancora timoroso di arsura già combusta sussulta sulle labbra avide di sapori, nella danza minimale delle genuflessioni.

La neutralità dura poco: è un ballo breve, una musica che stanca gli organi ed i fiati, rattrappisce le braccia concentrate sugli archetti, le dita flesse sulle corde.

221 Provo sapidità tattile, il salmastro scansato disorienta polpastrelli, la lingua si bea e si inorgoglisce nel turgore cuspidale, la bevanda si secerne come per sante colliquazioni ed inonda le preghiere lamentose dei ginecei.

La parola ritorna, sovrasta mugolii e raccoglimenti felini, piccole morti con prove di forza legate a futurista convincimento di infinito.

Il pallore non è anemico, la mollezza è breve, la stagione è infinita.

Il piacere distrugge gli dei, poi li seppellisce in un fatiscente pantheon.

*ndt: Paisley è un termine inglese indicante un disegno su tessuto che rappresenta il boteh, un motivo vegetale a goccia di origine persiana o indiana.

222 Solo lei

Non mi distraggono i fondali ciechi bagnati da una luna altezzosa.

La luna liquida si scolorisce nel bicchiere che evita le luci, stemperandosi nel ripetitivo e fatale buio di un piccolo sorso.

223 In quel tappeto argentato di mare cerco la sua danza: seguo il passo mediorientale di sandali bassi, cerco un cenno che non arriva nel deserto chiassoso.

Siamo ombre, nemici muti senza contatto.

Trovo la poesia nei sensi che riesce a toccare.

La seguo senza guardarla, per sentirla vicina, per guardarla con il cuore.

La bacio quando le scrivo le mie parole che attendono il sole, la cerco in quel buio così fitto e senza miraggi, e quasi mi protegge, e quasi vive nella nascita di un breve sogno.

La mia musa è regina di tutta la notte, quella che non mi ha dedicato, quella che le rubai senza violarne i veli.

Le lettere riposano nell'involucro di labbra chiuse.

224 Tabella marcia

Non amo anchilosate tabelle di marcia, dopo eccessivo calpestio, seguito da eccessivo riposo, da eccessivo e compensativo bisogno di eccesso.

Mi costringo per bigotto umanesimo senza fascino pittorico, a flussi orari ininterrotti e notti bruciate senza combustile emotivo, più per la sterilità di luminosità squadrate, di vibranti richiami e campanellini senza fiaba.

Dosi di giorno violente anche a basse concentrazioni di sole, diluibili con nuvole, con cumuli di stanchezze variegate, mimano gli effetti soporosi di arte culinaria gustata e poi subita.

225 Non estraggo gemme dalla durezza della pietra, ma sale a grani grossi, come ostacoli mimetizzati sui viatici immersi nel chiarore, segnaletica permanente di stati siccitosi, di deserti che non sono zone di pace e non sono neppure travagliato parto di guerra, non vedo residuati bellici bombati, fallici e penetrativi, a ricordarmi antichi ardori.

Marcio da fermo su una sedia ma per lo più preferisco il letto, il giacere senza dovere, senza volere, senza godere, senza potere.

La bellezza del poco non può mancarmi così tanto, si contraddice dentro me, si assottiglia sino a demolirne la remota adorazione, la spasmodica ricerca, l'avida attesa con evitamento di surrogati subliminali della frazione di secondo.

Perché anticipare ore che dureranno ore senza palliativi e senza la cesoia della piacevolezza se poi per il benessere orizzontale basterà una piega di lenzuolo per corrompersi?

Ci sarà la mollezza per girarsi di fianco, di distogliere i piedi dal loro abulico incrocio che dell'amplesso ha solo il sudore.

Patisco il rumore bianco verniciato a rilievo sullo sfondo bianco di occhi che vorrebbero solo buio depressurizzato, quello che non ha neppure il fruscio

226 del silenzio a disegnare parentesi tonde per sovversioni al sogno, quello che pare solo un'eutanasica malattia del silenzio: uccide il vento, i respiri, i latrati dei cani, taglia ruote voraci, stridenti sulle porosità glabre dell'asfalto e ruba il carburante a motori prima rabbiosi e poi sedati dentro cofani improvvisamente funerari.

Non mi viene concesso il nero senza attuare manovre di chiusura, non subentra neppure nei parziali offuscamenti, il pessimismo non è mai troppo e troppo si auto limita.

La tabella di marcia ha un podio macabro, le pause sono allettanti come oasi beduine, la destinazione finale non mi illude, preferisco illudermi di conoscerla già, e provo ad evitarla, come una religione fallace, un culto senza guru, senza ascesi e con troppa ascesa, mentre io cerco discese, oliate e condite da falso piani e mediocre e benedetta orizzontalità apparecchiata e soavemente ammannita.

Mancano ore, tante e troppe.

Forse lo penso solo io che il giorno ci condanna all'insonnia.

Per gli altri è semplicemente vita.

227 R.E.M.

Con fatica affondo sogni perpendicolari nel cuscino. Galleggiano con il mio viso, naufraghi poco temerari nelle paludi della notte.

Saprebbero estrarre gocciolante di incandescenze il piccolo sole di un giorno senza data, dilatare dimensioni e prospettive nella puerilità di immagini di grafite e pastello.

Non è desiderabile accorciare un'agonia voluta. Il sospiro vive e muore sui crinali di onde lunghe, non lascia scie nel mio cielo basso, conserva scarni sensi di momenti appena trascorsi, rappresi in un odore conservato nella stanza chiusa, concentrati nei segmenti orizzontali di calore, di corpo, di me.

228 Pensieri come serpenti, lunghi e squamosi si arrotolano nella loro scatola, il respiro sarà troppo flebile per destarli, non diventerà suono e voce per incantarli, per inturgidirli come corde appese al vuoto di bocche aperte dal prodigio.

Le mie gambe sono vento, gonfiano di tremore le vele della nave, spingono la prua del mio viso dal fango al mare, dal mare all'oceano, e da qui al precipizio dell'orizzonte.

La vertigine minima degli occhi che si chiudono, un piede scivola e l'altro inciampa.

Salgo i gradini e cado mentre sono fermo, cado ancora pur essendo già caduto.

Il tonfo del silenzio si diffonde come eco. Il mio viso è una bambola ed ammicca ai fantasmi evaporati ancorandoli al pavimento, il suo brivido di gomma non ha un volto o una mucosa da cercare ed adorare.

Non ha parole dolci per irretire il suo passato, per crepare la pelle delicata di ogni goccia onirica, densa come un mappamondo, volatile come bolla di sapone.

Affollo un cinema vuoto in cui proietto immagini senza pellicola che non sento frinire dentello per dentello,

229 e non mi offende il pulviscolo che danza splendido e ribelle nel suo cono di luce.

Ci siamo io e tanti altri io, io voglio, io tremo, io vorrei, io gioco, io vedo, io sento, io amo.

Siamo io e tanti altri io, prodotti in scadenza, deperibili al primo sole.

Poi non più commercializzabili.

230 Ho mani fredde

Ho mani fredde che annaspano tra i sette bottoni della camicia ed il brulicare statico di infinite noccioline.

Il sapore veloce affonda nella gola afona.

La notte mi regala il suo inno monotono di fruscii e pause ovattate.

Non posso raccogliermi nelle immagini, solo rivedermi in fotogrammi specchiati di me, di momenti prima.

Il mio volto, così come è stato visto, così come l'ho visto io, con uno sguardo che sa più di congedo che di rammarico.

La potenza si scarica senza emissione di luce.

231 Ho nostalgico appetito per una tenue sapidità: la punta della lingua cerca la sua preda salina.

Il mio corpo ha fragili desideri, offuscare di edonismo il candore della pelle, impregnare le stanze di olii e di presenza, riscaldare pure le pareti di respiro e di voci, di piacere condiviso e gemente.

Ho mani tiepide e dita ferme, sazie e distanti da labbra già tentate.

Sterilmente suadente ascolto la mia voce nel silenzio.

Disteso nella pianura stretta del letto come un prato rovesciato.

Io, solo un ulteriore strato del mio parco benessere. Non mi brucerà il sole. Non dovrò appassire, né sentire sete.

Solo l'ispidità del giorno che passa pungerà i polpastrelli.

Ho mani calde appese al lenzuolo, separano la pelle e l'aria, sigillano il bozzolo.

Nessuna frenesia, dolcezza frenata prima di dannose rincorse, prima del reflusso, quello solito, romanticamente devastante.

Gli occhi hanno visto quello che già c'era.

232 Non scriveranno dialoghi né alimenteranno soliloqui. Il colore dominante non si può stemperare con elegie umide e volti caldi, di brividi frustati prima che siano sensazione.

C'è solo fruscio, c'è solo pelle, c'è solo buio. Poi ci sarà domani.

233 Invenzione

Le cicche di un portacenere sbadatamente urtato escono fuori dalla barriera corallina, onde e diamanti dissipano, scintillando, il grigiore del fumo.

Galleggio nella notte di un letto, nel respiro del vento che mi raccoglie fetalmente, con il suo animo freddo.

Scanso il passato prossimo, scosto le mani dalle gambe, dal petto, evito di incrociare pezzi di me ed evanescenze di calore.

Turchese e bianco tingono l'abitudine scura, acqua e sole mi donano inconsistenza.

234 So inventarmi di essere piccolo, so inventarmi di non esistere. Ci riesco. Non sento la pelle. Vivo meglio così, dormo meglio così.

235 13/06/81

Gli occhi annegano nella fessura. Caddi nella mia stessa pelle già divorata dal buio. Un precipitare continuo prolunga il brivido di un bambino.

Caduta in divenire avvolge d’umido e di tenebra. Una notte capovolta non mi regala un sogno. Un cielo di terra non luccica ma mi assorbe. Non conosco il senso di fine. Era appena iniziato tutto. Catturato dentro una colonna d’aria.

236 Nascosto al mondo. I miei occhi viaggiano nell’orizzonte verticale. Orecchie e mani cercano voci ed i loro respiri. Non invento eroi senza forma. Non arrivano, non arriveranno. Mai. Mai più. L’orologio non separa notte e giorno. Cresco come la mia paura. Non sono più bambino. Il precipitare è continuo. Invecchio. Scivolo nel tubo. Sempre. Immobile. Muoio.

237 In banchina

Ho costruito balconi per affacciarmi dai miei occhi, ma la notte ha bevuto il mare e cancellato il panorama dalle visuali di infiniti indomani.

Ebbi il tempo per camminare: ricalcare tratte cicliche per gli avanti indietro sulla banchina deserta, rimbalzato dai margini immaginati e patiti un numero imprecisato di volte.

Interruppi il passeggio sedendomi di fronte ad un locale.

238 Due persone si fondevano e si staccavano durante il tempo di un'ordinazione.

Una mano tende il bicchiere e l’altra lo tende verso la bocca.

Il bicchiere scuro prolunga la notte ma a poco a poco si svuota.

Lo accompagno con un cenno distratto e poi ci riprendiamo la nostra solitudine, la mia che pare una strada mozzata all'infinito di ulteriore buio e di mistica foschia portuale, la sua che a goccia a goccia trova il fondo.

Non ho niente da osservare se non sorsi d'ombra salmastra e pensieri gorgoglianti verso i tubi di scarico, del cliente del bar e del suo gomito etilico e frenetico come un sassofono.

L'assolo termina senza applausi, il bicchiere cede la sua trasparenza alla notte e perplessità ipnotiche e scarpe ingarbugliate all'uomo che paga, si alza e se ne va.

La saracinesca ora potrà ghigliottinare la notte mentre il singhiozzo del cliente scandisce solitudini, ridimensiona megalomania e furore e rincara i bollettini da pagare, nel cassetto.

Il bar chiude.

239 Il cameriere si illumina di nuova solitudine, del flash bluastro del televisore che si spegne e del persistente sibilo cotonoso di musica azzittita. Io sto seduto al mio posto, ancora là a supporre bocche beanti sulle isole di rossetto dei calici prosciugati e lunghe dita smaltate abbracciarne morbidamente lo stelo, ghiacci liquefatti che affondarono flotte di Titanic emotivi dalle ciurme ammutinate. La mia notte è iniziata tardi, elegante e misantropa, sa solo ricreare personaggi senza viverli. Mentre la saracinesca scende lenta e fatale nel suo meccanismo, agito con gli sguardi le bottiglie senza tappo e senza effervescenze, come palazzi tozzi di città di provincia.

La calura ha reso fuggiaschi gli spiriti, ormeggiati nei vetri spessi ed evasivi gongolanti nella trippa degli ubriachi ed ora si spartisce la notte con il vento, senza lacerarla.

Lascio scorrere sequenze prevedibili: baratto quello schiaffo di ferramenta con la persistenza notturna di carta stropicciata che pochi istanti prima fu ritmo e quasi richiamo, poi proseguo abbracciato con gli occhi al cliente che diventa viandante, lungo il suo miraggio avviluppato nella

241 lingerie e con le sue certezze domiciliate nel blister di benzodiazepine, dentro il solito cassetto pieno di debiti.

Accompagno il vento senza farmi spingere, senza sentirlo amico.

Immaginerò che culla il mare.

Immaginerò che il mare ci sia.

Poi vi annegherò.

242

Sataria

Dei gabbiani vedo solo il volo.

Ingrandisco la sagoma spigolosa che sforbicia il cielo, invaghita più dei rifiuti urbani che dell'arcano richiamo di un orizzonte mediterraneo.

Il verso doppia il muggire del mare, assieme acuto e rauco non teme lo sciabordio dell'onda.

Masse d'aria snellite dal vento ed addolcite dal

243 tramonto che verrà, paiono colonne rosate del confine della terra, Esperidi rinvigorite dall'imminente imbrunire.

Le onde esplodono il loro carico fluido di cristallo sul nero lucido della scogliera, con la balistica schizofrenica di un calice scagliato verso un pavimento: le gocce trasparenti diventano schegge e lance diafane che trafiggono di scabra violenza primordiale gli occhi che ritraggono lo scenario.

La scalinata dopo i miei passi, si estingue tra i flutti che tutto ricoprono e che tutto dischiudono, giusto prima di farmi conoscere l'abisso.

Le aspre fenditure della pietra svelano obliquamente il mare, come oblò di nave in burrasca.

Le palme che incorniciano sporadiche la perimetrale, paiono stelle appese al suolo, con il loro alone sfrangiato e bruno, lungo il viale immaginario che calpesto con gli occhi, come una costellazione improvvisamente vicina.

244 Ho visto solo pietra, ubriaca di sole, quel sole che, estremo, poi l'ha seccata ed ingrigita, resa dura e poi porosa ed infine sfaldabile per smarrirsi nello scirocco, ed ho ripensato a me.

Ho rivisto me, la stagione del piacere e la stagione della sofferenza, tra nostalgie evocabili ed aridità algebriche, ad oggi, elementi del dominio aventi immagine nulla.

La ginestra aveva trovato l'orifizio per corrompere la lava senza tempo, e già minimale e suadente, rallentava, rapendo i dilatabili fotogrammi di un volo d'ape.

Risalgo verso lo sfumare del giorno, e quella scalinata lasciata dietro, pare riemergere dall'abisso che non vidi, ad ogni passo con cui mi allontano da quel mare.

245 Disabitato

Mi ricordo: fui capoluogo di me stesso, provincia

con ambizioni di grande impero, concedendomi

illegittime levitazioni nell'aria che non sapevo

calpestare nè fendere pur turbinando gambe e

braccia.

Mi isolarono e mi isolai senza essere isola.

Andando per il pane e la carne, scoprii l'attrazione

tagliente per la fame e per la sete, ma la

246 privazione non fu un fioretto.

Il mare prosciugato non fece emergere tesori dai fondali, abissi emozionanti, miraggi naufragati, ma solo corpi boccheggianti, da una Guernica ittica sino alla non vita.

Naufragai nella siccità di ogni giorno.

Mi ci stabilii.

Non ricordo stragi, nè sangue, nè incendi, nè il terrore che mi arrecarono nè la violenza inattesa di singulti dal sottosuolo.

C'ero io, solido e forte come una torre di cento piani, con le sue pareti levigate, con le sue finestre e ed i suoi vetri, che, come me si illuminavano più dei neon che dei soli, delle lune e gli astri.

C'ero io, piccolo come la stanzetta di uno scrittore che abbaglia di sè una fioca lampada, generando profusione di sogni e smarrimenti con il fiume di

247 inchiostro secreto dalle sue dita sul foglio.

Ora mi costringo all'esigenza di disabitarmi dentro.

Svuoto gli interni, li spoglio dei pavimenti, stacco ciò che è appeso, non lascio conforto, possibilità di ristoro, idea di casa.

Non ho dove sedermi, la caduta sarà il mio giaciglio.

Calpesto la pietra nuda e la terra bruna, senza tappeti, legno e mattoni sotto i piedi.

Farà freddo e starò nell'angolo, sarò l'angolo, così compresso, così raccolto, così rimpicciolito.

La voce sarà scabra eco, sarà zampillo ghiacciato che si ramifica sul panorama sterminato di un davanzale in cui incontro inerme la natura, come un patibolo incruento, proscenio di una sopraffazione.

Eccomi: camera vuota, albergo senza clienti, un buco nel cemento grigio, un dito nella sabbia dorata, un respiro che risucchia la saliva, pioggia e polvere

248 che generano fango e melma, pietra come un qualcosa che rimane appoggiato da ieri, ad oggi ed a domani, come se ci fosse un sempre.

Coprirà la durezza, la natura che si riappropria di ciò che non è vissuto, di ciò che non vive.

Inventerà morbidezza con tappeti verdi, con tutti quei colori che muteranno con variabili e persistenti espressioni del sole e con ogni carezza e schiaffo umido che colpirà la terra, inventerà secchezza con i tappeti scoloriti dall'aria ferma, asciutta e senza umori evaporati nella sua apatica canicola.

Macchie di colore definirono i nomi di ogni cosa, i volti di ogni figura, l'acqua le sbiadì, diluendone i significati, sfregiando visi, il clima secco munito di vento asciugò ogni cosa, ed ogni cosa sparì, sopirono concetto, impulsi e gesti di amore e cattiveria con le rispettive gradazioni ed inevitabili zone neutre: pollini, germogli divennero

249 il mantello, il tappeto, coperta calda e soffocante su polvere e macerie, più che mimetismo di gradazioni differenti di gioia con drastiche deflessioni.

Io ero la pietra, come se lo fossi da sempre, nè esprimevo metamorfosi, nè attuavo un passaggio di stato, marmorizzato in una persistenza minerale, divinamente inutile e neppure trascendente.

Ma ero anche aria compressa in un contenitore amorfo, in cerca di esplosione e vento, di fuga rapida e forsennata, prima di essere bruciato senza cambiare stato, come il respiro anonimo di chiunque altro, ben oltre una necessità vitale.

Ma non c'era nessun altro, animato riempitivo ed animante contenitore: ero solo io.

Loro c'erano stati, ma poi si diradarono, loro erano gli uomini, quegli uomini ed assieme tutti gli uomini: avevo dimenticato chi fossero, cosa fossero.

Io aveva ucciso loro e dimenticò il misfatto.

250 Il concetto di forma si estingueva e sopravviveva

solo l'idea di contenitore, da riempire, da

svuotare, ciclicamente, e perpetuamente da svuotare

e da riempire.

Senza immagine nè somiglianza.

Ero tutto fuorchè un uomo.

Ma oggi, quel corpo di quell'uomo, io l'ho disabitato.

251 Domenica delle palme

A rivolgere le palme agli dei e le spranghe agli

uomini, imparai tardivamente.

Sono la coda di un pavone caricata a molla per

rincorrere il sole e le sue metamorfosi.

La percezione è già cattura.

Non sono cartilagine, sono pelle tesa, vibrante ed

appuntita di fame di emozione, di sensazioni pure e

sensazioni autoprovocate.

252 Esco da me per vincere vane corse, apro le mani per sentire il freddo sulle mani e le crederò ali sfrangiantesi ed in espansione.

Amo i panorami dentro visuali squadrate, amo la perdizione di una testa che affonda nel cielo, come un pianeta dentro un pianeta.

Dentro un pianeta dopato, vedo uomini precipitare ed uomini comprare le credenziali di semidio.

A me basta un quartiere di cielo per sentirmi suddito ed uomo libero.

So espanderlo, so squarciarne la pellicola di protezione, sono un chiodo di carne conficcato nel blu.

Ieri ho rincorso il sole prima che rotolasse nel mare, come un gesto isolato, come se fosse un evento unico ed irripetibile.

Dalle acque basse che imbiancano la roccia, salii sui promontori rigogliosi e verdi, riempiendo i

253 polmoni di strapiombi su cui modulare il fiato e sfidare le vertigini.

La distorsione dei suoni umanizzava la natura, chitarrismi, stridori, batterie, umanizzavano il mio urlo, foravano la ruota del pavone, sempre meno colorata, sempre più grigia, poi sempre più nera, come una ruota gommata cicatrizzata dagli attriti.

Lentamente mi sgonfio.

Se non potrò correre e non potrò camminare, immaginerò la voragine che decapita la mia strada, magari il mare ci sarà davvero a ridefinire sogni rovinosi e cadute bagnate, senza eventualità intermedie.

La vanità affonda il pianeta testa in una profondità supposta, come un sasso nello stagno.

Gli occhi corrono come palle di biliardo sul tappeto omogeneo, come favola senza draghi ed eroismi, senza carambole, senza contatti, senza buche in cui sistermarsi.

254 Concentrici pensieri persi nelle acque senza memoria

di propagazione.

Onde e musica assorbiti dal silenzio mistico.

Altrove ci sarà rumore di uomini, la melodia del

denaro giustapposta al luccicare fallace di bava su

sentieri d'oro senza orizzonte.

Là, rivolgerò le palme per gli dei e le spranghe per gli uomini.

255 Cieloterrafuocomare

In un cielo troppo azzurro ho scagliato bianche colombe, con un candido distacco dalle mie mani.

Approfittarono della libertà nascosta nel gioco di prestigio di polpastrelli che si tramutano in ali, senza sprecarla in velleità deflagranti.

Non generarono prevedibili moti circolari nella volta celeste delicatamente disturbata, non tornarono carta da poker nella manica per stupori collettivi da monetizzare. 256 Non volai con loro: scelsi la terra, la prevedibilità dei passi sul suolo, l'incapacità delle dita a trattenere granuli di materia.

Ascoltavo la voce degli insetti nella loro operosa incuranza verso corpi opachi goffi sul percorso disassato, accelerati da fecondo appetito e dalla psichedelia dei pollini, come abitanti di metropoli orientali nell'ora di punta.

Il fuoco ardeva irritante nei campi di terra rossa e glabra, bruciando garrulo antiche sterpaglie, deformando sghembe porzioni di visuale, attorcigliando il fumo in fuga agli effluvi di erba pressata e di fiori anarchici, nascondendo le sagome squadrate delle dimore contadine.

Nelle corolle delicate e marzialmente a testa alta sotto il sole, trovai il codice dell'infinita confusione, cerchi slabbrati e disorientamento ottico.

Sfumando e sfocando ogni scenario, avvilii e poi

257 esaltai i fotogrammi di infinite nature morte.

Esploravo pianeti profumati, inzuppati in una costellazione verde, tra nebulose umiche disidratate.

Desideravo solo il tramonto ad ogni giro della lancetta lunga: l'eccesso di luce mi nascondeva l'orizzonte, tramortiva il senso d'orientamento trastullandolo maliziosamente nella culla del sole.

Ero un capitano senza nave, fingevo di schivare i flutti ai lati di una chiglia statica di pietra, tra miraggio ed autosuggestione, ed intanto scorgevo sempre più vicina la linea tra aria ed acqua, la varcavo, la toccavo, la tenevo tra le dita e la pizzicavo con virtuosismo emozionale.

Come una corda del cuore, vibrava l'orizzonte, silenzioso, sollevandosi verso un tintinnio frammentato ed infine un drone persistente, a coprire i sospiri e le paure di un crescendo onirico, compresi i sentori di rinascita impregnati di ricordi salmastri adolescenziali, di epica nautica di sintesi

258 tramite odissee altrui.

Ma quegli orizzonti invece saranno sempre più lontani ed affilati, sempre più angolati da soli inverecondi, poi divaricati, intimiditi ed assorbiti facilmente dal cielo.

L'ora dell'approdo sarà magicamente banale, sempre e rigorosamente di notte.

259 Sotto un cielo crudo

Mi lasciai dimenticare, gettandomi lontano dai panorami polimerizzati di una Babilonia minore.

Congelai la nostalgia nelle celle frigo di una macelleria incruenta, ma non appesi desiderio ai corpi ignudi sui ganci ricurvi dei mattini sognanti.

Mi penetrò dentro, sino alle ossa, tutta l'umidità di una stagione spenta, ingrossando i torrenti intossicati dai flussi costanti di me.

260 Le mie mani si imposerò epilettiche sui padiglioni e fui così, capace di non sentire me stesso, di sospendermi sino a rarefarmi pur conservandomi in un continuo e salvifico rimandare.

Mesi di plastica si fusero nell'anemica dissolvenza di ogni tensione, mescolati dai venti corsari in un braccio di mare, lasciandomi mucchi di noia da smaltire senza fretta con la forchetta spuntata di un destino parsimonioso.

Le mie navigazioni abuliche cozzarono all'orizzonte con ogive alate crocifisse nella stratosfera: rimasero opacamente incistate in uno sfondo post bellico, totalmente demilitarizzato.

Calpestai ciottoli grigi e neri come un gesso sulla lavagna, poi poggiai i miei passi sul tappeto ispido di silenzi acuminati, muovendomi strisciante tra stravaganze pietrificate.

Briciole di lava arroventavano di memorie magmatiche, alternando vivide coccarde muschiate ad enfasi

261 ferruginosa tra costellazioni luccicanti di silicio in un cielo di ossidiana.

Ogni altro campione visivo raccolto, esprimeva secchezza mimetica, vegetale e vegetante, su cui confondere il mio movimento e le mie pause fluide, senza disorientamento olfattivo, senza turbamento, senza cenni di posa contemplativa per il recupero di un eden disidradato.

Lo scirocco imbastardiva il pallore di un cielo crudo con una carezza cerea di pulviscolo e sabbia, quasi cremosa, senza ruvidezze.

Confusi il respiro di un passo affrettato con lo sciamare bulimico su esplosioni floreali sgargianti, prima dello strapiombo che sfaldava fatalmente ciottoli e terreno brumoso nella perdizione intensamente blu del mare.

Gli occhi restarono entrambe aperti, senza bruciare per esposizioni luminose eccessive.

Il giorno difettoso smitizzò il ciclope bianco,

262 allargò le sue crepe bigie malate di tempo, narcotizzò il guardiano nato insonne, interrompendo il girotondo del suo unico occhio incandescente sulla pelle del mare e sulle tuberosità aspre del suolo.

La nave così naufragò senza l'unzione sanguigna del tramonto.

Tornai indietro nel mio asilo abituale come se fosse ovvio, come se fosse tutto normale, ed in quella inesorabilità nascondevo la delusione per uno scafo colato a picco senza l'abbraccio del porto.

Lungo il tragitto rivivevo sequenze post belliche narrate da luoghi muti, smarrendo persino la pretesa emozionale della fuga.

Un aereo emerse puntiforme invertendo la sua rotta di eterea inerzia, un altro aereo ed un altro ed altri ancora infoltivano lo stormo stilizzando concetti di minaccia, increspando nervosamente la bianca e filante bava di ogni reattore, parallela all'orizzonte.

263 Il rumore rapido silenziò i messaggi di pace, con un ronzio vorace di terra, di voragine, di profondità, di pietre da inghiottire come pane raffermo, da scagliare come dardi, da sputare come vomito, come nuova terra per dilatare le propaggini mutilate di un'isola, poi corroderle, liquefarle, pietrificarle di nuovo nella ciclicità del disfacimento e della rinascita.

Solo pochi secondi e da prigioniero, divenni fuggitivo, inesperto naufragai, perso nell'indolenza mi riscoprii rivoltoso, poi collerico, così violento da diventare esplosivo ed infine distruttivo.

Un cielo che si svuota, appare ancora più vasto, ancora più vuoto, ancora più crudo.

Senza amici, senza nemici, come l'unico sopravvissuto in uno stato di tregua.

Frammentaria è ogni mia voce, senza senso compiuto quelle mie parole orfane di periodi completi e di interlocutori.

264 Nessuna vittoria, nessuna sconfitta, come sempre in ogni desertica pace.

Ho spento il motore e spengo la radio.

La guerra adesso è di nuovo finita.

265 Sommario

Dialogo con donna liquida……………………………………………………………….pag. 2

Grímsvötn…………………………………………………………………………………………………….….pag. 4

Sguardi……………………………………………………………………………………………………………..pag. 6

Sui miei passi…………………………………………………………………………………………..pag. 8

Cielo di calce………………………………………………………………………………… ..……pag. 10

Visi……………………………………………………………………………………………………………………..pag. 12

Negativo fotografico…………………………………………………………………..….…pag. 15

Aerei…………………………………………………………………………………………………………...……pag. 17

Estro………………………………………………………………………………………………………...………pag. 19

Venti………………………………………………………………………………………………………..…………pag. 22

Islanda……………………………………………………………………………………………...……………pag. 25

Segni………………………………………………………………………………………………...………………pag. 27

Numeri……………………………………………………………………………………………..…………………pag. 30

Macchie………………………………………………………………………………………………..……………pag. 32

Viaggio dormiente………………………………………………………………...………………pag. 33

Cronaca grigia……………………………………………………………………...…………………pag. 35

Membrane…………………………………………………………………………………………………..….…pag. 38

Mutevolezza arida………………………………………………………………………………...pag. 40

Preghiera unta (umana troppo umana)…..….…………………………pag. 42

Il mondo in me………………………………………………………………………………..….……pag. 44

Danziamo (sino alla fine dell'amore)……..…………………………pag. 47

Oasi definitiva………………………………………………………………………………..….…pag. 50

Gocce…………………………………………………………………………………………………………...……pag. 52

Acqua………………………………………………………………………………………………………………...pag. 54

Pedali………………………………………………………………………………………………………………..pag. 55

Prima di un nuovo giorno……………………………………………………………...pag. 57

Tratti di sospensione………………………………………………………………………..pag. 59

Dissolvenze del vespro………………………………………………………………….….pag. 61

Il fuggitivo ossia Gasparino detto "Il Matto"……...pag. 63

Vola nuda……………………………………………………………………………………………………...pag. 65

Dolce gravità abissale……………………………………………………………………..pag. 67

Velo………………………………………………………………………………………………………………...…pag. 69

266 Pagine Passate………………….…………………………………………………………..…………pag. 71

Estate in... e… Dita…………………………..…………………………………………..pag. 73

Una guerra qualunque….…………………………………………………………………...pag. 77

La Passione secondo me……………………………….….……………………………..pag. 79

Donna di carta…………………………….………………………………………………….……..pag. 83

Immaginazione……………………..…………………………………………………………………..pag. 86

Nastro di Möbius…………..……………………………………………………………………..pag. 88

Favola………………………………….…………………………………………………………………………..pag. 91

Esterno urbano………………….………………………………………………………….………..pag. 94

Sorriso di luna………………………………….…………………………………….…………..pag. 96

Dinamismo e stasi…………………………….…………………………………………………..pag. 97

Nell'ora fredda……………………………………………………………………………….……..pag. 100

L'aura…………………………………………………………………………………………………….………..pag. 102

Respiri…………………………………………………………………………………………….……………..pag. 108

Il cielo curvo…………………………………………………………………………….…………..pag. 106

Inadatto……………………………………………………………………………………………...…………pag. 108

Curva su linea……………………………………………………………………………..………..pag. 110

Autobiografia corretta…………………………………………………………..……..pag. 112

La farfalla dalle ali di neve……………………………………..………..pag. 115

Biglietto d'aria…………………………………………………………………………..……….pag. 117

La sirena dell'oceano breve……………………………………………..……..pag. 119

Due passi……………………………………………………………………………………………..……..pag. 121

Ciao………………………………………………………………………………………………………….….…..pag. 123

Una domenica………………………………………………………………………………………….…..pag. 124

Virtualmente già Natale………………………………………………………………...pag. 126

Battimenti…………………………………………………………………………………………………...pag. 129

Spomenik………………………………………………………………………………………………………...pag. 130

Stella fredda……………………………………………………………………………………………..pag. 133

Un bimbo………………………………………………………………………………………………………...pag. 135

Cera d'autunno………………………………………………………………………………………...pag. 137

Senza peccato…………………………………………………………………………………………...pag. 139

Senza poesia…………………………………………………………………...... pag. 142

Una sirena…………………………………………………………………………………………..……..pag. 144

Buonanotte…………………………………………………………………………………………..……….pag. 146

267 Fatuo ritratto…………………………………………………………………………………...……pag. 148

Cielo spento…………………….……………………………………………………………….…...pag. 151

6 Agosto…………………………………………………………………………………………………………..pag. 153

Ruote sottili……………………………………………………………………………………………..pag. 155

Lettera……………………………………………………………………………………………………………..pag. 157

Fiammiferi……………………………………………………………………………………………………..pag. 159

Già ieri………………………………………………………………………………………………………...pag. 161

Una giornata al mare…………………………………………………………………………..pag. 163

Insolazione…………………………………………………………………………………………………..pag. 165

Un tramonto…………………………………………………………………………………………………..pag. 168

Nulla e nient'altro……………………………………………………………………………..pag. 171

Lei………………………………………………………………………………………………………………………..pag. 173

Acqua di giugno………………………………………………………………………………………..pag. 175

Sirena………………………………………………………………………………………………………………..pag. 178

Spaccatura, distacco, perdita…………………………………………………..pag. 181

Lettera non spedita……………………………………………………………………………..pag. 183

Cartolina di uno sguardo………………………………………………………………..pag. 185

Centralia………………………………………………………………………………………………………..pag. 187

La sostanza del calore……………………………………………………………………..pag. 189

Distante, non assente………………………………………………………………………..pag. 191

Sporca………………………………………………………………………………………………………………..pag. 193

Pagina deserta…………………………………………………………………………………………..pag. 196

Lei va………………………………………………………………………………………………………………..pag. 198

Camera da letto………………………………………………………………………………………..pag. 200

Insonne……………………………………………………………………………………………………………..pag. 202

Lungo il viale…………………………………………………………………………………………..pag. 205

Rosso sul bianco……………………………………………………………………………………..pag. 207

Il prato nero……………………………………………………………………………………………..pag. 209

Trovandomi scrivendoti……………………………………………………………………..pag. 211

Carnevale………………………………………………………………………………………………………..pag. 213

Disordine (versione beta)……………………………………………………………..pag. 216

Paisley* XXX………………………………………………………………………………………………..pag. 220

Solo lei…………………………………………………………………………………………………………..pag. 223

Tabella marcia………………………………………………………………………………………...pag. 225

268 R.E.M…………………………………………………………………………………………………………………….pag. 228

Ho mani fredde…………………………………………………………………………………………..pag. 231

Invenzione…………………………………………………………………………………..……………..pag. 234

13/06/81…………………………………………………………………………………………………………..pag. 236

In banchina…………………………………………………………………………………………………..pag. 238

Sataria…………………………………………………………………………………………………………………pag. 243

Disabitato…………………………………………………………………………………………………………pag. 246

Domenica delle palme………………………………………………………………………………pag. 252

Cieloterrafuocomare…………………………………………………………………………………pag. 256

Sotto un cielo crudo………………………………………………………………………………pag. 260

269